L'io morale: David Hume e l'etica contemporanea


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L'io morale: David Hume e l'etica contemporanea

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LORENZO GRECO

L’IO MORALE David Hume e l’etica contemporanea Postfazione di Eugenio Lecaldano

a cura di ??????????????

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PARADIGMA

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Filosofia Pubblica 23 Collana diretta da Sebastiano Maffettone

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Lorenzo Greco

L’io morale David Hume e l’etica contemporanea Postfazione di Eugenio Lecaldano

Liguori Editore

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea/Lorenzo Greco

Napoli : Liguori, 2008 ISBN-13 978 - 88 - 207 - 4301 - 7

1. Identità personale 2. Carattere, virtù I. Titolo Aggiornamenti: ————————————————————————————————————— 15 14 13 12 11 10 09 08 10 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

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a mio padre e a mia madre

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Indice

1

Premessa

Parte prima. L’io e l’identità 7 15 36 53

I II III IV

Introduzione: il problema dell’io L’identità personale Associazionismo o attività della mente? Una nuova prospettiva

Parte seconda. L’io e le passioni 63 75 90 105

V VI VII VIII

Orgoglio e umiltà L’io passionale Da “io penso” a “noi facciamo” La simpatia

Parte terza. L’io e l’etica 125 139 146 162

IX X XI XII

Il carattere Dalle passioni alla morale Un punto di vista fermo e generale L’io moralizzato

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X Indice

Parte quarta. Il paradigma humeano e le sue alternative 175 187 205

XIII XIV XV

216 233

XVI XVII

248

Postfazione L’etica sentimentalista e i limiti della concezione razionalista del soggetto morale di Eugenio Lecaldano

262

Bibliografia

291

Indice degli argomenti

296

Indice dei nomi

Individualità come valore: Hume e l’utilitarismo Accettazione riflessiva: Hume e il kantismo Tra liberalismo e conservatorismo: dall’io morale all’io politico Comunità e natura umana Un’etica delle virtù humeana

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Premessa

La nozione di io morale non può essere aggirata quando si fa etica. Sia che le si attribuisca un ruolo di primo piano per rendere conto di ciò in cui l’etica consiste, sia che si riconosca questa funzione ad altre nozioni, non si può evitare di interrogarsi sulla natura e sullo statuto dell’io morale. La filosofia di David Hume presenta una spiegazione convincente dell’io, che trova il suo compimento nella sfera dell’etica. Ciò può apparire un controsenso, dal momento che Hume sembra, a prima vista, il meno adatto per affermare alcunché al riguardo. Egli, infatti, è generalmente considerato uno scettico, che ha mostrato come alla nozione di identità personale non corrisponda nessuna sostanza unitaria, alcun io stabile. Si vuole sostenere che questa interpretazione è scorretta. L’intento primario di questo saggio è di ricostruire in che cosa consista l’io morale secondo Hume. Ma si vuole anche andare al di là di un interesse esclusivo per il suo pensiero. Nelle prime due parti ci si soffermerà soprattutto sulle questioni che scaturiscono dalla riflessione humeana sull’identità personale. Ci si confronterà direttamente con Hume, e quindi con le soluzioni avanzate dalla letteratura secondaria nel tentativo di rispondere alle domande che egli pone. A partire dalla terza parte, e più espressamente nella quarta, si farà invece tesoro delle conclusioni raggiunte in precedenza, per offrire un’interpretazione di alcuni problemi di filosofia morale dalla prospettiva del sentimentalismo humeano: una prospettiva che si delinea come una proposta feconda all’interno del dibattito etico contemporaneo.

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Premessa

L’errore che si commette è di fermarsi alla pars destruens del pensiero di Hume, credendo che ne rappresenti il nucleo. Al contrario, si mostrerà come per lui non si comprenda che cosa sia l’io se non si abbandona l’indagine teoretica sull’identità personale, e non si passa a una considerazione dell’io come soggetto di azione. L’io si presenta come un io sentimentale, che si rivela nella consapevolezza di se stessi che gli esseri umani sviluppano quando provano le passioni specifiche dell’orgoglio e dell’umiltà. Attraverso l’esame di queste passioni, e, più in generale, dei meccanismi sentimentali di tutta la natura umana, è possibile delineare una nozione di io in cui la dimensione passionale e quella etica sono strettamente intrecciate. Grazie alla relazione che esiste tra questi due piani, l’analisi di Hume porta a considerare l’io non già come un ente astratto, come un ipotetico soggetto autonomo e solitario, ma come l’esito di un’attività collettiva, che si realizza nell’interazione di molteplici individui, sentimentalmente contraddistinti, che collaborano tra loro. La relazione dialogica che instaurano permette di stabilire la loro identità, sia di fronte a loro stessi, sia di fronte agli altri. Si tratta di una identità narrativa o del carattere: l’io morale si presenta quando a causare orgoglio o umiltà sono quei tratti del carattere considerati virtù o vizi. La dimensione dell’etica fa sì che l’io sentimentalmente definito acquisisca stabilità: essa si offre come il luogo dove possono aversi i punti fermi necessari per guadagnare l’equilibrio grazie al quale diventa possibile parlare di individui continui e riconoscibili. Questa tesi verrà sostenuta confrontando la concezione humeana con differenti modelli che, in tempi recenti, sono stati presentati da impostazioni filosofiche alternative. L’io morale che Hume delinea non è riconducibile né alle spiegazioni ricavabili da un’etica di stampo kantiano, né a quelle proprie di un’etica di tipo comunitario: esso differisce sia dall’agente razionale della prima, sia dall’io sociale della seconda. Quella di Hume è un’etica del carattere, avvicinabile in parte a un’etica delle virtù. La riflessione di Hume sull’io morale permette di recuperare il valore dell’individualità del singolo, ed è un’affermazione for-

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Premessa 

te della centralità dell’individuo, in etica come in politica: con un individualismo metodologico, che in Hume è tanto metodo d’indagine, quanto valore da perseguire e salvaguardare. Emerge così un’immagine nuova di Hume: non più colui che ci priva di qualsiasi certezza riguardo alle persone, bensì uno dei maggiori e più efficaci difensori della loro unicità.

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Ringraziamenti Questo libro è il risultato di riflessioni sviluppate in occasioni e tempi diversi. Le persone con cui, a vario titolo, sono in debito, sono molte più di quelle che posso riportare qui. Pertanto, questi ringraziamenti sono inevitabilmente parziali. Ringrazio Giuliano Marini, Sebastiano Maffettone e i miei colleghi di dottorato di Pisa, dove ho difeso la mia tesi nel 2003, e la cui rielaborazione costituisce parte di questo libro. Le prime due parti sono state pensate durante un soggiorno di studio presso l’Università di Oxford nel 2001, reso possibile da Roger Crisp. I capp. II e VI, il cap. VIII e il cap. XVII sono stati presentati, in una prima versione, in occasione delle “Humean Readings” tenutesi all’Università di Roma “La Sapienza” nel 2002, nel 2004 e nel 2006. Voglio ringraziare coloro che vi hanno preso parte e Tito Magri, che le coordina ormai da anni, così come i partecipanti alla “34th International Hume Conference”, tenutasi a Boston nell’agosto del 2007, dove ho esposto un intervento che riprende parzialmente i capitoli IX e XVII. Sono anche grato per i commenti ai capp. XIV, XV e XVI che ho ricevuto da coloro che sono intervenuti al ciclo di seminari “Mente, etica e società. Incontri di filosofia morale nella tradizione analitica” dell’Università di Roma “La Sapienza”, organizzato da Piergiorgio Donatelli nel 2007. Ho avuto modo di meditare su vari aspetti della filosofia di Hume anche grazie alle lezioni che ho potuto tenere per diversi anni all’interno dei corsi di propedeutica filosofica di Marco Borioni e di filosofia morale di Eugenio Lecaldano, nella stessa Università. Tra coloro che con le loro osservazioni e i loro commenti mi hanno aiutato, a volte in maniera sostanziale, ho piacere di ricordare: Donald Ainslie, Maurizio Balistreri, Marco Borioni, Caterina Botti, Andrea Branchi, Rachel Cohon, Roger Crisp, Piergiorgio Donatelli, Matteo Falomi, Alessandro Ferrara, Luciano Floridi, Tania Gamba, Peter Kail, Eugenio Lecaldano, Sebastiano Maffettone, Tito Magri, Sarin Marchetti, Jane McIntyre, Domenico Melidoro, Marco Nani, Gianfranco Pellegrino, Simone Pollo, Peter Railton, Daniele Santoro, Daniel Star, Barry Stroud, Jacqueline Taylor, Luigi Turco, Alessio Vaccari, Salvatore Veca. Sono particolarmente grato a coloro che hanno avuto la pazienza di leggere nella loro interezza versioni precedenti di questo lavoro: Piergiorgio Donatelli, Alessandro Ferrara, Manlio Giammona, Emidio Greco, Eugenio Lecaldano, Sebastiano Maffettone, Sarin Marchetti, Marco Nani, Alessio Vaccari. Ringrazio ancora Giampaolo Ferranti per la particolare attenzione posta nel seguire l’edizione del libro. Il mio debito più grande è nei confronti di Eugenio Lecaldano, che è il maggiore responsabile della mia passione per Hume: senza la sua guida e il suo incoraggiamento questo libro probabilmente non esisterebbe. Ogni mancanza è da imputarsi soltanto a me.

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Parte prima L’io e l’identità

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I Introduzione: il problema dell’io

1. In questo libro si vuole sostenere che l’analisi della nozione di io offerta da Hume permette di rendere conto di alcuni fenomeni centrali dell’esperienza etica. Prima di entrare nel merito, è però necessario chiarire che senso abbia fare riferimento a qualcosa come l’io chiamando in causa proprio colui che ne avrebbe negato la realtà. Generalmente, infatti, si ritiene che Hume non presenti una spiegazione in positivo di ciò in cui consiste l’io. Al contrario, egli viene additato come quello che ha mostrato che non se ne può parlare affatto, in nessun modo, poiché non ci sarebbe niente che possa essere riconosciuto come tale: una delle ragioni per cui Hume occupa un posto di primo piano nella storia della filosofia consiste nella sua teoria dell’identità personale come fascio di percezioni, teoria che avrebbe come suo esito l’impossibilità di indicare l’io, di individuarlo in qualcosa di fermo e invariabile. A che scopo, dunque, rifarsi al filosofo che avrebbe smontato definitivamente la nozione da cui si vuole partire? 2. Nel Trattato sulla natura umana1, tuttavia, Hume dichiara espli1 Di A Treatise of Human Nature (1739-40) si terranno presenti due edizioni: quella finora più usata, a cura di L.A. Selby-Bigge e P.H. Nidditch, Oxford, Clarendon Press, 1978, e quella più recente, The Clarendon Edition of the Works of David Hume, 2 voll., a cura di David Fate Norton e Mary J. Norton, Oxford, Clarendon Press, 2007 (si tratta dell’edizione critica finora più esaustiva del Trattato di Hume, che segue l’edizione, ripubblicata più volte, della

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

citamente che l’io esiste: si tratta di «quella particolare persona delle cui azioni e sentimenti ciascuno di noi è intimamente conscio»2. Poco più avanti, scrive che questa persona individuale consiste in una mente e in un corpo3. Stando a quanto Hume afferma in questi passi non si dà alcun problema né riguardo allo statuto epistemico di queste persone, né riguardo al loro statuto ontologico: l’io sembrerebbe essere la cosa più chiara di cui si possa essere consapevoli. Si sono usati i termini “io” e “persona” come se fossero interscambiabili. A essi se ne potrebbero accostare anche altri: ad esempio individuo, soggetto, agente. Tutti questi termini sembrano avere qualcosa in comune, e spesso sono usati come sinonimi. Ciononostante, possono avere significati differenti, ed essere utilizzati per riferirsi a cose diverse. In realtà, ci troviamo di fronte a una molteplicità di definizioni che possono sì essere raggruppate sotto il termine generale di “persona”, senza però coincidere mai con esso, perdendo così la propria connotazione specifica4. A considerarli sinonimi sembrerebbe tuttavia essere lo stesso Hume. Che afferma di volere definire la natura di qualcosa che – nella sesta sezione della quarta parte del primo libro del Oxford Philosophical Texts, Oxford-New York, Oxford University Press, 2000, anch’essa curata dai Norton). I numeri di pagina che verranno riportati faranno riferimento alla prima, mentre i numeri dei capoversi alla seconda. Per l’edizione italiana si farà invece riferimento a quella presente nel volume I delle Opere complete di Hume, tradotta da Armando Carlini, Eugenio Lecaldano e Enrico Mistretta, Roma-Bari, Laterza, 1987, di cui verranno riportate le pagine. 2 Treatise, libro II, parte I, sez. 5, p. 286, cpv. 3; tr. it. cit., p. 300. 3 «Ma sebbene l’orgoglio e l’umiltà abbiano per loro causa naturale e più immediata le qualità della nostra mente e del nostro corpo, e cioè l’io...» Treatise, libro II, parte I, sez. 9, p. 303, cpv. 1; tr. it. cit., p. 318. 4 Si pensi, ad esempio, a quanto sostiene Amélie Oksenberg Rorty, A Literary Postscript, in The Identities of Persons, a cura di Amélie Oksenberg Rorty, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1976, pp. 301-23, che distingue tra le nozioni di eroe, carattere, protagonista, attore, agente, persona, anima, io, figura, individuo. Al riguardo, si vedano anche Jonathan Glover, I. The Philosophy and Psychology of Personal Identity, London, The Penguin Books, 1988, e Harold W. Noonan, Personal Identity, second edition, London-New York, Routledge, 2003.

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Introduzione: il problema dell’io 

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Trattato – chiama in molti modi: «l’idea dell’io»5, «l’io, o la persona»6, «ciò che chiamo me stesso» o, in terza persona, «se stesso»7, «la mente»8, «la vera idea della mente umana»9, «l’anima»10. Ora, gran parte dei lettori di Hume riconosce proprio in questa sezione – e nei passaggi dell’“Appendice” che a essa si riferiscono – il luogo dove egli illustrerebbe, a partire dai suoi principi filosofici, come non si possa affatto parlare di io, ma solo di una collezione di percezioni distinte ed esistenti separatamente. Quella fiducia che Hume mostra nel secondo libro del Trattato quando parla di io o persona sembrerebbe allora essere del tutto fuori luogo, una volta che si torni indietro a quanto sostiene nel primo libro. In Hume sarebbe dunque presente una contraddizione: da una parte – nel primo libro del Trattato – egli afferma che non è lecito parlare di un io, perché esso è una finzione che nasconde un flusso di percezioni in continuo movimento; dall’altra – nel secondo libro del Trattato, e ancora nel terzo, dedicato alle tematiche morali e politiche – torna a fare uso di quello stesso concetto che si era impegnato a negare in precedenza. Un concetto a cui Hume dà tanti nomi: io, persona, individuo, mente, anima. Si tratta davvero di una contraddizione? Hume ha fatto semplicemente confusione, oppure il suo sistema è intrinsecamente incoerente? E poi: con tutti questi nomi Hume sta davvero indicando sempre la stessa cosa, oppure si possono distinguere riferimenti differenti? 3. Quello che potremmo definire “il problema dell’io” viene di solito impostato adottando uno schema peculiare, secondo il quale il problema dell’io è fondamentalmente un problema di identità personale, ossia riguarda la possibilità di riconoscere una Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 251, cpv. 2; tr. it. cit., p. 263. Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 251, cpv. 2; tr. it. cit., p. 263. 7 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 252, cpv. 3; tr. it. cit., p. 264. 8 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 253, cpv. 4; tr. it. cit., p. 264. 9 Traduzione mia. In inglese è: «the true idea of the human mind», Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 261, cpv. 19; tr. it. cit., p. 273. 10 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 261, cpv. 19; tr. it. cit., p. 273. 5

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

persona come la stessa in un momento particolare o dopo un certo periodo di tempo. Poiché Hume espone le proprie idee sull’identità personale nel primo libro del Trattato, allora si ritiene che si debba, prima di tutto, esaminare quanto egli afferma nella sezione “L’identità personale”, e quindi rispondere alle domande a essa correlate presenti nell’“Appendice”. Solo dopo avere trovato una spiegazione soddisfacente di ciò che si trova in queste due parti si potrà continuare nella lettura, e dare un senso a quanto Hume afferma più avanti. Più in generale, questo schema nasconde un pregiudizio su tutta la filosofia di Hume, secondo il quale le fondamenta del suo sistema vanno individuate principalmente nel primo libro del Trattato. Un pregiudizio riconducibile a quella che è nota come la Reid-Beattie Interpretation, resa famosa da Thomas Hill Green nella sua introduzione alle opere complete di Hume del 1874, e oggi diventata per molti la maniera standard di leggere Hume. Secondo questa interpretazione, la filosofia di Hume va compresa alla luce di due assunzioni fondamentali: quella che vede Hume, dopo John Locke e George Berkeley, come l’epigono della tradizione empiristica britannica; e quella che individua il suo contributo principale nel portare alle estreme conseguenze le contraddizioni intrinseche alla prospettiva empiristica, fino a rovesciarla in una forma di scetticismo radicale11. 11 È frequente che Hume venga presentato e studiato come l’ultimo esponente di questa triade. Si pensi, per esempio, a Jonathan Bennett, Locke, Berkeley and Hume. �entral Themes, Themes Oxford-New York, Oxford University Press, 1971. Sulla Reid-Beattie Interpretation si veda Norman Kemp Smith, The Philosophy of David Hume. A �ritical Study of Its Origins and �entral Doctrines, London, Macmillan, 1941, pp. 3 e seguenti. Per un quadro esplicativo di questa particolare interpretazione di Hume, e della fortuna che essa ha avuto nella storia della filosofia, cfr. Donald W. Livingston, Hume’s Philosophy of �ommon Life, Chicago-London, University of Chicago Press, 1984, cap. I; Guido Bonino, La leggenda storiografica di Hume, “Rivista di filosofia”, 87 (1996), pp. 241-65; Id., T.H. Green e il mito dell’empirismo britannico, Firenze, Leo S. Olschki, 2003, capp. I e VI; Luigi Turco, Hume e le leggende storiografiche, “Discipline filosofiche”, 6 (1996), pp. 261-82; Id., Dal sistema al senso comune. Studi sul newtonismo e gli illuministi britannici, Bologna, Il Mulino, 1974, cap. IV; Antonio Santucci, sia

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Introduzione: il problema dell’io 11

Le radici della filosofia humeana si troverebbero nel primo libro del Trattato sulla natura umana: è qui che Hume si confronterebbe con le questioni più squisitamente teoretiche e davvero interessanti del suo pensiero, dalle quali dipenderebbero gli esiti di quanto afferma nei libri secondo e terzo. Se questo fosse vero, per leggere correttamente Hume si dovrebbero innanzitutto affrontare le domande del primo libro sulla natura dell’intelletto umano e le basi della nostra capacità di conoscere; quindi, una volta data una risposta convincente a esse, si potrebbe passare alle questioni riguardanti la natura delle passioni; e infine sarebbe possibile parlare di etica e di politica. Nel pensiero di Hume esisterebbe, perciò, un ordine preciso, corrispondente a una struttura a scatole cinesi: prima vanno risolte le questioni teoretiche fondamentali – tra cui, appunto, l’identità personale –, perché sono esse a dare stabilità a tutto l’edificio; e soltanto poi si possono trattare le questioni di natura pratica, all’interno delle quali rientrano la morale e la politica. Il Trattato, dunque – l’opera dove la filosofia humeana troverebbe la sua espressione più compiuta, essendo i lavori della maturità soltanto il pallido riflesso di una concezione che avrebbe raggiunto la sua forma definitiva quando Hume non aveva neanche trent’anni –, sarebbe organizzato attorno a un plesso teorico (il primo libro, appunto) che racchiuderebbe in sé tutta l’originalità – e, con essa, le enormi difficoltà – dell’empirismo humeano.

Hume vecchio e nuovo?, in Filosofia, scienza e politica nel Settecento britannico, a cura di Luigi Turco, Padova, Il Poligrafo, 2003, pp. 255-76, sia Sistema e ricerca in David Hume, Roma-Bari, Laterza, 1969, cap. I, sia infine Storia della critica, in Id., Introduzione a Hume, Roma-Bari, Laterza, 2005; Eugenio Lecaldano, Hume, i limiti dello scetticismo e le radici del naturalismo, in Scetticismo. Una vicenda filosofica, a cura di Mario De Caro e Emidio Spinelli, Roma, Carocci, 2007, pp. 105-120. Per un esame della continuità che la Reid-Beattie Interpretation ha avuto fino ai giorni nostri, in particolar modo per quanto riguarda la teoria delle passioni di Hume, si veda Nicholas Capaldi, Hume’s Theory of the Passions, in David Hume, �ritical Assessments, IV: Ethics, Passions, Sympathy, “Is” and “Ought”, a cura di Stanley Tweyman, London-New York, Routledge, 1995, pp. 249-70.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

4. Per quanto riguarda il problema di un io descritto in termini morali, la conclusione che si trae da questa interpretazione non può che essere negativa: poiché Hume – apparentemente per sua stessa ammissione, stando ai toni delusi e rassegnati dell’“Appendice” – non riuscirebbe a districarsi tra le complicazioni che emergono dall’esame dell’identità personale che egli svolge nel primo libro del Trattato, allora le cose non possono che peggiorare quando si passa all’io delle passioni del secondo libro e all’io propriamente morale del terzo. A conferma di ciò, parlerebbe d’altronde lo stesso percorso intellettuale di Hume, che sembrerebbe abbandonare definitivamente il progetto di un’indagine sull’identità personale nelle opere successive al Trattato (se si esclude l’Estratto dal Trattato della natura umana): sia nelle due Ricerche sia nei saggi manca infatti qualsiasi riferimento a essa. Se vale l’equazione per cui il problema dell’io è prima di tutto un problema teoretico di identità personale, e se i problemi teoretici hanno la priorità su tutto quello che segue – in termini tanto di disposizione testuale quanto di giustificazione teorica – allora appare naturale affermare che quando Hume passa a questioni di tipo pratico il suo fare uso del concetto di io non può che essere un errore. Un errore che o è il frutto – nella migliore delle ipotesi – di una semplice svista, dovuta magari all’entusiasmo giovanile, oppure – nella peggiore – è il segno di un’incoerenza che percorre tutta la sua filosofia, minandone le basi. Se vale quest’ultimo caso, il pensiero di Hume, mancando di qualsiasi ordine, non può affatto essere impugnato come una opzione teorica positiva, ma va apprezzato soltanto in negativo per il suo scetticismo, nella sua valenza di critica radicale a tutte quelle filosofie che si sono invece proposte, e si propongono tuttora, come possibili spiegazioni sistematiche12. 12 Al proposito, si considerino, ad esempio, le opinioni di due tra i più influenti studiosi di Hume, molto diversi l’uno dall’altro: Norman Kemp Smith e John Passmore. Kemp Smith – nonostante con il suo The Philosophy of David Hume abbia presentato una prospettiva nuova sulla filosofia humeana, mostrando per primo l’importanza centrale dei libri secondo e terzo per la comprensione complessiva del Trattato – è convinto che Hume non sia affatto chiaro quando

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Introduzione: il problema dell’io 1

5. Ma si può davvero affermare che Hume, quando parla di un io descritto in termini morali, si stia riferendo alla stessa cosa che è oggetto della riflessione teoretica sull’identità personale condotta nel primo libro del Trattato? L’ipotesi che si vuole sostenere è che non sia così: il problema dell’io morale non corrisponde a un problema di identità personale. Se si vuole capire che cosa intenda Hume con “io” in ambito etico, bisogna lasciare da parte il problema dell’identità personale e concentrarsi invece altrove. Quando Hume parla di io morale, nonostante le conclusioni negative a cui è arrivato circa l’identità personale, non si sta affatto confondendo, né tanto meno ci si trova di fronte alla dimostrazione che il suo sistema è fallace. Questo perché quello dell’io morale e quello dell’identità personale sono due problemi distinti: è diversa la domanda di partenza, è diverso l’oggetto d’indagine, è diversa la stessa prospettiva da cui l’indagine prende le mosse. La tesi secondo cui si deve leggere l’opera di Hume seguendo l’ordine del Trattato – cominciando con il primo libro dei tre di cui è composto, per passare poi al secondo e infine al terzo – va abbandonata: quanto si dice nel primo libro non è affatto il presupposto da cui dipende tutto il resto, ma si tratta di questioni differenti da quelle trattate nei libri successivi. Per comprendere cosa si intenda con io morale nella prospettiva di Hume si deve guardare principalmente alla sua psicologia filosofica, ossia al meccanismo delle passioni che egli discute nel secondo libro del Trattato. È qui che si trovano le radici di

parla dell’io, tanto da fargli ipotizzare che il libro primo del Trattato sia stato scritto per ultimo, dopo i libri secondo e terzo; sarebbe questa la ragione per cui in essi Hume farebbe uso con tanta leggerezza di una nozione la cui natura gli sarebbe diventata drammaticamente evidente solo in seguito. Passmore liquida invece il problema dell’identità personale in poche pagine, affermando che il primo libro del Trattato è un tale concentrato di contraddizioni e incoerenze che è inutile leggere i libri secondo e terzo, perché non vi si troverà alcun concetto di io soddisfacente, ma solo confusione ulteriore. Si veda John Passmore, Hume’s Intentions, third edition, London, Duckworth, 1980; tr. it. di Caterina De Pretis con il titolo Gli obiettivi della filosofia di Hume, Trieste, Edizioni Università di Trieste, 2000, cap. VI.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

un io che si presenta fondamentalmente come io delle passioni, e quindi come io propriamente morale nel terzo libro. Al fine di chiarire in che cosa consista l’io morale in Hume è tuttavia necessario mostrare in che senso esso non chiami in causa un problema di identità personale. A partire dall’esame di ciò in cui il problema non consiste è possibile comprendere quale sia l’oggetto d’indagine e perché lo si ritenga degno di attenzione: soffermiamoci dunque sul problema dell’identità personale in David Hume.

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II L’identità personale

1. Il problema dell’identità personale trova espressione principalmente nella sezione sesta della parte quarta del primo libro del Trattato. Essa è uno dei luoghi più controversi della filosofia di Hume, e merita di essere esaminata nel dettaglio. La sezione si apre con un riferimento ad «alcuni filosofi»1, i quali credono che siamo in ogni momento consci di ciò che è definito «il nostro IO»2: esso corrisponderebbe a un’entità la cui esistenza sarebbe sentita da noi come identica, semplice e continua nel tempo. Hume attacca questa tesi a testa bassa: non abbiamo affatto l’idea di un io di questo tipo perché non possiamo averne un’impressione corrispondente. Secondo uno dei pilastri dell’empirismo humeano, quello che è noto come il �opy Principle3, le idee sono «le immagini illanguidite delle impressioni»4, e non possono darsi se non esiste un’impressione di cui sono la copia. Se diciamo di avere un’idea di un io identico, semplice e continuo deve essere possibile individuare un’impressione di 1 Si tratta in primo luogo di René Descartes; ma anche di John Locke e di Joseph Butler. 2 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 251, cpv. 1; tr. it. cit., p. 263. 3 Sul �opy Principle si veda quanto affermano Don Garrett, �ognition and �ommitment in Hume’s Philosophy, Oxford-New York, Oxford University Press, 1997, cap. II e Harold W. Noonan, Hume on Knowledge, London, Routledge, 1999, cap. II. 4 Treatise, libro I, parte I, sez. 1, p. 1, cpv. 1; tr. it. cit., p. 13.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

questo io che sia a sua volta identica, semplice e continua. Ma, secondo Hume, impressioni di questo tipo non esistono: le impressioni – «dolori e piaceri, affanni e gioie, passioni e sensazioni»5 – sono incostanti e variabili. L’idea di questo io manca della sua impressione: dunque questa idea «non esiste»6. A rigore, l’io o la persona non sembrerebbe affatto dover consistere in un’impressione, bensì in ciò a cui le impressioni fanno riferimento. Tuttavia, se rivolgiamo lo sguardo a noi stessi, quello che si vede non è un io stabile, ma solo percezioni mutevoli. Hume ci dice7 che le percezioni – cioè sia le impressioni sia le idee, i “mattoni” di cui è fatta tutta la nostra esperienza – sono differenti, distinguibili, separate l’una dall’altra, concepibili separatamente e quindi esistenti separatamente. E, aggiunge, non hanno bisogno di alcun supporto per la loro esistenza8. Come è possibile, allora, dimostrare l’esistenza di questo sostrato a cui devono inerire tutte le percezioni, se queste sono la sola cosa di cui si ha esperienza? Ripetere che va presupposto perché si possano avere percezioni è inutile: in questo modo non si fa che assumere ciò che va ancora dimostrato. Dal ragionamento di Hume emerge che noi siamo le nostre percezioni: se esse vengono meno, si può ben dire che non esistiamo. Pertanto, dal momento che, attraverso un atto di introspezione, la mente ci appare come «una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinità di atteggiamenti e di situazioni»9, possiamo concludere che «per il resto dell’umanità Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, pp. 251-2, cpv. 2; tr. it. cit., p. 263. Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 252, cpv. 2; tr. it. cit., p. 264. 7 Treatise, libro I, parte IV, oltre alla sez. 6, si tenga presente anche la sez. 2. 8 Sulla natura delle percezioni in Hume cfr. Robert F. Anderson, The Location, Extension, Shape and Size of Hume’s Perceptions, in Hume. A Re-evaluation, a cura di Donald W. Livingston e James T. King, New York, Fordham University Press, 1976, pp. 153-71; Robert McCrae, Perceptions, Objects and the Nature of the Mind, “Hume Studies”, 10th Anniversary Issue (1984), pp. 150-67; Howard Seeman, Questioning the Basis of Hume’s Empiricism: “Perceptions,” What Are They?, “Noûs”, 20 (1986), pp. 391-99; Marjorie Grene, The Objects of Hume’s Treatise, “Hume Studies”, 20 (1994), pp. 163-77. 9 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 253, cpv. 4; tr. it. cit., pp. 264-5. 5

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L’identità personale 17

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noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in perpetuo flusso e movimento»10. 2. Se questo è vero, come mai abbiamo una tendenza così forte ad attribuire identità a queste percezioni successive? Hume spiega questo fenomeno riferendosi a una inevitabile propensione dell’immaginazione11. Noi abbiamo sia l’idea di identità – cioè l’idea di qualcosa che resta invariato e ininterrotto durante lo scorrere del tempo – sia l’idea di diversità – cioè l’idea di oggetti differenti esistenti in successione e legati insieme da una relazione di somiglianza o contiguità o causalità. Queste idee sono distinte, ma l’immaginazione le confonde; la sensazione che si prova quando le si considera è la medesima, e così cadiamo senza accorgercene nell’errore di scambiare per un oggetto che resta invariato nel tempo ciò che in realtà è un susseguirsi di parti. Noi avvertiamo quella serie di percezioni che costituiscono la nostra mente – le quali, pur essendo legate da una relazione stretta, non sono identiche, bensì restano esistenze diverse – come se fossero effettivamente una cosa sola: così, per colpa del «facile passaggio dell’immaginazione»12, vediamo qualcosa di unico e identico a se stesso laddove invece c’è una moltitudine. Da qui il nostro inventarci nozioni come quelle «di un’anima, di un io, di una sostanza»13 per darci una spiegazione razionale Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 252, cpv. 4; tr. it. cit., p. 264. Per un esame di ciò in cui consiste l’immaginazione in Hume cfr. Edmund James Furlong, Imagination in Hume’s Treatise and Enquiry concerning the Human Understanding, “Philosophy” 36 (1961), pp. 62-70; Id., Imagination, London, George Allen & Unwin Ltd, 1961, in particolare cap. X; Jan Wilbanks, Hume’s Theory of Imagination, The Hague, Martinus Nijhoff, 1968; Mary Warnock, Imagination, London-Boston, Faber and Faber, 1976; Alan R. White, The Language of Imagination, Oxford, Blackwell, 1990; Gianluca Foglia, Immaginazione e natura umana. Studio sulla teoria della conoscenza di David Hume, Bologna, Il Mulino, 1998; David Owen, Hume’s Reason, Oxford-New York, Oxford University Press, 1999. 12 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 255, cpv. 7; tr. it. cit., p. 267. 13 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 254, cpv. 6; tr. it. cit., p. 266. 10

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

di quello che di fatto è un «errore»14, anche se irresistibile. Il sostrato a cui tutte le nostre percezioni dovrebbero inerire non è dunque altro che una finzione che noi adottiamo per giustificarci un fenomeno che empiricamente non trova alcuna conferma. Al contrario, «l’identità personale in quanto riguarda il pensiero o l’immaginazione»15 non consiste affatto in qualcosa di stabile, ma condivide la natura composta di oggetti quali animali, vegetali, oppure cose inanimate come per esempio una barca, una chiesa, un fiume. In tutti questi casi ci troviamo di fronte a un insieme di parti distinte a cui, tuttavia, attribuiamo identità, senza osservare alcuna variazione o soluzione di continuità. Di volta in volta, la nostra immaginazione si fa ingannare dal fatto che il mutamento è così dolce e graduale da risultare impercettibile; oppure dal fatto che o le parti condividono un fine comune – si pensi appunto a una barca alla quale vengano cambiati progressivamente tutti i pezzi –, o, nel caso di animali e vegetali, sono tenute insieme da una dipendenza reciproca – un bambino che diventa adulto; un albero che cresce. Ci sono poi casi in cui identifichiamo un oggetto come il medesimo anche se manca qualsiasi identità numerica – per esempio, quando udiamo due suoni vicini che percepiamo come uno solo, oppure quando ci troviamo di fronte a una chiesa che era crollata e che è stata ricostruita. In altre occasioni, infine, è l’oggetto in questione, per natura incostante, che ci porta ad attribuirgli identità – è il caso del fiume. In questo modo, concepiamo gli oggetti che ci circondano come aventi identità. Non si tratta di identità «strettamente parlando» – quella imputabile a una quantità di materia che non subisca alcuna variazione, neanche minima, della sua massa – ma solo di identità «imperfetta»16 – quella di qualsiasi oggetto che, seppur mutato in una sua parte, ci appaia tuttavia come sempre il medesimo. 3. Nel caso specifico dell’identità personale valgono le stesse 14 15 16

Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 255, cpv. 7; tr. it. cit., p. 267. Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 253, cpv. 5; tr. it. cit., p. 265. Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 256, cpv. 9; tr. it. cit., p. 268.

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L’identità personale 1

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considerazioni: anche quando si tratta di determinare l’identità della «mente umana»17, essa si rivela fittizia, allo stesso modo che nei casi sopra riportati. Il fatto che concepiamo un io laddove in realtà non c’è altro che un susseguirsi di percezioni distinte è dovuto all’inclinazione dell’immaginazione ad ascrivere identità secondo le relazioni di somiglianza e di causalità. Grazie alla memoria, siamo in grado di ricordare percezioni simili che, nella «catena del pensiero»18, formano un tutto unico a cui diamo il nome di mente; in questo senso si può dire che la memoria «produce» l’identità personale. Sempre la memoria ci mostra «quel concatenamento di cause ed effetti che costituisce il nostro io, o la nostra persona»19; in quest’altro senso, la memoria non tanto «produce», quanto piuttosto «scopre» l’identità personale, mostrandoci la relazione causale tra le nostre diverse percezioni. La nostra «mente, o principio pensante»20 non consiste allora né in una sostanza sottostante alle percezioni, né in una qualche connessione reale tra esse, ma in «un sistema di differenti percezioni, o differenti esistenze, legate insieme dalla relazione di causa ed effetto, le quali si generano reciprocamente, si distruggono influenzano e modificano l’una l’altra»: essa può essere paragonata «a una repubblica, a uno Stato, in cui i diversi membri sono uniti da un vincolo reciproco di governo e di subordinazione, e danno vita alle altre persone, le quali continuano la stessa repubblica nell’incessante cambiamento delle sue parti»21. 4. A quali conclusioni arriva Hume, e in che misura esse influenzano la descrizione che si vuole dare dell’io morale? Una cosa che si nota subito è che il problema dell’identità personale «in quanto riguarda il pensiero o l’immaginazione»22 si pone in termini di conoscenza. Che cosa conosciamo quando ci interroTreatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 259, cpv. 16; tr. it. cit., p. 271. Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 261, cpv. 18; tr. it. cit., p. 272. 19 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 262, cpv. 20; tr. it. cit., p. 273. 20 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 260, cpv. 18; tr. it. cit., p. 272. 21 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 261, cpv. 19; tr. it. cit., p. 273. 22 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 253, cpv. 5; tr. it. cit., p. 265. 17

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

ghiamo sulla natura della nostra identità personale? In che cosa consiste l’identità personale, a quale oggetto corrisponde? Il problema dell’identità personale come è presentato nel primo libro del Trattato ruota attorno a queste domande. Si tratta quindi di mostrare che cos’è ciò a cui Hume, come si è visto, attribuisce molti nomi: io, persona, anima, mente. E a ben guardare, come la maggior parte degli interpreti fa notare, è fondamentalmente di quest’ultima che egli si sta occupando: se chiedersi in cosa consiste l’identità personale significa chiedersi qual è l’oggetto che si conosce corrispondente a essa, allora per Hume l’oggetto in questione è la mente23. Laddove egli nel Trattato, usando molti termini per indicare l’oggetto dell’identità personale, può apparire poco chiaro, nell’Estratto invece è trasparente: Cartesio sosteneva che l’essenza della mente è il pensiero, non questo o quel pensiero, ma il pensiero in generale. Ma ciò pare del tutto inintellegibile, poiché ogni cosa che esiste è particolare; e perciò devono essere le nostre distinte percezioni particolari che compongono la mente. Dico, compongono la mente, non ap-

23 Cfr. A.H. Basson, David Hume, Harmondsworth, Penguin, 1958; Nelson Pike, Hume’s Bundle Theory of the Self: a Limited Defence, “American Philosophical Quarterly”, IV (1967), pp. 159-65; Nathan Brett, Substance and Mental Identity in Hume’s Treatise, “Philosophical Quarterly”, 22 (1972), pp. 110-25; Wade L. Robison, Hume on Personal Identity, “Journal of the History of Philosophy”, 12 (1974), pp. 181-93; David Pears, Questions in the Philosophy of Mind, London, Duckworth, 1975, pp. 207-23; Id., Hume on Personal Identity, “Hume Studies”, 19 (1993), pp. 289-99; Jane L. McIntyre, Is Hume’s Self �onsistent?, in McGill Hume Studies, a cura di David Fate Norton, Nicholas Capaldi e Wade L. Robison, San Diego, Austin Hill Press, 1979, pp. 79-88; John Biro, Hume’s Difficulties with the Self, “Hume Studies”, 5 (1979), pp. 45-54; Id., Hume’s New Science of the Mind, in The �ambridge �ompanion to Hume, a cura di David Fate Norton, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 33-63; George S. Pappas, Perception of the Self, “Hume Studies”, 18 (1992), pp. 275-80; Terence Penelhum, Hume on Personal Identity e Hume’s Theory of the Self Revised, in Id., Themes in Hume.The Self, the Will, Religion, Oxford, Clarendon Press, 2000, rispettivamente pp. 23-39 e pp. 40-60; Donald C. Ainslie, Hume’s Reflections on the Identity and Simplicity of Mind, “Philosophy and Phenomenological Research”, 62 (2001), pp. 557-78.

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L’identità personale 1

partengono ad essa. La mente non è una sostanza, alla quale le percezioni ineriscano24.

La tesi che si vuole sostenere è che l’io in Hume non si risolva affatto unicamente nella descrizione della mente. Quando Hume parla di mente ha presente un problema specifico, che né conclude ciò che c’è da dire sull’io né, soprattutto, interessa l’io della riflessione morale. In “L’identità personale” l’io è considerato esclusivamente come oggetto di conoscenza, ed esso consiste nella mente. Identificare l’io morale in essa è un errore, e usare questa sezione per mostrare che Hume sarebbe incoerente non funziona perché, come si vedrà, quando si passa in ambito morale il problema non è più di tipo conoscitivo, bensì pratico. 5. Per capire cosa Hume intenda riguardo alla natura della mente, è opportuno ricordare che la domanda da cui prende le mosse non è diversa da quella che caratterizza il dibattito sull’identità personale come veniva concepito nel diciottesimo secolo, soprattutto nei paesi di lingua inglese25: ciò che si cercava di fare era di determinare le condizioni necessarie e sufficienti per identificare, e quindi riconoscere nuovamente, una persona come la medesima dopo un certo periodo di tempo. Per Hume, quelle condizioni non possono venire soddisfatte riferendosi alla nozione «di un’anima, di un io, di una sostanza»26 che sottostà al fluire delle differenti percezioni di cui abbiamo esperienza: se l’identità personale è concepita come qualcosa da conoscere, non è questo l’oggetto a cui corrisponde. Specificamente, nel rispondere 24 Treatise, “Abstract of the Treatise” (1740), pp. 657-58, cpv. 28; tr. it. di Mario Dal Pra con il titolo Estratto del Trattato sulla natura umana, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 91-92. 25 Per inquadrare storicamente il dibattito, si vedano di Raymond Martin e John Barresi sia Naturalization of the Soul. Self and Personal Identity in the Eighteenth �entury, London-New York, Routledge, 2000, sia The Rise and Fall of Soul and Self. An Intellectual History of Personal Identity, New York, Columbia University Press, 2006, in particolare i capp. VIII e IX. Si tenga presente anche Harold W. Noonan, Personal Identity, cit. 26 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 254, cpv. 6; tr. it. cit., p. 266.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

a questa domanda, egli ha due bersagli polemici precisi: uno metafisico, l’altro religioso. Il bersaglio metafisico è rappresentato da quei pensatori – Descartes su tutti – i quali affermano che soltanto presupponendo un io concepito come una sostanza che resti sempre la stessa nel corso del tempo si può avere un principio unificante che garantisca che l’esperienza che abbiamo del mondo si componga in un tutto coerente. Lo scopo di Hume è mostrare che questa tesi è scorretta. Se infatti valgono il �onceivability Principle, secondo cui «tutto ciò ch’è chiaramente concepito, può esistere» e il Separability Principle, secondo cui «tutto ciò ch’è differente, è distinguibile, e tutto ciò ch’è distinguibile è separabile per mezzo dell’immaginazione», allora non si può che concludere che poiché le nostre percezioni sono differenti tra loro e da ogni altra cosa che esiste nell’universo, esse sono anche distinte e separabili; e possono essere considerate, ed esistere, separatamente, sì che non hanno bisogno di nessun’altra cosa che ne sostenga l’esistenza: esse, quindi, se basta la precedente definizione, sono sostanze27.

Non è possibile parlare di una singola sostanza continua da cui dipendono tutte le percezioni, perché non abbiamo alcuna esperienza di essa. Abbiamo invece esperienza delle nostre percezioni, ma esse non si presentano come attributi di qualcosa, bensì godono, loro sì, dello statuto di sostanze. Se si vuole sviluppare una filosofia che davvero abbia nell’insegnamento di Isaac Newton il suo punto di riferimento – questo è il progetto che solitamente viene attribuito a Hume, almeno nel Trattato – allora si deve restare fedeli alla sola esperienza, e tutte le ipotesi che non vengono confermate da essa – come è appunto quella di 27 Treatise, libro I, parte IV, sez. 5, p. 233, cpv. 5; tr. it. cit., pp. 245-46. Sui due principi, che insieme al �opy Principle e alle tre relazioni associative di somiglianza, contiguità e causalità sono le basi dell’associazionismo humeano, si vedano i già citati Noonan, Hume on Knowledge e Garrett, �ognition and �ommitment in Hume’s Philosophy. Sul principio di concepibilità, si veda anche Gianluca Foglia, Immaginazione e natura umana, cit., cap. II, § 3.

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L’identità personale 

supporre un io metafisico così descritto – vanno scartate come false28. 6. Lo scopo di Hume è quello di sostituire una nozione di mente sostanziale con una nozione di mente relazionale, ossia concepita come composta di parti. In questo senso, egli può venire accostato a quegli autori che hanno contribuito all’elaborazione di una concezione moderna della mente, in cui si cerca di fornire una spiegazione in termini materialistici di ciò che fino ad allora era considerata essere un’anima spirituale. Inoltre, Hume è stato arruolato tra coloro che oggi sostengono una tesi riduzionista della mente. Secondo questa tesi – il cui rappresentante più famoso è Derek Parfit, generalmente considerato un continuatore della teoria humeana dell’identità personale29 – la persona consiste in una serie di connessioni tra stati psicologici, con la conseguenza che a essere importante per la determinazione dell’identità personale non è più una natura sostanziale che si è rivelata un’illusione, ma i legami più o meno forti che si instaurano tra i diversi stati psicologici che realizzano la mente. L’interrogativo settecentesco riguardante l’identità personale non definisce tutto ciò che c’è da dire sull’identità personale per la filosofia contemporanea: oggi, infatti, ci si interroga soprattutto sulla questione se sia effettivamente la relazione di identità personale ciò che conta, se sia essa l’elemento fondamentale che spiega la preoccupazione che gli esseri umani hanno per la propria sopravvivenza. Sebbene sia vero che la concezione della mente humeana può esser detta riduzionista, è tuttavia opportuno far notare, fin d’adesso, che l’accostamento che si fa tra Hume e Parfit è meno ovvio di quanto si creda. Come sarà chiaro più avanti, la teoria dell’identità personale che presenta 28 Oltre alla sez. 6 del Treatise, libro I, parte IV, si vedano anche la sez. 5 e la sez. 2, in particolare p. 207, cpv. 39; tr. it. cit., p. 220. 29 Sulla tesi riduzionista, si veda Derek Parfit, Reasons and Persons, Oxford-New York, Oxford University Press, 1984; tr. it. di Rodolfo Rini con il titolo Ragioni e persone, Milano, Il Saggiatore, 1989, parte III, cap. X, § 79.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

Parfit può, infatti, richiamare quella di Hume sul piano metafisico, ma le conseguenze morali che da essa se ne traggono sono profondamente diverse. 7. Quello metafisico non è l’unico bersaglio di Hume. Ne ha anche uno religioso – un bersaglio che avrà sempre presente in tutta la sua produzione filosofica, dal Trattato ai postumi Dialoghi sulla religione naturale –: coloro i quali reputano che la sostanza incorporea che ci identificherebbe non sia nient’altro che la nostra anima. Una tesi che ha un doppio risvolto: essa sostiene che l’anima non soltanto è il principio che garantisce l’ordine della nostra esperienza, ma assicura anche un solido fondamento alla nozione di responsabilità morale. In un’ottica religiosa, infatti, soltanto se c’è qualcosa come un’anima che sopravvive alla morte dei nostri corpi possiamo davvero dirci responsabili per le azioni che abbiamo compiuto in questa vita, poiché dovremo renderne conto di fronte a Dio. La questione può forse apparire di relativa importanza, ma era considerata molto seria nel diciottesimo secolo30. Ciò che metteva in allarme era la consapevolezza che, portando alle estreme conseguenze un metodo di tipo empirico – studiando cioè l’anima come si studiano gli oggetti che compongono il mondo naturale – si minava irrimediabilmente un presupposto fondamentale della religione cristiana, senza il quale la morale tradizionale avrebbe rischiato di non trovare più alcun appoggio31. Al contrario, uno Non è un caso che la maggioranza dei testi critici sulla filosofia di Hume fino alla seconda metà dell’Ottocento lo attaccassero soprattutto perché metteva in discussione i dogmi del Cristianesimo – in particolare, ma non solo, la credenza nei miracoli. Si veda Guido Bonino, La leggenda storiografica di Hume, cit. 31 A ricostruire il quadro in maniera concisa ed estremamente efficace è Jane L. McIntyre in Hume’s Underground Self, in Studies in Early Modern Philosophy III, a cura di Stanley Tweyman, Delmar, New York, Caravan Books, 1993, pp. 110-25. Sul dibattito sulla semplicità dell’io in quanto anima immortale, si veda quanto dicono Don Garrett, �ognition and �ommitment in Hume’s Philosophy, cit., cap. VIII e Terence Penelhum, Hume, Identity, and Selfhood, in Id., Themes in Hume, cit., pp. 99-126. Per un quadro più generale sulla centralità che le te30

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L’identità personale 5

degli aspetti più importanti del progetto humeano di elaborare una scienza della natura umana è proprio quello di mostrare che il concetto di responsabilità non ha nulla a che vedere né con Dio né con l’aldilà. Il fenomeno della responsabilità è una caratteristica della moralità che ha luogo comunque: chiamare in causa l’esistenza di un io metafisicamente inteso per risolvere la questione – o credere che, se esso manca, sorga un problema di natura morale, come avviene invece in John Locke32 – per Hume significa non aver compreso di che cosa si sta parlando33. In questo senso, Hume può davvero dirsi un pensatore della modernità. 8. Il verdetto di Hume è che l’identità personale consiste nella determinazione della «vera idea della mente umana»34: ciò che gli matiche religiose avevano nel dibattito ricordiamo Harold W. Noonan, Personal Identity, cit., e Raymond Martin – John Barresi, Naturalization of the Soul, cit. 32 John Locke, Saggio sull’intelligenza umana, tr. it. di Camillo Pellizzi, RomaBari, Laterza, 1988, libro II, cap. XVII, sez. 15, pp. 374-75. Si veda anche quanto si dice nella sez. 28 dello stesso cap., p. 385. Per una discussione sulle diverse conclusioni che Locke e Hume traggono dalla riflessione sull’identità personale si vedano Annette C. Baier, A Naturalist View of Persons, in Ead., Moral Prejudices. Essays on Ethics, Cambridge, Mass.-London, Harvard University Press, 1995, pp. 313-26 e Eugenio Lecaldano, Soggetto morale e identità personale dalla prospettiva del sentimentalismo humeano, relazione al Convegno di Pisa su “Dimensioni della Soggettività”, Pisa, 19 settembre 2001. Per quanto riguarda le implicazioni religiose della spiegazione dell’identità personale in Locke, e per un confronto con l’alternativa humeana, si vedano Jane L. McIntyre, Hume’s Underground Self, cit. e Kenneth P. Winkler, “All Is Revolution in Us”: Personal Identity in Shaftesbury and Hume, “Hume Studies”, 26 (2000), pp. 3-40. Per una descrizione generale del problema dell’identità in Locke: E. J. Lowe, Locke on Human Understanding, London-New York, Routledge, 1995, cap. V e John L. Mackie, Problems from Locke, Oxford, Clarendon Press, 1976, capp. V e VI. Si veda anche Antonio Allegra, Dopo l’anima. Locke e la discussione sull’identità personale alle origini del pensiero moderno, Roma, Edizioni Studium, 2005. 33 Sul concetto di responsabilità in Hume si veda Paul Russell, Freedom and Moral Sentiments. Hume’s Way of Naturalizing Responsibility, Responsibility Oxford-New York, Oxford University Press, 1995. 34 Traduzione mia. In inglese è: «the true idea of the human mind», Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 261, cpv. 19; tr. it. cit., p. 273.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

interessa, quando si occupa di identità personale nel primo libro del Trattato, è mostrare che l’io non è altro che la mente, e che questa non è una sostanza ma è composta di percezioni distinte. Vale a dire che, per Hume, se pretendiamo di distinguere l’io come un oggetto che può essere osservato, ciò a cui arriviamo è la varietà delle nostre percezioni35. L’identità della mente non è diversa da quella che si attribuisce agli animali, alle piante, alle barche, alle case; cioè, a tutti quegli oggetti mutevoli che sono da noi erroneamente riconosciuti come stabili e invariabili. Erroneamente? Di sicuro Hume si esprime in questi termini: l’immaginazione ci fa commettere un errore in cui cadiamo senza accorgerci. Tuttavia, sebbene egli dica che ci sbagliamo, dice anche che questo errore è inevitabile: data la natura umana, dato il modo in cui riconosciamo sia gli oggetti sia gli individui che ci circondano, non possiamo fare a meno di organizzare la nostra esperienza ascrivendo identità anche in casi in cui, a rigore, non saremmo autorizzati a farlo. Ma Hume aggiunge che, in questi casi, non stiamo ascrivendo identità in senso stretto – non potremmo farlo, poiché non ci troviamo di fronte a oggetti invariabili nel corso del tempo –, bensì riconosciamo una identità imperfetta. Ora, sulla differenza che c’è in Hume tra identità in senso stretto e identità imperfetta – se egli riconosca una sola forma di identità oppure due, e sulle conseguenze che ne derivano per l’identità personale – è sorta un’accesa discussione. Per alcuni, dati i principi della filosofia humeana, attribuire identità anche a oggetti, come la mente, che non sono né semplici né continui né immutabili è sempre un errore. Altri, invece, credono che non si faccia uno sbaglio, poiché, in questi casi, l’identità a cui Hume si riferisce è imperfetta e non in senso stretto. Senza entrare nel

35 Si veda Nicholas Capaldi, David Hume. The Newtonian Philosopher, Boston, Twayne Publishers, 1975, pp. 252 e seg.

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L’identità personale 7

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merito di un dibattito che ci porterebbe troppo lontano36, va noPer W. von Leyden, Hume and “Imperfect Identity”, “Philosophical Quarterly”, 7 (1957), pp. 340-52, in tutti i casi in cui non si dà identità in senso stretto, ci si trova di fronte a un’identità fittizia, e parlare di identità – come con l’identità personale – è, a rigore, sbagliato. A «identità imperfetta» va allora sostituito «identità impropria». Von Leyden arriva addirittura a supporre che quando nel Trattato si trova «identità imperfetta» si tratti di un vero e proprio errore di stampa. Anche Terence Penelhum, Hume on Personal Identity, cit., pp. 23-39, ritiene che Hume, dati i suoi presupposti, non possa ascrivere identità agli individui, e non possa quindi rendere conto dell’uso comune del termine “identità”. In questo articolo, Penelhum conclude che Hume è uno scettico circa la verità delle affermazioni concernenti l’identità. A pensarla in questo modo è anche S.C. Patten, �hange, Identity and Hume, “Dialogue”, 15 (1976), pp. 664-72. Al contrario, secondo Lawrence Ashley e Michael Stack, Hume’s Theory of the Self and Its Identity, “Dialogue”, 13 (1974), pp. 239-54, Hume è legittimato a utilizzare ambedue i sensi di identità, e quando ricorre all’identità imperfetta lo fa proprio per rendere conto dell’uso che comunemente si fa di “identità” anche nei casi in cui il termine è attribuito a cose composte, come quello dell’identità personale. Affermare che l’identità personale è una forma di identità imperfetta è quindi, a loro avviso, corretto: quando parliamo di identità personale non stiamo commettendo un errore, ma stiamo usando il termine in un senso più ampio. Al riguardo, si veda anche quanto sostiene Susan Mendus, Personal Identity: The Two Analogies in Hume, “Philosophical Quarterly”, 30 (1980), pp. 61-68. A tornare a schierarsi contro la distinzione tra identità in senso stretto e identità imperfetta – a ritenere cioè che in Hume non ci sono due sensi di identità – è Donald L.M. Baxter, Hume’s Labyrinth �oncerning the Idea of Personal Identity, “Hume Studies”, 24 (1998), pp. 203-33. Secondo lui, non è possibile attribuire a Hume un senso più lasco di identità: l’identità imperfetta sarebbe meglio rinominarla «identità immaginaria» (imaginary identity). Per Wade L. Robison, In Defence of Hume’s Appendix, in McGill Hume Studies, cit., pp. 89-99, quando attribuiamo identità a ciò che in realtà è una molteplicità, non staremmo utilizzando la nozione di identità in maniera filosoficamente appropriata. R. Jo Kornegay, Hume on Identity and Imperfect Identity, “Dialogue”, 24 (1985), pp. 213-26, invece, distingue in Hume due prospettive diverse: una teoretico-critica e una naturalistica. Secondo la prima, l’attribuzione di identità a oggetti composti è sempre un errore perché, a rigor di termini, ciò che consiste di parti è un esempio di diversità o numero, e non può quindi rientrare sotto il concetto di identità. Tuttavia, se si adotta la seconda prospettiva, a essere in primo piano è lo studio dei meccanismi della natura umana: poiché siamo fatti in maniera tale da confondere due atti mentali differenti – l’idea di identità e quella di diversità – allora l’attribuzione di identità è tollerabile anche in quei casi in cui, a essere precisi, sarebbe scorretta. Wayne Waxman, 36

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

tato come sia un dato di fatto che Hume utilizzi “identità” anche in quei casi in cui, a rigor di termini, non potrebbe farlo. Non si dimentichi che l’operazione filosofica che Hume svolge è essenzialmente quella di mostrare come funziona la natura umana, non di fornire spiegazioni metafisiche della realtà, o di presentare la struttura logica che sottostà a essa. Come «[p]ossiamo ben chiedere quali sono le cause che c’inducono a credere nell’esistenza dei corpi; ma è vano domandare se i corpi esistono o no»37, così è vano domandarsi se ogni volta che attribuiamo identità a qualcosa, questo sia sempre identico a se stesso, e dunque possa dirsi perfettamente identico. Chiedersi se oggetti e persone sono identici a se stessi nel tempo non ha molta importanza per Hume; mentre, invece, lo ha chiedersi come mai gli esseri umani riconoscono oggetti e persone come identici. Per quel che riguarda lo statuto dell’identità personale come oggetto da conoscere, Hume ha una risposta chiara: l’oggetto che conosciamo corrispondente all’identità personale è una mente composta da nient’altro che da una successione di percezioni distinte l’una dall’altra. Ed è una constatazione empirica che gli esseri umani attribuiscono identità a questa successione, allo stesso modo di come lo fanno per moltissimi altri oggetti composti di parti. Dato l’impianto humeano, quindi, non è a questo livello – quello della determinazione dell’identità di qualcosa – che nascono problemi. Essi sono da un’altra parte, e riguardano il perché attribuiamo questa

Hume’s Theory of �onsciousness, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, p. 324 e Eugenio Lecaldano, L’io, il carattere, e la virtù nel Trattato di Hume, in Filosofia e cultura nel Settecento britannico II. Hume e Hutcheson. Reid e la scuola del senso comune, a cura di Antonio Santucci, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 143-66, fanno notare come Hume non sia affatto scettico quando attribuisce identità alle persone, e dunque sia legittimato a usare la nozione di identità imperfetta: il suo intento, infatti, non è tanto quello di fare un’analisi concettuale, quanto soprattutto di rendere conto di come funziona la psicologia umana. Per una discussione dei problemi legati all’identità perfetta e imperfetta, si veda Carlo Montaleone, L’io, la mente, la ragionevolezza. Saggio su David Hume, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, parte III. 37 Treatise, libro I, parte IV, sez. 2, p. 187, cpv. 1; tr. it. cit., p. 201.

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L’identità personale 

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identità38. Per comprendere cos’è che angustia Hume – e con lui, tutti coloro che ritengono che la spiegazione che egli fornisce sia insufficiente – bisogna abbandonare la sezione sull’identità personale e concentrarsi altrove: su quelle pagine dell’“Appendice” dove si crede che Hume esprima ciò che, in “L’identità personale”, è solo sottinteso. È qui, infatti, che trova davvero espressione quello che abbiamo chiamato “il problema dell’io”. 9. Nelle poche pagine che compongono l’“Appendice”, Hume sembra mettere in discussione non soltanto le conclusioni a cui è arrivato nel primo libro, ma addirittura i fondamenti stessi della sua filosofia: la teoria dell’identità personale verrebbe messa irrimediabilmente in crisi, e la tesi dell’intrinseca contraddittorietà della filosofia humeana troverebbe conferma. All’inizio, Hume ribadisce quello che aveva sostenuto precedentemente sullo statuto dell’identità personale. Se vogliamo parlare dell’io, dobbiamo avere un’idea corrispondente a questo termine. Le idee derivano da impressioni; poiché non abbiamo alcuna impressione «dell’io, o della sostanza, come qualcosa di semplice e individuale»39 non possiamo neanche averne l’idea. E siccome «[t]utto ciò ch’è distinto, è distinguibile; e ciò ch’è distinguibile è separabile mediante il pensiero o l’immaginazione» – ossia il Separability Principle –, e le percezioni godono di queste proprietà, allora, «senza nessuna contraddizione o assurdità»40, esse possono considerarsi distinguibili, separabili ed esistenti seAl riguardo, si veda Robert S. Henderson, David Hume on Personal Identity and the Indirect Passions, “Hume Studies”, 16 (1990), pp. 33-44. Sul problema della distinzione tra identità in senso stretto e identità imperfetta, egli afferma che sia Penelhum, Hume on Personal Identity, cit., sia Kornegay, Hume on Identity and Imperfect Identity, cit., sbagliano a dire che in Hume l’attribuzione di identità personale è un errore, poiché ambedue ritengono che il problema dell’io riguardi esclusivamente l’identità personale, e vada risolto con i soli strumenti dell’intelletto. A sua volta, per Henderson questo errore è dovuto alla loro convinzione che tutta la filosofia di Hume sia risolta nel primo libro del Trattato. 39 Treatise, “Appendice”, p. 633, cpv. 11; tr. it. cit., p. 662. 40 Treatise, “Appendice”, p. 634, cpv. 12; tr. it. cit., p. 662. 38

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

paratamente l’una dall’altra. Le idee sono copia di percezioni anteriori; dalle percezioni, quindi, dipendono le idee degli oggetti che abbiamo. «Ma» – prosegue Hume – «è del tutto intelligibile e coerente dire che ci sono oggetti i quali esistono distintamente e indipendentemente, senza bisogno di una sostanza semplice, o soggetto d’inerenza, in comune»41. Vale a dire, non siamo autorizzati a presupporre un principio unificante l’esperienza nella forma di qualcosa di conoscibile come una sostanza sempre uguale a se stessa, invariabile e continua. Fin qui non c’è differenza con quanto si afferma in “L’identità personale”. Guardando a «me stesso»42 non percepisco altro che percezioni transeunti: dunque io corrispondo a queste stesse percezioni. Non importa che esse siano tante o poche: anche se avessimo esperienza di pochissime percezioni – come nel caso di un’ostrica – dal momento che l’io corrisponde a esse, alla fine non si troverà niente che sia al di là di esse. Si considerino tutte quelle percezioni «di amore e di odio, di dolore e di piacere, di pensiero e di sensazione»43. «Ci trovate una nozione dell’io, della sostanza? Se non la trovate, neppure l’aggiunta di altre percezioni può dare tale nozione»44. Se tutto questo è vero, allora, allo stesso modo che nel primo libro del Trattato, Hume conclude che, come non abbiamo idea di cosa significhi parlare di sostanza indipendentemente dalle sue qualità particolari, così «riguardo alla mente»45 non abbiamo alcuna nozione distinta dalle sue percezioni particolari. Ma è a questo punto che sorgono le difficoltà. 10. Se, infatti, non siamo autorizzati a pensare alla mente come a una sostanza indipendente, ma solo come a un fascio di percezioni distinte, qual è il principio che tiene insieme queste diverse percezioni e ce le fa vedere come una cosa sola? Che cos’è «che 41 42 43 44 45

Treatise, Treatise, Treatise, Treatise, Treatise,

“Appendice”, “Appendice”, “Appendice”, “Appendice”, “Appendice”,

p. p. p. p. p.

634, 634, 635, 634, 635,

cpv. cpv. cpv. cpv. cpv.

14; 15; 17; 16; 19;

tr. tr. tr. tr. tr.

it. it. it. it. it.

cit., cit., cit., cit., cit.,

p. p. p. p. p.

662. 662. 663. 663. 663.

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L’identità personale 1

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le lega insieme e ci fa attribuire loro una reale semplicità e identità»46? In altre parole, il problema non è più quello di determinare l’oggetto a cui la mente, intesa come sostanza, dovrebbe corrispondere. Il problema è ben diverso – e, per la filosofia di Hume, ben più pericoloso –: si tratta di chiarire che cos’è che garantisce l’unità della coscienza e, con essa, la consapevolezza che abbiamo di noi stessi in quanto soggetti che hanno esperienza. L’intelletto non riesce a scoprire alcun legame tra esistenze distinte – e, come abbiamo visto, per Hume le percezioni sono a tutti gli effetti esistenze distinte. Ciononostante, questo legame lo «sentiamo»: non come il frutto di un’operazione intellettuale, ma come una sensazione, come un feeling che ci accompagna quando riflettiamo «sulla serie delle percezioni passate che compongono la mente»47. Possiamo da ciò concludere, come «[l]a maggior parte dei filosofi» – in particolare Locke – «sembra propensa a pensare», che l’identità personale emerge dalla coscienza, concepita come «una riflessione del pensiero, una percezione riflessa»48? Per Hume non possiamo farlo. Se valgono i due principi: «che tutte le nostre percezioni sono esistenze distinte; e che la mente non percepisce mai nessuna reale connessione tra esistenze distinte»49, allora quell’unità della nostra coscienza di cui stiamo andando alla ricerca non può ottenersi. Se le nostre percezioni inerissero a una sostanza il problema non si porrebbe: sarebbe questa sostanza a fare da principio unificante. Ma la sezione “L’identità personale” mostra che una sostanza di questo tipo non esiste. Se fosse invece la mente a percepire una qualche «reale connessione»50 tra le percezioni, di nuovo il problema sarebbe risolto. Ma non soltanto questa connessione non la si può concepire: è la mente stessa – ossia ciò che dovrebbe concepire la connessione in questione – che, data la sua natura composita, non sembra essere in grado di concepire 46 47 48 49 50

Treatise, Treatise, Treatise, Treatise, Treatise,

“Appendice”, “Appendice”, “Appendice”, “Appendice”, “Appendice”,

p. p. p. p. p.

635, 635, 635, 636, 636,

cpv. cpv. cpv. cpv. cpv.

20; 20; 20; 21; 21;

tr. tr. tr. tr. tr.

it. it. it. it. it.

cit., cit., cit., cit., cit.,

p. p. p. p. p.

663. 664. 664, corsivo mio. 664. 664.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

alcunché. Essa, infatti, non è altro che ciò che è percepito. È la mente stessa – il fascio di percezioni – a dover essere unificata: come può essere garanzia di una qualsiasi unità? Hume conclude l’“Appendice” dando forfait, e facendo proprio «il privilegio concesso a ogni scettico»51 di considerare questa difficoltà eccessiva per le limitate capacità del suo intelletto. Una difficoltà che, a suo avviso, non è affatto insormontabile; ma della quale saranno altri, o forse lui stesso maturo, a venirne a capo. 11. Quanto Hume sia davvero sincero dichiarandosi incapace di districare il dilemma che lui stesso si è creato può essere motivo di discussione. Non va dimenticato che il linguaggio che usa è spesso volutamente ironico52: non è detto che all’espressione di delusione, o addirittura di disperazione, corrisponda poi una reale incapacità di risolvere una certa difficoltà. Non sempre la soluzione dei problemi va trovata laddove essi vengono espressi; anzi, la maggior parte delle volte si deve guardare altrove. Ciò non toglie che qui si trova uno dei nodi teorici più importanti del suo sistema, un nodo teorico che riguarda da vicino la nostra tesi sull’io morale. Prima di tutto, se si confronta quanto Hume dice nell’“Appendice” con la sezione del primo libro del Trattato precedentemente esaminata, si può notare come tra le due non ci sia contraddizione. Al contrario53, l’“Appendice” conferma le Treatise, “Appendice”, p. 636, cpv. 21; tr. it. cit., p. 664. Sullo stile letterario di Hume si veda John Vladimir Price, The Ironic Hume, Bristol, Thoemmes Press, 1992. Secondo Donald W. Livingston, Hume’s Philosophy of �ommon Life, cit., cap. II, la filosofia di Hume è il frutto di un continuo conflitto tra un linguaggio di tipo dialogico e uno di tipo sistematico; dello stesso autore si veda anche Philosophical Melancholy and Delirium. Hume’s Pathology of Philosophy, Chicago-London, The University of Chicago Press, 1998, cap. II. Per quanto riguarda il debito che il linguaggio di Hume ha con gli autori del passato – soprattutto con la retorica di Cicerone – si veda Peter Jones, Hume’s Sentiments. Their �iceronian and French �ontext �ontext, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1982. 53 Come argomenta in maniera convincente Corliss Gayda Swain, Being Sure of One’s Self: Hume on Personal Identity, “Hume Studies”, 17 (1991), pp. 107-24. 51

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L’identità personale 

tesi espresse in “L’identità personale”. Hume si pone ora un problema diverso: «tutte le mie speranze svaniscono quando vengo a spiegare i principi che uniscono le nostre percezioni successive nel nostro pensiero, nella nostra coscienza. Io non riesco a scoprire una dottrina che mi soddisfi su questo punto»54. Il problema, cioè, non è più quello di conoscere la mente come oggetto, ma di determinarla in quanto principio unificante l’esperienza. Dimostrato che questo principio non può darsi come un oggetto che può essere conosciuto, resta la necessità di spiegare come sia possibile che la varietà di percezioni che «fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinità di atteggiamenti e di situazioni»55 si compongano poi nell’esperienza unitaria di un singolo soggetto. Se infatti si porta alle estreme conseguenze l’analogia della mente come un teatro, per cui «noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove queste scene [le percezioni] vengono rappresentate, o del materiale di cui è composta»56, si finisce col leggere Hume come il sostenitore di un «agnosticismo ontologico»57, per cui tutto ciò che c’è sono solo percezioni e nessuna mente. In questa luce, Hume diventa davvero uno scettico radicale: il fautore di una metafisica delle percezioni paradossale, più simile alla monadologia di un Leibniz che alla riflessione empirica e naturalistica di cui Hume si professava sostenitore58. Di Swain si veda anche Personal Identity and the Skeptical System of Philosophy, in The Blackwell Guide to Hume’s Treatise, a cura di Saul Traiger, Oxford, Blackwell, 2006, pp. 133-50. Cfr. quindi Don Garrett, �ognition and �ommitment in Hume’s Philosophy, cit., cap. VIII e Nicholas Capaldi, sia David Hume. The Newtonian Philosopher, cit., cap. VI, sez. 3, sia The Historical and Philosophical Significance of Hume’s Theory of the Self, in Philosophy, Its History and Historiography, a cura di A.J. Holland, Dordrecht, D. Reidel Publishing Company, 1983, pp. 271-85. 54 Treatise, “Appendice”, pp. 635-36, cpv. 20; tr. it. cit., p. 664. 55 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 253, cpv. 4; tr. it. cit., pp. 264-65. 56 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 253, cpv. 4; tr. it. cit., p. 265. 57 L’espressione è di Wayne Waxman, Hume’s Theory of �onsciousness, cit., p. 217. 58 Ad accostare Hume a Leibniz per quanto riguarda il problema dell’identità è Philip J. Neujahr, Hume on Identity, “Hume Studies”, 4 (1978), pp. 18-28.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

Alla fine bisogna ammettere che l’edificio filosofico humeano è pericolante e destinato a crollare? Hume sarebbe l’erede di una tradizione filosofica, l’empirismo, del quale egli rappresenterebbe, allo stesso tempo, il massimo esponente e colui che ne rende esplicita l’intrinseca contraddittorietà59? Oppure dobbiamo valuPer Tom L. Beauchamp, Self Inconsistency or Mere Self Perplexity?, “Hume Studies”, 5 (1979), pp. 37-44, i dubbi espressi nell’“Appendice” occupano un posto marginale all’interno della riflessione sull’identità personale: a differenza di quanto normalmente si ritiene, l’“Appendice” avrebbe dunque un’incidenza trascurabile nella determinazione del delicato equilibrio su cui si reggerebbe il Trattato. John Passmore – Hume’s Intentions, cit. –, invece, è un esempio di chi crede che nell’“Appendice” salgano al pettine tutti quei nodi che in “L’identità personale” restavano nascosti. Ad affermare che la trattazione dell’identità personale influisce anche sulle conclusioni dell’”Appendice”, e che il fallimento di cui si fa menzione in quest’ultima dipende da “L’identità personale”, è Wayne Waxman, Hume’s Quandary �oncerning Personal Identity, “Hume Studies”, 18 (1992), pp. 233-53. A suo avviso, negando l’esistenza di una mente come sostanza semplice, a Hume verrebbe a mancare anche il principio unificante – che Waxman chiama «memoria ritentiva» – che è il presupposto necessario perché si possa avere esperienza. Egli conclude che il problema di Hume può essere risolto solo adottando strumenti teorici di tipo kantiano. Per Robert J. Fogelin – sia Hume’s Worries about Personal Identity, in Robert J. Fogelin, Philosophical Interpretations, Oxford-New York, Oxford University Press, 1992, pp. 81-94, sia The Soul and the Self, in The Empiricists. �ritical Studies on Locke, Berkeley, and Hume, a cura di Margaret Atherton, Lanham, Rowman & Littlefield, 1999, pp. 213-28 – nell’“Appendice” diventa chiaro il problema di fondo dell’atomismo radicale di Hume. Negando la realtà di una mente sostanziale, e concependo invece ogni percezione come una sostanza a sé stante, l’atomismo humeano garantisce la possibilità di avere percezioni che stanno tra loro in un rapporto abbastanza debole da poterle vedere come separate l’una dall’altra. Ma al prezzo, secondo Fogelin, di precludere la possibilità di avere una mente individuale a cui ricondurre le percezioni e, quindi, di avere una singola consapevolezza all’interno della quale possano operare i principi associazionistici. Kenneth P. Winkler, “All Is Revolution in Us”: Personal Identity in Shaftesbury and Hume, cit., invece, crede che i problemi espressi in Treatise, libro I, parte IV, sez. 6 e nell’“Appendice” siano differenti: nella prima Hume presenta in che cosa consiste la metafisica della persona, ossia la natura della mente, ed è soddisfatto delle conclusioni a cui giunge – in questo Winkler accetta le tesi di Swain, Being Sure of One’s Self: Hume on Personal Identity, cit. –; mentre nell’“Appendice” il problema non è di natura metafisica, ma riguarda la scienza della natura umana: nonostante il successo ottenuto in “L’identità personale”, 59

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L’identità personale 5

tarlo come un pensatore che ha intravisto problemi fondamentali che vanno ben al di là di ciò che la lente empiristica riesce a cogliere, ma la cui soluzione ci viene da altri – specificamente, da Immanuel Kant60?

Hume non riuscirebbe poi a dare una spiegazione delle relazioni tra percezioni che causano la loro unione nella nostra immaginazione. 60 Al riguardo si vedano Barry Stroud, Hume, London-New York, Routledge, 1977 e Wayne Waxman, Hume’s Theory of �onsciousness, cit. e Hume’s Quandary �oncerning Personal Identity, cit.

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III Associazionismo o attività della mente?

1. Andiamo con ordine. Nell’“Appendice”, Hume dice di non riuscire ad armonizzare due principi, «che tutte le nostre percezioni sono esistenze distinte; e che la mente non percepisce mai nessuna reale connessione tra esistenze distinte»1, ma di non poter rinunciare a nessuno dei due. Ora, come praticamente tutti i commentatori riconoscono, da Kemp Smith in avanti, questi due principi non sono in contraddizione tra loro, ma con un terzo: con quello che sostiene l’esistenza di una mente che effettivamente percepisce, ossia con quel principio unificante che garantisce che le percezioni corrispondano a qualcosa di esperito da qualcuno. Per essere più precisi, il problema di fronte al quale si trova Hume può essere riformulato, seguendo Nelson Pike2, in due domande: a) Se la mente è solo un fascio di percezioni, qual è il principio che permette di distinguere un certo gruppo di percezioni come il proprio e non come quello di un altro? b) Se ci si guarda dentro non si vede altro che un fascio di percezioni. Ma chi è che sta guardando? Chi è quell’io che osserva, immagina, crede, ricorda, si sbaglia, pensando che ci sia qualcosa di continuo al posto delle percezioni mutevoli? 1 2

Treatise, “Appendice”, p. 636, cpv. 21; tr. it. cit., p. 664. Nelson Pike, Hume’s Bundle Theory of the Self: a Limited Defence, cit.

