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Italian Pages 346 Year 2008
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a mia moglie Ann, alle mie figlie Amy e Jill, alle mie nipoti Alison, Nico/e e Sarah
MARTIN L. HOFFMAN
EMPATIA E SVILUPPO MORALE
IL MULINO
INDICE
Presentazione, di Anna Emilia Berti I.
Introduzione
p. 7
21
PARTE PRIMA: LO SPETTATORE INNOCENTE
II.
L'empatia: attivazione e funzionamento prosociale
53
III.
Lo sviluppo della sofferenza empatica
89
Iv.
Rabbia empatica, simpatia, sentimenti di colpa e di ingiustizia
121
PARTE SECONDA: TRASGRESSIONE
V.
Senso di colpa e interiorizzazione morale
143
VI.
Dalla disciplina all'interiorizzazione
173
PARTE TERZA: TRASGRESSIONE VIRTUALE
VII.
Senso di colpa relazionale e altri sensi di colpa virtuali
211
5
PARTE QUARTA: È SUFFICIENTE L'EMPATIA?
VIII. Le limitazioni dell'empatia: sovrattivazione e bias
p. 233
PARTE QUINTA: EMPATIA E PRINCIPI MORALI
IX. X.
XI.
Empatia e principi morali: interazioni e legami
257
Sviluppo dei principi di giustizia fondati sul1'empatia
287
Dilemmi tra più parti morali e tra cura e giustizia
303
PARTE SESTA: CULTURA
XII.
La questione dell'universalità e della cultura
315
PARTE SETTIMA: INTERVENTO
XIII. Implicazioni per la socializzazione e l'educazione morale
331
Riferimenti bibliografici
347
6
PRESENTAZIONE
La tesi sostenuta in questo libro è che l'empatia, definita come «risposta affettiva più appropriata alla situazione di un'altra persona che alla propria», sia alla base della moralità. Quando è stata proposta da Martin Hoffman per la prima volta verso la fine degli anni Sessanta del Novecento, questa tesi, come vedremo, ha rappresentato una rivoluzione nella ricerca sullo sviluppo morale, all'epoca dominata da altri approcci. Essa però era tutt'altro che nuova, dato che era stata formulata ed estesamente sviluppata da Adam Smith nella Teoria dei sentimenti morali, un libro scritto più di 200 anni prima (la prima edizione è del 1759, la sesta e ultima del 1790), ed era ben presente in molti testi della seconda metà dell'Ottocento e degli inizi del Novecento espressamente dedicati alle emozioni [Darwin 1872; Ribot 1896] o più in generale alla psicologia ijames 1890; McDougall 1908; Spencer 1870]. La proposta di Hoffman ha perciò costituito, più che una novità, il ricongiungimento con una tradizione di pensiero da cui gli psicologi si erano allontanati per abbracciare dei punti di vista che negavano agli esseri umani qualsiasi tendenza di tipo sociale. Si tratta di una tradizione ancora poco nota anche a chi si occupa di psicologia e addirittura di empatia, tanto da essere stata omessa in una storia di questo concetto [Wispé 1987]. Mi sembra perciò opportuno dedicare questa presentazione a una breve ricostruzione di questa tradizione, e alla descrizione degli approcci che l'hanno soppiantata nello studio dello sviluppo morale, in modo da offrire al lettore il contesto in cui situare il lavoro di Hoffman. Chi voglia farsi un'idea complessiva dei contenuti del libro, potrà trovarne una sintesi nell'Introduzione scritta dall'autore stesso. Quello che Hoffman (e con lui diversi altri studiosi dell'argomento) chiamano attualmente empatia ha fatto il suo ingresso 7
nella filosofia morale con il nome di simpatia. La più estesa trattazione di questa passione (termine che possiamo considerare sinonimo del più recente emozione) e del suo ruolo nella moralità si trova nel trattato di Smith sui sentimenti morali, che inizia con il seguente passo. Per quanto egoista si possa ritenere l'uomo, sono chiaramente presenti nella sua natura alcuni principi che lo rendono partecipe alle fortune altrui, e che rendono per lui necessaria l'altrui felicità, nonostante da essa egli non ottenga altro che il piacere di contemplarla. Di questo genere è la pietà o compassione, l'emozione che proviamo per la miseria altrui, quando la vediamo oppure siamo portati a immaginarla in maniera molto vivace. Il fatto che spesso ci derivi sofferenza dalla sofferenza degli altri è troppo ovvio da richiedere esempi per essere provato; infatti tale sentimento, come tutte le passioni originarie della natura umana, non è affatto prerogativa del virtuoso o del compassionevole, sebbene forse essi lo provino con più spiccata sensibilità. Nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della società ne è del tutto privo [Smith 1759/1976; trad. it. 1995, 81]. Secondo Smith, la nostra partecipazione a ciò che prova un'altra persona può arrivare al punto da farci agire come se ci trovassimo realmente nella sua situazione. Quando vediamo che la gamba o il braccio di un'altra persona stanno per ricevere un colpo, istintivamente ci contraiamo e ritiriamo la nostra gamba o il nostro braccio, e quando il colpo cade, in una certa misura lo sentiamo anche noi, e ne siamo feriti quanto la vittima. La folla, quando guarda in alto verso un funambolo che danza, istintivamente si contorce, dimena e oscilla i corpi, come vede fare a lui, e come sente che dovrebbe fare se fosse nella sua situazione [ibidem, 83]. Smith a propria volta riprendeva ed elaborava la tesi di David Hume esposta nel Trattato sulla natura umana (pubblicato per la prima volta nel 1739), secondo la quale emozioni, assieme ad inclinazioni e opinioni, vengono condivise da coloro a cui vengono comunicate. Non c'è qualità della natura umana più notevole, sia in sé e per sé, sia per le sue conseguenze, della nostra propensione a provare simpatia per gli altri, e a ricevere per comunicazione le inclinazioni e i sentimenti altrui, per quanto diversi e addirittura contrari ai nostri. 8
Questo non è solo evidente nei bambini, che abbracciano tranquillamente qualsiasi opinione venga loro proposta, ma anche in uomini del massimo giudizio e intelligenza, che trovano molto difficile seguire la propria ragione e inclinazione in opposizione a quelle dei loro amici e compagni di ogni giorno. A questo principio dovremmo imputare la grande uniformità che possiamo osservare nelle inclinazioni e nel modo di pensare di coloro che appartengono allo stesso popolo [Hume 1874-1875, 332]. L'intelaiatura della nostra mente è qualcosa di analogo all'intelaiatura del nostro corpo. Sebbene le parti possano differire nella forma e nelle dimensioni, identiche rimangono in generale la loro struttura e il loro ordinamento. Vi è una notevole rassomiglianza che permane, malgrado tutta la loro varietà; e questa rassomiglianza deve certo contribuire moltissimo a farci entrare nei sentimenti degli altri e farceli abbracciare facilmente e con piacere [ibidem, 334].
In generale possiamo osservare che le menti umane sono specchio l'una all'altra, non solo perché riflettono reciprocamente le loro emozioni, ma anche perché questi raggi di passioni, sentimenti e opinioni si riverberano fino a svanire pian piano, insensibilmente. Così, il piacere che un uomo ricco riceve dai suoi possedimenti, trasmettendosi allo spettatore causa piacere e stima; questi sentimenti, una volta percepiti, e grazie alla simpatia che si ha con essi, accrescono a loro volta il piacere del possessore, e quindi, venendo ancora una volta riflessi, diventano per lo spettatore nuovo motivo di piacere e di stima [ibidem, 382].
La compartecipazione alle emozioni altrui, che entrambi i filosofi denominano simpatia, è, secondo Smith, il nucleo della moralità: è dal simpatizzare con le persone coinvolte in un'azione (ad esempio con il beneficiario di un atto di generosità o con la vittima di una violenza) che insorgono in chi la osserva quei sentimenti di approvazione e disapprovazione verso chi la compie, sulla cui base vengono costruite le regole più generali della moralità; è dal guardare alle nostre proprie azioni dal punto di vista di un'altra persona, che le approva o disapprova osservandole in modo imparziale, che noi stessi valutiamo la nostra condotta. Smith ha sottolineato che sebbene in alcuni casi la condivisione delle emozioni altrui possa sorgere semplicemente alla loro vista, spesso essa richiede «un immaginario scambio di posto con chi soffre» [Smith 1759/1976; trad. it. 1995, 82]. Ciò avviene soprattutto quando si osserva qualcuno che non 9
è consapevole della propria disgrazia, come una persona che
ha perso la ragione o un bambino troppo piccolo per poter rendersi conto della gravità della malattia che lo ha colpito. In questi casi La compassione dello spettatore deve sorgere interamente dalla considerazione di ciò che lui stesso proverebbe se fosse ridotto nella stessa infelice situazione, rimanendo, cosa forse impossibile, allo stesso tempo capace di osservarla con la sua attuale ragione e il suo attuale giudizio [ibrdem, 87]. La nozione di simpatia, con esplicito riferimento a Hume e Smith è stata ripresa da Darwin [ 1871] nel quarto capitolo de I:origine dell'uomo, dove ha sottolineato il contributo che la partecipazione alle emozioni dei propri simili dà sia ai giudizi morali, mediante l'approvazione o disapprovazione, sia alla stessa azione morale, spingendo ad alleviare la sofferenza altrui. Anche quando siamo del tutto soli, quanto spesso dobbiamo pensare con piacere o dispiacere a ciò che gli altri pensano di noi, alla loro supposta approvazione o disapprovazione! E tutto ciò viene dalla simpatia, elemento fondamentale degli istinti sociali. Un uomo che non possedesse traccia di quegli istinti sarebbe un mostro innaturale [Darwin 1871; trad. it. 1994, 612]. Adam Smith tempo addietro ha detto, come ha fatto recentemente Bain, che la base della simpatia si trova nella nostra forte memoria di precedenti stati di pena o di piacere. Donde «la vista di un'altra persona che soffre la fame, freddo, la fatica, fa rivivere in noi il ricordo di tali stati, che sono penosi anche nel pensiero». Siamo così spinti ad alleviare le sofferenze altrui, in modo da alleviare nello stesso tempo i nostri sentimenti dolorosi [ibidem, 608]. Infine, secondo Darwin la simpatia è anche all'origine di rimorso, pentimento, dolore e vergogna. Questi sentimenti insorgono in un individuo dopo aver compiuto un'azione che ha danneggiato un membro della propria comunità per soddisfare un istinto momentaneamente più impellente di quelli sociali, ma di minor durata. Una volta che questo istinto è stato soddisfatto, torna a farsi sentire la simpatia, e con essa il ripensamento sull'azione compiuta, la previsione di cosa ne penseranno i
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compagni, insomma i sentimenti sopra enumerati, assieme al proponimento di comportarsi diversamente nel futuro. Contrariamente a chi sosteneva che il senso morale fosse appreso, Darwin era convinto che esso avesse una base innata, perché la simpatia è osservabile anche in diversi animali, e deve essere considerata un prodotto dell'evoluzione mediante selezione naturale, per i vantaggi che essa procura alle comunità quando i loro membri sono in grado di sperimentarla. Per quanto complessamente questo sentimento possa essersi originato, poiché è di notevole importanza per tutti quegli animali che si aiutano e si difendono reciprocamente, si sarà potenziato con la selezione naturale. Infatti quelle comunità che comprendono il maggior numero di membri legati da simpatia, prospereranno di più e alleveranno il maggior numero di prole [Darwin 1871; trad. it. 1994, 567].
Nella tradizione di pensiero che ha preceduto la nascita ufficiale della psicologia, la simpatia comprendeva dunque due aspetti strettamente intrecciati: quello cognitivo, consistente nel cogliere lo stato mentale di un'altra persona (l' «entrare nei sentimenti altrui», per usare le parole di Hume); quello emotivo, consistente nel provare a propria volta l'emozione attribuita all'altra persona, o una emozione congruente con la sua situazione, come conseguenza della vividezza delle immagini mentali con cui tale emozione o tale situazione sono rappresentate. A propria volta, le emozioni simpatetiche diventano il punto di partenza per l'approvazione o disapprovazione morale delle azioni, inducono a preoccuparsi di come si può essere giudicati (attraverso la simpatia nei confronti di chi ci giudica) e spingono ad agire moralmente. Di questi aspetti, è stato soprattutto quello cognitivo a ricevere inizialmente l'attenzione degli psicologi, che ne hanno parlato usando varie denominazioni, come coscienza eiettiva (cioè l'attribuzione ad una persona che vediamo compiere una certa azione degli stati mentali che noi stessi proviamo nel compierla [Baldwin 1897]), role taking (assumere il ruolo o il punto di vista di un altro [Mead 1934]), decentramento (rendersi conto che il proprio punto di vista è solo uno dei tanti possibili e cercare di capire anche quelli degli altri [Piaget 1947]), empatia. Secondo Wispé [1987], quest'ultimo termine è stato coniato 11
dallo psicologo americano Edward Titchener nei primi anni del Novecento per tradurre il tedesco Ein/iihlung, che ricorreva in alcuni testi di estetica per indicare il venir assorbiti dall'oggetto che si sta osservando. L'uso sia del termine tedesco che della sua traduzione inglese si è successivamente esteso dal campo dell'estetica a quello della personalità. Ein/iihlung nel 1921 è stato adottato da Freud in Psicologia di gruppo e analisi dell'Io per indicare il processo che ci consente di comprendere le altre persone, mentre empatia è stato adottato da Carl Rogers e dai suoi seguaci per indicare la capacità del terapeuta di entrare senza pregiudizi nel mondo di un'altra persona. La capacità di comprendere gli stati mentali altrui, i meccanismi ad essa soggiacenti, e i modi in cui si sviluppano sono attualmente al centro di un'area di ricerca estremamente vivace e attiva, denominata Teoria della mente, le cui origini sono del tutto indipendenti dai filoni di ricerca che in passato si sono occupati di questo tema. La capacità di descrivere e spiegare il comportamento proprio e altrui mediante l'attribuzione di stati mentali, denominata come «leggere la mente» o «mentalizzare», viene attribuita, da diversi studiosi attivi in questo tipo di ricerca, alla presenza, nella mente umana, di meccanismi innati che generano credenze circa gli stati mentali a partire da certi input percettivi, oppure ad un complesso di credenze sul funzionamento della mente organizzate come una teoria, che consentono di fare delle inferenze [Marraffa 2001]. Un terzo punto di vista, quello della simulazione, si richiama esplicitamente alla nozione di empatia, e sostiene invece che il riconoscimento e la comprensione delle azioni altrui derivano da una sorta di imitazione interiore dei loro movimenti. La scoperta di neuroni specchio, neuroni che si attivano sia quando si esegue un'azione, sia quando la si vede eseguire da qualcun altro, fornisce la spiegazione in termini neuropsicologici di come tale simulazione possa avvenire [Gallese 2001]. L'aspetto emotivo della simpatia, cioè l'entrare in risonanza con le emozioni di altre persone, venendo sollecitati a soccorrere e confortare chi soffre e a provare rimorso se si è causa della sofferenza, dovette invece attendere a lungo prima di diventare oggetto delle ricerche psicologiche. Secondo Allport [1968], durante i primi decenni del Novecento di rado vennero condotte 12
delle indagini empiriche sui comportamenti positivi nei confronti delle altre persone e le loro basi motivazionali, perché la teoria freudiana, la Prima guerra mondiale, e un clima culturale in cui prevalevano le teorie irrazionalistiche attiravano piuttosto l'attenzione sui comportamenti aggressivi. Quando finalmente iniziarono a fiorire degli studi sui comportamenti sociali positivi, nel campo delle dinamiche di gruppo, delle risoluzioni di conflitti, delle relazioni industriali, raramente in essi compariva il termine simpatia, forse perché dava l'impressione di essere poco scientifico. Gli studi sulle forme positive di comportamento sociale (come dare, aiutare) crebbero enormemente a partire dagli anni Sessanta [Wispé 1987], stimolati anche dalle teorizzazioni dell'etologia e della sociobiologia sul comportamento altruistico, che a loro volta riprendevano le teorie darwiniane, e questo consentì alla simpatia (ribattezzata come empatia) di trovare posto tra le possibili motivazioni di tale comportamento. Si trattava però di un ambito di ricerca distinto da quello sulla moralità, cioè su emozioni come rimorso, vergogna, senso di colpa, sui giudizi di approvazione o disapprovazione morale di un'azione, e sui comportamenti conformi a regole morali, che vennero invece condotte all'interno di altri approcci. La più influente teoria psicologica sullo sviluppo morale è stata per diversi decenni quella freudiana, secondo cui c'è un conflitto tra le inclinazioni naturali dell'individuo e le esigenze della vita sociale. Gli esseri umani vengono al mondo con una dotazione di pulsioni (di autoconservazione, sessuali, aggressive) la cui libera soddisfazione avrebbe conseguenze distruttive su altre persone, e privi di qualsiasi tendenza di natura sociale. La moralità (il Super-Io) si instaura durante la fanciullezza attraverso l'incorporazione di qualcosa di esterno: le proibizioni dei genitori, assieme alle norme sociali che esse rappresentano, e l'ostilità rivolta verso il rivale edipico, che può ora essere rivolta verso il sé, dando origine al senso di colpa che, assieme alla paura delle punizioni e dell'abbandono, è la forza motivazionale che induce a rispettare le regole [Freud 1932]. Secondo questo punto di vista, il momento cruciale per la formazione della coscienza morale è quello edipico. Verso i 5-6 anni le fondamenta del Super-Io e le parti principali dell'edificio dovrebbero essere ormai costruiti. 13
I teorici dell'apprendimento, pur non condividendo l' accento posto da Freud sulla sessualità infantile, hanno condiviso con lui l'idea dell'asocialità e amoralità dei bambini piccoli, e della necessità per i genitori di modificare le inclinazioni naturali dei figli inducendoli prima ad obbedire ai loro comandi e poi, tramite la formazione di riflessi condizionati, a interiorizzare tali comandi sotto forma di regole a cui obbedire anche in assenza di qualcuno che impone e controlla. Anche secondo queste teorie paura e ansia hanno un ruolo cruciale nell'attuazione di questa interiorizzazione, seppure attraverso processi diversi da quelli postulati dalla psicoanalisi [Hoffman 19706]. La teoria psicanalitica e quelle dell'apprendimento hanno guidato gran parte delle ricerche empiriche condotte fino agli anni Sessanta del Novecento, in particolare quelle sulle conseguenze che differenti tecniche disciplinari adottate dai genitori possono avere su vari aspetti del comportamento morale dei bambini: la capacità di resistere alle tentazioni, la tendenza a confessare le malefatte, le manifestazioni di senso di colpa. A partire dagli anni Sessanta, con la rivoluzione cognitivista ha cominciato ad affermarsi la teoria di Piaget [1932], che ha messo in primo piano il ruolo del giudizio morale, cioè i criteri usati dai bambini a diverse età per valutare le azioni come buone o cattive, giuste o ingiuste. Laurence Kohlberg, che ha ripreso ed elaborato la teoria di Piaget proponendo l'approccio cognitivo-evolutivo (cognitive-developmenta{), ha condotto e guidato fino agli anni Ottanta molte ricerche sullo sviluppo del ragionamento morale dalla fanciullezza all'età adulta, e ha ispirato un filone di ricerca, tuttora molto produttivo, sulla concezione e l'osservanza di diversi tipi di regole [Turiel 1998; Nucci 2001]. Pur focalizzandosi sul ragionamento, questa linea di ricerca non ha sottovalutato il ruolo delle emozioni nel comportamento morale: secondo Piaget sono esse a dotare le regole sociali del senso di obbligo che le caratterizza e che induce le persone ad adeguare ad esse la propria condotta. Le emozioni di cui parla Piaget sono molto diverse da quelle su cui hanno posto l'accento Freud e i teorici dell' apprendimento, e più affini a quelle della tradizione dei sentimenti benevoli a cui appartiene Smith: «Il comportamento del bambino verso le persone testimonia fin dagli inizi tendenze alla simpatia e reazioni affettive in cui è facile trovare 14
gli elementi costitutivi di tutte le condotte morali ulteriori» [Piaget 1932; trad. it. 1972, 328]. Dai «sentimenti elementari» [ibidem, 329] presenti nei primi mesi di vita, si sviluppano secondo Piaget altri sentimenti più complessi, in parallelo con lo sviluppo cognitivo e sociale. Emerge per primo il rispetto per i genitori, che è unilaterale perché è improntato dalla percezione della loro superiorità, ed induce a ritenere giusto, buono, e obbligante ogni loro comando. Man mano che i bambini diventano capaci di interagire con i coetanei, si instaurano rapporti di cooperazione in cui nessuno (dato che non ci sono differenze di potere o di autorità) può imporsi agli altri. Ogni bambino è indotto così a capire il punto di vista degli altri mettendosi nei loro panni, e a fare in modo che essi capiscano il suo, e il rispetto diventa reciproco. Nei contesti di cooperazione, i bambini giungono a costruire spontaneamente, attraverso una serie di aggiustamenti o di una esplicita negoziazione, sia delle regole relative ad aspetti più o meno specifici dei loro giochi (ad esempio riguardo all'ordine in cui cominciare, o al come assegnare i ruoli in un gioco di gruppo), sia dei principi generali di giustizia, fino a capire la necessità di trattare gli altri come essi stessi vorrebbero essere trattati. Il rispetto di queste regole e di questi principi deriva, a questo punto, dalla sensibilità dei bambini per i sentimenti degli altri e dal desiderio di continuare a mantenere con essi dei rapporti basati sulla cooperazione e il mutuo rispetto. Benché l'analisi dei sentimenti coinvolti nella formazione e nel rispetto delle regole costituisca una parte importante del testo di Piaget sul giudizio morale nel bambino, né Piaget, né Kohlberg né gli altri studiosi che ad essi si sono ispirati hanno cercato di tradurre questa analisi in ipotesi verificabili empiricamente, limitando le loro indagini allo sviluppo del giudizio e del ragionamento morale. Inoltre, le loro ricerche, condotte mediante interviste, raramente hanno incluso i bambini in età prescolare. La proposta, formulata da Martin Hoffman [1963] agli inizi degli anni Sessanta, di estendere lo studio del comportamento morale all'altruismo e alla considerazione per gli altri, e di includere anche il dispiacere empatico tra le emozioni 15
moralmente rilevanti, fu per quegli anni una grande novità, e stimolò la nascita di un approccio allo sviluppo morale diventato sempre più importante, tanto da essere attualmente fra quelli dominanti. Oltre che alla ricerca empirica, Hoffman si dedicò alla sistematizzazione teorica. Egli mise in chiaro le matrici filosofiche del concetto di empatia, richiamandosi ad autori come Shaftesbury, Hume e Adam Smith [Hoffman 1982a]; riformulò il concetto di senso di colpa, che nella psicanalisi era definito come aggressività rivolta verso il Sé, e considerato potenziale fonte di disturbi mentali, sostenendo che il senso di colpa è dispiacere empatico per la sofferenza di un'altra persona, unito alla convinzione di essere causa di tale sofferenza; propose delle sequenze di sviluppo dell'empatia e del senso di colpa che, a differenza di quelle di Piaget e di Kohlberg, iniziavano con i primi anni di vita, addirittura con la nascita, quando i bambini già manifestano l'inclinazione a reagire alle emozioni altrui, rispondendo con il proprio pianto al pianto di un altro bambino [Sagi e Hoffman 1976]. Gli effetti che questa proposta ebbe negli anni Settanta in una panorama dominato, come abbiamo visto, dagli approcci psicanalitico, comportamentista e cognitivo-evolutivo, vengono così descritti da due studiose dello sviluppo em~tivo e morale nei primi anni di vita: Il lavoro teoretico condotto da Hoffman negli anni Settanta [Hoffman 1975] è stato rivoluzionario nel fornire una cornice concettuale che consentiva di integrare approcci diversi alla comprensione dell'interiorizzazione della responsabilità. Egli metteva l'accento sull'interazione di affetti, comportamenti e cognizioni nello sviluppo prosociale e morale. Proponeva degli stadi di sviluppo che mettevano in evidenza l'importanza non solo della media ma anche della prima fanciullezza. Le precedenti concettualizzazioni ritenevano che prima dell'età scolare i bambini non fossero capaci di azioni morali e di comportamenti di cura verso gli altri. La teoria psicanalitica proponeva che la risoluzione del complesso edipico fosse una precondizione necessaria per lo sviluppo del super-io. Le teorie social-cognitive e le teorie stadiali dello sviluppo morale ritenevano che raffinate capacità di pensiero simbolico e rappresentazionale fossero dei prerequisiti per il comportamento morale-etico. Anche le teorie comportamentistiche tendevano a studiare i bambini più grandi, forse per ragioni metodologiche. Storicamente, dunque, con poche eccezioni, gli approcci occidentali allo sviluppo morale avevano portato a teorie e a dati che mettevano in secondo piano la prima fanciullezza [Zahn-Waxler e Robinson 1995, 143-144].
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Le ricerche sui primi anni di vita stimolate da Hoffman hanno messo in evidenza che i bambini già a due anni sono capaci sia di comportamenti prosociali (confortare, aiutare) sia di comportamenti più tradizionalmente considerati morali (senso di colpa, riparazione di una malefatta), sollecitando a rivedere i punti di vista del passato riguardo non solo allo sviluppo ma anche all'educazione morale. Se, come sostiene Hoffman, il senso di colpa comincia a formarsi già a 2-3 anni, e richiede degli interventi da parte dei genitori e altri adulti a contatto con i bambini, per richiamare la loro attenzione sulla sofferenza che il loro comportamento (tirare i capelli, dare uno spintone, portare via un giocattolo) infligge a qualcun altro, è dall'asilo nido che bisogna iniziare l'educazione morale e la prevenzione di prepotenze e atteggiamenti antisociali. Questa educazione deve poi proseguire, e a questo riguardo Hoffman dà alcune indicazioni su come aiutare i bambini (e non solo loro) a comprendere i principi della giustizia, a prendere delle decisioni nei casi in cui empatia e giustizia sono in conflitto, e a contrastare i bias dell'empatia. Come spiega Hoffman, l'empatia non ci spinge a condividere le emozioni degli altri in modo imparziale, ma è vulnerabile rispetto a due tipi di distorsioni o bias: quello di familiarità, che ci induce a empatizzare soprattutto con le persone con cui condividiamo l'appartenenza ad un gruppo (etnico, religioso, professionale o altro), o con cui abbiamo legami di amicizia o parentela; il bias di vicinanza, che ci induce a empatizzare con chi per qualche ragione avvertiamo come vicino perché visibile, o perché la sua situazione ci viene vividamente presentata da testi scritti o da filmati, rispetto a chi appare solo un numero in una statistica, come quella relativa al numero di bambini che muoiono ogni anno per malattie non curate o malnutrizione. Il pensiero e le ricerche di Hoffman sono in parte già note in Italia, non solo agli studiosi ma anche a psicologi ed educatori interessati allo sviluppo morale, grazie ai compendi contenuti in manuali di psicologia dello sviluppo [Berti e Bombi 1988; 2005] e soprattutto ad alcuni testi dedicati espressamente ali' empatia [Bonino, Lo Coco e Tani 1998; Albiero e Matricardi 2006]. Ma Empatia e sviluppo morale, in cui Hoffman espone la sintesi delle ricerche empiriche e delle elaborazioni teoriche della
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sua intera vita di studioso, presenta un interesse che travalica il campo della psicologia e dell'educazione, investendo temi che riguardano più in generale l'etica, la politica, e le scienze sociali nel loro complesso, e offrendo dei concetti che possono aiutare a capire fenomeni della vita sociale che ci toccano tutti da vicino. ANNA EMILIA BERTI
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MARTIN L. HOFFMAN
EMPATIA E SVILUPPO MORALE
CAPITOLO PRIMO
INTRODUZIONE
Quando dico a qualcuno che il mio campo di studio è lo sviluppo morale, di solito la prima reazione è il silenzio - o, a volte, un'esclamazione di sorpresa. Pensano, costoro, che mi riferisca alla religione, al dire la verità, al declino della famiglia tradizionale, alla proibizione di droghe e alcol e alle gravidanze adolescenziali. Quando aggiungo che mi occupo della considerazione che le persone hanno verso gli altri, gli interlocutori si fanno attenti, dopodiché osservano che deve trattarsi di un oggetto di studio piuttosto frustrante, visto che ognuno bada anzitutto a se stesso: chi mai si prende cura degli altri (famiglia a parte, forse)? Ma quando faccio notare loro che se ognuno si fosse preso cura solo di se stesso la specie umana non sarebbe sopravvissuta, si fermano, ci riflettono sopra e dicono qualcosa come: «Ma lo sai che forse hai ragione ... ». Quello evoluzionistico è un argomento forte; sembra ovvio che gli esseri umani debbano avere geni per il mutuo aiuto, visto che, a suo tempo, cacciatori e raccoglitori non sarebbero sopravvissuti se non si fossero aiutati l'un l'altro. Comunque sia, quelli che studiano il comportamento morale prosociale lo fanno nel «primo mondo» alla fine del XX secolo, in una società attraversata da individualismo competitivo e indifferenza verso il prossimo, e sono tutti perfettamente consapevoli che per quanto una persona si prenda cura degli altri, ognuno alla resa dei conti pensa prima di tutto a se stesso: lui (lei) non è l'altro. Ciò nondimeno, le persone fanno sacrifici per gli altri - grandi sacrifici, a volte - e spesso li aiutano in modi meno importanti, e tutto ciò migliora la qualità della vita di tutti e rende possibile l'esistenza sociale. Vi è dunque qualcosa da studiare. Non per nulla si tratta di un tema che ha interessato i filosofi a partire (almeno) da Aristotele, e che gli psicologi studiano da quasi un secolo. La persistenza di
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questo tema si deve, a mio giudizio, all'ovvia importanza che esso riveste per l'organizzazione sociale e al fatto che sintetizza il dilemma esistenziale umano: come affrontare gli inevitabili conflitti tra bisogni egoistici e obblighi sociali. La filosofia e la religione offrono diverse risposte a questo dilemma, e queste risposte si ripresentano nelle teorie psicologiche contemporanee. Secondo la «dottrina del peccato originale», ad esempio, l'uomo nasce egoista e poi, attraverso la socializzazione, acquisisce una coscienza morale che controlla l'egoismo; questa dottrina corrisponde alle prime formulazioni teoriche freudiane e alle teorie dell'apprendimento sociale, che sottolineano quanto siano importanti, per lo sviluppo morale, le ricompense e le punizioni dei genitori (soprattutto il dare o negare affetto). Diametralmente opposta, e più interessante, è la «dottrina della purezza innata», associata al nome di Rousseau. Essa considera il bambino naturalmente buono (sensibile agli altri), ma vulnerabile all'azione corruttrice della società. Questa dottrina corrisponde, per certi aspetti, alla teoria di Piaget; la quale, benché non affermi che i bambini siano naturalmente puri, suppone però che la loro relazione con gli adulti crei un rispetto eteronomo per le regole e per l'autorità che interferisce con lo sviluppo morale. Questa corruzione da parte degli adulti può essere vinta solo dal reciproco «dare e avere» dell'interazione libera, senza supervisione, con i propri pari, che, assieme alle capacità cognitive che si sviluppano naturalmente, permette ai bambini di assumere il punto di vista altrui e di sviluppare un'etica autonoma. La somiglianza con la dottrina della «purezza innata» sta nel fatto che l'interazione libera e naturale del bambino premorale favorisce lo sviluppo morale, mentre l'interazione con gli adulti (socializzati) lo ostacola. Tra i filosofi, Immanuel Kant e i suoi eredi - che cercarono di dedurre principi di giustizia universali e applicati in modo imparziale - hanno ispirato il tentativo di Kohlberg (e, in minor misura, di Piaget) di descrivere una successione invariante di stadi morali universali. La versione britannica dell'utilitarismo rappresentata, tra gli altri, da David Hume e Adam Smith, che consideravano l'empatia un legame sociale necessario - trova espressione nelle attuali ricerche sull'empatia, la compassione e l'etica del prendersi cura.
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Le teorie contemporanee dello sviluppo morale prosociale tendono a focalizzarsi su una singola dimensione, ognuna con i suoi propri processi esplicativi. Le teorie dell'apprendimento sociale si occupano del comportamento di aiuto e affrontano in particolare i processi implicati nella ricompensa, nella punizione e nell'imitazione. Le teorie dello sviluppo cognitivo riguardano il ragionamento morale e si servono di concetti come quelli di assunzione di prospettiva (perspective taking), reciprocità, disequilibrio cognitivo, costruzione progressiva e ca-costruzione. Le teorie dello sviluppo emotivo e motivazionale fanno appello a concetti come quelli di identificazione con il genitore, angoscia per la perdita dell'amore, empatia, simpatia, senso di colpa e interiorizzazione morale. Mi occupo da tempo della dimensione emotivo-motivazionale e specialmente dello sviluppo dell'empatia, del senso di colpa e dell'interiorizzazione morale. A mio giudizio, l'empatia è la scintilla da cui nasce l'interesse umano per gli altri, il collante che rende possibile la vita sociale. Potrà essere fragile ma, verosimilmente, ha accompagnato finora la nostra evoluzione e può ben darsi che duri tanto quanto l'umanità. In questo libro aggiorno i miei studi precedenti e li inquadro in una teoria generale del comportamento morale prosociale e del suo sviluppo, che mette in luce il ruolo morale dell'empatia nell'emozione, nella motivazione e nella condotta, ma attribuisce anche speciale importanza alla cognizione. Il mio obiettivo è chiarire i processi che si trovano alla base dell'attivazione dell'empatia e il ruolo che questa ha nella condotta prosociale. Descriverò le forme in cui l'empatia si sviluppa, dalle forme preverbali presenti, forse nei primi esseri umani e ancor oggi nei primati, fino alle più sofisticate espressioni di interesse per le sottili e complesse emozioni umane. Esaminerò inoltre il contributo dell'empatia ai principi del prendersi cura e della giustizia, alla soluzione dei conflitti fra cura e giustizia, e al giudizio morale. Sono trent'anni che lavoro a questa teoria. Essa include elementi degli orientamenti filosofici e psicologici menzionati sopra, ma anche della psicologia cognitiva contemporanea memoria, elaborazione delle informazioni, attribuzione causale e, specialmente, la sintesi di affetto e cognizione. Il suo focus primario è la considerazione per gli altri - quella che spesso è chiamata «etica del prendersi cura» - ma include anche la 23
«giustizia» e la relazione (di mutuo sostegno, benché a volte contraddittoria) tra il prendersi cura e la giustizia. La teoria si propone di dar conto dell'azione umana in cinque tipi di incontri o dilemmi morali, che, mi sembra, abbracciano la maggior parte del dominio morale prosociale. 1. Nel primo tipo, il più semplice, vi è uno spettatore innocente del dolore o della sofferenza altrui (di tipo fisico, emotivo, economico). Il problema morale è: la persona darà aiuto? e, se non lo fa, come si sentirà? 2. Il secondo tipo implica un trasgressore che nuoce o è in procinto di nuocere a qualcuno (in modo accidentale, in una lotta, in una disputa). Qui il problema morale è: la persona eviterà di nuocere ali' altro? e, in caso contrario, si sentirà poi colpevole? 3. Nel terzo tipo di dilemma, che combina elementi dei primi due, vi è un trasgressore virtuale che, pur essendo innocente, crede di avere fatto del male a qualcuno. 4. Il quarto tipo è più complesso: implica più parti morali (multiple mora! claimants) tra le quali la persona è costretta a scegliere. Il problema morale è: a chi dare aiuto? e la persona si sentirà colpevole per avere trascurato gli altri? 5. Il quinto tipo, nel quale il prendersi cura si contrappone alla giustizia, implica non solo più parti morali, ma anche un conflitto fra la considerazione per il prossimo e temi più astratti quali i diritti, il dovere, la reciprocità. Il problema morale in questo caso è: quale principio prevarrà, la cura o la giustizia? e ci sentiremo colpevoli per avere violato l'altro principio? Questi dilemmi - il dilemma tra più parti morali e quello tra cura e giustizia - sono particolarmente importanti in società come le nostre, che stanno diventando sempre più diversificate culturalmente. Tutte e cinque queste situazioni condividono una base motivazionale empatica - dove l'empatia è definita come una risposta affettiva più consona alla situazione di un altro che non alla propria. Ogni situazione è caratterizzata da sofferenza empatica - si soffre ad osservare qualcuno che soffre - e da una o più motivazioni derivate da tale sofferenza: sofferenza simpatetica, rabbia empatica, sentimento empatico di ingiustizia, senso di colpa. Il libro inizia con un'analisi della situazione dello spettatore innocente, il cui modello si propone di rispondere alle
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seguenti domande: quali sono le motivazioni che inducono lo spettatore innocente ad aiutare la vittima? Quali sono i meccanismi psicologici alla base dell'attivazione di queste motivazioni? Qual è il loro corso di sviluppo? Queste domande trovano risposta nei primi tre capitoli (prima parte) del libro. Il capitolo secondo comincia definendo l'empatia come una risposta affettiva più consona alla situazione di un altro che non alla propria. Il tema centrale è la sofferenza empatica (empathic distress), giacché di solito gli spettatori sono tipicamente nella posizione di rispondere a qualcuno che soffre. Illustreremo le prove che mostrano che la sofferenza empatica agisce come una motivazione morale prosociale, ma la maggior parte del capitolo riguarda le varie modalità di attivazione dell'empatia. Se, come ho sostenuto altrove [Hoffman 1981], l'empatia è frutto della selezione naturale, essa deve essere una risposta multideterminata, che può essere suscitata da segni o indizi di sofferenza provenienti dalla vittima o dalla situazione in cui essa si trova. Tale in effetti è, ed esamineremo qui cinque forme chiaramente distinte di attivazione empatica. Tre sono preverbali, automatiche ed essenzialmente involontarie: a) la mimesi (mimicry) motoria e la retroazione afferente che ne segue; b) il condizionamento classico; e) l'associazione diretta tra indizi provenienti dalla vittima o dalla sua situazione e le passate esperienze dolorose dell'osservatore. L'empatia suscitata da queste tre modalità è una risposta affettiva passiva e involontaria, che dipende da stimoli superficiali e richiede il livello più basso di elaborazione cognitiva. Questa semplice forma di sofferenza empatica è tuttavia importante, proprio perché mostra che gli esseri umani sono fatti in modo tale da poter provare, involontariamente e intensamente, le emozioni di un'altra persona - che spesso la loro sofferenza dipende da un'esperienza dolorosa altrui, piuttosto che propria. Queste tre modalità preverbali sono cruciali per suscitare empatia nei bambini, specialmente nelle situazioni faccia a faccia, ma continuano ad operare e a dotare l'empatia di una dimensione di involontarietà nel corso di tutta la vita. Non solo consentono a una persona di rispondere a qualunque segnale, ma la costringono a farlo - in modo istantaneo, automatico e senza richiedere consapevolezza conscia.
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Vi sono poi due modalità cognitive di ordine superiore: d) l'associazione mediata, cioè l'associazione tra indizi espressivi provenienti dalla vittima o indizi forniti dalla sua situazione e le esperienze dolorose che la persona ha avuto in passato, associazione che è mediata dall'elaborazione semantica di informazioni provenienti dalla vittima o che la riguardano; e) e l'assunzione del ruolo o della prospettiva di qualcun altro (role-taking, perspective-taking), quando la persona immagina come si sente la vittima o come lei stessa si sentirebbe se fosse al suo posto. Tutte e due queste modalità possono essere protratte nel tempo e controllate volontariamente, ma, quando l'attenzione della persona è rivolta alla vittima, possono attivarsi involontariamente e immediatamente alla vista della sofferenza di questa. Esse contribuiscono a estendere la portata della capacità empatica e permettono di provare empatia per qualcuno che non è presente. A causa dell'esistenza di più modalità di attivazione, la mia definizione di empatia non comporta necessariamente, benché spesso la includa, una stretta corrispondenza fra lo stato affettivo dell'osservatore e quello della vittima. Le diverse forme di attivazione empatica assicurano un certo grado di corrispondenza, anche in culture differenti (come vedremo più avanti), e ciò per due ragioni: 1. la mimesi (mimicry) che può essere automatica e avere una base neurale, assicura una corrispondenza quando l' osservatore e la vittima sono in contatto faccia a faccia; 2. il condizionamento e l'associazione assicurano una corrispondenza perché tutti gli esseri umani sono strutturalmente affini ed elaborano le informazioni in modo simile, cosicché è probabile che rispondano a eventi analoghi con analoghe emozioni. Ma a volte l'empatia non richiede una corrispondenza ma anzi può richiedere una certa discrepanza, come quando le condizioni di vita della vittima vengono mascherate dai suoi sentimenti nella situazione immediata. È in queste occasioni che la mediazione verbale e l'assunzione di ruolo possono avere un ruolo centrale. Nel capitolo terzo, uno dei capitoli chiave del libro, presento la mia teoria dello sviluppo della sofferenza empatica. La mia tesi è che nello sviluppo avvenga una sintesi tra le emozioni
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empatiche dei bambini e la loro crescente consapevolezza cognitiva degli altri in quanto distinti da sé. Questa sintesi dà origine a cinque «stadi» di sviluppo della sofferenza empatica: a) il pianto reattivo del neonato; b) la sofferenza empatica egocentrica, nella quale il bambino risponde alla sofferenza altrui come se fosse lui stesso a patirla; ciò accade nel periodo di sviluppo in cui il bambino è capace di sofferenza empatica (sulla base delle prime forme di attivazione di tipo preverbale) ma ancora non distingue chiaramente tra sé e l'altro; c) la sofferenza empatica quasi-egocentrica, nella quale i bambini si rendono conto che la sofferenza non è loro, ma dell'altro, e tuttavia confondono gli stati interni dell'altro con i propri e cercano di aiutarlo facendo per lui ciò che darebbe conforto a loro stessi; d) la sofferenza empatica veridica, nella quale il bambino è più vicino a sentire ciò che l'altro sente realmente, perché giunge a rendersi conto che l'altro ha stati interni indipendenti dai suoi; e) l'empatia nei confronti di esperienze altrui che vanno oltre la situazione immediata (per esempio: malattie croniche, difficoltà economiche, privazioni), quando il bambino si rende conto che la vita di altre persone può essere fondamentalmente triste o lieta, e, come sottocategoria, quando il bambino prova empatia nei confronti di un intero gruppo (senzatetto, vittime di attentati terroristici). In questo capitolo presento anche le prove dell'ipotesi che, a partire dallo stadio c), la sofferenza empatica dei bambini si trasformi, in parte, in un sentimento di sofferenza simpatetica o di compassione per la vittima, e che, da quel momento, quando il bambino osserva una persona che sta soffrendo, avverta tanto sofferenza empatica quanto simpatetica. Nel resto del volume, con il termine sofferenza empatica farò riferimento a una combinazione di ambedue i tipi di sofferenza (empatica/ simpatetica). In questo schema di sviluppo, ogni nuovo stadio comprende e riunisce in sé le conquiste dei precedenti. Nello stadio più avanzato si è esposti a un insieme di informazioni sulle condizioni della vittima che può includere segni espressivi verbali e non verbali provenienti dalla vittima stessa, conoscenze sulle sue condizioni di vita e indizi situazionali. Le informazioni che provengono da queste fonti sono elaborate separatamente: segni non verbali suscitano l'empatia attraverso forme di elaborazione
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essenzialmente involontarie e cognitivamente superficiali (mimesi, condizionamento, associazione); i messaggi verbali della vittima, la descrizione del suo stato o della sua condizione da parte di una terza persona, la conoscenza personale che ne abbiamo, richiedono, per suscitare una risposta empatica, forme di elaborazione più complesse (associazione mediata, assunzione di ruolo). Nello stadio più avanzato, possiamo riprodurre mentalmente le emozioni e le esperienze suggerite da queste informazioni e considerarle introspettivamente, e in tal modo possiamo comprendere e rispondere affettivamente alle situazioni, ai sentimenti e ai desideri dell'altro, pur mantenendo il senso di separazione tra questa persona e noi stessi. E se le informazioni che possediamo sulle condizioni di vita dell'altro ne contraddicono il comportamento nella situazione immediata, la nostra risposta empatica può essere influenzata da tali informazioni, oltre (e forse più) che dal suo comportamento immediato. Già a questo punto dovrebbe essere chiaro che la cognizione ha un ruolo importante nello sviluppo della sofferenza empatica. La sua importanza appare ancora più evidente nel capitolo quarto, che illustra la tendenza umana a spiegare gli eventi in chiave causale e mostra come le attribuzioni sulla causa della sofferenza altrui possano articolare la sofferenza empatica in quattro affetti morali fondati sull'empatia. 1. Quando la causa è oltre la possibilità di controllo della vittima (malattia, incidente, perdita), la sofferenza empatica degli osservatori si trasforma, almeno in parte, in sofferenza simpatetica, come nella trasformazione evolutiva della sofferenza empatica in simpatetica analizzata nel capitolo terzo. 2. Se la causa è una terza persona, la sofferenza empatica si trasforma in rabbia empatica, cioè una risposta empatica alla rabbia della vittima o un sentimento duplice di tristezza o delusione empatica (se è questo, e non rabbia, ciò che la vittima avverte) e, insieme, di rabbia verso il colpevole. Questa forma duale di rabbia empatica può essere quella prevalente in società come la nostra, dove, a causa della socializzazione, non è usuale avere sentimenti di rabbia aperta. Anche in questo caso, l'empatia comporta una discrepanza fra i sentimenti dell'osservatore e quelli della vittima. 3. Quando vi è una discrepanza tra la natura della vittima e la sua sorte (quando, ad esempio, una brava persona se la 28
passa male), la patente violazione del principio di reciprocità o giustizia può trasformare la sofferenza empatica dell'osservatore in un sentimento empatico di ingiustizia. 4. Infine, se gli osservatori non prestano aiuto alla vittima o se i loro sforzi sono vani (fosse anche per buone ragioni), essi possono considerarsi causa del fatto che la vittima abbia continuato a soffrire, e questa percezione può trasformare la sofferenza empatica in senso di colpa per inazione. Ovviamente, può accadere che una persona mitighi la propria sofferenza empatica incolpando la vittima della sua stessa sofferenza. Un aspetto importante del modello dello spettatore è che la sofferenza empatica e le risposte affettive su base empatica non richiedono che la vittima sia materialmente presente. Poiché gli esseri umani hanno la capacità di rappresentarsi gli eventi e di immaginarsi al posto di un'altra persona, e poiché gli eventi rappresentati hanno il potere di evocare risposte affettive, per avvertire sofferenza empatica tutto quel che occorre è immaginare le vittime (come quando leggiamo delle disgrazie di qualcuno, consideriamo problemi economici o politici che comportano vittime reali o potenziali, o formuliamo giudizi à la Kohlberg su dilemmi morali ipotetici). Possiamo anche trasformare una questione morale astratta in una con valenza empatica immaginando, ad esempio, le vittime di una riduzione di personale e i loro sentimenti. La capacità di rappresentazione fa sì che la morale empatica trascenda gli incontri faccia a faccia tra i bambini e i membri del gruppo primario, sui quali si sono concentrate finora la maggior parte delle ricerche. In tal modo, il modello dello spettatore giunge ad abbracciare una varietà di situazioni il cui limite non è dato dalla presenza della vittima ma dall'immaginazione dell'osservatore. Come il modello dello spettatore è l'incontro morale prototipico per ciò che riguarda l'empatia, e specialmente la sofferenza empatica, così il modello della trasgressione è l'incontro morale prototipico per ciò che riguarda il senso di colpa per trasgressione basato sull'empatia (contrapposto al senso di colpa dello spettatore per inazione). Il modello della trasgressione, inoltre, pone l'accento sulla prima socializzazione del bambino nella famiglia ed è l'incontro prototipico per l'interiorizzazione morale. Le questioni morali sono le seguenti: che cosa motiva una persona a evitare di danneggiare gli altri e a tener conto
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delle loro necessità, anche quando esse sono in conflitto con le proprie? Quando arrechiamo danno a qualcuno, ci sentiamo poi colpevoli? Quando pensiamo di agire in un modo strumentale e interessato, che sappiamo potrà danneggiare qualcuno (benché non sia questa la nostra intenzione), ci aspettiamo di provare sofferenza empatica e senso di colpa? E che cosa si intende esattamente per interiorizzazione morale? Questi temi sono trattati nella seconda parte del libro (capp. V e VI). Il senso di colpa e l'interiorizzazione morale sono al centro del capitolo quinto, nel quale descrivo il senso di colpa per trasgressione basato sull'empatia, presento i dati che dimostrano che esso esiste e che agisce come motivazione morale prosociale, e avanzo delle ipotesi sui processi di sviluppo che intervengono nella sua formazione. Sottolineo anche l'importanza dell'interiorizzazione morale, che definisco semplicemente così: la struttura morale prosociale di una persona è interiorizzata quando essa l'accetta e si sente obbligata a rispettarla a prescindere da sanzioni esterne; in altri termini, le ricompense e le punizioni che prima facevano sì che la persona tenesse conto degli altri hanno perso la maggior parte della loro forza, ed essa sente che la motivazione a tenere conto degli altri scaturisce autonomamente dal suo interno. Nello stesso capitolo sono analizzate le varie concezioni dell'interiorizzazione morale: dalla teoria freudiana alle teorie dell'apprendimento sociale, dello sviluppo cognitivo, dell'attribuzione, dell'elaborazione delle informazioni. Di queste concezioni, quelle che mi sono apparse più utili trovano posto nella teoria dello sviluppo del senso di colpa e dell'interiorizzazione morale esposta nel capitolo sesto. La mia definizione di motivazione morale interna è che essa: a) ha un carattere irresistibile e obbligatorio; b) è qualcosa che sentiamo provenire dall'interno; e) ci fa sentire colpevoli quando compiamo o consideriamo la possibilità di compiere delle azioni che danneggiano gli altri; d) fa sì che teniamo conto dei bisogni degli altri anche quando sono in conflitto con i nostri. Quando questo conflitto ha luogo, i processi attivatori dell'empatia che agiscono nella situazione dello spettatore possono non avere abbastanza forza da motivare una persona ad agire in modo prosociale. Per creare motivazioni prosociali sufficientemente forti da operare in situazioni di conflitto, i genitori devono attivamente socializzare il bambino al rispetto per gli altri. 30
I genitori interagiscono con il bambino in vari modi, ma solo negli incontri di tipo disciplinare essi creano le interconnessioni necessarie per il senso di colpa e per l'interiorizzazione morale: vale a dire, le interconnessioni tra le motivazioni egoistiche del bambino, il suo comportamento e i danni che ne conseguono per gli altri. E solo negli incontri disciplinari i genitori sollecitano il bambino a controllare il proprio comportamento e tener conto dei bisogni e dei diritti altrui. Se i genitori lo fanno in modo appropriato, possono far vivere ai loro figli l'esperienza di controllare la propria condotta attraverso l'elaborazione attiva delle informazioni sulle conseguenze delle proprie azioni per gli altri; esperienza che favorisce lo sviluppo di una motivazione interna, fondata sull'empatia, a tener conto degli altri. Farlo in modo appropriato vuol dire ricorrere a un atto di induzione quando il bambino nuoce o è sul punto di nuocere a qualcuno. L'induzione mette in risalto sia la sofferenza della vittima sia il comportamento del bambino che l'ha provocata e, come è stato dimostrato, contribuisce allo sviluppo del senso di colpa e all'interiorizzazione dei principi morali. La mia spiegazione è questa: le pratiche disciplinari del genitore comprendono quasi sempre elementi di affermazione del potere e di ritiro dell'amore che sollecitano il bambino o la bambina a prestare attenzione al genitore: se la sollecitazione è debole può accadere che il bambino ignori il genitore; se è eccessiva è possibile che le emozioni suscitate nel bambino (ostilità, timore) gli impediscano di elaborare efficacemente le informazioni dell'induzione e di concentrare l'attenzione sulle conseguenze che le sue azioni hanno su lui stesso. Un'induzione che si adatti al livello cognitivo del bambino e lo solleciti solo quanto basta perché elabori l'informazione dell'induzione e ponga mente alle conseguenze delle sue azioni per la vittima, può suscitare sofferenza empatica e senso di colpa (tramite i meccanismi di attivazione descritti sopra). In questo modo i genitori possono approfittare di un alleato già presente nel bambino - la sua inclinazione all'empatia - e creare una motivazione morale capace di competere con le sue motivazioni egoistiche. Quando il bambino sperimenta, più e più volte, la sequenza che comincia dalla trasgressione, segue con l'induzione da parte dei genitori, a sua volta seguita dalla sofferenza empatica e dal senso di colpa, si crea uno script (copione) della forma
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Trasgressione ➔ Induzione ➔ Senso di Colpa, cui la sofferenza empatica e il senso di colpa conferiscono forza motivazionale. Quando uno script è attivato per la prima volta in una situazione di conflitto con gli altri, la sua componente motivazionale può non avere forza sufficiente a vincere la prospettiva del beneficio egoistico. Ma lo script può rafforzarsi con la ripetizione e, quando si combina con lo sviluppo cognitivo e la pressione dei pari, può diventare efficace. La pressione dei pari obbliga infatti il bambino a rendersi conto che anche gli altri hanno diritti; la cognizione lo mette in grado di comprendere il punto di vista altrui; la sofferenza empatica e il senso di colpa lo motivano a tenere conto dei diritti e dei punti di vista degli altri. Questi scripts morali prosociali non sono acquisiti in modo passivo; al contrario, sono costruiti attivamente dal bambino in un processo continuo nel quale egli compone, sintetizza e organizza semanticamente le informazioni dell'induzione, mettendole in rapporto con le proprie azioni e con la situazione della vittima. Questa elaborazione mentale attiva fa sì che i processi cognitivi e affettivi interni del bambino divengano per lui salienti, e che il bambino percepisca gli scripts e la norma implicita di tenere conto degli altri come sue costruzioni e come parte del suo sistema motivazionale interno. L'intervento dei genitori non è più necessario; per attivare gli scripts, ora della forma Trasgressione ➔ Senso di Colpa, è sufficiente che il bambino sia consapevole di nuocere a qualcuno. Una volta che lo script sia stato attivato, il bambino percepisce il senso di colpa associato allo script e la motivazione a riparare il danno come provenienti dal suo interno. Lo script può essere attivato prima del compimento di un'azione da pensieri e immagini che il bambino, o la bambina, può avere circa i suoi effetti dannosi, e il senso di colpa anticipatorio che ne risulta crea una motivazione a non commettere l'azione; se poi il bambino la commette si sentirà colpevole. In breve, il capitolo sesto illustra le precondizioni dello sviluppo di una precoce motivazione morale a tenere conto degli altri anche quando i loro bisogni sono in contrasto con i nostri. Esperienze successive di vario genere estendono questa motivazione ad aree della vita di cui non si era trattato in famiglia; queste esperienze creano anche abilità e competenze che rafforzano la motivazione e contribuiscono a collegarla 32
con principi morali relativamente astratti, come il prendersi cura e la giustizia. Il capitolo sesto presenta inoltre le prove empiriche della teoria e affronta la questione della direzione degli effetti. Non dovrebbe sorprendere che, una volta acquisiti, gli scripts Trasgressione ➔ Senso di Colpa possano attivarsi e suscitare nel bambino questo sentimento ogni volta che egli crede di avere trasgredito, che sia vero o no. A questo senso di colpa virtuale, e agli atti dannosi che presuppone, diamo il nome di trasgressioni virtuali. La nozione di senso di colpa virtuale non è nuova; una delle definizioni del termine guilt secondo il Webster's Ninth New Collegiate Dictionary è: «senso di colpa, specialmente per violazioni immaginarie». Il capitolo settimo illustra e spiega alcune varianti del senso di colpa virtuale. Il primo tipo, il senso di colpa «relazionale», può essere endemico delle relazioni strette, giacché esse offrono innumerevoli opportunità non solo per ferire l'altro ma anche per credere di averlo ferito. Il legame tra i membri della relazione è tale che i sentimenti e gli stati d'animo dell'uno dipendono strettamente da quelli dell'altro e dalle sue azioni. Inoltre, cosa più importante, ognuno dei due sa che l'altro dipende da lui allo stesso modo, sicché può sviluppare un'acuta sensibilità per le ripercussioni che le sue parole e le sue azioni possono avere sull'altro. Può dunque apparire ragionevole che quando l'uno è triste o scontento e non ne è chiara la causa, l'altro non solo provi sofferenza empatica ma si senta anche responsabile di quella condizione; se fosse certo della propria innocenza potrebbe anche non sentirsi colpevole, ma ciò presuppone l'esistenza di accurate registrazioni mentali delle interazioni con l'altro - una forma di contabilità emozionale poco comune nelle relazioni strette. Un altro tipo di senso di colpa virtuale - il senso di colpa per assunzione di responsabilità - si ha quando una persona si sente responsabile del danno sofferto da qualcun altro, anche se i fatti mostrano chiaramente che non ne è la causa. Ciò che accade, si direbbe, è che la persona risponde empaticamente alla sofferenza della vittima, ripercorre mentalmente gli eventi, conclude che se avesse agito diversamente avrebbe potuto impedire l'incidente, passa dall'avrei potuto all'avrei dovuto, si rimprovera e si sente colpevole. 33
Mentre le relazioni strette e le posizioni di responsabilità sono il contesto nel quale nascono il senso di colpa relazionale e per assunzione di responsabilità, il perseguimento degli obiettivi e degli interessi che accompagnano normalmente lo sviluppo è il contesto più adatto per le trasgressioni virtuali che creano un «senso di colpa evolutivo». Un ragazzo può credere che se lascia la famiglia per andare all'università farà soffrire i genitori - senso di colpa per la separazione -; un altro può pensare che se fa meglio dei suoi compagni li farà sentire inadeguati - senso di colpa per il successo. Ci si può sentire in colpa anche per la propria ricchezza, cioè perché si gode di benefici che altri non hanno - senso di colpa per la ricchezza. Benché anche gli adulti possano sentirsi in colpa per il proprio benessere economico, associo questo tipo di sentimento allo sviluppo perché sembra più frequente fra gli adolescenti (almeno così era negli scorsi anni Sessanta) e perché per coloro che lo sperimentano può avere un ruolo importante nello sviluppo morale prosociale. Come è noto, gli individui che vedono un altro morire o essere ferito o incorrere in qualche disgrazia (a causa di guerre, attentati terroristici, disastri naturali, tagli di personale), mentre loro restano incolumi, spesso si sentono colpevoli di essersi salvati. Il senso di colpa si compone di emozioni in conflitto: gioia per la sopravvivenza, dolore empatico per le vittime. Se a ciò si aggiunge il segreto sollievo che il peggio sia toccato a qualcun altro, il risultato sarà un doloroso senso di colpa - il senso di colpa per la sopravvivenza. Questo sentimento può essere la risposta alla domanda: «Perché io, perché mi sono salvato proprio io e non qualcun altro?». Ciò che questo interrogativo rivela, e ciò che il senso di colpa per la sopravvivenza può avere in comune con il senso di colpa per la ricchezza, è l'impossibilità di giustificare il proprio privilegio nei confronti della vittima. Il proprio privilegio viola il principio di equità o reciprocità, e la consapevolezza del privilegio può trasformare la sofferenza empatica per la vittima in un sentimento empatico di ingiustizia e in un sentimento di colpa. La larga diffusione del senso di colpa per il proprio privilegio o per la propria sopravvivenza, nonché gli altri tipi di senso di colpa virtuale, confermano la mia convinzione che gli esseri umani, almeno nella nostra società, siano «macchine per il senso di colpa».
