Linguistica testuale. Un'introduzione
 9788843027484

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ST U D I SU PER IO R I / L IN G U IS T IC A

664

Cecilia Andorno

Linguistica testuale Un’introduzione

A Bice

I lettori che desiderano inform azioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: C arocci editore Corso Vittorio Em anuele n, 229 0 0 18 6 Rom a telefono 06 42 8 1 84 17 fax 06 42 74 79 3 1

Visitateci sul nostro sito Internet: http://www.carocci.it

C arocci editore

Indice

Premessa

9

1.

Introduzione

13

1.1. 1.2.

I temi della linguistica testuale Che cos’è un testo

13 17

1.2.1. Principi costitutivi e principi regolativi / 1.2.2. Grammatica transfrastica e oltre

2.

Referenti testuali

27

2.1.

Il riferimento lessicale

29

2 .1.1. Descrizioni definite / 2.1.2. Riferimento e quantificazione / 2.1.3. Identificabilità e attivazione / 2.1.4. Dato e nuovo / 2.1.5. Defi­ nitezza / 2.1.6. Scale di accessibilità

2.2. 3a ristampa, aprile 2014 i a edizione Studi Superiori, febbraio 2011 i a edizione Università, 2003 (4 ristampe) © copyright 2003 by Carocci editore S.p.A., Roma

L ’anafora

45

2.2.1. Riferimento e rinvio / 2.2.2. Istituzione di un referente testuale / 2.2.3. Mezzi linguistici per il rinvio anaforico / 2.2.4. Relazioni fra an­ tecedente e anafora

2.3.

Finito di stampare nell’aprile 2014 da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

La deissi

38

2.3.1. Riferimento deittico /2.3.2. Campi indicali e riferimento deitti­ co e anaforico / 2.3.3. Deissi e anafora / 2.3.4. Deissi testuale

ISBN 978-88-430-2748-4

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 1 7 1 della legge 22 aprile 19 4 1, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volum e anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, com presa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

3.

La distribuzione dell’informazione neltesto

69

3.1.

Le unità minime di analisi dellastrutturainformativa dell’enunciato

72

3.1.1. I tre livelli di strutturazione dell’enunciato / 3.1.2 Topic / 3.1.3. Topic e status dei referenti / 3.1.4. Tipi di frase sulla base del­ l’articolazione topic-comment / 3.1.5. Focus / 3.1.6. Focus e nuovo / 3.1.7. Topic e focus / 3.1.8. Mezzi per l’espressione della struttura informativa

7

3-2.

Topic discorsivo

95

3.2.1. Background e foreground / 3.2.2. Un’applicazione all’analisi de­ scrittiva: il modello Quaestio per l’analisi delle varietà di apprendi­ mento

4.

Frase, proposizione ed enunciato

105

4 .1.

Atti linguistici

105

Premessa

4 .1.1. Enunciato come azione / 4.1.2. La struttura di un atto lingui­ stico / 4.1.3. Indicatori di forza illocutiva / 4.1.4. Atti linguistici di­ retti e indiretti

4.2.

Asserzioni, inferenze, presupposizioni

12 1

4.2.1. Asserzioni / 4.2.2. Inferenze e conseguenze / 4.2.3. Presupposi­ zioni / 4.2.4. Asserzioni e struttura informativa / 4.2.5. Conclusione: tipi di inferenza

5.

La conversazione

139

5 .1.

La logica della conversazione

140

5 .1.1. La teoria del significatoNN / 5.1.2. Le massime conversazionali / 5.1.3. Applicazioni / 5.1.4. Problemi del modello

5.2.

L ’analisi della conversazione

157

5.2.1. Approcci all’analisi delle conversazioni / 5.2.2. La turnazione / 5.2.3. Le mosse conversazionali / 5.2.4. L ’interazione asimmetrica: la dominanza e il potere / 5.2.5. La gestione della “faccia” e la cortesia

5.3.

Un banco di prova per la linguisticatestuale: le particelle discorsive

176

Bibliografia

187

8

Lo studio dei testi, in origine ambito di competenza della retorica e della critica letteraria, si è progressivamente esteso, in particolar modo a partire dal secolo scorso, a discipline diverse, dalla linguistica alla sociologia alle scienze cognitive. Anche limitandosi al solo settore degli studi di tradizione linguistica, gli approcci possibili per una “linguistica del testo” sono diventati numerosi e variegati, dotati di metodi e finalità diverse. Non è ambizione o obiettivo di questo libro offrire una rassegna del vastissimo panorama di studi dedicati al testo e alla testualità. Suo intento è piuttosto quello di dotare il lettore - studente o studioso competente di linguistica o interessato al linguaggio - di un apparato concettuale e terminologico di linguistica del testo e del discorso, specie di matrice semantica e pragmatica, e di gettare così le basi per­ ché questi possa, in seguito, orientarsi e applicarsi con maggior auto­ nomia nello studio su temi e ricerche del settore. E parere dell’au­ trice che il minimo bagaglio nozionale proposto, spesso trascurato dai manuali introduttivi di linguistica, non dovrebbe invece mancare in una formazione linguistica di base, tanto più che la disomogeneità terminologica e di approccio fra studi di diverso orientamento au­ menta le difficoltà di una formazione autonoma. Gli argomenti affrontati hanno come denominatore comune l’o­ biettivo di delineare una “grammatica della competenza testuale” , ov­ vero regole e principi su cui sono selezionati, costruiti e interpretati gli enunciati e le sequenze di enunciati di cui un testo si compone. I principi illustrati, soprattutto di matrice semantico-pragmatica, sono direttamente rilevanti per giustificare fenomeni di selezione lessicale o morfosintattica, ovvero aspetti linguistico-formali del testo. È questa correlazione che consente di avvicinare la linguistica del testo ad altri livelli di analisi linguistica, quali la fonologia e la morfosintassi, e anzi costringe a incorporare il livello testuale fra i livelli della competenza comunicativa di un parlante. Tale aspetto della competenza, fra l’al­

9

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

tro, si rivela prioritario nell’apprendimento di una prima o una se­ conda lingua, mentre il componente morfosintattico si sviluppa in se­ guito a partire da questo. Privilegiare questo approccio al testo ha comportato la necessità di rinunciare ad esaminarne altri, orientati a uno sguardo più globale al fenomeno testuale, come lo studio delle tipologie testuali o le nuo­ ve teorie retoriche L Non è stato sviluppato inoltre il filone degli ap­ procci cognitivi all’interpretazione e alla produzione dei testi, filone di indagine probabilmente ora fra i più proficui e innovativi ma che, proprio per i suoi attuali fluidi e “magmatici” sviluppi, non offre fon­ damenta consolidate e universalmente condivise e pertanto poco si presta ad essere esaminato in un manuale che vorrebbe essere “ di base” . Il volume segue un percorso “ dal testo agli interpreti” che, come si vedrà nel c a p . i , rispecchia anche un progressivo mutamento di attenzione della linguistica testuale nei confronti del proprio oggetto. Il c a p . i definisce l’oggetto “testo” rispetto alle altre unità di ana­ lisi linguistica e giustifica e delimita l’ambito di studi della linguistica testuale. I capp . 2 e 3 si occupano principalmente del modo in cui l’infor­ mazione viene codificata nei testi. In particolare, il cap . 2, attraverso i concetti di referente testuale, anafora e deissi, mostra come in un te­ sto si costruisca il riferimento agli oggetti testuali. Il cap . 3, introdu­ cendo alle fondamentali nozioni di analisi della struttura informativa della frase, si occupa di come l’informazione di volta in volta trasmes­ sa possa essere strutturata in modo da segnalare all’interprete il suo rapporto con l’informazione già presente nel testo e nell’universo di discorso, ovvero nell’insieme di conoscenze e credenze condivise dai parlanti; le unità di analisi individuate sono qui le dicotomie topiccomment e background-focus. Nei c a p p . 4 e 3 vedremo sempre più chiamata in causa l’intenzio­ nalità del parlante e i suoi obiettivi, secondo la descrizione dell’agire comunicativo offerta da due teorie chiave della pragmatica linguistica: la teoria degli atti linguistici di Austin e le teorie del significato non­ naturale e della logica della conversazione di Grice. Sono illustrate, a partire dalla distinzione fra proposizione ed enunciato, le nozioni di1

1. Lavoro fondante per questo approccio è Werlich (1975). Per una rassegna sui lavori italiani cfr. Mortara Garavelli (1988). In Skytte, Sabatini (1999) una raccolta di studi su tipologie di testi in prospettiva comparativa. Alcuni modelli di teorie retori­ che sono presentati in Sinclair, Coulthard (1975); Mann, Thompson (1988); Cristea, Ide, Marcu (1999); Kruijff-Korbayovà, Steedman (2001).

io

P R E M E SS A

atto linguistico, di asserzione e i fenomeni inferenziali classici della presupposizione, dell’implicazione e dell’implicatura. In ultimo si de­ scrivono metodi e risultati dell’analisi conversazionale, che mostra un’attenzione alle dinamiche del discorso in atto e alla gestione del­ l’interazione, allargando le osservazioni dal testo - osservato a partire dalle nozioni di turno e mossa comunicativa - al mondo oltre il testo, ovvero non solo all’universo di discorso costruito (cioè al mondo a cui il testo fa riferimento e che è evocato dal testo), ma al contesto comunicativo in cui la conversazione avviene o il testo è prodotto: i ruoli dei parlanti e del contesto sociale. Qui la linguistica del testo si avvicina alla sociologia e all’antropologia. E stata posta attenzione a proporre il più possibile esempi tratti da testi reali, orali e scritti, di vario tipo: questa scelta ha lo scopo di mostrare come le “ regole” e le nozioni illustrate siano effettive com­ ponenti della competenza comunicativa di ogni parlante, che si mani­ festano nelle scelte linguistiche concrete; una sensazione che non sempre si riesce ad avere di fronte a esempi “ costruiti in laboratorio” . La scelta di proporre esempi prevalentemente in lingua italiana è le­ gata allo stesso intento di consentire al lettore di verificare personal­ mente il funzionamento della lingua nei testi, attingendo alla propria competenza di parlante nativo e, possibilmente, di stimolare la sua curiosità verso la lingua che ha intorno ogni giorno. Nel congedare questo libro desidero ringraziare per il loro tempo e la loro attenzione le persone che mi hanno aiutato a concepirlo e perfe­ zionarlo: in particolare Bice Mortara Garavelli, Carla Marello e Anna Giacalone, che ne hanno incoraggiato e seguito la nascita e la cre­ scita, contribuendo, con un’accurata e paziente lettura e con osserva­ zioni e suggerimenti preziosi, a migliorarlo sostanzialmente; Michele Prandi si è gentilmente prestato a una lettura in tempi strettissimi di parti del volume, permettendomi di precisare alcuni passi: della sua disponibilità gli sono molto grata. Un grazie anche alle colleghe e ai colleghi del Dipartimento di Linguistica dell’Università di Pavia con i quali il confronto anche occasionale è sempre fonte di stimolo e ri­ flessione; grazie a Barbara Businaro e Michela Biazzi per i suggeri­ menti bibliografici. Grazie infine ad Anna Casalino e alla redazione che ha seguito l’edizione del volume, in particolare Mariacristina Pa­ risi, per la pazienza e la competenza dimostrate. Tengo in ultimo a ricordare le persone che ho avuto vicino nei mesi in cui ho scritto queste pagine e grazie alle quali ho potuto lavo­ rare in un’atmosfera vivace, allegra e affettuosa, piena di comprensio­ ne: oltre ai miei genitori e ai miei fratelli, che hanno sopportato la

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I

mia latitanza, un grazie ai miei coinquilini e agli amici con cui ho condiviso giornate per sentieri e rifugi di montagna e serate più o meno casalinghe. Grazie agli amici che tramite e-mail o oralmente hanno involontariamente fornito numerosi esempi per questo libro e a quelli che ho un po’ trascurato nei momenti più “caldi” del lavoro. In particolare, a Daniele e a Roberto, veri supporters e “ angeli cu­ stodi” di questi mesi, per la loro amicizia e la loro discreta e sicura presenza, grazie.

Introduzione

I.I

I temi della linguistica testuale La linguistica testuale e, più in generale, gli studi di analisi del testo e del discorso coprono un ambito vastissimo di indagini, intraprese a partire da tradizioni di ricerca diverse, ciascuna con un proprio og­ getto di indagine, propri metodi analitici e apparato terminologico. Schiffrin (1994) individua, all’interno del filone degli studi linguistici, almeno sei diverse tradizioni che si occupano di analisi del discorso e che si ricollegano alla logica e alla pragmatica filosofica (la teoria de­ gli atti linguistici e l’approccio pragmatico griceano), alla sociolingui­ stica (Γanalisi variazionista), alla sociologia (la linguistica interazionale e l’analisi della conversazione), all’antropologia (l’etnografia della co­ municazione). G li studi relativi al testo hanno del resto una tradizio­ ne molto più antica, risalente alla retorica classica, continuata oggi dal filone degli studi di stilistica e retorica 1 e dagli approcci al testo più propriamente semiotici12. Infine, non si possono trascurare gli ap­ porti e le suggestioni che provengono alla linguistica testuale da disci­ pline non strettamente interessate al linguaggio in sé e per sé, ma alla comunicazione in quanto forma di comportamento sociale o di attivi­ tà cognitiva: fra queste, la sociologia, l’antropologia, la psicologia, gli studi cognitivi. Ciò che unisce questi diversi ambiti è un comune interesse per “la lingua in atto” , ovvero per l’uso della lingua nelle molteplici forme di “uso” che essa può prevedere, dalla conversazione quotidiana alla

1. Per una panoramica sulle radici storiche della linguistica del testo cfr. Hòlker (2001). Per un approccio linguistico alla stilistica cfr. Sornicola (1988). 2. Cfr. per questi approcci in Italia Mortara Garavelli (1988) e i lavori della scuola di Segre (1979; 1999).

12

!3

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I . IN T R O D U Z IO N E

scrittura letteraria, dalla comunicazione mediatica ai disturbi del lin­ guaggio. Questo interesse comune ha portato nel tempo ad una mag­ gior comunicazione fra modelli e approcci e quindi ad un maggior confronto fra apparati terminologici e concettuali diversi: l’eteroge­ neità è tuttavia ancora ampia e, d’altronde, un approccio unitario ed esclusivamente linguistico non è probabilmente nemmeno auspicabile, data la complessità intrinseca dell’oggetto di analisi: esiste infatti, fra la lingua intesa come sistema - la langue saussuriana - e le istanze comunicative concrete - i diversi atti di parole - , una differenza qua­ litativa sostanziale data dal fatto che le ultime, ma non la prima, come oggetti comunicativi attualizzati traggono la propria forma non solo dal codice di cui si servono - la langue - , ma anche dal contesto in cui avviene la loro attualizzazione; e tale contesto è un oggetto ex­ tralinguistico complesso, che comprende, fra il resto, delle cooordinate spazio-temporali e degli individui dotati di intenzioni, aspettative, conoscenze e collocati all’interno di una cultura specifica. Come os­ servava Maria Elisabeth Conte (1977) in una delle prime raccolte ita­ liane dedicate a queste tematiche, la linguistica testuale, più che indi­ viduare un nuovo e diverso oggetto nel campo degli studi linguistici, inaugura un nuovo e diverso modo di fare linguistica. Soprattutto il legame fra il testo e i suoi interpreti è preso in con­ siderazione dai diversi approcci sopra riportati: del resto, dei «princi­ pi costitutivi della testualità» che Beaugrande e Dressler, in uno dei più noti tentativi di sistematizzazione della disciplina, porrebbero come parametri per la delimitazione e la descrizione dell’oggetto te­ sto, nessuno può essere definito esclusivamente a partire dal sistema linguistico (Beaugrande, Dressler, 19 8 1, p. 45):

via, l’approccio è legittimo se si guarda a un sistema linguistico non solo da un punto di vista strettamente formale, come a un sistema di unità minime dotate di regole combinatorie, ma anche, tenendo con­ to della sua funzione comunicativa, come a un insieme di opzioni vir­ tualmente disponibili all’utente per esprimere, nei termini di Halliday (1970), determinate funzioni ideazionali, interpersonali e testuali (Halliday, 1970, trad. it. 1975, pp. 171-2):

I nostri concetti di “coesione” e “coerenza” possono rendersi utili nell’esame dei testi solo se vengono analizzati tenendo presente come si stabiliscono ef­ fettivamente le connessioni e le relazioni fra gli avvenimenti comunicativi. Studiando l’atteggiamento di chi produce il testo (“intenzionalità”), di chi lo riceve (“accettabilità”) e della cornice comunicativa (“situazione”) si affron­ tano gli aspetti concernenti la pragmatica.

Ciò non significa, tuttavia, che l’oggetto precipuo dell’analisi della linguistica testuale debba essere l’esecuzione, così come la intende Chomsky [1965; cfr. la “parole” di Saussure, 1916]. Quindi, non interessano tanto i procedimenti specifici per produrre e comprendere la presentazione attuale di un testo, ma piuttosto i principi generali di questi processi o le caratteristiche comuni del­ le enunciazioni testuali individuali, cioè della competenza nell’esecuzione.

E possibile allora definire unità di analisi e principi che regolano l’e­ spressione linguistica in un testo, collocandosi nell’ambito di una “ grammatica testuale” , adottando una concezione di grammatica più ampia di quella normalmente intesa. Evidentemente, le regole che si possono individuare a livello testuale non hanno lo stesso statuto del­ le regole che si individuano a livello morfosintattico o fonetico; tutta­

Una grammatica di questo tipo spiegherà, ad esempio, in base a quali principi un parlante italiano valuterebbe i seguenti testi come anomali o inaccettabili3:

14

l i

La lingua serve per l’espressione del «contenuto»: vale a dire dell’esperienza che il parlante ha del mondo reale, compreso il mondo interiore della pro­ pria coscienza. Questa si può chiamare funzione ideativa. [...] La lingua serve a stabilire e a mantenere i rapporti sociali [...] funzione che possiamo chia­ mare interpersonale [...]. Infine la lingua deve provvedere a stabilire legami con se stessa e con le caratteristiche della situazione in cui è usata. Questa funzione possiamo chiamarla testuale. È possibile allora, e necessario a chi voglia descrivere il funzionamen­ to della lingua nell’uso, individuare una grammatica di livello supe­ riore alla morfosintassi, la quale descriva i principi che regolano la scelta fra opzioni alternative per l’espressione linguistica di oggetti concettuali (Beaugrande, Dressler, 19 8 1, p. 50): Mentre la lingua è un sistema virtuale di selezioni possibili ma non ancora realizzate, il testo rappresenta un sistema attualizzato in cui sono state ese­ guite e realizzate certe selezioni possibili per dar forma a una determinata struttura (una relazione fra elementi). Questa strutturazione viene ottenuta tramite procedure di attualizzazione. Tale grammatica è parte della competenza linguistica del parlante (ibid.):

3. Negli esempi riportati adottiamo le seguenti convenzioni, poi valide per tutta l ’opera. Indichiamo con punti interrogativi iniziali la scarsa accettabilità e appropria­

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(1) (2) (3)

??? Carlo; è uscito di casa e lui; ha telefonato poco dopo - Quando ti sei accorto di aver perso il portafoglio? ?? - Sono io che me ne sono accorto stamattina (in una sala d’attesa a una donna sconosciuta accompagnata da un bambino che strilla) - Può farlo smettere? ? - No Il cane abbaiava per il temporale, non perché avesse visto un malin­ tenzionato;. ?? Poco dopo questi, fu sotto le finestre della villa.

I . IN T R O D U Z IO N E

1 .2

Che cos’è un testo 1.2 .1. Principi costitutivi e principi regolativi

tezza nel contesto dell’espressione che segue - non si tratta di un giudizio di agrammaticalità in senso tradizionale, poiché il giudizio di accettabilità riguarda qui il con­ testo: l’espressione, anche quando perfettamente grammaticale, non è adeguata nel contesto. Indichiamo con un numero a pedice il riferimento ad un referente testuale (cfr. cap . 2): nell’esempio, il fatto che le espressioni Carlo e lui abbiano lo stesso nu­ mero a pedice significa che si riferiscono allo stesso referente, cioè una persona di nome Carlo; l’enunciato è inaccettabile nel senso che nessun ascoltatore di questo enunciato collegherebbe il riferimento di lui a quello di Carlo. Indichiamo con il maiuscoletto l ’accento prominente dell’enunciato (cfr. c a p . 3).

Beaugrande e Dressler (1981) individuano sette «principi costitutivi della testualità», ovvero sette condizioni che devono essere soddisfat­ te perché un testo abbia un valore comunicativo. Due di esse descri­ vono proprietà del testo: la coesione, ovvero «il modo in cui le com­ ponenti del testo di superficie, ossia le parole che effettivamente udia­ mo o vediamo, sono collegate fra di loro», e la coerenza, che «ri­ guarda le funzioni in base a cui le componenti del mondo testuale, ossia la configurazione di concetti e relazione soggiacente al testo di superficie sono reciprocamente accessibili e rilevanti». Le altre condi­ zioni riguardano il rapporto fra il testo e i suoi interpreti oppure, più in generale, il rapporto fra il testo e le condizioni in cui esso è pro­ dotto: l’intenzionalità «si riferisce all’atteggiamento del producente te­ stuale che vuole formare un testo coesivo e coerente capace di soddi­ sfare le sue intenzioni»; l’accettabilità «concerne l’atteggiamento del ricevente ad attendersi un testo coesivo e coerente che sia utile e rile­ vante»; l’informatività riguarda «la misura in cui gli elementi testuali proposti sono attesi o inattesi oppure noti o ignoti/incerti»; la situazionalità «riguarda quei fattori che rendono un testo rilevante per una situazione comunicativa»; l’intertestualità «concerne quei fattori che fanno dipendere l’utilizzazione di un testo dalla conoscenza di uno o più testi già accettati in precedenza» (ivi, pp. 18-26). In ambito italiano, Conte ha fin dal 1980 discusso la coppia con­ cettuale di coerenza-coesione sottolineando la necessità di un ordina­ mento gerarchico fra i due principi. Innanzitutto, Conte (1980) di­ stingue la coerenza come concetto positivo, che riguarda la presenza in un testo di una globale unità di senso, dalla non contraddittorietà, proprietà negativa, relativa all’assenza di contraddizione fra le parti di un testo. Nella coerenza così intesa Conte individua un principio sovraordinato rispetto agli altri, che costituisce la vera quidditas del te­ sto, ciò che fa di un insieme di enunciati un testo. Le altre proprietà, e in particolare la coesione e la non contraddittorietà, descrivono le qualitas di un testo, ma non ne sono condizioni di esistenza necessa­ rie e sufficienti. In assenza di una qualsiasi delle diverse proprietà in­ dividuate saremo in presenza di testi anomali, malformati, come negli esempi riportati in (i)-(4); in assenza di coerenza, invece, è la stessa qualifica di testo che viene a cadere. La coerenza è dunque principio costitutivo, ciò che efficit un testo, mentre le altre proprietà ne sono

16

17

(4)

mentre, ad esempio, valuterebbe come perfettamente accettabili i se­ guenti: (5) Carlo; e Monica sono usciti di casa e lui; ha telefonato poco dopo (6) - So che qualcuno recentemente si è accorto di aver perso il portafoglio - Sono io che me ne sono accorto stamattina (7) (a un meccanico a cui si sta mostrando il rumore fastidioso che produ­ ce il motore dell’auto) - Può farlo smettere? -N o (8) Il cane abbaiava per il temporale, non perché avesse visto il malinten­ zionato;. Poco dopo questi; fu sotto le finestre della villa. Come gli esempi mostrano, certe frasi o costrutti non sono inaccetta­ bili o agrammaticali di per sé, cioè non sono frasi mal formate dal punto di vista del sistema linguistico, ma sono inappropriate in de­ terminati contesti. Una grammatica della competenza comunicativa dovrà cioè descrivere da un lato la capacità del parlante di seleziona­ re, per un determinato contesto, le opzioni linguistiche appropriate per trasmettere un determinato contenuto comunicativo e dall’altro la capacità dell’ascoltatore di inviduare, a partire dal contesto, il valore comunicativo dell’opzione linguistica offerta dal parlante.

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I . IN T R O D U Z IO N E

principi regolativi, riguardanti il modo in cui i testi sono costruiti. Nel corso di questo volume vedremo frequentemente come le aspet­ tative degli interpreti rispetto alle proprietà tipiche di un testo li in­ ducano a fare congetture sulle informazioni che il testo stesso intende trasmettere. Ad esempio, se una frase di un testo riporta la verità dell’informazione a, ci si aspetterà anche - per il principio di non con­ traddittorietà - che non sia valido non-a, indipendentemente dal fatto che questa informazione sia esplicitamente trasmessa dal testo o meno. Ciò significa che gli interpreti di un testo hanno delle attese su come è costruito un testo, e fra queste attese figurano le proprietà suddette (intenzionalità, informatività, accettabilità, situazionalità, non contraddittorietà, coesione). Tuttavia, queste non sono condizioni ne­ cessarie alla testualità, ma ne costituiscono delle qualità eventuali; possono esistere, ad esempio, sequenze di frasi non informative o contraddittorie, che tuttavia conservano lo status di testi, come il noto paradosso:

intrinsecamente contenuta nelle espressioni che compongono il testo, ma proviene ad esso dall’attività interpretativa del ricevente. Per parafrasare un noto esempio di Conte, la coerenza del testo seguente:

(9)

Pericle, ateniese, dichiarò: «Tutti gli ateniesi sono bugiardi».

La coesione, che Conte preferisce scomporre, sulla scia di Hatakeyama, Petòfi e Sòzer (1988), nelle due nozioni di coesione e connessità, riguarda proprietà intrinseche ad un testo, che scaturiscono dalle scelte contenutistiche e espressive locali. In particolare, la coesione ri­ guarda la presenza fra le parti del testo di relazioni semantiche e te­ matiche: ad esempio, in un testo narrativo, si riscontra coesione nel costante riferimento agli stessi personaggi, a luoghi, a sequenze tem­ porali concatenate. La connessità riguarda invece la presenza fra le parti del testo di relazioni formali di rinvio e connessione (cfr. Conte, 1989): si intende con rinvio un legame che si istituisce fra un’espres­ sione che “ rinvia” ad una precedente - ad esempio, un pronome -, mentre le connessioni sono portate in un testo da tutte le espressioni che segnalano in che modo le varie parti sono legate - ad esempio, congiunzioni e avverbi connettivi. Le relazioni di coesione e connessi­ tà presenti in un testo guidano Γattività interpretativa, la ricerca del senso globale, ma non sono né sufficienti né necessarie a produrre la coerenza di un testo. La sola condizione veramente necessaria per poter assegnare lo status di testo a una sequenza di frasi è dunque, nei termini di Conte (1989), la coerenza, intesa nel senso precisato sopra di esistenza di una globale unità di senso. Essa non è però una proprietà intrinseca del testo, ovvero non è 18

(10)

Elena sa pattinare magnificamente. Simone va al lavoro in bicicletta ogni giorno. E Andrea ha perfino vinto una medaglia alle olimpiadi: tutti i miei figli sono degli sportivi.

è assicurata dalla frase finale, che ne fornisce la chiave interpretativa: possiamo individuare un elemento di coesione nel legame che unisce espressioni come pattinare, andare in bicicletta, vincere una medaglia alle olimpiadi in una stessa area semantica, quella dello sport evocato nell’ultima frase. Minimi elementi di connessità, come la congiunzio­ ne e che indica che le prime tre frasi vanno lette come un elenco, e i due punti finali, che fungono da connettivo di tipo esplicativo, com­ pletano il quadro degli indizi forniti al lettore per ricostruire il senso globale 4. Può darsi tuttavia un insieme di frasi coese e connesse5, cui non si può dare però coerenza, ovvero un senso globale. È il caso della seguente filastrocca, che sfrutta sistemi di connessione e coesione per costruire un testo non-sense, che solo apparentemente racconta una storia, ma è in realtà privo di coerenza: (11)

Loro mi han detto una cosa: / che tu visitasti colei e han fatto il mio nome alla sposa / di lui e allo sposo di lei. Per lei ero un bravo figliolo / pur non sapendo nuotare; ma a lui non andavo a fagiolo / e disse che io ero al mare (Dogdson, Alice nel paese delle meraviglie, p. 114).

Viceversa, un interprete può trovare coerenza in un testo indipenden­ temente dalla presenza di mezzi espliciti che la segnalino. La seguente

4. Un esempio simile era proposto da Conte (1977) come testo privo di relazioni coesive: con la distinzione operata fra relazioni di coesione e di connessità, tuttavia, possiamo descrivere il testo come - quasi - privo di relazioni di connessità, ma dotato almeno dell’elemento coesivo lessicale indicato. 5. Dovremmo forse dire “ apparentemente coese” , poiché è dubbio che una se­ quenza di frasi che non hanno effettivamente identità di riferimento e di temi possano dirsi coese per il semplice fatto di esibire a livello superficiale forme di coesione e connessione - riferimenti lessicali alle stesse aree semantiche, rimandi anaforici, con­ nettivi (cfr. per la terminologia il ca p . 2).

19

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I . IN T R O D U Z IO N E

sequenza di frasi, prive di coesione tematica e di relazioni di connes­ sione:

tradizione storica - per cui la linguistica del testo è nata nell’ambito degli studi di critica letteraria e filologica, mentre la linguistica del discorso è nata a partire dallo studio delle conversazioni orali - lega­ no spesso la nozione di testo al linguaggio scritto e quella di discorso al linguaggio orale. L ’oggetto di indagine di questo volume sarà prin­ cipalmente il testo, nel senso che il punto di partenza della nostra osservazione sarà il prodotto linguistico, ma non potremo, per capire tale oggetto, non fare regolare riferimento al processo comunicativo che ne accompagna la produzione e l’interpretazione, quindi al di­ scorso. Il nostro impiego di tale opposizione sarà quindi legata ad un diverso punto di vista - attenzione al prodotto vs attenzione al pro­ cesso - mentre non opporremo attraverso questa coppia terminologi­ ca oralità e scrittura.

(12)

Carla suona il pianoforte. Gigi fa gli straordinari oggi

può diventare un testo coerente se si forniscono al lettore alcune in­ formazioni contestuali, come il fatto che Carla è la moglie di Gigi, il quale non sopporta il suono del pianoforte, per cui Carla evita di suonare quando il marito è in casa. La presenza di elementi tematici in relazione fra loro - ad esempio, i due membri di una coppia e le loro abitudini - non deve necessariamente essere esplicitata attraverso elementi che garantiscano coesione: l’interprete può ritrovare la coe­ renza di un testo basandosi su informazioni extracontestuali. Per questo, nella propria impostazione, Conte sottolinea il prima­ to della coerenza rispetto agli altri principi organizzatori del testo e il primato del lavoro interpretativo (a parte subiecti) rispetto al significa­ to della lettera del testo (a parte obiecti) neU’individuare il valóre co­ municativo di un testo: in questa impostazione si riconoscono tutti gli approcci più recenti di linguistica del testo, in un percorso teorico che si sviluppa dalla riflessione sul significato nell’uso nata nell’ambi­ to della scuola filosofica di Oxford e di cui si tratterà qui a partire dal cap . 4, fino alla nozione di “rilevanza” su cui Sperber e Wilson (1986) fondano la loro intera teoria del significato, riconducendo il significato di ogni testo all’attività interpretante del ricevente, che in­ terpreta ogni testo guidato da ipotesi sulla rilevanza che l’evento co­ municativo può avere per la situazione 6. Prima di procedere oltre nella definizione dell’oggetto, riprendiamo la dicotomia fra ‘testo’ e ‘discorso’ con cui abbiamo aperto questa introduzione per una preci­ sazione terminologica che ci introduce a una duplice prospettiva sul nostro oggetto di analisi. Normalmente la dicitura discorso è riferita a un oggetto più vasto rispetto alla dicitura testo·, mentre il primo ter­ mine riguarda in senso lato il linguaggio in uso, potendo quindi rife­ rirsi sia al processo comunicativo sia al suo prodotto, col secondo si fa riferimento più precisamente al prodotto linguistico che dall’attivi­ tà comunicativa scaturisce. Il testo è quindi un oggetto statico, men­ tre il discorso è un oggetto più dinamico e processuale. Ragioni di

6. Rispetto all’impostazione di Conte, nelle più recenti ricerche di analisi testua­ le, soprattutto in alcuni approcci che affronteremo nei capp . 4 e 5, è messo maggior­ mente in evidenza il ruolo degli scopi e delle intenzioni del parlante/scrivente come elemento chiave per l’interpretazione dei testi e, quindi, come principio guida della loro coerenza.

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1.2.2. Grammatica transfrastica e oltre Storicamente, l’interesse per il livello testuale nasce, nell’ambito della linguistica, come interesse per le relazioni di connessione che si mani­ festano a livello superiore alla frase. Esistono infatti relazioni di tipo morfosintattico che agiscono oltre i confini della singola frase, ad esempio le relazioni di accordo fra un sostituente e il suo anteceden­ te, o le relazioni fra i tempi verbali in una narrazione; esistono inoltre relazioni tematiche e logiche fra le frasi di un testo che sono segnala­ te da congiunzioni e connettivi. Nel testo che segue possiamo indivi­ duare moltissimi esempi di queste relazioni (Maraini, 2001): (13)

Mi accorsi di un trafiletto che diceva come il professor Tucci, persona che io non conoscevo, se non vagamente di fama, sarebbe ripartito presto per il Tibet dove sarebbe rimasto alcuni mesi per fare ricerche sull’archeologia, le religioni e la storia di quel lontano paese. La lettura di quelle poche righe mi emozionò moltissimo. Subito presi penna e calamaio e scrissi al professore dicendogli che, se aveva bisogno di un compagno, sarei stato felicissimo di accompagnarlo, e specificai che ero pratico di fotografia. Questa fu una buona idea perché il professo­ re non aveva mai fotografato personalmente, mai toccato una macchi­ na, però ci teneva a documentare i suoi viaggi. Inoltre il compagno delle sue spedizioni precedenti, il capitano Ghersi della Regia Marina, non era in quel momento disponibile. Così, per due casi straordinari, la mia proposta venne presa in considerazione e potei partire per il Tibet.

Un testo, in quanto dotato di coesione, fa riferimento a temi e oggetti concettuali ricorrenti, e ciò è segnalato da elementi di rinvio: quelle

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poche righe sono le righe del trafiletto menzionato nel contesto prece­ dente; il professore è evidentemente lo stesso già citato nella frase precedente; questa (idea) è l’idea di scrivere al professore, esplicitata dalle frasi precedenti; le sue spedizioni sono le spedizioni dello stesso professore; i due casi straordinari, come la proposta, sono anch’essi già stati espressi nelle frasi precedenti. Non è solamente nel ripetersi del riferimento agli stessi oggetti che si esplicitano i legami tra le frasi. Anche la scansione temporale e la selezione di tempi verbali e avverbi temporali è regolata da vincoli transfrastici: la successione di passati remoti indica che i diversi eventi vanno letti come costituenti una se­ quenza temporale; subito si riferisce ad un momento immediatamente seguente quello in cui si colloca l’evento della frase precedente. Infi­ ne, altri connettivi esplicitano delle relazioni logiche tra fatti espressi in frasi diverse: inoltre indica che la circostanza della non disponibili­ tà del capitano Ghersi è da leggersi come “aggiunta” a quella men­ zionata nella frase precedente, relativa alla dimestichezza con la foto­ grafia dello scrittore, come sfondo di un’affermazione o fatto; il fatto in questione è quello introdotto nella frase successiva, come risulta chiaro dal connettivo così, che serve a presentare la frase come con­ clusiva del testo. Accanto alle relazioni interne al testo, esistono relazioni di riferi­ mento e rinvio fra il testo e il contesto discorsivo in cui esso è situa­ to, ovvero relazioni che collegano il testo alle condizioni in cui esso è stato attualizzato. Nel nostro testo troviamo riferimenti alle coordina­ te temporali, nell’uso di tempi come il passato remoto e l’imperfetto, che collocano gli eventi del testo in un momento passato rispetto a quello del racconto; troviamo riferimenti alle coordinate personali, nel rimando all’io narrante. Da questi pochi esempi emerge chiaramente l’esistenza di relazio­ ni di livello superiore a quello frastico, tanto interne, tra elementi di frasi diverse nel testo, quanto esterne, tra elementi del testo ed ele­ menti del contesto: queste relazioni condizionano tanto la morfosintassi quanto le scelte lessicali. La linguistica testuale, constatando l’in­ sufficienza di grammatiche che si limitino a considerare il livello di frase, nasce in effetti come grammatica transfrastica, ovvero come grammatica della coesione e della connessità, che descrive le relazioni tematiche e formali interfrasali. Tuttavia, tale livello di rappresentazione “lineare” e monodimen­ sionale della struttura di un testo non è sufficiente per descriverne la natura, per diverse ragioni. Le relazioni di coesione e connessità non possono infatti essere descritte e risolte solamente sul piano formalesemantico: se la comprensione del rinvio che lega le poche righe al

trafiletto può essere giustificata anche solo a livello semantico-lessicale come dovuta alla conoscenza del significato dei lessemi riga e trafi­ letto, altre relazioni richiedono una comprensione di livello più alto: l’individuare ad esempio qual è il contenuto proposizionale cui il sin­ tagma una buona idea fa riferimento, o il capire di che natura è il legame che unisce le due frasi collegate da inoltre sono operazioni che richiedono non solo una comprensione dei singoli lessemi e nem­ meno solo delle singole frasi e degli eventi cui esse rimandano, ma richiede una comprensione della storia nel suo complesso, come con­ catenazione finalizzata di eventi, e quindi del testo come evento co­ municativo globale e finalizzato - in questo caso, una narrazione. Solo ad un livello di comprensione globale, cioè guidati dalla ricerca della coerenza del testo, si può riconoscere che la buona idea è quella di segnalare la propria abilità di fotografo - e non, ad esempio, quel­ la di prendere penna e calamaio - , o si può riconoscere che l’affinità fra i due eventi congiunti da inoltre - l’idea di comunicare la propria abilità di fotografo e l’assenza del fotografo ufficiale - sta nel loro qualificarsi come circostanze propizie alla conclusione annunciata da così, cioè il coinvolgimento nella spedizione. Ancora, il fatto che il testo sia qualificabile come una narrazione, o che sia possibile sce­ gliere per il testo un titolo più pertinente di un altro, sono tutte cir­ costanze dipendenti dalla natura di “testo” della sequenza di frasi in (13 ) , che possiede proprietà che non sono condivise dalla seguente sequenza di frasi, benché essa non sia priva di legami coesivi e mostri una ricorrenza di temi affini:

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23

(14)

Un sociolinguista non può non essere funzionalista. Il suono di g lati­ na davanti a vocali chiare (genus) pare che non sia stato differente da quello in gallus. Se poi ci trasferiamo fuori dell’ambito delle lingue in­ doeuropee, come ho già detto, gli intraducibili diventano legione. Noi non sappiamo, signore, perché lei ossessivamente ribadisca questo suo trisillabo parossitono 7.

Le considerazioni svolte fanno appello a proprietà dei testi che non riguardano più il livello locale, ma sue caratteristiche di oggetto uni­ tario e coerente, dotato di un senso globale. A questo livello descritti­ vo una grammatica transfrastica non è più sufficiente. In questo primo momento si è posto il dilemma: è sufficiente, per trattare quei fenomeni, fare intervenire il contesto nella grammatica dell’enunciato 7. L e frasi sono tratte nell’ordine da: Berruto (1995); Rohlfs (1966); Marami (2001); Benni (1984).

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(cioè costruire una grammatica dell’enunciato entro il suo contesto)? O inve­ ce una grammatica dell’enunciato nel contesto è per essi insufficiente, ed è invece necessario costruire una grammatica nuova, una grammatica del testo? Ecco i termini del dilemma: grammatica dell’enunciato nel contesto e gramma­ tica del testo (Conte, 1977, p. 14).