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Associazionismo o attività della mente? 7

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Le due domande corrispondono rispettivamente a un problema di unità della coscienza e a un problema di consapevolezza di sé. Se ci sono solo percezioni, e se la mente è formata da percezioni, come facciamo a dire quali sono le particolari percezioni che costituiscono la nostra mente e non quella di un altro? Che cos’è che garantisce unità a un certo fascio di percezioni, diverso e distinto da altri fasci di percezioni, corrispondenti ad altre menti diverse dalla nostra? Questo è il problema dell’unità della coscienza, espresso dalla prima domanda. La seconda domanda, invece, ne pone un altro: di chi siamo consapevoli quando compiamo una qualsiasi attività mentale? Chi è colui che osserva, immagina, crede, ricorda, si sbaglia, ed è consapevole che lo sta facendo? In questo caso, ciò che è messa in discussone è la consapevolezza di sé. Le due domande sono le facce di una stessa medaglia. Vero è che la domanda che caratterizza l’“Appendice” è, a un primo sguardo, solo la prima: il problema centrale è quello di determinare che cosa rende possibile l’unità delle percezioni – nelle parole di Hume, «il principio di connessione che le lega insieme e ci fa attribuire loro una reale semplicità e identità»3. Tuttavia, non si comprende che cosa significhi parlare di unità della coscienza se non si attribuisce a essa la consapevolezza di essere appunto un’unità, un io che attraverso la sua attività fa di percezioni sconnesse i pezzi di una singola esperienza, un tutto coeso e coerente. Se è vero che «la connessione noi la sentiamo, soltanto, come determinazione del pensiero a passare da un oggetto a un altro», e «le idee [che compongono la mente] sono sentite come connesse insieme, e l’una tira con sé l’altra»4, allora non può darsi unità dell’esperienza senza che essa sia da noi percepita come l’unità della nostra esperienza. Se è legittimo parlare di esperienza, essa è l’esperienza di un individuo, il quale è consapevole di essere proprio lui ad avere esperienza, e non qualcun altro.

3 4

Treatise, “Appendice”, p. 635, cpv. 20; tr. it. cit., p. 663. Treatise, “Appendice”, p. 635, cpv. 20; tr. it. cit., p. 664.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

2. La questione della correlazione esistente tra unità della coscienza e consapevolezza di sé è ben nota in filosofia, e si è presentata regolarmente ogni volta che ci si è posti la domanda sul soggetto d’esperienza5. Si pensi, per esempio, alle soluzioni proposte prima di Hume da Descartes – un “io penso” che si configura come un’anima sostanziale – e in seguito da Kant – una “appercezione trascendentale”, presupposto di ogni esperienza possibile, concepita proprio in contrapposizione alla soluzione essenzialista cartesiana. Tuttavia, è caratteristica di un approccio associazionistico come quello di Hume di poter tenere separate, in linea di principio, le due domande sopra descritte: se si vuole essere fedeli a un’impostazione di tipo newtoniano, come Hume dichiara di voler fare6, non possiamo riferirci ad altro che non sia ciò che ci viene dall’esperienza, e questa ci dice che ci sono solo percezioni e nessun io, di alcun genere, che le gestisce. L’ambiguità legata allo statuto delle percezioni, descritte da Hume come vere e proprie sostanze apparentemente non bisognose di nessuno che le percepisca perché possano esistere, ha portato alcuni a cercare spiegazioni distinte: da una parte dell’unità della coscienza, dall’altra della consapevolezza di sé. Alcuni commentatori ritengono che, sebbene Hume non possa rendere conto dell’unità della coscienza – appunto perché la sua metafisica delle percezioni glielo impedirebbe –, egli possa almeno garantire una spiegazione soddisfacente della consapevolezza di sé: anche se non si può sperare di ricavare da Hume un sistema pienamente coerente, esso non si risolverebbe in una completa débâcle. Si tratta delle proposte di quegli interpreti, tra cui lo stesso Pike7, che abbracciano l’idea secondo la quale la 5 Per un ottimo inquadramento del problema, da un punto di vista sia storico sia teorico, si veda Michele Di Francesco, L’io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Milano, Raffaele Cortina, 1998. Dello stesso autore, si veda anche La coscienza, Roma-Bari, Laterza, 2000. 6 Si veda Treatise, “Introduzione”, xvii, cpv. 8; tr. it. cit., pp. 7-8. Ma si veda anche come Hume si esprime sul principio di associazione delle idee in Treatise, libro I, parte I, sez. 4, pp. 12-13, cpv. 6; tr. it. cit. pp. 24-25. 7 Oltre a Pike, Hume’s Bundle Theory of the Self: a Limited Defence, cit., cfr.

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Associazionismo o attività della mente? 

consapevolezza di sé non è altro che una percezione particolare all’interno del fascio di percezioni che costituiscono la mente. In questo modo, anche per una filosofia in cui è precluso fin dal principio l’appello a un io di qualsiasi tipo che garantisca l’unità della nostra coscienza, il fenomeno secondo cui siamo consapevoli di noi stessi troverebbe una spiegazione plausibile. Ma cosa significa affermare che una percezione è consapevole di se stessa come membro di quella serie che chiamiamo mente8? Come può una singola percezione, elemento all’interno di una serie, essere la consapevolezza che l’intera serie – cioè la mente – ha di se stessa? Sembrerebbe essere la mente nella sua totalità a dover essere consapevole di se stessa e delle diverse percezioni di cui è composta, non una sua parte. Le percezioni, da sole, sono inerti: è la mente, non le sue percezioni, a essere attiva. Se tuttavia essa non è altro che un bundle of perceptions, come può compiere un qualsiasi atto mentale? Un bundle non compie nulla9. Se è vero che una singola percezione è per sua natura passiva, perché non dovrebbe più esserlo un aggregato di percezioni? Tra una percezione e molte c’è solo una differenza di numero, non di genere. La proposta di Pike di rendere conto almeno della consapevolezza di sé come una percezione particolare tra le altre, lasciando da parte l’unità della coscienza, presenta perciò un problema: se si insiste nel volere concepire le percezioni come dei primitivi, senza alcun soggetto che le possieda, si cade in un paradosso – quello per cui esisterebbero percezioni non percepite – che vizia qualsiasi indagine successiva. Tom L. Beauchamp, Self Inconsistency or Mere Self Perplexity?, cit.; Nathan Brett, Substance and Mental Identity in Hume’s Treatise, cit.; John Biro, Hume on SelfIdentity and Memory, “Review of Metaphysics”, 30 (1976-77), pp. 19-38; Id., Hume’s Difficulties with the Self, cit. 8 A porsi questa domanda, ad esempio, è D.G.C. MacNabb, David Hume. His Theory of Knowledge and Morality, Oxford, Blackwell, 1966, pp. 146-52. 9 Si veda Barry Stroud, Hume, cit., in particolare pp. 118-40. Per A.H. Basson, David Hume, cit., pp. 125-39, invece, Hume non riuscirebbe a spiegare né la relazione delle percezioni tra loro, né le relazioni delle percezioni con l’ipotetica mente che dovrebbe percepirle.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

3. Riguardo alla soluzione che si deve dare a questo problema, si possono riconoscere due grandi linee interpretative, individuate per la prima volta da Norman Kemp Smith. A suo avviso, esse corrispondono all’influenza di due diversi autori, Isaac Newton e Francis Hutcheson, che hanno segnato profondamente il pensiero di Hume. Kemp Smith10 sostiene che le ragioni delle contraddizioni che si riscontrano nel Trattato sono da attribuirsi proprio all’incapacità di Hume di conciliare l’impostazione newtoniana – e lockeana – con quella hutchesoniana. Questa incapacità si mostrerebbe in maniera lampante proprio riguardo al problema dell’io nell’“Appendice”, dove per Kemp Smith le due differenti impostazioni entrano in conflitto. Da una parte, Hume mostra di volere spiegare i meccanismi della mente in analogia con la filosofia naturale di Newton; in questo modo, viene meno qualsiasi appello a un osservatore, perché non richiesto per la spiegazione dei processi associativi, che chiamano in causa solo percezioni. Dall’altra, mostra di riconoscere che ciò che è complesso non lo è in se stesso, ma è appreso come complesso, e qualsiasi spiegazione che faccia riferimento esclusivamente ai costituenti che sono associati non spiega come questa associazione abbia luogo. L’associazione è possibile solo perché i fattori in gioco fanno riferimento a un osservatore sempre presente; in ciò si vedrebbe il retaggio dell’insegnamento di Hutcheson, secondo il quale non si può sperare di rendere conto dei meccanismi che regolano la natura umana senza presupporre tutta una serie di istinti originari e di facoltà naturali, non ulteriormente risolvibili in qualcosa di più semplice. Questa differenza di prospettiva si fa poi evidente nel caso della credenza: quando Hume segue la linea newtoniana, la credenza è una qualità di questa o quella percezione; quando invece segue la linea hutchesoniana, la credenza non è più una qualità delle percezioni, ma una disposizione della mente, e si basa sulla differenza tra la mente in quanto osservatore e l’oggetto osservato. Secondo Kemp Smith, è l’influenza newtoniana che spiegherebbe perché Hume fa appello all’associazionismo, 10

The Philosophy of David Hume, cit., capp. II e III.

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Associazionismo o attività della mente? 41

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con tutte le difficoltà che ne conseguono. Tuttavia, a suo avviso, anche quando Hume si muove all’interno del paradigma newtoniano, è costretto a presupporre il punto di vista hutchesoniano: il principio di associazione, da solo, non porta molto lontano, e alla fine sono i concetti hutchesoniani, e non quelli newtoniani – ossia analogie biologiche e non fisiche – che si dimostrano più fondamentali. Kemp Smith conclude che l’influenza newtoniana è un fattore recessivo e non dominante della filosofia humeana; i processi della mente sono adattivi piuttosto che meccanici, e il risultato è una natura umana che si esprime attraverso gli istinti, le passioni e le affezioni, e non attraverso le operazioni dell’associazione. 4. Sulla falsariga della spiegazione di Kemp Smith, sono stati elaborati due differenti modelli all’interno dei quali far rientrare la filosofia di Hume. Il primo modello è quello che vede Hume come un pensatore esclusivamente associazionista. Secondo questo modello, egli lavora soltanto con le percezioni, che non sono precedute da nulla e rappresentano gli elementi primi della sua metafisica. Il secondo modello, invece, non vede Hume come un associazionista puro: sebbene egli parli di impressioni e idee, può farlo solo perché presuppone l’esistenza di una mente attiva, la quale si dà sia come unità della coscienza sia come consapevolezza di sé. Il modello associazionista prende alla lettera l’enunciazione che compare nel sottotitolo del Trattato: «Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali». L’ambizione di Hume sarebbe di diventare «il Newton delle scienze morali»11, elaborando una teoria dei fenomeni mentali che sia paragonabile a ciò che la teoria dell’attrazione di Newton è per gli oggetti fisici. Hume applicherebbe il metodo A nominare Hume in questo modo sono John Passmore, Hume’s Intentions, cit., p. 43; tr. it. cit., p. 146; Anthony Flew, Hume’s Philosophy of Belief, London, Routledge and Kegan Paul, 1961 p. 94; Donald W. Livingston, Hume’s Philosophy of �ommon Life, cit., p. 41. 11

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

sperimentale newtoniano allo studio della natura umana, così da farne una scienza esatta. In quest’ottica, il programma seguito da Hume può essere descritto in quattro punti12: isolare gli oggetti di analisi; condurre esperimenti, così da arrivare a un principio generale che spieghi le relazioni tra unità isolate, e quindi estendere il principio generale agli altri fenomeni. Gli oggetti di analisi sono le impressioni e le idee, cioè le percezioni; il principio generale, invece, è il principio di associazione delle idee, ossia il corrispettivo per quel che riguarda la natura umana del principio di gravitazione universale. Specificamente, il paradigma “newtoniano” ruota attorno a una considerazione ben precisa, che dipende direttamente dal Separability Principle: se A e B sono percezioni, e A e B sono distinte, allora l’esistenza di A è compatibile con la non esistenza di B. Vale a dire, l’esistenza di qualsiasi percezione è compatibile con la non esistenza di qualsiasi altra13. Tuttavia, se questo è vero, la volontà di Hume di proporsi come lo “scienziato” della natura umana, per quanto nobile, sarebbe destinata al fallimento, come emerge chiaramente proprio dal problema dell’io. Infatti, per coloro che ritengono che sia questo il modello che meglio spiega le intenzioni di Hume, il problema dell’io si risolve in sei proposizioni14, che conducono inevitabilmente a una tesi difficilNicholas Capaldi, David Hume. The Newtonian Philosopher, cit., cap. I. Nonostante il titolo del libro, Capaldi non va tuttavia arruolato – come diverrà chiaro più avanti – tra coloro che fanno proprio il modello newtoniano. 13 Si veda al riguardo quanto afferma John Bricke, Hume’s Philosophy of Mind, Princeton, Princeton University Press, 1980, cap. IV. 14 A esporre il problema dell’io attraverso queste sei proposizioni è Tom L. Beauchamp, Self Inconsistency or Mere Self Perplexity?, in un forum sull’identità personale humeana comparso in “Hume Studies”, 5 (1979), dove viene discusso Jane L. McIntyre, Is Hume Self �onsistent?, cit. Nel suo saggio, McIntyre afferma la necessità di individuare in Hume una mente continua e consapevole di se stessa, senza la quale, a suo avviso, non si può spiegare né la credenza che abbiamo in un mondo materiale né l’idea di una connessione necessaria. McIntyre la trova nella serie di collezioni di percezioni tenute insieme dalla memoria e dalle connessioni di causa ed effetto. In questo modo, si concilierebbero due fatti: che la persona è una serie di collezioni distinte di percezioni, e che è influenzata 12

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Associazionismo o attività della mente? 4

mente sostenibile: l’io è riducibile a una collezione di percezioni; l’io non è caratterizzato da nessuna identità stretta; la collezione di percezioni non dipende da niente di semplice; sia l’identità sia la semplicità sono attribuibili all’io a causa delle relazioni tra percezioni; le relazioni di somiglianza e causalità tengono insieme le percezioni; non c’è nessuna connessione reale – non associativa – o relazione tra queste percezioni che le unisca. È chiaro che, se si abbraccia questo modello, non c’è spazio per alcun io, di nessun genere. Ci sono solo le percezioni, che sono più fondamentali della mente stessa15. Lo sono a tal punto da far dire ad alcuni che Hume non solo non può avere l’idea dell’io, ma manca degli strumenti che gli permetterebbero addirittura di poter rendere conto della nostra credenza naturale nel fatto che pensiamo di avere un’idea dell’io16. Questo perché, per farlo, sarebbe necessario proprio ciò che non si possiede: un io attivo precedente le percezioni17. Cosicché altri, portando dall’esperienza passata. In polemica con McIntyre, Beauchamp afferma invece che l’unica lettura corretta della filosofia humeana è di tipo “newtoniano”, da contrapporsi a una di tipo “hutchesoniano” – Beauchamp fa dunque proprio lo spunto interpretativo di Kemp Smith – in cui si presupporrebbe l’esistenza di un io che sintetizza a favore del quale però, a suo avviso, non corrisponde alcuna evidenza testuale. Oltre a Beauchamp, a partecipare alla discussione è anche John Biro, Hume’s Difficulties with the Self, che si schiera con Beauchamp, negando che in Hume sia necessario fare ricorso a un io di qualsiasi genere: per spiegare un fenomeno come la consapevolezza di sé basterebbe riferirsi alla facoltà della memoria. Nella sua risposta, McIntyre difende le sue posizioni, argomentando che la memoria da sola non basta a tenere insieme l’io. 15 Come riconosce Waxman, Hume’s Theory of �onsciousness, cit., p. 211. 16 A Wade L. Robison in Hume on Personal Identity, “Journal of the History of Philosophy”, 12 (1974), pp. 181-93. Cfr. anche Geoffrey Scarre, What Was Hume’s Worry about Personal Identity?, “Analysis”, 43 (1983), pp. 217-21; John Haugeland, Hume on Personal Identity, in Id., Having Thought. Essays in the Metaphysics of Mind, Cambridge, Mass.-London, Harvard University Press, 1998, pp. 63-71; Donald L.M. Baxter, Hume’s Labyrinth �oncerning the Idea of Personal Identity, cit. 17 Secondo Robison, se si resta a quello che ci dice Hume, questo «io immateriale» può esserci come non esserci; il punto è che, dati i presupposti della filosofia humeana, a noi non è dato saperlo per principio, poiché non possiamo averne un’impressione – né, quindi, l’idea corrispondente. Si veda

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

alle estreme conseguenze ciò che è implicito in questa impostazione “newtoniana”, arrivano a sostenere che, proprio dalla contraddizione intrinseca al problema dell’io, emergerebbe la vera natura della filosofia humeana: non un’epistemologia, bensì una vera e propria ontologia in cui si elimina il concetto stesso di un io che conosce18. Con il risultato che la nozione stessa di conoscere qualcosa salta, e con essa le basi dell’empirismo. Una tesi senza dubbio paradossale. In “Lo scetticismo riguardo ai sensi”19, infatti, Hume afferma chiaramente che le percezioni non possono esistere non percepite. E però Hume non è Berkeley: per Hume, sebbene siamo incapaci di avere coscienza di alcunché in mancanza di percezioni, questo non ci dice nulla sulla dipendenza delle percezioni dalla coscienza20. L’esse est percipi non vale per Hume: l’assoluta indipendenza e isolamento delle percezioni da qualsiasi cosa nell’universo è concepibile dall’immaginazione. Dunque, in linea di principio, le percezioni possono esistere indipendentemente dalla coscienza21. Se si segue questa interpretazione, il valore di Hume finisce per corrispondere al suo fallimento filosofico: Hume sarebbe importante proprio per aver scoperto quello che Daniel C. Dennett chiama «il problema di Hume on Personal Identity, cit. e Hume’s Ontological �ommitments, “Philosophical Quarterly”, 26 (1976), pp. 39-47. Per una critica alla tesi di Robison, si veda Stephen Nathanson, Hume’s Second Thoughts on the Self, “Hume Studies”, 2 (1976), pp. 36-45. 18 Panayot Butchvarov, The Self and Perceptions: A Study in Humean Philosophy, “Philosophical Quarterly”, 9 (1959), pp. 97-115. A criticare Butchvarov è Robison, Hume’s Ontological �ommitments, cit. 19 Treatise, libro I, parte IV, sez. 2. 20 Si veda Waxman, Hume’s Theory of �onsciousness, cit., pp. 217-218; si veda anche Bricke, Hume’s Philosophy of Mind, cit., cap. II. 21 A differenza di Butchvarov, Waxman sostiene che Hume non ha bisogno di prendere posizione sullo statuto delle percezioni – nonostante le definisca sostanze – poiché il suo interesse è esclusivamente epistemologico e psicologico. Le percezioni sono considerate solo come dati della coscienza, ossia come ciò da cui tutte le relazioni di idee prendono l’avvio nell’immaginazione (Hume’s Theory of �onsciousness, cit., p. 220). Tuttavia, questo per Waxman non risolverebbe affatto il problema di Hume, ma lo renderebbe ancora più complicato.

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Hume»22, e andrebbe menzionato come colui che ci ha mostrato una via – un associazionismo empirista portato alle estreme conseguenze – che va conosciuta, ma solo per allontanarsene al più presto. 5. Se per coloro che fanno proprio il modello “newtoniano” non bisogna adottare alcuna nozione di una mente che conosce, per altri invece non si può spiegare l’impresa filosofica humeana se non facendo riferimento proprio a essa. Se tra i primi si arriva a sostenere che una volta dentro il sistema humeano non ha senso neanche porsi il problema se possediamo un’idea dell’io, tra i secondi si afferma invece che tutti i dilemmi che si riscontrano in Hume sono dovuti proprio al fatto che quello che egli dice rimanda a una mente attiva. Il suo problema sarebbe che, sebbene la nomini di continuo – in effetti, le citazioni che si potrebbero presentare sono davvero innumerevoli23 –, non sarebbe in grado Vale la pena citare Dennett per esteso. Dopo aver descritto la teoria dell’identità personale come fascio di percezioni, Dennett afferma che «[Hume] tentò di porre queste idee e impressioni in interazione dinamica postulando vari legami di associazione, in modo che tutte le idee che si susseguono nel flusso della coscienza fossero trascinate sulla scena da quelle che precedono grazie a questo o quel principio; e tutto ciò senza l’intervento di un supervisore intelligente. Naturalmente non funzionò: non avrebbe potuto ragionevolmente funzionare. Come è comprensibile, il fallimento di Hume è considerato un monito per ogni impresa anche lontanamente simile. Da una parte, come può una qualunque teoria psicologica giustificare rappresentazioni che comprendono se stesse? Dall’altra, come può una qualunque teoria psicologica evitare il regresso all’infinito o il circolo vizioso, se postula anche un solo interprete delle rappresentazioni, oltre alle rappresentazioni stesse?» Daniel C. Dennett, Artificial Intelligence as Philosophy and as Psychology, in Id., Brainstorms. Philosophical Essays on Mind and Psychology, Cambridge, Mass.-London, MIT Press, 1978, tr. it. di Lauro Colasanti con il titolo L’intelligenza artificiale come filosofia e come psicologia, Milano, psicologia, in Id., Brainstorms. Saggi filosofici sulla mente e la psicologia Adelphi, 1991. 23 Si consideri, a titolo di esempio, quanto Hume afferma sull’idea di connessione necessaria in Treatise, libro I, parte III, sez. 14, p. 167, cpv. 25; tr. it. cit., pp. 181-82; sulla nozione di causalità come relazione naturale in Treatise, libro I, parte III, sez. 14, p. 170, cpv. 31; tr. it. cit., p. 184; sulla credenza in Treatise, “Appendice”, da inserirsi nel libro I, parte III, sez. 7, p. 629, cpv. 7; tr. it. cit., pp. 22

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

di giustificarla24. La grande scoperta che Hume avrebbe fatto nel suo tentativo di mostrare come la conoscenza empirica possa essere spiegata facendo riferimento solo al contenuto della mente – le percezioni – è proprio che ciò non basta: non è tanto il contenuto della mente a essere davvero fondamentale, bensì la sua attività. Hume concepirebbe la mente umana a partire da principi della natura umana che precedono e organizzano l’esperienza. Essi consisterebbero in certe propensioni innate che non sono derivate dall’esperienza, ma sono il contributo originale che la mente stessa fornisce per organizzare i dati dell’esperienza. Le propensioni mentali genererebbero a loro volta disposizioni che sono alla base delle nostre idee di connessione necessaria, di sostanza, di credenza, e così via25. 111-12. Si pensi, infine, all’esempio della palla da biliardo in Treatise, “Abstract of the Treatise”, p. 652, cpv. 15; Estratto del Trattato sulla natura umana, cit., p. 82, e a quanto Hume sostiene sulle operazioni della mente in An Enquiry concerning Human Understanding (1748), a cura di Tom L. Beauchamp, OxfordNew York, Oxford University Press, 1999, sez. I, cpv. 14; tr. it. di Mario Dal Pra con il titolo Ricerca sull’intelletto umano, in David Hume, Opere, volume II, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 12. 24 Tesi questa che sottostà a tutta l’analisi che di Hume fa Barry Stroud, Hume, cit. Ma che è condivisa anche da molti altri: si pensi, ad esempio, a Kemp Smith, The Philosophy of David Hume, cit.; Passmore, Hume’s Intentions, cit.; A.H. Basson, David Hume, cit.; D.G.C. MacNabb, David Hume. His Theory of Knowledge and Morality, cit. Questa tesi è sostenuta anche da Nathanson, Hume’s Second Thoughts on the Self, cit. 25 A parlare in questi termini è Robert Paul Wolff, il cui saggio Hume’s Theory of Mental Activity, “Philosophical Review”, 69 (1960), pp. 289-310 – insieme a quello di Paul Wilson, Hume’s Theory of Mental Activity, in McGill Hume Studies, cit. pp. 101-20 – è tra i più rappresentativi della proposta di leggere positivamente Hume come il promotore di una teoria della conoscenza che abbia in una mente attiva il suo fulcro, e che farebbe di Hume un anticipatore di Kant. In polemica con Wolff, Wilson afferma invece che Hume, con Kant, non avrebbe niente a che vedere: fare leva sull’attività della mente sarebbe, a suo avviso, compatibile con l’associazionismo. È poi interessante la soluzione che del problema fornisce Martin Bell, Trascendental Empiricism? Deleuze’s Reading of Hume, in Impressions of Hume, a cura di Marina Frasca-Spada e Peter J.E. Kail, Oxford, Clarendon Press, 2005, pp. 95-106, il quale, rifacendosi all’interpretazione che di Hume dà Gilles Deleuze (Gilles Deleuze, Empirisme et subjectivité. Essai sur la nature humaine selon Hume, Paris, Presse Universitaires de France, 1953; tr. it.

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Associazionismo o attività della mente? 47

6. Si tratterebbe di un circolo vizioso: inizialmente, Hume presenta l’associazionismo empirista come il rimedio grazie al quale si può fare a meno di qualsiasi riferimento a un io da presupporsi; ma, alla fine, egli stesso si renderebbe conto che l’associazionismo, perché possa essere anche soltanto formulato in modo sensato, ha bisogno di presupporre una mente che guidi i processi dell’immaginazione, non risolvibile nelle percezioni che deve gestire. Da qui i tentativi di spiegare l’impresa humeana scovando nella sua opera un active self 26 che possa essere filosoficamente giustificato27. Tuttavia, non è detto che coloro che credono sia questa la maniera corretta di leggere Hume siano poi anche convinti che la soluzione sia a portata di mano. Al contrario: la maggior parte di essi ritiene che la scoperta di Hume vada di pari passo con la constatazione da parte sua dell’impossibilità di restare entro i limiti del suo stesso sistema. E molti di loro vedono in Kant, e nel suo idealismo trascendentale, l’esito naturale del-

di Marta Cavazza con il titolo Empirismo e soggettività, Napoli, Cronopio, 2000), afferma che Hume sarebbe il sostenitore di un «empirismo trascendentale», per cui i principi della natura umana non sarebbero derivabili dalle impressioni e dalle idee, bensì ne rappresenterebbero la sintesi. La natura umana in quanto possibile oggetto di una scienza non sarebbe a sua volta oggetto di esperienza, ma trascenderebbe la mente considerata come molteplicità di percezioni, per rivelarsi come la loro condizione di possibilità. 26 L’espressione è di Robison, Hume on Personal Identity, cit. 27 Un active self che – come è stato detto precedentemente discutendo l’interpretazione di Kemp Smith – sarebbe un lascito di Hutcheson. Che però sia effettivamente Hutcheson ad avere influenzato Hume al riguardo è stato oggi messo in discussione da Kenneth P. Winkler, “All Is Revolution in Us”: Personal Identity in Shaftesbury and Hume, cit., secondo cui le posizioni di Hume sul problema dell’io sono da ricondurre non tanto a Hutcheson, quanto piuttosto a Shaftesbury. Per una discussione sulla relazione tra Shaftesbury e Hume circa il problema dell’io, cfr. Ben Mijuskovic, Hume and Shaftesbury on the Self, “The Philosophical Quarterly”, 21 (1971), pp. 324-36; Clive M. Corcoran, Do We Have a Shaftesburean Self in the Treatise?, “The Philosophical Quarterly”, 23 (1973), pp. 67-72. Più in generale, per le notevoli differenze che esistono tra Hutcheson e Hume, soprattutto in ambito etico, si veda Eugenio Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1991, cap. III, §§ 1 e 2.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

l’intuizione geniale, sebbene ancora confusa, dello scozzese28. Quale di queste due interpretazioni è quella che meglio spiega la filosofia di Hume? Quella secondo cui essa è l’estrema formulazione di un associazionismo radicale, o quella secondo cui è una forma di protokantismo? Per i nostri scopi, la lettura associazionistica non porta da nessuna parte: essa nega in partenza qualsiasi riferimento a un io, sia in ambito conoscitivo, sia in ambito morale. L’interpretazione secondo cui Hume è consapevole di un’attività della mente precedente le percezioni appare quindi come la più promettente. Tuttavia, se ha un qualche senso tentare di battere questa strada, bisogna farlo senza vedere in Hume un kantiano ante litteram: egli è totalmente estraneo all’appercezione trascendentale, e se per rendere sensata la sua filosofia bisogna riferirsi a qualcosa del genere, tanto vale metCfr. S.C. Patten, Hume’s Bundles, Self-�onsciousness and Kant, “Hume Studies”, 11 (1976), pp. 59-75; Barry Stroud, Hume, cit., soprattutto il cap. X; Wayne Waxman, Hume’s Quandary �oncerning Personal Identity, “Hume Studies”, 18 (1992), pp. 233-53; Donald C. Ainslie, Hume’s Reflections on the Identity and Simplicity of Mind, cit. A queste conclusioni arriva anche Peter F. Strawson, Individuals. An Essay in Descriptive Metaphysics, London, Methuen, 1959; tr. it. di Ermanno Bencivenga con il titolo Individui: saggio di metafisica descrittiva, Milano, Feltrinelli-Bocca, 1978, cap. IV. Per Penelhum, Hume’s Moral Psychology, in Id., Themes in Hume, cit., pp. 127-55, la metafora del teatro è quella che meglio spiega l’idea che Hume ha della mente. Tuttavia, a suo avviso è legittimo domandarsi se Hume sia un criptokantiano, dal momento che la sua spiegazione dell’origine delle nostre credenze dipende in effetti dall’ascrizione di propensioni, tendenze e abitudini a una mente differente dalle sue percezioni. Oltretutto, l’ascrizione di propensioni alla mente è essenziale per la credenza nella sua unità. Ciononostante, Penelhum si schiera con Pike nell’affermare che le percezioni della mente possono includere quelle percezioni che costituiscono la mente stessa, senza che ci sia alcun soggetto ulteriore che sopravviene a esse: parlare di propensioni non sarebbe dunque altro che una scorciatoia per una spiegazione genuinamente “newtoniana”. Di Penelhum si consideri anche David Hume. An Introduction to His Philosophical System, Purdue University Press, West Lafayette, Indiana, 1992, cap. III. Sull’idea che Hume anticipi, in maniera più o meno felice, un’impostazione che si sarebbe affermata solo con Kant, si veda anche John Laird, Hume’s Philosophy of Human Nature, London, Methuen & Co., 1932, cap. II, § III e H.H. Price, Hume’s Theory of the External World, Oxford, Clarendon Press, 1940, capp. I e II. 28

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Associazionismo o attività della mente? 4

terla da parte e concentrarsi da subito su Kant29. L’operazione è senza dubbio ardua: se infatti si possono muovere critiche serie al modello interpretativo “newtoniano”, altrettante se ne possono fare al modello alternativo dell’attività della mente. 7. La critica classica è anche quella più evidente30: se si nomina un io di cui saremmo intimamente consapevoli – e che andrebbe presupposto perché si possa spiegare l’unità della coscienza, e quindi la capacità di distinguere noi stessi come questo fascio di percezioni specifiche dagli altri individui come fasci di percezioni differenti dal nostro – di fatto non si sta parlando d’altro che di quella sostanza semplice, continua e sempre identica a se stessa che Hume ha negato nel primo libro del Trattato. C’è chi fa notare31 che la soluzione al problema della consapevolezza di sé non comporta necessariamente che Hume debba fare appello proprio a un io metafisicamente inteso. E tuttavia deve pur riferirsi a qualcosa che compie le operazioni della mente di cui siamo consapevoli e che garantiscono unità al mentale. Ma al riguardo – si conclude – Hume non è affatto chiaro. E siccome Hume non è Kant, il problema resta. Un’altra critica che si muove ai sostenitori dell’active self è quella secondo cui in Hume non è possibile parlare di consapevolezza di sé perché non è possibile parlare di unità della coscienza. Se è vero, infatti, che i due problemi sono legati, è anche vero che, sempre stando a ciò che è riportato nell’“Appendice”, è la consapevolezza di sé a dipendere dall’unità della coscienza, e non viceversa. Ma siamo impossibilitati a dire alcunché sull’unità della coscienza perché manca un criterio per distinguere noi stessi come uno specifico fascio di percezioni, differente da tutti gli altri fasci di percezioni corrispondenti alle menti degli altri 29 Si veda al proposito quanto afferma Carlo Montaleone, L’io, la mente, la ragionevolezza. Saggio su David Hume, cit., cap. XIII. 30 Si veda Passmore, Hume’s Intentions, cit., cap. IV. Si veda anche Wayne Waxman, Hume’s Theory of �onsciousness, cit., pp. 222 e seg. 31 Terence Penelhum, Hume’s Theory of the Self Revised, cit., pp. 40-60.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

individui32. Per dirla con Penelhum33, si tratta della relazione tra un «Mental Unity Problem» e un «Individuation Problem». L’unità del mentale è ciò che angustia Hume nell’“Appendice” – Hume ha cioè un Mental Unity Problem –, ed essa dipende prima di tutto dalla soluzione dell’Individuation Problem, cioè dalla possibilità di individuarci come uno specifico io – una specifica mente – diverso da tutti gli altri. Ma – fanno notare i critici del modello dell’active self – siccome Hume è incapace di spiegarci come facciamo a distinguere tra noi e gli altri, allora è anche impossibilitato a dare una risposta soddisfacente riguardo all’unità del mentale, e con essa alla consapevolezza di sé. Anche in questo caso si osserva che tutte le percezioni sono esistenze distinte, e che esistenze distinte possono darsi l’una indipendentemente dall’altra; non è quindi possibile individuare nulla, in nessuna percezione, che ci permetta di associarla a una particolare serie di percezioni piuttosto che a un’altra. Ma allora non si capisce perché le percezioni si compongano in fasci distinti, che si presentano come io consapevoli. 8. Per alcuni34, il problema della differenza tra io e gli altri non si pone, poiché viene fatto notare che la prima cosa di cui siamo consapevoli è proprio di noi stessi. Ciò sarebbe qualcosa di assolutamente ovvio: dei pensieri di chi altri mai potremmo essere consapevoli, se non dei nostri? Pensieri impersonali, alla fine, non ce ne sono: “è pensato” finisce sempre per essere “è pensato qui ”, dove “qui” non è altro che l’io35. Tuttavia, Hume non sarebbe in grado di rendere conto di una simile ovvietà36. Per David Pears, 32 Cfr. Barry Stroud, Hume, cit., cap. VI; Wade L. Robison, In Defence of Hume’s Appendix, cit.; David Pears, Questions in the Philosophy of Mind, cit., pp. 207-23; Id., Hume on Personal Identity, cit.; Don Garrett, Hume Self-Doubts about Personal Identity, cit.; Id., �ognition and �ommitment in Hume’s Philosophy, cit., cap. VIII. 33 Terence Penelhum, Hume’s Theory of the Self Revised, cit. 34 D.G.C. MacNabb, David Hume. His Theory of Knowledge and Morality, cit.; John Biro, Hume on Self-Identity and Memory, cit. e Hume’s Difficulties with the Self, cit.; Nathan Brett, Substance and Mental Identity in Hume’s Treatise, cit. 35 Si veda Bernard Williams, Descartes. The Project of Pure Enquiry, Harmondsworth, Penguin Books, 1978, pp. 95-101. 36 A.H. Basson, David Hume, cit.; Wade L. Robison, Hume on Personal Identity,

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Associazionismo o attività della mente? 51

ad esempio, non c’è dubbio che quando ho una percezione so di essere io ad averla. Se ho una percezione essa è logicamente mia: il legame che esiste tra una percezione e colui che la ha è concettuale, non si tratta di qualcosa che viene scoperto in seguito a un’indagine empirica37. A suo avviso, il problema è che, per spiegare la nostra consapevolezza di possedere delle percezioni, Hume non segue la strada del “io sento, dunque è mio”, bensì quella di cercare di illustrare questa consapevolezza riferendosi esclusivamente alle relazioni contingenti tra percezioni. Pears aggiunge che il solo modo che Hume avrebbe di uscire dal vicolo cieco in cui si è spinto sarebbe quello di chiamare in causa il corpo per l’identificazione della persona38. Ma siccome – egli continua – Hume rende conto dell’io solo in termini di mente, allora il corpo non può essere preso in considerazione, e perciò è impossibilitato a dare un resoconto soddisfacente della consapevolezza che la mente ha della propria attività. Inoltre, sembra impossibile condurre l’indagine della mente riferendosi a un io attivo non soltanto perché non si fa alcun riferimento al corpo, ma anche per un’altra ragione. Hume usa due criteri differenti e apparentemente inconciliabili39. Da una parte, adotta il criterio dell’introspezione, che lo porta a interrogarsi sul contenuto della mente da un punto di vista in prima persona; questa prospettiva presuppone necessariamente che ci sia, in partenza, un io che si osserva e si giudica. Dall’altra, invece, la mente è esaminata come qualsiasi altro oggetto in natura, da un punto di

cit. A notarlo è anche John Laird, Hume’s Philosophy of Human Nature, cit., cap. V, in particolare pp. 169-74. 37 David Pears, Questions in the Philosophy of Mind, cit., pp. 207-23 e Hume on Personal Identity, cit. Di Pears si veda anche Hume’s System. An Examination of the First Book of His Treatise, Oxford-New York, Oxford University Press, 1990, cap. IX, in particolare pp. 144 e 151. Pears ribadisce la sua tesi in Hume’s Recantation of His Theory of Personal Identity, “Hume Studies”, 30 (2004), pp. 257-64. 38 Si veda anche John Bricke, Hume’s Philosophy of Mind, cit., cap. V. Questa è la stessa critica che muove a Hume Peter F. Strawson, Individuals, cit., capp. III e IV. 39 Si veda Barry Stroud, Hume, cit., cap. VI.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

vista in terza persona; l’esito di quest’ultima analisi è quanto egli dice sull’identità personale, per cui la mente si risolve nelle sue percezioni. Se però questo è vero, qualsiasi appello all’introspezione naufraga. Delle due una. Se si ritiene che il metodo di Hume sia quello dell’introspezione, allora andrà effettivamente presupposta una mente attiva; ma non si comprende come sia possibile giustificarla restando all’interno della sua filosofia. Se, invece, è l’ottica in terza persona a essere privilegiata, allora non ha alcun senso riferirsi all’introspezione, perché non c’è nessuno che possa metterla in atto; in questo caso – poiché di fatto Hume non rinuncia, nel Trattato, a questo metodo di indagine – si dovrà concludere che tutta l’opera di Hume è, in definitiva, inconcludente40.

Secondo S.C. Patten, Hume’s Bundles, Self-�onsciousness and Kant, cit., l’errore di Hume sarebbe proprio quello di non essere riuscito a capire le implicazioni implicite nella prospettiva in prima persona: se Hume avesse riflettuto su di essa, e non fosse passato di continuo da questa prospettiva a quella in terza persona, sarebbe probabilmente giunto a una giustificazione della consapevolezza che l’io ha di se stesso come soggetto unitario, anticipando Kant. A leggere lo sviluppo del dibattito sull’identità personale, e sul problema dell’io, alla luce del confronto tra coloro che mettono l’accento su un’indagine scientifica in terza persona e coloro che affermano l’indispensabilità e l’irriducibilità del punto di vista in prima persona è Michele Di Francesco, L’io e i suoi sé, cit. Secondo Di Francesco, Hume adotta una posizione mediana, che fa di quella humeana una proposta irrisolta. 40

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IV Una nuova prospettiva

1. Da quanto è stato esposto sembrerebbe che, qualsiasi sia la chiave di lettura che si decida di adottare per interpretare Hume, si debba concludere che la sua proposta non sta in piedi: il problema dell’io, restando all’interno della sua filosofia, sembra destinato a rimanere irrisolto. Tuttavia, ciò che salta immediatamente all’occhio quando si passa da quello che Hume dice sull’intelletto, nel libro primo del Trattato, a quello che dice sulle passioni, nel libro secondo, e sulla morale e la politica, nel terzo, è proprio il fatto che egli reintroduce l’io. A lasciare stupefatti non è soltanto che l’io rifaccia la sua comparsa, ma anche che venga presentato come qualcosa di cui avremmo una consapevolezza diretta1: qualcosa, cioè, che sembra corrispondere esattamente a ciò di cui Hume si è impegnato con tanto zelo a negare l’esistenza. Qual è la spiegazione di questa apparente contraddizione? Senza dubbio, una consapevolezza diretta dell’io va contro l’interpretazione associazionista radicale: Hume, infatti, parla in termini chiari di qualcosa la cui certezza è per noi talmente palese da bastarci per distinguerci come singoli individui differenti 1 Si considerino al riguardo i seguenti passi: Treatise, libro II, parte I, sez. 2, p. 277, cpv. 2; tr. it. cit., p. 291; Treatise, libro II, parte I, sez. 11, p. 317, cpv. 4; tr. it. cit., p. 333; Treatise, libro II, parte II, sez. 2, p. 339, cpv. 15; tr. it. cit., p. 355; Treatise, libro II, parte II, sez. 2, p. 340, cpv. 16; tr. it. cit., p. 356; Treatise, libro II, parte II, sez. 4, p. 354, cpv. 7; tr. it. cit., p. 371; Treatise, libro II, parte III, sez. 7, p. 427, cpv. 1; tr. it. cit., p. 449.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

da tutti gli altri. Non si tratta più di un fascio di percezioni, né la consapevolezza in questione consiste in una particolare percezione all’interno di un flusso più ampio. Ciò a cui Hume fa riferimento è un tutto coeso: siamo consapevoli di un io semplice. Di quell’io di cui, stando all’“Appendice”, non si può rendere conto. Se il modello secondo il quale le entità fondamentali sono le percezioni è corretto, l’affermazione di Hume non si spiega. Oltretutto, egli non dice soltanto che abbiamo l’idea dell’io, bensì anche l’impressione corrispondente: «[è] evidente che l’idea, o piuttosto l’impressione di noi stessi, ci è sempre intimamente presente»2. Ma non è proprio la mancanza di un’impressione dell’io l’argomento principale che utilizza per attaccare la nozione di identità personale? Difficilmente si può sostenere che ci si trovi di fronte a una semplice svista, poiché Hume si ripete più volte. Si può invece credere che si stia semplicemente sbagliando. D’altronde, è esattamente questa l’ipotesi di coloro che privilegiano il primo libro del Trattato: le tesi sostantive di Hume sarebbero espresse lì, e se ciò che segue le contraddice, questo è il segno dell’incongruenza di tutto il sistema. Coloro che vanno alla ricerca di una mente attiva, invece, trovano nelle affermazioni humeane una conferma della loro ipotesi: l’attività mentale non può darsi se non nella forma di un’attività mentale cosciente, di un soggetto consapevole di essere lui quello che, di volta in volta, pensa, crede, immagina, si sbaglia, eccetera. Il problema, come è ormai chiaro, è che sebbene questa consapevolezza appaia non solo ovvia, ma imprescindibile dall’atto stesso del pensare, non sembra trovare spazio nel sistema humeano. 2. Stando a quanto Hume scrive nel primo libro del Trattato, sembrerebbe essere proprio così. Tuttavia, si tenga presente che già qui Hume distingue nettamente tra due sensi differenti in cui si può intendere l’identità personale: «dobbiamo distinguere fra l’identità personale in quanto riguarda il pensiero o l’immaginazione e in quanto riguarda le passioni o l’interesse 2

Treatise, libro II, parte I, sez. 11, p. 317, cpv. 4; tr. it. cit., p. 333.

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Una nuova prospettiva 55

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che prendiamo a noi stessi. Qui si parla soltanto della prima»3. La consapevolezza di sé viene chiamata in causa e discussa nel secondo libro del Trattato, dove ricopre un ruolo fondamentale nella spiegazione della struttura delle passioni degli esseri umani. A partire dalla sua psicologia sentimentalistica, Hume espone le dinamiche che regolano le interazioni tra individui da un punto di vista morale. Ora, piuttosto che interpretare quanto Hume afferma – e lo fa, senza mostrare alcun dubbio, per due interi libri, il secondo e il terzo del Trattato – come un unico grosso errore, molti interpreti, soprattutto negli ultimi venti anni, hanno dato credito alle spiegazioni proposte da Hume, e leggono la sua filosofia in maniera diversa rispetto a quella tradizionale. Questi autori sono accomunati dall’idea di ribaltare l’ordine di ciò che ha importanza nel pensiero di Hume: è a partire dalla spiegazione di una natura umana che si esprime primariamente nell’attività pratica di un soggetto passionale che trovano soluzione i problemi più specificamente teoretici; e non il contrario, come ritengono tutti coloro che fino a oggi hanno abbracciato la prospettiva riconducibile alla Reid-Beattie Interpretation. Tradizionalmente, si è dedicata scarsa attenzione alla valenza che la descrizione e il funzionamento delle passioni hanno all’interno delle spiegazioni humeane della natura umana. Alla dimensione sentimentale veniva riconosciuto un ruolo esplicativo esclusivamente all’interno degli ambiti morale e politico; un ruolo guardato con sospetto poiché, tenendo presente ciò che Hume afferma in ambito teoretico-intellettuale, non troverebbe alcuna giustificazione. Viceversa, oggi sono in molti a ritenere che la spiegazione dei meccanismi che contraddistinguono la dimensione sentimentale sia imprescindibile per la comprensione della filosofia humeana nel suo complesso: le passioni non sarebbero sussidiarie rispetto all’immaginazione e all’intelletto, ma ne costituirebbero le basi. Secondo questa nuova corrente interpretativa, il Trattato non è un collage di parti autonome, leggibili separatamente e tenute insieme senza alcuna logica, bensì 3

Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 253, cpv. 5; tr. it. cit., 265.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

un mosaico in cui i vari tasselli contribuiscono a formare una figura unica. Ciò che viene prima si chiarisce solo alla luce di ciò che segue, per acquistare un ruolo all’interno di un sistema coerente. Pertanto, se si vuole avere una risposta sui dubbi teoretici espressi da Hume nelle parti iniziali, si deve procedere nella lettura: il Trattato – che può essere innalzato a paradigma esaustivo di tutta la filosofia di Hume –, è comprensibile solo se lo si osserva nella sua completezza. 3. Citiamo, a titolo di esempio, alcuni tra i casi più significativi. Già Norman Kemp Smith4, negli anni quaranta del ventesimo secolo, mostra come sia insufficiente limitarsi ai temi trattati nel primo libro del Trattato – e nella prima Ricerca – per spiegare il progetto di Hume. Come è stato già accennato, Kemp Smith sottolinea i legami esistenti tra la filosofia di Hume e quella di Hutcheson, e in questo modo interpreta Hume come un naturalista, i cui interessi principali riguardano soprattutto tematiche etiche, da risolversi non attraverso l’appello alla ragione, bensì all’istinto e ai sentimenti5. Secondo l’interpretazione di Kemp Smith, Hume non sarebbe affatto uno scettico, ma, al contrario, il suo scopo principale sarebbe proprio quello di rispondere agli attacchi che pensatori come Thomas Hobbes e Bernard Mandeville avevano mosso in campo morale. Se con Kemp Smith si rompe l’egemonia della Reid-Beattie Interpretation, e il secondo e il terzo libro del Trattato tornano a essere considerati importanti, con Páll S. Árdal6 essi diventano centrali. Egli è il primo a dedicare un intero saggio esclusivamente alle tematiche ivi espresse. Con Árdal ci si sposta dall’esame dell’intelletto a quello dei sentimenti e delle passioni: sono questi ultimi a rappresentare il fulcro su cui si regge l’intero sistema, ed è riferendosi a essi che The Philosophy of David Hume, cit. Una tesi che Kemp Smith aveva già anticipato in The Naturalism of Hume, “Mind”, 14 (1905), pp. 149-73, 335-47. 6 Páll S. Árdal, Passion and Value in Hume’s Treatise, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1966. 4

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Una nuova prospettiva 57

vanno inquadrati i problemi fondamentali che Hume si pone. A partire dagli anni ottanta, il suggerimento di Árdal viene accolto con sempre maggiore favore. Stephen D. Hudson7 incentra le proprie critiche all’etica contemporanea proprio a partire dalle riflessioni humeane sulle passioni. Leggendo Hume come un sentimentalista, Hudson lo utilizza nella sua valenza positiva di pensatore che ha elaborato risposte originali ed efficaci per fare luce sulla maggior parte dei problemi che oggi contraddistinguono la riflessione morale. Annette C. Baier8, invece, innalza la dimensione sentimentale a unica vera chiave di lettura di Hume. Anche per lei, non ha senso leggere il Trattato come se fosse composto di tre libri separati e indipendenti l’uno dall’altro, perché esso può essere correttamente compreso solo come un tutto. Prima della Baier, già Donald W. Livingston9 argomenta che il Trattato va visto come un «dramma filosofico», in cui le parti precedenti acquistano significato solo alla luce degli sviluppi successivi, secondo un ritmo di tipo squisitamente dialettico. A sua volta, Nicholas Capaldi10 sottolinea come la grandezza di Hume non stia tanto nel suo innegabile newtonianesimo, quanto piuttosto in quella «rivoluzione copernicana» che opera nei libri secondo e terzo del Trattato, e quindi nelle due Ricerche. Secondo Capaldi, Hume non è affatto un Kant non ancora maturo, ma ne eguaglia il valore, se addirittura non lo supera: la sua “rivoluzione” consiste nel passaggio da una filosofia concepita come pura indagine teoretica del mondo esterno da parte di un soggetto isolato, a una filosofia concepita come attività pratica esercitata da individui in carne e ossa, passionalmente determinati, che si relazionano l’uno con l’altro. 7 Stephen D. Hudson, Human �haracter and Morality. Reflections from the History of Ideas, London, Routledge and Kegan Paul, 1986. 8 Della ricca produzione di Baier sulla filosofia di Hume, si veda in particolare A Progress of Sentiments. Reflections on Hume’s Treatise, Treatise Cambridge, Mass.-London, Harvard University Press, 1991. 9 Hume’s Philosophy of �ommon Life, cit. 10 Sia in David Hume. The Newtonian Philosopher, cit., sia soprattutto in Hume’s Place in Moral Philosophy, New York, Peter Lang, 1992.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

4. Facendo propri i presupposti di questo diverso modo di accostarsi alla filosofia di Hume – la centralità del sentimentalismo nelle spiegazioni che egli dà di tutti i fenomeni della natura umana; la consapevolezza che il suo pensiero va visto come un sistema in cui le diverse parti si tengono reciprocamente –, in molti si sono impegnati a fornirne una soluzione plausibile in particolare del problema dell’io11. Seguendo percorsi diversi tra 11 Elenchiamo qui una serie di interventi che vanno in questa direzione, e che saranno presi in considerazione nei capitoli seguenti. Degli autori sopra nominati, si tengano presenti soprattutto Hudson, Livingston, Baier e Capaldi. Di alcuni di essi, oltre ai testi già citati, si tengano presenti anche i seguenti: di Annette C. Baier Hume on Heaps and Bundles, “American Philosophical Quarterly”, 16 (1979), pp. 285-95 e Hume’s Account of Our Absurd Passions, “Journal of Philosophy”, 79 (1982), pp. 643-51; di Nicholas Capaldi Hume as Social Scientist, “Review of Metaphysics”, 32 (1978-79), pp. 99-123 e The Historical and Philosophical Significance of Hume’s Theory of the Self, cit. Si considerino quindi: di Donald C. Ainslie Scepticism about Persons in Book II of Hume’s Treatise, “Journal of the History of Philosophy”, 37 (1999), pp. 469-92, Sympathy and the Unity of Hume’s Idea of Self, in Persons and Passions. Essays in Honor of Annette Baier, a cura di Joyce Jenkins, Jennifer Withing e Christopher Williams, Notre Dame, In., University of Notre Dame Press, 2005, pp. 143-73, �haracter Traits and the Humean Approach to Ethics, in Moral Psychology (Poznan´ Studies in the Philosophy of the Sciences and the Humanities, vol. 94), a cura di Sergio Tenenbaum, Amsterdam-New York, Rodopi, 2007, pp. 79-110; di John Bricke Hume’s �onception of �haracter, “Southwestern Journal of Philosophy”, 5 (1974), pp. 107-13; di Pauline Chazan Pride, Virtue and Self-Hood: A Reconstruction of Hume, “Canadian Journal of Philosophy”, 22 (1992), pp. 45-64 e The Moral Self, LondonNew York, Routledge, 1998; di Robert S. Henderson David Hume on Personal Identity and the Indirect Passions, cit.; di Eugenio Lecaldano L’io, il carattere, e la virtù nel Trattato di Hume, cit., The Passions, �haracter and the Self in Hume, “Hume Studies”, 28 (2002), pp. 175-93 e Soggetto morale e identità personale dalla prospettiva del sentimentalismo humeano, cit.; di Clarence Shole Johnson Hume’s Theory of Moral Responsibility: Some Unresolved Matters, “Dialogue”, 31 (1992), pp. 3-18; di Jane L. McIntyre Personal Identity and the Passions, “Journal of the History of Philosophy”, 27 (1989), pp. 545-57 e �haracter. A Humean Account, “History of Philosophy Quarterly”, 7 (1990), pp. 193-206; di Terence Penelhum, Self-Identity and Self-Regard, The Self of Book I and the Selves of Book II e Hume, Identity and Selfhood, tutti raccolti in Id., Themes in Hume, cit., pp. 61-87, 88-98, 99-126; di Susan M. Purviance The Moral Self and the Indirect Passions, “Hume Studies”, 23 (1997), pp. 195-212; di Amélie Oksenberg Rorty Pride Produces the Idea of Self: Hume on Moral Agency, “Australasian Journal of Philosophy”,

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Una nuova prospettiva 5

loro, questi interpreti sono giunti alla conclusione che nel libro secondo del Trattato, e poi nel terzo, Hume introduce qualcosa di fondamentalmente nuovo: esaminando la struttura passionale degli esseri umani, e costruendo su di essa la sua etica, avrebbe scoperto qualcosa che, se si resta nella prospettiva del primo libro del Trattato, semplicemente non si può vedere. Come verrà chiarito più avanti, le opinioni al riguardo sono in realtà varie: alcuni ritengono che ciò di cui Hume parla nei libri secondo e terzo sia sganciato dalle problematiche espresse nel primo libro; mentre altri presentano le tesi sull’io espresse in ambito passionale come un’estensione del dibattito sull’identità personale, e quindi come la tanto anelata soluzione dei dubbi dell’“Appendice”. In ambedue i casi, tuttavia, ciò che emerge è che se ha un senso parlare di un active self in Hume, esso si contraddistingue prima di tutto in termini sentimentali. Ma c’è di più: questo io passionale si realizza compiutamente in termini morali. La spiegazione dell’etica di Hume getta le sue radici nelle passioni; a sua volta, la dimensione passionale non è mai neutra ma, come si vedrà, non può prescindere dalla dimensione morale. Se però questo è vero, quando si parla di un io attivo non si può che farlo in termini non intellettuali, bensì passionali e quindi morali. Hume si rivela essere un filosofo né associazionista in senso stretto, né proto-kantiano. Egli crede che la mente umana sia attiva, ma si tratta di un’attività non raffigurativa, bensì passionale, immaginativa e creativa. Le passioni spiegano tutta l’attività della mente, compreso l’io; e la creatività non ha niente a che vedere con la ragione, ma è il frutto degli istinti di una natura umana sentimentalmente caratterizzata. In quanto segue si prendono le mosse da questa ipotesi. Per spiegare cos’è l’io morale secondo Hume, si deve guardare oltre il primo libro del Trattato, 68 (1990), pp. 255-69; di Gordon Park Stevenson, Humean Self-�onsciousness Explained, “Hume Studies”, 24 (1998), pp. 95-129; di Kenneth P. Winkler, “All Is Revolution in Us”: Personal Identity in Shaftesbury and Hume, cit.; di John P. Wright, Butler and Hume on Habit and Moral �haracter, in Hume and Hume’s �onnexions, a cura di M.A. Stewart e John P. Wright, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1994, pp. 105-18.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

e invertire la direzione dell’indagine: non è il piano teoretico a reggere quello pratico, ma l’inverso. È necessario allora affrontare nuovamente le questioni precedentemente sollevate, riferendoci questa volta al nuovo contesto in cui Hume reintroduce l’io: quello delle passioni.

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Parte seconda L’io e le passioni

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V Orgoglio e umiltà

1. Hume presenta la sua classificazione delle passioni nella parte prima del secondo libro del Trattato. Le passioni sono un sottoinsieme del gruppo più ampio delle impressioni che egli chiama secondarie, o di riflessione. Ripercorriamo sommariamente la tassonomia humeana. Hume comincia dalla constatazione che gli esseri umani hanno esperienza di percezioni, le quali si dividono in impressioni e idee. Le prime, a loro volta, si distinguono in impressioni originali, o di sensazione, ossia «quelle che sorgono nell’anima, senza che alcuna percezione le preceda, dalla costituzione del corpo, dagli spiriti animali, o dal contatto di oggetti con organi esterni»1 – in questo caso ci troviamo di fronte alle impressioni dei sensi e ai piaceri e dolori corporei –, e in impressioni secondarie, o di riflessione, ossia «quelle che provengono da alcune di quelle originarie, o direttamente o per il frapporsi delle loro idee»2. Le passioni «e le altre emozioni che a esse rassomigliano»3 rientrano in questa categoria: le passioni sono dunque, nella terminologia humeana, delle impressioni di riflessione. Esse sono ulteriormente suddivise in calme – «il senso del bello e del brutto in un’azione, in

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Treatise, libro II, parte I, sez. 1, p. 275, cpv. 1; tr. it. cit., p. 289. Treatise, libro II, parte I, sez. 1, p. 275, cpv. 1; tr. it. cit., p. 289. Treatise, libro II, parte I, sez. 1, p. 275, cpv. 1; tr. it. cit., p. 289.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

una composizione e negli oggetti esterni»4 – e violente – amore e odio, orgoglio e umiltà, gioia e dolore. Una distinzione tra passioni calme e violente che, secondo Hume, è ben lungi dall’essere accurata, poiché è frequente che una passione calma si muti in violenta, e viceversa. A rigor di termini, poi, sono da chiamarsi «passioni» soprattutto quelle violente, le quali sono o dirette – cioè dipendenti immediatamente dal bene e dal male, dal piacere e dal dolore, come «desiderio, avversione, tristezza, gioia, speranza, paura, disperazione e senso della tranquillità»5 – o indirette – «quelle che discendono dagli stessi principi, ma in unione con altre qualità»6. Orgoglio e umiltà, amore e odio, sono di quest’ultimo tipo7. 2. È con l’orgoglio e l’umiltà che l’io passionale fa la sua comTreatise, libro II, parte I, sez. 1, p. 276, cpv. 3; tr. it. cit., p. 290. Treatise, libro II, parte I, sez. 1, p. 277, cpv. 4; tr. it. cit., p. 291. 6 Treatise, libro II, parte I, sez. 1, p. 276, cpv. 4; tr. it. cit., pp. 290-91. 7 Questo stando a quello che dice letteralmente il testo humeano. A seguire questa classificazione è James Fieser, Hume’s �lassification of the Passions and Its Precursors, “Hume Studies”, 18 (1992), pp. 1-17. Della tassonomia delle passioni di Hume esistono, tuttavia, molte interpretazioni. Si vedano, ad esempio, quelle offerte da Norman Kemp Smith, The Philosophy of David Hume, cit. e Páll S. Árdal, Passion and Value in Hume’s Treatise, cit. Cfr. anche Nicholas Capaldi, David Hume. The Newtonian Philosopher, cit.; Louis E. Loeb, Hume’s Moral Sentiments and the Structure of the Treatise, “Journal of the History of Philosophy”, 15 (1977), pp. 395-403; Luigi Turco, Lo scetticismo morale di David Hume, Bologna, Clueb, 1984. Per quanto riguarda le passioni dell’orgoglio e dell’umiltà, cfr. Clotilde Calabi, Passioni e ragioni. Un itinerario nella filosofia della psicologia, Milano, Guerini Studio, 1996, parte I; Marco Pascucci, David Hume e la passione dell’orgoglio, “Rivista di filosofia”, 84 (1993), pp. 131-47; Alessandra Attanasio, Gli istinti della ragione. �ognizioni, motivazioni, azioni, nel Trattato della natura umana di Hume, Napoli, Bibliopolis, 2001, cap. VI. Infine, si consideri Arthur O. Lovejoy, Reflections on Human Nature, Baltimore, The Johns Hopkins Press, 1961. Lovejoy, esaminando il modo in cui l’orgoglio è stato trattato nel corso della storia della filosofia – soprattutto nei secoli diciassettesimo e diciottesimo – mostra come questa passione si sia sempre trovata, più o meno consapevolmente, al centro della riflessione etica. Per una presentazione generale delle passioni secondo Hume, si veda Lilli Alanen, Powers and Mechanisms of the Passions, in The Blackwell Guide to Hume’s Treatise, cit., pp. 179-98. 4

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parsa. Caratteristica di queste passioni è di essere l’una piacevole, l’altra dolorosa, e di avere sia una causa che le suscita – una causa piacevole per l’orgoglio, una dolorosa per l’umiltà – sia un oggetto a cui si rivolgono: l’idea dell’io. Si tratta di una doppia relazione tra impressioni e idee 8. Quando l’idea di qualcosa di piacevole o doloroso, che ha una certa relazione con noi, viene avvicinata all’idea che abbiamo di noi stessi, si genera una nuova impressione: la passione dell’orgoglio se la causa è piacevole, quella dell’umiltà se è dolorosa9. La genesi di orgoglio e umiltà si spiega, dunque, come una duplice relazione di idee – l’idea della causa da una parte, l’idea dell’oggetto dall’altra – e di impressioni – l’impressione piacevole o dolorosa che ci viene dalla considerazione di una certa cosa (la causa) per se stessa, e l’impressione piacevole o dolorosa che proviamo nel constatare che essa è in relazione con noi (l’oggetto). Hume ci dice che le cause possono essere le più disparate: dalle qualità della mente, come «arguzia, buon senso, cultura, coraggio, giustizia, integrità», a quelle del corpo, ad esempio «bellezza, forza, agilità, portamento, abilità nel danzare, cavalcare, tirar di scherma, o [...] destrezza in qualsiasi attività o lavoro manuale»; ma anche «[l]a nostra patria, famiglia, figli, parenti, ricchezze, case, giardini, cavalli, cani, abiti»10. L’importante è che intrattengano una qualche relazione con noi. Al contrario, l’oggetto dell’orgoglio e dell’umiltà, «sebbene passioni direttamente contrarie l’una all’altra», è sempre il medesimo: «[q]uesto oggetto è l’io, ovvero quella successione di idee e di

Treatise, libro II, parte I, sez. 5. Come hanno giustamente notato Páll S. Árdal, Passion and Value in Hume’s Treatise, cit., p. 34; Terence Penelhum, Self-Identity and Self-Regard, cit.; Eugenio Lecaldano, Soggetto morale e identità personale dalla prospettiva del sentimentalismo humeano, cit.; David Wiggins, Ethics. Twelve Lectures on the Philosophy of Morality, London, Penguin, 2006, p. 84, sebbene il termine utilizzato da Hume per indicare la passione contraria all’orgoglio sia «umiltà», tuttavia, dato il modo in cui egli ne descrive il funzionamento, essa corrisponde in verità alla passione della vergogna. Ciononostante, si continuerà a utilizzare la terminologia humeana. 10 Treatise, libro II, parte I, sez. 2, p. 279, cpv. 5; tr. it. cit., p. 293. 8

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

impressioni correlate di cui abbiamo intimamente memoria e consapevolezza»11. 3. Cos’è questo io a cui Hume si riferisce? Egli afferma che esso è l’oggetto della passione dell’orgoglio e dell’umiltà; ma cosa significa in questo caso “oggetto”? Si tratta effettivamente di qualcosa che può essere percepito così come lo sono gli oggetti esterni? Si tratta di qualcosa che può essere conosciuto? Se il problema si ponesse in questi termini saremmo al punto di partenza: staremmo riferendoci alla mente di cui si è parlato nel primo libro del Trattato, con tutti i problemi che essa si porta con sé. È però lo stesso Hume a sostenere che tra l’indagine del primo libro e quella del secondo c’è differenza. Ci troviamo di fronte a un’entità semplice e continua che saremmo in grado di cogliere non per via intellettuale, bensì per via passionale? Hume sosterrebbe che con le passioni trova spazio ciò che invece l’intelletto ci preclude? No, poiché l’oggetto dell’orgoglio e dell’umiltà è anch’esso presentato come «quella successione di idee e di impressioni correlate di cui abbiamo intimamente memoria e consapevolezza»12. Accusare Hume del fatto che l’io passionale corrisponda alla sostanza rifiutata precedentemente sembra quindi scorretto, poiché egli dice chiaramente che non è così. Ciononostante, sebbene sostenga di non volersi riferire ad alcun io sostanziale, si potrebbe ancora obiettare che un io così concepito sia comunque necessario perché l’impianto delle passioni regga. Infatti, nella spiegazione humeana, quando proviamo orgoglio o umiltà, non è a un insieme di percezioni che ci riferiamo, ma a qualcosa di semplice, a un io non riducibile in parti. È vero che Hume presenta l’io oggetto di orgoglio e umiltà come una serie di idee e di impressioni di cui abbiamo coscienza, ma nella dinamica di queste passioni non sono delle semplici percezioni a fare il lavoro, bensì un io di cui siamo vivamente consapevoli. Hume, discutendo dell’oggetto di orgoglio 11 12

Treatise, libro II, parte I, sez. 2, p. 277, cpv. 2; tr. it. cit., p. 291. Treatise, libro II, parte I, sez. 2, p. 277, cpv. 2; tr. it. cit., p. 291.

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e umiltà, non ne parla affatto come se si trattasse di una serie, ma si riferisce piuttosto a «quella particolare persona delle cui azioni e sentimenti ciascuno di noi è intimamente conscio»13. In questo, non fa altro che seguire il senso comune: quando ci interroghiamo su chi sia a provare sentimenti, emozioni e passioni, la risposta che diamo normalmente è “un individuo”, non “un bundle of perceptions”14. D’altronde, come può una successione di qualsiasi cosa provare alcunché? Si ricorderà che una delle critiche che erano state espresse, discutendo dell’attività della mente, era che se la mente non è altro che un fascio di percezioni, non si spiega come possa concepire una qualsiasi cosa, poiché un bundle non concepisce nulla. Se questo è vero, lo stesso rilievo può essere sollevato anche in sede passionale: così come un fascio di percezioni è incapace di concepire, perché mai dovrebbe poter sentire? Concepire e sentire hanno ambedue bisogno di qualcuno che concepisca e senta; e un fascio di percezioni non è qualcuno. Ecco allora che anche in sede passionale si ripresentano dubbi molto simili a quelli che erano emersi in ambito intellettuale. Tra l’altro, come fa notare John Passmore, Hume sembrerebbe fare una confusione grave15. Da una parte, afferma che le passioni di orgoglio e umiltà «producono» l’idea dell’io, come una causa produce il suo effetto16. Dall’altra, sostiene che l’orgoglio o l’umiltà ci fanno concentrare lo sguardo su noi stessi, e in questo modo «ci muovono»17. In questo secondo senso l’io non è affatto Treatise, libro II, parte I, sez. 5, p. 286, cpv. 3; tr. it. cit., p. 300. Si veda al proposito Donald C. Ainslie, Scepticism about Persons in Book II of Hume’s Treatise, cit. Anche Robert S. Henderson, David Hume on Personal Identity and the Indirect Passions, cit., sottolinea come nella spiegazione humeana di orgoglio e umiltà – e di amore e odio – si debba fare riferimento a una persona che persiste affinché il meccanismo funzioni. Al riguardo, si veda anche Terence Penelhum, The Self of Book I and the Selves of Book II, cit., e Hume, Identity and Selfhood, cit. 15 John Passmore, Hume’s Intentions, cit., pp. 126-27; tr. it. cit., p. 236. Si veda anche Terence Penelhum, Self-Identity and Self-Regard, cit. 16 Treatise, libro II, parte I, sez. 5, p. 287, cpv. 6; tr. it. cit., p. 301. 17 Treatise, libro II, parte I, sez. 2, p. 277, cpv. 2; tr. it. cit., p. 291. 13

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

un oggetto causato dalle due passioni, bensì è qualcosa che le precede e che ci viene rivelato da esse. Da ciò Passmore deduce che esiste uno scollamento in Hume tra la sua epistemologia e la sua teoria delle passioni. E siccome Passmore è uno dei fautori della tesi che sia la prima a fornire le basi di tutta la costruzione teorica humeana, conclude che la teoria delle passioni va respinta, e con essa l’io che vi è descritto. 4. La chiave per uscire da questa impasse si trova proprio nel meccanismo dell’orgoglio e dell’umiltà. Certo, Hume lo spiega riferendosi a una causa che lo genera e a un oggetto a cui si rivolge; egli, cioè, ce lo presenta come qualcosa di composito, le cui parti intervengono successivamente a realizzare quell’impressione di riflessione indiretta – nel caso dell’orgoglio prima la causa, poi la considerazione che essa è piacevole, quindi la realizzazione che essa è in relazione con la nostra idea dell’io, e infine la passione dell’orgoglio. Tuttavia, Hume sottolinea chiaramente come, in realtà, orgoglio e umiltà non consistano affatto in qualcosa di complesso: essi «sono impressioni semplici e uniformi», di cui «è impossibile riuscire a darne, come del resto per tutte le altre passioni, una precisa definizione». Tutto quello a cui si può aspirare è «a darne una descrizione, enumerando le circostanze che le accompagnano: ma dal momento che queste parole, orgoglio e umiltà, sono di uso generale, e che le impressioni da esse rappresentate sono più che comuni, chiunque potrà formarsene da sé una giusta idea, senza alcun pericolo di errore»18. A conferma di ciò, lo stesso avviene con la coppia amore e odio, che con orgoglio e umiltà compongono l’insieme delle passioni indirette: [è] del tutto impossibile dare una definizione delle passioni dell’amore e dell’odio; e questo perché esse producono solo un’impressione semplice, senza mescolanza né composizione. Sarebbe

18 Treatise, libro II, parte I, sez. II, p. 277, cpv. 1; tr. it. cit., p. 291, corsivi miei.

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egualmente superfluo pensare di darne una definizione ricavata dalla loro natura, origine, cause e oggetti; [...] queste passioni ci son di per sé abbastanza note, grazie a sentimenti ed esperienze del tutto comuni. Questo lo abbiamo osservato a proposito dell’orgoglio e dell’umiltà e lo ripetiamo qui a proposito dell’amore e dell’odio19.

In quanto passioni, orgoglio e umiltà vengono sentiti immediatamente. È vero che quando si tratterà di esaminare la genesi di queste impressioni distingueremo una causa e un oggetto, e daremo una spiegazione del fatto che l’orgoglio ci fa piacere e l’umiltà ci dà dolore dicendo che la causa è, a sua volta, qualcosa di piacevole o di doloroso che, essendo in relazione con noi, genera una nuova impressione piacevole o dolorosa a cui diamo il nome di orgoglio o di umiltà. Ma tutto questo è il frutto di una descrizione fatta a posteriori, in terza persona, dallo scienziato della natura umana, che ci presenta le condizioni causali perché una determinata passione possa essere sentita. Nel momento in cui proviamo orgoglio o umiltà per qualcosa, tutto questo non c’è: in quel momento ciò di cui siamo consapevoli è solo dell’impressione dell’orgoglio o dell’umiltà. Essa è un’impressione semplice, e in questo senso non ci sono componenti da analizzare: o se ne ha un’esperienza diretta, oppure non si saprà mai di che si tratta. Dal modo in cui Hume si esprime, si deduce che, prescindendo dalla coscienza fenomenologica che si ha quando si prova orgoglio o umiltà, non si capisce cosa essi siano: se viene meno il punto di vista in prima persona del soggetto che prova orgoglio o umiltà, qualsiasi analisi di queste passioni risulta incompleta20. Treatise, libro II, parte II, sez. 1, p. 329, cpv. 1; tr. it. cit. p. 345. Questa caratteristica dell’orgoglio emerge in maniera chiara dalla discussione che si è sviluppata attorno alla nozione di «orgoglio proposizionale» presentata da Donald Davidson, Hume’s �ognitive Theory of Pride, “Journal of Philosophy”, 83 (1976), pp. 744-757, ristampato in Essays on Actions and Events Events, Oxford, Clarendon Press, 1980; tr. it. di Roberto Brigati con il titolo La teoria cognitiva dell’orgoglio in Hume, in Id., Azioni e eventi, Bologna, Il Mulino, 1992, pp. 365-82. Per Davidson, la passione dell’orgoglio consiste in realtà in un giudizio 19

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

Tra l’altro, sulla natura delle passioni Hume è esplicito: «[u]na passione è un’esistenza originaria, o, se preferite, una modificazione originaria, e non contiene nessuna qualità rappresentativa che ne faccia una copia di qualunque altra esistenza o modificazione»21. E ancora: «le nostre passioni, volizioni e azioni [...] sono dei fatti e delle realtà originari, completi in se stessi, e che non implicano alcun riferimento ad altre passioni, volizioni e azioni»22. Come argomenta in maniera convincente Árdal23, per Hume tutte le passioni sono impressioni semplici, e in quanto tali non possono venire scomposte in costituenti ulteriori. Orgoglio e umiltà non funzionano diversamente dalle altre passioni: un esprimibile dall’enunciato “A è orgoglioso che p”, dove p è una proposizione. Ma l’analisi di Davidson è insoddisfacente: come argomenta Clotilde Calabi – Passioni e ragioni. Un itinerario nella filosofia della psicologia, cit., parte I, cap. I, sez. 5 –, «l’errore principale in cui incorre Davidson è quello di confondere il punto di vista esterno col punto di vista interno, la terza persona con la prima persona. O meglio, di non riconoscere alcuna legittimità al punto di vista interno. Dal punto di vista interno, infatti, l’orgoglioso non formula alcun ragionamento del quale l’orgoglio costituisca la conclusione» (p. 49). A conclusioni simili a quelle di Calabi arrivano anche Annette C. Baier, Hume’s Analysis of Pride, “Journal of Philosophy”, 75 (1978), pp. 27-40; Gabriele Taylor, sia Pride, in Explaining Emotions, a cura di Amélie Oksenberg Rorty, BerkeleyLos Angeles-London, University of California Press, 1980, pp. 385-402, sia Pride, Shame, and Guilt. Emotions of Self-Assessment, Self-Assessment Oxford, Clarendon Press, 1985, cap. II; Alasdair C. MacIntyre, Whose Justice? Which Rationality? Rationality?, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 1988, tr. it. di Clotilde Calabi con il titolo Giustizia e razionalità, 2 voll., Milano, Anabasi, 1995, volume II, cap. V (cap. XVI ed. ingl.). A confrontare la concezione dell’orgoglio humeana con l’interpretazione di Davidson è anche Páll S. Árdal, Hume and Davidson on Pride, “Hume Studies”, 15 (1989), pp. 387-94. Come fa notare Terence Penelhum, Self-Identity and Self-Regard, cit., ciò che bisogna sempre tener presente, se si vuole spiegare la natura delle passioni secondo Hume, è che quelli che per i filosofi contemporanei sono problemi logici, per Hume sono invece problemi psicologici. Un’osservazione ripresa anche da Barry Stroud, Hume, cit., cap. X: laddove la filosofia analitica contemporanea vuole fornire una mappa logica dei nostri concetti, lo scopo di Hume è di determinare le condizioni del nostro comprendere e pensare. 21 Treatise, libro II, parte III, sez. 3, p. 415, cpv. 5; tr. it. cit., p. 436. 22 Treatise, libro III, parte I, sez. 1, p. 458, cpv. 9; tr. it. cit., p. 484. 23 Páll S. Árdal, Passion and Value in Hume’s Treatise, cit., cap. I.