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Il capitolo ottavo passa dal ruolo della motivazione empatica nell'agire morale prosociale alle sue limitazioni, dovute al fatto che l'empatia dipende dall'intensità e dalla salienza dei segnali di sofferenza, e dalla relazione tra l'osservatore e la vittima. Una limitazione è che anche se a tutta prima si può pensare che l'attivazione empatica sia maggiore quanto più i segnali di sofferenza sono salienti, se questi lo sono all'estremo possono risultare talmente aversivi da trasformare la sofferenza empatica dell'osservatore in un vivissimo sentimento di sofferenza personale. Questa sovrattivazione empatica (empathic over-arousa[) può far sì che gli osservatori abbandonino la modalità di risposta empatica, si concentrino sulla propria sofferenza e distolgano la loro attenzione dalla vittima. Un'eccezione è quella delle persone coinvolte in una relazione di aiuto (terapeuta-paziente, genitore-figlio); in questo caso, la sovrattivazione empatica può rafforzare la sofferenza empatica e la motivazione ad aiutare la vittima. La seconda limitazione è la vulnerabilità dell'empatia a due tipi di bias: il bias di familiarità (/amiliarity bias) e il bias di immediatezza (here-and-now bias). Anche se le persone tendono a rispondere in modo empatico a chiunque (o quasi) mostri sofferenza, esse tendono a favorire sistematicamente le vittime che fanno parte della loro famiglia o del loro gruppo primario, o sono amici stretti o hanno caratteristiche simili alle loro (bias di familiarità), come pure le vittime presenti nella situazione immediata (bias di immediatezza). La vulnerabilità dell'empatia alla sovrattivazione e a questi bias può non essere un grande problema in società confinate al «gruppo primario», piccole e omogenee come sono, o in incontri morali come quelli dello spettatore e del trasgressore (reale o virtuale), quando la vittima è una sola. A guardar bene, è possibile che queste limitazioni racchiudano una virtù nascosta: se le persone rispondessero empaticamente a chiunque mostrasse sofferenza e cercassero di aiutare tutti allo stesso modo, l'esito per la società potrebbe essere la paralisi. Da questo punto di vista, il fatto che l'empatia sia soggetta a bias e alla sovrattivazione può essere un'estrema risorsa di autoregolazione e autoprotezione dell'empatia, il che concorda con le crescenti prove che la capacità di regolare le emozioni sia correlata positivamente con l'empatia e con il comportamento di aiuto.
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Nondimeno, la sovrattivazione e specialmente i bias dell'empatia possono creare problemi negli incontri che implicano più parti morali e quando il prendersi cura degli altri è in conflitto con le esigenze della giustizia. Questi problemi possono ridursi, secondo la mia ipotesi, se l'empatia è «incorporata» in un principio morale con il quale sia congruente, giacché la dimensione cognitiva del principio renderà l'empatia più strutturata e più stabile. Il capitolo nono mette in relazione l'affetto empatico con i principi morali dominanti nella società occidentale: il prendersi cura e la giustizia. Che l'empatia sia congruente con il prendersi cura è ovvio. Essa però è congruente anche con alcuni aspetti della giustizia penale, che implica l'esistenza di vittime; questo è un punto che analizzeremo brevemente. La maggior parte del capitolo riguarda la giustizia distributiva, che considera come dovrebbero essere allocate le risorse della società - in parti uguali oppure secondo il «bisogno», l' «impegno» o il «merito» (la competenza, la produttività). L'empatia è congruente con tutti questi principi di giustizia, ma di meno con la competenza e la produttività. La mia tesi che l'attivazione empatica possa modificare le preferenze di una persona in fatto di giustizia distributiva può essere argomentata, in breve, come segue: se un individuo considera come dovrebbero essere distribuite le risorse della società, un punto di vista interessato gli farà preferire i principi che coincidono con la sua condizione: chi produce molto sceglierà il merito, chi produce poco sceglierà il bisogno o l'uguaglianza. Se si attiva l'empatia, si terrà conto del benessere altrui e anche chi produce molto potrà preferire il bisogno o l'uguaglianza - o, più probabilmente, il merito regolato in modo da evitare la povertà estrema (bisogno) e le eccessive disparità di ricchezza (uguaglianza). Il merito regolato è al centro della teoria della giustizia del filosofo John Rawls; mi riferisco, in particolare, al «principio di differenza», che annette grande importanza al modo in cui sono trattati i membri «meno favoriti» della società. Rawls fa appello a un «velo di ignoranza» che obbliga le persone, che egli immagina impegnate nella costruzione della società da una prospettiva razionale e totalmente interessata - senza però conoscere il proprio posto nella società -, ad assicurarsi che i bisogni delle persone meno favorite siano tenuti in conto. Ma
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il velo di ignoranza di Rawls ha anche un'altra finalità: quella di escludere l'empatia, così che il principio di differenza sia fondato su basi puramente razionali e volte alla tutela dei propri interessi. L'impostazione di Rawls è ammirevole, ma molte pagine di questo capitolo sono dedicate a dimostrare che l'empatia e il velo di ignoranza sono in effetti funzionalmente equivalenti, anche se operano in contesti diversi. In virtù della congruenza dell'empatia con la giustizia, le persone provano empatia per le vittime di ingiustizie (ad esempio, persone che siano state defraudate dei loro guadagni o i cui diritti siano stati violati). E, quando provano empatia, possono essere consapevoli tanto del proprio sentimento empatico verso la vittima (sofferenza empatica, senso di colpa, rabbia empatica, sentimenti empatici di ingiustizia), quanto del principio di giustizia in gioco. La contemporanea attivazione di un affetto empatico e di un principio morale crea una connessione, un legame tanto più forte quanto più tale ca-occorrenza si ripete. Così, anche quando li si incontra in contesti didattici, «freddi», i principi morali possono acquisire le proprietà affettive e motivazionali dell'empatia, e trasformarsi in rappresentazioni con un carico emozionale o in cognizioni prosociali «calde». Questo concetto di cognizione «calda» ha due implicazioni. In primo luogo, quando un principio morale viene successivamente attivato in un incontro morale o in contesti didattici o di ricerca, si attiva anche l'affetto empatico. Esso avrà due componenti: una componente derivante dallo stimolo (la sofferenza della vittima) e una componente derivante dal principio. Quest'ultima avrà un effetto «accrescitivo» o «diminutivo» sull'intensità della componente derivante dallo stimolo, e così renderà meno probabile la sovrattivazione (o la sottoattivazione) empatica e contribuirà a stabilizzare l'affetto empatico dell'individuo nelle varie situazioni. La seconda implicazione è che i modelli dello spettatore e della trasgressione devono essere ampliati in modo da includere non solo l'affetto empatico suscitato dalla sofferenza della vittima, ma anche i principi morali che possono essere attivati da tale sofferenza e che possono aiutare a stabilizzare l'affetto empatico dello spettatore o del trasgressore. Alla base di gran parte dei principi di giustizia c'è la reciprocità: le buone azioni dovrebbero essere premiate, le cattive punite; la pena dovrebbe essere proporzionata al delitto. La 37
reciproc1ta non e mtrinsecamente prosociale, giacché include sia l' «occhio per occhio» sia l'idea che «chi lavora sodo dovrebbe essere premiato», ma può divenire prosociale se si associa con l'empatia, come quando il trattamento iniquo di una persona viola la reciprocità. In tal caso, la reciprocità può acuire la sofferenza empatica dell'osservatore e trasformarla in un sentimento empatico di ingiustizia. Infine, da sola o incorporata in un principio morale, l'empatia può svolgere un ruolo importante nel giudizio morale. L'argomento fondamentale è stato formulato oltre due secoli fa da David Hume: ovviamente, approviamo le azioni che accrescono il nostro benessere e condanniamo quelle che possono danneggiarci; perciò, se proviamo empatia per qualcun altro, approveremo o condanneremo le azioni che lo aiutano o che lo danneggiano; e, salvo essere oltremodo insensibili, se vediamo una persona che fa deliberatamente soffrire qualcun altro, proveremo indignazione (rabbia empatica). Aggiungo che la maggior parte dei dilemmi morali che si incontrano nella vita possono suscitare empatia perché implicano vittime - visibili o meno - delle azioni, nostre o di un altro, che ci troviamo a giudicare. L'empatia può influenzare il giudizio morale su noi stessi o sugli altri direttamente oppure indirettamente, attraverso i principi morali da essa attivati. Gli studi sullo sviluppo della giustizia distributiva, nei quali ai bambini viene chiesto di assegnare dei premi a destinatari che differiscono per produttività o per altri aspetti, indicano chiaramente ciò che appare equo ai bambini secondo l'età. Questi studi, presentati nel capitolo decimo, mostrano una chiara tendenza evolutiva: i bambini in età prescolare distribuiscono i premi secondo il proprio interesse; quelli di 4 o 5 anni mostrano una marcata preferenza per una ripartizione egualitaria dei premi; per i bambini di 8, 9 o più anni, diventa man mano più importante che i premi siano proporzionati al rendimento o al rendimento integrato con il bisogno (povertà). I bambini più grandi, poi, applicano principi di giustizia differenti secondo il contesto: essi privilegiano la produttività nel premiare il lavoro, l'equità nel caso di votazioni 1, una combinazione di uguaglianza 1 Per la descrizione di questa ricerca si veda il primo paragrafo del cap. 10 e relativa nota.
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e bisogno quando si tratta di aiutare qualcuno. Verso gli 11 o 12 anni, essi antepongono la «produttività» al «bisogno» nel caso degli estranei, ma equiparano i due principi nel caso degli amici e, non diversamente dagli adulti, trattano allo stesso modo un amico bisognoso e un estraneo produttivo. Vi sono pochi studi evolutivi sul ruolo dell'empatia nella giustizia. La mia ipotesi è che la socializzazione a favore dell'uguaglianza prenda le mosse dalle induzioni dei genitori in materia di condivisione e di rispetto del proprio turno. L'«uguaglianza» è incoraggiata anche dalle educatrici della scuola materna e dell'asilo nido e dalla pressione diretta dei compagni, desiderosi di ricevere la propria parte. Io penso che anche la socializzazione a favore dell' «impegno» cominci nell'ambiente domestico, ma che non sia sistematica fino all'inizio della scuola primaria, quando viene valutato il rendimento scolastico del bambino e viene premiato il miglioramento personale, che, prima di ogni altra cosa, esige impegno. La socializzazione a favore della «produttività» e della «competenza» ha inizio sul serio nelle classi quarta e quinta, quando la valutazione del rendimento scolastico si basa sul confronto con i compagni, e prosegue negli anni successivi sia a scuola sia nel mondo del lavoro. Queste esperienze di socializzazione si aggiungono alle esperienze dirette che il bambino ha sulla giustizia, come la sofferenza che prova quando viene trattato in modo iniquo (ad esempio, quando i suoi sforzi non vengono premiati), l'osservazione che anche gli altri soffrono quando vengono trattati in quel modo, le sue rispo'ste empatiche alla sofferenza. Queste esperienze dirette si basano sugli scripts trasgressione-senso di colpa relativi alla condivisione, che il bambino acquisisce, col loro carico empatico, in famiglia. Ne risulta una rete di esperienze che sono la materia prima con cui il bambino può costruire forme sempre più complesse di preoccupazione (concern) per gli altri e di senso dell'equità basati sull'empatia. Grazie al linguaggio, il bambino potrà classificare certi atti come moralmente inaccettabili o iniqui e, infine, dar loro la forma di principi di giustizia generali e astratti ma ancora carichi di affetto empatico. Il linguaggio permette poi che il bambino, da solo o parlando con altri, cominci a costruire ragionamenti morali sulla
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base delle interpretazioni, spiegazioni e risposte emozionali degli adulti, come pure delle proprie risposte cognitive ed emozionali come spettatore e vittima. Il bambino non costruisce il proprio codice morale da zero, come sostengono alcuni psicologi dello sviluppo cognitivo, ma ha comunque un ruolo attivo nel ricostruire e interpretare le norme morali, usando le informazioni trasmesse dagli adulti e la propria esperienza. Tutto ciò può essere descritto come una divisione del lavoro tra le induzioni dei genitori, che trasmettono regole di equità e hanno la forza dell'autorità, la capacità di decentramento del bambino e la sua preferenza per la reciprocità, e le interazioni con i pari che mettono l'accento sull'uguaglianza: i pari, con le proprie pretese, costringono il bambino a rendersi conto che i suoi desideri non sono la sola cosa che conta; il decentramento e la reciprocità gli permettono di comprendere le ragioni delle pretese altrui; le induzioni, agendo sulla tendenza naturale del bambino all'empatia, lo rendono ricettivo a queste pretese. I concetti di equità fondati sull'empatia che si formano in questo modo sono ulteriormente plasmati dai valori trasmessi da genitori, pari, insegnanti, religioni, mezzi di comunicazione. Grazie a queste esperienze, i bambini acquisiscono familiarità con le forme elementari dei principi di cura e di giustizia della nostra società. Questi processi sono solo occasionali prima dell' adolescenza, quando l'individuo è iniziato più «formalmente» ai J?rincipi morali che dovrebbero guidare il comportamento. E in questo momento, se mai ve ne è uno, che il ruolo attivo dell'individuo nella costruzione di un codice morale, visibile in tutta la fanciullezza, viene in primo piano. La materia prima continua ad essere frutto della socializzazione, nel modo già visto. Essa include scripts di giustizia/equità carichi di affetto empatico, costruiti negli incontri disciplinari attraverso induzioni riguardanti la condivisione e l'impegno, e arricchiti dalle esperienze personali emotivamente salienti vissute in qualità di spettatore o vittima e dall'influenza dei mezzi di comunicazione. La persona riflette e ragiona su di essi, e nelle discussioni (specialmente con i pari) può analizzarli, interpretarli, confrontarli e contrapporli, e, infine, accettarli o rifiutarli, costruendo così un proprio sistema di principi morali generali e, entro certi limiti, astratti, ma con un forte carico emotivo.
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Una volta che una persona abbia interiorizzato un principio di cura o di giustizia e si sia impegnata a rispettarlo, si sia resa conto di avere scelta e contreillo, e si sia assunta la responsabilità delle proprie azioni, ha raggiunto un nuovo livello. La persona può ora tenere conto degli altri e agire con equità nei loro confronti, non solo a causa dell'empatia, ma anche come espressione di principi interiorizzati, come affermazione del proprio sé. Sente che tenere conto degli altri e agire con equità nei loro confronti sono doveri o responsabilità personali. In qualche caso, questo nesso tra il sé, i principi e il dovere può discendere da un «evento scatenante» di forte impatto emotivo (ad esempio, una gravissima ingiustizia) che induce a riconsiderare le proprie scelte di vita e può dare origine a una nuova prospettiva morale e a un nuovo senso di responsabilità sociale. Seguire un principio morale non sempre equivale a conformare le proprie azioni a quel principio. Spesso gli incontri morali implicano più parti morali (multiple claimants), situazioni in cui uno spettatore si trova a dover scegliere quali vittime aiutare, e vi sono incontri che implicano un conflitto tra il prendersi cura e la giustizia. I due tipi di incontro morale sono considerati nel capitolo undicesimo. Ecco alcuni dilemmi del prendersi cura che implicano più parti morali: delle persone rischiano di annegare o sono intrappolate in un edificio in fiamme e i soccorritori devono scegliere chi aiutare; un medico deve decidere se praticare un aborto (dove le parti morali sono il feto, l'adolescente incinta e i genitori dell'adolescente); un avvocato deve decidere se difendere un uomo che ritiene colpevole di omicidio (qui le parti morali sono l'imputato, che ha diritto a una difesa legale; le sue possibili vittime, se viene rimesso in libertà; i familiari della vittima, che desiderano sia punito); il caso ipotetico di Kohlberg, nel quale un addetto alla difesa antiaerea della Seconda guerra mondiale deve scegliere se restare al suo posto o abbandonarlo per correre in aiuto della famiglia in un quartiere appena bombardato; il dilemma analogo - però reale - dell'infermiera che mentre soccorreva una vittima dell'attentato di Oklahoma City sentì l'esplosione della seconda bomba. La questione etica posta da questi dilemmi è quale soggetto dovrebbe essere aiutato. La questione scientifica è chi sarà 41
aiutato. La risposta della biologia evoluzionistica è semplice: in generale, aiutiamo le persone con cui abbiamo in comune più geni. La risposta della psicologia è che quando la parte morale è una sola, proveremo empatia verso chiunque (o quasi) stia soffrendo (cap. II). Quando vi sono più parti morali, probabilmente proveremo empatia nei confronti dei familiari e di chiunque altro susciti un bias di familiarità o di immediatezza (due bias associati all'empatia; vedi il cap. VIII), anche se potremo sentirci colpevoli verso coloro che non aiutiamo. In altri termini, la biologia evoluzionistica asserisce che aiutiamo coloro che condividono i nostri geni; la psicologia, che aiutiamo coloro che fanno parte del nostro gruppo primario. Ma il fatto che condividiamo più geni con coloro che appartengono al nostro gruppo primario pone alcuni interrogativi. La risposta della psicologia è essenzialmente la stessa della biologia evoluzionista? I bias cui è soggetta l'empatia sono l'equivalente funzionale della condivisione dei geni di un altro individuo? La risposta a queste domande può essere in entrambi i casi positiva, posto che l'empatia derivi dalle pressioni della selezione naturale nell'evoluzione umana [Hoffman 1981]. In ogni caso, nelle situazioni che implicano più parti morali, l'empatia può non essere abbastanza. Kant e i suoi eredi, Rawls e Kohlberg compresi, sostengono che il prendersi cura è subordinato alla giustizia perché di solito è personale e particolaristico, implica decisioni di tipo affettivo piuttosto che razionale, e manca delle proprietà formali della giustizia. lo preferisco considerare il prendersi cura e i diversi tipi di giustizia come «tipi ideali» che possono presentarsi in gradi diversi in tutte le situazioni. Quando il prendersi cura e la giustizia si presentano assieme possono essere congruenti. Essi possono anche entrare in conflitto, come quando le suppliche di uno studente convincono un professore che la sua «vita sarà distrutta» se non ottiene un bel voto; o quando uno studente chiede a un amico le domande di un esame che quest'ultimo ha appena sostenuto; o come nel dilemma di Kohlberg, ispirato ai Miserabili, nel quale un uomo ruba la medicina che può salvare la vita della moglie. Nei due ultimi dilemmi che abbiamo presentato sopra (il dilemma dell'addetto alla difesa antiaerea e quello dell'infermiera di Oklahoma City), si può riconoscere un conflitto fra
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il prendersi cura e la giustizia, se classifichiamo le violazioni del dovere o della responsabilità di una persona come atti ingiusti o come casi di mancata reciprocità tra la condotta e le richieste del ruolo. Per illustrare gli incontri che implicano più parti morali e quelli in cui cura e giustizia sono contrapposte, ricorrerò al dilemma di un professore cui viene chiesto di scrivere una lettera di raccomandazione per uno studente - bravo ma non eccellente - che aspira a un importante posto di lavoro. Se il professore è buon amico dello studente e ha altre informazioni su di lui (ad esempio, sa che ha un fratello malato), potrà esprimere un giudizio molto favorevole. Ma la situazione si complica se il professore prova empatia anche per il collega che è alla ricerca di un candidato particolarmente brillante, o per gli altri candidati sconosciuti che hanno anch'essi bisogno di quel posto. Il dilemma, fino a questo punto, si limita al prendersi cura, ma vi è spazio anche per le questioni di giustizia: il sistema accademico tiene in gran conto il merito (la produzione scientifica, la competenza) e l'integrità del sistema richiede che le raccomandazioni per un posto di lavoro siano veritiere (che è quanto il collega del professore si aspetta anche in questo caso). Il dilemma fra il prendersi cura e la giustizia si acuisce se il professore dubita che lo studente sia il candidato più qualificato. Se nella sua lettera, in spirito di «giustizia», il professore rivela schiettamente i difetti dello studente, contraddice il «prendersi cura» e può provare un senso di colpa empatico per avere tradito lo studente. Se l'empatia per lo studente prevale e il professore scrive una lettera che evidenzia le sue virtù e ne minimizza i difetti, contraddice la «giustizia» e può sentirsi in colpa per questo. Se è vero che la nostra società tiene in gran conto il prendersi cura e la giustizia e che la socializzazione dei bambini provvede all'interiorizzazione di entrambi, e se sono corrette le mie tesi sul nesso tra l'empatia, la cura e la maggior parte dei principi di giustizia, ne segue che il sistema motivazionale degli individui più maturi e con una più profonda interiorizzazione morale sarà caratterizzato dalla presenza di principi di cura e di giustizia carichi di empatia. Questi individui tenderanno perciò a essere sensibili tanto alla dimensione del prendersi cura quanto a quella della giustizia, e ad essere vulnerabili alla 43
sofferenza empatica, al senso di colpa anticipatorio e ad altre emozioni empatiche associate al dilemma tra più parti morali e a quello fra cura e giustizia. Vi sono due cose che la psicologia - ma non la biologia evoluzionistica - può fare: sottoporre questi dilemmi a indagine sperimentale e suggerire il modo di ridurre i bias cui è soggetta l'empatia. Il capitolo undicesimo prende in esame la ricerca sperimentale, il tredicesimo offre alcuni suggerimenti per ridurre quei bias attraverso l'educazione morale. Il capitolo dodicesimo affronta la questione se la teoria esposta in questo libro sia universale o se può valere solo per la nostra cultura. A parte l'argomentazione evoluzionistica e le prove che la sofferenza empatica è una motivazione prosociale universale prodotte dalla ricerca su cervello e comportamento, nel capitolo dodicesimo sostengo che il sé, che svolge un ruolo centrale nella mia teoria dello sviluppo dell'empatia, sia un sé universale e non, come alcuni autori sostengono, una costruzione occidentale, e che gli stadi dello sviluppo dell'empatia siano con ogni probabilità anch'essi universali, giacché concordano con quel che sappiamo sul cervello e sullo sviluppo cognitivo. Nello stesso capitolo sostengo anche che le modalità di attivazione dell'empatia sono universali, cioè che ciascuna di esse può suscitare una risposta empatica in chiunque, indipendentemente dalla cultura di appartenenza, in modo automatico e involontario per le forme elementari (mimesi, condizionamento e associazione diretta) e in modo più dipendente dalla cultura per le forme più esigenti sul piano cognitivo (associazione mediata e assunzione di ruolo). L'universalità del modello della trasgressione - il ruolo dell'induzione nella socializzazione del senso di colpa per trasgressione basato sull'empatia, e il funzionamento del senso di colpa come motivazione morale prosociale - ha fondamenta meno solide. In tutti i paesi del mondo gli adulti devono trovare necessario, a volte, modificare il comportamento dei bambini contro la loro volontà, ma la maggior parte delle prove empiriche sul ruolo dell'induzione nel senso di colpa per trasgressione e nell'interiorizzazione morale riguarda gli statunitensi bianchi di classe media. Qui mi propongo di sostenere, provvisoriamente e fino a prova del contrario, che l'induzione e l'affermazione del potere influenzano (la prima
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positivamente, la seconda negativamente) il senso di colpa per trasgressione, l'interiorizzazione morale e il comportamento prosociale - almeno nelle società fondate sulla famiglia nucleare, nelle quali gli incontri disciplinari, l'affermazione del potere e l'induzione sono frequenti e i concetti di senso di colpa per trasgressione e di interiorizzazione morale sono significativi. In definitiva, credo che vi siano più ragioni per pensare che la morale empatica sia universale che non il contrario. In una cultura fondata sul prendersi cura e sulla maggior parte dei principi di giustizia la morale empatica dovrebbe promuovere il comportamento prosociale e scoraggiare l'aggressività. Ma essa non opera nel vuoto, e nelle società multiculturali e con rivalità tra gruppi, la morale empatica, a causa del bias di familiarità dell'empatia, potrebbe anche contribuire alla violenza tra gruppi. Ma la morale empatica può trovare ostacoli anche all'interno di un gruppo: può essere soffocata da pratiche educative basate sull'affermazione del potere e da altre norme culturali rigide e intransigenti, o sopraffatta dalle potenti motivazioni egoistiche all'opera negli individui. La morale empatica, pur essendo una motivazione morale prosociale universale, è dunque fragile (l'Olocausto è pur avvenuto). Tuttavia, all'orizzonte non v'è nulla di meglio di una morale empatica legata alla reciprocità e a certi principi di giustizia (cap. IX). La combinazione di empatia, reciprocità e giustizia non è, mi sembra, universale, e per conseguirla saranno necessarie inventiva e ricerca culturale. Nel capitolo tredicesimo discuto le implicazioni della teoria per metodi di intervento che socializzino i bambini alla morale empatica e riducano la violenza tra i delinquenti minorili maschi. Suggerisco anche vari metodi per attenuare i bias empatici e per rafforzare la motivazione ad agire in modo prosociale al di là delle barriere etniche. Alcuni di questi metodi, con qualche modificazione, possono essere utili per combinare in un tutt'uno la morale empatica, la reciprocità e la giustizia. Nel capitolo tredicesimo osservo anzitutto che quel che dà un ruolo significativo alla socializzazione e all'educazione morale su base empatica è la relazione dell'empatia con la cognizione - una connessione sottolineata in tutto il libro. Alcuni suggerimenti per un intervento seguono direttamente
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dai capitoli precedenti. Per quanto riguarda i genitori, essi comprendono induzioni frequenti combinate con qualche affermazione di potere e molto amore; è anche importante che il genitore sia un modello prosociale, che non solo aiuta gli altri ma che, a volte, indica anche la causa della disgrazia di una vittima (per contrastare la tendenza a incolparla) ed esprime apertamente sentimenti empatici e simpatetici. Per ampliare il registro empatico dei bambini, i genitori c.lovrebbero consentirgli di sperimentare una varietà di emozioni. È possibile anche approfittare della tendenza naturale dei bambini a giocare a far finta, offrendogli scenari nei quali essi possano assumere ruoli diversi e possano sperimentare, indirettamente, esperienze emozionali - comprese le risposte empatiche alla sofferenza altrui - che altrimenti potrebbero non avere l'opportunità di vivere. Questi suggerimenti possono essere utili anche nell'ambito dell'istruzione prescolare e della scuola elementare, sempre che gli incontri disciplinari non siano troppo frequenti e distruttivi. In questi incontri, gli insegnanti possono avere la tentazione di affermare il proprio potere così da ottenere obbedienza immediata: l'induzione può sembrare loro un lusso che non si possono permettere. Tuttavia, siccome in un'aula scolastica vi sono molti bambini a guardare, gli insegnanti possono trarre grande vantaggio da un'induzione formulata nel modo appropriato e al momento giusto, e adeguata al livello di sviluppo dei bambini. Il modo in cui gli insegnanti disciplinano un bambino attaccabrighe può essere una preziosa esperienza di socializzazione prosociale per l'intera classe («effetto ripple» - un effetto espansivo analogo all'allargarsi di un'onda sulla superficie di uno stagno). I bias associati all'empatia possono indebolirsi nel corso dello sviluppo quanc.lo l'empatia viene integrata nei principi morali, giacché questi hanno un effetto stabilizzante. Ma nella società contemporanea, sempre più multiculturale, possono essere necessari sforzi maggiori da parte dei genitori e degli educatori morali per ridurre i bias cui è soggetta l'empatia e per creare la coscienza della profonda unità del genere umano. A questo scopo occorre riconoscere questi bias e insegnare ai bambini che, benché sia naturale provare più empatia per coloro che condividono le nostre esperienze, è necessario un certo grado di imparzialità empatica. Occorre anche sot-
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tolineare che, a dispetto delle differenze sociali, culturali e fisiche, le risposte emozionali delle persone sono molto simili: lo sono, ad esempio, quando le persone vengono trattate in modo iniquo o attraversano crisi quali una separazione, la perdita di una persona cara, l'invecchiamento. I mezzi di comunicazione possono essere d'aiuto: i film sono un modo efficace di presentare situazioni di vita più ampie, capaci di favorire l'identificazione empatica con la vita altrui. Vedere che altri hanno preoccupazioni simili alle nostre e condividere le loro emozioni (attraverso la mimesi e altri meccanismi di attivazione empatica), può favorire il senso di unità e l'empatia tra culture differenti. Quanto al bias di immediatezza dell'empatia, gli educatori morali possono insegnare al bambino - e dargli modo di sperimentare - una semplice regola generale: guardare al di là della situazione immediata e chiedersi se le proprie azioni influenzeranno un'altra persona non solo ora ma anche in futuro, e se vi sono altre persone che potranno essere anch'esse influenzate da quelle azioni. Ultimo, ma non meno importante, è il fatto che l'educatore morale può rivolgere i bias associati all'empatia contro se stessi, incoraggiando i bambini a immaginare come si sentirebbe una persona cui tengono molto se si trovasse al posto degli sconosciuti o delle vittime assenti, o al posto di ciascuna delle parti coinvolte in un incontro morale complesso. L'addestramento all'arte della «empatizzazione multipla» ha un duplice effetto: attiva i bias empatici naturalmente all'opera in ogni individuo e, insieme, li contrasta. La empatizzazione multipla può ridurre la tendenza ad attribuire motivazioni negative alle persone estranee al proprio gruppo, e può rendere più civile la vita in una società multiculturale. Alcune di queste idee si sono dimostrate utili nel trattamento dei delinquenti antisociali, ma vi sono altri metodi, concepiti specificamente per accrescere l'empatia nei delinquenti, che possono essere ancora più efficaci. 1. Un primo metodo, nella tradizione di Kohlberg, prevede che i partecipanti discutano dilemmi o problemi di tipo sociomorale, in modo da stimolare l'empatia e l'assunzione del punto di vista altrui; i partecipanti devono giustificare le proprie decisioni di fronte alle obiezioni dei leader del gruppo e dei compagni di uno stadio di sviluppo più avanzato.
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2. Un secondo metodo consiste nel ridurre l'aggressività dei partecipanti dando loro l'opportunità di assumere il punto di vista altrui in situazioni sociali. L'espressione di una lamentela, ad esempio, viene suddivisa in sei passi, uno dei quali è «mostrare di comprendere i sentimenti dell'altro». 3. Un terzo metodo usa il «mettere di fronte» (con/ronting), un tipo di induzione che dirige l'attenzione del partecipante sui danni che le sue azioni possono arrecare ad altri membri del gruppo. L'obiettivo è contrastare l'egoismo dei partecipanti, far luce sulle loro distorsioni cognitive, suscitare e rafforzare le loro risposte empatiche. Il metodo del «mettere di fronte» obbliga l'individuo antisociale a indossare i panni dell'altro e a prendere coscienza della concatenazione di danni - comprese le conseguenze per le vittime assenti o indirette - derivante dalle sue azioni dannose. La varietà di questi metodi è impressionante. Quel che sembra mancare è un'analisi teorica che spieghi perché le procedure che producono empatia e altri effetti desiderabili durante i «trattamenti» dovrebbero essere efficaci anche nella vita quotidiana. Credo che una spiegazione siffatta potrebbe prendere le mosse dall'analisi degli effetti a lungo termine dell'induzione (cap. VI). Supponiamo ad esempio che, grazie al metodo del «mettere di fronte» e all'induzione da parte dei compagni e dei leader del gruppo, un partecipante si senta colpevole di un atto di trasgressione per la prima volta nella vita; costui formerà uno script Trasgressione ➔ Senso di Colpa? E lo script si attiverà quando quella persona avrà la tentazione di trasgredire nella vita reale? E, in caso affermativo, lo script sarà abbastanza potente da modificare la sua condotta?
Una nota metodologica
In questo libro presento una teoria generale dello sviluppo e del comportamento prosociale. È una teoria multidimensionale, che spazia dal condizionamento classico a principi di giustizia caricati di affetto empatico. Non tutti i punti toccati dalla teoria sono stati compiutamente indagati, ma nella misura in cui essa è coerente e logica (come credo che sia, benché giudicarlo tocchi al lettore), i frammenti sparsi di sostegno empirico di cui gode 48
le conferiscono una certa credibilità. Per colmare le lacune e accrescere la plausibilità della teoria, attingerò a molti aneddoti raccolti negli anni, ricavati da ricerche nelle quali i soggetti erano intervistati o rispondevano in forma scritta a domande aperte, nonché da giornali, riviste, pubblicazioni, relazioni di studenti e mie osservazioni personali. Gli aneddoti possono essere utili a condizione che non riguardino soltanto eventi isolati, ma rappresentino qualcosa che avviene spesso e siano pertinenti ai concetti in discussione. E sono particolarmente utili quando i dettagli in essi contenuti permettono non solo di descrivere un evento, ma anche di far luce sui processi su cui esso si fonda. Anche quando le ricerche non mancano, gli aneddoti possono aggiungere sfumature e suggerire varianti legate al contesto che potrebbero sfuggire alle analisi statistiche. Ecco un esempio dell'uso di aneddoti per spiegare osservazioni e suggerire ipotesi di ricerca. Nel capitolo terzo descrivo una bambina di 10 mesi che rispondeva alla sofferenza di un'altra bambina sua coetanea con uno sguardo triste e sprofondando il capo nel grembo della madre, come era solita fare quando era afflitta, e un bambino di 12 mesi che nel vedere un amico in lacrime si rattristò e condusse sua madre a consolarlo, benché la madre dell'amico fosse anch'essa lì presente - un errore che un bambino più grande non avrebbe commesso. Queste osservazioni sembravano indicare che la bambina di 10 mesi avvertisse sofferenza empatica ma non fosse in grado di distinguerla dalla sofferenza personale; il bambino di 12 mesi, invece, distingueva tra la sofferenza empatica e quella personale e, sapendo che la persona afflitta era l'altro, si preoccupava per lui; non si rendeva però conto che l'altro bambino avrebbe preferito essere consolato dalla propria madre. Queste due osservazioni sembravano indicare l'esistenza di tre livelli di differenziazione sé-altro: a) la confusione tra il sé e l'altro; b) il riconoscimento dell'altro come entità fisica distinta; e) il riconoscimento dell'altro come qualcuno con stati interni indipendenti dai propri. Un'ulteriore ipotesi, ancor più lontana dai dati, era che il passaggio dal primo al secondo livello di sviluppo consistesse, almeno in parte, nella trasformazione della sofferenza empatica in simpatetica. Altri ricercatori hanno confermato in seguito queste osservazioni e hanno condotto studi che avvaloravano l'ipotesi della trasfor-
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mazione, non in modo definitivo ma abbastanza da giustificare nuove ricerche. I buoni aneddoti possono generare ipotesi e, come spero che gli esempi precedenti dimostrino (certo lo dimostra l'opera di Piaget), gli aneddoti possono confermare la plausibilità di un'ipotesi. Ma per determinare la validità di un'ipotesi su un processo evolutivo - come la trasformazione della sofferenza empatica in simpatetica - c'è bisogno di esperimenti, correlazioni e, infine, studi longitudinali che impieghino modelli di equazioni strutturali e altri strumenti simili. Nello scegliere gli aneddoti di questo libro ho tenuto conto di queste esigenze, anche se, naturalmente, non tutti gli aneddoti sono ugualmente istruttivi. Posso solo sperare che gli aneddoti e il libro nel suo insieme stimolino nuovi tentativi di mettere alla prova e affinare le formulazioni teoriche.
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PARTE PRIMA
LO SPETTATORE INNOCENTE
CAPITOLO SECONDO
L'EMPATIA: ATTIVAZIONE E FUNZIONAMENTO PROSOCIALE
Siamo spettatori innocenti quando osserviamo qualcuno che prova dolore, è in pericolo o soffre in qualunque altro modo. Questa sofferenza può implicare dolore o afflizione sul piano fisico per ferite o malattie, dolore emotivo per la perdita - reale o temuta - di una persona amata, paura di un'aggressione, ansia di fallire o di cadere in povertà, e così via. L'interrogativo morale posto da queste situazioni è se lo spettatore è motivato ad aiutare e, in caso affermativo, fino a che punto la motivazione è interessata o dipende da una sincera preoccupazione per la vittima. Il modello dello spettatore è il prototipo di incontro morale per ciò che riguarda la sofferenza empatica e altri affetti empatici ad essa collegati. Questo modello è anche il contesto della mia teoria dello sviluppo dell'empatia. In questo capitolo propongo una definizione di empatia, mostro che essa opera come una motivazione prosociale e ne illustro i meccanismi di attivazione. Nei capitoli terzo e quarto espongo la teoria dello sviluppo dell'empatia e analizzo quattro sentimenti fondati sull'empatia che fungono anch'essi da motivazioni prosociali: la sofferenza simpatetica, la rabbia empatica, il senso di ingiustizia empatico e il senso di colpa per inazione. I capitoli successivi prendono in esame altri tipi di incontri morali.
1. Definizione di empatia Gli psicologi hanno definito l'empatia in due modi: a) come una forma di consapevolezza cognitiva degli stati interni di un'altra persona - pensieri, sentimenti, percezioni, intenzioni (per lo stato dell'arte vedi lckes [1997]); b) come una risposta affettiva di tipo vicario a un'altra persona. Questo libro si occupa del secondo tipo di empatia, l'empatia affettiva. Quello di
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empatia affettiva sembra un concetto nient'affatto complicato - sentire ciò che l'altro sente -, e molti autori lo definiscono semplicemente in base al suo risultato: intanto proviamo empatia in quanto i nostri sentimenti coincidono con quelli di un altro. Eppure, quanto più studio l'empatia, tanto più complessa mi appare; perciò ho trovato di gran lunga preferibile definire l'empatia non nei termini del suo risultato (coincidenza affettiva) ma dei processi alla base della relazione tra il sentimento dell'osservatore e quello del modello. Secondo la mia definizione, la condizione essenziale della risposta empatica è il coinvolgimento di processi psicologici che facciano sì che i sentimenti di una persona siano più consoni alla situazione di un altro che non alla propria. Anche se i processi di attivazione dell'empatia suscitano spesso il medesimo sentimento nell'osservatore e nella vittima, ciò non accade necessariamente: nel vedere che qualcuno è aggredito, avvertiamo a volte rabbia empatica anche se la vittima, più che adirata, si sente triste o delusa. Ciò non significa negare l'importanza di una precisa valutazione cognitiva dei sentimenti altrui - quella che Ickes [1997] chiama accuratezza empatica. Di fatto, la mia teoria presuppone un certo grado di accuratezza empatica, anche se, diversamente da Ickes, includo nell'accuratezza empatica la consapevolezza di parte del passato e del probabile futuro del modello (le sue condizioni di vita): una consapevolezza che ha un ruolo importante nel suscitare l'affetto empatico dell'osservatore. Per questa e per altre ragioni, come vedremo, rinunciare alla condizione della coincidenza affettiva tra osservatore e modello conferisce all'empatia una portata più ampia e altri vantaggi. Il tema centrale è la sofferenza empatica, giacché la condotta morale prosociale di solito implica un aiuto in favore di una persona che è afflitta, prova dolore, è in pericolo o soffre in qualunque altro modo.
2. La sofferenza empatica come motivazione prosociale
Prima di passare in rassegna le prove che attestano che la sofferenza empatica è una motivazione prosociale dobbiamo specificare quali sono le prove che ci occorrono. Primo, la
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sofferenza empatica deve essere correlata positivamente con il comportamento di aiuto delle persone. Secondo, la sofferenza empatica deve non solo essere correlata con tale comportamento ma anche precederlo e favorirlo. Terzo, come altre motivazioni, la sofferenza empatica dovrebbe diminuire e dovremmo sentirci meglio quando aiutiamo qualcuno; dovrebbe invece restare intensa quando non prestiamo aiuto. Le prove che presentiamo di seguito si riferiscono a tutti e tre questi aspetti. l. La sofferenza empatica è associata con l'aiuto. Moltissime ricerche mostrano che quando una persona vede un'altra persona che sta soffrendo di solito risponde in modo empatico o presta esplicitamente aiuto, e quando i dati riguardano tutti e due i tipi di risposta i soggetti per lo più li mostrano entrambi. Queste ricerche sono state esaminate da Hoffman [ 1981] e da Eisenberg e Miller [1987]. Per aggiornare il quadro, colmare le lacune e dare un'idea dello spirito di questo tipo di studi, possiamo presentare alcuni esempi. In uno studio di Berndt [1979], un gruppo di bambini empatici di 11-12 anni che avevano discusso un'esperienza dolorosa occorsa a un'altra persona, dedicavano più tempo a fare disegni per bambini ricoverati in ospedale rispetto a un gruppo di bambini empatici che avevano analizzato un evento doloroso della propria vita. Da vis [ 1983] ha trovato che gli studenti universitari che avevano conseguito un punteggio elevato in una misura «carta e matita» dell'empatia donavano più denaro dei compagni meno empatici alla maratona televisiva di Jerry Lewis contro la distrofia muscolare. Allo stesso modo, gli studenti universitari empatici si offrivano più spesso volontari e prestavano più ore di lavoro nei ricoveri per senzatetto [Penner et al. 1995]. In uno studio di Otten, Penner e Altabe [1991], gli psicoterapeuti con un punteggio elevato in varie misure dell'empatia avevano più probabilità di aiutare alcuni studenti universitari alle prese con un'esercitazione (scrivere una tesina sulla psicoterapia) rispetto ai colleghi meno empatici. In uno studio sperimentale, alcuni studenti universitari osservavano un «complice» dello sperimentatore impegnato in un compito poco piacevole [Carlo et al. 1991]. A un certo punto, il complice cominciava a mostrare segni di sofferenza e chiedeva al soggetto di prendere il suo posto. Un gruppo di soggetti poteva scegliere se prendere il posto del complice
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oppure continuare a vederlo soffrire; un altro gruppo, invece, come seconda opzione aveva la possibilità di interrompere l'esperimento e andarsene. Tre quarti dei soggetti del primo gruppo preferirono prendere il posto del complice piuttosto che continuare a provare sofferenza empatica. Va sottolineato che oltre la metà dei soggetti del secondo gruppo preferirono sostituire il complice piuttosto che andarsene, e che costoro erano i membri più empatici del gruppo. Si è visto infine che gli osservatori prestano aiuto prima quando la vittima mostra più dolore [Geer e Jarmecky 1973; Weiss et al. 197 3] e quando la propria sofferenza empatica è più acuta [Gaertner e Dovidio 1977]. I dettagli di questi tre studi si possono trovare in Hoffman [ 197 8]. 2. La sofferenza empatica precede l'aiuto. Gli studi precedenti dimostrano l'associazione tra l'attivazione empatica e il comportamento di aiuto. Altre ricerche sperimentali, risalenti agli anni Settanta ed esaminate da Hoffman [1978], mostrano che l'attivazione empatica precede e motiva l'aiuto. Nell'ultimo e più interessante di questi esperimenti, condotto da Gaertner e Dovidio [1977], alcune studentesse universitarie erano in contatto, mediante auricolari, con un'altra studentessa, complice dello sperimentatore, la quale interrompeva l'esecuzione di un compito sperimentale per sistemare una pila di sedie che, diceva, erano sul punto di cadere. Subito dopo la complice gridava che le sedie le stavano cadendo addosso, poi non si sentiva più nulla. I risultati principali furono che la frequenza cardiaca delle studentesse cominciava ad accelerare, in media, 20 secondi prima che si alzassero dalla sedia per aiutare la vittima, e che quanto più la frequenza cardiaca di un'osservatrice accelerava, tanto più prontamente essa lasciava il suo posto. In altri termini, l'intensità dell'attivazione fisiologica (empatica) dell'osservatrice era correlata sistematicamente con la prontezza dell'aiuto successivo. 3. Gli osservatori si sentono meglio dopo l'aiuto. La prova più diretta che la sofferenza empatica decresca d'intensità dopo che l'osservatore ha aiutato la vittima è offerta da uno studio di Darley e Latané [1968], nel quale i soggetti sentivano rumori che facevano pensare che una persona stesse avendo una crisi epilettica; i soggetti che non reagivano esplicitamente continuavano a essere agitati e sconvolti, come testimoniavano le mani
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tremanti e le palme sudate, mentre nei soggetti che cercavano di soccorrere la vittima, il turbamento era meno persistente. Un risultato simile fu ottenuto da Murphy [1937] in un classico studio condotto in un asilo nido: quando i bambini aiutavano altri bambini, la loro sofferenza empatica sembrava attenuarsi; quando non li aiutavano, la loro sofferenza restava immutata. Questi risultati indicano che la sofferenza empatica, come altre motivazioni, decresce di intensità quando si traduce in comportamento. Nel caso della sofferenza empatica, può essere in gioco un fattore aggiuntivo: l'espressione di sollievo della vittima può produrre in chi aiuta un sentimento di sollievo empatico - una ricompensa vicaria fuori della portata degli osservatori che non prestano aiuto. Una possibile interpretazione di questi risultati è che le persone scoprono per esperienza che aiutare gli altri le fa sentire bene, cosicché, quando provano sofferenza empatica, prevedono tale sentimento e prestano aiuto per questa ragione e non per alleviare la sofferenza della vittima. L'argomento in contrario che è stato avanzato è che le conseguenze di un'azione non dicono nulla della motivazione che ne è a fondamento: il fatto che ci sentiamo bene quando prestiamo aiuto non vuol dire che prestiamo aiuto per sentirci bene. Per giunta, non vi sono prove che le persone prestino aiuto per questo, anzi ve ne sono del contrario [Batson e Weeks 1996; Batson e Shaw 1991]. Se l'osservatore prestasse aiuto esclusivamente a proprio vantaggio - ragionavano questi ricercatori - non si curerebbe di alleviare effettivamente la sofferenza della vittima; il mero atto di aiutare già basterebbe a farlo sentire meglio. Queste ricerche hanno mostrato invece che coloro che provavano empatia e prestavano aiuto continuavano ad avvertire sofferenza empatica quando, malgrado gli sforzi e senza loro colpa, non alleviavano la sofferenza della vittima. Ciò implica che chi prova empatia e presta aiuto tiene conto delle conseguenze ultime delle sue azioni per la vittima, e considera importante che le sue azioni riducano la sofferenza di quella. È ragionevole concludere che sebbene l'aiuto fondato sull'empatia faccia sentire bene le persone perché riduce la sofferenza empatica e procura sollievo empatico, il suo scopo principale sia alleviare la sofferenza della vittima. Insomma, la sofferenza empatica è una motivazione prosociale.