Scuola di Praga 8, la necessità di un approccio procedurale e non pu­ ramente strutturale al testo, sottolineata da Beaugrande e Dressler (1981) e da Levinson (1983, p. 293): «L ’ordine e la coerenza nella conversazione possono rinvenirsi non già al livello delle espressioni linguistiche, bensì al livello degli atti linguistici o delle mosse interazionali costituite dall’enunciazione di quelle espressioni», è già conte­ nuta nei lavori di Wegener (1885) e di Biihler (1934), come rilevato da Conte (1986). Il testo è cioè un oggetto che non può essere capito a fondo se non si tiene conto, oltre che del prodotto statico finale, dei processi che ne permettono tanto la produzione quanto l’interpretazione. Ciò è certamente più evidente nel discorso orale, specie dialogico, dato che il prodotto testuale si sviluppa temporalmente come il suo pro­ cesso di produzione, mentre il testo scritto si offre come prodotto statico, presente tutto insieme all’attenzione del lettore; anche in que­ sto caso, tuttavia, tanto il processo di costruzione quanto quello di interpretazione del testo si sviluppano nel tempo, e la struttura del testo scritto, proprio come quello orale, reca tracce di questo pro­ cesso. Il concetto di dinamismo, come processo di costruzione e modifi­ cazione di un universo di discorso comune, è fortemente sottolineato anche dagli autori recenti. Così per Levelt (1989) la struttura di un testo funziona, come si è detto, come una segnaletica che consente il costante allineamento degli universi di discorso sviluppati nell’evento comunicativo da parlante e ascoltatore (o scrittore e lettore). Nel mo­ dello neo-griceano di Sperber e Wilson (1986), il senso di ogni enun­ ciato si identifica con il lavoro inferenziale che il parlante compie nel cercare la rilevanza dell’enunciato stesso per la situazione comunicati­ va; il senso di un testo è cioè del tutto ridotto alla sua rilevanza co­ municativa.

Per affrontare la descrizione del “senso globale” dei testi, la lingui­ stica testuale si è orientata in due direzioni. Una prima direzione di indagine ricerca nel testo delle macrofunzioni attraverso cui esprime­ re la sua struttura di senso; in questa direzione si sono mossi ad esempio gli studi di semantica e pragmatica del discorso (cfr. van Dijk, 1977), alla ricerca di unità di analisi primitive e di regole di connessione semantica, partendo spesso dall’analisi di testi costruiti in laboratorio e funzionanti come modelli. L ’obiettivo di questi lavori è la costruzione di una grammatica testuale. Una seconda direzione di analisi guarda alle relazioni fra il testo e i suoi utenti, elaborando ca­ tegorie per la descrizione del senso del testo a partire dalle intenzioni che muovono i parlanti nel costruirlo e nell’interpretarlo. A questa caratterizzazione del testo si rivolge già uno dei fondatori della disci­ plina, Peter Hartmann, ricordando che «con la parola ‘testo’ si deve qui intendere un fatto generalmente riconosciuto, e cioè che la lingua è realizzata (impiegata) in un’azione comunicativa» (Hartmann, 19 7 1, p. 1 1 , cit. da Hòlker, 2001, p. 70). In quest’ottica diventa estremamente utile la nozione di “universo di discorso” (cfr. Levelt, 1989): con questa nozione ci si riferisce all’insieme organizzato di informa­ zioni, conoscenze e credenze che i partecipanti a una conversazione o gli interpreti di un testo possiedono, condividono, credono di condi­ videre o di non condividere nel corso dello scambio comunicativo. L ’universo di discorso viene continuamente modificato a mano a mano che il testo si sviluppa (perché ad esempio nuove informazioni vengono condivise, o conoscenze pregresse vengono attivate o smenti­ te), e, reciprocamente, i cambiamenti nell’universo di discorso in­ fluenzano il modo in cui l’informazione è codificata nel testo (perché ad esempio, un’informazione precedentemente segnalata come “nuo­ va” viene in seguito segnalata come condivisa). Le diverse opzioni lin­ guistiche a disposizione del parlante/scrivente per codificare l’infor­ mazione possono essere considerate in questo senso come una segna­ letica che consente all’ascoltatore/lettore di orientarsi nel testo, di co­ struirsene una mappa concettuale e di collocare tale mappa all’inter­ no dell’insieme delle proprie conoscenze. Mentre una concezione di­ namica del testo è già nel concetto di dinamismo comunicativo della 24

8. Cfr.

cap.

3.

25

2

Referenti testuali

Nel corso di questo libro ci troveremo spesso nella necessità di di­ stinguere fra oggetti della realtà e oggetti del testo, o dell’universo di discorso. La linguistica del testo studia infatti quale forma assumono gli oggetti della realtà, o meglio la loro rappresentazione concettuale nella mente del parlante una volta che questa è espressa in forma lin­ guistica all’interno di un testo. Introduciamo ora per la prima volta questa distinzione attraverso il concetto centrale di referente testuale. Questo termine indica ogni entità o evento che entra a far parte del discorso in atto e che quindi diventa un “oggetto” del discorso. Con referente testuale si intende quindi qualcosa di diverso da ciò che si intende con ‘referente’, come espressione contrapposta a ‘si­ gnificato’ e ‘significante’, nella classica rappresentazione triadica del segno linguistico proposta da Saussure (1916), qui rappresentata nella FIG. 2.1. FIGURA 2.1 L a triade saussuriana: significante/significato/referente

rana

S IG N IF IC A T O

$ REFEREN TE /'rana/

S IG N IF IC A N T E

La rappresentazione della f ig . 2.1 descrive gli elementi costitutivi del segno linguistico rana secondo Saussure. Esso è composto da una 27

2.

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

parte materiale, fonico-acustica - il significante - , nel caso specifico la sequenza di suoni /'rana/ - o, nello scritto, la sequenza di grafemi < ran a> la sua parte astratta, concettuale - il significato -, nel caso specifico l’immagine mentale che un parlante può avere di una rana o una sua descrizione composta ad esempio dei tratti: {anfibio, gracidante, piccolo...}; il segno rimanda a un riferimento concreto nella realtà - il referente - , ovvero l’animale gracidante vero e pro­ prio, di cui ovviamente nella f ig . 2.1 non abbiamo potuto dare che una rappresentazione disegnata (che non è quindi propriamente il re­ ferente, ma ancora un segno, iconico e non linguistico; per dare un esempio esatto del referente ‘rana’ avremmo dovuto allegare una vera rana al volume). Quando parliamo di referente testuale non intendiamo invece l’oggetto reale, ovvero il referente nel senso della fig . 2 .1, e nemme­ no semplicemente il significato “ rana” proprio della parola rana, ma un oggetto concettuale specifico, attuale, che viene evocato nel di­ scorso da uno dei parlanti e a cui, una volta evocato, si possono attri­ buire proprietà, azioni, eventi. Per esplicitare la distinzione fra questi diversi livelli ricorriamo ad un esempio concreto. L ’espressione una rana, che contiene il nome rana dal significato di «anfibio, gracidante, piccolo...», ha come referente, nel mondo extratestuale, un individuo qualunque dell’insieme di animali gracidanti. L ’espressione una rana instaura nel breve testo che segue un referente testuale specifico, ov­ vero rimanda a una rana specifica che, una volta evocata nel discorso, può essere oggetto di predicazioni successive: (1)

Una giovane principessa passeggiando nel parco del suo castello un giorno incontrò sul bordo di un pozzo una rana \

Un referente testuale può cambiare il proprio status nel discorso sia in relazione alla conoscenza che gli interlocutori hanno di esso o di alcune sue proprietà o caratteristiche sia in relazione al ruolo che esso ha come “ centro di attenzione” del discorso stesso: a questi due concetti fanno riferimento rispettivamente le nozioni di identificabilità e di attivazione, che affronteremo nel par . 2.1. Per esempio, la rana di cui si parla in (1) è un referente testuale di nuova introduzione, e l’articolo indeterminativo nell’espressione una rana segnala questo fat­

1. Altre espressioni che instaurano referenti testuali in questo breve inizio di rac­ conto sono: una giovane principessa, un castello, il parco del castello, un pozzo, il bordo del pozzo, un giorno.

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to al lettore, ovvero lo informa che è stato introdotto nel testo un nuovo referente testuale. Se il racconto proseguisse in questo modo: (2)

Appena la principessa le si avvicinò, la rana le disse...

l’uso dell’articolo determinativo nell’espressione la rana segnalerebbe che, a questo punto, il referente testuale è già noto al lettore, che non avrebbe allora difficoltà ad identificarlo con la rana introdotta dalla frase precedente, così come non avrebbe difficoltà a ricondurre a questo stesso referente testuale anche il primo clitico le. Le tre espressioni una rana, la rana, le si riferiscono allo stesso referente te­ stuale: il fatto che si ricorra a espressioni diverse segnala che lo status del referente è diverso nei diversi punti del testo. In questo capitolo parleremo in particolare dei diversi status che i referenti testuali possono assumere nel discorso e dei mezzi linguistici attraverso cui questi status possono essere segnalati. Ci occuperemo quindi del modo in cui un referente testuale può essere introdotto nel discorso, di come, una volta che esso è introdotto, si può fare riferimento ad esso e di come tale riferimento può essere mantenuto o ripreso nell’evoluzione del discorso. 2.1 H riferimento lessicale 2 .1.1. Descrizioni definite Il modo più immediato attraverso cui possiamo introdurre nell’uni­ verso di discorso un referente testuale è l’uso di un’espressione lessi­ cale che lo designi12. Nell’enunciato seguente: (3)

Nella quinta giornata di campionato la squadra granata ha conseguito un nuovo risultato negativo

le varie espressioni in corsivo rinviano a entità extratestuali e attiva­ no ciascuna un referente testuale. Si tratta di sintagmi a testa nomina-

2. Oltre al riferimento lessicale, esistono altri mezzi linguistici per fare riferimen­ to a referenti testuali introdotti nel discorso o per introdurre referenti testuali nel di­ scorso: ne parleremo nei parr . 2.2 e 2.3. In questo paragrafo, per semplicità di esposi­ zione, ci occuperemo principalmente del riferimento ad entità e non del riferimento ad eventi. Anche un evento, tuttavia, è un referente testuale possibile, cui si può fare riferimento con espressioni lessicali definite, espressioni anaforiche o espressioni deit­ tiche.

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2.

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R EFER EN T I TESTU A LI

le: i nomi infatti hanno precipuamente funzione referenziale, ovvero funzione di riferimento a referenti extratestuali e, quindi, funzione di instaurare referenti testuali3. L ’esempio più evidente di questa fun­ zione è illustrato dai nomi propri: nominando il Kilimangiaro, l’A ­ frica, oppure Vasco de Gama introduciamo nel discorso un referente testuale che ha un rimando definito e unico nella realtà - definito e unico, perlomeno, per gli interlocutori del discorso in atto - , e che noi riteniamo il nostro interlocutore sappia individuare. Non è questo però il modo di riferimento tipico dei nomi: i nomi comuni, infatti, presi fuori contesto, non rinviano a un singolo individuo definito, ma piuttosto delimitano una classe di individui che possiede Pinsieme dei tratti semantici che compongono il significato del nome. Ad esempio, l’insieme dei tratti che definisce il significato del nome padre, ovvero dei suoi tratti intensionali, è il seguente 4:

classe della classe di individui designata dal nome padre. È possibile delimitare il valore estensionale di un’espressione fino a individuare un unico referente, come accade nelle espressioni il padre della ra­ gazza che abita nell’appartamento di fronte al mio, ma anche nell’e­ spressione mio padre. Come questi esempi mostrano, gli elementi mo­ dificatori del sintagma nominale - come aggettivi, sintagmi preposi­ zionali con valore attributivo, subordinate relative - contribuiscono alla delimitazione della classe di referenti designata da un’espressione nominale. La classe degli specificatori6 del sintagma nominale, che comprende in italiano articoli, dimostrativi, indefiniti, numerali, se­ gnala invece in che modo vada inteso il riferimento del sintagma stes­ so, secondo parametri che illustreremo nei prossimi paragrafi.

(4) {essere umano, maschio, con figli).

Dal punto di vista dell’estensione del riferimento, una descrizione de­ finita può riferirsi a un’intera classe di individui (riferimento generi­ co) o a singoli individui, i quali possono essere o meno specificati (riferimento singolare specifico e non specifico). Le seguenti ricorren­ ze dell’espressione barca a vela illustrano rispettivamente questi tre casi:

Questo insieme di tratti delimita, nella realtà, una classe di individui ai quali l’espressione è applicabile: questa classe di individui è detta l’estensione della parola padre. Secondo la definizione di Lyons (1999), i nomi o i sintagmi nominali funzionano come ‘descrizioni de­ finite’ , ovvero sono espressioni che ascrivono proprietà a una partico­ lare entità5. E possibile restringere il valore estensionale di un nome, ovvero restringere la classe degli individui cui esso si applica, aumentando, attraverso descrizioni definite sempre più dettagliaté, il numero dei tratti intensionali. Ad esempio, l’espressione padre anziano ha un trat­ to intensionale in più - il tratto {anziano} - rispetto all’espressione padre, e ha un’estensione più ristretta, corrisponde cioè a una sotto­

3. I nomi, come è noto, possono anche avere funzione predicativa o attributiva, come nei casi seguenti: “Uno dei miei nonni era maresciallo dei carabinieri. La nonna, maestra, ha vissuto a lungo con noi” . Qui i nomi maresciallo e maestra non instaurano nuovi referenti testuali rispetto ai nomi nonno e nonna, bensì attribuiscono loro pro­ prietà aggiuntive. 4. Trascuriamo qui la sinonimia con il significato di “ responsabile di una con­ fraternita” e i casi di uso metaforico. 3. Noi useremo l ’espressione composta descrizione definita in questo senso, ri­ servando però all’aggettivo ‘definito’, al di fuori dell’uso nell’espressione suddetta, un valore particolare e diverso, per il quale cfr. p a r . 2.1.5. In questo libro, dunque, l’ag­ gettivo ‘definito’ ha ovunque il valore assegnatogli in par . 2.1.5, tranne che nell’e­ spressione descrizione definita.

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2.1.2. Riferimento e quantificazione

(5)

La barca a vela è particolar­ mente silenziosa b i ) Quella barca a vela è partico­ larmente silenziosa bi) Una barca a vela di queste ap­ partiene a un mio amico c) Comprerei volentieri una barca a vela

a)

[riferimento generico] [riferimento singolare specifico] [riferimento singolare specifico] [riferimento singolare non specifico]

L ’enunciato ($)a fornisce un esempio di riferimento generico, cioè di riferimento alla classe; dal punto di vista della teoria della quantifica­ zione, questo modo di riferimento equivale a una quantificazione di tipo universale 7:

6. Per la nozione di specificatore cfr. Andorno (i99s>b, cap. 2.5). 7. Una quantificazione universale indica appunto la totalità degli individui appar­ tenenti alla classe considerata e ha come simbolo V: l’espressione significa “per ogni x appartenente alla classe {barca a vela) si verifica che essa è particolarmente silen­ ziosa” .

3i

2.

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V x, x = barca a vela, (x è particolarmente silenziosa) G li enunciati (^)bi, b2 e c sono invece esempi di riferimento singola­ re; dal punto di vista della quantificazione, essi equivalgono a una quantificazione di tipo esistenziale 8:

3x, x = barca a vela, (x è particolarmente silenziosa) 3x, x = barca a vela, (x appartiene a un mio amico) 3x, x = barca a vela, (comprerei volentieri x) Un riferimento individuale specifico (casi b i e b i) individua però un referente preciso, anche se non sempre identificabile con certezza da parte degli interlocutori (caso £2); un riferimento individuale non specifico (caso c) designa invece un qualsiasi individuo appartenente alla classe. Possiamo quindi tratteggiare, sulla base della quantificazione in­ dotta sul referente individuato, lo schema della f ig . 2.2. FIGURA 2.2 Riferim ento e quantificazione riferimento generico (quantificazione universale): alla classe singolare (quantificazione esistenziale): non specifico: a un individuo qualsiasi della dasse specifico: a un individuo preciso della classe

Per indicare che tipo di riferimento ha un’espressione nominale, le lingue possiedono delle marche specifiche. L ’italiano, come diverse altre lingue indeuropee, possiede, come si è visto, diverse classi di specificatori del nome: due serie di articoli, dimostrativi, numerali, indefiniti. Il riferimento generico è realizzato tipicamente dall’articolo de­ terminativo: (6) a) I dogon mi erano sembrati affascinanti e magici esattamente come me li aspettavo (Aime, Diario dogon, p. n ) 8. Una quantificazione esistenziale indica almeno un individuo della classe consi­ derata e ha come simbolo 3 : l’espressione significa “ esiste almeno un x appartenente alla classe (barca a vela} per il quale si verifica che essa è particolarmente silenzio­ sa” .

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b) Gli etnologi dogonneux ritengono che la parola dogon abbia il potere di generare (Aime, Diario dogon, p. 13) mentre l’articolo indeterminativo si riferisce sempre a un individuo specifico o non specifico. Anche attraverso un riferimento non speci­ fico, però, è possibile fare un riferimento all’intera classe 9. (7)

Chi sceglie di recarsi in Mali difficilmente è un viaggiatore alle prime armi e quasi sempre è un individuo^ che nel viaggio cerca non solo un momento di svago, ma anche un’occasione di approfondimento e di cono­ scenza (Aime, Diario dogon, p. 19-20).

Riferimento all’intera classe può essere fatto attraverso alcuni indefi­ niti che esprimono una quantificazione universale: (8) a) In realtà, come tutte le popolazioni del Sahel, i dogon commerciano con i paesi circostanti (Aime, Diario dogon, p. 18) b) Il tono enfatico è ovviamente comprensibile nell’ambito della promo­ zione di una qualsivoglia meta turistica (Aime, Diario dogon, p. 19) c) Qualunque viaggiatore attento, prima della partenza, si prepara con letture più o meno approfondite (Aime, Diario dogon, p. 17). 2.1.3. Identificabilità e attivazione Nelle frasi (^)bi e h i abbiamo visto opporsi due tipi di riferimento singolare specifico: l’opposizione di valore fra i due esempi non è in termini di quantificazione, ma di altri parametri che chiameremo, sul­ la scorta di Lambrecht (1994), di identificabilità e di attivazione del referente testuale da parte degli interlocutori. Il primo parametro, quello dell’identificabilità, riguarda la capaci­ tà degli interlocutori di individuare il referente testuale a cui un’e­ spressione singolare si riferisce. L ’opposizione fra le frasi (3)a e {f)b è descrivibile in termini di identificabilità: la barca a vela di (5 )a è identificabile da parte del parlante, che la presenta come tale all’a-

9. In questo caso, il riferimento è esteso all’intera classe poiché ciò che vale per un individuo qualsiasi della classe vale di conseguenza per ogni membro della classe, cioè per tutti. E il tipo di predicazione che consente o meno questa lettura. L ’enun­ ciato: “ C ’è da spostare una macchina” non può essere inteso come “ tutte le macchine sono da spostare” , perché il tipo di predicazione in cui l ’espressione è inserita induce necessariamente la lettura di quantificazione esistenziale singolare specifica. Il partitivo plurale, che ha intrinsecamente quantificazione esistenziale, non può per questo consentire una lettura universale e quindi un riferimento alla classe (cfr. (22)b. Per questo complesso ordine di problemi, cfr. Longobardi (1988).

33

2.

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scoltatore, mentre la barca a vela di (5 )b non lo è né per il parlante né per l’ascoltatore. Un referente testuale può essere identificabile per varie ragioni. Può essere intrinsecamente identificabile, perché ha un referente uni­ co nella realtà: è il caso di entità come il sole, il re del Marocco o quelle designate dai nomi propri: il Rio de la Piata, Francesco Moser. L ’unicità di un referente può non essere assoluta, ma essere tale in una situazione data: la professoressa di matematica o Federico non de­ signano referenti unici in assoluto, ma che possono essere tali all’in­ terno dell’universo di discorso in quel momento condiviso dagli inter­ locutori. L ’identificabilità è legata dunque anche all’esistenza di cono­ scenze condivise fra gli interlocutori, e a ciò che essi suppongono che sia condiviso: per cui, ad esempio, un parlante, pur conoscendo mol­ te persone di nome ‘Federico’, può rivolgersi a un interlocutore usan­ do il solo nome proprio, in una frase come «È arrivato Federico», senza temere che il riferimento non sia compreso, se sa che esiste un solo Federico di cui entrambi sono a conoscenza, o che un solo F e­ derico è quello atteso nell’universo di discorso. Le conoscenze condivise dagli interlocutori possono formarsi e accrescersi all’interno del discorso: un referente testuale diventa quin­ di identificabile dopo che è entrato a far parte dell’universo di di­ scorso in atto. Così, un referente non identificabile per l’interlocuto­ re, come il cane evocato in: (9)

Ieri sono stato inseguito da un cane

entra, in seguito a questa menzione, a far parte dell’universo di di­ scorso condiviso, per cui, in turni successivi, entrambi gli interlocuto­ ri possono riferirsi a questo stesso referente con espressioni designan­ ti referenti identificabili: (10)

E il cane che fine ha fatto?

Perché un referente prima non condiviso entri a far parte dell’uni­ verso di discorso condiviso non è neppure necessaria una preliminare menzione esplicita, purché sia evocato il contesto appropriato in cui esso sia immediatamente collocabile. Così, il riferimento a un cane attraverso l’espressione il cane in un discorso in cui il parlante stia raccontando le proprie vicissitudini domestiche, sarà immediatamente identificabile con il cane del parlante:1 (11)

Oggi una giornataccia a casa! Il cane è rientrato dalla passeggiata spor­ co di fango e i bambini lo hanno lasciato salire sul divano.

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R EFE R E N T I TESTU A LI

Si osservi che non è necessario che l’interlocutore sia a conoscenza preliminarmente dell’esistenza del referente in questione: anche se non era al corrente del fatto che il suo interlocutore possedesse un cane, l’ascoltatore di ( n ) aggiungerà immediatamente questa cono­ scenza al suo universo di discorso e su questa base potrà dare per identificabile il referente “ cane” . Si osservi inoltre che, in questo caso, il parlante non solo può presentare il referente in questione come identificabile, anche se esso non fa ancora parte dell’universo di discorso condiviso: questa scelta è per lui l’unica possibile, se deside­ ra che il suo interlocutore interpreti correttamente il suo messaggio. La frase seguente: (12)

Oggi una giornataccia a casa! Un cane è rientrato dalla passeggiata sporco di fango e i bambini lo hanno lasciato salire sul divano

costringe l’interlocutore a interpretare il referente in questione con un cane “sconosciuto” , cioè come un referente non identificabile nep­ pure dal parlante e che, quindi, non può essere il suo cane. Analoga­ mente, nel caso seguente, le espressioni il treno e un treno non posso­ no essere ricondotte allo stesso referente testuale, poiché la seconda espressione è marcata da un articolo indeterminativo come referenza non identificabile, e quindi non può essere interpretata come coinci­ dente con quella immediatamente precedente: (13)

Il mio treno non è ancora passato. C’è stato un guasto sulla linea e un treno era in ritardo.

La scelta del parlante di segnalare l’identificabilità di un referente te­ stuale è dunque obbligata. Non è sempre obbligata invece la segnala­ zione della sua non identificabilità. Sulla base di intenzioni comunica­ tive specifiche, è possibile marcare con un articolo determinativo, quindi con un segnale di identificabilità, un referente che non fa an­ cora parte dell’universo condiviso, come nel caso di (14)^, in cui “il maglione” , identificabile dal parlante, non lo è per l’interlocutore: (14)

a) Penso di comprare un maglione che ho visto in una vetrina in centro b) Penso di comprare il maglione che ho visto in una vetrina in centro

Si consideri anche il seguente contesto: Gianluca pranza con Chiara, una ragazza presentatagli dall’amico Giorgio e che, come entrambi sanno, è vicina di casa del comune amico Francesco. Nel raccontare l’evento a Giorgio, Gianluca potrà dire:

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2.

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

(15)

a) Ieri ho pranzato con Chiara, la/quella vicina di casa di Francesco che mi avevi presentato qualche tempo fa b) Ieri ho pranzato con Chiara, una vicina di casa di Francesco che mi avevi presentato qualche tempo fa

L ’uso dell’articolo indeterminativo in (1 fi)b non è dovuto alla volontà di presentare come non identificabile il referente Chiara, che l’interlo­ cutore può identificare, né l’informazione che Chiara è una vicina di casa di Francesco, cosa che l’interlocutore sa, ma è legata al fatto che Gianluca ritiene che in quel momento Giorgio possa non aver pre­ sente la Chiara di cui si sta parlando. Gli esempi (14) e (15) appena visti ci mostrano che non è la sola identificabilità a determinare il modo in cui un referente testuale viene espresso, ma entra in gioco il secondo dei parametri che abbiamo cita­ to: l’attivazione, ovvero lo status di un referente testuale rispetto all’at­ tenzione degli interlocutori in un determinato punto del discorso. Un referente testuale può essere al centro dell’attenzione del parlante, op­ pure può essere ai suoi margini o essere del tutto assente dalla sua attenzione. A seconda dello stato di attivazione di un referente in un determinato momento, il parlante che vi vuole fare riferimento userà un mezzo espressivo o un altro. Normalmente, un referente testuale è al massimo grado di attiva­ zione quando è stato appena menzionato. Nell’enunciato seguente, “le donne” attivate all’inizio del discorso come referenti testuali re­ stano al centro dell’attenzione fino al termine, per cui non c’è biso­ gno di menzioni ripetute perché sia chiaro chi è l’attore delle azioni successive: (16)

In un angolo altre donne battono ritmicamente i loro cucchiai di legno su un impasto bianco e denso. Poi ne raccolgono una cucchiaiata e la gettano nella pentola con l’olio bollente per farne dei bignè dolci (Ai­ me, Diario dogon, p. 39).

Un referente può poi essere indirettamente attivato dal riferimento a una situazione, un frame 10 che lo richiami. Nella sequenza seguente:

io. La nozione di frame è stata introdotta negli studi di scienze cognitive da Minsky (1975), ma è già contenuta nella nozione di schema kantiano. Uno schema è «un principio ordinatore dei dati dell’esperienza [...]. L ’aspetto più interessante di queste strutture di conoscenze è il fatto che esse spiegano bene il lavoro inferenziale della mente. [...] Essi funzionano come fonti d i conoscenze utili al controllo delle infe­ renze necessarie per capire un testo» (Corno, Pozzo, 19 9 1, pp. xu-xrv).

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(17)

R EFER EN T I TESTU A LI

Appena entrati al ristorante, il caposala ci venne incontro con fare cerimonioso

il referente testuale “caposala” , benché non attivato esplicitamente in precedenza, non è del tutto inatteso, perché viene attivato indiretta­ mente dal frame “entrare al ristorante” menzionato poco prima: al­ l’interno di questo frame, ci si aspetta che accadano alcune cose e che esistano alcuni oggetti e individui, come ad esempio un caposa­ la ιτ. Anche un frame può essere evocato non per via verbale, ma semplicemente essere parte costitutiva dell’universo di discorso in atto. Fra due compagni di scuola il referente dell’espressione la pro­ fessoressa di matematica è facilmente identificabile nella professoressa di matematica della classe che i due frequentano: questo accade non tanto perché questa sia l’unica professoressa di matematica che essi conoscono, ma piuttosto perché, dato il loro status reciproco di com­ pagni di classe, il contesto “ classe” condiviso rende facilmente attiva­ bile un referente di questo tipo. 2.1.4. Dato e nuovo La linguistica del testo ha lavorato per un certo tempo, e in parte continua tuttora a lavorare, ai concetti di identificabilità e attivazione sfruttando la dicotomia, particolarmente fortunata, di ‘dato'/‘nuovo’, incentrata principalmente sul parametro dell’attivazione, ma in modo strettamente intrecciato all'identificabilità (cfr. Chafe, 1976). È nor­ malmente definito come dato un referente già presente nell’universo di discorso al momento considerato, mentre è nuovo un referente nel momento in cui viene introdotto per la prima volta nel discorso. A questa opposizione sarebbero collegati alcuni fenomeni morfosintattici come, in italiano, la selezione fra articolo indeterminativo (marca di elemento nuovo) e determinativo (marca di elemento noto) nelle frasi seguenti: (18)

C’era una volta un re, che aveva una figlia. Un giorno il re morì e la figlia rimase da sola al governo del regno.

Il re e la figlia di cui si parla nella seconda frase sono sempre gli stessi della prima, ma la diversa marca di dato/nuovo - evidenziata

n . Si osservi che anche l’ambiguità possibile del termine ‘caposala’ (che può de­ signare anche un infermiere, oltre che un cameriere) decade a causa dell’attivazione del frame “entrare al ristorante” : l’interpretazione è immediatamente univoca.

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L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

2 . R E F E R E N T I TESTU A LI

dalla diversa selezione dell’articolo - è dovuta al loro status nel di­ scorso: mentre nella prima frase i due personaggi vengono introdotti nella storia come elementi nuovi, vengono cioè istituiti come referenti testuali, nella seconda menzione essi sono referenti noti, già presenti nell’universo di discorso: l’uso dell’articolo determinativo nel secondo caso sarebbe allora una sorta di istruzione all’ascoltatore per indicare che si tratta di una seconda menzione. Questa descrizione, appropriata nel caso appena visto, non con­ sente però di dare una descrizione appropriata di altri fenomeni, come l’uso dell’articolo determinativo per referenti nuovi, o dell’inde­ terminativo per referenti noti, come nel caso seguente:

posizione “x andava al cinema” . In questo caso, cioè, abbiamo un problema non di identificabilità fra un referente testuale nell’universo di discorso e il suo referente nella realtà, ma di identificazione di un referente testuale con il suo ruolo all’interno dell’enunciato. Tornere­ mo su questo ordine di problemi nel cap . 3.

(19)

C’era una volta un re, che aveva due figlie. Una figlia venne un giorno chiesta in sposa dal principe di un lontano paese.

In questo caso la figlia menzionata nella seconda frase è certamente nota, poiché è una delle figlie di cui si parla nell’enunciato prece­ dente; il principe d’altronde è certamente nuovo, perché non è stato menzionato precedentemente: tuttavia l’uso degli articoli è inverso ri­ spetto a (18). L ’opposizione fra dato e nuovo non sembra quindi ne­ cessaria né sufficiente a giustificare l’opposizione fra articolo determi­ nativo e indeterminativo. Per questo motivo, sembra utile complessificare la dicotomia distinguendo come parametri più pertinenti i due criteri distinti dell’identificabilità e dell’attivazione. Il ricorso a tali parametri non è del resto sufficiente a descrivere e giustificare la gamma di possibilità espressive delle espressioni definite. Si consideri il caso seguente, in cui Gianluca racconta a Giorgio di aver visto il comune amico Francesco andare al cinema:

2.1.5. Definitezza L ’individuare parametri come l’identificabilità e l’attivazione di un re­ ferente testuale ha ragion d’essere in linguistica perché tali opposizio­ ni concettuali hanno effetto sull’espressione linguistica, condizionano cioè le scelte che un parlante fa o può fare nell’espressione di un de­ terminato referente. Esistono diversi mezzi morfologici, sintattici, prosodici per esprimere l’identificabilità e l’attivazione di un referente testuale. All’espressione linguistica del complesso intreccio fra quanti­ ficazione, identificabilità e attivazione fa riferimento la nozione di definitezza 12. Una marca dedicata ad esprimere la definitezza o non definitezza di un’espressione è in molte lingue tipicamente la classe degli specificatori dei sintagmi nominali: in italiano, come in molte lingue indeu­ ropee, la classe comprende gli articoli, i dimostrativi, i numerali, i possessivi, gli indefiniti. Le opposizioni d’uso di questi elementi non sono identiche da lingua a lingua. In italiano, l’opposizione fra artico­ lo determinativo e indeterminativo (al plurale, nella forma di un partitivo) può valere per distinguere un riferimento generico e uno sin­ golare: (21)

(20) a) Ho incontrato Francesco: stava andando al cinema b) *Ho incrociato Francesco e Chiara: stava andando al cinema

a) Gli insetti hanno sei zampe b) Degli insetti hanno sei zampe

o per distinguere un referente identificabile e uno non identificabile: In entrambe le frasi abbiamo un referente, Francesco, che è identifi­ cabile da entrambi gli interlocutori ed è attivo in quanto appena menzionato. Tuttavia, l’uso nella seconda parte dell’enunciato di un soggetto non espresso - marca di massima identificabilità e attivazio­ ne - è consentito solo in (20U. Il motivo di questo, intuitivamente, ci pare legato al fatto che l’effettivo soggetto di tale frase in questo con­ testo non è identificabile. Non si tratta, però, di una difficoltà nel reperire e identificare i referenti reali dei due referenti testuali evoca­ ti, entrambi attivi nel testo e conosciuti dagli interlocutori: ciò che resta non identificato è quale dei due occupi il posto vuoto nella pro­ 38

(22) a) Ho conosciuto la ballerina di flamenco b) Ho conosciuto una ballerina di flamenco

12. Il modo di espressione della definitezza in lingue diverse è un argomento vastissimo che è impensabile esaurire in questa sede. Ci limitiamo nel seguito a dare alcuni esempi che servono a mostrare quali classi di elementi linguistici sono chiamate in gioco e quali valori consentono di esprimere. Per una discussione del fenomeno e un’ampia descrizione dei modi di espressione della definitezza su base interlinguistica cfr. Lyons (1999). Sull’italiano cfr. Renzi (1988).

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2.

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

In inglese, il riferimento generico è espresso da sintagmi plurali privi di specificatore (o con «articolo zero» I3), mentre negli stessi sintagmi l’articolo determinativo indica necessariamente un riferimento specifi­ co. Con (23 )a il parlante intende che non ama i biscotti allo zenzero in generale, mentre con (23)^ intende che, fra i tipi di biscotti cui si sta facendo riferimento, e che hanno un rimando concreto nella real­ tà (ad esempio, si trovano in una credenza di fronte agli interlocuto­ ri), quelli allo zenzero non gli piacciono: (23)

a) I d o n ’t lik e gin ger b iscu its

b) I don’t like thè ginger biscuits In italiano, l’uso dell’articolo zero per il riferimento generico non è consentito: (24)

a) Mi piacciono i biscotti allo zenzero b) *Mi piacciono biscotti allo zenzero

L ’articolo zero è invece consentito, in italiano, per il plurale dei nomi numerabili e il singolare dei nomi di massa, quando questi abbiano un riferimento singolare non specifico: (25)

a) Non compro mai biscotti allo zenzero b) Non compro mai té alla frutta

Altri parametri indicatori di definitezza possono essere la presenza o meno di flessione, o altre peculiarità morfologiche. In italiano, ad esempio, l’opposizione fra congiuntivo e indicativo nelle relative re­ strittive dipendenti da un sintagma nominale può distinguere un rife­ rimento singolare specifico da uno singolare non specifico: (26)

a) Cerco un libro che m i appassiona b) Cerco un libro che mi appassioni

In turco, l’uso combinato dell’opposizione fra marcatura e non mar­ catura di caso e fra uso o meno del numerale consente di individuare quattro casi: (27)

a) Ahmet òkuz-ϋ aldi Ahmet bu e-A C C comprò

(riferimento specifico, identificabile)

13 . Sull’articolo zero cfr. Renzi (1985).

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b)

A h m et b ir òku z-ϋ

R EFER EN T I TESTU A LI

aldi

(riferim en to specifico, identificabile)

A h m et un bue-ACC com prò

c) Ahmet bir òkuz aldi Ahmet un bue comprò d) Ahmet òkuz aldi Ahmet bue comprò

(riferimento specifico, non identificabile) (riferimento non specifico)

In (27 )b l’espressione è marcata contemporaneamente con una marca di definitezza, l’uso della declinazione, e con una di indefinitezza, il numerale bir. Il valore di (2j)b è analogo a quello dell’esempio in (28)^: come osserva Lambrecht (1994), esiste in francese, e, aggiun­ giamo noi, anche in italiano, la possibilità, attraverso l’uso del dimo­ strativo, di presentare come identificabile e noto un referente nuovo, segnalando così la volontà di instaurarlo come topic (cfr. c a p . 3) per gli enunciati successivi: (28)

a) Rientrando da Pavia, ho incontrato un turista giapponese b) Rientrando da Pavia ho incontrato questo turista giapponese che ha parlato al telefono fino all’arrivo

Come si è già avuto occasione di dire, infatti, le regole d’uso delle marche di definitezza non vincolano ogni scelta espressiva: se, da un lato, è necessario che il parlante segnali la definitezza di un riferimen­ to, se vuole che questo sia riconosciuto come tale, gli è però possibile marcare come definito un riferimento non pienamente attivo o identi­ ficabile, quando sia sua intenzione, per qualche motivo comunicativo, il presentare il referente come definito, ovvero identificabile. La mar­ catura della definitezza non è cioè semplicemente una marca di se­ gnalazione di un valore in qualche modo “intrinseco” al riferimento in questione, ma è piuttosto ciò che in ultima analisi determina la definitezza o meno del riferimento. Su quali proprietà del referente testuale si basi la sua (in)definitezza - sui parametri della quantifica­ zione, dell’identificabilità, dell’attivazione - è poi chiarito contestual­ mente. Nell’esempio seguente, solo l ’uso dell’articolo indica al desti­ natario del messaggio se il referente testuale in questione vada inter­ pretato come definito o indefinito: (29)

Quella b) Quella

a)

è è

la mia vicina di casa una mia vicina di casa

La definitezza espressa dall’uso dell’articolo determinativo in (3o)zz può essere dovuta al fatto che si tratta di un referente unico (perché

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2 . R EFER EN T I TEST U A LI

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

chi parla non ha altri vicini di casa), che si tratta di un referente identificabile dall’ascoltatore (ad esempio perché gli interlocutori han­ no già parlato di questa vicina, o comunque il parlante è a conoscen­ za del fatto che l’interlocutore è in grado di identificare la persona in questione come una specifica vicina di casa) o che si tratta di un refe­ rente attivo nella mente del parlante (che, ad esempio, è in stretti rapporti con questa vicina e per il quale essa è quindi la vicina di casa più facilmente “ attivata” in un discorso), il quale così intende presentarlo all’interlocutore: la corretta interpretazione dell’intenzione comunicativa del parlante dipenderà dalla conoscenza del contesto nel suo complesso. Resta costante la segnalazione del suo desiderio di presentare il referente testuale in questione come definito. Proprio questa differenza concettuale fra, da un lato, le proprietà intrinseche di un referente testuale in termini di quantificazione, identificabilità, attivazione in un determinato punto del discorso e, dall’altro, le intenzioni comunicative del parlante sul modo di pre­ sentare il referente in questione rende importante tenere distinti i due piani di analisi: la definitezza sarebbe cioè, in questa visione, la gam­ ma di opzioni che una lingua mette a disposizione del parlante per­ ché questi scelga come strutturare ed esprimere lo spazio complesso di relazioni fra i valori di quantificazione, identificabilità e attivazione propri di ogni referente testuale in ogni momento del discorso. 2.1.6. Scale di accessibilità Alcune proposte descrittive dello status dei referenti testuali nel di­ scorso hanno tentato, considerando di fatto congiuntamente i para­ metri di identificabilità e attivazione, di stilare delle «scale di acces­ sibilità», a cui sarebbero legati i modi di espressioni dei referenti testuali stessi. Noi illustreremo qui, nella f i g . 2.3, quella proposta da Chafe (1987), sostanzialmente ripresa in Lambrecht (1994), e, nella f i g . 2.4, quella di Levelt (1989). figura 2.3 G rad i di attivazione (activation States) di un referente testuale

Attivo: presente nel centro di attenzione Sem iattivo (accessibile): presente nelle conoscenze Inattivo: presente nella memoria a lungo termine Fonie: Chafe (1987).