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Orgoglio e umiltà 71

aspetto imprescindibile della loro natura è quello di darsi come fatti fenomenologicamente bruti, come impressioni elementari a cui ha accesso soltanto colui che le esperisce; la loro caratteristica precipua è che noi ne siamo consapevoli nel momento stesso in cui ci capita di provarle24. 5. A differenza delle altre passioni, tuttavia, orgoglio e umiltà sono contraddistinti dal fatto che hanno l’io come oggetto. In che senso? Ha ragione Passmore a sostenere che Hume, come già era successo nel primo libro del Trattato, non riesce a venire a capo del disordine che egli stesso ha generato? L’io è oggetto di orgoglio e umiltà come l’effetto lo è della sua causa? L’io è prodotto da orgoglio e umiltà? Oppure l’io attiva orgoglio e umiltà? Sono in molti a credere che Hume non sia affatto in errore25. La tesi che sostengono è che, rileggendo la spiegazione di orgoglio e umiltà che egli offre, emerga chiaramente come la relazione esistente tra queste passioni e l’io non sia né una in cui l’io è l’effetto e queste passioni la causa – una relazione che lega orgoglio o umiltà e io in maniera solo contingente, rendendo in questo modo superfluo l’io per la definizione di orgoglio o umiltà –, né una in cui un io precedente, non ben identificato, mette in moto orgoglio o umiltà – una relazione che espone il fianco all’accusa secondo cui in ambito passionale rifarebbe la sua comparsa quell’io metafisico negato in sede intellettuale. A loro avviso, io

24 A interpretare orgoglio e umiltà in Hume come passioni la cui definizione dipende inestricabilmente dalla percezione fenomenologica che abbiamo di esse è anche Jerome Neu, Emotion, Thought and Therapy, Berkeley-Los Angeles, University of California Press, 1977, pp. 8-11. 25 Cfr. Nicholas Capaldi, The Historical and Philosophical Significance of Hume’s Theory of the Self, cit.; Robert S. Henderson, David Hume on Personal Identity and the Indirect Passions, cit.; Pauline Chazan, Pride, Virtue and Self-Hood: A Reconstruction of Hume, cit.; Susan M. Purviance, The Moral Self and the Indirect Passions, cit.; Eugenio Lecaldano, The Passions, �haracter and the Self in Hume, cit.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

e orgoglio o umiltà si presentano simultaneamente26. Che orgoglio e umiltà siano accompagnati dall’io è per Hume il frutto di una «qualità originaria», di una «proprietà naturale», di un «impulso primario» della cui costanza e stabilità non possiamo dubitare, per cui non possono darsi gli uni senza l’altro: «[è] sempre l’io a essere l’oggetto dell’orgoglio e dell’umiltà; e ogni qual volta queste passioni guardano al di là di esso, lo fanno pur sempre tenendo di mira noi stessi»27. Porsi il problema se venga prima l’io oppure orgoglio o umiltà, se è il primo ad attivare i secondi o questi ultimi a produrre l’io non ha senso: non c’è nessun io che precede o che segue orgoglio e umiltà, ma arriviamo ad avere consapevolezza dell’io nel momento stesso in cui proviamo queste passioni. Si tratta di una relazione di costruzione reciproca28: provare orgoglio e umiltà significa diventare consapevoli di noi stessi, e non si comprende che cosa significhi essere consapevoli di noi stessi se non si stanno provando queste passioni. Provare orgoglio e umiltà ed essere consapevoli di noi stessi sono quindi la stessa cosa. In questo senso, l’io ci si rivela attraverso quella consapevolezza non mediata che abbiamo nel momento in cui sentiamo le passioni indirette. Alcuni arrivano a sostenere che, secondo Hume, tra io, orgoglio e umiltà esista una relazione tale che è logicamente impossibile pensarli separatamente29. Altri, invece, sebbene ritengano che in Hume l’idea dell’orgoglio o dell’umiltà e quella dell’io siano concettualmente distinte, riconoscono che tra le due esiste una «connessione innata», dovuta alla costituzione primaria della mente umana30. Sta di fatto che Hume non prende in considerazione la possibilità che siano A esprimersi così è Pauline Chazan, Pride, Virtue and Self-Hood: A Reconstruction of Hume, cit. 27 Treatise, libro II, parte I, sez. 3, p. 280, cpv. 2; tr. it. cit., pp. 294-95. 28 Si veda Pauline Chazan, Pride, Virtue and Self-Hood: A Reconstruction of Hume, cit. 29 Si veda Robert S. Henderson in David Hume on Personal Identity and the Indirect Passions, cit. 30 Ad affermarlo è John P. Wright, The Sceptical Realism of David Hume, Manchester, Manchester University Press, 1983, p. 202. 26

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Orgoglio e umiltà 7

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altre passioni, diverse dall’orgoglio e dall’umiltà, a rivelare l’io: che culture radicalmente differenti possano avere idee diverse su un io che si sviluppa da altre passioni non è un’eventualità che contempla. Questo perché la descrizione che dà dell’io partendo dall’orgoglio e dall’umiltà è il frutto di una constatazione empirica: l’io si mostra con queste specifiche passioni; e fino a prova contraria, ciò è sufficiente per sostenere che l’io e queste passioni sono le facce di una medesima medaglia31. 6. Questi interpreti sottolineano che criticare Hume sostenendo che siffatta spiegazione necessita di un io metafisico significa sbagliare bersaglio. Al contrario, ciò con cui si ha a che fare è proprio un «io non metafisico»32. È vero, Hume parla di io in una maniera che ricorda molto da vicino il linguaggio usato dai suoi avversari razionalisti; ma egli dà un significato radicalmente diverso a questo termine33. Prova ne è il lavoro che Hume compie nel primo libro del Trattato discutendo l’identità personale dell’intelletto: lì il suo scopo è proprio di smontare la tesi razionalistica secondo la quale bisogna presupporre qualcosa che si dia come un sostrato sostanziale. In quel contesto, parlare di io – o di persona o di anima – significa parlare di mente. Ma nel libro secondo non si ha più a che fare con l’intelletto, bensì con le passioni: il problema della natura della mente è lontano. Qui rifà la sua comparsa la persona e l’io; ma con questi termini ci si riferisce ora a una proprietà originaria di quella natura sentimentale che è ciò che primariamente contraddistingue gli esseri umani, ben più della loro natura intellettuale34. Una proprietà di Si veda al riguardo quello che sostiene Amélie Oksenberg Rorty, “Pride Produces the Idea of Self”: Hume on Moral Agency, cit. 32 A parlare di «io non metafisico» (Non-Metaphysical Self ) è, ancora una volta, Pauline Chazan, sia in Pride, Virtue and Self-Hood: A Reconstruction of Hume, cit., sia in The Moral Self, cit. 33 Si veda al riguardo quanto sostiene Terence Penelhum in Hume, Identity and Selfhood, cit. 34 Come ricostruisce Ainslie in Scepticism about Persons in Book II of Hume’s Treatise, cit., nella sezione dedicata all’identità personale del primo libro del 31

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

cui siamo immediatamente consapevoli, per il fatto stesso che siamo creature che provano passioni. Perciò, secondo questa interpretazione, è dall’esperienza diretta che abbiamo del nostro sentire orgoglio e umiltà per qualcosa che possiamo ricavare la nozione di io. Domandarsi se questo io è qualcosa di conoscibile non significa nulla, poiché le passioni non conoscono nulla. L’io oggetto di orgoglio e umiltà non corrisponde a qualcosa che conosciamo, ma è il frutto del nostro provare emozioni. È questa consapevolezza di sé, di natura passionale, che sta alla base della nuova interpretazione che viene data della filosofia humeana; ed è a partire da questa concezione dell’io passionale che si vuole qui rendere conto dell’io morale in Hume.

Trattato Hume usa i termini «io», «persona» e «mente» sempre come sinonimi di quest’ultima; laddove, nel libro secondo, Hume usa «io» e «persona» come termini interscambiabili, ma mai come sinonimi di «mente».

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VI L’io passionale

1. Se si afferma che l’io può essere reintrodotto riferendosi a una forma di consapevolezza di sé, è necessario mostrare come questa consapevolezza possa essere sostenuta, alla luce dei dubbi che sono stati espressi discutendo del problema dell’io. In che modo la consapevolezza passionale che Hume presenta nel secondo libro del Trattato si differenzia – se si differenzia – da quella che contraddistingue il problema dell’io nell’“Appendice”? In che modo questa consapevolezza passionale evita le obiezioni che sembrano condurre l’indagine in ambito intellettuale a un punto morto? Infine: perché mai questa consapevolezza passionale dovrebbe riuscire a fornire una spiegazione plausibile dell’io morale? Per rispondere a queste domande, è necessario esaminare più da vicino le tesi di quanti ritengono che nei libri secondo e terzo del Trattato Hume introduca una nozione di io legittima: a ben vedere, infatti, le posizioni che essi sostengono non sono affatto le stesse. Tutti riconoscono che la chiave di volta va individuata nelle passioni, e sottolineano come esse siano imprescindibili per comprendere correttamente il progetto filosofico humeano. Ciò che li differenzia sono le opinioni circa gli scopi che Hume si porrebbe quando definisce un io sentimentalmente connotato. Al proposito, si possono distinguere due tesi: una tesi continuista o unitaria e una tesi discontinuista. Secondo coloro che abbracciano la tesi continuista1, la riflessione sull’io che Hume 1 Essa è evidente soprattutto nei saggi di Jane L. McIntyre; ma cfr. anche Wayne Waxman, Robert S. Henderson, John Bricke, Donald C. Ainslie, Sympathy and the Unity of Hume’s Idea of Self, cit.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

svolge nei libri secondo e terzo non è altro che un’integrazione di ciò che dice sull’io nel primo libro: ciò che Hume ha presente in tutti e tre i libri del Trattato consiste, secondo questi autori, sempre nella stessa cosa. In particolare, quanto egli dice sull’io nei libri secondo e terzo – poiché non è che uno sviluppo di ciò che afferma nel primo libro – può essere considerato, a buon diritto, un problema di identità personale. Al contrario, coloro che vanno sotto il titolo di discontinuisti – e sono la maggioranza2 – sono convinti che tra il primo libro, da una parte, e i libri secondo e terzo, dall’altra, ci sia uno iato: la spiegazione offerta da Hume dell’io passionale, e dell’io morale che da esso deriva, non ha niente a che vedere con quanto dice nel primo libro. Per i discontinuisti, l’io passionale e l’io morale sono il frutto di una riflessione differente da quella riguardante l’identità personale; e, per quanto riguarda la relazione che esisterebbe tra i problemi dell’“Appendice” e l’io delle passioni, alcuni non se ne preoccupano affatto, mentre altri vedono in questo io passionale una risposta possibile anche per l’impasse del problema dell’io. 2. Per quanto riguarda la posizione continuista, l’esposizione più chiara ed esaustiva è quella di Jane L. McIntyre3. A suo avviso, Hume avrebbe una tesi unitaria sull’io, secondo la quale nei diversi libri di cui il Trattato è composto non farebbe altro che considerare da diverse prospettive un io che resta tuttavia sempre il medesimo. Il merito del primo libro sarebbe quello di aver mostrato come non ci sia nessun io semplice che duri nel corso del tempo, bensì solo percezioni distinte. Questo non significa, tuttavia, che manchi un’idea dell’io come un’entità che resta la medesima nel tempo: essa c’è, ma non è dovuta al fatto che ci si riferisce sempre alla medesima sostanza, bensì è il 2 Ad esempio Annette C. Baier, Nicholas Capaldi, Pauline Chazan, Eugenio Lecaldano, Gordon Park Stevenson, Susan M. Purviance, Clarence Shole Johnson. 3 Di McIntyre si veda soprattutto Personal Identity and the Passions, cit., ma anche Hume’s Underground Self, cit.

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L’io passionale 77

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frutto dell’associazione delle idee operata dall’immaginazione, la quale – grazie a quei principi di causalità e somiglianza che tengono insieme i pensieri, le impressioni e le azioni passate con quelle presenti – ci permette di figurarci un io con un passato, di cui abbiamo memoria. Secondo McIntyre, Hume ha in questi principi gli strumenti per parlare già in ambito intellettuale di un’idea dell’io come qualcosa di continuo senza dover ricorrere a un’entità sostanziale4. È questo stesso io che acquista quindi una durata per mezzo delle passioni. Ciò perché, grazie a esse, ci interessiamo sia a quel continuum di percezioni che compongono il nostro passato, sia alle conseguenze delle azioni che compiremo a partire da quei motivi e da quelle intenzioni che ci contraddistinguono al presente. Quando si passa al secondo libro, McIntyre sostiene che la discussione che vi si sviluppa non è altro che un’integrazione del problema dell’identità personale esposto nel primo libro: non si tratta più di spiegare perché si attribuisca identità alla mente, ma di capire come mai noi, al momento presente, ci preoccupiamo del nostro passato e del nostro futuro. Al riguardo, McIntyre si riferisce a un passo di “L’identità personale” che recita: una medesima persona può mutare carattere e disposizione, così come le sue impressioni e le sue idee, senza perdere la propria identità. Qualunque cambiamento subisca, le sue parti sono sempre connesse dalla relazione di causalità. E da questo punto di vista la nostra identità rispetto alle passioni serve a corroborare quella dell’immaginazione, facendo in modo che le percezioni distanti s’influenzino a vicenda, e ci diano un interessamento sempre presente per i dolori e per i piaceri passati e futuri5.

Arriviamo così a concepire un io esteso nel tempo. Sempre questo io è l’oggetto delle passioni dell’orgoglio e dell’umiltà6; lo Una tesi che McIntyre sostiene anche in Is Hume Self �onsistent?, cit. Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 261, cpv. 19; tr. it. cit., p. 273. 6 McIntyre fa qui riferimento al passo del secondo libro del Trattato dove Hume dice che l’oggetto di orgoglio e umiltà «è l’io, ovvero quella successione di idee e di impressioni correlate di cui abbiamo intimamente memoria e consapevolezza»: Treatise, libro II, parte I, sez. II, p. 277, cpv. 2; tr. it. cit., p. 291. 4

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

stesso io – o piuttosto, come vedremo diffusamente più avanti, il suo carattere – che infine, nel terzo libro del Trattato, ci permette di spiegare sia la nozione di responsabilità morale sia l’espressione dei giudizi morali. Hume avrebbe pertanto elaborato un’unica grande riflessione sull’io, che parte dall’analisi dell’identità personale per finire con l’agire pratico, l’etica e la politica. 3. Ad attaccare la tesi continuista di McIntyre è Susan M. Purviance7, la quale ritiene che la posizione di McIntyre non possa funzionare proprio perché accosta due piani che non possono essere avvicinati: un piano teoretico e uno pratico. McIntyre cerca di dare una spiegazione unitaria dell’io riferendosi alle associazioni mentali; l’io di cui ci preoccupiamo, l’oggetto delle passioni indirette, è legato attraverso le relazioni di somiglianza e di causalità alle percezioni passate. Ma, fa notare Purviance, sebbene sia vero che è a partire da una preoccupazione di tipo passionale per le proprie azioni che possiamo figurarci un concetto di io come agente che è oggetto di valutazione morale, tuttavia, quando Hume parla del rapporto che esiste tra io e passioni, egli non fa riferimento ad alcun principio di associazione mentale. Ciò che ci si rivela nel secondo libro del Trattato è qualcosa di diverso da un insieme di impressioni e di idee: non si tratta di un io che emerge da una sintesi delle percezioni a formare un nuovo concetto dell’intelletto, bensì di un io frutto di un processo di autoascrizione naturale e originario8. Il punto che Purviance evidenzia è che, se in ambito intellettuale ciò che abbiamo sono solo percezioni separate, allora il fatto che siano tenute insieme dai principi dell’immaginazione non ha importanza quando si tratta di rendere conto di quella consapevolezza di sé che abbiamo provando certe passioni: essa può spiegarsi solo 7 Susan M. Purviance, The Moral Self and the Indirect Passions, cit. A criticare McIntyre sullo stesso punto è anche Eugenio Lecaldano, L’io, il carattere, e la virtù nel Trattato di Hume, cit. e The Passions, �haracter and the Self in Hume, cit. 8 Purviance si rifà qui alla tesi di Chazan, secondo la quale io e passione dell’orgoglio si presentano contemporaneamente.

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L’io passionale 7

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all’interno di un contesto nuovo. Quindi, lungi dal riguardare il problema dell’identità personale descritto in sede intellettuale, l’io passionale sarebbe qualcosa di assolutamente originale, che non ha nulla a che vedere con le inquietudini conoscitive di Hume; esso si spiega, invece, soltanto se lo si vede all’interno del contesto dell’agire pratico. 4. Stante le conclusioni a cui si è giunti finora, la posizione discontinuista risulta essere la più convincente: tutti coloro che la sostengono sottolineano non soltanto che nel primo libro del Trattato si studia un problema diverso da quello che sorge nel secondo, ma anche che quello che si afferma in sede passionale gode di una dignità sua propria, che non viene intaccata dagli apparenti fallimenti del libro sull’intelletto. È opportuno, a questo punto, entrare maggiormente nel dettaglio della posizione discontinuista, ed esaminare in che modo essa sia stata sviluppata da alcuni dei suoi assertori. Clarence Shole Johnson, discutendo della relazione che esiste tra le conclusioni del primo libro e la responsabilità morale9, osserva che il concetto di io esposto da Hume nei libri secondo e terzo è immune dalle critiche di coloro che impugnano argomenti elaborati in sede intellettuale, poiché l’io con cui abbiamo a che fare in ambito morale non è una finzione dell’immaginazione – cioè la mente –, bensì è un’entità di cui ci preoccupiamo, corrispondente all’idea irrinunciabile del senso comune di un io durevole oggetto di giudizio morale10. L’interesse passionale che abbiamo per le nostre esperienze passate e future è un prerequisito perché possa darsi un io morale; da qui la separazione tra ciò che Hume dice nel libro primo del Trattato, da una parte, e nei libri secondo e terzo, dall’altra. Da parte sua, per Susan M. Purviance la spiegazione dell’io passionale offerta da Hume sarebbe Clarence Shole Johnson, Hume’s Theory of Moral Responsibility: Some Unresolved Matters, cit. 10 Una tesi sostenuta anche da Donald C. Ainslie, Scepticism about Persons in Book II of Hume’s Treatise, cit. 9

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

alla base di quella che lei chiama una «teoria del fatto dell’agire» (Fact of Agency Theory). Anche per lei, l’io passionale è ciò che ci permette di rendere conto di quell’attività pratica che ci contraddistingue come soggetti morali..In questo, Purviance avvicina la riflessione di Hume a quella di Kant: ambedue concepiscono l’ambito etico come basato su un fatto morale non conoscibile teoreticamente dall’agente. Ovviamente, Hume e Kant si distinguono laddove il primo individua questo fatto morale a partire dall’apparato passionale del soggetto, mentre il secondo ne fa un requisito della ragione. Quando Hume affronta il problema dell’io delle passioni, sarebbe già mosso dal desiderio di fornire una base oggettiva alla sua morale; per farlo, egli batterebbe una strada che concepisce l’attività pratica come indipendente e non bisognosa di un corrispettivo teorico precedente. L’io passionale si spiega allora come un oggetto che, in quanto contraddistinto come io pratico, si dà da subito come eticamente connotato, e perché ciò sia possibile non c’è alcun bisogno di rendere conto dei dubbi sollevati in ambito intellettuale. Eugenio Lecaldano concorda su questo punto: in ambito passionale ci troviamo di fronte a un concetto di io che non deve affatto essere difeso dalle obiezioni che dominano il primo libro del Trattato, poiché risponde a un altro tipo di indagine. A differenza di Purviance, tuttavia, Lecaldano rifiuta di definire quella di Hume come una «teoria del fatto dell’agire», ritenendo una tale denominazione ancora troppo connotata in senso kantiano. Meglio sarebbe parlare di una «teoria del fatto del sentimento» (Fact of Sentiment Theory), un titolo che rende maggiormente ragione della psicologia empirica di cui Hume è promotore11. 5. Tra coloro che sono annoverati tra i discontinuisti, è particolarmente interessante l’analisi che dell’io passionale fa Nicholas

11 Eugenio Lecaldano, The Passions, �haracter and the Self in Hume, cit.; si veda anche Id., Pride, the Self and �haracter in Treatise II.I.5, relazione al convegno “Humean Readings”, Roma, Villa Mirafiori, 31 maggio-1 giugno 2000.

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L’io passionale 1

Capaldi12. A suo avviso, Hume imposta due discussioni distinte sull’io: una sull’idea dell’io, un’altra sull’io propriamente detto. Per quanto riguarda l’idea dell’io, anche Capaldi parte dalla constatazione che nel primo libro Hume si occupa dell’io come mente. Tuttavia, è innegabile che noi – e Hume con noi – abbiamo un’idea dell’io come di una persona continua e riconoscibile, che non corrisponde affatto a un bundle of perceptions. Come è possibile? L’idea dell’io – un’idea complessa, poiché rappresenta una successione di percezioni connesse – emerge come l’oggetto delle impressioni indirette. Capaldi la chiama il «me» (me), un’idea che è il prodotto dell’immaginazione e della memoria. L’idea dell’io non è però l’io. Che le due cose siano distinte risulta chiaro, secondo Capaldi, dalla discussione dell’“Appendice”: ciò che qui risalta è proprio l’impossibilità per Hume di sostenere questa idea dell’io e, allo stesso tempo, di fare fronte ai due principi che contraddistinguono il suo associazionismo13. Qual è, infatti, l’impressione corrispondente all’idea complessa dell’io? Noi non ne abbiamo alcuna impressione di sensazione, né semplice né complessa; se l’avessimo ciò significherebbe che c’è un io sostanziale, percepibile allo stesso modo degli oggetti esterni. Ma Hume ha mostrato che esso è una chimera. Cos’è allora questo io diverso dalla finzione della mente, la cui idea è oggetto di orgoglio e umiltà? Laddove molti scorgono in questo nodo teorico una débâcle, Capaldi vede invece un vero e proprio cambio di prospettiva. Se si resta in ambito intellettuale non si riesce ad avere un’idea di io coerente; da solo, il puro pensiero non va al di là della constatazione che tutto ciò con cui ha a che fare sono percezioni sconnesse, e si ritrova con un’idea dell’io a cui manca l’impressione corrispondente. Ma all’idea complessa dell’io, a cui il pensiero 12 Si veda in particolare The Historical and Philosophical Significance of Hume’s Theory of the Self, cit., ma anche i due libri David Hume. The Newtonian Philosopher, cit., pp. 134-41 e Hume’s Place in Moral Philosophy, cit., pp. 168-84. 13 Ricordiamoli: «che tutte le nostre percezioni sono esistenze distinte; e che la mente non percepisce mai nessuna reale connessione tra esistenze distinte». Treatise, “Appendice”, p. 636, cpv. 21; tr. it. cit., p. 664.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

non riesce a trovare un centro di gravità, corrisponde un’impressione che non si dà in ambito intellettuale, bensì sentimentale: è l’impressione di riflessione semplice e originaria corrispondente al nostro provare orgoglio o umiltà14. Attraverso le passioni riusciamo a figurarci un io unitario – che Capaldi chiama «io» (I ), ed è presupposto dall’idea dell’io (cioè, nella terminologia di Capaldi, dal «me») –, che sfugge a qualsiasi concettualizzazione, ed emerge nell’attività di un soggetto sentimentale dotato di un corpo. Capaldi scorge nell’espressione della nostra volontà, che si rivela tutte le volte che una passione ci motiva, quella connessione tra le nostre azioni e le nostre passioni, grazie alla quale siamo in grado di scoprirci come degli io. In questo modo si spiega come Hume possa sostenere che «l’idea, o piuttosto l’impressione di noi stessi, ci è sempre intimamente presente»15: questa impressione non è altro che la passione dell’orgoglio o dell’umiltà che, rivelandosi, ci rivela a noi stessi. Nell’ottica di Capaldi, quindi, l’ordine che tradizionalmente veniva riconosciuto 14 Che a un’idea complessa non corrisponda un’impressione complessa ma una semplice non deve sorprendere. Infatti, dato l’impianto associazionistico humeano, nessuna idea complessa ha necessariamente un analogo diretto nell’esperienza: esse sono il prodotto dell’attività compositiva dell’immaginazione, e non hanno un rapporto uno a uno con un’impressione corrispondente; è solo nel caso delle idee semplici che ciò avviene. Citiamo direttamente Hume: «[i]n seguito a un esame più accurato m’accorgo di essermi lasciato trasportare troppo oltre la prima apparenza, sì che debbo ora valermi della distinzione delle percezioni in semplici e complesse per limitare la precedente affermazione che tutte le nostre idee ed impressioni sono somiglianti. Osservo, infatti, che molte idee complesse non ebbero mai impressioni corrispondenti, e che molte delle nostre impressioni complesse non vengono mai riprodotte esattamente dalle idee. Io posso immaginare una città chiamata Nuova Gerusalemme che abbia il selciato d’oro e le mura di rubini, benché non ne abbia mai vista una simile. Ho visto invece Parigi. Ma sono in grado di farmi di questa città un’idea tanto esatta da rappresentarmi perfettamente tutte le strade e le case nelle loro giuste proporzioni?». Per quanto riguarda le idee semplici, invece, «la regola non soffre eccezioni: ogni idea semplice ha un’impressione semplice che le somiglia, e ogni impressione semplice ha un’idea che le corrisponde», Treatise, libro I, parte I, sez. 1, p. 3, cpvv. 4 e 5; tr. it. cit., p. 15. 15 Treatise, libro II, parte I, sez. 11, p. 317, cpv. 4; tr. it. cit., p. 333, corsivo mio.

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L’io passionale 

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nel Trattato è invertito: è l’identità personale per quanto riguarda le passioni a chiarire quella dell’intelletto, e non viceversa. Tutta l’argomentazione sull’identità personale svolta nel primo libro – e, con essa, tutta la discussione sulle capacità e sui limiti dell’intelletto – si spiega solo se si intende la filosofia di Hume non come una riflessione puramente concettuale, bensì come una forma di attività pratica. Al centro c’è il secondo libro del Trattato: è qui che si rivela un io pratico di natura passionale che si dà come presupposto preconcettuale capace di sostenere la nostra idea dell’io. Capaldi propone dunque una forma di discontinuismo che può essere interpretata come una sorta di tesi unitaria al contrario. Se McIntyre vede nei tre libri del Trattato sempre uno stesso io, che si spiega grazie all’analisi humeana dell’identità per quel che riguarda il pensiero, Capaldi, invece, vede emergere l’io propriamente detto solo a partire dal secondo libro. Si tratta di un io passionale originario che non ha niente a che vedere con il problema dell’identità personale di natura intellettuale – perciò Capaldi afferma che la concezione humeana dell’identità personale e dell’io è dualista16, e in questo senso egli può essere a tutti gli effetti annoverato tra i discontinuisti –, ma che ci permette, tuttavia, di spiegare la nostra idea dell’io e di sciogliere le apparenti contraddizioni dell’“Appendice”. 6. A presentare un’interpretazione dell’io passionale simile a quella di Capaldi è Annette C. Baier17. Anche per lei si può cogliere quell’io di cui abbiamo un’idea riferendoci al contesto sentimentale; al suo interno non abbiamo a che fare con un’astrazione dell’immaginazione – ossia con la finzione di una mente che si rivela essere in realtà nient’altro che un gruppo di percezioni di cui non sembra possibile tracciare esattamente i confini –, bensì con persone dotate di un corpo, ben distinte e riconoscibili a partire dai legami che hanno le une con le altre. Provare orgoglio e Si veda in particolare Hume’s Place in Moral Philosophy, cit. Di Annette C. Baier si veda Hume’s on Heaps and Bundles, cit. e A Progress of Sentiments, cit., cap. VI. 16

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

umiltà, osserva Baier, è possibile proprio perché le persone sono, prima di tutto, individui in carne e ossa18. Come per Capaldi, anche per Baier è scorretto pretendere di giudicare quanto Hume dice nel secondo libro del Trattato riferendosi alle posizioni sostenute nel primo, perché i contesti che li contraddistinguono sono profondamente diversi. Il primo libro vede Hume discutere del problema dell’identità personale da una prospettiva che è la stessa degli avversari con cui polemizza: un punto di vista solipsistico e spirituale che concepisce l’io come qualcosa di interno, spiegabile per via esclusivamente intellettuale, separato da qualsiasi riferimento corporeo. Coloro che adottano quest’ottica – ancora una volta, basti pensare a Descartes – sono mossi dal desiderio di trovare il nostro “vero io”: un’anima o una mente pura, autonoma e indipendente da tutto ciò che non la contraddistingua in maniera autentica. Il merito di Hume sta proprio nell’aver svolto questa linea di indagine coerentemente, e nell’aver dimostrato come essa finisca nello scetticismo. Tuttavia, svilupparla non significa necessariamente farla propria; il fatto che Hume sveli che l’analisi intellettuale portata alle estreme conseguenze sfoci nel vicolo cieco descritto nell’“Appendice” non vuol dire che si debba accettare la conclusione che non esiste alcun io degno di questo nome. Al contrario: secondo Baier, la grande novità di Hume è che egli diverrebbe consapevole del fatto che solo andando al di là dei limiti dell’intelletto, e adottando un paradigma nuovo, è possibile dare una risposta alla domanda su che cosa sia l’io. L’io passionale del secondo libro non è altro che il risultato della consapevolezza, da parte di Hume, che la migliore immagine che ci sia dell’anima è il corpo umano19: una volta che l’io è identificato come una persona tra tante, allora qualsiasi tentazione di considerarci come una pura entità spirituale viene meno. Il secondo libro del Trattato risolve i dilemmi dell’“Appendice” sull’io cambiando completamente il contesto 18 Hume afferma chiaramente che esiste un legame tra corpo e orgoglio e umiltà in Treatise, libro II, parte I, sez. 8, p. 298, cpv. 1; tr. it. cit., p. 313. 19 Come mostra anche Jane McIntyre in Hume’s Underground Self, cit.

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L’io passionale 5

del problema. È ovvio che nel primo libro non ci si riferisca al corpo umano, poiché lo scopo che qui Hume si è prefissato è di mostrare come un’impostazione filosofica che faccia leva esclusivamente sull’analisi intellettuale sia destinata allo scacco; per farlo, egli si muove all’interno di quella stessa impostazione che vuole abbattere, utilizzandone lo stesso linguaggio e i medesimi strumenti concettuali. Il corpo non può avere spazio in questo ambito: bisogna uscirne per riguadagnarlo, e quindi reimpostare la discussione su nuove basi – anche se in realtà già in alcuni passi del primo libro del Trattato Hume riconosce al corpo un ruolo centrale nella definizione della persona20. L’“Appendice” resta come un monito per tutti coloro che pensano di poter concepire l’io soltanto per via teoretica: il risultato che ottengono è una mostruosità dell’intelletto, che va contro le conclusioni del senso comune, e ci lascia, oltre che filosoficamente insoddisfatti, umanamente prostrati21. Al contrario, la metafisica delle persone può essere ricavata a partire da una realtà umana che si presenta fin dal principio come biologica e sociale. Da questo punto di partenza, si è in grado di rendere conto di nozioni, come quella di io, che per noi è inevitabile avere, con la consapevolezza che sono il prodotto dello svolgersi di una natura umana che si mostra primariamente come passionale. Gli esseri umani vanno concepiti come creature incarnate, la cui interazione – un’interazione che ha luogo da subito con la relazione tra genitori e figli – è elevata a paradigma che ci permette di comprendere tutti gli aspetti del programma filosofico humeano22. 20 Si veda ad esempio Treatise, libro I, parte IV, sez. 2, p. 190, cpv. 9; tr. it. cit., p. 204, e libro I, parte IV, sez. 5, p. 248, cpv. 30; tr. it. cit., pp. 260-61. 21 Si pensi al tono sconfortato di Hume nella “Conclusione di questo libro”, Treatise, libro I, parte IV, sez. 7, pp. 264-65, cpv. 2; tr. it. cit., p. 276. 22 Al proposito, è interessante quanto Baier sostiene in Helping Hume to “�ompleat the Union”, “Philosophy and Phenomenological Research” 41 (1980-1), pp. 167-86, dove la relazione naturale che esiste tra i componenti della famiglia viene presentata come il modello di base a partire dal quale Hume interpreta tutte le altre relazioni del suo associazionismo: tanto le relazioni naturali (somiglianza, contiguità, causa-effetto), quanto quelle filosofiche (somiglianza,

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

7. Se si condivide la lente teorica proposta dai discontinuisti, sembrerebbe possibile recuperare un concetto di io valido, immune dalle critiche che generalmente gli vengono mosse. A esse sembrava che i sostenitori della active mind – operando con i soli strumenti di natura intellettuale disponibili nel primo libro del Trattato – non potessero opporre nulla di davvero convincente. Ma ora siamo in grado di fornire delle risposte entrando nel merito degli argomenti che queste obiezioni presentano, facendo tesoro della posizione favorevole che abbiamo guadagnato grazie alla nuova interpretazione sentimentalistica che è stata presentata. Una prima obiezione è, intuitivamente, la più immediata: se si afferma di essere consapevoli di noi stessi, allora dobbiamo necessariamente supporre l’esistenza di un io sostanziale continuo nel tempo; ma siccome Hume ne nega l’esistenza, la consapevolezza di sé resta qualcosa di non giustificabile all’interno del suo sistema. Stante quello che è stato detto finora, questa obiezione non coglie nel segno perché confonde due problemi differenti e indipendenti l’uno dall’altro: quello riguardante l’esistenza o meno di un io metafisico, e quello riguardante la coscienza che abbiamo di noi stessi come io pensanti e agenti. È possibile dare una risposta a quest’ultimo problema senza dovere necessariamente risolvere il primo. La consapevolezza che abbiamo di noi stessi si spiega attraverso il meccanismo delle impressioni indirette: essa corrisponde a un sentimento specifico, alla passione dell’orgoglio o dell’umiltà che gli individui provano, dovuta a un istinto originario della natura umana. In questo senso, il secondo libro del Trattato ci viene incontro presentandoci una forma di consapevolezza di sé passionale, grazie alla quale siamo in grado di evitare un’obiezione di questo tipo, espressione di un’inquietuidentità, spazio e tempo, quantità o numero, gradi di qualità, contrarietà, causaeffetto). Hume introduce le relazioni naturali e filosofiche in Treatise, libro I, parte I, sezz. 4-5. Baier pone l’accento sull’importanza della famiglia per Hume anche in Hume’s Account of Social Artifice – Its Origins and Originality, “Ethics”, 98 (1988), pp. 757-78.

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L’io passionale 7

dine che ha senso solo se si resta all’interno dei confini ristretti dell’analisi intellettuale. Una seconda obiezione è più sottile, e ruota attorno al rapporto che emerge nell’“Appendice” tra unità della coscienza e consapevolezza di sé. Quest’ultima, si afferma, è qualcosa che non si può sostenere all’interno del sistema humeano poiché si regge sulla prima – cioè sull’unità della coscienza –, e questa, a sua volta, non trova spiegazione poiché manca un criterio che ci permetta di distinguere noi stessi dagli altri individui. Ossia, la consapevolezza di sé dipenderebbe dall’unità della coscienza, ed essa, a sua volta, dipenderebbe dalla possibilità di individuarci come la specifica persona che siamo, differente da tutte le altre23. Inoltre, se è vero che tutto ruota attorno a un problema di individuazione, è stato suggerito che una possibile via d’uscita per Hume sarebbe quella di fare riferimento al corpo come ciò che permetterebbe di localizzare le persone. Ma siccome la sua riflessione non andrebbe mai al di là delle percezioni, vale a dire di una dimensione soltanto mentale, allora il suo sistema non reggerebbe24. È possibile rispondere anche a questa obiezione. Coloro che sostengono che Hume non può fare riferimento al corpo per definire l’io ritengono che quanto ci sia da dire su di esso è presente esclusivamente nel primo libro del Trattato, ossia in sede intellettuale. Ma ciò rivela un pregiudizio riguardo alla filosofia di Hume, secondo cui l’unica riflessione sull’io legittima è quella che lo concepisce come un’entità esclusivamente mentale. Tuttavia, abbiamo visto come ci siano innumerevoli riscontri testuali che provano che Hume ha un’idea dell’io ben diversa. Chi muove una simile accusa confonde, da una parte, la riflessione sull’io con quella sulla mente; dall’altra, non tiene in debita considera23 Come si ricorderà, si tratta della relazione che esiste tra quelli che Terence Penelhum, Hume’s Theory of the Self Revised, cit., chiama un «Mental Unity Problem» e un «Individuation Problem». 24 A correggere in questa direzione Hume sono, ricordiamolo, David Pears, Questions in the Philosophy of Mind, cit., pp. 207-23 e Hume on Personal Identity, cit., pp. 289-99, e Peter F. Strawson, Individuals, cit., capp. III e IV.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

zione quanto egli dichiara nel secondo libro del Trattato, dove il corpo è un elemento centrale per la definizione della persona. Dalla prospettiva passionale, Hume risolve il problema dell’individuazione proprio nella maniera in cui autori come Pears e Strawson ritengono auspicabile, ma che, a loro avviso, gli è preclusa: riferendosi al corpo. È perché siamo i possessori di un corpo particolare che siamo in grado di individuarci, ed è perché possediamo un corpo che possiamo provare quelle passioni che ci rendono consapevoli di noi stessi25. Una volta chiarito il problema dell’individuazione, si dimo25 Oltre ai già citati Capaldi e Baier, sono in molti a sottolineare come il corpo entri a tutti gli effetti nella spiegazione che Hume offre dell’io. Ad esempio, Marina Frasca-Spada, Space and the Self in Hume’s Treatise, Cambridge,, Cambridge University Press, 1998, partendo dall’idea di spazio in Hume argomenta che la riflessione sulle passioni trova la sua piena legittimazione in un io concepito come dotato di corpo. Allo stesso modo, per Gordon Park Stevenson, Humean Self-�onsciousness Explained, cit., è il fatto che il corpo può provare piacere e dolore a permetterci di parlare di passioni. In quanto impressioni riflessive, le passioni non sono altro che una forma particolare di consapevolezza o coscienza del nostro corpo: l’autocoscienza di cui si parla nel libro secondo comprende l’unità delle impressioni passionali riflessive in quanto rappresentazioni del corpo. Secondo Robert S. Henderson, David Hume on Personal Identity and the Indirect Passions, cit., grazie al corpo siamo in grado di distinguerci gli uni dagli altri: a suo avviso, la relazione che ciascuno ha con il proprio corpo «non riguarda le convenzioni umane, ma è una credenza naturale e inevitabile». Anche Jane L. McIntyre, Hume’s Underground Self, cit., sostiene che, secondo Hume, siamo in grado di distinguere la nostra mente da quella degli altri attraverso la relazione causale che esiste tra eventi mentali e un corpo. In particolare, McIntyre sottolinea come la posizione humeana vada messa in contrasto con le opinioni di quei metafisici e di quei religiosi che, separando la mente dal corpo, cercano di giustificare l’idea dell’esistenza di un’anima eterna che deve rendere conto a Dio dei suoi peccati. William Davie, Hume on Perceptions and Persons, “Hume Studies”, 10 (1984), pp. 125-38, difende la tesi che il corpo è centrale nella determinazione dell’identità e dell’unicità di una persona dalla critica standard – che Davie attribuisce a Terence Penelhum e Anthony Flew – secondo cui il fatto che in Hume si abbia a che fare solo con percezioni preclude qualsiasi riferimento a un corpo. Ma persino Penelhum, Hume’s Moral Psychology, cit., nonostante continui a ritenere che sul problema dell’io Hume non convinca, finisce per riconoscere che l’io delle passioni non può essere definito se si prescinde dal fatto che esso è un costrutto fisico.

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L’io passionale 

stra debole anche la critica secondo cui non si può spiegare la consapevolezza di sé perché è innanzitutto la nozione di unità della coscienza a non poter essere sostenuta. Questa critica non va a segno perché, ancora una volta, viene posta da una prospettiva che è ormai stata superata con l’introduzione delle passioni. Da qui, il problema dell’unità della coscienza si rivela il frutto di una concezione intellettualistica, l’altra faccia di un’idea metafisico-sostanzialista dell’io che ormai Hume si è lasciato alle spalle. Dal punto di vista delle passioni, la domanda circa l’unità della coscienza viene trascesa; il problema non è più se l’io sia qualcosa di più di un insieme di percezioni, poiché esso si mostra come il riflesso di una consapevolezza di sé che possediamo in quanto soggetti in carne e ossa che provano sentimenti, grazie alla quale siamo in grado di identificarci, vale a dire di sentirci, come degli io semplici.

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VII Da “io penso” a “noi facciamo”

1. Tra coloro che difendono un’interpretazione di Hume che ha nel momento passionale il suo fulcro esistono dunque molte convergenze. Attraverso la riflessione sul problema dell’io, essi concordano sull’idea che sia necessario rileggere la sua filosofia con una lente teorica differente da quella che finora è stata usata. Le pagine del Trattato in cui descrive la componente sentimentale della natura umana, e il suo sviluppo nella sfera dell’etica e quindi nella politica, non sono più considerate come il proseguimento di un ragionamento che ha il suo inizio con la trattazione di problematiche di natura teoretica, ma rappresentano il vero cuore dell’impianto filosofico di Hume. Esse non sono soltanto ciò che gli restituisce equilibrio, ma rappresentano il codice che ci permette di inquadrare correttamente la totalità del suo progetto: la partita più importante sembra giocarsi sul terreno della prassi, cioè in un ambito che trova il suo pieno compimento nella morale e nella politica. A partire dai lavori di Norman Kemp Smith, la linea all’interno della quale gli interpreti hanno lavorato per comprendere Hume è stata principalmente quella del naturalismo: la scienza della natura umana acquista senso non come la grande beffa di uno scettico che vuole far emergere l’inconcludenza degli sforzi di tutti coloro che hanno ambizioni sistematiche, bensì come il tentativo di un filosofo che vuole davvero spiegare, per via sperimentale e senza alcun riferimento a ipotesi trascendenti non com-

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Da “io penso” a “noi facciamo” 1

prensibili naturalisticamente, i meccanismi che contraddistinguono l’agire degli esseri umani. A questa linea ne è stata accostata una seconda, che vede Hume come un filosofo del senso comune, il cui insegnamento ultimo è quello secondo il quale bisogna considerare il senso comune come affidabile, e operare dal suo interno perché si possa sperare di opporsi alle astrusità che la riflessione filosofica inevitabilmente porta con sé1. In quest’ottica, la scienza dell’uomo humeana non ha tanto lo scopo di evidenziare una dimensione genuinamente filosofica esterna al senso comune che sia capace di spiegarlo, quanto, piuttosto, di rendere conto di esso dal di dentro, nella convinzione che soltanto in questo modo si possano cogliere le coordinate che ci permettono di illustrare lo svolgersi della natura umana in tutta la sua complessità. Dall’analisi del problema dell’io, risulta che queste due spiegazioni non sono affatto in contraddizione tra loro, ma possono essere – e sono state – conciliate. Lungi dall’essere un pensatore negativo e filosoficamente infecondo, Hume si propone come un’alternativa reale e produttiva, e vuole farlo attraverso un impianto filosofico che è il risultato del connubio tra naturalismo e senso comune. Tuttavia, non si comprende appieno il progetto teorico di Hume se non si sottolinea che questo naturalismo di senso comune acquista senso solo all’interno di una concezione della filosofia intesa come attività pratica. È necessario, a questo punto, approfondire che cosa significa che l’attività pratica occupa un ruolo centrale nel pensiero humeano. Per farlo, ci si riferirà soprattutto a due autori, Nicholas Capaldi e Donald Livingston, che più di altri hanno dato rilievo, nella loro interpretazione di Hume, a questa dimensione. 1 Per capire la portata della filosofia di senso comune di Hume, e per collocarla all’interno del contesto filosofico in cui è stata elaborata, è fondamentale il lavoro di David Fate Norton, David Hume: �ommon Sense Moralist, Sceptical Metaphysician, Princeton, Princeton University Press, 1984. Dello stesso autore, si veda anche Hume’s �ommon Sense Morality, “Canadian Journal of Philosophy”, 5 (1975), pp. 523-43. Per un quadro più generale della relazione tra scetticismo e senso comune nella Scozia del ’700, si veda Franco Restaino, Scetticismo e senso comune. La filosofia scozzese da Hume a Reid, Roma-Bari, Laterza, 1974.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

2. Capaldi osserva come non si debbano confondere le conclusioni scettiche che Hume presenta nel primo libro del Trattato con le sue reali convinzioni. Al contrario, i risultati negativi che vi sono descritti sono il prodotto di un punto di vista filosofico che è agli antipodi di quello di Hume, che egli fa suo soltanto apparentemente e per ragioni strumentali. A partire dalla differenza che corre tra la reale posizione di Hume e ciò che egli invece avversa, Capaldi spiega qual è il meccanismo che soggiace alla filosofia di Hume distinguendo tra due differenti prospettive, denominate I Think Perspective e We Do Perspective2. La I Think Perspective (la prospettiva dell’“io penso”) corrisponde a un modo di concepire l’impresa filosofica che consiste nel tentativo, da parte di un soggetto pensante, di cogliere un mondo di oggetti esterno a lui. Secondo questa prospettiva, che ha in Descartes il suo campione, il senso ultimo della filosofia è di tipo puramente speculativo: fare filosofia significa tentare di conoscere qualcosa che sta al di là di colui che conosce, dove quest’ultimo viene concepito come un osservatore isolato e non compromesso con ciò che gli sta di fronte. Sia che ci si trovi di fronte a questioni di tipo epistemologico, sia che si affrontino problemi di tipo pratico, il punto di partenza è sempre quello di un soggetto autonomo e razionale che si oppone a un mondo di oggetti. Hume intuirebbe che impostando la ricerca in questo modo si è condannati allo scacco fin dall’inizio. Se si crede che la dimensione teoretica goda di uno statuto suo proprio, capace di indirizzare la riflessione filosofica complessivamente intesa, si è destinati ad approdare a un punto in cui essa si ripiega inevitabilmente su se stessa, diventando autoreferenziale e incapace di fornire alcuna risposta soddisfacente: restando nella I Think Perspective si cade, senza possibilità di scampo, in uno scetticismo estremo. Ma non è affatto un esito inevitabile, né per la filosofia in generale, né per Hume. Dalla constatazione dell’impasse in cui finisce la I Think Perspective, Hume capirebbe, secondo Capaldi, 2 Questa terminologia è utilizzata di continuo in Hume’s Place in Moral Philosophy, cit.

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Da “io penso” a “noi facciamo” 

che l’unica via d’uscita è cambiare completamente paradigma: bisogna adottare la We Do Perspective (la prospettiva del “noi facciamo”). La We Do Perspective concepisce l’impresa filosofica non come un esercizio puramente speculativo, ma come una forma di attività pratica. Protagonista della We Do Perspective non è più un astratto soggetto pensante, ma un agente, un essere attivo e non soltanto intellettuale, il cui scopo primario è di tipo pratico. Questo doer non si muove da solo – non è un ipotetico individuo solitario e autosufficiente che tenta di cogliere l’essenza di ciò che gli sta di fronte –, ma è calato in un mondo composto da tanti altri doers che, come lui, sono guidati soprattutto dal desiderio di comprendere e dirigere le proprie azioni, piuttosto che di accertarsi che le affermazioni che essi fanno siano effettivamente vere, nel senso di riflettere fedelmente la realtà. Gli esseri umani possono essere inquadrati correttamente solo se li si considera, da subito, come collocati all’interno di una dimensione pragmatica, nella quale si presentano come agenti che interagiscono tra loro; ed è soltanto a partire da una dimensione pragmatica che possiamo porre nella giusta luce le problematiche più specificamente teoretiche. Le quali, se nel primo libro del Trattato sono ancora considerate per assurdo – adottando un’ottica che Hume mutua dai suoi avversari –, nella prima Ricerca, e quindi in tutte le opere successive al Trattato, sono, da subito, osservate attraverso una lente che ne fa risaltare il valore intrinsecamente sociale3. In realtà, già nel 1739 Hume è consapevole dell’impossibilità di spiegare in maniera scientifica la natura umana prescindendo dalla realtà insieme ragionevole, sociale e attiva degli esseri umani. Gli esperimenti che dovrebbero confermare la scienza della natura umana, infatti, possono aversi solo «con una cauta osservazione della vita umana, così come si presentano comunemente nella condotta degli uomini che vivono in società, negli affari o nei

3 Si veda An Enquiry concerning Human Understanding, sez. I, cpv. 6; tr. it. cit., pp. 6-7.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

piaceri»4. L’oggetto di indagine e colui che indaga coincidono: si tratta, in ambedue i casi, di un essere umano, ossia di una creatura nella quale ragionevolezza, socialità e attività sono legate indissolubilmente, e non possono venire isolate e spiegate indipendentemente l’una dalle altre. La razionalità che guida gli individui, tanto nelle loro indagini speculative quanto nel loro operare pratico, non trova in se stessa la propria giustificazione, ma si contraddistingue come il prodotto di una sfera più ampia di attività di tipo innanzitutto sociale. Al proposito, non si deve sottovalutare il legame che esiste tra attività e socialità. I due momenti, sottolinea Capaldi, vanno insieme, e ciò è una peculiarità del pensiero di Hume, che lo differenzia da quello di filosofi che, come Thomas Hobbes, hanno presentato una antropologia che subordina la socialità alla nozione di attività. Anche con loro ci si trova di fronte a una spiegazione di tipo naturalistico, in grado di disincagliarsi dalle secche in cui si arena la I Think Perspective – come l’incapacità di spiegare la relazione che esiste tra pensiero e azione, o tra la mente e il corpo. Si tratta della I Do Perspective (la prospettiva dell’“io faccio”): è questo il modo in cui Capaldi chiama le concezioni nelle quali l’azione ha un ruolo centrale nella spiegazione, ma è svolta da individui concepiti come “giocatori” autonomi e slegati l’uno dall’altro, accomunati soltanto dal possesso della medesima razionalità strategica – ossia, da una razionalità di tipo solamente strumentale, esercitata con la consapevolezza che non si è soli, ma si deve competere per il conseguimento dei propri fini con altri individui guidati dalla stessa facoltà5. La I Do Perspective, tuttavia, anche se condivide con la We Do Perspective il richiamo all’azione, presenta anch’essa dei problemi, quali l’incapacità di spiegare come esseri materiali, la cui attività è causata da eventi Treatise, “Introduzione”, xix, cpv. 10; tr. it. cit., p. 10. Sulla nozione di razionalità strategica, si veda Jon Elster, Ulysses and the Sirens, Cambridge, Cambridge University Press, 1979, tr. it. di Paolo Garbolino con il titolo Ulisse e le Sirene. Indagini sulla razionalità e l’irrazionalità, Bologna, Il Mulino, 1983. 4

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Da “io penso” a “noi facciamo” 5

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esterni, possano avere scopi pratici, e quindi come questi scopi di individui atomici, indipendenti gli uni dagli altri, possano essere concepiti come ragionevoli, ossia socialmente coerenti e responsabili6. Hume, al contrario, ammette la possibilità di parlare in termini di ragionevolezza e di irragionevolezza; a patto, però, che si riconosca l’impossibilità di fare della ragione una facoltà autonoma, poiché essa si mostra solo nella veste di una attività sociale, vale a dire inevitabilmente passionale7. 3. Grazie agli strumenti interpretativi di Capaldi, si può concludere quanto segue. Invece di effettuare un’indagine teoretica sulle capacità del nostro pensiero, nella speranza di scoprire i principi della nostra razionalità, da applicare poi alla sfera della pratica, Hume si muove nella direzione opposta: comincia prima con la pratica, da cui soltanto poi cerca di estrarre le norme sociali che diventeranno quei principi finora confusi per pure emanazioni razionali; principi che, in un secondo momento, saranno oggetto di riflessione filosofica. Una pratica efficiente precede la sua teoria8. Teoria che si mostra come il prodotto di una spiegazione culturale, ossia fondamentalmente sociale e storica, la cui forza sta nel suo essere riflessiva, cioè frutto di una considerazione in cui la griglia interpretativa che noi esseri umani gettiamo sul mondo, tanto per comprenderlo quanto per controllarlo per i nostri fini pratici, è essa stessa il prodotto della nostra attività. La ragione, da sola, è incapace di comprendere perfino se stessa; essa non è depositaria di nessun principio a priori permanente, poiché i precetti a cui noi ci appelliamo sono il risultato di un processo in cui l’ultima forma d’ordine e la prospettiva a cui si applica sono mutualmente inclusive. Sulla diversità tra le due antropologie naturalistiche di Hobbes e di Hume si veda quanto dice Eugenio Lecaldano in Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., cap. II. 7 In The Problem of Hume and Hume’s Problem, in McGill Hume Studies, cit., pp. 3-21, Capaldi chiama questa concezione della ragione «an agency interpretation of reasoning». Si veda anche Annette Baier, A Progress of Sentiments, cit., cap. XII. 8 Sempre di Capaldi, si veda al riguardo anche Hume as a Social Scientist, cit. 6

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

L’attacco humeano al razionalismo e la sua preferenza per una filosofia di senso comune acquistano allora senso. È il razionalismo che nasconde in se stesso uno scetticismo estremo, e questo perché razionalismo e scetticismo si rivelano essere due facce della medesima medaglia. Una filosofia di senso comune – una filosofia di senso comune naturalistica e sperimentale9 – permette, invece, grazie al suo impianto intrinsecamente riflessivo, di annullare le obiezioni dello scetticismo. Infatti, se la ragione operasse solo nei termini del modello razionalista (ossia, se essa fosse soltanto una ragione che dimostra a partire da fondamenti irrefutabili), e se gli esseri umani fossero guidati soltanto dalla ragione, allora non agirebbero; e questo ci condurrebbe a uno scetticismo assoluto. Ma gli esseri umani agiscono; e poiché questo rappresenta il dato di partenza, allora non è più possibile sostenere uno scetticismo assoluto. Ciò significa anche che o la ragione non consiste affatto in quello che ci dice il razionalismo, oppure gli individui non sono guidati soltanto dalla ragione. Ipotesi che, in questo caso, sono entrambe vere: la ragione, infatti, non si dà mai pura, bensì connotata come una variazione di una immaginazione intrinsecamente sentimentale, e per questo capace di orientare le scelte degli esseri umani. 4. Anche Donald Livingston arriva a conclusioni simili a quelle a cui giunge Capaldi. Secondo Livingston, il pensiero di Hume si sviluppa in un percorso in cui le fasi successive comprendono le precedenti, e ci permettono di osservarle dalla giusta angolazione. La filosofia di senso comune di Hume non è altro che il punto di arrivo di un pensiero filosofico che è divenuto, infine, consapevole di se stesso e del suo ruolo. In particolare, Livingston Ben lontana, quindi, dalle implicazioni religiose che contrassegnano, invece, la posizione dei cosiddetti “filosofi del senso comune” – anch’essi scozzesi e contemporanei di Hume – quali George Turnbull, Lord Kames, James Beattie, Thomas Reid. Al proposito, si veda David Fate Norton, sia Presupposti religiosi del realismo scozzese, in Scienza e filosofia scozzese nell’età di Hume, a cura di Antonio Santucci, Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 111-28, sia Hume and His Scottish �ritics, in McGill Hume Studies, cit., pp. 309-24. 9

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critica tutte quelle interpretazioni del pensiero di Hume che lo hanno visto come una forma di fenomenismo – cioè, per citare una famosa definizione di John Laird, come «quella dottrina secondo cui tutta la nostra conoscenza, tutte le nostre credenze, e tutte le nostre congetture cominciano e finiscono con delle apparenze; quella dottrina secondo cui non possiamo andare oltre le apparenze e non dovremmo provare a farlo»10. Per il fenomenismo, sostiene Livingston, valgono le due seguenti tesi: che le nostre idee non sono altro che immagini mentali logicamente private, e che il significato delle nostre parole consiste in queste idee11. Non è difficile vedere come una lettura fenomenista spalanchi le porte allo scetticismo: se essa è vera, non soltanto manca per principio qualsiasi aggancio alla realtà, che resta sempre al di là delle rappresentazioni – dei fenomeni – che abbiamo di essa, ma resta irrisolto sia come le nostre idee possano significare alcunché, sia come noi possiamo comunicarci questi ipotetici significati gli uni con gli altri. Al contrario, per Livingston la filosofia di Hume si spiega soltanto come un’operazione pubblica, sociale e pragmatica. Quando si è tentati di accusare Hume di essere un fenomenista, bisogna ricordare che il suo apparente fenomenismo è programmatico, è soltanto una stazione di un viaggio che proseguirà molto oltre. Il problema dello scetticismo viene superato prendendo atto che la natura della riflessione filosofica è dinamica e si articola dialetticamente: dapprima prende le mosse dalle posizioni espresse in maniera irriflessa nel senso comune, poi se ne allontana per seguire il percorso di un’osservazione filosofica astratta, e, infine, ritorna al senso comune, ma questa volta presentandolo 10 John Laird, Hume’s Philosophy of Human Nature, cit., p. 25. Altri esempi di un’interpretazione fenomenista della filosofia humeana sono H.H. Price, Hume’s Theory of External World, cit.; D.M. Armstrong, Perception and the Physical World, London, Routledge & Kegan Paul, 1961, in particolare il cap. IV; Farhang Zabeeh, Hume: Precursor of Modern Empiricism, The Hague, Martinus Nijhoff, 1973. 11 Contro il fenomenismo Livingston argomenta soprattutto in Hume’s Philosophy of �ommon Life, cit., capp. II e III.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

come orizzonte di significato all’interno del quale soltanto il tragitto compiuto diventa intelligibile12. Questo senso comune accresciuto rappresenta, secondo Livingston, la prospettiva della true philosophy, della vera filosofia, secondo la quale il senso comune si pone come la sfera di possibilità che traccia i confini stessi della razionalità dell’indagine filosofica. Se è vero che essa è guidata dall’esigenza di soddisfare quelli che Livingston nomina come «Ultimacy Principle» e «Autonomy Principle» – se è vero cioè che quello che contraddistingue l’indagine filosofica è la pretesa di giungere a risposte che siano conclusive, e formulate da una posizione che faccia della filosofia una disciplina perfettamente autonoma –, allora la verità a cui si giunge, alla fine dell’investigazione, è che non si può mai andare al di là dei limiti del senso comune, oltre il quale ci attende uno scetticismo che altro non è che assenza di significato13. E sebbene Hume riconosca, all’interno del senso comune, un ambito che resta appannaggio della filosofia teoretica – si pensi a tutto il primo libro del Trattato e alla prima Ricerca –, tuttavia lo considera come un aspetto di un insieme più ampio, che funziona soltanto se non lo si fa oggetto di pura speculazione, ma lo si osserva come una variazione dell’attività pratica. Perciò, anche se la riflessione filosofica continua a essere guidata dall’ambizione di giungere a una soluzione che si dia come definitiva, la presunzione che essa possa essere condotta in maniera perfettamente esogena e autosufficiente è destinata a rimanere insoddisfatta. 5. Tanto Livingston, dunque, quanto Capaldi, ritengono che il Si veda Donald W. Livingston, Hume’s Philosophy of �ommon Life, cit., cap. I. 13 Sull’Ultimacy Principle e sull’Autonomy Principle – che, insieme al Principle of Dominion (ossia, la tendenza della mente umana a considerare le proprie opinioni come definitive e indiscutibili, e a rifiutare quelle contrarie), rendono possibile la riflessione filosofica –, si veda anche Donald W. Livingston, Hume on the Natural History of Philosophical �onsciousness, in The “Science of Man” in the Scottish Enlightenment. Hume, Reid and their �ontemporaries �ontemporaries, a cura di Peter Jones, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1989, pp. 68-84. 12

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Da “io penso” a “noi facciamo” 

contributo di Hume sia quello di aver spostato i criteri dell’indagine filosofica da una prospettiva I Think a una We Do, operando, in questo modo, una rivoluzione concettuale – una «rivoluzione copernicana»14 –, che fa del senso comune non ciò che va rifiutato per ottenere, cartesianamente, quella certezza finora negata, ma il fondamento che ci permette di interpretare l’esperienza. Le analisi di Capaldi e di Livingston si rivelano preziose per collocare l’impostazione filosofica humeana nella giusta luce. Ambedue, ognuna a suo modo, ne colgono un aspetto importante: per Hume, non esiste un “punto archimedeo” da cui osservare la vita comune dall’esterno, poiché qualsiasi punto di vista da cui azzardare un giudizio è esso stesso il prodotto di quella dimensione che si vuole valutare. I principi humeani che permettono di spiegare e ordinare l’esperienza crescono storicamente a partire dalle pratiche esistenti e, al tempo stesso, sono una riflessione su di esse. Una idea che verrà ripresa ed elaborata nel ventesimo secolo, per esempio da Bernard Williams – che, non a caso, è ritenuto uno dei più acuti prosecutori di un’impostazione humeana –, secondo il quale la filosofia non possiede gli strumenti per innalzarsi al di sopra degli oggetti che deve indagare per studiarli da una posizione ideale, perfettamente informata e razionale15.

14 Si veda Nicholas Capaldi, Hume’s Place in Moral Philosophy, cit., capp. I e VIII. Capaldi si occupa del problema già in The �opernican Revolution in Hume and Kant, in Proceedings of the Third International Kant �ongress, a cura di L.W. Beck, Dordrecht, D. Reidel Publishing Company, 1972, pp. 234-40, per riprenderlo in David Hume. The Newtonian Philosopher, cit., cap. IV e in Hume as a Social Scientist, cit. Si veda anche Id., The Dogmatic Slumber of Hume Scholarship, “Hume Studies”, 18 (1992), pp. 117-35. 15 Williams intitola il cap. II del suo Ethics and the Limits of Philosophy, London, Fontana Press, 1985, tr. it. di Rodolfo Rini con il titolo L’etica e i limiti della filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1987, proprio: “Il punto di Archimede”. Sullo statuto di cui gode la filosofia secondo Williams si veda anche Philosophy as a Humanistic Discipline, in Bernard Williams, Philosophy as a Humanistic Discipline, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2006, pp. 180-99. Per un accostamento tra Hume e Williams circa alcune tematiche di natura etica, si veda Lorenzo Greco, Humean Reflections in the Ethics of Bernard Williams, “Utilitas”, 19 (2007), pp. 312-25.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

Lo scotto che va pagato per l’abbandono dello scetticismo è, allora, una riflessione filosofica che presuppone sempre le massime che deve spiegare. Questo procedimento è opposto a quello razionalista, in cui si cercano principi a priori da usare come unità di misura delle istituzioni esistenti, indipendentemente dall’autorità che le istituzioni stabilite possono avere. I criteri della filosofia sono inevitabilmente pubblici e sociali: il metodo empirico humeano consiste nel ricavare principi esplicativi a partire da pratiche storicamente determinate, principi che perdono di significato se si pretende, in nome di un livello di astrazione ulteriore, di andare al di là della storicità di quelle pratiche stesse. La scienza della natura umana “newtoniana” di Hume consiste, certo, nel non prescindere mai dall’esperienza; ma questa esperienza non è isolata, come avviene nella sperimentazione scientifica, bensì è sempre storicamente determinata, e dipende da questa dimensione temporale16. Colui che pensa in maniera critica è qualcuno che parte da dentro le pratiche stabilite della common life, riflette su di esse e le sviluppa, sapendo, però, di non poterle mai abbandonare, nel senso di non potersi mai porre nei loro confronti come uno spettatore esterno che le esamina come fossero oggetti di un’indagine puramente teoretica. L’esperienza di cui si nutre la scienza della natura umana prende l’avvio dal senso comune, ma solo per ritornare a esso17. 6. Il fatto che si individui nell’andamento della filosofia humeana un movimento dialettico, che si metta l’accento sulla dimensione temporale e storica, che si utilizzino strumenti concettuali che sembrano in apparenza fuori luogo, se applicati a un autore come Hume – non fosse altro perché, abitualmente, la legittimità del loro uso viene fatta risalire a una tradizione di pensiero successiva 16 Questa interpretazione viene fatta valere in modo sistematico da Claudia History, University Park, Pennsylvania, The M. Schmidt, David Hume. Reason in History Pennsylvania State University Press, 2003. 17 A conclusioni simili giunge anche Emanuele Ronchetti, Hume e il problema dell’identità personale: filosofia rigorosa e senso comune, in Scienza e filosofia scozzese nell’età di Hume, cit., pp. 129-67.

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Da “io penso” a “noi facciamo” 101

a quella dell’Illuminismo britannico –, può fare apparire a prima vista questa interpretazione come peculiare, se non addirittura fantasiosa. E tuttavia, Capaldi e Livingston non sono affatto i soli ad avvicinare Hume a una linea di pensiero che scarta dalla tradizione, e che si sviluppa seguendo percorsi differenti nell’Europa continentale. Per esempio, anche Baier cerca di smarcare Hume da quella tradizione interpretativa che dall’Illuminismo britannico arriva al positivismo logico novecentesco, e argomenta che, da un confronto attento con altre tradizioni, non si può che ricavare un guadagno nell’approfondimento dei meccanismi e delle intenzioni della filosofia humeana, senza per questo tradirne lo spirito di fondo. Se Capaldi attacca gli esiti a cui si giunge spiegando Hume attraverso gli schemi troppo rigidi offerti sia dal neopositivismo sia da una certa filosofia analitica del linguaggio18, Baier invita a leggere Hume tenendo presente la fenomenologia dello spirito di Hegel19. Un avvicinamento a Hegel – e a Vico – che viene fatto anche da Livingston, il quale guarda con favore a una rivisitazione di Hume a partire da un’impostazione di tipo fenomenologico e non fenomenista20. C’è poi chi vede 18 Cfr. i più volte citati Hume’s Place in Moral Philosophy, The Historical and Philosophical Significance of Hume’s Theory of the Self, Hume as a Social Scientist e The Dogmatic Slumber of Hume Scholarship. Secondo Capaldi per Hume – a differenza dei neopositivisti – è falso che le spiegazioni storiche alla fine possano venire ridotte a spiegazioni causali nella forma di leggi, bensì è vero il contrario: tutte le spiegazioni causali sono storiche e narrative. Al riguardo, si vedano anche Donald Livingston, Hume’s Philosophy of �ommon Life, cit., capp. VI, VII e VIII, e Id., Time and Value in Hume’s Social and Political Philosophy, in McGill Hume Studies, cit., pp. 181-201. 19 Annette C. Baier, Master Passions, in Explaining Emotions, a cura di Amélie Oksenberg Rorty, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1980, pp. 403-23. Al riguardo, si veda anche Amélie Oksenberg Rorty, “Pride Produces the Idea of Self”: Hume on Moral Agency, cit. Per un confronto tra la filosofia di Hume e quella di Hegel, si veda Christopher J. Berry, Hume, Hegel and Human Nature, The Hague-Boston-London, Martinus Nijhoff, 1982. 20 Oltre a Hume’s Philosophy of �ommon Life, cit., si veda anche Philosophical Melancholy and Delirium. Hume’s Pathology of Philosophy, cit., cap. XV. Per un confronto tra Hume e Vico, si veda Leon Pompa, Human Nature & Historical Knowledge. Hume, Hegel and Vico, Vico Cambridge, Cambridge University Press,

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

in Hume il precursore di tesi che avrebbero avuto fortuna e diffusione solo con Friedrich Nietzsche – specificamente, l’etica di Hume viene interpretata da alcuni come una vera e propria genealogia della morale21. E chi, infine, azzarda un accostamento con la tradizione ermeneutica e con quella postmoderna22. Pur restando, innegabilmente, il frutto della mente di un illuminista, la filosofia humeana acquista quindi una profondità nuova, e Hume si mostra, sorprendentemente, come un anticipatore di temi e approcci che avrebbero trovato uno sviluppo soltanto molto dopo. 7. Le analisi che sono state svolte hanno una ricaduta evidente sulla nozione di io, come si evince nuovamente da Livingston23. Anche per lui, come per gli interpreti discontinuisti, l’io humeano non dipende dai ragionamenti sull’identità personale, ma fa 1990. Per un confronto tra Hume e Husserl – dove Hume viene presentato come fenomenologo in nuce – si veda Rocco Donnici, Husserl e Hume. Per una fenomenologia della natura umana, Milano, Franco Angeli, 1989. 21 Sulle affinità tra Hume e Nietzsche, si considerino i due saggi di Craig Beam Hume and Nietzsche: Naturalists, Ethicists, Anti-�hristians, “Hume Studies”, 22 (1996), pp. 299-324 e Ethical Affinities: Nietzsche in the Tradition of Hume, “International Studies in Philosophy”, 33 (2001), pp. 87-98. Anche Peter J.E. Kail, Hume’s Ethical �onclusion, in Impressions of Hume, cit., pp. 125-39 individua in Hume degli elementi nietzscheani, in particolare per quel che riguarda un’idea di comprensione di sé sempre storicamente data, e una spiegazione della sfera valutativa che anticipa la dimensione genealogica. A considerare Hume come un pensatore genealogico sono Hans Lottenbach, Monkish Virtues, Artificial Lives: On Hume’s Genealogy of Morals, “Canadian Journal of Philosophy”, 26 (1996), pp. 367-88 e David Wiggins, Ethics. Twelve Lectures on the Philosophy of Morality, cit., capp. II e III. Anche Bernard Williams, Truth and Truthfulness. An Essay in Genealogy, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2002; tr. it. di Gianfranco Pellegrino con il titolo Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il vero, Roma, Fazi, 2005, cap. I, nomina Hume tra gli autori significativi per il suo progetto di ricostruzione genealogica della nozione di verità. 22 Si vedano ad esempio James Farr, Hume, Hermeneutics, and History: A “Sympathetic” Account, “History and Theory”, 17 (1978), pp. 285-310 e Zuzana Parusnikova, Against the Spirit of Foundations: Postmodernism and David Hume, “Hume Studies”, 19 (1993), pp. 1-18. 23 Si veda in particolare Hume’s Philosophy of �ommon Life, cit., cap. V.

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Da “io penso” a “noi facciamo” 10

la sua comparsa con l’orgoglio e l’umiltà. Ciò che Livingston aggiunge è che l’io passionale ricopre un ruolo di fondamentale importanza per il sistema humeano, perché è soltanto a partire da esso che può darsi un mondo morale ordinato sistematicamente secondo una scansione temporale. L’io passionale, infatti, corrispondendo alla consapevolezza di sé, si manifesta sempre al momento presente. È a partire dal presente che siamo in grado di avere un punto fermo da cui far partire la successione temporale: se siamo capaci di disporre gli eventi secondo un ritmo che dal passato arriva al presente e si sviluppa nel futuro, e dunque di vivere un’esistenza che si contraddistingue come temporalmente organizzata, lo dobbiamo al fatto che possiamo riconoscerci qui e ora, attraverso l’atto dell’essere consapevoli di noi stessi. Questa relazione tra consapevolezza di sé e temporalità chiama in causa la stessa immaginazione. Essa non troverebbe alcun punto d’appoggio se venisse meno la consapevolezza di sé; e senza immaginazione non saremmo in grado di organizzare secondo una struttura coerente la realtà nella quale operiamo e interagiamo come individui agenti24. L’immaginazione è, a sua volta, temporalmente connotata: essa «ha sempre presente la situazione attuale della persona»25, e risente del fatto che l’io è situato in un flusso temporale di cui esso è l’unità di misura. 8. Secondo Livingston, Hume offre una spiegazione secondo la quale, attraverso la consapevolezza passionale, arriviamo a riconoscerci come agenti temporalmente collocati all’interno di un 24 Si veda ad esempio Treatise, libro II, parte III, sez. 7, pp. 427-28, cpv. 2; tr. it. cit., p. 449. 25 Treatise, libro II, parte III, sez. 7, pp. 430, cpv. 8; tr. it. cit., p. 452. Sulla natura inevitabilmente temporale dell’immaginazione, e sull’impossibilità di spiegarne i meccanismi se non la si situa sempre qui e ora, si veda anche Donald W. Livingston, Time and Value in Hume’s Social and Political Philosophy, cit. e Gianluca Foglia, Immaginazione e natura umana, cit., cap. II, sez. 2. A sottolineare il legame tra passioni, immaginazione e temporalità è anche Pierpaolo Marrone, L’io delle passioni. Indagini su Hume, Trieste, Edizioni Goliardiche, 2000, cap. II.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

ordine che si dispiega nella forma di una narrazione. Grazie alla rete di relazioni narrative in cui la nostra condizione di soggetti così definiti ci impegna – grazie, cioè, a una rete di relazioni in cui gli oggetti, le persone e gli eventi acquistano significato per il fatto di essere posti in una sequenza temporale – può stabilirsi quella dimensione in cui individui sentimentalmente connotati sono in grado di definire loro stessi, e di gestire la realtà in cui sono calati. Il tempo si mostra nella forma della narrazione perché esso non può che essere un tempo che ha significato per noi. Non si tratta del tempo astratto della filosofia naturale, né di una sequenza di momenti indipendenti l’uno dall’altro, bensì di una catena di eventi che, avendo nella consapevolezza presente di un io sentimentalmente caratterizzato il suo punto focale, si presenta nella forma di un’esistenza composta da un passato che diviene sensato alla luce del nostro presente, e da un futuro che di questo presente sarà lo sviluppo. Una tesi che viene condivisa, ancora una volta, da Capaldi26, che evidenzia come l’unico concetto di tempo che abbia significato per Hume non possa essere un tempo astratto, bensì un tempo fenomenico, ossia un tempo che si presenta come una successione di impressioni. In questo senso, Livingston conclude che l’unico tempo che si può avere, per Hume, è un tensed time, un tempo che si dà nella successione passato-presente-futuro, che ha nell’io il proprio centro di equilibrio. Tanto il tempo quanto l’io, concepiti narrativamente, si rivelano come condizioni di possibilità dell’esperienza27, e attraverso questo processo si danno le basi perché si realizzi il mondo morale, vale a dire ciò che emerge dall’osservazione del mondo naturale alla luce delle nostre passioni, ordinate secondo un certo punto di vista.

Nicholas Capaldi, Hume as a Social Scientist, cit. Si veda ad esempio Treatise, libro I, parte II, sez. 3, pp. 36-37, cpv. 10; tr. it. cit., pp. 49-50. 26

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VIII La simpatia

1. Dall’esame che è stato condotto sono emersi alcuni punti fermi. Abbiamo visto come Hume possa ammettere una nozione di io positivamente intesa: l’io consiste nella consapevolezza che si avverte quando si provano le passioni di orgoglio e di umiltà. Si è, poi, argomentato che è possibile evitare le obiezioni che comunemente vengono rivolte alla filosofia di Hume quando ci si sofferma sulla questione dell’io. Si è, infine, sostenuto che la dimensione passionale si esprime compiutamente nella morale; analogamente, è in ambito morale che si comprende pienamente il significato di un io definito in termini passionali. La consapevolezza di noi stessi è ciò che consente di affermare l’esistenza dell’io, ossia di colui di cui ci preoccupiamo e di cui ci sentiamo responsabili. Parlando di questa consapevolezza passionale, si è evidenziato come essa sia un fatto fenomenologicamente irriducibile di cui bisogna prendere atto, senza pretendere di ridurlo a qualcosa di ulteriore. Un’impostazione di questo tipo è esposta a una critica seria, secondo la quale la spiegazione offerta da Hume sarebbe tale, ancora una volta, da racchiudere al suo interno il germe del fallimento. Prendendo le mosse da un io di tipo passionale e non intellettuale, infatti, Hume potrebbe venire accusato – e lo è stato – di concepire gli individui come isolati e indipendenti gli uni dagli altri, e questo perché farebbe affidamento su sentimenti e affezioni la cui caratteristica precipua sarebbe quella di

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

essere inevitabilmente privati. A mostrarne l’intrinseca debolezza sarebbe un principio fondamentale per rendere conto tanto del fenomeno dell’etica, in generale, quanto dell’io morale, in particolare: il principio della simpatia. È necessario, a questo punto, esaminare in che cosa consista, per capire quale ruolo abbia nella dinamica del sistema humeano, e se effettivamente ne mini le fondamenta. 2. Generalmente, si ritiene che Hume presenti un’etica di tipo soggettivistico: vizio e virtù – e con essi la dimensione del valore nel suo complesso – sono una funzione dei sentimenti che contraddistinguono la natura umana1. Tuttavia, a partire da questa constatazione, il pericolo che alcuni hanno scorto è quello di vedersi sbarrata la possibilità di stabilire uno scambio con l’altro2. Non è un caso, per esempio, che a essere considerati eredi di Hume siano stati, tra gli altri, quei filosofi noti come “emotivisti”, quali Alfred J. Ayer e Charles L. Stevenson3, che questa impossibilità l’hanno apertamente teorizzata, sostenendo che la riflessione etica, alla fine, si deve fermare di fronte all’essenza privata delle nostre emozioni e dei nostri desideri. Se e in quale misura gli emotivisti siano davvero continuatori della filosofia humeana è senza dubbio

1 Sul soggettivismo etico di Hume si vedano John L. Mackie, Hume’s Moral Theory, London-New York, Routledge, 1980, cap. V e Barry Stroud, Hume, cit., cap. VIII. 2 Un esempio paradigmatico al riguardo è offerto, per esempio, da Philippa Foot, Hume on Moral Judgement, in Ead., Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, Berkeley-Oxford, University of California Press-Blackwell, 1978, ora Oxford, Clarendon Press, 2002, pp. 74-80. Si veda anche Warren Quinn, Rationality and the Human Good, in Id., Morality and Action, Cambridge, Cambridge University Press, 1993, pp. 210-27. Quinn parte da presupposti simili a quelli di Foot, ma la sua critica non è rivolta tanto a Hume, quanto ai filosofi del ventesimo secolo che hanno in Hume il loro punto di riferimento. 3 Alfred J. Ayer, Language, Truth and Logic, London, Victor Gollancz, 1936, tr. it. di Giannantonio De Toni con il titolo Linguaggio verità e logica, Milano, Feltrinelli, 1961; Charles L. Stevenson, Ethics and Language, New Haven, Yale University Press, 1944, tr. it. di Silvio Ceccato con il titolo Etica e linguaggio, Milano, Longanesi, 1962.