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L'analisi condotta finora potrebbe far pensare che gli esseri umani siano macchine perfette della forma «se sofferenza empatica allora aiuto». Non è così: non sempre la sofferenza empatica muove all'aiuto. Le ragioni possono essere più d'una. In primo luogo, come insegna il classico studio di Latané e Darley [1970], la presenza di altri spettatori può interferire con il comportamento di aiuto di una persona attivando assunzioni di «ignoranza pluralistica» («non deve essere una situazione di emergenza, visto che nessuno reagisce») e di «responsabilità diffusa» («di sicuro qualcuno avrà già chiamato la polizia»). In secondo luogo, quando gli spettatori sono soli, la loro motivazione ad aiutare può essere frenata da forti motivazioni egoistiche (paura, spesa energetica, costi finanziari, tempo perduto, opportunità sfumate, e così via). Gli spettatori possono avere scoperto per esperienza che l'aiuto li fa sentire bene, ma il costo potenziale dell'aiuto può rendere meno attraente tale prospettiva. Per un esempio tra i più drammatici, si consideri questa testimonianza, tratta da uno studio nel quale erano messi a confronto tedeschi che avevano aiutato gli ebrei perseguitati dai nazisti durante l'Olocausto con tedeschi che non lo avevano fatto: I miei genitori erano buoni e affettuosi. Imparai da loro ad aiutare il prossimo e a preoccuparmi per gli altri. Vicino a noi abitava una famiglia ebrea, ma quando andarono via me ne accorsi appena. Tempo dopo, quando lavoravo in ospedale come medico, al pronto soccorso giunse un ebreo, portato dalla moglie. Era chiaro che se non fosse stato curato immediatamente sarebbe morto. Ma non ci era consentito curare ebrei; potevano essere curati solo all'ospedale ebraico. Non potevo fare nulla [Oliner e Oliner 1988, 187]. Queste sono le parole di una persona che non diede aiuto: una persona descritta dagli autori come una «donna buona e compassionevole, incline per sensibilità e per etica professionale ad aiutare una persona gravemente malata, ma che non lo fece» [ibidem]. Come vedremo, i tedeschi che corsero dei rischi per aiutare gli ebrei erano buoni e compassionevoli, ma il brano precedente mostra che quando il costo è elevato la bontà e la compassione possono non bastare. In terzo luogo, in vista dei costi che l'aiuto può comportare, ci si può aspettare che le persone non solo evitino di
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dare aiuto, ma si guardino anche, prima ancora, dal provare empatia, timorose di ciò che per suo impulso potrebbero fare: cioè pagare i costi dell'aiuto, ivi compresa l'esperienza della sofferenza empatica, con tutta la sua spiacevolezza. Perciò le persone, quando è possibile, potrebbero cercare di prevenire l'empatia per le vittime nel tentativo di sfuggire alle conseguenze motivazionali di quel sentimento. Una motivazione ad evitare l'empatia è stata dimostrata sperimentalmente da Shaw, Batson e Todd [ 1994]: essi prevedevano l'attivazione di questa motivazione quando gli osservatori, prima di incontrare una persona bisognosa, venivano avvertiti che sarebbe stato chiesto loro di aiutarla e che l'aiuto sarebbe stato costoso. Per mettere alla prova questa previsione, alcuni studenti universitari furono invitati a scegliere quale ascoltare tra due richieste d'aiuto di un senzatetto che aveva perso il lavoro ed era gravemente malato: un appello che muoveva all'empatia, in cui l'uomo presentava la sua situazione facendo leva sulle emozioni, e chiedeva all'ascoltatore di immaginare come si sentisse e quanto stesse soffrendo, e un appello in cui l'uomo presentava la sua situazione in modo distaccato e oggettivo. Come previsto, i soggetti che si aspettavano che il costo dell'aiuto fosse molto alto (passare diverse ore con quell'uomo per dargli sostegno) sceglievano meno frequentemente l'appello che muoveva all'empatia rispetto ai soggetti che si aspettavano che il costo dell'aiuto fosse modesto (un'ora impiegata a scrivere e indirizzare lettere in suo favore). Questa analisi delle motivazioni dell'osservatore illustra bene la complessità del modello dello spettatore. Gli osservatori non si limitano a provare sofferenza empatica e desiderio di aiutare; vi sono anche motivazioni egoistiche, in competizione con la sofferenza empatica, che possono impedire l'aiuto e che, se lo spettatore conosce in anticipo i costi dell'aiuto, possono indurlo a fare il possibile per evitare l'empatia. Il modello dello spettatore, insomma, implica un conflitto fra la motivazione ad aiutare e le motivazioni egoistiche che possono essere molto forti. Ciò rende ancor più degna di nota l'efficacia della sofferenza empatica come motivazione prosociale. La ragione può essere il suo carattere autorinforzante: dopo avere aiutato qualcuno ci sentiamo bene. Ma in tal caso ci si può chiedere: l'aiuto che scaturisce dall'empatia è prosociale? Io credo che lo sia [Hoff-
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man 1981]: infatti esso è suscitato dalla sofferenza altrui e non dalla propria, il suo fine primario è aiutare un'altra persona, e ci sentiamo bene solo se aiutiamo realmente la vittima. Una considerazione finale sul contributo dell'empatia al comportamento prosociale. Finora mi sono concentrato sull'aiuto dato a una persona sofferente, ma alcuni dati mostrano anche che l'empatia riduce l'aggressività [Feshbach e Feshbach 1969; Gibbs 1987]. Che l'empatia sia capace di attenuare l'aggressività è messo in luce nell'analisi del modello del trasgressore (cap. VI) e nell'esame dei metodi di educazione morale impiegati per ridurre l'aggressività dei delinquenti minorili (cap. XIII). Un altro dato, più sottile e meno prevedibile, riguarda la relazione tra l'empatia e la capacità di manipolare le persone. Secondo Christie e Geis [1970], che negli anni Sessanta hanno condotto approfondite ricerche sulla personalità «machiavellica», i manipolatori di successo non sono, come si potrebbe credere, persone molto empatiche, che si servono dell'empatia per capire le motivazioni delle altre persone e poi sfruttano a proprio vantaggio le conoscenze così acquisite. In realtà, si tratta di persone debolmente empatiche e cattive interpreti delle motivazioni altrui. Il loro «vantaggio» sta precisamente nel non essere empatiche: l'insensibilità verso gli altri permette loro di «aprirsi la strada a forza verso i propri obiettivi». Similmente, nel romanzo Biade Runner [Dick 1968], gli «androidi» sono presentati come un pericolo pubblico e sono banditi dalla società, perché possono essere più intelligenti di molti esseri umani, e, al tempo stesso, sono completamente privi di empatia 1• L'androide è considerato il prototipo del manipolatore (e dell'assassino) poiché, essendo incapace di provare sofferenza o afflizione empatica per le disgrazie altrui, nulla di meno della sua distruzione può impedirgli di perseguire i suoi scopi. Naturalmente, chi è incapace di empatia non per questo è condannato a manipolare o uccidere gli altri. O'Neil ha studiato pazienti affetti da un disordine empatico detto sindrome di Asperger (una forma di autismo), che «si rendono conto, con rammarico, di una lacuna che possono colmare solo con enorme difficoltà» [O'Neil 1999, Fl]. Costoro si sforzano di scomporre il comportamento (anche comportamenti che le persone di 1
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Sono grato a Krin Gabbarci per avermi segnalato questo libro.
solito padroneggiano senza pensare) in elementi distinti così da poterli memorizzare, e si esercitano ad assumere il punto di vista altrui: «"Devo guardarlo negli occhi?" "Sì, ma giusto un po', quanto basta per fargli capire che stai ascoltando"» [ibidem, F4]; a questo riguardo si veda anche Sacks [1995]. Siamo molto lontani dalla naturale sensibilità empatica della maggior parte delle persone, che impedisce loro di essere tanto distaccate da sfruttare gli altri senza riguardo. In altri termini, l'empatia non solo favorisce il comportamento di aiuto, ma ostacola l'aggressività e la capacità di manipolare gli altri. Passiamo ora ai meccanismi alla base dell'attivazione della sofferenza empatica.
3. L'attivazione della sofferenza empatica Già trent'anni fa [Hoffman 1978] descrissi, e ripropongo ora in forma aggiornata, cinque forme di attivazione empatica. Tre di esse sono elementari, automatiche e, ciò che è più importante, involontarie. Le descriverò per prime.
3.1. Mimesi2 È trascorso quasi un secolo da quando Lipps [1906] descrisse la mimesi, ma già centocinquanta anni prima essa era stata intuitivamente compresa da Adam Smith che osservò: Quando vediamo che la gamba o il braccio di un'altra persona stanno per ricevere un colpo, istintivamente ci contraiamo e ritiriamo la nostra gamba o il nostro braccio, e quando il colpo cade, in una certa misura lo sentiamo anche noi, e ne siamo feriti quanto la vittima. La folla, quando guarda in alto verso un funambolo che danza, istintivamente si contorce, dimena e oscilla i corpi, come vede fare a lui, e come sente che dovrebbe fare se fosse nella sua situazione [ibidem, 83].
2 Il termine «mimicry» è stato finora reso con imitazione nei testi italiani contenenti una esposizione della teoria di Hoffman [Albiero e Matricardi 2006; Berti e Bombi 1988; 2005; Bonino, Lo Coco e Tani 1998]; nel presente caso ciò non è stato possibile, perché Hoffman ha introdotto una distinzione tra mimicry e imitation [NdC].
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Nell'opera citata, Lipps definisce l'empatia come una risposta innata, involontaria e isomorfa alle emozioni espresse da un'altra persona. Un'attenta lettura chiarisce che Lipps individua nel processo due stadi distinti che operano in rapida successione [Hoffman 1978]. Dapprima, e in modo automatico, le variazioni dell'espressione facciale, della voce e della postura dell'osservatore riproducono, in sincronia, le più lievi variazioni nell'espressione dei sentimenti da parte di un'altra persona, ciò che Lipps chiamava mimesi motoria oggettiva (objective motor mimicry). Dopo di che, i cambiamenti della muscolatura facciale, vocale e posturale dell'osservatore suscitano una retroazione afferente che causa nell'osservatore sentimenti che coincidono con quelli della vittima. Per evitare confusioni, conveniamo di chiamare il primo stadio imitazione (imitation), il secondo stadio retroazione (feedback), e mimesi (mimicry) l'intero processo. La mimesi è stata a lungo trascurata dagli psicologi, probabilmente perché ha l'aria di una spiegazione di tipo istintuale. Vale però la pena di occuparsene, giacché, intuitivamente, sembra racchiudere l'essenza stessa dell'empatia: osserviamo l'espressione di un sentimento da parte di un'altra persona, la imitiamo in modo automatico, dopo di che il controllo passa al cervello e noi sentiamo quel che l'altro sente. Nonostante la sua importanza, la mimesi non è facile da documentare empiricamente, e reclama perciò più attenzione delle altre forme di attivazione empatica. Tuttavia, a dispetto dello scarso interesse per la mimesi, negli anni recenti sono state condotte molte ricerche sull'imitazione e sulla retroazione, anche se quasi tutte hanno studiato i due processi separatamente. 1. Imitazione. Bavelas e colleghi [1987] hanno condotto una rassegna delle ricerche sull'esistenza dell'imitazione o della mimesi, e hanno trovato che le persone imitano espressioni di vario genere: dolore, riso, sorriso, benevolenza, imbarazzo, afflizione, disgusto, titubanza nel parlare, sforzo per raggiungere qualcosa, e così via, in un'ampia varietà di situazioni. Gli psicologi dello sviluppo hanno osservato che i bambini poco dopo la nascita cercano di imitare le espressioni facciali degli altri: tirano fuori la lingua, storcono le labbra, spalancano la bocca [Meltzoff 1988; Reissland 1988]. A dieci settimane di età, essi imitano almeno i tratti essenziali delle espressioni facciali di felicità e rabbia della madre [Haviland e Lelwica 1987]. E
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i volti dei bambini di 9 mesi già rispecchiano le espressioni di felicità o di tristezza delle madri [Termine e Izard 1988]. Ma non sono solo i bambini che imitano le espressioni facciali emotive delle madri: anche le madri imitano le espressioni facciali dei figli, spesso senza esserne consapevoli [O'Toole e Dubin 1968]. Di fatto, gli adulti sembrano avere una tendenza naturale a riprodurre le espressioni facciali dei bambini (e di altri adulti) senza rendersene conto. Nella maggior parte delle ricerche vengono impiegate registrazioni elettromiografiche (EMG), che permettono di misurare i movimenti della cute e dei tessuti connettivi della faccia (pieghe, linee, rughe; movimenti delle sopracciglia e della bocca) dovuti a contrazioni dei muscoli facciali indotte dalle emozioni ma in modo tanto lieve (debole o passeggero) da non produrre espressioni facciali osservabili. Dimberg [1990] ha misurato l'attività EMG facciale di studenti universitari svedesi che osservavano fotografie di persone il cui viso era atteggiato a espressioni di felicità o di rabbia, e ha constatato che se le espressioni facciali erano di felicità i soggetti mostravano una maggiore attività del muscolo zigomatico maggiore; quando invece le espressioni facciali erano di rabbia veniva registrato un incremento dell'attività del muscolo corrugatore del sopracciglio. In uno studio EMG sull'empatia [Mathews, Hoffman e Cohen 1991], l'espressione facciale dei soggetti - studenti universitari - era registrata di nascosto su video mentre essi osservavano un filmato di due minuti, nel quale una ragazza raccontava un evento felice (una cena con il fidanzato e i genitori) e un evento triste (l'annuncio da parte dei genitori di voler divorziare). Nella parte felice, l'espressione facciale, la voce e i gesti della ragazza trasmettevano un sentimento di viva gioia; nella parte triste, invece, espressione facciale, voce e gesti esprimevano una profonda tristezza. Quando i soggetti osservavano la parte felice, i videonastri mostravano un incremento dell'attività EMG dei muscoli zigomatici e una diminuzione di quella dei muscoli sopracciliari; l'inverso accadeva quando osservavano la parte triste. In una successiva analisi dei dati, dei giudici qualificati, che ignoravano quali parti del filmato fossero state osservate dai soggetti, stimarono che le facce dei soggetti erano più felici quando osservavano la parte felice e più tristi quando osservavano quella triste. Risultati analoghi sono stati
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ottenuti in uno studio di Hatfield, Cacioppo e Rapson [1992], nel quale i giudici consideravano felici o tristi le espressioni facciali dei soggetti (studenti universitari) secondo che l'uomo di cui osservavano un'intervista filmata della durata di tre minuti raccontasse un evento felice o triste (una festa di compleanno o il funerale del nonno cui aveva partecipato a 6 anni). Anche se la maggior parte delle ricerche hanno riguardato l'espressione facciale, sono state osservate persone che intensificavano il movimento delle labbra e battevano le palpebre più spesso quando osservavano qualcuno che balbettava o ammiccava [Berger e Hadley 1975; Bernal e Berger 1976]. Più importante è la tendenza a imitare alcuni aspetti del modo di parlare di un'altra persona: velocità, tono, ritmo, pause, durata dell'emissione [Buder 1991]. Siccome il modo di parlare è correlato con le emozioni - quelle gioiose con un ritmo rapido, grandi variazioni di altezza e piccole variazioni di ampiezza [Scherer 1982] -, la mimesi vocale è una possibilità concreta. Essa è importante perché può manifestarsi precocemente forse già nei neonati, come vedremo - e perché, a differenza dell'espressione del volto, il modo di parlare è ben poco controllabile, cosa che rende più difficile l'inganno. Vi sono dunque prove inoppugnabili che mostrano che tendiamo a imitare automaticamente l'espressione delle emozioni delle persone intorno a noi: l'espressione facciale, l'espressione vocale e, probabilmente, anche la postura. Ciò suscita un interrogativo: l'attivazione per imitazione dell'espressione facciale e vocale di una persona provoca una retroazione afferente che, subito dopo, influenza l'esperienza emozionale soggettiva? 2. Retroazione. Charles Darwin fu il primo a formulare l'ipotesi della retroazione: «Chi si lascia andare a gesti violenti fa aumentare la sua collera; chi non controlla i segni della paura si sentirà ancora più terrorizzato» [Darwin 1862/1965; trad. it. 1982, 419]. William James [1893] andò oltre e sostenne che la retroazione fosse la chiave dell'intera esperienza emozionale. È grazie alle risposte muscolari nonché ghiandolari e viscerali che veniamo a sapere ciò che sentiamo. Si cita spesso l'affermazione di J ames che «ci sentiamo tristi perché piangiamo, ci adiriamo perché meniamo le mani, abbiamo paura perché tremiamo». Questa ipotesi fu avanzata un secolo fa, ma solo recentemente è stata messa alla prova. 64
Nel primo studio rigoroso sulla retroazione [Laird 1974], lo sperimentatore informava i soggetti, tutti adulti, di essere interessato a studiare l'attività dei muscoli facciali. Nel laboratorio di Laird troneggiava un apparato che doveva far credere ai soggetti che di lì a poco sarebbero state condotte complesse registrazioni multicanale dell'attività dei muscoli facciali. Ai soggetti - tra le sopracciglia, alla commessura labiale e alle estremità della mandibola - furono applicati elettrodi a coppa in argento. Poi fu chiesto loro di contrarre determinati muscoli, in modo che, senza rendersene conto, assumessero espressioni emozionali (sorriso o faccia accigliata). Per ottenere un'espressione accigliata, lo sperimentatore toccava leggermente i soggetti tra le sopracciglia con un elettrodo e chiedeva loro di volgere verso il basso entrambe le sopracciglia mantenendole in quella posizione («Abbassi tutte e due le sopracciglia ... bene, adesso resti così»), e poi di contrarre i muscoli agli angoli della mandibola («Stringa i denti»). Per ottenere un'espressione allegra, ai soggetti veniva chiesto di contrarre i muscoli delle commessure labiali («Tiri gli angoli della bocca all'indietro e verso l'alto»). Laird constatò che i soggetti nella condizione «faccia accigliata» si sentivano più arrabbiati, e quelli nella condizione «faccia sorridente» più allegri. Ai soggetti furono poi mostrate delle vignette, e quando «sorridevano» essi le giudicavano più divertenti che non quando erano «accigliati». In uno studio successivo, i soggetti nella condizione «faccia sorridente» ricordavano meglio gli eventi lieti loro occorsi che non quelli tristi, mentre i soggetti nella condizione «faccia accigliata» ricordavano meglio gli eventi tristi [Laird et al. 1982]. Il commento di uno dei soggetti del primo studio getta qualche luce sul processo: Quando strinsi i denti e abbassai le sopracciglia, provai a non arrabbiarmi, ma la verità è che viene naturale. Non ero di cattivo umore, ma i miei pensieri erano attratti da cose che mi facevano arrabbiare - il che è abbastanza stupido, suppongo. Sapevo che stavo facendo un esperimento e che non avevo nessun motivo per sentirmi così, ma la verità è che avevo perduto il controllo [Laird 1974, 480].
Sono state escogitate anche altre tecniche non meno ingegnose per far sorridere i soggetti senza che se ne rendessero conto. In un esperimento, ai soggetti veniva chiesto di riempire dei moduli di valutazione tenendo una penna tra i denti
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anteriori, il che addolcisce i muscoli facciali in un sorriso. A questi soggetti furono poi presentate delle vignette umoristiche; essi le trovavano più divertenti dei soggetti ai quali era stato chiesto di reggere la penna tra le labbra, cosa che li costringeva ad assumere un'espressione accigliata [Strack, Martin e Stepper 1988). In un altro caso, lo sperimentatore voleva fare in modo che i soggetti corrugassero le sopracciglia senza chiedere loro esplicitamente di muovere i muscoli facciali. Sulla fronte dei soggetti (in corrispondenza dell'angolo interno di ciascun occhio) venivano fissati due tees da golf, dopo di che ai soggetti veniva chiesto di muovere simultaneamente i tees, ciò che conferiva loro un'espressione triste. La conseguenza è che essi si sentivano tristi: quando osservavano fotografie di bambini affamati e altre scene del genere si sentivano più tristi dei soggetti di controllo che osservavano le medesime scene senza tees sulla fronte. Almeno una dozzina di altri studi hanno ottenuto risultati simili: i soggetti provano le emozioni concordanti con le loro espressioni facciali e hanno difficoltà a provare le emozioni discordanti con quegli atteggiamenti. Sono stati impiegati anche altri metodi, come quello di chiedere ai soggetti di accentuare o dissimulare le proprie reazioni emozionali, quali che fossero. Questi studi, come quelli descritti sopra e altri ancora, sono stati sintetizzati in alcune rassegne; la conclusione è che le espressioni facciali delle persone tendono a influenzare le loro esperienze emozionali [Adelman e Zajonc 1989; Hatfield, Cacioppo e Rapson 1992). Nonostante tutto, non mi è affatto chiaro se i soggetti si sentissero arrabbiati o felici perché i cambiamenti prodotti nell'espressione facciale attivavano vie neurali afferenti che provocavano l'una o l'altra emozione. C'è una spiegazione alternativa: che essi percepissero i mutamenti di espressione facciale per via cinestetica e li associassero con esperienze di rabbia o di felicità («Quando sono arrabbiato, stringo i denti e aggrotto le sopracciglia»). Se quest'ultima spiegazione è quella corretta, non si può dire che le ricerche confermino l'ipotesi della retroazione afferente, ma piuttosto una forma di retroazione più debole, basata sull'autopercezione e sull'inferenza cognitiva. La questione è critica, poiché se la retroazione afferente esiste e opera fin dalla prima infanzia, la mimesi diventa un meccanismo fondamentale, giacché permette ai bambini di rispondere
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empaticamente a un sentimento altrui prima ancora di averlo sperimentato direttamente, e potrebbe spiegare anche il pianto reattivo del neonato (cap. III). Se invece non v'è retroazione se non attraverso l'autopercezione e l'inferenza cognitiva - cosa che richiede un'esperienza precedente del sentimento in questione - allora l'empatia nella prima infanzia è possibile solo attraverso il condizionamento e l'associazione diretta. Laird [1984] sostiene che sono possibili entrambi i tipi di retroazione: « Vi è chi è allegro perché sorride, arrabbiato perché corruga le ciglia e triste perché fa il broncio; altri definiscono la propria esperienza emozionale in termini di aspettative situazionali». Laird presenta anche varie prove a sostegno di questa tesi [Laird 1984; Laird et al. 1994]. Questa spiegazione in termini di un duplice processo implica ovviamente, che la retroazione afferente esiste anche se non tutti la usano. A favore della forma forte dell'ipotesi della retroazione afferente può essere addotto il seguente argomento. Gli psicologi hanno a lungo supposto che le connessioni tra le espressioni facciali e le emozioni fossero determinate culturalmente. Questa idea è stata dimostrata infondata da un importante studio di Ekman, Sorenson e Friesen [1969], nel quale i membri di una tribù della Nuova Guinea priva di lingua scritta identificavano una serie di espressioni facciali emozionali non diversamente dai soggetti del Giappone, del Brasile e degli Stati Uniti. Questo risultato ha aperto una nuova linea di ricerca, e da allora si sono accumulate prove a sostegno dell'esistenza di emozioni innate, ciascuna associata a specifiche espressioni facciali. Queste emozioni ed espressioni innate sono la base sulla quale operano la cultura e la socializzazione per determinare le differenze nei sentimenti soggettivi e nell'espressione delle emozioni [Ekman et al. 1987]. Di particolare importanza per i nostri scopi, è che le prove indicano che le connessioni tra emozioni ed espressioni facciali sono universali e fondate sull'integrazione neurale. Ciò avvalora l'ipotesi della retroazione afferente, la cui esistenza, peraltro, non esclude quella di una retroazione basata sull' autopercezione e sull'inferenza cognitiva, che può anzi spiegare. Può essere vero che ci sentiamo arrabbiati perché l'esperienza passata ci insegna che la rabbia «viene naturale» data l'espressione facciale assunta per posa, ma la rabbia può venir naturale, anzitutto, a 67
causa della retroazione afferente. Ciò può anche spiegare, in parte, perché la retroazione basata sull' autopercezione e sull'inferenza cognitiva possa agire così rapidamente ed essere così immediata e involontaria come appare. Infine, l'osservazione di Laird che alcune persone ricorrono alla retroazione afferente e altre all'inferenza cognitiva può essere spiegata in relazione al tipo di socializzazione, che può rendere alcuni più sensibili agli stimoli situazionali e altri alle sensazioni interne. Che io sappia, nessuno ha dimostrato in modo conclusivo una retroazione afferente derivante dall'imitazione. Per farlo occorrerebbe indagare i cambiamenti prodotti dall'imitazione nell'espressione facciale in un contesto realistico, e valutarne gli effetti sui sentimenti dei soggetti. Un'impresa ardua, ma che Bush e colleghi [1989] potrebbero essere riusciti a realizzare. I soggetti erano studenti universitari ai quali era chiesto di assistere ad alcune esibizioni comiche in differenti condizioni e di valutare quanto fossero divertenti. Un gruppo era stato invitato a «rilassarsi e godersi» le esibizioni, e le esibizioni cui assisteva erano intercalate a immagini delle facce sorridenti del pubblico in studio; i suoi membri imitarono le facce del pubblico e trovarono i numeri comici più divertenti rispetto a un gruppo che aveva ricevuto le stesse istruzioni ma non vedeva il pubblico. Ciò può far pensare che i sorrisi fatti dai soggetti a imitazione del pubblico provocassero una retroazione afferente che faceva sì che essi si sentissero più allegri e giudicassero le esibizioni più divertenti. Un'interpretazione più parsimoniosa è che la retroazione non fosse necessaria: le facce sorridenti del pubblico facevano sì che i soggetti sorridessero e insieme pensassero che le esibizioni fossero più divertenti. Lo studio di Barr e colleghi, tuttavia, tenendo conto di questa interpretazione, comprendeva un gruppo i cui membri, pur vedendo le facce sorridenti del pubblico, dovevano evitare ogni movimento corporeo o facciale. Il risultato fu che questo gruppo non trovò divertenti i numeri comici. In altri termini, due gruppi videro le facce sorridenti, ma solo il gruppo che imitò il pubblico fu più divertito dalle esibizioni - presumibilmente, a causa della retroazione afferente. Ciò nonostante, resta forse un problema. Solo il gruppo imitatore si comportò in modo spontaneo; l'altro gruppo non lo fece e, per seguire le istruzioni e non ridere, può aver evitato di 68
guardare il pubblico o cercato di pensare a cose poco divertenti. Se questo è vero, è possibile che se i soggetti avessero badato al pubblico avrebbero giudicato più divertenti le esibizioni anche senza imitare le facce sorridenti, e questo escluderebbe una spiegazione fondata sulla retroazione afferente. Ma questa è pura speculazione, e sembra ragionevole concludere che gli autori siano nel giusto; il gruppo osservò il pubblico (seguendo le istruzioni) e trovò poco divertenti le esibizioni per l'assenza di una retroazione afferente. Sembra altrettanto ragionevole concludere che le prove dell'universalità delle emozioni, insieme con le prove dell'imitazione e della retroazione, confermino la sequenza imitazioneretroazione e il meccanismo della mimesi descritto da Lipps. Ciò significa che la mimesi è probabilmente un processo di attivazione dell'empatia, «cablato» (hard-wired) a livello neurale, i cui due stadi, l'imitazione e la retroazione, sono diretti da comandi del sistema nervoso centrale. Ciò è importante per due ragioni. In primo luogo, come abbiamo osservato, una mimesi «cablata» a livello neurale è un meccanismo ad azione rapida che permette al bambino, fin dalla più tenera età, di provare empatia e sentire ciò che un altro sente senza avere sperimentato prima quell'emozione. Dico «ad azione rapida» seguendo l'argomento di Davis [1985] secondo cui la mimesi è troppo complessa e agisce troppo rapidamente perché possa avvenire a livello conscio. Davis osserva che anche il fulmineo Muhammad Ali impiegava 190 millisecondi per notare una luce e altri 40 millisecondi per tirare in risposta un pugno, mentre le registrazioni filmate di conversazioni tra studenti universitari rivelano che essi sincronizzano i loro movimenti vocali e corporei con quelli altrui in 20 millisecondi o meno. Una seconda ragione dell'importanza della «cablatura» della mimesi è che di conseguenza la mimesi, oltre che involontaria e rapida, è l'unico meccanismo di attivazione empatica capace di garantire, almeno negli incontri faccia a faccia, la coincidenza tra il sentimento espresso dall'osservatore e il sentimento espresso dalla vittima. Questa coincidenza di espressioni emotive emerge chiaramente nelle ricerche di Bavelas e colleghi [1987; 1988], dalle quali riceve supporto la loro tesi che la mimesi sia un atto comunicativo che trasmette un messaggio non verbale in modo rapido e chiaro a un'altra persona. In particolare, essi
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sostengono che quando siamo impegnati in un atto di mimesi, comunichiamo solidarietà e partecipazione («Ti sono vicino», «Ci somigliamo»). «Esibendo immediatamente una reazione appropriata alla situazione dell'altro - per esempio, un gesto di dolore in risposta al dolore altrui -, l'osservatore trasmette in modo chiaro ed eloquente la sua consapevolezza e la sua partecipazione alla situazione dell'altro» [Bavelas et al. 1988, 278]. Se Bavelas e colleghi sono nel giusto, è possibile che la mimesi non sia solo un ulteriore meccanismo di attivazione empatica che predispone le persone ad aiutare gli altri, ma anche un modo diretto di dare loro sostegno e conforto. In altri termini, oltre che una motivazione prosociale, l'empatia fondata sulla mimesi può essere anche un atto prosociale.
3 .2. Condizionamento classico Il condizionamento classico è un importante meccanismo di attivazione empatica nei bambini, in particolar modo quelli di età preverbale. I bambini piccoli (come chiunque altro, del resto) possono acquisire per condizionamento un sentimento empatico di sofferenza quando osservano una persona che soffre e al tempo stesso hanno, indipendentemente, un'esperienza personale di sofferenza. Lanzetta e Orr [1986] hanno constatato che se si presenta a un adulto un segnale di pericolo che suscita paura (elettrodi per infliggere scariche elettriche) e, simultaneamente, un'espressione facciale di paura di un altro adulto, le facce impaurite diventano stimoli condizionati capaci di destare paura anche in assenza degli elettrodi. Attraverso un procedimento simile, anche facce liete e suoni neutri possono diventare stimoli condizionati capaci di destare paura, benché meno delle facce impaurite. All'altro estremo, cosa del massimo interesse per il nostro studio, vent'anni di ricerche hanno mostrato che, diversamente da quel che si credeva, il condizionamento è possibile anche nel neonato: ad esempio, si può condizionare il riflesso di suzione di un neonato di un giorno carezzandogli la fronte [Blass, Ganchrow e Steiner 1984]. Questa associazione tra la sofferenza reale di una persona e la sofferenza espressa da un'altra persona può essere inevitabile nelle interazioni tra la madre e il figlio o la figlia nel primo 70
anno di vita, come quando la madre, nell'accudire fisicamente l'infante, gli trasmette i suoi sentimenti. Ad esempio, quando la madre è tesa o ansiosa, il suo corpo può irrigidirsi e questa rigidità può trasmettere la sua sofferenza al bambino che tiene in braccio. Così anche il bambino avverte sofferenza, come conseguenza diretta dell'irrigidimento del corpo della madre (stimolo incondizionato). Le concomitanti espressioni verbali e facciali della madre diventano poi stimoli condizionati, capaci in seguito di suscitare sofferenza nel bambino anche senza contatto fisico. Questo meccanismo può spiegare la definizione di empatia di Sullivan [1940]: una forma di «contagio e comunione di tipo non verbale» tra la madre e il bambino, nonché la scoperta di Escalona [1945] che in una casa di reclusione femminile dove le madri stavano con i figli, i bambini erano particolarmente agitati quando le madri attendevano di comparire davanti al comitato per la libertà condizionata. Inoltre, per generalizzazione dello stimolo condizionato, la sofferenza del bambino può essere suscitata dagli indici di sofferenza facciali e verbali di qualunque altra persona, non solo della madre. Questo tipo di condizionamento fisico diretto non si limita agli affetti negativi. Quando una madre tiene il figlio stretto a sé, con sicurezza e amore e con il volto sorridente, il bambino si sente bene e associa il sorriso della madre a questo sentimento. In seguito, il sorriso della madre, agendo come uno stimolo condizionato, può fare sì che il bambino si senta bene. E, di nuovo per generalizzazione dello stimolo, anche il sorriso di altre persone può fare sì che il bambino si senta bene. Per il nostro studio questo è un processo importante, perché può contribuire a produrre il sollievo empatico che proviamo quando la persona che abbiamo aiutato sorride di gratitudine o sollievo. La retroazione afferente, una componente essenziale della mimesi, può svolgere anch'essa un ruolo nel condizionamento, e può produrre, in certa misura, una corrispondenza tra i sentimenti dell'osservatore e quelli della vittima. In altri termini, i cambiamenti nell'espressione facciale dell'osservatore che accompagnano la sofferenza empatica provocata per condizionamento possono suscitare una retroazione afferente e destare nell'osservatore sentimenti coincidenti con quelli della vittima, e ciò per tre ragioni: a) tutti gli esseri umani sono accomunati
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da certe esperienze di sofferenza (perdite, danni, privazioni); b) sono strutturalmente simili, sicché è probabile che elaborino in modo simile le informazioni relative alla sofferenza; e) di conseguenza, è probabile che rispondano con sentimenti simili a eventi stressanti simili [Ekman et al. 1987]. Il condizionamento può in effetti essere considerato, come la mimesi, un processo a due stadi: il condizionamento dell'espressione facciale e, di seguito, la retroazione afferente. Vi è tuttavia un'importante differenza: la mimesi garantisce una corrispondenza tra il sentimento della vittima e quello dell'osservatore, poiché è l'unico processo il cui primo stadio (l'imitazione) è una risposta diretta all'espressione facciale della vittima; il condizionamento, invece, può essere una risposta alla situazione della vittima.
3 .3. Associazione diretta Una variante del paradigma del condizionamento (già descritta da Humphrey [1922]) è l'associazione diretta: i segnali della situazione della vittima ricordano all'osservatore esperienze simili vissute in passato e suscitano in lui emozioni corrispondenti a quella situazione. Abbiamo un'esperienza di sofferenza; osserviamo in seguito qualcuno in una situazione simile; la sua espressione facciale, la voce, la postura o qualunque altro stimolo situazionale che ci ricordi quell'esperienza passata possono suscitare in noi un sentimento di sofferenza. Un esempio citato spesso è quello del bambino che ne vede un altro che si ferisce e piange. La vista del sangue, il suono del pianto, o qualunque altro stimolo della vittima o della situazione che ricordino al bambino una sua esperienza dolorosa possono provocare in lui una risposta di sofferenza empatica. Un altro esempio sono le esperienze di separazione del bambino dalla madre - separazioni brevi e quotidiane, separazioni prolungate, fino alla morte della madre, col turbamento che ne segue - che possono facilitare l'empatia per un'altra persona la madre della quale sia ricoverata in ospedale o sia vicina a morte. L'associazione diretta si distingue dal condizionamento perché non presuppone esperienze nelle quali la propria sofferenza sia accompagnata da segnali di sofferenza di altre persone. 72
L'unico requisito è che l'osservatore abbia provato in passato dolore o afflizione, sentimenti che possono essere ora evocati da segnali di sofferenza della vittima o da segnali situazionali simili a quelle esperienze dolorose. Perciò l'associazione diretta ha una più vasta portata rispetto al condizionamento e fa sì che il bambino possa rispondere empaticamente a un'ampia varietà di esperienze di sofferenza di altre persone. Inoltre, ciò che abbiamo detto sul ruolo della retroazione afferente nel condizionamento può applicarsi anche all'associazione diretta: le variazioni nell'espressione facciale di un osservatore risultanti dall'associazione diretta possono favorire, per retroazione afferente, una certa corrispondenza tra i sentimenti dell'osservatore e quelli della vittima. Ecco un vivido esempio di associazione diretta descritto da uno studente universitario: Mentre scendevo dall'autobus vidi un uomo cadere e sbattere la testa contro i gradini. Per me fu uno shock. In un lampo, mi tornò in mente la volta in cui ero scivolato sul marciapiede e mi ero fratturato il cranio. Non so cosa mi prese. Pensavo solo ad aiutarlo, dovevo fare qualcosa per lui. Ricordo che gridavo alla gente di chiamare il 911. Stetti lì per più di due ore, preoccupato che tutto andasse bene. Mi conosco, so che non mi sarei sentito tranquillo se quell'uomo non si fosse ripreso e non l'avessi lasciato nelle mani di qualcuno in grado di prendersi cura di lui.
Riassumendo, la mimesi, il condizionamento e l'associazione diretta sono, per varie ragioni, importanti meccanismi di attivazione empatica: a) sono automatici, involontari e agiscono molto rapidamente; b) permettono ai bambini nella prima infanzia e in età preverbale, come pure agli adulti, di rispondere empaticamente alla sofferenza altrui; e) fanno sì che il bambino già in tenera età metta in relazione la sofferenza empatica propria con quella di altre persone, ciò che contribuisce alla sua aspettativa di sofferenza quando è esposto alla sofferenza altrui; d) hanno una certa capacità di autorinforzarsi, perché alimentano comportamenti di aiuto che possono produrre sollievo empatico; e) conferiscono una dimensione involontaria alle future esperienze empatiche del bambino. Ci si potrebbe chiedere se il condizionamento e l'associazione diretta, quando sono suscitati dalla situazione piuttosto che dai sentimenti della vittima, siano realmente processi di attivazione
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empatica. lo credo che lo siano, purché l'osservatore presti attenzione alla vittima e i suoi sentimenti rispondano alla situazione della vittima piuttosto che alla propria. In ogni caso, questo è un problema che non si pone negli incontri faccia a faccia, nei quali la mimesi definisce la sofferenza dell'osservatore come chiaramente empatica, e il condizionamento e l'associazione possono influenzarne l'intensità. L'empatia suscitata nell'osservatore dalla combinazione di mimesi, condizionamento e associazione è, si badi, una risposta passiva e involontaria, che si basa su stimoli superficiali e richiede il livello più basso di elaborazione cognitiva. Ma è un «pacchetto» di meccanismi di attivazione empatica che può avere profonde implicazioni, precisamente perché mostra che gli esseri umani, per come sono fatti, possono sperimentare, involontariamente e intensamente, emozioni altrui (cioè, che molte volte la sofferenza di una persona non dipende da un'esperienza dolorosa propria, ma da quella di qualcuno altro). Tuttavia, si tratta di un «pacchetto» di meccanismi di attivazione empatica limitato, a causa del modestissimo ruolo che vi svolgono il linguaggio e la cognizione. La vittima deve essere presente e gli osservatori possono rispondere empaticamente solo ad emozioni semplici. Inoltre, i tre meccanismi contribuiscono poco o per nulla allo sviluppo della dimensione metacognitiva dell'empatia - la consapevolezza che il proprio sentimento di sofferenza è una risposta alla sofferenza di qualcun altro. Queste limitazioni sono superate dal linguaggio e dallo sviluppo cognitivo, cruciali per le ultime due forme di attivazione empatica, l'associazione mediata e l'assunzione di ruolo, che passiamo ad analizzare.
3 .4. Associazione mediata
Nella quarta modalità di attivazione empatica - la mediazione verbale - lo stato di sofferenza emozionale della vittima viene trasmesso attraverso il linguaggio. Per capire quali processi sono ali' opera nell'associazione mediata, si consideri ciò che accade quando il linguaggio è l'unico modo per sapere qualcosa dello stato affettivo di qualcun altro - ad esempio, quando l'altro non è presente ma ci scrive una lettera per dirci che cosa gli è successo o come si sente. Il linguaggio può
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suscitare una risposta empatica attraverso le proprietà fisiche delle parole divenute stimoli condizionati (il suono della parola cancro, ad esempio, può fare paura a un bambino, anche se non conosce il significato della parola, perché ne associa il suono a espressioni di paura e di ansia da parte degli adulti). Ma non è questo che rende speciale il linguaggio. Il linguaggio è qualcosa di speciale non per le proprietà fisiche delle parole bensì per i loro significati. I messaggi verbali delle vittime devono essere elaborati e decodificati a livello semantico. Quando ciò avviene, il linguaggio fa da mediatore o da tramite fra i sentimenti del modello e l'esperienza dell' osservatore. Il messaggio può esprimere i sentimenti del modello («Sono dispiaciuto»), la situazione del modello («Mio figlio è stato appena ricoverato in ospedale»), o tutt'e due le cose. Gli osservatori che decodificano il messaggio della vittima e lo mettono in relazione con la propria esperienza possono provare, di conseguenza, affetto empatico. Oppure, una volta decodificato, il messaggio può permettere all'osservatore di evocare immagini della vittima, tanto visive (espressione facciale, postura) quanto uditive (grida, lamenti), alle quali può poi rispondere empaticamente per associazione diretta o per mimesi. L'attivazione empatica mediata dal linguaggio è interessante per più di una ragione: in primo luogo, il tempo necessario per elaborare semanticamente un messaggio e ricondurlo alla nostra esperienza, benché senza dubbio inferiore al tempo richiesto dal condizionamento, dall'associazione e dalla mimesi, è molto variabile. L'elaborazione semantica può richiedere molto tempo, ma può anche essere straordinariamente rapida: ci vogliono meno di un secondo per categorizzare le parole di una lista (quale delle parole che seguono designa un frutto?) e due o tre secondi per giudicare se un termine è sinonimo di un altro [Gitomer, Pellegrino e Bisanz 1983; Rogers, Kuiper e Kirker 1977]. In secondo luogo, l'elaborazione semantica richiede indubbiamente uno sforzo mentale maggiore rispetto al condizionamento, all'associazione e alla mimesi. In terzo luogo, poiché non è una risposta alla vittima o alla sua situazione, l'elaborazione semantica, attraverso i processi di codifica e di decodifica, crea una distanza psicologica tra l'osservatore e la vittima. In altri termini, la vittima codifica i suoi sentimenti in parole (triste, spaventato), ma le parole sono
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categorie generali che possono solo approssimare ciò che sente la vittima in quel momento, e le parole sono tutta l'informazione che l'osservatore ha a disposizione. Quando decodifica il messaggio, l'osservatore procede in senso inverso, dalla categoria generale del sentimento rappresentato dalla parola al proprio sentimento particolare, e agli eventi passati associati a quel sentimento. Il risultato è che i sentimenti dell'osservatore hanno molto in comune con quelli della vittima, grazie al significato normativo e condiviso delle parole della vittima, anche se vi è sempre qualcosa che va perduto, a causa di «errori» di codifica e di decodifica (e del ricordo fallace degli eventi passati). Questi errori possono essere ridotti se le vittime sanno ben tradurre i propri sentimenti in parole e se gli osservatori conoscono a fondo la vittima e i suoi sentimenti in varie situazioni, e, magari, riescono a immaginare la sua espressione facciale e il suo comportamento nella situazione presente. In generale, ci si può aspettare che la mediazione verbale faccia sì che l'intensità della risposta empatica dell'osservatore sia minore che non quando la vittima è presente - anche se, come vedremo nel prossimo capitolo, non mancano eccezioni. Nella maggior parte dei casi, spettatore e vittima sono compresenti, e l'espressione verbale della sofferenza della vittima è accompagnata da stimoli visivi o uditivi a partire dai quali i processi di condizionamento, associazione o mimesi, rapidi come sono, possono suscitare la risposta empatica dell'osservatore prima dell'elaborazione semantica del messaggio verbale. Secondo la mia ipotesi, è più probabile che l'elaborazione semantica segua la risposta empatica dell'osservatore, affinandola, benché talvolta possa dare inizio al processo empatico, ad esempio, quando il messaggio verbale precede l'ingresso della vittima sulla scena. Qualunque sia la sequenza, gli stimoli espressivi della vittima, che sono facilmente colti dall'osservatore per condizionamento, associazione e mimesi, possono mantenere «vivo» il processo empatico perché si tratta di stimoli salienti e intensi, capaci di tenere desta l'attenzione dell'osservatore, a differenza dei messaggi verbali, che producono una certa distanza e, in qualche misura, attenuano l'affetto empatico, a causa dei processi di codifica e decodifica implicati nella loro elaborazione. Gli stimoli espressivi della vittima possono anche evitare che gli osservatori si facciano ingannare dalle sue parole,
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quando queste ne dissimulano i sentimenti - come è possibile per la tendenza umana a far trapelare i propri sentimenti nei mutamenti involontari dell'espressione facciale, della postura e del tono di voce. Si tratta di mutamenti che l'osservatore può cogliere per condizionamento, associazione e mimesi. Ciò indica una seconda funzione comunicativa dell'affetto empatico (vedi Bavelas et al. [1988]; quanto alla prima, vedi sopra), che è quella di fornire informazioni alla sua componente motivazionale [Hoffman 1981]. L'affetto empatico è dunque generato tanto da meccanismi primitivi quanto da meccanismi di mediazione verbale; in genere, l'informazione originata da queste due fonti empatiche è congruente, ma, se non lo è, la discrepanza può produrre una retroazione correttiva che aiuta gli osservatori ad affinare la propria valutazione dello stato della vittima e a produrre una risposta empatica più adeguata. La sofferenza empatica per mediazione verbale è illustrata da uno studio di Batson, Sympson e Hindman [1996]. I soggetti erano adolescenti che leggevano storie nelle quali una persona del loro stesso sesso descriveva un'esperienza penosa della sua vita. Una storia raccontava l'imbarazzo e la vergogna che si provano quando si ha una brutta acne, le continue burle e le osservazioni crudeli di cui si è oggetto, l'odioso spettacolo nel guardarsi allo specchio. La seconda storia descriveva ciò che una persona prova quando viene lasciata dopo una lunga relazione: il senso di tradimento e di rifiuto, il tentativo di riorganizzarsi e di andare avanti, la sfiducia in sé e l'amore che non si spegne. I soggetti dopo avere letto le storie riferirono di aver provato molta sofferenza empatica, una sofferenza che era ancora più grande tra i soggetti di sesso femminile che ricordavano di avere avuto esperienze simili, il che fa pensare a un'associazione per mediazione verbale. Probabilmente questo tipo di mediazione era ciò che permetteva ai soggetti di immaginarsi al posto della vittima: un meccanismo di attivazione empatica di cui ci occuperemo tra breve, dopo aver presentato un caso piuttosto differente di sofferenza empatica, nel quale la mediazione non è verbale ma cognitiva (di questo esempio sono debitore a uno studente): Mi è sempre stato detto che quando si ha a che fare con un malato terminale è meglio non parlare con lui della malattia, ma di cose di tutti i giorni. Circa cinque anni fa mia nonna entrò in coma e «visse»
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un anno in quello stato. Spesso le parlavo al telefono, dicendole chi ero e raccontandole quello che facevo. Per me fu molto difficile e penoso, perché non mi rispose mai e non potei mai chiederle qualcosa di lei. Le parlavo nella speranza che prima o poi mi rispondesse. Non accadde.
In questo caso la vittima non produceva stimoli espressivi salvo il silenzio, che non aveva alcun significato se non alla luce delle conoscenze dell'osservatore e della sua comprensione della situazione della vittima. 3.5. Assunzione di ruolo La quinta forma di attivazione empatica chiama in causa un livello superiore di elaborazione cognitiva: mettersi al posto di un altro e immaginare come si sente (role-taking). L'idea che se ci mettiamo al posto di un altro possiamo sentire, almeno in parte, ciò che l'altro sente non è nuova: due secoli e mezzo or sono il filosofo britannico David Hume affermò che siccome gli esseri umani sono simili per costituzione e per esperienze di vita, quando le persone immaginano di essere al posto di un altro traducono la sua situazione in immagini mentali che suscitano in loro i medesimi sentimenti [Hume 1751/1957]. Adam Smith, negli stessi anni, concordava con Hume sull'importanza dell'empatia, e le sue speculazioni sulla natura del processo empatico prefigurano alcune delle formulazioni odierne. Smith si rese conto che l'empatia può essere una risposta a segnali espressivi diretti dei sentimenti altrui: «Ad esempio, la pena e la gioia chiaramente espresse nello sguardo o nei gesti di qualcuno subito colpiscono lo spettatore con un certo grado di una simile emozione dolorosa o piacevole» [Smith 1759/1976; trad. it. 1991, 84]. Smith considerava l'empatia universale e involontaria: «Nemmeno il più gran furfante, il più incallito tragressore delle leggi della società ne è del tutto privo» [Smith 1759/1976; trad. it. 1991, 81]. Pur involontaria, l'empatia è intensificata dai processi cognitivi: Con l'immaginazione noi ci mettiamo nella sua situazione, ci rappresentiamo mentre proviamo tutti i suoi stessi tormenti, come se entrassimo nel suo corpo, e diventiamo in una certa misura la sua stessa persona e di qui ci formiamo qualche idea delle sue sensazioni e
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proviamo persino qualcosa che, nonostante di grado più debole, non è del tutto diverso da esse [Smith 1759/1976; trad. it. 1991, 82].
Dopo (e nonostante) questi primi passi, l'assunzione di ruolo come meccanismo di attivazione empatica non fu studiata empiricamente fino alla metà degli anni Sessanta. Le ricerche più significative furono condotte da Stotland [1969]. In uno dei suoi studi, i soggetti dovevano immaginare che cosa avrebbero provato e quali sensazioni avrebbero avvertito alle mani se avessero subito il doloroso trattamento col calore cui era sottoposta una persona che potevano osservare attraverso uno specchio unidirezionale. Questi soggetti, come testimoniato dalla sudorazione palmare e dai resoconti personali, mostravano una sofferenza empatica maggiore di quei soggetti che erano stati invitati a osservare attentamente ciò che la vittima faceva, e anche di quei soggetti cui era stato chiesto di immaginare come si sarebbe sentita la vittima durante il trattamento col calore. Il primo risultato indica che, per suscitare empatia, immaginarsi al posto della vittima vale più che prestare attenzione ai suoi movimenti espressivi; il secondo indica che, per suscitare empatia, immaginarsi al posto di un altro vale più che il dirigere l'attenzione direttamente sui suoi sentimenti. Stotland constatò anche che i soggetti cui era chiesto di immaginarsi al posto della vittima non mostravano alcun aumento della sudorazione palmare fino a 30 secondi dopo che lo sperimentatore aveva annunciato l'inizio del trattamento col calore, un tempo superiore a quello impiegato dai soggetti che dovevano semplicemente osservare la vittima. Il ritardo della reazione empatica poteva essere dovuto alle esigenze cognitive dell'assunzione di ruolo (sommato allo sforzo mentale implicato nel seguire le istruzioni). Gli studi di Stotland mi fecero pensare che possono esistere due tipi di assunzione di ruolo, con due effetti alquanto diversi: nel primo tipo, la concezione ordinaria dell'assunzione di ruolo, ci si immagina al posto dell'altra persona; nel secondo tipo, invece, ci si focalizza direttamente ai suoi sentimenti. Ho condotto parecchie interviste nelle quali chiedevo ai soggetti di descrivere situazioni nelle quali avessero risposto empaticamente a vittime presenti, vittime che avevano comunicato per iscritto la loro sofferenza, e vittime la cui sofferenza era stata 79
comunicata da una terza persona. Le interviste diedero due frutti: confermarono l'esistenza dei due tipi di assunzione di ruolo, ai quali si aggiunse un terzo tipo, di carattere misto; in secondo luogo, gettarono luce sui processi interattivi cognitivoaffettivi che possono valere in tutti questi casi. l. Assunzione di ruolo centrata su di sé. Quando osserviamo qualcun altro che soffre, possiamo immaginare come ci sentiremmo nella stessa situazione. Se vi riusciamo abbastanza vividamente, possiamo sperimentare, in parte, il medesimo stato affettivo della vittima. E se ci tornano alla mente eventi simili del nostro passato, o se ricordiamo di aver temuto che tali eventi ci capitassero, la risposta empatica di fronte alla vittima può essere rafforzata dall'associazione con il ricordo di quegli eventi reali o temuti, con il suo carico emozionale. 2. Assunzione di ruolo centrata sull'altro. Quando veniamo a sapere di una disgrazia altrui, possiamo rivolgere direttamente la nostra attenzione sulla vittima e immaginare come si sente; ciò può tradursi in un sentimento che coincide in parte con quello della vittima. Questa risposta empatica può essere rafforzata dalle informazioni personali che abbiamo sulla vittima (carattere, condizioni di vita, comportamento in condizioni simili) e dalle conoscenze sul modo in cui le persone di regola si sentono in quella situazione. Essa può diventare più intensa se si presta attenzione all'espressione facciale, al tono di voce o alla postura della vittima, poiché questi stimoli non verbali di sofferenza possono attivare i meccanismi di attivazione empatica più elementari (condizionamento, associazione, mimesi). Ciò può accadere anche in assenza della vittima, come quando un osservatore strettamente legato alla vittima immagina il suo aspetto, ne «ode» le grida e risponde empaticamente come se fosse lì presente. Sulla base delle mie interviste, ho proposto una spiegazione dell'osservazione di Stotland secondo la quale l'assunzione di ruolo centrata su di sé produce una sofferenza empatica più intensa dell'assunzione di ruolo centrata sull'altro: L'immaginare se stessi al posto di qualcun altro riflette processi generati all'interno dell'osservatore [ ... ] nei quali gli stimoli relativi all'altra persona sono messi in rapporto con stimoli analoghi dell'esperienza passata dell'osservatore. L'immaginarsi al posto di qualcun altro
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produce una risposta empatica perché ha il potere di suscitare un'associazione con eventi passati nei quali l'osservatore ha effettivamente sperimentato quell'affetto [Hoffman 197 8, 180].