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FIGURA 2.4 Scala di accessibilità (accessibility status) di un referente testuale In focus: presente nel centro di attenzione N e ll’universo di discorso: disponibile nell’universo di discorso Accessibile: inferibile Inaccessibile: totalmente nuovo Fonte: Levelt (1989).*13

L ’accessibilità di un referente testuale, cioè la sua possibilità di essere univocamente identificato con un’entità precisa, può essere motivata, come si è detto, da fattori di diversa natura, sintattici, semantici o pragmatici. Motivazioni sintattiche sono alla base dell’accessibilità di referenti che sono già stati menzionati nel testo, come per la salsa richiamata dal clitico la nell’esempio seguente: (30)

U n ire le spezie alla salsa e m escolar/a fino a ottenere un im p asto o m o ­ geneo (ricettario di cucina).

Sono accessibili grazie a specifiche proprietà semantiche del referente le espressioni dotate intrinsecamente di referenza unica, come i nomi propri o alcune descrizioni definite già più volte menzionate (Niccolò Carosio, la nazionale di calcio paraguaiana, la navicella spaziale Apollo 13) e i referenti evocati da altri cui sono legati da relazioni lessicali, come il rapporto metonimico che si istituisce nel caso seguente'fra uova e tuorli: ( 3 1)

A p rire le uova n ella p ad ella p o n e n d o attenzione a non ro m p e re i tu o rli (ricettario di cucina).

In tutti questi casi, però, l’accessibilità del referente è resa possibile anche grazie a una componente pragmatica, ovvero alla disponibilità, nell’universo condiviso dai parlanti, di una serie di conoscenze sul modo in cui il mondo e gli oggetti che ne fanno parte sono orga­ nizzati: il fatto che fra uova e tuorli si istituisca una relazione metoni­ mica, infatti, è una questione di competenza lessicale relativa al si­ gnificato dei due nomi, ma anche di conoscenza enciclopedica relati­ va al modo in cui sono fatte le uova; così, il fatto che esista una e una sola nazionale di calcio paraguaiana al momento in cui il discorso

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L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

2 . R EFEREN TI TESTU A LI

è in atto, per cui il riferimento ad essa con una marca di referenza definita (l’articolo determinativo) non crea alcuna difficoltà all’ascol­ tatore, è legato alla conoscenza che i due parlanti hanno sul mondo del calcio; infine, il fatto che un parlante possa menzionare un refe­ rente con la sola espressione nominale Niccolò Carosio è legata alla sua congettura che l’interlocutore condivida una serie di informazioni che gli consentono di legare questa espressione a un referente cono­ sciuto. Altri casi di accessibilità di referenti dipendenti da un intreccio fra semantica e pragmatica sono i referenti accessibili grazie a frame (cfr. par . 2.1.3), mentre legata prevalentemente a fattori pragmatici è l’accessibilità, già alla prima menzione, di referenti come la portinaia, che fa riferimento a una persona conosciuta da entrambi i parlanti (ad esempio due condomini), o mio fratello, referente per la cui identificabilità è necessaria la conoscenza dell’identità del parlante (cfr. p a r . 2.3). Data l’alta pervasività del livello pragmatico nel determinare l’ac­ cessibilità di un referente testuale, alcuni autori impostano in modo unificato la descrizione dell’accessibilità dei referenti a partire da que­ sto livello. Lambrecht (1994), ad esempio, propone una visione ampia del concetto di universo di discorso, includendovi tutto l’insieme del­ le conoscenze condivise dai partecipanti: referenti testuali accessibili sono quindi quelli i cui referenti nel mondo sono presenti all’interno dell’universo di discorso condiviso, del quale entrano a far parte per vie diverse: per esplicita menzione nel discorso in atto, o per evoca­ zione a partire da un frame attivato nel discorso in atto, oppure per­ ché parte di uno dei frame di conoscenze, personali e universali, “permanentemente” presenti nella mente degli interlocutori. Si può riformulare in questo senso anche il concetto per cui può essere il parlante stesso a scegliere se presentare come accessibile o meno un referente nel discorso: così facendo, egli richiama e rende attivo nell’universo di discorso, qualora ancora non lo fosse, il frame necessario perché un’interpretazione definita del referente menziona­ to sia possibile. Un impiegato che, verso le dieci del mattino, volendo proporre un caffè ai suoi colleghi dica:

quel particolare momento, il caffè sia un elemento “pragmaticamente attivo” dell’universo di discorso. 2.2 L ’anafora 2.2.1. Riferimento e rinvio Come abbiamo visto, il fatto che si sta facendo riferimento a un re­ ferente già istituito nel testo deve essere segnalato, pena la mancata identificazione del referente nelle diverse ricorrenze. Le descrizioni definite che segnalano che il referente cui rimandano è già presente nel testo hanno dunque, oltre alla funzione di riferimento, funzione di rinvio alla menzione precedente. Nell’esempio seguente, la descri­ zione definita la donna fa riferimento allo stesso referente dell’e­ spressione la vecchia Diondioré: l’uso dell’articolo determinativo se­ gnala che la donna in questione deve essere considerata identificabi­ le, e il referente più probabile risulta essere la vecchia della frase precedente. (33)

Poco distante, ai margini dei campi di miglio, c’è una piccola abitazio­ ne. Qui vive la vecchia Diondioré;, figlia di Ogotemmeli: «È la più an­ ziana del villaggio, avrà più di novant’anni» dice Missirì, avvicinandosi alla porta per chiamare la donna; (Aime, Diario dogon, p. 33).

evoca, scegliendo la variante b, un’abitudine radicata alla consumazio­ ne di un caffè nella mattinata, grazie alla quale si può dire che, in

In questo caso, la descrizione definita la donna ha funzione di riferi­ mento a un referente extratestuale e, anche, di rinvio interno al testo all’espressione la vecchia Diondioré. Il legame che si istituisce fra le due espressioni si dice di tipo anaforico. Si definisce infatti comune­ mente anafora la relazione fra due elementi linguistici in cui l’inter­ pretazione di uno, detto anaforico, richiede in qualche modo l’inter­ pretazione dell’altro, detto antecedente (Huang, 2000). Una volta che un referente testuale è attivato nel discorso, è possibile fare di nuovo riferimento ad esso sia attraverso una nuova descrizione definita, sia attraverso un elemento linguistico che funziona come segnale di rin­ vio alle menzioni precedenti. Le lingue possiedono inoltre solitamente mezzi specifici per istituire legami di tipo anaforico fra espressioni re­ ferenziali in un testo. Un mezzo diffuso è quello delle pro-forme, cioè di elementi che non consentono un riferimento autonomo ma hanno intrinsecamente funzione di rinvio, rimandando necessariamente, per la propria interpretazione, ad altre espressioni del testo. L ’italiano di­ spone di un ampio inventario di pro-forme, di cui le più tipiche sono i pronomi personali, i relativi e i dimostrativi:

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(32)

a) Lo prendete un caffè? b) Lo prendete il caffè?

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2 . R EFER EN T I TEST U A LI

(34) a) Tre ragazzini; ci superano di corsa e si precipitano attraverso il tun­ nel. [...] Missirì mi dice che bisognerebbe dar loro; qualcosa (Ai­ me, Diario dogon, p. 33) b) Anche i turisti seduti lì davanti in fondo sanno benissimo che le danze che stanno osservando-, non sono rituali e forse non riusci­ rebbero neppure a comprenderne gli aspetti più profondi se queste-, fossero eseguite nel loro contesto naturale (Aime, Diario dogon,

non instaurano un referente testuale singolare, come è mostrato dal­ l’impossibilità di fare una ripresa anaforica a partire da espressioni di questo tipo I7:

P· 54)·

(35)

(36)

Nei paragrafi successivi approfondiremo il fenomeno dell’anafora dal punto di vista degli elementi linguistici che possono essere interessati da anafora (p a r . 2.2.3) e dal punto di vista dei tipi di relazione che possono instaurarsi fra i due elementi legati da anafora (p a r . 2.2.4). Nel prossimo paragrafo discutiamo però brevemente una questione preliminare, ovvero la correlazione fra rinvio anaforico e instaurazio­ ne di referenti testuali. 2.2.2. Istituzione di un referente testuale La possibilità di rimando anaforico a un referente extratestuale è le­ gata evidentemente alla sua preliminare introduzione come referente testuale nel discorso I4. Con il riferimento esplicito a un referente at­ traverso una descrizione definita, esso viene istituito come referente testuale ed entra così a far parte dell’insieme di elementi attivati nel­ l’universo di discorso, ai quali è possibile fare rimando anaforico 15 ; tuttavia non ogni descrizione definita di per sé istituisce nel discorso un referente testuale: ciò dipende anche dall’enunciato in cui tale de­ scrizione è inserita e dal ruolo che essa svolge nell’enunciato di cui fa parte l6. Il riferimento generico e il riferimento non specifico, ad esempio,

14. Cfr. Conte (1980, p. 32): «Instaurazione di un referente testuale e possibilità di ripresa anaforica sono fenomeni correlativi: riferimento anaforico è possibile se, e solo se, un referente testuale è stato instaurato nel testo (in altri termini: un referente testuale è instaurato nel testo se, e solo se, in quel testo è possibile fare riferimento anaforico ad esso)». 15. Ricordiamo che la menzione non è necessaria perché un’entità faccia parte dell’universo di discorso, ma lo è normalmente perché esso venga reso effettivamente attivo nel testo. Così, l’attivazione di un frame evoca tutti i componenti del frame stesso (li rende cioè “ accessibili” ), ma perché qualcuno di questi componenti si in­ stauri come referente testuale - e sia quindi passibile di ripresa anaforica - ne è ne­ cessaria la menzione (con eccezioni che vedremo). Cfr. par . 2.2.3. 16. Aggiungiamo che non solo le descrizioni definite instaurano referenti testuali, ma anche, ad esempio, espressioni deittiche: cfr. par . 2.3.

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L’animale con le maggiori affinità genetiche con l’uomo è lo scimpan­ zé. *Lo si vede ogni mattina aggirarsi per l’accampamento (riferimento generico) a) In questa zona è frequente incontrare uno scimpanzé(. Lo; si vede ogni mattina aggirarsi per l’accampamento (riferimento singolare specifico) b) Non è facile avvicinare uno scimpanzé che non fugga alla vista un uomo, *Lo si vede ogni mattina aggirarsi per l’accampamento (rife­ rimento singolare non specifico).

Nella frase (36), la ripresa anaforica con il pronome lo è consentita in a, perché l’espressione uno scimpanzé consente una lettura specifica e instaura così un referente testuale, mentre nella variante b il pronome Lo resta privo di riferimento poiché non può rinviare all’espressione uno scimpanzé, che ha qui necessariamente lettura non specifica e quindi non instaura un referente testuale. Il riferimento generico e il riferimento non specifico instaurano invece un riferimento alla classe, per cui è possibile un rinvio che abbia come referente l’intera classe: (37) (38)

L ’animale con le maggiori affinità genetiche con l’uomo è lo scimpan­ zé. Esso vive in clan famigliari piuttosto ampi. Uno scimpanzé-, apprende dalla madre nei primi anni di vita a servirsi di alcuni utensili. È frequente ad esempio osservar/o; mentre appuntisce un bastoncino per catturare le termiti nei cunicoli dei termitai.

Negli enunciati negativi, le espressioni indefinite hanno normalmente interpretazione non specifica, per cui non consentono, come visto, ri­ presa anaforica con interpretazione singolare: (39)

a) Il cane abbaiava a un passanteDopo qualche minuto, questi; se ne andò infastidito. b) Il cane non abbaiava a un passante, ma per un rumore persistente. *Dopo qualche minuto, questi se ne andò infastidito.

17. Molti degli esempi che seguono sono più naturali se, anziché con il pronome personale o col dimostrativo, la ripresa anaforica avviene mediante un’anafora zero, ovvero con ellissi del soggetto: la ripresa con una marca esplicita ci serve qui a fini di maggior evidenza. Cfr. par. 2.2.3.

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2 . R EFE R E N T I TEST U A LI

Le espressioni definite, invece, possono istituire referenti testuali tan­ to in frasi affermative quanto in frasi negative l8. L ’istituzione di un referente testuale dipende anche dal tipo di predicato coinvolto. Si osservi come, negli esempi seguenti, la negazione (frasi b) non con­ sente di instaurare il sintagma nominale oggetto come referente te­ stuale nell’esempio (41), ma lo consente in (40).

si attraverso un sintagma nominale, un sintagma verbale, un sintagma aggettivale e preposizionale, una proposizione:

(40)

(43)

(41)

a) b) a) b)

Il ragazzo aprì i l c a n c e llo Q u e s tO i scricchiolò. Il ragazzo non aprì i l cancello;. Q uesto { scricchiolò. Il giardiniere ha già costruito la s ta c c io n a ta E s s a i separa il giardino dall’orto Il giardiniere non ha ancora costruito la staccionata. *E ssa separa il giardino dall’orto

(42)

b) a) b)

(44)

a)

così / sim ile. b)

La differenza di comportamento è data dal diverso rapporto che in­ tercorre fra il verbo e il sintagma nominale oggetto da esso dipen­ dente (il cancello e la staccionata)·, nel caso di (40), il sintagma è un obiectum affectum, per il quale cioè l’azione del predicato modifica il referente cui il sintagma fa riferimento ma non ne intacca l’esistenza; nel caso di (41) il sintagma è un obiectum effectum, per il quale cioè la sussistenza dell’azione del predicato è necessaria per l’esistenza del referente cui il sintagma fa riferimento (se il giardiniere non ha co­ struito la staccionata, la staccionata non esiste e non è possibile farne oggetto di predicazione successiva): venendo meno l’azione espressa dal predicato, anche il referente cui il sintagma oggetto fa riferimen­ to viene meno, e il sintagma non instaura quindi alcun referente te­ stuale. 2.2.3. Mezzi linguistici per il rinvio anaforico

era in testa. Lo; vedevamo sopravanzare gli avver­ sari di almeno una lunghezza. I l cavallo bianco, era in testa. L ’an im ale , sopravanzava gli avversari di almeno una lunghezza. Il cavallo bianco superò con agilità i l p rim o ostacolo,, mentre gli av­ versari lo fe c e ro ; con difficoltà. Il cavallo bianco superò con agilità i l p rim o ostacolo ,, mentre gli altri ebbero molta difficoltà nella provai. Carla ha una borsa giallai / con la tracollai e anche Anna ne ha una

a) I l cavallo bianco,

(45)

Carla ha una borsa

giallai ! con hi tracollai

d ello stesso tipOia) I l trattato d i pace è stato firm atoi. Lo-,

e anche Anna ne ha una

riportano in prima pagina tut­

ti i giornali. b) I l trattato d i pace è stato firm atoi. L a notiziai

è riportata in prima

pagina. Negli esempi a la ripresa anaforica è effettuata attraverso pro-forme, cioè elementi linguistici che hanno intrinsecamente funzione di sosti­ tuzione e rinvio anaforico: si tratta non solo di pronomi, ma anche di aggettivi, di avverbi e di verbi (il predicato farlo è un mezzo di ri­ presa anaforica per sintagmi verbali) I9. Elementi con funzione chiaramente anaforica rispetto a proposi­ zioni e predicati sono poi alcuni avverbi, come sì e no e il focalizzatore anche 2°. Il loro comportamento è però leggermente diverso, come i seguenti esempi mostrano: Gianni era un artista, Anna no. Gianni era un artista, Anna non era un’artista. *Gianni era un artista, Anna n o era un’artista. Gianni non era un artista, Anna sì. Gianni non era un artista, Anna era un’artista. *Gianni non era un artista, Anna s ì era un’artista 2I.

Diversi tipi di costituenti possono essere interessati da ripresa anafo­ rica e i mezzi linguistici di ripresa in una lingua possono essere diversificati a seconda dell’antecedente che riprendono. Negli esempi seguenti si illustrano, rispettivamente, esempi di rimando anaforico a un’entità, un’azione, una proprietà, un evento, rispettivamente espres­

(46)

18 . Questa proprietà è legata alla presupposizione di esistenza che, secondo una diffusa interpretazione logico-semantica, accompagna le descrizioni definite con riferi­ mento definito: l’uso di un’espressione come il passante nella frase II cane non abbaiò al passante porterebbe con sé una presupposizione di esistenza del referente designa­ to, la quale non sarebbe intaccata dalla negazione: nell’universo di discorso considera­ to il passante esiste, insomma, indipendentemente dal fatto che il cane gli abbai con­ tro o meno. Cfr. par . 4.2.2.

19. Molte delle forme di rimando anaforico qui descritte possono svolgere anche funzione di riferimento deittico: ne riparleremo nel pa r . 2.3. 20. Torneremo su altre proprietà di anche nel cap . 3. 2 1. L ’enunciato è inaccettabile con una intonazione piana, analoga a quella di Anna lo era. Sarebbe accettabile con una lettura enfatica di sì: Anna sì lo era, identica nella funzione a una frase scissa del tipo Anna sì che lo era, o con una cesura intonativa dopo sì: Anna sì, lo era, corrispondente a una dislocazione a destra. In questi casi

48

49

(47)

a) b) c) a) b) c)

2 . R EFER EN T I TESTU A LI

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(48) a) Gianni era un artista e Anna anche. b) Gianni era un artista e Anna era un’artista. c) Gianni era un artista, e Anna anche / anche Anna era un’artista. Come si osserva, gli avverbi sì e no si comportano da sostituenti ana­ forici, occupando esattamente il posto della predicazione cui rinviano (esempi b) e non potendo occorrere congiuntamente ad essa (esempi c). Anche, viceversa, può ricorrere anche congiuntamente alla predica­ zione cui rimanda, per cui non può essere considerato un sostituente anaforico. Tuttavia, la sua presenza è necessaria perché l’ellissi sia consentita: (49)

*Gianni era un artista e Anna

e, da questo punto di vista, anche ha una funzione precipuamente anaforica nei confronti del predicato. Come gli esempi precedenti mostrano, un legame anaforico si in­ staura anche attraverso l’ellissi, ovvero l’omissione, in una seconda menzione, di un costituente già menzionato. Come i seguenti esempi illustrano, l’ellissi può riguardare diversi costituenti (il verbo, un suo argomento, un’intera proposizione)

in lingue come l’italiano, in cui il verbo accorda in persona, numero ed eventualmente genere con il soggetto, il soggetto non espresso è marcato dalla flessione di persona del verbo, ovvero esiste un mezzo grammaticale di segnalazione del referente testuale non espresso. Nel­ l’esempio seguente, è possibile determinare il referente dei diversi soggetti non espressi grazie alla flessione personale del verbo. In par­ ticolare, il referente contrassegnato con li coincide con il narratore. (54) Sekou-, indossa, il tradizionale abito di cotofie bianco sopra i jeans e 0 ; si unisce agli altri suonatori del piazzale. Lo; 0 ;i seguo con Youssouf Tata Cisséai, un anziano etnologo maliano che 0 i; ho conosciuto al Campement. 0 ;i; È un uomo imponente, 0 ui vestito con un bel boubou verde e un fez rosso in testa (Aime, Diario dogon, p. 51). Talvolta le connessioni anaforiche non sono così chiaramente identifi­ cabili. Nell’esempio seguente, il sintagma verbale la pensa così riman­ da anaforicamente non alla precedente proposizione subordinata che Anna partisse o all’intera proposizione vorrebbe che Anna partisse ma piuttosto a una proposizione non esplicitata Anna farebbe bene a partire: (55)

(50) (51) (52)

Carla prende-, la margherita, Sandra 0 ; la napoletana Carla adora, e Sandra detesta 0 -„ la musica folk Carla avrebbe voluto che Sandra comprasse un disco di musica folk·,, ma Sandra ha rifiutato 0 ;

Si può evidentemente parlare di ellissi, cioè di omissione, solo per confronto rispetto a un modello: è proprio nel confronto con un mo­ dello di frase completa (ovvero, una frase a nodo verbale compren­ dente tutti gli argomenti richiesti dal verbo) che emerge l’assenza di un elemento. Si può considerare un caso di ellissi anche l’omissione del sogget­ to che riprende anaforicamente un costituente precedente: (53)

Carla-, ordinerà le pizze e 0 , le porterà subito a casa

L ’omissione del soggetto è però un fenomeno parzialmente distinto dall’ellissi perché non si tratta di un caso di semplice cancellazione:

Gianni vorrebbe che Anna partisse, e anche Paolo la pensa così.

In altri casi, la reintegrazione degli elementi ellittici richiederebbe una riformulazione della frase, che quindi non subisce semplicemente cancellazione di elementi. Riportiamo un esempio citato da Marello (1984): (36) a) Io ti avevo dato maggior prova di amicizia che lei 0 di amore (Tomizza, 1980) b) Io ti avevo dato prova di amicizia maggiore della prova d’amóre che lei ti aveva dato La sostituzione anaforica può avvenire anche attraverso descrizioni definite (cfr. le frasi b degli esempi da 42 a 45): si prestano a questo scopo espressioni che intrattengono con l’antecedente una relazione semantica di iperonimia o di sinonimia. Ne vediamo di seguito due esempi: (57)

però il sì conserverebbe la propria funzione anaforica, analogamente a quanto avviene per i costituenti spostati delle frasi scisse e dislocate (per questi concetti cfr. cap . 3). 22. Il segno 0 indica il luogo da cui è stato cancellato il costituente ellittico.

Il pittore Cimabue nacque a Firenze nel 1240 ca. Il noto artista venne preso giovanissimo a bottega da Giotto. (58) Una maschera eschimese tridimensionale con dodici braccia e una quan­ tità di buchi-, è appesa accanto a una tela su cui Juan Mirò ha dipinto forme colorateu. Il pubblico, a New York, guarda i due oggettii+ii e

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51

2 . R EFER EN T I TESTU A LI

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

vede che si somigliano (Clifford, I frutti puri impazziscono, cit. in Ai­ me, Diario dogon, p. 71). La ripresa attraverso descrizioni definite consente di aggiungere tratti denotativi o connotativi al referente testuale, per cui il rapporto che si instaura fra anafora e antecedente non è di semplice “ riattualizzazione” , ma anche di arricchimento semantico o pragmatico. Si veda il seguente passo tratto da Verga, in cui il referente testuale padron ‘Ntoni è ripreso dalle espressioni il malato e il poverino·. (59) Per due o tre giorni padron ‘Ntoni fu più di là che di qua. La febbre era venuta, come aveva detto lo speziale, ma era venuta così forte che stava per portarsi via il malato. Il poveraccio non si lagnava più, nel suo cantuccio, colla testa fasciata e la barba lunga. Aveva solo una gran sete, e quando Mena o la Longa gli davano da bere afferrava il boccale con le mani tremanti, che pareva volessero rubarglielo (Verga, I Malavoglia, cap. io). Lo stesso accade nel caso seguente, in cui il sintagma il tradizionale saluto rinvia alla sequenza di frasi successive, connotandone il valore conversazionale e la forza illocutiva23 : (60)

Missirì e l’uomo snocciolano il tradizionale saluto: come va? bene, e la casa? bene, e la famiglia? bene... (Aime, Diario dogon, p. 34).

Conte (1996) designa i nomi che fungono da parafrasi riassuntive di intere porzioni di testo con il nome di incapsulatori anaforici. Conte (i988b) ha poi osservato come anche le pro-forme possano essere sfruttate per esprimere valori connotativi oltre che per la sem­ plice funzione denotativa di rinvio anaforico: commentando un passo de La metamorfosi di Kafka, Conte nota come, nel procedere della narrazione, il riferimento al personaggio di Gregor Samsa sia fatto dapprima con il pronome maschile er, successivamente con il prono­ me neutro es e infine nuovamente con er: questo mutamento non è legato al cambiamento del referente, ovvero non avviene in concomi­ tanza con la trasformazione del protagonista da essere umano a inset­ to, ma coincide con il mutare dell’atteggiamento dei parenti nei con­ fronti di Gregor, da un sentimento di pena a uno di fastidio e sop­ portazione e nuovamente ad uno di pietà. La selezione di mezzi diversi per il rinvio anaforico è in parte re­ golata dall’accessibilità del referente testuale: a referenti altamente ac23. Cfr. per questo concetto il

cap .

4.

52

cessibili corrispondono mezzi di ripresa meno “pesanti” , mentre refe­ renti meno accessibili sono segnalati attraverso mezzi linguistici più pesanti. Nel caso seguente, in a l’immediata adiacenza fra l’antece­ dente e il riferimento anaforico - che fa sì che il referente testuale sia non semplicemente accessibile ma nel centro di attenzione del discor­ so - richiede una ripresa con pronome clitico. In caso contrario, come in b, è richiesto un mezzo di ripresa più pesante, come una ripetizione del sintagma nominale 24: (61)

a) Tritate finemente le cipolle; e unite/q al soffritto / *e unite le ctp o lle i al soffritto b) Tritate finemente le cipolle;. Preparate un soffritto di aglio e pepe­ roncino e unite le cipolle ; ai soffritto / *e unite/*?; al soffritto.

Riportiamo nella f i g . 2.5 la scala dei mezzi di ripresa anaforica in relazione all’accessibilità dell’antecedente individuata da Givón (19 8 3 )25. FIGURA 2.3 M ezzi di ripresa anaforica, accessibilità e continuità referenziale

Referente più continuo / accessibile

Referente più discontinuo / inaccessibile

anafora zero > pronom i atoni o accordo > pronom i tonici > sn definiti > sn indefiniti fonte·. Givón (1983).

Un altro fattore che entra in gioco nella selezione dei mezzi di ri­ presa anaforica è il ruolo sintattico, semantico e pragmatico 26 svolto dal referente testuale cui si fa rinvio: si fa ricorso a mezzi di ripresa anaforica più leggeri quando tale ruolo è mantenuto rispetto all’ante­ cedente, si ricorre a mezzi di ripresa più pesanti quando il ruolo cambia. Diamo qui un esempio di (non) mantenimento del ruolo sin-

24. Analoghe restrizioni si osservano per l ’ellissi, cfr. Marello (1984). 23. La scala di accessibilità di Givón riguarda più precisamente l ’accessibilità dei soli costituenti in topic (cfr. cap . 3). Per questo motivo, nel riportarla, abbiamo trala­ sciato i costrutti dedicati a modulare il ruolo informativo del costituente (come le di­ slocazioni, le frasi scisse, la posizione lineare del costituente nell’enunciato). Cfr. ca p . 3. 26. Per la distinzione fra livello sintattico, semantico e pragmatico di analisi di un enunciato, e per la descrizione dei diversi ruoli che un referente può assumere a questi tre livelli cfr. cap . 3.

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2 . R EFER EN T I TESTU A LI

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

tattico fra antecedente e rinvio anaforico, che porta alla selezione di due diversi mezzi di ripresa anaforica: (62)

a) Gianni; ha incontrato Carlo;; e 0 ; lo;; ha invitato a una festa (0 = Gianni, mantenimento del ruolo sintattico dell’antecedente) b) Gianni; ha incontrato Carlo,; e lui-à lo; ha invitato a una festa {lui = Carlo, mutamento del ruolo sintattico rispetto all’antecedente) 2.2.4. Relazioni fra antecedente e anafora

Le anafore presenti in un testo possono essere considerate come se­ gnali lasciati all’interprete sul fatto che il riferimento a uno degli ele­ menti del testo corrente va cercato nel co-testo precedente. A ll’inter­ prete spetta dunque il compito, in presenza di un’anafora, di indivi­ duare correttamente l’antecedente. Per fare ciò egli si serve di strate­ gie morfosintattiche, semantiche e pragmatiche. G li elementi anaforici spesso possiedono delle marche che guidano nel recupero dell’antece­ dente. In italiano, come abbiamo visto, tanto il sistema dei pronomi personali, dimostrativi - quanto l’accordo personale del verbo (che, come abbiamo visto, può essere considerato uno strumento di rinvio anaforico) consentono di segnalare alcune proprietà morfologiche dell’antecedente, ovvero il genere, il numero e la persona: il sistema di rinvio anaforico dell’italiano marca quindi sull’elemento anaforico alcune proprietà lessicali dell’antecedente. Nell’esempio che segue, i pronomi e i verbi si accordano in gene­ re e numero ai nomi che fungono da antecedente, e i verbi segnalano, attraverso il ricorso alla terza persona, che il loro soggetto non coin­ cide con il mittente o il ricevente del testo. Si crea in questo modo una rete di marche formali che aiutano la corretta interpretazione delle catene di anafore 27: (63) Dopo pochi metri Missirì si mette a scrutare un gruppetto Missirì III mettere-IIIS scrutare di uomini che camminano su un sentiero poco lontano dal nostro. uomo-MP camminare-IIIP 27. Abbiamo inserito nell’esempio (63) delle glosse lessicali e morfologiche - re­ lative ai soli tratti maschile (M), singolare (S), plurale (P), terza persona (III) - sulle espressioni che rinviano ai referenti «Missirì» e «i due uomini». In questo modo il testo è maggiormente comparabile con i più “ esotici” esempi in (64) e (65) a e b. Per omogeneità, in questi esempi abbiamo limitato le glosse morfologiche ai tratti perti­ nenti per il nostro discorso (obv e prox per il Plains Cree in (64), ss e d s per il Harway in (65)a e b).

54

Sono controsole e se ne scorgono solo i profili, ma Missirì esclama: essere-IIIP Missirì esclamare-IIIS «Sono loro». «Chi?». «Goumo, i due fratelli, quelli della foto essere-IIIP IIIP-MP MP due fratello-MP MP -anchelui conosce il libro del Campement. - Stanno andando IIIS-MS conoscere-IIIS stare-IIIP andare al mercato di Ibi». Missirì li chiama ei due si dirigono Missirì IIIP-MP chiamare-IIIS MP due III dirigere-IIIP verso di noi. «Dopo pochi metri Missirì si mette a scrutare un gruppetto di uomini che camminano su un sentiero poco lontano dal nostro. Sono controsole e se ne scorgono solo i profili, ma Missirì esclama: «Sono loro». «Chi?». «Goumo, i due fratelli, quelli della foto - anche lui conosce il libro del Campement. Stanno andando al mercato di Ibi». Missirì li chiama e i due si dirigono ver­ so di noi» (Aime, Diario dogon, p. 63-4). Altri sistemi linguistici marcano il legame anaforico segnando sull’a­ nafora altre proprietà dell’antecedente: ad esempio, un referente te­ stuale può essere marcato per la sua maggiore o minore centralità come oggetto di discorso, e le espressioni anaforiche marcano questa proprietà. Un esempio spesso citato di Bloomfield (1930) proviene dal Plains Cree, lingua amerindia che qui riportiamo in (64) da Huang (2000). In questo testo è ben esemplificato come i due perso­ naggi cui si fa riferimento (un indiano Cree e un Blackfoot) sono ri­ spettivamente marcati dai morfemi di valore «proximate» (pro x ), che segnala un referente centrale nel discorso, e «obviative» (o bv ), che segnala un referente periferico nel discorso. In tutto il testo è possibi­ le attribuire correttamente le azioni espresse dai verbi e le entità espresse dai nomi all’uno o all’altro dei due referenti testuali in gioco grazie a questo sistema di marche: (64)

Mékw é-pimohté-t ispatinaw mentre camminare-PROX collina é-àmaciwé-yit aysiyiniw-a arrampicare-OBV persona-OBV Ekwa poi

kitàpam-é-w osservare-PROX

wàpaht-am vedere-PROX

nàpéw-a uomo-OBV

kitàpàkan

é-kanawàpàkanéhikè-yit aylsiyiniw-a guardare-attraverso-OBV persona-OBV é-nanàtawàpam-à-yit guardare-OBV

Kiskéyim-è-w ayahciyiniw-a conoscere-PROX Blackfoot-OBV

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L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

Ekea o-paskisikan poi PROX-fucile mòstklstaw-é-w attaccare-PROX

pihtasò-w caricare-PROX

è-pimisini-yit giacere-OBV

«Mentre (il Cree) camminava, vide una collina su cui qualcuno, un uomo (il Blackfoot), stava arrampicandosi. Poi (il Cree) osservò che (il Blackfoot) guardava cercando delle persone. (Il Cree) riconobbe che (il Blackfoot) era un Blackfoot. Poi (il Cree) caricò il suo fucile e lo attaccò mentre (il Black­ foot) si gettava a terra». Altri sistemi marcano su uno degli elementi coreferenti (l’antecedente o l’anafora) il mantenimento o il non mantenimento del ruolo sintat­ tico o semantico rispetto alla o alle espressioni coreferenti. L ’esempio seguente (tratto da Comrie, 1989, cit. in Huang, 2000) mostra una lingua africana, il Harway, in cui il verbo principale è accompagnato da una marca (δη o mòn) che segnala se il rimando anaforico del sog­ getto del verbo seguente è da legare al soggetto del primo verbo (ss: stesso soggetto) o a un altro elemento (d s : diverso soggetto): (65) a) Ha dòyw nwgw-ò« bòr dw-a bambino ratto vedere-SS correre andare: «Il bambino vide il ratto e corse via» b) Ha dòyw nwgw-wzd« bòr dw-a bambino ratto vedere-DS correre andare: «Il bambino vide il ratto e questo corse via» In lingue come l’italiano questo fenomeno esiste in quanto l’ellissi del soggetto tende ad essere interpretata come coincidenza con il sogget­ to della frase precedente, o della frase reggente (cfr. ad esempio (62)a)\ in questo senso si potrebbe dire che l’ellissi del soggetto, al­ meno in frasi coordinate o subordinate dello stesso enunciato o di enunciati contigui, sia in italiano un modo di marcare la continuità del soggetto. Si tratta però in realtà di una tendenza legata ai fenome­ ni congiunti dell’alta accessibilità e del ruolo topicale (cfr. c a p . 3) as­ sunto dal soggetto, e non di una regola sintattica rigida. Qualora il contesto lo suggerisca, è infatti possibile riferire il soggetto ellittico di una frase a un altro elemento presente nello stesso momento nel cen­ tro di attenzione: (66) a) Gianni, ha cercato tuo fratello;, a casa, ma 0 ; non gli;; ha parlato b) Gianni; ha cercato tuo fratello,; a casa, ma 0 ,; non c’era

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2 . R EFER EN T I TEST U A LI

L ’esempio mostra come il reperimento dell’antecedente di un elemen­ to anaforico, seppure guidato da mezzi grammaticali come sono i di­ versi tipi di accordo illustrati finora, fa anche affidamento sulle cono­ scenze semantico-pragmatiche degli interlocutori. La necessità di co­ noscenze supplementari, di tipo semantico e pragmatico, è partico­ larmente evidente nel caso di anafora lessicale, come negli esempi (57) e (58): in (57), il collegamento anaforico fra artista e Cimabue è consentito anche grazie alle conoscenze enciclopediche dell’interpre­ te, che sa che al referente Cimabue è ascrivibile la qualifica di artista·, in (38), è grazie alle nostre conoscenze del significato delle parole che possiamo mettere in relazione maschera e tela con oggetti. Tuttavia, anche per il rimando effettuato attraverso mezzi grammaticali, i soli riferimenti grammaticali non sono sufficienti per individuare l’antece­ dente. Nell’esempio seguente, il clitico lo potrebbe grammaticalmente riferirsi sia a telo sia a cotechino-, la corretta interpretazione scaturisce da vari fattori: le conoscenze lessicali dell’interprete rispetto agli og­ getti ‘telo’ e ‘cotechino’, per cui l’espressione ‘fare a fette’ risulta più appropriata per il secondo; le sue conoscenze in merito a una ricetta di cucina, in cui ci si aspetta che sia un cotechino ad essere preparato e non un telo; le aspettative in merito alla tipologia di testo e quindi la maggior centralità del referente ‘cotechino’, che perciò risulta un referente più accessibile per il rinvio anaforico. Si osservi che, invece, il ruolo sintattico rispettivo dei due possibili antecedenti non sembra avere un ruolo nel guidare o indirizzare l’interpretazione - ovvero, (67)^ non è interpretabile in modo diverso rispetto a (6j)b. (67) a) Eliminate il telo dal cotechino, tagliatdo a fette, tenete in caldo in poco brodo bollente. b) Liberate il cotechino dal telo, tagliatdo a fette, tenete in caldo in poco brodo bollente. Un ultimo punto che desideriamo toccare riguarda il tipo di legame referenziale che si istituisce fra anafora e suo antecedente. Negli esempi finora mostrati, il rapporto fra anafora e antecedente è di coreferenza, ovvero il referente dell’anafora coincide con il referente dell’antecedente. Fra anafora e antecedente c’è identità di significato. Un legame anaforico però può instaurarsi anche ad altri livelli. Il caso seguente è un noto esempio di lazy pronoun (pronome pigro, per Con­ te, 1980) citato da Karttunen (1969): (68)

L ’uomo; che ha dato la busta-paga;, alla moglie è stato più saggio di quello; che /’;, ha data all’amante.

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L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

2 . R E F E R E N T I TESTU A LI

In questo caso, il dimostrativo quello, che rimanda all’antecedente uomo, non istituisce con questo un rapporto di coreferenza, poiché il referente del primo non coincide con quello del secondo; l’uomo del­ la prima frase, in altre parole, non è lo stesso della seconda: si tratta di due diversi referenti che possono entrambi essere richiamati dall’e­ spressione uomo-, allo stesso modo, il pronome clitico lo non rimanda allo stesso referente del suo antecedente stipendio, ma a un diverso referente che pure può essere ricondotto a questa espressione. Fra anafora e antecedente c’è identità non di significato ma di senso: fra i due c’è un rapporto di cosignificanza (cfr. Conte, 1980). Infine, nell’esempio seguente (l’esempio è di Quine, cit. in Conte, 1980):

da parte dei partecipanti una serie di conoscenze condivise che trava­ licano la semplice conoscenza lessicale del significato delle espressioni usate. Riprendiamo qui di seguito alcuni esempi:

(69)

Il pittore Giorgione era chiamato così per la sua mole

l’anafora non rinvia al referente dell’antecedente Giorgione (cioè al pittore in carne ed ossa), ma direttamente all’espressione ‘Giorgione’ e più precisamente alla sua natura di accrescitivo. Conte parla in que­ sto caso di «anafora con salto di suppositio», dato che l’anafora non rinvia, come accade nell’anafora propria - sia coreferenziale sia cosi­ gnificante - , all’antecedente in suppositione formali, cioè al suo conte­ nuto referenziale (nel nostro caso, il referente Giorgione in carne ed ossa), ma all’antecedente in suppositione materiali, ovvero al suo si­ gnificante (nel nostro caso il nome Giorgione). 2 -3

La deissi 2.3.1. Riferimento deittico In questa sezione descriviamo un ultimo modo di riferimento al con­ testo extralinguistico che si affianca al riferimento lessicale attraverso descrizioni definite e al riferimento anaforico, ovvero il riferimento deittico. Possiamo accogliere la definizione di deissi data da Vanelli (Vanelli, Renzi, 1995, p. 262): Per «deissi» si intende quel fenomeno linguistico per cui determinate espres­ sioni richiedono, per essere interpretate, la conoscenza di particolari condi­ zioni contestuali che sono l’identità dei partecipanti all’atto comunicativo e la loro collocazione spazio-temporale.

(70)

a) Ho finalmente visto la portinaia b) Sarebbe opportuno parlarlei c) Ecco! È lei, la portinaia!

In (70)a il riferimento la portinaia è interpretabile lessicalmente da entrambi gli interlocutori, ovvero entrambi hanno accesso all’informa­ zione semantica contenuta nel lessema portinaia, ma per l’esatta indi­ viduazione del referente (che l’articolo determinativo presenta come identificabile) è necessario che i due interlocutori condividano una serie di conoscenze (ad esempio l’ascoltatore dovrà essere a cono­ scenza del fatto che il suo interlocutore ha problemi con la portinaia, oppure i due interlocutori abitano nello stesso palazzo per cui il rife­ rimento è chiaramente interpretabile come quello alla comune porti­ naia). In (jo)b il riferimento di le è di tipo anaforico e per essere interpretato richiede da parte dell’interlocutore una condivisione del contesto discorsivo con il parlante, ovvero una conoscenza del discor­ so svoltosi fino a quel momento (il co-testo, che comprenderà, ad esempio, un enunciato come (70)a); un ascoltatore che intervenisse nella conversazione solo al momento in cui è proferito (70)^ non sa­ rebbe in grado di interpretare il riferimento di le. In (70)^, invece, l’interpretazione del riferimento di lei richiede una conoscenza del contesto situazionale in cui il discorso avviene, ovvero delle sue coor­ dinate spazio-temporali, poiché è possibile capire il riferimento di lei solo in presenza della scena in cui l’evento discorsivo si svolge. Ri­ chiedono tipicamente una conoscenza del contesto situazionale in cui si svolge il discorso diverse espressioni personali, temporali e spaziali, come gli esempi seguenti rispettivamente illustrano: (71)

a) b) c) (72) a) b) c)

Vieni anche tuì Ci vediamo domani, allora! Il posto che cercate è qui. Viene anche Carlo? Verrò sabato. Dopo la curva bisogna andare a destra.