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La simpatia 107

discutibile; certo è che, nei capitoli precedenti, è stata presentata un’interpretazione della soluzione humeana molto diversa, in cui l’io, pensato in termini passionali, si rivela in un contesto pubblico e condiviso. Ma come è possibile ciò, se l’io si risolve in una consapevolezza che non è altro che il frutto di un’impressione elementare accessibile esclusivamente a colui che la prova? Se si ha a che fare soltanto con una passione esperibile privatamente, se gli individui che dovrebbero interagire sono qualificati facendo appello a una dimensione sentimentale che sembra costringerli fin dal principio in loro stessi, come può aversi la We Do Perspective? Se è vero che non c’è soluzione di continuità tra l’io passionale e l’io morale, come è possibile garantire, su queste basi, quell’intersoggettività necessaria per la riflessione etica? La critica che viene mossa è che nel sistema humeano valga il cosiddetto «primato del privato»4. Dato il modo in cui questo sistema è strutturato, la sfera del mentale non può che venire concepita come qualcosa di nascosto che si mostra unicamente a colui che la possiede: il soggetto che percepisce. Le passioni, le emozioni e i sentimenti, in quanto percezioni, corrisponderebbero quindi a esperienze particolari, accessibili direttamente soltanto alla persona che le ha. Hume, come gli altri empiristi britannici – ma anche come Malebranche –, resterebbe suo malgrado un discepolo di Descartes5. Come Descartes, avrebbe il problema di spiegare come facciamo ad andare al di là delle nostre rappresentazioni mentali, e a riconoscere gli altri non come semplici

4 Anthony Flew, Hume’s Philosophy of Belief, cit., p. 37. Di Flew si vedano anche Another Idea of Necessary �onnection, “Philosophy”, 57 (1982), pp. 487-94 e David Hume. Philosopher of Moral Science, Oxford, Blackwell, 1986, pp. 12-37. 5 Cfr. Anthony Kenny, Action, Emotion and Will, London, Routledge and Kegan Paul, 1963, cap. I; Id., �artesian Privacy, in Wittgenstein. The Philosophical Investigations, a cura di George Pitcher, London, Macmillan, 1968, pp. 352-70; Philip Mercer, Sympathy and Ethics. A Study of the Relationship Between Sympathy and Morality with Special Reference to Hume’s Treatise, Oxford, Clarendon Press, 1972, cap. II; John Passmore, Hume’s Intentions, cit., pp. 13-14; tr. it. cit., p. 111. Sull’interpretazione “cartesiana” di Hume, si veda David Pears, Hume’s Recantation of His Theory of Personal Identity, cit.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

corpi, ma come persone sentimentalmente caratterizzate6. Non siamo in grado di conoscere gli stati mentali delle altre persone; e, poiché non abbiamo accesso al contenuto delle menti altrui, non possiamo mai essere davvero sicuri di avere a che fare con altri esseri umani che hanno pensieri e sentimenti, piuttosto che con dei gusci vuoti, con degli zombie o dei robot7. Dato un contesto di questo tipo, anche se ci è precluso un accesso agli stati mentali altrui, sembrerebbe tuttavia possibile desumere l’esistenza di questi pensieri e sentimenti in maniera indiretta, nel modo seguente8. Avere esperienza di un’emozione significa riconoscere o percepire uno stato mentale interno, al quale ha accesso soltanto colui che lo esperisce. Il comportamento, verbale e non, di una persona è considerato il sintomo esterno dell’evento interno; se questo è vero, un osservatore può inferire l’esistenza di un’emozione dai suoi effetti esterni. Gli enunciati che descrivono stati psicologici in prima persona sono il resoconto di osservazioni introspettive; mentre gli enunciati che descrivono stati psicologici in terza persona sono il prodotto di inferenze, il risultato di un argomento induttivo secondo il quale, a partire dal modo in cui una persona si mostra all’esterno, si giunge a presupporre gli stati mentali interni corrispondenti. La sola possibilità che si ha di riconoscere gli stati mentali altrui sembrerebbe dipendere, quindi, da un argomento per analogia9, per cui si è autorizzati ad ascrivere stati mentali agli altri 6 A impostare il problema in questo modo è A.E. Pitson, sia Sympathy and Other Selves, “Hume Studies”, 22 (1996), pp. 255-71, sia Hume’s Philosophy of the Self, London-New York, Routledge, 2002, cap. VIII. 7 Per una formulazione classica di questa critica, si veda Norman Malcolm, Problems of Mind: Descartes to Wittgenstein, London, Allen & Unwin, 1972, tr. it. di Rosanna Albertini con il titolo Mente, corpo e materialismo: da Descartes a Wittgenstein, Milano, ISEDI, 1973, cap. I, sezz. 6, 7 e 8. Di Malcolm si veda anche Knowledge of Other Minds, “Journal of Philosophy”, 55 (1958), pp. 96978. Per un’analisi più generale del problema delle altre menti, si veda Anita Avramides, Other Minds, London-New York, Routledge, 2001. 8 Si veda Philip Mercer, Sympathy and Ethics, cit., cap. II. 9 Sull’argomento per analogia in Hume, si veda A.E. Pitson, sia Sympathy and Other Selves, cit., sia Hume’s Philosophy of the Self, cit., cap. VIII.

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La simpatia 10

solo sulla base dell’analogia tra il loro comportamento visibile e quello che mostriamo noi quando constatiamo di avere certi stati mentali: dal momento che ci comportiamo in certi modi quando abbiamo certi stati mentali, osservando lo stesso comportamento in altri supponiamo che anch’essi abbiano gli stessi stati mentali. In questo modo, partendo dall’esperienza dei nostri stati mentali interni e del nostro conseguente comportamento esterno, arriviamo a inferire che anche gli altri sono individui contraddistinti dalle medesime passioni che abbiamo noi. 3. Hume presenta la simpatia come il principio che permette di spiegare come sia possibile la comunicazione emotiva10. Esso consiste nella trasformazione di un’idea vivace in un’impressione. Se assistiamo all’espressione di una passione, di un’emozione o di un sentimento da parte di un’altra persona, essi si presentano alla nostra mente come idee vivaci. Quando queste idee vengono paragonate all’idea del nostro io, si genera in noi una nuova passione, un’emozione o un sentimento corrispondenti a quelli di colui che ci sta di fronte. In questo modo, ci dice Hume, gli esseri umani si influenzano vicendevolmente, e sono in grado di stabilire un contatto a livello sentimentale. Questo «contagio» emotivo11 avviene in maniera automatica e involontaria, ed «è oggetto della più comune esperienza e non dipende da una qualche ipotesi propria della filosofia»12. 10 Per una spiegazione della collocazione della simpatia all’interno del sistema di Hume cfr. Páll S. Árdal, Passion and Value in Hume’s Treatise, cit., cap. III; Eugenio Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., soprattutto cap. II, sez. 5; Gerald J. Postema, “�emented with Diseased Qualities”: Sympathy and �omparison in Hume’s Moral Psychology, “Hume Studies”, 31 (2005), pp. 249-98. 11 Treatise, libro III, parte III, sez. 3, p. 605, cpv. 5; tr. it. cit., p. 639 e An Enquiry concerning the Principles of Morals (1751), a cura di Tom L. Beauchamp, Oxford-New York, Oxford University Press, 1998, sez. VII, cpv. 2; tr. it. di Mario Dal Pra con il titolo Ricerca sui principi della morale, in David Hume, Opere, volume II, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 265. 12 Treatise, libro II, parte I, sez. 11, pp. 319-20, cpv. 8; tr. it. cit., p. 335. In questo senso, come sottolineano in molti, la simpatia non è a sua volta una passione,

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

Tuttavia – si sostiene – la simpatia si rivela, in realtà, una soluzione teorica fallimentare, perché, dati i presupposti sopra esposti, è incapace di svolgere il compito che le è stato assegnato. Infatti, se vale l’argomento per analogia, la compenetrazione con i sentimenti di chi ci sta di fronte è illusoria, poiché non entriamo mai davvero in contatto con questi sentimenti, ma con l’idea che di essi ci facciamo, cioè con un nostro personale stato psicologico. La trasformazione dell’idea che abbiamo dell’impressione altrui in una nostra impressione13 non corrisponde affatto al nostro esperire il disagio o il piacere dell’altro, bensì al nostro reagire emotivamente in un certo modo, che non ha, però, niente a che vedere con la comunicazione di cui ci parla Hume. Che per esempio, di fronte all’espressione di ansia da parte di qualcuno, non distinguerebbe tra l’essere ansiosi e il simpatizzare con colui che è ansioso. Se la simpatia non è altro che un’operazione cognitiva secondo la quale, a partire dalla nostra esperienza, inferiamo le passioni altrui, allora, di fatto, non usciamo mai da noi stessi: ciò che sperimentiamo sono solo risposte emotive private che non riflettono affatto le passioni degli altri, ma sono soltanto provocate da esse. Tutto quello che la simpatia riuscirebbe a spiegare è che gli esseri umani reagiscono meccanicamente all’espressione delle passioni altrui – in questo senso sarebbe corretto dire che la simpatia è un mero «contagio» –; di certo non quella partecipazione immaginativa che ci permette di sentire in prima persona i loro sentimenti, di

bensì un principio che spiega come le passioni possano venire comunicate. Si veda Eugenio Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., pp. 97-98; Philip Mercer, Sympathy and Ethics, cit., cap. II; B. Wand, A Note on Sympathy in Hume’s Moral Theory, in David Hume, �ritical Assessments, IV: Ethics, Passions, Sympathy, “Is” and “Ought”, cit., pp. 477-81; A.E. Pitson, Sympathy and Other Selves, cit. A sostenere il contrario è D.G.C. MacNabb, David Hume. His Theory of Knowledge and Morality, cit., p. 166. 13 Ricordiamo che per Hume la differenza tra impressioni e idee è soltanto di grado, per cui le idee non sono altro che impressioni illanguidite. Si veda Treatise, libro I, parte II, sez. 4, e Treatise, libro II, parte I, sez. 11, in particolare pp. 318-19, cpv. 7; tr. it. cit., pp. 334-35.

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La simpatia 111

divenire, cioè, coscienti della loro condizione, e dunque della loro presenza come persone. Il meccanismo elaborato per rendere conto di come gli esseri umani sono in grado di andare al di là di se stessi finirebbe, allora, per essere una prova ulteriore della sostanziale solitudine a cui è costretto l’individuo sentimentale di Hume, capace a malapena di riconoscere ciò che prova lui medesimo14. 4. È corretta questa spiegazione del funzionamento del meccanismo della simpatia? Davvero Hume fallisce nel suo tentativo di mostrare come gli esseri umani siano capaci di comunicazione emotiva? Per rispondere è necessario guardare da vicino in che modo egli presenta la simpatia. La prima cosa che salta all’occhio è dove Hume decide di introdurla: essa viene esposta nella sezione undicesima della parte prima del secondo libro del Trattato, cioè parlando di orgoglio e umiltà. Il fatto che la simpatia faccia la sua comparsa proprio qui non è casuale. Tra le cause di orgoglio e umiltà, ci ricorda Hume, possiamo riconoscere le più disparate; a tutte diamo una grande importanza, ma esse avrebbero su di noi poco peso se non fossero sostenute dall’opinione degli altri. È a partire da questa constatazione che prende avvio la discussione sulla simpatia: tra simpatia, orgoglio e umiltà esiste un legame molto stretto, dall’esame del quale emerge un’interpretazione della simpatia ben diversa da quella appena discussa. Hume sostiene che «[n]on c’è qualità della natura umana più notevole, sia in sé e per sé, sia per le sue conseguenze, della nostra propensione a provare simpatia per gli altri, e a ricevere per comunicazione le inclinazioni e i sentimenti altrui per quanto diversi e addirittura contrari ai nostri»15. Una condotta 14 A muovere una critica di questo tipo, oltre ai già citati Mercer e Flew, sono anche Jonathan Harrison, Hume’s Moral Epistemology, Oxford, Clarendon Press, 1976, pp. 105-110 e Jerome Neu, Emotion, Thought and Therapy, cit., pp. 46-53. 15 Treatise, libro II, parte I, sez. 11, p. 316, cpv. 2; tr. it. cit., p. 332.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

allegra mi rasserena, scrive Hume, mentre una irata mi abbatte e mi rattrista; odio, risentimento, stima, amore, coraggio, allegria, melanconia: sono tutte passioni che si provano più per comunicazione che per nostra naturale disposizione e temperamento. È tale l’influsso della simpatia sugli esseri umani, che ne influenza i comportamenti molto più del suolo o del clima: gran parte dell’uniformità che riscontriamo nel modo di pensare e di comportarsi tra gli individui dello stesso paese è dovuta proprio al condizionamento reciproco operato dalla simpatia16. Si è già accennato come, grazie alla simpatia, l’idea di un’affezione altrui ci divenga nota dapprima dai suoi effetti e dai segni esterni espressi nel comportamento e nella conversazione. Questa idea, quindi, «si converte immediatamente in una impressione, e acquista un tale grado di forza e di vivacità da diventare la passione stessa, e da produrre un’emozione uguale a quella di una affezione originaria»17. Hume spiega come ciò sia possibile in una maniera che ricorda la doppia relazione di impressioni e di idee che soggiace alla formazione delle impressioni di riflessione di orgoglio e umiltà, di amore e odio. L’idea dell’affezione altrui si muta in una nostra affezione – ossia un’idea si muta in un’impressione – quando è messa in relazione con «l’idea, o piuttosto l’impressione di noi stessi, che ci è sempre intimamente presente»18. La consapevolezza di noi stessi è così vivace da caricare di una vivacità simile tutto ciò che entra in contatto con essa. Questo passaggio di vivacità, che trasforma l’idea nell’impressione corrispondente, è garantito dalle tre relazioni di somiglianza, contiguità e causa-effetto.

16 La tesi della superiorità della simpatia sulle «cause fisiche» – come il suolo o il clima – nella determinazione dell’indole delle persone viene sviluppata da Hume, in polemica con Montesquieu, anche in I caratteri nazionali (1748), in Opere filosofiche, volume III, tr. it. di Mario Dal Pra, Mario Misul, Paolo Casini, Umberto Forti, Eugenio Lecaldano, Enrico Mistretta, Giulio Preti, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 209-27. 17 Treatise, libro II, parte I, sez. 11, p. 317, cpv. 3; tr. it. cit., p. 333. 18 Treatise, libro II, parte I, sez. 11, p. 317, cpv. 4; tr. it. cit., p. 333.

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La simpatia 11

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5. Nella simpatia si ha quindi la conversione di un’idea in un’impressione, dovuta alla relazione che gli oggetti hanno con quell’io che è sempre intimamente presente a noi stessi. Ora, è vero che Hume dice che «in base a un’inferenza di causa ed effetto, e all’osservazione dei segni esterni, ci convinciamo della reale esistenza dell’oggetto rassomigliante o contiguo»19, e – più avanti – che «[n]essuna passione altrui si palesa alla mente in modo immediato: percepiamo solo le cause o i loro effetti. Da queste cause o da questi effetti inferiamo la passione: e di conseguenza sono loro a dare origine alla nostra simpatia»20. Tuttavia, ciò non significa che il meccanismo della simpatia funzioni secondo l’argomento per analogia. Il fatto che la dinamica della simpatia venga spiegata da Hume riferendosi alla «comunicazione» delle passioni da un individuo all’altro fa pensare che essa non consista tanto in un’operazione con la quale conosciamo gli stati mentali degli altri a partire dalla conoscenza che abbiamo dei nostri personali stati mentali, quanto, piuttosto, in una forma di trasmissione sentimentale, allo stesso modo in cui il movimento si trasmette da un oggetto all’altro. Hume è chiaro al riguardo: [l]e menti di tutti gli uomini sono simili nei loro sentimenti e nelle loro operazioni, né qualcuno può mai essere mosso da un’affezione che anche tutti gli altri non possano in qualche misura provare. Quando delle corde sono tese tutte a uno stesso grado, il movimento di una si comunica a tutte le altre; allo stesso modo, tutte le affezioni passano prontamente da una persona a un’altra e generano movimenti corrispondenti in ogni creatura umana. Quando vedo gli effetti di una passione nella voce e nei gesti di una persona, la mia mente passa subito da questi alle loro cause, e si forma della passione un’idea tanto viva da mutarsi subito nella passione stessa. Analogamente, quando percepisco le cause di un’emozione, la mia mente è condotta ai loro effetti, e viene mossa da un’emozione analoga21.

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Treatise, libro II, parte I, sez. 11, pp. 317-18, cpv. 4; tr. it. cit., p. 333. Treatise, libro III, parte III, sez. 1, p. 576, cpv. 7; tr. it. cit., p. 609. Treatise, libro III, parte III, sez. 1, pp. 575-76, cpv. 7; tr. it. cit., p. 609.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

Come le corde di uno strumento, senza che vengano toccate, vibrano per simpatia ripetendo il movimento di quelle che sono state pizzicate, così gli esseri umani riecheggiano per simpatia le espressioni sentimentali di coloro con cui si raffrontano22. Non si tratterebbe cioè di un procedimento cognitivo esplicito, in cui dal comportamento visibile si ricostruiscono gli ipotetici stati mentali che stanno a monte, ma di una risposta naturale e inevitabile, l’esito istintuale di una natura umana che è strutturata per reagire in maniera tale da compenetrarsi con i sentimenti con cui entra in contatto. Un fenomeno, tra l’altro, che ha talmente poco a che vedere con un processo cognitivo esplicito da essere condiviso con gli animali23. Coloro che abbracciano un’interpretazione “cartesiana” di Hume ritengono che la sua spiegazione della simpatia sia scorretta poiché manchiamo di un accesso diretto a quel nucleo passionale degli altri individui, la cui conoscenza ci è preclusa; un accesso che solo ci permetterebbe, a loro avviso, di concepirli come esseri umani. Tuttavia, la simpatia non ha il compito di spiegare in che modo possiamo conoscere il contenuto delle menti altrui – in maniera indiretta, attraverso l’osservazione della condotta visibile degli altri. Al contrario, essa rende conto di quella caratteristica della natura umana, per cui siamo in grado di riconoscerci direttamente come simili. In questa luce, acquista senso quello che Hume afferma sulla sostanziale rassomiglianza tra gli esseri umani: Sul significato originario del termine “simpatia” come vibrazione o risonanza – simpatia con, non simpatia per – si veda Ian Hacking, On Sympathy: With Other �reatures, “Tijdschrift voor Filosofie”, 63 (2001), pp. 685-717. 23 Treatise, libro II, parte II, sez. 12, p. 398, cpvv. 5 e 6; tr. it. cit., p. 417 e libro II, parte I, sez. 12, p. 328, cpv. 9; tr. it. cit., p. 344. Sulla somiglianza che per Hume esiste tra la natura umana e quella animale, si vedano di A.E. Pitson Hume’s Philosophy of the Self, cit., cap. VII e The Nature of Humean Animals, “Hume Studies”, 19 (1993), pp. 301-16. Si veda anche Tom L. Beauchamp, Hume on the Nonhuman Animal, “Journal of Medicine and Philosophy”, 24 (1999), pp. 322-35. Sulla capacità di estendere la simpatia anche agli animali non umani, si veda Deborah Boyle, Hume on Animal Reason, “Hume Studies”, 29 (2003), pp. 3-28. 22

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[o]ra, è evidente che la natura ha conservato una grande rassomiglianza fra tutte le creature umane e che noi non notiamo mai negli altri una passione e un principio di cui, in qualche misura, non possiamo trovare in noi un parallelo. L’intelaiatura della nostra mente è qualcosa di analogo all’intelaiatura del nostro corpo. Sebbene le parti possano differire nella forma e nelle dimensioni, identiche rimangono in generale la loro struttura e il loro ordinamento. Vi è una notevolissima rassomiglianza che permane, malgrado tutta la loro varietà; e questa rassomiglianza deve certo contribuire moltissimo a farci entrare nei sentimenti degli altri, e a farceli abbracciare facilmente e con piacere24.

Lungi dal consistere in un passaggio da ciò che è presente in noi all’attribuzione di stati mentali agli altri, la simpatia humeana si mostra come un mezzo esplicativo che deve il suo successo teorico all’efficacia con cui rende conto del fatto che gli esseri umani colgono a un livello prettamente sentimentale le affezioni degli altri. Questo non significa che non si possano fare inferenze circa il carattere delle persone partendo dal loro comportamento manifesto. Ciò può senz’altro avvenire: quando vorremo giustificare come mai, al presentarsi di un certo comportamento, siamo pronti a dichiarare che esso è espressione di un determinato tratto caratteriale, sosterremo il nostro giudizio facendo appello a un’inferenza dall’uno all’altro. Il punto è che la simpatia non sembra funzionare in questo modo, in primo luogo. La simpatia non è una forma di argomentazione, ma un principio psicologico che esplicita analiticamente una caratteristica distintiva degli esseri umani: la capacità di immedesimarsi nella condizione dei propri simili quando esprimono determinate emozioni. Una capacità, questa, che si concretizza in un esercizio dell’immaginazione che ha nella comune natura sentimentale del genere umano una molla che non manca mai di scattare25. Treatise, libro II, parte I, sez. 11, p. 318, cpv. 5; tr. it. cit., pp. 333-34. Si veda, ad esempio, ciò che Hume sostiene circa quelle qualità della mente e del corpo che sono immediatamente piacevoli a noi stessi in Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. VII, cpv. 2 e sez. VIII, cpv. 14; tr. it. cit., pp. 264-65 e pp. 282-83. Secondo M. Jamie Ferreira, Hume and Imagination: 24

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

6. Per Hume, dunque, la simpatia non è quello strumento difettoso che rivelerebbe il solipsismo a cui è destinato l’individuo se si decide di spiegarlo per via passionale; al contrario, è la chiave che permette di stabilire un contatto con l’altro. Ciò è possibile proprio perché siamo contraddistinti da una natura passionale che ci accomuna e ci fa rispondere alle sollecitazioni emotive, senza che questo procedimento possa essere ridotto nei termini dell’interpretazione “cartesiana”26. «Le menti umane sono specchio l’una dell’altra»27: un’interpretazione che pretenda di partire dal singolo individuo, considerato isolatamente, per spiegare come si viene a conoscenza delle passioni altrui, è scorretta e profondamente non humeana. Si tratta, appunto, di una lettura “cartesiana”, che, tuttavia, è ben strano debba valere

Sympathy and “the Other”, “International Philosophical Quarterly”, 34 (1994), pp. 39-57, la comunicazione simpatetica descritta da Hume è in grado di spiegare come la nostra immaginazione, sentimentalmente connotata, ci permetta di raffigurarci gli altri come individui specifici, che, pur essendo simili a noi, non si riducono a un mero riflesso di noi stessi. 26 Al riguardo, è interessante l’analisi di Robert M. Gordon, Sympathy, Simulation, and the Impartial Spectator, “Ethics”, 105 (1995), pp. 727-42. Gordon critica la spiegazione humeana della simpatia in quanto poggerebbe su un’inferenza; laddove invece, dai dati ricavabili dalla moderna psicologia sperimentale, la simpatia si rivelerebbe essere una reazione istintiva che fa degli esseri umani delle creature fondamentalmente empatiche. Gordon, cioè, da una parte accusa Hume di aver offerto una spiegazione che, in realtà, non ha niente a che vedere con quella che Hume offre; dall’altra si propone di correggere l’impostazione humeana in una maniera che somiglia molto a ciò che Hume – secondo l’interpretazione che stiamo presentando – ha sempre sostenuto. Circa l’idea – in un senso più ampio e non più soltanto humeano – che la natura umana vada connotata sentimentalmente e non possa svilupparsi se non tramite uno scambio tra individui a livello emotivo, cfr. Bill Brewer, Emotion and Other Minds e Daniel Hutto, The World is not Enough: Shared Emotions and Other Minds, entrambi in Understanding Emotions. Mind and Morals, a cura di Peter Goldie, AldershotBurlington USA, Ashgate, 2002, pp. 23-36 e pp. 37-53; Hanna Pickard, Emotions and the Problem of Other Minds, in Philosophy and the Emotions, Royal Institute of Philosophy Supplement, 52, a cura di Anthony Hatzimoysis, Cambridge, Cambridge University Press, 2003, pp. 87-104. 27 Treatise, libro II, parte II, sez. 5, p. 365, cpv. 21; tr. it. cit., p. 382.

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La simpatia 117

per un filosofo che ha sempre avuto in Descartes un termine negativo di confronto28. Adottando il metodo sperimentale che lo caratterizza, e riscontrando un generale desiderio disinteressato di aggregazione nella maggior parte delle creature viventi, ecco come Hume si esprime riguardo agli esseri umani: [q]uesto lo si vede ancor più chiaramente nell’uomo, che nell’universo è la creatura più ardentemente desiderosa di associarsi [...] Non possiamo mai formulare un desiderio che non abbia un riferimento alla società. Una solitudine totale è forse il peggior castigo che ci si possa infliggere. Qualsiasi piacere languisce se non è goduto in compagnia, e qualsiasi dolore diventa più crudele e intollerabile. Qualunque sia la passione che ci muove, orgoglio, ambizione, avarizia, brama di sapere, desiderio di vendetta o concupiscenza, di tutte la simpatia è l’anima o il principio animatore; ed essa non avrebbe alcuna forza se facessimo completamente astrazione dai pensieri e dai sentimenti altrui29.

Nuovamente, è il naturalismo di senso comune la lente che ci permette di inquadrare al meglio sia gli scopi di Hume, sia le dinamiche interne alle spiegazioni che egli offre: anche la meccanica della simpatia risponde al criterio della We Do Perspective. La spiegazione che Hume offre del principio della simpatia richiama una linea di pensiero generalmente considerata distante 28 Si veda al riguardo quanto dice Pitson contro Mercer in Sympathy and Other Selves, cit. Si veda anche W. Donald Oliver, A Sober Look at Solipsism, in Studies in the Theory of Knowledge, “American Philosophical Quarterly, Monograph Series, n. 4”, a cura di Nicholas Rescher, Oxford, Basil Blackwell, 1970, pp. 30-39. Secondo Oliver, Hume nega il postulato della privatezza che sta invece alla base del pensiero di Descartes: in Hume non si dà alcun problema di solipsismo – come avviene invece con Descartes –, poiché in lui viene meno l’idea di un ego razionale chiuso in se stesso, per lasciare il posto a un «uomo naturale» guidato da credenze naturali condivise da tutti gli esseri umani. Si noti, infine, come questo rifiuto da parte di Hume del solipsismo e della concezione cartesiana della mente anticipi in parte la riflessione che verrà condotta da Gilbert Ryle, The �oncept of Mind, London, Hutchinson, 1949; tr. it. di Gianfranco Pellegrino con il titolo Il concetto di mente, Roma-Bari, Laterza, 2007. 29 Treatise, libro II, parte II, sez. 5, p. 363, cpv. 15; tr. it. cit., p. 380.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

da quella humeana, e opposta a quella cartesiana: la linea di quei pensatori che, in modi differenti tra loro, fanno riferimento all’insegnamento di Ludwig Wittgenstein e al suo argomento del linguaggio privato per risolvere il problema delle altre menti, e quindi per mostrare come gli esseri umani siano in grado di riconoscersi l’un l’altro in maniera non mediata30. Questo riconoscimento reciproco diretto ha luogo grazie a un concetto di essere umano che si concretizza nei molteplici modi in cui gli individui reagiscono in presenza degli altri; queste reazioni ci rendono un concetto di essere umano che non va ricondotto a qualcosa di nascosto che va conosciuto, bensì si rivela nelle attività in cui gli individui sono impegnati. Pertanto, sebbene tra la tradizione humeana e quella wittgensteiniana restino differenze importanti, riguardo a questo aspetto appaiono mosse da uno spirito simile. Come sostiene Peter F. Strawson, «in Wittgenstein, 30 Gli autori che si ispirano al pensiero di Wittgenstein sono molti. Non si vuole qui presentare un esame dettagliato del modo in cui il suo argomento del linguaggio privato è stato interpretato per superare il problema delle altre menti, ma ci si limiterà a riportare, a titolo esemplificativo, alcuni saggi che vanno tutti in questo senso – ricordando, tuttavia, che all’interno della tradizione wittgensteiniana sussistono ulteriori differenziazioni. Cfr. J.L. Austin, Other Minds, in The Foundations of Knowledge, a cura di Charles Landesman, Englewood Cliffs, NJ, Prentice-Hall, Inc., 1970; Stanley Cavell, Knowing and Acknowledging, in Id., Must We Mean What We Say?, ed. aggiornata, Cambridge, Cambridge University Press, 2002, pp. 238-66; Id., The �laim of Reason. Wittgenstein, Skepticism, Morality, and Tragedy, nuova ed., Oxford-New York, Oxford University Press, 1999; tr. it. parziale di Barbara Agnese con il titolo La riscoperta dell’ordinario. La filosofia, lo scetticismo, il tragico, Roma, Carocci, 2001, in particolare la parte IV (corrispondente alla parte III nella edizione italiana); Cora Diamond, The Importance of Being Human, in Human Beings, Royal Institute of Philosophy Supplement, 29, a cura di David Cockburn, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 35-62 e 83-84; tr. it. di Lorenzo Greco con il titolo L’importanza di essere umani, in Cora Diamond, L’immaginazione e la vita morale, a cura di Piergiorgio Donatelli, Roma, Carocci, 2006, pp. 87-118; Piergiorgio Donatelli, Interiorità ed espressione in Wittgenstein, “Il cannocchiale”, 3 (2001), pp. 61-75; John McDowell, �riteria, Defeasibility, and Knowledge, in Id., Meaning, Knowledge and Reality, Cambridge, Mass.-London, Harvard University Press, 1998, pp. 369-94; Craig Taylor, Sympathy. A Philosophical Analysis, Houndmills, Basingstoke, Hampshire, Palgrave Macmillan, 2002.

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La simpatia 11

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per esempio, non troviamo alcuna esplicita ripetizione del molto esplicito appello alla Natura di Hume. Ma le somiglianze, se non addirittura gli echi, sono ben più impressionanti delle differenze». Per ambedue «noi semplicemente reagiamo di fronte agli altri come se ci trovassimo di fronte ad altre persone. A volte possono confonderci, ma questo è parte del modo in cui reagiamo a essi. Ancora una volta, ci troviamo di fronte a qualcosa che non possiamo che dare per scontato in tutti i nostri ragionamenti»31. 7. C’è un’altra caratteristica della simpatia humeana che va rilevata. Essa non ci fa soltanto godere dei piaceri più intensamente, o soffrire le pene con più dolore, ma ci permette di rendere chiara a noi stessi la natura delle passioni, di riconoscerle come tali, e di agire e pensare di conseguenza. È la stessa sfera passionale a venire specificata attraverso lo scambio simpatetico. Non è un caso, è stato sottolineato, che la simpatia venga esposta quando Hume discute dell’orgoglio e dell’umiltà: è osservando queste particolari passioni che il ruolo costruttivo della simpatia si fa palese. Quando abbiamo descritto il funzionamento dell’orgoglio e dell’umiltà, abbiamo osservato come Hume distingua tra il loro oggetto e la loro causa. L’oggetto è l’idea dell’io; le cause possono essere le più varie. L’importante è che le cause abbiano una correlazione con noi di un qualche tipo, e ci diano piacere o dolore. Se ciò che ha un rapporto con noi è qualcosa di gradevole genererà, quando lo consideriamo, la Peter F. Strawson, Skepticism and Naturalism: Some Varieties. The Woodbridge Lectures 1983, New York, Columbia University Press, 1985, pp. 14 e 20-21. Sulle affinità tra le filosofie di Hume e di Wittgenstein, cfr. anche Oswald Hanfling, Hume and Wittgenstein, in Impressions of Empiricism, Royal Institute of Philosophy Lectures, vol. IX, 1974-1975, a cura di Godfrey Vesey, London-Basingstoke, The Macmillan Press LTD, 1976, pp. 47-65; Peter Jones, Strains in Hume and Wittgenstein, in Hume. A Re-evaluation, cit., pp. 191-209 e Hume’s Sentiments. Their �iceronian and French �ontext, cit., pp. 176-88; Barry Stroud, Hume, cit., cap. X. Annette C. Baier, infine, nella Preface al suo Postures of the Mind. Essays on Mind and Morals, London, Methuen, 1985, pp. ix-xiii, dichiara di vedere nell’approccio humeano alla moralità «un’etica wittgensteiniana secolarizzata», e di voler impostare la propria personale filosofia su questa linea. 31

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

passione piacevole dell’orgoglio; se invece è qualcosa di doloroso genererà la passione spiacevole dell’umiltà. Ora, perché questo possa avvenire, Hume ci dice che le cause devono possedere delle caratteristiche precise: devono essere vicine alla persona che ne è l’oggetto; non devono essere comuni, ma rare; devono essere durevoli. Ma, soprattutto, devono essere pubbliche. È fondamentale «che l’oggetto piacevole o spiacevole appaia con chiarezza ed evidenza, e non solo a noi stessi, ma anche agli altri. Questa circostanza [...] ha un suo influsso tanto sulla gioia quanto sull’orgoglio. Crediamo di essere più felici, nonché più virtuosi e belli, quando appariamo tali agli altri»32. Ciò che ci procura orgoglio o umiltà è tale non tanto perché piace a noi, quanto, piuttosto, perché è apprezzato o disapprovato da chi ci sta accanto; il piacere o il dolore che proviamo è dovuto, soprattutto, al fatto che trova conferma negli occhi di chi ci osserva. Per meglio dire, siamo sensibili al giudizio di coloro che approviamo33: l’orgoglio, infatti, ha bisogno di essere assecondato dalle persone giuste, ossia da quelli che noi stessi riterremmo meritevoli di orgoglio, poiché possiedono quelle caratteristiche che noi, per primi, consideriamo degne di ammirazione. Allo stesso modo, a umiliarci non è un disprezzo astratto, ma solo quello di coloro al cui giudizio attribuiamo valore34. Paragonandoci agli altri diventiamo capaci di rapportarci alle cose e alle persone, e, in questo modo, sviluppiamo quei sentimenti che ci permettono di trovare la nostra collocazione nella realtà in cui ci muoviamo, e di rafforzare la nostra consapevolezza di agenti. Diventa allora chiara la ragione che porta Hume a discutere della simpatia accanto all’orgoglio e all’umiltà. Il meccanismo Treatise, libro II, parte I, sez. 6, p. 292, cpv. 6; tr. it. cit., p. 307. Al riguardo, si vedano Donald C. Ainslie, Scepticism about Persons in Book II of Hume’s Treatise, cit. e Amélie Oksenberg Rorty, “Pride Produces the Idea of Self”: Hume on Moral Agency, cit. 34 Treatise, libro II, parte I, sez. 11, pp. 321-22, cpvv. 12-13; tr. it. cit., pp. 337-38. Sulla relazione che esiste tra orgoglio, umiltà e considerazione altrui, si vedano Jane L. McIntyre, Personal Identity and the Passions, cit. e Pauline Chazan, Pride, Virtue and Self-Hood: A Reconstruction of Hume, cit. 32

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La simpatia 11

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simpatetico è legato al meccanismo che regola orgoglio e umiltà poiché si tratta di un principio esplicativo che avvalora la natura pubblica di queste particolari passioni, e, più in generale, di tutta la natura sentimentale degli esseri umani. L’idea di una natura umana che si presenta già compiuta nel singolo individuo isolato è aliena al paradigma humeano e, a ben guardare, non si dà mai neanche in quei pensatori che se ne ergono a paladini. La stessa solitudine del soggetto cartesiano è, in realtà, molto affollata: a cominciare dall’ipotetico demone ingannatore giù fino a tutti quegli individui concreti che, confrontandosi con Descartes, contribuiscono con le loro obiezioni al complesso dialogo esposto nelle Meditazioni metafisiche35. Il soggetto cartesiano non ricava affatto da sé solo le conclusioni a cui giunge sul cogito, bensì attraverso un’operazione che chiama in causa da subito gli altri. Il problema non si pone invece con Hume: egli è ben cosciente che gli esseri umani sono creature in carne e ossa organizzati in maniera tale da realizzarsi pienamente soltanto attraverso un continuo scambio passionale36. Lungi dal concepire le passioni come autoreferenziali e incomunicabili, Hume sostiene qualcosa di diametralmente opposto: è proprio la nostra natura passionale che ci permette di entrare in contatto gli uni con gli altri, e questo perché è la struttura stessa delle passioni che apre alla dimensione dell’intersoggettività. Essa si mostra con chiarezza nelle passioni dell’orgoglio e dell’umiltà, attraverso le quali ci si rivela l’io passionale. La dinamica dell’orgoglio e dell’umiltà si spiega grazie alla simpatia, e con essi si spiega la consapevolezza di sé. L’io passionale non è allora affatto chiuso in se stesso, ma è vero Cfr. di Annette C. Baier, The �ommons of the Mind. The Paul �arus Lectures 19, Chicago and La Salle, Illinois, Open Court, 1997 e �artesian Persons, in Ead., Postures of the Mind, cit., pp. 74-92; Amélie Oksenberg Rorty, The Structure of Descartes’ Meditations, in Essays on Descartes’ Meditations, ed. by Amélie Oksenberg Rorty, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1986, pp. 1-20. 36 Per un confronto tra le due diverse concezioni delle passioni di Descartes e di Hume, fatto a partire dalla nozione di io, si veda Amélie Oksenberg Rorty, From Passions to Emotions and Sentiments, “Philosophy”, 57 (1982), pp. 159-72. 35

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

il contrario: esso sarebbe inconcepibile a prescindere dagli altri. L’accusa di solipsismo, dunque, cade, e la We Do Perspective trova conferma anche a livello psicologico, uscendone rafforzata.

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Parte terza L’io e l’etica

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IX Il carattere

1. La spiegazione che Hume offre del funzionamento delle passioni presenta gli esseri umani come creature sentimentalmente ricettive, capaci di definirsi e di definire la realtà che li circonda grazie a uno scambio che si stabilisce già a livello emotivo. Il principio della simpatia esplicita una caratteristica naturale, riscontrabile empiricamente: gli esseri umani sono fatti in maniera tale da reagire empaticamente all’espressione delle passioni da parte degli altri. Coloro che illustrano il progetto di Hume come un tentativo fallace di offrire un resoconto delle passioni partendo dal singolo individuo isolato sono guidati da un pregiudizio, che impedisce loro di porre nella giusta luce le sue intenzioni. L’io passionale non è affatto costretto in se stesso, ma dipende dagli altri per riconoscersi come agente. In questo modo, trova conferma l’impostazione generale con cui si è presentato l’io nella prospettiva humeana: non si comprende la sua natura e il suo ruolo se non lo si osserva da una prospettiva eminentemente pratica e sociale. Questa dipendenza reciproca che contraddistingue la definizione humeana dell’io è considerata, da molti interpreti, come lo snodo teorico che lega la dimensione passionale a quella morale. La simpatia rivela un mondo pubblico di io che cercano l’approvazione ed evitano la disapprovazione altrui. Ciò è dovuto al legame stretto che esiste tra orgoglio e umiltà – cioè le passioni che rendono manifesto l’io – e la simpatia. Saremmo incapaci

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

di sentire orgoglio o umiltà se essi non trovassero conferma nell’opinione di coloro che ci circondano e che stimiamo: le passioni «riverberano»1 negli altri, e orgoglio e umiltà non fanno eccezione. Parlare di io in termini passionali significa parlare di consapevolezza di sé, frutto di queste passioni. Le quali, a loro volta, svaniscono se il valore – o il disvalore – di quelle cose per cui proviamo orgoglio – o umiltà – non trova conferma. L’io definito passionalmente, dunque, è anch’esso influenzato dalla considerazione di chi ci sta intorno. Si capisce, allora, perché Hume parla di questo io come di colui di cui ci preoccupiamo (l’io «in quanto riguarda le passioni e l’interesse che prendiamo a noi stessi»2): ce ne preoccupiamo principalmente agli occhi degli altri, ce ne preoccupiamo in quanto siamo calati in un contesto pratico che ci rende agenti responsabili, e quindi agenti morali. Per comprendere in che modo si stabilisca il passaggio dal momento passionale a quello propriamente morale, è però necessario introdurre un’altra nozione, che è riconosciuta, dagli interpreti in questione, come centrale per capire perché l’io morale humeano, propriamente detto, abbia le sue radici nelle passioni: la nozione di carattere. 2. Sono in molti a ritenere3 che quando parla del carattere Hume si riferisca a quell’insieme di principi della mente stabili e durevoli – cioè quelle passioni – che hanno un ruolo motivante nel comportamento umano, e ai quali possiamo ricondurre le azioni delle persone. Con “character”, Hume fa riferimento a quei tratti personali che presentano stabilità e durevolezza; quando nomina tratti che sono invece mutevoli e instabili, usa il termine “temper”. Treatise, libro II, parte II, sez. 5, p. 365, cpv. 21; tr. it. cit., p. 382. Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 253, cpv. 5; tr. it. cit., p. 265. 3 Cfr. Jane L. McIntyre, �haracter. A Humean Account, cit.; John Bricke, Hume’s �onception of �haracter, cit.; Paul Russell, Freedom and Moral Sentiments, cit., cap. VII; A.E. Pitson, Hume’s Philosophy of the Self, cit., cap. V. Per un’analisi della nozione di carattere più ampia – che prende in considerazione l’opera di Hume, senza tuttavia limitarsi a essa –, si tenga presente Joel Kupperman, �haracter, Oxford-New York, Oxford University Press, 1991. 1

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Il carattere 17

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I veri e propri traits of character sono, quindi, quegli aspetti fermi, continui e prevedibili delle persone che ci permettono – come si vedrà – di esprimere giudizi circa il vizio e la virtù4. A partire dal carattere possiamo giudicare gli individui, concepirli come responsabili di ciò che compiono, e valutarli moralmente5. Il carattere è, dunque, un insieme strutturato e duraturo di passioni che rivelano le intenzioni degli agenti – non si tratta cioè di semplici reazioni, o di comportamenti compiuti per caso –, a partire dal quale siamo in grado di prevedere le loro azioni. Più precisamente, a costituire il carattere sono quelle proprietà mentali relativamente permanenti che hanno natura disposizionale, ossia tali per cui, se si presentano certe circostanze, gli agenti si comporteranno in maniere particolari, che rispondono alle proprietà che possiedono6. A partire dall’osservazione delle azioni, è possibile risalire, attraverso un’inferenza causale, al carattere di chi le compie: dalla constatazione che qualcuno si comporta in un certo modo è possibile presumere che possieda un certo carattere; e viceversa, conoscendo il suo carattere, si è in grado di predirne e di decifrarne il comportamento. In questo senso, le persone sentono giustamente che sarebbero in grado di spiegare il nostro agire, se avessero conoscenza di ogni circostanza della nostra situazione e del nostro temperamento, e se avessero accesso alle fonti più profonde della nostra natura7. Anche se esiste una dipendenza tra le azioni e il carattere, quest’ultimo non si risolve affatto in esse: le azioni ci rivelano il carattere e ne sono causate, e tuttavia esso continua a esistere anche se non è esercitato: «[l]a virtù, anche se vestita di stracci, 4

cit.

Si veda Eugenio Lecaldano, L’io, il carattere, e la virtù nel Trattato di Hume,

Si vedano ad esempio Treatise, libro II, parte II, sez. 3, pp. 348-49, cpv. 4; tr. it. cit., pp. 365-66 e libro II, parte III, sez. 2, p. 412, cpv. 7; tr. it. cit., pp. 432-33. 6 Cfr. Annette C. Baier, A Progress of Sentiments, cit., cap. VIII; John Bricke, Hume’s �onception of �haracter, cit.; Jane L. McIntyre, �haracter. A Humean Account, cit. 7 Treatise, libro II, parte III, sez. 2, pp. 408-9, cpv. 2; tr. it. cit., p. 429. 5

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

rimane sempre virtù; e l’amore che essa suscita accompagna un uomo fin nelle prigioni e nel deserto, dove la virtù non può più essere attivamente esercitata ed è quindi persa per il mondo intero»8. Inoltre, sebbene Hume parli di proprietà durevoli e costanti, il carattere non necessariamente resta sempre il medesimo nel corso del tempo: «il pentimento o un mutamento di vita»9 possono cambiarlo, al punto che «una medesima persona può mutare carattere e disposizione, così come le sue impressioni e le sue idee, senza perdere la propria identità»10. Tuttavia, ciò non significa che gli individui varino senza sosta il proprio carattere. Al contrario: esso – a differenza di quanto accade per l’identità personale, che per Hume è un fascio di percezioni in continuo movimento – è contraddistinto dal fatto che i cambiamenti che subisce sono lenti e graduali. I tratti di cui è composto il carattere, infatti, sono passioni, e queste non sono mai momentanee, come singole sensazioni di piacere o di dolore, ma hanno una certa estensione, durante la quale continuano a essere presenti. Poiché quindi «il carattere di una passione non è semplicemente determinato dalla sensazione attuale, ossia dal dolore o dal piacere, ma dalla complessiva tendenza o inclinazione che la passione ha dall’inizio alla fine»11, è corretto sostenere che il carattere sia un insieme di percezioni di lunga durata resistenti al cambiamento12. Sebbene i tratti del carattere abbiano natura disposizionale, il nostro possedere un carattere non è affatto una disposizione: l’insieme di quei principi che formano il nostro carattere si offre come una condizione causale a lungo termine, che produce determinati sentimenti, i quali, a loro volta, generano certe azioni13. Perciò, nonostante il carattere possa subire – e subisca – delle variazioni nel corso del tempo, queste non sono subitanee, ma Treatise, libro III, parte III, sez. 1, p. 584, cpv. 19; tr. it. cit., p. 617. Treatise, libro II, parte II, sez. 3, p. 349, cpv. 4; tr. it. cit., p. 366. 10 Treatise, libro I, parte IV, sez. 6, p. 261, cpv. 19; tr. it. cit., p. 273. 11 Treatise, libro II, parte II, sez. 9, p. 381, cpv. 2; tr. it. cit., p. 399. 12 Jane L. McIntyre, �haracter. A Humean Account, cit.; A.E. Pitson, Hume’s Philosophy of the Self, cit., cap. V. 13 John Bricke, Hume’s �onception of �haracter, cit. 8

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Il carattere 1

sufficientemente continue e progressive, tali che il carattere si presenta come un nucleo stabile che contrassegna la persona che lo possiede, rendendola riconoscibile tanto agli altri quanto a se stessa, e quindi individuabile come quella persona specifica14. In questo senso, quasi tutti coloro che si sono occupati del carattere concordano nel sostenere una tesi realista15. Un realismo che però è concepito, di volta in volta, in maniere molto diverse. 3. Secondo John Bricke, Hume avrebbe una posizione realista sul carattere, nel senso che i tratti permanenti di cui è composto non corrisponderebbero né a semplici percezioni né alle proprietà di una sostanza immateriale, ma sarebbero dei veri e propri stati del cervello. A sostegno di questa soluzione – che, come Bricke ammette, Hume non sottoscrive esplicitamente da nessuna parte – ci sarebbe quanto Hume dice sulla base fisiologica delle leggi associative della mente, e sulle cause fisiche sia del pensiero sia della sensazione16. Senza abbracciare una posizione così forte, anche Jane L. McIntyre17 crede che il carattere humeano non sia né una qualità occulta né semplicemente il frutto delle attese che gli osservatori si formano considerando le nostre azioni, bensì qualcosa di reale, equivalente a passioni che restano presenti anche se non vengono messe in pratica. Le qualità mentali disposizionali non sono soltanto la previsione di un osservatore, 14 Si veda al proposito ciò che Hume sostiene in An Enquiry concerning Human Understanding, sez. VIII, cpvv. 10 e 11; tr. it. cit., pp. 91-92. 15 I già citati Baier, Bricke, McIntyre, Lecaldano e Pitson; ma anche Susan M. Purviance, The Moral Self and the Indirect Passions, cit. e Paul Russell, Freedom and Moral Sentiments, cit., capp. VII-IX. 16 John Bricke, Hume’s �onception of �haracter, cit. Secondo Bricke, Hume darebbe prova del realismo fisicalista del carattere nel primo libro del Trattato, parte II, sez. 5 e parte IV, sez. 5; e quindi al principio del libro II e nella parte I, sez. 5 dello stesso libro. Bricke argomenta a favore di un’interpretazione fisiologica della teoria della mente humeana in Hume’s Philosophy of Mind, Princeton, Princeton University Press, 1980. A parlare di carattere in termini di stati psicologici del cervello è anche A.E. Pitson, Hume’s Philosophy of the Self, cit., cap. V. 17 Jane L. McIntyre, �haracter. A Humean Account, cit.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

ma sono interne all’agente: costituiscono la persona in maniera durevole ma non sostanziale, e sono conoscibili con un’inferenza causale, grazie alla quale arriviamo al carattere di una persona a partire dai suoi comportamenti. Poiché si suppone che effetti simili – le azioni – derivino da una stessa causa – il carattere –, esso è pensato come durevole e costante. Per McIntyre, le passioni forniscono la base ontologica necessaria per trattare il carattere realisticamente, mantenendo l’idea che l’identità personale sia solo un fascio di percezioni18. In questo modo, la tesi continuista sull’io di McIntyre troverebbe conferma: sommando quanto Hume dice sull’identità personale nel primo libro del Trattato con quanto dice sul carattere nei libri secondo e terzo si avrebbe una concezione unitaria dell’io. Contro McIntyre si rivolge, nuovamente, Susan M. Purviance19. Anche secondo lei Hume concepisce il carattere realisticamente: esso consiste in propensioni durevoli a sentire e agire nello stesso modo in circostanze simili. Il carattere riguarda le passioni, ed esse sono qualità mentali disposizionali. Tuttavia, il suo realismo non corrisponde affatto a quello di McIntyre. Secondo Purviance, si può essere d’accordo nel riconoscere che se il carattere funziona come causa esso deve riferirsi alle passioni; e però rifiutare l’interpretazione di McIntyre poiché, a detta di Purviance, essa rischia di far risorgere gli stessi problemi metafisici che attanagliano la riflessione sull’identità personale nel primo libro del Trattato. Se, infatti, si afferma soltanto che il carattere corrisponde a delle passioni, senza aggiungere altro, si finisce per identificarlo con delle percezioni – dal momento che, secondo Hume, le passioni sono percezioni –; da qui all’avere una teoria del carattere come fascio di percezioni il passo è breve. Ossia, Purviance fa notare come seguendo la linea di McIntyre di fatto si schiacci la nozione di carattere su quella di identità personale, con tutti i problemi che quest’ultima comporta. In questo modo, 18 Si veda al proposito anche quanto sostiene Paul Russell, Freedom and Moral Sentiments, cit., cap. VII. 19 Susan M. Purviance, The Moral Self and the Indirect Passions, cit.

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Il carattere 11

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va perduta quella che è la peculiarità fondamentale del carattere: la sua unità, senza la quale non sarebbe possibile né esprimere giudizi morali né, più in generale, avere un’attività pratica. Noi non giudichiamo disposizioni isolate, bensì persone complete, e attraverso il carattere siamo in grado di identificarle come gli autori di certe azioni di cui sono responsabili: le persone sono contraddistinte da un certo carattere che le rende quegli agenti specifici passibili di lode o di biasimo, cioè valutabili moralmente. Secondo Purviance, quindi, il carattere humeano chiama in causa, senza dubbio, il nostro apparato passionale, ma la sua realtà emerge fondamentalmente dal suo mostrarsi come un fatto morale di cui siamo consapevoli direttamente, e non – come crede McIntyre – come qualcosa che conosciamo dopo un’inferenza causale. La posizione di Purviance sul carattere riflette quella che ha sull’io: il carattere, come l’io, non è un oggetto di conoscenza, ma può aversi solo all’interno di un contesto pratico. Non c’è alcun salto tra un oggetto – il carattere –, da una parte, e la sua rappresentazione, dall’altra: la realtà del carattere è un fatto che si dà a partire dal punto di vista dell’azione e, dunque, della valutazione morale20. 4. Si è sostenuto che distinguere nettamente tra l’indagine sperimentale della natura umana e l’etica non ha molto senso all’interno di una prospettiva humeana, poiché gli oggetti esaminati – gli esseri umani – sono caratterizzati, fin dall’inizio, in termini di ragionevolezza, socialità e attività. Ciò che emerge osservando la filosofia di Hume attraverso la lente interpretativa che si è deciso di adottare è che parlare di psicologia in generale, da una parte, e di psicologia morale, dall’altra, come se fossero due cose separate, Anche Timothy M. Costelloe, Beauty, Morals, and Hume’s �onception of �haracter, “History of Philosophy Quarterly”, 21 (2004), pp. 397-415, difende una concezione «pratica» del carattere; tuttavia il suo è un esempio di tesi antirealista. Per Costelloe, il carattere di qualcuno non corrisponde al possesso da parte sua di alcuna passione, ma è il risultato dei giudizi morali formulati da un osservatore, che quindi proietta i suoi sentimenti sulla persona che viene giudicata, attribuendole così un carattere di un certo tipo. 20

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

è scorretto, dal momento che le categorie psicologiche utilizzate da Hume sono tratte, e dipendono, dalla sua riflessione morale21. Con il carattere si ha un esempio palese di come soltanto da una prospettiva etico-pratica si possa rendere conto di una nozione che altrimenti rimarrebbe inintelligibile: si comprende cosa significa parlare di individui contraddistinti da un carattere reale solo se li si concepisce come agenti. In questo senso, l’interpretazione di Purviance è rivelatrice, e si pone anch’essa nel solco della We Do Perspective. Dall’interno di questa prospettiva, diventa chiaro perché il possesso del carattere ci identifichi stabilmente come gli individui specifici che noi siamo. Al riguardo, Anthony E. Pitson parla di «identità del carattere»22. Essa si differenzia dalla «identità personale» propriamente detta, che consiste nel bundle of perceptions. L’identità del carattere, invece, è la consapevolezza che abbiamo di essere qualcuno contraddistinto da un certo carattere, una consapevolezza che ci permette di immaginarci come persone complete. A partire dal nostro concepirci come qualcuno che ha un certo carattere, siamo in grado di ricondurre gli eventi del nostro passato al presente, li carichiamo di significato come quella serie di circostanze che costituiscono la storia della persona particolare che siamo noi ora. Dal presente, dai progetti e dagli scopi che ci impegnano adesso, ci proiettiamo nel futuro, ci progettiamo in una certa maniera, ci preoccupiamo di quello che diventeremo. Il carattere, dunque – o meglio: la consapevolezza che abbiamo di noi stessi come individui che hanno un carattere –, permette a Hume di riconquistare una nozione di persona come io semplice che la riflessione sull’identità personale aveva apparentemente reso inafferrabile. Ciò che evidenzia Pitson parlando di «identità del carattere» non è diverso dalla «identità narrativa» 21 Cfr. Annette C. Baier, A Progress of Sentiments, cit., cap. VIII, in particolare pp. 192-93, e Amélie Oksenberg Rorty, “Pride Produces the Idea of Self”: Hume on Moral Agency, cit. Si veda anche Alasdair C. MacIntyre, Hume on “Is” and “Ought”, “Philosophical Review”, 68 (1959), pp. 451-68. 22 A.E. Pitson, Hume’s Philosophy of the Self, cit., cap. V.

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Il carattere 1

di Livingston. Attraverso la nozione di carattere si fa chiaro in che senso Hume concepisca gli individui come narrazioni: l’identità di una persona – dove qui con identità, ripetiamolo, è da intendersi non l’identità della mente del primo libro del Trattato, ma la consapevolezza che la persona ha di possedere un carattere – non è altro che la rappresentazione che l’individuo si fa della propria vita, a partire dalla quale i vari eventi che la compongono si combinano in un insieme in cui assumono senso. Le esperienze passate trovano una collocazione nella storia individuale di una persona perché contribuiscono alla consapevolezza presente che la persona ha del proprio carattere, e ciò che dovrà accadere può essere anticipato come l’effetto delle intenzioni che la muovono ora. Il modello di comprensione del processo di consapevolezza di sé che si ottiene chiamando in causa il carattere è simile a quello che hanno gli storici, i biografi e i narratori in genere nei confronti del loro oggetto di indagine23. Questo modello, secondo il quale l’unità narrativa che contraddistingue la vita di un individuo è paragonato all’unità che si riscontra nell’epica, nella storia e nella letteratura, è discusso diffusamente nella sezione III della Ricerca sull’intelletto umano, dove si affronta l’argomento dell’associazione di idee24. Come gli esseri umani sono contraddistinti dall’essere sempre guidati «da un proposito ed un’intenzione», volti al soddisfacimento di un certo fine che dà senso alla loro esistenza in quanto agenti, così «[i]n tutte le composizioni

23 Si veda A.E. Pitson, Hume’s Philosophy of the Self, cit., cap. V, in particolare la parte II. Annette C. Baier, �ivilizing Practices, cit., invece, parla per Hume di una «unità della vita» intesa come «unità drammatica» che si realizza nella forma di una «struttura narrativa». 24 Si tratta di un lungo passo che Hume taglierà nell’edizione del 1777, ma che è presente in tutte le edizioni precedenti a questa, dal 1748 al 1772. Il passo è riportato in nota nell’edizione italiana. Si veda An Enquiry concerning Human Understanding, sez. III, cpvv. dal 4 al 18, specialmente cpvv. dal 4 al 10; tr. it. cit., pp. 23-30, specialmente pp. 24-25. Al riguardo, si veda anche quanto sostiene Peter Jones, Hume’s Sentiments. Their �iceronian and French �ontext, cit., pp. 111-12.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

che vogliano essere geniali [...] si richiede che lo scrittore abbia qualche piano o progetto», ossia «si deve riscontrare qualche fine o intenzione nel suo principio, se non nella composizione dell’opera intera». È per questo che, [p]oiché questa regola non ammette eccezioni, ne segue che, nelle composizioni narrative, gli eventi o azioni che lo scrittore riferisce, debbono essere connessi insieme da qualche legame o vincolo; essi devono essere in relazione l’uno con l’altro nell’immaginazione e formare una sorta di unità, la quale li può ridurre sotto un solo piano o prospettiva e può essere l’oggetto o il fine dello scrittore nel suo primo impegno.

Il punto, dunque, è che per Hume tanto l’opera letteraria o storica o epica quanto l’esistenza degli individui necessitano di una unità di azione, che permetta di rendere intelligibili queste differenti narrazioni. Per quanto riguarda gli esseri umani, infatti, [n]on solamente in qualche limitato periodo di vita le azioni di un uomo hanno una dipendenza l’una dall’altra, ma anche durante l’intera estensione della sua durata, dalla culla alla tomba; né è possibile togliere un solo anello, per quanto piccolo, in questa regolare catena, senza intaccare l’intera serie di eventi che si susseguono.

5. Una narrazione che non si realizza nel vuoto, ma è calata in una situazione dove possiamo osservarci come soggetti semplici perché, prima di tutto, siamo oggetti della considerazione altrui: la dipendenza che esiste dal contesto sociale è fondamentale perché si possa riconoscere il carattere. Esso è ciò che mostriamo a coloro che ci circondano: siamo agenti responsabili perché siamo i possessori di un carattere particolare, il quale si rende visibile attraverso l’interazione che noi, in quanto creature dotate di un corpo, intratteniamo con gli altri. Il carattere ha certo a che fare con le nostre passioni, ma queste, come è emerso dalla discussione del meccanismo della simpatia, non si spiegano se gli individui che le possiedono non vengono concepiti in un contesto sociale. È a partire dallo scambio continuo che stabiliamo con gli altri che un certo gruppo di qualità emerge come quell’insieme

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Il carattere 15

sistematico di disposizioni che fornisce i motivi dominanti del nostro agire: riconosciamo le proprietà del nostro carattere in relazione al modo in cui appaiono ai nostri compagni, ai nostri amici, a coloro con cui entriamo in relazione25. Se, dunque, siamo in grado di raccontarci seguendo una linea coerente, così da osservare la totalità della nostra esistenza come una forma di identità narrativa, ciò è dovuto al nostro rispecchiare le molteplici opinioni che gli altri hanno di noi. A partire dall’approvazione o disapprovazione che riceviamo dagli altri, confermiamo o smentiamo l’idea che ci siamo fatti di noi stessi. Grazie alla simpatia, l’opinione altrui entra direttamente nell’opinione che ci formiamo di noi stessi, e a partire da essa siamo in grado di apprezzare l’immagine della nostra persona che ci siamo costruiti26. Inoltre27, la simpatia ha una direzione che non soltanto va dagli altri verso noi stessi, ma anche da noi stessi verso noi stessi: la preoccupazione per il nostro futuro può essere letta come una vera e propria forma di simpatia per colui che diventeremo, per quell’individuo che sarà il risultato degli scopi, delle aspirazioni, dei progetti che caricano di senso la nostra esistenza ora. Grazie alla simpatia siamo capaci di immaginarci nel futuro, poiché essa ci permette di andare al di là del presente verso piaceri e dolori non attuali, ma soltanto anticipati. La simpatia, infatti, può estendersi nel tempo28. Dire che l’io si 25 Cfr. Annette C. Baier, A Progress of Sentiments, cit., cap. VIII; A.E. Pitson, Hume’s Philosophy of the Self, cit.; Amélie Oksenberg Rorty, “Pride Produces the Idea of Self”: Hume on Moral Agency, cit.; Paul Russell, Freedom and Moral Sentiments, cit., cap. VIII. 26 Treatise, libro III, parte III, sez. 1, p. 589, cpv. 26; tr. it. cit., pp. 622-23. 27 Come fa notare A.E. Pitson, Hume’s Philosophy of the Self, cit., cap. VII, in particolare pp. 128-31. 28 Treatise, libro II, parte I, sez. 11, p. 319, cpv. 7; tr. it. cit., p. 335. Sulla capacità della simpatia di guardare avanti, si veda Jane L. McIntyre, Personal Identity and the Passions, cit. Sul fatto che la simpatia – diversamente dalla doppia relazione di impressioni e di idee che sta alla base delle passioni indirette – possieda una durata temporale, e sul suo legame con l’immaginazione, si veda R.W. Altmann, Hume on Sympathy, in David Hume, �ritical Assessments, IV: Ethics, Passions, Sympathy, “Is” and “Ought”, cit., pp. 461-76.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

preoccupa per se stesso significa riconoscere che è guidato da una serie di motivi che vanno ben oltre i piaceri e i dolori passeggeri, ma si presentano come scopi a lungo termine, in grado di strutturare la stessa identità del soggetto – identità del carattere o narrativa, non identità personale – come un sistema coeso che trova in quegli scopi la propria giustificazione. Questi motivi interni al carattere dell’agente ne disegnano l’esistenza sul lungo periodo e lo spingono a comportarsi secondo una linea omogenea. Ciò è possibile grazie a quella «strength of mind», o «forza di carattere»29, che fa sì che l’individuo perseveri nel tentativo di realizzare i suoi progetti, resistendo alla tentazione di cedere a falsi scopi, magari più piacevoli a breve, ma per lui dannosi se considerati all’interno della sua vita vista nel complesso. 6. Hume spiega come sia possibile che un individuo ricostruito sentimentalmente non sia in balia di continui stimoli emotivi temporanei e sconnessi chiamando in causa le passioni calme30. Discutendo dei motivi che influenzano la volontà, Hume distingue tra due tipi di passioni: quelle calme e quelle violente. Sebbene, generalmente, si ritenga che siano soltanto queste ultime a essere passioni vere e proprie – in quanto la loro influenza sull’animo umano è esplicita –, tuttavia ciò è scorretto. Hume, infatti, nota che «ci sono alcune tendenze e desideri del tutto calmi, che sebbene siano in realtà delle passioni, provocano nella mente una ben scarsa emozione e sono noti più per i loro effetti che per un sentimento o emozione immediata»31. Confuse normalmente con l’influsso della ragione, si tratta invece o di istinti connaturati all’animo umano, come benevolenza, rancore, amore per la vita e tenerezza verso i bambini; o di quel naturale desiderio che proviamo per il bene e di avversione per il male, Treatise, libro II, parte III, sez. 3, p. 418, cpv. 10; tr. it. cit., p. 439. Sulla strength of mind, si veda John P. Wright, Butler and Hume on Habit and Moral �haracter, cit. Per una ricostruzione critica della relazione che lega passioni calme e forza del carattere, si veda Jane L. McIntyre, Hume’s Passions: Direct and Indirect, “Hume Studies”, 26 (2000), pp. 77-86. 31 Treatise, libro II, parte III, sez. 3, p. 417, cpv. 8; tr. it. cit., p. 438. 29

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Il carattere 17

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considerati in se stessi32. Tra essi è da annoverare anche «il senso del bello e del brutto in un’azione, in una composizione e negli oggetti esterni»33: i sentimenti morali che esprimono – in relazione alla condotta – la nostra generale approvazione per ciò che è moralmente buono e la nostra generale disapprovazione per ciò che è moralmente cattivo vanno perciò inclusi tra le passioni calme. I sentimenti morali sono un esempio di passioni capaci di mettere in moto la volontà senza eccitare alcuna emozione percettibile. Di questo tipo sono tutte quelle passioni che, attraverso una ripetizione costante – ossia attraverso un’abitudine, o per mezzo dell’educazione – generano un principio stabile di azione. Pur non essendo violente – pur non essendo, cioè, evidenti nel loro manifestarsi –, tuttavia lavorano sotterraneamente e determinano il comportamento delle persone, rendendole capaci di conseguire i fini che si sono date. Quindi, da una parte, la distinzione tra desideri calmi e violenti non va confusa con quella tra desideri forti e deboli, per quanto riguarda la loro efficacia causale; dall’altra, non esiste alcuna correlazione tra la violenza di un desiderio e la sua forza motivazionale34. Che una passione si presenti come calma, infatti, non significa affatto che sia debole. Al contrario: la caratteristica delle passioni calme è quella di essere forti, cioè persistenti, durature, continue nel loro influsso sulla volontà; laddove le passioni violente, proprio per la loro istantaneità, la maggior parte delle volte si spengono subito dopo essersi presentate senza lasciare alcuna traccia, rivelandosi in realtà deboli: [è] evidente che le passioni non influenzano la volontà in proporzione alla loro violenza o al disordine che provocano nell’animo; ma, al contrario, una volta che una passione sia divenuta uno stabile principio di azione e costituisca la tendenza prevalente Treatise, libro II, parte III, sez. 3, p. 417, cpv. 8; tr. it. cit., p. 438. Treatise, libro II, parte I, sez. 1, p. 276, cpv. 3; tr. it. cit., p. 290. 34 Si veda John Bricke, Hume, Motivation and Morality, “Hume Studies”, 14 (1988), pp. 1-24. 32

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

nell’animo, di solito essa non produce più nessuna sensibile agitazione. Quando l’abitudine consolidata per ripetizione e la forza che le è propria hanno sottomesso ogni cosa, allora essa guida le azioni e la condotta senza quel contrasto e quell’emozione che tanto naturalmente accompagnano qualunque momentaneo scoppio di passione. Dobbiamo perciò distinguere tra una passione calma e una debole, tra una passione violenta e una forte35.

In questo modo, senza mai uscire dal perimetro di un’impostazione sentimentalistica, Hume rende conto di come gli individui sono capaci di soddisfare il loro interesse personale a lungo termine, focalizzandosi su quei vari piaceri e dolori distanti, il cui perseguimento traccia i binari su cui procede la loro esistenza nella sua totalità. È a partire dalle passioni calme, ad esempio, che Hume definisce la persona giusta: è qualcuno che ha acquisito l’abitudine di procurarsi i propri beni senza violare la proprietà altrui. Vale a dire, è qualcuno che ha acquisito una passione calma nei confronti del rispetto delle regole della giustizia, la cui osservanza favorisce il suo interesse personale sul lungo periodo36. Tenendo presente quanto è stato fin qui riportato, vediamo come ciò contribuisca alla definizione dell’io morale in Hume.

Treatise, libro II, parte III, sez. 4, pp. 418-19, cpv. 1; tr. it. cit., pp. 439-40. Sul modo in cui, secondo Hume, la persona giusta si sviluppa, cfr. John P. Wright, Butler and Hume on Habit and Moral �haracter, cit.; Stephen Darwall, The British Moralists and the Internal “Ought”: 1640-1740, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, cap. X; David Wiggins, Ethics. Twelve Lectures on the Philosophy of Morality, cit., p. 81. 35

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X Dalle passioni alla morale

1. Il carattere è l’oggetto principale del nostro orgoglio e della nostra umiltà: «our reputation, our character, our name»1 sono le cause prime che fanno scattare queste passioni, che resterebbero incomprensibili senza la sponda che si riceve dal giudizio degli altri. È lecito parlare di una consapevolezza del proprio carattere proprio perché esso è fonte di orgoglio e umiltà, ossia è fonte delle passioni grazie alle quali Hume recupera la nozione di io. L’identità del carattere humeana emerge quando il giudizio a cui sottoponiamo il nostro carattere, il quale riflette il sentimento che gli altri nutrono nei nostri confronti, è causa di orgoglio e umiltà2: nel perseguire la nostra reputazione, ricercando l’approvazione di quelli che noi, a nostra volta, apprezziamo, diventiamo consapevoli del nostro valore e ci presentiamo, prima di tutto a noi stessi, come individui integri e completi: [c]on la nostra continua ed ardente ricerca d’un carattere, d’un nome, d’una reputazione nel mondo, noi prendiamo spesso in 1 Treatise, libro II, parte I, sez. 11, p. 316, cpv. 1; tr. it. cit., p. 332. Si è preferito riportare nel testo la versione originale, poiché nella traduzione italiana va perduto il riferimento al carattere. Il passo, infatti, è stato tradotto così: «[l]a nostra reputazione, le nostre qualità, il nostro buon nome, sono considerazioni di enorme peso e importanza; e anche le altre cause dell’orgoglio, virtù, bellezza e ricchezza, hanno ben poca influenza se non sono secondate dalle opinioni e dai sentimenti degli altri». 2 A.E. Pitson, Hume’s Philosophy of the Self, cit., cap. V, parte II.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

considerazione la nostra condotta ed il nostro comportamento e osserviamo come essi appaiono agli occhi di coloro che ci avvicinano e ci guardano. Questa costante abitudine di sorvegliarci come in uno specchio mantiene vivi tutti i sentimenti del giusto e dell’ingiusto e produce, nelle nature nobili, quel certo rispetto per se stessi e per gli altri, che è il custode più sicuro d’ogni virtù3.

La relazione che si istituisce tra orgoglio o umiltà e simpatia trova nella valutazione del carattere un punto di equilibrio, un vero e proprio ponte che collega il momento passionale con quello propriamente etico. È dall’osservazione continua del nostro carattere come virtuoso o vizioso che ci concepiamo come io morali. Hume è esplicito, e la spiegazione che fornisce è tutta interna al funzionamento delle due passioni indirette. 2. Al riguardo, è illuminante ciò che Hume scrive all’inizio della parte terza del terzo libro del Trattato. Comincia riprendendo la tesi centrale, già esposta all’inizio del terzo libro, secondo cui alla base delle nostre distinzioni tra vizio e virtù ci sono dei peculiari sentimenti di piacere e di dolore. Qualsiasi qualità mentale, in noi stessi o negli altri, che ci dia soddisfazione è ritenuta virtuosa, mentre ciò che ci dà disagio è considerato vizioso: «dando ragione del piacere o del dolore, spiegheremo sufficientemente il vizio o la virtù. Avere il senso della virtù non significa altro che sentire una soddisfazione di un tipo particolare nel contemplare una certa qualità»4. Hume ci ricorda come piacere e dolore siano le sole molle che spingono gli individui ad agire; se si eliminassero queste due basilari sensazioni, gli esseri umani diverrebbero creature incapaci di passione o azione, di desiderio o volizione. Gli effetti immediati di piacere e dolore sono le nostre passioni dirette, cioè il desiderio e l’avversione, la gioia e la tristezza, la speranza e la paura. Ma da esse dipendono anche le nostre passioni indirette: orgoglio e umiltà, quando la fonte piacevole o dolorosa è in relazione con noi; amore e odio, quando essa è in relazione 3 An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. IX, cpv. 10; tr. it. cit., p. 292. 4 Treatise, libro III, parte I, sez. 2, p. 471, cpv. 3; tr. it. cit., p. 498.