Questo tipo di risposte generate internamente sono meno probabili quando ci rivolgiamo direttamente alla vittima. L'ipotesi che l'assunzione di ruolo centrata su di sé produca un affetto empatico più intenso di quella centrata sull'altro è stata confermata recentemente da uno studio sperimentale di Batson, Early e Salvarani [1977]. I soggetti erano studenti universitari che ascoltavano una (falsa) intervista radio di una giovane donna nei guai: poco tempo prima i genitori e una sorella erano deceduti in un incidente stradale, e lei doveva prendersi cura di un fratello e di una sorella più piccoli e al tempo stesso finire l'ultimo anno dell'università. Se non fosse riuscita a terminare gli studi, non sarebbe riuscita a guadagnare abbastanza per mantenere i fratelli e avrebbe dovuto darli in adozione. Ai soggetti di un primo gruppo veniva chiesto di mantenersi freddi e distaccati durante l'ascolto dell'intervista; quelli di un secondo gruppo dovevano immaginare come la giovane donna «si sentiva dopo tutto ciò che le era successo e come era cambiata la sua vita»; i soggetti di un terzo gruppo erano invitati a immaginare come «ti sentiresti se la stessa disgrazia fosse capitata a te e come questa esperienza influenzerebbe la tua vita». Il risultato principale fu che entrambe le condizioni di assunzione di ruolo provocarono una sofferenza empatica maggiore che non la condizione di oggettività, e che nella condizione centrata su di sé la sofferenza fu maggiore che non nella condizione centrata sull'altro; in altri termini, i soggetti che avevano immaginato come si sarebbero sentiti al posto della vittima sperimentarono una sofferenza empatica più intensa di quelli che avevano immaginato come si sentisse la vittima3 • La ragione, a mio giudizio, è che immaginare come ci sentiremmo in una certa situazione attiva il nostro sistema di bisogni. 3 Il risultato effettivo fu che sia la condizione centrata su di sé sia quella centrata sull'altro provocarono più sofferenza empatica/simpatetica della condizione oggettiva; la condizione centrata su di sé provocò però, in aggiunta, un grado elevato di sofferenza empatica relativamente «pura» (quella che Batson et al. [ 1997] hanno chiamato «sofferenza personale»). I termini sofferenza empatica/simpatetica e sofferenza empatica pura possono essere meglio compresi alla luce del capitolo seguente, nel quale sono discussi più estesamente.
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L'assunzione di ruolo centrata su di sé non è tuttavia priva di limitazioni. Quando ci mettiamo al posto della vittima e rievochiamo ricordi personali carichi di risonanze affettive, questi ricordi, a volte, possono assumere il controllo della nostra risposta e spostare la nostra attenzione dalla vittima a noi stessi. L'osservatore avverte cioè una sofferenza empatica/ simpatetica («Condivido profondamente il tuo dolore; mi fa molto male vedere come stai»), ma poi comincia a pensare a una sua esperienza passata simile e magari peggiore (assunzione di ruolo centrata su di sé) e comincia ad avvertire una sofferenza più personale; il dolore empatico resta, ma la figura della vittima passa in secondo piano. In altri termini, la relazione empatica con la vittima si impadronisce dell'osservatore per poi, ironicamente, spezzarsi, poiché l'affetto empatico entra in profonda risonanza con i bisogni dell'osservatore stesso, il quale sposta la propria attenzione, inizialmente centrata sulla vittima, su di sé. Rimuginando sulle sue dolorose esperienze, l'osservatore si perde in preoccupazioni egoistiche e l'immagine della vittima, che aveva dato avvio al processo di assunzione di ruolo, sfugge all'attenzione e si dissolve, facendo abortire, in modo definitivo o temporaneo, il processo empatico. A questo dissolversi della relazione empatica ho dato il nome di «deriva egoistica» [Hoffman 1978]. La deriva egoistica illustra la fragilità dell'empatia facendo vedere che sebbene gli esseri umani possano provare empatia per l'altro, non sono l'altro. La mia ipotesi è che l'assunzione di ruolo centrata su di sé susciti una sofferenza empatica più intensa perché mette direttamente in relazione lo stato affettivo della vittima con il sistema di bisogni dell'osservatore, ma, per questa stessa relazione, sia vulnerabile alla deriva egoistica. Il risultato è che l'assunzione di ruolo centrata su di sé produce una risposta empatica più intensa, ma talvolta meno stabile, dell'assunzione di ruolo centrata sull'altro. Qualunque sia la spiegazione, la risposta affettiva dell'osservatore, sebbene inizialmente suscitata dallo stato affettivo della vittima, non va considerata, a mio giudizio, una forma di empatia, a meno che l'osservatore non rivolga di nuovo l'attenzione sulla vittima. La seguente testimonianza di una studentessa illustra come l'assunzione di ruolo centrata su di sé sia capace di suscitare affetto empatico, ma anche quanto sia vulnerabile alla deriva egoistica:
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Steel Magnolias (Fiori d'acciaio) è un film drammatico che racconta la vita di una donna, Shelby, e della sua lotta contro il diabete. Shelby ha un marito, Jackson, e un figlio. Una seraJackson rientra dal lavoro e trova Shelby distesa a terra, incosciente, con il telefono in mano; lì accanto, il figlio di tre anni che piange. Shelby viene portata in ospedale e muore. La madre, M'Lynn, viene consolata dalle amiche. Al funerale di Shelby, sua unica figlia, M'Lynn perde il controllo; non solo è disperata per la tragica scomparsa della figlia, ma soffre anche per suo nipote, destinato a crescere senza la madre. Si chiede perché mai Dio abbia chiamato a sé la sua Shelby: una madre non dovrebbe sopravvivere ai figli. Riuscii a restare calma fino all'ultima scena. Ma quando M'Lynn perse il controllo - la voce, le parole, l'aspetto - rividi l'immagine di mia nonna. Ricordavo quelle stesse azioni ... quando le aveva compiute mia nonna. Persi la testa. Non pensavo più a Shelby e a M'Lynn, ma a mia nonna. Mi venne in mente come mi ero sentita quando era morta mia zia, che aveva lasciato due figli piccoli. Lo stesso dolore, la stessa angoscia mi invasero di nuovo. Gli amici che erano con me al cinema pensarono che stessi piangendo per il film, ma in realtà quelle lacrime erano per la mia vita.
Il racconto di un'altra studentessa mostra che non è necessario avere avuto in passato un'esperienza simile a quella della vittima: è sufficiente la preoccupazione di averla in futuro. Una mia amica incinta ha scoperto da poco che il figlio che aspettava, il quarto, ha la sindrome di Down. Mi è dispiaciuto moltissimo per lei. Da qualche tempo sto pensando di avere un figlio. Ancora non ne ho, e spesso mi capita di chiedermi come sarebbe la mia vita se avessi un figlio con una grave malformazione. Immagino tutto quello che potrebbe accadere al bambino e a me. Perciò, quando la mia amica mi diede quella notizia, cominciai subito a pensare come sarebbe stato se avessi scoperto di aspettare un bambino con la sindrome di Down. Questi pensieri si impadronirono di me al punto che dimenticai completamente la mia amica e il suo stato. Ero piena di paura per quello che mi sarebbe potuto accadere in futuro, anziché per quello che stava accadendo in quel momento alla mia amica.
3. Combinazione. Gli osservatori possono passare dall'assunzione di ruolo «centrata su di sé» a quella «centrata sull'altro» e viceversa, ovvero sperimentare le due condizioni come processi paralleli e concomitanti. La mia analisi mostra che la loro combinazione può essere estremamente efficace, poiché l'intensità emozionale dell'assunzione di ruolo centrata su di
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sé si combina con la più intensa e duratura attenzione verso la vittima che caratterizza l'assunzione di ruolo centrata sull'altro. Di fatto, l'assunzione di ruolo pienamente matura può essere definita come immaginarsi di essere al posto dell'altro ed integrare l'affetto empatico che ne risulta con le informazioni sull'altro di cui si è personalmente in possesso e con le proprie conoscenze generali sul comportamento delle persone in quella situazione. Ciò può avvenire in entrambe le direzioni: l'assunzione di ruolo centrata su di sé può essere al servizio dell'assunzione di ruolo centrata sull'altro, o l'assunzione di ruolo centrata sull'altro può essere al servizio dell'assunzione di ruolo centrata su di sé. Un'ultima osservazione sull'assunzione di ruolo. Sebbene si possa manifestare spontaneamente negli adulti e nei bambini a partire dai 9 anni [Wilson e Cantar 1985], l'assunzione di ruolo comporta un carico cognitivo maggiore rispetto agli altri meccanismi di attivazione empatica, cosicché ci si può aspettare che abbia una maggiore componente volontaria. Perciò sembra possibile, ad esempio, sfuggire all'assunzione di ruolo facendosi distrarre da altri pensieri. Questo può essere difficile se la situazione richiede di concentrare l'attenzione sulla vittima o quando i segnali di sofferenza della vittima, per l'azione dei meccanismi di attivazione empatica di base (condizionamento, associazione, mimesi), diventano salienti. Ciò può spiegare perché un gruppo di soggetti di Stotland [1969], cui era richiesto di prestare attenzione alla vittima ma non di mettersi al suo posto, mostravano una sudorazione palmare pari a quella dei soggetti che dovevano solo prestare attenzione alla vittima; per quanto si sforzassero, questi soggetti non potevano sfuggire all'empatia. E può spiegare anche perché la maggior parte di noi, indipendentemente dall'età, trova difficile evitare di provare empatia quando guarda un film. Troviamo cioè difficile evitare di «sospendere l'incredulità», anche se sappiamo che è tutta una «finzione». L'assunzione di ruolo, in altri termini, può non essere quel processo volontario che a prima vista appare essere. Un'ipotesi finale sullo sviluppo: l'assunzione di ruolo centrata sull'altro comporta un carico cognitivo superiore (si tratta di considerare gli stati interni dell'altro) ed è perciò acquisita più tardi. 84
4. Molteplicità delle forme di attivazione dell'empatia L'esistenza di più forme di attivazione dell'empatia è importante perché consente agli osservatori di rispondere in modo empatico qualunque sia l'indizio di sofferenza della vittima di cui possono disporre. Indizi quali l'espressione facciale, la voce o la postura della vittima possono essere colti dall'osservatore per mimesi. Se gli unici segnali sono situazionali, la sofferenza empatica può essere attivata per condizionamento o per associazione diretta. Se la vittima esprime sofferenza in forma verbale o scritta, o una terza persona descrive i suoi guai, l'empatia dell'osservatore può essere suscitata per mediazione verbale o per assunzione di ruolo. Quando le tre modalità elementari - mimesi, associazione e condizionamento - operano assieme, formano un potente «pacchetto» che potrebbe essere alla base dell'attivazione empatica nei bambini in età preverbale. La mimesi può essere particolarmente importante nella prima infanzia, poiché mette in corrispondenza i sentimenti dell'osservatore con quelli della vittima, anche quando l'osservatore non ha avuto esperienze simili. Le tre modalità elementari contribuiscono allo sviluppo dell'empatia anche dopo la prima infanzia, perché fanno sì che il bambino abbia esperienze nelle quali prova sofferenza in concomitanza con la sofferenza di un'altra persona, e abbia poi l'esperienza piacevole del sollievo empatico quando presta aiuto. Infine, il fatto che le tre modalità elementari siano automatiche e siano sensibili ad ogni sorta di segnale o indizio di sofferenza permette di spiegare la dimensione involontaria dell'empatia negli adulti, che, tra le altre cose, può ridurre la tendenza alla «deriva egoistica». In genere, le vittime sono presenti e tutti i meccanismi di attivazione sono all'opera. In questo caso, le varie modalità possono dividersi il lavoro. Alcuni meccanismi di attivazione (mimesi) si prestano meglio a intensificare l'affetto empatico o a mantenere l'attenzione centrata sulla vittima. Altri contribuiscono maggiormente ad alimentare la «deriva egoistica» (è il caso dell'assunzione di ruolo focalizzata su di sé). Alcuni meccanismi possono iniziare il processo empatico, dopo di che vengono meno e altri li sostituiscono. La mimesi, ad esempio, può awiare il processo di attivazione, ma poi venir meno per
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l'affaticamento dei muscoli facciali; la faccia della vittima, tuttavia, è ugualmente rappresentata a livello cognitivo, e tale rappresentazione può sostenere altri meccanismi di attivazione empatica e mantenerli operanti. Le varie modalità, oltre che dividersi il lavoro, possono interagire reciprocamente: l'affetto empatico suscitato dalle modalità elementari può attivare l' assunzione di ruolo, che può intensificare e dare un significato più ampio all'affetto empatico. Quali meccanismi inizino il processo, se quelli elementari o quelli più cognitivi, è cosa che può dipendere dallo stile personale e dal contesto. In generale, tutte le modalità dovrebbero produrre lo stesso affetto empatico (fatta eccezione per i casi considerati nei capp. III e IV), e la ridondanza funzionale dovrebbe assicurare una risposta empatica nella maggior parte degli osservatori. In effetti, benché la sofferenza empatica possa essere, e di solito sia, meno intensa della sofferenza sperimentata dalla vittima, gli effetti congiunti delle diverse modalità di attivazione possono fare in modo che la sofferenza empatica sia più dolorosa di quella della vittima. Ciò può spiegare un fenomeno che affascinò Darwin: «Tuttavia è molto strano che la compassione per le sofferenza degli altri susciti le lacrime più facilmente delle nostre stesse sofferenze; eppure è proprio così» [1862/1965; trad. it. 1982, 292]. La mia ipotesi è che in questi casi l'immaginazione dell'osservatore prenda il volo quando egli si vede al posto della vittima (assunzione di ruolo centrata su di sé), mentre la vittima ha avuto più tempo per accettare la situazione e adattarvisi. Il risultato è che la sofferenza empatica del!' osservatore può essere più intensa di quella sperimentata dalla vittima (e presumibilmente più intensa della sofferenza dell'osservatore se questi si trovasse davvero al posto della vittima). Ritorneremo su questo più avanti (cap. VIII). L'esistenza di più forme di attivazione empatica ha a che fare con la mia definizione di empatia, secondo cui essa non richiede necessariamente (benché spesso includa) una stretta corrispondenza tra l'affetto dell'osservatore e quello della vittima. Da un lato, l'esistenza di più modalità di attivazione assicura un certo grado di corrispondenza tra i sentimenti degli osservatori e quelli delle vittime, anche in culture differenti, per tre ragioni. La prima è che la mimesi, essendo automatica e con un fondamento neurale, garantisce una stretta corrispon86
denza affettiva quando tra l'osservatore e la vittima esiste un contatto diretto, faccia a faccia. La seconda è che anche il condizionamento e l'associazione assicurano un certo grado di corrispondenza, giacché gli esseri umani sono strutturalmente simili ed elaborano le informazioni in modo simile; perciò è probabile che essi reagiscano ad eventi simili con sentimenti simili. D'altra parte, come vedremo, vi sono occasioni nelle quali l'empatia non richiede una corrispondenza e, anzi, può richiedere una certa mancanza di corrispondenza, come quando le condizioni di vita della vittima smentiscono i suoi sentimenti nella situazione immediata. È probabile che in queste situazioni la mediazione verbale e l'assunzione di ruolo abbiano un ruolo decisivo. Ricapitolando, la sofferenza empatica è una risposta umana multideterminata e per ciò stesso affidabile. Le tre modalità preverbali sono cruciali nell'infanzia, specialmente nelle situazioni di contatto diretto, ma continuano a operare anche dopo, e conferiscono all'empatia un'importante dimensione involontaria in tutto l'arco della vita. Esse non solo ci permettono di rispondere a qualunque tipo di indizio sia disponibile, ma ci costringono a farlo (all'istante, automaticamente e senza consapevolezza conscia). Così accade, ad esempio, nell'evitamento empatico: anche se una persona tenta di sfuggire all'empatia astenendosi dal contatto visivo o non prestando ascolto alle parole che descrivono la situazione della vittima, può ugualmente provare sofferenza empatica per condizionamento o per associazione. Le due modalità cognitivamente superiori - la mediazione verbale e l'assunzione di ruolo - possono essere ritardate e anche controllate volontariamente, ma quando l'attenzione è concentrata sulla vittima, anch'esse possono agire rapidamente e involontariamente, e attivarsi immediatamente alla vista della situazione della vittima. Il contributo di queste due forme di attivazione cognitivamente superiori consiste nell'estendere la portata della capacità empatica e permettere di provare empatia per le persone assenti. Tutto ciò concorda perfettamente con le prove presentate sopra sull'efficacia dell'empatia come motivazione morale prosociale, e con la tesi che l'empatia sia divenuta, per selezione naturale, parte integrante della natura umana [Hoffman 1981]. E concorda anche con le prove che l'empatia ha una componente ereditaria:
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i gemelli monozigoti, come attestano le misure dell'empatia, sono più simili tra loro dei gemelli dizigoti della stessa età [Zahn-Waxler et al. 1992]. Prima di concludere questo capitolo vorrei porre un interrogativo fondamentale sull'empatia: perché i meccanismi di attivazione empatica funzionano? In altri termini: perché suscitano nell'osservatore sentimenti analoghi a quelli della persona osservata? La mia risposta, implicita nell'analisi precedente, è che, a causa della somiglianza strutturale dei sistemi di risposta fisiologica e cognitiva degli individui, eventi simili suscitano sentimenti simili (non però identici, per le ragioni esposte sopra). Ciò nondimeno, il grado di somiglianza strutturale, e perciò la tendenza a provare empatia gli uni per gli altri, sarà maggiore tra individui che condividono la stessa cultura e che vivono in condizioni simili, e specialmente che interagiscono spesso, che non tra individui di culture differenti o che interagiscono di rado. Ciò è certamente vero del sistema cognitivo ma è vero anche del sistema fisiologico, come hanno mostrato Levenson e Ruef [1997], i quali hanno osservato un aumento della «sincronia fisiologica» in persone che passavano molto tempo insieme: per esempio, un aumento della covariazione dei valori della frequenza cardiaca di pazienti e terapeuti, o di madri e figli piccoli.
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CAPITOLO TERZO
LO SVILUPPO DELLA SOFFERENZA EMPATICA
Come ho già osservato, la sofferenza empatica sembra essere una risposta piuttosto semplice: soffriamo quando vediamo che qualcuno sta soffrendo. Ma quando si considera la sofferenza empatica in osservatori maturi, la sua complessità emerge immediatamente. In primo luogo, essa include una consapevolezza metacognitiva del fatto che stiamo rispondendo empaticamente: non solo avvertiamo sofferenza, ma siamo consapevoli che tale sentimento è la risposta a una disgrazia che ha colpito un'altra persona e al sentimento di dolore o di afflizione che attribuiamo a quella persona. L'osservatore maturo che prova empatia ha già raggiunto lo stadio dello sviluppo nel quale l'individuo acquisisce un senso cognitivo di sé e degli altri come entità fisiche distinte, con stati interni indipendenti, identità personali e una vita non limitata alla situazione immediata, e perciò può distinguere quel che gli accade da quel che accade agli altri. In secondo luogo, gli osservatori maturi sanno come si sentirebbero - e anche, grosso modo, come si sentirebbe la maggior parte delle persone - al posto dell'altro. In terzo luogo, sanno che il comportamento esteriore dell'altro (espressione facciale, postura, tono di voce) può riflettere ciò che egli sente interiormente, ma sanno anche che queste espressioni esteriori, in qualche misura, possono essere controllate, così che l'altro può dissimulare ciò che sente dentro di sé. Inoltre, è probabile che tutte queste conoscenze che l'osservatore maturo possiede (assieme, eventualmente, ad altre sue possibili informazioni personali sulla vittima) siano rapidamente integrate per spiegare la causa della situazione in cui si trova la vittima. In breve, per sperimentare una sofferenza empatica matura occorre distinguere in modo chiaro ciò che accade agli altri e ciò che accade a noi stessi e comprendere come i sentimenti sono espressi e come sono influenzati dagli eventi.
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Benché gli infanti e i bambini più piccoli non posseggano molte di queste capacità cognitive, essi possono provare empatia grazie ai meccanismi di attivazione elementari (mimesi, condizionamento e associazione). La differenza tra l'empatia nella prima infanzia (basata su questi meccanismi) e l'empatia matura mostra che lo sviluppo della sofferenza empatica può rispecchiare lo sviluppo sociocognitivo del bambino e specialmente lo sviluppo di un senso del sé come entità separata e indipendente, di un senso degli altri e di un senso della relazione tra sé e gli altri. Poiché il senso di sé e degli altri va incontro a profondi cambiamenti evolutivi, esso offre un quadro di riferimento per una sequenza di sviluppo dell'empatia. Credo sia utile distinguere quattro grandi stadi nello sviluppo del senso di sé e dell'altro: a) differenziazione vaga o confusa tra sé e l'altro; b) consapevolezza di sé e degli altri come entità fisiche distinte; e) consapevolezza di sé e degli altri come soggetti con stati interni indipendenti; d) consapevolezza di sé e degli altri come persone con storia, identità e vita proprie, al di là della situazione immediata. Questi stadi sociocognitivi interagiscono con l'affetto empatico suscitato dai vari meccanismi di attivazione, e si traducono nello schema evolutivo che illustreremo nel resto del capitolo. È il caso di avvertire che i livelli di età associati agli stadi e alle transizioni tra uno stadio e il successivo non sono esatti, e che le differenze individuali possono essere molto grandi.
1. Il pianto reattivo del neonato Gli studiosi della prima infanzia (e non solo loro) sanno bene che quando un bambino piccolo ne sente un altro piangere comincia a piangere a sua volta. Il primo studio controllato su questo tipo di pianto reattivo è stato quello di Simner [1971], che lo ha osservato in bambini di due e tre giorni di vita. Simner ha dimostrato anche che la causa del pianto reattivo non è l'intensità del pianto dell'altro bambino, giacché i bambini non cominciano a piangere quando ascoltano un grido di pari intensità prodotto da un sintetizzatore digitale. I risultati di Simner sono stati replicati in bambini di un solo giorno di vita da Sagi e Hoffman [1976], che hanno 90
osservato anche che il pianto reattivo non è una semplice risposta vocale imitativa priva di una componente affettiva; esso è energico, intenso e indistinguibile dal pianto spontaneo di un bambino realmente afflitto. Martin e Clark [1982] hanno replicato questi risultati e hanno mostrato anche che i bambini non piangono allo stesso modo in risposta al pianto di uno scimpanzé (che, per inciso, gli adulti trovano più sgradevole del pianto dei bambini) o in risposta al suono del proprio pianto. Sembra dunque che nel pianto di un altro bambino vi sia qualcosa di particolarmente sgradevole che provoca nel neonato agitazione e disagio. Perché succede questo? La spiegazione più plausibile è che il pianto reattivo del neonato sia una risposta innata e isomorfa di fronte al pianto di un conspecifico, una risposta adattativa premiata dalla selezione naturale. Il meccanismo psicologico primario che ne è alla base potrebbe essere una forma di mimesi nella quale il neonato imita automaticamente il pianto di un altro bambino, dopo di che il suono del suo pianto e i cambiamenti che si producono nella configurazione dei suoi muscoli facciali avviano un processo di retroazione che lo mette in agitazione. Ma il pianto reattivo potrebbe essere anche una risposta appresa, basata sul condizionamento. Nel capitolo secondo, ho menzionato il riflesso di suzione nei bambini di un giorno di vita. Sembra che altri comportamenti frequenti nel neonato, come il pianto reattivo, possano essere anch'essi condizionati, forse nel modo seguente: il pianto reattivo può essere una risposta di sofferenza condizionata a uno stimolo (il pianto di un altro bambino) che rassomiglia ad altri stimoli (il pianto del bambino stesso) associati con precedenti esperienze di dolore e disagio - a partire, forse, dalla nascita stessa. Ma vi è anche un'altra possibilità: l'imitazione, che comincia anch'essa poco dopo la nascita. L'imitazione, tuttavia, non può spiegare da sola il pianto reattivo, che, come abbiamo sottolineato, non è solo un pianto imitato, ma, in generale, una risposta di sofferenza energica e inquieta. La spiegazione psicologica più plausibile, a mio giudizio, è una combinazione dei processi di mimesi e condizionamento, coadiuvati dall'imitazione. Indipendentemente dalla causa, il neonato risponde a un segnale di sofferenza di un'altra persona provando a sua
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volta sofferenza. Il pianto deve perciò essere considerato un precursore primitivo ed elementare della sofferenza empatica - precursore perché, nel rispondere all' «altro», il neonato probabilmente avverte che esso è in relazione con il «sé», cioè che fa parte della stessa entità psicologica globale cui appartiene il sé. Va sottolineato che il pianto reattivo del neonato, nonostante questa limitazione, può essere alla base di forme di sofferenza empatica più avanzate, creando uno stato nel quale un segnale di sofferenza di un'altra persona (pianto) accompagna l'esperienza di sofferenza del bambino stesso. Questa concomitanza può far sì che anche in futuro il bambino, per condizionamento e associazione, provi sofferenza ogni volta che vede qualcun altro soffrire, cioè che provi sofferenza empatica. Dal punto di vista dello sviluppo, ci si potrebbe aspettare che il pianto reattivo del neonato sia limitato ai primi mesi di vita e che scompaia intorno ai sei mesi, col nascere nel bambino della coscienza di sé e degli altri come esseri distinti. Questa coscienza dovrebbe ostacolare le sue risposte per mimesi automatica e per condizionamento al pianto di un altro bambino, o per lo meno rallentarle. E anche il suo crescente interesse per altri aspetti della realtà e la sua maggiore capacità di regolare le emozioni dovrebbero renderlo meno sensibile al pianto. Questa supposta diminuzione della sensibilità è stata confermata da uno studio di Hay, Nash e Pedersen [1981], nel quale erano tenute sotto osservazione dodici coppie di bambini di 6 mesi che interagivano in una stanza dei giochi allestita in laboratorio in presenza delle madri. La scoperta principale fu che quando un bambino era afflitto, l'altro quasi sempre lo osservava, ma di rado piangeva o era a sua volta afflitto. Vi era però un effetto cumulativo: dopo aver visto più volte un bambino afflitto, anche l'altro bambino si affliggeva e cominciava a piangere. Il pianto di un bambino di 6 mesi si differenzia dal pianto di un neonato anche per un altro aspetto: non è istantaneo e agitato; a 6 mesi, appena prima di scoppiare in lacrime, il bambino ha uno sguardo triste e increspa le labbra, proprio come i bambini di quell'età quando sono realmente afflitti. È notevole che Darwin [1877], che aveva osservato attentamente le risposte facciali ed emozionali del figlio fin dalla nascita, scriva qualcosa di simile: «A sei mesi e undici giorni dimostrò
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in modo esplicito comprensione simpatetica per la sua balia che fingeva di piangere» [ibidem, trad. it. 1982, 108]. La differenza tra il bambino di 6 mesi e il neonato suggerisce che man mano che il processo di differenziazione sé-altro va avanti, il fondamento delle risposte di sofferenza empatica globale si indebolisca. I bambini non rispondono più automaticamente al pianto altrui, perché l'altro bambino sta diventando ormai un vero e proprio «altro», che essi percepiscono, almeno vagamente, come un'entità fisicamente distinta da loro. Perché il bambino provi a sua volta sofferenza è ora necessario che i segnali di sofferenza altrui abbiano una durata maggiore. Inoltre, siccome il bambino può essere assorbito dai suoi pensieri, può darsi che per catturare la sua attenzione sia necessario uno stimolo più saliente, ad esempio un pianto prolungato. Infine, la faccia triste e le labbra increspate prima di scoppiare in lacrime, che il bambino mostra anche quando è realmente afflitto, riflettono, con ogni probabilità, l'emergere della sua capacità di controllare le emozioni.
2. Sofferenza empatica egocentrica Alla fine del primo anno, il bambino risponde ancora alla sofferenza di un altro bambino suo coetaneo incupendosi in viso, increspando le labbra e poi scoppiando a piangere, ma adesso può anche mettersi a piagnucolare e a guardare silenziosamente l'altro bambino [Radke-Yarrow e Zahn-Waxler 1984]. La maggior parte dei bambini, benché alcuni prima di altri, cominciano a reagire meno passivamente alla sofferenza altrui e adottano comportamenti chiaramente diretti a ridurre la propria sofferenza. Tre studiosi hanno descritto il medesimo fenomeno: quando la figlia di una mia studentessa, una bambina di 10 mesi, vide un'amichetta cadere e scoppiare in lacrime, la fissò, si mise a piangere, poi si portò il pollice alla bocca e appoggiò la testa in grembo alla madre, come era abituata a fare quando si faceva male [Hoffman 19756]. Radke-Yarrow e Zahn-Waxler [1984] hanno descritto molti casi simili, come quello di una bambina di 11 mesi: «Quando Sari vedeva qualcuno sofferente per un dolore fisico, si rattristava, increspava le labbra, cominciava a 93
piangere e camminava carponi verso la madre per essere presa in braccio e consolata» [ibidem, 89]. Kaplan [1977, 91] ha osservato una bambina di 9 mesi che aveva mostrato, in passato, intense reazioni empatiche di fronte alla sofferenza di altri bambini. Di solito in questi casi non distoglieva lo sguardo dalla scena, benché ne fosse evidentemente turbata. Quando un altro bambino cadeva, si faceva male o piangeva, Hope restava a fissarlo, con gli occhi pieni di lacrime. In quei momenti era sopraffatta dall'emozione, e finiva per scoppiare a piangere e a camminare carponi in tutta fretta verso la madre per essere consolata.
La descrizione di Kaplan è molto interessante perché rivela, al tempo stesso, la sofferenza personale della bambina (intensa e fondata sull'empatia), la consapevolezza che a un altro bambino sta accadendo qualcosa di sgradevole, ma anche una certa confusione su chi stia effettivamente soffrendo. La situazione fa soffrire la bambina, la quale cerca conforto così come fa d'abitudine quando soffre. lo credo che questi bambini rispondano nello stesso modo alla sofferenza empatica e a quella reale perché, sebbene stiano sviluppando un senso del sé come entità coerente, continua e distinta dagli altri, davanti a sé hanno ancora molta strada da fare. Essi inoltre rimangono limitati ai meccanismi di attivazione empatica di tipo preverbale (mimesi, condizionamento e associazione), e la loro condotta fa pensare che non abbiano ancora le idee chiare sulla fonte della loro sofferenza empatica. A volte guardano intensamente la vittima, ciò che riflette un certo grado di differenziazione sé-altro. Altre volte ricorrono alle abilità motorie appena acquisite (camminare carponi) per accostarsi alla madre e dare qualche sollievo alla propria sofferenza empatica. Ma il fatto che per ridurre la propria sofferenza empatica e quella reale essi si comportino allo stesso modo rivela quanto debba essere difficile per loro distinguere la propria sofferenza empatica dalla sofferenza della vittima che l'ha causata e dalla propria sofferenza reale. L'ipotesi più semplice è che questi bambini si comportino allo stesso modo nelle situazioni di sofferenza empatica e di sofferenza reale perché non hanno le idee chiare sulla differenza tra le due situazioni, cioè tra qualcosa che accade all'altro e qualcosa che accade al sé. 94
A tutta prima, questa spiegazione sembrerebbe contraddire lo studio di Stern [1985] che mostra che i bambini hanno un «sé nucleare» (core sel/) fin dai 7 mesi d'età. Non credo però che vi sia contraddizione; infatti, secondo Stern, il sé nucleare include la percezione di avere un controllo sulle proprie azioni e di avere sentimenti associati alla propria esperienza. Il sé nucleare è un'unità coerente, delimitata fisicamente, in relazione di continuità con il proprio passato. Ciò che tiene insieme il sé nucleare e gli conferisce coerenza e continuità sono le sensazioni cinestetiche che il bambino riceve da muscoli, ossa e articolazioni quando si muove. Queste sensazioni cinestetiche producono un pattern invariante di consapevolezza. Il sé nucleare è perciò «un sé esperienziale, basato sulla propriocezione, e non il concetto di sé verbalizzabile, rappresentazionale e riflessivo che emerge attorno alla metà del secondo anno [quando, ad esempio, il bambino è in grado di riconoscersi allo specchio]» [ibidem, 7]. Il pattern invariante di autoconsapevolezza deriva perciò dalla continuità delle sensazioni cinestetiche dell'infante; ma questo, a mio giudizio, è un fondamento precario per il sé nucleare dell'infante, poiché, a differenza del sé riflessivo, esso non gode dell'influenza stabilizzante della cognizione. Sebbene sia possibile che tale precarietà normalmente non causi problemi, il senso di continuità dell'infante può venir meno ogni volta che egli «condivide» la sofferenza di qualcun altro, come avviene nella sofferenza empatica, poiché le sensazioni corporee cinestetiche sulle quali si basa la continuità del sé si confondono con le sensazioni corporee derivanti dal sentimento di sofferenza empatica dell'infante (provocato da mimesi, condizionamento e associazione). Di conseguenza, l'infante sperimenta una rottura temporanea dei confini del sé, e un sentimento di confusione sull'origine della sua sofferenza. L'infante ha difficoltà a distinguere tra la sofferenza altrui e quella propria (reale o empatica), e risponde allo stesso modo a entrambe. In ogni caso, poiché la risposta dell'infante alla sofferenza altrui e alla propria è simile, parlerò di sofferenza empatica «egocentrica». Il termine sofferenza empatica egocentrica ha l'aria di un ossimoro e di fatto, in questa fase dello sviluppo, la sofferenza egocentrica ha tratti contraddittori. Da un lato, la ricerca di conforto da parte del bambino attesta la natura 95
egocentrica della sofferenza empatica; dall'altro, il fatto che prima il bambino fosse felice e contento e avrebbe continuato a esserlo se non fosse stato per la disgrazia toccata ali' altro - il fatto cioè che la sofferenza empatica dipenda dalla sofferenza reale di un'altra persona - ne dimostra la natura prosociale. Riassumendo, verso la fine del primo anno la sofferenza empatica è una motivazione egocentrica, ma, a differenza di altre motivazioni di questo tipo, è scatenata dalla sofferenza di un'altra persona, e ciò le conferisce qualità prosociali. Non si tratta di una motivazione prosociale compiuta, ma di una forma intermedia, che può a buon diritto essere considerata un precursore della motivazione prosociale.
3. La sofferenza empatica quasi-egocentrica Circa un mese o due più tardi, al principio del secondo anno, il pianto empatico del bambino e della bambina, il loro piagnucolare e guardare la vittima diventano meno frequenti ed essi si avvicinano alla vittima per aiutarla. I primi approcci, che includono tentativi di stabilire un contatto fisico (dare colpetti, toccare), cedono ben presto il passo ad interventi positivi più differenziati: baci, abbracci, aiuto fisico, richieste d'aiuto ad altre persone, consigli e conforto simpatetico [Radke-Yarrow e Zahn-Waxler 1984]. È evidente che sebbene i bambini si limitino ancora, in gran parte, alle forme di attivazione empatica preverbali, sono adesso meno legati al loro sé cinestetico e soggettivo, e più ancorati, per via cognitiva, alla realtà esterna. Benché ancora manchi loro il senso del proprio corpo come oggetto che è possibile rappresentare fuori del sé soggettivo (fino ai 18-24 mesi, essi sono incapaci di riconoscere la propria immagine allo specchio), sono però sulla strada per conseguirlo (quando un oggetto in movimento appare nello specchio alle loro spalle allungano la mano dietro di sé), e sanno che gli altri sono entità fisiche separate [Baillargeon 1987; Lewis e Brooks-Gunn 1979]. Possono pertanto rendersi conto che l'altro avverte dolore o sofferenza, e le loro azioni sono chiaramente dirette ad aiutarlo. Tuttavia, queste stesse azioni rivelano un'importante limitazione cognitiva: i bambini hanno stati interni ma non si rendono
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conto che anche gli altri hanno stati interni indipendenti. Essi non sanno che i loro desideri sono in relazione con il mondo circostante, e suppongono che gli altri vedano le cose così come le vedono loro. Sanno che l'altro soffre, ma sono ancora troppo egocentrici per usare tipi di aiuto che non siano quelli da cui loro stessi ricevono conforto. Un bambino di 14 mesi rispose al pianto di un amico guardandolo con tristezza, per poi prenderlo gentilmente per mano e portarlo con sé da sua madre, benché fosse lì presente anche la madre dell'amico [Hoffman 1978]. Questo comportamento mostra chiaramente che la sofferenza empatica opera come una motivazione prosociale, ma rivela anche la confusione egocentrica del bambino tra i suoi bisogni e quelli del suo amico. Un comportamento simile da parte di una bambina di 15 mesi è stato descritto da una madre del campione longitudinale di Radke- Yarrow e Zahn-Waxler: «Mary notò un bambino in visita che piangeva, e non lo perse d'occhio. Lo seguì ovunque andasse, e non smise di dargli giocattoli e altri oggetti per lei preziosi, come la sua bottiglia o una collana di perle che le piaceva tanto» [1984, 90]. Riassumendo, in questo stadio i bambini sono consapevoli di essere fisicamente separati dagli altri, e sanno anche quando un'altra persona soffre. Sebbene ancora si limitino, in larga misura, alle modalità preverbali, i bambini sono capaci di una forma embrionale di assunzione di ruolo centrata su di sé, e non confondono più la propria sofferenza empatica con la propria sofferenza reale o con quella della vittima. In questo stadio la sofferenza empatica è senza dubbio una motivazione prosociale: il bambino cerca di dare aiuto, ma le sue azioni sono inefficaci perché non riesce a comprendere gli stati interni degli altri e suppone che ciò che va bene per lui andrà bene anche per gli altri. Questa supposizione è spesso valida (è condivisa anche dagli adulti, che però non si limitano ad essa), ma quando non lo è le limitazioni cognitive sottostanti diventano palesi.
4. La sofferenza empatica veridica I mutamenti principali del senso di sé avvengono verso la metà del secondo anno di vita. Per la prima volta, il bambino è in grado di riconoscersi allo specchio [Lewis e Brooks-Gunn 97
1979]. Questo «sé allo specchio» (mirror-sel/) indica che il bambino sente il proprio corpo come un oggetto che può essere rappresentato in una forma separata dal sé soggettivo cinestetico, e probabilmente come un oggetto che gli altri possono vedere. Verso la fine del secondo anno di vita i bambini cominciano a essere consapevoli che gli altri hanno stati interni (pensieri, sentimenti, desideri) e che tali stati possono, talvolta, differire dai loro. Ciò, naturalmente, fa sì che la risposta empatica dei bambini aderisca più fedelmente ai sentimenti e ai bisogni degli altri nelle diverse situazioni, e che i bambini aiutino gli altri con maggiore efficacia. La transizione dalla sofferenza empatica quasi-egocentrica a quella veridica è illustrata dal caso di David, un bambino di due anni che, per confortare un amico in lacrime che si era fatto male mentre i due si disputavano un giocattolo, gli diede il proprio orsacchiotto di pezza. Siccome il tentativo non ebbe successo, David si fermò un momento, poi corse nella stanza accanto e ritornò con l'orsacchiotto del suo amico, il quale lo strinse tra le braccia e smise di piangere. Il fatto che David porgesse all'amico il proprio orsacchiotto è un esempio tipico di empatia quasi-egocentrica, ma egli si dimostrò capace di usare la retroazione correttiva (l'amico aveva continuato a piangere). Ciò significa che David era abbastanza sviluppato cognitivamente per chiedersi perché il suo orsacchiotto non valeva a calmare il pianto del suo amico, riflettere sul problema, e concludere che il suo amico avrebbe preferito (al pari di David) il proprio orsacchiotto. In altri termini, è possibile che la retroazione correttiva avesse attivato in David l'assunzione del ruolo altrui, forse con l'aiuto del ricordo dell'amico che giocava allegramente con quell'orsacchiotto, e del ricordo dell'orsacchiotto nella stanza accanto. Ciò indica che la transizione dall'empatia quasi-egocentrica a quella veridica può avvenire quando il bambino è cognitivamente preparato a usare le informazioni di retroazione che riceve dopo avere commesso un errore «egocentrico». Col tempo, la retroazione diventa superflua (benché anche gli adulti, a volte, ne abbiano bisogno). Un episodio simile, che non riguarda la retroazione correttiva ma illustra la capacità di un bambino piccolo di collegare eventi distanziati nel tempo, è quello di Sarah, una bambina 98
di 2 anni e 3 mesi che faceva un viaggio in automobile con la cugina [Blum 1987]. Quest'ultima era triste perché non riusciva a trovare il suo orsacchiotto di pezza. Qualcuno le disse che stava nel bagagliaio, e che l'avrebbe potuto recuperare una volta a casa. Dieci o quindici minuti dopo, ormai in vista della casa, Sarah disse: «Ora potrai prendere il tuo orso». In un'altra occasione, quando aveva 3 anni, Sarah mostrò una capacità ancora più grande di collegare nel tempo quando diede a un amico il suo berretto di Paperino perché lo tenesse «per sempre», in sostituzione del cappellino dei Boston Celtics che quel bambino aveva perduto qualche giorno prima. Insomma, in questo stadio i bambini non si limitano a provare empatia per le persone che soffrono; possono anche mettersi al posto della vittima e riflettere sui suoi bisogni in quella situazione. L'empatia veridica è importante perché, a differenza degli stadi precedenti, che hanno vita breve e vengono meno nel momento in cui cedono il passo agli stadi successivi, questo stadio racchiude tutti gli elementi dell'empatia matura e continua a crescere e a svilupparsi per tutta la vita. Nella sua forma compiuta, permette al bambino non solo di esperire il proprio corpo come un oggetto che può essere rappresentato fuori del suo sé soggettivo cinestetico (il sé allo specchio), ma anche di esperirlo come qualcosa che contiene (ed è guidato da) un sé mentale interno, un «io» che pensa, sente, pianifica e ricorda. Questo «sé riflessivo» include la conoscenza che siamo separati dagli altri non solo sul piano fisico, ma anche sul piano dell'esperienza interna, e che la nostra immagine esterna è un aspetto di questa esperienza. Ciò ci permette di capire che lo stesso è vero degli altri: anche per loro l'immagine esterna è l'altra faccia dell'esperienza interna. L'assunzione di ruolo, quella centrata sull'altro non meno di quella centrata su di sé, è ormai alla portata del bambino, il quale sa che gli altri hanno sentimenti e pensieri indipendenti dai propri, e questa conoscenza, che non lo abbandonerà più, è la base per continuare, per tutta la vita, a rispondere empaticamente a ogni sorta di sentimento nelle situazioni più diverse. Da principio, i sentimenti cui i bambini possono rispondere empaticamente sono semplici (come nella storia degli orsacchiotti), ma poi, comprendendo meglio le cause, le conseguenze e i correlati delle emozioni, essi possono rispondere empaticamente 99
a sentimenti di sofferenza altrui sempre più complessi (come la delusione quando un amico rivela un segreto, o, quando non si riesce a fare qualcosa, la paura di perdere la faccia se si accetta un aiuto). La rassegna che segue - basata principalmente, salvo indicazione diversa, su Bretherton e colleghi [1986] - dà un'idea dello sviluppo della comprensione delle emozioni e, con essa, della capacità empatica dalla prima infanzia alla fine dell'adolescenza. Seguirò grosso modo l'ordine evolutivo; se vi siano stadi o sottostadi che formano sequenze ordinate è cosa che richiede ulteriori ricerche 1 • Prima fanciullezza. I bambini di 2-3 anni di età cominciano a comprendere le cause, le conseguenze e i correlati delle emozioni, e si rendono conto che i sentimenti possono influenzare l'espressione facciale di una persona («Katie è triste. Katie non ha la faccia felice»); che i sentimenti possono scaturire da azioni altrui («Mamma sei triste. Papà ti ha fatto qualcosa?»; «Ti ho fatto star male perché sono stato cattivo con te»; «La nonna si è infuriata [perché] ho sporcato la parete»); infine, che i sentimenti possono causare azioni altrui («Piango [perché così] la signora mi prende in braccio»). In età prescolare, i bambini sono in grado di parlare adeguatamente di emozioni sottili come il sentire l'assenza di un genitore («È triste. Quando suo padre torna a casa sarà contento», detto guardando un'illustrazione raffigurante un ragazzo dall'aspetto triste). Cominciano a capire che lo stesso evento può suscitare sentimenti diversi in persone diverse, e sono in grado di tener conto dei desideri di un'altra persona 1 Quando si parla di sviluppo, sarebbe indispensabile essere chiari circa le età a cui ci si sta riferendo. Spesso nei testi italiani (e soprattutto nelle traduzioni dall'inglese) ciò non avviene, per una strana idiosincrasia nei confronti del termine fanciullezza, che corrisponde a childhood (il periodo che va dai 2-3 anni all'adolescenza). Si preferisce di solito tradurre quest'tùtimo con infanzia, corrispondente all'inglese infancy (che indica il primo anno di vita). Infancy viene poi anch'esso tradotto con infanzia, oppure con prima infanzia. Se un brano non contiene altre indicazioni circa le età dei bambini, l'uso generalizzato di infanzia comporta una perdita di informazioni. Ma a volte succede di peggio: si traduce early childhood (3-4 anni) con prima infanzia, e allora le informazioni che si danno non sono lacunose ma del tutto sbagliate. Per questo nella presente traduzione si parla di infanzia e di prima e media fanciullezza. In/ant viene tradotto con in/ante, a meno che l'età non sia già indicata in altro modo, nel qual caso ricorre anche il termine bambino [NdC].
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quando devono giudicare quali emozioni proverà quella persona in una determinata situazione [Harris et al. 1989]. Ma sanno anche che le persone possono controllare l'espressione delle proprie emozioni, che le emozioni mostrate non coincidono necessariamente con quelle provate, che una persona può avere un desiderio anche quando non fa nulla per realizzarlo [Astington e Gopnik 1991]. Media fanciullezza. A 6 o 7 anni, alcuni bambini cominciano a mostrare una comprensione più sottile delle relazioni tra i propri sentimenti e quelli altrui. Si rendono conto che comunicare i propri sentimenti a un'altra persona può farla sentire meglio («So come ti senti, Chris. Il primo giorno della scuola materna ho pianto anch'io»). Mostrano una consapevolezza nascente del significato dell'amicizia - ad esempio, che è più facile che un amico perdoni uno sgarbo involontario («Ho provato ad awicinarmi a Jim per giocare di nuovo con lui, ma lui non vuole stare con me ... quando un bambino non è dawero amico tuo non sa che tu non volevi fargli male»). Non dovrebbe sorprendere che a questa età, avendo afferrato la relazione tra i sentimenti propri e quelli altrui, i bambini comincino a mostrare quella consapevolezza autoriflessiva e metacognitiva della sofferenza empatica che considero necessaria per il compiuto sviluppo dell'empatia. In uno studio di Strayer [1993], venivano mostrate a bambini di 5, 7, 8 e 13 anni delle scene filmate che presentavano altri bambini in situazioni molto penose (un bambino punito ingiustamente dai genitori; un bambino disabile che imparava a salire le scale con un bastone; un bambino separato a forza dalla famiglia). Più tardi, ai soggetti veniva chiesto se avevano provato qualche sentimento guardando le scene e, in caso affermativo, perché avevano provato proprio quel sentimento. La maggior parte dei soggetti di 7 anni o più e alcuni di quelli di 5 anni risposero che si erano sentiti tristi a causa dei sentimenti del bambino del filmato o della situazione in cui si trovava, il che significa che avevano capito che la loro tristezza era stata una risposta empatica a ciò che era successo all'altro bambino. I bambini più piccoli, invece, non sembravano rendersene conto; ciò fa pensare che prima dei 6 o 7 anni i bambini sono capaci di sofferenza empatica veridica - essi sentono ciò che è appropriato alla situazione dell'altro - ma non si rendono conto che il loro 101
sentimento di sofferenza è stato provocato da quella situazione, e non è altro che una risposta empatica. È interessante osservare che questa consapevolezza metaempatica precede di uno o due anni la consapevolezza metalinguistica che le parole sono entità linguistiche e sono indipendenti dagli oggetti e dagli eventi cui si riferiscono [Wetstone 1977]. La ragione può stare nel fatto che la consapevolezza metalinguistica è più astratta e, diversamente dall'empatia, è slegata dall'esperienza personale. Un momento, però. Radke-Yarrow, Zahn-Waxler e Chapman [1983] menzionano una comunicazione personale di Lois Murphy su un bambino di 4 anni che, dopo essere venuto a sapere della morte della madre di una sua amica, dichiarò solennemente: «Sai, quando Bonnie diventerà grande, la gente le chiederà chi era sua madre, e lei sarà costretta a rispondere che non lo sa. Sai, è una cosa che mi fa venire da piangere». Se prendiamo queste parole alla lettera, dobbiamo concludere che un bambino di 4 anni può essere perfettamente consapevole che l'origine della sua sofferenza sta nella penosa situazione di un'altra persona, il che contraddice i risultati delle altre ricerche. Come spiegare questa discrepanza? Una possibilità è che i bambini piccoli divengano metacognitivamente consapevoli della loro sofferenza empatica prima in condizioni naturali che in laboratorio per via degli evidenti segnali di sofferenza delle vittime, che precedono immediatamente e provocano inequivocabilmente la sofferenza empatica delle vittime stesse. È pure possibile che, in questo caso particolare, si tratti di un bambino precoce, più grande dei suoi 4 anni, e perciò non troppo diverso dai bambini di 5 anni che nella ricerca di Stayer avevano dato risposte avanzate. (Ma per un'altra spiegazione della sua sofferenza empatica matacognitiva «precoce» si veda sotto.) A 8 o 9 anni, i bambini si rendono conto che lo stesso evento può suscitare sentimenti opposti («Era felice perché gli avevano dato il regalo, ma deluso perché non era quello che desiderava») [Fischer, Shaver e Comochan 1990; Gnepp 1989], ma già uno o due anni prima riconoscono diversi sentimenti in gioco se un adulto li invita a considerare la risposta emozionale di una persona a ciascun aspetto della situazione [Peng et al. 1992]. I bambini di 8 o 9 anni hanno anche qualche conoscenza sulle cause e le conseguenze dell'autostima negli altri; ad esempio, sanno che una persona si sente peggio se fallisce per incapacità 102
che per scarso impegno [Weiner et al. 1982]. (Ciò può essere vero in particolare nelle società orientate al merito, dove l'abilità è un elemento molto importante dell'autostima.) Secondo uno studio di Gnepp e Gould [1985], verso i 9 o 10 anni d'età la conoscenza da parte del bambino di un'esperienza recente di un'altra persona può cominciare a influenzare la sua consapevolezza dei sentimenti di quella persona in situazioni simili. Ai soggetti - alunni dell'ultimo anno di scuola materna e di terza, quinta e settima classe - venivano raccontate brevi storie (per esempio, un bambino è morso da un criceto e il giorno dopo la maestra lo incarica di dare da mangiare al criceto della classe). Circa la metà dei bambini di terza e due terzi dei bambini di quinta utilizzavano appropriatamente l'esperienza precedente del piccolo protagonista della storia (dicevano che avrebbe avuto paura a dare da mangiare al criceto). Ciò, naturalmente, significa anche che la metà degli alunni di terza e un terzo degli alunni di quinta non erano in grado di utilizzare l'esperienza precedente del bambino anche se era recente, chiaramente significativa e resa saliente dalla maestra subito prima che esprimessero il loro giudizio. Secondo questi risultati, i bambini non cominciano a rendersi conto che i sentimenti di un'altra persona sono influenzati dalle sue esperienze recenti prima dei 9 o 10 anni, un'età che però a me pare troppo avanzata, dato il livello di conoscenza delle emozioni che anche i bambini più piccoli, come abbiamo visto sopra, mostrano di avere. I risultati di uno studio di Pazer, Slackman e Hoffman [1981] sembrano essere un po' più vicini alla realtà. I soggetti erano bambini che dovevano dire quanto si sarebbero infuriati se qualcuno li avesse danneggiati (per esempio, se avesse rubato il loro gatto). Ai soggetti del gruppo sperimentale venivano fornite anche informazioni contestuali che attenuavano le responsabilità del colpevole (per esempio, il suo gatto era scappato e i genitori non gliene avrebbero comprato un altro). I soggetti sperimentali di 8 anni o più dichiararono che si sarebbero infuriati meno dei soggetti di controllo, che avevano ricevuto informazioni contestuali di uguale lunghezza ma che non offrivano giustificazioni. I bambini più piccoli non furono affatto influenzati dalle informazioni contestuali. Ciò ci induce ad arretrare a 8 anni l'età alla quale i bambini cominciano a 103
tener conto delle esperienze di un'altra persona quando sono chiamati a giudicare i suoi sentimenti in una certa situazione. Ma anche 8 anni sembrano troppi se consideriamo l'aneddoto di Radke-Yarrow, Zahn-Waxler e Chapman [1983] sul bambino di 4 anni: se un bambino di questa età può pensare al futuro di qualcun altro, a maggior ragione potrà pensare al suo passato. Per questo motivo, e perché questo caso è stato citato acriticamente come prova del fatto che un bambino di 4 anni possa avere una sofisticazione sociocognitiva maggiore di quanto le ricerche appaiano giustificare - e considerando che non disponiamo di ulteriori dettagli -, credo che l'aneddoto meriti un'analisi più attenta. Una spiegazione è che il bambino si fosse limitato a ripetere qualcosa che gli era capitato di sentire: il futuro della bambina senza la madre è proprio il tipo di cosa di cui gli adulti potevano avere parlato al funerale. D'altro lato, non è probabile che un adulto pensi che il problema principale della bambina, da grande, sarebbe quello di non conoscere sua madre; questa ha tutta l'aria di un'interpretazione del bambino. Probabilmente il bambino non ripeteva alla lettera le parole di qualche adulto, e tuttavia, se non fosse stato per la conversazione, la sua attenzione sarebbe stata attratta, come quella di qualunque bambino della sua età, dai segnali di sofferenza evidenti nella situazione immediata. I discorsi degli adulti sul futuro della bambina senza madre potrebbero benissimo aver suscitato nel bambino preoccupazioni relative alla propria madre, ma, in ogni caso, possono spiegare la sua risposta orientata al futuro. Tutto considerato, credo che il modo migliore di interpretare la risposta verbale del bambino è considerarla come una espansione iniziale, embrionale, suscitata dall'esterno e probabilmente temporanea, della prospettiva temporale di un bambino della sua età - una prefigurazione della prospettiva temporale matura e spontanea che apparirà più tardi. Questa stimolazione esterna non operava negli studi sperimentali descritti in precedenza, e ciò può spiegare perché la «competenza sperimentale» resti indietro rispetto alla «competenza naturale». Quanto all'apparente dimensione metacognitiva della sofferenza empatica del bambino, i discorsi degli adulti sul futuro della bambina potevano averlo condotto a mettere in relazione l'immagine della bambina senza madre e le lacrime 104
e la tristezza empatica di quel momento. Questa sarebbe una forma embrionale, provocata da una stimolazione esterna, di sofferenza empatica metacognitiva. Adolescenza. A 12 o 13 anni, i ragazzi sono in grado di tenere conto della differenza tra quel che una persona sente in una situazione e il sentimento che normalmente in quella situazione ci si aspetta; ad esempio, sanno che coloro che appaiono tristi quando dovrebbero essere allegri (ad esempio, per avere vinto un premio), probabilmente si sentono più tristi degli altri in situazioni nelle quali dovrebbero essere tristi [Rotenberg e Eisenberg 1997]. Non sempre chi ha bisogno di aiuto vuole essere aiutato. Di fatto, credo che le persone, almeno nella nostra società individualistica, siano ambivalenti riguardo al ricevere aiuto, tranne quando sono disperate. Il colore della pelle può influire su questa ambivalenza: in uno studio, l'autostima dei soggetti neri diminuiva quando venivano aiutati da un bianco senza averlo richiesto (cosa che non succedeva quando l'aiuto veniva da un altro nero) [Schneider et al. 1996]. I bambini sembrano non rendersi conto dell'ambivalenza altrui riguardo all'aiuto, pur essendo ambivalenti quando sono loro a riceverlo: per esempio, è stato osservato che i bambini tra 8 e 10 anni d'età si preoccupano della possibilità di perdere prestigio se un compagno di pari età fa loro da tutor [Depaulo et al. 1989], ma solo a 16 anni o giù di lì cominciano a pensarci due volte prima di offrire aiuto, per evitare di mettere l'altro in una situazione sociale indesiderabile [Midlarsky e Hannah 1985]. Età adulta. Gli adulti sono a volte ambivalenti riguardo all'empatia nei loro confronti (per non parlare dell'aiuto). Ciò può avvenire dopo una lunga malattia o un periodo di lutto: Quando [la morte di un familiare] accadde fui sconvolta e molto addolorata. Smisi di frequentare l'università per una settimana per rimettermi in sesto. Non chiedevo altro che la mia vita ritornasse com'era prima di quella morte. Quando qualcuno mi chiamava tutto quello che potevo sentire nella sua voce era compassione e pietà. Ma io non volevo sentire parole tristi e nemmeno essere triste. Quello che volevo era continuare a vivere, perché avevo accettato la morte ed ero pronta ad andare avanti. Volevo parlare di altre cose e ridere, ma non potevo perché gli altri intorno a me erano addolorati, e ridere non sembrava esattamente la cosa giusta da fare (studentessa universitaria).