Nel corso di questo capitolo abbiamo già visto che molte espressioni linguistiche, per poter essere correttamente interpretate, richiedono

E opportuno tuttavia distinguere gli esempi in (71) da quelli in (72). Sebbene tutte le espressioni evidenziate abbiano infatti bisogno di co­ noscenze contestuali per poter essere interpretate, solo per quelle contenute in (71) questa è una necessità intrinseca. Queste espressio-

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LINGUISTICA TESTUALE

ni sono dette deittiche: non è mai possibile infatti assegnare un riferi­ mento ad espressioni come tu, qui, domani in assenza di informazioni sul contesto situazionale, mentre è possibile farlo per espressioni come Carlo, sabato, destra, come mostrano gli esempi seguenti: (73)

a) Alessandro Manzoni ebbe una famiglia piuttosto numerosa ma con molti lutti. Il figlio Carlo morì giovanissimo. b) Nel 1999, la settimana di Pasqua piovve incessantemente. Solo il sabato il tempo iniziò a schiarire. c) Volgendosi verso la facciata, a destra di palazzo Ducale a Venezia si trova il Ponte dei Sospiri.

Oltre alle espressioni lessicali, anche la morfologia destinata ad espri­ mere relazioni spazio-temporali può avere funzione inerentemente deittica. Può essere il caso di tempi verbali, perciò detti deittici, quali sono in italiano l’imperfetto e il passato remòto da un lato e il futuro dall altro, che collocano gli eventi rispettivamente prima o dopo il momento in cui avviene l’enunciazione e, in particolare: (74)

(73)

Eppure sono ancora molti i libri che vorrei scrivere, e mi dispiace, perché so che ormai non ne avrò più il tempo (Maraini, Viaggiator curioso, p. 69) (non avrò il tempo', nel periodo collocato dopo il mo­ mento in cui avviene l’enunciazione) Quando nacqui io, il genitore, ormai saldamente laureato come voleva il nonno, si stava dedicando a tempo pieno alla professione d’artist-a (Maraini, Viaggiator curioso, p. 75) (nacqui: in un momento collocato prima del momento in cui avviene l’enunciazione)

Funzione deittica possono poi avere i dimostrativi. Negli esempi se­ guenti, in questo momento significa ‘nella stessa epoca in cui il testo è stato scritto ; 1 giorni scorsi sono i giorni precedenti il momento in cui il testo è stato scritto:

2.

R E F E R E N T I TESTU A LI

coordinate temporali e delle coordinate spaziali di svolgimento del di­ scorso considerato. Un campo indicale ha un’origine, detta “origo” , che è il parlante: le coordinate spaziali, temporali e personali deitti­ che sono orientate rispetto a questa origine. Quindi, tu si riferisce alla persona cui il parlante si rivolge; qui al luogo in cui il parlante si trova; domani al giorno successivo a quello in cui il parlante si trova; questo a uno spazio o tempo che include lo spazio-tempo del parlan­ te. Se l’origo cambia - come avviene nel discorso riportato, in cui un parlante riferisce le parole di un altro parlante - o non è individuabi­ le - come in un testo scritto di cui non si conoscano le circostanze in cui è stato scritto 28 - gli elementi deittici possono non essere più interpretabili. All’interno di un discorso vengono poi costruite linguisticamente nuove coordinate spazio-temporali: l’evocazione nel discorso di eventi e referenti mette in scena altrettanti campi indicali secondari a partire dai quali altre espressioni possono essere orientate. Il ricorso, per l’interpretazione di espressioni del testo, a questi campi indicali se­ condari, costruiti nel testo, è un meccanismo di tipo anaforico, poi­ ché richiede appunto il rinvio ad elementi del testo per l’interpreta­ zione. E possibile allora allargare il concetto di rinvio anaforico, che abbiamo finora riservato esclusivamente alle espressioni referenziali, fino a comprendere qualunque atto di interpretazione che richieda il ricorso a un elemento interno al testo. Come per i fenomeni di deissi, avremo allora anafore temporali e spaziali, e espressioni di spazio e tempo inerentemente anaforiche, come accade rispettivamente nei casi seguenti per gli aggettivi precedente e contigue·. (78)

Secondo i dati forniti dal responsabile ufficio consultori della Regione Lazio, Ugo Brasiello, a Roma nel '92 l’utenza è aumentata del 22 per cento rispetto all’anno preced en te (“Corriere della Sera” , 1 3 giugno

(79)

L ’ep icen tro è stato localizzato [...] nel b asso T irren o . A le ssan d ro A m a ­ to, dirigente di ricerca d ell’Istitu to di G e o fisic a e V u lcan o lo gia, spiega: “ Siam o in un a fase di costante osservazione e di attesa, stiam o m onitoran do tutti i p o ssib ili cam pan elli d ’allarm e in quanto n on possiam o

19 9 4).

(76)

In Giappone in questo momento ci sono molte nuove religioni e i giappo­ nesi in genere non fanno pesare le loro convinzioni (Maraini, Viaggiator curioso, p. 26). (77) Sono stata a San Miniato a riascoltare in cuffia le conversazioni dei giorni scorsi (Maraini, Viaggiator curioso, p. 41). 2 .3 .2 .

escludere ch e il terrem oto di questa notte possa scatenarne altri in aree con tigu e” (“ la R e p u b b lic a ” , 6 settem bre 2002).

Campi indicali e riferimento deittico e anaforico

L insieme delle conoscenze contestuali necessarie per l’interpretazione dei riferimenti deittici è detto ‘campo indicale’ di un determinato di­ scorso: esso comprende la conoscenza dell’identità dei parlanti, delle 60

28. Pensiamo qui a testi “ di servizio” , non a costruzioni letterarie in cui una nar­ razione in prima persona può essere fittizia (cioè il narratore non coincidere' con l’au­ tore), per cui l’origo centrata sul narratore è una deissi fittizia, che non corrisponde aU’origo dell’autore.

61

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

2 . R EFER EN T I TESTU A LI

Si tratta, come avevamo già osservato per analoghe espressioni deitti­ che, di espressioni che richiedono inerentemente un riferimento ana­ forico per poter essere interpretate. Anche strutture grammaticali possono avere inerentemente riferi­ mento deittico. Accanto ai tempi inerentemente deittici, il sistema verbale dell’italiano prevede dei tempi inerentemente anaforici, come il trapassato remoto o il futuro anteriore, che collocano rispettiva­ mente gli eventi in un momento anteriore rispetto a un momento di riferimento dato nel discorso:

scorso riportato e il parlante primario che produce il discorso in cui viene riferito il discorso riportato. Diamo di seguito un esempio in cui il parlante primario è il narratore, che parla in terza persona, mentre il parlante secondario è Jeanne:

(80)

(81)

«Don Giuseppe» diss’egli quando il domestico lo ebbe avvertito che la carrozzella era pronta, «crede proprio che il Signore vorrà aiutarmi? (Fogazzaro, Piccolo mondo moderno, Rif. 2 ,1.115 29) 1ebbe avvertito'. 1 evento si colloca in un momento anteriore rispetto al momento del­ l’evento disse]. Lei mi deve dire cosa farà poi che avrà ceduto tutto il Suo (Fogazzaro, Piccolo mondo moderno, Rif. 6,4.27) [avrà ceduto·, l’evento si colloca in un momento anteriore rispetto al momento dell’evento farà],

L anaforicità intrinseca di questi tempi verbali è illustrata dalla loro impossibilità di ricorrere in contesti privi di momenti di riferimento ai quali ancorarsi: (82) (83)

*11 domestico lo ebbe avvertito *Avrà ceduto tutto il suo 30

(86) «Spero che non vengano» disse Jeanne (Fogazzaro, Piccolo mondo mo­ derno, Rif. 3,3.55). I campi indicali relativi alle due diverse origo (il narratore e Jeanne) restano indipendenti: il fatto è segnalato graficamente da una serie di espedienti, come il ricorso a specifici segni di interpunzione. In un testo orale il salto di campo indicale sarebbe segnalato da vari feno­ meni prosodici e da strategie paralinguistiche come il ricorso a una resa imitativa dell’intonazione del parlante secondario. Questo tipo di resa del discorso riportato è detto discorso diretto. Il campo indicale del discorso riportato (nel nostro caso, quello di Jeanne) può essere però “traslato” in quello del discorso primario (nel nostro caso, quello del narratore) secondo varie modalità. Posso­ no essere traslate tutte le componenti del campo indicale, ovvero quelle personali, spaziali e temporali: (87) Jeanne disse che sperava che non venissero.

29. Per i testi citati dalla liz (Letteratura Italiana Zanichelli, a cura di Stoppelli, Picchi) il riferimento al luogo del testo è dato con il numero di riferimento generato dal sistema di interrogazione stesso. 30. Escludiamo qui le letture di tipo epistemico del futuro, cioè quelle di valore suppositivo col valore “probabilmente ha ceduto tutto il suo” .

II campo indicale di Jeanne, traslato in quello del narratore, si colloca in un tempo anteriore rispetto ad esso (ovvero, le vicende di Jeanne si collocano nel passato rispetto al racconto del narratore). Questo secondo momento di riferimento, cioè il momento in cui Jeanne par­ la, collocato nel passato rispetto all’origo primaria (quella del narrato­ re), funge da momento di riferimento anaforico (e non più deittico) per collocare l’evento “ sperare” : l ’evento “sperare” , che era espresso, deitticamente, come presente rispetto all’origo secondaria, è collocato ora, anaforicamente, come successivo ad un momento di riferimento collocato nel passato rispetto all’origo primaria; l’uso dell’imperfetto ha proprio la funzione di collocare un evento come contemporaneo a un momento di riferimento a sua volta collocato nel passato rispetto all’origo primaria. Dal punto di vista del riferimento personale, Jeanne, che costitui­ va l’origo personale (espressa dalla flessione verbale di prima persona, come nel verbo spero) diviene, nel nuovo campo indicale con origo nel narratore, una persona non coincidente né con il parlante né con

62

63

così come sarebbe impossibile per aggettivi e avverbi intrinsecamente anaforici ricorrere in isolamento. I seguenti non sarebbero infatti buoni incipit di un discorso o di un testo: (84) (85)

*Secondo i dati della Regione Lazio, l’anno precedente l’utenza è au­ mentata del 22% *L’epicentro di un sisma è stato localizzato ieri in aree contigue

Casi particolarmente complessi di rinvio insieme deittico ed anaforico sono dati dal discorso riportato, in cui intervengono i campi indicali di due diversi parlanti: il parlante secondario che ha prodotto il di­

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

2 . REFEREN TI TESTU A LI

l’ascoltatore, e come tale identificata con la flessione verbale di terza persona, come nel verbo sperava. La completa traslazione del campo indicale illustrata dall’esempio (87) è detta discorso indiretto. Potremmo raffigurare le due rese collocando le origo su una linea del tempo:

nuovo campo indicale anaforico gli elementi lessicali deittici di tempo e spazio: adesso, di là *Il3I.

origo narratore (primaria)

origo Jean n e (secondaria)

2.3.3. Deissi e anafora Anafora e deissi sono state spesso accomunate nella descrizione lin­ guistica: Halliday e Hasan (1976) si riferiscono ad esempio a questi due fenomeni con le espressioni, rispettivamente, di endofora (ovvero di “rimando all’interno” ) ed esofora (ovvero di “rimando all’ester­ no” ), mettendo in evidenza l’aspetto comune di necessità di riferi­ mento a elementi esterni all’espressione linguistica per la sua inter­ pretazione. Il riferimento deittico, o esoforico, sarebbe l ’uso di un’e­ spressione linguistica come indice di un referente nella realtà:

M om ento d ell’evento sperare

REALTÀ

TESTO

referente reale origo narratore (primaria)

espressione deittica

atto di riferim ento

M om ento dell’evento dire

M om ento dell’evento sperare

In altri tipi di discorso riportato la traslazione dei campi indicali av­ viene solo parzialmente. Si osservino i seguenti esempi del cosiddetto stile indiretto libero (citati da Mortara Garavelli, 1995, pp. 463, 468): (88)

A d esso com in ciava a v e d e rci chiaro. [...] C o n ven iva dire al pro fessore

(89)

Im p rovvisam en te s’in terru p p e p e r ordinare che, p e rd io , quel figliuolo

di b ru c ia r tutto. (Fogazzaro, Piccolo m ondo antico)

Il riferimento anaforico, o endoforico, sarebbe invece l’uso di un’e­ spressione linguistica come indice di un’altra espressione linguistica presente nel testo, la quale, a sua volta, fa riferimento a un referente nella realtà:

REALTÀ

TESTO descrizione definita. antecedente

referente reale

atto di riferim ento

^

espressione anaforica

atto di rinvio

se ne p o te v a andare a p ian gere d i là (P iran d ello, S u perio r stabat lupus, in N o v e lle p e r un anno).

In questi casi, la traslazione dei campi indicali avviene per i tempi verbali: cominciava, conveniva, poteva-, e per il riferimento personale: il parlante è nominato alla terza persona. Non sono invece traslati nel 64

3 1. Si osservi inoltre che vengono conservati elementi propri del discorso diretto e normalmente non trasportabili in un discorso indiretto canonico, come le esclama­ zioni: perdio.

65

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

2 . R EFER EN T I TESTU A LI

Così descritti, i due fenomeni appaiono piuttosto diversi fra loro: il riferimento deittico costituisce un atto di riferimento vero e proprio, analogo a quello delle descrizioni definite, mentre l’anafora è un sem­ plice rinvio fra espressioni linguistiche. Tuttavia, il fatto che in molte lingue gli stessi elementi linguistici (ad esempio i pronomi personali o i dimostrativi) siano sfruttati tanto per il riferimento deittico quanto per quello anaforico, spinge a cerca­ re fra essi maggiori somiglianze. In realtà, anche nel caso del riferi­ mento deittico, il legame che si istituisce fra referente e espressione linguistica non è diretto, ma è mediato da una descrizione definita non espressa, cui l’elemento deittico fa riferimento. Questo sarebbe mo­ strato dal fatto che l’elemento deittico assume su di sé le marche mor­ fologiche dell’espressione usata per la designazione (cfr. Corblin, 1995). L ’espressione deittica seguente potrebbe ad esempio essere rife­ rita a una sedia (nome femminile), ma non a un tavolo (nome ma­ schile): (90) Toglila di mezzo! Questa restrizione sarebbe indizio del fatto che il clitico, anche in funzione deittica, non rimanda direttamente al referente sedia o tavo­ lo, ma all’espressione lessicale sedia o tavolo, rispetto alla quale assu­ me le marche morfologiche di genere e numero - in italiano obbliga­ torie. Il riferimento deittico conterrebbe allora anche un atto di rin­ vio a un’espressione lessicale non menzionata, il cui referente reale è presente nell’universo di discorso:

TESTO REALTÀ referente reale

4---------------------------

(descrizione definita, implicita) A

T

atto di riferimento

atto di rinvio

espressione deittica

Mentre il riferimento anaforico conterrebbe un atto di rinvio a un’e­ spressione lessicale menzionata il cui referente testuale è presente nel­ l’universo di discorso: 66

REALTÀ

TESTO descrizione definita, antecedente

referente reale

atto di riferimento

t

atto di rinvio

espressione anaforica

Questa descrizione renderebbe maggiormente conto, nella prospettiva di Corblin, delle affinità esistenti fra anafora e deissi, che sarebbero allora entrambe mezzi di riferimento a referenti testuali presenti nel­ l’universo di discorso e altamente accessibili, per immediata evidenza nel contesto linguistico o extralinguistico, ai quali, proprio per il loro alto grado di attivazione, il parlante può riferirsi con un semplice ri­ chiamo attraverso indici. 2.3.4.

Deissi testuale

Se osserviamo le frasi seguenti: (91)

Nel capitolo precedente abbiamo trattato il fenomeno del riferimento anaforico. Con questo capitolo iniziamo a discutere del riferimento deittico, argomento che sarà sviluppato nelle prossime pagine

notiamo che espressioni che abbiamo imparato a riconoscere come intrinsecamente deittiche, come alcuni tempi verbali (presente, passa­ to prossimo, futuro), i dimostrativi come questo o aggettivi come prossimo, precedente, vengono usate qui prendendo come punto di ri­ ferimento non elementi del contesto situazionale ma elementi del te­ sto: questo capitolo significa “il capitolo che state leggendo” ; sarà svi­ luppato fa riferimento a un tempo “ futuro” in cui il lettore leggerà le pagine prossime, ovvero successive a quelle che si stanno leggendo in quel momento. Ci troviamo insomma di fronte a un campo indicale particolare, che è costituito dal testo stesso e ha come origo il punto del testo in cui il lettore si trova. Questo tipo di riferimento è noto come deissi testuale o logodeissi (cfr. Conte, 1978): benché attraverso di esso si rimandi ad espres­ sioni del testo, non si tratta di un meccanismo di tipo anaforico, per­ ché nella deissi testuale il testo è preso come referente in sé, non per

67

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

3

i contenuti extratestuali cui esso rimanda; nel caso del rimando ana­ forico invece, come sappiamo, il rinvio è a un antecedente che fa rife­ rimento a un oggetto extratestuale. La logodeissi non può nemmeno essere accomunata all’anafora in suppositione materiali (cfr. 2.2.4), la quale pure rimanda ad elementi del testo in quanto referenti in sé, e non al loro riferimento extratestuale, ma si tratta in quel caso di un rimando a un elemento linguistico in quanto type, cioè come elemen­ to della langue, e non in quanto token, cioè come atto di parole. La richiesta di ripetere dell’esempio seguente si riferisce all’espressione scansafatiche in quanto elemento linguistico che fa parte del sistema lessicale della lingua italiana: (92)

Scansafatiche io ? R ipeti/o se hai coraggio

mentre con la logodeissi si fa riferimento a un testo in quanto occor­ renza individuale e specifica, ovvero in quanto parte di un atto lingui­ stico preciso: questo testo specifico, come oggetto concreto, viene preso a riferimento per costruire un campo indicale autonomo rispet­ to a quello extralinguistico, enunciativo.

La distribuzione delFinformazione nel testo

Nel c a p . 2, abbiamo visto opporsi concettualmente “la realtà” e “l’in­ formazione relativa alla realtà” , distinguendo referenti nella realtà e referenti testuali: in quel caso ci siamo occupati dello statuto informa­ tivo di un referente testuale all’interno del contesto discorsivo; in questo capitolo ci occupiamo invece del ruolo informativo che, all’in­ terno del contesto discorsivo, hanno gli enunciati e le frasi \ I concetti esposti in questo capitolo si fondano su una distinzione preliminare fra due livelli di significato di un enunciato: il livello del suo contenuto proposizionale e quello del suo valore informativo. Con contenuto proposizionale (state o f affair, Dik, 1989) di un enunciato si intende la rappresentazione concettuale del fatto a cui l’enunciato fa riferimento: tale rappresentazione è autonoma e indipendente dal contesto discorsivo in cui l’enunciato è inserito e dalle conoscenze relative ad esso che gli interlocutori possono avere. Il valore infor­ mativo di un enunciato è dato invece dal contributo che l’enunciato dà al discorso in cui è inserito e dipende quindi anche dallo stato di conoscenze degli interlocutori al momento in cui l’enunciato è proferito. II contenuto proposizionale di un enunciato è rappresentabile in diversi modi. Se consideriamo l’enunciato in corsivo nel testo se­ guente: (1)

Im p rovvisam en te, un con iglio b ian c o ap p arve fra l ’erb a: in p o ch i balzi raggiu nse u n a b u ca n el terreno e v i si infilò.

Alice lo seguì

possiamo rappresentarcene il contenuto proposizionale attraverso un’im­ magine, quella appunto di una ragazza che segue un coniglio bianco1

1. La distinzione tra frasi ed enunciati verrà esplicitata nel

68

69

cap .

4.

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

3 . L A D IS T R IB U Z IO N E D E L L ’ IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

in mezzo alla campagna. Oppure possiamo darne una rappresentazio­ ne di tipo formale attraverso un metalinguaggio logico, grossomodo così:

Per grado di dinamismo comunicativo intendo la misura relativa in cui un elemento contribuisce allo sviluppo ulteriore della comunicazione. La distri­ buzione dei gradi di dinamismo comunicativo tra gli elementi della frase de­ termina l’orientamento comunicativo di tali elementi e, in ultima analisi, l’o­ rientamento comunicativo della frase stessa. Essa fa sì che la frase funzioni in una prospettiva particolare: determina la sua prospettiva funzionale.

seguire (a, b) a = Alice, b € {coniglio bianco) t < tE ovvero: «fra un individuo a identificato come ‘Alice’ e un individuo b appartenente all’insieme degli individui del tipo ‘coniglio bianco’, in un tempo t precedente il momento dell’enunciazione, vale la relazio­ ne: seguire (a, b)». Questa descrizione del contenuto semantico dell’enunciato è, come si è detto, autonoma rispetto al valore informativo che l’enun­ ciato ha nel testo, ovvero non precisa quale sia il contributo che tale enunciato dà allo sviluppo dell’informazione nel testo di cui fa parte. Non dice, ad esempio, che nel contesto discorsivo specifico i due personaggi sono presentati come accessibili al lettore e, in particolare, che il coniglio bianco è stato appena introdotto nel testo da una men­ zione nell’enunciato precedente e che è invece nuova l’informazione relativa al fatto che fra a = Alice e b = coniglio bianco si istituisce una relazione del tipo: seguire (a, b). Per mettere in risalto, in modo an­ cora intuitivo, il valore informativo dell’enunciato considerato, possia­ mo parafrasarlo nel modo seguente:

L ’analisi della struttura informativa (Information strutture) degli enun­ ciati si occupa dunque: da un punto di vista concettuale, di descrive­ re lo statuto informativo che gli enunciati e le parti di enunciato assu­ mono o possono assumere nel discorso; dal punto di vista dell’espres­ sione linguistica, di descrivere le diverse opzioni di cui il parlante di una data lingua dispone per esprimere uno stesso contenuto proposi­ zionale — uno stesso stato di cose - in diversi contesti discorsivi. A questo ambito di ricerca fanno riferimento le denominazioni di Functional Sentence Perspettive, adottata dalla scuola praghese, di cui par­ leremo nel pa r . 3 .1.1, e di information packaging, adottata ad esempio da Chafe (1976) e da Foley e Van Valin (Foley, Van Valin, 1985), che si muovono in prospettiva tipologica e interlinguistica. Una descrizione adeguata degli enunciati dal punto di vista della struttura informativa si pone dunque l’obiettivo di rendere conto del­ l’esistenza e di descrivere il valore e l’uso testuale, anche in prospetti­ va interlinguistica, di varianti come le seguenti (ad esempio in inglese, italiano, francese, giapponese, da Lambrecht, 1994, p. 223) 2: (4)

(2)

Ciò che Alice fece fu seguirlo.

a) b) c)

L ’enunciato in corsivo in (1) è sostituibile, con diversa sfumatura, con l’enunciato in (2). Non potremmo invece parafrasarlo nel modo seguente: (3)

d)

(5)

a) b) c) d)

E fu proprio Alice a seguirlo.

(6 )

Ciò accade perché l’enunciato in (3) è semanticamente equivalente a quelli in (1) e (2), cioè ha lo stesso contenuto proposizionale, ma non è equivalente ad essi dal punto di vista informativo, cioè non con­ tribuisce allo stesso modo allo sviluppo comunicativo del testo: ha in­ somma una diversa struttura informativa. Secondo la distinzione pro­ posta da Halliday (1970), gli enunciati (1), (2) e (3) hanno la stessa funzione ideazionale ma diversa funzione testuale (cfr. c a p . i , p. 15). Firbas (1987) descrive l’andamento dell’informazione in un testo in termini di «dinamismo comunicativo» (ivi, p. 198):

70

a) b) c) d)

car broke down La mia macchina si è rotta M a volture est en panne Kuruma wa KOSHOO-shi-ta M y car broke down È la mia macchina che si è rotta C’est ma voiture qui est en panne kuruma ga koshoo-shi-ta M y car broke down Mi si è rotta la macchina J ’ai ma voiture qui est en panne kuruma wa KOSHOO-shi-ta My

Tutte le frasi proposte nelle tre triplette condividono lo stesso conte­ nuto proposizionale, ma ciascuna delle triplette proposte - ovvero il

2. L e parole in maiuscoletto indicano il luogo in cui cade, nell’oralità, un picco di intensità accentuale.

7i

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

3 . LA D IS T R IB U Z IO N E D E L L ’ IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

gruppo delle frasi in (4), il gruppo delle frasi in (5), il gruppo delle frasi in (6) —ha uno specifico valore informadvo. Sul modello di allo­ fono e allomorfo, è stato coniato per questi insiemi di frasi (le tre frasi a per l’inglese, le tre frasi b per l’italiano, le tre frasi c per il francese, le tre frasi d per il giapponese) il termine di allofrasi (allosentences, cfr. Danes, 1964), cogliendo così l’origine contestuale delle loro rego­ le di alternanza: come gli allofoni sono infatti varianti di uno stesso fonema selezionati in modo dipendente dal contesto fonico, così le allofrasi sono varianti della stessa frase (“ stessa” dal punto di vista semantico, cioè avente sempre identico contenuto proposizionale) ri­ chieste da diversi contesti discorsivi.

che concerne il tipo di relazioni semantiche intercorrenti fra i com­ ponenti semantici (oggetti, persone, proprietà, eventi ecc.); il livello dell’organizzazione dell’enunciato, che concerne la distribuzione del­ l’informazione. A ognuno di questi livelli si instaurano relazioni spe­ cifiche e valgono unità descrittive proprie. Ad esempio, la frase già citata:

3-t

Le unità minime di analisi della struttura informativa dell’enunciato

3 .1.1. I tre livelli di strutturazione dell’enunciato Come ambito di studi, l ’analisi della struttura informativa dell’enun­ ciato nasce all’interno della scuola funzionalista praghese con la de­ nominazione di Functional Sentence Perspective (cfr. Danes, 1974). L ’identificazione di un tale livello di analisi nasce dall’esigenza di su­ perare le difficoltà che incontra una descrizione della sintassi di una lingua su base puramente logico-grammaticale 3. Viene impostata allo­ ra (cfr. Danes, 1964) una prospettiva di analisi articolata in tre livelli: il livello della struttura grammaticale della frase, che concerne le rela­ zioni formali intercorrenti fra i costituenti grammaticali (parole, sin­ tagmi, morfemi ecc.); il livello della struttura semantica della frase,

3. Come osserva Somicola (1991) nel presentare le linee fondamentali della ri­ cerca praghese, il termine di sintassi continua spesso a conservare nell’uso un’ambi­ guità, essendo adoperato per indicare tanto le relazioni formali quanto le relazioni d’ordine sequenziale che intercorrono fra i costituenti di una frase. Si può infatti dire, ad esempio, che la “ sintassi” dell’italÌano (nel primo senso) prevede una marca di caso per i pronomi personali, e si può anche dire che la “ sintassi” dell’italiano (nel secondo senso) consente di spostare nella posizione iniziale dell’enunciato un elemen­ to topicale (cfr. 3.1.8 ). Questa ambiguità è dovuta al fatto che l’ordine delle parole è in molte lingue regolato dalle relazioni formali fra i costituenti, e viceversa le relazioni formali fra costituenti si manifestano in molte lingue come relazioni d ’ordine lineare. I due livelli vanno però tenuti distinti, dato che tutti e tre i livelli di organizzazione della frase (grammaticale, semantico, pragmatico), e non solo quello grammaticale-formale, concorrono alla disposizione lineare dei costituenti nella forma effettivamente realizzata.

72

(7) Alice lo seguì è composta, a livello sintattico, da un sintagma nominale in funzione di soggetto e da un sintagma verbale scomponibile a sua volta in un verbo e un elemento pronominale in funzione di oggetto. Dal punto di vista semantico, è strutturata in una relazione a due posti del tipo: (seguire (a, b)), che coinvolge i due individui ‘Alice’ e ‘coniglio bian­ co’ (cui il pronome lo rinvia), in funzione rispettivamente di agente e paziente. Per descrivere la frase dal punto di vista della struttura informati­ va occorrono altre unità descrittive: sono state individuate e proposte per questo livello di analisi le nozioni di topic e di focus. 3.1.2. Topic La nozione di topic è legata, come molti autori esplicitamente ricono­ scono, a quella aristotelica, ad un tempo logica e linguistica, di ‘sog­ getto’, in opposizione a quella di ‘predicato’. Soggetto è inteso in Ari­ stotele (cfr. Lambrecht, 1994) come “ciò di cui parla la frase” , ovvero ciò a cui la predicazione si riferisce. Nella frase: (8) La festa di Santa Rosalia durò cinque giorni (Sciascia, Il consiglio d’E ­ gitto, p. 42) possiamo individuare nel soggetto la festa di Santa Rosalia l’elemento al quale fa riferimento la predicazione durò cinque giorni. Ma sogget­ to è anche l’elemento che nella frase intrattiene col verbo particolari relazioni formali (ad esempio di accordo): il verbo durò è alla terza persona singolare perché si accorda con la festa, che è il soggetto della frase. In una lingua che possiede la flessione casuale, il sogget­ to ha un caso dedicato (ad esempio, in latino, greco e tedesco, il nominativo). Nella tradizione linguistica moderna, per evitare l’ambiguità insita in questo doppio valore del termine di ‘soggetto’, esso è stato dedica-

73

3.

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

to a designare il concetto sintattico, mentre per il valore di tipo emi­ nentemente pragmatico si usa il termine di topic45. La predicazione che al topic si riferisce è detta comment. Benché vi sia una tendenza del soggetto a costituirsi come topic dell’enunciato, questa correlazione non vale per ogni enunciato. Nel­ l’esempio seguente: (9) La luna, di giorno, nessuno la guarda (Calvino, Palomar, p. 35) il topic è la luna, mentre il soggetto è, ovviamente, nessuno 5 (cfr. il 3 .1.7 per questo tipo di costruzione in italiano). Con topic si designa dunque un tipo particolare di relazione che un referente testuale intrattiene con la proposizione in cui è inserito, più propriamente la relazione per cui la proposizione “riguarda” , “è a proposito” di quel referente, cioè è costruita in modo da esprimere informazioni riguardanti quel referente. Si tratta di una relazione di tipo pragmatico, poiché l’essere topic di una frase non è una pro­ prietà legata alle qualità intrinseche di un referente, ma dipende dal ruolo che, in quel particolare enunciato, il parlante attribuisce a quel referente in quanto elemento di informazione. La tendenza, che pare universale nelle lingue umane, a costruire gli enunciati secondo una relazione di tipo topic-comment può essere collegata al principio di rilevanza che, secondo Sperber e Wilson (1986), informa la comunicazione umana: la ricerca della rilevanza, della pertinenza dell’informazione che viene fornita per il discorso in atto, guida l’attenzione dell’ascoltatore nell’interpretazione, e la se­ gnalazione della rilevanza guida la costruzione del discorso da parte del parlante. La presentazione di un referente come topic è il primo segnale di orientamento offerto all’ascoltatore dal parlante: Levelt (1989) parla di “prospettiva” che il parlante attribuisce al proprio

LA D IS T R IB U Z IO N E D E L L ’ IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

enunciato, e definisce il topic come l’“indirizzo mentale” sotto il qua­ le il parlante invita l’ascoltatore a rubricare le informazioni che gli sta trasmettendo. Per rappresentare il valore topicale di un costituente sono stati proposti alcuni test utili ad isolarlo e individuarlo. Uno di essi preve­ de l’uso del costrutto quanto a x o per quanto riguarda x: l ’elemento dell’enunciato che è possibile inserire al posto della variabile in que­ sto costrutto costituisce il topic dell’enunciato stesso. Nell’esempio seguente, la possibilità del costituente le penne di essere inserito in tale costrutto ne evidenzia il ruolo topicale 6:

par .

4. Allo stesso concetto pragmatico fa riferimento l’etichetta di “ soggetto della predicazione” , che si trova ad esempio in Salvi (1988). L ’etichetta di “ soggetto logico” (cfr., ad esempio, Serianni, 1989) si riferisce invece al concetto semantico di agente. Questo proliferare di specificazioni della nozione di soggetto è un ulteriore riflesso dell’addensarsi, su tale termine, di più concetti, che si riferiscono, come si sarà notato, ai tre livelli di analisi dell’enunciato - sintattico, semantico, pragmatico - individuati dalla scuola di Praga. 5. Il topic non coincide nemmeno, nella nostra prospettiva, con il primo costi­ tuente della frase, benché anche fra topic e posizione iniziale vi sia una correlazione. Cfr. invece Halliday (1967).

74

(io)

«Noi dell’associazione insistiamo anche nel dire ai turisti di non dare le bic ai bambini e che non li prendano come guide - mi spiega Sekou con passione. - Le penne è meglio darle ai genitori, oppure ai maestri, che a fine trimestre le danno agli allievi migliori». (Aime, Diario dogon, p. 47). Cfr.: Quanto alle penne, è meglio darle ai genitori oppure ai maestri.

Ad una nozione equivalente a quella di topic rimanda il termine di ‘tema’ (theme), usato da alcuni degli studiosi di questo ambito (cfr. Halliday, 1967; Brown, Yule, 1983). Tuttavia altri (Dik et al., 1980) preferiscono distinguere topic e tema, indicando con il primo un co­ stituente topicale che ha un legame sintattico con la frase e con il secondo un costituente topicale che non è connesso sintatticamente alla frase di cui fa parte. Un esempio di questi due tipi di topic in italiano è fornito rispettivamente dal costituente iniziale dei due esempi seguenti: (11)

a) Le vacanze, non ci ho anco­ ra pensato b) Le vacanze, non ho ancora deciso niente

[il topic è un sintagma sintattica­ mente dipendente dal verbo] [il topic non è un sintagma sintatti camente dipendente dal verbo]

6. La, possibilità di essere inserito in tale costrutto non vale in realtà per tutti i tipi di topic. Non vale ad esempio per i topic mantenuti da frasi precedenti: ?Le penne è meglio darle ai genitori oppure ai maestri che, quanto alle penne, a fine trimestre le danno agli allievi migliori né per i referenti in topic del tutto inaccessibili: ?Le penne è meglio darle ai genitori oppure ai maestri. Quanto agli allievi mi­ gliori, riceveranno le penne a fine trimestre. Discuteremo nel par . 3.2 la distinzione fra questi tipi di topic.

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3 . L A D IS T R IB U Z IO N E D E L L ’ IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

Valore di tema viene poi attribuito da alcuni (cfr. Chafe, 1976) a co­ stituenti di tipo spaziale o temporale, che svolgono funzione di “sce­ ne setting” , cioè di delimitazione dell’ambito di riferimento entro il quale vale l’asserzione espressa dall’enunciato. In questo senso, tema si oppone nuovamente a topic inteso come costituente sintatticamente connesso alla frase, di solito nella funzione di soggetto 7. 3.1.3. Topic e status dei referenti Esiste una certa relazione fra la possibilità per un costituente di ri­ correre come topic di un enunciato e lo status di accessibilità (cfr. c a p . 2) del referente cui esso rimanda: secondo Lambrecht (1994), un costituente deve essere in qualche misura accessibile per poter costi­ tuire il topic di un enunciato 8. La relazione fra accessibilità di un referente e possibilità che questo venga a costituire il topic di un enunciato è motivata sulla base dello sforzo cognitivo che occorre per l’interpretazione dell’enunciato: quanto più un referente è accessibile, tanto meno sforzo cognitivo richiederà il fatto di costruire la nuova informazione a partire da esso (poiché, in questo caso, è richiesta un’operazione “ dal noto all’ignoto” ). Lambrecht (1994) individua una scala di accettabilità del topic nei termini indicati nella f i g . 3 .1, rite­ nendo che l’ultima posizione della scala costituisca un caso di inac­ cettabilità.

7. Enunciati del tipo di ( 12 )b sono molto frequenti in lingue come il cinese, nel quale è invece marginale nella strutturazione della frase il ruolo di relazioni sintattiche del tipo soggetto-predicato. Sulla base dell’opposizione fra “lingue a soggetto” , le cui frasi si articolano fondamentalmente sulla struttura soggetto-predicato, e “lingue a to­ pic” , le cui frasi si articolano fondamentalmente sulla struttura topic-comment, è stata tracciata una classificazione tipologica che pare indicare anche delle direzioni evoluti­ ve: la categoria di soggetto delle lingue a soggetto parrebbe essere in questa prospetti­ va il risultato della grammaticalizzazione della posizione di topic. Il costituente tipica­ mente topicale cioè (quindi, agentivo ecc., cfr. più avanti) verrebbe progressivamente cristallizzato in posizione iniziale assumendo proprietà morfosintattiche specifiche: da questa cristallizzazione nascerebbe la categoria di soggetto, che, una volta grammaticalizzata, varrebbe anche in caso il costituente interessato non sia effettivamente topicale. 8. Questo, come sappiamo, non significa che esso debba essere dato, oppure già menzionato nel discorso precedente, poiché anche referenti non menzionati possono risultare accessibili, per ragioni pragmatiche o semantiche. È il caso di: “ Devo portare la macchina dal meccanico. I fa r i antinebbia non funzionano.” in cui l ’accessibilità del referente ‘i fari antinebbia’ è assicurata dall’evocazione del frame “ autovettura” dell’e­ nunciato precedente.

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FIGURA 3 .1 Scala di accettabilità del topic secondo la sua accessibilità topic attivo > topic inattivo accessibile > topic inattivo identificabile > topic nuovo ancorato > topic nuovo non ancorato * * Con «ancoraggio» Lambrecht intende la possibilità di collegare pragmaticamente un referente all’uni­ verso di discorso.

Fonte·. Lambrecht (1994).

In verità, anche referenti del tutto nuovi e non ancorati al contesto possono essere sfruttati come topic; si tratta tuttavia di una strategia informativamente marcata, che, come lo stesso Lambrecht constata, costringe l’ascoltatore a “tenere sospeso” il topic fino a che questo non può essere identificato. Tale strategia può conferire vividezza ad una narrazione, come nel seguente inizio di romanzo, in cui il lettore, non potendo identificare il topic del primo enunciato, il benedettino, viene “proiettato in avanti” nella lettura alla ricerca di elementi per la sua identificazione (Sciascia, Il Consiglio d’Egitto, p. 15): (12)

Il benedettino passò un mazzetto di penne variopinte sul taglio del li­ bro, dal faccione tondo soffiò come il dio dei venti delle carte nauti­ che a disperdere la nera polvere, lo aprì con un ribrezzo che nella cir­ costanza apparve delicatezza, trepidazione.

Meno marcato, per introdurre topic nuovi, è lo sfruttamento di qual­ che strategia di “ presentazione” del referente, come quella di intro­ durlo come parte del comment in un primo enunciato e di metterlo a topic negli enunciati che seguono. Un dispositivo di questo genere è, in italiano, la frase presentativa (cfr. p a r . 3.1.8): (13)

In giugno c’è un’altra festa importante dell’orizzonte Shinto, quella del trapianto del riso, che avviene in una data diversa a seconda di quan­ do matura il cereale (Maraini, Viaggiator curioso, p. 32).

La stessa frase priva della struttura presentativa c’è ... che ... risulte­ rebbe informativamente molto più pesante, perché il topic nuovo «la festa del trapianto del riso» sarebbe introdotto in un unico blocco informativo con il comment: (14)

In giugno, un’altra festa importante dell’orizzonte Shinto, quella del trapianto del riso, avviene in una data diversa a seconda di quando matura il cereale.