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Dalle passioni alla morale 141

con qualcun altro. Se quindi vizio e virtù corrispondono a sentimenti dolorosi e piacevoli, allora bisognerà riconoscere che, per quanto riguarda le nostre qualità mentali, esiste un’equivalenza tra ciò che riteniamo virtuoso e ciò che ci procura orgoglio o ci fa provare amore, e tra ciò che riteniamo vizioso e ciò che ci fa vergognare o ci fa provare odio. La conclusione a cui giunge Hume è che ogni qualità della mente è virtuosa, se produce amore o orgoglio; viziosa, se produce umiltà o odio. Un’azione può dunque essere detta virtuosa o viziosa quando dipende da quei principi durevoli della mente che si estendono per tutta la condotta dell’individuo e ne costituiscono il carattere. Non sono le singole azioni a essere valutate, quanto piuttosto le qualità del carattere che stanno a monte: «queste azioni sono considerate solo come dei segni, mentre l’oggetto ultimo della nostra lode e della nostra approvazione è il motivo che le ha prodotte»5. Se le azioni non scaturiscono da un principio costante, non hanno influenza alcuna sull’orgoglio e sull’umiltà, sull’amore e sull’odio, e perciò non sono considerate in etica. 3. Nelle battute iniziali di questa sezione del Trattato, Hume condensa tesi che ha esposto precedentemente. Già discutendo di orgoglio e umiltà nel secondo libro, egli nota come virtù e vizio siano causa di queste passioni, e come esse si generino dalla constatazione che l’individuo possiede un certo carattere virtuoso o vizioso: «la vera essenza della virtù consiste nel produrre piacere, e quella del vizio nel procurare dolore. La virtù e il vizio, per poter suscitare l’orgoglio e l’umiltà, devono essere una componente del nostro carattere»6. E, poco prima, aveva sostenuto che «le buone e le cattive qualità delle nostre azioni e dei nostri comportamenti formano il vizio e la virtù, e determi5 Treatise, libro III, parte II, sez. 1, p. 477, cpv. 2; tr. it. cit., p. 504. A esaminare dettagliatamente la relazione che esiste tra azioni, motivi e carattere in Hume è William Davie, Hume on Morality, Action, and �haracter, “History of Philosophy Quarterly”, 2 (1985), pp. 337-48. 6 Treatise, libro II, parte I, sez. 7, p. 296, cpv. 4; tr. it. cit., p. 311.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

nano il nostro personale carattere, nulla più del quale opera con maggiore efficacia su queste passioni»7. Non sorprende, allora, che il carattere abbia un ruolo così importante nella definizione dell’io morale. Ma se è vero che non valutiamo le azioni bensì i motivi che le hanno prodotte; che questi motivi vanno ricondotti a quell’insieme durevole di principi che chiamiamo carattere perché possano essere oggetto di considerazione morale8; che le virtù e i vizi espressi dal nostro carattere sono tra le cause principali che ci fanno inorgoglire o vergognare: ecco, dunque, che si stabilisce un nesso tra consapevolezza di sé ed etica9. L’io morale coincide con la consapevolezza che ne abbiamo attraverso le passioni dell’orgoglio e dell’umiltà, quando sono provocate dalla contemplazione delle virtù e dei vizi che ci contraddistinguono: virtù e vizi che corrispondono a tratti del nostro carattere, a partire dal quale ci giudichiamo, e siamo giudicati, come individui degni di lode oppure di biasimo. Le nostre azioni ci vengono ascritte proprio in quanto scaturiscono da quei motivi virtuosi o viziosi che possono essere ricondotti al nostro carattere, e l’avere un carattere di un certo tipo permette a noi di concepirci come persone semplici, e agli altri di riconoscerci come individui responsabili di ciò che compiamo: [q]ui sta la più perfetta moralità di cui noi si possa aver conoscenza; qui si trova dispiegata la forza di molte simpatie. Il nostro sentimento morale è esso stesso principalmente un sentire di questa natura, e la nostra considerazione per un carattere nei confronti degli altri sembra nascere soltanto dalla cura di preservare un carattere nei confronti di noi stessi; a questo fine, troviamo necessario sostenere il nostro vacillante giudizio con la corrispondente approvazione dell’umanità10. Treatise, libro II, parte I, sez. 5, p. 285, cpv. 2; tr. it. cit., p. 300. Sulla dipendenza tra i singoli motivi che ci muovono e il nostro carattere nella sua interezza, si veda Clarence Shole Johnson, Hume’s Theory of Moral Responsibility: Some Unresolved Matters, cit. 9 Si veda al riguardo la ricostruzione presentata in A.E. Pitson, Hume’s Philosophy of the Self, cit., cap. VII, in particolare p. 126. 10 An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. IX, cpv. 11; tr. it. cit., p. 293. 7

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Dalle passioni alla morale 14

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4. Ciò che la maggior parte degli interpreti mette in evidenza è che soltanto quando entrano in gioco le virtù morali l’io passionale acquista la stabilità necessaria perché diventi un io riconoscibile a sé e agli altri: di fatto, è solo con la dimensione morale che il sentimentalismo humeano spiega in che modo le persone possano effettivamente presentarsi come unità coese. Al riguardo, è illuminante la distinzione che Pauline Chazan stabilisce tra protorgoglio e orgoglio ben fondato11. Nella sua argomentazione viene menzionato soltanto l’orgoglio; tuttavia, quanto sostiene può essere fatto valere allo stesso modo anche per l’umiltà. Chazan parte dall’assunto per cui, sebbene i sentimenti che contraddistinguono la natura umana siano simili al suono di uno strumento ad arco – che persiste anche dopo che la corda è stata pizzicata – essi scemeranno dopo un certo periodo di tempo, se non vengono sostenuti12. In questo senso, se manca una percezione durevole di quegli attributi legati all’io che generano orgoglio, non può aversi «quella successione di idee e impressioni correlate di cui abbiamo intimamente memoria e consapevolezza»13, cioè non può aversi nessun io. Inoltre, se è vero che l’orgoglio non permane se non è avvalorato dall’opinione altrui, ciò di cui c’è bisogno per certificare l’io non è tanto un’autosservazione costante, quanto, piuttosto, una conferma costante da parte degli altri che la qualità per cui proviamo orgoglio è realmente tale. Con queste premesse, dire che una certa qualità è per noi motivo di orgoglio, nota Chazan, non significa sostenere che siamo orgogliosi di quella qualità che possediamo, quanto piuttosto che siamo orgogliosi di noi stessi, perché possediamo quella qualità. Poiché orgoglio e io passionale si danno simultaneamente, con questo orgoglio diventiamo consapevoli di noi stessi come colui che è orgoglioso di quella particolare qualità. Tuttavia, possono presentarsi situazioni in cui il nostro orDi Pauline Chazan si veda sia Pride, Virtue and Self-Hood: A Reconstruction of Hume, cit., sia The Moral Self, cit. 12 Treatise, libro II, parte III, sez. 9, pp. 440-41, cpv. 12; tr. it. cit., p. 463. 13 Treatise, libro II, parte I, sez. 2, p. 277, cpv. 2; tr. it. cit., p. 291. 11

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

goglio è mal riposto. Si prenda il caso, argomenta Chazan, di un acrobata che è orgoglioso dell’ammirazione che il pubblico dimostra per le sue doti di agilità e flessibilità. Questa ammirazione, e l’orgoglio che ne segue, contribuiscono a realizzare la consapevolezza che l’acrobata ha di se stesso come di qualcuno che è contraddistinto da quelle doti. Non è affatto detto, però, che il pubblico ammiri lui; può darsi che l’applauso sia dovuto semplicemente al fatto che sta assistendo a un esercizio ben svolto, senza considerare colui che lo sta eseguendo. Ciononostante, l’acrobata continuerà a credere – erroneamente – che il pubblico si riferisca proprio a lui. Nei fatti, il suo provare orgoglio, e la consapevolezza di se stesso che ne dipende, non hanno ragion d’essere: ciò che è dato è il piacere del pubblico; l’orgoglio che l’acrobata prova può non corrispondere a ciò a cui, in realtà, questo piacere fa riferimento. Quello che Chazan vuole sostenere è che il provare orgoglio o umiltà è una questione contingente, e dunque è contingente anche l’io che con esso si presenta. In tutti quei casi in cui si prova orgoglio o umiltà anche se, in effetti, non possediamo quelle qualità per cui gli altri dovrebbero provare piacere o dolore, oppure in cui non siamo noi il vero oggetto del loro piacere o dolore, ci si trova di fronte a forme di protorgoglio o protoumiltà. Esse sono differenti dall’orgoglio e dall’umiltà veri e propri, poiché si tratta di interpretazioni ingannevoli che facciamo delle risposte piacevoli o dolorose altrui, come se esse fossero rivolte a noi in quanto possessori delle qualità ammirate o disprezzate. Si possono provare forme di protorgoglio e di protoumiltà tutte le volte che ci troviamo di fronte a un’audience che ci comunica sentimenti di piacere o di dolore per qualcosa che è correlato con noi – come avviene nell’esempio di Hume di un ospite vanitoso che si pavoneggia per aver partecipato a un banchetto sontuoso come se fosse stato lui ad averlo organizzato14. Ne discende una consapevolezza di sé variabile e totalmente dipen14

305.

Si veda Treatise, libro II, parte I, sez. 6, pp. 290-91, cpv. 2; tr. it. cit., p.

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dente dall’occasione fortuita in cui ci capita di provare orgoglio o umiltà per qualcosa che in realtà può non essere affatto legata alla nostra persona. L’io del protorgoglio e della protoumiltà è quindi fittizio: si tratta di un io primitivo, privo della stabilità necessaria affinché possa aversi quella narratività che, come si è visto, contraddistingue l’identità del carattere humeana. Non che il protorgoglio o la protoumiltà non siano vere e proprie passioni: l’acrobata o l’ospite vanitoso provano orgoglio a tutti gli effetti. Il punto è che si tratta di passioni legate a circostanze contingenti che impediscono di stabilire un rapporto durevole con la consapevolezza di sé. In altre parole, esiste una differenza tra provare semplicemente orgoglio o umiltà – che possono aversi anche in condizioni come quelle dell’acrobata o dell’ospite vanitoso – e il sentirsi e considerarsi meritevoli di orgoglio o di umiltà – ossia, l’essere consapevoli che il proprio orgoglio o umiltà sono dovuti all’apprezzamento o alla disapprovazione tributati a qualità della nostra persona che ci appartengono e ci contraddistinguono. È solo in questo secondo caso che l’io poggia su una base solida che gli permette di presentarsi come stabile. Un orgoglio o un’umiltà di questo tipo non sono derivati da piaceri o dolori transeunti e solo accidentalmente connessi a colui che prova queste passioni, ma dalla valutazione di qualità della persona che possono dirsi virtù o vizi a pieno titolo15. Perché l’orgoglio e l’umiltà non siano contingenti, devono dipendere da qualcosa che offra uno standard inalterabile, a partire dal quale sia possibile valutare se sono riposti a ragione oppure no. Vale a dire, bisogna individuare un punto di vista fermo e generale che garantisca all’io equilibrio e continuità.

15 Circa la differenza che corre tra il provare semplicemente orgoglio e l’essere consapevoli di essere degni di lode, si veda Páll S. Árdal, Hume and Davidson on Pride, cit. Questo punto, tra l’altro, sarà largamente sviluppato da Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, tr. it. di Stefania Di Pietro, Milano, BUR, 1995, parte VII, sez. 2, cap. IV.

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XI Un punto di vista fermo e generale

1. Hume fa riferimento a un punto di vista fermo e generale quando spiega come sia possibile che individui differenti riescano a incontrarsi nei loro giudizi morali. Per comprendere di che cosa si tratti, e perché esso svolga un ruolo fondamentale nella determinazione dell’io morale, è necessario procedere con ordine. Guardando al comportamento degli esseri umani, Hume constata come esso non sia né il frutto del solo interesse personale né di un altruismo illimitato. A suo avviso, gli esseri umani non sono dei completi egoisti, ma non sono neppure totalmente disinteressati1. Quando perciò si tratta di valutarli moralmente, non ha senso condannarli fin dal principio perché completamente incapaci di provare sentimenti filantropici nei confronti dei loro simili. Come non ha senso pretendere da loro una generosità incondizionata che si rivolga indistintamente a tutta l’umanità: è una condotta che, sebbene possa apparire come razionalmente doverosa, in realtà si rivela una pretesa astratta. Gli esseri umani sono creature la cui considerazione non si spinge molto più in là di coloro con i quali sono in grado di avere una relazione simpatetica: i propri familiari, i propri amici o, nel migliore dei casi, i propri compatrioti. Dovendo stabilire le proprie valutazioni morali, quella simpatia, che ha tanta parte nella determinazione e 1 Si veda ad esempio Treatise, libro III, parte II, sez. 2, p. 487, cpv. 5; tr. it. cit., p. 514.

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nella comunicazione delle opinioni tra gli esseri umani, si mostra inevitabilmente parziale, dipendendo dalla vicinanza che esiste tra gli individui coinvolti nel processo simpatetico. Una parzialità che ha portato alcuni a individuare un cambiamento nella seconda Ricerca rispetto al Trattato. Se in quest’ultimo Hume si riferisce alla simpatia come al solo principio che spieghi come siano possibili le distinzioni morali e l’approvazione morale, nella seconda Ricerca il ruolo della simpatia appare depotenziato: non si fa più riferimento ai complessi meccanismi che la contraddistinguono, ma ci si rivolge a un generale sentimento di umanità, che viene presentato da Hume, senza dilungarsi a spiegarne il funzionamento interno, come ciò che rende conto della nostra valutazione morale. C’è chi è convinto che questo cambiamento sia dovuto proprio al fatto che Hume si sarebbe reso conto che la simpatia lega eccessivamente la morale ai sentimenti individuali2. Tuttavia, appare più convincente la tesi di coloro i quali ritengono che questo spostamento dalla simpatia al sentimento di umanità non consista in una variazione sostanziale del pensiero di Hume, ma semplicemente in una variazione terminologica, necessaria per rendere la Ricerca – che in effetti si offre, a prima vista, come una semplificazione delle tesi del terzo libro del Trattato – più fruibile dal pubblico3. La simpatia resta centrale nell’impianto humeano; ma ap2 Per esempio Nicholas Capaldi, Hume’s Place in Moral Philosophy, cit., cap. VII, soprattutto pp. 241-48. A ritenere che la seconda Ricerca offra una teoria più sofisticata dell’approvazione rispetto al Trattato è anche Jacqueline Taylor, Hume on the Standard of Virtue, “The Journal of Ethics”, 6 (2002), pp. 43-62. 3 Cfr. Annette C. Baier, sia A Progress of Sentiments, cit., cap. VIII, soprattutto pp. 179-82, sia Master Passions, cit.; Eugenio Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., cap. III, § 3; Geoffrey Sayre-McCord, On Why Hume’s “General Point of View” Isn’t Ideal – And Shouldn’t Be, “Social Philosophy and Policy”, 2 (1994), pp. 202-28; Kate Abramson, Sympathy and the Project of Hume’s Second Enquiry, “Archiv für Geschichte der Philosophie”, 83 (2000), pp. 45-80; Rico Vitz, Sympathy and Benevolence in Hume’s Moral Psychology, “Journal of the History of Philosophy”, 42 (2004), pp. 261-75; Remy Debes, Humanity, Sympathy, and the Puzzle of Hume’s Second Enquiry, “British Journal for the History of Philosophy”, 15 (2007), pp. 27-57; Id., Has Anything �hanged? Hume’s Theory

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

pellandosi a essa i sentimenti di approvazione e disapprovazione variano al variare della distanza degli oggetti a cui sono rivolti4: anche se siamo capaci di simpatizzare con chi ci sta accanto, e di preoccuparci di interessi che non sono direttamente nostri, nondimeno, «quando questi sono molto remoti, la nostra simpatia è proporzionalmente più debole e la nostra lode o il nostro biasimo sono più vaghi ed esitanti»5. Eppure, «nonostante questo mutare della nostra simpatia, si dà alle stesse qualità morali la stessa approvazione, tanto in Cina quanto in Inghilterra; esse appaiono egualmente virtuose e si raccomandano egualmente alla stima di un osservatore giudizioso»6. È una constatazione empirica che la nostra ammirazione per certe virtù e il nostro disprezzo per certi vizi non cambino affatto con il variare della simpatia, bensì restino fermi: riconosciamo una virtù o un vizio come tali indipendentemente dalla loro collocazione spaziale o temporale. Per Hume, ciò può aversi una volta che si prescinda dalla propria condizione individuale e si simpatizzi con il cosiddetto «narrow circle», il «circolo ristretto» di quelle persone che effettivamente subiscono, nel bene o nel male, gli effetti del carattere di qualcuno. In questo modo, veniamo influenzati dai sentimenti di coloro che hanno uno scambio con colui di cui si sta valutando il carattere, e giungiamo ad approvarne la bontà o a biasimarne il vizio7. La parzialità dei nostri sentimenti viene dunque corretta, e diventa possibile convergere verso punti di vista fermi e generali a partire dai quali le persone sono in grado di esprimere giudizi stabili e non contraddittori8.

of Association and Sympathy After the Treatise, “British Journal for the History of Philosophy”, 15 (2007), pp. 313-38. 4 Treatise, libro III, parte III, sez. 1, p. 581, cpv. 15; tr. it. cit., p. 614. 5 Treatise, libro III, parte III, sez. 3, p. 603, cpv. 2; tr. it. cit., p. 637. 6 Treatise, libro III, parte III, sez. 1, p. 581, cpv. 15; tr. it. cit., p. 614. 7 Si veda Treatise, libro III, parte III, sez. 3, pp. 602-3, cpv. 2; tr. it. cit., p. 636. 8 Si veda Treatise, libro III, parte III, sez. 1, pp. 581-82, cpv. 15; tr. it. cit., p. 615.

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Un punto di vista fermo e generale 14

2. Si è visto come per Hume vizio e virtù derivino dal piacere o dal dolore che particolari qualità causano a se stessi o agli altri, e dalla nostra dipendenza dal principio della simpatia. Ogni qualità della mente è detta virtuosa se dà piacere quando la si osserva; viziosa se invece dà dolore. Più precisamente, alla base della determinazione di ogni virtù e di ogni vizio, Hume individua quattro criteri: proviamo piacere nell’osservare un carattere che è utile a se stessi o agli altri, oppure che è immediatamente piacevole a se stessi o agli altri. Virtuoso è dunque ciò che è utile o piacevole a se stessi o agli altri, mentre vizioso è ciò che è dannoso o spiacevole a se stessi o agli altri9. Dal momento che gli individui hanno piaceri e interessi particolari differenti fra loro, è impossibile che possano trovare un accordo riguardo ai loro giudizi, a meno che non ne riconoscano l’oggetto come lo stesso per tutti. Grazie all’appello a un punto di vista fermo e generale, ciò che, nel giudicare i caratteri, appare come la medesima cosa a ogni spettatore è l’interesse o il piacere della persona stessa, oppure di coloro che hanno a che fare con lui. Questi piaceri e interessi possono riguardarci meno dei nostri, o possono non riguardarci affatto. Inoltre, può trattarsi di piaceri e interessi di persone a noi totalmente estranee. Tuttavia, una volta che risultino essere più costanti e universali dalla prospettiva generale, essi sono in grado di controbilanciare il piacere e l’interesse che proviamo per noi stessi o per coloro che sono a noi più prossimi10. Il riferimento a un punto di vista fermo e generale fa sì che le 9 Si veda Treatise, libro III, parte III, sez. 1, p. 591, cpv. 30; tr. it. cit., p. 624. Hume si sofferma diffusamente sui quattro criteri nella Ricerca sui principi della morale, dalla sez. quinta all’ottava. Per una descrizione di come questi quattro criteri determinino il catalogo delle virtù e dei vizi, con particolare riferimento alla Ricerca sui principi della morale, si veda S.L. Vodraska, Hume’s Moral Enquiry:: An Analysis of Its �atalogue, in David Hume, �ritical Assessments, IV: Ethics, Passions, Sympathy, “Is” and “Ought”, cit., pp. 12-40. 10 Si veda Treatise, libro III, parte III, sez. 1, p. 582, cpv. 16; tr. it. cit., pp. 615-16. Si veda anche Treatise, libro III, parte III, sez. 1, p. 591, cpv. 30; tr. it. cit., pp. 624-25.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

nostre reazioni sentimentali possano essere modificate: siamo in grado di reagire sentimentalmente secondo quanto proveremmo qualora ci trovassimo in una condizione in cui la nostra posizione contingente fosse messa tra parentesi. Laddove poi la forza dei nostri sentimenti risultasse insufficiente, ci viene in aiuto il linguaggio: anche se a volte i sentimenti non seguono quanto stabilito da un punto di vista fermo e generale, il linguaggio ci offre comunque uno standard comune, grazie al quale definire un vocabolario morale condiviso con cui indicare la nostra approvazione o disapprovazione11. Quali sono pertanto i passaggi che, secondo Hume, ci portano a formulare un giudizio morale propriamente detto? Approviamo le virtù poiché sono tratti del carattere che risultano utili oppure piacevoli a se stessi o agli altri, e grazie alla simpatia siamo in grado di provare piacere per il benessere altrui, indipendentemente dal fatto che si venga chiamati in causa direttamente. Il meccanismo simpatetico spiega perché approviamo quei tratti che chiamiamo virtù, e dunque come possano determinarsi i nostri sentimenti morali. Ma la simpatia è variabile, laddove il giudizio morale non lo è. La simpatia ci permette di considerare il carattere «in generale senza alcun riferimento al nostro interesse particolare»12; ma questo non basta, poiché i sentimenti che proviamo, grazie all’influenza della simpatia, variano in intensità al variare della nostra prospettiva. Gli effetti dell’incostanza della simpatia vengono tuttavia controllati una volta che si simpatizzi con coloro che hanno un rapporto diretto con il carattere che si vuole giudicare. Ci appelliamo, cioè, a un punto di vista fermo e generale che si offre come un appiglio stabile per esprimere giudizi morali non mutevoli. Quando si tratta di pronunciare i nostri giudizi morali, facciamo astrazione dai sentimenti situati qui e ora per coloro che ci sono più prossimi, e ci facciamo guidare da ciò che sentiremmo ponendoci in un punto di vista 11 Si veda An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. V, cpv. 42; tr. it. cit., p. 241. 12 Treatise, libro III, parte I, sez. 2, p. 472, cpv. 4; tr. it. cit., p. 499.

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che sia mutualmente accessibile a tutti. Nella misura in cui queste correzioni non riescono a influenzare ciò che effettivamente sentiamo, siamo nondimeno in grado di esprimere e di comunicare reciprocamente le nostre valutazioni morali attraverso il linguaggio13. 3. Non bisogna dimenticare che la prospettiva humeana ha nell’apparato sentimentale degli esseri umani la sua fondazione: sebbene il linguaggio abbia un ruolo centrale sia nella specificazione dell’insieme di virtù e di vizi sia nell’espressione dei giudizi in cui si articola il discorso morale, esso resta sempre complementare al sentimento e non va confuso con esso14. Quest’ultimo precede logicamente il linguaggio, il quale trova nel sentimento la sua legittimazione etica. «Se qualche persona, per fredda insensibilità, o per ristretto egoismo di temperamento, non si lascia commuovere dalle immagini della felicità o della miseria degli uomini, dev’essere del pari indifferente alle immagini del vizio e della virtù»15: a prescindere dal sentimento non è possibile comprendere né in che modo le distinzioni verbali che contraddistinguono il discorso morale abbiano luogo, né come esse possano fare presa sull’animo umano e farci agire di conseguenza. Il fatto che gli esseri umani vengano mossi dalle distinzioni morali è Cfr. Geoffrey Sayre McCord, On Why Hume’s “General Point of View” Isn’t Ideal – And Shouldn’t Be, cit.; Id., Hume and the Bauhaus Theory of Ethics, “Midwest Studies in Philosophy”, 20 (1995), pp. 280-98; Tito Magri, Natural Obligation and Normative Motivation in Hume’s Treatise, “Hume Studies”, 22 (1996), pp. 231-54; Rachel Cohon, The �ommon Point of View in Hume’s Ethics, “Philosophy and Phenomenological Research”, 57 (1997), pp. 827-50; Kate Abramson, �orrecting Our Sentiments about Hume’s Moral Point of View, “The Southern Journal of Philosophy”, 37 (1999), pp. 333-61. 14 A esporre con chiarezza questo snodo teorico, secondo il quale non si può giudicare, né esprimere, la bontà di qualcosa senza che sia presente un’affezione che ce la fa percepire con favore è W.D. Falk, Hume on Practical Reason, “Philosophical Studies”, 27 (1975), pp. 1-18, ristampato in Ought, Reasons, and Morality, Ithaca and London, Cornell University Press, 1986, pp. 143-59. 15 An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. V, cpv. 39; tr. it. cit., p. 238. 13

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dovuto al loro essere in partenza predisposti a reagire a livello sentimentale: «[s]e la natura stessa non avesse dato luogo a tale distinzione, fondandola sulla struttura originaria della mente, le parole onorevole e ignominioso, amabile e odioso, nobile e spregevole, non si sarebbero introdotte in alcun linguaggio»16. Se così non fosse, gli esseri umani non comunicherebbero. Ma, in concreto, gli esseri umani comunicano tra loro e si influenzano vicendevolmente, sia per quanto riguarda i loro sentimenti, sia per quanto riguarda i giudizi che essi si scambiano grazie al linguaggio; e «sebbene il cuore non sempre assecondi queste nozioni generali, e non sempre regoli sulla loro base il proprio amore e il proprio odio, pur tuttavia esse sono sufficienti alla conversazione e soddisfano perfettamente tutte le nostre esigenze, sia in società che sul pulpito, sia in teatro che nelle scuole»17. Si può chiarire il senso di questo rapporto tra sentimento e linguaggio nell’etica humeana prendendo in considerazione un’interpretazione che invece non tiene nel giusto conto la differenza tra i due piani. Si tratta di coloro che abbracciano la prospettiva della cosiddetta Direction of Fit 18. Per i nostri fini, ci si limiti a ricordare che i teorici della Direction of Fit prendono le mosse dalla constatazione che il giudizio morale è, prima di tutto, una giustificazione: quando formulo un giudizio morale faccio riferimento a ragioni giustificatrici. Se questo è vero, la spiegazione sentimentalista di Hume sarebbe scorretta, a loro avviso, poiché distinguerebbe tra vizio e virtù secondo un criterio solo qualitativo: tutto quello che ci sarebbe da dire è che alla virtù corrisponde piacere e al vizio dolore. Si spiegherebbe così perché virtù e vizio motivano gli esseri umani, ma non si sarebbe più in grado di presentare ragioni per dire che qualco16

226.

An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. V, cpv. 3; tr. it. cit., p.

Treatise, libro III, parte III, sez. 3, p. 603, cpv. 2; tr. it. cit., p. 637. Si vedano ad esempio John Bricke Mind and Morality: an Examination of Hume’s Moral Psychology, Oxford, Clarendon Press, 1996 e Michael Smith, The Humean Theory of Motivation, “Mind”, 96 (1987), pp. 36-61, nonché Id., The Moral Problem, Oxford, Blackwell, 1994. 17

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sa è virtuoso oppure vizioso: un criterio puramente qualitativo taglierebbe fuori l’ambito della giustificazione. Come sostiene Michael Smith, «non possiamo né dobbiamo accettare l’affermazione di Hume che i desideri in quanto tali siano al di là della critica razionale. Poiché questo corrisponde a un’affermazione falsa circa le nostre ragioni normative: le ragioni che giustificano razionalmente le nostre azioni»19. Il paradigma sentimentalista humeano sarebbe in parte accettabile, ma andrebbe modificato. I desideri andrebbero ridefiniti come stati mentali con un certo contenuto che si desidera si realizzi nel mondo: essi sarebbero quindi composti da un contenuto proposizionale e da una “direzione di adattamento” che va dal mondo alla mente20. Grazie alla componente proposizionale, saremmo in grado di esprimere giudizi (“x è buono perché...”) e, quindi, determinare in quali casi il desiderio è corretto e in quali non lo è. In questo modo, sarebbe possibile rendere conto del fatto che i desideri ci motivano, e allo stesso tempo individuare in essi un elemento che li rende razionali o irrazionali. Tuttavia, il tentativo di “razionalizzazione” del sentimentalismo humeano operato dai fautori della Direction of Fit non tiene conto del fatto che i sentimenti morali, per Hume, sono dei primitivi e, in quanto tali, indivisibili: «[u]na passione è un’esistenza originaria, o, se preferite, una modificazione originaria, e non contiene nessuna qualità rappresentativa che ne faccia una copia di una qualunque altra esistenza o modificazione»21. Hume distingue tra il sentimento morale e il giudizio morale: il primo è un’impressione originaria, e dunque è indivisibile, mentre il secondo è la verbalizzazione di un’idea morale, copia dell’impressione morale di partenza. La distinzione tra vizio e virtù non è un’attività proposizionale di alcun tipo: è qualcosa Michael Smith, The Moral Problem, cit., p. 14. Diversamente dalle credenze, che sono stati mentali con una direzione di adattamento che va dalla mente al mondo, poiché è adattandosi a come stanno le cose nel mondo che le credenze possono essere dette vere. 21 Treatise, libro II, parte III, sez. 3, p. 415, cpv. 5; tr. it. cit., p. 436. 19

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

che dipende dal piacere e dal dolore. Il momento del giudizio, cioè della giustificazione, interviene dopo, quando si esprimono linguisticamente le idee morali, copie dei sentimenti – vale a dire, delle impressioni – morali iniziali. Nell’ottica della Direction of Fit, invece, il sentimento morale è qualcosa di linguisticamente formulabile da subito, un’entità esprimibile proposizionalmente, che ha già in sé un elemento di giustificazione razionale. Laddove la peculiarità della prospettiva humeana, al contrario, sta proprio nel non fare ricorso alla ragione per spiegare la valutazione morale: l’etica è prima di tutto oggetto di sentimento; solo poi diventa trattabile in termini linguistici22. 4. A rigore, appare quindi possibile discernere tra il giudizio condiviso, formulato dal punto di vista fermo e generale, e il sentimento specifico che prova un singolo individuo in una data circostanza. A partire da questa considerazione, alcuni reputano che la prospettiva morale di Hume sia quella dell’osservatore: il giudizio morale corrisponderebbe alla valutazione del carattere a partire da un punto di vista che non appartiene a nessuno in particolare, da cui un osservatore ideale sarebbe in grado di stabilire i criteri corretti della virtù e del vizio proprio in quanto non sarebbe compromesso con i sentimenti momentanei e parziali dei singoli23. Secondo questa prospettiva, la giustificazione delle 22 Cfr. Nicholas Capaldi, Hume’s Place in Moral Philosophy, cit., cap. IV; Geoffrey Sayre-McCord, On Why Hume’s “General Point of View” Isn’t Ideal – And Shouldn’t Be, cit.; Id., Hume and the Bauhaus Theory of Ethics, cit. A criticare la teoria neo-humeana di Smith a partire da una prospettiva che si presenta, a sua volta, come humeana è anche Simon Blackburn, Ruling Passions. A Theory of Practical Reasoning, Oxford, Clarendon Press, 1998, pp. 266-67. Per un esame approfondito delle teorie neo-humeane contemporanee – e in particolare del modo in cui esse trattano il problema della relazione tra giudizio morale e motivazione sentimentale –, si vedano Francis Snare, Morals, Motivation and �onvention. Hume’s Influential Doctrines, Doctrines Cambridge, Cambridge University Press, 1991 e Peter Railton, Humean Theory of Practical Rationality, in The Oxford Handbook of Ethical Theory, a cura di David Copp, Oxford-New York, Oxford University Press, 2006, pp. 265-81. 23 Cfr. Charlotte Brown, Is Hume an Internalist?, “Journal of the History of

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distinzioni morali non avrebbe niente a che vedere con il fatto che queste distinzioni motivino a comportarsi di conseguenza. Tuttavia, altri fanno notare che, sebbene il giudizio possa venire separato da quanto gli individui provano estemporaneamente, esso non si dà su un piano differente dai sentimenti di quegli individui, bensì ne è una diretta conseguenza: non può aversi alcun giudizio comune – e, con esso, alcun punto di vista fermo e generale – se non si parte dagli individui sentimentalmente connotati, la cui capacità di approvare e disapprovare è espressione del loro provare sentimenti favorevoli o sfavorevoli nei confronti delle qualità del carattere24. Hume abbraccerebbe quinPhilosophy”, 26 (1988), pp. 69-87; Stephen Darwall, Motive and Obligation in Hume’s Ethics, “Noûs”, 27 (1993), pp. 415-48; Id., The British Moralists and the Internal “Ought”: 1640-1740, cit., cap. X; Gilbert Harman, Moral Agent and Impartial Spectator, in Id., Explaining Value and Other Essays in Moral Philosophy, Oxford, Clarendon Press, 2000, pp. 181-95; John Rawls, A Theory of Justice, Cambridge, Mass., The Belknap Press of Harvard University Press, 1971; tr. it. di Ugo Santini con il titolo Una teoria della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1982, cap. III, sez. 30. 24 Cfr. Kate Abramson, Two Portraits of the Humean Moral Agent, “Pacific Philosophical Quarterly, 83 (2002), pp. 301-34; Annette C. Baier, A Progress of Sentiments, cit., pp. 174-88; John Bricke, Hume, Motivation and Morality, cit.; Elizabeth S. Radcliffe, Hume on Motivating Sentiments, the General Point of View, and the Inculcation of “Morality”, “Hume Studies”, 20 (1994), pp. 37-58; Id., How Does the Humean Sense of Duty Motivate?, “Journal of the History of Philosophy”, 34 (1996), pp. 383-407. Tuttavia, c’è chi ha cambiato idea, passando dalla tesi che per Hume valga la prospettiva dell’osservatore a quella che valga la prospettiva dell’agente; oppure l’inverso. Stephen Darwall, prima di considerare Hume un fautore della prospettiva dell’osservatore, lo ha interpretato come un sostenitore della prospettiva dell’agente in Impartial Reason, Ithaca and London, Cornell University Press, 1983, cap. V. Al contrario, Charlotte Brown finisce per attribuire a Hume la prospettiva dell’agente in From Spectator to Agent: Hume’s Theory of Obligation, “Hume Studies”, 20 (1994), pp. 19-36. Anche John Rawls, infine, sembra che abbia rivisto la sua opinione al riguardo. In A Theory of Justice, infatti, egli vede Hume come uno dei rappresentanti della prospettiva dell’osservatore imparziale; mentre in Lectures on the History of Moral Philosophy, a cura di Barbara Herman, Cambridge, Mass.-London, Harvard University Press, 2000; tr. it. di Paola Palminiello con il titolo Lezioni di storia della filosofia morale, Milano, Feltrinelli, 2004, Hume V, sez. 5, afferma che Hume non aveva affatto l’intenzione di presentare una analisi dei giudizi

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di una prospettiva differente, quella dell’agente, secondo la quale il giudizio morale non si spiegherebbe se non lo si riconducesse all’attività di persone che devono poter essere mosse da esso. In questa ottica, non c’è soluzione di continuità tra quel piano sentimentale che rende conto del modo in cui gli esseri umani possono venire motivati ad agire – secondo quanto dettano loro le distinzioni morali –, e un punto di vista fermo e generale – a partire dal quale queste distinzioni trovano la loro giustificazione e, quindi, la loro espressione in un linguaggio che le rende comprensibili a tutti. Stante quanto si è sostenuto finora, la spiegazione che va nella direzione della prospettiva dell’agente è da preferire per rendere conto del modo in cui Hume descrive la formazione di un punto di vista fermo e generale, e l’influenza che esso esercita sull’agire degli individui. La distinzione di piani tra osservatore e agente, infatti, si rivela essere solo apparente. La prospettiva dell’osservatore può venire spiegata riconducendola alla prospettiva dell’agente: il giudizio che esprime l’osservatore non è altro che il giudizio di un ipotetico agente sentimentalmente contraddistinto. Hume è ben lontano dal modello di un osservatore perfettamente razionale e informato – quello che Richard Mervyn Hare chiama «l’arcangelo»25. Lo spettatore non è affatto una figura ideale ma, in linea di principio, un agente concreto. A sua morali nei termini di una teoria dell’osservatore ideale di alcun tipo. Al contrario, secondo il Rawls delle Lectures, il progetto di Hume sarebbe una forma di proiettivismo del tipo che gli attribuisce John L. Mackie, Hume’s Moral Theory, cit., per cui i giudizi morali non sarebbero altro che la proiezione sul mondo dei nostri sentimenti. Hume non si preoccuperebbe tanto di rendere conto del significato dei giudizi morali, quanto piuttosto di spiegare il modo in cui essi operano, e la ragione per cui gli esseri umani credono, erroneamente, di stare attribuendo proprietà morali reali alle cose. Al riguardo, si veda anche John L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, Harmondsworth, Penguin, 1977; tr. it. di Barbara De Mori con il titolo Etica: inventare il giusto e l’ingiusto, Torino, Giappichelli, 2001, cap. I. 25 Si veda Richard Mervyn Hare, Moral Thinking, Oxford-New York, Oxford University Press, 1981; tr. it. di Stefano Sabattini con il titolo Il pensiero morale, Bologna, Il Mulino, 1989.

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volta, il punto di vista fermo e generale non corrisponde ad alcun «punto di vista dell’universo»26 o «sguardo da nessun luogo»27, bensì è il risultato del confronto dei sentimenti di molteplici individui, concretamente distinguibili e localizzabili in circostanze specifiche. La convergenza che si ottiene nel punto di vista fermo e generale è senz’altro una convergenza di giudizio, ma anche di sentimento28. Hume non parla mai del punto di vista fermo e generale come di un’astrazione, proprio perché, a suo avviso, è il risultato di continue modifiche, grazie alle quali i molteplici punti di vista corrispondenti ai sentimenti di individui differenti si sono incontrati e, quando il processo ha avuto successo, armonizzati. Nel punto di vista fermo e generale trova espressione l’impegno immaginativo di questi individui, vi si trova distillata la passata esperienza delle ripetute interazioni che hanno avuto tra loro. Esso è espressione della storia degli esseri umani: non è una posizione determinabile in anticipo, bensì è l’esito di un processo che si è svolto per svariati tentativi, in cui si è giunti a un bilanciamento che ha chiamato in causa l’esercizio attivo delle passioni di coloro che sono stati coinvolti. Pertanto, il momento dell’agire resta fondamentale: non può aversi alcun osservatore che esprima giudizi propriamente morali se prima non ci sono agenti emotivamente stimolati. 5. La nostra capacità di dare giudizi morali riconoscibili e condivisibili non è dovuta al fatto che agiamo in maniera astrattamente

26 La nozione di «punto di vista dell’universo» va ricondotta a Henry Sidgwick.. Al riguardo, si veda il saggio di Bernard Williams, The Point of View of the Universe: Sidgwick and the Ambitions of Ethics, in Id., Making Sense of Humanity and Other Philosophical Papers 1982-1993, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 153-71. 27 L’espressione è di Thomas Nagel, The View from Nowhere, Oxford-New York, Oxford University Press, 1986; tr. it. di Antonella Besussi con il titolo Uno sguardo da nessun luogo, Milano, Il Saggiatore, 1988. 28 In questo senso, Abramson parla di «giudizi affettivamente indirizzati» (feeling-inflected judgements). Si veda �orrecting Our Sentiments about Hume’s Moral Point of View, cit.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

razionale, né che abbracciamo un punto di vista da cui possiamo avere uno sguardo sulle cose impersonale e perfettamente informato. Al contrario, è il frutto di un peculiare gusto morale e dei sentimenti di piacere e di avversione che proviamo osservando certi caratteri29. È un processo che ci chiama in causa come creature sentimentali, innescato da una modifica operata da quelle passioni calme che ci permettono di guardare molto più in là dell’immediato30. Possiamo così sganciarci dalle circostanze che ci determinano come individui specifici e lodare un’azione virtuosa o biasimarne una scorretta, sia che essa sia avvenuta ora sia che sia avvenuta secoli fa, sia che accada vicino a noi sia che accada in un luogo molto distante. Riflettendo, concludiamo che le azioni avrebbero suscitato in noi il medesimo sentimento di plauso o il medesimo sentimento di indignazione indipendentemente dall’avervi assistito di persona. Una riflessione che però non ha nulla a che vedere con l’attività di una ragione autonoma e in contrasto con le passioni: «[l]a ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a esse»31. Il bersaglio polemico di Hume sono quei filosofi che indicano nella ragione la facoltà distintiva degli esseri umani, e spiegano in che modo si possa avere una morale oggettiva, suscettibile di dimostrazione32: l’oggettività dell’etica andrebbe ricondotta a verità assolute o a relazioni eterne tra le cose, che la ragione ci permetterebbe di conoscere. Tuttavia, osserva Hume, se si fa Treatise, libro III, parte III, sez. 1, soprattutto pp. 580 e seg., cpvv. 14 e seg.; tr. it. cit., pp. 614 e seg. 30 Si veda An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. VI, cpv. 15; tr. it. cit., p. 253. 31 Treatise, libro II, parte III, sez. 3, p. 415, cpv. 4; tr. it. cit., p. 436. 32 Hume ha in mente le teorie di John Locke, di Samuel Clarke e di William Wollaston, a cui fa riferimento in Treatise, libro III, parte I, sez. 1. In An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. III, cpv. 34, nota 12; tr. it. cit., pp. 207-8, nota 5 cita invece Montesquieu, Malebranche, Ralph Cudworth e ancora Clarke. Per un confronto delle posizioni di Hume con quelle dei suoi predecessori più prossimi si veda John L. Mackie, Hume’s Moral Theory, cit., cap. II. 29

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dell’etica qualcosa che va conosciuto, non si rende più conto del suo valore pratico; laddove «[f]ine di tutte le speculazioni morali è di insegnarci quello che dobbiamo fare e, mediante appropriate rappresentazioni della bruttezza del vizio e della bellezza della virtù, di produrre le abitudini corrispondenti e di costringerci ad evitare il vizio e ad abbracciare la virtù»33. In realtà non esiste alcuna ragione che si dia come una facoltà a sé stante: «la ragione non è altro che un meraviglioso e inintelligibile istinto nelle nostre anime»34. È certo lecito parlare di riflessione quando si affrontano questioni di natura pratica, o addirittura di ragione: lo stesso Hume usa talvolta toni concilianti e afferma che «tanto la ragione quanto il sentimento concorrano in quasi tutte le determinazioni e conclusioni morali»35. Tuttavia, bisogna intendersi: «questa ragione capace di opporsi alle nostre passioni [...] non è altro che una pacata determinazione generale delle passioni, fondata su una considerazione distaccata o sulla riflessione»36. Essa non è definibile a partire da criteri esterni a un’immaginazione emotivamente caratterizzata, ma si presenta come «la voce dell’esperienza, o della prudenza»37, grazie alla quale possiamo correggere i nostri sentimenti e optare per quei fini che si presentano come moralmente migliori – o anche semplicemente migliori per noi sul lungo periodo –, e quindi seguire la via più adatta per ottenerli38. Con «riflessione» si fa riferimento 33

182. 34 35

183. 36 37

263.

An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. I, cpv. 7; tr. it. cit., p. Treatise, libro I, parte III, sez. 16, p. 179, cpv. 9; tr. it. cit., p. 193. An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. I, cpv. 9; tr. it. cit., p. Treatise, libro III, parte III, sez. 1, p. 583, cpv. 18; tr. it. cit., pp. 616-17. A esprimersi in questo modo è Simon Blackburn, Ruling Passions, cit., p.

38 Riguardo alla natura della razionalità pratica in Hume, se essa vada o meno considerata solo in termini strumentali, si veda Tito Magri, Natural Obligation and Normative Motivation in Hume’s Treatise, cit. Secondo Magri, in Hume è presente una ragione pratica non esclusivamente strumentale in grado di determinare anche i fini e non esclusivamente i mezzi. Al contrario, sia Jean Hampton, Does Hume Have an Instrumental �onception of Practical Rea-

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

a una passione calma, suscitata dalla capacità di immaginarsi in una posizione differente da quella che, effettivamente, si occupa – ossia, di vedersi dal punto di vista generale39. A sua volta, il punto di vista fermo e generale è l’esito dello sforzo immaginativo e dell’esperienza anteriore di molti individui e dei loro scambi simpatetici. Gli esseri umani sono perciò in grado di andare al di là delle loro particolari condizioni spazio-temporali e dell’otson?, “Hume Studies”, 21 (1995), pp. 57-74, sia Elijah Millgram, Was Hume a Humean?, “Hume Studies”, 21 (1995), pp. 75-94, sostengono che Hume è uno scettico circa la natura e il ruolo della razionalità pratica, sia essa strumentale o di altro tipo. Anche per Christine M. Korsgaard, The Normativity of Instrumental Reason, in Ethics and Practical Reason, a cura di Garrett Cullity e Berys Gaut, Oxford, Clarendon Press, 1997, pp. 215-54, Hume non sarebbe in grado di garantire neanche una razionalità di tipo strumentale. Secondo Korsgaard – dato l’impianto empirista della spiegazione humeana, in cui l’unico tipo di necessità ammissibile sarebbe una necessità causale –, Hume non potrebbe andare al di là della mera constatazione che gli esseri umani sono causalmente mossi da passioni. In questo modo, Hume sarebbe incapace di rendere conto del fatto che la razionalità strumentale è normativa, e comporta l’accettazione, da parte dell’agente, di un principio secondo cui volere un certo fine significa avere una ragione di volere anche i mezzi per ottenerlo. A criticare Korsgaard è Elizabeth S. Radcliffe, Kantian Tunes on a Humean Instrument: Why Hume is not Really a Skeptic about Practical Reasoning, “Canadian Journal of Philosophy”, 27 (1997), pp. 247-70. A suo avviso, le obiezioni di Korsgaard sono dovute al presupposto kantiano per cui la razionalità strumentale consisterebbe in un imperativo ipotetico che impone, quando si vuole un certo fine, di volere anche i mezzi. Secondo Radcliffe, Hume ammette una razionalità pratica di tipo strumentale, che però non va necessariamente tradotta in termini di imperativi ipotetici. Le discrepanze tra un’impostazione kantiana e una humeana circa il rapporto tra razionalità e normatività – con particolare riferimento al tipo di kantismo presentato da Korsgaard – verranno approfondite nel quarto capitolo. 39 Sull’inerzia della ragione per quel che riguarda la motivazione degli individui, e sul fenomeno per cui le passioni calme sono normalmente confuse con un intervento diretto della ragione, si veda quanto sostiene W.D. Falk, Hume on Practical Reason, cit. Sulla tesi humeana circa l’impossibilità di una riflessione esclusivamente razionale in grado da sola di motivare gli individui ad agire, si vedano di Daniel Shaw, Hume’s Theory of Motivation, “Hume Studies”, 15 (1989), pp. 163-83 e Reason and Feeling in Hume’s Action Theory and Moral Philosophy, “Hume Studies”, 18 (1992), pp. 349-68. Di Shaw si veda anche Reason and Feeling in Hume’s Action Theory and Moral Philosophy. Hume’s Reasonable Passion, Lewiston-Queenston-Lampeter, The Edwin Mellen Press, 1998.

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Un punto di vista fermo e generale 161

tica ristretta dei loro interessi più prossimi. Attraverso la mediazione di un punto di vista fermo e generale queste condizioni spazio-temporali e questi interessi possono essere ponderati, ed eventualmente superati, sviluppando un sentimento morale che si mostra, a prima vista, come una forma di ragionevolezza, ma che, in realtà, è una «passione dominante» capace di assicurare la forza motivazionale necessaria per vincere quelle spinte passionali contrarie magari più violente, ma non necessariamente così forti da determinare la volontà40.

40 A indicare il sentimento morale come una «passione dominante» che gode di caratteristiche proprie della ragione – quali la capacità di evitare contraddizioni, la capacità di adottare una prospettiva generale, e la capacità di pensare in maniera consequenziale –, ma che, in più, è dotata della forza motivazionale necessaria a muovere all’azione è Annette C. Baier, Master Passions, cit. Al riguardo, si veda anche Jacqueline Taylor, Hume on the Standard of Virtue, cit. Sulla relazione esistente tra i sentimenti che riguardano sia il nostro interesse personale sia l’interesse che prendiamo per i nostri amici e conoscenti, da una parte; e il sentimento morale, frutto della nostra capacità di immaginarci dal punto di vista generale, dall’altra, si veda Rachel Cohon, The �ommon Point of View in Hume’s Ethics, cit.

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XII L’io moralizzato

1. Avendo presente quanto Hume sostiene sul punto di vista fermo e generale, si comprende perché siano stati chiamati in causa un orgoglio e un’umiltà ben fondati per dimostrare la stabilità dell’io passionale. Essa si ottiene quando a suscitare orgoglio o umiltà sono le virtù o i vizi del carattere, perché è con essi che interviene una causa durevole, ben riconoscibile, e su cui gli individui possono convergere. Un io stabile affiora da un orgoglio e da un’umiltà ben fondati, poiché queste passioni sono provocate da una considerazione della propria virtù o del proprio vizio che non è passeggera o momentanea, ma ha le sue radici in uno standard condiviso, a partire dal quale gli individui rintracciano un ordine che permette loro di dare una valutazione uniforme delle persone e delle cose. Per questo motivo si riconosce un nesso tra io passionale, io stabile e io morale: riferendosi alla dimensione dell’etica, può aversi quella coincidenza di giudizio che permette di fissare le qualità del carattere, virtuose o viziose, che ci identificano come individui particolari, possessori di un carattere particolare. Il protorgoglio e la protoumiltà, da soli, non sono sufficienti, perché sono il prodotto di un pensiero sostanzialmente infantile, incapace di rendere conto del fatto che gli individui occupano un posto nella società, si servono di un linguaggio comune e partecipano alla dimensione dell’etica. In questo senso, la teoria humeana della morale è sì soggettivista, ma non può affatto dirsi una forma di emotivismo: la

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L’io moralizzato 16

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definizione dell’io morale passa per l’acquisizione di un punto di vista generale, grazie al quale può stabilirsi un discorso morale1. Solo in quanto siamo parlanti capaci di apprendere i significati di termini come, ad esempio, onestà, fedeltà, pazienza, onore, integrità, discrezione, generosità, moderazione, tenerezza, possiamo valutarci l’un l’altro: poiché le virtù e i vizi si mostrano come tratti del carattere, siamo in grado di riconoscerci a vicenda come individui onesti, fedeli, pazienti, eccetera2. La dimensione etica, non dipendendo direttamente dai desideri e dagli interessi momentanei dei singoli, fornisce un riferimento riconosciuto da cui esprimere giudizi morali che valgono per tutti, e ci permette, quindi, di fissare criteri per distinguere un io continuo, consapevole, e responsabile del proprio comportamento di fronte agli altri3. 2. La convinzione che il nostro carattere sarà approvato o disapprovato regge il rispetto di sé su cui si fonda l’io morale. Questo rispetto comporta, dunque, un riferimento implicito a standard di approvazione e disapprovazione riguardo a che cosa significa essere una persona buona che vive una vita buona. A partire da questi standard si precisano i modelli di comportamento – modelli che si esplicitano in caratteri di un certo tipo – con i quali gli individui si identificano: poiché ammiriamo chi mostra di possedere certi tratti del carattere desideriamo diventare come lui o lei, cioè desideriamo diventare oggetto di stima e di rispetto, Per una critica dell’interpretazione che vede Hume come un soggettivista, in particolare nella forma che le dà Foot, si veda Marcia Lind, Hume and Moral Emotions, in Identity, �haracter, and Morality. Essays in Moral Psychology, a cura di Owen Flanagan e Amélie Oksenberg Rorty, Cambridge, Mass.-London, The MIT Press, 1990, pp. 133-47. Riguardo alle differenze che ci sono tra Hume e l’emotivismo, si veda quanto sostiene John Sweigart, The Distance Between Hume and Emotivism, “Philosophical Quarterly”, 14 (1964), pp. 229-36. 2 Si veda Annette C. Baier, A Progress of Sentiments, cit., cap. VIII, specialmente pp. 190 e seg. 3 Cfr. Eugenio Lecaldano, L’io, il carattere, e la virtù nel Trattato di Hume, cit.; Id., The Passions, �haracter and the Self in Hume, cit.; Id., Soggetto morale e identità personale dalla prospettiva del sentimentalismo humeano, cit. 1

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

vale a dire qualcuno orgoglioso di se stesso. In questo modo, attraverso le identificazioni che la persona opera, si istituiscono delle connessioni sistematiche tra la sua struttura motivazionale e le concezioni valutative che formano le basi normative del suo senso del rispetto di sé. La persona interiorizza queste concezioni valutative, e le sue motivazioni, i suoi sentimenti, i suoi atteggiamenti si plasmano sulla scorta di colui con cui ci si è identificati4: [u]n uomo propone a se stesso il modello di un carattere che approva: diventa pienamente consapevole di tutti i tratti per i quali il suo carattere si allontana da questo modello e si sorveglia costantemente facendo passare, con uno sforzo continuo, la sua mente dal vizio alla virtù; non dubito affatto che in questo caso, dopo un certo tempo, costui scoprirà un mutamento in meglio nel suo carattere5.

3. Quel che emerge è un legame tra il nostro desiderio di essere – o di diventare – una persona di un certo tipo, e l’agire secondo il senso della virtù. Ci determiniamo come io morali quando il modello di riferimento a cui guardiamo è un «osservatore giudizioso»6, ossia qualcuno che giudica le azioni, i motivi e i caratteri dal punto di vista generale7. È bene ribadire che questo osservatore giudizioso non è un’entità astratta; al contrario, si tratta di quello che Bernard Williams chiama un «osservatore immaginario», o un «altro interiorizzato»8, sempre Al riguardo, si vedano Stephen D. Hudson, Human �haracter and Morality, cit., cap. VI e Amélie Oksenberg Rorty, “Pride Produces the Idea of Self”: Hume on Moral Agency, cit. A sottolineare il legame tra carattere e orgoglio e umiltà è anche Donald C. Ainslie, �haracter Traits and the Humean Approach to Ethics, cit. 5 Lo scettico (1742), in Opere filosofiche, volume III, cit., pp. 169-91. 6 Treatise, libro III, parte III, sez. 1, p. 581, cpv. 14; tr. it. cit., p. 614. 7 Si veda al proposito John Bricke, Hume, Motivation and Morality, cit. 8 Si veda Bernard Williams, Shame and Necessity, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1993, cap. IV, in particolare pp. 78-82 e 100-102; tr. it. di Mauro Serra con il titolo Vergogna e necessità, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 96-99 e 116-18. 4

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L’io moralizzato 165

corrispondente, in linea di principio, a qualcuno di reale. L’osservatore giudizioso è qualcuno delle cui opinioni gli individui hanno rispetto, poiché la sua autorità deriva dal fatto che rappresenta attese autentiche, determinabili a partire da quel punto di vista frutto del confronto e dell’equilibrio che gli individui, grazie alla simpatia, hanno stabilito tra loro. In questo modo, si rende conto di come l’obbligo morale diventi un motivo reale per gli individui, e così si garantisce quella presa motivante che è un requisito necessario di qualsiasi analisi etica che voglia dirsi tale. Le richieste dell’osservatore giudizioso – le richieste, cioè, che ci vengono dal nostro conformarci ai dettami stabiliti da un punto di vista fermo e generale, ossia dal nostro approssimarci al modello di comportamento impersonato da colui che vi aderisce – rappresentano le istanze di una dimensione etica in cui gli individui sono immersi, e le passioni dell’orgoglio e dell’umiltà forniscono agli individui quelle coordinate che permettono loro di relazionarsi gli uni agli altri e alla realtà in cui agiscono, di formarsi un carattere e di determinarsi come degli io. 4. Secondo Michael Smith, le due questioni a cui i filosofi morali devono dare una risposta sono la capacità di motivare gli individui e la capacità di fornire un criterio di giudizio oggettivo – dove con “oggettivo” si intende un criterio di giudizio capace di garantire una convergenza nelle opinioni morali9. L’etica humeana dà una risposta: poiché la morale ha le sue radici nelle passioni umane, è in grado sia di motivarci sia di venire incontro al bisogno di oggettività, chiamando in causa un punto di vista fermo e generale. Dal sovrapporsi delle due prospettive, quella dell’agente e quella dell’osservatore, gli individui fanno proprio l’invito ad agire moralmente nella forma di una passione calma, che si presenta come parte della loro struttura motivazionale. Le ragioni giudicate moralmente legittime dal punto di vista fermo e generale possono perciò venire ricondotte a motivi per agire 9 Michael Smith, Realism, in A �ompanion to Ethics, a cura di Peter Singer, Oxford, Blackwell, 1991, pp. 399-410.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

riconoscibili dagli individui come motivi per loro effettivamente validi. Per questo, la posizione di Hume può, a buon diritto, venire considerata come una forma di internalismo. Quella internalista è una tesi sulla natura delle ragioni in generale: afferma che una ragione è tale solo se può venire riconosciuta come un motivo valido da coloro a cui quella ragione si rivolge. A questa tesi se ne oppone un’altra, quella esternalista, secondo la quale tra ragioni e motivi non sussiste alcuna relazione: perché una ragione sia tale non è necessario che motivi coloro a cui essa viene indirizzata10. 10 L’odierno dibattito sulle ragioni interne ed esterne può essere fatto risalire al saggio di W.D. Falk, ‘Ought’ and Motivation, “Proceedings of the Aristotelian Society”, 48 (1947-48), pp. 492-510, ristampato in Ought, Reasons, and Morality, cit., pp. 21-41. Riproposta da W.K. Frankena, Obligation and Motivation in Recent Moral Philosophy, in Essays in Moral Philosophy, a cura di A.I. Melden, Seattle, University of Washington Press, 1958, pp. 40-81, la questione della natura delle ragioni interne ed esterne, e del loro rapporto, è una tra le più discusse in filosofia morale analitica contemporanea. Tra gli innumerevoli contributi che sono stati forniti, ci limitiamo a ricordare Thomas Nagel, The Possibility of Altruism, Princeton, Princeton University Press, 1970; tr. it. di Rosamaria Scognamiglio con il titolo La possibilità dell’altruismo, Bologna, Il Mulino, 1994; Christine M. Korsgaard, Skepticism about Practical Reason, “Journal of Philosophy”, 83 (1986), pp. 5-25, ristampato in Ead., �reating the Kingdom of Ends, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, pp. 311-34; Jonathan Dancy, Moral Reasons, Oxford, Blackwell, 1993; Derek Parfit, Reasons and Motivations, “The Aristotelian Society”, Supplementary Volume, 71 (1997), pp. 99-130; Id., Rationality and Reasons, in Explaining Practical Philosophy. From Action to Values, a cura di D. Egonsson, J. Josefsson, B. Petersson, T. Rønnow-Rasmussen, Aldershot, Hampshire, Ashgate, 2001, pp. 17-39. Un caso a sé stante è quello di Bernard Williams, il quale è considerato colui che ha presentato nella maniera più approfondita la questione, schierandosi a favore dell’esistenza delle sole ragioni interne. Di Williams cfr. Internal and External Reasons, in Id., Moral Luck. Philosophical Papers 1973-1980, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, pp. 101-13; tr. it. di Rodolfo Rini con il titolo Ragioni interne ed esterne, in Sorte morale, Milano, Il Saggiatore, 1987, pp. 133-47; Internal Reasons and the Obscurity of Blame, in Id., Making Sense of Humanity, cit., pp. 35-45; Replies, in World, Mind, and Ethics. Essays on the Ethical Philosophy of Bernard Williams, a cura di J.E.J. Altham e Ross Harrison, Cambridge, Cambridge University Press, 1995, pp. 186-94 e 214-16; Some Further Notes on Internal and External

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È frequente che coloro che interpretano Hume come un sostenitore della prospettiva dell’osservatore lo concepiscano anche come un esternalista circa la capacità delle ragioni morali di motivare gli esseri umani: poiché il punto di vista dell’osservatore non corrisponde a quello di nessuno di preciso, la validità delle ragioni morali che vengono stabilite a partire da esso non è dovuta al fatto che queste ragioni motivino chicchessia11. Allo stesso modo dei sostenitori della Direction of Fit, molti di loro Reasons, in Varieties of Practical Reasoning, a cura di Elijah Millgram, Cambridge, Mass.-London, MIT Press, 2001, pp. 91-97. Per un inquadramento del problema dell’internalismo e dell’esternalismo, cfr. Piergiorgio Donatelli, La filosofia morale, Roma-Bari, Laterza, 2001, cap. VII; Luciana Ceri, Desideri e ragioni per l’azione, in Le ragioni dell’etica, a cura di Luciana Ceri e Sergio Filippo Magni, Pisa, ETS, 2004, pp. 85-103; Lorenzo Greco, Bernard Williams e la natura delle ragioni in etica, in Recent Tendencies in Metaethics – Tendenze recenti della metaetica, a cura di Piergiorgio Donatelli, “Etica & politica / Ethics & Politics”, 6 (2005), http://www.units.it/etica/2005_1/GRECO.htm. 11 Per un’interpretazione esternalista di Hume cfr. Marcia W. Baron, Morality as a Back-Up System: Hume’s View?, “Hume Studies”, 14 (1988), pp. 25-52; Charlotte Brown, Is Hume an Internalist?, cit.; Stephen Darwall, Motive and Obligation in Hume’s Ethics, cit.; Christine M. Korsgaard, The General Point of View: Love and Moral Approval in Hume’s Ethics, “Hume Studies”, 25 (1999), pp. 3-41. A leggere Hume come un internalista sono invece, ad esempio, Daniel Shaw, Hume’s Theory of Motivation, cit.; Dorothy Coleman, Hume’s Internalism, “Hume Studies”, 18 (1992), pp. 331-47; Elizabeth S. Radcliffe, Hume on Motivating Sentiments, the General Point of View, and the Inculcation of “Morality”, cit.; Id., How Does the Humean Sense of Duty Motivate?, cit.; John Bricke, Hume, Motivation and Morality, cit. Tuttavia, così come avviene circa il problema se Hume sia un fautore della prospettiva dell’osservatore oppure dell’agente, alcuni degli autori che si sono chiesti se Hume sia un internalista oppure un esternalista hanno cambiato opinione, collocandolo prima in una categoria e poi in un’altra. Charlotte Brown in Is Hume an Internalist?, cit., considerava Hume un esternalista; in From Spectator to Agent: Hume’s Theory of Obligation, cit., sembra invece attribuirgli una posizione internalista simile a quella che gli attribuiscono Bricke e Radcliffe: noi interiorizziamo un ideale di carattere moralmente ottimo, e il nostro desiderare di agire secondo questo ideale ci fa comportare secondo i dettami della morale. A sua volta, la spiegazione del modo in cui interiorizziamo questo ideale viene ricondotta all’influenza della simpatia. Stephen Darwall fa il percorso inverso: in Motive and Obligation in Hume’s Ethics, cit., giunge alla conclusione che Hume è un esternalista, ma in Impartial Reason, cit., cap. V, arruolava Hume tra gli internalisti.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

ritengono che Hume non sia in grado di rendere conto per via sentimentale della speciale autorità che deve accompagnare una condotta realmente morale. Perché, da una parte, i sentimenti morali che egli indicherebbe sarebbero riconducibili a passioni indirette, come l’orgoglio e l’umiltà, incapaci, come tali, di motivare; oppure a motivi che non hanno niente a che vedere con il senso del dovere propriamente morale, come, ad esempio, il desiderio di essere felici. Dall’altra, perché la fonte della normatività dell’etica dipenderebbe, per Hume, da un punto di vista fermo e generale il cui statuto morale, in realtà, non sarebbe mai collegabile ad alcun sentimento, in quanto esito di una riflessione che deve potersi imporre sui sentimenti e dirigerli secondo ciò che è razionale fare. Hume, cioè, non sarebbe in grado di spiegare né come sia possibile che i sentimenti morali possano muovere gli esseri umani all’azione, né come questi peculiari sentimenti possano in effetti venir detti morali, dal momento che l’autorità della morale va ricondotta a un processo razionale e non sentimentale12. Un caso emblematico è l’interpretazione che offre John Rawls. A suo avviso, sebbene in Hume le virtù e i vizi divengano noti grazie ai sentimenti morali, non sono questi a spingere gli esseri umani ad agire, bensì il loro desiderio di acquisire un carattere e di essere stimati dai loro compagni. Rawls ritiene che si debba separare la tesi epistemologica circa la nostra capacità di distinguere tra ciò che è giusto e sbagliato, buono e cattivo, dalla

12 Si veda Charlotte Brown, Is Hume an Internalist?, cit. (anche se Brown ha modificato la sua tesi, come si è visto nella nota precedente). A rilevare in Hume una discrepanza a livello affettivo per quel che riguarda la capacità che i sentimenti avrebbero di guidare la condotta secondo un senso del dovere espressamente morale è anche Marcia W. Baron, Morality as a Back-Up System: Hume’s View?, cit. Si veda infine Christine M. Korsgaard, The General Point of View: Love and Moral Approval in Hume’s Ethics, cit. A interpretare i sentimenti morali come passioni indirette sono stati anche Páll S. Árdal, Passion and Value in Hume’s Treatise, cit., p. 111 e Another Look at Hume’s Account of Moral Evaluation, “Journal of the History of Philosophy”, 15 (1977), pp. 405-21; Paul Russell, Freedom and Moral Sentiments, cit., cap. IV.

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L’io moralizzato 16

tesi su ciò che ci motiva. Hume spiegherebbe quest’ultima in termini internalisti, poiché per lui le ragioni per l’azione devono connettersi a passioni esistenti. La tesi epistemologica, invece, andrebbe ricondotta al giudizio di un osservatore giudizioso e alla simpatia estesa di cui, per natura, gli esseri umani sono dotati. Il problema, per Rawls, è che la spiegazione sentimentalistica humeana del modo in cui vengono concepiti i giudizi morali non può funzionare, perché corrisponderebbe a una mera trattazione psicologica, priva di qualsivoglia valenza normativa. Al contrario, il ragionamento deve poter indirizzare le nostre deliberazioni secondo certi principi della ragione pratica, e un agente razionale è colui che è guidato da desideri che si confanno a questi principi, a cui ha riconosciuto autorità in quanto derivanti dalla ragione pratica. Se questo è vero, conclude Rawls, allora bisogna riconoscere che in Hume manca una concezione soddisfacente del ragionamento pratico13. Ora, è opportuno notare che a interpretare Hume in questo modo sono soprattutto filosofi influenzati, in vario modo, dal pensiero di Kant, e che questo non è affatto casuale: come si vedrà più avanti, sebbene tra una impostazione humeana e una kantiana si possano riscontrare similitudini, tuttavia tra le due restano differenze profonde e, in ultima analisi, inconciliabili. 5. Chi invece abbraccia la prospettiva dell’agente tende a vedere in Hume un internalista circa la relazione esistente tra ragioni morali e motivazione. Nella misura in cui, secondo Hume, il giudizio morale non è che uno sviluppo del sentimento – nel senso che il primo deriva dal secondo, ne è una modificazione – è questa la maniera più sensata di leggere il progetto humeano. Attraverso l’interiorizzazione di un ideale di carattere, fissato secondo quelle virtù stabilite da un punto di vista fermo e generale, attraverso l’influsso che il continuo scambio di opinioni tra gli esseri umani esercita su di noi grazie al meccanismo della 13 John Rawls, Lectures on the History of Moral Philosophy, cit., Hume I, sez. 4, Hume II e Hume V.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

simpatia, siamo portati a riconoscere le ragioni che risultino tali da un punto di vista fermo e generale come motivi per agire in un certo modo, e pertanto a organizzare la nostra condotta secondo i dettami della morale. Alla radice delle distinzioni tra virtù e vizio ci sono sempre sentimenti di piacere o di dolore: è grazie a essi che gli esseri umani possono approvare e disapprovare, e quindi vengono motivati ad agire. I sentimenti di approvazione e disapprovazione possono non corrispondere esattamente ai giudizi morali corretti espressi da un punto di vista fermo e generale, ma tra questi ultimi e i primi non c’è uno iato: i giudizi morali corretti espressi dal punto di vista fermo e generale rappresentano delle ragioni effettive che gli esseri umani sono capaci di riconoscere come motivi per agire. Grazie all’immaginazione, partendo dalle reazioni concrete che proviamo di fronte al carattere di un individuo, siamo in grado di ampliare le nostre simpatie, e quindi di sentire ciò che sentiremmo se potessimo simpatizzare con il circolo ristretto di quell’individuo; in seguito a questo aggiustamento correggiamo i nostri giudizi. Infine, lo stesso osservatore giudizioso è tale in quanto va concepito come un agente concreto potenziale. In questo modo, si fornisce una spiegazione dell’interiorizzazione di un punto di vista morale attraverso un’analisi che non perde mai di vista la natura sentimentale e pratica dell’etica, e con essa il fatto che questa è il riflesso dell’attività di individui reali, di cui non solo guida la condotta, ma contribuisce a determinare l’identità come io agenti14. 14 Queste tesi vengono argomentate e difese soprattutto da Annette C. Baier, A Progress of Sentiments, cit., pp. 134-35 e Elizabeth S. Radcliffe, sia Hume on Motivating Sentiments, the General Point of View, and the Inculcation of “Morality”, cit., sia How Does the Humean Sense of Duty Motivate?, cit. Radcliffe ribadisce il legame che esiste in Hume tra carattere e motivazione anche in Hume on the Generation of Motives: Why Beliefs Alone Never Motivate, “Hume Studies”, 25 (1999), pp. 101-22. Si veda anche John Bricke, Hume, Motivation and Morality, cit. e Kate Abramson, Two Portraits of the Humean Moral Agent, cit. Per una disamina della nozione di senso morale in Hume, e della differenza che corre con il modo in cui l’intendono invece i suoi contemporanei Shaftesbury e Hu-

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L’interiorizzazione di un punto di vista generale ci porta non soltanto a comportarci moralmente, ma anche ad approvarci per questo: dall’approvazione del nostro comportamento ricaviamo una conferma della correttezza dei motivi che formano il nostro carattere e che, pertanto, lo rafforzano, fornendo così basi solide alla consapevolezza di noi stessi. Per questo, come si è parlato di orgoglio o umiltà ben fondati, allo stesso modo ci si può riferire a un orgoglio o a una umiltà «moralizzati»15. Ciò che risalta dall’esame di queste forme di rispetto di sé è il legame indissolubile che esiste tra virtù e orgoglio, tra vizio e umiltà. Il processo che sta alla base della formazione di passioni come orgoglio e umiltà, come amore e odio è lo stesso di quello che ci fa riconoscere il vizio e la virtù16: una volta che orgoglio e umiltà siano stati corretti, la differenza tra provare queste passioni e avere un sentimento moralmente contraddistinto viene progressivamente meno, fino a diventare una cosa sola. L’orgoglio o l’umiltà che si provano per la propria virtù o per il proprio vizio diventano conferme di questi ultimi: il nostro essere orgogliosi o umili di fronte agli altri per la nostra condotta è la prova più evidente della nostra virtù o del nostro vizio. Per avere un comportamento virtuoso è necessario che a esso si accompagni l’orgoglio: virtù e orgoglio si rafforzano a vicenda, tanto da non potersi avere separatamente»17. Un «giusto grado di tcheson, si veda Eugenio Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., cap. III, in particolare pp. 109-17. 15 A parlare in questi termini è Annette C. Baier, Master Passions, cit. Si vedano anche Jennifer A. Herdt, Religion and Faction in Hume’s Moral Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, pp. 41-42 e 70 e Amélie Oksenberg Rorty, The Vanishing Subject: The Many Faces of Subjectivity, “History of Philosophy Quarterly”, 23 (2006), pp. 191-209. 16 Si veda Treatise, libro III, parte I, sez. 2, p. 473, cpv. 5; tr. it. cit., p. 500. 17 La tesi della necessità che la virtù sia accompagnata da un orgoglio commisurato – una tesi che si contrappone all’idea cristiana secondo cui è l’umiltà il segno di un comportamento davvero retto – viene ripresa da Hume in un saggio a sé stante, Dignità o viltà della natura umana (1741), in Opere filosofiche, volume III, cit., pp. 86-93. Su questo saggio, si veda quanto dice Eugenio Lecaldano nell’Introduzione alla raccolta di Saggi di Hume, Sul suicidio e altri saggi

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

orgoglio»18, «a well-regulated pride»19 – un orgoglio, cioè, che non è superbia o vanagloria, ma coscienza effettiva del proprio reale valore – sono assicurazioni certe della virtù della persona. Sono il riflesso del suo carattere così come è attestato dal punto di vista fermo e generale, grazie al quale la persona acquista una chiara identità morale che le permette di ottenere un riconoscimento da parte degli altri che non può più essere mal riposto, e che, dunque, non è passibile di fraintendimenti. La persona riceve un vero e proprio feedback positivo20, una conferma del proprio reale valore che la rende presente a se stessa e la rende integra; dove con “integrità” non ci si riferisce alla virtù particolare dell’incorruttibilità, bensì a quella compiutezza che l’individuo guadagna quando il suo carattere viene fissato riferendosi al piano stabile dell’etica21. A partire da questa integrità attestata a livello morale, la persona è in grado di collocarsi nel mondo e di trovare la giusta spinta per agire e affermarsi in esso22.

morali, a cura di Eugenio Lecaldano, Roma-Bari, Laterza, 2008. 18 Treatise, libro III, parte III, sez. 2, p. 596, cpv. 8; tr. it. cit., p. 630. 19 Treatise, libro III, parte III, sez. 2, p. 600, cpv. 13: un orgoglio «ben regolato», e non «un moderato orgoglio», come viene tradotto nella edizione italiana, p. 633. 20 Annette C. Baier, Master Passions, cit., pp. 409-10. 21 Una definizione di integrità che è stata teorizzata, in tempi recenti, da Bernard Williams in Persons, �haracter and Morality e Utilitarianism and Moral Self-Indulgence, ambedue in Id., Moral Luck, cit., pp. 1-19 e 40-53; tr. it. di Rodolfo Rini con il titolo Persone, carattere e moralità e Utilitarismo e autocompiacimento morale, in Sorte morale, cit., pp. 9-31 e 59-75. Per una breve e lucida illustrazione della nozione di integrità, si veda Cora Diamond, Integrity, in Encyclopedia of Ethics, a cura di L.C. Becker e C.B. Becker, New York and London, Garland Publishing, Inc., 1992. Sulla distinzione tra le nozioni di integrità personale e di integrità morale, si veda anche Lynne McFall, Integrity, “Ethics”, 98 (1987), pp. 5-20. 22 Si veda, al riguardo, tutta la sez. 2 di Treatise, libro III, parte III.

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Parte quarta Il paradigma humeano e le sue alternative

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XIII Individualità come valore: Hume e l’utilitarismo

1. Dall’esame fin qui svolto, si possono trarre le seguenti conclusioni. L’orgoglio per le virtù che ci contraddistinguono, oppure la vergogna per i nostri vizi, ci rende presenti a noi stessi come degli io semplici. Il punto di vista fermo e generale, da cui emergono le distinzioni di virtù e vizio, si offre, invece, come un riferimento riconoscibile e condivisibile. Da una parte, il fatto che siamo creature passionali garantisce semplicità all’io grazie a una consapevolezza di natura sentimentale; dall’altra, il punto di vista generale dell’etica fa sì che questo io passionale possa venire concepito come stabile. La semplicità ottenuta per via passionale e la stabilità attestata dal punto di vista generale permettono di avere un io morale integro e identificabile, da lui medesimo e dagli altri. Stante questo quadro teorico, è possibile rendere conto di un dato del senso comune che è alla base dell’interesse che la nozione di io ha per l’etica: quello secondo cui le persone sono persone specifiche. Hume spiega la nozione di senso comune di io individuale meglio delle soluzioni apparentemente più intuitive – come quella offerta, per esempio, dal Cristianesimo – che fanno riferimento a una sostanza o a un’anima per giustificare la nostra singolarità1. Egli fornisce una spiegazione soddisfacente 1 Sul superamento da parte di Hume di una prospettiva religiosa circa la nozione di senso comune di io individuale, si veda Jane L. McIntyre, Hume’s Underground Self, cit.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

poiché le persone sono riconoscibili riferendosi a un’identità narrativa che si presenta come un sistema coerente, in cui la nostra storia passata e la proiezione della nostra vita futura sono tenute insieme, al momento presente, da un carattere che ci rende oggetto di valutazione morale. È un’individualità che può essere affermata proprio in quanto si dà attraverso una descrizione che contempla quell’apparato passionale, il quale soltanto ci permette di fermare un concetto di io che, altrimenti, ci sfuggirebbe. 2. L’io morale humeano si dà all’interno di una dimensione normativa che lo informa fin dal principio. La sua individualità non corrisponde a un dato di fatto; al riconoscimento di essa si può pervenire solo sulla base di una riflessione di tipo pratico. Da questo punto di vista, che l’io morale sia un individuo è qualcosa che non ci si limita a constatare, ma ci si impone come un valore morale di base. Quella humeana si presenta come una prospettiva etica ben precisa, che ha in individui in carne e ossa, con un carattere virtuoso o vizioso, il suo fulcro. Può, allora, essere interessante mettere a confronto questa prospettiva con altre che, in maniera differente, si sono poste interrogativi etici simili a quelli che sono emersi finora. Nei capitoli che seguono si vuole mostrare l’originalità della soluzione humeana circa la natura dell’io morale paragonandola ad alcune soluzioni diverse che sono state elaborate nel dibattito filosofico contemporaneo di lingua inglese. Essa si candida come un’etica il cui valore di base è l’individualità delle persone, e si distingue sia da un’impostazione filosofica che in apparenza può venirle accostata, ma che in realtà si rivela essere diversa – un’ottica di tipo utilitarista –, sia da una soluzione che, sebbene abbia anch’essa lo scopo di salvaguardare la nozione di individualità come un valore morale da tutelare, tuttavia si muove seguendo un percorso differente da quello humeano, e non conciliabile con esso – come è il caso di un’alternativa di tipo kantiano. In particolare, si farà riferimento a quello sviluppo che l’utilitarismo subisce con Derek Parfit, e a quella forma di kantismo elaborata da Christine M. Korsgaard. Si sosterrà, inoltre, che l’io morale

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Individualità come valore: Hume e l’utilitarismo 177

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humeano si differenzia dall’io morale che viene elaborato all’interno di un paradigma di tipo comunitarista, con il quale sembra avere, esteriormente, molti punti in comune. Infine, si accennerà ad alcune somiglianze e differenze che possono venire tracciate tra l’io come emerge nella nostra versione del sentimentalismo di Hume e l’io come viene trattato nella moderna etica delle virtù. 3. È opportuno tornare brevemente su quanto sostiene Derek Parfit. Parfit2 muove dalla constatazione che l’identità personale non corrisponde a qualcosa di stabile e unitario, e da lì imposta la sua riflessione etica. Egli rifiuta una concezione non riduzionistica, secondo la quale «una persona è un’entità esistente separatamente, distinta dal proprio cervello, dal proprio corpo e dalle proprie esperienze», e fa propria una concezione riduzionistica. Per la concezione riduzionistica le persone esistono. E una persona è distinta dal proprio cervello, dal proprio corpo e dalle proprie esperienze. Ma non è un’entità esistente separatamente. L’esistenza di una persona in un certo periodo consiste solo nell’esistenza del suo cervello e del suo corpo, nel succedersi dei suoi pensieri, nel compimento delle sue azioni e nel ricorrere di molti altri eventi fisici e mentali3.