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Una donna rispose a un articolo che avevo scritto sull'empatia con queste parole: Dopo un anno intero passato a combattere contro un cancro della mammella in uno stadio avanzato, mi sono fatta un'idea differente di che cosa voglio dall'empatia. Sono profondamente grata per tutte le attenzioni che gli altri mi riservano, ma non voglio pietà; la pietà non è costruttiva. Nel periodo del mio calvario, apprezzavo molto le persone che, senza smettere di interessarsi e di preoccuparsi per la mia spaventosa situazione, riuscivano a restare allegre e ottimiste, a incoraggiarmi a vedere le cose positive, belle, affascinànti - e, perché no, umoristiche ... Nell'esprimere la nostra empatia, dobbiamo accostarci agli altri ricordando la loro ineluttabile mortalità, o dobbiamo piuttosto tenere presente un'altra verità - che, almeno per il momento, siamo vivi?
Secondo queste due persone, se qualcuno sta morendo o ha perduto una persona cara non per questo deve essere sempre triste e sconsolato, mai dimentico della sua malattia o del suo lutto. E quando qualcuno riesce a gettarsi alle spalle la depressione, gli altri dovrebbero celebrare la vita insieme a lui, anche se hanno difficoltà a sbarazzarsi dei loro pensieri tetri. È possibile che esse abbiano ragione, e questo modo di affrontare le tragedie altrui - non dimenticare la situazione dell'altro eppure condividere con lui o lei tutto ciò che sente in quel momento - può caratterizzare un tipo di empatia metacognitiva e veridica propria solo degli adulti. Ecco due esempi tratti dalla mia esperienza personale. Il primo. Ho conosciuto una coppia che aveva un figlio affetto da paralisi cerebrale. Nei primi anni di vita il bambino non era cosciente del suo problema. I genitori, com'è naturale, avvertivano una gran pena quando erano con il figlio, ma riuscivano a sospendere la tristezza e a giocare con lui con straordinario entusiasmo, giungendo persino a dimenticare, per qualche tempo, la sua (e la loro) disgrazia. Secondo esempio. Ho fatto visita a un caro amico e collega, ricoverato in ospedale per un cancro avanzato e diffuso. Mentre parlavamo dei suoi problemi, ebbi l'impressione, probabilmente dalla voce e dall'espressione facciale, che volesse cambiare argomento. Passammo due ore discutendo delle più recenti ricerche sulla prima infanzia (che era il suo campo di specializzazione) e delle loro implicazioni teoriche. Parlava delle ultime scoperte in
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modo appassionato e animato, e tutti e due ci dimenticammo ben presto della sua malattia. Al momento di salutarci, mi disse che era stato il pomeriggio più piacevole che avesse trascorso da mesi, e aggiunse che era stanco di compassione e buone parole e, più ancora, di dover mettere a proprio agio i visitatori. Questo esempio non solo illustra il tipo di sofferenza empatica adulta di cui stiamo parlando, ma anche un secondo tipo di sofferenza empatica: malgrado l'atrocità della sua condizione, quell'uomo non era tanto chiuso in se stesso da ignorare i sentimenti dei suoi visitatori: egli si sforzava di aiutarli a superare l'imbarazzo, il disagio e la tristezza che immaginava sentissero per lui. Infine, richiamo l'attenzione sull'esperienza degli adulti che svolgono certe professioni, soprattutto le professioni di aiuto, che possono accrescere la complessità della risposta empatica di queste persone. Gli psicoterapeuti, ad esempio, possono rendersi conto che ai fini del trattamento può essere utile evitare di manifestare, almeno temporaneamente, la pena empatica che essi provano per un paziente - ad esempio, quando, se lo facessero, il paziente troverebbe più difficile esprimere i sentimenti negativi che magari nutriva per il parente o l'amico scomparso2 • In questi casi, la pena empatica del terapeuta può includere l' empatizzazione con l'ambivalenza del paziente verso la persona scomparsa. Tutto ciò dovrebbe dare al lettore almeno una vaga idea del cammino fatto dall'individuo mano a mano che comprende meglio le cause, le conseguenze e i correlati di una serie di emozioni sempre più complesse. È possibile che nuove ricerche colmino le lacune e permettano di delineare un quadro più preciso delle età e degli stadi corrispondenti a ciascun passo avanti nella comprensione delle emozioni. La mia tesi di fondo è che la nostra capacità di provare pienamente empatia per gli altri sia connessa alla capacità di comprendere ciò che sta dietro ai loro sentimenti, e che questa comprensione continui a svilupparsi nell'adolescenza e nell'età adulta. Finora abbiamo limitato l'analisi alle risposte empatiche suscitate dalla situazione immediata dell'altro; resta da considerare la sofferenza empatica dovuta alla condizione di vita dell'altro. 2
L'idea che il terapeuta possa evitare di esprimere il dolore empatico mi
è stata suggerita da Tatiana Friedman.
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5. La sofferenza empatica al di là della situazione immediata In un certo momento dello sviluppo, con l'emergere della concezione del sé e degli altri come esseri dotati di continuità, con una storia e un'identità personali, i bambini diventano consapevoli che gli altri avvertono gioia, rabbia, tristezza, paura e disprezzo non solo nella situazione immediata, ma anche in ambiti più ampi. Di conseguenza, pur continuando a provare sofferenza empatica in risposta al dolore o al disagio immediati di un'altra persona, essi possono rispondere con sofferenza empatica anche al tipo di vita di un'altra persona, che immaginano stabilmente triste o sgradevole. Questa rappresentazione mentale della condizione di difficoltà in cui si trova un'altra persona - il suo livello quotidiano di sofferenza o di deprivazione, le opportunità a sua disposizione e quelle che le sono negate, le sue prospettive future - può essere al di sotto di ciò che uno considera il livello minimo di benessere (determinato socialmente). In tal caso, ci si può aspettare che l'osservatore provi sofferenza empatica. Questa sofferenza empatica, inoltre, dovrebbe acuirsi se la rappresentazione della vita altrui da parte dell'osservatore gli ricordasse eventi simili del suo passato. L'osservatore può rivivere quegli eventi (assunzione di ruolo centrata su di sé) e/o immaginare la condizione di tristezza permanente della vittima (assunzione di ruolo centrata sull'altro). Di conseguenza, l'osservatore costruirà una rappresentazione mentale dell'infelicità della vittima che genera e insieme si carica di affetto empatico: diventa, cioè, una cognizione «calda». In questo modo, possiamo rispondere empaticamente a persone la cui vita immaginiamo triste e povera (malati cronici, persone emozionalmente deprivate, persone con problemi economici) e ciò può accadere anche quando la vittima non è presente. D'altro lato, quando la vittima è presente, l'osservatore continua a rispondere come al solito ai segnali di sofferenza provenienti dalla vittima e dalla situazione in cui questa si trova. Ciò solleva una questione: in che modo l'empatia per le condizioni di vita di un'altra persona interagisce con l'empatia per la sua sofferenza immediata? Sembra ragionevole supporre che se i due affetti sono congruenti essi si rafforzino mutuamente: se l'altro è triste, la nostra tristezza empatica aumenterà se sappiamo che quella dell'altro non è tristezza passeggera,
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ma il riflesso di una vita grama; e se già da prima conosciamo e rispondiamo empaticamente alla triste vita dell'altro saremo più sensibili ai suoi segnali immediati di tristezza. A volte però le due fonti di empatia sono in contrasto, e l'osservatore deve fare i conti con questa contraddizione, che può avere diverse cause. È possibile che l'altro non sia tanto triste quanto ci si potrebbe aspettare, perché il problema di cui soffre (poniamo, un male incurabile) gli è stato nascosto, o perché lo nega, o, infine, ne è perfettamente consapevole ma accetta la sua condizione e cerca di godersi la vita che gli resta. Un mio caro amico malato di cancro (non quello di prima) doveva decidere se operarsi o fare radioterapia, ma quando lo andai a trovare voleva solo parlare delle cose di sempre, di sport o di finanza, e con l'entusiasmo di sempre (insomma, di tutto voleva parlare salvo che della sua malattia). Se avessi semplicemente dato corso all'empatia, avrei potuto mettere a repentaglio la sua negazione, perciò andai avanti abbandonandomi a una piacevole conversazione; la sofferenza empatica era rimasta sotto controllo in un angolo della mia mente, ma poi riaffiorò. Il punto è che in queste situazioni gli adulti non rispondono semplicemente ali' allegria momentanea dell'altro, come potrebbe fare un bambino. La mia ipotesi è che la maggior parte degli adulti sappiano che il piacere momentaneo di un'altra persona, come indice del suo benessere, è meno significativo di una vita infelice; essi perciò risponderanno con tristezza empatica, tristezza mista ad allegria, o allegria seguita da tristezza. Ecco due testimonianze di studenti che illustrano la profonda tristezza degli osservatori a dispetto dell'allegria della vittima in quel momento. Il secondo esempio mostra anche come la risposta empatica all'infelicità della vita altrui possa spingere una persona a scegliere una professione nella quale aiutare il prossimo. La madre di mio cugino morì. Lui era troppo piccolo per capire quello che era successo e alla notizia continuò a giocare. Mi sforzai di sorridere e giocare con lui, ma non smettevo di chiedermi quanto la perdita della madre lo avrebbe influenzato. Mai più dolci abbracci quando cadeva e si sbucciava un ginocchio. Oltretutto il padre era un uomo severo, che imponeva una disciplina ferrea. Tutto quello cui riuscivo a pensare era che la tenerezza della madre non c'era più, e che gli sarebbe mancata. Ma lui non se ne rendeva conto. Credeva che tutto andasse per il meglio.
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Era una splendida giornata e giocavo nel parco con un amico. Mentre scherzavamo e ridevamo, notai la presenza di una bambina di circa 4 anni con una grave forma di sindrome di Down. Si stava divertendo un mondo, rideva. Io invece smisi di farlo. Mi chiedevo quanto dovesse essere orribile vivere con un minorazione simile, e come mi sarei sentita se fossi stata sua madre o se io stessa avessi sofferto di quella malattia. E mi chiedevo come si sarebbe sentita quella bambina quando sarebbe stata più grande e non avrebbe potuto frequentare una scuola normale come le altre bambine del quartiere. Lei ignorava completamente la sua situazione. Si godeva ... la vita che le era toccata, e qualunque difficoltà le avesse riservato il futuro ... in qualche modo l'avrebbe affrontata. Eppure, per qualche ragione, questa limpida verità non mi tranquillizzò. Quella bambina non è un caso unico, e spesso reagisco allo stesso modo quando vedo che la vita è stata ingiusta con qualcuno. Per questo ho deciso di diventare insegnante di scuola speciale, per poter aiutare queste persone.
Vi sono altre contraddizioni tra la vita di una persona e
il suo comportamento immediato. Qualcuno fa qualcosa che mi danneggia e mi fa arrabbiare; scopro che il suo atto era stato provocato da una brutta esperienza che aveva avuto in passato e sapere questo suscita in me empatia e fa sbollire la mia rabbia. Un altro esempio. Vado sempre al lavoro in treno con alcuni colleghi, e per arrivare alla stazione prendiamo un autobus. Parecchie volte ci siamo infuriati nel vedere autobus che non erano pieni passarci davanti senza fermarsi. Un giorno protestammo con uno degli autisti, e scoprimmo che per conservare il posto di lavoro erano costretti a rispettare orari impossibili. Ciò fu sufficiente a suscitare la nostra empatia e a placare la rabbia verso gli autisti (non però verso l'azienda dei trasporti). Lo studio di Pazer, Slackman e Hoffman [1981] di cui abbiamo parlato sopra dimostra la stessa cosa: le circostanze attenuanti che ci fanno guardare in modo simpatetico chi ha fatto qualcosa di male riducono la rabbia nei suoi confronti. Non intendo dire che ignoriamo i sentimenti della vittima nella situazione, ma che siamo animali pensanti, oltre che senzienti, e non possiamo toglierci del tutto dalla mente le condizioni generali dell'altro. In situazioni del genere, i nostri sentimenti empatici implicano inevitabilmente una miscela di emozioni diverse. Vi sono casi in cui l'empatia oscilla avanti e indietro tra i sentimenti della vittima e le sue condizioni di vita. In generale, la mia ipotesi è che, in un primo tempo, lo stimolo immediato 110
proveniente dalla vittima avrà un'influenza affettiva maggiore e la conoscenza delle sue condizioni di vita sarà meno importante (a meno di non possedere quella conoscenza in anticipo). Col procedere dell'elaborazione cognitiva, tuttavia, l'influenza affettiva dei sentimenti immediati della vittima diminuisce, e può anche diventare irrilevante quando l'osservatore prende in considerazione le condizioni di vita della vittima. La risposta empatica ai sentimenti della vittima nella situazione immediata può trasformarsi in risposta empatica alle condizioni di vita; questa trasformazione - una sorta di decentramento affettivo? - comincia presumibilmente quando l'osservatore riconosce la contraddizione tra il comportamento della vittima e le sue condizioni di vita. In altri termini, la mia ipotesi è che l'immagine mentale delle condizioni di vita dell'altro non possa essere ignorata. Essa opera indipendentemente dagli indizi situazionali immediati e dai comportamenti espressivi dell'altra persona, rendendoli a volte irrilevanti. Ne segue che rispondere empaticamente all'immagine della vita dell'altro può implicare un certo grado di distanziamento: più che allo stimolo da lui presentato immediatamente, rispondiamo all'immagine mentale che abbiamo dell'altro. Dal punto di vista evolutivo, un'altra conclusione è che una volta messo in atto questo distanziamento, una persona può non rispondere soltanto, come prima, alla stimolazione immediata dell'altro, ma anche prendere in considerazione la vita dell'altro al di là della situazione immediata, o farsi delle domande su di essa. Alla luce di questa analisi, dovrebbe essere chiaro che le informazioni sulle esperienze passate di un'altra persona o su quelle che ci aspettiamo avrà in futuro possono influenzare la nostra sofferenza empatica in due modi: a) rispondiamo empaticamente alle condizioni di vita della vittima; b) rispondiamo empaticamente alla sua situazione immediata, e questa sofferenza empatica è influenzata dalle informazioni sulle condizioni di vita dell'altro. Quello che ci interessa qui è il primo caso, che si colloca a un livello di sviluppo più avanzato perché presuppone la capacità di rappresentarsi le condizioni di vita di qualcun altro, e di rispondere empaticamente a questa rappresentazione. Il secondo caso è stato analizzato sopra in relazione alla sofferenza empatica veridica nella fanciullezza e lo ricordiamo qui perché spesso accompagna il primo.
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Questa discussione mette in evidenza un importante vantaggio che deriva dall'escludere dalla definizione dell'empatia il requisito che l'affetto dell'osservatore coincida con quello del modello: tale requisito impedirebbe che le contraddizioni tra la situazione immediata e le condizioni di vita fossero significative per l'empatia. Ciò nonostante, va detto che vi è, in fin dei conti, una sorta di coincidenza: quella tra la risposta affettiva dell'osservatore alla sua rappresentazione delle condizioni di vita della vittima, e la risposta che la vittima probabilmente darebbe a tale rappresentazione. È possibile che la vittima cerchi di difendersi da questa rappresentazione perché non riesce a sopportare la realtà della vita che vi è rappresentata. Di conseguenza, la sofferenza provata dalla vittima può essere minore di quella che l'osservatore prova per lei. A che età il bambino è in grado di rispondere empaticamente alla vita di qualcun altro? A che età il bambino prende coscienza degli altri come esseri dotati di continuità, con una storia e un'identità personali, com'è necessario perché risponda empaticamente alle condizioni di vita altrui? Questo problema non è stato studiato direttamente, ma le ricerche sull'identità personale forniscono un'indicazione. Secondo lo schema di Erikson, il bambino non ha un senso di sé come essere dotato di continuità, con una storia e un'identità proprie, prima dell'adolescenza. Le ricerche sull'identità etnica e di genere [Ruble e Martin 1998] indicano che i bambini statunitensi di origine europea giungono a considerare la loro identità di genere come qualcosa di stabile, coerente e permanente tra i 5 e i 6 anni (per l'identità etnica accade tra i 6 e i 7 anni). Perciò sembra ragionevole supporre che sia tra i 5 e gli 8 anni che i bambini diventano consapevoli che gli altri hanno una storia, un'identità e una vita proprie. Un'altra questione è se a questa età i bambini siano in grado di rispondere empaticamente alle condizioni di vita del prossimo. Da un lato, ci si potrebbe aspettare che l' attenzione dei bambini si rivolgesse e si fissasse sui principali indizi personali e situazionali della sofferenza di un'altra persona. A causa della profonda influenza dei processi di condizionamento, associazione e mimesi, la «presa» di questi indizi può essere abbastanza grande da catturare l'attenzione del bambino, nel quale caso la sua risposta empatica sarà basata su di essi e non 112
sarà affatto influenzata dalla conoscenza della vita infelice della vittima. Perciò potrebbe volerci del tempo prima che il bambino sia capace di andare oltre gli stimoli salienti e rispondere empaticamente alle condizioni di vita altrui. Ciò concorda con i risultati di Gnepp e Gould [1985], menzionati sopra, secondo cui è possibile che fino ai 9 o 10 anni di età i bambini non siano capaci di utilizzare le conoscenze sull'esperienza recente di un altro bambino, benché siano chiaramente rilevanti, per predire i sentimenti di quel bambino in situazioni simili. D'altro lato, dobbiamo considerare la possibilità che la pena empatica del bambino di 4 anni per la perdita sofferta dalla sua amica fosse realmente acuita dalla visione della vita futura della bambina dopo la scomparsa della madre. Benché questa visione potesse essere stata stimolata dai discorsi degli adulti, poteva comunque implicare l'accesso a una prospettiva temporale a lungo termine, per quanto embrionale, in grado di influenzare la sofferenza empatica. Sono chiaramente necessarie altre ricerche su diversi temi: lo sviluppo di una prospettiva temporale a lungo termine, il modo in cui essa è condizionata dal contesto, il modo in cui le conoscenze del bambino sul passato o sul futuro prevedibile di un'altra persona influenzano la sua risposta empatica nel momento presente. La risposta empatica alla sofferenza di un gruppo. È probabile che con lo sviluppo delle sue capacità cognitive, e specialmente della capacità di formare concetti sociali e di classificare in gruppi le persone, il bambino o la bambina giunga a rendersi conto delle condizioni di difficoltà non solo di un individuo ma di tutto un gruppo o una classe di persone; ad esempio, persone cadute in povertà, oppresse politicamente, emarginate socialmente, vittime di guerre, o con ritardo mentale. La combinazione di sofferenza empatica e rappresentazione mentale delle difficoltà di un gruppo sfortunato può sembrare la forma più sviluppata di sofferenza empatica, giacché è difficile pensare che un bambino possa provare empatia per un gruppo prima che possa farlo di fronte alla rappresentazione mentale della vita di un individuo. Il passaggio dall'empatia per la vita di un individuo all'empatia per il gruppo cui esso appartiene può avvenire in una singola occasione, come quando qualcuno prova empatia per un individuo e poi si rende conto che quell'individuo fa 113
parte di un gruppo o una categoria di persone che soffrono del medesimo problema. Un caso del genere è quello dello studente citato prima, che provava empatia per una bambina con la sindrome di Down come singola persona, ma anche come una persona che non era «un caso unico» ma una delle tante con cui «la vita è stata ingiusta». Immagino che molti di coloro che hanno visto la famosa fotografia del vigile del fuoco che aveva in braccio un bambino ustionato a morte nella strage di Oklahoma City debbano avere provato sofferenza empatica per il bambino e per i suoi genitori, così come per altre vittime fotografate, e immediatamente dopo abbiano generalizzato questo sentimento alle vittime dell'attentato di Oklahoma City come gruppo. (Dovremmo parlare qui di sofferenza empatica per un gruppo suscitata o alimentata dai mezzi di comunicazione?) Un gruppo che suscita un interesse non occasionale è quello formato dalle persone meno favorite economicamente. L'empatia per queste persone potrebbe essere alla base della motivazione ad adottare ideologie politiche dirette a migliorare le loro condizioni di vita [Hoffman 1980; 1990]. Potrebbe anche essere una motivazione interna all'accettazione di un criterio di distribuzione della ricchezza sociale che venga in soccorso delle persone meno favorite, anche se c'è un prezzo personale da pagare (maggiori imposte). Questo tema sarà affrontato nel capitolo nono, quando analizzeremo la relazione tra l'empatia e i principi della giustizia distributiva. Se una persona è in grado di provare empatia per le condizioni di vita di un individuo anche quando esse sono in contraddizione con il suo comportamento immediato, dovrebbe poter fare lo stesso anche nel caso di un gruppo. La seguente testimonianza di uno studente illustra la possibilità di rispondere empaticamente sia alle condizioni di vita di un gruppo oppresso sia al suo comportamento contraddittorio ma comprensibile: Quando leggo che nei loro riti religiosi gli schiavi d'America erano spesso straordinariamente devoti e affatto ottimisti mi rallegro un poco pensando che queste persone facevano qualcosa che dava loro gioia, perfino rapimento mistico; ma poi ricordo che erano oppressi e mi rendo conto che quello era un falso senso di gioia e di speranza,
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un'isola nel mezzo di una vita sgradevole, infelice e ingiusta. Mi rallegro che fossero felici pur vivendo in schiavitù, ma mi rattristo a pensare alla loro vita nel suo complesso, specialmente se considero che quella speranza o gioia religiosa dava loro un falso senso di sicurezza. Era davvero una crudele ironia che la loro gioia nascesse dalla salvezza promessa da una religione che era stata data loro proprio dai padroni da cui speravano di liberarsi.
6. Trasformazione della sofferenza empatica in simpatetica Come già ho sottolineato, la sofferenza empatica dell' osservatore include tanto una componente affettiva quanto una componente cognitiva, frutto del suo senso cognitivo dell'altro come distinto da sé. Fin dall'inizio degli anni Sessanta, gli studiosi hanno osservato che quando una persona sperimenta un affetto, è profondamente influenzata dalla cognizione pertinente («L'individuo ... identifica questo stato di eccitazione sulla base delle caratteristiche della situazione e della propria massa appercettiva» [Schachter e Singer 1962, 380]). Questi autori si proponevano di spiegare in che modo distinguiamo tra diversi affetti (rabbia, gioia, paura) attivati direttamente. Lasciando da parte la spiegazione delle emozioni attivate direttamente - una questione sulla quale non vi è mai stato accordo [Zajonc 1980] -, il senso cognitivo di sé e dell'altro come entità separate e indipendenti è così intrinseco all'affetto suscitato empaticamente, da modificare la qualità dell'esperienza affettiva dell'osservatore. Di conseguenza, quando il bambino si forma un senso di sé come individuo separato dagli altri, la qualità della sua sofferenza empatica non è più la stessa. Una possibilità è che quando il bambino scopre che il dolore o il disagio sono di qualcun altro, si giri semplicemente dall'altra parte e risponda come se il problema non fosse il suo. Alcuni bambini fanno proprio così. Ma le prove disponibili - le ricerche che mettono in relazione la sofferenza empatica con l'aiuto (cap. II), l'argomento dell'evoluzione umana [Hoffman 1981], i molti studi e aneddoti citati qui - mostrano che in genere i bambini non si girano dall'altra parte, ma rispondono con lo stesso grado di sofferenza empatica di prima, e, in giunta, sono motivati ad aiutare la vittima. 115
Più specificamente, la mia ipotesi è che una volta che i bambini abbiano immagini distinte di sé e degli altri, la loro sofferenza empatica, che è una risposta parallela (vale a dire, una riproduzione più o meno esatta del sentimento di sofferenza reale o supposto della vittima), possa trasformarsi, almeno in parte, in un sentimento di preoccupazione (concern) per la vittima caratterizzato da una maggiore reciprocità; e la motivazione a trovare conforto per sé si trasformi in una motivazione ad aiutare la vittima. Questa trasformazione evolutiva concorda con il modo in cui i bambini più grandi e gli adulti descrivono i sentimenti suscitati in loro dall'osservazione di una persona sofferente. Essi continuano a rispondere, in parte, in modo egoistico - si sentono loro stessi a disagio e profondamente afflitti - ma provano anche un sentimento di compassione ovvero di sofferenza simpatetica nei confronti della vittima e, insieme, un desiderio consapevole di aiutarla3. Altrimenti detto, il medesimo progresso nella differenziazione sé-altro che fa muovere il bambino dall'empatia «egocentrica» a quella «quasi-egocentrica» provoca una trasformazione qualitativa della sofferenza empatica in simpatetica. Da questo momento, la sofferenza empatica del bambino (e poi dell'adulto) includerà una componente simpatetica e il bambino vorrà portare aiuto alla vittima perché è dispiaciuto per lei, e non solo per ridurre la propria sofferenza empatica4 • L'elemento di sofferenza simpatetica della sofferenza empatica è perciò la prima motivazione genuinamente prosociale del bambino. È difficile mettere alla prova un'ipotesi su un cambiamento evolutivo di tipo qualitativo, ma in questo caso, a suo sostegno, vi sono prove convergenti e circostanziate. In primo luogo, vi sono gli studi (sopra citati) a sostegno della tesi che nel suo sviluppo il bambino passi da uno stadio in cui risponde alla sofferenza altrui ricercando conforto per sé a uno stadio in cui 3 La distinzione tra sofferenza empatica e simpatetica rimanda a quella di Scheler [1913/1954] tra «sentimento vicario» (vicarious _feeling) e «sentimento compagno» (jellow feeling) e alla sua tesi che il primo è condizione necessaria ma non sufficiente per il secondo [ibidem]. 4 È dubbio che i bambini diano aiuto agli altri solo per alleviare la loro sofferenza empatica. Vi sono modi più semplici per raggiungere questo scopo, ad esempio allontanarsi dalla vittima, cosa che però, secondo le ricerche, quasi mai fanno.
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ricerca conforto per la vittima [Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King 1979; Zahn-Waxler et al. 1992]. In secondo luogo, tre studi hanno messo direttamente alla prova questa ipotesi, prevedendo che i progressi nella differenziazione sé-altro precedano l'evoluzione del bambino dalla sofferenza empatica a quella simpatetica [Bischoff-Kohler 199l;Johnson 1992; ZahnWaxler, Radke-Yarrow e King 197 9]; tutti e tre questi studi hanno mostrato che il riconoscimento della propria immagine allo specchio è un predittore della sofferenza simpatetica e del comportamento di aiuto successivi. Più difficile è dimostrare le tappe della transizione dalla sofferenza empatica a quella simpatetica, sebbene vi siano aneddoti che illustrano la prevista combinazione dei due tipi di sofferenza nel secondo anno. Ho già descritto il caso di un bambino che, verso la fine del primo anno d'età, quando era afflitto era solito succhiarsi il pollice di una mano e tirarsi l'orecchio con l'altra. All'inizio del secondo anno, notando un'espressione di tristezza sul volto del padre, il bambino si rattristò e prese a succhiarsi il pollice, mentre tirava l'orecchio al padre [Hoffman 1978]. Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King [1979] descrivono tre casi simili: nel suo primo atto prosociale, un bambino alternava i colpetti leggeri alla vittima e a se stesso; un altro consolava la madre che piangeva asciugandole le lacrime e asciugandosi lui stesso gli occhi benché non piangesse; un terzo bambino, dopo aver visto che sua madre aveva battuto il gomito, le massaggiò il gomito, poi massaggiò il suo, disse «ahi!», e fece una smorfia di dolore. Inoltre, in uno studio di Main, Weston e Wakeling [1979], un bambino che osservava un adulto vestito da pagliaccio che fingeva di piangere, disse, con aria molto triste, «uomo piange», si fece prendere in braccio dal padre, e di lì si rivolse più volte all'uomo con un'espressione triste, come per consolarlo o distrarlo. Nei bambini piccoli, specie durante il periodo di transizione, solo parte della sofferenza empatica può trasformarsi in simpatetica, come mostra il caso del bambino che si succhiava il pollice e al tempo stesso tirava l'orecchio al padre. Quando il bambino progredisce ancora nella cognizione sociale e acquisisce un senso degli altri più chiaro, la trasformazione della sofferenza empatica in simpatetica diventa più completa. Anche nell'età adulta può sopravvivere una componente puramente 117
empatica. Questo duplice carattere empatico/simpatetico della sofferenza empatica adulta diventa evidente nel meccanismo combinato di assunzione di ruolo centrato su di sé e sull'altro, descritto nel capitolo secondo. È illustrato anche dai fenomeni della sovrattivazione empatica e della fatica da compassione (compassion /atigue), che esamineremo nel capitolo ottavo, e dall'osservazione che le infermiere, all'inizio della loro formazione, possono sperimentare un conflitto tra il sentimento di sofferenza simpatetica, che include un vivo desiderio di aiutare i pazienti gravemente malati, e la sofferenza empatica, che può rendere loro difficile persino stare nella stessa stanza con quei pazienti [Stotland et al. 1979]. Nella misura in cui la sofferenza empatica giunge a trasformarsi in simpatetica, gli ultimi tre stadi della sofferenza empatica (quasi-egoistica, veridica, al di là della situazione immediata) sono anche stadi della sofferenza simpatetica. Invito il lettore a tenerne conto, anche se, per comodità, continuo a usare il termine sofferenza empatica, tranne quando, per evitare confusioni, parlo di sofferenza empatica/simpatetica. Quando una persona ha attraversato, l'uno dopo l'altro, i cinque stadi di sviluppo della sofferenza empatica, e incontra un'altra persona con difficoltà fisiche, emozionali o economiche, è esposta a una varietà di informazioni sulle condizioni della vittima. Esse possono includere stimoli espressivi verbali e non verbali provenienti dalla vittima, stimoli situazionali, e conoscenze personali sulla vita della vittima. Queste informazioni sono elaborate in modi distinti: l'empatia suscitata dagli stimoli non verbali e situazionali è mediata da forme di elaborazione largamente involontarie e cognitivamente superficiali (mimesi, condizionamento e associazione). L'empatia suscitata dai messaggi verbali della vittima o dalle proprie conoscenze sulla vittima richiede un'elaborazione più complessa, per associazione mediata e assunzione di ruolo. Nella forma più avanzata di quest'ultima, l'osservatore può riprodurre sulla scena mentale le emozioni e le esperienze evocate dalle informazioni precedenti e può considerarle introspettivamente; in tal modo comprende meglio e risponde affettivamente alle circostanze, ai sentimenti e ai desideri dell'altro, tenendo ferma, al tempo stesso, la coscienza che l'altro è una persona separata da sé. 118
Indizi, modi di attivazione e livelli di elaborazione, nella loro varietà, contribuiscono di solito a un medesimo affetto empatico, anche se le contraddizioni non mancano - per esempio, tra indizi espressivi differenti, come l'espressione facciale e il tono di voce, o tra indizi espressivi e situazionali. Più importante è la contraddizione (analizzata sopra) tra la conoscenza delle condizioni di vita dell'altro e la sua condotta immediata; in questo caso, gli indizi espressivi e situazionali dei sentimenti dell'altro possono perdere molta della loro forza emozionale agli occhi dell'osservatore, consapevole che esse riflettono soltanto stati passeggeri. Si immagini un bambino indigente che ride e si diverte, ignaro della sua condizione e delle implicazioni che questa potrebbe avere per la sua vita futura. Un altro bambino lo osserva senza rendersi conto della limitatezza delle sue prospettive, e avverte una schietta gioia empatica. Un osservatore maturo, d'altra parte, non riesce a ignorare facilmente quella limitatezza, poiché si rende conto che essa indica il suo livello di benessere molto meglio della gioia immediata e, di conseguenza, avverte tristezza empatica o gioia mista a tristezza. Il livello più avanzato di sofferenza empatica implica perciò un distanziamento: si tratta, in parte, di una risposta affettiva alla propria immagine mentale della vittima, non solo al suo valore di stimolo immediato. Ciò concorda con la mia definizione di empatia, intesa non come una corrispondenza esatta con i sentimenti altrui, ma come una reazione affettiva più adeguata alla situazione dell'altro che non alla propria.
7. Ampliamento cognitivo del modello dello spettatore Anche se stiamo parlando dell'empatia affettiva, è evidente in ogni suo aspetto il ruolo della cognizione: nelle forme di attivazione empatica di livello superiore come l'associazione mediata e l'assunzione di ruolo, nel ruolo essenziale della differenziazione sé-altro nello sviluppo iniziale dell'empatia, nell'importanza della cognizione sociale per l'empatia veridica e l'empatia al di là della situazione immediata. Qui sottolineo due punti cruciali che possono finire nascosti tra i dettagli dei meccanismi di attivazione e degli stadi di sviluppo: a) lo sviluppo cognitivo ci permette di
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formare immagini, rappresentare persone ed eventi, immaginare noi stessi al posto di qualcun altro; e b) poiché le persone e gli eventi rappresentati possono suscitare affetto [Fiske 1982; Hoffman 1985], non è necessario che la vittima sia presente perché l'osservatore provi empatia. Pertanto, l'empatia può essere suscitata quando l'osservatore immagina una vittima: quando legge di disgrazie altrui, parla o discute di temi economici o politici, o anche quando formula giudizi à la Kohlberg su dilemmi morali ipotetici. Un ragazzo di 13 anni rispose alla domanda: «Perché è male rubare in un negozio?» nel modo seguente: «Perché i suoi proprietari hanno lavorato sodo e hanno tutto il diritto di spendere quello che guadagnano per la loro famiglia. Non è giusto: loro si sacrificano e fanno piani per il futuro e poi va tutto all'aria perché qualcuno che non ha fatto nulla per guadagnare quei soldi arriva e se li porta via». Questo soggetto, a quanto pare, trasformava una questione morale astratta sul rubare in una questione relativa all'empatia, immaginando una vittima e i suoi stati interni (la motivazione a lavorare sodo, l'aspettativa della ricompensa, i piani per il futuro, la disillusione). In altre parole, lo sviluppo cognitivo amplia il modello dello spettatore in modo che esso abbracci un'enorme varietà di situazioni, il cui unico limite è l'immaginazione dell'osservatore e non la presenza fisica dell'altro.
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CAPITOLO QUARTO
RABBIA EMPATICA, SIMPATIA, SENTIMENTI DI COLPA E DI INGIUSTIZIA
Riassumiamo ciò che abbiamo detto finora. Ho definito l'empatia come una risposta affettiva più adeguata alla situazione di un altro che non alla propria; ho descritto cinque meccanismi di attivazione empatica, che vanno dal condizionamento classico ali' assunzione di ruolo; infine, ho delineato le tappe dello sviluppo della sofferenza empatica. Benché la trattazione si sia concentrata soprattutto sull'affetto empatico, ho sottolineato anche la notevole influenza della cognizione sull'attivazione e sullo sviluppo della sofferenza empatica e sulla sua generalizzazione al di là della situazione immediata. In quest'ultimo capitolo sul modello dello spettatore, l'affetto continua ad occupare il centro della scena assieme alla cognizione - in questo caso, all'attribuzione causale. In genere le persone compiono attribuzioni spontanee sulla causa degli eventi [Weiner 1985], e senza dubbio lo fanno anche quando osservano una persona che soffre. A seconda dell'attribuzione, la sofferenza empatica può ridursi, annullarsi o trasformarsi in altri affetti empatici. Può ridursi o annullarsi quando la vittima è considerata causa del suo male. Gli esseri umani, quando le circostanze sono ambigue, tendono ad attribuire la causa delle azioni delle altre persone (ma non delle proprie azioni) alle loro inclinazioni interne: è questo il cosiddetto «errore fondamentale di attribuzione» [Jones e Nisbett 1971]. Essi tendono anche a incolpare la vittima delle sue disgrazie per salvaguardare la «credenza in un mondo giusto» (se non agisco così posso stare tranquillo) [Lerner e Miller 1978]. Ma alla luce delle prove che mostrano che gli esseri umani tendono a provare empatia per gli altri e ad aiutarli quando soffrono (cap. II), sembra chiaro che incolpare la vittima non è incompatibile con l'empatia. 121
È molto probabile che lo spettatore incolpi la vittima se le informazioni causali sono ambigue o se c'è una base «fattuale» che lo consente (la vittima di uno stupro faceva jogging in una zona pericolosa; una vittima di abusi coniugali continuava a stare con il coniuge violento). Ecco che cosa scrive una studentessa universitaria: Ho letto o sentito parlare un'infinità di volte di donne violentate o assassinate di mattina presto o di sera in un parco. Normalmente queste donne erano sole. Di fronte a notizie così tremende resto profondamente turbata. Ma poi penso a quante volte ho già sentito la stessa storia, e considero che per una donna è stupido fare jogging in un parco in quelle circostanze. Anche se non so nulla delle vittime, concludo che se è successo qualcosa è colpa loro - della loro stupidità, ostinazione o ignoranza. La mia compassione sfuma.
L'analisi condotta finora suppone che prima sia suscitata la sofferenza empatica e poi vengano le informazioni causali, e che la vittima non sia presente. Ma che succede se le informazioni sono possedute preventivamente e la vittima viene incolpata in anticipo? L'unico studio al riguardo è quello di Stotland [1969], secondo cui la «disposizione» ad evitare l'empatia per una persona che soffre non impedisce ai soggetti di rispondere empaticamente. Ciò suggerisce che la conoscenza preventiva della incolpabilità della vittima possa mitigare la sofferenza empatica degli osservatori non oltre un certo limite, almeno se essi prestano attenzione alla vittima (come i soggetti di Stotland). Sarebbe interessante sapere se un osservatore che incolpa la vittima può evitare l'empatia distogliendo lo sguardo, tappandosi le orecchie o pensando a qualcosa che lo distragga. Sospetto che sia possibile, e ritornerò su questo punto nel capitolo ottavo. A prescindere dall'esistenza di una base fattuale e dalla possibilità che le informazioni causali seguano o precedano l'attivazione empatica, incolpare la vittima crea una distanza psicologica tra la vittima e lo spettatore e riduce la sofferenza empatica dello spettatore e la sua motivazione a dare aiuto. Secondo Staub [1996], è molto probabile che questo distanziamento abbia luogo quando l'osservatore si sente impotente, poiché è molto difficile assistere alla sofferenza altrui quando non si può intervenire in alcun modo. 122
Indipendentemente dalla colpa della vittima, la sofferenza empatica dell'osservatore, a seconda della causa della sofferenza della vittima, può trasformarsi in sofferenza simpatetica, in rabbia empatica o in un sentimento di ingiustizia o di colpa (in entrambi i casi a fondamento empatico).
1. Sofferenza empatica
La sofferenza empatica può trasformarsi in sofferenza simpatetica se il dolore o il disagio della vittima sono chiaramente dovuti a cause naturali o sono, per altri versi, fuori del controllo della vittima, come nel caso di un incidente o di una malattia o della scomparsa di una persona cara. Ciò concorda con la classica analisi di Weiner [1982] circa l'influenza delle attribuzioni causali sulle emozioni. La sofferenza empatica può trasformarsi in sofferenza simpatetica anche quando la sofferenza della vittima è saliente e la sua causa misteriosa, come nella trasformazione evolutiva della sofferenza empatica in simpatetica analizzata nel capitolo terzo. Come abbiamo mostrato nel capitolo secondo, la sofferenza empatica/simpatetica si produce sistematicamente nello spettatore e lo muove ad alleviare la sofferenza della vittima, e lo spettatore che prova empatia e dà il suo aiuto prende in considerazione le conseguenze finali delle sue azioni per la vittima. Ho osservato anche che quando il prezzo da pagare è alto, è possibile che lo spettatore non dia il suo aiuto, anche se prova empatia. Il mancato aiuto può essere dovuto anche ad altre ragioni derivanti da attribuzioni causali; può darsi, ad esempio, che gli spettatori non diano il loro aiuto se ritengono che la persona non lo meriti. In uno studio di Schmidt e Weiner [ 1988], ai soggetti (studenti universitari) era posta la seguente domanda: «Mentre cammini nel campus uno studente che non conosci ti si avvicina e ti chiede di prestargli gli appunti delle lezioni della settimana scorsa. Che fai?». Se si diceva che lo studente aveva un occhio bendato e inforcava occhiali scuri, e aveva bisogno di quegli appunti perché i suoi problemi di vista gli avevano impedito di prenderli da sé, la maggior parte dei soggetti erano simpatetici e accettavano di prestargli i loro appunti. Se però si diceva che lo studente era andato al mare 123
invece che a lezione, la maggior parte degli studenti esprimeva rabbia nei suoi confronti e negava il proprio aiuto. Alcuni però dichiaravano che anche in questo caso avrebbero aiutato lo studente, il che indica, come abbiamo già osservato, che incolpare la vittima non sempre è incompatibile con la risposta empatica/simpatetica e con l'aiuto («Si sarà pure messo nei guai da sé ma ha comunque bisogno di aiuto»).
2. Rabbia empatica Se causa delle disgrazie della vittima è un'altra persona, è possibile che l'attenzione si sposti dalla prima alla seconda. Possiamo provare rabbia verso il colpevole perché proviamo compassione per la vittima, o perché proviamo empatia e ci sentiamo attaccati in forma vicaria, o per entrambe le ragioni. I sentimenti possono oscillare tra la sofferenza empatica/simpatetica e l'ira empatica, la quale può sostituire completamente la sofferenza empatica/simpatetica. La rabbia empatica è stata trascurata nella letteratura morale, anche se più di due secoli fa Adam Smith osservò che «È più facile che il furente comportamento di un uomo in collera ci faccia irritare proprio contro di lui, piuttosto che contro i suoi nemici» [Smith 1759/1976; trad. it. 1991, 85]. Secondo Smith non possiamo identificarci con quest'uomo perché non sappiamo che cosa ha provocato la sua collera, mentre ci identifichiamo con la vittima perché comprendiamo chiaramente la sua situazione. Un secolo dopo, John Stuart Mill [1861/1979] fece luce sulla connessione tra la rabbia empatica e la morale sostenendo che la rabbia empatica, che egli descrive come «il sentimento naturale di rivalsa o di vendetta, che l'intelletto o la simpatia sensibilizza a quelle offese, cioè a dire a quei danni, che ci feriscono attraverso, o in comune, con la società in genere» [Mill 1861/1979; trad. it. 1981, 107], opera a tutela della giustizia. Pur sottolineando che, in generale, la ragione è alla base della morale, Mill era convinto che l'unico modo per convincere qualcuno ad obbedire a un principio morale non sia un argomento razionale che dimostri che quel principio, a lungo termine, è nel suo interesse, ma il ricorso a «sanzioni», vale a dire «piaceri personali da conseguire e dolori da evita-
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re» [Mill 1861/1979]. La sanzione suprema e intrinsecamente desiderabile è il «sentimento di unità» con il prossimo che poggia in larga parte sull'empatia. Secondo Mili, inoltre, le reazioni al comportamento ingiusto di qualcuno - i giudizi e lo sdegno nei suoi confronti - sono morali perché sono basate sull'empatia verso la vittima. Una società morale ha bisogno di voci che si levino per sostenere la causa della giustizia, cioè per opporsi a coloro che recano offesa agli altri e per punirli prontamente. Se queste voci tacessero, non vi sarebbe argine all'ingiustizia. La rabbia empatica può cambiare bersaglio. Se scopriamo che in precedenza la vittima aveva fatto del male al colpevole, la nostra sofferenza empatica nei suoi confronti può ridursi, e possiamo perfino provare empatia per il colpevole e rabbia empatica per la vittima. E se veniamo a sapere che la vittima - una moglie maltrattata - lo è da lungo tempo e tuttavia continua a stare con il marito, possiamo supporre che abbia scelto di stare con lui, e perciò sia responsabile dei suoi problemi e sia un po' meno vittima. Ciò potrebbe ridurre la sofferenza empatica verso la moglie e la rabbia empatica verso il marito. Ma se poi scoprissimo che la moglie maltrattata aveva ben poca scelta, perché dipendeva economicamente dal marito il quale non le permetteva di lavorare, o perché il marito minacciava di ucciderla se non fosse stata zitta o lo avesse abbandonato (minacce non di rado messe in atto!), è probabile che di nuovo proveremmo sofferenza empatica nei confronti della moglie e rabbia nei confronti del marito. Spesso i bambini piccoli, quando osservano una lite coniugale, non ne colgono le sfumature, e reagiscono con rabbia empatica verso quello che appare essere il colpevole. I bambini più grandi, pure più consapevoli delle sottigliezze della situazione, possono sentirsi confusi e arrabbiati di fronte a una madre che «china il capo» e non «si fa rispettare» dal marito violento. Ecco la testimonianza di una giovane donna passata da una condizione di sofferenza empatica per la madre e rabbia verso il padre, alla rabbia verso la madre. Mio padre è un uomo tutto d'un pezzo. Nella cultura in cui è cresciuto è l'uomo che comanda in casa. Ciò implica che l'opinione di mia madre conta poco o nulla. Questo mi irrita profondamente. Mio
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padre è ingiusto con lei, la disprezza, ripete sempre che quello che lei dice non conta nulla. Provavo una grande rabbia nei confronti di mio padre, e una grande pena nei confronti di mia madre. Oggi sono arrabbiata con mio padre ma ancora di più con mia madre, che non fa nulla per farsi rispettare. Ingoia tutto. Non si difende, non agisce come dovrebbe fare un genitore. Quando si tratta di prendere una decisione, la conclusione è sempre «chiedi a tuo padre». Capisco che è stata educata a fare così, ma io sono cresciuta in questo paese e vedo le cose diversamente. Sono arrabbiata più con lei che con lui, perché lei sa che mio padre si comporta male e tuttavia preferisce restare con lui e mantenere le cose come stanno.
Due tipi di rabbia empatica. I tipi di rabbia empatica sono due. Nel primo, relativamente semplice, la vittima prova rabbia verso chi l'ha maltrattata e l'osservatore coglie quella rabbia attraverso i meccanismi di attivazione empatica, sperimentando rabbia empatica. Nel secondo tipo, più complesso, la vittima si sente triste, offesa o delusa, ma non arrabbiata con chi l'ha maltrattata. L'osservatore risponde empaticamente a questi sentimenti ma, avendo assunto il punto di vista della vittima, prova verso il colpevole anche rabbia a base empatica, a dispetto del fatto che la vittima non sia arrabbiata. Nella risposta dell'osservatore vi è una duplicità empatica, con una componente di sofferenza empatica verso la vittima e una componente di rabbia a base empatica verso il colpevole. I due tipi di rabbia empatica si fondono quando la vittima si sente triste, offesa, delusa e arrabbiata. Si noti che solo il primo tipo implica una coincidenza affettiva tra l'osservatore e la vittima; tuttavia, in base alla mia definizione di empatia come sentimento appropriato alla condizione in cui si trova un'altra persona, benché non necessariamente coincidente con i suoi sentimenti, anche nel secondo caso si può parlare di rabbia empatica. Questo secondo tipo può essere più comune quando (come nel caso degli statunitensi di classe media) la socializzazione inibisce il comportamento aggressivo, poiché anche il sentimento di rabbia soggiacente può essere inibito (un effetto collaterale imprevisto della socializzazione?). L'inibizione della rabbia, congiunta con la complessità emozionale della relazione tra la vittima e la persona che l'ha maltrattata, rende più difficile che la prima provi rabbia verso la seconda. Il che non impedisce di sperimentare rabbia empatica se viene maltrattato qualcun 126
altro, poiché la persona, come osservatrice, può non rendersi conto della complessità della situazione riducendola a una semplice relazione tra un colpevole e una vittima. In questo caso, la rabbia può manifestarsi come un affetto morale vissuto per conto della vittima. Ho un'amica, Ellen, che è stata mia vicina di casa dalla quarta elementare in poi. Le nostre famiglie erano legate da amicizia e noi siamo diventate come sorelle. Pur frequentando università diverse, siamo andate entrambe a vivere a New York e continuiamo a essere amiche intime ... Non mi piace ammetterlo, ma so per certo che è capace di arrabbiarsi al posto mio. Per esempio, recentemente ho litigato con un caro amico, uno con cui non potrei arrabbiarmi per nulla al mondo. Qualcosa era andato storto, e io mi sentivo colpevole. Mi sentivo impotente, avevo l'impressione di avere fallito. Quando Ellen venne a sapere che cosa era successo, dalla sua bocca uscì un torrente di parolacce. Mi disse all'incirca: «Scusa Joan, ma non è colpa tua. Lui è uno !;@ e se mi capita di incontrarlo un'altra volta ... ». In qualche modo, vederla arrabbiata mi fece stare meglio e così potei arrabbiarmi a mia volta.