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3 . L A D IS T R IB U Z IO N E D E L L ’ IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

Non possono invece costituire elemento topicale, secondo Lambrecht, i costituenti a referenza totalmente indeterminata. Questo spiegherebbe la diversa accettabilità di enunciati come i seguenti:

descritto da Aristotele, con il quale si predica o assegna una proprietà (predicazione) ad un’entità (soggetto), e il giudizio tetico, con il quale semplicemente si asserisce o si nega un fatto I2. Chiari esempi dell’uno e dell’altro tipo di asserzione sono rispettivamente i seguenti:

(15)

a) ?Un ragazzo è alto b) PQualche ragazzo è alto c) Un ragazzo della mia classe è alto

Nell’enunciato ( 1 5)0 il topic, benché non identificabile, non è del tut­ to indeterminato perché ha riferimento specifico e perciò denunciato risulta accettabile, a differenza degli enunciati in a e b. Effettivamen­ te, referenti del tutto indeterminati, cioè a riferimento generico e non specifico, non sembrano dei buoni candidati al ruolo di topic 9. Anche le caratteristiche semantiche intrinseche di un referente sono in certa misura correlate con la facilità della sua messa a topic, dato che certe qualità semantiche rendono “intrinsecamente” salien­ te IO1, in prospettiva antropocentrica, alcuni referenti rispetto ad altri: referenti più salienti, come referenti animati o umani, saranno più fa­ cilmente candidati al ruolo topicale in un enunciato. 3.1.4. Tipi di frase sulla base dell’articolazione topic-comment La linguistica ha tratto dalla logica proposizionale la distinzione fra alcuni tipi fondamentali di proposizione, distinti per la diversa orga­ nizzazione del topic e del comment ri. È quindi di taglio filosofico, ancor prima che linguistico, l’opposizione, risalente a Brentano, fra due tipi di ‘giudizio’, ovvero di asserzione: il giudizio categorico, già

(16)

(17)

a) Sul terrazzo, come tutte le estati, è tornato il geco (Calvino, Palomai·, p. 59). b) Intorno alla casa del signor Palomar c’è un prato (Calvino, Palomar, p. 30). a) Ogni sera, appena s’accende la luce, il geco si sposta sul vetro e resta immobile come lucertola al sole (Calvino, Palomar, p. 59). b) Il prato è costituito di dicondra, loglietto e trifoglio (Calvino, Palo­ mar, p. 30).

In ( 16)a si constata l’accadere di un evento, mentre in (1 γ)α si de­ scrivono una serie di attività relative ad un geco; in ( 1 6)b si afferma l ’esistenza di un prato, mentre in (1 y)b si dice, a proposito del prato, come esso è composto: come si può osservare dalle parafrasi che ab­ biamo dato usando il costrutto “ a proposito di x ” , per le frasi in (17) è possibile individuare un topic e un’articolazione topic-comment, mentre per le frasi in (16) questo non accade, ovvero le frasi sono costituite interamente da comment. Questa opposizione trova in alcu­ ne lingue naturali una rispondenza anche nella grammatica: esistono infatti lingue in cui tale opposizione è evidenziata da scelte linguisti­ che obbligatorie. In giapponese, ad esempio, l’opposizione fra i mor­ femi wa e ga, collocati dopo il soggetto, indica se questo rispettiva­ mente ha o no statuto topicale (Kuroda, 1972). La stessa frase può infatti avere Luna o l’altra marca, avendo così diverso valore informa­ tivo (esempi tratti da Sasse, 1987, p. 3 1 4 ) 13:

9. Enunciati che contengono questo tipo di referenti in posizione topicale tendo­ no ad avere piuttosto una lettura eventiva o tetica (cfr. par . 3.1.4 ), che non è possibile per predicati stativi del tipo delle frasi in a-c\ da questi due fattori congiunti - inde­ terminatezza del referente iniziale, impossibilità di lettura tetica - discende l’innaturalezza delle frasi a-b. 10. Levelt (1989) distingue la salienza, che è una proprietà semantica intrinseca ad un referente testuale, ed è relativa a parametri come l ’animatezza, l’appartenere alla classe degli esseri umani ecc., dalla prominenza, che è una proprietà pragmatica legata al costituire il centro di attenzione di un determinato momento del discorso. Salienza e prominenza sono però interrelate, nel senso che la prima facilita la seconda. 1 1 . Occorre preliminarmente precisare che le distinzioni proposte riguardano frasi indipendenti: le frasi subordinate, non avendo forza assertiva (cfr. c a p . 4) non hanno neanche struttura informativa definita: sono interamente topicali, nel senso che non sono oggetto di articolazione in porzioni presupposte e porzioni asserite, ma re­ stano interamente nella porzione in background dell’enunciato.

12. Il giudizio categorico è detto anche giudizio complesso, poiché sarebbe co­ stituito dalla composizione di due predicazioni, una di esistenza del soggetto o topic e la seconda costituita dalla predicazione vera e propria. Torneremo su questo discorso parlando di focus e presupposizione nel par . 3.1.5. 13. Altre lingue conoscono mezzi diversi, ad esempio perifrasi lessicali, per espri­ mere lo stesso tipo di opposizione. In italiano tale opposizione è facoltativa, ovvero non è marcata da regole obbligatorie, cfr. par . 3.1.8.

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(18)

a) Inu ga cane b) Inu wa cane

hasitte correre hasitte correre

iru (solo comment: “C’è un cane che corre”) è iru (topic-comment: “Il cane corre”) è

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3 . L A D IS T R IB U Z IO N E D E L L ’IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

Questi due tipi di frase sono detti rispettivamente categorica e tetica (cfr. Sasse, 1987 e Kuroda, 1972), predicativa e eventiva (cfr., fra gli altri, Lambrecht, 1994) o predicate-focus e sentence-focus (con riferi­ mento alla nozione di focus, per cui cfr. par . 3.1.5). Per le frasi even­ irne è anche usata l’etichetta di presentative, che Lambrecht (1994) preferisce adoperare per distinguere un particolare tipo di frase teti­ ca, in cui non è introdotto un evento quanto piuttosto semplicemente l’esistenza di un referente. Seguendo questa precisazione, le frasi in (16), entrambe tetiche, sarebbero rispettivamente eventiva e presentativa. Un ulteriore tipo di frase è stato individuato dall’opposizione fra le seguenti:

portante dell’enunciato (cfr. Bolinger, 1954; Halliday, 1967). Ad esempio, nelle varianti seguenti, la diversa posizione dell’accento indi­ vidua enunciati con diverso valore informativo:

(19)

a) Quetzalcoatl fu un re che ebbe qui a Tuia la sua reggia (Calvino, Palomar, p. 97). b) Un re che ebbe qui a Tuia la sua reggia fu Quetzalcoad.

La diversa natura delle espressioni nominali (riferita a un referente specifico l’una - nel nostro caso Quetzalcoatl - riferita a una classe di individui l’altra - nel nostro caso un re che ebbe a Tuia la sua reggia) rende diverse le due frasi sul piano informativo: mentre in (19)^ si attribuisce al referente Quetzalcoatl la proprietà di aver avuto sede a Tuia, in (19)^ si individua uno dei re'di Tuia nel referente Quetzal­ coatl·. le due frasi sono dette, rispettivamente, di tipo predicativo e di tipo identificativo. La frase predicativa è del tipo topic-comment, mentre lo statuto della frase identificativa è più discusso: l’unico can­ didato al ruolo topicale è l’espressione aperta un re di Tuia, ma sulla possibilità di una simile espressione di ricorrere come topic non tutti gli autori concordano 14*. 3.1.5. Focus La seconda unità descrittiva fondamentale della struttura informativa dell’enunciato è quella di focus. Tale nozione nasce, all’interno di studi sulla prosodia dell’enunciato, dall’osservazione che il picco ac­ centuale degli enunciati (il focus, appunto) coincide spesso con un picco informativo, ovvero con la porzione informativamente più im­

(20)

a) Il tenore ha attaccato l’aria in ritardo b) il tenore ha attaccato l’aria in ritardo

Mentre in (20)0 l’informazione rilevante riguarda il fatto che il tenore ha commesso un errore nell’esecuzione del pezzo, in {2o)b l’informa­ zione rilevante riguarda il fatto che a commettere Terrore è stato il tenore (e non altri). Le due frasi sarebbero cioè rispettivamente ap­ propriate di fronte a interrogativi come i seguentiIJ: (21)

a) Che cosa è successo? / Che cosa ha fatto il tenore? / Come ha attaccato l’aria il tenore? b) Chi ha attaccato in ritardo? / È il soprano che ha attaccato in ri­ tardo?

Dall’iniziale uso per designare il costituente portatore di picco accen­ tuale, il termine di ‘focus’ è passato ad indicare l’unità informativa, solitamente marcata da un picco accentuale, che porta l’informazione più rilevante dell’enunciato. In questa accezione, il focus è cioè l’ele­ mento che realizza il massimo grado di “ dinamismo comunicativo” , secondo la terminologia citata nel par . 3 .1.1 l6. La porzione di enun­ ciato che non è in focus è detta background. Il focus informativo - d’ora in avanti semplicemente focus - è identificabile attraverso il test dell’interrogazione: costituisce il focus di un enunciato la porzione intorno a cui verte l’interrogativo imma­ ginario cui l’enunciato risponde. Benché vi sia una correlazione fra focus e picco accentuale, nel senso che il costituente accentato di un enunciato fa normalmente parte del focus, ovvero il focus comprende di solito il costituente accentato, queste due entità non sono coinci-

14. A d esempio Lambrecht (1994) per il quale possono essere considerate topic, cioè oggetto di predicazione, solo espressioni con referente identificabile e non propo­ sizioni aperte.

15. Parliamo di “interrogativi” mentali e non di domande effettivamente formu­ late perché, in uno scambio conversazionale effettivo, le risposte a domande come quelle di (21) non sarebbero del tipo di (20), ma conterrebbero qualche elemento ellittico in corrispondenza dei costituenti noti. 16. Un uso molto diverso del termine focus fa Levelt (1989), che indica con fo­ cus gli elementi nel centro di attenzione del discorso nel momento considerato. Que­ sto uso è quasi opposto in termini di dinamismo comunicativo a quello qui adottato, che è anche l’uso corrente, poiché i costituenti maggiormente focali per Levelt sono quelli dati, topicali, attivi, quindi quelli che meno contribuiscono all’incremento della quantità di informazione nel discorso.

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denti. Nell’esempio (20)a infatti il focus informativo potrebbe esten­ dersi dal costituente accentato in ritardo fino a comprendere l’intera predicazione. Si osservi:

(24)

(22) a) (Come ha attaccato l’aria il tenore?) Il tenore ha attaccato l’aria in r i t a r d o

e diversi tipi di focus di tipo contropresupposizionale, in cui l’infor­ mazione fornita smentisce o corregge informazioni precedenti:

FOCUS

b) (Che cosa ha fatto il tenore?) Il tenore h a a tta c c a to l ’a r ia i n

(23)

r it a r d o

focus

c) (Che cosa è successo?) Il tenore ha attaccato l’aria

in r it a r d o

focus

Sono stati individuati tipi diversi di focus, corrispondenti a diverse tipologie di frase e, spesso, a diverse realizzazioni espressive. Dik (1989) distingue i tipi indicati nella f ig . 3.2. FIGURA 3.2

Il corteggiamento consiste nel fare tante volte il giro del praticello, con inseguimenti e fughe e schermaglie non delle zampe ma dei gusci (Cal­ vino, Palomar, p. 22)

Ora gli sembra che l’anello oscilli leggermente, o il pianeta dentro l’a­ nello, e l’uno e l’altro ruotino su se stessi; in realtà è la testa del signor Palomar che oscilla (Calvino, Palomar, p. 41).

La scala proposta da Dik individua dunque elementi focali sempre più rilevati e contrastanti. In termini di dinamismo comunicativo, possiamo dire che in un enunciato a focus completivo la rilevanza in­ formativa si distribuisce gradatamente con un aumento progressivo verso la parte finale; per questo motivo, il focus di tipo completivo è detto anche focus ampio. In un focus di tipo contropresupposiziona­ le, detto anche focus ristretto, la porzione in focus si staglia netta­ mente rispetto a quella in background.

Tipi di focus

3.1.6. Focus e nuovo focus

nuovo o completivo contrastivo

alternativo contropresupposizionale

Fonte: Dik (1989).*Il

Il focus completivo svolge discorsivamente la funzione di accrescere l’informazione, apportando elementi nuovi, non posseduti dall’ascol­ tatore. L ’incipit di questo racconto di Calvino presenta una progres­ sione di accrescimento delle informazioni attraverso frasi interamente nuove a focus completivo:

La nozione di focus è evidentemente connessa con quella di informa­ zione nuova: non possiamo però identificare il focus con un elemento nuovo dell’enunciato, poiché in diversi casi l’elemento focale non è di per sé nuovo, come mostra ad esempio l’enunciato in (25). Nuovo è dunque non necessariamente il referente in focus, ma la relazione che esso intrattiene con la predicazione della frase in cui è inserito. Per rendere questo concetto, un enunciato può essere immaginato come una proposizione aperta P(x), in cui il focus è l’elemento che colma la variabile (cfr., ad esempio, Berretta, 1995): (26)

(23)

Ci sono due tartarughe nel patio: maschio e femmina. Slack! Slack! I gusci sbattono l’uno contro l’altro. E la stagione degli amori. Il signor Palomar, non visto, spia (Calvino, Palomar, p. 21).

(Chi ha ammonito l’arbitro?) L ’arbitro ha ammonito il centravanti [P(x): “L ’arbitro ha ammonito x”, x = il centravanti]

Il focus di tipo contrastivo invece non introduce semplicemente in­ formazione nuova, ma modifica o precisa un’informazione parzial­ mente già data. Dik propone una scala di contrastività del focus che va dal focus contrastivo di tipo alternativo, in cui è precisato quale alternativa completi effettivamente l’informazione fra alcune in di­ scussione:

Ciò che è nuovo in questo enunciato non è l’espressione il centra­ vanti, né il referente cui esso rimanda, ma piuttosto l’informazione per cui è questo referente e non altri ad occupare il ruolo indicato dalla proposizione L ’arbitro ha ammonito x. Analogamente, ciò che è “ dato” in questa frase, ovvero non controverso e non oggetto di di­ scussione, non è il referente l’arbitro o l’azione ammonire, quanto l’informazione per cui l’arbitro ha ammonito qualcuno.

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Possiamo rendere l’articolazione dell’informazione tra “ data” e “nuova” in questo modo: L ’arbitro ha ammonito qualcuno (informazione data: l’arbitro ha am­ monito x) e questo qualcuno è il centravanti (informazione nuova: x = il centravanti). Nella prospettiva semantica proposta da Rooth (1992), il focus di un enunciato è la parte di enunciato che, oltre ad essere dotata del pro­ prio valore semantico - dipendente da tratti semantici intrinseci asso­ ciati al suo significato - , è dotata di un valore informativo che è fun­ zione dell’insieme dei possibili elementi alternativi ad esso. Così, nel nostro esempio, il focus il centravanti è dotato di un valore informati­ vo focale in quanto rimanda all’insieme delle possibili alternative ad esso: {il portiere, il trequartista, l’ala sinistra...} Attraverso questo insieme di alternative, la frase è associata a un fa­ scio di proposizioni alternative, aventi ciascuna come focus uno dei focus alternativi:

P(x), x = f L ’arbitro ha ammonito x (proposizione di background) x = il centravanti (proposizione focale) Ciò che distinguerà due frasi di identico contenuto semantico ma di­ verso focus sarà allora la proposizione di background e la proposizio­ ne focale cui ciascuna rimanda: (27)

(28)

Il fatto che il focus faccia parte della proposizione focale, mentre il background è una proposizione presupposta (cfr. par . 4.2.3), spiega anche il comportamento del focus di fronte alla negazione. La nega­ zione intacca infatti la validità della proposizione focale, negando l’as­ sociazione del focus alla frase: (29)

L ’arbitro L ’arbitro L ’arbitro L ’arbitro

ha ha ha ha

ammonito ammonito ammonito ammonito

il centravanti il portiere il trequartista l’ala sinistra ecc.

E questo fascio di proposizioni che può essere descritto come una proposizione aperta P(x) che costituisce il background informativo: L ’arbitro ha ammonito x Rispetto a questo fascio di proposizioni, l’informazione nuova che l ’e­ nunciato produce è che l’elemento effettivamente valido è quello in focus: x = il centravanti Il valore informativo della proposizione è dunque descrivibile come la composizione di una proposizione aperta di background e di una proposizione focale che associa alla variabile il valore focale / effettivo:

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(Chi ha ammonito l’arbitro? il centravanti, il portiere...) L ’arbitro ha ammonito il centravanti [L’arbitro ha ammonito x, x = il centravanti] (Che cosa ha deciso l’arbitro per il centravanti? lo ha ammonito, espulso...) L ’arbitro ha ammonito il centravanti [L’arbitro ha x-to il centravanti, x = ammonire]

(30)

L ’arbitro non ha ammonito il centravanti [L’arbitro ha ammonito x, x Φ il centravanti] L’arbitro non ha ammonito il centravanti [L’arbitro ha x-to il centravanti, x Φ ammonire]

( = ma il portiere) (= lo ha espulso)

e non intacca, invece, la validità della proposizione di background: nei nostri esempi, rispettivamente, “ L ’arbitro ha ammonito qualcuno” e “ L ’arbitro ha fatto qualcosa al centravanti” . Torneremo sull’intreccio fra negazione e struttura informativa nel PAR. 4.2.4. 3.T.7. Topic e focus Abbiamo finora individuato i caratteri fondamentali che definiscono il topic da un lato e il focus dall’altro. Fra i caratteri costitutivi del to­ pic abbiamo individuato i seguenti: - il topic non è individuabile, in ultima analisi, se non su base con­ testuale, ovvero non è possibile individuare con certezza il topic di un enunciato senza una conoscenza del contesto discorsivo; - il topic tende a correlare con proprietà pragmatiche e semantiche dei referenti, per cui assurge più facilmente al ruolo di topic un ele­

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mento saliente, accessibile e dato, anche se non esiste una coinciden­ za fra queste proprietà; - il topic non può essere un referente del tutto indeterminato; - il topic è esterno alla portata della negazione; - il topic tende a correlare con proprietà formali specifiche, come la prima posizione di frase o il costituirsi come soggetto sintattico, an­ che se non esiste una coincidenza fra queste proprietà; esistono inol­ tre strutture frasali tipiche per segnalare il topic e lingue che hanno grammaticalizzato marcatori di topic. Fra i caratteri costitutivi del focus abbiamo invece individuato i seguenti: - il focus non è individuabile, in ultima analisi, se non su base con­ testuale, ovvero non è possibile individuare con certezza il focus di un enunciato senza una conoscenza del contesto; - il focus tende a correlare con alcune proprietà pragmatiche, come l ’essere un elemento nuovo e non inferibile, anche se non esiste una coincidenza fra queste proprietà; - il focus è interno alla portata della negazione; - il focus tende a correlare con proprietà formali specifiche, come la posizione finale di frase o il possedere accento prosodico, anche se non esiste una coincidenza fra queste proprietà.

si può rintracciare una coincidenza fra topic e focus, coincidenza che si caratterizza comunque come fatto marcato. Il primo caso è costitui­ to dagli enunciati in cui il topic è di nuova introduzione nella frase, come nelle frasi presentative I7:

Sulla base delle proprietà descritte, possiamo individuare tipi diversi di topic e focus, che sono più o meno prototipici della propria cate­ goria. Il topic è, prototipicamente, un elemento dato, saliente, acces­ sibile; viene collocato in prima posizione e, se possibile, marcato come soggetto sintattico. Il focus è prototipicamente, un elemento nuovo, non inferibile; viene collocato in posizione finale, marcato da un accento e normalmente fa sintatticamente parte del predicato. Il tipo di frase in cui questi due elementi sono così caratterizzati è la frase predicativa, in cui il topic è il soggetto e il focus è parte del predicato, che costituisce il comment: (31)

(Quando ha applaudito il pubblico?) TOPIC

COMMENT_____________________ FOCUS__________

Il pubblico ha applaudito

al secondo goal

In questo tipo di frase le due entità informative sono complementari: il focus coincide con il comment o parte di esso. Tuttavia in altri tipi di frase la distribuzione di topic e focus segue un andamento diverso. Sostanzialmente si possono individuare due tipi di enunciato nei quali

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(32)

TOPIC_________________________ __________ FOCUS_________________________ __________

C’era una volta una bambina di nome Cappuccetto Rosso Il secondo caso è quello di enunciati in cui è in corso una “trattativa” riguardo all’elemento che costituisce il topic. E il caso degli enunciati seguenti, in cui l’elemento topicale presupposto da uno degli interlo­ cutori viene smentito e ridiscusso dall’altro l8: (33)

(Ti ha telefonato, il segretario?) topic________ focus________ presidente

a) Il b)

mi ha telefonato

È il presidente che mi ha telefonato

Non tutti concordano però con questa analisi. Un punto decisamente controverso è se il topic possa essere costituito da un’espressione non referenziale, ad esempio da una proposizione aperta o da un’espres­ sione a referenza indeterminata in frasi di tipo identificativo: (34)

(Chi ha vinto la gara?) topic?_________

A vincere la gara è stato Barrichello Il vincitore è stato Barrichello Decisamente in disaccordo con questa posizione è Lambrecht (1994) che, come abbiamo visto, assegna solo a elementi referenziali e non indeterminati la possibilità di avere statuto topicale: non possono quindi essere topic le proposizioni aperte, né i pronomi interrogativi. Dal punto di vista di Lambrecht, dunque, né per gli enunciati identi-

17 . Questo tipo di analisi è proposta ad esempio da D ik (1989). 18. Questo tipo di analisi è proposto da Halliday (1967), Somicola (1994), B er­ retta (1995). Halliday (1967) ritiene topicale anche il pronome interrogativo dell’e ­ nunciato seguente: TOPIC FOCUS Chi

ti ha telefonato?

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ficativi né per gli enunciati presentativi si può parlare di elemento topicale: in questi enunciati esiste una partizione in background e fo­ cus, ma non è possibile individuare un elemento topicale.

è l’organizzazione pragmatica, basata su categorie pragmatiche come quella di topic, a dominare - è il caso del cinese e del giapponese. Il primo gruppo di lingue è detto delle “lingue a soggetto” : in queste lingue, i ruoli sintattici possiedono marche obbligatorie. In particola­ re il soggetto è obbligatoriamente marcato attraverso mezzi diversi: la posizione iniziale, il caso nominativo, l’accordo con il verbo; la se­ gnalazione delle categorie pragmatiche è invece facoltativa. Il secondo gruppo di lingue è detto delle “lingue a topic” . In queste lingue, è il topic ad essere obbligatoriamente marcato attraverso mezzi diversi: la posizione iniziale o morfemi specifici; la segnalazione del ruolo di soggetto è invece secondaria. Queste due tipologie potrebbero essere correlate fra loro: seguendo l’impostazione di Givón (1976), il ruolo sintattico di soggetto non sarebbe altro che il risultato di un processo di grammaticalizzazione della categoria pragmatica di topic. All’interno delle lingue a soggetto esistono comunque delle diffe­ renze nei modi e nelle possibilità di segnalare lo statuto informativo dei costituenti. Prendiamo a confronto le seguenti frasi (esempi in in­ glese e italiano, da Lambrecht, 1994, p. 136):

3.1.8. Mezzi per l’espressione della struttura informativa Abbiamo detto ad inizio capitolo che l’esigenza di individuare livelli descrittivi dell enunciato diversi da quello sintattico e semantico nasce dalla necessità di giustificare l’esistenza di allofrasi. I mezzi per diffe­ renziare varianti informativamente diverse di una stessa proposizione possono essere di tipo intonativo, sintattico, morfologico, lessicale. Abbiamo osservato, dal punto di vista intonativo, che esiste una corre­ lazione forte fra focus e accento di frase: l’accento di frase coincide normalmente con il focus della frase I9. Dal punto di vista morfosintattico, abbiamo osservato la tendenza del topic a costituirsi come sog­ getto, o la possibilità di essere marcato con morfemi specifici. Topic e focus possono poi essere segnalati dal punto di vista distribuzionale dalla collocazione, rispettivamente, in posizione iniziale e finale di enunciato. Esistono, infine, strutture sintattiche o espressioni lessicali specifiche che consentono di marcare il topic o il focus. Lingue diverse sfruttano risorse diverse e si comportano anche di­ versamente per quanto riguarda l ’obbligatorietà d’uso delle risorse adoperate. La segnalazione della struttura informativa deve “ convive­ re infatti con la segnalazione delle relazioni che intercorrono fra i costituenti a livello sintattico e semantico, relazioni che vengono esplicitate attraverso gli stessi mezzi espressivi della struttura informa­ tiva. Ogni lingua adotta quindi delle configurazioni specifiche per i diversi tipi di enunciato finora illustrati. Una macrodistinzione a livello tipologico distingue le lingue del mondo proprio in relazione alla dominanza della strutturazione su base pragmatica o su base sintattica: esistono lingue in cui l’organiz­ zazione sintattica, basata su categorie formali come quella di soggetto, è dominante —fra queste annoveriamo, fra le lingue che abbiamo ci­ tato finora, 1 italiano, l’inglese, il francese, il tedesco - ed altre in cui

19. L individuazione delle regole di corrispondenza fra focus e accento di frase è noto come problema di focus projection, ovvero delle regole secondo cui l’unità prag­ matica di focus si proietta sul livello fonologico determinandone la struttura accen­ tuale. Soprattutto la linguistica generativa si è occupata, a partire da Jackendoff (1972), di questo problema.

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(35)

(36)

a) (What’s thè matter?) My neck hurts b) (How’s your neck?) My neck hurts a) (Che succede?) Mi f a male il c o l l o b) (Come va il collo?) Il collo mi fa male

Le frasi in cr sono di tipo eventivo, prive di topic e con il comment interamente focale, mentre le frasi in b sono di tipo predicativo, con un costituente topicale il collo o thè neck e il resto dell’enunciato in comment e focale. Per segnalare questa differenza le due lingue si servono di strategie diverse: benché entrambe le lingue abbiamo come ordine sintattico di base quello soggetto-verbo-oggetto, l’italia­ no consente, almeno in certe circostanze, come in (36)a, un’inversio­ ne di tale ordine, che in inglese non è consentita (cfr. (35)zz). La po­ sposizione del soggetto in italiano consente di segnalarne la natura non topicale ed è quindi usata per la frase eventiva, mentre nella fra­ se predicativa (cfr. (36)b) il soggetto è in prima posizione; l’accento è, in entrambi i casi, in posizione finale, a marcare la parte finale del focus. L ’inglese segnala invece la struttura informativa esclusivamente

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3 . LA D IS T R IB U Z IO N E D E L L 'IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

attraverso l’intonazione: con un accento in posizione finale nella frase predicativa, e in posizione iniziale nella frase eventiva 2°. Nella parte restante di questo paragrafo descriveremo in modo più dettagliato i mezzi di cui si serve l’italiano per esprimere diverse strutture informative. L ’italiano dispone normalmente i costituenti secondo un ordine sintattico basico di tipo: Soggetto-Verbo-Oggetto. Si osservi che questa disposizione è necessaria per segnalare il ruolo sintattico e semantico rispettivo del soggetto e dell’oggetto:

propria in un nucleo intonativo autonomo, del costituente posto come topicale. Tale costituente è poi ripreso sul verbo da un clitico 22:

(37)

a) Un taxi sta seguendo una motocicletta b) Una motocicletta sta seguendo un taxi

Data la tendenza del topic alla posizione iniziale e del focus, marcato da un accento, alla posizione finale, l’ordine sintattico dell’italiano è adatto alla tipologia di frase predicativa, in cui topic è il soggetto e il focus è la parte finale del predicato. Altri tipi di frase richiedono una diversa disposizione dei costi­ tuenti o dell’accento: si parla allora di ordini marcati o di strutture sintattiche marcate, riferendosi con questo sia alla marcatezza sul pia­ no funzionale, dato che la frase presentativa può essere considerata quella funzionalmente meno marcata, cioè più neutra dal punto di vista informativo, sia alla marcatezza sul piano formale, dato che la segnalazione di un diverso valore funzionale passa attraverso una se­ rie di "marche” sintattiche e prosodiche 20 2I. Distinguiamo strategie topicalizzanti, ovvero strategie di messa a topic di elementi diversi dal soggetto, e strategie rematizzanti, ovvero strategie di messa a focus di elementi diversi da quello finale. La dislocazione a sinistra è un tipo diffuso di topicalizzazione. Consiste nell’estrazione in posizione iniziale, esterna alla frase vera e 20. È questo uno dei problemi di focus projection offerti dall’inglese: nella frase eventiva, l’accento di frase non marca interamente il focus, che sarebbe Finterò enun­ ciato, ma solo la sua parte iniziale. Lambrecht (1994) preferisce interpretare questa struttura intonativa come una segnalazione della non-topicalità del soggetto, attraverso la sua accentazione (dato che il soggetto, in quanto topicale, non è solitamente marca­ to da accento). Questa descrizione sarebbe appropriata anche per la frase eventiva italiana, in cui la posposizione del soggetto sarebbe una segnalazione del suo ruolo non topicale (dato che il soggetto si colloca normalmente in prima posizione, che è la posizione topicale). 2 1. Marcatezza è un concetto relativo fra due strutture, di cui la più marcata è, a livello funzionale, più specializzata, quindi appropriata in un minor numero di conte­ sti; a livello formale, è segnalata da un numero maggiore di tratti morfosintattici, lessi­ cali o prosodici; a livello distribuzionale, meno frequente.

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(38)

Si vede fin dal primo momento che lo status di guida è ambito, in quanto dà accesso a un contatto privilegiato con gli stranieri. [...] In realtà, anche nei giorni in cui non ci sono visitatori, le guide le vedi ciondolare davanti al campement, sfoggiando scarponi nuovi e abiti alla moda regalati loro dai turisti (Aime, Diario dogon, p. 46).

Analoga funzione ha anche la struttura del tema libero, o yiddish-movement, in cui il costituente topicale è collocato ad inizio frase, in un nucleo intonativo autonomo, privo di preposizione reggente o di altre marche che ne segnalino il ruolo sintattico. Il costituente posto come tema libero può anche non avere un ruolo sintattico nella frase: (39)

Le vacanze, bisogna cominciare ad organizzarsi (messaggio e-mail).

Anche la forma passiva, che assegna al costituente col ruolo semanti­ co di paziente il ruolo sintattico di soggetto è un mezzo di topica­ lizzazione, in un contesto in cui non sia l’agente ma il paziente a svol­ gere questo ruolo. Immaginiamo la descrizione della scena di un de­ litto, in cui sono i vari elementi costitutivi della scena ad occupare un ruolo topicale: in questo contesto, la frase predicativa passiva in (40)12 sarà più appropriata della frase in (40)^, che ha piuttosto lettura eventiva: (40)

a) La porta d’ingresso è stata chiusa a chiave b) Qualcuno ha chiuso a chiave la porta d’ingresso

Nel caso seguente, l’agente dell’azione far sedere, poco rilevante ai fini della narrazione, viene “nascosto” grazie all’uso di una forma passiva: (41)

I turisti vengono fatti sedere su due panche in mezzo al piazzale (Ai­ me, Diario dogon, p. 50).

Funzione di topicalizzazione ha anche la dislocazione a destra: (42)

E le tartarughe, chiuse nel loro astuccio insensibile? La penuria di sti­ moli sensoriali forse le obbliga a una vita mentale concentrata, intensa,

22. La ripresa clitica è necessaria solo per l ’oggetto, mentre per gli altri costi tuenti può essere sentita come ridondante.

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le porta a una conoscenza interiore cristallina... [...] Capiranno meglio se stesse, le tartarughe? (Calvino, Palomar, p. 23). La struttura è formalmente simmetrica alla dislocazione a sinistra, ma il topic inserito in una dislocazione a destra ha alcune peculiarità: Berretta (1995) lo vede come un “topic di ripensamento” , ovvero un topic già introdotto nel discorso e che viene ribadito in coda all’e­ nunciato; analogamente, Lambrecht (1994) osserva come la disloca­ zione a destra non consenta l’introduzione di un nuovo topic o un mutamento di topic, ma piuttosto la riattivazione di un topic dato. L ’esempio seguente illustra come non si possano opporre due topic diversi attraverso una dislocazione a destra, mentre è possibile farlo con una dislocazione a sinistra: (43) a) ??Le ha prese lui, le sigarette, e li ho comprati io, i francobolli h) Le sigarette le ha prese lui e i francobolli li ho comprati io

3 . LA D IS T R IB U Z IO N E D E L L 'IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

Solo alcuni verbi italiani consentono tale inversione senza ulteriori ag­ giustamenti e modifiche del profilo intonativo dell’enunciato. Non è possibile ad esempio con i verbi transitivi e, in generale, i verbi con più di un argomento espresso: (47) (48)

a) b) c) a) b) c)

Mia moglie ha seguito una dieta ferrea ??Ha seguito una dieta ferrea mia moglie ??Ha seguito mia moglie una dieta ferrea Il direttore si è scusato dell’accaduto ??Si è scusato dell’accaduto il direttore ??Si è scusato il direttore dell’accaduto

In questi casi l’inversione è più accettabile se il soggetto finale è for­ temente marcato come focale, ad esempio con un avverbio o un co­ strutto focalizzante o, nell’oralità, con un accento contrastivo for­ te *4; (49) Si è scusato dell’accaduto il direttore in persona (50) Ha seguito una dieta ferrea persino mia moglie

Possiamo infine includere fra le strategie topicalizzanti la frase presentativa, di struttura “Esserci x che...” , che ha la funzione di intro­ durre nel discorso un referente testuale e di porlo immediatamente a topic di una predicazione:

Altri elementi della frase sono più liberi di occorrere in posizione fi­ nale per segnalare il proprio statuto focale:

(44)

(51)

C'è un giovane scrittore inglese, Ian Rider, che si sta occupando di questo fenomeno (Maraini, Viaggiator curioso, p. 27).

La frase presentativa cioè segmenta l’informazione contenuta in una frase eventiva in due blocchi, uno di semplice introduzione di topic e l’altro di tipo predicativo. L ’italiano consente, per alcuni verbi, l’inversione fra soggetto e verbo, che può essere considerata una strategia rematizzante del sog­ getto, altrimenti normalmente considerato topicale. Le due frasi se­ guenti hanno, per la diversa natura del soggetto - topicale il primo, Tematico il secondo - rispettivamente, un valore predicativo e un va­ lore eventivo 23*: (45)

La globalizzazione si legge anche sulle insegne dei negozi sgangherati che costeggiano le strade (Aime, Diario dogon, p. 30). Attraversata Bandiagara, si vede sulla sinistra una costruzione anomala, dai profili tondeggianti (Aime, Diario dogon, p. 31).

a) Ieri mio fratello ha invitato me e mio marito a cena b) Ieri mio fratello ha invitato a cena me e mio marito c) Mio fratello ha invitato a cena me e mio marito ieri

Nell’oralità, un focus ristretto può essere segnalato anche attraverso la sola intonazione, ricorrendo a un accento contrastivo: (32)

a) Mio fratello ha invitato me e mio marito a cena b) Mio fratello ha invitato me e mio marito a cena c)

ieri

mio fratello ha invitato me e mio marito a cena

Una funzione informativa particolare è propria della fecalizzazione contrastiva 25, ovvero la collocazione del focus in posizione iniziale e

23. Per lo statuto sintattico ambiguo dei soggetti dei costrutti impersonali, come negli esempi (45) e (46), cfr. Salvi (1988).

24. Sugli avverbi focalizzanti cfr. Andorno (19998, 2000). 25. Questo costrutto è chiamato anche (cfr. Salvi, 1988) di topicalizzazione con­ trastiva, cioè gli viene attribuito valore topicale: questa denominazione riflette un’im­ postazione che attribuisce sempre valore topicale al primo costituente di ogni enun­ ciato. Ci sembra tuttavia che, al di là della discussione se questo possa o meno essere considerato un costituente topicale (per questo cfr. par . 3.1.7 ), la funzione fondamen­ tale di questa struttura sia la messa in rilievo di un focus contropresupposizionale, per cui la denominazione di focalizzazione contrastiva pare più congruente.

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(46)

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

fortemente marcata da accento. Questo tipo di struttura segue un fo­ cus di tipo contropresupposizionale o una frase identificativa: (53)

Proprio

questo

(34)

È stato Frantisele Danes il primo ad indagare metodicamente il rappor­ to tra tema e rema nell’organizzazione testuale (Conte, 1986, p. 51). (55) «Ma perché ne parli? Ce n’è bisogno? Mi fai rabbia». «Sei tu che ne parli, cara Ghìsola!» (Tozzi, Con gli occhi chiusi, Rif. 3 1.no). In tutti i contesti finora esaminati, la messa in rilievo del focus è lega­ ta ad un intero costituente. E possibile però mettere in rilievo contra­ stivo anche singoli valori semantici del costituente stesso. Questo è particolarmente evidente nel caso dei costituenti verbali: a proposito del verbo, è possibile mettere in rilievo focale il valore lessicale, il valore temporale, il valore di polarità. La stessa frase con accento contrastivo sul verbo può quindi essere interpretata nei modi se­ guenti: a) Spesso ne compravo, dischi di musica classica (più che ascoltarne: focus sul valore lessicale) b) Spesso ne compravo, dischi di musica classica (un tempo, ora ho smesso: focus sul valore temporale) c) Spesso ne compravo, dischi di musica classica (non è vero che non lo facevo: focus sulla polarità positiva)

In presenza di una forma verbale composta l’accento focale permette di disambiguare un focus sulla polarità dell’asserzione, che ha accento sull’ausiliare, da un focus sul valore lessicale, che ha accento sul par­ ticipio 26: (57)

b) Spesso ne ho comprati, dischi di musica classica (più che ascoltar­ li: focus sul valore lessicale) Il focus sul valore temporale sembra consentire entrambe le realizza­ zioni, o anche un’accentazione di entrambe le parti del costrutto.

vorrei sapere

Analoghe funzioni hanno la struttura scissa “Essere x che...” o “Essere x a...” e la frase pseudoscissa “ Ciò che... è x ” :

(56)

3 . LA D IS T R IB U Z IO N E D E L L ’ IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

a) Spesso ne ho comprati, dischi di musica classica (non è vero che non lo facevo: focus sulla polarità positiva)

26. Questo fenomeno confermerebbe l ’idea che, nelle forme composte, sia l’ausi­ liare a portare un valore, detto di finitezza, che comprende fra il resto la forza asserti­ va dell’enunciato, mentre la parte lessicale del verbo (nel nostro esempio, il participio) porta il solo valore lessicale (cfr. Klein, in stampa): è coerente con questa ipotesi il fatto che, quando è la polarità della forza assertiva ad essere focalizzata, sia l ’ausÌlÌare ad essere marcato da accento, mentre quando è in focus il valore lessicale del verbo venga marcato da accento la parte lessicale del composto. Sulla negazione con focus sulla selezione lessicale di un verbo cfr. par . 4.2.1, nota n .