Da riduzionista, Parfit si domanda se sia davvero il singolo individuo ciò di cui ci si deve preoccupare, o se invece non si debba fare riferimento a qualcosa di più fondamentale: riflettendo, potremmo scoprire che esso è importante non per la sua unitarietà, che si rivelerebbe fittizia, bensì per qualcos’altro. Il punto, a suo avviso, è che «la continuità sia fisica che psicologica [...] può essere descritta in modo impersonale, cioè, senza dire che ad avere esperienze è una persona». La conclusione a cui giunge è che «l’identità personale non è ciò che conta. L’identità personale implica soltanto certi tipi di connessione e continuità 2 3

Si veda Derek Parfit, Reasons and Persons, cit., parte III. Derek Parfit, Reasons and Persons, cit., p. 275; tr. it. cit., p. 350.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

quando questi ricorrono in forma biunivoca. Sono queste relazioni che contano»4. Hume sembra approdare a un esito simile: l’identità personale non è altro che un fascio di percezioni in successione, privo di qualsiasi unità. Tuttavia, sebbene sul piano teoretico ci sia effettivamente una similitudine tra Parfit e Hume, i due divergono nettamente quando si passa a quello pratico: se possono venire affiancati per quel che riguarda le conclusioni metafisiche sulla natura dell’io, le conseguenze morali che traggono sono, al contrario, profondamente diverse. Se Hume imposta la propria riflessione sull’io morale a partire da un senso comune che si offre come il luogo dove tutta una serie di concetti – tra cui, appunto, quello di io – trovano la loro giustificazione, Parfit, viceversa, ha la pretesa di porsi al di là di esso, forte delle verità a cui è giunto esaminando speculativamente il concetto di identità personale: [n]oi crediamo che l’esistenza di una persona non implichi nient’altro che il ricorrere di eventi mentali e fisici interrelati. Non neghiamo che esistano delle persone. Riconosciamo che noi non siamo serie di eventi: non siamo pensieri e azioni, ma pensanti e agenti. Ma ciò è vero solo perché descriviamo le nostre esistenze ascrivendo pensieri e azioni alle persone. Come ho argomentato, potremmo dare una descrizione completa della nostra esistenza in termini impersonali: una descrizione che non affermi l’esistenza della persona. [...] Da queste credenze scaturiscono certi atteggiamenti nei confronti della moralità. Diventa più plausibile, quando si affronta un problema morale, dare meno rilievo alla persona, soggetto delle esperienze, e darne di più alle esperienze stesse. Diventa più plausibile affermare che, come abbiamo ragione di ignorare se delle persone vengano dalla stessa nazione o da nazioni diverse, così abbiamo ragione di ignorare se delle esperienze si verifichino all’interno di una stessa esistenza o in esistenze diverse5.

Parfit compie, cioè, un’operazione che non è affatto humeana, ma va nella stessa direzione che è all’origine dell’interpre4 5

Derek Parfit, Reasons and Persons, cit., p. 275; tr. it. cit., p. 351. Derek Parfit, Reasons and Persons, cit., pp. 340-41; tr. it. cit., p. 435.

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Individualità come valore: Hume e l’utilitarismo 17

tazione scettica di Hume: comincia esaminando la nozione di persona come oggetto di conoscenza – quello che per Hume è il problema dell’identità personale –, e solo poi si sposta in ambito pratico, ridefinendo il ruolo dell’io morale a partire dalle conclusioni ricavate dall’indagine speculativa. Lo scopo di Parfit non è affatto di rendere conto del senso comune, ma di riformarlo a partire dagli intenti morali che lo muovono6. In una prospettiva humeana, invece, dal senso comune non si esce, poiché segna i limiti di ciò che per noi è sensato: al di là di quei limiti si cade nello scetticismo. Stante la prescrittività che si riconosce al senso comune, al suo interno è ben presente una nozione di io eticamente connotata che corrisponde a persone singole, a individui specifici, riconoscibili in quanto quegli individui e non altri, contraddistinti da quelle virtù e da quei vizi loro propri. L’io morale ha a che fare con la determinazione di un sistema che tiene insieme gli eventi passati e la nostra proiezione degli eventi futuri in un tutto coerente, a partire da una nozione di carattere che ci rende oggetti di giudizio da parte degli altri. Per questo Parfit non può essere detto humeano: la sua indagine sull’identità personale pretende di porsi al di là del senso comune. Il che non sarebbe certo grave – d’altronde, lo stesso Hume si pone al di là del senso comune quando riflette su problemi di conoscenza nel primo libro del Trattato –, se non fosse che le conclusioni a cui giunge Parfit sono fatte valere non soltanto a livello descrittivo, bensì, soprattutto, normativo. Ma, secondo il naturalismo di senso comune humeano, se in ambito normativo si pretende di trascendere il senso comune in nome di una verità raggiunta per via teoretica, si è destinati al fallimento: la nozione di persona è essenzialmente pratica, e può darsi solo all’interno del senso comune. 6 Parfit ritiene che il suo approdo filosofico lo avvicini alle tesi del Buddhismo. A paragonare invece quanto Hume sostiene sulla natura della mente con l’insegnamento del Buddha – in chiave anticartesiana – è Glyn Richards, �onceptions of the Self in Wittgenstein, Hume, and Buddhism: an Analysis and �omparison, “The Monist”, 61 (1978), pp. 42-55.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

4. Gli esiti normativi a cui giungono Hume e Parfit sono molto diversi. Quest’ultimo, ripensando la nozione di io, offre un argomento forte a favore dell’utilitarismo, riallacciandosi alle conclusioni a cui era arrivato, alla fine del secolo scorso, Henry Sidgwick ne I metodi dell’etica7. Per Parfit, [s]e cessiamo di credere che le persone sono entità esistenti separatamente e arriviamo a pensare che l’unità di un’esistenza non implica nient’altro che le varie relazioni tra le esperienze che scandiscono tale esistenza, diventa più plausibile preoccuparsi di più della qualità di quelle esperienze e di meno di quale sia la persona a cui appartengono. Ciò depone a favore della concezione utilitaristica8.

D’altra parte, è oggetto di discussione se, e in che misura, la teoria morale di Hume possa essere avvicinata all’utilitarismo. A tutt’oggi, si continua a dibattere in proposito, senza che si sia arrivati a una soluzione univoca9. Per esempio, c’è chi pensa che Hume vada considerato il fondatore dell’utilitarismo, dal momento che sostiene che generalmente gli esseri umani approvano gli stati mentali e le azioni che sono piacevoli o che servono a perseguire il piacere, mentre disapprovano quelli dolorosi o che portano al dolore; Hume non sarebbe però un utilitarista “completo”, poiché ritiene che i giudizi che gli esseri umani esprimono a proposito dei caratteri e delle azioni da approvare o disapprovare non siano unanimi, ma dipendano in gran parte dalla società in cui vivono10. C’è, invece, chi interpreta Hume come una figura di transizione tra Francis Hutcheson e Jeremy Bentham: Hume sarebbe un ispiratore dell’utilitarismo suo malgrado, pur non

Henry Sidgwick, I metodi dell’etica, tr. it. di Maurizio Mori, Milano, Il Saggiatore, 1995. Si veda soprattutto libro IV, cap. II. 8 Derek Parfit, Reasons and Persons, cit., p. 346; tr. it. cit., p. 442. 9 Per una presentazione del problema, si veda Eugenio Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., cap. III, sez. 5. 10 Si veda John Plamenatz, The English Utilitarians, Oxford, Basil Blackwell, 1949, cap. II. 7

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Individualità come valore: Hume e l’utilitarismo 11

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essendo egli stesso un utilitarista11. Alcuni negano decisamente che Hume possa venire avvicinato all’utilitarismo, soprattutto alla luce delle sue considerazioni sulla giustizia12. Al contrario, altri lo interpretano come un utilitarista a tutti gli effetti13. Detto questo, sebbene si possano individuare punti di contatto tra la tradizione humeana e quella utilitarista – Hume, in effetti, nomina l’utilità come una delle fonti della virtù, e fa riferimento a un principio di simpatia o benevolenza che viene ammesso anche dagli utilitaristi –, tuttavia parrebbe che esse, alla fine, divergano. Laddove l’etica di Hume si offre come una descrizione della natura umana, quella utilitarista è mossa da un proposito dichiaratamente prescrittivo – la massimizzazione dell’utilità generale – assente nella prima. Una massimizzazione che viene perseguita dagli utilitaristi facendo riferimento a una nozione neutra di utilità, in grado di garantire la possibilità di fare i calcoli necessari; mentre, stante il metodo genealogico È la tesi di Stephen Darwall. Si vedano Hume and the Invention of Utilitarianism, in Hume and Hume’s �onnexions, cit., pp. 58-82; tr. it. Hume e l’invenzione dell’utilitarismo, “Materiali per una storia della cultura giuridica”, 24 (1994), pp. 285-313, e Motive and Obligation in Hume’s Ethics, cit. Al riguardo, si veda anche Nadia Boccara, Il buon uso delle passioni. Hume filosofo morale: una biblioteca possibile, Napoli, Liguori, 1999, pp. 306-18, secondo la quale Hume, sebbene non sia un utilitarista in senso stretto, può tuttavia essere definito un «utilitarista di fatto». 12 Si vedano Knud Haakonssen, The Science of a Legislator. The Natural Jurisprudence of David Hume and Adam Smith, Cambridge, Cambridge University Press, 1981, cap. II, § 11 e Frederick G. Whelan, Order and Artifice in Hume’s Political Philosophy, Princeton, Princeton University Press, 1985, cap. IV, § 2. Contro un’interpretazione utilitaristica di Hume, cfr. anche Aryeh Botwinick, A �ase for Hume’s Nonutilitarianism, “Journal of the History of Philosophy”, 15 (1977), pp. 423-35; David P. Gauthier, David Hume, �ontractarian, “Philosophical Review”, 88 (1979), pp. 3-38; Geoffrey Sayre-McCord, Hume and the Bauhaus Theory of Ethics, cit. 13 Cfr., ad esempio, Frederick Rosen, �lassical Utilitarianism from Hume to Bentham, London and New York, Routledge, 2003, cap. III; Roger Crisp, Hume è un utilitarista?, “Iride”, 36 (2002), pp. 251-61; Id., Hume on Virtue, Utility, and Morality, in Virtue Ethics, Old and New, a cura di Stephen G. Gardiner, Ithaca, Cornell University Press, 2005, pp. 159-78; Elizabeth Ashford, Utilitarianism with a Humean Face, “Hume Studies”, 31 (2005), pp. 63-92. 11

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

dell’etica di Hume, non sembra possibile avere una nozione di utilità che prescinda dalle circostanze in cui l’utilità viene riconosciuta14. Inoltre, l’etica utilitarista non fa leva sulla natura passionale degli esseri umani, come invece quella humeana, ma è guidata da un’idea di razionalità che ha lo scopo esplicito di superare l’arbitrarietà del sentimento in nome della realizzazione dello scopo per cui la teoria morale è elaborata. Se, poi, tanto Hume quanto gli utilitaristi chiamano in causa la benevolenza, per gli utilitaristi essa viene concepita come una benevolenza universale; in Hume, invece, la benevolenza è sempre limitata e non ha necessariamente la meglio sull’interesse personale ai fini del corretto giudizio morale. Infine, mentre l’etica humeana ha come suo oggetto individui specifici possessori di un certo carattere virtuoso o vizioso, l’etica utilitarista, coerentemente con la sua impostazione consequenzialista, guarda soprattutto agli esiti delle azioni come a ciò che ha moralmente valore, piuttosto che ai motivi da cui derivano. 5. Per Hume, le azioni hanno una valenza morale solo in quanto riflettono le disposizioni di chi le ha compiute. Le persone vengono al primo posto, sono il punto di partenza da cui è possibile pensare in termini etici. Se l’etica ha un senso, è dovuto al fatto che è il prodotto del confronto e dello sviluppo di sentimenti di individui particolari. E anche quando acquista una dimensione che la porta al di là delle persone specifiche – quando cioè si istituisce un punto di vista fermo e generale da cui si stabiliscono virtù e vizi –, l’etica resta pur sempre il riflesso di quelle persone, poiché, in linea di principio, può venire ricondotta a esse. È vero che nell’utilitarismo si trova la massima «ciascuno deve contare per uno, e nessuno per più di uno»15; ma è stato os14 Quest’ultima considerazione è stata sottolineata anche da David Wiggins, Ethics. Twelve Lectures on the Philosophy of Morality, cit., cap. VI, il quale argomenta diffusamente contro una lettura in termini utilitaristici di Hume. Su questo punto si veda anche Nicholas Capaldi, The Dogmatic Slumber of Hume Scholarship, cit. 15 Henry Sidgwick, I metodi dell’etica, cit., p. 447.

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Individualità come valore: Hume e l’utilitarismo 1

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servato che per l’utilitarismo i singoli in questione rientrano in un sistema che attribuisce loro valore non in quanto sono quelle particolari persone e non altre, bensì in un senso derivato, come cause di eventi piacevoli o dolorosi, dal momento che al primo posto c’è la massimizzazione della felicità o dell’utilità generale; cioè di nessuno in particolare16. Una considerazione, questa – è opportuno sottolinearlo –, che può valere per l’utilitarismo contemporaneo, ma che non è stata ritenuta convincente per l’utilitarismo classico di Bentham e John Stuart Mill. Si è sostenuto, infatti, che non è ovvio che questi autori concepiscano il principio di massimizzazione della felicità generale come un principio aggregativo. Al contrario, esso consisterebbe in un principio distributivo: l’utilitarismo classico terrebbe quindi conto del fatto che nel calcolo felicifico gli individui vanno trattati in maniera egualitaria17. Ciononostante, nei limiti in cui l’utilitarismo rientra nella descrizione standard che ne è stata data dai suoi critici nel ventesimo secolo – che trova una formulazione chiara, ad esempio, in Amartya Sen e Bernard Williams, che lo presentano come una teoria morale consequenzialista, welfarista e aggregativa (o dell’ordinamentosomma)18 –, esso non tiene in debito conto l’individualità delle persone, e dunque si differenzia dalla prospettiva humeana. Per una formulazione classica di questa critica, si veda Bernard Williams, A �ritique of Utilitarianism, in J.J.C. Smart – Bernard Williams, Utilitarianism: For and Against, Cambridge, Cambridge University Press, 1973, pp. 75-150; tr. it. di Bruno Morcavallo con il titolo Una critica dell’utilitarismo, in J.J.C. Smart – Bernard Williams, Utilitarismo: un confronto, Napoli, Bibliopolis, 1985, pp. 103-68. Si tenga presente anche di Williams, Persons, �haracter and Morality, cit. Si veda quindi quanto sostiene H.L.A. Hart, Essays on Bentham, Oxford-New York, Oxford University Press, 1982, pp. 98 e seg. 17 A difendere l’utilitarismo classico secondo questa linea è Frederick Rosen, �lassical Utilitarianism from Hume to Mill, cit., cap. XIII. 18 Si veda Amartya Sen e Bernard Williams, Introduction: Utilitarianism and Beyond, in Utilitarianism and Beyond, a cura di Amartya Sen e Bernard Williams, Cambridge, Cambridge University Press, 1982, pp. 1-22; tr. it. di Antonella Besussi con il titolo Introduzione: utilitarismo e oltre, in Utilitarismo e oltre, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 5-30. Di Sen si veda anche On Ethics and Economics, Oxford Blackwell, 1987; tr. it. di Salvatore Maddaloni con il titolo Etica ed economia, Roma-Bari, Laterza, 1988, conferenza II. 16

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

6. Una simile critica ricorda quella che, da posizioni kantiane, è stata resa celebre da John Rawls. A suo avviso, l’utilitarismo, confondendo l’imparzialità con l’impersonalità, negherebbe la separatezza tra gli individui19: le persone verrebbero concepite solo come «persone vuote», ossia come prive di una concezione del bene che sia espressamente loro, in nome di «una preferenza condivisa di ordine sommo»20, per la realizzazione della quale negherebbero il fatto di essere individui distinti, per agire, invece, come se fossero un singolo soggetto, sul modello di quello che farebbe un osservatore simpatetico perfettamente imparziale. Laddove la forza di un’impostazione che si rifà a Kant starebbe proprio nel rintracciare nell’individualità delle persone un ideale capitale, e non negoziabile, della moralità. Ora, benché possa sembrare che le osservazioni circa il non utilitarismo di Hume e l’importanza che egli riconosce ai singoli lo avvicinino a conclusioni come quelle enunciate da Rawls, in realtà, anche in questo caso, la somiglianza è soltanto apparente: sebbene Rawls parli di «persone morali», la sua difesa dell’individualità viene fatta a partire da presupposti di tipo kantiano che lo allontanano, inevitabilmente, da Hume21. 19

30.

Si veda John Rawls, A Theory of Justice, cit., cap. I, sez. 5 e cap. III, sez.

20 John Rawls, Social Unity and Primary Goods, in Utilitarianism and Beyond, cit., pp. 159-86, ristampato in Id., �ollected Papers, a cura di Samuel Freeman, Cambridge, Mass.-London, Harvard University Press, 1999, pp. 359-87; tr. it. di Antonella Besussi con il titolo Unità sociale e beni principali, in Utilitarismo e oltre, cit., pp. 201-32. La citazione è a pp. 227-28. 21 In Una teoria della giustizia, con «persone morali» Rawls intende «esseri razionali che hanno fini propri e sono dotati [...] di un senso di giustizia» (tr. it., p. 28). «Due caratteristiche distinguono le persone morali: in primo luogo sono in grado di avere (e si presume che abbiano) una concezione del loro bene (espressa da un piano razionale di vita); e, in secondo luogo, sono in grado di avere (e si presume che lo acquisiscano) un senso di giustizia, un desiderio normalmente efficace di applicare e di agire in base a principi di giustizia, almeno in una certa misura» (tr. it., p. 412). In quanto le persone morali sono caratterizzate in questo modo, secondo Rawls esse hanno l’obbligo di rispettarsi reciprocamente (tr. it., pp. 282-86). Sulla concezione rawlsiana di persona, si veda anche John Rawls, Kantian �onstructivism in Moral Theory,

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Individualità come valore: Hume e l’utilitarismo 15

Da una parte, è indicativo che anche Rawls legga Hume come un fautore della prospettiva dell’osservatore imparziale, la quale sarebbe il prodromo, a suo avviso, proprio dell’utilitarismo; infatti Rawls colloca Hume all’interno di questa tradizione22. Rawls ritiene, inoltre, che la sua critica valga per l’utilitarismo tout court, tanto per quello classico quanto per quello moderno; e si è rilevato come questa sia una tesi contestata. Dall’altra, in un senso più ampio, è vero che un’impostazione morale che si rifà a Kant sembrerebbe porsi dalla parte di Hume nel concepire l’individuo come il fulcro della riflessione etica. Ma, nonostante l’accento messo sull’importanza dell’individualità come valore morale, una prospettiva humeana è molto distante da una kantiana, sia per quanto riguarda le conclusioni a cui giunge, sia per quanto riguarda le intenzioni che la muovono: il paradigma humeano e quello kantiano si offrono come due modi esclusivi e inconciliabili di concepire l’io morale, e quindi l’etica nel suo complesso. Non si vuole qui operare un confronto tra Hume e Kant in generale. L’interrogativo è molto più circoscritto: ci si chiede in quali termini l’interpretazione che è stata presentata della filosofia humeana possa venire contrapposta a una prospettiva di ispirazione kantiana23 – tenendo presente una specifica rice“Journal of Philosophy”, 77 (1980), pp. 515-72; ristampato in Id., �ollected Papers, cit., pp. 303-58; tr. it. di Paola Palminiello con il titolo Il costruttivismo kantiano nella teoria morale, in Id., Saggi. Dalla giustizia come equità al liberalismo politico, a cura di Salvatore Veca, Torino, Edizioni di Comunità, 2001, pp. 64-135, e Id., Political Liberalism, New York, Columbia University Press, 1993; tr. it. di Gianni Rigamonti con il titolo Liberalismo politico, Milano, Edizioni di Comunità, 1994, lezione I. 22 Si veda John Rawls, A Theory of Justice, cit., cap. III, sez. 30. Per una discussione dell’interpretazione rawlsiana di Hume in termini utilitaristi, si veda Ronald J. Glossop, Is Hume a “�lassical Utilitarian?”, “Hume Studies”, 2 (1976), pp. 1-16. 23 Vale a dire – secondo un’interpretazione convenzionale, sebbene non indiscussa –, a una prospettiva contraddistinta dalle nozioni di rigorismo, di razionalismo, di purezza morale, di formalismo e universalità, di autonomia e dignità, di priorità della moralità. Si veda al riguardo la voce Kantian Ethics,

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

zione del pensiero di Kant che si è avuta nella filosofia morale anglosassone odierna –, nella misura in cui ambedue danno una spiegazione dell’io morale che ha la pretesa di esaltare l’importanza dell’individualità delle persone. L’insegnamento di Kant è stato sviluppato in diverse direzioni24. Per gli scopi che ci si è dati, ci si concentrerà soprattutto su quella versione del kantismo svolta da Korsgaard. Non tanto perché rappresenti meglio di altri la posizione kantiana, quanto perché è colei che ha sviluppato una concezione dell’io morale di tipo kantiano secondo una linea apparentemente molto simile a quella che è stata fin qui attribuita a Hume.

in Encyclopedia of Ethics, cit., scritta da John Marshall. Per un confronto tra le impostazioni morali di Hume e di Kant, che tiene presente il diverso modo in cui si rende conto della nozione di io morale, si veda James T. King, The Moral Theories of Kant and Hume: �omparisons and Polemics, “Hume Studies”, 18 (1992), pp. 441-66. Si veda quindi David Wiggins, Ethics. Twelve Lectures on the Philosophy of Morality, cit., cap. IV. 24 Per uno sguardo di insieme sulle caratteristiche che accomunano le prospettive morali che si rifanno oggi all’insegnamento di Kant si veda Marcia W. Baron, Kantian Ethics, in Marcia W. Baron, Philip Pettit, Michael Slote, Three Methods of Ethics, Oxford, Blackwell, 1997, pp. 3-91.

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XIV Accettazione riflessiva: Hume e il kantismo

1. Korsgaard critica la soluzione di Parfit1. Come per Hume, anche per Korsgaard lo statuto dell’io morale non avrebbe nulla a che vedere con un problema teoretico – in che cosa consiste l’identità personale –, ma riguarderebbe esclusivamente l’attività pratica – che cosa ci rende agenti morali –: se si pretendesse di rendere conto della nozione di io morale attraverso l’indagine sull’identità personale non soltanto non la si spiegherebbe, ma si finirebbe col negarle l’importanza che merita, col rischio di cadere in un’etica dove il singolo non ha più alcun valore. La strategia argomentativa di Korsgaard si articola secondo una scansione tipicamente kantiana. Ciò che, a suo avviso, caratterizzerebbe gli esseri umani, visti nella loro dimensione morale, sarebbe la capacità di pensarsi in maniera riflessiva. In quanto riflessivi, gli esseri umani sarebbero radicalmente autonomi. Questa autonomia sarebbe espressione diretta della loro razionalità pratica: la loro condizione di io morali non si risolverebbe mai in un dato di fatto, poiché si porrebbe sempre antecedentemente a ogni identità pratica particolare – dovuta all’appartenenza a una certa comunità, a una certa famiglia, a una certa professione, e così via –, che si troverebbero a ricoprire. In quanto riflessivi, 1 Si veda Christine M. Korsgaard, Personal Identity and the Unity of Agency: A Kantian Response to Parfit, in Ead., �reating the Kingdom of Ends, cit., pp. 363-97.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

essi sarebbero cioè liberi, in linea di principio, di mettere in discussione qualsiasi loro concreta realizzazione – di metterla, per così dire, tra parentesi –, e di concepirsi diversamente da quello che effettivamente sono. Per questo motivo, la libertà che li contraddistinguerebbe come io morali – e che contraddistinguerebbe allo stesso modo tutti gli esseri umani, in quanto razionali – si presenterebbe come trascendentale. Essi sarebbero così in grado di esercitare la loro volontà indipendentemente da qualsiasi influenza che non sia riconducibile alla volontà medesima. L’espressione autonoma della volontà fornirebbe l’accesso alla dimensione dell’etica: ciò avverrebbe grazie alla capacità di attribuirsi un obbligo che, essendo il prodotto della sola autonomia e di nient’altro, si manifesterebbe come un comando non mediato, vale a dire un imperativo categorico. Sicché, una volta che si voglia rendere conto della moralità, per Korsgaard non ci si può limitare semplicemente a una descrizione delle nostre pratiche morali, ma si deve fornire una giustificazione delle pretese che la moralità avanza nei nostri confronti. Perché dovremmo rispettare i precetti che la morale stabilisce? Perché dovremmo agire moralmente? Più in generale: che cos’è la dimensione valutativa dell’agire umano? Ciò è ricondotto da Korsgaard a quella che definisce come «la domanda normativa»2. Essa non troverebbe risposta in qualcosa che possa essere colto nel mondo, perché il suo stesso darsi sarebbe frutto della nostra consapevolezza riflessiva, e si porrebbe solo dalla prospettiva in prima persona di colui che agisce, come espressione diretta della sua volontà: «volere un fine non è altro che impegnare se stessi nella realizzazione del fine. Volere un fine, in altre parole, è essenzialmente un atto normativo in prima persona. Volere un fine consiste nel dare a se stessi una legge e, dunque, nel governare se stessi»3. E gli esseri umani, sostiene Korsgaard, «sono condannati Christine M. Korsgaard, The Sources of Normativity, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, p. 10. 3 Christine M. Korsgaard, The Normativity of Instrumental Reason, cit.; la citazione è a p. 245. 2

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Accettazione riflessiva: Hume e il kantismo 1

ad agire»4. Essendo autonomi e razionali, sarebbero in grado di dirigersi secondo una legge che non ha altro limite se non quello che loro stessi le hanno riconosciuto: razionalità pratica, libertà e moralità finiscono per essere tre termini che stanno tra loro in un rapporto analitico, e la massima espressione dell’autonomia degli individui verrebbe data dall’obbedienza che dimostrano per una legge morale che essi stessi si sarebbero imposti. Il neokantismo di Korsgaard si delinea, così, come una forma di «realismo procedurale»5, o di «costruttivismo»6, in cui la soluzione alla domanda normativa non consiste nella constatazione di un fatto morale, di qualche tipo, da conoscersi, ma nella risposta che agenti razionali, dotati di una volontà libera, danno a loro stessi quando vengono posti di fronte a problemi di ordine pratico; una risposta che viene da loro riconosciuta come assoluta e obbligante. In tal senso, questa versione dell’etica di Kant rende anch’essa conto, a suo modo, delle due caratteristiche fondamentali della moralità – la capacità di motivare ad agire e di garantire un criterio di giudizio oggettivo –, e lo fa attraverso una soluzione di tipo internalista7. La razionalità pratica, infatti, 4 Korsgaard si esprime così all’inizio di Self-�onstitution: Action, Identity and Integrity. Si tratta delle Locke Lectures tenute da Korsgaard a Oxford, nei mesi di maggio e giugno del 2002. Il testo non è ancora stato pubblicato; tuttavia, è possibile scaricarlo liberamente dal sito internet di Korsgaard, al seguente indirizzo: http://www.people.fas.harvard.edu/~korsgaar/. Self �onstitution approfondisce le tematiche trattate in The Sources of Normativity, e stabilisce un confronto tra la filosofia di Kant e quella di Aristotele. 5 Christine M. Korsgaard, The Sources of Normativity, cit., p. 36. 6 Christine M. Korsgaard, Realism and �onstructivism in Twentieth-�entury Moral Philosophy, “Journal of Philosophical Research” (2003), APA Centennial Supplement: Philosophy in America at the Turn of the �entury, pp. 99-122. Per una descrizione del costruttivismo kantiano, si veda John Rawls, sia Kantian �onstructivism in Moral Theory, cit., sia Lectures on the History of Moral Philosophy, cit., Kant VI. Si consideri anche Carla Bagnoli, Il costruttivismo kantiano, in Le ragioni dell’etica, cit., pp. 63-84. Bagnoli presenta una teoria etica costruttivista di stampo kantiano, che si ispira a quelle proposte da Korsgaard e da Darwall, in L’autonomia della morale, Milano, Feltrinelli, 2007. 7 Il primo a parlare di Kant come di un internalista è stato W.D. Falk, ‘Ought’ and Motivation, cit. In tempi recenti, a elaborare una teoria di stampo kantiano

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

viene presentata come il tratto comune che rende tutti gli esseri umani, in eguale maniera, «membri del regno dei fini»8. Poiché questa razionalità sarebbe una caratteristica intrinseca della loro natura di io morali, essi avrebbero in loro stessi una facoltà in grado di assicurare sia la convergenza verso le ragioni morali, sia la presa motivante di queste ragioni. 2. Anche in Hume il legame tra una nozione intrinsecamente pratica di io, la salvaguardia dell’individualità come valore morale, e il tentativo di rendere conto della forza normativa dell’etica, può essere definito come una forma di «accettazione riflessiva»9. Hume la precisa nella conclusione del terzo libro del Trattato, dove scrive: [b]asta davvero un minimo di conoscenza delle cose umane, per accorgersi che il senso morale è un principio intrinseco all’anima umana, e uno dei principi più potenti della sua composizione. Ma questo senso deve certamente acquistare nuova forza quando, riflettendo su se stesso, approva quei principi da cui deriva, e trova solo qualcosa di grande e di buono alla sua nascita e alla sua origine. Coloro che risolvono il senso morale in certi istinti originari della natura umana, possono difendere la causa della virtù con sufficiente autorità; ma a loro manca il vantaggio che invece hanno coloro che spiegano il senso morale mediante una generale simpatia con l’umanità: secondo il sistema di questi a partire dall’assunto che Kant vada letto come un internalista è stato Thomas Nagel, The Possibility of Altruism, cit. Korsgaard discute dell’internalismo di Kant anche in Skepticism about Practical Reason, cit. 8 Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. di Anna Maria Marietti, Milano, BUR, 1995, sez. II, p. 181. 9 È la traduzione dell’espressione reflective endorsement, coniata da Christine M. Korsgaard in The Sources of Normativity, cit., cap. II. Il meccanismo dell’accettazione riflessiva in Hume è stato esaminato soprattutto da Annette C. Baier. Si veda A Progress of Sentiments, cit., in particolare pp. 97-100, 195-97, e il cap. XII. Si veda anche Nicholas Capaldi, Hume’s Place in Moral Philosophy, cit., pp. 280-86. Per una discussione sui modelli di riflessività presentati da Baier e da Korsgaard, in riferimento a Hume, si veda Michael B. Gill, A Philosopher in His �loset: Reflexivity and Justification in Hume’s Moral Theory, “Canadian Journal of Philosophy”, 26 (1996), pp. 231-56.

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Accettazione riflessiva: Hume e il kantismo 11

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ultimi, infatti, non solo si deve approvare la virtù: ma anche il senso della virtù: e non solo questo senso, ma anche i principi da cui esso deriva. Quindi, da ogni lato non si presenta altro che qualcosa di lodevole e buono10.

L’accettazione riflessiva, nella versione humeana, consiste pertanto nell’assenso che, dall’interno della pratica dell’etica, viene dato ai precetti di cui quest’ultima si compone. Stante l’impianto passionale della natura umana e il meccanismo simpatetico che la contraddistingue, e tenuto conto delle circostanze storiche e sociali in cui la natura umana si esprime, è possibile offrire una descrizione della moralità che è accettabile da coloro che la abbracciano, e che risponde ai quattro criteri – utile a se stessi o agli altri, piacevole a se stessi o agli altri – a partire dai quali si stabilisce il punto di vista fermo e generale che permette di distinguere vizio e virtù. Attraverso i tentativi che mettiamo in atto per chiarire a noi stessi le nostre pratiche, giungiamo a una loro comprensione, grazie alla quale ci appaiono come ciò che meglio promuove la nostra natura. Questo processo è riflessivo perché è lo stesso sentimento morale che, riflettendo su se stesso, conferma sé medesimo, offrendosi, perciò, come la fonte tanto della nostra percezione del giusto o dello sbagliato, del buono o del cattivo, quanto del nostro essere motivati a comportarci eticamente. L’etica viene così riconosciuta come valida a partire dagli stessi dettami che la costituiscono, e, quindi, viene sentita come obbligante da coloro che li fanno propri. 3. Non sorprende che un’accettazione riflessiva come quella di Hume venga rifiutata da Korsgaard, e dai kantiani in generale. Dato il ruolo che riconoscono alla riflessività nella giustificazione della moralità, l’accettazione riflessiva humeana viene vista come un mero esercizio filosofico, grazie al quale concludiamo che, in effetti, le nostre disposizioni morali hanno per noi una valenza prescrittiva. Per i kantiani, invece, il test della riflessività non 10

Treatise, libro III, parte III, sez. 6, p. 619, cpv. 3; tr. it. cit., pp. 653-54.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

può risolversi nel prendere atto che certe qualità, presenti in un carattere, vengono ammirate: bisogna dare ragione del perché quel carattere è degno di ammirazione; dove lo statuto di questa dignità non può essere il risultato fortuito della constatazione che il senso morale giunge ad approvare se stesso, ma deve essere la precondizione perché ciò che viene approvato riflessivamente possa fregiarsi del titolo di “morale”11. In Hume, l’accettazione riflessiva permette una giustificazione della normatività a posteriori e contingente; al contrario, per i kantiani deve essere a priori e necessitante. A loro avviso, la moralità consiste nella riflessività: è l’effetto della possibilità di riflettere che ci contraddistingue, vale a dire della nostra autonomia e, quindi, della nostra capacità di obbedire a una legge autoimposta12. Una capacità di riflettere che rappresenta il contrassegno distintivo del modo in cui i kantiani concepiscono la nostra identità pratica, la quale – come dichiara Korsgaard, rivolgendosi al lettore – «sorge dalla tua stessa umanità, semplicemente dalla tua identità di essere umano, un animale riflessivo che ha bisogno di ragioni per agire e per vivere»13. Cfr. ad esempio Charlotte Brown, Is Hume an Internalist?, cit.; Christine M. Korsgaard, The Sources of Normativity, cit., Lecture 3; Marcia W. Baron, Morality as a Back-Up System: Hume’s View?, cit. 12 Si veda Christine M. Korsgaard, The Sources of Normativity, cit., p. 89; ma si tenga presente al riguardo tutta la Lecture III. 13 Christine M. Korsgaard, The Sources of Normativity, cit., pp. 121. Se si prendono in considerazione altri filosofi kantiani, è possibile trovare affermazioni simili. Si è già accennato alla definizione di persona morale di Rawls come un agente razionale capace di avere una concezione del bene e di sviluppare un senso di giustizia. Per fare un altro esempio, si consideri T.M. Scanlon, What We Owe to Each Other, Cambridge, Mass.-London, The Belknap Press of Harvard University Press, 1998, pp. 103-107. Anche Scanlon parla del valore della vita umana in quanto vita razionale, cioè in quanto vita di creature capaci di reciprocità e di presentare ragioni e giustificazioni. Scanlon dice: «rispettare il valore della vita umana (razionale) richiede che noi trattiamo le creature razionali solo in modi che sarebbero ammessi da principi che esse non potrebbero ragionevolmente rifiutare, nella misura in cui anche loro cercano principi di governo reciproco che altre creature razionali non potrebbero ragionevolmente rifiutare. Ciò risponde al problema di scegliere tra ragioni in una maniera che riconosca le nostre capacità distintive di creature che presentano ragioni e che 11

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Accettazione riflessiva: Hume e il kantismo 1

Secondo i kantiani, se è ammissibile chiamare in causa la nozione di natura umana in etica, essa va chiaramente circoscritta in termini morali e razionali fin dall’inizio. L’etica humeana, in un’ottica kantiana, appare scandalosamente capricciosa, troppo leggera nella sua consapevole mancanza di distinzione tra la vera virtù e il semplice pregio di un carattere magari gradevole, ma privo di quella gravità e di quel rigore che rappresentano, per il kantiano, le sole indicazioni possibili – non certe, poiché non si può mai essere pienamente sicuri di stare agendo secondo la legge universale – della presenza di un motivo realmente mosono in grado di governarsi da sé» (p. 106). J. David Velleman, Love as a Moral Essays, Cambridge, Cambridge University Emotion, in Id., Self to Self. Selected Essays Press, 2006, pp. 70-109, invece, vede nella natura razionale degli esseri umani la fonte non solo della riverenza che tributiamo alla legge morale, ma anche del sentimento di amore che proviamo per gli altri: «[t]utto ciò che è essenziale all’amore, nella mia concezione, è che disarma le nostre difese emotive nei confronti di un oggetto, come reazione al suo incomparabile valore di fine che esiste per se stesso. Ma quando l’oggetto del nostro amore è una persona, e quando l’amiamo in quanto è una persona – piuttosto che come un’opera della natura, per esempio, o come un oggetto estetico – allora davvero, voglio sostenere, stiamo rispondendo al valore che essa possiede in virtù del fatto che è una persona o, come direbbe Kant, in virtù del fatto che è un esempio di natura razionale» (pp. 99-100). Stephen Darwall, infine, in The Second-Person Standpoint. Morality, Respect, and Accountability, Cambridge, Mass.-London, Harvard University Press, 2006, presenta una teoria costruttivista di stampo kantiano che poggia sull’autorità riconosciuta al punto di vista in seconda persona. Secondo Darwall, «qualsiasi appello o riconoscimento in seconda persona ci impegna nei confronti dell’eguale dignità delle persone, concepite come eguali fonti di autorità in seconda persona, e nei confronti dell’idea che tanto colui che si rivolge a qualcuno quanto il destinatario sono capaci allo stesso modo di agire secondo ragioni che trovano fondamento in questa autorità, ragioni che dunque non possono essere ridotte al valore di un qualsiasi risultato o stato di cose (pertanto neanche a una qualsiasi proprietà di un qualsiasi oggetto di desiderio) [...] Quando riconosciamo l’invocazione di un altro agente libero e razionale, ci confrontiamo, in effetti, con il “fatto della ragione”. Presupponiamo l’eguale dignità degli esseri razionali e la nostra abilità di agire secondo una “legge” o ragione – una ragione in seconda persona fondata in questa dignità – che non deriva dal valore di qualsiasi stato di cose o risultato che potrebbe essere oggetto di desiderio, ma, in maniera ultima, da quello che significa essere una persona libera e razionale che interagisce con altri» (pp. 32-33).

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

rale. È per questo che Korsgaard, sebbene offra una disamina accurata di ciò in cui consiste l’accettazione riflessiva humeana, e colga quali siano le intenzioni che la sottendono14, non può approvarle: ai suoi occhi, Hume renderebbe l’etica un ambito pericolosamente passivo e in balia della sorte, e, in questo modo, la priverebbe della sua valenza normativa15. 4. Per contro, attraverso una lente humeana, la proposta kantiana appare enfatica ed eccessivamente rigida. I toni drammatici e definitivi dell’etica kantiana, la sua intransigenza, la sua ansia di tenere a freno una natura umana che, se non controllata dalla ragione, cederebbe inevitabilmente al diletto e al godimento, la rendono sospetta agli occhi degli humeani. Lungi dal venire considerata un vuoto formalismo16, essa finisce per essere vista come qualcosa di cupo e di fondamentalmente imposto; vale a dire come una forma di moralismo che, in quanto tale, non può che venire, a sua volta, moralmente condannata. L’idea che l’etica kantiana sia moralistica è stata approfondita in tempi recenti, seguendo l’insegnamento di Hume, da vari autori. Bernard Williams, ad esempio, muovendo da posizioni dichiaratamente humeane, ha fatto dell’accusa di moralismo rivolta contro il kantismo uno dei temi più ricorrenti nella sua opera17. Un altro caso è quello della filosofa wittgensteiniana Cora 14 Si veda Christine M. Korsgaard, The Sources of Normativity, cit., pp. 51-66. Non è un caso che in The Sources of Normativity Christine Korsgaard accomuni Hume a Williams – e a John Stuart Mill – in quanto sostenitori di una soluzione – secondo Korsgaard, fallimentare – del problema della normatività in termini di accettazione riflessiva. A interpretare Hume in questo modo è anche John Rawls, Lectures on the History of Moral Philosophy, cit., pp. 99-100; tr. it. cit., pp. 109-110. 15 Per un confronto estremamente efficace tra il razionalismo kantiano e il sentimentalismo humeano, alla luce del problema della normatività, si veda Piergiorgio Donatelli, La filosofia morale, cit., cap. VI.1-2. 16 Si vedano al riguardo le considerazioni di David Wiggins, Ethics. Twelve Lectures on the Philosophy of Morality, cit., p. 120. 17 I riferimenti che si potrebbero dare sono innumerevoli. Per citarne alcuni tra i più indicativi, si considerino ad esempio Morality and the Emotions e The

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Accettazione riflessiva: Hume e il kantismo 15

Diamond, che mette a confronto le morali kantiana e humeana come due tipi di morali riflessive, dove però la prima cade nel moralismo mentre la seconda no18. Per farlo, Diamond riprende la critica di Dorothea Krook, e la usa per mostrare cosa c’è che non va nell’etica humeana secondo un’impostazione kantiana. Ora, il riferimento a Krook si rivela estremamente interessante. Per lei, leggendo Hume «si ha il senso di venire asfissiati in un oceano di ovatta. Non c’è niente di solido contro cui resistere, niente di reale contro cui protestare; in verità, è proprio questa assoluta mancanza di realtà propria della felicità e della gaiezza humeane che le rendono così letali»19. Quanto sostiene Krook viene attribuito da Diamond ai kantiani, nonostante Krook non sia a sua volta una filosofa kantiana, bensì cattolica. Un’attribuzione che non è fuori luogo. L’etica kantiana, infatti, da una prospettiva humeana corrisponde a qualcosa di molto specifico: si tratta della versione secolarizzata di una morale riconducibile alla tradizione giudaico-cristiana20. Una derivazione che, peraltro, Idea of Equality, ambedue in Bernard Williams, Problems of the Self. Philosophical Papers 1956-1972, Cambridge, Cambridge University Press, 1973, pp. 207-29 e 230-49; tr. it. di Rodolfo Rini con i titoli Moralità ed emozioni e L’idea di uguaglianza, in Problemi dell’io, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 251-77 e 278-301. Si vedano anche Persons, �haracter and Morality, cit. e Ethics and the Limits of Philosophy, cit., cap. X. 18 Cora Diamond, Moral Differences and Distances: Some Questions, in �ommonality and Particularity in Ethics, a cura di Lilli Alanen, Sara Heinämaa, Thomas Wallgren, Basingstoke-New York, Macmillan-St Martin’s Press, 1997, pp. 197234; tr. it. di Lorenzo Greco con il titolo Differenze e distanze morali, in Cora Diamond, L’immaginazione e la vita morale, cit., pp. 197-226. 19 Dorothea Krook, Three Traditions of Moral Thought, Cambridge, Cambridge University Press, 1959, pp. 174-75. 20 Una tesi sostenuta anche da Bernard Williams, The Idea of Equality, cit. Anche Alasdair C. MacIntyre – per l’occasione, da posizioni humeane – offre una ricostruzione di questo tipo in Hume on “Is” and “Ought”, cit. Di MacIntyre, si veda inoltre How Moral Agents Became Ghosts or Why the History of Ethics Diverged from that of the Philosophy of Mind, “Synthese”, 53 (1982), pp. 295-312. Si veda quindi Sergio Landucci, Sull’etica di Kant, Milano, Guerini e Associati, 1994, pp. 167-72. Il libro di Landucci risulta essere di particolare interesse, anche perché presenta un’interpretazione di Kant molto diversa da quella degli autori kantiani che stiamo prendendo in considerazione: l’etica di

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

viene apertamente riconosciuta da alcuni kantiani – come nel caso di Alan Donagan, secondo cui «Giudaismo e Cristianesimo ci hanno tramandato una concezione generale definita di che cosa sia una teoria della moralità: si tratta di una teoria circa un sistema di leggi o precetti, che ci vincolano per il fatto stesso che siamo creature razionali, e il cui contenuto è accertabile dalla ragione umana»21. Non ci si trova affatto di fronte a una riflessione sui presupposti della morale, bensì al risultato, storicamente determinato e nient’affatto inevitabile, di una precisa linea di pensiero. In questo modo la versione kantiana, nel suo essere un credo religioso sotto mentite spoglie, con l’etica, per gli humeani, ha ben poco a che vedere: l’aspirazione di fare di ciascuno di noi, per il fatto stesso che siamo creature razionali, il supremo legislatore è, nelle parole di Williams, «una fantasia che rappresenta non già l’ideale morale, ma la deificazione dell’uomo»22. L’esito è una commistione tra una dimensione religiosa, una civile e una più squisitamente filosofica: la legge morale interiorizzata viene tracciata sulla falsariga di una legge divina, la quale, a sua volta, risponde alla logica delle leggi civili. «I filosofi o piuttosto i teologi sotto la maschera di filosofi»23 possono così fare della moralità un’area governata principalmente da sanzioni, che la Kant, secondo Landucci, ben lungi dall’essere costruttivista – in particolare, il bersaglio polemico di Landucci è la lettura che di Kant dà Rawls (cfr. pp. 63-67) – sarebbe a tutti gli effetti una forma di cognitivismo intuizionista (cfr. soprattutto cap. I). 21 Alan Donagan, The Theory of Morality, Chicago, The University of Chicago Press, 1977, p. 7. Per una ricostruzione della nozione di autonomia, da un contesto di tipo esplicitamente religioso fino alla sua riformulazione all’interno dell’etica kantiana, si veda J.B. Schneewind, The Invention of Autonomy. A History of Modern Moral Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 1998. 22 Bernard Williams, Morality and the Emotions, cit. Sul rifiuto da parte di Hume di confondere morale e religione, in quanto due sfere di riflessione distinte e non comunicanti, argomenta diffusamente Jennifer A. Herdt, Religion and Faction in Hume’s Moral Philosophy, cit. A interpretare tutto il progetto humeano in chiave anticristiana è anche Nicholas Phillipson, Hume, London, Weidenfeld & Nicolson, 1989. 23 An Enquiry concerning the Principles of Morals, appendice IV, cpv. 21; tr. it. cit., p. 340.

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Accettazione riflessiva: Hume e il kantismo 17

rappresentano nella sua totalità e che, attraverso il presupposto per cui “morale” corrisponde a “volontario”, hanno lo scopo di regolare tanto la condotta esterna quanto gli animi stessi degli esseri umani24. È in questo modo che la «religione moderna» controlla tutta la nostra condotta e prescrive una regola universale alle nostre azioni, alle nostre parole, e perfino ai nostri stessi pensieri e alle nostre inclinazioni; una regola tanto più austera in quanto è sanzionata da ricompense e punizioni infinite, sebbene lontane, e in quanto non si può mai nascondere o dissimulare nessuna infrazione25.

La critica di Hume è rivolta, di nuovo, ai razionalisti morali suoi contemporanei; tuttavia, la sua valenza teorica resta senz’altro intatta, e non è difficile applicarla anche ai razionalisti a venire, come Kant, e a coloro che oggi fanno appello a una struttura argomentativa di questo genere26. 5. Dalla prospettiva di Hume, un’accettazione riflessiva che faccia perno su un io concepito non come razionalmente autonomo, ma come passionalmente determinato, è più che sufficiente. Manca, infatti, la pretesa, propria dell’impostazione kantiana, di trovare per l’etica uno statuto indipendente che permetta, in linea di principio, di circoscriverla, così da tracciare dei confini netti tra ciò che rientra nel suo dominio e ciò che ne resta fuori. Per Hume non è possibile avere «l’ultima parola»27, così da formu24 Si veda al proposito l’analisi di Marie A. Martin, Hume on Human Excellence, “Hume Studies”, 18 (1992), pp. 383-400. 25 An Enquiry concerning the Principles of Morals, A Dialogue, cpv. 53; tr. it. cit., p. 361. 26 Una delle più convincenti rielaborazioni contemporanee del sentimentalismo humeano, in chiave esplicitamente antirazionalista, è offerta da Shaun Nichols, Sentimental Rules. On the Natural Foundations of Moral Judgement, Oxford-New York, Oxford University Press, 2004. 27 Si tratta del titolo di un’opera del kantiano Thomas Nagel. Si veda The Last Word, Oxford-New York, Oxford University Press, 1997; tr. it. di Giovanna Bettini con il titolo L’ultima parola. �ontro il relativismo, Milano, Feltrinelli, 1999.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

lare un verdetto che sia definitivamente, e consolatoriamente, normativo. Al contrario, «dobbiamo [...] ammettere che il caso ha una grande influenza sul comportamento dei popoli, e che nelle società umane si verificano molti eventi non spiegabili con regole generali»28. L’etica è un aspetto dello svolgersi di una natura umana la cui estensione va ben al di là di ciò che generalmente si ritiene sia sotto il nostro controllo: è più qualcosa che subiamo, e che ci determina nostro malgrado, piuttosto che il prodotto di un progetto consapevole. Il ruolo della cosiddetta «sorte morale» – nell’espressione di Williams, che ha ampiamente sviluppato questa tematica humeana29 – è un elemento costitutivo dell’esistenza umana, che è un’illusione sperare di aggirare. Esso si rivela già nella poca precisione dei linguaggi nel tracciare i confini tra virtù e doti, tra vizi e difetti30. Sebbene, infatti, sia possibile distinguere tra un certo tratto del carattere apprezzabile senza, per questo, reputarlo moralmente significativo, considerandolo solo una dote o un talento, e un altro tratto altrettanto apprezzabile, ma significativo anche moralmente e, dunque, identificabile come una virtù, ciò non è il risultato dell’appellarsi a principi morali universali determinabili precedentemente all’effettiva realizzazione delle vite particolari di individui concreti. La differenza che è possibile riscontrare tra virtù e talenti non ha niente a che vedere con quella tra il volontario e l’involontario: essa dipende dal fatto che le prime sono quelle qualità che vengono valutate meglio da un punto di vista generale, a partire dai quattro principi dell’utile e del piacevole a sé o agli altri31. Un An Enquiry concerning the Principles of Morals, A Dialogue, cpv. 50; tr. it. cit., p. 359. Si veda anche quanto Hume sostiene ne Lo scettico, cit. 29 Si veda ad esempio il saggio Moral Luck, in Bernard Williams, Moral Luck, cit., pp. 20-39; tr. it. di Rodolfo Rini con il titolo Sorte morale, in Sorte morale, cit., pp. 33-57 30 An Enquiry concerning the Principles of Morals, appendice IV, cpv. 3; tr. it. cit., pp. 332. 31 Si veda al riguardo Treatise, libro III, parte III, sez. 4 e l’appendice IV di An Enquiry concerning the Principles of Morals. 28

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Accettazione riflessiva: Hume e il kantismo 1

punto di vista che è sempre situato, e che può prodursi solo dall’incontro della natura umana con le circostanze. 6. L’idea di un agente autonomo che assicuri riflessivamente la normatività dell’etica è per Hume una chimera: l’io morale non può essere né autonomo né razionale nella maniera in cui lo vorrebbero i kantiani. L’unico tipo di libertà che ci è dato osservare, infatti, non è una libertà che precede la catena di cause ed effetti che regola il mondo sensibile, bensì ne dipende. Hume rifiuta una «libertà come indifferenza» – ossia una libertà che comporti la negazione della necessità e della causalità –, e accetta, invece, una «libertà come spontaneità» – ossia una libertà che si presenta in contrapposizione alla coercizione esterna32. La prima è qualcosa la cui esistenza non siamo in grado di verificare, mentre la seconda si concilia con la tesi che le nostre azioni sono il frutto del nostro carattere, cioè di qualcosa che si è realizzato a partire da cause empiricamente verificabili. In questo senso, la posizione di Hume è di tipo compatibilista, poiché la libertà degli esseri umani può aversi stante la verità del determinismo33. Peraltro, come Korsgaard argomenta efficacemente34, l’ipotesi che l’agire degli esseri umani sia completamente definito non crea problemi al kantiano, poiché il tipo di libertà di cui parla non sarebbe attestata da un punto di vista speculativo, ma sarebbe il risultato dell’attività pratica. Se questo è vero, la 32 Sulla differenza tra libertà come indifferenza e libertà come spontaneità si veda Treatise, libro II, parte III, sez. 2. 33 Per una ricostruzione del progetto humeano di riconciliare libertà e necessità, cfr. James A. Harris, Of Liberty and Necessity. The Free Will Debate in Eighteenth-�entury British Philosophy, Oxford, Clarendon Press, 2005, cap. III; A.E. Pitson, Liberty, Necessity, and the Will, in The Blackwell Guide to Hume’s Treatise, cit., pp. 216-31. Sulla nozione di compatibilismo, cfr. Mario De Caro, Il libero arbitrio. Un’introduzione, Roma-Bari, Laterza, 2004, cap. II; Sergio Filippo Magni, Teorie della libertà. La discussione contemporanea, Roma, Carocci, 2005, cap. IV. Per un esame storico della nozione di libero arbitrio, si veda Massimo Mori, Libertà, necessità, determinismo, Bologna, Il Mulino, 2001. 34 Christine M. Korsgaard, Morality as Freedom, in Ead., �reating the Kingdom of Ends, cit., pp. 159-87.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

constatazione che le nostre azioni sono precedute da cause spiegabili empiricamente non eliminerebbe il fatto che, dal punto di vista di colui che sceglie, le sue azioni sono compiute come se fosse libero: ciò che conta è che siamo in grado di considerare le nostre decisioni come dipendenti da principi che abbiamo scelto e che ci permettono di giustificarle. Perciò possiamo dire di avere una volontà libera35. Anche Hume sostiene che ognuno di noi si riconosce come il possessore di una volontà: essa consiste in quella impressione interna che avvertiamo e di cui diveniamo consapevoli, quando coscientemente diamo origine a qualche nuovo movimento del nostro corpo o a qualche percezione della nostra mente36. Un’impressione che è inutile descrivere ulteriormente, ma della cui presenza bisogna limitarsi a prendere atto37. Nondimeno, da qui a sostenere che essa sia il segno che gli esseri umani sono creature intrinsecamente libere, e per questo morali, c’è differenza. Che noi ci si senta liberi, è indubbio. Tuttavia, ciò 35 È sulla base di una riflessione di questo genere, ad esempio, che un filosofo fortemente influenzato da Kant come Richard Mervyn Hare – sebbene Lecaldano ritenga che il suo «prescrittivismo universale» presenti punti di contatto anche con Hume (Eugenio Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., cap. III, sez. 6) – spiega in che modo sia possibile conciliare il determinismo causale e la responsabilità individuale. A suo avviso, anche se il comportamento degli esseri umani potesse venire completamente previsto, essi resterebbero pur tuttavia individui responsabili nella misura in cui, quando devono scegliere come agire, possono porsi la domanda in prima persona se dare corso o meno a quella data scelta. Si veda Richard Mervyn Hare, Freedom and Reason, OxfordNew York, Oxford University Press, 1963; tr. it. di Marco Borioni con il titolo Libertà e ragione, Milano, Il Saggiatore, 1971, cap. IV, sez. 6. 36 Si veda Treatise, libro II, parte III, sez. 1, p. 399, cpv. 2; tr. it. cit., p. 419. 37 Come argomenta R.F. Stalley, The Will in Hume’s Treatise, “Journal of the History of Philosophy”, 24 (1986), pp. 41-53, si tratterebbe della consapevolezza di una impressione simile alla «conoscenza senza osservazione» descritta da G.E.M. Anscombe in Intention, Ithaca, New York, Cornell University Press, 1957, pp. 49-51; tr. it. di Cristina Sagliani con il titolo Intenzione, Roma, Edizioni Università della Santa Croce, 2004, pp. 99-102. Si tratterebbe, cioè, di quell’impressione di cui abbiamo una conoscenza esclusiva, non disponibile a osservatori esterni, ogni volta che ha luogo un nostro nuovo movimento corporeo o una nostra nuova percezione della mente.

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Accettazione riflessiva: Hume e il kantismo 01

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che possiamo ricavare dalla nostra sensazione di libertà è che abbiamo effettivamente bisogno di sentirci tali, e che l’agire libero è qualcosa che va riconosciuto come moralmente importante e, quindi, da salvaguardare; ma non che godiamo di una capacità di trascendere le circostanze, e di determinarci come soggetti morali a priori, a prescindere da esse38. Né si comprende cosa significhi dire che dobbiamo essere autonomi, vale a dire che dobbiamo essere proprio noi gli autori della nostra volontà, pena l’impossibilità di dare fondamento alla sfera della moralità, dal momento che non sembra possibile distinguere tra il prodotto della volontà – l’azione –, la volontà stessa, e quel presunto vero io che dovrebbe dirigerla. Per citare Williams, finiamo, in questo caso, per «contarci due volte»39: crediamo di essere sia colui che esprime una volizione libera nella forma di un comando, sia colui che obbedisce a essa, e agisce. Ma, tanto per Hume quanto per Williams, che noi si sia qualcosa di ulteriore rispetto all’espressione della nostra volontà, qualcosa che si somma a essa, una specie di valore aggiunto, va dimostrato. Il passaggio dalla volontà all’autonomia degli individui non è affatto un’esplicitazione di ciò in cui consiste la nostra volontà, ma corrisponde a un bisogno morale: quello di pensarci come dei «self-made men»40 – vale a dire, degli individui che “si sono fatti da soli”, la cui identità pratica è l’espressione esclusiva della loro volontà libera –; una necessità tanto intensa proprio in quanto non presenta alcuna ragione empiricamente sostenuta che la giustifichi. Si tratta di un bisogno morale chiaramente espresso nel senso comune, e non della dimostrazione che l’etica trova la sua fondazione in una libertà che si offre come la sua premessa. In un’ottica humeana, se è lecito sostenere che la libertà degli individui è eticamente fondamentale, ciò è il risultato di una 38

429.

Si veda Treatise, libro II, parte III, sez. 2, pp. 408-9, cpv. 2; tr. it. cit., p.

39 Bernard Williams, Nietzsche’s Minimalist Moral Psychology, in Id., Making Sense of Humanity, cit., pp. 65-76. 40 L’espressione è in Paul Russell, Freedom and Moral Sentiment, cit., p. 130.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

constatazione sempre a posteriori, mai a priori. Se ci si sente così disarmati di fronte all’eventualità di vedere la nostra esistenza equiparata alla «libertà di un girarrosto»41, questo è dovuto al fatto che nozioni come autonomia o autodeterminazione non sono degli a priori, bensì dei valori, e come tali sono condizionati da una certa idea di ciò che per noi conta. Autonomia e autodeterminazione, e con esse l’immagine di ciò in cui consiste il libero arbitrio, dipendono dalla nozione di dignità umana che adottiamo42: dichiarando che devono presupporre una libertà trascendentale si è già fatta propria la convinzione che gli individui, perché possano essere riconosciuti come agenti, debbano godere di una speciale autorità che li innalza a quel ruolo. Ossia, bisogna già condividere una rappresentazione di ciò in cui consiste una persona in cui l’essere liberi è la proprietà dirimente attraverso la quale si può distinguere cosa è moralmente rilevante e cosa non lo è. 7. Hume non tenta la manovra filosofica di fare leva su qualcosa che va presupposto, pena il pericolo di non riuscire a comprendere il fatto della moralità. Al contrario, «[q]uando un’opinione ci porta a delle assurdità è certamente falsa; ma non è certo che sia falsa solo perché ha delle conseguenze pericolose»43. E che le conseguenze a cui giunge circa lo statuto dell’io morale siano in effetti pericolose, è qualcosa che risulta tale solo se si fanno proprie le premesse kantiane. La spiegazione dell’io morale, e della moralità tutta, possono essere stabilite e giustificate solo ex post, mai ex ante. Ciò che emerge dall’analisi humeana è che gli individui non sono affatto riconoscibili attraverso un processo di 41 Immanuel Kant, �ritica della ragion pratica, tr. it. di Francesco Capra e Eugenio Garin, Roma-Bari, Laterza, 1993, parte I, libro, I, cap. III, p. 96. 42 Riguardo all’invito di Hume a usare la nozione di dignità umana in senso non assolutistico e intrinseco, si veda Dignità o viltà della natura umana, cit. Riguardo al legame sottinteso che intercorre tra autonomia, autodeterminazione e dignità umana si veda G. Watson, Free Action and Free Will, “Mind”, 96 (1987), pp. 145-72. 43 Treatise, libro II, parte III, sez. 2, p. 409, cpv. 3; tr. it. cit., pp. 429-30.

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Accettazione riflessiva: Hume e il kantismo 0

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raffinazione, mettendo in evidenza una razionalità che li accomunerebbe tutti in quanto soggetti morali. All’opposto, perché si abbia una descrizione dell’io che tenga nella giusta considerazione il suo statuto morale, è necessario lavorare ad aggiungere e non a togliere, osservandolo come una creatura in carne e ossa e non come un essere puramente razionale. Soltanto nel primo caso siamo in grado di attribuirgli quelle virtù e quei vizi che gli danno corpo, presentandocelo in una dimensione etica. È possibile ritenere gli individui responsabili moralmente solo se le loro azioni sono riconducibili a una fonte – il loro carattere – che ci permette di approvarli o disapprovarli, poiché li contrassegna in maniera esclusiva come quelle particolari persone e non altre44. Siamo in grado di localizzare il singolo individuo responsabile grazie a quella «evidenza morale» che corrisponde a «una conclusione relativa alle azioni degli uomini derivata dall’esame dei loro motivi, caratteri e situazioni»45, a partire dai quali soltanto egli può esercitare la propria libertà. L’individualità della persona, il suo essere passibile di lode o di biasimo, in quanto autrice riconoscibile di ciò che compie, si stabilisce osservando quell’identità narrativa o del carattere che è attribuibile solo a lei, che le dà spessore e la fissa in una figura originale. È per questa ragione che un’accettazione riflessiva che faccia perno su una nozione di io passionale si presenta come una spiegazione del fenomeno dell’etica che contemporaneamente ne è anche la giustificazione: al di là di quelle prospettive a partire dalle quali giudichiamo le cose come buone o cattive – prospettive che riflettono i modi in cui la natura umana di volta in volta si realizza, e che sono state sottoposte a scrutinio riflessivo – non c’è alcun punto di vista da cui l’etica possa essere messa in discussione46. In nome dell’importanza dell’individualità in etica, da preSi veda Treatise, libro II, parte III, sez. 2, p. 411, cpv. 6; tr. it. cit., p. 432. Treatise, libro II, parte III, sez. 1, p. 404, cpv. 15; tr. it. cit., p. 425. 46 Cfr. Richard H. Dees, Hume and the �ontexts of Politics, “Journal of the History of Philosophy”, 30 (1992), pp. 219-42; Christine M. Korsgaard, The Sources of Normativity, cit., pp. 64-66; David Wiggins, Ethics. Twelve Lectures on the Philosophy of Morality, cit., pp. 78-79. 44

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

supposti kantiani Rawls taccia l’utilitarismo di concepire gli esseri umani come «persone vuote»; da un’ottica humeana questa accusa può essere rivolta contro una morale di stampo kantiano: è soprattutto quest’ultima a privare gli individui di qualsiasi spessore. Presentandoli come tutti uguali nel loro essere razionali, essi non si distinguono più, e, quindi, vengono meno in quanto singoli individui specifici. Come sostiene, ancora una volta, Williams, se gli utilitaristi negano la separatezza tra gli individui, i kantiani negano la loro identità pratica47. In questo modo, finiscono con il negare proprio quel valore – l’individualità – che era stato posto al centro della loro sollecitudine morale.

47

Bernard Williams, Persons, �haracter and Morality, cit.

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XV Tra liberalismo e conservatorismo: dall’io morale all’io politico

1. In verità, l’accettazione riflessiva che Hume propugna risulta ben più sobria di come appaia nelle critiche che le muovono i kantiani. Il sentimentalismo humeano può ammettere anch’esso i suoi “imperativi categorici”, e mostrarsi esigente quanto il razionalismo kantiano, se non di più1: in una prospettiva humeana, valori quali la libertà o l’autonomia emergono come tanto più importanti quanto più essi si rivelano nient’affatto necessari, ma esposti al caso e contingenti. Che la loro realizzazione – e il loro venire riconosciuti e, quindi, tutelati – sia legata alle circostanze li rende fragili, poiché possono presentarsi condizioni in cui, al contrario, vengono vilipesi. Libertà e autonomia sono l’effetto di pratiche che si evolvono storicamente, e riflettere su di esse significa osservare le condizioni che le sostengono, gli ideali che le rendono possibili, le occasioni che le minacciano2. In questo senso, per Hume la natura morale di questi valori 1 A osservare che all’interno di un quadro humeano è possibile, a tutti gli effetti, elaborare imperativi categorici sentimentalistici sono Simon Blackburn, Ruling Passions, cit., cap. VIII, in particolare pp. 257-58 e David Wiggins, �ategorical Requirements: Kant and Hume on the Idea of Duty, in Virtues and Reasons. Philippa Foot and Moral Theory, a cura di Rosalind Hursthouse, Gavin Lawrence, Warren Quinn, Oxford, Clarendon Press, 1995, pp. 297-330. 2 Si veda Donald W. Livingston, Philosophical Melancholy and Delirium, cit., p. 175.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

si palesa come intrinsecamente politica, nella misura in cui essi vanno costantemente ribaditi, riaffermati e protetti a partire dalla realtà concreta in cui si danno. La sua versione dell’accettazione riflessiva permette di spiegare perché la politica è, e deve essere, una prosecuzione dell’etica, e concepisce l’io morale come tutt’uno con quello politico. Spiega, cioè, perché il singolo è qualcosa che conta: conta moralmente, e, dunque, merita considerazione anche in termini politici. Tra le due dimensioni non c’è soluzione di continuità: Hume, prima di tutto, è un filosofo allo stesso tempo morale e politico3, tanto da indurre alcuni interpreti a concepire l’io morale humeano come «persona civica»4. Se questo è vero, la salvaguardia di valori quali la libertà o l’autonomia trova nell’impostazione filosofica humeana una base differente, maggiormente consapevole della dimensione storica e contestuale, rispetto a quella che viene offerta dalle tradizioni di pensiero a cui normalmente essi sono ricondotti, in particolare dalle spiegazioni individualistiche dei liberali classici5. 2. Non si vuole qui entrare nel merito dello spinoso problema se 3 John B. Stewart apre il suo Opinion and Reform in Hume’s Political Philosophy, Princeton, New Jersey, Princeton University Press, 1992, p. 3, sostenendo questa tesi. 4 Amélie Oksenberg Rorty, From Passions to Emotions and Sentiments, cit. 5 Per una discussione di questa tesi, si veda Richard H. Dees, Hume and the �ontexts of Politics, cit. Si veda anche F.A. von Hayek, The Legal and Political Philosophy of David Hume, in Hume, a cura di V.C. Chappell, London-Melbourne, Macmillan, 1968, pp. 335-60; tr. it. con il titolo La filosofia del diritto e della politica di David Hume, in F.A. von Hayek, Studi di filosofia, politica ed economia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, pp. 205-30, dove si sostiene che è Hume, e non Locke, a fornire la giustificazione della Glorious Revolution del 1688, mostrandosi come il vero padre del liberalismo. Alcuni, come Donald W. Livingston, Philosophical Melancholy and Delirium, cit., cap. VIII, giungono a sostenere, in maniera forse troppo affrettata, che in realtà Hume vada collocato nella tradizione repubblicana dell’umanesimo civico, piuttosto che in quella liberale. Per un esame del modo in cui il repubblicanesimo è stato recepito dall’Illuminismo scozzese, si veda Marco Geuna, La tradizione repubblicana e l’Illuminismo scozzese, in Filosofia, scienza e politica nel Settecento britannico, a cura di Luigi Turco, cit., pp. 49-86.

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Tra liberalismo e conservatorismo: dall’io morale all’io politico 07

Hume vada reclutato tra le schiere dei filosofi liberali oppure se egli sia uno dei maggiori esponenti di un pensiero conservatore, cercando così di catalogarlo in maniera definitiva all’interno di una di queste due gabbie concettuali. È un’operazione che esula da questo lavoro. Sta di fatto che, se si decide di leggere la sua proposta filosofica con gli strumenti teorici a cui si è fatto riferimento finora, è possibile evidenziarne alcuni aspetti che possono essere fatti valere a favore dell’idea che, date le intenzioni morali di fondo che la sostengono, essa si presti a essere utilizzata all’interno di un quadro liberale e progressista. Basti ricordare che, sebbene molti degli interpreti finiscano per individuare elementi conservatori nell’impostazione filosofica generale humeana – prima ancora che nelle sue teorizzazioni più specificamente politiche6 – c’è chi argomenta con forza come, a partire da quella medesima impostazione filosofica generale, sia possibile mostrare la valenza intrinsecamente riformatrice della proposta humeana, una valenza che tocca sia la riflessione filosofica in senso stretto, sia la riflessione sulle relazioni umane e sulla società7. Generalmente, i motivi per cui Hume viene considerato un conservatore ruotano intorno alla sua convinzione che la ragione sia inerte. Si ritiene che lo scetticismo filosofico di Hume lo porterebbe a essere dubbioso circa la capacità della ragione di 6 Per alcuni esempi di un’interpretazione in senso conservatore del pensiero politico di Hume, cfr. Giuseppe Giarrizzo, Hume politico e storico, Torino, Einaudi, 1962; Antonio Santucci, Sistema e ricerca in David Hume, cit., in particolare pp. 176-97; David Miller, Philosophy and Ideology in Hume’s Political Thought, Oxford, Clarendon Press, 1981; Donald W. Livingston, Hume’s Philosophy of �ommon Life, cit.; Id., Philosophical Melancholy and Delirium. Hume’s Pathology of Philosophy, cit.; Frederick G. Whelan, Order and Artifice in Hume’s Political Philosophy, cit. Per una discussione sui rapporti tra Hume e la tradizione conservatrice si veda Sheldon S. Wolin, Hume and �onservatism, in Hume. A Re-evaluation, cit., pp. 239-56. 7 Si veda soprattutto John B. Stewart, Opinion and Reform in Hume’s Political Philosophy, cit. Anche F.A. von Hayek, The Legal and Political Philosophy of David Hume, cit., di frequente considerato lui stesso un conservatore, sostiene una tesi di questo genere.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

aver un ruolo attivo negli affari umani: se non si può andare al di là dei limiti dell’esperienza concreta, allora bisogna negare che la condizione umana possa cambiare grazie a un intervento di tipo razionale. Da qui la conclusione per cui «la sua teoria manca della caratteristica fiducia liberale nella ragione come fonte o fondamento dell’ordine sociale»8. Questo porta alcuni sostenitori dell’ipotesi di uno Hume conservatore ad affermare che sarebbe Hume il vero «profeta della contro-rivoluzione»9: sarebbe stato lui, e non Edmund Burke, il più fiero avversario della Rivoluzione francese, qualora avesse avuto modo di assistere ai suoi orrori. E ciò, in primo luogo, perché la Rivoluzione francese sarebbe un esempio paradigmatico di rivolgimento violento della società a partire da astratti principi razionali10. Infine, c’è chi avanza la tesi più estrema, esplicitamente reazionaria, secondo la quale, siccome per Hume non può darsi alcuna indagine che oltrepassi la common life, allora anche in ambito politico qualsiasi intervento fatto nel nome di una ragione “cartesiana”, che pretenda di trasformare una condizione umana la cui natura è intrinsecamente narrativa, va rifiutato: l’ordine costituito ha, e deve avere, carattere sacro e inviolabile11. 3. Tuttavia, si è visto come il motore teorico humeano non vada affatto rintracciato nella sola razionalità degli esseri umani, concepita come una facoltà astratta a sé stante, bensì in una imma8 Frederick G. Whelan, Order and Artifice in Hume’s Political Philosophy, cit., p. 363. 9 Laurence L. Bongie, David Hume. Prophet of the �ounter-Revolution, �ounter-Revolution Indianapolis,, Liberty Fund, 1998. 10 Sulla relazione che esiste tra lo scetticismo humeano e l’adesione a una posizione conservatrice, con riferimento in particolare alla Rivoluzione francese, si veda David Miller, Philosophy and Ideology in Hume’s Political Thought, cit., soprattutto pp. 184-205. 11 Donald W. Livingston, Hume’s Philosophy of �ommon Life, cit., capp. XXII; sulla tesi della sacralità dell’autorità rappresentata dall’ordine stabilito, si veda in particolare cap. XII, pp. 329-34. Si veda anche Frederick G. Whelan, Order and Artifice in Hume’s Political Philosophy, cit., cap. V, § II, in particolare pp. 320-23.

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Tra liberalismo e conservatorismo: dall’io morale all’io politico 0

ginazione sentimentalmente contraddistinta e simpateticamente condizionata. Né la presentazione della prospettiva humeana come pratica e caricata in termini normativi fin dall’inizio ci costringe ad accettare con rassegnazione lo status quo, o addirittura a celebrarlo, come fa Livingston. In realtà, è proprio il fatto che il procedimento filosofico humeano sia riflessivo, e si dia sempre contestualizzato, a permettere di avanzare un metodo sperimentale di ragionamento grazie al quale correggere la condizione umana dall’interno, facendo tesoro dell’esperienza diretta di individui agenti riflessivi che interagiscono tra loro12. Anche ammettendo, quindi, l’inevitabilità di una dimensione pratica che permea l’attività degli esseri umani, tanto in ambito teoretico quanto in ambito pratico, è falso che l’alternativa sia solo tra la ragione, da una parte, e l’opinione prevalente, dall’altra. Ma soprattutto, è proprio a partire dalla riflessione sull’io prima passionale, poi morale, infine politico, che è possibile mostrare come esso incarni valori quali l’individualità e la libertà in maniera più convincente e consapevole delle alternative normalmente più quotate. 4. Hume rifiuta qualsiasi teoria che faccia riferimento a un modello dello stato di natura, o a presunti diritti naturali13; in questo senso, egli non parla mai della libertà individuale come di un diritto primario fondamentale. In una prospettiva humeana, la libertà dell’individuo, politicamente intesa, non è la premessa, A sostegno di questa tesi, si veda soprattutto John B. Stewart, Opinion and Reform in Hume’s Political Philosophy, cit., cap. V. In parte va in questa direzione anche Nicholas Capaldi, The Dogmatic Slumber of Hume Scholarship, cit., per il quale Hume è un conservatore, ma non è affatto un apologeta dello status quo. Il suo sarebbe piuttosto un conservatorismo dinamico, che ammette l’evoluzione delle pratiche umane nel corso della storia; una evoluzione che è però sempre dovuta a una dinamica interna alla storia medesima, e non all’applicazione di un astratto disegno razionale che si pretende progettato al di là di essa. 13 Treatise, libro III, parte II, sezz. 1 e 2. Sui rapporti tra Hume e la tradizione dei diritti naturali si veda Knud Haakonssen, Natural Law and Moral Philosophy. From Grotius to Scottish Enlightenment, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, cap. III, sez. 7. 12

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

ma piuttosto la conclusione di una riflessione sugli scopi della società più in generale, e, quindi, in maniera più specifica, di un governo equo, vale a dire di un governo che garantisca la giustizia e permetta ai suoi cittadini di godere degli agi del vivere sociale14. La libertà è delineata come libertà sotto la legge, cioè come il risultato di un sistema di libertà politiche che sia stabile e offra agli individui la sicurezza di non essere defraudati della loro proprietà15. La tematica della libertà come diritto naturale appartiene alla tradizione contrattualista piuttosto che a quei filosofi, come Hume, che vedono invece nella convenzione il meccanismo che sta alla base del costituirsi della società prima e del governo poi16. Lungi dal pensare alle relazioni umane come al risultato di accordi stabiliti in maniera esplicita da contraenti razionali, Hume ritiene che esse seguano andamenti fortuiti, non calcolabili in anticipo. Quando si determina una convergenza tra gli interessi molteplici e conflittuali degli esseri umani, la possibile stabilità che ne risulta è qualcosa che può avvenire o non avvenire; e, quando avviene, è il frutto di una convenzione che ha avuto successo: [o]sservo che è nel mio interesse lasciare a un altro il possesso dei suoi beni, purché egli agisca nello stesso modo nei miei confronti. Anche l’altro è consapevole di un analogo interesse a regolare la sua condotta. Quando ci si esprime reciprocamente questa consapevolezza nell’interesse comune, così che essa risulti nota a entrambi, allora essa produce una risoluzione a un comportaSi veda Annette C. Baier, A Progress of Sentiments, cit., cap. XI. Si veda Knud Haakonssen, Natural Law and Moral Philosophy, cit., p.124, e S.R. Letwin, The Pursuit of �ertainty. David Hume, Jeremy Bentham, John Stuart Mill, Beatrice Webb, Cambridge, Cambridge University Press, 1965, pp. 99-102. 16 Per un’analisi delle differenze che corrono tra un modello contrattualista e un modello convenzionalista, con particolare riferimento al modo in cui il primo si esplicita nella filosofia di Hobbes mentre il secondo in quella di Hume, si veda Tito Magri, �ontratto e convenzione. Razionalità, obbligo e imparzialità in Hobbes e Hume, Milano, Feltrinelli, 1994. Si veda anche Stefania Mazzone, Passioni e artificio. Individuo e ordine sociale nella filosofia di David Hume, Milano, Franco Angeli, 1999, cap. III. 14

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Tra liberalismo e conservatorismo: dall’io morale all’io politico 11

mento adeguato. E questo, di certo, si può chiamare abbastanza propriamente una convenzione o un accordo tra di noi, anche se manca qualsiasi promessa, dato che le azioni di ciascuno di noi sono in rapporto con quelle altrui e le compiamo in base alla supposizione che l’altro dovrà compierne certe altre. Due uomini che sospingono una barca a forza di remi lo fanno in virtù di un accordo o di una convenzione, sebbene essi non si siano dati alcuna promessa reciproca. La regola della stabilità del possesso non solo deriva dalle convenzioni umane, ma sorge inoltre gradualmente e acquista forza attraverso un lento progresso, e in virtù di una reiterata esperienza degli inconvenienti che sorgono dal trasgredirla17.