Questo aneddoto mostra che esprimere rabbia empatica può aiutare la vittima a dare libero sfogo alla propria rabbia. Lo può fare fornendo alla vittima una conferma esterna delle sue ragioni e legittimandone in tal modo la rabbia. Questa mi sembra essere una funzione secondaria, di motivazione prosociale, della rabbia empatica: secondaria e sottile, ma ugualmente prosociale. La rabbia empatica può anche aiutare la vittima in modo più diretto - è un modo di dirle: «Sto al tuo fianco» [Bavelas et al. 1987]. Sembra ragionevole supporre che a ruoli invertiti la protagonista dell'aneddoto precedente, nonostante la sua difficoltà ad esprimere direttamente la propria rabbia, avrebbe potuto provare rabbia empatica per conto dell'amica. Spesso la rabbia empatica è difficile da distinguere dalla rabbia diretta, poiché può giungere a cancellare la sofferenza empatica che l'ha originata. Cosa più importante, quando la rabbia empatica sfocia in una condotta aggressiva a difesa di una vittima può essere difficile distinguerla dalla rabbia diretta poiché le sue conseguenze comportamentali sono simili: un'aggressione è un'aggressione. Qualche esempio: un bambino di 17 mesi, trovandosi dal dottore, vide che il dottore praticava un'iniezione al fratello e per tutta risposta lo picchiò. Radke127
Yarrow e Zahn-Waxler [1984] descrivono un bambino piccolo che colpì la persona che aveva fatto piangere il fratellino, e un altro che accartocciò il giornale che aveva rattristato la madre. Da ultimo, Cummings et al. [1986] descrivono un bambino piccolo che aveva imparato a convogliare così bene l'aggressività che a 6 anni mostrava più rabbia empatica di qualunque altro bambino della sua età, dal che si può dedurre che stesse semplicemente cercando delle ragioni accettabili per esprimere la propria rabbia 1 • Naturalmente, vi sono casi in cui la base empatica della rabbia è evidente: ciò accade quando è accompagnata da una preoccupazione simpatetica per la vittima. Uno studente universitario ha scritto: «Odio il Dipartimento di Polizia di New York per tutti gli episodi di brutalità di cui è stato accusato, e compatisco profondamente le sue vittime. Credo di poter capire perché vi siano persone che si ribellano contro la polizia anche se non sono state sue vittime». Il «New York Times» ha pubblicato la cronaca di un comportamento eroico: un malintenzionato aveva spinto una donna facendola cadere sui binari della metropolitana; un testimone, un giovane di 26 anni, inseguì l'uomo attraverso il «labirinto sotterraneo di scale mobili e corridoi della stazione», e alla fine riuscì ad abbrancarlo con una presa definita «ferrea» dalla polizia, tenendolo fermo fino all'arrivo di due agenti. «Chiamate la polizia, chiamate la polizia, quell'uomo ha appena spinto una donna sotto la metropolitana», gridava il testimone. Disse poi che mai avrebbe potuto permettergli di scappare «perché quella donna poteva essere mia madre, poteva essere un'amica ... so che quella persona lascerebbe un vuoto nella vita di qualcuno» («New York Times», 5 gennaio 1995, B8). Si noti che non usò violenza contro il colpevole; si limitò a bloccarlo. Il fondamento empatico della rabbia è evidente anche nell' osservazione che i bambini provenienti da famiglie nelle quali le liti coniugali sono frequenti sono spesso agitati, e «rimproverano rabbiosamente l'aggressore e insieme confortano quella che con1 Questo bambino mi ricorda quegli adulti che proclamano la loro superiorità morale come scusa per punire il prossimo: una sorta di indignazione virtuosa che va distinta, sebbene ciò possa non essere sempre facile, dalla rabbia empatica.
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siderano la vittima» [Cummings e Davies 1994]. Una bambina di 20 mesi «mentre i genitori litigavano, faceva la spola da un genitore all'altro dicendo "ciao" ... non appena la madre rispose con un altro "ciao", la bambina le si arrampicò addosso, le gettò le braccia al collo, le diede dei colpetti sulle spalle, e, infine, la baciò ... Quando il padre si avvicinò, la bambina alzò la mano e gli disse "Vattene, vattene"» [ibidem, 1279]. La situazione della bambina non è quella del mero spettatore, naturalmente, poiché era in gioco il suo stesso benessere, e lei era chiaramente ansiosa ed empatica; ma l'ira empatica appare comunque presente. Infine, i terapeuti possono avvertire rabbia empatica se un paziente gli racconta di avere subito maltrattamenti e abusi. Una terapeuta diede la seguente risposta (non verbalizzata) alla descrizione da parte di una bambina profondamente angosciata, benché non incollerita, degli abusi cui era stata sottoposta da suo padre: «Che schifoso maiale! Trattare così una bambina innocente! È terribile che nessuno l'abbia aiutata». La rabbia empatica è una motivazione prosociale? In una lettera al «New York Times» è stata formulata l'ipotesi che la rabbia empatica sia una motivazione prosociale più efficace della sofferenza simpatetica: «Le immagini di bambini affamati in Etiopia stringono il cuore, ma rattristarsi non basta ... inviamo un assegno, le immagini scompaiono dalla TV, e presto dimentichiamo che milioni di bambini stanno morendo ... Dovremmo piuttosto scandalizzarci che in un mondo di abbondanza vi sia ancora chi muore di fame. L'indignazione muove all'azione» («New York Times», febbraio 1985, Dl). E la citazione precedente di John Stuart Mili dice la stessa cosa: la giustizia richiede l'ira empatica. Purtroppo, non vi sono ricerche relative all'influenza dell'ira empatica sull'azione prosociale. Tuttavia, dal momento che la rabbia, quando siamo minacciati, «mobilita le nostre energie e ci permette di difenderci vigorosamente» [Izard 1977, 33 3], è probabile che anche la rabbia empatica che avvertiamo quando ad essere minacciato è qualcun altro mobiliti le nostre energie e ci permetta di difendere la vittima. Gli esempi precedenti fanno pensare che la rabbia empatica sia effettivamente una motivazione prosociale, e lo stesso suggeriscono questi brani delle interviste fatte da Oliner e Oliner [1988] a tedeschi che avevano aiutato degli ebrei perseguitati dai nazisti: 129
Penso che vi fosse un duplice sentimento, di compassione verso gli ebrei e rabbia verso i tedeschi [ibidem, 118]. Quando cominciarono a portare via gli ebrei, mi ribellai. Non potevo sopportarlo. Li odiavo con tutte le forze perché portavano via persone innocenti, perfino i bambini piccoli. Se la prendevano con persone innocenti, e io volevo aiutarle [ibidem, 143]. Nessuno avrebbe toccato quei bambini. Avrei ucciso chi ci avesse provato [ibidem]. Queste citazioni illustrano anche il tipo «duplice» di rabbia empatica. In conclusione, dovrebbe essere chiaro che a volte l'osservatore può avvertire rabbia empatica senza che vi sia un reale colpevole, e altre volte può non avvertirla benché il colpevole vi sia. Quanto alla prima possibilità, se osserviamo delle persone bisognose in un contesto nel quale qualcun altro esibisce lusso e ricchezza, possiamo assumere il punto di vista del gruppo svantaggiato e avvertire sofferenza empatica per quest'ultimo e rabbia empatica per i membri del gruppo più abbiente perché questi ultimi, anche se non volevano far male a nessuno, avevano l'aria di chi vuole ostentare la propria ricchezza. Per quanto riguarda la seconda possibilità, così scrive una studentessa: Lavoravo con una donna che aveva una settantina di anni. Poiché era più anziana delle altre, di solito era più lenta, e spesso il suo capo la sgridava davanti ai pazienti nella sala d'aspetto e la umiliava per un nonnulla. Lei restava in silenzio, ma poi si rifugiava nel bagno e si consumava gli occhi dal piangere. Mi faceva molta pena e spesso cercai di immaginare che cosa avrei provato a stare al suo posto. Sinceramente, penso che sarebbe orribile lavorare in una situazione del genere e odierei essere umiliata di fronte a tanta gente. Spesso provavo pena per lei, pensando a tutto quello che doveva sopportare ogni giorno. Vi è qui sofferenza empatica/simpatetica in abbondanza, ma la rabbia empatica è assente.
3. Il senso di colpa dello spettatore per inazione Un osservatore empatico può vedere che la v1tt1ma ha bisogno di aiuto e può pensare che lo meriti, e tuttavia può non prestare aiuto a causa di forti motivazioni egoistiche, ad
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esempio la paura o il desiderio di non immischiarsi. Oliner e Oliner [1988], come abbiamo già visto, intervistarono tedeschi che avevano aiutato gli ebrei perseguitati dai nazisti e tedeschi che non lo avevano fatto; di questi ultimi, quelli che erano più empatici riconobbero nella paura la causa prima della loro inerzia. In ogni caso, un osservatore innocente può provare un sentimento di colpa quando vede che, con la sua inerzia, ha permesso che la sofferenza della vittima si producesse o proseguisse. Ciò significa che l' autobiasimo trasforma la sofferenza empatica dell'osservatore in senso di colpa. Si noti che questo senso di colpa non si deve all'aver provocato sofferenza nella vittima. Del senso di colpa per trasgressione, che si ha quando vi è una colpa che ricade sull'osservatore, parleremo nel capitolo sesto. A questo punto dell'analisi siamo ancora all'interno del modello dello spettatore innocente. Benché, come vedremo, il senso di colpa fondato sull'empatia muova ad azioni prosociali come scusarsi, riparare un torto e avere più riguardo per gli altri [Baumeister, Stillwell e Heatherton 1994], poche ricerche hanno studiato specificamente il senso di colpa per inazione. Tuttavia, vi sono aneddoti a sufficienza per concludere che il senso di colpa per inazione sia reale e agisca come una motivazione morale prosociale: 1'80 per cento dei soggetti di Schwartz [1970], donatori di midollo osseo, dichiararono che se non lo avessero fatto si sarebbero sentiti colpevoli; e molti dei soggetti di uno studio di Eisenberg-Berg e Neal [1979], cui era stata data l'opportunità di aiutare una persona in difficoltà e l'avevano effettivamente aiutata, spiegarono poi che lo avevano fatto perché altrimenti si sarebbero sentiti infelici. Vi sono altre prove aneddotiche sparse: alcuni attivisti bianchi impegnati nella lotta per i diritti civili negli anni Sessanta dichiararono che se non avessero fatto nulla si sarebbero sentiti colpevoli, perché avrebbero lasciato che la discriminazione a danno dei neri degli stati del Sud proseguisse [Keniston 1968]; un tedesco che aveva salvato degli ebrei dalla persecuzione nazista affermò: «Se non li avessimo aiutati, sarebbero stati uccisi. Non potevo sopportare questa idea. Non avrei mai potuto perdonarmi» [Oliner e Oliner 1988, 168]; ed un altro tedesco, che pure aveva salvato degli ebrei, disse: «Sapevo che li stavano portando via e che non sarebbero più tornati. Non 131
credo che avrei potuto sopportare quella situazione sapendo che avrei potuto fare qualcosa» [ibidem, 168]. Ecco tre altri esempi, più vicini alla vita quotidiana. Una studentessa racconta un episodio avvenuto sulla metropolitana: «La donna continuava a maltrattare il bambino. Sapevo che mi sarei sentita colpevole se non avessi fatto nulla. Così presi le chiavi per farlo divertire. Lui rispose. La madre cambiò atteggiamento, e io mi sentii veramente bene». Un'altra studentessa racconta: Un giorno dell'estate scorsa andai in piscina. Ero appena uscita dall'acqua quando vidi un bambino di circa 3 anni che piangeva tra la gente. Continuava a invocare la mamma. Pensai che si fosse perduto e mi sentii male. Una ridda di immagini mi attraversarono la mente, pensai che se non lo avessi aiutato qualcuno lo avrebbe portato via e gli avrebbe fatto del male. Se non avessi fatto nulla e poi fossi venuta a sapere che era morto sarebbe stato terribile, così mi avvicinai e lo aiutai a ritrovare la madre.
Una studentessa di scuola superiore racconta di una sua compagna sistematicamente rifiutata dagli altri membri della classe: «Mi sarei sentita colpevole se non mi fossi seduta accanto a lei, anche se la prospettiva non era molto allettante». In una delle mie prime ricerche sul senso di colpa [Hoffman 1970a], chiedevo ai soggetti di completare una storia nella quale il ben intenzionato protagonista (medesima età e medesimo sesso del soggetto) sta andando in tutta fretta al cinema insieme con un amico e vede un bambino che sembra essersi perduto. Il protagonista propone di aiutare il bambino, ma l'amico lo dissuade. Il giorno dopo viene a sapere che il bambino (che era stato lasciato solo dalla baby-sitter) era poi finito in mezzo alla strada ed era stato investito e ucciso. C'era anche una versione per adulti nella quale una persona anziana cercava un oggetto smarrito nella neve. Nei finali di loro invenzione, la maggior parte dei soggetti (bambini di quinta e settima classe e i rispettivi genitori) immaginavano che il protagonista si sentisse profondamente colpevole per non essere intervenuto e aver permesso che la tragedia si compisse. Il senso di colpa per inazione includeva spesso sentimenti di sofferenza empatica per il bambino o per i suoi genitori, e favoriva azioni prosociali come aiutare i genitori (tagliare il prato, sbrigare commissioni), darsi da fare per aiutare un altro bambino e offrirsi ai geni132
tori come baby-sitter gratis. In genere i bambini più grandi e gli adulti immaginavano che il protagonista si rimproverasse («Come ho potuto essere tanto egoista?») e si ripromettesse per il futuro di cambiare la propria scala di valori e pensare di più agli altri. Il senso di colpa era seguito da atti di riparazione o dalla ristrutturazione della scala di valori, ma vi era anche un'altra prova del suo agire come motivazione: la sua intensità diminuiva dopo un atto riparatore, ma restava invariata se questo mancava, il che ricorda la riduzione della sofferenza empatica dopo l'aiuto (che abbiamo analizzato nel cap. II). Anche quando l'osservatore cerca di dare aiuto, è possibile che si senta colpevole di non avere fatto qualcosa per impedire fin dal principio che l'evento si verificasse, o di avere fallito nei suoi tentativi di aiuto, o di avere esitato prima di passare all'azione. Può sentirsi colpevole di non avere fatto qualcosa per evitare l'evento perché suppone che esso avrebbe potuto essere evitato; in altri termini, elabora un «pensiero controfattuale»: immagina scenari alternativi nei quali una sua azione avrebbe potuto cambiare l'esito finale, dopo di che passa dall' «avrei potuto» all'«avrei dovuto» e si sente colpevole [Davis et al. 1996; Sanna e Turley 1996]. L'osservatore che cerca di dare aiuto può sentirsi colpevole se i suoi sforzi sono vani e non riesce a soccorrere la vittima, anche se l'insuccesso è facilmente comprensibile e del tutto giustificabile [Batson e Weeks 1996]. Data questa tendenza dello spettatore a sentirsi colpevole, sembra logico supporre che coloro che esitano prima di dare aiuto possano sentirsi colpevoli, poiché il ritardo fa sì che la vittima continui a soffrire. Posto che ciò sia vero, si può supporre che gli osservatori siano sempre vulnerabili al senso di colpa, salvo che in situazioni di emergenza, quando agiscono immediatamente ed evitano che la vittima abbia un danno. E il senso di colpa che l'osservatore sperimenta per avere esitato ad aiutare, per avere tentato di farlo senza successo o per non avere impedito l'evento fin dal principio, può accrescere la sua motivazione a dare aiuto in casi simili nel futuro. In questo modo, il senso di colpa si autorinforza e contribuisce all'ulteriore «apprendimento» del senso di colpa come motivazione prosociale. Il senso di colpa per inazione implica un grande sforzo cognitivo, giacché non solo richiede che l'osservatore sia cosciente della sofferenza della vittima, ma anche che immagini
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che cosa avrebbe dovuto fare per aiutarla o per impedire il danno. Perciò ci si può aspettare che il senso di colpa per inazione aumenti con l'età, che è quel che effettivamente indicano alcuni studi. Williams e Bybee [1994] chiedevano a studenti di quinta, ottava e undicesima classe di descrivere dei «casi in cui ti sei sentito male per non avere fatto qualcosa». Mentre solo 1'8 per cento degli studenti di quinta e ottava classe descriveva una o più situazioni nelle quali si era sentito in colpa per non avere aiutato qualcuno, tra gli studenti di undicesima classe la proporzione era del 20 per cento. Questi dati possono però essere fuorvianti: quelli sul completamento di storie che abbiamo citato sopra indicano che la maggior parte degli studenti di quinta possono sentirsi molto colpevoli se gli effetti della loro inazione sono gravi. Ciò accade anche quando potrebbero essere incolpate altre persone (l'amico che aveva dissuaso il protagonista, il guidatore dell'automobile, la baby-sitter irresponsabile, i genitori che l'avevano assunta). Senso di colpa anticipatorio per inazione. Siccome siamo esseri cognitivi, una volta che ci sia accaduto di provare senso di colpa per inazione, abbiamo più probabilità di aspettarci che proveremo senso di colpa la volta successiva. Il senso di colpa anticipatorio dovrebbe perciò accompagnare la sofferenza empatica nella maggior parte delle situazioni dello spettatore, come nel caso dei tedeschi che avevano aiutato degli ebrei («Sapevo che mi sarei sentito colpevole se non avessi fatto qualcosa»; «Non credo che avrei potuto sopportare quella situazione sapendo che avrei potuto fare qualcosa»). Una possibile eccezione è quella delle situazioni di emergenza nelle quali non v'è tempo per riflettere e per aspettarsi il senso di colpa, come nel caso seguente. Un'autobotte che trasportava benzina si rovesciò e prese fuoco su un'autostrada di Long Island. Il veicolo era avvolto dalle fiamme e l'autista aveva perso i sensi, quando un automobilista di passaggio si fermò e lo estrasse dalla cabina, che avrebbe potuto esplodere da un momento all'altro. Come ebbe a dire più tardi, in quel momento la sua mente era stata attraversata dall'immagine dell'uomo nella cabina in fiamme, e sapeva che se nel camion ci fosse stato lui avrebbe desiderato che qualcuno lo salvasse - non aveva avuto il tempo di pensare ad altro. Se non avesse aiutato il camionista o avesse cercato di farlo senza successo, è possibile che l'automobilista si sarebbe poi 134
sentito colpevole, ma non c'era tempo per riflettere, e il senso di colpa anticipatorio può non essere stato, in questo caso, la motivazione per rischiare la vita. Questi aneddoti non dicono nulla dei casi in cui gli spettatori non si sentono colpevoli per inazione o dei casi in cui essi si difendono dal senso di colpa. Ho menzionato l'ipotesi di Staub che quando qualcuno si rende conto di non poter fare nulla, molte volte finisca con l'incolpare la vittima, come forma di distanziamento e per sfuggire al senso di colpa. Possiamo solo immaginare quanti dei milioni di tedeschi che non aiutarono gli ebrei, di fronte al proprio senso di colpa, se la presero con le vittime o, semplicemente, se ne infischiarono. Senso di colpa e rabbia. Ecco un insolito esempio che sembra combinare il senso di colpa per inazione con la rabbia empatica, e che mostra quanto possa essere difficile distinguere la rabbia empatica dalla rabbia diretta e dal tipo di rabbia giustificata che può occultare quella diretta. Un collega chiese ai suoi studenti di descrivere «una situazione recente nella quale ti sei sentito colpevole per qualcosa che hai fatto o che non hai fatto. Sii il più dettagliato possibile». Uno studente rispose: «Mi sono sentito colpevole per non avere levato prima la voce contro le inutili sofferenze degli animali di laboratorio. I cosiddetti "ricercatori" (psicologi compresi) UCCIDONO OGNI ANNO CENTODIECI MILIONI DI ANIMALI. Però io intendo LOTTARE CON TUTTE LE MIE FORZE PER FERMARE QUESTI ASSASSINI. ANCHE GLI ANIMALI HANNO SENTIMENTI!». Rispondendo alla domanda «Con quale frequenza ti senti in colpa?», lo studente contrassegnò la casella «Molto spesso», e aggiunse «Ogni volta che vedo prove della tortura». Alla domanda «Quali sono state le tue reazioni?», lo studente rispose: «Scrivere lettere al Congresso per caldeggiare l'approvazione della legge congressuale HR 4805 per la modernizzazione della sperimentazione sui primati». Alla domanda «Perché credi di esserti sentito colpevole?», rispose: «AMO GLI ANIMALI». Alla domanda «In quel momento avevi qualche altra idea sul perché ti sentivi colpevole?», la risposta fu: «Sì, immaginavo il mio gatto sconvolto, torturato, reso aggressivo, accecato, privato di cibo e acqua, ed ero ESTREMAMENTE ARRABBIATO». Domanda: «Che penseresti se qualcosa di quello che hai fatto o evitato di fare non avesse avuto effetto?». 135
Risposta: «[CHE] NON [ERA] ABBASTANZA. DEVO FARE DI PIÙ PER FERMARE LA TORTURA. Tuttavia credo che le persone siano fondamentalmente buone (psicologi compresi). Se prendono coscienza della tortura, del dolore e della sofferenza di questi animali, gli ASSASSINI SI FERMERANNO» (maiuscolo nell'originale). Mi sembra che queste ripetute giustificazioni morali prosociali e ammissioni di colpa da parte di quel soggetto fossero, almeno in parte, scuse per esprimere rabbia. Che ciò sia vero o meno, l'esempio consiglia cautela nell'interpretare le azioni o le parole di qualcuno come rabbia empatica. 4. Sentimento empatico di ingiustizia Oltre che fare attribuzioni causali, le persone cercano anche di stabilire se la vittima abbia meritato la sua sorte. Le inferenze che compiono a questo scopo, che di solito riguardano il carattere o il comportamento della vittima e si basano sulla sua reputazione personale o su stereotipi relativi al suo gruppo etnico o alla sua classe sociale, possono influenzare la risposta empatica dell'osservatore. Se la vittima è considerata cattiva, immorale o pigra, gli osservatori possono concludere che la sua è stata una sorte meritata, e la loro sofferenza empatica/simpatetica può mitigarsi. Ma se la vittima è considerata fondamentalmente buona, gli osservatori possono concludere che la sua sorte è stata immeritata o ingiusta, e la sofferenza empatica/simpatetica, la rabbia empatica o il senso di colpa possono acuirsi. In questo secondo caso, gli osservatori possono concludere che la vittima ha subito un'ingiustizia («non reciprocità» tra atti e conseguenze). Ciò può trasformare la loro sofferenza empatica in un sentimento empatico di ingiustizia, che comprende una motivazione a raddrizzare il torto. Zillman e Cantor [1977] hanno osservato che gli alunni di quinta e sesta classe provavano empatia per le vittime che erano state descritte in termini neutrali o come benevole, ma non per quelle descritte come malevole. Coles [1986] illustra il sentimento di ingiustizia empatica attraverso l'esempio reale di uno studente bianco di 14 anni di uno stato del Sud. Questo ragazzo, un apprezzato sportivo, per alcune settimane aveva boicottato insieme con i suoi amici 136
l'integrazione scolastica degli studenti di colore. Ecco il suo racconto: Mi accorsi di un ragazzo, non uno di quei negri, ma un tipo che sapeva fare buon viso a cattiva sorte, che teneva la testa alta e la schiena dritta, e perfettamente educato. Dissi ai miei genitori: «È dawero vergognoso che una persona come lui debba pagare per i guasti provocati da tutti quei giudici federali». Poi successe qualcosa. Vidi alcune persone che lo insultavano. «Sporco negro!» non smettevano di gridare, e lo spinsero in un angolo. Le cose sembravano mettersi male, molto male. Intervenni e misi fine alla zuffa ... Tutti mi guardarono come se fossi impazzito ... Prima [che tutti se ne andassero] mi rivolsi a quel negro ... Non era mia intenzione ... le parole mi uscirono di bocca da sole. Io stesso fui sorpreso nel sentirle: «Scusa» [ibidem, 27-28].
Dopo questo episodio, il ragazzo bianco cominciò a parlare con il ragazzo di colore e a difenderlo personalmente pur continuando a condannare l'integrazione razziale. Alla fine gli divenne amico e cominciò a caldeggiare la «fine di tutto il disgustoso affare della segregazione». Quando Coles gli chiese insistentemente di spiegare il suo mutamento, egli lo attribuì al fatto che quell'anno, a scuola, aveva visto «quel ragazzo continuare a comportarsi bene, qualunque cosa gli dicessimo, e nonostante fosse bersaglio di ogni sorta di insulto. Vi fu qualcosa dentro di me che disse basta, e qualcosa cominciò a cambiare, penso» [ibidem, 28]. È evidente che quel ragazzo bianco sperimentò sofferenza empatica, rabbia empatica e senso di colpa. Ma, si direbbe, quel che più lo influenzò fu il contrasto fra la condotta ammirevole del ragazzo nero e il modo in cui veniva trattato (come se pensasse che la vittima fosse una persona eccellente che meritava qualcosa di meglio). La mia interpretazione è che l'evidente mancanza di reciprocità tra condotta e conseguenze avesse trasformato la sofferenza empatica/simpatetica del ragazzo bianco in un sentimento empatico di ingiustizia2; sentimento, 2 L'opinione di Gibbs al riguardo [1991) è differente dalla mia [Hoffman 1991). A suo giudizio, la discrepanza tra la condotta della vittima e ciò che gli accade mette gli osservatori a disagio per due ragioni indipendenti: perché
l'osservatore prova empatia per la vittima, e perché la discrepanza contraddice la motivazione puramente cognitiva dell'osservatore a favore della reciprocità. Tratteremo più ampiamente l'empatia e la reciprocità nel capitolo nono.
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questo, che ha una speciale importanza perché può mettere in relazione la sofferenza empatica con i principi di giustizia, come vedremo nel capitolo nono.
5. Mutamenti di attribuzione causale Nel capitolo secondo abbiamo visto con quanta rapidità agiscano le diverse modalità di attivazione empatica, non solo quelle preverbali (condizionamento, mimesi, associazione), ma anche l'associazione mediata e l'assunzione di ruolo, grazie alla velocità dell'elaborazione cognitiva. La mia ipotesi è che la stessa rapidità caratterizzi le attribuzioni causali e i passaggi da un'attribuzione all' altra 3 • Ecco un esempio di una serie di attribuzioni causali che si susseguono l'una all'altra in meno di un minuto; mi è stato raccontato da uno studente che penso di poter definire, a ragion veduta, come una persona insolitamente empatica. C'era stato un incidente, lui era arrivato sul posto subito dopo, e aveva potuto vedere il guidatore di una lussuosa auto sportiva che veniva caricato in barella su un'ambulanza. Ecco il suo racconto: Dapprima pensai che la cosa più probabile era che fosse un ragazzo ricco e viziato che si era messo alla guida sotto l'effetto di droghe o alcol, e non sentii nulla per lui. A questo punto però considerai che forse ero stato ingiusto, che forse stava correndo per un'emergenza, magari per portare qualcuno all'ospedale, e allora provai pena. Ma poi riflettei che questo non lo giustificava, anche in una situazione di emergenza avrebbe dovuto fare più attenzione, e i miei sentimenti si affievolirono. Solo allora mi resi conto che forse quell'uomo stava morendo e di nuovo sentii molta pena per lui.
Questa risposta illustra al tempo stesso la tendenza umana a compiere attribuzioni causali, la rapidità con cui nelle situazioni ambigue si passa da un'attribuzione causale a un'altra, il rapido avvicendarsi dei sentimenti che ne risulta. Essa mostra anche, come alcuni dei miei esempi precedenti, che incolpare 3 I mutamenti di attribuzione causale possono anche protrarsi nel tempo, come nel caso della giovane donna che abbiamo descritto sopra, che gradualmente passò dal provare empatia verso la madre e rabbia empatica verso il padre all'incolpare la madre perché non si faceva rispettare.
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la vittima non è incompatibile con la sofferenza empatica/simpatetica. E può darsi che i mutamenti nei processi di pensiero di quello studente fossero ancora più complessi, e che lui non ne fosse consapevole perché erano troppo rapidi. Per capire perché una persona empatica come lui avesse per prima cosa incolpato la vittima, gli chiesi qualche dettaglio su che cosa aveva provato non appena era giunto sul luogo dell'incidente. Di colpo si ricordò che la sua risposta immediata era stata «una sensazione di shock molto dolorosa», seguita subito dopo da attribuzioni dispregiative. Credo che la «sovrattivazione empatica» fosse stata abbastanza dolorosa da trasformare la sofferenza empatica in sofferenza personale, e che il disprezzo dell'osservatore per la vittima fosse una difesa cognitiva che riduceva temporaneamente la sua sofferenza personale in modo da rendere la situazione più tollerabile. Ciò gli dava la possibilità di assumere il controllo delle proprie emozioni e gli permetteva di reagire alla cruda realtà della condizione della vittima, che era ancora sotto i suoi occhi, e di provare nuovamente empatia, stavolta senza che vi fosse bisogno di disprezzare la vittima. In altri termini, l'attribuzione dispregiativa era tanto una conseguenza (della sovrattivazione empatica) quanto una causa (della riduzione dell'empatia); o, che è lo stesso, era una difesa temporanea contro la sovrattivazione empatica. Il conflitto tra la sofferenza empatica dolorosamente spiacevole provocata dalla presenza della vittima e la motivazione dell'osservatore ad evitare quella sofferenza poteva avere causato, pertanto, quel rapido susseguirsi di attribuzioni causali. È interessante che lo studente, nel suo resoconto iniziale, muovesse da un'attribuzione causale a un'altra e ricordasse l'aumento o il decremento della sofferenza empatica provocato dalle diverse attribuzioni. Non ricordava invece nulla dell'influenza della sofferenza empatica sulle sue attribuzioni, né ricordava, che è lo stesso, che la sovrattivazione empatica potesse averlo indotto a incolpare la vittima. In altre parole, era cosciente dell'effetto delle attribuzioni sui suoi sentimenti, ma non dell'effetto di questi sulle sue attribuzioni - un bias di superiorità della cognizione che può rispecchiare l'importanza che la nostra società annette alla razionalità.
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CAPITOLO QUINTO
SENSO DI COLPA E INTERIORIZZAZIONE MORALE
Passiamo ora dal modello dello spettatore innocente a un modello nel quale l'osservatore danneggia un'altra persona, o pensa che ciò che sta facendo può danneggiarla - cioè compie un atto di trasgressione. Le trasgressioni possono essere provocate, deliberate, accidentali, effetti secondari di un conflitto, o di violazioni delle legittime aspettative altrui. Il problema morale è se il trasgressore è motivato ad evitare l'atto dannoso o, almeno, si sente colpevole per averlo commesso e agisce poi in modo prosociale, e se si comporta così anche in assenza di osservatori - il tratto distintivo dell'interiorizzazione morale. Questo capitolo, pertanto, ha per oggetto il senso di colpa e l'interiorizzazione morale. Come il modello dello spettatore è il prototipo di incontro morale per ciò che riguarda l'empatia, e specialmente la sofferenza empatica, così il modello della trasgressione è il prototipo di incontro morale per ciò che riguarda il senso di colpa su base empatica, e specialmente il senso di colpa per trasgressione su base empatica. Il senso di colpa per trasgressione si distingue dal senso di colpa dello spettatore per inazione e dal «senso di colpa virtuale», di cui parleremo nel capitolo settimo. Il modello della trasgressione è anche l'incontro morale prototipico dell'interiorizzazione morale. Il senso di colpa su base empatica è la motivazione prosociale più importante nelle trasgressioni che comportano un danno per gli altri, ed è al centro di questo capitolo. Dopo avere introdotto il senso di colpa su base empatica, presenterò le prove della sua esistenza e del suo agire come una motivazione sociale, e analizzerò il suo sviluppo. Riassumerò poi le teorie dell'interiorizzazione morale, e illustrerò l'importanza della socializzazione, e specialmente della disciplina, per il senso di colpa e l'interiorizzazione morale (ciò che servirà da introduzione al cap. VI). 143
l. Senso di colpa
La prima spiegazione evolutiva del senso di colpa fu proposta da Freud. Curiosamente, secondo Freud il senso di colpa non è dovuto al fatto di avere danneggiato qualcuno, ma è un ritorno, in larga parte inconscio, alla prima fanciullezza, e nasce dall'angoscia che il bambino prova di fronte alla possibilità di essere punito o di perdere l'amore dei genitori. Quando questa angoscia è suscitata da sentimenti di ostilità, in un primo momento verso i genitori ma poi verso qualunque persona, si trasforma in senso di colpa anche se i sentimenti ostili non sono espressi. Nelle parole di Freud, «una minacciosa infelicità esterna - perdita dell'amore e punizione da parte dell'autorità esterna - è stata barattata con una permanente infelicità interna, la tensione che nasce dal senso di colpa». Freud riconosceva il carattere patologico di questo senso di colpa e attribuiva agli esseri umani anche un senso di colpa più collegato alla realtà; né lui né i suoi seguaci elaborarono però una concezione alternativa del senso di colpa e del suo sviluppo [Hoffman 1970a]. Questo carattere patologico può spiegare la cattiva reputazione del senso di colpa e perché esso sia stato a lungo trascurato dagli psicologi accademici. Verso la fine degli anni Sessanta, ho proposto una teoria del senso di colpa interpersonale più costruttiva e fondata sull'empatia. Il senso di colpa vi è definito come un doloroso sentimento di disistima di sé, accompagnato solitamente da un senso di urgenza, tensione e rammarico, che scaturisce da un sentimento empatico verso una persona sofferente, combinato con la coscienza di essere la causa di quella sofferenza [Hoffman 1982b; Hoffman e Saltzstein 1967]. Per non sentirsi colpevole, una persona può evitare di compiere atti dannosi, o, se ne ha commessi, può risarcire la vittima nella speranza di cancellare il danno e ridurre il sentimento di colpa. (Per un'estensione al dominio clinico della formula empatia-senso di colpa, vedi Friedman [1985].) Negli ultimi decenni, un corpo di ricerche piuttosto ampio ha confermato sia la realtà del senso di colpa su base empatica, sia l'ipotesi che esso agisca come una motivazione morale prosociale.
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1.1. Prove del senso di colpa su base empatica Vi sono vari tipi di prove che dimostrano l'esistenza di un senso di colpa su base empatica - prove fornite da ricerche di tipo narrativo, correlazionale e sperimentale. Prove narrative sono presentate da Tangney e colleghi [1996], i quali hanno trovato che nel descrivere la loro esperienza del senso di colpa, tanto i bambini quanto gli adulti esprimono spesso sentimenti empatici. Ho notato la stessa cosa alcuni anni fa, in uno studio sul senso di colpa nel quale i soggetti dovevano completare una storia (su questo studio torneremo più avanti). Tangney e colleghi hanno anche riportato significative correlazioni positive tra test carta e matita dell'empatia e del senso di colpa in studenti universitari, in alunni di quinta classe e nei rispettivi genitori e nonni di ambo i sessi [Tangney 1991; Tangney et al. 1991]. Prove correlazionali indirette del senso di colpa su base empatica sono evidenti nelle ricerche degli anni Settanta e Ottanta sulla disciplina genitoriale, che mostrano che tanto la sofferenza empatica del bambino quanto il suo senso di colpa sono correlati positivamente con lo stesso tipo di disciplina genitoriale (quella induttiva, di cui parleremo nel cap. 6); punta nella stessa direzione la recente scoperta dell'esistenza di una correlazione positiva tra l'empatia e il senso di colpa nei bambini i cui genitori ricorrono spesso a induzioni [Krevans e Gibbs 1996]. Quanto alle prove sperimentali, in uno studio di Okel e Mosher [1968] degli studenti universitari maschi erano indotti a insultare un compagno (complice dello sperimentatore), che si mostrava ferito dagli insulti. I soggetti più empatici riferirono poi di essersi sentiti colpevoli per avere insultato la vittima e aggiunsero che non lo avrebbero fatto se avessero saputo prima quanto la vittima ne avrebbe sofferto. Thompson e Hoffman [1980] narrarono a bambini di prima, terza e quinta classe (con l'aiuto di diapositive) delle storie nelle quali un bambino arrecava danno a un'altra persona. I soggetti nei quali si era stimolata l'empatia chiedendo che cosa avesse provato la vittima ottennero punteggi più elevati dei soggetti di controllo, ai quali non era stato chiesto di pensare alla vittima. Entrambi gli studi mostrano che l'attivazione empatica contribuisce allo sviluppo del senso di colpa per trasgressione.
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Vi sono anche prove relative allo sviluppo. I primi stadi dello sviluppo della sofferenza empatica nei bambini piccoli (toddlers, di età compresa tra 1 e 3 anni) quando sono testimoni della sofferenza di un'altra persona in ambienti naturali (la casa o il nido d'infanzia) somigliano, sotto diversi aspetti, ai primi stadi dei comportamenti che prefigurano il senso di colpa quando quei bambini causano sofferenza in un'altra persona negli stessi ambienti naturali [Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King 1979; Zahn-Waxler et al. 1992]. Nel secondo anno, accade più spesso che il bambino, o la bambina, aiuti spontaneamente e lo stesso awiene con gli atti di riparazione: quando causa sofferenza in un'altra persona, il bambino cerca di riparare ed esprime preoccupazione, come se si sentisse colpevole. Per esempio, una bambina di 18 mesi urtò accidentalmente la sua baby-sitter e disse: «Scusa, Sally», le accarezzò la fronte e le diede un bacio; e una bambina di 2 anni che era stata rimproverata dalla madre per avere tirato i capelli alla cuginetta, le si awicinò e disse: «Ti ho fatto male ai capelli, per favore non piangere», scoccandole un bacio. Concludo con le parole di un adulto, raccolte da Finnegan [1994], che, oltre alla stretta relazione tra l'empatia e il senso di colpa, esemplificano le ripercussioni a lungo termine del senso di colpa fondato sull'empatia. Quest'uomo era stato membro della giuria in un processo per rapina. Quando tornò al suo lavoro di giornalista, ripensò ad alcuni dettagli che erano stati trascurati durante il processo. Intervistò approfonditamente e a lungo i testimoni e il condannato, e giunse a dubitare del verdetto di colpevolezza che aveva spedito quell'uomo in carcere per diversi anni. Dichiarò che «moralmente» provava «orrore di fronte all'evidente possibilità che lo avessimo fatto finire in galera per qualcosa che non aveva fatto. La confortevole distanza tra giurato e imputato ... era stata improwisamente annullata dalla semplice compassione, e la sofferenza che riferì di provare era terribilmente intensa» [ibidem, 64-65].
1.2. Senso di colpa come motivazione prosociale Vi sono solide prove che il senso di colpa per trasgressione su base empatica muova ad atti prosociali come scusarsi con 146
la vittima e riparare il danno, ma anche aiutare altre persone oltre alla vittima - si veda l'analisi di Baumeister, Stillwell e Heatherton [1994]. Sembra inoltre che il senso di colpa favorisca il comportamento prosociale particolarmente nei bambini molto empatici [Krevans e Gibbs 1996]. Inoltre, nelle relazioni strette il senso di colpa su base empatica può indurre a prestare più attenzione all'altro, a cambiare comportamento per adattarsi alle sue necessità e aspettative e, a volte, a confessare, esprimendo l'impegno a salvaguardare la relazione e a non ripetere la trasgressione [Baumeister, Stillwell e Heatherton 1994]. In uno studio di completamento di storie, a sessanta soggetti tra l'età prescolare e la sesta classe venivano presentate storie nelle quali un bambino faceva male a un altro bambino [Chapman et al. 1987]. I soggetti che attribuivano al bambino della storia un senso di colpa («È triste perché lo ha fatto cadere») avevano più probabilità di aiutare gli altri in varie situazioni sperimentali rispetto ai soggetti che non facevano tale attribuzione («È contento che sia caduta», «Non si è fatta veramente male»). Era anche più probabile che esprimessero preoccupazione per lo sperimentatore quando mostrava di essersi fatto male alla schiena, che si mettessero in cerca del biberon di un bambino che piangeva, e che aiutassero lo sperimentatore a liberare un gattino da una gabbia per dargli da mangiare. La correlazione positiva tra l'attribuzione di un senso di colpa al bambino della storia e gli indicatori di aiuto era evidente in tutti i gruppi d'età. Nel capitolo quarto ho osservato che alcuni dei soggetti più grandi dei miei esperimenti di completamento di storie, quando l'inazione del protagonista conduceva alla morte della vittima, immaginavano finali nei quali il protagonista si impegnava a modificare la propria scala di valori e a preoccuparsi degli altri. Non mancano esempi reali di questa trasformazione personale in risposta a quello che è chiaramente un senso di colpa per trasgressione su base empatica; non saprei trovare esempio migliore del resoconto autobiografico di George Orwell [ 195 8], negli anni Venti del secolo scorso giovane funzionario della polizia britannica in India: Gli infelici detenuti accoccolati ... le facce grigie, sottomesse dei condannati a molti anni, le natiche coperte di cicatrici degli uomini
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flagellati a colpi di bambù, donne e bambini ululanti di dolore quando i loro uomini erano condotti via da un mandato di arresto - cose come queste sono al di là di ogni sopportazione quando uno se ne senta in un modo o nell'altro responsabile [ibidem; trad. it. 1982, 163-164]. [Quando tornai in patria per una licenza] ero consapevole di un immenso peso di colpa che dovevo espiare ... Avevo ridotto ogni cosa alla semplice teoria che gli oppressi hanno sempre ragione e gli oppressori sono sempre nel torto; teoria errata, ma conseguenza naturale dell'essere voi stesso uno degli oppressori. Sentivo di dover sottrarmi non soltanto all'imperialismo ma ad ogni forma del dominio dell'uomo sull'uomo. Volevo sommergermi, scendere in mezzo agli oppressi, essere uno di loro e schierarmi al loro fianco contro i loro tiranni ... Il fallimento mi sembrava essere la sola virtù. Ogni sospetto di carriera, di «successo» nella vita anche nel senso di riuscire a guadagnare qualche centinaio di sterline all'anno, mi pareva spiritualmente turpe, una specie di prepotenza [ibidem; trad. it. 1982, 165-166].
1.3. Lo sviluppo del senso di colpa Quando un adulto maturo è consapevole di avere violato valori o principi morali interiorizzati avverte un senso di colpa su base empatica. Il principio qui in gioco - che dovremmo prendere in considerazione il benessere altrui tanto quanto il nostro - è semplice, ma si complica non appena ci rendiamo conto che il benessere dell'altro include non solo il suo benessere fisico ma anche sentimenti e legittime aspettative per ciò che riguarda il comportamento nei suoi confronti (fiducia, lealtà, reciprocità): «Ecco, c'è questa ragazza che mi piace molto. L'altro giorno all'hotel quasi mi sono messo ad amoreggiare con un'altra ragazza ... Adesso provo una specie di senso di colpa e forse dovrei parlarle» [Tangney e Fischer 1995, 120]. Il principio si complica ulteriormente se si considerano le variabili che determinano la gravità della violazione e pertanto l'intensità del senso di colpa del trasgressore. Una delle variabili che determinano l'intensità del senso di colpa è ovviamente la gravità del danno arrecato alla vittima. Altre variabili: se il danno fosse accidentale o intenzionale; se l'atto dannoso fosse controllabile dal trasgressore, dovuto a pressioni esterne, o provocato dalla vittima; se, nel compierlo, il trasgressore avesse una scelta. Arrecare deliberatamente danno ad altri quando si 148
ha un controllo o si può scegliere è una trasgressione più grave che non il farlo accidentalmente, o sotto pressione esterna, o perché si è provocati. Queste variabili dovrebbero determinare l'intensità del senso di colpa maturo, che è il risultato finale del processo di sviluppo. Le ricerche sullo sviluppo indicano una progressione che va dalla prima fanciullezza, nella quale la gravità delle conseguenze è l'unica variabile che determina l'intensità del senso di colpa, alla media fanciullezza, quando alla gravità delle conseguenze si aggiungono - non meno importanti - la scelta e il grado di controllo, fino all'età adulta, nella quale la scelta e il grado di controllo sono variabili primarie e il senso di colpa è massimo quando viene violato intenzionalmente il principio astratto di tener conto degli altri [Baumeister, Stillwell e Heatherton 1994; Graham, Doubleday e Guarino 1984; Weiner, Graham e Chandler 1982]. Tuttavia, non credo che le intenzioni e la scelta siano sempre fattori primari e che la gravità delle conseguenze possa mai perdere tutta la sua influenza, neppure negli adulti. Chi non si sentirebbe colpevole se avesse travolto un bambino con l'auto, anche se in quel momento procedeva con prudenza e ben al di sotto della velocità consentita? Anche nelle situazioni più favorevoli e con tutte le circostanze attenuanti immaginabili, siccome il senso di colpa ha un fondamento empatico, è verosimile che, in maggiore o minor misura, sia sempre presente. Prerequisiti evolutivi del senso di colpa maturo. Una persona non si sentirà colpevole in forma matura per avere violato il principio di tener conto degli altri se non dopo avere raggiunto un livello di sviluppo abbastanza avanzato. La persona dovrà interiorizzare il principio e riconoscere i casi in cui si applica. Dovrà rendersi conto di avere violato il principio e comprendere la gravità del danno arrecato, ciò che presuppone, a sua volta, la capacità di riflettere sulle proprie azioni e comprendere i loro effetti presenti e futuri sul benessere altrui. Dovrà essere in grado di riflettere sulle proprie motivazioni e stabilire se la propria azione fosse involontaria oppure frutto di una scelta, una tentazione, una pressione esterna o una provocazione. E, infine, la persona non solo dovrà sentirsi colpevole ma anche essere cosciente di avere commesso un'infrazione e di essere personalmente responsabile del danno arrecato. 149
«Stadi» dello sviluppo del senso di colpa. Il senso di colpa maturo è molto distante dalle prime manifestazioni del senso di colpa e dei comportamenti che lo prefigurano (guilt-like). Queste prime manifestazioni soddisfano i requisiti minimi del senso di colpa su base empatica: la sofferenza empatica e la consapevolezza di avere causato danno a un'altra persona, che implica anche la consapevolezza delle ripercussioni delle proprie azioni sugli altri. In generale, si può supporre che il senso di colpa su base empatica si sviluppi allo stesso modo della sofferenza empatica: il senso di colpa per avere arrecato un danno o un dolore fisico a un'altra persona è seguito prima dal senso di colpa per avere ferito i suoi sentimenti, poi dal senso di colpa per averla danneggiata al di là della situazione immediata [Hoffman 19826]. Mascolo e Fischer [1995] hanno sviluppato e arricchito questo quadro di riferimento alla luce delle ricerche sull'emergere del senso di colpa, soprattutto quelle di Zahn-Waxler e colleghi, e hanno proposto il seguente schema di sviluppo: 1. A partire dagli 8 o 9 mesi, il bambino o la bambina prova sofferenza empatica quando una sua azione intenzionale (una botta) fa piangere qualcuno, benché debba passare ancora un anno prima che tale sofferenza assuma la forma del senso di colpa. Le risposte che prefigurano il senso di colpa per avere causato un danno fisico a un'altra persona («Ho fatto del male a J ason») sono seguite da quelle per aver detto qualcosa di offen sivo (dopo avere detto «Che brutta torre», il bambino si accorge che J ason si è offeso e dice: «Ho fatto del male a J ason, J ason è triste»), e poi da quelle per non avere esaudito una richiesta (dopo avere rifiutato di dare a Jason dei cubi per costruire una torre, il bambino vede che J ason si è offeso e dice: «Ho fatto del male a Jason, Jason è triste» con tono di voce afflitto). Benché Mascolo e Fischer non ne facciano menzione, è significativo che il numero di atti riparatori prosociali compiuti da bambini che avevano danneggiato un'altra persona aumenti bruscamente tra 18 e 24 mesi d'età [Zahn-Waxler e Robinson 1995]. Ecco un esempio di una mia studentessa: Un giorno facevo da baby-sitter a mia cugina Ginny, una bambina di 21 mesi. Giocavo con lei afferrandola, sollevandola in aria e facendola ricadere delicatamente a terra. Dopo un po' mi stancai e la misi giù.
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Ma Ginny insisteva e fece un salto quando io era ancora china su di lei, e mi diede una testata sul mento. Cominciò a piangere. Mi sentii terribilmente colpevole e le dissi: «Ginny, scusami tanto». Poi mi resi conto che mi ero morsa il labbro, che si era spaccato e sanguinava. Anche Ginny se ne accorse; subito smise di piangere e disse: «Ginny ti ha fatto questo. Ginny ti ha fatto bua». Andai a prendere una salvietta in cucina e lei mi venne dietro; poi, quando mi sedetti, mi accarezzò la gamba e disse: «Ginny chiede scusa». Evidentemente, il disagio della bambina era soverchiato dalla sua sofferenza empatica e dal senso di colpa. A 24 mesi, il numero di atti riparatori è correlato positivamente sia con l'empatia sia con la capacità del bambino di riconoscersi allo specchio [Zahn-Waxler et al. 1992]. Questa osservazione conferma l'ipotesi che il senso di colpa su base empatica presupponga la capacità di riflettere sulle proprie azioni e susciti atti riparatori. Ma torniamo a Mascolo e Fischer. 2. Verso i 4 o 5 anni, il bambino comincia a rappresentarsi gli altri in forme più elaborate, tenendo conto delle esigenze della reciprocità sociale. Può afferrare così la relazione tra le azioni di un altro bambino e ciò che queste azioni richiedono di fare di rimando; e può sentirsi colpevole se non contraccambia. Mark chiede a un amico se può giocare con i suoi cubi di legno, l'amico acconsente, però poi Mark non lo fa giocare con i suoi cubi di plastica quando quello glieli chiede, e l'amico si mette a piangere. Mark si rende conto che l'amico piange per il suo rifiuto, e si sente colpevole per non aver contraccambiato. (Torneremo sul tema della reciprocità nei capp. IX e X.) 3. Tra 6 e 8 anni, il bambino si sente colpevole quando non adempie a un'obbligazione: ad esempio, quando non mantiene la promessa di fare visita a un amico malato, che ci resta male. Qui il senso di colpa è reso possibile dall'emergere di una sistema di rappresentazione capace di coordinare i bisogni dell'amico, la promessa fatta, l'inadempimento di questa e l'afflizione dell'amico, e, insieme, di riconoscere che questa afflizione è dovuta al proprio inadempimento della promessa. 4. Tra 10 e 12 anni, il bambino può sentirsi colpevole per avere violato una norma morale astratta e generale sul modo di trattare le altre persone. Può fare generalizzazioni a partire da eventi particolari e trarre conclusioni come: «Non ho mantenuto 151
le promesse che ho fatto ai miei amici», e così può imputare a se stesso una mancanza morale e sentirsi colpevole per avere violato la norma generale che prescrive di onorare gli accordi con gli amici. È come se si dicesse: «Ho deluso i miei amici: ho detto loro che avrei fatto una cosa e invece ne ho fatta un'altra». A questa età, il bambino può anche paragonarsi con gli altri e sentirsi colpevole per non avere rispettato le norme morali con lo stesso rigore e la stessa coerenza dei suoi amici. In altre parole, in questa fase il bambino è capace di sperimentare un senso di colpa su base empatica abbastanza maturo. Lo schema di sviluppo di Mascolo e Fischer è un primo, prezioso tentativo di integrare la capacità empatica del bambino con la sua capacità di rappresentare entità personali e sociali sempre più complesse (sentimenti di afflizione, reciprocità, adempimento/inadempimento di obbligazioni, norme astratte). Al centro di questo schema è l'influenza dello sviluppo cognitivo sul senso di colpa. La mia teoria dell'influenza della socializzazione è oggetto del capitolo sesto. Ci occupiamo ora dell'interiorizzazione morale.