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3 -2

Topic discorsivo

Nel p a r . 3.1 ci siamo occupati di definire le unità di analisi minime, le strutture ricorrenti e le regole di ricorrenza di tali strutture, in modo da costruire la grammatica della struttura informativa di una lingua - in particolare, la grammatica della struttura informativa del­ l’italiano. In questo paragrafo affronteremo, anche se in maniera ne­ cessariamente sommaria, la questione di come tale livello di analisi si possa applicare alla descrizione di un testo. Non è naturalmente un obiettivo prefissato dalla linguistica del testo di individuare regole ri­ gide di costruzione di un testo; è però possibile rintracciare dei prin­ cipi organizzativi che sfruttano le unità descrittive sopra individuate. 3.2.1. Background e foreground Il termine background, che abbiamo in precedenza usato per designa­ re il complemento del focus, ha anche una seconda accezione in op­ posizione a foreground. La coppia background/foreground non distin­ gue tra parti di una frase ma tra frasi in un testo; il caso studiato più approfonditamente è quello del testo narrativo, tuttavia la distinzione è, in linea di principio, applicabile anche ad altri tipi testuali. La di­ stinzione fra background e foreground parte dalla supposizione che ogni tipo testuale assolva a una funzione specifica, ovvero trasmetta informazioni di tipo peculiare: un testo narrativo, ad esempio, ha come principio strutturante la narrazione di eventi concatenati in suc­ cessione temporale o causale e pertinenti ad uno stesso o a più prota­ gonisti legati fra loro da qualche relazione. In un testo narrativo, tutte le frasi che assolvono a questa funzione principale e seguono questo principio strutturante sono frasi di foreground, mentre le frasi che as­ solvono a funzioni complementari e non seguono questo principio strutturante sono frasi di background. L ’opposizione background/foreground così delineata è di interes­ se linguistico, e non solo stilistico o semiotico, perché trova riscontro a livello espressivo in alcune regolarità morfosintattiche. Tale opposi-

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L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

3 . L A D IS T R IB U Z IO N E D E L L ’ IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

zione è resa ad esempio, a livello linguistico, dall’uso dei tempi verba­ li e della subordinazione. La flessione temporale dei verbi, come è noto, può codificare va­ lori di tempo, aspetto, modalità (cfr., ad esempio, Bertinetto, 1991, per il verbo italiano). In alcune lingue, però, il tempo verbale codifica anche la differenza fra eventi di foreground ed eventi di background. Hopper (1979) fornisce il seguente esempio dallo swahili:

che le sequenze di foreground di una narrazione descrivono normal­ mente, come si è detto, eventi che si succedono in una scansione li­ neare ordinata, eventi cioè visti nella loro compiutezza, marcata dal­ l’aspetto perfettivo; le sequenze di background, invece, descrivono le condizioni, lo sfondo su cui si muove l’azione: tali sequenze non sono linearmente ordinate, anzi spesso si tratta di situazioni, di stati che si intrecciano e si sovrappongono, eventi solitamente marcati dall’aspet­ to perfettivo. Anche in italiano l’opposizione fra imperfetto e passato remoto può essere sfruttata in questo senso. Nel passo che segue, l’opposizione ha funzione simile a quella individuata in (58):

(58)

T u -k a -e n d a

k a m b i-n i,

h a ta

p a ssam m o -K A

a l-c a m p o

e

tu-ka-safiri viaggiammo-KA

s ik u

kadha

g io r n i

m o lti

na humo mwote e loro tutti

usiku notte

tu-ka-toroka, corremmo-via-KA

miji fulani, tu-ki-pitia attraversammo-κι villaggi molti

hamna mahongo non-era tributo

«Tornammo al campo e corremmo via durante la notte, viaggiammo per molti giorni, attraversammo molti villaggi e non dovemmo pagare un tributo a nessuno di loro». In questa sequenza, i verbi sono marcati rispettivamente dal morfema -ka- o dal morfema -ki-\ l’opposizione fra questi due morfemi non è, sottolinea Hopper, di tipo aspettuale o temporale, ma piuttosto di tipo discorsivo: il morfema -ka- segnala le sequenze di foreground, ovvero gli eventi esposti nella loro sequenzialità, mentre il morfema -ki- segnala le sequenze di background che, in questo caso, ampliano e riformulano quanto già contenuto nel testo di foreground: la preci­ sazione dell’attraversamento dei villaggi e la non necessità di pagare tributi, nel testo originale, non si pongono infatti come ordinati se­ quenzialmente rispetto agli eventi precedenti, ma sono piuttosto una specificazione dell’ultimo: viaggiammo molti giorni. L ’argomentazione di Hopper, a partire da questo spunto, si spin­ ge oltre, individuando una funzione di messa in foreground o back­ ground anche per altre componenti della flessione del verbo solita­ mente descritte come portatrici di altre funzioni, di tipo più strettamente semantico e indipendente dal contesto, come appunto l’aspet­ to, il tempo, la modalità. L ’opposizione fra aspetto perfettivo e imperfettivo è, per Hopper, un esempio di marcatura di sequenze in foreground rispetto a se­ quenze in background: i tipici tempi perfettivi, come il passi simple del francese, designano di preferenza eventi di foreground, mentre i tempi imperfettivi, come Yimparfait del francese, sono usati più fre­ quentemente nelle sequenze di sfondo. Ciò è giustificabile se si pensa

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(59)

Così, prima di sera, tutta Palermo seppe che l’abate Velia stava per mo­ rire. E la notizia suscitava reazioni e giudizi contrastanti, interminabili discussioni, persino scommesse. Chi diceva che la malattia era, come il furto, una finzione, e chi invece ci credeva e faceva compianto; chi l’attribuiva allo spavento per l’impostura che stava per scoprirsi, e chi all’ingiusta persecuzione e al furto. Agli sbirri toccò, in serata, correre prima all'Albergarla, dove una zuffa si era accesa tra donne che, nei riguardi dell’abate Velia, avevano preso partito netto alcune a com­ piangerlo altre a vituperarlo; e poi alla Kalsa, dove dei pescatori stava­ no sbudellandosi in prò e contro l’autenticità del Consiglio d’Egitto. (Sciascia, Il consiglio d’Egitto, p. 93).

In russo, osserva ancora Hopper, esiste poi una correlazione fra l’op­ posizione aspettuale e il tipo di topic espresso dall’enunciato: a topic più “prototipici” , cioè più salienti, agentivi, massimamente attivi e ac­ cessibili corrisponde un uso di tempi perfettivi, mentre a topic con minor prototipicità corrisponde un uso di tempi imperfettivi. Ora, anche l’opposizione fra tipi diversi di topic è correlata all’opposizione background/foreground: i topic delle sequenze di foreground, in con­ testi narrativi, saranno tipicamente i protagonisti, cioè referenti agen­ tivi, attivi e accessibili (perché più spesso mantenuti stabili da un enunciato all’altro); viceversa, i topic delle sequenze di background saranno, con maggior frequenza, topic nuovi, non mantenuti, ed eventualmente meno agentivi o salienti. Un altro mezzo morfosintattico ampiamente discusso come coin­ volto nella distinzione fra sequenze di foreground e di background è la subordinazione, un fenomeno linguistico complesso che chiama in causa diversi fattori, legati principalmente al verbo della frase: il ver­ bo di una frase subordinata subisce in varia misura un processo di riduzione morfosintattica, che non consente di esprimere tutti i valori funzionali consentiti a un verbo in una frase principale; questo feno­ meno implica che la frase subordinata sia dipendente, per la sua pie-

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L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

3 . LA D IS T R IB U Z IO N E D E L L ’ IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

na interpretazione, da quella principale. Ora, è stata individuata fra le funzioni tipiche della subordinazione quella di collocazione di un evento in background 27. Si osservi il diverso ruolo discorsivo che as­ sume l’azione designata dal verbo cadere nelle due frasi seguenti:

mazione prevalente che il testo trasmette e, quindi, dal tipo di “ do­ mande astratte” (quaestio) cui esso risponde. La tipologia di “do­ manda astratta” cui il testo risponde condiziona sia la distribuzione delle informazioni e delle frasi di foreground e background del te­ sto, sia la struttura informativa prevalente nelle frasi di foreground. Un altro parametro pertinente per l’organizzazione informativa dei testi è quello dell’accessibilità dei referenti, di cui abbiamo già parla­ to nel c a p . 2. Le tipologie testuali esaminate con questo metodo osservativo sono state fondamentalmente due: il testo narrativo e il testo descrit­ tivo, i quali rispettivamente rispondono alle domande astratte illustra­ te nella f ig . 3.3.

(60) a) Cadde e si ferì ai polsi b) Cadendo si ferì ai polsi Nel primo caso, l’azione è considerata in quanto parte della sequenza di eventi che sono oggetto del racconto; nel secondo caso, invece, l’e­ vento è considerato in quanto causa dell’evento ferirsi, sottraendosi al flusso concatenato di eventi per collocarsi, piuttosto, sullo sfondo di questo. Evidentemente, ciò che muta non è l’ordine temporale in cui gli eventi si sono succeduti, quanto piuttosto la prospettiva dalla qua­ le sono presentati: come evento in sé nel primo caso, come circostan­ za causale nel secondo; la minor rilevanza data all’evento cadere in quanto evento autonomo nel secondo caso è riflessa nel modo di espressione linguistica utilizzato: l’uso di un modo verbale indefinito non consente di collocare autonomamente l’evento sull’asse tempora­ le né di selezionare un agente autonomo; da entrambi questi punti di vista l’evento cadere è dipendente dall’evento principale. L ’alternanza tra frasi indipendenti e subordinate nell’ultima frase dell’esempio (59) ha lo stesso valore illustrato qui. 3.2.2. Un’applicazione all’analisi descrittiva: il modello Quaestio per l’analisi delle varietà di apprendimento L ’idea di osservare il linguaggio degli apprendenti di una lingua parte da un’intuizione di Jakobson (1971), secondo il quale l’osservazione delle lingue “ ridotte” consente di mettere a nudo i principi operativi di base su cui una lingua si imposta, e, eventualmente, di individuare principi soggiacenti ad ogni lingua. Analogamente, l’osservazione dei testi prodotti nelle varietà di apprendimento, tanto di lingue materne quanto di seconde lingue, può permettere di osservare, in una forma semplificata e quindi con maggior possibilità di individuare regolarità, i principi organizzativi di un testo. Il modello osservativo che qui proponiamo a titolo esemplificati­ vo è quello elaborato da Klein e von Stutterheim (1987) detto “ della Quaestio” . Il modello nasce dall’idea che ogni tipologia testuale sia strutturata secondo modalità specifiche dipendenti dal tipo di infor­ 27. Sulla subordinazione cfr. Vincent (1999) e Cristofaro (in stampa).

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FIGURA 3.3

Quaestio dei testi narrativi e descrittivi

Le sequenze principali (main sequences) di un testo narrativo o de­ scrittivo avranno dunque la funzione di rispondere a queste domande e saranno determinate, nella loro struttura, dalla necessità di esprime­ re queste informazioni; altre sequenze, ad esempio con funzione esplicativa o di commento, o sequenze di tipo descrittivo in testi nar­ rativi o di tipo narrativo in testi descrittivi, cioè sequenze che non rispondono dia domanda astratta propria di quel tipo di testo sono dette sequenze secondarie (side sequences) di quel testo e avranno una struttura più libera. Le sequenze principali di un testo narrativo, data la funzione di rispondere alla domanda chi ha fatto che cosa quando conterranno (implicitamente o esplicitamente) un riferimento a un agente, a un’a­ zione e a un momento temporale. Data la maggior salienza dei refe­ renti agentivi (cfr. c a p . 2), l’agente di una sequenza narrativa tenderà a porsi come topic, per cui la struttura più frequente delle sequenze narrative sarà una struttura di tipo predicativo, del tipo:

28. Per le entità individuate nel testo descrittivo adottiamo la terminologia d Watorek (1998).

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L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

Enunciati risultanti: II personaggio-x ha fatto-y al tempo-t Al tempo-t il personaggio-x ha fatto-y

TOPIC comment

tempo agente azione agente azione

tempo

L indicazione temporale potrà essere un elemento tematico (nel senso di elemento di scene setting cfr. quanto detto nel p a r . 3.1.2), e si col­ locherà allora in posizione iniziale, oppure un elemento focale, e si collocherà allora in posizione finale. Si osservi nell’esempio seguente la narrazione orale da parte di un italofona nativa di un episodio del film Tempi moderni. Si tratta di una sequenza narrativa i cui enunciati sono organizzati secondo lo schema tempo -ag en te -azio ne ; l’agente può essere tralasciato quando è mantenuto dagli enunciati precedenti, mentre il tempo è omesso quando le azioni si susseguono linearmente (cfr. invece intanto). L ’ul­ timo enunciato ha invece articolazione ag en te -azione -tempo , con l’indicazione temporale in posizione focale 29: (61) lui raccoglie la bandiera e corre dietro - al camion per dirgli che ha perso la bandiera + il camion non si ferma va avanti intanto dietro di lui arriva - il corteo di una man/ manifestazione di protesta + e lui se ne accorge soltanto quando: ad/ vede la polizia che gli arriva addosso Le sequenze principali di un testo descrittivo, data la funzione di ri­ spondere alla domanda che cosa è dove rispetto a che cosa conterran­ no (implicitamente o esplicitamente) un riferimento ad un oggetto (theme), ad una posizione nello spazio, ad un punto di riferimento spaziale (relatum). In questo caso, dato che tanto il theme quanto il relatum sono altrettanto salienti, poiché si tratta nella maggior parte dei casi di elementi inanimati, possono avere entrambi tendenza a porsi come topic. Avremo allora enunciati così strutturati: topic comment_______ theme posizione relatum relatum posizione theme

Enunciati risultanti: L ’oggetto-th si trova-y rispetto a-r In-r c’è l’oggetto-th

Alla sequenza di enunciati si applicano inoltre le regole per la segnala­ zione dello status dei referenti testuali, ovvero di quello che Klein e von

29. L ’esempio è tratto da Chini et al. (1993, pp. 193-4).

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3 . LA D IS T R IB U Z IO N E D E L L ’ IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

Stutterheim (1987) chiamano il movimento referenziale. I tipi di movi­ mento referenziale che essi individuano sono elencati nella f ig . 3.4. FIGURA 3.4 T ip i di movimento referenziale in un testo Introduzione Prosecuzione

mantenimento modifica sostituzione

Fonte·. Klein, von Stutterheim (1987).

Un referente può essere introdotto in modo abruptivo, senza instau­ rare un legame con i referenti attivi in quel momento, oppure può essere messo in relazione con essi nelle forme del mantenimento (rife­ rimento allo stesso referente precedente); della modifica (riferimento ad un referente precedente con modifica); della sostituzione (interru­ zione del riferimento a un referente precedente e riferimento ad uno nuovo). Per ognuno di questi movimenti referenziali ci si può servire di mezzi di riferimento diversi. È facile riconoscere nelle griglie di analisi proposte un’eco delle scale di accessibilità dei referenti già proposte nel cap . 2 per le varietà piena­ mente sviluppate delle lingue. In tali varietà, tuttavia, il sistema delle alternative possibili di strutturazione testuale è più articolato e com­ plesso, ed eventuali regolarità di fondo sono meno immediatamente evi­ denti. Nei testi degli apprendenti l’indagine attraverso il modello Quae­ stio consente invece di individuare alcuni principi di base, che valgono indipendentemente dalle idiosincrasie delle singole lingue naturali. Fra questi principi, a livello della struttura del singolo enunciato, possiamo elencare: - la tendenza alla posizione iniziale del topic e alla posizione finale e/o all’accentazione del focus. Si confrontino i seguenti esempi, tratti da varietà di apprendimento di italiano come seconda lingua molto iniziali in cui le frasi non sono ancora strutturate su base morfo-sintattiche, ma mostrano una chiara articolazione topic-comment 3°. In

30. I dati sono tratti dal corpus di italiano come seconda lingua del Progetto di Pavia (cfr. Banca Dati di Italiano L2, 2001). /IT / individua l’intervistatore nativo, /P E/, /M K / e /CH / gli intervistati non nativi. Per la discussione di questi esempi e la sintassi delle varietà di apprendimento di italiano come seconda lingua si veda Andorno in Andorno et. al. (2003-, pp. 126-35).

IO I

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

posizione topicale si può trovare uno degli attanti del verbo, come io in (62) o un elemento che fornisce le coordinate spazio-temporali, il ‘setting’, in cui si inquadra l’evento, come in (63) e (64): (62) \IT\ dimmi un po’ come mai sei venuto in Italia? perché sei venuto in Italia? (63) \PE\ ah io di Italia ah studie TOPIC FOCUS io di Italia studie “Io in Italia ci sono venuto per studiare” (63) \IT\ e + sei? - la tua famiglia? \MK\ sì + mio mam/madre sì + c’è qua \IT\ aha e poi? \MK\ diciassett’anni fa - in Italia SETTING TOPIC FOCUS mio madre sì c’è qua diciassett’anni fa in Italia “Mia madre è qua; diciassette anni fa (lei) è venuta in Italia” (64) \CH\ cinese eh f:ato eh media SETTING TOPIC focus cinese fato media “In Cina ho fatto la scuola media”.

- la tendenza a graduare i mezzi di riferimento e anaforici secondo i principi del movimento referenziale, con mezzi di ripresa più leggeri (pronomi, anafora zero) per esprimere il mantenimento di un refe­ rente nello stesso ruolo e più pesanti (sintagmi pieni) per un cambio di referente. Si osservi l’esempio seguente, in cui un apprendente tedescofono racconta un episodio del film Tempi moderni3I: (65)

eh: prima scena si vede Charlie Chaplini 0 i camminando molto triste eh sulle strade e: luti non sa che cosa fare e: per caso un/ un/ una m/ una macchinaa passa e: questa macchina„ - perde: una bandiereω e Charlie Chap/ Charliei vuole: eh dare una mano a: questo:/ questo:/

questo uomo che - guide la macchinaiv e: 0 , càmmina:

3 1. L ’esempio è tratto da Chini et al. (2003, pag. 192), cui rimandiamo per una descrizione delle caratteristiche della testualità nelle varietà di apprendimento di italia­ no come seconda lingua. I corsivi e gli indici per indicare le anafore sono di chi scrive.

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3 . LA D IS T R IB U Z IO N E D E L L ’ IN F O R M A Z IO N E N E L T E S T O

e e 0 ; corre alla: eh bandieraui e:: eh: 0 ; mette queste/ queste bandieraω e 0 ; vuole dare la bandieram sii’uomo che guide la macchinaiv ma: il uomo con la macchina·. iv è: eia/ dà/ se ne + eh va Le espressioni usate per fare riferimento al personaggio principale, che si presta quindi a occupare la posizione topicale, sono, come si vede, quasi tutte anafore zero, ad eccezione della prima menzione, che si presenta come frase presentativa di introduzione di topic: pri­ ma scena si vede Charlie Chaplin, e di una seconda occorrenza del sintagma nominale Charlie dopo un punto di discontinuità referenzia­ le, in un punto cioè in cui il protagonista riprende la posizione topicale temporaneamente occupata da un altro referente, che a sua volta era stato introdotto da una struttura presentativa: per caso una mac­ china passa e questa macchina perde una bandiere. I costituenti non topicali, invece, non vengono introdotti nel discorso attraverso espressioni dedicate (cfr. l’introduzione della bandiera: questa macchi­ na perde una bandiere) e ad essere ripresi con mezzi più pesanti, in quanto elementi meno centrali nell’universo di discorso e quindi non candidati ad avere un ruolo topicale. Le proprietà che abbiamo visto valere per le varietà di lingue na­ tive e pienamente sviluppate risultano dunque essere delle tendenze costanti nella strutturazione dei testi del linguaggio umano, che emer­ gono in lingue diverse e a livelli di competenza diversi 3L

32. Ciò non significa che tutte le lingue si comportino allo stesso modo: se è costante la tendenza a marcare elementi topicali mantenuti con mezzi di ripresa legge­ ri e elementi non topicali nuovi o discontinui con mezzi pesanti, quali mezzi espressivi “pesanti” e “ leggeri” siano a disposizione di un parlante dipende evidentemente dalla singola lingua (ad esempio, non tutte le lingue consentono un’anafora zero, cfr. tede­ sco, francese, inglese). Per quanto riguarda le varietà di apprendimento, nelle varietà meno evolute si osserva una tendenza alla sovraesplicitezza (cfr. Chini in Chini et al., 2003, p. 198) che si attenua a mano a mano che la competenza aumenta: ciò si tradu­ ce, per le strategie di ripresa anaforica, in una tendenza all’uso di mezzi di ripresa pesanti più di quanto sia proprio delle varietà native (nell’esempio riportato, si con­ fronti la ripresa sempre attraverso sintagma pieno del referente la bandiera, o del pro­ nome lui in un contesto di continuità referenziale in cui l’italiano nativo avrebbe adottato un’anafora zero).

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4

Frase, proposizione ed enunciato

Nel c a p . 3 abbiamo distinto contenuto proposizionale e valore infor­ mativo di una frase. In questo capitolo introdurremo un ulteriore li­ vello di analisi, esplicitando il valore della distinzione tra frase ed enunciato. A partire da questa distinzione, vedremo divenire sempre più centrale, nel processo interpretativo, il ruolo degli interlocutori e la loro comprensione degli scopi del discorso. Nel p a r . 4.1 daremo le coordinate fondamentali di una teoria che ha largamente guidato la ricerca pragmatica e testuale successiva: la teoria degli atti linguistici, formulata all’interno della cosiddetta “ scuola di O xford” nell’ambito della filosofia del linguaggio, in particolare da Austin e da Searle. Nel p a r . 4.2 ci occuperemo in modo più dettagliato di uno dei tipi di enunciato individuabili sulla scorta della teoria, ovvero l’asserzione, e del modo in cui attraverso essa le informazioni giungono all’ascoltatore.

4,1 .

Atti linguistici

4 .1.1. Enunciato come azione La filosofia del linguaggio ha per lungo tempo basato le proprie ricer­ che sul significato delle proposizioni sul concetto di verità/falsità: il significato di una proposizione, in questa prospettiva, viene descritto come l’insieme delle condizioni alle quali essa è vera. Tale tipo di de­ scrizione e analisi è detta analisi vero-condizionale del significato di una frase. Così, una frase come: (1)

Napoleone Bonaparte morì a Sant’Elena il 5 maggio 1821

è vera se e solo se esiste un individuo identificabile come “ Napoleone Bonaparte” del quale è predicabile, nel tempo t = 5 maggio 18 2 1, la

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4 . F R A S E , P R O P O S IZ IO N E E D E N U N C IA T O

proprietà di “morire” . Poiché sappiamo che, nel mondo in cui vivia­ mo, tale evento si è effettivamente verificato alle condizioni indicate, diciamo che questa frase è vera e il suo significato è appunto questo: “ esiste un individuo identificabile come Napoleone Bonaparte tale che per costui è predicabile la proprietà di morire al tempo 5 maggio 18 2 1” o, anche, “è vero che per l’individuo identificabile come Napo­ leone Bonaparte si è verificato l’evento di morire al tempo 5 maggio 18 2 1” . Seguendo analogo procedimento, possiamo dire che la frase:

ne, di ordinare l’esecuzione di un’azione, di impegnarsi in un com­ portamento: enunciati diversi, dunque, possono corrispondere ad azioni diverse, tutte eseguibili attraverso la parola. Per superare le li­ mitazioni dell’analisi vero-funzionale è stata sviluppata allora una teo­ ria dell’azione comunicativa. La nozione e il nome di atto linguistico si devono, inizialmente, ad Austin (1962) e sono stati successivamente ripresi, in particolare, da Searle (1969). Un atto linguistico è un atto eseguito attraverso l ’u­ so della parola. Ogni volta che si proferisce un enunciato si compie un atto linguistico: possiamo identificare come atti linguistici ad esempio asserzioni, domande, richieste, promesse, e anche atti più particolari e maggiormente codificati, spesso legati a situazioni istitu­ zionali precise, come il giuramento, l’assoluzione o la condanna in tri­ bunale, il battesimo ecc. Searle (1976) individua cinque gruppi di atti linguistici, elencati nella f i g . 4.1.

(2)

G iu s e p p e G a rib a ld i m orì a Sant’E le n a il 5 m aggio 1 8 2 1

è falsa, poiché nel mondo in cui viviamo tale evento non si è verifica­ to alle condizioni indicate. Questo procedimento di analisi e descrizione esula dalle condizio­ ni specifiche in cui la frase è stata pronunciata: non è necessario sa­ pere chi ha pronunciato la frase, quando o all’indirizzo di chi, per stabilire che essa è vera. Tuttavia non tutte le frasi del linguaggio na­ turale sono analizzabili in questo modo. Un primo campo di difficoltà è dato dal riferimento deittico, poiché la frase seguente: (3) Tuo fratello si è sposato ieri

FIGURA 4 .1

Tipi di enunciati Atti rappresentativi·.

che impegnano il parlante nei confronti della verità della proposizione espressa (esempi: asserire, concludere ecc.) con cui il parlante tenta di indurre l’interlocutore a fare qualcosa (esempi: interrogare, richiedere, avvertire, ordi­ nare ecc.) che impegnano il parlante a fare qualcosa nel futuro (esempi: promettere, minacciare, offrire ecc.) che esprimono uno stato psicologico (esempi: ringraziare, scusarsi, salutare, lamentarsi, congratularsi ecc.) che provocano cambiamenti immediati in uno stato di cose istituzionale (esempi: scomunicare, licenziare, battez­ zare, dichiarare guerra ecc.)

è giudicabile, in termini di verità/falsità, solamente conoscendo il contesto in cui essa è stata pronunciata (in particolare, il momento in cui essa è stata pronunciata e la persona cui è stata indirizzata), dato che diversamente non è possibile attribuire un valore alle espressioni tu e ieri. Un secondo campo di difficoltà nell’applicazione del modello vero-funzionale del significato riguarda frasi che non sembrano giudi­ cabili in termini di valore di verità:

Atti direttivi·.

(4) (5) (6)

Fonte·. Searle (1976), citato in Levinson (1985).

Che cosa è successo? Smettila subito! Giuro di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la veritàI

Atti commissivi: Atti espressivi: Atti dichiarativi:

I problemi in questo caso non nascono dalla mancanza di informazio­ ni contestuali: quand’anche noi potessimo descrivere adeguatamente chi sta parlando, in che momento, dove e con chi, non saremmo co­ munque in grado di giudicare come vere o false le frasi di cui sopra: semplicemente, le frasi sembrano sfuggire ad una valutazione secondo questi termini. A differenza degli enunciati (1) e (2), quelli appena presentati non hanno la funzione di dare un’informazione afferman­ done la verità, ma, rispettivamente, quella di chiedere un’informazio-

Questa classificazione non è esente da difficoltà ed infatti ne sono sta­ te proposte modifiche e classificazioni alternative. Il raggruppamento di alcuni tipi di atto pare poco motivato: problematica è ad esempio l’attribuzione dei saluti agli atti espressivi. Non è chiaro inoltre se sia possibile proporre — questa o altra —una classificazione esaustiva dei tipi di atti linguistici possibili: dato che, come già Searle chiarisce, gli atti linguistici sono atti convenzionali, cioè legati alle convenzioni di una determinata cultura, è possibile che culture diverse possano pos­ sedere atti linguistici diversi e, in questo caso, non è chiaro se questi

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4 . F R A S E , P R O P O S IZ IO N E E D E N U N C IA T O

potrebbero essere ricondotti ai cinque gruppi individuati da Searle: non è chiaro cioè se questi gruppi siano da intendersi come esaustivi di tutte le tipologie logicamente possibili o siano invece culturalmente determinati. I problemi della classificazione proposta da Searle scaturiscono dalla mancanza di criteri classificatori uniformi. I singoli atti lingui­ stici sono tuttavia identificabili sulla base delle condizioni che essi de­ vono rispettare per la propria buona riuscita. Per ognuno di questi atti esistono infatti condizioni che ne garantiscono il corretto uso e la corretta realizzazione nel discorso, ovvero che garantiscono il rag­ giungimento dello scopo per il quale sono formulati: queste condizio­ ni sono dette “ condizioni di felicità” di un atto linguistico. Alcune condizioni sono valide per tutti i tipi di atti linguistici: ad esempio, perché un enunciato E ottenga il suo effetto e abbia quindi successo deve realizzarsi la condizione per cui “ sia il parlante che l’interlocuto­ re capiscono E ”, ovvero l’enunciato deve essere espresso in una for­ ma linguistica comprensibile per entrambi. Esistono poi condizioni di felicità specifiche per i diversi tipi di atti linguistici. Un atto lingui­ stico come la promessa ( p r ò ) , ad esempio, per essere ben riuscito deve rispettare le seguenti condizioni:

i quali possono essere interpretati rispettivamente come “ asserzione” e come “minaccia” mal espresse - o espresse in forma non canoni­ c a - , ma non possono essere considerate “promesse” , nonostante l’uso del verbo promettere. Il mancato rispetto delle condizioni di sin­ cerità - quella che per Searle identifica e qualifica l’atto linguistico è invece un caso di “abuso” , per cui, se la violazione non viene pale­ sata, l’atto linguistico si configura comunque come avvenuto. Searle parla in questo caso di atto linguistico “insincero” :

Contenuto proposizionale: Condizioni preparatorie: Condizione di sincerità: Condizione essenziale:

ha come contenuto proposizionale un futuro atto (At) del parlante (PI) PI crede di poter fare At PI crede che l’ascoltatore (As) voglia che PI faccia At PI intende fare At p r ò vale come impegno di PI a fare At prò

Un atto linguistico di asserzione guenti condizioni:

(a s s )

deve invece rispettare le se­

Contenuto proposizionale: a s s ha un qualsiasi contenuto proposizionale (P) Condizioni preparatorie: PI ha motivi per credere che P sia vero Per PI non è ovvio che As sa che P è vero Condizione di sincerità: PI crede che P sia vero Condizione essenziale: a s s vale come impegno di PI a garantire che P è vero Il mancato rispetto delle condizioni sul contenuto proposizionale o delle condizioni preparatorie ha come risultato la non riuscita dell’at­ to linguistico. Si osservino ad esempio i seguenti enunciati: (7) ??Ti prometto che ho vent’anni (violazione del contenuto proposizionale) (8) ??Ti prometto che ti farò a pezzi (violazione di condizione preparatoria)

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(9) (10)

Ti prometto che sarò puntuale (ma so già che non lo farò: promessa insincera) Il primo trasvolatore atlantico è stato Montgolfier (ma so che in realtà è stato Lindbergh: asserzione insincera)

Per “ riuscita” di un atto linguistico si intende il suo essere effettiva­ mente eseguito correttamente come atto linguistico; la riuscita non di­ pende dalle conseguenze che questo fatto comporta effettivamente nella realtà fi le promesse non mantenute - sia perché insincere, sia perché cause esterne intervenute ne hanno reso impossibile il mante­ nimento - sono comunque atti linguistici riusciti come promesse; così un’asserzione falsa è comunque un’asserzione. Proprio questo rende i parlanti “ responsabili” dell’atto compiuto: si può condannare una persona per non aver mantenuto una promessa o per aver rilasciato dichiarazioni false appunto perché l’atto linguistico è stato eseguito. Un atto linguistico è quindi essenzialmente una dichiarazione di as­ sunzione di responsabilità da parte del parlante nei termini indicati dalla “ condizione essenziale” . Le condizioni di felicità consentono di dare una descrizione più ampia del funzionamento degli enunciati nel discorso rispetto all’im­ postazione strettamente logicista dell’analisi vero-funzionale. In un primo tempo, questa impostazione è stata contrapposta a quella di tipo vero-funzionale, per cui Austin (1962) distingue enunciati perfor­ mativi (cfr. p a r . 4.1.2), che analizza in termini di condizioni di felici­ tà, ed enunciati constatativi, cioè le asserzioni, analizzate in termini di condizioni di verità. In seguito, tuttavia, anche l’analisi delle asserzio­ ni viene ricondotta al quadro generale degli atti linguistici: le asser­ zioni si configurano come atti linguistici attraverso i quali il parlante si impegna sulla verità del contenuto proposizionale che enuncia. La teoria degli atti linguistici ricomprende quindi la descrizione vero-

1. Le conseguenze di un atto linguistico sono comunque prese in considerazione come parte dell’atto linguistico, come vedremo meglio nel par . 4.1.2.

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4 . F R A S E , P R O P O S IZ IO N E E D E N U N C IA T O

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funzionale delle proposizioni, aggiungendo il concetto di azione che, come vedremo, ha ripercussioni anche nell’analisi del valore di verità delle proposizioni (cfr. p a r . 4.2.1). L ’esposizione della teoria degli atti offre una visione estremamen­ te razionale del comportamento linguistico, che raramente corrispon­ de alla realtà dei fatti: non tutte le promesse vengono mantenute, non sempre si fanno affermazioni di cui si è sicuri, non si fanno richieste solo quando si ritiene che l’interlocutore possa esaudirci e così via. Questa serie di fenomeni tuttavia non inficia la validità della descri­ zione: la possibilità di osservare e descrivere le “violazioni” delle re­ gole dipende, appunto, dal fatto che le regole esistono. È possibile sostenere che una promessa non è stata mantenuta - ovvero si può dire che si è abusato dell’atto linguistico del tipo “promessa” - ap­ punto perché esistono regole relative a che cosa sia una promessa: tali regole non sono da intendersi come regole normative, che regimentano un fenomeno che esiste al di là di esse, ma sono di tipo costitutivo, sono cioè regole che permettono l’esistenza stessa dell’at­ to linguistico, il quale senza di esse non potrebbe esistere 2*1. 4.1.2. La struttura di un atto linguistico La discussione del paragrafo precedente ha messo ulteriormente in evidenza la necessità di distinguere fra un livello semantico e un li­ vello pragmatico del valore di un enunciato. Tale distinzione era già stata fatta nel c a p . 3 , quando si era distinto fra il valore semantico di una frase - il suo contenuto proposizionale - e l’informazione che essa porta nel contesto - il suo valore informativo. Abbiamo ora in­ contrato un nuovo livello di analisi, che riguarda il valore dell’enun­ ciato come azione. La nozione di atto linguistico integra la prospetti­ va semantica di significato vero-condizionale e quella pragmatica di azione. Un atto linguistico, infatti, è costituito di più livelli: un livello enunciativo, ovvero l’atto di proferire suoni e parole; un livello pro­ posizionale, ovvero l’atto di riferimento a entità e predicazioni; un li­ vello illocutivo, ovvero l’intenzione comunicativa che l’atto linguistico persegue (cfr. f ig . 4.2).

2. Searle (1969) riprende da Rawls (1955) la distinzione fra regole normative e regole costitutive. Classiche regole costitutive sono quelle che definiscono i giochi: il gioco del poker non potrebbe esistere indipendentemente dalle regole che lo costi­ tuiscono.

IIO

4.2 Livelli di strutturazione di un atto linguistico FIGURA

Atto enunciativo (locutorio per Austin): l’atto di enunciare parole o suoni Atto proposizionale (locutivo per Austin) : l’atto di riferimento aentità e predicazioni Atto illocutivo: l’intenzione comunicativa Fonte: Searle (1969).

Pronunciando l’enunciato: (11)

Fermati a pranzo!

un parlante compie un atto enunciativo (o atto locutorio), per il fatto che emette una serie di suoni, precisamente la sequenza /'fermati a’prantso/; compie un atto proposizionale (o atto locutivo), facendo riferimento a uno stato di cose di tipo {fermarsi a pranzo, p} relativo a una persona p, identificabile con l’ascoltatore; compie un atto illo­ cutivo richiedendo all’ascoltatore p di rendere effettivo lo stato di cose {fermarsi a pranzo, p} relativamente al momento presente. Possiamo anche dire che i seguenti enunciati: (12) (13)

Ti fermi a pranzo? Ti fermassi a pranzo!

condividono lo stesso contenuto proposizionale di (n ), ovvero com­ piono un analogo atto proposizionale, ma un diverso atto illocutivo: un invito in ( u ) , una domanda in (12), un desiderio in (13). Un fe­ nomeno che rende visibile la separatezza del livello locutivo e illocuti­ vo nelle lingue naturali è la possibilità di negare l’uno o l’altro sepa­ ratamente: (14) (15)

Ti prometto che verrò a pranzo. a) Ti prometto che non verrò a pranzo b) Non ti prometto che verrò a pranzo.

Nell’esempio ( 15)a la negazione è al livello proposizionale: la negazio­ ne riguarda la proposizione recarsi ospite a pranzo relativa al referente io coincidente con il parlante e, in merito a questa predicazione nega­ tiva, il parlante proferisce una promessa: la promessa che lo stato di cose espresso dalla proposizione non si verificherà. Nell’esempio (15)^ invece la negazione riguarda il livello illocutivo: il parlante nega la propria disponibilità a proferire un atto di promessa relativamente

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4 . F R A S E , P R O P O S IZ IO N E E D E N U N C IA T O

al contenuto proposizionale recarsi ospite a pranzo. Nel primo caso quindi abbiamo una promessa, nel secondo no. D ’altronde, lo stesso atto illocutivo può essere realizzato attraver­ so atti enunciativi diversi. Oltre agli esempi offerti qui di seguito sui diversi modi per impartire ad un animale l’ordine di accucciarsi:

un atto linguistico a partire dalle intenzioni del parlante indipenden­ temente dai risultati e dalle conseguenze che esso produce.

(16) (17) (18)

A terra! Giù! Cuccia!

possiamo ricordare che esiste una traducibilità interlinguistica degli atti linguistici: lo stesso atto linguistico in merito ad uno stesso conte­ nuto proposizionale può essere realizzato mediante atti enunciativi di­ versi in lingue diverse 3. La dicotomia fra enunciato e frase, finora usata senza esplicitarne la valenza, è relativa proprio a questa opposi­ zione: ci si riferisce con enunciato all’atto linguistico nella sua com­ pletezza e nelle sue specifiche circostanze di occorrenza ed uso, men­ tre con frase si fa riferimento alla sola espressione linguistica. Nel modello di Austin (1962) il quadro qui esposto è completato da un altro livello, il livello perlocutivo, che riguarda gli effetti che l’atto linguistico produce sulla situazione; attiene al livello perlocuti­ vo, ad esempio, il fatto che un enunciato come: (19)

Vattene!

possa produrre come effetto l’allontanamento dell’ascoltatore. Il livel­ lo perlocutivo è connesso all’atto linguistico, ma non fa parte di esso, ne è una conseguenza4. È tuttavia un concetto utile per tenere di­ stinti i due livelli di “intenzione del parlante” e “ conseguenza dell’at­ to” dato che, come abbiamo visto, si deve valutare della riuscita di

3. Non si prende qui in considerazione il fatto che alcuni atti linguistici possano non essere traducibili da una lingua ad un’altra o, più esattamente, da una cultura ad un’altra: si ritorna alla questione, già sollevata, della convenzionalità, e quindi della non universalità, delle diverse tipologie di atto linguistico. 4. Questo non significa che un atto perlocutivo non sia mai un atto linguistico (una risposta, ad esempio, è un atto perlocutivo di tipo linguistico), né che, viceversa, lo stesso effetto di un atto linguistico non possa essere ottenuto anche per via non linguistica (ad esempio, è possibile esprimere l’ordine di andarsene sollevando il brac­ cio con l’indice teso e innalzando il mento). La linguistica si occupa però degli atti linguistici - e del loro effetto perlocutivo - in quanto essi sono eseguibili attraverso il linguaggio.

112

4.1.3. Indicatori di forza illocutiva Le lingue possiedono segnali specifici per indicare il tipo di atto illo­ cutivo che si sta realizzando: possiedono cioè degli indicatori di forza illocutiva. Possono essere indicatori di forza illocutiva elementi lessi­ cali, morfosintattici, prosodici. La sola prosodia ad esempio distingue la forza illocutiva degli enunciati italiani seguenti: (20)

a) Tu lo conosci b) Tu lo conosci?

mentre in inglese e in francese esistono costrutti sintattici che, insie­ me al contorno prosodico, qualificano le seguenti frasi in b come do­ mande rispetto alle asserzioni delle frasi in a\ (21) (22)

a) b) a) b)

You know him Do you know him? Tu le connais Est-ce que tu le connais?

Un mezzo di espressione di forza illocutiva è anche la flessione verba­ le. L ’opposizione fra modo indicativo e modo imperativo, accanto alla prosodia, distingue nelle frasi seguenti un’asserzione da un ordine: (23)

a) Il venerdì torni a casa in anticipo b) Il venerdì torna a casa in anticipo!