Dato questo quadro teorico, quello della libertà si rivela essere un valore derivato, frutto di un processo che trova le sue ragioni nella constatazione dell’utilità del vivere civile, e, in seguito, di una forma di governo capace di assicurare quella virtù artificiale che è la giustizia, indispensabile, a sua volta, per garantire la proprietà, il suo trasferimento per consenso e il mantenimento delle promesse. La giustizia è necessaria perché vengano rispettate queste tre «leggi di natura»18 – dove “natura” va utilizzato in senso lato, «se per naturale intendiamo ciò che è comune a una specie, o addirittura se limitiamo questa parola a significare ciò che è inseparabile dalla specie»19, e non in maniera ontologicamente caricata come avviene per i giusnaturalisti –, le quali, attraverso le restrizioni che impongono alle libertà di ognuno, assicurano il massimo di libertà per tutti20. Il modello del contratto è rifiutato da Hume perché poggia sulla concezione distorta dell’individuo mosso dal solo interesse Treatise, libro III, parte II, sez. 2, p. 490, cpv. 10; tr. it. cit., p. 518. Hume critica la soluzione contrattualista e spiega il meccanismo abitudinario che alla fine porta alla formazione del governo anche in un saggio a sé stante, Sul contratto originale (1748), in Opere filosofiche, volume III, cit., pp. 467-88. 18 Sulle tre «leggi di natura» si veda Treatise, libro III, parte II, sezz. 3-5. 19 Treatise, libro III, parte II, sez. 1, p. 484, cpv. 19; tr. it. cit. p. 512. 20 Si veda cosa afferma a proposito F.A. von Hayek, The Fatal �onceit. The Errors of Socialism, London, Routledge, 1988, p. 34; tr. it. di Fabrizio Mattesini con il titolo La presunzione fatale: gli errori del socialismo, Milano, Rusconi, 1997. 17

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

personale, una concezione che è frutto, a suo avviso, di un’antropologia troppo povera: fare riferimento soltanto a un’indole egoista e a una razionalità esclusivamente strategica falsa qualsiasi teoria, poiché sono i dati empirici di partenza a essere inesatti. È possibile, invece, fare filosofia secondo i principi dell’individualismo metodologico, come avviene in Hume, concependo gli individui mai come isolati, bensì sempre come parte di un gruppo21. Anzi, è proprio dall’interno di un contesto in cui gli esseri umani sono legati tra loro e dipendono gli uni dagli altri, fin dalla nascita, che è possibile concepirli come individui in senso proprio: l’individualità è il frutto del riconoscimento vicendevole che essi guadagnano grazie al fatto di venire al mondo, da subito, in un contesto familiare, e, quindi, del confronto continuo a cui sono sottoposti nel corso di tutta la loro esistenza. L’individualità non è una condizione da cui prendere le mosse, bensì la si acquisisce con l’approssimarsi reciproco degli esseri umani, in seguito allo sviluppo progressivo di una comprensione simpateticamente qualificata. Rendendoli capaci di mettere da parte i propri interessi più immediati, questa comprensione simpatetica permette loro di divenire ricettivi rispetto ai diversi bisogni che esprimono, rispetto alle richieste specifiche che si rivolgono, rispetto alla condizione condivisa di individui tutti allo Cfr. Annette C. Baier, A Progress of Sentiments, cit., cap. X; S.R. Letwin, The Pursuit of �ertainty, cit., p. 79; Knud Haakonssen, Natural Theory and Moral Philosophy, cit., p. 104. Sul senso di un individualismo che non procede affatto postulando individui isolati e indipendenti, si veda anche F.A. von Hayek, Individualism: True and False, in Id., Individualism and Economic Order, Chicago, University of Chicago Press, 1948, pp. 1-32; tr. it. di Anna Maria Cossiga con il titolo Individualismo: quello vero e quello falso, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1997, in particolare pp. 45-46. Sul modo in cui va inteso l’individualismo metodologico in Hume, si veda inoltre Eugenio Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., cap. III, in particolare pp. 133-39. Per una discussione delle critiche di Hume al modello contrattualistico, si veda Pierpaolo Marrone, L’io delle passioni. Indagini su Hume, cit., cap. IV. Per un quadro più generale del dibattito circa il rifiuto della dottrina del contratto come fondamento dell’origine della società, si veda Maria Emanuela Scribano, Natura umana e società competitiva. Studio su Mandeville, Milano, Feltrinelli, 1980, pp. 93-141. 21

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Tra liberalismo e conservatorismo: dall’io morale all’io politico 1

stesso modo contraddistinti dal fatto di realizzarsi personalmente in una determinata circostanza. In quest’ottica, l’individualismo humeano si presenta come profondamente egualitario, e la questione della realizzazione e del mantenimento della società civile si configura come il tentativo di far sì che persone particolari, accettandosi l’un l’altra e rispettando i principi di giustizia stabiliti da un punto di vista fermo e generale, arrivino a comportarsi da individui a pieno titolo, meritevoli di essere detti tali22. 5. In ambito kantiano, invece, si fa spesso appello proprio a un modello di tipo contrattualista per dare fondamento alla nozione politica di libertà. Ma diversamente dal contrattualismo “reale”, riconducibile a Hobbes23, quello kantiano è “ideale”24: si tratta di una forma di costruttivismo in cui i principi di giustizia vengono stabiliti da condizioni di partenza che le parti in causa hanno accettato in circostanze adeguatamente specificate. Rispetto al contrattualismo reale, quello ideale è un contrattualismo corretto: si dà su un piano dove contano non i rapporti di forza presenti nella realtà così com’è, bensì quelle considerazioni di giustizia che 22 Si veda John B. Stewart, Opinion and Reform in Hume’s Political Philosophy, cit., pp. 174-78. 23 Un esempio paradigmatico di contrattualismo reale di stampo hobbesiano è quello elaborato da David P. Gauthier, The Logic of Leviathan. The Moral and Political Theory of Thomas Hobbes, Oxford, Clarendon Press, 1969; Id., Morals by Agreement, Oxford-New York, Oxford University Press, 1987; Id., Why �ontractarianism?, in �ontractarianism and Rational �hoice: Essays on David Gauthier’s Morals by Agreement, a cura di Peter Vallentyne, Cambridge, Cambridge University Press, 1991, pp. 15-30; tr. it. di Piergiorgio Donatelli con il titolo Perché il contrattualismo?, in Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni, a cura di Piergiorgio Donatelli e Eugenio Lecaldano, Milano, LED, 1996, pp. 351-71. Si vedano anche Jean Hampton, Hobbes and the Social �ontract Tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1986 e Gregory S. Kavka, Hobbesian Moral and Political Theory, Princeton, Princeton University Press, 1986. 24 Sulle differenze tra contrattualismo reale e contrattualismo ideale, si veda quanto sostengono Eugenio Lecaldano, Etica, Torino, UTET, 1995, pp. 89-97 e 130-33, e Piergiorgio Donatelli, La teoria morale analitica: un bilancio degli ultimi venticinque anni, in Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni, cit., pp. 9-133, in particolare pp. 54-64 e pp. 123-28.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

contraddistinguerebbero la realtà come dovrebbe essere, nella quale gli individui razionali non vengono pensati come mossi da considerazioni esclusivamente prudenziali, né agiscono secondo una razionalità strategica, ma stabiliscono i principi fondamentali di una società ben ordinata ponendosi tra loro in un rapporto di perfetta reciprocità25. In ambito contrattualista, si è cercato di presentare i soggetti razionali che prendono parte all’elaborazione dei principi di giustizia come soggetti essenzialmente politici, nel senso di soggetti non compromessi con alcuna concezione morale sostantiva, ma in grado di determinare i principi di giustizia da una posizione neutrale. Tuttavia, se guardata in una luce humeana, questa posizione neutrale non è affatto tale, ma è già connotata moralmente, e dipende da quella medesima razionalità pratica che è l’aspetto peculiarmente morale della natura umana, così come viene presentata dai kantiani: anche in questo caso, come avviene per Hume, l’io propriamente morale e l’individuo concepito in termini politici finiscono per convergere26. E come da una prospettiva humeana l’io morale kantiano viene rifiutato, per il medesimo motivo lo stesso non può che avvenire per il suo equivalente politico. Tra l’altro, nonostante gli sforzi che sono stati fatti dai contrattualisti kantiani di separare la riflessione politica dal quadro della riflessione morale – così da avere una nozione di giusto che sia neutrale rispetto alle diverse concezioni sostantive del bene – è motivo di discussione che si sia, in effetti, riusciti a offrire una giustificazione di una concezione liberale della giustizia di questo tipo27. 25 Si pensi soprattutto a John Rawls, Kantian �onstructivism in Moral Theory, cit. e Political Liberalism, cit. Si veda anche T.M. Scanlon, sia �ontractualism and Utilitarianism, in Utilitarianism and Beyond, cit., pp. 103-28; tr. it. di Antonella Besussi con il titolo �ontrattualismo e utilitarismo, in Utilitarismo e oltre, cit., pp. 133-64, sia What We Owe to Each Other, cit. 26 Sulla coincidenza del soggetto politico kantiano con il soggetto morale, si veda Maria Chiara Pievatolo, La giustizia degli invisibili. L’identificazione del soggetto morale, a ripartire da Kant, Roma, Carocci, 1999. 27 Per una disamina del dibattito al riguardo, si vedano Sebastiano Maffettone, Liberalismo filosofico contemporaneo e Salvatore Veca, Il paradigma delle teorie della

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Tra liberalismo e conservatorismo: dall’io morale all’io politico 15

In realtà, che la filosofia kantiana opti o meno per un modello esplicitamente contrattualista risulta una scelta secondaria quando si tratta di spiegare perché è inconciliabile con la filosofia humeana. Da un’ottica humeana, non è tanto il contratto, in quanto tale, a non essere un’opzione praticabile28. Sono i punti di partenza del kantismo a essere viziati, non il fatto che essi si concretizzino in una soluzione contrattualista. In uno schema humeano i presupposti kantiani non sono inevitabili, bensì sono esiti eventuali, e come tali sono inservibili a promuovere – politicamente – quegli ideali morali che dicono di volere rappresentare. Humeanamente, libertà e autonomia non sono diritti naturali, e neanche il riflesso della razionalità pratica, ma valori che vanno costantemente guadagnati e riconfermati, a cui si arriva gradualmente attraverso convenzioni che hanno avuto successo. In questo senso, non si dà una priorità del giusto sul bene: il liberalismo e i valori di cui esso è portatore sono fatti storici – specificamente, sono un prodotto dell’Illuminismo –, e lo Stato liberale va difeso come una concezione precisa del bene29.

giustizia, entrambi in Manuale di filosofia politica. Annali di etica pubblica 2/1996, a cura di Sebastiano Maffettone e Salvatore Veca, Roma, Donzelli, 1996, pp. 69-95 e pp. 153-98. Di Veca si consideri anche La filosofia politica, Roma-Bari, Laterza, 1998; mentre di Maffettone, Sostiene Rawls…, “Filosofia e questioni pubbliche”, I (1995), pp. 79-92 e Fondamenti filosofici del liberalismo, in Ronald Dworkin e Sebastiano Maffettone, I fondamenti del liberalismo, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 121-255, soprattutto pp. 173-231. 28 Hume riconosce che ci possono essere casi in cui l’obbedienza si fonda su una promessa esplicita, come quando si stabilisce per la prima volta un governo in società molto piccole. Si veda Treatise, libro III, parte III, sez. 8. 29 Si veda al proposito Simon Blackburn, Ruling Passions, cit., cap. VIII, § 6.

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XVI Comunità e natura umana

1. Se tutto questo è vero – se è vero, cioè, che l’autorità della morale riflette il modo in cui la natura umana si sviluppa in una determinata realtà; se è vero, poi, che la morale si mostra in un contesto specifico che ci permette di riconoscerla; se è vero, infine, che l’impossibilità di operare una riflessione che non sia sempre situata lega il pensiero etico di Hume, senza soluzione di continuità, a quello politico –, si potrebbe, allora, dare un’interpretazione della soluzione humeana di tipo comunitarista. Si è sostenuto che l’io morale humeano non corrisponde alla fantasticheria di un agente perfettamente razionale e autonomo; al contrario, esso guadagna la propria identità pratica grazie al fatto di darsi sempre in una situazione definita, in una realtà contraddistinta da particolari schemi valutativi, attingendo ai quali può mostrarsi come un individuo specifico. Asserzioni di questo tipo possono ricordare le critiche che i comunitaristi hanno mosso a un certo tipo di liberalismo di stampo kantiano1. Michael Per una ricostruzione del dibattito tra liberali e comunitari cfr. Will Kymlicka, �ontemporary Political Philosophy: an Introduction, Oxford, Clarendon Press, 1990; tr. it. di Rodolfo Rini con il titolo Introduzione alla filosofia politica contemporanea, Milano, Feltrinelli, 1996; �omunitarismo e liberalismo, a cura di Alessandro Ferrara, Roma, Editori Riuniti, 1992; Stephen Mulhall e Adam Swift, Liberals and �ommunitarians, second edition, Oxford, Blackwell, 1996; Etica individuale e giustizia, a cura di Alessandro Ferrara, Vanna Gessa-Kurotschka, Sebastiano Maffettone, Napoli, Liguori, 2000; Valentina Pazé, Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2002. 1

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�omunità e natura umana 17

J. Sandel, per esempio, ha messo in discussione l’idea rawlsiana che si possa isolare un io trascendentale a cui ricondurre i principi di giustizia, poiché risulterebbe essere nient’altro che un io «incorporeo»; laddove esso, invece, si dà sempre come «situato radicalmente»2. Un’idea che viene sviluppata anche da Charles Taylor, per il quale il liberalismo, facendo perno sulla nozione di contratto e sul primato dei diritti, dipende da una concezione «atomistica» degli individui, che li vede, erroneamente, come soggetti perfettamente autosufficienti e slegati da qualsiasi appartenenza di tipo sociale, politico o culturale3. A sua volta, Alasdair C. MacIntyre parla di un «io tipicamente moderno» come di qualcuno che ha l’illusione di scoprire la propria vera essenza occupando una posizione non compromessa con nessuna delle scelte che ha compiuto; questo io è tanto più teso verso un’affermazione assoluta di se stesso quanto più, in realtà, risulta essere vuoto e incapace di realizzarsi, perché privo di quello sfondo valoriale socialmente contrassegnato che gli permetterebbe di farlo4. In opposizione a una concezione di questo genere, MacIntyre vuole rendere conto della natura umana a partire dalla constatazione che gli individui sono animali razionali dipendenti gli uni dagli altri, dove questa razionalità è il riflesso di una natura biologica che può realizzarsi pienamente solo all’interno di una cultura5. Inoltre, sebbene MacIntyre riconosca differenze 2 Michael J. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge, Cambridge University press, 1982; tr. it. di Savino D’Amico con il titolo Il liberalismo e i limiti della giustizia, Milano, Feltrinelli, 1994, cap. I, in particolare pp. 28-36 e The Procedural Republic and the Unencumbered Self, “Political Theory”, 12 (1984), pp. 81-96, ristampato in Id., Public Philosophy. Essays on Morality in Politics, Cambridge, Mass.-London, Harvard University Press, 2005, pp. 156-73. 3 Si veda Charles Taylor, Atomism, in Id., Philosophy and the Human Sciences. Philosophical Papers II, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, pp. 187210. 4 Alasdair C. MacIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, Theory Notre Dame, In., University of Notre Dame Press, 1981; tr. it. di Paola Capriolo con il titolo Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Milano, Feltrinelli, 1988, cap. III. 5 Si veda Alasdair C. MacIntyre, Dependent Rational Animals. Why Human Beings Need the Virtues, London, Duckworth, 1999; tr. it. di Marco D’Avenia

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

rilevanti tra la prospettiva neotomista, che egli abbraccia, e la filosofia humeana, ritiene che quest’ultima presenti elementi che, in definitiva, confermano la validità del comunitarismo, tanto da fare di Hume un continuatore di Aristotele6. Se si fa riferimento, in particolare, all’opera di Taylor, i punti in comune tra il modo in cui è stato qui presentato l’io morale humeano e il comunitarismo sembrerebbero lampanti. Taylor incentra gran parte della sua riflessione etica sulla nozione di persona, di cui offre una disamina che la vede da subito come normativamente contraddistinta: il termine “persona” compare anzitutto nel discorso morale e in quello giuridico. Una persona è un essere dotato di un certo status morale, ovvero possiede dei diritti. Ma alla base di questo status morale ci sono alcune capacità che ne costituiscono le condizioni. Una persona è un essere che ha un senso di sé, una nozione del futuro e del passato, può avere dei valori e compiere scelte; in breve, può pianificare la propria esistenza. [...] Una persona dev’essere un essere che ha un proprio punto di vista sulle cose. Il piano di vita, le scelte, il senso di sé devono poter essere attribuite a lui, in un certo senso, come il loro punto di origine. Una persona è un essere a cui ci si può rivolgere e che può replicare7.

I suoi valori, le sue scelte, il suo piano di vita e il senso del sé che sviluppa, tuttavia, possono aversi solo perché chiamano in causa una «‘valutazione forte’ – cioè chiamano in causa discriminazioni come giusto/sbagliato, meglio/peggio, nobile/ignobile, che, lungi dall’essere rese valide dai nostri desideri, dalle nostre con il titolo Animali razionali dipendenti. Perché gli uomini hanno bisogno delle virtù, Milano, Vita e Pensiero, 2001. 6 Si veda Alasdair C. MacIntyre, Whose Justice? Which Rationality?, tr. it. cit., volume II, capp. IV e V (capp. XV e XVI ed. ingl.). 7 Charles Taylor, The �oncept of a Person, in Id., Human Agency and Language. Philosophical Papers I, Cambridge, Cambridge University Press, 1985, pp. 97-114, la citazione è a p. 97; tr. it. di Paolo Costa con il titolo Il concetto di persona, in Charles Taylor, Etica e umanità, Milano, Vita e Pensiero, 2004, pp. 127-49, la citazione è alle pp. 127-28.

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�omunità e natura umana 1

inclinazioni e dalle nostre scelte, ne sono del tutto indipendenti e anzi ci offrono criteri con cui giudicarli»8. Per Taylor, l’io si dà sempre in uno «spazio morale», all’interno del quale [l]’immagine che ho di me stesso è quella di un essere che si muove e diviene [...]. Ciò significa non solo che ho bisogno di tempo e di molte traversie per sceverare ciò che, nel mio carattere, nel mio temperamento e nei miei desideri, è relativamente fisso e stabile da ciò che è, invece, variabile e mutevole; ma anche che, come essere che si muove e diviene, io posso conoscere me stesso solo per il tramite dei miei progressi e dei miei regressi, delle mie vittorie e delle mie sconfitte. La mia immagine di me stesso necessariamente ha uno spessore temporale e una struttura narrativa9.

Gli esseri umani rivelano loro stessi in un agire morale che «richiede un qualche genere di consapevolezza riflessiva dei criteri a cui si sta attenendo»10. Allo stesso modo che in Hume, e diversamente da come avviene per i kantiani, questo agire morale non è espressione di una volontà autonoma, né è guidato da una razionalità puramente strumentale, ma si contraddistingue in termini sentimentali – anche Taylor fa riferimento alle passioni dell’orgoglio e della vergogna11 – e può determinarsi solo in

8 Charles Taylor, Sources of the Self. The Making of Modern Identity, Cambridge, Cambridge University Press, 1989, p. 4; tr. it. di Rodolfo Rini con il titolo Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, moderna Milano, Feltrinelli, 1993, p. 16. Sulla valutazione forte, cfr. anche Charles Taylor, What Is Human Agency?, in Id., Human Agency and Language. Philosophical Papers I, cit., pp. 15-44; tr. it. �he cos’è l’agire umano?, in Etica e umanità, cit., pp. 49-85; Id., Responsibility for Self, in The Identities of Persons, cit., pp. 281-99. 9 Charles Taylor, Sources of the Self, cit., p. 50; tr. it. cit., p. 71. Sulla nozione di spazio morale, e sulla sua relazione con l’io, si veda anche Id., The Moral Topography of the Self, New Brunswick, Rutgers University Press, 1988; tr. it. di Alberto Pirni con il titolo La topografia morale del sé, Pisa, Edizioni ETS, 2004. 10 Charles Taylor, The �oncept of a Person, cit., p. 103; tr. it. cit., p. 134. 11 Si vedano What Is Human Agency?, cit. e Self-Interpreting Animals, in Charles I cit., pp. 45-76; tr. it. Taylor, Human Agency and Language. Philosophical Papers I, Animali che si autointerpretano, in Etica e umanità, cit., pp. 87-126.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

riferimento a «fini peculiarmente umani»12, che non dipendono dalla scelta dei singoli, ma acquistano significanza solo dall’interno delle circostanze locali in cui si rivelano. Ci si trova, dunque, di fronte a una definizione di io morale che viene data da una prospettiva eminentemente pratica, che sembra condividere con l’ottica humeana l’idea che non è possibile concepire un io morale come agente se non come un io denso, contraddistinto dalla realtà in cui si trova a essere, e da essa irrimediabilmente informato. Si deve quindi concludere che l’io morale humeano che è stato descritto non è altro che l’antesignano dell’io comunitarista? 2. Sebbene le somiglianze tra la descrizione dell’io morale humeano e la descrizione dell’io che viene fatta in ambito comunitarista siano numerose, questo non deve portare alla conclusione che le due coincidano. D’altronde, si è visto come la nozione di io morale di Hume possa venire accomunata, in parte, a quella kantiana; ma anche come alla fine le due differiscano nettamente. Lo stesso si può affermare in ambito comunitarista: nonostante le similitudini riscontrabili, interpretare l’io morale humeano in un senso comunitarista è scorretto. Da una prospettiva humeana si può condividere l’opinione di Taylor quando afferma che «una libertà sviluppata necessita di una certa comprensione dell’io, in cui le aspirazioni all’autonomia e alla guida di se stessi divengano concepibili»; e si può essere d’accordo con lui nel ritenere che «questa comprensione di sé non è qualcosa che possiamo sostenere da soli, ma la nostra identità è sempre parzialmente definita in una conversazione con gli altri». Ma non si è più disposti a seguirlo quando conclude che questa identità pratica si ottiene «attraverso la comune comprensione che soggiace alle pratiche della nostra società»13. Hume non giunge mai alle conclusioni relativiste a cui arrivano Charles Taylor, What Is Human Agency?, cit. I tre passi citati sono tutti in Charles Taylor, Atomism, cit., p. 209, corsivo mio. 12

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�omunità e natura umana 1

i comunitaristi: non afferma mai che l’io morale coincide con un io sociale; come invece sembra che avvenga con questi ultimi14. Per Hume, quella morale e quella sociale sono due sfere che, anche se risultano interconnesse, non si risolvono affatto l’una nell’altra, e la dimensione locale non esaurisce quel che c’è da dire sulle virtù e i vizi che ci permettono di riconoscere un io morale15. Come emerge dall’esame delle virtù che Hume chiama naturali: [s]e affermassimo che hanno diritto all’onorevole distinzione d’esser chiamate virtù soltanto le qualità che ci rendono idonei a svolgere la nostra parte nella società, dovremmo immediatamente accorgerci che queste sono in verità le qualità di maggior valore, e che vengono di solito indicate come virtù sociali; ma ci dovremmo anche accorgere che questo stesso epiteto suppone che vi siano parimenti delle virtù di altra specie16.

Secondo Hume, le virtù naturali sono immediatamente apprezzate dagli esseri umani, senza essere il prodotto di un artificio, come avviene per la giustizia. Esse si distinguono dalla virtù artificiale della giustizia perché il loro beneficio sorge da ogni singola azione in cui vengono esercitate; laddove, invece, la giustizia si rivela vantaggiosa non per via della considerazione di singoli atti, ma tenendo presente il sistema generale di azione

14 Per dira con Donald C. Ainslie, �haracter Traits and the Humean Approach to Ethics, cit., Hume ammette l’esistenza del «dissidente morale» (p. 99). 15 Non è pertanto accettabile l’interpretazione in termini comunitaristi che viene data da Maria Eleonora Sanna, David Hume: l’io costruito in termini sociali, “Iride”, 33 (2001), pp. 353-67. Sanna presenta una spiegazione dell’io humeano come di un agente passionalmente contraddistinto, in cui l’orgoglio e la simpatia sono in primo piano. Tuttavia, rifacendosi soprattutto all’insegnamento di George Herbert Mead, Sanna sostiene che «[l]a natura umana è, secondo Hume, una natura sociale e, di conseguenza, l’Io è costruito in funzione di una determinata società in quanto creazione della società stessa [...] l’uomo è sempre l’uomo di un clan, di una comunità» (p. 366). 16 An Enquiry concerning the Principles of Morals, appendice IV, cpv. 2; tr. it. cit., pp. 330-31.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

che favorisce il bene pubblico17. Alcune virtù naturali possono in effetti corrispondere a tratti del carattere utili o piacevoli agli altri – e quindi essere apprezzate perché recano beneficio alla società18. Ma altre sono utili o piacevoli direttamente solo per colui che le possiede19. Ora, sebbene buona parte dei nostri comportamenti siano legati al contesto, che influenza notevolmente le nostre concezioni di virtù e di vizio, e dunque la guisa in cui le virtù naturali – tanto quelle più “sociali”, quanto quelle vantaggiose per la singola persona – si manifestano e vengono esercitate, tuttavia esse riflettono una natura umana che presenta delle costanti che non variano. Sostenere che queste virtù sono, in realtà, totalmente dipendenti dalla società di appartenenza forza eccessivamente il testo di Hume in un senso relativista, e non tiene conto delle intenzioni che lo muovono. 3. Hume presenta una concezione di natura umana definibile empiricamente, che si rivela come ciò che resta costante nel corso delle vicende umane. Essa si offre come una struttura stabile, che permette di spiegare i cambiamenti, anche considerevoli, che si riscontrano nella condotta degli esseri umani durante la loro 17 Per un’analisi del rapporto tra le virtù naturali e artificiali cfr. Ken O’Day, Hume’s Distinction between the Natural and the Artificial Virtues, “Hume Studies”, 20 (1994), pp. 121-42; David Wiggins, Natural and Artificial Virtues: A Vindication of Hume’s Scheme, in How Should One Live? Essays on the Virtues, a cura di Roger Crisp, Oxford, Clarendon Press, 1996, pp. 131-40; Jacqueline Taylor, Justice and the Foundations of Social Morality in Hume’s Treatise, “Hume Studies”, 24 (1998), pp. 5-30; Rachel Cohon, Hume’s Artificial and Natural Virtues, in The Blackwell Guide to Hume’s Treatise, cit., pp. 256-75. 18 Come ad esempio «[l]a mitezza di animo, la liberalità, la carità, la generosità, la clemenza, la moderazione, l’equità», Treatise, libro III, parte III, sez. 1, p. 578, cpv. 11; tr. it. cit., pp. 611-12. 19 Come avviene – per citarne solo alcune – con «[l]a temperanza, la sobrietà, la pazienza, la costanza, la perseveranza, la previdenza, la ponderatezza, la riservatezza, l’ordine, la persuasività, la compitezza, la presenza di spirito, la prontezza di concezione, la facilità di espressione», An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. VI, cpv. 21; tr. it. cit., p. 256. Alle virtù naturali è dedicata tutta la parte III del III libro del Trattato e buona parte della Ricerca sui principi della morale (se ne parla nelle sezioni dalla V alla VIII, e quindi nell’Appendice IV).

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�omunità e natura umana 

storia; una struttura che non muta al mutare delle circostanze poiché rispecchia il modo in cui creature sentimentalmente connotate come gli esseri umani funzionano. In questo senso, [s]i riconosce che c’è grande uniformità fra le azioni degli uomini, in tutte le nazioni e in tutte le età, e che la natura umana resta sempre la stessa nei suoi principi e nelle sue operazioni. Gli stessi motivi producono sempre le stesse azioni; gli stessi eventi derivano dalle stesse cause. Le passioni come l’ambizione, l’avarizia, l’amor proprio, la vanità, l’amicizia, la generosità, il forte desiderio del bene pubblico, mescolate in vari gradi e distribuite attraverso la società, sono state dal principio del mondo, e sono ancora, la fonte di tutte le azioni e di tutte le imprese che si sono verificate nella storia del genere umano. Vorreste conoscere i sentimenti, le inclinazioni e il modo di vivere dei greci e dei romani? Studiate bene il temperamento e le azioni dei francesi e degli inglesi; non potete ingannarvi molto nel trasferire ai primi la maggior parte delle osservazioni che avete fatto riguardo ai secondi. L’umanità è tanto la stessa, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, che la storia non ci informa di nulla di nuovo o di insolito a questo proposito. L’utilità principale della storia consiste soltanto nello scoprire i principi costanti ed universali della natura umana, mostrando gli uomini in tutte le varie circostanze e situazioni e fornendoci il materiale da cui ci sia possibile ricavare le nostre osservazioni e sulla cui base ci sia possibile informarci delle sorgenti regolari dell’azione e del comportamento umani20. An Enquiry concerning Human Understanding, sez. VIII, cpv. 7; tr. it. cit., p. 89. Esiste un acceso dibattito su quanto una simile concezione della natura umana possa effettivamente essere detta astorica e indipendente dal contesto. Per una ricostruzione di questo dibattito, si veda Alix Cohen, In Defence of Hume’s Historical Method, “British Journal for the History of Philosophy”, 13 (2005), pp. 489-502. A favore della tesi secondo la quale Hume riesce a elaborare una teoria della natura umana che, pur dandosi nella storia e nel contesto, non viene diluita in essi, cfr. Duncan Forbes, Hume’s Philosophical Politics, Cambridge, Cambridge University Press, 1975, cap. IV; S.K. Wertz, Hume, History, and Human Nature, “Journal of the History of Philosophy”, 36 (1975), pp. 481-96; Donald W. Livingston, Hume’s Philosophy of �ommon Life, cit., cap. VIII. Per un esempio della tesi contraria, si veda, ad esempio, Leon Pompa, Human Nature & Historical Knowledge. Hume, Hegel and Vico, cit., cap. I. Marcia Lind, Hume and Moral Emotions, cit., ritiene invece che Hume elabori una nozione di “naturale” che può essere ricavata dalla considerazione di ciò 20

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

Le variazioni riscontrabili nel comportamento degli individui, da società a società, dipendono dal fatto che la medesima struttura si conforma a realtà differenti, generando, in questo modo, risposte differenti. Certo, questa struttura potrebbe cambiare; ma, se ciò avvenisse, non potremmo più dire di trovarci di fronte a esseri umani riconoscibili come tali. Le conferme che riceviamo dall’esame delle azioni umane corroborano l’ipotesi che gli individui siano organizzati secondo passioni che trovano espressione in un certo contesto, ma che non dipendono da esso. È bene sottolineare che Hume, quando parla di natura umana, non si riferisce affatto a un’essenza ontologicamente determinata. Piuttosto, pensa a essa come a una griglia teorica elaborata sulla falsariga del principio di gravità newtoniano: si tratta di una generalizzazione ricavata dall’osservazione. I principi della scienza della natura umana sono stabiliti a partire dall’esame delle vicende umane; questi stessi principi sono quindi applicati ai fenomeni concreti degli individui in società, nella quale i principi generali vengono adattati a una varietà di circostanze21. In questo modo, è possibile cogliere le regolarità presenti in fatti apparentemente molto diversi, regolarità che permettono di elaborare leggi empiriche con le quali decifrare al meglio il comportamento umano. La psicologia morale che ne risulta non è affatto relativistica. Né vale quanto sostiene MacIntyre, secondo cui l’appello a un verdetto universale pronunciato dal genere umano si rivela la maschera indossata da un appello a coloro che condividono fisiologicamente e socialmente gli atteggiamenti che, a partire dalle evidenze empiriche a nostra disposizione, è universalmente presente negli esseri umani ben funzionanti. “Naturale”, per Lind, ha in Hume un ruolo sia descrittivo sia normativo: quando qualcosa non è naturale, si può sostenere che sia scorretta. A conclusioni in parte simili giunge anche Jessica Spector, Value in Fact: Naturalism and Normativity in Hume’s Moral Psychology, “Journal of the History of Philosophy”, 41 (2003), pp. 145-63. 21 Cfr. Duncan Forbes, Hume’s Philosophical Politics, cit., cap. IV; Richard H. Dees, Hume and the �ontexts of Politics, cit.; Claudia M. Schmidt, David Hume. Reason in History, cit.

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�omunità e natura umana 5

e la Weltanschauung dello stesso Hume. [...] Quello che Hume identifica con il punto di vista della natura umana universale risulta essere in realtà il punto di vista dei pregiudizi dell’élite dominante sotto il regno degli Hannover. La filosofia morale di Hume presuppone la fedeltà a una specie particolare di struttura sociale esattamente come la presuppone quella di Aristotele, ma una fedeltà di un genere fortemente ideologico. Hume fornisce dunque [...] una pezza d’appoggio insoddisfacente a un tentativo di rivendicare l’autorità razionale universale di quella che di fatto è la morale locale di certe parti dell’Europa del nord nel diciottesimo secolo22.

È vero che la concezione della natura umana di Hume appare essere socialmente mobile e variabile. Tuttavia, essa ci consente di comprendere le diversità tra una società e l’altra proprio perché è sempre presente sotto traccia, e risponde sempre ai medesimi principi: virtuoso è ciò che dà immediato piacere o è utile a se stessi o agli altri; vizioso è ciò che dà immediato disagio o è dannoso a se stessi o agli altri. Da una parte, questa concezione presenta una costanza minima che permette di vederla come governata da leggi causali, senza dovere tuttavia tradurre questa costanza in una uniformità sostanziale: la regolarità di queste leggi viene sempre inferita da un’esperienza storica nella quale la natura umana rivela se stessa. D’altro canto, però, ciò non significa che debba essere il frutto dell’applicazione di standard e valori locali, che inficerebbero, inevitabilmente, l’imparzialità di qualsiasi giudizio espresso su se stessi e sugli altri. Si può sostenere che la prospettiva humeana consista in una forma di «contestualismo»23, o di «relativismo sociologico»24, nel senso Alasdair C. MacIntyre, After Virtue, cit., p. 231; tr. it. cit., p. 276. Una tesi che ricorda quella di Flavio Baroncelli, Un inquietante filosofo perbene. Saggio su David Hume, Firenze, La Nuova Italia, 1975, il quale individua nello scetticismo humeano una tensione irrisolta tra l’ambizione di elaborare una scienza in grado di cogliere la natura umana in se stessa e le opinioni profondamente intrise di ideologia dell’illuminista Hume circa «le vere terrene virtù del gentleman» (p. 252). 23 Richard H. Dees, Hume and the �ontexts of Politics, cit. 24 Duncan Forbes, Hume’s Philosophical Politics, cit., cap. IV. 22

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

che insegna a non sperare di poter analizzare in cosa consista la natura umana a prescindere dalla realtà in cui essa si sviluppa – a prescindere, cioè, dalla considerazione che gli esseri umani sono, prima di tutto, individui particolari che agiscono in situazioni specifiche. Ma questo è cosa ben diversa dal relativismo morale, che invece viene apertamente rifiutato. Il principio della simpatia, infatti, colma il divario tra spettatore e agente, realizzando una sorta di «spostamento» o «decentramento» dell’io25 – vale a dire, una correzione del punto di vista sulle persone e sulle cose propria di un osservatore giudizioso – che rende possibile la comprensione, e con essa la valutazione, di individui e popolazioni a noi lontani per usi e costumi. Sicché Hume presenta una spiegazione della natura umana calata nella storia, una storia che è sempre storia di individui con cui si può simpatizzare; mentre l’uniformità della natura umana si propone come un assunto formale di carità ermeneutica che fa sì che nessun essere umano possa venire escluso come irrimediabilmente alieno26: i sentimenti che nascono dal senso di umanità, sono non solo gli stessi in tutti gli uomini, e producono la stessa approvazione e lo stesso biasimo; essi comprendono altresì tutti gli uomini; non c’è alcuno la cui condotta o carattere non sia, con questi mezzi, oggetto di censura o di approvazione da parte di qualcuno. [...] [S]e voi mi descrivete una condotta tirannica, insolente o barbarica, in qualsiasi paese o in qualsiasi epoca voi la collochiate del vasto mondo, io volgo prontamente i miei occhi ai pericoli che possono derivare da tale condotta e provo un sentimento di ripugnanza e di disgusto per essa. Nessun carattere può esser così remoto da diventarmi, sotto questo rispetto, del tutto indifferente. Ambedue le espressioni sono di Alix Cohen, In Defence of Hume’s Historical Method, cit. 26 Sull’idea che l’uniformità della natura umana possa venire letta come un vero e proprio principio ermeneutico di carità che ci permette di comprendere gli altri in quanto partecipi della medesima natura umana cfr. Jennifer A. Herdt, Religion and Faction in Hume’s Moral Philosophy, cit., cap. IV, in particolare pp. 133-43; Alix Cohen, In Defence of Hume’s Historical Method, cit.; S.K. Wertz, Moral Judgements in History: Hume’s Position, “Hume Studies”, 22 (1996), pp. 339-67. 25

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�omunità e natura umana 7

Ciò che giova alla società o alla stessa persona che possiede la qualità deve sempre esser preferito. Ed ogni qualità o azione, di qualsiasi essere umano, deve, con questo mezzo, essere posta in qualche classe o raccolta sotto qualche denominazione, che esprimano un biasimo generale o un generale plauso27.

4. La riflessione etica si pone su un piano che prende l’avvio dalle circostanze, per poi trascenderle; e i giudizi morali aspirano a un’universalità che ricorda quella propria dei giudizi estetici28, per cui si pretende che essi valgano a prescindere dal fatto che sono espressi da una prospettiva situata. Ma, a differenza dei giudizi estetici, quelli morali sono molto meno soggetti al mutamento: per cambiare il nostro giudizio relativo ai costumi e risvegliare i sentimenti di approvazione o biasimo, amore od odio, differenti da quelli a cui il nostro spirito è abituato da lunga consuetudine, ci vuole uno sforzo molto violento. E quando un uomo ha fiducia nella giustezza di quella regola morale mediante la quale giudica, ne è giustamente geloso e non vuole pervertire i sentimenti del suo cuore per un momento di compiacenza verso uno scrittore, qualunque esso sia29.

Questi giudizi appaiono più stabili perché sono la manifestazione di una struttura sentimentale sottostante, il riferimento alla quale permette a Hume di sostenere che alcuni modi in cui gli esseri umani conducono la loro vita sono migliori di altri: ciò che va tenuto presente sono i quattro criteri di utilità e piacevolezza per sé o per gli altri, grazie ai quali è possibile stabilire che cosa fa prosperare la natura umana, dispiegandone le potenzialità, e cosa invece la limita e la soffoca. Alcuni tipi di condotta appaiono essere in contrasto con essi. Un esempio emblematico è dato dalle cosiddette «virtù monacali»:

27 An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. IX, cpv. 7; tr. it. cit., pp. 289-90. 28 Si veda al riguardo Elizabeth Neill, Hume’s Moral Sublime, “British Journal of Aesthetics”, 37 (1997), pp. 246-58. 29 La regola del gusto (1758), in Opere filosofiche, volume III, cit., pp. 238-60.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

poiché ogni qualità che è utile o piacevole a noi stessi o agli altri si ammette nella vita quotidiana che sia una parte del merito che si riconosce ad una persona, così nessun’altra qualità verrà mai accolta laddove l’uomo giudichi delle cose colla sua ragione naturale priva di pregiudizi, all’infuori delle ingannevoli spiegazioni fornite dalla superstizione e dalla falsa religione. Il celibato, il digiuno, la penitenza, la mortificazione, l’abnegazione, l’umiltà, il silenzio, la solitudine e tutto il complesso delle virtù monacali: per quale ragione tutto ciò viene ovunque respinto dagli uomini di buon senso, se non perché non serve a risultati di alcun genere, né fa progredire la fortuna di una persona nel mondo, né la rende un membro più apprezzabile della società, né la fa idonea a divertire una compagnia d’amici, né aumenta la sua capacità di godimento interiore? Osserviamo, al contrario, che le dette qualità sono di ostacolo a tutti questi fini desiderabili; esse infatti rendono ottusa l’intelligenza e induriscono il cuore, oscurano la fantasia e inaspriscono il carattere30.

Abbiamo la possibilità di criticare tipi di comportamento di questo genere perché opprimono una natura umana che, se non fosse costretta da fattori che non le appartengono affatto, ma le vengono imposti, si svilupperebbe in maniera ben diversa31: [q]uando gli uomini si allontanano dalle massime della ragione comune e si danno a queste vite artificiali, [...] nessuno potrà rispondere di quel che piacerà o dispiacerà loro. Essi vivono in un elemento diverso da quello di tutto il resto dell’umanità, e i principi naturali della loro mente non agiscono con la regolarità che avrebbero se lasciati a se stessi, liberi dalle illusioni sia della superstizione religiosa sia del fanatismo filosofico32.

È stato osservato che Hume non avrebbe nei quattro criteri di utilità e piacevolezza per sé e per gli altri strumenti efficaci 30

286.

An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. IX, cpv. 3; tr. it. cit., p.

31 Una tesi che viene difesa sia da Jennifer A. Herdt, Religion and Faction in Hume’s Moral Philosophy, cit., sia da Donald T. Siebert, The Moral Animus of David Hume, Newark, University of Delaware Press, London and Toronto, Associated University Presses, 1990. 32 An Enquiry concerning the Principles of Morals, A Dialogue, cpv. 57; tr. it. cit., p. 362.

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�omunità e natura umana 

per disapprovare le virtù monacali33. Il modello di condotta che esse rappresentano ha senz’altro costituito, per lunghi periodi nella storia del genere umano, una possibilità reale di esistenza. Non si tratterebbe, pertanto, di uno dei molteplici modi in cui la natura umana può svolgersi, né migliore né peggiore di altri? Non è così: proprio nella misura in cui l’analisi humeana concepisce la natura umana come una costante sempre storicamente determinata, si è in grado di biasimare la prospettiva delle virtù monacali. Che è fonte di vizio in quanto si rivela artefatta: si tratta di un ideale di vita fatto valere intenzionalmente, agendo, in modo surrettizio, su particolari tratti della natura umana quali la paura, la superstizione o l’entusiasmo, in nome di credenze religiose che, per Hume, nascondono, in maniere più o meno consapevoli, forme di esercizio del potere34. Perché ci si possa piegare ai dettami delle virtù monacali è necessaria una buona dose di coercizione esterna. Ciò può avvenire anche grazie a una disciplina autoimposta, sforzandosi costantemente di conformarsi a un simile modello di condotta – un appello a uno sforzo che si confà meglio a un ideale kantiano di vita virtuosa, così incentrato sull’idea di obbligo, piuttosto che a uno humeano. Si tratta di virtù che possono essere esercitate solo attraverso una solitudine forzata, impedendo che possa aversi un confronto, nobilitando una serie di qualità che si riveleranno essere ben presto dei difetti, una volta che si metta in atto uno scambio libero con gli altri esseri umani: [g]iustamente, dunque, noi trasportiamo queste qualità nella colonna opposta e le collochiamo nel catalogo dei vizi. Né alcuna superstizione ha forza bastante fra gli uomini del mondo per

Una critica di questo tipo viene formulata, per esempio, da Rosalind Hursthouse, Virtue Ethics and Human Nature, “Hume Studies”, 25 (1999), pp. 67-82. 34 Per una chiara esposizione di queste tesi da parte di Hume si vedano La superstizione e l’entusiasmo (1741), in Opere filosofiche, volume III, cit., pp. 77-85 e Storia naturale della religione (1757), tr. it. di Umberto Forti e Paolo Casini, Roma-Bari, Laterza, 1994. 33

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

giungere a pervertire interamente questi sentimenti naturali. Un malinconico e scervellato fanatico, dopo la morte, può trovare un posto nel calendario; ma, da vivo, non sarà mai accolto nell’intimità e nella compagnia se non di coloro che sono pazzi e malinconici come lui35.

5. La natura umana non va tenuta a freno facendo appello a costrutti teorici astratti che ne regolino lo svolgimento, bensì va assecondata mettendola alla prova sul campo, così da ricavare modelli di condotta moralmente virtuosi. E la valutazione morale si configura senz’altro come «una pratica sociale», ma «nella quale, idealmente, partecipano tutti»36. Il “noi” che si interroga riflessivamente su se stesso, e sul fondamento della moralità, non collima con la comunità di appartenenza, ma corrisponde al genere umano nel suo complesso, come si palesa nel corso della storia. Una storia umana che è inevitabilmente contingente, ma che vale a tutti gli effetti, sebbene priva di qualsiasi fondazione esterna, come punto di riferimento per l’elaborazione dei nostri giudizi morali. In questo senso, coloro che si rivelano come i più affidabili nella formulazione di questi giudizi sono quelli che Hume chiama «buoni critici», i quali possiedono le qualità adatte perché la loro opinione sia innalzata a criterio di una valutazione competente per quel che riguarda i problemi dell’etica. Buon critico è colui che mostra di possedere una squisitezza del gusto, acquisita grazie a una pratica assidua con gli oggetti che deve giudicare, una pratica che si esplica attraverso confronti tra questi oggetti, condotta con buon senso, cercando, nei limiti del possibile, di non restare vittima del pregiudizio. Il buon critico, dunque, è qualcuno che vive in una realtà specifica, dall’interno della quale è capace di esprimere valutazioni affidabili perché è capace di orientarsi in essa. Ma è anche capace di superarla: partendo dalle idee di An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. IX, cpv. 3; tr. it. cit., pp. 286-87. 36 Jacqueline Taylor, Virtue and the Evaluation of �haracter, in The Blackwell Guide to Hume’s Treatise, cit., pp. 276-95; la citazione è a p. 292. 35

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�omunità e natura umana 1

virtù e di vizio che sono presenti nella realtà in cui si trova a vivere, utilizzando non tanto la sua ragione quanto la sua immaginazione, è capace di riflettere sui modi in cui la natura umana si palesa, e di considerare se effettivamente si sviluppa secondo i quattro criteri che permettono di riconoscere ciò che per essa è buono o cattivo. Il buon critico è in grado, così, di pensare a condizioni differenti e a situazioni nuove in cui la natura umana può compiersi favorevolmente, piuttosto che appassire e quindi morire37. Questo esercizio dell’immaginazione non si svolge in privato, ma si realizza dialogicamente, in uno scambio che i critici – i quali non sono altro che esseri umani come tutti gli altri, soltanto maggiormente attenti e disponibili nei confronti di argomenti specificatamente morali – instaurano tra loro38. Da questo dibattito emergono quei punti di vista generali che permettono di esprimere un verdetto conclusivo in etica. Un verdetto conclusivo che in verità non è affatto tale, poiché viene dato, di volta in volta, da un punto di vista che si sviluppa nel tempo, si amplia grazie alle passate esperienze e ai passati errori che gli esseri umani hanno commesso, fa tesoro delle risposte che sono state fornite in circostanze simili, si raffina in seguito ai risultati che il dialogo ha ottenuto e otterrà sui sentimenti che li muovono Hume parla delle qualità del buon critico soprattutto ne La regola del gusto, cit. Saggio fondamentale per la comprensione dell’estetica humeana e della sua relazione con l’etica, è stato l’oggetto di molti studi. Si considerino, a titolo di esempio, Peter Jones, Hume’s Sentiments. Their �iceronian and French �ontext, cit., cap. III; Id., Another Look at Hume’s Views of Aesthetic and Moral Judgments, “Philosophical Quarterly”, 20 (1970), pp. 53-62. Gabriele Taylor discute l’interpretazione di Jones in Hume’s Views of Moral Judgements, in David Hume, �ritical Assessments, IV: Ethics, Passions, Sympathy, “Is” and “Ought”, cit., pp. 110-15. Cfr. quindi Peter Kivy, Hume’s Standard of Taste: Breaking the �ircle, “British Journal of Aesthetics”, 7 (1967), pp. 57-66; Giancarlo Carabelli, La botte di Sancho, in Id., Intorno a Hume, Milano, Il Saggiatore, 1992, pp. 3-43; Dabney Townsend, Hume’s Aesthetic Theory. Taste and Sentiment, London-New York, Routledge, 2001, soprattutto il cap. VI. 38 Si veda Annette C. Baier, Moral Sentiments, and the Difference They Make, cit. 37

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

e sulla simpatia che li accomuna. Può così aversi un progresso morale che produce una normatività in fieri: quanto più il punto di vista dell’etica si allarga e si arricchisce, tanto più si allarga e si arricchisce la sua portata normativa. Nuovamente, la prospettiva humeana si dimostra ben lontana da quel conservatorismo morale di cui, così spesso, viene accusata; al contrario, la moralità si palesa come un «tour» nei sentimenti umani39, come una forza attiva, sempre passibile di revisione e di miglioramento, prodotto della riflessione collettiva e sociale che gli esseri umani elaborano progressivamente nel corso della loro storia40.

39 A esprimersi in questi termini è Annette C. Baier, Extending the Limits of Moral Theory, “The Journal of Philosophy”, 83 (1986), pp. 538-45. 40 Una tesi che è alla base dell’interpretazione che Baier dà di Hume – basti pensare a come recita il titolo del suo testo più importante: A Progress of Sentiments – e che è stata fatta propria da molti. Per esempio, Jacqueline Taylor, Hume on the Standard of Virtue, cit., p. 62, parla di «un processo dinamico di negoziazione sociale, in cui facciamo uso dell’idioma del sentimento morale per costruire, confermare, contestare, e così via, le nostre nozioni di caratteri ideali, decenti e immorali». Di Taylor si veda anche Humean Humanity versus Hate, in The Practice of Virtue. �lassic and �ontemporary Readings in Virtue Ethics, a cura di Jennifer Welchman, Indianapolis-Cambridge, Hackett Publishing Company, Inc., 2006, pp. 182-203. Michael B. Gill, The British Moralists on Human Nature and the Birth of Secular Ethics, Cambridge, Cambridge University Press, 2006, cap. XVIII, ritiene che la novità di Hume – rispetto a pensatori come Mandeville, Shaftesbury e Hutcheson – sia di aver elaborato una concezione della natura umana «dinamica o progressiva», in grado di rendere conto dello sviluppo della moralità. Al riguardo, di Gill si veda inoltre Hume’s Progressive View of Human Nature, “Hume Studies”, 26 (2000), pp. 87-108. James T. King, Hume on Artificial Lives with a Rejoinder to A.�. MacIntyre, “Hume Studies”, 14 (1988), pp. 53-92, individua nella progressività della concezione della natura umana di Hume un’ulteriore differenza rispetto ai «sistemi artificiali» come quello rappresentato dalle virtù monacali, i quali sono contraddistinti da una concezione della natura umana statica e definitiva, che rifiuta in partenza la possibilità di una qualsiasi correzione grazie all’esperienza e al ragionamento. Come King, anche Annette C. Baier, �ivilizing Practices, cit., argomenta a favore di questa progressività contrapponendola alle virtù monacali, e passando per una critica dell’interpretazione che di Hume dà MacIntyre.

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XVII Un’etica delle virtù humeana

1. I buoni critici sono coloro in grado di indicare quali piaceri e quali dolori possono essere innalzati al rango di virtù e di vizi morali. E stilare un «catalogo» di virtù e di vizi, secondo Hume, è il compito che bisogna porsi se si pretende di riflettere sull’etica1. Non si tratta di darsi delle leggi, o di stabilire che cosa si deve o non si deve fare, bensì di osservare in che modo la natura umana può prosperare al meglio: l’etica humeana non ha niente a che vedere con le istanze legalistiche riscontrabili in impostazioni, pur molto diverse tra loro, come quella giusnaturalistica, kantiana, o utilitaristica, ma si presenta, a tutti gli effetti, come quella che oggi viene definita un’etica delle virtù2. 1 Si veda An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. I, cpv. 10; tr. it. cit., p. 184. 2 A presentare esplicitamente quella humeana come una versione dell’etica delle virtù sono Annette C. Baier, �ivilizing Practices, cit., e Jacqueline Taylor, Virtue and the Evaluation of �haracter, cit. Cfr. anche Marcia L. Homiak, sia Does Hume Have an Ethics of Virtue? Observations on �haracter and Reasoning in Hume and Aristotle, in The Proceedings of the Twentieth World �ongress of Philosophy. Vol. VII: Modern Philosophy, a cura di Mark D. Gedney, Bowling Green, Philosophy Doc. Center, 2000, pp. 191-200, sia Hume’s Ethics: Ancient or Modern?, “Pacific Philosophical Quarterly”, 81 (2000), pp. 215-36; Alessio Vaccari, Virtù e sentimenti morali in Hume, “Iride”, 19 (2006), pp. 331-41. Per un inquadramento più generale della moderna etica delle virtù, cfr. Greg Pence, Virtue Theory, in A �ompanion to Ethics, cit., pp. 249-58; Michele Mangini, L’etica delle virtù e i suoi critici, in L’etica delle virtù e i suoi critici, a cura di Michele Mangini, Napoli,

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

Le caratteristiche che contraddistinguono l’io morale humeano, emerse nel corso di questo lavoro, inducono ad abbracciare un’interpretazione di questo genere. Il fatto che l’io morale venga pensato come il punto di partenza di qualsiasi riflessione sulla natura e gli scopi della moralità; l’attenzione per i motivi piuttosto che per le azioni come oggetto di valutazione morale, e quindi l’idea che questi motivi vadano ricondotti al carattere degli individui, che ci permette di inquadrarli come soggetti morali virtuosi o viziosi; la convinzione che il carattere possa essere definito solo facendo riferimento a una psicologia morale articolata, in cui si fa appello alla dimensione sentimentale piuttosto che alla razionalità, sia essa definita in termini solo strumentali, oppure in un senso normativamente caricato, alla maniera dei kantiani; la consapevolezza che la sfera dell’etica copre un ambito che va ben al di là di ciò che ricade sotto la volontà degli agenti: sono tutti aspetti dell’approccio humeano che lo allontanano da un’immagine dell’etica come impresa volta a stabilire una teoria organizzata secondo un sistema rigido di principi, rendendolo, La città del sole, 1996, pp. 9-40; Michael Slote, Virtue Ethics, in The Blackwell Guide to Ethical Theory, a cura di Hugh LaFollette, Oxford, Blackwell, 2000, pp. 325-47; Roger Crisp e Michael Slote, Introduction, in Virtue Ethics, a cura di Roger Crisp e Michael Slote, Oxford-New York, Oxford University Press, 1997, pp. 1-25; Daniel Statman, Introduction, in Virtue Ethics. A �ritical Reader, a cura di Daniel Statman, Edinburgh, Edinburgh University Press, 1997, pp. 1-41; Lorenzo Greco, Alcune osservazioni sull’etica contemporanea delle virtù, “Iride”, 19 (2006), pp. 291-301. Per un confronto tra l’etica delle virtù e gli altri “metodi” che si contrappongono nel dibattito morale contemporaneo si veda Michael Slote, Virtue Ethics, in Marcia W. Baron, Philip Pettit, Michael Slote, Three Methods of Ethics, cit., e le Replies che gli autori si rivolgono l’un l’altro. Per un esame delle differenze tra le teorie morali contemporanee e l’etica delle virtù, nelle formulazioni che essa ha avuto nella Grecia classica e nell’Ellenismo, si veda Julia Annas, The Morality of Happiness, Oxford-New York, Oxford University Press, 1993; tr. it. di Matteo Andolfo con il titolo La morale della felicità in Aristotele e nei filosofi dell’età ellenistica, Milano, Vita e Pensiero, 1997, e Christoph Horn, Antike Lebenskunst: Glück und Moral von Sokrates bis zu den Neuplatoniken, München, Verlag C.H. Beck, 1998; tr. it. di Francesca Longo e Francesco Dipalo con il titolo L’arte della vita nell’antichità. Felicità e morale da Socrate ai neoplatonici, a cura di Emidio Spinelli, Roma, Carocci, 2004.

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Un’etica delle virtù humeana 5

invece, più simile a una «tecnica per la cura del sé», o a «un’arte della vita»3. Anche Hume, cioè, sarebbe più interessato a rispondere alla domanda centrale dell’etica delle virtù: “che tipo di persona devo essere?” – che, a sua volta, è una precisazione della domanda più generale: “come si deve vivere?” –, piuttosto che a quella che contraddistingue le teorie morali moderne kantiana e utilitaristica: “che cosa si deve fare?”. Ammesso che l’etica delle virtù rappresenti un paradigma a sé stante nel panorama delle teorie morali odierne4, sembrerebbe, allora, che Hume vada considerato uno dei grandi rappresentanti di una tradizione di pensiero che, entrata in crisi con la Cristianità, ha riguadagnato legittimità solo ora5. 2. Tuttavia, anche in questo caso, bisogna essere cauti: la versione humeana dell’etica delle virtù si pone come un caso unico nel panorama di coloro che recuperano la nozione di virtù, e si differenzia nettamente dalle alternative per aspetti importanti. L’etica delle virtù contemporanea non ha in Hume il suo punto di riferimento, ma soprattutto – anche se non esclusivamente6 – in Aristotele. Essa si presenta come un’etica eudaimonistica, dove la nozione di bene non è definibile a prescindere dalla felicità degli individui. D’altra parte, non è possibile rendere conto di una nozione come quella di felicità se prima non si è 3 Sulle nozioni di «tecnica per la cura del sé» e di «arte della vita», si veda Christoph Horn, L’arte della vita nell’antichità, cit. 4 A esprimere dubbi al riguardo è, ad esempio, Martha C. Nussbaum, Virtue Ethics: a Misleading �ategory?, “The Journal of Ethics”, 3 (1999), pp. 163-201. 5 Si veda al proposito Jerome B. Schneewind, The Misfortunes of Virtue, “Ethics”, 101 (1990), pp. 42-63. 6 Si consideri ad esempio il caso di Christine Swanton, Virtue Ethics. A Pluralistic View, Oxford-New York, Oxford University Press, 2003, che elabora un’etica delle virtù che si rifà a Nietzsche. Della stessa autrice si veda anche Nietzschean Virtue Ethics, in Virtue Ethics. Old and New, cit., pp. 179-92. Julia Driver, Uneasy Virtue, Cambridge, Cambridge University Press, 2001, presenta invece un’etica delle virtù consequenzialista. Driver mette a confronto le proprie tesi con Hume in Ead., Pleasure as the Standard of Virtue in Hume’s Moral Philosophy, “Pacific Philosophical Quarterly”, 85 (2004), pp. 173-94.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

data una spiegazione soddisfacente di ciò in cui consiste una vita buona. L’etica delle virtù neoaristotelica ha risposto a questa domanda in termini di «fioritura umana»7: una vita buona è una vita virtuosa, in cui un essere umano svolge appieno le proprie capacità, attuando in tutte le sue potenzialità le proprie funzioni. Un agente virtuoso è colui che esercita le virtù; mentre le virtù sono tratti del carattere di cui un essere umano ha bisogno per fiorire o vivere bene. L’opinione dei neoaristotelici riguardo a ciò in cui effettivamente consista una vita buona è discordante. Essa viene generalmente definita in maniera teleologica, in quanto si fa riferimento a un fine proprio degli esseri umani. Tuttavia, questo télos è stato descritto, di volta in volta, in maniere tali da giustificare posizioni spesso contrapposte tra loro. Se alcuni autori – ad esempio MacIntyre – lo hanno fatto corrispondere al rispetto di pratiche locali, altri hanno cercato di fare leva sulla nozione di fine per difendere una forma universalistica di aristotelismo – è il caso di Martha C. Nussbaum8. Altri ancora – come Rosalind Hursthouse e Philippa Foot9 – hanno seguito una via naturalistica, per cui i

7 Il termine ricalca l’espressione inglese human flourishing. Introdotto da G.E.M. Anscombe, Modern Moral Philosophy, “Philosophy”, 33 (1958), pp. 1-19, ristampato in Ead., The �ollected Philosophical Papers of G.E.M. Anscombe, vol. III, Ethics, Religion and Politics, Oxford, Basil Blackwell, 1981, pp. 26-42, per tradurre l’aristotelico eudaimonia, è oggi di uso corrente nel vocabolario dell’etica delle virtù. 8 Si considerino, ad esempio, Non-Relative Virtues: an Aristotelian Approach, in The Quality of Life, a cura di Martha C. Nussbaum e Amartya Sen, Oxford, Clarendon Press, 1993, pp. 242-69, tr. it. di Michele Mangini con il titolo Virtù non-relative: un approccio aristotelico, in L’etica delle virtù e i suoi critici, cit., pp. 167-209, e Aristotle on Human Nature and the Foundations of Ethics, in World, Mind, and Ethics. Essays on the Ethical Philosophy of Bernard Williams Williams, cit., pp. 86-131. Di Nussbaum si tenga presente anche la raccolta di saggi �apacità personale e democrazia sociale, Reggio Emilia, Diabasis, 2003. 9 Rosalind Hursthouse, On Virtue Ethics, Oxford-New York, Oxford University Press, 1999; Philippa Foot, Natural Goodness, Oxford, Clarendon Press, 2001; tr. it. di Elisabetta Lalumera con il titolo La natura del bene, Bologna, Il Mulino, 2007. Si veda anche Michael Thompson, The Representation of Life, in Virtues and Reasons. Philippa Foot and Moral Theory, cit., pp. 247-96.

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Un’etica delle virtù humeana 7

giudizi morali su azioni e disposizioni umane sono valutazioni irrimediabilmente dipendenti dal fatto che il loro oggetto è una cosa vivente, con una storia naturale che ne specifica le condizioni di completo sviluppo. Al contrario, l’empirismo di Hume lo porta a respingere qualsiasi riferimento a cause finali: a suo avviso, non c’è nessun fine intrinseco alla natura umana10. Che è solo un’ipotesi teorica ricavabile dall’osservazione dei fatti umani; e se è lecito parlare di fine, esso si dà unicamente al plurale: ci sono fini di persone specifiche, non un singolo fine che contraddistinguerebbe il genere umano in quanto tale. Un rifiuto delle cause finali che è una delle ragioni per cui un’impostazione humeana non è esposta all’accusa di relativismo; accusa che invece rischia di andare a segno se rivolta ai sostenitori del finalismo. Infatti, laddove nel caso di Hume qualsiasi conclusione circa la felicità degli esseri umani è rigorosamente a posteriori, coloro che alludono alla nozione di fine fanno appello a una eudaimonia il cui statuto, invece, è presupposto: esso corrisponde alla perfetta realizzazione dell’uomo in quanto tale. Sennonché, quando si tratta di stabilire in che cosa consista, in effetti, questo fine, esso o si risolve in una tautologia, oppure viene relativizzato secondo una scala di valori particolare e nient’affatto ideale. Come diviene manifesto nel caso dei comunitaristi, i quali possono essere letti come una versione “politica” dell’etica delle virtù: dovendo precisare il modello esemplare di vita buona per gli esseri umani – «la vita buona per l’uomo è la vita consacrata alla ricerca della vita buona per l’uomo», come si esprime MacIntyre –, lo individuano nell’adesione alle molteplici tradizioni delle comunità di appartenenza11.

Ciò emerge chiaramente dalla contrapposizione tra Hutcheson e Hume, come è spiegato da Eugenio Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., cap. I, sez. 3. Sul rifiuto di una natura umana definita nei termini di un’essenza, una funzione o un fine che ne qualifichi la virtù o l’eccellenza, si vedano Jane L. McIntyre, �haracter: A Humean Account, cit., e Pauline Chazan, Pride, Virtue and Self-Hood: A Reconstruction of Hume, cit. 11 Alasdair C. MacIntyre, After Virtue, cit., p. 219; tr. it. cit., p. 262. 10

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

3. Ciò che avvicina i vari approcci neoaristotelici è la centralità che viene riconosciuta al phronimos, ossia a colui che è dotato della saggezza pratica che gli permette di agire nella maniera eticamente appropriata. La sua caratteristica principale consiste nella capacità di afferrare gli elementi eticamente salienti di differenti situazioni particolari in modo diretto: egli non agisce adeguatamente facendo riferimento a regole da applicare, per così dire, “dall’alto”, bensì è in grado di individuare la rilevanza morale di una determinata situazione “dal basso”, poiché possiede l’esperienza grazie alla quale distinguere ciò che è bene senza avere bisogno della mediazione di leggi o norme generali. Il phronimos padroneggia ed esercita tutte le virtù, realizzando in se stesso quell’unità delle virtù che ne fa l’ideale di agente virtuoso12. Con la sua condotta virtuosa rappresenta il modello per determinare quali azioni sono giuste e quali sbagliate: una azione è giusta se e solo se è ciò che tipicamente un agente virtuoso compirebbe, date le circostanze13. Potrebbe sembrare di trovarsi di fronte a qualcosa di simile al buon critico humeano; tuttavia, le cose stanno diversamente. In primo luogo, alcuni intendono la capacità del phronimos di riconoscere gli aspetti eticamente rilevanti della realtà in cui vive come una vera e propria forma di percezione morale, come una sensibilità che distingue chi è capace di ragionare in modo moralmente corretto14. Ci si trova, in questi casi, di fronte a soluzioni 12 A sostegno della tesi dell’unità delle virtù cfr. Philippa Foot, Virtues and Vices, in Virtues and Vices and Other Essays in Moral Philosophy, cit., pp. 1-18; John McDowell, Virtue and Reason, in Id., Mind, Value, and Reality, Cambridge, Mass.-London, Harvard University Press, 1998, pp. 50-73; Rosalind Hursthouse, On Virtue Ethics, cit., in particolare pp. 153-57. 13 Questa definizione è di Rosalind Hursthouse, On Virtue Ethics, cit., p. 28. Di Hursthouse si vedano anche Virtue Theory and Abortion, “Philosophy and Public Affairs”, 20 (1991), pp. 223-46 e Normative Virtue Ethics, in How Should One Live? Essays on the Virtues Virtues, cit., pp. 19-36. 14 Lo sostengono le “teorie della sensibilità” di John McDowell e David Wiggins. Di McDowell, cfr. Virtue and Reason, cit.; Values and Secondary Qualities, in Id., Mind, Value, and Reality, cit., pp. 131-50; Projection and Truth in Ethics, ivi, pp. 151-66; Non-�ognitivism and Rule Following, ivi, pp. 198-218; tr. it. di

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Un’etica delle virtù humeana 

teoriche che avvicinano alla filosofia di Aristotele il pensiero di Ludwig Wittgenstein. Il richiamo a una sensibilità prettamente morale sarebbe possibile perché, da questa prospettiva, l’etica non viene concepita come un ambito a sé stante, bisognoso di una fondazione indipendente: coloro che condividono una data forma di vita sarebbero in grado di concepire il mondo come eticamente contrassegnato fin dal principio, per cui non avrebbe senso distinguere in esso tra fatti e valori, poiché questi ultimi non si darebbero slegati dai primi. Secondo questo modello, l’agente virtuoso sarebbe guidato da una razionalità pratica corrispondente a una forma di conoscenza, in cui l’aspetto intellettuale e quello sentimentale partecipano ambedue alla composizione della sua razionalità pratica. Si tratterebbe di un «intelletto che desidera, o desiderio che ragiona»15 – dove l’importanza del momento intellettuale viene accentuata con forza dai sostenitori delle virtù che si rifanno all’impostazione classica, proprio in contrasto con una possibile lettura solo affettiva delle virtù, in un senso humeano16 –, grazie al quale l’agente virtuoso sceglie correttamente, essendo in grado non solo di sapere ciò che è giusto fare, ma anche di essere motivato nella maniera appropriata. Un simile modello non vede una frattura tra le credenze circa quello che va fatto e i desideri che spingono ad agire, ma concepisce la razionalità pratica come un superamento di quella distinzione tra credenze e desideri che ha contraddistinto la gran parte della riflessione morale di stampo analitico.

Piergiorgio Donatelli con il titolo Il non cognitivismo e la questione del “seguire una regola”, in Etica analitica. Analisi, teorie, applicazioni, cit., pp. 159-82. Di David Wiggins si vedano Truth, Invention and the Meaning of Life e A Sensible SubjecValue tivism? ambedue in Id., Needs, Values, Truth. Essays in the Philosophy of Value, Oxford, Clarendon Press, Oxford, 1998, pp. 87-137 e pp. 185-214. Si veda anche Lawrence A. Blum, Moral Perception and Particularity, in Id., Moral Perception and Particularity, Cambridge, Cambridge University Press, 1994, pp. 30-61. 15 Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 2, 1139b. 16 Si veda Julia Annas, The Morality of Happiness, cit., pp. 48-49; tr. it. cit., p. 79. Di Annas si consideri anche Virtue Ethics, in The Oxford Handbook of Ethical Theory, cit., pp. 515-36.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

C’è invece ragione di credere che la persona virtuosa, come la concepisce Hume, non reagisca alle caratteristiche morali come se fossero proprietà appartenenti alla situazione, in attesa di essere colte. È vero che neanche in Hume si riscontra una distinzione netta tra fatti e valori – se si vuole dare a questa distinzione, come è stato fatto nel ventesimo secolo, il senso di un’autentica impossibilità logica, esemplificata dalla cosiddetta “legge di Hume”, di passare dal piano di ciò che è a quello di ciò che deve essere17. Ma, non di meno, Hume si differenzia nettamente dai neoaristotelici quando sostiene che «la moralità non consiste in nessun dato di fatto che si possa scoprire con l’intelletto»18. La dimensione dei valori può ben essere detta «un dato di fatto, ma oggetto del sentimento, non della ragione. Esso si trova in voi, non nell’oggetto»19. E i valori si comportano in una maniera che ricorda le qualità secondarie: «[i]l vizio e la virtù possono, perciò, essere paragonati ai suoni, ai colori, al caldo e al freddo che, secondo la filosofia moderna, non sono qualità degli oggetti, ma percezioni della mente»20. Questa analogia con le qualità secondarie non va però spinta troppo avanti, intendendo con qualità secondarie – alla maniera di Locke – quei poteri che gli oggetti hanno di far sorgere certe percezioni nella mente degli

17 Secondo Capaldi, The Dogmatic Slumber of Hume Scholarship, cit., che Hume sia il fautore dell’omonima “legge” è uno dei tanti fraintendimenti propri di una certa filosofia analitica di stampo neopositivista. Come argomenta con efficacia Alasdair C. MacIntyre, Hume on “Is” and “Ought”, cit., questo fraintendimento sarebbe dovuto al desiderio di garantire l’autonomia dell’etica, prodotto di una visione teorica che ha radici kantiane e non humeane, e che buona parte della filosofia morale novecentesca di lingua inglese avrebbe fatto propria, e quindi innalzato a canone per poter distinguere che cosa rientra nella sfera dell’etica e cosa no. Per una discussione circa la possibilità o meno di attribuire la “legge di Hume” a Hume medesimo, si veda Eugenio Lecaldano, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, cit., cap. IV, § 2. Per uno studio approfondito della “legge di Hume”, si veda Bruno Celano, Dialettica della giustificazione pratica. Saggio sulla legge di Hume, Torino, Giappichelli, 1994. 18 Treatise, libro III, parte I, sez. 1, p. 468, cpv. 26; tr. it. cit., p. 495. 19 Treatise, libro III, parte I, sez. 1, p. 469, cpv. 26; tr. it. cit., p. 496. 20 Treatise, libro III, parte I, sez. 1, p. 469, cpv. 26; tr. it. cit., p. 496.

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Un’etica delle virtù humeana 41

esseri umani21. La dimensione dei valori è piuttosto una funzione della configurazione sentimentale del genere umano, che non necessita di un aggancio con qualcosa di esterno da percepirsi per poter essere attestata: «è proprio in questo sentire che risiede la nostra lode e la nostra ammirazione. Noi non andiamo oltre: non andiamo a cercare la causa della soddisfazione. Non inferiamo che una qualità sia virtuosa perché ci piace: ma nel sentire che ci piace in un certo modo particolare, sentiamo che in effetti è virtuosa»22. La dimensione dei valori, pertanto, è il risultato di «una nuova creazione», che gli esseri umani attribuiscono al mondo grazie a quella «capacità produttiva» che è il loro gusto morale23. Hume non individua virtù e vizio nelle cose, ma negli agenti che provano determinati sentimenti: la persona virtuosa humeana procede in maniera moralmente corretta non perché è in grado di “vedere”, per così dire, il giusto modo di comportarsi, ma perché è in grado di sentire correttamente – dove la correttezza viene garantita dal punto di vista fermo e generale per tramite della simpatia, e non dall’accordo con qualità di alcun tipo24 –, e dunque di dirigersi secondo quella passione calma che ha come suo oggetto la virtù. 21 Sulla definizione lockeana di qualità secondarie come poteri, si vedano John L. Mackie, Problems from Locke, cit., cap. I e E.J. Lowe, Locke on Human Understanding, cit., pp. 47-53. 22 Treatise, libro III, parte I, sez. 2, p. 471, cpv. 3; tr. it. cit., p. 498. 23 An Enquiry concerning the Principles of Morals, appendice I, cpv. 21; tr. it. cit., p. 310. 24 In questo senso, come argomenta Michael B. Gill, The British Moralists on Human Nature and the Birth of Secular Ethics, cit., cap. XIX, Hume è sì un moral sentimentalist, ma non un moral sense theorist. Vale a dire, il giudizio morale non dipende da uno specifico senso morale istintivo, ma è il prodotto del confronto simpatetico dei sentimenti degli individui in circostanze contingenti. Della stessa opinione è anche Jacqueline Taylor, Hume and the Standard of Virtue, cit. Per questo motivo il riferimento alle qualità secondarie, secondo Gill, laddove è senz’altro sensato per un filosofo fautore del senso morale come Hutcheson, è invece fuorviante in Hume. Tuttavia, è opportuno ricordare che è oggetto di discussione se, e in che misura, sia corretto nel caso di Hume il riferimento alle qualità secondarie in etica. Senza entrare nel merito, tra coloro che ritengono che lo sia, cfr. David Fate Norton, David Hume: �ommon Sense Moralist, Sceptical

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

4. In secondo luogo, presentandosi come colui che incarna l’unità delle virtù, il phronimos esemplifica l’ideale di agente virtuoso, e il suo carattere si offre come modello di eccellenza umana. La convinzione che si dia un ideale di agente virtuoso è un’altra importante differenza tra l’etica delle virtù di stampo aristotelico e quella humeana. Quest’ultima è stata oggetto di critiche da parte neoaristotelica25, in quanto, facendo appello ai quattro criteri del piacevole a sé e agli altri e dell’utile a sé e agli altri per determinare quali tratti del carattere vadano moralmente apprezzati e quali no, non riuscirebbe a garantire un’unica unità di misura per determinare il vizio e la virtù. Si finirebbe con l’approvare troppi tratti del carattere, con la conseguenza di avere esiti contraddittori, in quanto si potrebbero constatare differenti virtù e vizi insieme nella medesima persona. Tuttavia, ci si trova di fronte a un’obiezione solo se si dà per assodato, come fanno i neoaristotelici, ciò che per gli humeani va ancora dimostrato: per questi non è affatto ovvio che si dia qualcuno che mostri di possedere tutte le virtù contemporaneamente e ordinate in modo armonico, né tanto meno che questo qualcuno offra un esempio di perfezione umana nella maniera in cui viene intesa dai neoaristotelici. Non è necessario indicare un criterio dato in partenza del Metaphysician, cit., capp. II e III; A.E. Pitson, Projectionism, Realism, and Hume’s Moral Sense Theory, “Hume Studies”, 15 (1989), pp. 61-92; Kenneth P. Winkler, Hutcheson and Hume on the �olor of Virtue, “Hume Studies”, 22 (1996), pp. 3-22; Daniel Shaw, Reason and Feeling in Hume’s Action Theory and Moral Philosophy. Hume’s Reasonable Passion, cit., cap. IV. Tra coloro che invece pensano che non lo sia, cfr. Barry Stroud, Hume, cit., cap. VIII; Id., “Gilding or Staining” the World with “Sentiments” and “Phantasms”, “Hume Studies”, 19 (1993), pp. 253-72; Simon Blackburn, Hume on the Mezzanine Level, “Hume Studies”, 19 (1993), pp. 273-88; James Moore, Hume and Hutcheson, in Hume and Hume’s �onnexions, cit., pp. 23-57. Per un esame del dibattito contemporaneo sul ruolo delle qualità secondarie in etica, si veda Alessio Vaccari, �olori e valori: le qualità secondarie fra conoscenza e morale, di prossima pubblicazione su “Rivista di filosofia”, 2008. Si consideri infine Peter J.E. Kail, Projection and Realism in Hume’s Philosophy, Oxford-New York, Oxford University Press, 2007, parte III. 25 Si veda Rosalind Hursthouse, Virtue Ethics and Human Nature, cit.