2. J;interiorizzazione morale L'interiorizzazione morale affascina da molto tempo gli psicologi, probabilmente perché sintetizza il dilemma esistenziale umano: come affrontare l'inevitabile conflitto tra i bisogni egoistici e le obbligazioni sociali. A Freud e Durkheim dobbiamo non solo i concetti di «super-io» e di «rappresentazione collettiva», ma anche l'osservazione (condivisa ampiamente dagli scienziati sociali) che la maggior parte delle persone non vive le norme morali della società come un vincolo esterno, imposto in modo coercitivo, al quale doversi sottomettere. Benché in un primo momento le norme possano essere viste come un rimedio esterno spesso in conflitto con i nostri desideri, alla fine diventano parte integrante del nostro sistema motivazionale interno, soprattutto grazie agli sforzi dei primi agenti della socializzazione, in special modo i genitori, e contribuiscono a guidare il nostro comportamento anche in assenza di un'autorità esterna. In altri termini, al controllo da parte di altre persone succede l'autocontrollo, e nella condotta morale 152
l'individuo cerca di conseguire un equilibrio accettabile tra le motivazioni morali e quelle egoistiche, che risiedono entrambe al suo interno. La filosofia e la religione occidentali, come abbiamo già osservato, hanno offerto varie risposte al dilemma esistenziale umano sollevato dal conflitto tra i bisogni egoistici e le obbligazioni sociali, e queste risposte si ripresentano nelle teorie psicologiche contemporanee. Una risposta è a) la dottrina del peccato originale, alle radici della teologia cristiana, secondo la quale l'uomo nasce egoista e può acquisire un senso di obbligo morale solo attraverso esperienze di socializzazione punitiva, che imbriglino gli impulsi egoistici. Questa dottrina corrisponde alla teoria freudiana e ad alcune teorie dell'apprendimento sociale che sottolineano l'importanza delle punizioni nello sviluppo morale. Diametralmente opposta, e più interessante, è la risposta b), la dottrina della purezza innata, associata ad autori come Rousseau, secondo la quale il bambino è naturalmente buono, cioè sensibile agli altri, ma vulnerabile all'azione corruttrice della società; essa corrisponde, per certi aspetti, alla teoria di Piaget dello sviluppo morale. Non che Piaget considerasse i bambini intrinsecamente puri; egli sosteneva piuttosto che la loro relazione con gli adulti crei un rispetto eteronomo per le regole e l'autorità che interferisce con lo sviluppo morale del bambino. Questa è una forma di corruzione, secondo Piaget, che può essere superata solo dal reciproco «dare e avere» dell'interazione libera, senza supervisione, con i pari; l'interazione con i pari, insieme con le capacità cognitive che si evolvono naturalmente nel bambino, promuove la sua capacità di assumere il punto di vista altrui e, da ultimo, gli permette di distinguere le norme morali dal comportamento sanzionato esternamente. La somiglianza con la dottrina della «purezza innata» sta nel fatto che l'interazione libera e naturale del bambino premorale favorisce lo sviluppo morale, mentre l'interazione con gli adulti (socializzati) lo ostacola. Torneremo su Piaget più avanti. Kant e i suoi eredi, con il loro tentativo di e) dedurre principi di giustizia universali e applicati in modo imparziale, hanno ispirato, in parte, il tentativo di Kohlberg (e di Piaget) di costruire una successione invariante di stadi universali dello sviluppo morale. C'è infine d) la versione britannica dell'uti153
litarismo, rappresentata, tra gli altri, da David Hume e Adam Smith, che consideravano l'empatia un vincolo sociale necessario; essa trova espressione nelle ricerche attuali sull'empatia, la compassione e l'etica del prendersi cura. Forse la descrizione più concisa del contributo dell'interiorizzazione morale alla conservazione della società è quella formulata un secolo fa da un sociologo: «La tendenza della società a soddisfare le sue necessità nel modo più semplice ed economico si traduce nell'appello alla "buona coscienza", attraverso la quale l'individuo paga a se stesso il compenso per la sua rettitudine, che altrimenti dovrebbe essergli assicurato attraverso le leggi o i costumi» [Simmel 1902, 19]. In altri termini, l'interiorizzazione svolge la funzione di controllo sociale: di far sì che il conformarsi sia di per sé remunerativo quando la società non distribuisce premi per il comportamento retto e castighi per quello deviante. Su questa base, possiamo passare alle teorie dell'interiorizzazione morale elaborate dagli psicologi. L'interiorizzazione morale ha significati differenti secondo il quadro teorico di riferimento, e alcuni autori non la menzionano affatto, benché sia implicita nel loro lavoro. Le teorie su ciò che promuove l'interiorizzazione morale nei bambini si riferiscono in genere a una dimensione particolare della morale (comportamentale, affettiva, cognitiva) e si concentrano su un particolare aspetto della socializzazione dei bambini che le altre teorie trascurano. Nelle pagine che seguono aggiorno brevemente il mio esame di queste teorie [Hoffman 1983], analizzo la mia definizione dell'interiorizzazione morale, e illustro l'importanza dell'intervento e della socializzazione da parte degli adulti. Nel prossimo capitolo presento la mia teoria dell'interiorizzazione morale e dello sviluppo del senso di colpa, che assegna un ruolo centrale alla disciplina genitoriale ma comprende anche concetti derivanti dalle teorie dell'interiorizzazione morale qui discusse, dalle recenti ricerche sulla memoria e sull'elaborazione delle informazioni, e dalla recentissima letteratura sull'interazione tra affetto e cognizione. 2.1. La teoria psicoanalitica Secondo la tradizionale interpretazione psicoanalitica, il bambino, per risolvere il conflitto tra l'urgenza di esprimere 154
impulsi erotici e ostili e l'angoscia di fronte alla possibilità di perdere l'amore dei genitori se li esprime, rimuove questi impulsi ed evita i comportamenti che incontrano la disapprovazione dei genitori. Inoltre, per dominare l'angoscia ed evitare la punizione e per continuare ad avere l'affetto dei genitori, il bambino si identifica con i genitori e fa sue le loro norme e le loro proibizioni; e siccome queste ultime riflettono, in larga misura, le leggi morali della società, il bambino interiorizza anche tali leggi. Il bambino fa sua anche la capacità dei genitori di punirlo se viola (o è tentato di violare) una norma morale, rivolgendo a se stesso l'ostilità che originariamente avvertiva verso il genitore. Questa autopunizione viene vissuta nella forma di sentimenti di colpa che il bambino teme per la loro intensità e perché somigliano all'angoscia per la possibilità di essere punito e abbandonato che li ha preceduti. Perciò il bambino cerca di evitare il senso di colpa osservando le norme e le proibizioni interiorizzate ed erigendo meccanismi psicologici (cognitivi) di difesa che impediscono l'affiorare alla coscienza degli impulsi a disobbedire a quelle norme e quelle proibizioni. Questi processi di interiorizzazione morale hanno luogo tra i 5 e i 6 anni di età, e si rafforzano e consolidano durante il resto della fanciullezza, che trascorre relativamente tranquilla. Pertanto l'interiorizzazione morale avviene molto presto, prima che i bambini siano capaci di forme complesse di elaborazione cognitiva delle informazioni. Così le norme morali di una persona diventano parte integrante di un sistema di controllo degli impulsi rigido, essenzialmente inconscio, e sovente inflessibile e tuttavia fragile. Non è facile capire come un sistema di controllo essenzialmente inconscio come questo possa essere adattativo e possa dar conto di tutta la complessità del senso di colpa e dell'interiorizzazione morale. Dal punto di vista individuale, come ho già sottolineato a proposito del senso di colpa, questo sistema di controllo - il super-io - è un concetto quasi-patologico. Freud lo sapeva e lo sapevano i suoi seguaci, secondo alcuni dei quali [per es., Erikson 1968] questo sistema di controllo interno quasi-patologico sopravvive per tutta la fanciullezza ma si disgrega nell'adolescenza, a causa di cambiamenti ormonali, delle richieste poste dalla società, e delle nuove informazioni sul 155
mondo che contraddicono e creano disillusione nei confronti delle rigide norme interiorizzate. Questa disgregazione minaccia la relazione di dipendenza del bambino dai suoi genitori, che costituisce il fondamento principale del sistema di controllo. A causa di questa minaccia, il bambino deve trovare basi nuove e più mature per la sua posizione morale, o erigere nuove difese cognitive per respingere gli impulsi incontrollabili e mantenere intatto il sistema di controllo primitivo (e la relazione con i genitori). Queste idee appaiono ragionevoli, ma le spiegazioni proposte per dare conto dello sviluppo di una nuova e più matura posizione morale sono vaghe e poco convincenti [Hoffman 1980]. Che cosa ci dicono al riguardo le ricerche? La teoria freudiana afferma che i bambini che si identificano con i genitori e sono angosciati per la possibilità di perdere il loro amore tenderanno maggiormente a sentirsi colpevoli quando danneggiano qualcuno, e a mostrare altri segni di interiorizzazione morale. L'ipotesi che l'identificazione con i genitori favorisca la condotta morale è avvalorata dalle correlazioni positive tra questa identificazione e certi comportamenti morali, come aiutare una persona in difficoltà e formulare giudizi morali sugli altri; l'identificazione con i genitori, però, non è correlata con l'impiego di principi morali per valutare il proprio comportamento o con il senso di colpa per aver danneggiato altre persone. Anche l'ipotesi dell'angoscia per la perdita dell'amore dei genitori riceve un sostegno solo parziale: gli interventi disciplinari dei genitori per modificare il comportamento del bambino negandogli amore lo aiutano a controllare gli impulsi aggressivi, ma non influenzano il suo senso di colpa per avere danneggiato qualcun altro o l'uso di principi morali per valutare il proprio comportamento. In breve, le ricerche danno conferme parziali ma, per i nostri scopi, trascurabili: né l'identificazione con i genitori né l'angoscia per la perdita dell'amore sembrano favorire il senso di colpa o l'interiorizzazione morale. Queste ricerche non sono state opera di studiosi freudiani; da alcuni allievi di Margaret Mahler [1974] provengono però interessanti osservazioni che possono far luce su un precursore iniziale, ovvero una forma embrionale dell'interiorizzazione morale. Parens [ 1979], ad esempio, ha descritto un bambino di 8 mesi che, sul punto di fare qualcosa che sua madre gli 156
aveva proibito, si girava a guardarla, scuoteva a volte la testa negativamente, e inibiva il comportamento quando era ancora in /ieri. Parens ha interpretato queste chiare e reiterate autoproibizioni da parte del bambino come un indizio del fatto che l'interiorizzazione delle proibizioni dei genitori fosse iniziata e che essa «esercitasse una certa influenza, sia pure modesta, sulle azioni del bambino».
2.2. La teoria dell'apprendimento sociale Negli anni Sessanta e Settanta, la teoria dell'apprendimento sociale ha ispirato un'enorme mole di ricerche. I suoi sostenitori generalmente hanno evitato di ricorrere a concetti come quello di interiorizzazione morale, che si riferiscono a stati psicologici interni piuttosto lontani dal comportamento osservabile, ma hanno cercato di spiegare un fenomeno simile: il fatto che il bambino adotti un comportamento morale (definito da norme sociali) o eviti un comportamento indesiderato senza bisogno di un controllo esterno. Al centro dell'attenzione di questi studiosi non era tanto la teoria più ovvia - premiare la buona condotta fa il bambino buono - quanto il ruolo delle proibizioni e delle punizioni, che potrebbe essere importante, ad esempio, nella forma embrionale di autocontrollo del bambino di 8 mesi osservato da Parens. Secondo una versione più complessa del modello proibizionepunizione, la reiterata punizione di azioni devianti e indesiderate crea stati di ansia e di dolore associati a quelle azioni - ai loro indici percettivi e cinestetici, e agli indici cognitivi associati alla loro previsione. La persona può evitare questa «ansia da deviazione» inibendo l'atto anche quando nessun altro è presente; perciò il suo comportamento sembra frutto dell'interiorizzazione morale anche se in realtà è dovuto alla paura soggettiva della punizione. Quando l'ansia da deviazione, come può accadere, si diffonde e si distacca dalla paura cosciente che qualcuno ci scopra, l'inibizione degli atti devianti diventa una forma embrionale di interiorizzazione: ci comportiamo bene per evitare l'ansia inconscia [Aronfreed 1970; Mowrer 1960]. Si noti come questa concezione somigli all'interpretazione psicoanalitica dell'interiorizzazione morale illustrata sopra. 157
I teorici dell'apprendimento sociale, in particolare Bandura [ 1969], hanno trattato estesamente il contatto del bambino con modelli che agiscono secondo morale o che sono puniti per essersene discostati. L'ipotesi è che il bambino impari ad essere virtuoso osservando modelli che agiscono moralmente e imitandone il comportamento in situazioni simili, anche quando i modelli sono assenti. Quando un bambino osserva un modello che trasgredisce una norma morale ed è punito, si sente punito in forma vicaria o anticipa la punizione che subirà se si comporta male; in entrambi i casi, il bambino cercherà di sfuggire alla sorte del modello evitando la condotta deviante. Per mettere alla prova queste idee sono state condotte molte ricerche, ma, disgraziatamente, esse hanno incontrato vari problemi. Uno è che il criterio dell'interiorizzazione morale era l'obbedienza del bambino a una proibizione arbitraria dello sperimentatore - ad esempio, non giocare con certi giocattoli quando lo sperimentatore usciva dalla stanza. Il «paradigma del giocattolo proibito» non coglie la distinzione tra comportamento interiorizzato moralmente ed esercizio dell'autocontrollo per obbedire a una richiesta arbitraria dell'autorità; il classico studio di Milgram [ 1963] ha chiarito una volta per tutte che l'obbedienza è un criterio morale inaccettabile, perché può condurre a comportamenti fondamentalmente immorali. In ogni caso, i risultati sono stati insoddisfacenti: se un bambino osservava un modello che giocava con giocattoli proibiti e non era punito, era più probabile che giocasse con quei giocattoli quando pensava di non essere visto; inoltre, e più importante, i bambini che avevano visto un modello punito per avere giocato con i giocattoli e quelli che avevano visto un modello che aveva resistito alla tentazione di farlo avevano una probabilità di giocare con i giocattoli quando pensavano di non essere visti uguale a quella dei bambini che non avevano osservato alcun modello 1 • La conclusione che si ricava da questa ricerca è che il bambino imita i modelli che fanno ciò che egli vorrebbe 1
Questa è la mia interpretazione dei risultati [Hoffman 1970a; 1977]. Ma supponiamo pure che, dopo avere visto un modello punito per avere giocato con i giocattoli, i bambini giochino di meno con quei giocattoli; si può comunque pensare che lo facciano solo perché la punizione del modello ha indicato che anche i soggetti sarebbero puniti se agissero come lui (nel qual caso non vi sarebbe interiorizzazione).
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fare e non sono puniti, forse perché l'assenza di una punizione legittima il comportamento [Hoffman 1970a]. Queste ricerche ci dicono poco su ciò che i genitori o altri agenti della socializzazione possono fare per favorire l'interiorizzazione morale, salvo assicurarsi che i bambini non s'imbattano in delinquenti o criminali che l'abbiano fatta franca. Un'altra importante teoria dell'interiorizzazione morale in chiave di apprendimento sociale si basa sulla nozione che una persona può agire in un certo modo a fini di autoricompensa [Bandura 1977]. Di conseguenza, se il bambino che agisce moralmente in seguito alla socializzazione sperimenta poi un'autoricompensa, agirà moralmente anche quando è da solo. Questa definizione dell'interiorizzazione morale è plausibile, ma rende necessario chiarire come si sviluppa il sé che viene ricompensato, e come le azioni morali giungono a ricompensare quel sé con tanta efficacia da rendere superfluo il controllo esterno. Disgraziatamente, non è stata ancora elaborata una teoria soddisfacente dello sviluppo del sé che comprenda anche i meccanismi dell' autoricompensa.
2.3. La teoria cognitivo-evolutiva I teorici cognitivo-evolutivi, in particolare Piaget [1932] e soprattutto Kohlberg [1969; 1984] e i suoi allievi, hanno studiato lo sviluppo della capacità di risolvere i conflitti tra pretese morali contrastanti, e l'uso in questo ambito dei concetti di diritto, dovere e giustizia. Come i teorici dell'apprendimento sociale, così anche questi autori non parlano di interiorizzazione morale, ma per una ragione totalmente diversa: perché essa fa pensare che vi sia qualcosa di esterno al bambino che diventa poi parte della sua struttura morale interna - in altri termini, che il bambino acquisisca le norme morali passivamente. Secondo gli psicologi cognitivo-evolutivi, invece, il bambino acquisisce attivamente le norme morali costruendole socialmente; ciò nondimeno, essi utilizzano un concetto implicito di interiorizzazione morale e il risultato finale è un bambino con una morale interiorizzata. Piaget. Secondo Piaget, l'adulto interferisce con l'interiorizzazione morale del bambino a causa dell'enorme differenza 159
di potere che esiste tra adulti e bambini. Le norme stabilite dai genitori vengono imposte senza che il bambino ne comprenda la giustificazione razionale, e sono rispettate solo a causa dell'autorità dei genitori: «I "genitori medi" sono come i governi poco intelligenti che si limitano ad accumulare delle leggi, nonostante le contraddizioni e la crescente confusione di spirito che risulta da questo accumulo» [Piaget 1932; trad. it. 1972, 156]. Secondo Piaget, la morale eteronoma prodotta dagli adulti può essere superata solo dal «dare e avere» dell'interazione libera, senza supervisione, con i propri pari, insieme con le capacità cognitive che si evolvono naturalmente nei bambini. L'interazione tra pari, senza supervisione, è necessaria perché il bambino sviluppi una morale autonoma (interiorizzata), giacché gli offre il tipo di esperienze sociali e cognitive necessarie a sviluppare norme morali fondate sul mutuo consenso e sulla cooperazione tra uguali. Queste esperienze, il mettersi nei panni di altre persone e il partecipare con loro alle decisioni sulle regole e sul modo di applicarle, hanno ben poco spazio nell'interazione con gli adulti, che hanno il potere di imporre la loro volontà al bambino senza il suo consenso. Kohlberg. Nel modello di Kohlberg, l'individuo progredisce da un livello premorale focalizzato sulle conseguenze (determinate dall'esterno) che le azioni hanno per l'individuo stesso, a un livello morale convenzionale fondato sulle regole e sul benessere del gruppo, fino a un livello morale autonomo, fondato su principi. In questa progressione l'orientamento morale della persona si espande di pari passo con la sua esperienza del mondo e questa espansione è resa possibile dallo sviluppo cognitivo (cerebrale). Il processo sottostante, secondo Gibbs [ 1991], è il «decentramento», che si riferisce al passaggio evolutivo da a) un giudizio nel quale l'attenzione del bambino è centrata sulle caratteristiche salienti di una situazione, che di solito sono quelle che corrispondono al suo punto di vista, a b) un giudizio fondato su un'attenzione più ampia e meglio distribuita, centrata su caratteristiche della situazione che corrispondono al punto di vista di altre persone, fino a e) una coordinazione progressiva di tutti i punti di vista. In questo modo, il bambino passa da una comprensione superficiale (vincolata dall'esterno) del significato di una norma morale a un'altra comprensione, più profonda e interiore. 160
Secondo Kohlberg, l'elemento catalizzatore di questi processi non è tanto l'interazione tra pari, quanto l'esposizione del bambino a informazioni che si trovano in misura ottimale ad un livello morale superiore al suo (ovvero ad un livello più elevato, ma non così tanto da oltrepassare le sue capacità cognitive). Quando è esposto a un livello superiore in misura ottimale, il bambino non cerca semplicemente di imitarlo; piuttosto, dopo avere sperimentato una sorta di disequilibrio cognitivo, si impegna attivamente per risolvere la contraddizione e integrare le nuove informazioni con il suo punto di vista, ed è questa integrazione che fa progredire il bambino. Ciò implica che il bambino abbia una preferenza per il punto di vista più avanzato, forse perché gli appare più comprensivo o comunque superiore al suo. In ogni caso, lo sviluppo procede verso l'alto, non verso il basso; se due bambini in stadi morali differenti si incontrano, quello che si trova in uno stadio morale inferiore progredisce, mentre quello che si trova in uno stadio superiore non regredisce. Questo processo di «costruzione progressiva» dell'orientamento morale, che Turiel [1966] ha descritto e indagato per primo e Blasi [1983] ha approfondito, prosegue finché il bambino non raggiunge il livello più alto che gli è possibile, e si può considerare una forma di interiorizzazione morale. Gli allievi di Kohlberg si sono discostati da questo schema in varie direzioni. La maggioranza degli studiosi ha lasciato cadere la nozione di una sequenza invariante di stadi, ha tracciato una distinzione tra ambiti morali (morale/convenzionale, cura, giustizia), ha colmato diverse lacune evolutive studiando la morale dei bambini piccoli [per es., Turiel 1983; 1998; Damon 1977; 1988] 2 ; tuttavia, la teoria di base, per ciò che riguarda l'interiorizzazione, resta simile a quella di Kohlberg: l'interiorizzazione morale è un processo mentale attivo che consiste 2 Alcune delle loro idee sono simili a quelle esposte in precedenza da Hoffman e Saltzstein [1967]; si consideri, per esempio, la spiegazione di Smetana [1984] del modo in cui un bambino di due anni apprende la distinzione morale/convenzionale: le madri dei bambini tra 24 e 26 mesi reagiscono a una violazione delle convenzioni sociali facendo riferimento al disordine creato dall'azione del bambino («Guarda che disastro hai fatto»), mentre davanti a una trasgressione morale reagiscono facendo riferimento alle ripercussioni delle azioni del bambino sui diritti e sul benessere altrui, o invitando il bambino a mettersi al posto dell'altro: «Pensa come ti sentiresti se fossi stato picchiato tu».
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La teoria attribuzionale proposta da Dienstbier [1978] è più complessa e più vicina ai nostri interessi perché tiene conto dell'affetto. Secondo l'autore, quando un bambino è punito dai genitori si attiverà in lui un'emozione che inizialmente è indeterminata e che acquisisce un significato quando il bambino la attribuisce alla punizione ricevuta (se il genitore rende saliente la punizione) o alla propria condotta e alle sue conseguenze dannose (se il genitore dà una spiegazione che rende saliente la condotta del bambino e le sue conseguenze). In seguito, se il bambino sarà tentato di compiere un atto deviante, avvertirà un disagio emozionale, che potrà attribuire alla previsione del castigo o all'atto deviante e ai suoi effetti dannosi. Se il bambino è solo e attribuisce l'emozione alla punizione prevista (cosa probabile se i genitori hanno reso saliente la punizione), non ha alcuna ragione per resistere alla tentazione di compiere l'atto, poiché è improbabile che qualcuno lo scopra e lo punisca. D'altra parte, se il bambino è solo e attribuisce il suo disagio all'atto deviante e ai suoi effetti (cosa probabile se è questo ciò che i genitori hanno reso saliente), potrà resistere alla tentazione. Perciò le spiegazioni che mettono in relazione gli atti devianti del bambino con le loro conseguenze dannose dovrebbero favorire l'interiorizzazione morale. Anche questa teoria è semplice ed elegante, ma, di nuovo, al prezzo di trascurare importanti dettagli. Secondo la teoria, se la punizione è saliente, il bambino attribuisce l'emozione alla punizione stessa; se invece è saliente la spiegazione circa l'atto indesiderato e i suoi effetti, è a questi che è attribuita l'emozione. In altri termini, l'attribuzione del bambino riflette perfettamente l'aspetto della situazione reso saliente dal genitore, e tutto ciò che fa il bambino è etichettare la risposta emozionale alla punizione del genitore secondo quello che il genitore ha reso saliente. Non si vede però come l'emozione suscitata nel bambino dalla punizione dei genitori possa restare indeterminata finché il bambino non abbia compiuto un' attribuzione appropriata. Un'altra difficoltà sta nel fatto che, una volta di più, l'interiorizzazione è equiparata all'ubbidienza, e il bambino ubbidisce perché è indotto ingannevolmente a credere di avere agito da sé. Questa, come vedremo, può essere una parte dell'interiorizzazione morale, ma solo una parte, e piccola.
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2.5. Una spiegazione basata sull'elaborazione delle informazioni
Alcuni autori spiegano l'interiorizzazione morale sulla base dell'acquisizione o dell'apprendimento da parte del bambino di certe abilità di controllo del comportamento. Kopp [ 1982] propone un processo a tre fasi: una prima fase a controllo esterno, nel quale sono le persone che si prendono cura del bambino che provvedono a ricordargli i comportamenti appropriati; una seconda fase di autocontrollo, nella quale il bambino impara a corrispondere alle aspettative della persona che si prende cura di lui anche in assenza di questa; una terza fase di autoregolazione, nella quale il bambino impara a governare il proprio comportamento e a rimandare la gratificazione. Ciò che permette al bambino di raggiungere la fase finale e di agire in modo autonomo e moralmente appropriato, secondo Kopp, è lo sviluppo delle capacità di rappresentazione mentale, rievocazione ed elaborazione di strategie e piani comportamentali. Kopp però non spiega che cosa muova il bambino a comportarsi in modo moralmente appropriato: che cosa lo motivi a rinunciare a ciò che desiderava fare. La rappresentazione, la rievocazione e le relative strategie permettono al bambino di acquisire molte abilità e competenze sociali, tra cui la capacità di escogitare modi per «farla franca». Si tratta però di precondizioni dell'elaborazione delle informazioni che possono essere necessarie per l'interiorizzazione dell'azione morale ma non sono sufficienti, perché non muovono all'azione morale più che all'azione interessata ed egoistica. Anche se nessuna di queste teorie è in grado di dare conto dell'interiorizzazione morale in tutta la sua complessità, esse contengono concetti utili a spiegare questo o quel suo aspetto. Ho incluso alcuni di questi concetti nella mia teoria dell'interiorizzazione morale, che esporrò nel prossimo capitolo, non prima però di concludere questo con una definizione dell'interiorizzazione morale e una breve illustrazione dell'importanza della socializzazione. 3. Interiorizzazione morale e motivazione
La struttura morale prosociale di una persona può essere definita come una rete di affetti empatici, rappresentazioni 165
cogmtlve e motivazioni. Essa comprende: principi (si deve aiutare chi soffre; le persone devono essere ricompensate per i loro sforzi); norme comportamentali (dire la verità, mantenere le promesse, aiutare gli altri; non mentire, non rubare, non tradire la fiducia che ci è stata accordata; non offendere, non danneggiare, non ingannare gli altri); regole (fare male a qualcuno intenzionalmente e senza alcuna provocazione è peggio che farlo accidentalmente o dopo una provocazione); una coscienza («sense») del bene e del male e del trasgredire; le immagini delle nostre azioni che hanno danneggiato o aiutato altre persone; l'autobiasimo e il senso di colpa associati a quelle azioni. Questi elementi sono tenuti assieme più o meno strettamente dai principi morali, dalla coscienza del bene e del male che essi condividono, dagli affetti che li accomunano: la sofferenza empatica, la sofferenza simpatetica, la rabbia empatica e il sentimento di ingiustizia, il senso di colpa fondato sull'empatia. Questi affetti compenetrano gli elementi e la totalità della struttura; e gli elementi possono essere aggiunti, omessi, ricategorizzati, e suddivisi secondo l'esperienza (le bugie sono suddivise in «bugie pietose», buone, e bugie manipolatrici, cattive). La struttura morale di una persona è interiorizzata quando la persona accetta e si sente obbligata a rispettare i suoi principi organizzativi e a tener conto del prossimo indipendentemente da ricompense o punizioni esterne. Le sanzioni, che erano state alla base della motivazione a tener conto degli altri, hanno perduto forza, e l'individuo sente che quella motivazione scaturisce per forza propria dal suo interno, e ne dimentica del tutto o quasi l'origine. Anche gli agenti socializzatori che avevano inflitto originariamente la sanzione (di solito i genitori) possono essere dimenticati, ma, dimenticati o no, non sono più una variabile significativa della motivazione prosociale della persona. Questa motivazione morale prosociale interiorizzata, quando è attivata negli incontri morali, non è garanzia di condotta morale, per l'azione contraria delle motivazioni egoistiche; essa però ha una qualità interna vincolante e obbligatoria, il che implica, se non altro, un conflitto morale: una persona che desidera accettare l'invito a una festa, ma si sente obbligata 166
a mantenere la promessa di far visita a un amico malato, può prevedere che se va alla festa si sentirà colpevole. Perciò gli atti morali non sono solo l'espressione comportamentale di motivazioni morali, ma anche il tentativo di raggiungere un equilibrio accettabile tra le motivazioni egoistiche e quelle morali. L'interrogativo fondamentale per la psicologia dello sviluppo è: quali sono le esperienze cruciali per sviluppare questa complessa rete interiorizzata di cognizioni, sentimenti e motivazioni morali? La mia risposta è la socializzazione, soprattutto attraverso gli interventi degli adulti. Ma prima di entrare nei dettagli vorrei argomentare brevemente a favore dell'importanza della socializzazione.
4. L'importanza della socializzazione
I processi di attivazione empatica descritti nel capitolo secondo possono fungere benissimo da motivazioni morali prosociali in quasi tutti i bambini quando si trovano a fare da spettatori. Non funzionano altrettanto bene, tuttavia, quando i bambini danneggiano qualcuno o sono in procinto di farlo, poiché le emozioni suscitate in queste situazioni (desiderio di possesso, rabbia, paura) possono impedire loro di vedere il male fatto e possono vincere le loro tendenze empatiche. La differenza tra spettatore e trasgressore è illustrata da alcune osservazioni di Zahn-Waxler e Robinson [1995]: nel secondo anno, i bambini che vedono una persona che sta soffrendo mostrano un marcato incremento della sofferenza empatica e simpatetica e molte volte, quando sono la causa di quella sofferenza, cercano di riparare il danno; ma provano anche meno preoccupazione, più aggressività e più piacere di fronte alla sofferenza della vittima quando ne sono stati causa che non quando si limitano ad assistervi. Ciò è logico se pensiamo che di solito l'azione dannosa del bambino è subordinata a uno scopo strumentale, ad esempio avere un oggetto che desidera, e si può prevedere che se ci riesce si sentirà soddisfatto. In ogni modo, è più probabile che l'intervento di un adulto sia necessario quando il bambino provoca la sofferenza di un'altra persona che non quando assiste alla sua sofferenza. 167
Negli incidenti, l'intervento non è necessario quando il bambino è consapevole del danno fatto, avverte sofferenza empatica e senso di colpa, e cerca di riparare il danno di sua iniziativa. Nel capitolo terzo abbiamo visto l'esempio di un bambino che, avendo fatto male a un amico mentre gli contendeva un giocattolo, lo consolò portandogli il suo orsacchiotto dalla stanza accanto. Blum [1987] descrive un altro esempio in cui non sembra esservi necessità di intervento: due bambini, di 22 e 24 mesi e amici intimi, stavano giocando; uno, accidentalmente, fece male all'altro, si mostrò preoccupato, chiese scusa e offrì un giocattolo alla vittima. D'altro lato, l'intervento è necessario quando il bambino non è consapevole del danno provocato (un bambino corre dietro a un compagno di giochi, ne fa cadere accidentalmente un altro, e continua la sua corsa; un altro, giocando con un pennarello, macchia il sofà nuovo e provoca involontariamente il disappunto della madre), o quando ignora la sofferenza della vittima o se ne infischia (un bambino dà un calcio in faccia alla madre mentre lei gli sta cambiando il pannolino; un altro sbatte un cucchiaio in una padella e imbratta d'olio la madre; ZahnWaxler et al. [1992]). Qualunque cosa esprimano, esuberanza o il piacere insito nell'agire, è possibile che questi bambini non si rendano conto delle conseguenze dolorose di ciò che fanno a meno che qualcuno non gliele faccia notare. Quando gli adulti danneggiano volontariamente altre persone, lo fanno di solito per autodifesa, perché fraintendono le intenzioni altrui, per rappresaglia o per ideologia (nel caso del terrorismo). I bambini hanno ragioni simili (salvo l'ideologia) ma fanno anche brutti scherzi come tirare sassi contro le finestre delle scuole - atti intenzionali che possono far male a qualcuno anche se non era quella l'intenzione. I bambini fanno male agli altri anche per ragioni che hanno a che fare più con i loro bisogni personali che con la deliberata intenzione di arrecare dolore. Una bambina di 5 anni si stizzì perché era stata rimproverata; la sorellina si avvicinò e fece per darle un giocattolo, ma quella disse: «Vattene, non ti voglio», e la sorellina corse via nel soggiorno, sprofondò la testa nel divano e scoppiò in lacrime. Kastenbaum, Farber e Sroufe [1989] hanno osservato «un bambino di 5 anni, con pochi amici, che giocava con una 168
maschera africana e ringhiava verso i bambini più vicini. Una bambina, impaurita, si ritrasse. Il bambino mascherato la prese di mira e la tormentò fino a farla scappare via in lacrime». Gli autori osservano che lo stesso livello di comprensione della situazione - sapere che la bambina aveva paura di lui - avrebbe potuto indurre il bambino a togliersi la maschera e tranquillizzarla, come altri bambini della sua età erano stati visti fare. Una spiegazione possibile di questo comportamento, sadismo a parte, è che il bambino fosse così assorbito dal piacere insito nell'agire da non avvertire l'ansia altrui. Il punto è che in situazioni del genere l'intervento di un adulto che sottolinei le conseguenze della condotta del bambino per gli altri può essere costruttivo e forse necessario. I conflitti tra pari sono un problema a parte, a causa della loro frequenza e della loro intensità emozionale. Shantz [1987] ha analizzato gli studi sul tema e ha scoperto che nell'età prescolare la maggior parte dei conflitti riguarda il possesso e l'uso di oggetti, sebbene a volte lo scopo cambi dal possesso di un oggetto all' aggressione e alla rappresaglia (per esempio, un bambino scaccia un altro bambino da un'altalena, ci sale, il primo bambino lo colpisce e lui restituisce il colpo; un altro lascia un giocattolo incustodito, quando torna trova un altro bambino che ci sta giocando, afferra il giocattolo, e i due cominciano a litigare). Le aggressioni fisiche senza provocazione e i casi di interferenza con l'attività in corso di un compagno sono poco meno frequenti dei conflitti per il possesso (un bambino non smetteva di minacciarne un altro dicendogli che gli avrebbe tirato della plastilina [Shantz 1987]). Secondo Shantz, i conflitti sono spesso brevi ma mai banali, giacché tutto lascia pensare che i partecipanti prendano sul serio i loro scopi ... e se si pensa agli effetti dolorosi di certi conflitti, come essere esclusi da un gruppo, o rinunciare alla piac'evole sensazione di vincere una gara, o non poter condividere la soddisfazione per aver fatto la pace ... questo tipo di eventi sembrano molto significativi per i bambini coinvolti [ibidem, 287].
I conflitti possono essere risolti dai bambini stessi senza l'intervento di un adulto. Il bambino che era andato a prendere l'orsacchiotto voleva tanto risolvere un conflitto per il possesso quanto rispondere a un incidente. Secondo Shantz, i bambini 169
risolvono spesso i conflitti in via amichevole dando ragione delle proprie azioni; i bambini si aspettano ragioni, alle quali sono pronti a rispondere (consapevoli come sono che non si dovrebbe contraddire o contrastare un'altra persona senza una buona ragione). Ma certi conflitti, come i casi di aggressione per il possesso menzionati sopra, richiedono l'intervento di un adulto5 . Ecco un conflitto complesso che richiede un intervento: il bambino A dice che tocca a lui giocare e strappa di mano a
B un giocattolo; B, a sua volta, lo strappa di mano ad A. La lite continua finché A non spinge via B, afferra il giocattolo e scappa. B scoppia a piangere. A non si cura del pianto di B e gioca con il giocattolo. L'intervento è necessario perché non è evidente di chi sia la colpa; i due bambini si accusano l'un l'altro. Inoltre, forti emozioni egoistiche e di rabbia impediscono ai bambini di considerare sia il proprio comportamento sia la sofferenza dell'altro (decentramento), com'è necessario perché ciascun bambino comprenda il punto di vista dell'altro, e si renda conto che non è diverso dal proprio («Si aspetta una spiegazione, non un rifiuto puro e semplice, così come me l'aspetto io»). Ed è necessario anche se si vuole che ciascun bambino provi empatia per l'altro e preveda che l'altro sarà contrariato se non ottiene quello che desidera, e se si vuole che ciascuno accetti la sua parte di colpa e sia disposto a fare ammenda o a venire a un compromesso. Il biasimo è qualcosa cui i bambini (e gli adulti) cercano di sfuggire, poiché è doloroso, produce autodeprecazione e spesso è associato a spiacevoli ricordi di punizioni. Per queste ragioni, nelle situazioni di conflitto perché si mettano in moto i processi che suscitano l'empatia e specialmente il senso di colpa, è necessario intervenire. Non vi sono ricerche che chiariscano se nelle situazioni di conflitto sia effettivamente possibile suscitare l'empatia e il senso di colpa; tuttavia, uno studio di Camras [1977] indica che ciò può avvenire nel caso dell'empatia: un bambino gioca con un criceto, un altro cerca di portarglielo via; il piglio aggressivo del primo bambino può dissuadere il rivale dal tentativo di impossessarsi del criceto; però anche una 5 Gli esperti dell'infanzia sanno che i bambini aiutano in caso di incidente, ma in caso di litigio sono soprattutto gli spettatori a farlo.
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faccia triste, che suggerisce tristezza empatica, può svolgere un ruolo importante nei conflitti per il possesso. Ma in quale momento dello sviluppo gli interventi degli adulti cominciano a essere efficaci - non già per conseguire obbedienza immediata, ma per contribuire al senso di colpa e all'interiorizzazione morale -? Perché l'intervento produca nel bambino un sentimento interno di avere sbagliato e di essere colpevole (piuttosto che un sentimento di paura) sembra necessario che il bambino abbia acquisito un senso di sé come essere con limiti ben definiti e caratteristiche personali che è possibile valutare. Ciò gli permette di riconoscersi, simultaneamente, come obiettivo degli sforzi disciplinari dei genitori e causa della sofferenza altrui, e, pertanto, di sperimentare una forma embrionale di senso di colpa. Come ho già osservato nel capitolo terzo, è nella seconda metà del secondo anno che il bambino comincia ad acquisire un senso riflessivo di sé. Vi è qualche prova che ciò preceda l'apparizione di una risposta emozionale (senso di colpa?) alla trasgressione [Stipek, Gralinski e Kapp 1990]. Perciò sembrerebbe che i genitori agiscano a tempo debito, giacché solitamente, come vedremo, cominciano a sottoporre seriamente a disciplina i figli verso la fine del secondo anno. La disciplina genitoriale è al centro della teoria dello sviluppo dell'interiorizzazione morale e del senso di colpa alla quale ho cominciato a lavorare anni or sono [Hoffman e Saltzstein 1967; Hoffman 1970a; 1983]. La versione attuale della teoria, esposta nel prossimo capitolo, è una spiegazione fondata sull'elaborazione delle informazioni, focalizzata e sistematica, che mette in evidenza le cognizioni e affetti che si producono negli incontri di tipo disciplinare, e suggerisce come essi siano integrati e conservati nella memoria del bambino e come contribuiscano alla motivazione e all'azione morale.
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CAPITOLO SESTO
DALLA DISCIPLINA ALL'INTERIORIZZAZIONE
Ricapitoliamo. Si ha una situazione di trasgressione quando una persona danneggia qualcuno o è sul punto di farlo. Una trasgressione può essere provocata, deliberata, accidentale, la conseguenza secondaria di un conflitto o la violazione delle aspettative di un'altra persona. Il problema morale è se il trasgressore è motivato ad evitare di danneggiare l'altro o, per lo meno, si sente colpevole per averlo fatto e agisce poi in modo prosociale, e se è così che si comporta anche in assenza di osservatori. Da tempo sostengo che il fondamento del senso di colpa e della interiorizzazione morale prosociale, elementi necessari per contrastare i bisogni egoistici in conflitto e altre situazioni di trasgressione, risiede negli incontri di tipo disciplinare, specialmente quelli effettuati quando il bambino ha danneggiato una persona. Questi incontri sono scenari (settings) nei quali i genitori cercano di modificare il comportamento di un bambino contro la sua volontà. Essi hanno inizio quando il comportamento del bambino si discosta dai desideri del genitore e hanno termine quando il bambino ubbidisce, il genitore rinuncia o si interpone un evento esterno («Hanno suonato alla porta?»). In uno studio di bambini in età prescolare [Hoffman 1963], gli incontri disciplinari comportavano in media due o tre tentativi (ma uno ben diciassette!) e, come nello studio di Schaffer e Crook [1980], i bambini ubbidivano nell'80 per cento dei casi e più. Ma perché considerare separatamente la disciplina quando i genitori fanno tante altre cose - accudiscono i figli, esprimono affetto nei loro confronti, passano ore giocandoci, spiegano e interpretano a loro beneficio il mondo circostante, e, soprattutto, sono il loro modello di condotta morale accettabile? Anzitutto, gli incontri di tipo disciplinare sono importanti perché sono frequenti. Benché rari nel primo anno [Moss 1967], essi cominciano ad aver luogo regolarmente al principio del secondo - uno ogni 173
11 minuti quando il bambino ha un'età compresa tra 12 e 15 mesi -, e per lo più riguardano la sicurezza e l'esigenza che il bambino stia alla larga da oggetti facili a rompersi. Gli incontri riguardanti il caso in cui un bambino ne danneggia un altro diventano frequenti verso la fine del secondo anno [Parens 1979; Tulkin e Kagan 1972], anche se, sfortunatamente, non vi sono dati che dicano quanto. In ogni caso, verso la fine del secondo anno, non meno dei due terzi di tutte le interazioni tra genitori e figli consistono in incontri disciplinari volti a modificare il comportamento dei bambini contro la loro volontà [Minton, Kagan e Levine 1971]; e, quasi sempre, i bambini obbediscono docilmente o sono costretti a farlo. Lo stesso è vero dei bambini in età prescolare e fino ai 10 anni [Lytton 1979; Schoggen 1963; Simmons e Schoggen 1963; Wright 1967]. Più in particolare, i bambini tra 2 e 10 anni d'età sono soggetti alle sollecitazioni dei genitori a cambiare comportamento in media ogni 6-9 minuti - il che equivale a 50 incontri disciplinari al giorno, ovvero oltre 15.000 all'anno! Non tutti gli incontri riguardano un danno arrecato ad altri, ma se ciò fosse vero anche solo nella quarta parte dei casi (una stima prudenziale) sarebbe comunque un numero molto grande, soprattutto se si considera che in genere i bambini finiscono con l'ubbidire. Spesso i bambini di età tra 2 e 10 anni cercano di negoziare le richieste dei genitori, e a volte i genitori acconsentono a farlo [Kuczynski et al. 1987; Schaffer e Crook 1980]; il genitore però ha l'ultima parola e decide fino a che punto si può negoziare, come indica l'elevata frequenza del comportamento di ubbidienza. La frequenza non è l'unica ragione della grande importanza della disciplina; un'altra ragione può essere dedotta dal modo in cui si comporta una persona matura, che ha interiorizzato un insieme di norme morali prosociali - il risultato finale del processo -, quando le esigenze morali di una situazione sono in conflitto con i suoi desideri egoistici, cioè in un incontro morale. A interiorizzazione avvenuta, la persona avverte da sé preoccupazione empatica per il prossimo, anche quando i desideri altrui sono in conflitto con i suoi, prevede i danni che le sue azioni possono arrecare ad altre persone, e mette a confronto queste conseguenze dannose con l'importanza che attribuisce alla soddisfazione dei suoi desideri. Dopo di che può 174
astenersi o meno dall'azione dannosa, ma se lascia prevalere l'egoismo e compie quell'azione, si sentirà colpevole del danno fatto. Il punto essenziale è che in ogni caso sperimenterà un conflitto interno. È improbabile che in queste situazioni un bambino piccolo avverta un conflitto interno. Arsenio e Lover [1995] hanno trovato che i bambini di età inferiore a 8 anni cui erano raccontate storie di bambini che rubavano o non rispettavano il proprio turno, pensavano che i bambini delle storie sarebbero stati soddisfatti dei vantaggi conseguiti e incuranti della sofferenza, chiaramente espressa, delle vittime («vessatori soddisfatti»). Questi risultati non dicono che cosa farebbero i bambini in situazioni del genere, ma, posto che essi abbiano una relazione con il comportamento dei bambini stessi, suggeriscono che la socializzazione sia una condizione necessaria dell'interiorizzazione morale. Il punto è quali scenari e quali tipi di intervento possono influenzare la capacità del bambino di avvertire un conflitto morale interno. Un'ovvia risposta è che si tratti di quegli scenari di socializzazione che costringono i bambini ad affrontare lo stesso conflitto, cioè il conflitto fra gli interessi altrui e quelli propri, e di quegli interventi che aiutano i bambini a risolvere il conflitto come lo risolverebbe un adulto ad interiorizzazione avvenuta. Gli scenari che permettono di raggiungere questo scopo - gli incontri disciplinari nei quali un bambino danneggia o è in procinto di danneggiare qualcuno i cui interessi siano in conflitto con i suoi - ricorrono spesso nell'ambito domestico, come abbiamo visto. Ma perché gli incontri disciplinari, oltreché per la loro frequenza, dovrebbero essere più importanti di altre cose che i genitori fanno? Ecco la mia risposta: che il danno fatto dal bambino sia accidentale o deliberato, che la vittima sia un genitore o un altro bambino, è solo negli incontri disciplinari che è probabile che i genitori stabiliscano il nesso, necessario per il senso di colpa e per l'interiorizzazione morale, tra le motivazioni egoistiche del bambino, il suo comportamento, e le conseguenze dannose del suo comportamento per gli altri, ed esercitino una pressione sul bambino perché controlli il suo comportamento tenendo conto degli altri. Il comportamento dei genitori all'infuori di questi incontri può aiutare il bambino offrendogli un modello di condotta 175
prosociale che rafforzi la sua inclinazione empatica e ne legittimi il comportamento di aiuto nella condizione di spettatore; per esempio, i genitori possono esprimere compassione verso i senzatetto e aiutarli, mettere in relazione i sentimenti o le vicissitudini di un personaggio televisivo con l'esperienza del bambino [Eisenberg et al. 1992], spiegare la propria tristezza [Denham e Grout 1992], e sottolineare le somiglianze tra tutti gli esseri umani. Nell'analizzare la teoria dell'apprendimento sociale (cap. V), ho osservato che i modelli prosociali contribuiscono a motivare il bambino a fare ciò che è già predisposto a fare, probabilmente perché se si fornisce un modello di un comportamento lo si legittima. Questo può essere ciò che accade quando i genitori agiscono come modelli prosociali e il bambino è spettatore: data la sua predisposizione empatica, il bambino può riprodurre con naturalezza, in condizioni simili, il comportamento prosociale dei genitori. Tuttavia, come abbiamo visto, non sembra che i modelli prosociali, da soli, riescano a motivare i bambini ad agire contro il proprio interesse personale, com'è necessario nelle situazioni di conflitto e in altre situazioni di trasgressione. I modelli di comportamento prosociale, insomma, possono avere un effetto indiretto: rinforzare la disposizione empatica del bambino - specialmente la componente simpatetica della sofferenza empatica (cap. III) - e accrescere la ricettività del bambino alle induzioni genitoriali, che suscitano, come vedremo, sofferenza empatica e senso di colpa. E, insieme con l'induzione, i modelli di comportamento prosociale possono rendere il bambino più ricettivo alle richieste di un compagno con cui è in conflitto (cap. X). Resta da chiarire quale strumento di disciplina possa far leva sull'inclinazione empatica del bambino e faccia in modo che provi sofferenza empatica e si senta colpevole, si renda conto del danno che le sue azioni possono arrecare ad altri e lo metta a confronto con i suoi desideri - come accade ad interiorizzazione morale avvenuta. Lo strumento di disciplina in questione è l'induzione, nella quale i genitori mettono in evidenza il punto di vista dell'altro, sottolineano la sua sofferenza, e chiariscono che la causa di questa sofferenza è stata la condotta del bambino. La maggior parte di questo capitolo espone la mia teoria del funzionamento dell'induzione e le
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prove a suo sostegno; in via preliminare, riassumo brevemente il mio ragionamento e introduco il tema della disciplina. Esposizione sommaria della teoria. L'esperienza da parte del bambino di incontri disciplinari che implicano un danno per gli altri e nei quali i genitori ricorrono all'induzione influenza il suo comportamento negli incontri morali nei quali, senza alcun intervento esterno, egli sperimenta un conflitto interno tra i suoi desideri e i bisogni altrui. In altre parole, il suo comportamento in questi incontri disciplinari, diversamente da quello in altri scenari di socializzazione, somiglia al comportamento adottato in seguito negli incontri morali: mettere un freno ai propri desideri per non danneggiare il prossimo o non sentirsi poi colpevole. La differenza è che negli incontri disciplinari l'intervento è necessario, mentre non lo è in quelli morali. Perché un'induzione sortisca il suo effetto, il suo messaggio deve raggiungere il bambino anche quando è tutto preso dai suoi obiettivi e malgrado il carico emozionale della situazione. Ciò richiede una certa pressione esterna; essa deve essere sufficiente a far sì che il bambino smetta di fare ciò che sta facendo, concentri l'attenzione sull'induzione e la elabori, ma non così forte da suscitare rabbia o paura in eccesso, che potrebbero interferire con l'elaborazione. L'elaborazione e la comprensione del contenuto di un'induzione possono produrre nel bambino una risposta empatica alla sofferenza della vittima, la consapevolezza che causa di tale sofferenza è la sua condotta, e un senso di colpa per trasgressione su base empatica. Col tempo, il bambino sviluppa uno schema o uno script dell'incontro disciplinare, ed è in questa integrazione successiva di scripts e messaggi induttivi che egli costruisce una norma interiorizzata di considerazione per gli altri - una norma caricata affettivamente con la sofferenza empatica e il senso di colpa che le induzioni suscitano. Più tardi, negli incontri morali nei quali il bambino nuoce a qualcuno o è sul punto di farlo, questa norma viene attivata internamente (per effetto della sofferenza empatica o del senso di colpa anticipatorio) e diventa la componente motivazionale prosociale del conflitto morale interno dell'individuo. Le induzioni, non più necessarie, hanno in un certo senso «posto le premesse della propria distruzione» (o, almeno, della 177
propria irrilevanza). È come se gli incontri disciplinari che implicano induzioni fossero una prova generale degli incontri morali. I processi che mediano il passaggio dagli incontri disciplinari agli incontri morali - dall'obbedienza all'interiorizzazione - sono al centro della mia teoria, e vi ritorneremo dopo un breve excursus sul tema della disciplina.
1. La disciplina: un'introduzione
La disciplina può essere utilmente definita nei term1rn della struttura di potere della relazione genitore-figlio. I genitori hanno un potere enorme su ogni aspetto della vita dei figli. Controllano la soddisfazione dei loro bisogni materiali e poiché, almeno nei primi anni, sono più forti, possono punire fisicamente i figli. Possono costringerli a fare qualunque cosa o quasi, e il modo in cui i figli vengono trattati, salvo che nei casi di trascuratezza o di crudeltà estreme, è soggetto a poche restrizioni legali (o a nessuna). Secondo alcuni autori, i genitori non hanno poi tutto questo potere [Kuczynski, Marshall e Schell 1997]: diversamente che nelle relazioni di potere tra adulti e bambini non imparentati, «genitori e figli interagiscono in una strettissima relazione di interdipendenza nella quale ognuno può danneggiare ed essere danneggiato dall'altro» [ibidem, 27]. Sono d'accordo fino a un certo punto: anche se la condotta dei genitori è soggetta a vincoli psicologici e culturali - essi amano i figli e desiderano il loro successo e la loro felicità -, i genitori possono ignorare quei vincoli ogni volta che lo ritengano necessario, come spesso accade. Inoltre, la struttura di potere è squilibrata a favore dei genitori, come dimostrano le osservazioni di Schoggen [ 1963] sulla relazione madre-figlio citate nel mio primo articolo sul potere dei genitori [Hoffman 1975a]. Schoggen ha constatato che i genitori tentavano di modificare il comportamento dei figli contro la loro volontà (come era indicato dalla resistenza dei figli e dai loro sentimenti negativi in risposta ai primi tentativi del genitore) quattro o cinque volte più spesso di quanto non facessero i figli nei confronti dei genitori; inoltre, i figli cedevano alla pressione dei genitori più dei due terzi delle volte. Si tratta di osservazioni significative, perché non erano guidate 178
da ipotesi a priori e perché concordano in misura considerevole con le osservazioni sull'obbedienza del bambino riportate all'inizio di questo capitolo. Come sottolineano Minton, Kagan e Levine [ 1971], «l'evento che suscita la reprimenda della madre è spesso una trasgressione lieve ... e il modo di reagire della madre è dire al bambino "Smettila!", per poi, a volte, spiegare perché la proibizione è necessaria. Normalmente il bambino obbedisce; in caso contrario, la madre non ignora l'accaduto, ma passa a vie più energiche, di solito coronate da successo» [ibidem, 1886]. Appare perciò evidente che i genitori di solito sanno come trattare i figli: sono loro che fanno richieste e che fissano, per così dire, l'ordine del giorno. La resistenza del bambino e i suoi tentativi di negoziazione possono ritardare la conclusione, ma anche questo dipende dalla disponibilità dei genitori a dar retta al bambino quando chiede più tempo o sollecita qualche altra concessione. Tuttavia, lo studio di Schoggen, risalente agli anni Sessanta, era circoscritto a Kansas, Michigan e Massachusetts, e limitato a bambini fino a 10 anni di età. Può sembrare ragionevole supporre che la differenza di potere diminuisca quando il bambino cresce, diventa più intelligente e si apre a influenze extrafamiliari, senza contare che i tempi sono cambiati e oggi i genitori hanno (o se non altro usano) meno potere. Ma non vi è nulla che lo provi e, stando alle notizie di cronaca, i genitori esercitano ancora molto potere: è cosa comune che i genitori maltrattino fisicamente i figli, benché in misura variabile secondo il genere, il reddito, il grado di istruzione e l'appartenenza etnica 1 . 1 Un articolo del «New York Times» (29 febbraio 1996) descrive il caso di genitori immigrati dai Caraibi che raccomandavano l'affermazione di potere (compresa la forza) e criticavano aspramente la permissività dei genitori statunitensi. Molti dei genitori dei miei studenti alla New York University sono immigrati di fresca data che provengono da culture tradizionali e che, con poche eccezioni, affermano con forza il loro potere, di solito con successo, anche quando non sanno parlare inglese e di conseguenza dipendono strettamente dai figli. Perciò, almeno in alcune nostre sotto-culture, il fatto che i figli crescano non implica necessariamente che l'affermazione di potere da parte dei genitori diminuisca. Possono esservi meno incontri disciplinari al giorno rispetto a quando i figli erano piccoli, ma la proporzione degli incontri che riaffermano l'autorità del genitori può essere non meno elevata.