Anche diversi avverbi hanno la possibilità di segnalare o di modulare la forza illocutiva di un enunciato: si tratta delle cosiddette particelle modali 5 (cfr. p a r . 5.3) che, in italiano, comprendono avverbi come pure, già, magari, mica, almeno in loro usi particolari: magari esprime un desiderio (cfr. (24)), pure attenua una richiesta rendendola piutto­ sto un incoraggiamento (cfr. (25)), già in una domanda sottolinea che il parlante ritiene di possedere la conoscenza richiesta ma non riesce

5. Con modalità si fa riferimento nelle lingue verbali a un insieme complesso di concetti, fra cui quello di forza illocutiva, che agiscono come modificatori del livello proposizionale. Cfr. per un’introduzione Palmer (1986).

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a reperirla nella memoria (cfr. (26)), mica sottolinea che le attese del parlante relativamente a una domanda sono per una risposta negativa o che l’asserzione del parlante smentisce le attese previste (cfr. (27)).

sta” è vero 6. Questo non si potrebbe dire di un enunciato come il seguente: (31)

(24) Magari l’avessi assistito meglio e pianto meno! (Svevo, La coscienza di Zeno, Rii. 4.5) (25) Giovanni esclamò: «Oh! il signore! Continui pure a riposare» (Svevo, L ’assassinio di via Belpoggio, Rif. 2.10) (26) Come si chiamava già, il rifugio di Capodanno scorso? (messaggio e-mail) (27) a) «Parlarmi! Non vorrà mica soldi, spero!» Il Commendatore trasalì (Fogazzaro, Piccolo mondo moderno, Rif. 4,1.35) b) Mittente: Complimenti per l’organizzazione, molto bella domenica. Risposta: Ringrazio commosso, ma non è mica dipeso da me (e-mail) Esiste poi un’ampia classe di verbi che hanno come valore semantico proprio il riferimento ad un atto linguistico: ammettere, asserire, di-, chiarare, domandare, promettere, richiedere, rimproverare, salutare, scu­ sarsi ecc. tanto che si può sostenere che la catalogazione e il censi­ mento del repertorio di atti linguistici di una lingua passi attraverso l’esame del suo lessico verbale. L ’uso di questi verbi, detti verbi per­ formativi, in condizioni particolari, qualifica ed esegue un atto lingui­ stico come tale: (28)

Con la presente si avverte l’utenza che dal mese prossimo i pagamenti verranno effettuati tramite bonifico bancario (lettera ufficiale di ente pubblico: avvertimento) (29) Dal canto mio, vi prometto che non ripeterò a nessuno la vostra pro­ posta (Svevo, La coscienza di Zeno, cap. 5.455) (30) Vi dichiaro marito e moglie (detto dal sacerdote celebrante ai due no­ velli sposi nel corso della cerimonia nuziale: congiungimento in ma­ trimonio) Questi enunciati hanno una proprietà particolare. Si tratta di enun­ ciati che nello stesso tempo eseguono l’atto linguistico che evocano, perciò sono intrinsecamente veri, ovvero si autorealizzano: l’enunciato (28) realizza l’atto linguistico di avvertire l’utenza riguardo ai cambia­ menti delle modalità di pagamento e, quindi, è vero che avverte l’u­ tenza riguardo ai cambiamenti delle modalità di pagamento; l’enun­ ciato realizza un atto linguistico di promessa, perciò si può dire che l’enunciato “vi prometto che non ripeterò a nessuno la vostra propo­

Sbuccio le cipolle

del cui contenuto proposizionale (la predicazione “sbucciare le cipol­ le” riferita al parlante relativamente al momento dell’enunciazione) possiamo dire se è vero o falso solo conoscendo la situazione in cui esso è pronunciato, poiché, se può accadere che tale evento si stia realizzando contemporaneamente al proferimento dell’atto linguistico, non si può dire che esso si realizzi per il fatto di proferire l’atto lin­ guistico (io non sbuccio le cipolle in quanto dico sbuccio le cipolle). La diversità fra (28M30) da un lato e (31) dall’altro è legata al tipo di verbo contenuto nelle prime, che è un verbo che designa un atto linguistico, detto verbo performativo. La presenza di un verbo performativo, se è necessaria, non è però sufficiente a produrre un enunciato performativo. L ’uso di un tempo verbale diverso, ad esem­ pio, o di una persona diversa, cambia il valore dell’enunciato come atto linguistico. Gli enunciati seguenti: (32) (33)

Gli promisi che non avrei ripetuto a nessuno la sua proposta Li sta dichiarando marito e moglie

benché contengano gli stessi verbi performativi già visti non realizza­ no, rispettivamente, un atto di promessa e di congiungimento in ma­ trimonio. Si tratta in entrambi i casi di asserzioni che hanno come contenuto proposizionale - e non come forza illocutiva - un atto lin­ guistico rispettivamente di promessa e di congiungimento in matri­ monio. Che si tratti di asserzioni e non di altri tipi di atto è mostrato, fra il resto, dal fatto che tali enunciati possono essere modificati da un avverbio come probabilmente che è un modificatore di enunciati assertivi7, ma non di promesse o di formule di congiungimento in matrimonio:

6. Altra cosa è stabilire se sia vero o meno che le modalità di pagamento cam­ bieranno davvero, o che il parlante manterrà la sua promessa, ma questo, come sap­ piamo, non attiene alla verità della realizzazione dell’atto linguistico: l’atto linguistico in sé si realizza nello stesso momento in cui la frase è proferita e, quindi, è vero che in (28) con la lettera si avverte l’utenza che dal mese successivo i pagamenti verranno effettuati tramite bonifico bancario, ed è vero che in (29) il parlante promette all’a­ scoltatore di tacere. 7. Cfr. par . 4.2.1 e par . 5.3, nota 2.

4 . F R A S E , P R O P O S IZ IO N E E D E N U N C IA T O

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(34) (3 5 )

a) Probabilmente gli promisi di tacere (anche se non lo ricordo) b) PPProbabilmente vi prometto di tacere a) Probabilmente li sta dichiarando marito e moglie (ma non riesco a sentire bene) b) PPProbabilmente vi dichiaro marito e moglie

A proposito della qualifica di forza illocutiva che ogni enunciato pos­ siede, è stata avanzata la cosiddetta ipotesi performativa, secondo la quale ogni enunciato ha nella propria struttura profonda, al nodo più alto della struttura sintattica, una marca di forza illocutiva, rappre­ sentabile con un verbo, di cui l’enunciato sarebbe un argomento. O v­ vero, enunciati come quelli in (28M30) avrebbero, a livello profondo, rappresentazioni di questo tipo: (36) (37) (38)

avverte (l’azienda, l’utenza, (i pagamenti saranno effettuati con bonifi­ co bancario)) prometto (io, tu, (io non ripeterò a nessuno la tua proposta)) dichiaro (io, voi, (voi siete marito e moglie))

Questo modello descrittivo agevola la descrizione sintattica delle frasi poiché consente di descrivere sintatticamente il valore e la funzione di avverbi come sinceramente, o come il probabilmente già visto, o come alcuni tipi di subordinate causali che agirebbero come modifi­ catori del verbo performativo anche quando questo non sia esplicita­ to nell’enunciato: (39)

Sinceramente, sono preoccupata

(40)

Sinceramente, pensi che se la caverà?

(41)

Ne hai ancora per molto? Perché sono le otto

( = “Ti dico sinceramente che sono preoccupata” e non “Sono preoccu­ pata in modo sincero”) ( = “Ti chiedo di dirmi sinceramente se pensi che se la caverà” e non “Pensi che se la caverà in modo sincero?”) ( = “Siccome sono le otto, ti chiedo di dirmi se ne hai ancora per molto” e non “Ne hai ancora per molto perché sono le otto”)

Torneremo ad affrontare questi problemi nel p a r . 5.3. L ’ipotesi performativa, tuttavia, fa sorgere alcuni problemi nell’as­ segnazione dei valori di verità degli enunciati. Se ogni enunciato è retto da un verbo performativo, esplicito o implicito, è possibile di ogni enunciato affermare che esso è vero nel momento stesso in cui viene proferito, per il fatto stesso che viene proferito. Tutti i seguenti enunciati:

116

(42) Verrai a cena da me stasera? (43) Il cavallo bianco di Napoleone è verde (44) Smettila subito! (45) L ’unità d’Italia risale ufficialmente al 1861 sarebbero insomma allo stesso modo veri, data la loro struttura pro­ fonda soggiacente: (46) (47) (48) (49)

Ti chiedo se verrai a cena da me stasera Dico che il cavallo bianco di Napoleone è verde Ti ordino di smetterla subito Dico che l’unità d’Italia risale ufficialmente al 1861

La nozione di verità si ridurrebbe a questo punto alla semplice con­ statazione tautologica che è vero che il parlante sta dicendo di fare ciò che sta dicendo di fare. 4.1.4. Atti linguistici diretti e indiretti Uno stesso effetto perlocutivo può essere perseguito attraverso diver­ se azioni. Per usare un esempio classico, se mi trovo in una stanza affollata con le finestre chiuse in un afoso pomeriggio d’agosto, posso cercare di ottenere il consenso dei presenti ad aprire le finestre della stanza per rinfrescare l’aria in modi diversi: ad esempio, in modo non verbale, alzandomi e aprendo le finestre, contemporaneamente accen­ nando alternativamente alle finestre e ai presenti fino a che non ot­ tengo un assenso mimico o verbale; oppure, sbuffando e sventaglian­ domi teatralmente con le mani fino a che qualcuno propone di aprire una finestra; o, ancora, attraverso uno dei seguenti atti linguistici chiunque potrebbe immaginarne molti altri: (50)

a) b) c) d) e) f)

Posso? (detto guardando i presenti e accennando alle finestre) Apro una finestra (detto guardando i presenti) Apriamo una finestra? (idem) Apriamo una finestra! (idem) Che caldo! (idem) Vi spiace se apriamo una finestra? (idem)

Stando alla classificazione finora proposta, questi diversi enunciati sono portatori di diversi tipi di forza illocutiva: una domanda in a, c, /; un’asserzione in b-, un’esortazione in d; un’esclamazione in e. Tutti gli enunciati mirano però alla realizzazione di uno stesso atto perlo­ cutivo - il consenso dei presenti all’apertura di una finestra - e, in questo senso, hanno la medesima intenzione illocutiva di richiesta di

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4 . F R A S E , P R O P O S IZ IO N E E D E N U N C IA T O

consenso; inoltre, la forza illocutiva che superficialmente essi espri­ mono non corrisponde alle intenzioni reali del parlante. Ad esempio, non sarebbe appropriato replicare all’asserzione in b o all’esclamazio­ ne in e con una semplice constatazione della verità del fatto:

alla coscienza di un parlante nativo di italiano, che infatti non si com­ porta di fronte a tale enunciato interpretandolo come una domanda. Se, ad esempio, immaginiamo una situazione in cui il parlante pro­ nuncia l’enunciato in / ed è impossibilitato ad eseguire lui stesso l’a­ zione (ad esempio, si trova all’altro capo della stanza e ha difficoltà deambulatone), la semplice replica:

(51) (52)

-

Apro una finestra Già. Che caldo! Davvero.

(5 3 )

Questi scambi risultano anomali, o non riusciti, perché l’interlocutore non riconosce - o finge di non riconoscere - la reale intenzione co­ municativa del parlante, il quale non vuole semplicemente enunciare delle verità in merito alla situazione, ma ottenere, attraverso un con­ senso a queste, un’approvazione del suo comportamento. Per distinguere fra intenzioni “ reali” e forza illocutiva “ superficia­ le” di un atto comunicativo si usa parlare di atti linguistici diretti e indiretti: un atto linguistico indiretto è un atto che, attraverso le strutture superficiali di un tipo di forza illocutiva, mira a scopi propri di un altro tipo di forza illocutiva. Le ragioni per usare un atto lin­ guistico indiretto anziché un atto diretto sono, principalmente, legate alla cortesia (cfr. c a p . 5), cioè all’opportunità, offerta da molte lingue, di attenuare la forza illocutiva di un enunciato per minimizzare gli eventuali effetti negativi che un atto diretto potrebbe produrre. La distinzione fra atti diretti e indiretti, se pure utile ed evidentemente necessaria, riporta con sé nuovamente alla luce le difficoltà di defini­ zione legate alla convenzionalità degli atti linguistici. L ’idea che esi­ stano atti linguistici indiretti presuppone evidentemente che esista un modo “proprio” , diretto, di svolgere un atto linguistico, ovvero che in una lingua sia codificato, per ogni atto linguistico, un modo pro­ prio di svolgerlo linguisticamente: ad esempio, per gli ordini l’italiano dispone di uno specifico modo verbale; per le domande esistono in italiano un’intonazione e degli avverbi o pronomi specifici, in inglese delle regole di trasformazione sintattica. Tuttavia nelle diverse lingue esistono di solito modalità di esecuzione di un effetto perlocutivo at­ traverso atti linguistici indiretti a tal punto codificate nell’uso che ri­ sulterebbe probabilmente difficile qualificarle come atti linguistici in­ diretti per un parlante anche colto ma non addestrato alla riflessione metalinguistica (o non avviato alla teoria degli atti linguistici). Il fatto, ad esempio, che l’enunciato / sia, dal punto di vista superficiale, una domanda relativa alle reazioni dei presenti all’apertura della finestra e non una richiesta della sua apertura, non è probabilmente presente

118

-

Vi spiace se apriamo la finestra? No

senza che nessuno si offra di eseguire l’azione, suonerebbe inappro­ priata o incompleta, oppure verrebbe interpretata come un beffardo diniego del permesso. Ciò accade perché nessun parlante nativo ita­ liano interpreterebbe la domanda in (53) come domanda che “indi­ rettamente” avanza una richiesta: essa viene semplicemente interpre­ tate come richiesta. Il richiedere attraverso una domanda sul disturbo che tale richiesta arreca è un modo convenzionale altamente routina­ rio di avanzare richieste, in italiano e in molte altre lingue. Questo, evidentemente, crea una difficoltà nel fissare un confine fra atti lin­ guistici diretti e indiretti. In molti casi, inoltre, mentre è chiaro l’ef­ fetto performativo che il parlante vuole produrre con un certo enun­ ciato, ovvero è chiara la sua intenzione comunicativa, l’atto linguistico “indiretto” , la descrizione della forza illocutiva effettivamente realiz­ zata, l’atto linguistico “ diretto” , non è così facile da identificare. Lina domanda come: (54)

Posso aprire la finestra?

potrebbe essere interpretata come un atto linguistico diretto (una ri­ chiesta di permesso) che sfrutta il verbo potere nella sua accezione deontica 8. In questo caso il parlante si starebbe informando sul fatto che gli sia consentito aprire la finestra, Ma l’enunciato potrebbe essere inter­ pretato come un atto linguistico indiretto (una domanda relativa alla capacità del parlante di eseguire l’azione) che sfrutta il verbo potere nella sua accezione dinamica 9.

8. Si intende con modalità deontica la modalità relativa a divieti e permessi, pro­ pria del verbo potere in enunciati come: “ In queste aule non si può fumare” . 9. Si intende con modalità dinamica la modalità relativa a capacità ed abilità, propria anch’essa del verbo potere in enunciati come: “Un ghepardo può raggiungere i 100 chilometri orari” .

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Probabilmente nessun parlante percepisce la seconda possibilità come effettiva; nessuno interpreterebbe ad esempio la seguente ri­ sposta: (55) -

Posso aprire la finestra? Ma certo!

come una valutazione delle capacità del parlante (“ ma certo che è in grado di aprirla!” ) anziché come una concessione di permesso (“ma certo che ha il permesso di aprirla” ). Eppure, il verbo potere ha en­ trambe le accezioni e, anzi, la prima accezione - la modalità deontica - si è storicamente sviluppata dopo la seconda - la modalità dinamica - e a partire da essa. La fissazione del valore deontico sul verbo pote­ re ha avuto origine proprio dal suo uso in contesti come quelli ora visti: il frequente ricorso, per esprimere richieste di permesso, a do­ mande relative alla capacità di eseguire un dato compito, ha portato alla cristallizzazione di tale uso; in una seconda fase, si è di conse­ guenza verificata sul verbo esprimente capacità una semantizzazione del valore deontico di richiesta di permesso. L ’atto linguistico indi­ retto, altamente routinario, di domanda sulla capacità usata come ri­ chiesta di permesso ha agito come “ponte” verso la creazione prima e poi la fissazione di questo nuovo valore sul verbo potere. La distinzione sfumata e mutevole nel tempo fra atto linguistico diretto e indiretto mostra quale importante parte abbia nella comuni­ cazione umana la comunicazione non letterale, indiretta. L ’interpreta­ zione dei messaggi, anche quando questi non esprimono direttamente ciò che intendono, avviene ugualmente e in modo corretto perché gli interlocutori si basano, più che sulla semplice decodifica di ciò che il parlante dice, sull’interpretazione - guidata dal contesto, oltre che dal messaggio - delle sue intenzioni. Questo aspetto fondamentale della comunicazione umana è magistralmente raccontato da Italo Calvino nell’episodio II fischio del merlo: (56)

I merli arrivano sul tardo pomeriggio [...]. La signora Palomar è in giardino anche lei, che innaffia le veroniche. Dice: - Eccoli, - enuncia­ zione pleonastica (se sottintende che il marito stia già guardando i merli) o altrimenti (se lui non li avesse visti) incomprensibile, ma co­ munque intesa a stabilire la propria priorità nell’osservazione dei merli (perché effettivamente è stata lei la prima a scoprirli e a segnalarne le abitudini al marito) e a sottolineare l’immancabilità delle loro appari­ zioni, già da lei tante volte registrate. - Sssst - fa il signor Palomar, apparentemente per impedire che sua moglie li spaventi parlando ad alta voce [...] ma in realtà per conte­ 120

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stare il vantaggio della moglie dimostrando una sollecitudine per i merli molto maggiore di quella di lei. Allora la signora Palomar dice: - Da ieri è di nuovo secca, - intenden­ do la terra nell’àiòlà che sta innaffiando, comunicazione in sé super­ flua, ma intesa a dimostrare, col continuare a parlare e col cambiare discorso, una confidenza coi merli molto maggiore e più disinvolta di quella del marito (Calvino, Palomar, pp. 26-8). La classificazione e descrizione dei diversi tipi di atti linguistici, che pure ha il merito di tentare di catalogare i vari modi dell’agire lingui­ stico e le regole per questa forma di azione, concentra l’attenzione, nella forma classica qui presentata, maggiormente sulle forme della codificazione che non sulle modalità problematiche dell’interpretazio­ ne delle intenzioni del parlante. A questi aspetti della comunicazione umana sarà invece maggiormente dedicato il lavoro di Grice (1957, 1967), la cui teoria della conversazione nasce nello stesso periodo e su presupposti analoghi alla teoria degli atti linguistici di Austin (1962), ma si sviluppa in direzioni diverse, su cui torneremo specialmente nel c a p . 5. 4 ·2

Asserzioni, inferenze, presupposizioni

4.2.1. Asserzioni Grazie alla teoria degli atti linguistici abbiamo potuto rendere più ar­ ticolata la descrizione dell’enunciato in discorso, superando l’idea che il significato di un enunciato coincida con la propria rappresentazione semantica ovvero il proprio contenuto proposizionale. Questo, abbia­ mo visto, vale anche per l’atto linguistico di asserzione, che appare come il meno marcato ed è spesso privo di marcatori espliciti di for­ za illocutiva: con un’asserzione il parlante si impegna a riguardo della verità del contenuto proposizionale che pronuncia. L ’impegno sulla verità di uno stato di cose può essere espresso con diversi gradi di forza e certezza. Il diverso impegno che può esse­ re assunto attiene alla sfera della modalizzazione dell’enunciato, in particolare nelle due categorie della modalità espistemica ed eviden­ ziale. Sotto la modalità o modalizzazione epistemica rientra la varia­ zione del grado di certezza sulla verità dello stato di cose espresso. Fra i due enunciati che seguono, la variazione della modalità episte­ mica è legata all’uso dell’avverbio forse: in a abbiamo l’asserzione di una certezza, in b l’asserzione di una probabilità. 121

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(57)

a) È scoppiato un petardo b) Forse è scoppiato un petardo

Anche l’uso della flessione verbale o di verbi modali può trasmettere la stessa variazione, come è il caso in italiano del futuro - chiamato, con questo valore, futuro epistemico - e del verbo dovere: (58)

Proprio in quel momento la padrona lo chiamò da capo. Voleva sape­ re se avesse visto il padrone. Colui rispose di no, sgarbatamente. «Sarà in Duomo, il signor padrone» disse la cameriera - (Fogazzaro, Piccolo mondo moderno, Rif. 1,1.7) (cfr. “È in Duomo”) (59) Una volta fui condotto a vedere l’abbazia di Praglia, negli Euganei, che Lei conosce; dev’essere a sei o sette miglia da qui (Fogazzaro, Pic­ colo mondo moderno, Rif. 2,1.56) (cfr. “È a sei o sette miglia da qui” ) mentre con l’uso combinato di indicativo, condizionale e congiuntivo si può legare la verità di uno stato di cose alla verità di un secondo stato di cose e, inoltre, esprimere la diversa possibilità di realizzazio­ ne del secondo stato di cose: (60) a) Se è scoppiato un petardo ci saranno i resti a terra b) Se fosse scoppiato un petardo ci sarebbero i resti a terra La modalità evidenziale riguarda invece la variazione del tipo di pro­ ve (evidence in inglese) che il parlante è in grado di addurre a ga­ ranzia della verità dello stato di cose proferito. L ’italiano può distin­ guere, attraverso la flessione verbale, fondamentalmente fra due valo­ ri: la personale assunzione di impegno da parte del parlante e la sua deresponsabilizzazione attraverso il riferimento ad altra fonte. Nell’e­ nunciato seguente, l’uso del condizionale segnala che riguardo allo stato di cose gli avvisi di garanzia sono sette il giornalista che scrive non ha prove dirette e non si impegna personalmente sulla verità, li­ mitandosi a riferire un’altra fonte non precisata IO*:

io. In italiano l ’espressione della modalità evidenziale non è obbligatoria, ovvero non è necessario segnalare in ogni asserzione se per quanto si asserisce si hanno prove dirette o indirette: il modo indicativo del primo enunciato in (61), infatti, non indica necessariamente che chi parla ha prove dirette di quanto afferma, ma semplicemente che non ha ragioni di dubitare che quanto afferma sia vero. In questo senso, il se­ gnalare che non si hanno prove dirette è un modo per prendere le distanze e, quindi, marcare il proprio scetticismo su quanto si riporta o, semplicemente, una volontà di distinguere con precisione informazioni più o meno verificate.

122

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(61)

Con lui sono finite dietro le sbarre altre sei persone, coinvolte a vario titolo nel giro d’affari che aveva messo in piedi il magistrato. Sarebbero sette, invece, gli avvisi di garanzia (“Corriere della Sera”, 15 giugno

1994) In turco, l’opposizione di modalità evidenziale appena vista è obbli­ gatoria: il turco possiede cioè nella propria flessione verbale un modo apposito per l’asserzione di fatti di cui si ha conoscenza diretta e uno per l’espressione di fatti di cui si ha conoscenza indiretta. In altre lingue è possibile marcare un maggior numero di sfumature, come la possibilità di segnalare, oltre alle due tipologie appena viste, se quan­ to si afferma è frutto di verità universali o mitiche e pertanto non soggette a dubbio (cfr. Palmer, 1986). Abbiamo già visto (cfr. p a r r . 3.1.6 e 4.2.4) che il test della nega­ zione è utile a distinguere diversi livelli di significato che un enun­ ciato può trasmettere. Nelle asserzioni, come abbiamo visto, la nega­ zione vale normalmente come negazione del contenuto proposiziona­ le, ma possiamo avere anche una negazione della forza illocutiva. Nell’enunciato (62), in cui abbiamo un marcatore esplicito di forza illocutiva - il verbo dire - , può essere negato il contenuto proposi­ zionale (in (63)a) o la forza assertiva (in (63)b)\ (62) Dico che la Triestina tornerà in serie A (63) a) Dico che la Triestina non tornerà in serie A b) Non dico che la Triestina tornerà in serie A La negazione in (63)b indica che quanto si sta pronunciando non va inteso come un’asserzione, cioè come una verità su cui ci si impegna, ma come un atto linguistico di altro tipo, ad esempio una speranza, un’aspettativa, una supposizione 11. Dell’interazione tra forza illocutiva, negazione e contenuto propo­ sizionale torneremo ad occuparci nel p a r . 4.2.4.

11. Una negazione di tipo metalinguistico è invece la seguente, in cui l ’uso pecu­ liare della negazione è segnalato da un profilo prosodico particolare, con un accento marcato sul verbo: “La Triestina non tornerà in serie A, dato che è già in serie A da diversi anni” . In questo caso la negazione non riguarda il contenuto proposizionale dell’enun­ ciato, ma il solo verbo tornare, o, più esattamente, la selezione di tale verbo nel conte­ sto: ciò che è in discussione non è se la Triestina sarà o meno in serie A, ma se l’uso dell’espressione tornare, o del tempo verbale futuro, sia appropriato nel contesto dato. E quindi una negazione di tipo metalingustico, perché non verte sul contenuto del messaggio ma sull’espressione linguistica usata per trasmetterlo. Per il valore dell’ac­ cento sul lessema verbale cfr. anche par . 3.1.8.

123

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4.2.2. Inferenze e conseguenze

penserebbe prima che a una squadra di calcio a una squadra di rug­ by, o di baseball). Altre inferenze, come quella per cui:

Abbiamo già avuto modo di dire in più circostanze che ogni nuovo enunciato in un discorso contribuisce all’incremento dell’informazio­ ne nel discorso stesso. L ’informazione nuova non cade in un contesto neutro, non si somma semplicemente all’informazione precedente, ma si combina con essa. La comprensione dell’enunciato seguente, ad esempio: (64)

La Triestina torna in serie A

sarà resa possibile dal fatto che l’ascoltatore è in grado, oltre che di decodificare il significato dei diversi costituenti e della struttura pro­ posizionale nel suo complesso, di individuare il referente reale corri­ spondente alle descrizioni definite la Triestina, serie A - per cui, ad esempio, interpreterà correttamente l’enunciato solo se saprà attribui­ re alla prima un referente di tipo “ squadra sportiva della città di Trieste” e non invece “ donna abitante a Trieste” ; come abbiamo già osservato, non è necessario che l’ascoltatore sia a conoscenza prece­ dentemente dell’esistenza di questo referente reale: il fatto stesso che l’asserzione venga interpretata fa scaturire informazioni supplementa­ ri, che non sono contenute nell’asserzione, ma che nascono come ipo­ tesi necessarie perché questa possa essere accettabile nel discorso in atto. L ’asserzione di un enunciato, oltre ad affermare la verità della proposizione che trasmétte, suggerisce o sottintende quindi anche la verità di proposizioni collegate ad essa: queste proposizioni, nel loro complesso, sono dette inferenze. I meccanismi da cui originano le in­ ferenze sono diversi: alcune inferenze sono dovute al significato in­ trinseco delle parole che compongono un enunciato, altre scaturisco­ no dal significato della proposizione, altre ancora all’intero insieme di conoscenze - frame - che un’asserzione attiva con sé. Le seguenti proposizioni ad esempio: (65)

a) b) c) d)

La Triestina è una squadra di calcio La serie A è la massima serie del campionato di calcio La Triestina giocherà l’anno prossimo in serie A La Triestina si è classificata bene nel campionato di B di que­ st’anno

sono attivate dall’asserzione in (64) grazie alla conoscenza che l’ascol­ tatore ha del frame “ campionato di calcio italiano” e, ancor più in generale, a quello relativo allo “ sport in Italia” (in altre nazioni si

124

(66)

e) Esiste una squadra di calcio chiamata Triestina

sono invece legate alla natura della proposizione di partenza e dei suoi sintagmi, in particolare al fatto che il costituente la Triestina ab­ bia una referenza determinata (cfr. cap . 2 ). S u questo torneremo nel PAR. 4 .2 .3 . Infine, inferenze come: (67) f) La Triestina era già stata in serie A g) La Triestina non è attualmente in serie A sono legate al significato del verbo tornare. Le inferenze hanno poi un comportamento variabile per quanto riguarda la loro cogenza: alcune inferenze discendono necessariamen­ te da un’asserzione, mentre altre sono solo supposizioni favorite dal­ l’asserzione, ma non sono obbligatorie, e quindi la loro smentita è possibile. Questo diverso valore è ben messo in evidenza dall’intera­ zione fra negazione, asserzione e inferenza. Di alcune inferenze scatu­ rite da un’asserzione è infatti possibile negare la validità (cioè asse­ rirne la non verità) senza generare un contesto contraddittorio. Ad esempio, è possibile asserire la verità di (64) e contemporaneamente negare la verità di {65)0, senza che questo sia contraddittorio: (68)

La Triestina torna in serie A, ma non giocherà in serie A l’anno pros­ simo (dato che la sua partecipazione ai tornei calcistici verrà sospesa per un anno a scopo sanzionatorio)

Alcune inferenze sono quindi ipotesi che l’ascoltatore fa naturalmente in seguito ad un’asserzione a meno che evidenze contrarie alle infe­ renze stesse non suggeriscano che esse non sono valide. Altre inferenze non sono invece facoltative, ma obbligatorie, cioè discendono obbligatoriamente dall’asserzione: in questo caso parlia­ mo più precisamente di implicitazioni o conseguenze I2. Quando una proposizione a produce come inferenza obbligatoria una proposizione b, si dice che a implica b. Un’asserzione congiunta alla smentita di

12. ‘Implicitazione’ e ‘conseguenza’ rendono il termine inglese di entailment-, ‘in­ ferenza’ l’inglese implicatiotr, nel par . 5 .1 useremo ‘implicatura’ per l’inglese implicature.

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una sua conseguenza genera una contraddizione, come nel caso se­ guente:

Inferenze che non vengono intaccate dalla negazione di un enunciato, cioè che si producono sia a partire da un’asserzione sia dalla sua ne­ gazione, sono dette presupposizioni (presupposition). Le presupposi­ zioni non sono comparabili alle inferenze obbligatorie che abbiamo chiamato conseguenze, per almeno due motivi. In primo luogo, come si è appena visto, a differenza delle conseguenze le presupposizioni non sono cancellate da una smentita o da un’asserzione negativa. In secondo luogo, le presupposizioni sono talvolta cancellabili, ovvero possono essere eliminate dall’insieme delle inferenze qualora il conte­ sto lo suggerisca. Ad esempio, la presupposizione sull’esistenza della squadra del Torino è un’inferenza necessaria dell’asserzione positiva, cioè non è confutabile a meno di creare un enunciato inaccettabile, come mostra l’inaccettabilità dell’esempio seguente:

(69)

*La Triestina torna in serie A ed era attualmente in serie A (asserzione di (64) e negazione di (67)^: contraddizione)

La contraddittorietà dell’enunciato in (69) mostra che l’inferenza ri­ portata in {6j)g\ La Triestina non è attualmente in serie A è un’inferenza obbligatoria, cioè una conseguenza dell’asserzione in (64) o, altrimenti detto, mostra che (64) implica (6j)g. 4.2.3. Presupposizioni

(74)

(70)

Il Torino giocherà in serie B l’anno prossimo

porta una serie di inferenze, fra le quali il fatto che esista una squa­ dra che si chiami Torino, che essa giocherà il prossimo campionato e - sapendo che la Juventus giocherà in serie A - che il classico derby l’anno prossimo verrà a mancare. Se l’enunciato viene smentito: (71)

-

Il Torino giocherà in serie B l’anno prossimo Non è vero

questa smentita cancella l ’inferenza relativa al derby, ma non cancel­ la le inferenze relative all’esistenza della squadra, né alla sua parteci­ pazione al prossimo campionato. Anzi, queste inferenze sono gene­ rate non solo dall’asserzione positiva di (70) ma anche dalla sua ne­ gazione: (72)

Il Torino non giocherà in serie B l’anno prossimo

Quindi, tanto l’asserzione positiva quanto quella negativa attivano al­ meno due inferenze identiche: (73)

a) Il Torino giocherà in serie B l’anno prossimo b) Il Torino non giocherà in serie B l’anno prossimo Inferenze: Esiste una squadra che si chiama Torino Il Torino parteciperà al campionato l’anno prossimo

126

*11 Torino giocherà in serie B l’anno prossimo e non esiste alcuna squadra che si chiami così

Quando un’asserzione viene smentita o negata, alcune inferenze ven­ gono cancellate, altre no. L ’enunciato seguente, ad esempio:

ma è un’inferenza cancellabile per l’asserzione negativa, come mostra l’esempio seguente che, per quanto anomalo, non è inaccettabile: (75)

Il Torino non giocherà in serie B l’anno prossimo, e anzi non esiste alcuna squadra che si chiami cosìI3.

Le presupposizioni costituiscono la parte deU’info'rmazione portata dall’enunciato che è data per presupposta e condivisa dai parlanti, e che, perciò, non viene messa in discussione da una negazione o da una smentita dell’asserzione stessa. Dal punto di vista della struttura informativa, le presupposizioni costituiscono quindi informazione di background, mentre l’informazione effettivamente asserita è legata alla parte focale: la genesi delle presupposizioni è quindi correlata al­ l’articolazione in focus-background, come vedremo nel p a r . 4.2.4. Le presupposizioni che si attivano a partire da un’asserzione pos­ sono originare tanto dalla sua struttura informativa quanto da parti­ colari elementi lessicali, verbali o nominali, che hanno la proprietà di attivare presupposizioni. Il più classico esempio di presupposizione è la presupposizione di

13 . In questo caso la negazione assume facilmente una lettura metalinguistica, congiunta a un’intonazione particolare: “ Il Torino non giocherà in serie B l’anno prossimo: non esiste nessuna squadra che si chiami così” .

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esistenza del referente di una descrizione definita determinata. Nel caso della proposizione:

positiva implica quindi l’esistenza del referente complemento, mentre in una proposizione negativa tale implicitazione viene cancellata. Par­ tecipare è invece un verbum afficiendi, cioè un verbo che presuppone l’esistenza del referente del sintagma complemento, in quanto l’azione descritta dal verbo è svolta relativamente al referente complemento, ma non ne coinvolge l’esistenza: tanto in proposizione negativa quan­ to in proposizione positiva, quindi, un verbum afficiendi produce una presupposizione positiva riguardo all’esistenza del referente comple­ mento (cfr. par . 2.2.2). Rilevante per la presupposizione di esistenza di un referente è an­ che la natura del verbo reggente quando il referente in questione sia inserito in una proposizione complemento di un’altra. E pertinente in questo senso la distinzione fra almeno tre tipi di verbi: i verbi impli­ cativi (positivi e negativi), i verbi fattivi (e controfattivi) e i verbi non fattivi (cfr. Karttunen, 1969 e osservazioni in Conte, 1977). Questi tipi di verbi generano inferenze diverse a proposito delle proposizioni complemento. Si dicono verbi implicativi (positivi e negativi) i verbi che implica­ no la verità (o non verità) della proposizione complemento. Un verbo implicativo positivo è ad esempio permettersi·.

(76) Il Torino giocherà in serie B l’anno prossimo come abbiamo visto, tanto la sua asserzione quanto la sua negazione presuppongono l’esistenza di una squadra chiamata Torino. Tuttavia, la presupposizione di esistenza di un referente è legata anche al ruolo che il costituente che introduce il referente svolge nella proposizione, e al tipo di proposizione in cui è inserito, in particolare al tipo di verbo. Si osservi: (77) a) Il professor Volpi ha partecipato a una festa di fine corso orga­ nizzata dagli studenti Inferenza: Esiste una festa di fine corso b) Il professor Volpi non ha partecipato a una festa di fine corso or­ ganizzata dagli studenti Inferenza: Esiste una festa di fine corso In questo caso, evidentemente, l’esistenza del referente “festa di fine corso” è presupposta, poiché tanto l’asserzione della proposizione quanto la sua negazione producono un’inferenza relativa alla sua esi­ stenza. Nel caso seguente tuttavia questo non si verifica I4: (78) a) Gli studenti hanno preparato una festa di fine corso Inferenza: Esiste una festa di fine corso b) Gli studenti non hanno preparato una festa di fine corso No inferenza: Esiste una festa di fine corso La differenza di comportamento fra i due enunciati dipende eviden­ temente dal diverso significato dei verbi partecipare e preparare. Nei termini di Conte (1977), preparare è un verbum efficiendi, cioè un ver­ bo che implica l’esistenza del referente del sintagma complemento, in quanto è l’azione stessa descritta dal verbo che produce l’esistenza del referente complemento. Un verbum efficiendi in una proposizione

14. Naturalmente, la “ festa di fine corso” esiste, come istituzione, e come tale viene evocata dall’uso stesso dell’espressione. Ciò a cui ci si riferisce parlando di “esi­ stenza di un referente” , in tutto il capitolo, è la sua esistenza, ovvero la sua instaura­ zione, come referente testuale all’interno del discorso in atto. In questo senso, il fatto che la “festa di fine anno” non esista come referente testuale è mostrato dall’impossibilità di essere oggetto di ripresa anaforica: *G li studenti non hanno preparato una festa di fine corso. La festa è durata fino alle quattro del mattino.

128

(79) a) Nicoletta si è permessa di avvertire gli amici. Inferenza: Nicoletta ha avvertito gli amici b) Nicoletta non si è permessa di avvertire gli amici. Inferenza: Nicoletta non ha avvertito gli amici Come si osserva, l’asserzione che sfrutta un verbo implicativo positivo implica la verità della proposizione complemento, mentre l’asserzione negativa ne implica la non verità. Un verbo implicativo negativo, come dimenticarsi, ha un effetto simmetrico: (80) a) Giorgio si è dimenticato di avvertire gli amici. Inferenza: Giorgio non ha avvertito gli amici b) Giorgio non si è dimenticato di avvertire gli amici. Inferenza: Giorgio ha avvertito gli amici Nei casi visti in (79) e (80), la verità o non verità della proposizione complemento non ha conseguenze sull’esistenza del referente testuale “gli amici” , perché il verbo della proposizione complemento, ovvero il verbo che regge il complemento gli amici, è un verbum afficiendi e come tale presuppone l’esistenza del referente testuale complemento. Tuttavia, se il verbo della proposizione complemento è un verbum efficiendi, come il verbo scrivere nel predicato scrivere una lettera, la

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4 . F R A S E , P R O P O S IZ IO N E E D E N U N C IA T O

presenza di un verbo implicativo negativo o di un verbo implicativo positivo negato cancella l’inferenza di esistenza del referente testuale complemento, in questo caso “una lettera” :

Si comportano allo stesso modo anche alcuni verbi che esprimono un cambiamento di stato, ad esempio smettere:

a) Daniele si è permesso di scrivere una lettera di protesta Inferenza: Esiste una lettera di protesta scritta da Daniele b) Daniele non si è permesso di scrivere una lettera di protesta No inferenza: Esiste una lettera di protesta scritta da Daniele. (82) a) Daniele si è dimenticato di scrivere una lettera di protesta No inferenza: Esiste una lettera di protesta scritta da Daniele b) Daniele non si è dimenticato di scrivere una lettera di protesta Inferenza: Esiste una lettera di protesta scritta da Daniele.

(84)

(81)

Si definiscono invece verbi fattivi i verbi che presuppongono la verità dell’evento espresso dalla proposizione complemento, come sapere: (83) a) Anna sa di aver ereditato una casa in collina Inferenza: Anna ha ereditato una casa in collina b) Anna non sa di avere ereditato una casa in collina Inferenza: Anna ha ereditato una casa in collina. L ’uso del verbo sapere rende presupposta la verità della proposizione complemento. Di conseguenza, i verbi fattivi presuppongono resi­ stenza del referente complemento anche quando esso dipenda da un verbum efficiendi, quale ad esempio ereditare. Essendo, nell’esempio proposto, la proposizione “Anna ha ereditato una casa in collina” presupposta come vera, l’esistenza del referente “ casa in collina” non è messa in discussione e perciò non cade sotto la cancellazione opera­ ta dalla negazione 1}.