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Un’etica delle virtù humeana 4

buono e del giusto che garantisca l’unità delle virtù: il buono e il giusto possono essere stabiliti rifacendosi al punto di vista fermo e generale; che non è, a sua volta, il prodotto della vera essenza della natura umana, ma l’effetto delle relazioni simpatetiche tra gli esseri umani26. Il risultato è un’etica pluralista attenta all’unità del carattere piuttosto che a quella delle virtù27: essa non idealizza un agente virtuoso – un modello di perfezione che, di fatto, come avviene per l’osservatore ideale, non viene mai soddisfatto da nessuno di reale –, ma si preoccupa della formazione morale di persone concrete, attraverso il conseguimento da parte loro di un carattere virtuoso. Se è lecito leggere l’etica humeana in un senso perfezionista, è più opportuno concepire il perfezionismo non come un approssimarsi a un ideale di natura umana metafisicamente inteso e finalisticamente determinato, ma come una maturazione individuale, in un continuo sviluppo verso una realizzazione di se stessi la più ricca possibile. Sono i singoli individui a contare, i quali possiedono caratteri che presentano virtù, ma anche vizi. Non si dà un problema di coerenza tra le virtù: esso si pone solo se si decide di abbracciare una concezione “assoluta” come quella neoaristotelica. Dall’ottica a posteriori dell’etica humeana, è ammissibile l’esistenza di persone il cui carattere è un insieme di tratti che risultano virtù se osservate dal punto di vista fermo e generale, ma anche di altri tratti che invece si rivelano essere vizi: ciò che conta è il carattere nella sua totalità, non le sue singole parti prese separatamente. È anche per questo, tra l’altro, che Hume respinge le virtù monacali. È stato notato che il suo rifiuto, in realtà, non è altro che un pregiudizio anticlericale28: alcuni dei tratti caratteriali dei 26 A sostenere che l’etica delle virtù humeana evita la nozione di unità delle virtù sono, ad esempio, Jacqueline Taylor, Hume on the Standard of Taste, cit. e Donald C. Ainslie, �haracter Traits and the Humean Approach to Ethics, cit. 27 Sull’idea che l’etica di Hume si contraddistingua come una forma di pluralismo si vedano James T. King, Hume on Artificial Lives with a Rejoinder to A.�. MacIntyre, cit. e Kate Abramson, Hume on �ultural �onflicts of Values, “Philosophical Studies”, 94 (1999), pp. 173-87. 28 Rosalind Hursthouse, Virtue Ethics and Human Nature, cit.; Hans Lotten-

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

monaci, infatti, se si dessero in circostanze differenti, potrebbero venire lodati dallo stesso Hume. Ma chi fa questa osservazione non coglie il punto. Le virtù monacali non vanno giudicate separatamente, ma in quanto si danno in un «train of virtues», in un complesso di virtù29: vengono scartate perché compongono un carattere unitario, attribuibile a individui particolari, che risulta essere moralmente negativo solo nel suo insieme. Per Hume le virtù e i vizi, se non vengono ascritti ad alcuno di preciso, in se stessi non significano nulla. 5. La nozione di eccellenza umana trova spazio anche in un’etica delle virtù di stampo humeano30, ma in maniera ben diversa rispetto alla sua controparte neoaristotelica. Sebbene Hume ricolleghi esplicitamente l’eccellenza umana alla tradizione del mondo classico, essa è spiegata riferendosi a quell’orgoglio stabile e ben regolato che realizza l’io morale. Gli esseri umani la mostrano nella peculiare «virtù eroica» della grandezza d’animo, che «non è altro che un orgoglio e una stima di sé forti e saldi, o qualcosa che partecipa largamente di questa passione. Il coraggio, l’intrepidezza, l’ambizione, l’amor di gloria, la magnanimità e tutte le altre luminose virtù del genere, contengono chiaramente una forte dose di stima di sé, e da ciò discende gran parte del loro merito»31. Anche in questo caso, queste qualità si danno in opposizione ai valori della tradizione cristiana, per cui «troviamo che molti predicatori religiosi denigrano queste virtù in quanto puramente pagane e naturali, e ci illustrano la superiorità della religione cristiana che pone l’umiltà fra le virtù e corregge il

bach, Monkish Virtues, Artificial Lives: On Hume’s Genealogy of Morals, cit.; William Davie, Hume on Monkish Virtues, “Hume Studies”, 25 (1999), pp. 139-54. 29 An Enquiry concerning the Principles of Morals, sez. IX, cpv. 3; tr. it. cit., p. 286. 30 Si veda Treatise, libro III, parte III, sez. 2. Sulla nozione di eccellenza umana in Hume, si veda Marie A. Martin, Hume on Human Excellence, cit. 31 Treatise, libro III, parte III, sez. 2, pp. 599-600, cpv. 13; tr. it. cit., p. 633.

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Un’etica delle virtù humeana 45

giudizio del mondo, anche quello dei filosofi che generalmente ammirano tutte le imprese dell’orgoglio e dell’ambizione»32. Ora, la grandezza d’animo può esprimersi anche in forme di audacia proprie della gloria militare. Sebbene Hume affermi che, a uno sguardo riflessivo, esse non siano affatto da lodare – per i danni che portano alla società e per i mali che causano a coloro che la compongono –, ciononostante, «quando fissiamo il nostro sguardo sulla persona in sé, e cioè sull’autore di tutte queste sciagure, nel suo carattere troviamo qualcosa di così luminoso e capace di elevarci tanto la mente al solo guardarlo, che non possiamo rifiutargli la nostra ammirazione. Il dolore che riceviamo dalla tendenza all’eroismo a nuocere alla società è sopraffatto da una simpatia più forte e più immediata»33. Non si deve tuttavia concludere che quella di Hume sia una celebrazione delle virtù guerriere: accanto alla grandezza d’animo, non va dimenticato che è parte integrante dell’eccellenza umana la virtù della benevolenza, dipendente anch’essa dal principio della simpatia. Questa è una delle divergenze principali tra la concezione humeana della vita virtuosa e quella del pensiero classico. L’alternativa humeana presenta un’idea di vita virtuosa che è tale solo se si apre agli altri, e solo se questi sono riconosciuti come persone che meritano rispetto. Ed è opportuno sottolineare che la rilevanza morale riconosciuta da Hume alla benevolenza non ha nulla a che vedere con la pietà cristiana, ma viene spiegata facendo appello ai meccanismi sentimentali della psicologia umana. Grandezza d’animo e benevolenza si bilanciano, e possono ritenersi virtù nella misura in cui manifestano la natura sociale degli esseri umani: virtuoso è l’individuo moralmente lodevole per i suoi legami con gli altri, cosicché [q]uando invece enumeriamo le buone qualità di una persona, ricordiamo sempre quegli aspetti del suo carattere che ne fanno un compagno fidato, un buon amico, un padrone benevolo, un marito piacevole o un padre indulgente; la osserviamo in tutte 32 33

Treatise, libro III, parte III, sez. 2, p. 600, cpv. 13; tr. it. cit., p. 633. Treatise, libro III, parte III, sez. 2, p. 601, cpv. 15; tr. it. cit., p. 634.

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L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

le sue relazioni sociali, e l’amiamo o la odiamo a seconda delle affezioni che suscita in coloro che hanno con lei rapporti immediati. Questa è una regola più che certa: se non esiste relazione al mondo che non potrei non desiderare di avere con una certa persona, dovrò riconoscere che il suo carattere è quindi perfetto. Se poi costui non ha mancanze né verso di sé né verso gli altri, il suo carattere sarà assolutamente perfetto. E questo è il criterio ultimo del merito e della virtù34.

6. Alla luce di ciò, si può concludere che la grandezza d’animo esprima un modo aristocratico di essere virtuosi che è senz’altro accettato da Hume, ma che non esaurisce le possibilità di comportarsi moralmente, né ne rappresenta la maniera migliore. Hume, per così dire, “democratizza” la nozione di agente virtuoso, reimpostando un metodo di etica come quello delle virtù che, nella sua forma neoaristotelica, è stato spesso tacciato di essere eccessivamente esclusivo, e quindi meno appetibile rispetto al kantismo e all’utilitarismo. La sua è un’etica delle virtù che rifiuta gli estremismi, che non si rivolge a eroi, ma neanche a santi – come il caso delle virtù monacali mostra bene35. La grandezza d’animo si adatta bene a un soldato o a un nobile, ma, per come Hume stesso la illustra, può risultare difficile da adottare dalle persone comuni. Ma esse non sono affatto tenute a farla propria, anzi. Il giusto orgoglio in se stessi, che ci rende consapevoli di essere persone coese e in relazione con gli altri, può ottenersi pienamente riferendosi a un punto di vista fermo e generale che si realizza in quella «condizione media di vita» che corrisponde all’esistenza della maggior parte degli individui. Condizione media di vita che «fornisce le maggiori garanzie per la virtù», poiché «dà l’opportunità di esercitarla al massimo e permette di utilizzare tutte le buone qualità che possediamo»36. Treatise, libro III, parte III, sez. 3, p. 606, cpv. 9; tr. it. cit., p. 640. Si veda Annette C. Baier, A Progress of Sentiments, cit., cap. IX, in particolare pp. 210-19. 36 La condizione media di vita (1742), in Opere filosofiche, volume III, cit., pp. 544-49; la citazione è a p. 545, ultimo corsivo mio. Su La condizione media di vita si veda il saggio di Giancarlo Carabelli, La stazione media della vita, in Id., 34

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Un’etica delle virtù humeana 47

La persona virtuosa che emerge non è quindi tanto qualcuno che possiede grandezza d’animo, quanto piuttosto forza di carattere, cioè la capacità di perseguire i propri obiettivi a lungo termine facendosi guidare dalle passioni calme. Virtuosa sarà una persona dal carattere nobile, nel senso di ferma nel proposito di agire e di relazionarsi agli altri secondo il senso della virtù. Ciò che si ricava dalla lettura di Hume è la valorizzazione degli individui così come sono: creature che possono racchiudere in se stesse grandi qualità, ma anche grandi difetti. E il merito del suo pensiero sta nel rifiuto di credere che questa condizione vada risolta. Contano le persone: la constatazione della loro imperfezione è per Hume parte integrante dell’etica, non qualcosa che va eliminato37. Se esse risultano manchevoli perché non rientrano all’interno di certi canoni morali stabiliti in partenza, tanto peggio per questi ultimi. Alla fine, la teoria che si ricaverà sarà forse meno coerente e magari meno armonica nella sua mancanza di geometria, ma di sicuro sarà veramente, e senza false illusioni, umana.

Intorno a Hume, cit., pp. 44-82. 37 Sull’impossibilità di evitare un’ambiguità che si rivela essere a tutti gli effetti una componente di ciò che chiamiamo etica, si veda Richard H. Dees, Hume on the �haracters of Virtue, “Journal of the History of Philosophy”, 35 (1997), pp. 45-64.

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Postfazione

L’etica sentimentalista e i limiti della concezione razionalista del soggetto morale di Eugenio Lecaldano

Hume e una nuova concezione del soggetto umano Il libro di Lorenzo Greco è un contributo particolarmente efficace al superamento di alcuni pregiudizi che continuano ad avere larga accettazione nella cultura italiana: l’idea che la moralità umana possa essere compresa solo considerandola il prodotto di una peculiare capacità razionale; e che di conseguenza il modo più promettente di catturare la nostra concezione della moralità sia quello formulato nel XVIII secolo da Immanuel Kant e che tutto quello che ci resta da fare è aggiornare questa concezione e liberarla da alcune asprezze filosofiche; e ancora che la ricostruzione kantiana della moralità legata a qualche forma di contrattualismo sia l’unica via per mettere a punto una fondazione della politica che salvaguardi la libertà individuale e l’eguale considerazione delle persone. Greco scalza questi pregiudizi offrendoci una convincente ricostruzione della connessione tra responsabilità morale individuale e vita associata che fa tesoro della lezione offerta a suo tempo da David Hume. La ricerca procede sia a ricostruire con profondità una più adeguata immagine storiografica della trattazione, da parte di Hume, delle questioni inerenti alla natura della responsabilità morale individuale, sia a mostrare come la

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Postfazione 4

via sentimentalista di Hume è in grado di fornire una soluzione preferibile a quelle attualmente offerte dalle teorie neoaristoteliche, comunitarie e contrattualiste. Il punto centrale dell’analisi sta nel prospettare come in Hume sia presente una concezione dell’io che, ben lontana dal portare a esiti scettici, offre una interpretazione adeguata della responsabilità morale individuale. Il lettore italiano trova nel libro di Greco una trattazione delle questioni relative alla corretta interpretazione delle tesi di Hume sulla natura dell’io che è quanto di meglio si può trovare nella ricerca attuale sia per quanto riguarda la completezza del confronto con gli altri studiosi, sia per la chiarezza e nitore con cui si elabora una convincente ricostruzione positiva. Il contributo di Greco è un’ulteriore testimonianza della maturità della ricerca storiografica italiana sul pensiero di Hume che – dopo il lavoro cumulativo realizzato a partire dalla metà del XX secolo con gli studi, tra gli altri, di Mario Dal Pra, Antonio Santucci, Giuseppe Giarrizzo, Giancarlo Carabelli, Flavio Baroncelli, Luigi Turco e Tito Magri – è riuscita a integrarsi pienamente nel contesto internazionale. Il libro di Greco ricostruisce sia dal punto di vista storico come dal punto di vista teorico quella linea di riflessione che rende conto del soggetto coinvolto nella vita morale non già come una persona razionale, ma piuttosto come un individuo il cui nucleo costitutivo è dato da sentimenti, emozioni e passioni. Non solo si mostra come storicamente questa concezione del soggetto abbia la sua origine nelle riflessioni sull’io presenti nel Trattato sulla natura umana di David Hume, ma altresì come essa possa risultare fertile per la riflessione etica attuale in quanto offre buone risorse teoriche per chi sia impegnato a elaborare un’adeguata concezione morale normativa che non perda di vista le esigenze filosofiche di una generale concezione del mondo ispirata dal naturalismo empiristico. Greco delinea in modo convincente la linea di riflessione che va inserita nel contesto di quel processo di naturalizzazione dell’anima, e più in generale della persona, che i pensatori collocabili all’interno di un paradigma empiristico hanno insisten-

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Postfazione

temente, e sempre più ampiamente, elaborato dal XVII secolo a oggi. Una vicenda che può essere fatta risalire, come del resto è abituale sostenere, alle riflessioni di John Locke nel Saggio sull’intelletto umano. Come è noto, Locke giunse a concludere che il nucleo portante della nozione di persona è quello di essere una nozione per così dire forense che permette di riconoscere una persona come responsabile delle sue azioni passate. Nel caso della ricostruzione dell’identità personale realizzata da Locke resta fermo che la strada analitica che porta a rendere conto di questa dimensione di responsabilità si presenta come un’aggiunta e una specificazione del più generale approccio della coscienza e dell’autoconsapevolezza. Ma nonostante la dipendenza dell’analisi lockeana da questo contesto, la stretta connessione che egli istituisce tra la comprensione della nozione dell’identità personale e la capacità di rendere conto delle attribuzioni di responsabilità morale provoca un mutamento teorico decisivo. Qui si può infatti indicare la radice della presentazione da parte di Locke di un’analisi del soggetto che muove un passo ulteriore nella direzione di una concezione naturalizzata della persona umana e di un allontanamento dalla tradizionale impostazione della questione filosofica in termini di corrispondenza tra identità personale e anima sostanziale individuale. Le vicende dell’elaborazione di una teoria empiristica dell’identità personale in grado di rendere conto di un soggetto moralmente responsabile trovano nella filosofia di Hume non solo una ripresa e un chiaro avanzamento, ma un cambiamento di registro decisivo che è merito della ricerca di Greco farci toccare con mano. L’analisi di Locke è certamente uno dei punti di riferimento delle analisi dell’identità personale sviluppate da Hume nel Trattato sulla natura umana. La ricostruzione di Greco è però ricca di suggerimenti che ci permettono di prendere le distanze da una concezione storiografica molto diffusa e pur tuttavia errata, secondo la quale Hume raggiunse conclusioni scettiche sul soggetto proprio perché non riuscì a liberarsi dall’impostazione data alla questione da Locke. Hume cioè si sarebbe mosso interamente all’interno del contesto delineato da Locke riprendendone

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Postfazione 51

non solo la critica alla spiegazione sostanzialistica dell’identità personale, ma anche l’impostazione ricostruttiva in termini di autoconsapevolezza che ciascuno ha di se stesso. Ma percorrendo fino in fondo questa strada obbligata avrebbe incontrato insormontabili difficoltà nell’affidarsi alla memoria come facoltà in grado di dare una base al giudizio di continuità e stabilità che ciascun soggetto dovrebbe potere esprimere su se stesso per riconoscersi come individuo. Greco ci spiega benissimo le difficoltà che Hume delinea nel Trattato, e in particolare nell’“Appendice”, lungo la strada che cerca di connettere l’identità personale con la memoria. Ma poi andando al di là di questo punto troviamo tutta la distanza tra la linea interpretativa tradizionale sulle riflessioni di Hume sul soggetto e quella delineata come alternativa nella presente ricerca. Greco infatti propone la sua ricostruzione non solo documentando la consapevolezza di Hume circa la natura fallimentare delle analisi di derivazione lockeana del soggetto, ma mostra anche le difficoltà a cui vanno incontro coloro che identificano questa linea scettica come quella propria di Hume considerando così il contributo dato dallo Scozzese come del tutto negativo. Greco smonta in modo convincente quella interpretazione storiografica favolistica che presenta la filosofia di Hume come una tappa fondamentale di quell’avanzare della modernità che conduce alla fine progressiva del soggetto. Il pensiero di Hume viene invece ricostruito in modo tale che risulta chiaro come proprio il filosofo scozzese abbia contribuito al superamento di una concezione tradizionale del soggetto e alla elaborazione di una idea del tutto nuova e più adeguata non tanto dell’identità personale, quanto dell’io e del soggetto morale. Quello che con Hume finisce è l’astratto soggetto razionale della filosofia medievale e cristiana per essere sostituito dal nuovo soggetto dell’età moderna e contemporanea europea, fatto di passioni, emozioni e corporeità. Uno dei punti originali e significativi del libro di Greco sta poi nella chiarezza con cui argomenta la tesi del passaggio, con il pensiero di Hume, da una filosofia che guardava alle questioni della soggettività in termini di una soddisfacente

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Postfazione

ricostruzione dell’identità personale a una che le imposta facendole ruotare intorno a una adeguata comprensione dell’io. La questione del soggetto si sposta così dal piano metafisico e ontologico a quello empirico e di una esperienza intesa in senso ampio non solo come dati dei diversi sensi, ma anche come passioni ed emozioni. In questo quadro Greco argomenta convincentemente – alla fine della prima parte del suo libro, sviluppando dettagliatamente la tesi in tutta la seconda parte – che il centro delle riflessioni sull’io nel Trattato non sta nel I libro laddove si rende conto dei tentativi del soggetto di conoscersi, ma piuttosto nel II e III libro dove ci si occupa della persona come centro della vita passionale e morale. Facendo così Hume sviluppava una via costruttiva del tutto diversa da quella di Locke, che non si distanziava a sufficienza dalle precedenti analisi sulla natura dell’io in quanto continuava a rendere conto del soggetto in termini intellettualistici. Spiegare l’identità personale in termini di coscienza o autoconsapevolezza di se stessi, legata ai dati della memoria, come faceva Locke, equivaleva pur sempre a fare dipendere la persona e l’io da operazioni di quella parte della mente che è impegnata a dirci come stanno le cose o come sono andate nel passato: si chiami poi questo lato della mente con i nomi di ragione, intelletto, immaginazione ecc. In contrasto con questa impostazione, come evidenzia Greco, si colloca l’attenzione complessiva di Hume per il lato non intellettuale della natura umana, ovvero per le dimensioni affettive, sentimentali e passionali della vita umana per cui solo attraverso la comprensione delle passioni si potrà fornire una spiegazione per l’insieme dell’io umano. Hume ha il merito di non presentarsi solo come il sostenitore di una generica ricostruzione passionale della consapevolezza di sé, ma di argomentare – come ben ricostruisce Greco – che vi è in particolare una passione che ci porta direttamente in contatto con il nostro io: la passione che si presenta o come sensazione piacevole in quanto orgoglio, o sotto forma spiacevole in quanto umiltà. La consapevolezza di se stessi si presenta dunque come una emozione o sentimento nel provare orgoglio per il nostro

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Postfazione 5

proprio io o nel sentirsi umiliati per noi stessi. Se andiamo a vedere da vicino – con l’aiuto in particolare delle sezioni che Greco dedica nel suo libro all’io passionale e alle passioni e alla morale, nelle cui note tra l’altro egli rende conto con una ricchezza veramente ammirevole di tutta la ricerca in questo senso realizzata dalla scholarship degli ultimi decenni – quale è l’analisi che Hume fornisce dell’orgoglio e dell’umiltà, troviamo che non solo egli connette direttamente questa passione con il senso del proprio io, ma pone al centro della genesi della passione dell’orgoglio per il proprio io quella dimensione della responsabilità morale che, come abbiamo visto, da Locke in poi costituisce il territorio decisivo per le riflessioni sul soggetto. È Hume stesso a spiegare che le qualità che hanno un ruolo decisivo nel fare nascere quell’orgoglio o umiltà che costituiscono lo stesso senso del nostro io sono le qualità morali che ci caratterizzano. Noi proviamo orgoglio per noi stessi principalmente se ci riconosciamo come apprezzabili da un punto di vista morale, mentre siamo umiliati per noi stessi se le nostre qualità si presentano come disapprovabili. Greco approfondisce in modo teoricamente fertile la natura dell’analisi passionale dell’io presente in Hume e, accettando un suggerimento inizialmente offerto da Páll Árdal, mostra come nel linguaggio a noi più vicino dovremmo contrapporre all’orgoglio non tanto l’umiltà quanto piuttosto la vergogna. Se percorriamo questa strada possiamo più facilmente collegare la spiegazione che Hume fornisce del senso della propria persona con il più generale progetto naturalistico come si è andato sviluppando anche nel secolo XX. Infatti la connessione tra la vergogna e le dimensioni della responsabilità morale individuale rappresenta una delle costanti della psicologia filosofica degli ultimi decenni che hanno trovato elaborazione a livello filosofico nelle pagine di Bernard Williams. Il continuo accostamento delle analisi di Hume a quelle di Williams è anzi una delle chiavi interpretative più significative presenti nel volume di Greco (che, tra l’altro, a Williams ha già dedicato alcuni articoli comparsi sulla “Rivista di Filosofia” e su “Utilitas”).

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Postfazione

L’etica sentimentalista neo-humeana Una volta così identificata la ricostruzione che Hume fa dell’io risulta del tutto naturale la successiva trattazione diretta a mostrare come da questa concezione dell’io sia ricavabile una vera e propria etica, e un’etica capace di confrontarsi senza complessi di inferiorità con interpretazioni della moralità quali quelle fornite dalle concezioni che si ispirano a Kant e a Aristotele. Greco dedica il primo capitolo della terza parte del suo libro a mostrare come l’impostazione di Hume comporti che per spiegare l’esperienza emotiva con la quale ci sentiamo orgogliosi delle nostre qualità morali non possiamo non fare riferimento al nostro carattere. Ciò di cui diveniamo consapevoli nell’essere orgogliosi di noi stessi da un punto di vista morale è dunque l’autoconsapevolezza del nostro stesso carattere e di quelle sue qualità che giustificano il sentire o non sentire una buona auto-stima per noi stessi. Sulla base di questa analisi possiamo sostenere che nella filosofia di Hume in generale la nozione di io, e di conseguenza di quel nucleo dell’identità personale che può essere riproposto a livello di psicologia morale, è strettamente collegata con quella di carattere. Greco sviluppa poi ampiamente il tema della presenza in Hume, proprio a partire dal riconoscimento della centralità del carattere, di una opzione teorica a favore di un’etica delle virtù. Sul piano più epistemologico Greco spiega che, pur collegando il nucleo centrale della ricostruzione dell’io effettuata da Hume a quella di carattere, ciò non comporta accettare integralmente le classificazioni delle concezioni dell’io proposte da un autore come Derek Parfit, attribuendo così a Hume una concezione riduzionista e complessa dell’io di una persona che lo riconduca integralmente al suo carattere. Hume esclude esplicitamente che l’io si identifichi con il carattere ammettendo che, sia pure raramente, le persone cambiano carattere. Potremmo però dire che in quella passione che ci presenta, nella sua semplicità, la consapevolezza di noi stessi come di un soggetto moralmente responsabile siamo spinti a prendere atto del carattere che ci è proprio.

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Postfazione 55

Nella sua ricostruzione della concezione del soggetto morale in Hume lo studio di Greco ha anche il merito di procedere a un confronto continuo con quella di Kant. In effetti, non perdere di vista il confronto tra le diverse impostazioni etiche ispirate rispettivamente a Hume e a Kant è l’ottica privilegiata – come proprio l’ultimo capitolo del libro conferma – per ricostruire l’andamento della discussione all’interno dell’etica teorica degli ultimi cinquanta anni. Il pregio del volume di Greco sta anche nell’avere aggiunto alla considerazione delle idee originarie di Kant gli sviluppi che esse hanno avuto non solo nell’opera di John Rawls, ma anche nelle ricerche più vicine a noi di una autorevole esponente kantiana, e allieva di Rawls, come Christine Korsgaard. All’interno di questo confronto è utile – seguendo Greco – ricostruire il ruolo del carattere nell’etica di Hume e quello che esso ha nell’etica di Kant. Il fatto è che Kant tendeva a rifiutare al carattere uno spazio nella sua ricostruzione della moralità e questo proprio per i suoi tratti di naturalità. Il carattere come dato psicologico naturale mal si concilia con le esigenze dell’etica kantiana che spingono invece verso una ricostruzione in termini di consapevole correzione artificiale dei tratti naturali da parte del soggetto morale impegnato nella realizzazione dei dettami della ragion pratica. Il progetto portato avanti da Hume di fornire una spiegazione completamente naturalizzata dell’essere umano e della sua cultura poteva invece ben conciliarsi con il riconoscimento nella vita morale individuale – e di conseguenza nei modi in cui si rende conto della natura del soggetto morale – di un punto di continuità e stabilità fornito da qualcosa che come il carattere si presenta come un vero e proprio dato naturale della vita delle persone. Il soggetto di cui diveniamo consapevoli sul piano emotivo quando ci approviamo o disapproviamo dal punto di vista della responsabilità morale non è un prodotto artificiale delle nostre scelte razionali, ma è un dato che ci condiziona fortemente e che non padroneggiamo completamente con il nostro intelletto. Tutto questo si potrà forse vedere meglio ripercorrendo la spiegazione teorica sentimentalista dei nostri giudizi di responsabilità morale come viene delineata da Hume.

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Postfazione

La ricostruzione che Greco fornisce dell’io morale ha il merito di farci comprendere più pienamente il collegamento tra il modo in cui un naturalismo empiristico di derivazione humeana rende conto del soggetto morale e la versione sentimentalista della spiegazione della responsabilità morale che vi si accompagna. Coerentemente con il suo impianto di fondo, l’etica di Hume fa rientrare nei tratti pertinenti per dare corpo a un soggetto moralmente responsabile non solo le qualità propriamente morali di cui possiamo essere orgogliosi (quali ad esempio virtù come la generosità, il coraggio ecc.), ma anche le attitudini naturali (quali ad esempio la tenacia, l’arguzia, la prestanza fisica ecc.). Era questo il punto sul quale la teoria naturalistica, e post-cristiana, delle virtù sviluppata da Hume più si differenziava dalla concezione provvidenzialistica e cristiana della morale di Francis Hutcheson. Tuttora questa è forse una delle parti più controverse della concezione sentimentalista della responsabilità morale e conseguentemente del soggetto che vi si accompagna. Il punto decisivo è che in una concezione non razionalistica dell’azione la responsabilità non può essere fatta coincidere con le azioni di cui siamo intenzionalmente, esplicitamente e volontariamente causa avendole razionalmente decise. In una prospettiva sentimentalista la responsabilità dovrà riuscire a estendersi anche a quei tratti naturali del proprio carattere che si presentano come un dato che non abbiamo scelto, così come non abbiamo scelto il nostro corpo con le sue componenti anatomiche e biologiche. Ciò che non va nella teoria razionalistica della responsabilità non è solo la convinzione, erronea, che noi possiamo controllare sempre e comunque le conseguenze delle nostre scelte, ma anche la collocazione contraddittoria che viene data al soggetto. Infatti il soggetto morale si presenta come in grado di volere ciò che esso deve essere e di intervenire in modo tale da non essere determinato da ciò che egli è per trasformare completamente il proprio carattere e le condizioni delle sue azioni. Ma ne consegue che, da una prospettiva razionalista, da una parte sosteniamo che abbiamo i caratteri che abbiamo perché lo vogliamo e poi, dall’altra parte, per tenere fede alla concezione non determinista

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Postfazione 57

dell’agire morale siamo costretti a concludere che quel carattere o soggetto che tanto ci siamo sforzati di costruire e volere è del tutto ininfluente come causa delle nostre azioni. Proprio della concezione sentimentalista della responsabilità è invece il potere ammettere che le nostre azioni sono in parte dipendenti dalla sorte e da componenti che sfuggono al nostro controllo. In questo senso nelle analisi di Hume sono rintracciabili gli antecedenti della discussione contemporanea sul modo in cui la sorte influenza le nostre azioni e di conseguenza viene inclusa nelle valutazioni morali che diamo delle condotte delle persone. In Hume possiamo trovare un’impostazione che, riprendendo la terminologia cara a Thomas Nagel e Bernard Williams, concilia i nostri sentimenti di responsabilità morale con il riconoscimento che la nostra vita e noi tutti come soggetti siamo dominati da una “sorte costitutiva”. I nostri caratteri, i nostri io ci si presentano con tratti – anche moralmente rilevanti – che non possiamo considerare frutto delle nostre scelte o di nostre decisioni esplicite. Molto di ciò che Hume e la concezione sentimentalista ci suggeriscono a questo proposito può essere ricondotto sotto l’idea che il soggetto di cui noi diveniamo coscienti quando siamo orgogliosi di noi stessi ci si presenta come un dato biologico e corporeo e dunque come qualcosa che possiamo provare a correggere e modificare, ma non già a trascurare o ignorare completamente. Come viene spiegato nell’ultimo capitolo del libro, movendo dalla ricostruzione dell’io morale in Hume ci si dischiude anche una linea di etica teorica che permette di fare i conti con le altre proposte teoriche del XX secolo, e capace di ottenere soluzioni largamente preferibili a quelle fornite da utilitaristi, contrattualisti e comunitari. La piattaforma teorica che possiamo trovare in Hume si spinge anche al di là del piano metaetico e suggerisce una ben precisa soluzione normativa, quella di un’etica delle virtù humeana che, come Greco ci spiega – confrontandola in particolare con le posizioni di Alasdair MacIntyre –, non va confusa con quella neoaristotelica. Greco articola vari punti di forza della ricostruzione neo-

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Postfazione

humeana. In primo luogo essa permette di contestare a vari livelli l’idea del soggetto morale come una persona razionale. Basta qui guardare a tutte le critiche rivolte verso un soggetto morale considerato in termini kantiani troppo forti, come soggetto autonomo e razionale, oppure, per altri versi, alla stregua della concezione utilitaristica come un calcolatore astratto privo di relazioni e concretezza: una critica unitaria a tutti i diversi tentativi di far coincidere il soggetto morale con una persona razionale che è, ad esempio, al centro delle preoccupazioni filosofiche di Bernard Williams. O ancora basta pensare a tutta la ricerca, al passo con i risultati delle biologia evoluzionista e con la concezione sentimentalista, rivolta ad allargare al di là dei confini di specie il campo dei soggetti morali fino a includervi gli animali non umani. L’impostazione che Greco fa valere è poi in grado di avviare a soluzione una serie di difficoltà che sembrano presentarsi sulla strada di una elaborazione adeguata per una concezione etica sentimentalista, il tutto senza perdere di vista le acquisizioni realizzate, tra l’altro, da significative personalità filosofiche come Annette Baier e Simon Blackburn. Se, come Greco ci ha fatto capire, nel paradigma humeano il senso che ciascuno di noi ha di se stesso passa attraverso l’orgoglio che proviamo per alcuni tratti caratteriali che noi ci troviamo ad avere in larga parte indipendentemente dalla nostra scelta volontaria sulla base della nostra costituzione biologica e culturale, ci troviamo di fronte a una prospettiva che non sembrerebbe in grado di rendere conto di quei tratti individualizzanti che riteniamo debbano appartenere a un soggetto moralmente responsabile: in particolare non sarebbe in grado di salvaguardare la stretta relazione tra moralità e autonomia individuale che sembra un dato costitutivo della nostra attuale esperienza etica. In una concezione sentimentalista coerente che unisca l’accettazione del determinismo con il riconoscimento che il soggetto morale è collocato in un contesto dominato da una sorte costitutiva dovremmo concludere che la responsabilità non può essere attribuita a una persona individuale specificamente intesa ma o alla natura (come insieme

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di dati genetici e biologici ereditati) o alla società e cultura di cui partecipiamo. Troverebbero qui una giustificazione teorica quelle interpretazioni che legano la ricostruzione sentimentalista o emotivistica del soggetto morale con altre strade non razionalistiche, niente affatto individualistiche, quali ad esempio la sociobiologia evoluzionistica o il comunitarismo. Ma Greco nel suo libro – in particolare discutendo le idee di Charles Taylor nella sezione della parte quarta dedicata alla comunità e alla natura umana – argomenta convincentemente contro coloro che così interpretano il sentimentalismo naturalistico di Hume. È tipico della versione del sentimentalismo di tipo neo-humeano impegnarsi a elaborare tutte le risorse disponibili per questa strategia al fine di rendere conto di un soggetto morale fornito non solo di continuità e stabilità ma anche di peculiari tratti individuali e dunque autonomo e capace di collocarsi criticamente nei confronti della tradizione. Proprio questo sembra sfuggire a chi spiega Hume in una chiave comunitaria. Per capirlo torniamo a quanto abbiamo detto sul modo in cui ciascuno di noi diventa orgoglioso del proprio io: la via è quella di sentire alcune delle qualità del proprio carattere come moralmente approvabili (o all’inverso come disapprovabili e quindi fonte di vergogna). Proprio il sentire che le proprie qualità sono moralmente approvabili costituisce quella base che ci permette di accettare il nostro io passato e di proiettarlo nel futuro. Sono i piaceri morali che ci motivano a realizzare i nostri progetti biografici e a non limitarci a sopravvivere nella più completa frammentazione. Sembra inevitabile che tutto questo insieme di approvazione e disapprovazione delle nostre qualità morali rinvii alla trama di connessioni simpatetiche che noi abbiamo con gli altri nostri simili. C’è chi sulla strada di un assorbimento del soggetto nel meccanismo di simpatia si spinge tanto oltre da sostenere che secondo Hume l’io cui giungiamo attraverso l’orgoglio è un io sociale, riprendendo così l’impostazione dei comunitari. Ma questa analisi perde di vista che l’orgoglio che permette di divenire consci del nostro io non è semplicemente l’orgoglio che proviamo nel sentirci approvati dagli altri, ma più

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Postfazione

specificamente è l’orgoglio che sentiamo allorché ritroviamo nel nostro carattere delle qualità moralmente approvabili da un punto di vista generale. Greco ha il merito anche su questo punto di sviluppare e rendere esplicita la struttura della posizione teorica di Hume, facendo così chiaramente vedere l’incidenza che nella sua etica ha l’appello al punto di vista generale: questo appello sta a testimoniare che per qualsiasi versione sentimentalista dell’etica i sentimenti morali non coincidono con il sentimento di sentirsi approvato e lodato dagli altri, quanto piuttosto con la capacità di rappresentarsi quello che verrebbe approvato da uno spettatore immaginario che superasse le parzialità e i pregiudizi delle prospettive socialmente condizionate. È ovvio che il chiamare in causa il rinvio a un punto di vista generale consente di introdurre nell’etica sentimentalista procedure di revisione ed esame delle emozioni che distinguono i sentimenti moralmente approvati da quelli sentiti in modo più immediato o semplicemente ratificati dall’opinione della maggioranza. Il sentimentalismo etico neo-humeano – come delineato da Lorenzo Greco – è in grado di spiegarci che le sofferenze che derivano dalla vergogna del rincrescimento morale e i piaceri che nascono dall’orgoglio che si accompagna a un confortante scrutinio morale di se stessi si radicano in un soggetto individuale che sulla base del suo esame sarà spinto a garantire coerenza e continuità tra il proprio carattere passato e il suo io futuro, oppure a cercare per quanto gli è possibile di correggersi e modificarsi. Nel libro di Greco troviamo dunque compiutamente delineata la strada che permette di conciliare una spiegazione sentimentalista della nostra capacità di fare distinzioni morali con la salvaguardia di quella prospettiva critica e progressista che richiede che queste distinzioni siano il frutto della nostra personale libertà morale. Proprio per questo modo di ricostruire l’io e il soggetto morale il sentimentalismo humeano ci viene presentato nell’ultima parte del volume come una buona base per una filosofia politica che voglia mettere al suo centro le esigenze del liberalismo e della giustizia. Il libro di Greco può essere dunque

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di grande aiuto a rendere meno asfittica la filosofia etico-politica italiana, abituandola a superare il pregiudizio che l’unica alternativa meritevole di essere approfondita teoricamente è quella tra razionalismo giusnaturalistico e razionalismo kantiano e invitandola a confrontarsi invece con un’altra concezione fertile, potente e sistematica che viene offerta dal sentimentalismo neohumeano.

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Indice degli argomenti

a priori 95, 100, 192, 201, 202 a posteriori 69, 192, 201, 237, 243 abitudine 137, 138 accettazione riflessiva vedi riflessività agente – prospettiva dell’ 155 n., 156, 169 – virtuoso 236, 238, 239, 242, 243, 246 altre menti, problema delle 107-109, 108 n., 117-19, 118 n. altruismo 146 amore 30, 64, 67 n., 68, 69, 112, 128, 136, 141, 152, 171, 193 n., 227 anima 8 n., 9, 17, 20, 21, 23, 24 e n., 38, 65, 73, 84, 88 n., 175, 190 analogia, argomento per 108 e n., 109, 110, 113 associazionismo 22 n., 38 n., 40-42, 45 e n., 46 n., 47, 48, 76-78, 81, 85 n., 133 autonomia 2, 84, 92, 94, 95, 158, 185 n., 187-89, 192, 196 n., 197, 199, 201, 202 e n., 205, 206, 215, 216, 219, 220, 240 n. autonomy principle 98 e n. benevolenza – passione calma della 136 – universale 182 – virtù della 181, 182, 245 Buddhismo 179 n. buon critico 230, 231 e n., 238 carattere 2, 8 n., 77, 78, 115, 126 e n., 127-36, 139 e n., 140, 141 e n., 142

e n., 145, 148-50, 154, 155, 160, 162, 163, 164 e n., 165, 167 n., 168, 169, 170 e n., 171, 172, 176, 179, 182, 192, 193, 198, 199, 203, 219, 222, 226, 228, 234, 236, 242-47 – forza di (strength of mind) 136 e n., 247 – identità del 2, 132-36, 139, 142 e n., 145, 203 – realismo del 129 e n., 130, 131 – unità del 243-47 causalità 17, 19, 22 n., 43 e n., 46 e n., 77, 78, 85 n., 86 n., 88 n., 101 n., 112, 113, 127, 128, 130, 131, 160 n., 225 – cause finali 236, 237, 243 circolo ristretto (narrow circle) 148, 150, 170 compatibilismo 199 e n. comunitarismo 2, 177, 216 e n., 217220, 221 e n., 237 conceivability principle 22 condizione media di vita 246 conoscenza morale 239-41 consapevolezza di sé 2, 37-39, 41, 43 n., 49, 50, 55, 74, 75, 78, 86, 87, 89, 103, 105, 121, 126, 133, 142, 144, 145 consequenzialismo 182, 183, 235 n. conservatorismo 206, 207 e n., 208, 209 n., 232 contagio emotivo 109, 110 contiguità, relazione di 17, 22 n., 85 n., 112 contrattualismo 210 e n., 211 e n., 212

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Indice degli argomenti

n., 213 e n., 214, 215 convenzione 210, 211 copy principle 15 e n., 22 n. corpo 8 e n., 51, 63, 65, 82, 83, 84 e n., 85, 87, 88 e n., 94, 115 e n., 134, 177, 200 e n. coscienza, unità della 31, 37-39, 41, 49, 87, 89 costruttivismo 189 e n., 193 n., 196 n., 213 credenze 24, 40, 42 n., 43, 46 e n., 48 n., 88 n., 97, 117 n., 153 n., 178, 229, 239 Cristianesimo 24 e n., 175, 235 – morale cristiana 171 n., 195, 196, 244, 245 desideri 64, 117, 136, 137, 140, 153, 163, 164, 168, 169, 184 n., 193 n., 218, 219, 239, 240 determinismo 199, 200 n. difetti vedi doti dignità 185 n., 192, 193 n., 202 e n. direction of fit 152-54, 167 diritti naturali 209 e n., 210, 215 diversità, idea di 17, 27 n. dolore vedi piacere doti 198 eccellenza umana 237 n., 242, 244 e n., 245 egoismo 146, 151, 212 emotivismo 106, 162, 163 n. empirismo 10, 11, 14, 34, 35, 44, 45, 47 e n., 107, 160 n., 237 ermeneutica, tradizione 102 esperienza 7, 16, 21, 22, 24, 26, 30, 31, 33, 34 n., 37, 38, 43 n., 46, 47 n., 63, 69, 74, 82 n., 99, 100, 104, 108-110, 157, 159, 160, 207, 209, 211, 225, 232 n., 238 esternalismo 166, 167 e n. eudaimonia 236 n., 237 fascio di percezioni (bundle of perceptions) 7, 30, 32, 36, 37, 39, 45 n., 49, 50, 54, 67, 128, 130, 131, 178

fatti e valori, distinzione tra 239, 240 fenomenismo 97 e n., 101 filosofia analitica 70 n., 101, 166 n., 239, 240 n. fioritura umana 236 genealogia della morale 102 e n., 181 giudizi – estetici 227 – morali 78, 131 e n., 146, 149, 150, 156 n., 157, 163, 169, 170, 227, 230, 236 giusnaturalismo 211, 233 giustizia 65, 181, 184 n., 192 n., 210, 213, 214, 217 – persona giusta 138 e n. – virtù artificiale della 138, 211, 221 governo 210, 211 e n., 215 n. grandezza d’animo 244-47 gusto morale 158, 241 idee 15, 16, 29, 38, 41, 42, 45 n., 46, 47 n., 63, 65, 66, 77 e n., 78, 82 n., 97, 109, 110 n., 112, 128, 135, 143, 154 identità – del carattere 2, 132, 136, 139, 145, 203 – idea di 17, 27 n. – imperfetta 18, 26, 27 n., 28 n., 29 n. – in senso stretto vedi identità imperfetta – narrativa 2, 102-104, 132-36, 176, 203, 219 – personale 1, 2, 7, 9-14, 15-35, 42 n., 45 n., 52 e n., 54, 59, 73 e n., 76-79, 83, 84, 102, 128, 130, 132, 136, 177-79, 187 Illuminismo 101, 102, 206 n., 215, 225 n. immaginazione 17 e n., 18, 19, 22, 26, 29, 35 n., 44 e n., 47, 54, 55, 77-79, 81, 82 n., 83, 96, 103 e n., 115, 116 n., 134, 135 n., 159, 170, 208, 231

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imperativi – categorici 188, 205 e n. – ipotetici 160 n. impressioni – di riflessione 63, 112 – di sensazione 63, 81 individualismo metodologico 3, 212 e n. individuation problem 50, 87 n. individui, separatezza degli 184, 204 integrità 65, 163, 172 e n. intelletto 11, 29 n., 31, 32, 53, 55, 56, 66, 73, 78, 79, 83-85, 239, 240 interesse personale 138, 146, 149, 150, 161 n., 182, 210, 211 internalismo 166, 167 n., 169, 189 e n., 190 n. introspezione 16, 51, 52, 108 io – attivo (active self ) 43, 47 e n., 49-51, 59 – metafisico 22, 23, 71, 73, 86 – non metafisico 73 e n. – passionale 59, 64, 66, 74, 75-89, 103, 107, 121, 122, 125, 143, 162, 175, 203 istinto 40, 41, 56, 59, 86, 114, 116 n., 136, 159, 190, 241 n. kantiana, morale 2, 160 n., 169, 176, 184, 185 e n., 186, 187-204, 205, 213-15, 216, 217, 219, 229, 234, 235, 240 n. legge di Hume 240 e n. legge morale 189, 193, 196 leggi di natura 211 e n. liberalismo 206 e n., 207, 208, 214, 215, 216 e n., 217 libertà – come indifferenza 199 e n. – come spontaneità 199 e n. – politica 209, 213, 215 – trascendentale 188, 202 linguaggio 32 e n., 73, 85 – e giudizi morali 150-52, 156, 162

Indice degli argomenti  – privato, argomento del 118 e n. memoria 19, 34 n., 42 n., 43 n., 66, 77 e n., 81, 143 mental unity problem 50, 87 n. mente 8, 9, 16, 17, 19-21, 23, 25, 26, 28, 30-33, 34 n., 36-52, 54, 59, 67, 73, 74 n., 77, 79, 81, 83, 84, 87, 88 n., 115, 117 n., 126, 129 e n., 133, 141, 179 n. moralismo 194, 195 motivazione 82, 126, 137, 152, 153, 154 n., 156, 160 n., 161 e n., 164-70, 189-191, 239 natura umana 40-42, 46, 47 n., 55, 58, 59, 85, 90, 91, 93, 100, 111, 114 e n., 121, 131, 143, 181, 190, 191, 193, 194, 217, 221 n., 222-31, 233, 237 e n., 243 naturalismo 90, 91, 117, 179 normatività 153, 160 n., 164, 168, 169, 176, 179, 180, 188-93, 194 e n., 197, 198, 209, 218, 224 n., 232, 234 odio vedi amore oggettività dell’etica 80, 158, 165, 189 orgoglio 2, 8 n., 63-74, 77 e n., 78 n., 81-83, 84 n., 86, 103, 105, 111, 112, 119-21, 125, 126, 139 e n., 140-45, 162, 164, 165, 168, 171 e n., 172 e n., 175, 219, 244-46 – ben fondato 143, 162, 171 e n., 172 e n., 244-46 – protorgoglio 143-45, 162 osservatore – giudizioso 148, 164, 165, 169, 170, 226 – imparziale 155 n., 184, 185 – prospettiva dell’ 154, 155 n., 156, 167 e n., 185 passioni – calme 63, 64, 136-38, 158-61, 165, 241, 247 – calme e violente, differenza tra 63, 64, 136-38

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Indice degli argomenti

– dirette e indirette, differenza tra 64 – forti e deboli, differenza tra 137, 138 percezioni 7, 9, 16-22, 26, 28-33, 34 n., 35 n., 36-52, 54, 63, 66, 67, 7678, 81, 82 n., 83, 87, 88 n., 89, 107, 128-30, 178, 200 e n. – percezione morale 238-41 perfezionismo 243 phronimos 238, 242 piacere 30, 64, 69, 88 n., 119, 120, 128, 140, 141, 144, 149, 150, 15254, 158, 170, 180, 225 positivismo logico 101 e n., 240 n. prescrittivismo universale 200 n. prima persona, punto di vista in 51, 52 n., 69, 70 n., 108, 109, 188, 200 n. principio di gravità newtoniano 42, 224 privato, primato del 107 psicologia 13, 28 n., 55, 80, 116 n., 131, 132, 224, 234, 245 punto di vista fermo e generale 145, 146-61, 162, 165, 168-72, 175, 182, 191, 213, 241, 243, 246 qualità secondarie 240, 241 e n., 242 n. ragione 56, 59, 80, 95, 96, 136, 154, 158, 159 e n., 160 n., 161 n., 169, 193 n., 194, 196, 207-209, 228, 231, 240 rassomiglianza tra gli esseri umani 114, 115 razionalismo 73, 96, 100, 197 e n. razionalità – pratica 159 e n., 160 n., 169, 187, 189, 214, 215, 239 – strategica 94 e n., 212, 214 – strumentale 94, 159, 160 n., 219 Reid-Beattie interpretation 10 e n., 11 n., 55, 56 relativismo morale 220-26, 237 religione 22, 24, 25 e n., 88 n., 96 n.,

175 e n., 196 e n., 197, 228, 229, 244 repubblicana, tradizione 206 n. responsabilità 24, 25 e n., 78, 79, 95, 126, 127, 131, 134, 142, 163, 200 n., 203 riduzionismo 23 e n., 177 riflessività 95, 96, 187, 188, 190 e n., 191, 192, 194 e n., 195, 197, 199, 203, 205, 206, 209, 219, 230 rispetto di sé 140, 163-65, 171 scetticismo 1, 10, 12, 27 n., 28 n., 32, 33, 56, 84, 90, 91 n., 92, 96-100, 160 n., 178, 179, 207, 208 n., 225 n. sensibilità morale vedi percezione morale senso comune 67, 79, 85, 91 e n., 96-100, 117, 175 e n., 178, 179, 201 – filosofi del 96 n. senso morale 170 n., 190, 192, 241 n. separability principle 22, 29, 42 simpatia, principio della 105-122, 125, 134, 135 e n., 140, 146-50, 165, 167 n., 169, 170, 181, 190, 221 n., 226, 232, 241, 245 soggettivismo etico 106 e n., 162, 163 n. solipsismo 84, 110, 111, 116, 117 n., 122 somiglianza, relazione di 17, 19, 23 n., 43, 77, 78, 85 n., 112 sorte morale 194, 198 sostanza 1, 18, 19, 21, 22, 24, 26, 29, 30, 31, 34 n., 46, 49, 66, 76, 129, 175 stato di natura 209 temporalità 100, 103, 104, 135 n., 219 terza persona, punto di vista in 9, 52 e n., 69, 70 n. 108 umanità, sentimento di 147, 226 umiltà vedi orgoglio utilitarismo 176, 180, 181 e n., 182 e

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Indice degli argomenti 5

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n., 183 e n., 184, 185 e n., 203, 204, 233, 235, 246 vergogna 65 n., 141, 142, 175, 219 virtù – artificiali 211, 221, 222 n. – etica delle 2, 177, 233-47

– monacali 227-30, 232 n., 243, 244, 246 – naturali 221, 222 e n. – unità delle 238 e n., 242, 243 e n. volontà 82, 136, 137, 161, 188, 189, 200, 201, 219, 234 volontario e involontario 197, 198

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Indice dei nomi

Abramson, Kate 147 n., 151 n., 155 n., 157 n., 170 n., 243 n. Agnese, Barbara 118 n. Ainslie, Donald C. 20 n., 48 n., 58 n., 67 n., 73 n., 75 n., 79 n., 120 n., 164 n., 221 n., 243 n. Alanen, Lilli 64 n., 195 n. Albertini, Rosanna 108 n. Allegra, Antonio 25 n. Altham, James Edward John 166 n. Altmann, R.W. 135 n. Anderson, Robert F. 16 n. Andolfo, Matteo 134 n. Annas, Julia 234 n., 239 n. Anscombe, Gertrud Elizabeth Margaret 200 n., 236 n. Árdal, Páll Steinthórsson 56 e n., 57, 64 n., 65 n., 70 e n., 109 n., 145 n., 159 n., 253 Aristotele 189 n., 218, 225, 235, 239 e n., 254 Armstrong, David Malet 97 n. Ashford, Elizabeth 181 n. Ashley, Lawrence 27 n. Atherton, Margaret 34 n. Attanasio, Alessandra 64 n. Austin, John Langshaw 118 n. Avramides, Anita 108 n. Ayer, Alfred Jules 106 e n. Bagnoli, Carla 189 n. Baier, Annette C. 25 n., 57 e n., 58 n., 70 n., 76 n., 83 e n., 84, 85 n., 86 n., 88 n., 95 n., 101 e n., 119 n.,

121 n., 127 n., 129 n., 132 n., 133 n., 135 n., 147 n., 155 n., 161 n., 163 n., 170 n., 171 n., 172 n., 190 n., 210 n., 212 n., 231 n., 232 n., 233 n., 246 n., 258 Baron, Marcia W. 167 n., 168 n., 186 n., 192 n., 234 n. Baroncelli, Flavio 225 n., 249 Barresi, John 21 n., 25 n. Basson, Anthony Henry 20 n., 39 n., 46 n., 50 n. Baxter, Donald M. 27 n., 43 n. Beam, Craig 102 n. Beattie, James 96 n. Beauchamp, Tom L. 34 n., 39 n., 42 n., 43 n., 46 n., 109 n., 114 n. Beck, Lewis White 99 n. Becker, Charlotte B. 172 n. Becker, Lawrence Carlyle 172 n. Bell, Martin 46 n. Bencivenga, Ermanno 48 n. Bennett, Jonathan 10 n. Bentham, Jeremy 180, 183 Berkeley, George 10, 44 Berry Christopher J. 101 n. Besussi, Antonella 157 n., 183 n., 184 n., 214 n. Bettini, Giovanna 197 n. Biro, John 20 n., 39 n., 43 n., 50 n. Blackburn, Simon 154 n., 159 n., 205 n., 215 n., 242 n., 258 Blum, Lawrence A. 239 n. Boccara, Nadia 181 n. Bongie, Laurence L. 208 n.

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Bonino, Guido 10 n., 24 n. Borioni, Marco 200 n. Botwinick, Aryeh 181 n. Boyle, Deborah 114 n. Brett, Nathan 20 n., 39 n., 50 n. Brewer, Bill 116 n. Bricke, John 42 n., 44 n., 51 n., 58 n., 75 n., 126 n., 127 n., 128 n., 129 e n., 137 n., 152 n., 155 n., 164 n., 167 n., 170 n. Brigati, Roberto 69 n. Brown, Charlotte 154 n., 155 n., 167 n., 168 n., 192 n. Burke, Edmund 208 Butchvarov, Panayot 44 n. Butler, Joseph 15 n. Calabi, Clotilde 64 n., 70 n. Capaldi, Nicholas 11 n., 20 n., 26 n., 33 n., 42 n., 57, 58 n., 64 n., 71 n., 76 n., 81, 82, 83, 84, 88 n., 91, 92, 94, 95 e n., 96, 98, 99 e n., 101 e n., 104 e n., 147 n., 154 n., 182 n., 190 n., 209 n., 240 n. Capra, Francesco 202 n. Capriolo, Paola 217 n. Carabelli, Giancarlo 231 n., 247 n., 249 Carlini, Armando 8 n. Casini, Paolo 112 n., 229 n. Cavazza, Marta 47 n. Cavell, Stanley 118 n. Ceccato, Silvio 106 n. Celano, Bruno 240 n. Ceri, Luciana 167 n. Chappell, Vere Claiborne 206 n. Chazan, Pauline 58 n., 71 n., 72 n., 73 n., 76 n., 78 n., 120 n., 143 e n., 144, 237 n. Clarke, Samuel 158 n. Cockburn, David 118 n. Cohen, Alix 223 n., 226 n. Cohon, Rachel 151 n., 161 n., 222 n. Colasanti, Lauro 45 n. Copp, David 154 n. Corcoran, Clive M. 47 n. Cossiga, Anna Maria 212 n.

Indice dei nomi 7 Costa, Paolo 218 n. Costelloe, Timothy M. 131 n. Crisp, Roger 181 n., 222 n., 234 n. Cudworth, Ralph 158 n. Cullity, Garrett 160 n. D’Amico, Savino 217 n. D’Avenia, Marco 217 n. Dal Pra, Mario 21 n., 46 n., 109 n., 112 n., 249 Dancy, Jonathan 166 n. Darwall, Stephen 138 n., 155 n., 167 n., 181 n., 189 n., 193 n. Davidson, Donald 69 n., 70 n. Davie, William 88 n., 141 n., 244 n. De Caro, Mario 11 n., 199 n. De Mori, Barbara 156 n. De Pretis, Caterina 13 n. De Toni, Giannantonio 106 n. Debes, Remy 147 n. Dees, Richard Houston 203 n., 206 n., 224 n., 225 n., 247 n. Deleuze, Gilles 46 n. Dennett, Daniel C. 44, 45 n. Descartes, René 15 n., 20, 22, 38, 84, 92, 107, 117 e n., 121 e n. Di Francesco, Michele 38 n., 52 n. Di Pietro, Stefania 145 n. Diamond, Cora 118 n., 172 n., 195 e n. Dipalo, Francesco 234 n. Donagan, Alan 196 e n. Donatelli, Piergiorgio 118 n., 167 n., 194 n., 213 n., 239 n. Donnici, Rocco 102 n. Driver, Julia 235 n. Dworkin, Ronald 215 n. Egonsson, Dan 166 n. Elster, Jon 94 n. Falk, Werner David 151 n., 160 n., 166 n., 189 n. Farr, James 102 n. Ferrara, Alessandro 216 n. Ferreira, M. Jamie 115 n. Fieser, James 64 n. Flanagan, Owen 163 n.

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Indice dei nomi

Flew, Anthony ony 41 n., 88 n., 107 n., 111 n. Fogelin, Robert John 34 n. Foglia, Gianluca 17 n., 22 n., 103 n. Foot, Philippa 106 n., 163 n., 236 e n., 238 n. Forbes, Duncan 223 n., 224 n., 225 n. Forti, Umberto 112 n., 229 n. Frankena, William Klaas 166 n. Frasca-Spada, Marina 46 n., 88 n. Freeman, Samuel 184 n. Furlong, Edmund James 17 n. Garbolino, Paolo 94 n. Gardiner, Stephen G. 181 n. Garin, Eugenio 202 n. Garrett, Don 15 n., 22 n., 24 n., 33 n., 50 n. Gaut, Berys 160 n. Gauthier, David Peter 181 n., 213 n. Gedney, Mark Donald 233 n. Gessa-Kurotschka, Vanna 216 n. Geuna, Marco 206 n. Giarrizzo, Giuseppe 207 n., 249 Gill, Michael B. 190 n., 232 n., 241 n. Glossop, Ronald J. 185 n. Glover, Jonathan 8 n. Goldie, Peter 116 n. Gordon, Robert Morris 116 n. Greco, Lorenzo 99 n., 118 n., 167 n., 195 n., 234 n., 248-61 Green, Thomas Hill 10 Grene, Marjorie 16 n. Haakonssen, Knud 181 n., 209 n., 210 n., 212 n. Hacking, Ian 114 n. Hampton, Jean 159 n., 213 n. Hanfling, Oswald 119 n. Hare, Richard Mervyn 156 e n., 200 n. Harman, Gilbert 155 n. Harris, James A. 199 n. Harrison, Jonathan 111 n. Harrison, Ross 166 n. Hart, Herbert Lionel Adolphus 183 n.

Hatzimoysis, Anthony 116 n. Haugeland, John 43 n. Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 101 e n. Heinämaa, Sara 195 n. Henderson, Robert S. 29 n., 58 n., 67 n., 71 n., 72 n., 75 n., 88 n. Herdt, Jennifer A. 171 n., 196 n., 226 n., 228 n. Herman, Barbara 155 n. Hobbes, Thomas 56, 94, 95 n., 210 n., 213 Holland, Alan John 33 n. Home, Henry, Lord Kames 96 n. Homiak, Marcia L. 233 n. Horn, Christoph 234 n., 235 n. Hudson, Stephen D. 57 e n., 58 n., 164 n. Hursthouse, Rosalind 205 n., 229 n., 236 e n., 238 n., 242 n., 243 n. Husserl, Edmund 102 n. Hutcheson, Francis 28 n., 40, 47 n., 56, 180, 232 n., 237 n., 241 n., 256 Hutto, Daniel 116 n. Jenkins, Joyce 58 n. Johnson, Clarence Shole 58 n., 76 n., 79 e n., 142 n. Jones, Peter 32 n., 98 n., 119 n., 133 n., 231 n. Josefsson, Jonas 166 n. Kail, Peter J.E. 46 n., 102 n., 242 n. Kant, Immanuel 35, 38, 46 n., 48 e n., 49, 52 n., 57, 80, 169, 184, 185, 186 e n., 189 e n., 190 n., 193 n., 195 n., 196 n., 197, 200 n., 202 n., 248, 254, 255 Kavka, Gregory S. 213 n. Kenny, Anthony 107 n. King, James T. 16 n., 186 n., 232 n., 243 n. Kivy, Peter 231 n. Kornegay, R. Jo 27 n., 29 n. Korsgaard, Christine Marion 160 n., 166 n., 167 n., 168 n., 176, 186, 187 e n., 188 e n., 189 e n., 190 n.,

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191, 192 e n., 194 e n., 199 e n., 203 n., 255 Krook, Dorothea 195 e n. Kupperman, Joel 126 n. Kymlicka, Will 216 n. LaFollette, Hugh 234 n. Laird, John 48 n., 51 n., 97 e n. Lalumera, Elisabetta 236 n. Landesman, Charles 118 n. Landucci, Sergio 195 n., 196 n. Lawrence, Gavin 205 n. Lecaldano, Eugenio 8 n., 11 n., 25 n., 28 n., 47 n., 58 n., 65 n., 71 n., 76 n., 78 n., 80 e n., 95 n., 109 n., 110 n., 112 n., 127 n., 129 n., 147 n., 163 n., 171 n., 172 n., 180 n., 200 n., 212 n., 213 n., 236 n., 240 n. Leibniz, Gottfried 33 e n. Letwin, Shirley Robin 210 n., 212 n. Lind, Marcia 163 n., 223 n., 224 n. Livingston, Donald Wilson 10 n., 16 n., 32 n., 41 n., 57, 58 n., 91, 96, 97 e n., 98 e n., 99, 101 e n., 102, 103 e n., 104, 133, 205 n., 206 n., 207 n., 208 n., 209, 223 n. Locke, John 10 e n., 15 n., 25 e n., 31, 158 n., 206 n., 240, 250, 252, 253 Loeb, Louis E. 64 n. Longo, Francesca 234 n. Lottenbach, Hans 102 n., 243 n. Lovejoy, Arthur Oncken 64 n. Lowe, E. Jonathan 25 n., 241 n. MacIntyre, Alasdair Chalmers 70 n., 132 n., 195 n., 217 e n., 218 n., 224, 225 n., 232 n., 236, 237 e n., 240 n., 257 Mackie, John Leslie 25 n., 106 n., 156 n., 158 n., 241 n. MacNabb, Donald George Cecil 39 n., 46 n., 50 n., 110 n. Maddaloni, Salvatore 183 n. Maffettone, Sebastiano 214 n., 215 n., 216 n. Magni, Sergio Filippo 167 n., 199 n. Magri, Tito 151 n., 159 n., 210 n., 249

Indice dei nomi  Malcolm, Norman 108 n. Malebranche, Nicolas 107, 158 n. Mandeville, Bernard 56, 232 n. Mangini, Michele 233 n., 236 n. Marietti, Anna Maria 190 n. Marrone, Pierpaolo 103 n., 212 n. Marshall, John 186 n. Martin, Raymond 21 n., 25 n. Martin, Marie A. 197 n., 244 n. Mattesini, Fabrizio 211 n. Mazzone, Stefania 210 n. McCrae, Robert 16 n. McDowell, John 118 n., 238 n. McFall, Lynne 172 n. McIntyre, Jane L. 20 n., 24 n., 25 n., 42 n., 43 n., 58 n., 75 n., 76 e n., 77 e n., 78 e n., 83, 84 n., 88 n., 120 n., 126 n., 127 n., 128 n., 129 e n., 130, 131, 135 n., 136 n., 175 n., 237 n. Mead, George Herbert 221 n. Melden, Abraham Irving 166 n. Mendus, Susan 27 n. Mercer, Philip 107 n., 108 n., 110 n., 111 n., 117 n. Mijuskovic, Ben 47 n. Mill, John Stuart 183, 194 n. Miller, David 207 n., 208 n. Millgram, Elijah 160 n., 167 n. Mistretta, Enrico 8 n., 112 n. Misul, Mario 112 n. Montaleone, Carlo 28 n., 49 n. Montesquieu, Charles de Secondat, barone di 112 n., 158 n. Moore, James 242 n. Morcavallo, Bruno 183 n. Mori, Massimo 199 n. Mori, Maurizio 180 n. Mulhall, Stephen 216 n. Nagel, Thomas 166 n., 190 n., 197 n., 257 Nathanson, Stephen 44 n., 46 n. Neill, Elizabeth 227 n. Neu, Jerome 71 n., 111 n. Neujahr, Philip J. 33 n. Newton, Isaac 22, 40, 41

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Indice dei nomi

Nichols, Shaun 197 n. Nidditch, Peter Harold 7 n. Nietzsche, Friedrich 102 e n., 235 n. Noonan, Harold W. 8 n., 15 n., 21 n., 22 n., 25 n. Norton, David Fate 7 n., 8 n., 21 n., 42 n., 91 n., 96 n., 241 n. Norton, Mary J. 7 n., 8 n. Nussbaum, Martha Craven 235 n., 236 e n. O’Day, Ken 222 n. Oliver, William Donald 117 n. Owen, David 17 n. Palminiello, Paola 155 n., 185 n. Pappas, George S. 20 n. Parfit, Derek 23 e n., 24, 166 n., 176, 177 e n., 178 e n., 179 e n., 180 e n., 187, 254 Parusnikova, Zuzana 102 n. Pascucci, Marco 64 n. Passmore, John 12 n., 13 n., 34 n., 41 n., 46 n., 49 n., 67 e n., 68, 71, 107 n. Patten, Steven Crain 27 n., 48 n., 52 n. Pazé, Valentina 216 n. Pears, David 20 n., 50 e n., 51 n., 87 n., 88, 107 n. Pellegrino, Gianfranco 102 n., 117 n. Pellizzi, Camillo 25 n. Pence, Greg 233 n. Penelhum, Terence 20 n., 24 n., 27 n., 29 n., 48 n., 49 n., 50 e n., 58 n., 65 n., 67 n., 70 n., 73 n., 87 n., 88 n. Petersson, Björn 166 n. Pettit, Philip 186 n., 234 n. Phillipson, Nicholas 196 n. Pickard, Hanna 116 n. Pievatolo, Maria Chiara 214 n. Pike, Nelson 20 n., 36 e n., 38 e n., 39, 48 n. Pirni, Alberto 219 n. Pitcher, George 107 n. Pitson, Anthony E. 108 n., 110 n., 114 n., 117 n., 126 n., 128 n., 129 n., 132

e n., 133 n., 135 n., 139 n., 142 n., 199 n., 242 n. Plamenatz, John 180 n. Pompa, Leon 101 n., 223 n. Postema, Gerald J. 109 n. Preti, Giulio 112 n. Price, John Vladimir 32 n. Price, Henry Habberley 48 n., 97 n. Purviance, Susan M. 58 n., 71 n., 76 n., 78 e n., 79, 80, 129 n., 130 e n., 131, 132 Quinn, Warren 106 n., 205 n. Radcliffe, Elizabeth S. 155 n., 160 n., 167 n., 170 n. Railton, Peter 154 n. Rawls, John 155 n., 156 n., 168, 169 e n., 184 e n., 185 e n., 189 n., 192 n., 194 n., 196 n., 203, 214 n., 255 Reid, Thomas 96 n. Rescher, Nicholas 117 n. Richards, Glyn 179 n. Rigamonti, Gianni 185 n. Rini, Rodolfo 23 n., 99 n., 166 n., 172 n., 195 n., 198 n., 216 n., 219 n. Robison, Wade L. 20 n., 27 n., 42 n., 43 n., 44 n., 47 n., 50 n. Ronchetti, Emanuele 100 n. Rønnow-Rasmussen, Toni 166 n. Rorty, Amélie Oksenberg 8 n., 58 n., 70 n., 73 n., 101 n., 120 n., 121 n., 132 n., 135 n., 163 n., 164 n., 171 n., 206 n. Rosen, Frederick 181 n., 183 n. Russell, Paul 25 n., 126 n., 129 n., 130 n., 135 n., 168 n., 201 n. Ryle, Gilbert 117 n. Sabattini, Stefano 156 n. Sagliani, Cristina 200 n. Sandel, Michael J. 217 e n. Sanna, Maria Eleonora 221 n. Santini, Ugo 155 n. Santucci, Antonio 10 n., 28 n., 96 n., 207 n., 249 Sayre-McCord, Geoffrey 147 n., 151 n., 154 n., 181 n.

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Scanlon, Thomas Michael 192 n., 214 n. Scarre, Geoffrey 43 n. Schmidt, Claudia Maria 100 n., 224 n. Schneewind, Jerome B. 196 n., 235 n. Scognamiglio, Rosamaria 166 n. Scribano, bano, Maria Emanuela 212 n. Seeman, Howard 16 n. Selby-Bigge, Lewis Amherst 7 n. Sen, Amartya Kumar 183 e n., 236 n. Serra, Mauro 164 n. Shaftesbury, Anthony Ashley Cooper, terzo conte di 47 n., 170 n., 232 n. Shaw, Daniel 160 n., 167 n., 242 n. Sidgwick, Henry 157 n., 180 e n., 182 n. Siebert, Donald T. 228 n. Singer, Peter 165 n. Slote, Michael 186 n., 234 n. Smith, Norman Kemp 10 n., 12 n., 36, 40, 41, 43 n., 46 n., 47 n., 56 e n., 64 n., 90 Smith, Adam 145 n. Smith, Michael 152 n., 153 e n., 165 e n. Snare, Francis 154 n. Spector, Jessica 224 n. Spinelli, Emidio 11 n., 34 n. Stack, Michael 27 n. Stalley, Richard F. 200 n. Statman, Daniel 234 n. Stevenson, Gordon Park 59 n., 76 n., 88 n. Stevenson, Charles Leslie 106 e n. Stewart, Michael Alexander 59 n. Stewart, John B. 206 n., 207 n., 209 n., 213 n. Strawson, Peter Frederick 48 n., 51 n., 87 n., 88, 119 e n. Stroud, Barry 35 n., 39 n., 46 n., 48 n., 50 n., 51 n., 70 n., 106 n., 119 n., 242 n. Swain, Corliss Gayda 32 n., 33 n. 34 n. Swanton, Christine 235 n.

Indice dei nomi 01 Sweigart, John 163 n. Swift, Adam 216 n. Taylor, Charles 217 e n., 218 n., 219 n., 220 n., 259 Taylor, Craig 118 n. Taylor, Gabriele 70 n., 231 n. Taylor, Jacqueline 147 n., 161 n., 222 n., 230 n., 232 n., 233 n., 241 n., 243 n. Tenenbaum, Sergio 58 n. Thompson, Michael 236 n. Townsend, Dabney 231 n. Traiger, Saul 33 n. Turco, Luigi 64 n., 206 n., 249 Turnbull, George 96 n. Tweyman, Stanley 11 n., 24 n. Vaccari, Alessio 233 n., 242 n. Vallentyne, Peter 213 n. Veca, Salvatore 185 n., 214 n., 215 n. Velleman, James David 193 n. Vesey, Godfrey 119 n. Vico, Giambattista 101 e n. Vitz, Rico 147 n. Vodraska, Stanley Louis 149 n. von Hayek, Friedrich August 206 n., 207 n., 211 n., 212 n. von Leyden, Wolfgang Marius 27 n. Wallgren, Thomas 195 n. Wand, B. 110 n. Warnock, Mary 17 n. Watson, Gary 202 n. Waxman, Wayne 28 n., 33 n., 34 n., 35 n., 43 n., 44 n., 48 n., 49 n., 75 n. Welchman, Jennifer 232 n. Wertz, Spencer K. 223 n., 226 n. Whelan, Frederick G. 181 n., 207 n., 208 n. White, Alan Richard 17 n. Wiggins, David 65 n., 102 n., 138 n., 182 n., 186 n., 194 n., 203 n., 205 n., 222 n., 238 n., 239 n. Wilbanks, Jan 17 n. Williams, Bernard Arthur Owen 50

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Indice dei nomi

n., 99 e n., 102 n., 157 n., 164 e n., 166 n., 172 n., 183 e n., 194 e n., 195 n., 196 e n., 198 e n., 201 e n., 204 e n., 253, 257, 258 Williams, Christopher 58 n. Wilson, Paul 46 n. Winkler, Kenneth P. 25 n., 34 n., 47 n., 59 n., 242 n. Withing, Jennifer 58 n.

Wittgenstein, Ludwig 118 e n., 119 e n., 239 Wolff, Robert Paul 46 n. Wolin, Sheldon S. 207 n. Wollaston, William 158 n. Wright, John P. 59 n., 72 n., 136 n., 138 n. Zabeeh, Farhang 97 n.

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Filosofia Pubblica Collana diretta da Sebastiano Maffettone

1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. . 9. io. 11. 12. 13. 14. 15 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23.

P. Singer, Etica pratica M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste A.M. Okun, Eguaglianza ed efficienza. Il grande tradeoff A. Buchanan, Etica, efficienza, mercato Introduzione alla bioetica (a cura di G. Ferranti e S. Maffettone) A. Ferrara, L’eudaimonia postmoderna D. Rasmussen, Leggere Habermas A.E. Galeotti, La tolleranza. Una proposta pluralista F. Forte, Etica pubblica e regole del gioco J. Rawls, La giustizia come equità. Saggi 1951-1969 (a cura di G. Ferranti) A. Besussi, Giustizia e comunità. Saggio sulla filosofia politica contemporanea Etica e animali (a cura di L. Battaglia) V. Gessa-Kurotschka, Dimensioni della moralità. Etica e politica nella filosofia tedesca contemporanea F. Fagiani, L’utilitarismo classico. Bentham, Mill, Sidgwick (a cura di B. Morcavallo) A.E. Galeotti, Multiculturalismo: filosofia politica e conflitto identitario V. Marzocchi, Per un’etica pubblica. Giustificare la democrazia Etica individuale e giustizia (a cura di A. Ferrara, V. Gessa-Kurotschka, S. Maffettone) A. Besussi, Somiglianza e distinzione. Saggi di filosofia politica V. Marzocchi, Ragione come discorso pubblico. La trasformazione della filosofia di K-O. Apel R. Sala, Bioetica e pluralismo dei valori. Tolleranza, principi, ideali morali Ricostruzione della soggettività (a cura di R. Bodei, G. Cantillo, A. Ferrara, V. Gessa-Kurotschka, S. Maffettone) V. Marzocchi, Le ragioni dei diritti umani L. Greco, L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea

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