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Tutto ciò per dire che i genitori possono scegliere metodi disciplinari che affermano il loro potere in misura più o meno grande (anche per nulla). Parecchio tempo fa ho introdotto l'espressione affermazione di potere (power-assertion) per indicare i metodi disciplinari con i quali i genitori affermano il loro potere [Hoffman 1960]. I genitori controllano anche il rifornimento emotivo dei figli e possono usare la minaccia del ritiro dell'amore per controllarne la condotta, il che accresce il loro potere. Di conseguenza, una volta che il bambino sia diventato consapevole della struttura di potere, tutti gli atti disciplinari dei genitori tendono ad avere uno «sfondo» di affermazione del potere e di ritiro dell'amore che esercita una certa pressione sul bambino affinché obbedisca; inoltre, gli atti disciplinari dei genitori possono avere aspetti espliciti di affermazione e di ritiro dell'amore che rafforzano quella pressione. Gli atti disciplinari possono includere anche una componente di ragionamento o di induzione, attraverso la quale il genitore spiega al bambino il cambiamento richiesto sottolineando le conseguenze che le sue azioni possono avere per lui stesso o per altri. La disciplina da parte dei genitori è perciò multidimensionale. L'affermazione del potere, il ritiro dell'amore e l'induzione sono «tipi ideali» che di rado si presentano isolatamente, ma in gradi e in combinazioni differenti; ciò nondimeno, siccome contribuiscono in forma diversa al senso di colpa e all'interiorizzazione morale, sarà bene analizzarli separatamente. 1.1. Affermazione di potere Come abbiamo osservato sopra, la componente di affermazione di potere della disciplina genitoriale può restare «silenNeanche nell'Occidente più emancipato è così insolito sculacciare i bambini: paesi europei quali l'Austria, la Danimarca, la Finlandia, la Norvegia e la Svezia hanno trovato necessario proibire le punizioni corporali; in Gran Bretagna, le «sberle» rifilate ai bambini sono da lungo tempo un tema di discussione tanto pubblico quanto domestico; e negli Stati Uniti, anche se il ricorso alle punizioni fisiche è diminuito negli ultimi trent'anni, un sondaggio Harris condotto nel 1995 ha rivelato che 1'80 per cento dei 1.250 genitori intervistati avevano sculacciato almeno una volta i figli [Collins 1995].
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te», dietro le quinte, o, al contrario, può essere esplicita. In quest'ultimo caso, l'affermazione di potere comprende richieste, le minacce di usare la forza fisica o di privare il bambino di beni o di privilegi, e il ricorso effettivo alla forza o alla privazione. Vi sono due tipi di forza fisica, che possono avere effetti alquanto diversi: la forza punitiva (sculacciare, schiaffeggiare) e quella coercitiva (tenere fermo, sollevare, spostare il bambino). I metodi di affermazione del potere più arbitrari e coercitivi implicano il ricorso alla forza o alla minaccia per modificare il comportamento del bambino, senza restrizioni né spiegazioni. Dal punto di vista del bambino, queste forme di affermazione incondizionata del potere conculcano il suo bisogno di portare a termine ciò che ha iniziato, la sua libertà di azione e, a partire da una certa età, l'aspettativa che ogni richiesta abbia una giustificazione. Esse inoltre suscitano rabbia, desiderio di riconquistare la libertà - la «reattanza» di Brehm [1972] - e paura. Il loro uso frequente crea bambini che obbediscono per paura ma esprimono la loro rabbia e le loro tendenze antagonistiche verso figure meno potenti, come i compagni o le maestre dell'asilo nido; inoltre, offrono ai bambini un modello di come comportarsi quando si vuole modificare il comportamento altrui tutto basato sull'affermazione di potere [Bandura e Walters 1959; Hoffman 1960]. L'affermazione di potere è meno coercitiva e arbitraria quando è accompagnata da ragioni o «edulcorazioni». Una ragione giustifica le richieste nei termini di qualcosa che non dipende dal genitore. Ecco alcuni esempi tratti dal mio studio sulle madri di bambini in età prescolare (nella maggior parte dei casi ometto la componente di affermazione del potere). Alcune ragioni si richiamano alle condizioni fisiche, temporali o spaziali della situazione («Se corri troppo forte ti cadrà di mano e lo romperai»; «Non si va a letto con le scarpe, le lenzuola si insudiciano»; «Non giocare con il cibo, poi vuole farlo anche la tua sorellina e non mangia più»); altre ragioni fanno appello al bene del bambino («Non camminare dove c'è fango, poi scivoli e cadi»; «Se tu non sei gentile con lei, lei non sarà gentile con te»). Ultime, ma non meno importanti, sono le ragioni che si riferiscono al bene del genitore o di un'altra persona («Non devi mai colpire qualcuno in faccia! Puoi fargli molto male!»; «Resterai in camera tua e non uscirai finché non 181
avrai imparato a giocare, a fare la brava e a trattare bene la tua sorellina senza farla piangere»). Le «edulcorazioni» riducono la dimensione coercitiva dell'affermazione di potere non già attraverso una giustificazione della richiesta, ma concedendo al bambino una gratificazione limitata o una continuazione parziale. Molte volte ragioni ed edulcorazioni sono la risposta del genitore ai tentativi del bambino di negoziare una richiesta incondizionata e basata sull'affermazione di potere. Uno scenario frequente nel mio studio sui bambini in età prescolare era quello in cui i genitori cominciavano con una richiesta incondizionata e basata su un' affermazione di potere: «Smettila!», «Bevi il tuo latte!», «Spegni la TV!», dopo di che rispondevano al tentativo di negoziazione del bambino restando irremovibili ma fornendo una ragione a sostegno della richiesta, o, caso più interessante, addolcendo in qualche modo il colpo (edulcorazione). Ad esempio, offrivano al bambino un surrogato («Ecco, battilo con questo martello non con la bambola»), gli concedevano una continuazione parziale («Va bene, puoi guardare fino al prossimo spot e poi a letto») o abbassavano le pretese («D'accordo, puoi berne mezzo bicchiere»). Altri modi per edulcorare la richiesta sono quello di restare irremovibili mostrando al tempo stesso di capire il desiderio del bambino di continuare a fare ciò che stava facendo, e quello di rendere il cambiamento richiesto più attraente per il bambino (ad esempio, di fronte alla resistenza del figlio a spegnere la TV e andare a letto un padre reagì caricandosi il bambino sulle spalle e salendo le scale al grido: «Avanti, marsc'!»)2. Con tutto ciò, a volte è necessaria un'affermazione di potere incondizionata - ad esempio nelle emergenze, quando non c'è tempo da perdere. I genitori possono usare questo tipo di affermazione costruttivamente, specie se vi ricorrono di rado; ad esempio, può essere il modo migliore di controllare un 2 Lo scenario affermazione di potere-edulcorazione era frequente nel caso dei genitori soliti a ricorrere all'induzione. Diverso e meno frequente è lo scenario nel quale i genitori cominciano con un'induzione, resistono al tentativo di negoziazione del bambino e ribadiscono l'induzione; se il bambino continua a resistere, passano a un'affermazione di potere mitigata (pretendere, insistere), dopo di che, se necessario, per ridurre il bambino all'obbedienza giungono alla minaccia o all'uso della forza.
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bambino molto turbolento o che si comporta in modo apertamente antagonistico [Hoffman 1970a; Zahn-Waxler, RadkeYarrow e King 1979]. E, cosa più importante, l'affermazione di potere incondizionata può essere a volte la cosa migliore, anche per i genitori che ricorrono abitualmente all'induzione, per comunicare chiaramente il grande valore positivo che essi annettono alla considerazione verso gli altri, e l'intensità dei sentimenti che hanno verso certi atti dannosi («Non devi dare calci in faccia a tua madre né a chiunque altro, anche se ti sembra divertente»); e questo anche se è possibile comunicare con ugual forza lo stesso messaggio accompagnandolo con una ragione induttiva («Dammi quel bastone! Ti ho già detto di non giocare con il bastone perché puoi fare male a qualcuno e lo sai benissimo; perciò adesso dammi quel bastone»). In ogni caso, se in queste situazioni i genitori non si esprimono con forza (affermando il proprio potere) il bambino può considerare legittimato l'atto dannoso; l'affermazione di potere rende indubitabilmente chiaro al bambino che ciò che egli ha fatto o sta per fare è sbagliato e inaccettabile.
1.2. Ritiro dell'amore Anche un altro atto disciplinare dei genitori, il ritiro dell'amore, può essere «silente» o esplicito. Ne sono esempio i casi in cui i genitori esprimono in modo diretto - ma senza affermazione di potere - ira o disapprovazione verso il bambino perché ha compiuto un'azione dannosa o indesiderata. Possono, tra le altre cose, ignorare il bambino, voltargli le spalle, rifiutare di parlargli o di dargli ascolto, dirgli «Non mi piaci», lasciarlo solo o minacciare di abbandonarlo. Ecco alcuni esempi di ritiro dell'amore da parte di genitori di bambini in età prescolare: «Non mi piaci quando parli così»; «Benissimo, se è questo il modo in cui intendi comportarti, non chiedermi più di aiutarti»; «Se non la smetti, la mamma se ne andrà e ti lascerà solo»; «Se continui a frignare non ti darò il bacio della buonanotte». Il ritiro dell'amore fa leva sulla relazione di affetto tra genitore e figlio più di quanto non faccia l'affermazione di potere, ma altrettanto facilmente produce una reazione negativa 183
di ansia: non già rabbia e paura, quanto piuttosto ansia per la possibilità che il genitore non voglia più prendersi cura del figlio. Il ritiro dell'amore comunica anche l'intenso sentimento negativo del genitore verso il comportamento in questione e chiarisce che è un comportamento sbagliato. Il ritiro dell'amore viene usato spesso quando il bambino esprime rabbia verso il genitore [Hoffman 1970a], il che può spiegare perché esso contribuisca all'inibizione della rabbia nei bambini [Hoffman 1963; Hoffman e Saltzstein 1967]. Come nel caso dell'affermazione di potere, gli effetti del ritiro dell'amore sul bambino possono essere attenuati da una spiegazione. Ad esempio, un bambino può interpretare un'espressione di indignazione morale da parte del genitore di fronte al suo comportamento come un puro e semplice rifiuto, cosa che può suscitare grande ansia; però è più difficile che ciò accada se il genitore accompagna il suo accesso emozionale con una spiegazione (comprensibile per il bambino) che chiarisca qual è la condotta che il genitore disapprova.
1.3. Induzione
Quando un bambino nuoce o è sul punto di nuocere a un'altra persona - un genitore, un fratello, un amico - i genitori possono assumere il punto di vista della vittima e mostrare come questa sia danneggiata dal comportamento del bambino. Come abbiamo già detto, queste sono induzioni. Le prime induzioni sottolineano le conseguenze fisiche dirette e osservabili della condotta del bambino: «Se lo spingi di nuovo, cadrà e piangerà»; «Mi dà fastidio che mi cammini sopra; per favore, lasciami stare distesa in pace»; «Se sei costretto a difenderti va bene, ma non puoi colpire chiunque ti trovi davanti con tutto quello che hai in mano, potresti fargli male sul serio»; «Se butti la neve sul loro vialetto, dovranno spazzarlo daccapo». Più avanti, possono essere sottolineati i sentimenti di sofferenza della vittima; dapprima sentimenti semplici: «È triste perché non lo fai giocare con le tue biglie, come ti rattristeresti tu se lui facesse lo stesso con te»; «Hai fatto male a Mary e l'hai fatta piangere quando l'hai buttata per terra e le hai preso la bambola» (detto con convinzione ed emozione) [Zahn-Waxler, 184
Radke-Yarrow e King 1979]; poi sentimenti più sottili: «È dispiaciuto perché era orgoglioso della sua torre e tu gliel'hai distrutta». Gli effetti negativi della condotta del bambino possono essere segnalati indirettamente: «Ha paura del buio, perciò per favore riaccendi la luce»; «Cerca di non fare chiasso, se riesce a dormire un po' più a lungo quando si sveglierà starà meglio». E si può presentare il punto di vista della vittima sottolineando le sue intenzioni o i suoi legittimi desideri, in modo da chiarire quanto il comportamento del bambino sia stato ingiustificato: «Non prendertela con lui; voleva solo aiutarti»; «Non potevi lasciarglielo per qualche minuto in modo che potesse guardarci dentro? Gli piacerebbe moltissimo farlo, e non credo che lo romperebbe»; «Adesso tocca a lui e ha diritto a giocarci, come ci hai giocato tu prima»; «Non lascerò che tu la picchi solo perché lei ti ha fatto male senza volerlo. Devi capire che è stato un incidente. È troppo piccola per sapere quello che fa. Non voleva farti male». Infine, possono essere suggeriti atti di riparazione: «Perché non chiedi scusa a tua sorella e cerchi di farla stare un po' meglio?»; «Avvicinati a lei e dalle una carezza, così si sentirà meglio»; «Mi piacerebbe che tu lo aiutassi a ricostruirla» (la torre che il bambino aveva distrutto). Quando ricorrono a un'induzione, i genitori fanno diverse cose: in primo luogo, come tutti i tentativi di cambiare il comportamento del bambino, un'induzione comunica la disapprovazione di un'azione del bambino da parte dei genitori, e segnala, implicitamente o esplicitamente, che l'azione è sbagliata e che il bambino ha commesso una trasgressione («Dire cattiverie alle persone non è bello; le fa star male. In questa casa non ci comportiamo così»)3. Ma le induzioni hanno
3 Ci si può chiedere perché l'attenzione sia rivolta alle conseguenze negative delle azioni del bambino; la ragione è che gli atti gentili e premurosi non sono oggetto degli interventi disciplinari dei genitori. Occasionalmente i genitori chiedono ai figli di fare qualche atto di gentilezza del tutto slegato da quel che i figli stavano facendo («Suonano alla porta. Va ad aprire e dì alla zia Berta che sei entusiasta di vederla, la farai felice»; «Ho i piedi stanchi e indolenziti; per favore toglimi le scarpe e fammi un massaggio, mi rimetterà a nuovo»). Annovero queste richieste tra le induzioni e le considero integrazioni potenzialmente preziose della socializzazione morale prosociale, anche se ho osservato che sono poco frequenti.
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due effetti importanti che le differenziano dagli altri strumenti disciplinari: a) richiamano l'attenzione del bambino sulla sofferenza della vittima e la rendono saliente ai suoi occhi; in tal modo sfruttano l'inclinazione empatica del bambino (stringono con essa un'alleanza) attivando alcuni o tutti i suoi meccanismi di attivazione empatica e producendo sofferenza empatica; b) sottolineano il ruolo del bambino come causa di quella sofferenza. Ciò crea le condizioni per provare un senso di colpa su base empatica, che è un sentimento di profonda disistima di sé per avere danneggiato qualcuno ingiustamente. Mettere in evidenza il ruolo causale del bambino è di importanza capitale, poiché i bambini più piccoli possono provare empatia per la vittima e mettersi a piangere assieme a lei, senza rendersi conto di essere stati loro la causa di quella sofferenza, o possono semplicemente girarsi dall'altra parte e andarsene, evitando così l'empatia e il senso di colpa. Anche i bambini più grandi possono girarsi dall'altra parte e andarsene. Anch'essi possono dimenticare il loro ruolo causale - in litigi e discussioni o quando, invece che rattristarsi e sentirsi male, le vittime delle loro azioni si arrabbiano e cercano di vendicarsi - a causa dell'ambiguità di queste situazioni, che permette loro di proiettare fuori di sé o di razionalizzare la colpa. Per superare questi ostacoli e far leva sull'empatia e sul senso di colpa dei bambini, è necessario che i genitori chiariscano il ruolo delle azioni del bambino nel causare la sofferenza dell'altro. Perché le induzioni riescano in tutto questo, devono essere presentate in una forma che sia alla portata cognitiva e linguistica dei bambini e, specialmente nel caso di quelli piccoli, devono essere chiaramente collegate alla loro esperienza. Il senso comune suggerisce che i genitori normalmente facciano proprio questo, e se ne possono osservare le prove: essi cominciano a usare le induzioni più semplici nel terzo anno di vita del bambino, proprio quando le sue capacità linguistiche progrediscono rapidamente; e il rapporto tra le induzioni e le asserzioni di potere aumenta quando i bambini diventano più grandi [Chapman 1979]. Perché le induzioni siano efficaci è necessario che il bambino non resti passivo, ma smetta di fare quello che stava facendo e presti attenzione al genitore. Deve poi elaborare attivamente il messaggio dell'induzione, deve cioè mettere in relazione le sue azioni con la sofferenza della vittima, 186
in modo che empatia e senso di colpa possano insorgere dentro di lui. Ma il bambino non farà tutto questo, assorbito com'è da quel che sta facendo, dalla motivazione a perseguire i suoi scopi e dall'emotività della situazione, se non vi sarà un certo livello di pressione esterna, che deve essere sufficiente perché il bambino presti attenzione al messaggio dell'induzione e lo elabori, ma non deve giungere a suscitare un eccesso di rabbia, paura o ansia per la possibile perdita dell'amore dei genitori, emozioni che potrebbero perturbare l'elaborazione cognitiva. La spinta a prestare attenzione a un'induzione e ad elaborarla può derivare dalla componente di affermazione del potere di un intervento combinato «affermazione del potereragione». O, se si ricorre alla sola induzione, può bastare la pressione «di sfondo» dell'affermazione di potere e del ritiro dell'amore dovuta alla struttura di potere, come abbiamo visto sopra. In ogni caso, l'elaborazione dell'induzione può convincere il bambino che la richiesta del genitore è ragionevole. E se alla fine obbedisce, volontariamente o perché è spinto a farlo, probabilmente avvertirà sofferenza empatica e senso di colpa, e avrà la sensazione di avere agito male - molto più che in qualunque altro scenario di socializzazione. Consideriamo brevemente il livello di pressione ottimale. Pressione ottimale. Ovviamente, se la pressione è troppo debole il bambino non ha motivo di fermarsi, prestare attenzione al messaggio dell'induzione ed elaborarlo. E gli studiosi dell'elaborazione delle informazioni sanno da tempo che se la pressione è troppo forte l'attenzione si concentrerà sulle caratteristiche fisiche del messaggio verbale, mentre il suo contenuto semantico verrà relativamente trascurato [Kahneman 1973; Mueller 1979]. Analogamente, si può supporre che un eccesso di affermazione del potere o di ritiro dell'amore dirigerà l'attenzione del bambino sulle conseguenze delle sue azioni per se stesso. D'altro lato, gli interventi disciplinari con una forte componente induttiva indirizzano l'attenzione del bambino verso le conseguenze delle sue azioni per la vittima. Inoltre, l'elemento esplicativo delle induzioni attenua l'arbitrarietà della richiesta del genitore, e siccome indirizza la disapprovazione del genitore sull'atto e sui suoi effetti dannosi piuttosto che sul bambino, rende meno probabile una reazione di forte ansia, capace di perturbare l'elaborazione cognitiva. Perciò le 187
induzioni permettono meglio di altri strumenti disciplinari di raggiungere un duplice obiettivo: fare in modo che l' attenzione del bambino si concentri sulle proprie azioni e sulle loro conseguenze per gli altri, e che la pressione esterna dei genitori resti sullo sfondo. Quando l'affermazione di potere è necessaria, di che tipo è meglio che sia e qual è il suo livello ottimale? A quanto pare, dipende dalla situazione. Quando il bambino è semplicemente inconsapevole del male arrecato, può bastare un intervento misurato: «Non vedi che stai facendo male a Mary? Smetti di tirarle i capelli». Quando però vi è un conflitto molto intenso tra il bambino e un genitore o un amico, può essere necessario che il genitore prenda saldamente il bambino e insista perché presti ascolto (all'induzione), o lo sposti fisicamentè e lo calmi, o lo spedisca in camera sua in modo che possa tranquillizzarsi (e il genitore con lui). Una volta che si sia calmato, il bambino sarà più disposto a elaborare l'induzione e farne tesoro. Le cose possono andare diversamente se i due genitori si affidano a una sorta di divisione del lavoro nella quale uno dei due usa l'affermazione di potere e l'altro l'induzione, come in questo esempio (dovuto a una studentessa): Mio padre adoperava la cinghia. Io piangevo e mia madre soffriva per me. Veniva nella mia camera e mi spiegava perché ero stata punita. Ricordo che un giorno ero a casa con mia madre e lei mi disse qualcosa. Le saltai su dicendole di stare zitta. In quel momento non fece e non disse nulla; si limitò ad aspettare che mio padre tornasse a casa. Quando lui rientrò e seppe da mia madre che cosa era successo, andò su tutte le furie. Fui punita e spedita in camera; piangevo e sentivo dolore perché mi aveva preso a cinghiate sul didietro. Così imparai a temerlo, perfino a odiarlo. Più tardi mia madre venne in camera, mi fece sedere accanto a lei, mi fece smettere di piangere e mi spiegò che dicendole di stare zitta le avevo mancato di rispetto. Aggiunse che parlandole in modo tanto villano avevo ferito i suoi sentimenti. Disse anche che non avrei dovuto mai più rivolgermi a nessuno in quel modo perché era segno di maleducazione e di mancanza di rispetto. Quando mi fece sedere e mi disse che l'avevo ferita, mi resi conto che ciò che avevo fatto era davvero sbagliato. Capii anche che non avrei dovuto farlo più. Non perché altrimenti sarei stata punita, ma perché avrei ferito mia madre, o qualunque altra persona alla quale mi fossi rivolta in quei termini.
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Quando una madre si rimette al giudizio del padre in questo modo, spesso i figli perdono il rispetto per lei, oppure pensano che lei affermi il suo potere attraverso il padre; ciò però non sembra essere successo in questo caso, probabilmente per la natura della relazione madre-figlia. In ogni caso, il ricorso a un castigo corporale da parte del padre sembra aver creato le condizioni del ricorso all'induzione da parte della madre, come pure della sua evidente efficacia nello sviluppo morale prosociale della figlia. Sembra anche che la madre abbia seguito la «regola» di calmare la figlia prima di passare all'induzione. Due ultime osservazioni sul livello ottimale dell' affermazione di potere. La prima è che il livello ottimale può essere influenzato dal temperamento del bambino: Kochanska [ 1995] ha osservato che i bambini timorosi richiedono una dose di affermazione di potere relativamente modesta, e si può supporre che i bambini più ostinati ne richiedano una dose relativamente maggiore. La seconda osservazione è che, indipendentemente dalla forza dell'affermazione di potere richiesta in certe circostanze, ci si può aspettare che le affermazioni di potere, usate giudiziosamente, possano avere una funzione ausiliaria, e rafforzino la motivazione del bambino a rivolgere l'attenzione alle induzioni. Di qui in avanti, quando parlerò degli effetti positivi delle induzioni, assumerò che la pressione a rivolgere ad esse l'attenzione sia compresa nel campo di variazione ottimale. Espressioni di delusione. Spesso i genitori dicono: «Mi hai deluso», il che sembra comunicare un atto di induzione («Hai tradito le mie attese»; «Non mi vuoi bene»), o di ritiro dell'amore («Ti stimo meno di prima»; «Ti amo di meno»), o entrambi. Krevans e Gibbs [1996] hanno trovato che un'espressione di delusione si comporta statisticamente come un atto di induzione e non di ritiro dell'amore; ciò nondimeno essi propongono di considerare le espressioni di delusione separatamente dalle altre induzioni. La mia posizione è differente. Quando la delusione si combina con l'induzione («Le tue parole mi hanno rattristato») o con il ritiro dell'amore («Non posso più fidarmi di te»; «Quando ti comporti così non sei mio figlio») non c'è ambiguità: o una cosa o l'altra. Quando l'espressione di delusione è isolata, bisogna considerare il contesto. Se il 189
contesto non aiuta, l'espressione dovrebbe essere considerata indecifrabile o un caso di induzione o di ritiro dell'amore a seconda della risposta abituale del genitore in situazioni simili. Ho constatato che il contesto di solito favorisce le induzioni: anche quando il genitore esprime disapprovazione, il messaggio fondamentale è che le parole o le azioni del bambino lo hanno addolorato o deluso; ciò può spiegare perché la delusione si comporta statisticamente come un'induzione. Certo è che si comporta come un'induzione nel caso seguente: A 18 o 19 anni, quando vivevo ancora con i miei genitori, andai a una festa e non rientrai a casa fino alle otto o alle nove del mattino seguente. Non avevo telefonato - non mi era neppure passato per la testa di telefonare. Quando misi piede in casa, stanco e mezzo sbronzo, mia madre aveva in serbo per me il senso di colpa più grande dell'universo conosciuto. Partì all'attacco: «Tu non mi vuoi bene, tu mi fai disperare, pensavo che fossi morto». Ma il peggio venne quando mi disse che l'avevo delusa. Mia madre! Proprio lei che aveva celebrato ogni mio piccolo successo, dalla scuola materna al conseguimento della patente di guida. Il modo in cui mi fece sentire quel giorno lasciò il segno. Certo, dopo molte lacrime e spiegazioni, ci riconciliammo, ma ancora oggi ricordo benissimo la delusione dipinta sulla faccia e il tono della sua voce. Prego Iddio di non farla mai più sentire così. [Baumeister, Stillwell e Heatherton 1995, 267] Non è chiaro se questa madre negasse il suo amore («Poiché non hai considerazione per me ti amo di meno»), tuttavia il messaggio fondamentale è una chiara induzione («Il fatto che non hai considerazione per me mi fa soffrire»). Più che un «Non ti amo» è un «Tu non mi ami»; e così il messaggio sembra essere stato recepito dal figlio, come testimoniano le sue parole sul senso di colpa. Ricapitoliamo. Tutti gli interventi disciplinari sollecitano il bambino a cambiare la sua condotta, ed è esattamente per questa ragione che essi trasmettono un messaggio di disapprovazione delle azioni dannose del bambino. Pertanto, possono suscitare in lui ansia per la disapprovazione dei genitori e spingerlo a comportarsi diversamente per riconquistare la loro approvazione. Se la componente di affermazione del potere o di ritiro dell'amore è marcata, l'ansia del bambino aumenta, e la sua attenzione si concentra sulle conseguenze che hanno per lui l'obbedienza o il rifiuto. Quando in primo piano è l'induzione, l'ansia per la
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disapprovazione è minore; tuttavia, la struttura di potere può essere di per sé sufficiente a far sì che il bambino rivolga la sua attenzione all'induzione e la elabori; ciò rende il bambino consapevole della sofferenza della vittima e del proprio ruolo nel produrla e genera sofferenza empatica e senso di colpa. Perciò i cambiamenti di condotta del bambino prodotti dalle induzioni non sono dovuti all'obbedienza o al conformarsi nel senso di sottomettersi alla ·volontà altrui, ma, almeno in una certa misura, a cambiamenti cognitivi e affettivi che sono frutto dell'elaborazione delle informazioni pertinenti.
2. Una teoria del ruolo dell'induzione nello sviluppo morale
Quella che segue è una rassegna dei concetti principali della teoria, formulati in termini di ricordi di eventi generici o scripts (copioni) relativi ai processi cognitivi e affettivi in gioco negli incontri disciplinari e al modo in cui essi contribuiscono allo sviluppo del senso di colpa e dell'interiorizzazione morale nei bambini. Ho fatto ricorso al concetto di script per varie ragioni. Come osserva Nelson [1993], gli scripts derivano dall'esperienza e rappresentano lo schema generale di un evento familiare; essi delineano sequenze di interazioni comportamentali e senza specificare in dettaglio il luogo e il tempo in cui l'evento è occorso. Gli scripts organizzano e governano le azioni dei bambini: un bambino di 3 o 4 anni è in grado di raccontare quel che accade generalmente in un evento familiare come fare merenda alla scuola materna, o andare al mare, allo zoo o da McDonald's [Hudson e Nelson 1983; Nelson 1981]. Sembra ragionevole, pertanto, assumere che il bambino formi scripts di sequenze di interazioni disciplinari (incontri disciplinari) nelle quali danneggia altre persone, e che questi scripts divengano più complessi man mano che si ripetono, in un processo di integrazione progressiva di nuove informazioni e nuovi dettagli. Assumo inoltre che gli scripts degli incontri disciplinari, come altri «scripts emozionali» [Lewis 1989] - o, quanto a questo, come qualunque altra rappresentazione -, possano essere caricati con gli affetti che accompagnano l'evento. In questo caso, gli affetti sono la sofferenza empatica, la sofferenza simpatetica e il senso di colpa, che conferiscono allo script le 191
loro proprietà motivazionali. In questo modo, gli scripts di incontri disciplinari nei quali il bambino danneggia o sta per danneggiare altre persone possono diventare le unità affettivocognitivo-comportamentali della sua struttura motivazionale prosociale. Ecco come ciò può accadere.
2 .1. Processi affettivi e cognitivi negli incontri disciplinari
1. Ricapitolando, un'induzione, come ogni altro intervento disciplinare, comunica la disapprovazione dell'atto dannoso del bambino da parte del genitore. Ciò segnala chiaramente che il bambino ha fatto qualcosa di sbagliato e suscita in lui una certa preoccupazione per l'approvazione del genitore. Ma, a differenza di altri tipi di atti disciplinari, le induzioni hanno due effetti aggiuntivi. In primo luogo, richiamano l'attenzione sulla sofferenza della vittima, e, mettendola in rilievo, incontrano un alleato all'interno del bambino: la sua inclinazione empatica. Le induzioni mettono in moto certi meccanismi di attivazione dell'empatia - la mimesi, se fanno sì che il bambino guardi la vittima; l'assunzione di ruolo, se incoraggiano il bambino a immaginare come si sentirebbe al posto della vittima; l'associazione mediata, se chiamano in causa esperienze passate del bambino. In questo modo, le induzioni suscitano sofferenza empatica per il dolore della vittima, i suoi sentimenti feriti e, se è il caso, per il protrarsi della sua sofferenza oltre la situazione immediata. In secondo luogo, le induzioni sono comunicazioni verbali che rendono saliente il ruolo causale del bambino nella sofferenza altrui. Quando il bambino elabora le informazioni in condizioni appropriate (livello di pressione ottimale), ne risulta una forma di autobiasimo che converte la sua sofferenza empatica, almeno in parte, in senso di colpa, cioè in senso di colpa per trasgressione (in contrasto con il senso di colpa dello spettatore per inazione). Insomma, l'elaborazione cognitiva delle induzioni da parte del bambino suscita sofferenza empatica e la converte in senso di colpa. 2. Per ciò che riguarda il modo in cui il bambino forma i suoi primi scripts, Nelson [1993] suggerisce che ogni nuova esperienza lo spinga a costruire uno schema della medesima. Sebbene questo schema si conservi in memoria per qualche
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tempo come un ricordo «episodico» [Tulving 1972], in seguito a nuove esperienze con eventi dello stesso tipo esso assume sempre di più le caratteristiche di uno script; e, mano a mano che prende la forma di uno script, Io schema integra in sé ogni nuova informazione significativa. Nelle ricerche con bambini in età prescolare su eventi nuovi e ripetuti, è emerso che questo processo di costruzione degli scripts richiede che gli eventi siano sperimentati cinque o più volte [Hudson e Nelson 1983]. Io suggerisco che nei primi incontri disciplinari del bambino in cui viene usata l'induzione accada la stessa cosa. Le condizioni per la formazione degli scripts sono soddisfatte: l'evento si ripete più volte, e le induzioni offrono informazioni e creano le condizioni necessarie per integrare semanticamente tali informazioni in uno script. La mia ipotesi è che la sequenza: trasgressione del bambino, seguita dall'induzione del genitore, seguita dal sentimento di sofferenza empatica del bambino e dal suo senso di colpa, sia rappresentata inizialmente, come nel modello di Nelson, nella forma di un ricordo o di uno schema «episodico». Poi, col susseguirsi degli incontri disciplinari, la sequenza è rappresentata come uno script. Una volta costituitosi uno script dell'incontro disciplinare, in esso sono integrate le informazioni e le caratteristiche significative degli incontri successivi. Uno script completo può includere anche gli atti riparatori suggeriti dal genitore (scuse, conforto, abbracci e baci alla vittima), le risposte positive del genitore e della vittima a questi atti, e il sollievo empatico e la riduzione del senso di colpa che il bambino può sperimentare di conseguenza. Queste integrazioni hanno un ruolo importante: offrono al bambino un repertorio di atti riparatori per il futuro e rafforzano il nesso tra gli atti, l'attivazione del senso di colpa e la sua riduzione. Lo script completo è dunque «Trasgressione ➔ Induzione ➔ Sofferenza Empatica e Senso di Colpa ➔ Riparazione», ma poiché al centro del mio discorso è la motivazione, specialmente il senso di colpa fondato sull'empatia, e anche per convenienza, lo chiameremo script Trasgressione ➔ Induzione ➔ Senso di Colpa. Ad esso la sofferenza empatica e il senso di colpa conferiscono proprietà motivazionali (cap. III). Prima di proseguire, una nota storica: nelle sue linee generali, la nozione di script morale fu anticipata molto tempo fa 193
da Piaget, quando sostenne che le emozioni non sono semplicemente sperimentate e poi dimenticate, ma sono memorizzate come parte delle rappresentazioni e delle interpretazioni di base degli eventi sociali e morali. «Gli affetti, grazie alla loro rappresentazione, perdurano quando gli oggetti che li hanno suscitati non sono più presenti; questa capacità di serbare il ricordo dei sentimenti rende possibili i sentimenti interpersonali e morali, e permette che questi ultimi siano organizzati in scale normative di valori» [Piaget 1954/1981, 44]. Nei miei termini, Piaget sostiene che la formazione di uno script evita che la sofferenza empatica e il senso di colpa siano dimenticati subito dopo essere stati sperimentati; i sentimenti sono inclusi in scripts che sono codificati nella memoria e che in seguito è possibile evocare. (Nel cap. IX ci soffermeremo sul ruolo della cognizione per stabilizzare gli affetti empatici.) 3. I bambini possono cominciare a formare questi scripts fin dall'inizio del terzo anno, quando i genitori iniziano a ricorrere sul serio alla disciplina e quando, come mostrano le ricerche, le induzioni cominciano a motivare il bambino a tenere conto degli altri [Zahn-Waxler, Radke-Yarrow e King 1979]. Perché un bambino di questa età comprenda le informazioni induttive al punto da sperimentare sofferenza empatica e senso di colpa, le informazioni devono segnalare chiaramente la sofferenza della vittima e mettere in evidenza il ruolo del bambino nel causarla («Tu lo hai spinto, lui è caduto e si è messo a piangere»). Quando il bambino elabora le sue primissime induzioni, la cosa più probabile è che integri la relazione causale tra le sue azioni e la sofferenza della vittima nei semplici scripts causali fisici, non morali, che aveva precedentemente costruito e applicato agli incontri disciplinari. Attraverso questo processo, quei semplici scripts fisici causa-effetto si arricchiscono e assumono una dimensione morale (le mie azioni possono far male ad altri). Inoltre, gli scripts possono essere infusi di sofferenza empatica e di un (embrionale) sentimento di colpa, che conferisce loro le proprietà, anche quelle motivazionali, delle rappresentazioni affettivamente cariche, o cognizioni «calde». Questi possono essere i primi e più semplici scripts Trasgressione ➔ Induzione ➔ Senso di Colpa. Si può immaginare che all'inizio ogni atto dannoso abbia il proprio script: in un primo momento atti semplici, come 194
dare calci o botte, spingere, sputare, tirare i capelli, fare dispetti e insultare, poi comportamenti più complessi come rivelare una confidenza, mancare a una promessa, rientrare tardi e far preoccupare i genitori. Questi scripts continuano ad operare e svilupparsi singolarmente, ma, al tempo stesso, si combinano a formare scripts più generali riguardanti l'infliggere danni fisici ad altri o ferirne i sentimenti o deluderne le speranze; generalizzando ancora, si giunge infine a uno script più astratto e schematico che include qualunque azione che danneggi altri. 4. All'inizio, quando sono attivati nei bambini in situazioni di conflitto, questi scripts non riescono a vincere la forza dell'aspettativa del beneficio egoistico. Col tempo, tuttavia, lo sviluppo cognitivo permette al bambino di «decentrare», cioè di trascendere il richiamo egoistico, di liberarsi dai lacci della prospettiva personale e assumere la prospettiva dell'altro. Tuttavia, la capacità cognitiva di decentramento appena acquisita dal bambino non è sufficiente a impedire che il suo punto di vista monopolizzi o quasi la sua attenzione nelle situazioni di conflitto, a meno che non sia costretto a fare diversamente. Ma da dove può scaturire una tale costrizione? La risposta di Piaget - dai pari, quando esprimono i propri desideri - non è confermata dalle ricerche: Hay [1984] ha constatato che i bambini in età prescolare spesso risolvono i loro conflitti senza l'intervento degli adulti, ma che di solito l'esito avvantaggia coloro che hanno iniziato il conflitto o fanno uso della forza, di minacce o gesti intimidatori. Ciò indica che le prospettive conflittuali dei pari sono una manifestazione del problema, non la sua soluzione. Una risposta migliore potrebbe essere che c'è una divisione del lavoro tra il decentramento, il conflitto tra pari e le induzioni dei genitori: il conflitto tra pari obbliga il bambino ad abbandonare la modalità egocentrica e a prestare attenzione agli altri; il decentramento è la qualità strutturale cognitiva che permette al bambino di prestare attenzione a una molteplicità di pretese; e l'empatia e il senso di colpa suscitati dalle induzioni lo motivano a tenere conto delle pretese altrui. In ogni caso, la sofferenza empatica può mitigare il piacere che il bambino può provare agendo a modo suo; in altri termini, la forza delle motivazioni egoistiche dei bambini può venir 195
attenuata dal conoscere i bisogni altrui e i sentimenti che questi implicano, e può ridursi fino al livello delle loro motivazioni empatiche emergenti e ad esse contrapposte. In altre parole, la forza motivazionale degli scripts morali prosociali del bambino, fino ad allora debole, può uguagliare ormai e a volte superare la forza delle sue motivazioni egoistiche. 5. I primi scripts del bambino possono includere rappresentazioni cinestetiche e immagini visive dei movimenti corporei implicati nelle sue azioni dannose, così come le immagini visive e i suoni che accompagnano la sofferenza della vittima, nonché i significati che il bambino trae dalle induzioni. Io assumo che questi scripts siano codificati nella memoria e siano attivati nel successivo incontro disciplinare, la cui informazione induttiva viene integrata negli scripts, e così via. In seguito, con il linguaggio, lo sviluppo cognitivo e l'emergere di modi più sofisticati di nuocere agli altri, il contenuto induttivo degli interventi disciplinari dei genitori diventa più complesso: gli scripts diventano meno cinestetico-immaginativi e più semanticoproposizionali. Essi continuano a modificarsi e a svilupparsi negli anni della fanciullezza integrando progressivamente le informazioni di - letteralmente - migliaia di induzioni4 • Attraverso questo processo, i primi scripts causali, fisici e non morali, si trasformano in scripts complessi, generali, carichi affettivamente, riguardanti le conseguenze delle proprie azioni sugli altri - scripts che includono la dimensione etico-cognitiva propria della norma morale di tener conto degli altri e, al tempo stesso, mantengono gli elementi motivazionali dell'empatia e del senso di colpa.
4 Ho già menzionato gli studi che indicano che un bambino può essere bersaglio di un gran numero di interventi disciplinari l'anno (fino a 15.000). Non saprei dire quanti di questi siano casi di induzione, ma erano induzioni oltre un terzo degli interventi disciplinari del mio campione di genitori di bambini in età prescolare di classe media. Ci sono anche prove che i genitori di classe media ricorrono al «ragionamento» in circa la metà dei casi [Chapman e Zahn-Waxler 1982; Ross et al. 1990; Smetana 1989; e altri ancora]. Se la metà di questi ultimi casi fossero induzioni, come si può ragionevolmente supporre, allora circa un quarto degli interventi disciplinari potrebbero essere induzioni. Ciò significa che nel caso dei genitori che preferiscono le induzioni non è esagerato parlare di «migliaia di induzioni negli anni della fanciullezza».
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6. Questi scripts morali prosociali non sono acquisiti passivamente; essi vengono formati attivamente dai bambini in un processo continuo di costruzione, sintesi, organizzazione semantica dell'informazione induttiva, che i bambini mettono in relazione con le proprie azioni e la condizione della vittima. Nel corso dell'elaborazione delle induzioni- supponendo, una volta di più, che il livello della pressione esterna sia ottimale -, il bambino è padrone dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti. E siccome i processi mentali attivi rendono salienti agli occhi del bambino i processi cognitivi e affettivi che hanno luogo al suo interno, il bambino considera i suoi scripts, e perciò la norma morale di tener conto degli altri (sempre implicita e spesso esplicita nelle induzioni), come una costruzione che è parte del proprio sistema motivazionale interno, benché tragga origine dagli incontri disciplinari, cioè dall'esterno. Di conseguenza, l'intervento dei genitori diventa meno necessario; la componente induttiva comincia a scomparire dallo script e il bambino è motivato a tener conto degli altri anche in assenza dei genitori. A un certo punto, l'intervento del genitore non è più necessario, e lo script Trasgressione ➔ Induzione ➔ Senso di Colpa si trasforma, a tutti gli effetti, in uno script Trasgressione ➔ Senso di Colpa, che può essere attivato dalla consapevolezza del bambino di avere danneggiato un'altra persona. E una volta che lo script è stato attivato, il senso di colpa e la motivazione a riparare che lo accompagnano sono sperimentati dal bambino come qualcosa che proviene dal suo interno5 •
5 Assumo che questa attivazione sia automatica e preconscia. Fuori del contesto degli incontri disciplinari, quando a un bambino viene chiesto di ripensare ai metodi disciplinari dei genitori, può darsi che ricordi più facilmente i casi, relativamente pochi, nei quali i genitori hanno usato l'affermazione di potere per comunicare quanto valore attribuivano alla considerazione per gli altri e la forza dei loro sentimenti al riguardo. In accordo con la teoria della memoria autobiografica di Nelson [1993], avanzerei l'ipotesi che questi casi siano da annoverare tra i «ricordi episodici» che definiscono il sé autobiografico personale, anche se è possibile che si attivino di rado negli incontri morali (la cosa più probabile è che si aiuti perché si attiva uno script, non perché si ricordano i valori espressi dai genitori). Ma ciò richiede ulteriori indagini.
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7. Attivazione anticipatoria degli scripts e del senso di colpa. Il valore degli scripts e del senso di colpa su base empatica come motivazioni morali prosociali sarebbe limitato se gli scripts fossero attivati e il senso di colpa fosse sperimentato solo a cose fatte; sembra ragionevole pensare che, come altre rappresentazioni, gli scripts Trasgressione ➔ Senso di Colpa possano attivarsi in anticipo per effetto di stimoli pertinenti, che, in questo caso, sono i pensieri e le immagini che attraversano la mente del bambino quando considera un'azione che può danneggiare qualcuno. Quando questi pensieri e queste immagini anticipatorie attivano uno script Trasgressione ➔ Senso di Colpa, il senso di colpa associato allo script sarà sperimentato come un «senso di colpa anticipatorio», che agisce come una motivazione a non commettere l'atto dannoso. Il senso di colpa anticipatorio può prevalere, ma, in caso contrario, se il bambino compie l'atto dannoso si sentirà colpevole. Il senso di colpa anticipatorio ha certe precondizioni, sul piano cognitivo e del controllo del comportamento. La persona deve riuscire, anche quando è sotto pressione, a collegare le proprie intenzioni con le azioni e le loro conseguenze prima che si verifichino, a considerare il punto di vista altrui, a controllare l'impulso a compiere l'azione. Di conseguenza, sul piano evolutivo, il senso di colpa anticipatorio dovrebbe seguire il senso di colpa per trasgressione. In ogni caso, l'effetto del senso di colpa anticipatorio è che invece di sentirsi colpevole dopo avere danneggiato qualcuno, la persona si sentirà colpevole al solo pensiero di danneggiarlo. Invece di pensare al modo di annullare un atto dannoso, si può, in un certo senso, «disfarlo» in anticipo, semplicemente non facendolo. Sono stati condotti diversi studi sulla capacità del senso di colpa anticipatorio di agire come motivazione contro le trasgressioni. In uno studio di Okel e Mosher [1968], degli studenti universitari maschi erano spinti a insultare un compagno (complice dello sperimentatore), che si mostrava ferito dagli insulti. I soggetti molto empatici riferirono di essersi sentiti colpevoli per ciò che avevano fatto, e aggiunsero che se avessero saputo prima che la vittima si sarebbe sentita tanto male avrebbero agito diversamente. In un altro studio, Malinowski e Smith [1985] chiesero ai soggetti, studenti universitari, se si sarebbero sentiti colpevoli qualora avessero imbrogliato; si 198
constatò che coloro che avevano risposto affermativamente di fatto non imbrogliavano in un compito sperimentale. Infine, è stato dimostrato (vedi il cap. IV) che gli spettatori prevedono che se non aiuteranno una persona in difficoltà si sentiranno poi colpevoli; perciò si può supporre che essi prevedano che si sentiranno altrettanto colpevoli al pensiero di avere effettivamente danneggiato qualcuno. 8. Integrazione di nuove esperienze. Una volta che abbia a disposizione gli scripts per tenere conto degli altri e la capacità di sperimentare in anticipo il senso di colpa, il bambino può integrare in questi scripts le sue esperienze sui danni arrecati ad altri fuori degli incontri disciplinari. Queste esperienze possono essere nuove, perché sono legate alla crescita e hanno luogo tra i pari ma non alla presenza dei genitori. Anche la propria esperienza come vittima in queste nuove situazioni può essere integrata nello script perché aiuta a scoprire come ci si sente nei panni della vittima. In questo modo gli scripts Trasgressione ➔ Senso di Colpa possono crescere e ampliarsi grazie all'integrazione di nuove esperienze estranee agli incontri disciplinari. La teoria riguarda soprattutto gli interventi disciplinari dei genitori, ma anche le interazioni del bambino con gli adulti e i coetanei fuori di casa possono contribuire all'interiorizzazione dei principi morali. Sulla base del primo nucleo motivazionale costituitosi a partire dagli incontri disciplinari, il bambino può far tesoro delle comunicazioni quasi-induttive dei professori e di altri adulti; ed è possibile che l'interazione con altri bambini nella cui famiglia l'induzione è usata frequentemente abbia gli effetti costruttivi ipotizzati da Piaget, specie in caso di supervisione indiretta da parte degli adulti o di addestramento induttivo [Hoffman 1980]. Queste interazioni tra pari possono rafforzare gli effetti positivi delle induzioni dei genitori e possono contribuire a estendere l'ambito di applicazione della motivazione a tener conto degli altri (per esempio, mantenere le promesse, non tradire la fiducia, non mettere in imbarazzo gli altri); ambito che si estende ulteriormente a mano a mano che il bambino acquisisce abilità linguistiche e di assunzione di ruolo più sofisticate, così che le ripercussioni delle sue azioni sugli altri possono essere comprese molto dopo (o previste in anticipo) rispetto ai fatti. E sebbene il linguaggio e l'assunzione di ruolo siano abilità 199
neutre, che è possibile impiegare tanto per manipolare quanto per aiutare gli altri, un bambino motivato a pensare agli altri se ne servirà più spesso a quest'ultimo scopo. In conclusione, quelli che ho descritto sono i fattori antecedenti che possono condurre allo sviluppo di una motivazione morale a tener conto degli altri quando i propri bisogni sono in conflitto con quelli altrui. Esperienze successive di varia natura possono estendere questa motivazione ad altri aspetti della vita, e fornire le abilità e competenze che aiutano la motivazione e si basano su di essa per creare complesse strutture ideative morali (come vedremo nel cap. IX).
3. Le prove della teoria Le prove della teoria non sono certo inoppugnabili, ma alcuni dei suoi concetti più importanti hanno trovato conferma, e siccome questi concetti sono parte di una rete strettamente interconnessa, il sostegno che essi ricevono è un sostegno ricevuto dalla teoria nel suo complesso. Le ricerche relative all'influenza della disciplina dei genitori sul senso di colpa e sull'interiorizzazione morale risalgono principalmente agli scorsi anni Sessanta e Settanta [vedi Hoffman 1988], ma sono proseguite fino ai giorni nostri [Brody e Shaffer 1982; Crockenberg e Litman 1990; DeVeer 1991; Hart et al. 1992; Krevans e Gibbs 1996; Rollins e Thomas 1979]. Queste ricerche confermano quasi concordemente (alcuni dati non sono statisticamente significativi, ma non ve ne sono di negativi) la tesi che l'uso materno dell'induzione (i dati relativi ai padri non sono univoci) crei bambini il cui orientamento morale è caratterizzato da indipendenza dalle sanzioni esterne e da senso di colpa per i danni arrecati ad altre persone. Questi risultati concordano anche con le osservazioni della vita reale, come quelle compiute da Oliner e Oliner [1988], secondo cui i genitori dei tedeschi che avevano salvato degli ebrei perseguitati dai nazisti erano persone affettuose, che era più probabile che avessero usato l'induzione e meno l'affermazione di potere. Inoltre, le ricerche mostrano che un orientamento morale fondato sulla paura di essere scoperti e puniti è associato con l'uso frequente dell'affermazione di potere, specialmente della sua 200
affermazione incondizionata. Non sembra esservi una relazione univoca tra l'orientamento morale e il ritiro dell'amore, benché vi sia qualche prova di una relazione tra il ritiro dell'amore e l'inibizione della rabbia. Le ricerche sono per lo più correlazionali, ma non mancano prove sperimentali dell'influenza dell'induzione sull'interiorizzazione morale [Kuczynski 1983; Sawin e Parke 1980]. I soggetti dello studio di Kuczynski erano dei bambini di 9-10 anni, divisi in tre gruppi, che dovevano giocare con giocattoli molto attraenti. A un certo punto veniva detto loro che dovevano fare un lavoro, e venivano fatti sedere con le spalle ai giocattoli. Tutti venivano invitati a non guardare i giocattoli finché non fossero stati autorizzati da un adulto (una forma blanda di affermazione di potere). A un gruppo non veniva detto nient'altro (affermazione di potere blanda ma incondizionata); a un secondo gruppo veniva detto che se avessero guardato i giocattoli sarebbe stato peggio per loro, perché se non avessero lavorato abbastanza avrebbero dovuto finire il lavoro più tardi e avrebbero avuto meno tempo per giocare - un'affermazione di potere blanda, con una ragione focalizzata sul bambino (bambino scontento e con meno tempo); i bambini del terzo gruppo venivano invitati a non guardare e veniva detto loro che se avessero guardato i giocattoli l'adulto sarebbe stato scontento perché, se non avessero lavorato abbastanza, egli avrebbe dovuto fare il lavoro più tardi e avrebbe avuto poco tempo per portarlo a termine - affermazione di potere con induzione (adulto scontento e con meno tempo). I risultati furono i seguenti. Quando l'adulto restava nella stanza non c'erano differenze fra le tre manipolazioni: la maggioranza dei soggetti obbediva; quando però l'adulto lasciava la stanza, dicendo che sarebbe stato via più del previsto e perciò avrebbe capito se i bambini non avessero lavorato ininterrottamente, aggiungendo, per buona misura, che non si sarebbe arrabbiato se avessero guardato i giocattoli, era molto più probabile che il gruppo dell'induzione continuasse a lavorare senza guardare i giocattoli rispetto agli altri due gruppi; inoltre, le prestazioni di questo gruppo non variavano rispetto alla condizione in cui l'adulto restava nella stanza. Ho descritto in dettaglio questo esperimento perché la misura dell'interiorizzazione morale prosociale in esso impiegata 201
si awicina molto all'interiorizzazione morale nella vita reale: facciamo qualcosa a beneficio di un altro e a nostre spese senza aspettarci una ricompensa se lo facciamo, o una punizione se non lo facciamo. A tutta prima, la misura può apparire simile al «paradigma del giocattolo proibito» criticato nel capitolo quinto, ma misura indubbiamente meglio l'interiorizzazione morale perché i soggetti del gruppo dell'induzione resistevano alla tentazione non per se stessi ma per il bene di qualcun altro. Lo studio di Sawin e Parke era simile, salvo che i soggetti erano bambini che frequentavano l'ultimo anno di scuola materna e la seconda elementare, lo sperimentatore era una donna, e le tre manipolazioni erano: a) un'affermazione di potere blanda e incondizionata: «Mentre sono via non dovete toccare i giocattoli»; b) la medesima blanda affermazione di potere con in più l'informazione che l'adulto si sarebbe «molto arrabbiato» se i bambini avessero toccato i giocattoli (blanda affermazione di potere e ritiro dell'amore); e) la medesima affermazione di potere con in più l'informazione che l'adulto si sarebbe «profondamente rattristato» se avessero toccato i giocattoli (blanda affermazione di potere e induzione). Come nello studio di Kuczynski, i soggetti che avevano meno probabilità di toccare i giocattoli quando l'adulto era fuori della stanza erano quelli del gruppo dell'induzione, benché ciò valesse solo per i bambini di seconda, più vicini per età ai soggetti di Kuczynski (quelli di scuola materna non mostravano nessun effetto). Entrambi questi studi sperimentali, soprattutto quello di Kuczynski, confermano il ruolo dell'induzione nell'interiorizzazione, poiché quando ai bambini veniva detto che la loro condotta avrebbe avuto conseguenze spiacevoli per qualcun altro, essi si sentivano più stimolati ad agire in senso prosociale. In tutti e due gli esperimenti le manipolazioni induttive sottolineano i sentimenti (infelicità, tristezza) dell'altra persona e il modo in cui essa è influenzata dalla condotta del bambino. Perciò i due studi confermano implicitamente l'ipotesi che le induzioni facciano leva sulle capacità empatiche dei bambini, o, che è lo stesso, che l'empatia faccia da mediatrice fra l'induzione e l'interiorizzazione. Questa ipotesi ha trovato ulteriore conferma in un recente studio correlazionale di Krevans e Gibbs [1996]: replicando i risultati ottenuti nelle ricerche precedenti, essi hanno constatato una correlazione positiva tra l'induzione
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e il comportamento prosociale, ma hanno anche raccolto dati sull'empatia, e hanno trovato che l'induzione è in relazione con l'empatia e che, se l'empatia viene controllata, la relazione tra l'induzione e il comportamento prosociale viene meno, come essi avevano previsto partendo dall'ipotesi del ruolo