13. Se la proposizione complemento fosse di segno negativo, il discorso sarebbe ovviamente rovesciato: tanto l’asserzione quanto la negazione dell’enunciato presup­ porrebbero la non verità della proposizione complemento e, di conseguenza, qualora essa contenesse un verbum efficiendi, il referente complemento non avrebbe presup­ posizione di esistenza: Anna sa di non aver ereditato una casa in collina Inferenza: Anna non ha ereditato una casa in collina; la casa in collina di Anna non esiste Anna non sa di non avere ereditato una casa in collina Inferenza: Anna non ha ereditato una casa in collina; la casa in collina di Anna non esiste Ciò che provocano i verbi fattivi è quindi di “bloccare” le inferenze relative alla pro­ posizione complemento sul valore - positivo o negativo - da esse espresso: tali infe­ renze vengono cioè, ripetiamo ancora, presupposte e non messe in discussione.

130

a) Piero ha smesso di fumare Inferenza: Piero fumava b) Piero non ha smesso di fumare Inferenza: Piero fumava

Viceversa, i verbi controfattivi presuppongono la non verità del fatto subordinato e, di conseguenza, quando esso dipenda da un verbum efficiendi, quale ad esempio ereditare, presuppongono la non esisten­ za del referente complemento: (83)

a) Anna ha finto di ereditare una casa in collina Inferenza: Anna non ha ereditato una casa in collina b) Anna non ha finto di ereditare una casa in collina Inferenza: Anna non ha ereditato una casa in collina 16

Infine, si definiscono verbi non fattivi i verbi che non attivano alcun tipo di inferenza, né positiva, né negativa sulla verità della proposi­ zione complemento. Sono di questo tipo ad esempio i verbi di opi­ nione: (86)

a) Guido crede di avere un’ulcera allo stomaco b) Guido non crede di avere un’ulcera allo stomaco

16. Come in altri casi già visti, una negazione metalinguistica potrebbe cancellare questa inferenza: Anna non ha fin to di ereditare una casa in collina, l’ha veramente ereditata. Vale poi per i controfattivi il discorso già fatto per i fattivi: se la proposizione com­ plemento è di segno negativo, la presupposizione relativa al referente cambia di segno e diventa positiva: Anna ha finto di non avere ereditato una casa in collina Inferenza: Anna ha ereditato una casa in collina; la casa in collina di Anna esiste Anna non ha finto di non aver ereditato una casa in collina Inferenza: Anna ha ereditato una casa in collina; la casa in collina di Anna esiste L e inferenze relative a quest’ultima asserzione sono tuttavia piuttosto poco chiare per l ’innaturalezza dell’enunciato che potrebbe molto più facilmente veicolare lo stesso tipo di informazione attraverso una proposizione positiva: Anna ha ammesso di avere ereditato una casa in collina Data l’esistenza di una forma più lineare di espressione di questa informazione, l’uso dell’enunciato con doppia negazione lascia più facilmente propendere per la lettura metalinguistica della negazione: Anna non ha fin to di non avere ereditato una casa in collina: purtroppo è la pura verità, non ha ereditato niente.

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4 . F R A S E , P R O P O S IZ IO N E E D E N U N C IA T O

Dato che non hanno effetto sulle condizioni di verità delle proposi­ zioni complementi, i verbi non fattivi sono “trasparenti” anche rispet­ to alle presupposizioni di esistenza dei referenti espressi dai costi­ tuenti complemento della proposizione dipendente, che dipendono quindi solo dal tipo di proposizione e verbo espresso nella dipen­ dente. Altre presupposizioni sono attivate a partire da strutture sintatti­ che specifiche, e sono legate alla struttura informativa dell’enunciato: questi casi sono discussi nel prossimo paragrafo.

La relazione fra elementi presupposti e asseriti in un enunciato è particolarmente chiara nel caso di enunciati con strutture di focalizzazione marcata: in questo caso infatti la porzione focale è ben indivi­ duata da una struttura sintattica o prosodica, e la delimitazione della proposizione di background è chiara. La frase scissa, ad esempio, ge­ nera una presupposizione che è costituita dall’intera proposizione di background ad esclusione dell’elemento focale. La proposizione pre­ supposta contiene un elemento aperto (nell’esempio riportato in (96) qualcuno) che è quello saturato nell’asserzione dall’elemento focale:

4.2.4. Asserzioni e struttura informativa Intersecando gli studi sulla presupposizione all’analisi della struttura informativa dell’enunciato, e in particolare alle opposizioni focus/ background e topic/comment, è possibile individuare delle relazioni precise fra questi livelli di strutturazione dell’enunciato e la genesi delle presupposizioni. Abbiamo visto nel par . 3.1.6 che l’articolazione informativa di un enunciato è descrivibile, per quanto riguarda l’articolazione in focus e background, con questa struttura: (87)

(89)

a) Fu il governo Giolitti a rilanciare le campagne coloniali b) Non fu il governo Giolitti a rilanciare le campagne coloniali Presupposizione e proposizione di background: Qualcuno rilanciò le campagne coloniali

Allo stesso modo si comportano altre strutture focalizzanti come le domande chiuse e le asserzioni in cui il focus è modificato da un focalizzatore come solo·. (90)

Dico che per P(x), x = f 1718

a) Quale governo rilanciò/non rilanciò le campagne coloniali? b) Solo il governo Giolitti rilanciò/non rilanciò le campagne coloniali Presupposizione e proposizione di background: Qualcuno rilanciò le campagne coloniali

in cui la proposizione P(x) è la proposizione di background a propo­ sito della quale è asserito valere il focus f. Ora, nei termini dell’oppo­ sizione appena vista fra asserzione e presupposizione, possiamo indi­ viduare nella proposizione P(x) una proposizione presupposta, la cui validità non è messa in discussione - ovvero, non è oggetto dell’asser­ zione -, mentre la proposizione “ x = f ” è effettivamente asserita. La negazione dell’enunciato agisce su tale proposizione:

Si osservi che questa presupposizione non è invece condivisa dall’as­ serzione priva di marche di focalizzazione, ovvero a focus ampio, completivo (cfr. par . 3.1.5).

(88)

17. Riprendiamo qui sostanzialmente l ’impostazione di Lambrecht (1994). A b­ biamo aggiunto nello schema la marca “ dico che” come indicatore di forza assertiva. Non è infatti semplicemente il contenuto proposizionale, e nemmeno un contenuto proposizionale articolato in focus e background, a generare presupposizioni, ma il fat­ to che esso sia asserito in un determinato contesto discorsivo. 18. Questa può essere invece smentita, pragmaticamente, daH’incompatibilità con altre proposizioni già date per valide all’interno del discorso.

Questo non significa che la negazione delle asserzioni prive di strut­ ture focalizzanti ne distrugga completamente le inferenze. Tuttavia, nelle frasi a focalizzazione completiva, è più sfumato il confine fra l’informazione focale e l’informazione di background e, di conseguen­ za, è più incerta la natura, di presupposizione o di semplice inferen­ za, delle diverse inferenze legate all’enunciato. Come abbiamo già avuto modo di osservare nei parr . 3.1.5 e 3.1.8, il seguente enuncia­ to, pronunciato con intonazione neutra e isolato dal contesto, può avere un’estensione del focus variabile dal singolo costituente finale (o una porzione di esso) all’intera proposizione:

132

133

Dico che per P(x),

non

(x=f)

e non intacca la validità della proposizione P(x) lS.

(91)

a) Il governo Giolitti rilanciò le campagne coloniali Inferenza: Qualcuno rilanciò le campagne coloniali b) Il governo Giolitti non rilanciò le campagne coloniali ?Inferenza: Qualcuno rilanciò le campagne coloniali

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(92)

I giallorossi hanno segnato il secondo goal allo scadere del primo tem­ po supplementare

La portata della negazione, di conseguenza, può avere diversa esten­ sione. La semplice smentita dell’enunciato precedente di per sé è am­ bigua, potendo voler smentire informazioni di estensione diversa: il momento in cui è avvenuto il goal, il fatto che si sia trattato del se­ condo goal, oppure anche che l’intero evento sia avvenuto, o altro ancora. I giallorossi hanno segnato il secondo goal allo scadere del primo tempo supplementare - Ma niente affatto! a) = La Roma ha segnato il secondo goal in un altro momento b) = In quel momento la Roma ha segnato il terzo goal c) = La partita è terminata zero a zero

4 . F R A S E , P R O P O S IZ IO N E E D E N U N C IA T O

(96)

Poiché la negazione non va normalmente oltre i confini della singola proposizione, essa non intacca la verità delle proposizioni subordinate. (97)

(93) -

L ’indeterminatezza della portata della negazione, in un enunciato a focus completivo, è data dalla mancanza di una netta delimitazione fra l’informazione focale, e quindi asserita, e quella in background: questa stessa indeterminatezza impedisce all’asserzione a fecalizzazio­ ne completiva di avere presupposizioni chiare relative a una proposi­ zione di background non nettamente delimitata. Ciò non significa che la negazione cancelli ogni inferenza prodotta dall’asserzione di un enunciato a fecalizzazione neutra, ma piuttosto che, in questo tipo di enunciati, non è possibile predire in modo evidente a priori una pre­ supposizione relativa a una proposizione di background condivisa: quale parte dell’informazione portata dall’enunciato sopravviva a una smentita e quale invece venga cancellata dipende interamente dal contesto. Negli esempi seguenti, è il contesto a suggerire che il focus della negazione sia, rispettivamente, il costituente a lungo, la polarità positiva del verbo portare, l’intero predicato vestire la cotta di socio della confraternita del Duomo: (94)

D’estate mio padre abbandonava su una sedia nel tinello il suo pan­ ciotto nel cui taschino si trovavano sempre degli spiccioli: mi procura­ vo i dieci soldi occorrenti per acquistare la preziosa scatoletta e fuma­ vo una dopo l’altra le dieci sigarette che conteneva, per non conserva­ re a lungo il compromettente frutto del furto (Svevo, "La coscienza di Zeno, Rif. 3.5). (95) «Gài porta l’ovo a la Tonina?» Federico dichiarò di non sapere se a mezzogiorno le avessero portato il solito uovo (Fogazzaro, Piccolo mondo moderno, Rif. 1,1.5).

134

«Sarà in Duomo il signor padrone». [...] La vecchia signora sapeva che da qualche tempo suo marito, per certe coperte ambizioni politi­ che, non vestiva più la cotta di socio della confraternita del Duomo (Fogazzaro, Piccolo mondo moderno, Rif. 1,1.7).

Dopo essere entrato nello studio, Watson seguì l’amico b) Dopo essere entrato nello studio, Watson non seguì l’amico Presupposizione: Watson entrò nello studio

a)

Si osservi tuttavia che una proposizione subordinata può, nel suo complesso, costituire il focus di un’asserzione, e come tale la sua vali­ dità può essere cancellata da una smentita. In questo senso le subor­ dinate non sono necessariamente presupposizioni. Nel caso seguente, la smentita dell’enunciato può riguardare o la validità della proposi­ zione principale (cfr. (98)^) o il legame fra subordinata e reggente (ovvero il fatto che la proposizione causale sia la motivazione della proposizione principale, cfr. (98)^) o la validità della proposizione subordinata (cfr. (98)^): (98) a) b) c) -

Andrea è assente perché non si sentiva bene Non è vero (Andrea non è assente) Andrea è assente perché non si sentiva bene Non è vero (il motivo non è quello) Andrea è assente perché non si sentiva bene Non è vero (Andrea sta bene)

Anche la struttura in topic e comment è legata ad alcune presupposi­ zioni. Lambrecht (1994) descrive l’articolazione informativa in topiccomment come una struttura astratta di forma: (99)

A proposito di t, P(t)

in cui t è il costituente topicale e P(t) la predicazione che vi viene attribuita, una presupposizione pragmatica di istituzione del topic del tipo: (100)

Stiamo parlando di t

la quale non viene intaccata dalla negazione dell’enunciato.

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4 . F R A S E , P R O P O S IZ IO N E E D E N U N C IA T O

Su questa base, Lambrecht propone una lettura alternativa della presupposizione che sarebbe legata al referente in topic: ciò che è presupposto nelle descrizioni determinate non sarebbe l’esistenza nel­ la realtà del referente (come abbiamo illustrato nel pa r . 4.2.3, secon­ do la tradizionale impostazione del problema), ma un accordo fra parlante e ascoltatore sulla sua istituibilità come referente testuale. L ’inaccettabilità del noto enunciato:

sivo un referente testuale vulcano Nonnopera passibile di entrare in relazioni di predicazione.

(101)

Il re di Francia è calvo

deriva, in questa prospettiva, dall’impossibilità di accordarsi per l’i­ stituzione nel discorso di un referente testuale “re francese” , data la conoscenza condivisa della sua non esistenza, che impedisce a questa frase di avere un punto di partenza valido da cui avviare la predica­ zione. La frase sarebbe cioè non valida in quanto mancherebbe di un topic valido. Se l’enunciato fosse ad esempio: (102)

Il re di Tanzania è calvo

molti parlanti sarebbero propensi a considerare l’enunciato come ac­ cettabile, benché non siano assolutamente in grado di pronunciarsi sull’esistenza di un re di Tanzania. Ciò che rende l’enunciato in (101) problematico è il fatto che una conoscenza enciclopedica relativa alla non esistenza del referente nella realtà cozza con la necessità richiesta dall’enunciato di una rappresentazione mentale relativa all’esistenza di un re francese, mentre, nel caso del re della Tanzania, l’ascoltatore, a meno che non conosca la forma di governo della Tanzania, in as­ senza di informazioni è disponibile ad accettare la presupposizione di esistenza di un re di Tanzania e, quindi, a produrne un’immagine mentale che funga da punto di partenza della predicazione. Che sia la sua accettabilità come referente testuale all’interno di un discorso e non la sua esistenza nella realtà a rendere accettabile un topic è ov­ viamente mostrato dall’assoluta non problematicità di topic con refe­ renti chiaramente inesistenti come in: (103)

Il vulcano Nonnopera è il monte più alto di Stranalandia (Benni, Stranalandia, p. 16)

in cui, a fronte della certa non esistenza nella realtà del referente “vulcano Nonnopera” , l’enunciato è perfettamente accettabile all’in­ terno di un discorso - ad esempio, nella lettura del libro di Stefano Benni - in cui i parlanti sono disposti a istituire nell’universo discor­

136

4.2.3. Conclusione: tipi di inferenza Nella f ig . 4.3 abbiamo riportato uno schema che include tutti i modi in cui la verità di un contenuto proposizionale può essere veicolata in un enunciato: parte dell’informazione è asserita esplicitamente, men­ tre parte è inferibile a partire dall’asserzione; fra le inferenze possibi­ li, distinguiamo quelle (le presupposizioni) che costituiscono il back­ ground dell’enunciato, e come tali non sono messe in discussione nel caso l’asserzione venga smentita, da quelle che invece sono legate alla verità dell’enunciato; fra queste, distinguiamo quelle (le conseguenze o implicitazioni e le implicature convenzionali, di cui parleremo nel par . 5.1) che discendono obbligatoriamente dall’asserzione e, quindi, non possono essere smentite senza generare contraddizione, da quelle che possono invece essere smentite; fra queste, distinguiamo quelle che scaturiscono dalle regole che governano la conversazione umana (le implicature conversazionali, di cui parleremo nel par . 3.1) da quelle che scaturiscono da altre forme di conoscenza condivisa fra i parlanti, come la conoscenza di frame, le aspettative relative al di­ scorso in atto ecc. (le inferenze generiche). Osserviamo che tutti i tipi di inferenze legate al significato lessicale delle espressioni linguistiche (le conseguenze, le implicature convenzionali e alcune presupposizio­ ni come quelle legate all’uso di verbi fattivi e controfattivi) sono infe­ renze obbligatorie, perché codificate nel lessico, mentre le inferenze che scaturiscono dal contesto discorsivo o extradiscorsivo (le inferen­ ze generiche e le implicature conversazionali) sono inferenze facoltati­ ve, confutabili se il prosieguo del discorso produce informazioni che le contraddicono. Lo schema mostra quindi quanta e quale parte ab­ bia nell’attività comunicativa l’interpretazione dell’ascoltatore a parti­ re dalle informazioni codificate nel messaggio effettivamente espresso. Nella f ig . 4.4 abbiamo invece schematizzato le proprietà che identifi­ cano i diversi tipi di inferenza qui descritti: se esse siano vero-funzio­ nali, ovvero se riguardino i valori di verità di una proposizione; se siano intaccate dalla negazione dell’asserzione da cui originano; se siano cancellabili, ovvero confutabili senza generare contraddizione con l’asserzione da cui originano; se siano calcolabili, ovvero se il processo inferenziale da cui sono generate sia descrivibile in termini, ad esempio, di processi inferenziali o di massime conversazionali, op­ pure sia codificato nel lessico.

137

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

5

FIGURA 4.3

La conversazione

I diversi livelli del contenuto com unicativo di un enunciato significato:

asserito (in m odo esplicito) non assento

presupposto (legato al proferim ento dell’asserzione, non alla sua verità, non messo in discussione): presupposizioni , im plicato

inferito

(necessariamente legato alla verità dell’asserzione): conseguenze o im plicazioni; im plicazioni convenzionali* (legato alla verità d ell’asserzione, valido a meno di smentita): conversazionalmente (in seguito alle massime della conversazione): im plicature conservazionali generalizzate e particolari*

non conversazionalmente (in seguito a cono­ scenze di fram e ecc.): inferenze generiche * Cfr.

par .

5 .1 .

FIGURA 4.4 L e proprietà dei diversi tipi di inferenza

Vero-condizionali

Intaccate dalla negazione

Cancellabili

C alcolabili

Implicitazioni

+

+

-

-

Im plicature convenzionali*

-

+

-

-

Im plicature convers azionali*

-

+

+

+

-

-

Presupposizioni * Cfr.

par.

5.1 .

138

+

-

Quest’ultimo capitolo ci porta ad esplorare ancora l’agire comunicati­ vo, secondo due prospettive molto diverse fra loro e che pure sono entrambe strettamente legate alla teoria degli atti linguistici: la teoria griceana della logica della conversazione e i fondamenti dell’analisi della conversazione di Sacks e Schlegoff (cfr. Sacks, Schlegoff, Jeffer­ son, 1974). Insieme alla teoria degli atti linguistici, il modello della logica del­ la conversazione di Grice (1967) è stato fra i più fecondi approcci di indagine alla pragmatica del discorso ed è nato nello stesso contesto culturale e accademico: la filosofia del linguaggio anglosassone degli anni a cavallo fra cinquanta e sessanta. Il metodo di lavoro ricalca questa matrice filosofica: Grice, come Austin, parte dall’osservazione minuziosa di alcuni enunciati o scambi enunciativi costruiti “in labo­ ratorio” per risalire ai meccanismi di interpretazione e produzione linguistica che stanno alla base della competenza comunicativa di un parlante ideale e, nella sua prospettiva, universale. Viceversa, i metodi dell’analisi della conversazione sono rigorosa­ mente basati sulla descrizione empirica di scambi comunicativi reali, e si impongono un rigoroso «ascetismo teorico» (Levinson, 1983). I risultati cui tali studi sono giunti hanno tuttavia fornito un grado di generalizzazione abbastanza elevato da fornire un corredo di unità di analisi e di nozioni per la descrizione degli scambi comunicativi al­ trettanto fondamentale. L ’obiettivo di questi due filoni di studio, pur così diversi, è in parte analogo: si tratta di ricostruire aspetti della competenza comu­ nicativa dei parlanti, ovvero di descrivere la capacità dei parlanti di usare il linguaggio - o perlomeno la propria lingua - in modo appro­ priato alla situazione comunicativa. L ’attenzione, come già nel c a p . 4, è quindi sempre più spostata dal livello del testo - cioè del prodotto della comunicazione - a quello del discorso - cioè al processo attra­ verso cui il testo si costruisce, al testo come processo dinamico in cui r 39

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

5 . L A C O N V E R S A Z IO N E

la lettera, il codice hanno un valore solo in quanto usati dagli inter­ locutori.

sentandomi mascherata a una festa carnevalizia non sto, con ciò, “vo­ lendo dire” che è carnevale - un comportamento convenzionale che non significa necessariamente qualcosa, benché il fatto di vedermi mascherata sicuramente indurrà chiunque non lo sappia a credere che sia Carnevale. Alla base del modello della convenzionalità c’è un’ipotesi causale sulla natura del significato, ovvero l’idea per cui il significato di un segno è descrivibile sulla base dell’effetto che esso produce normal­ mente in chi ne conosce il significato: ad esempio, la parola italiana ombrello “ significa” un certo oggetto - o una rappresentazione men­ tale di tale oggetto - perché produce, nella mente di chi conosce l’i­ taliano, una rappresentazione mentale dell’oggetto stesso. Tuttavia questo effetto (perlocutivo) non è sufficiente a descrivere la natura del significato: una definizione di questo tipo ricondurrebbe sotto la nozione di significato fenomeni che intuitivamente non vorremmo ri­ condurre ad essa, come nel caso del già citato esempio della festa di Carnevale: il fatto che un mio comportamento suggerisca qualcosa a un osservatore non equivale a dire che quel mio comportamento si­ gnifica quella cosa. Grice mette invece alla base della sua esplorazione del significato non-naturale (o significatoNN) l’intenzione del parlante. La definizione di significatoNN viene formulata in questi termini: un’espressione x si­ gnifica y se con l’espressione x un parlante A intende indurre in un interlocutore B la credenza y attraverso il riconoscimento da parte di B di tale intenzione3. A questo punto ci stiamo ancora muovendo nel campo del signifi­ cato del parlante. E evidente però che è possibile parlare anche di “significato delle espressioni linguistiche” , ovvero del significato che le espressioni linguistiche assumono in modo più o meno stabile in diversi contesti d’uso. Tale significato è visto, nella prospettiva di

5,1

La logica della conversazione 5 .1.1. La teoria del significatoNN La riflessione di Grice parte, ancora una volta, da una questione di taglio filosofico, ovvero dalla tradizionale distinzione fra significato naturale e significato convenzionale L Si fa riferimento al significato naturale, secondo Grice (1957), dicendo che un particolare tipo di macchie rosse sulla pelle “vuol dire” o “ significa” morbillo; si fa inve­ ce riferimento al significato convenzionale quando si dice che un cer­ to squillo di campanello dell’autobus “significa” o “vuol dire” che l’autobus è pieno: il criterio che distingue il primo dal secondo tipo di significato - e che è alla base della distinzione fra ‘sintomi’ e ‘se­ gnali’ - è tradizionalmente identificato nella convenzionalità del se­ condo rispetto alla non convenzionalità del primo: lo squillo del cam­ panello significa ‘autobus pieno’ solo in modo convenzionale, arbitra­ rio, per una convenzione pattuita fra i parlanti e non per una necessi­ tà naturale. Grice (1957) adotta un approccio diverso, identificando come pa­ rametro rilevante per distinguere fra i due tipi di significato non la convenzionalità, ma l’intenzionalità: il primo uso dell’espressione ‘si­ gnificare’ riguarda un significato naturale, non intenzionale, mentre il secondo riguarda un significato non-naturale e intenzionale. Conven­ zionalità e intenzionalità non sono necessariamente correlate: esistono cioè modi non-naturali - ovvero intenzionali - di significare qualcosa che non sono convenzionali e, d’altro canto, non tutte le convenzioni hanno l’intenzione di significare qualcosa. Ad esempio, posso voler dire a un amico che fuori piove sventolando davanti ai suoi occhi l’ombrello che ho portato con me entrando 12 - un modo non conven­ zionale di comunicare intenzionalmente qualcosa - e, d’altronde, pre­ 1. Il traduttore dei principali saggi di G rice sul significato e sulla logica della conversazione adotta l’espressione voler dire per rendere l’uso griceano del verbo meati. Noi qui useremo alternativamente significare e voler dire con lo stesso valore. 2. Si osservi che non possiamo comunque dire che lo sventolare un ombrello “ significhi” ‘fuori piove’. L ’attenzione in questa fase della discussione è centrata sul “ significato del parlante” , ovvero sul significato che un dato segno assume in un dato contesto, e non sul “ significato delle espressioni” , ovvero sul significato che una data espressione possiede a-contestualmente.

140

3. Questa seconda precisazione - la necessità che vi sia un’intenzionalità del par­ lante e che l’interlocutore la riconosca - è necessaria per evitare di includere fra i significati di un’espressione tutte le procedure attraverso le quali si può indurre una credenza in una persona senza intenzione, o senza che questa sia consapevole della nostra intenzione in questo senso: ad esempio, a può indurre in b la convinzione di aver bisogno di denaro lasciando aperta la documentazione del suo ultimo estratto conto sulla scrivania davanti alla quale b passerà; tuttavia, se A compie questo gesto senza l’intenzione di provocare in b questa convinzione, o se b capisce da ciò che a ha bisogno di denaro, ma non pensa che a si sia comportato così per indurre in lui que­ sta convinzione, vorremo evitare di dire che, con il suo gesto, a ha “voluto dire” che ha bisogno di denaro.

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5 . LA C O N V E R S A Z IO N E

Grice, come routine o procedura convenzionale e codificata, nel sen­ so che a specifiche intenzioni comunicative sono collegate, nel com­ portamento linguistico di una comunità di parlanti, specifiche espres­ sioni linguistiche. Così, potremo dire che la parola purtroppo ha con­ venzionalmente il significato di “mi rammarico” nel senso che i par­ lanti di italiano usano in modo routinario tale parola per significare “mi rammarico” ; tuttavia, la parola purtroppo può significare non convenzionalmente “mi felicito” quando è usata in senso ironico, ad esempio:

la risposta a potrebbe essere una risposta adeguata per la massima della quantità (nella supposizione che l’interlocutore sappia in che mese si trova), mentre la risposta b suonerebbe probabilmente ano­ mala perché dà più informazioni di quanto è ragionevole aspettarsi fossero richieste da A. La seconda massima, detta della qualità, è relativa al grado di at­ tendibilità di quanto viene detto: ci si aspetta che un parlante non affermi il falso, o cose che non ha ragione di credere vere. Ad esem­ pio, nello scambio comunicativo in (2) ci aspettiamo che B sappia ef­ fettivamente che oggi è il sabato 26 aprile. La terza massima, detta della relazione, è connessa al grado di congruenza fra i contributi informativi diversi dei diversi partecipanti alla conversazione: ci si aspetta che un parlante contribuisca allo scambio comunicativo in corso fornendo informazioni pertinenti. Ad esempio, nello scambio comunicativo in (2) ci aspettiamo che B stia riferendo la data di oggi, secondo quanto richiesto dall’interlocutore, e non, ad esempio, il suo giorno di nascita. La quarta massima, detta del modo, riguarda non il contenuto di quanto viene detto ma il modo in cui viene detto: ci si aspetta che un parlante si esprima nel modo più efficace ed efficiente possibile per comunicare quanto intende comunicare. Ad esempio, ci aspettiamo che eviti ambiguità, prolissità, confusioni, oscurità. Nello scambio co­ municativo in (2), una risposta di B in questi termini:

(1)

Quel rompiscatole di Carlo ha avvertito che purtroppo stasera non verrà...

La comprensione del significato non convenzionale è legata alla capa­ cità dell’interlocutore di ricostruire le intenzioni comunicative del parlante, secondo meccanismi di cui si discuterà nel p a r . 5.1.2. È possibile dunque individuare due modi di veicolare un significatoNN: il ricorso a usi convenzionali delle espressioni linguistiche e il ricorso a usi non convenzionali. Lo studio di Grice si approfondisce soprattutto in questa seconda direzione con l’elaborazione di una “logi­ ca della conversazione” : è evidente in questa espressione l’intenzione di costruire una modellizzazione logica del significato non convenzionale che possa completare il quadro descrittivo del significatoNN già alta­ mente elaborato fino a quel momento dalla logica e dalla filosofia del linguaggio per il significato convenzionale. 5.1.2. Le massime conversazionali Grice (1967) individua in principi razionali di comportamento, che informano il comportamento interazionale dei parlanti così come altre forme di comportamento umano cooperativo, l’origine di “ regole conversazionali” che rendono possibile la comunicazione mirando, contemporaneamente, all’efficacia e all’efficienza comunicativa. La prima delle massime individuate da Grice, detta massima della quan­ tità, riguarda la massimizzazione dell’informazione: ci si aspetta che un parlante fornisca il proprio contributo informativo nella misura ri­ chiesta dall’interazione in corso. Ad esempio, nello scambio seguen­ te: (2)

A - Scusi, che giorno è oggi? B - a) Sabato 26 - b) Sabato 26 aprile dell’anno 2003 dell’era cristiana 142

(3)

È due giorni prima del lunedì 28

verrebbe interpretata quantomeno come eccentrica (cfr.

f ig

.

5.1).

FIGURA 5.1

Le massime conversazionali di Grice 24 Quantità:

fornisci alla comunicazione un contributo tanto informativo quanto richiesto Qualità: dì ciò che ritieni essere vero Relazione: sii pertinente Modo: sii perspicuo Fonte: Grice (1967).

4. L e massime sono enunciate pensando alla comunicazione principalmente come a uno strumento per lo scambio di informazioni. Ma lo stesso Grice evidenzia come esse valgano per qualunque tipo di scambio comunicativo.

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Di per sé, le massime appena enunciate paiono da un lato piuttosto ovvie, dall’altro non del tutto riuscite. E evidente che non sempre i parlanti si comportano così: le persone parlando possono dire più o meno di quanto necessario, divagare, mentire, essere ambigue o con­ torte. Tuttavia l’obiettivo delle massime non è quello di descrivere come si presentano gli enunciati di una conversazione, quanto piutto­ sto ciò di cui si tiene conto nel processo di produzione e di inter­ pretazione del discorso: non sono tanto i singoli enunciati che rispet­ tano le massime, quanto gli interlocutori che normalmente - ovvero, in assenza di motivi per agire diversamente - si comportano come se le diverse massime venissero rispettate, ovvero ritenendo che lo siano: questo atteggiamento cooperativo dei parlanti è dovuto a una sorta di “ super-principio” , il principio di cooperazione, che secondo Grice in­ forma non solo l’interazione ma molti altri aspetti del comportamento sociale umano. Vedremo tra poco in che modo il principio di coope­ razione riconduce al modello griceano molti scambi comunicativi che sembrerebbero non rispettarlo. Prima vediamo però quali effetti meno banali delle considerazioni fatte finora - ha il modello delle massime sulla descrizione del comportamento comunicativo nei casi in cui le massime sono rispettate. Dalle attese dei parlanti sulle modalità di comportamento degli interlocutori scaturisce una tipologia di inferenze dette, poiché scatu­ riscono dalle modalità proprie dello scambio interazionale, implicature conversazionali: si tratta di inferenze che i parlanti fanno sulla base della supposizione che i partecipanti a una conversazione seguano le massime e il principio di cooperazione. In base all’ipotesi che gli in­ terlocutori rispettino la massima della quantità, nel seguente scam­ bio: (4) A - E tuo fratello ha famiglia? B - Ha tre figli un’ovvia attesa è che B abbia inteso con la sua risposta dire “Mio fratello ha solo tre figli e non di più” . Dall’asserzione di B scaturisce cioè l’implicatura conversazionale: (5) Il fratello di B ha solo tre figli e non di più. Si osservi che (5) non equivale esattamente all’asserzione di B in (4), e nemmeno discende da questa asserzione come conseguenza. Infatti è possibile fare contemporaneamente l’asserzione di B in (4) e un’as­ 144

·) .

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serzione relativa a un numero maggiore di figli del fratello di B, smentendo (5), senza con questo produrre una contraddizione: (6) Il fratello di B ha tre figli, se non di più. Di per sé, quindi, l’asserzione di B in (4) non implica necessariamen­ te (5), ma produce (5) come implicatura conversazionale. Tale implicatura sarebbe cancellata qualora il contesto discorsivo desse suggeri­ menti contrari, ad esempio se la risposta di B fosse stata: (7)

Ha tre figli. Ce n’è poi un quarto, ma vive lontano ormai da molto tempo.

Le implicature conversazionali sono quindi inferenze cancellabili che scaturiscono dal supposto rispetto da parte dei parlanti delle massime conversazionali. Come si è detto, non sempre i parlanti rispettano queste massime, ma ciò non origina necessariamente un comportamento interazionale scorretto o anomalo. Il mancato rispetto di una massima può essere causato dalla volontà di rispettare un’altra massima, come accade nel­ lo scambio seguente: (8) A - Sa dirmi dov’è via Manzoni? B - E certamente da queste parti. In questo caso B, se suppone che A voglia sapere l’ubicazione della strada per recarvisi, sta violando la massima della quantità, perché l’informazione che fornisce non soddisfa questa richiesta, ma ciò ac­ cade probabilmente perché B non ha informazioni più precise e non intende violare la massima della qualità mentendo e inventando una direzione da suggerire 5. Può anche accadere che un parlante violi una delle massime senza esservi costretto dal rispetto di altre, ma in modo per così dire deli­ berato, e che faccia ciò palesemente. Anche in questo caso ciò non significa necessariamente che egli non si stia comportando in modo

5. Si osservi che questa implicatura: “ B non ha elementi sufficienti per risponde­ re in modo più preciso” scaturisce dalla supposizione che B si stia comportando in modo cooperativo, ovvero che non stia violando il principio di cooperazione. L ’im­ plicatura, più esattamente, origina da questa supposizione come risposta all’interroga­ tivo sulle motivazioni che possono aver spinto B a violare una massima, comportando­ si quindi in modo apparentemente non cooperativo.

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cooperativo, ovvero che stia violando il principio di cooperazione 6. Tale supposizione viene anzi solitamente mantenuta come valida dal­ l’interlocutore, e la ricerca delle motivazioni per l’apparente violazio­ ne delle massime origina implicature conversazionali che costituisco­ no l’effettivo contributo informativo che l’enunciato di partenza in­ tende veicolare. Gli scambi seguenti costituiscono esempi di violazio­ ne delle massime che rispettano però il principio di cooperazione:

Carnevale è consuetudine vestirsi in maschera, in modo vistoso o ridi­ colo, e sapendo che l’enunciato è proferito accennando a una signora vestita in modo molto vistoso, B può trarre un’implicatura conversazionale del tipo:

(9) A - È molto tardi. Non vuoi ancora rientrare? B - Ho perso le chiavi di casa

Infine, una violazione della massima del modo. Intendendo proporgli un gelato, A chiede a B:

In questo caso B sta apparentemente violando sia la massima della quantità, perché non risponde alla domanda di A, sia la massima del­ la relazione, perché la sua risposta non è immediatamente collegata alla domanda che gli viene rivolta. Supponendo che B non intenda violare il principio di cooperazione, è necessario ad A ricostruire un’implicatura o un insieme di implicature che giustifichino l’enun­ ciazione di B. Tale insieme potrebbe essere costituito da:

(13)

(10)

a) B ha bisogno delle chiavi per entrare in casa b) B non può rientrare a casa c) B vorrebbe rientrare (ma non può)

Un esempio di violazione della massima della qualità. Durante una festa di Capodanno A dice a B: (11)

A - È già Carnevale!

In questo caso, A sta violando la massima della qualità: sta chiara­ mente enunciando qualcosa di falso sapendo che si tratta di un falso e sapendo che B sa che si tratta di un falso. Alla ricerca di una situa­ zione pertinente che giustifichi questa enunciazione, sapendo che a

6. La violazione del principio di cooperazione si verifica invece se la violazione delle massime avviene in modo coperto, senza che ciò possa essere evidente agli inter­ locutori, ad esempio quando un parlante mente, o asserisce cose che non sa se sono vere senza che gli interlocutori possano verificarlo, o tace informazioni richieste senza dare a vedere in realtà di possederle. In questo caso, secondo la terminologia di Grice (1967), il discorso è fuorviato; le regole razionali dell’interazione vengono effettiva­ mente infrante e la comunicazione fallisce, o, almeno, fallisce in quanto evento di co­ municazione: il fallimento della comunicazione può ben essere lo scopo effettivo e ultimo di un parlante, che in quel caso raggiunge quindi il suo scopo, ma la comuni­ cazione in quanto tale è fallita.

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(12)

Quella signora è vestita in modo ridicolo (vistoso, eccentrico), come per una festa di Carnevale.

Ti andrebbe più tardi un prodotto dolciario da passeggio conservato a bassa temperatura?

Poiché lo stesso contenuto proposizionale di prodotto dolciario da pas­ seggio conservato a bassa temperatura potrebbe essere veicolato da un’espressione più concisa e comune come gelato, B, reputando che A nel violare la massima di modo non abbia inteso comportarsi in modo non cooperativo, sapendo che dei bambini sono in ascolto e immaginando che il gelato può far loro male, può trarre la seguente implicatura conversazionale: (14)

I bambini non devono sapere che più tardi mangeremo un gelato.

Le implicature conversazionali come quelle degli ultimi esempi, che sfruttano le massime conversazionali violandole, vengono dette impli­ cature non standard, mentre sono dette standard quelle che originano dal rispetto delle massime. Come si osserva, il principio ultimo da cui originano le implicatu­ re è il principio di cooperazione, che è un principio di funzionamen­ to della comunicazione, senza il quale la comunicazione non avrebbe luogo. Ma principi razionali di comportamento sono alla base, in de­ finitiva, di qualunque tipo di inferenza non convenzionale, cioè non legata alle espressioni linguistiche: la ricerca, da parte dei parlanti, di coerenza e pertinenza nel discorso spinge a costruire inferenze, a par­ tire dalle conoscenze possedute e da quelle messe a disposizione dal discorso in atto, appoggiandosi a principi di funzionamento della co­ municazione e a più generali principi di funzionamento del mondo. Di tipo diverso sono invece le implicature convenzionali, che sono dipendenti dal singolo elemento lessicale e non sono prevedibili o calcolabili a partire da regole, ma sono il risultato di un processo di fissazione lessicale dei significati.

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5.1.3. Applicazioni

mentre l’inverso non vale, ovvero l’asserzione di (1 fi)b non implicita niente a proposito della validità di (1 ^)a, che potrebbe essere tanto vero quanto falso, come mostra la non contradditorietà di (17) a e b, che asseriscono la verità di (15)^ congiunta rispettivamente alla verità e alla non verità di (1 fi)a\

La teoria di Grice (1967), benché piuttosto essenziale nei suoi assunti di base, ha avuto una vasta portata sugli studi di semantica e pragma­ tica, in particolare perché suggerisce un rapporto fra questi due am­ biti che “libera” la semantica dalla necessità di rendere conto di nu­ merosi aspetti del significato di parole e enunciati in contesto: nella prospettiva della logica conversazionale, la semantica può occuparsi delle sole condizioni di verità degli enunciati - ovvero dell’ambito tradizionale proprio della semantica di tradizione logicista - , affidan­ do la descrizione di tutti gli altri aspetti del significato - convenziona­ le e conversazionale - alla pragmatica. E, nelle parole stesse di Grice, un nuovo “ rasoio di Occam” , che prescrive che, laddove si possa par­ lare di ambiguità pragmatica a proposito del significato di un enun­ ciato o un’espressione, non si debba porre un’ambiguità semantica: il modello prevede cioè una semantica “leggera” , unita a un apparato, anch’esso leggero, di regole conversazionali, che interagendo fra loro nel contesto rendono conto dell’effettivo significato “in contesto” . Il modello di Grice è stato applicato in diversi ambiti, sia in pro­ spettiva sincronica che diacronica. Ne diamo qui di seguito alcuni esempi. Le scale di Horn (1972) sfruttano la nozione di implicatura con­ versazionale e le massime di quantità e modo per descrivere pragmaticamente il valore informativo di diverse espressioni che possono es­ sere ordinate su scale di informatività. Le espressioni di quantificazio­ ne esistenziale (come alcuni, certi) e di quantificazione universale (come tutti, ogni) 78 , ad esempio, possono essere ordinate su una scala di informatività come la seguente (l’espressione a sinistra è più infor­ mativa dell’espressione a destra): (15)

< tutti, alcuni > a) Tutti sono venuti b) Alcuni sono venuti

(in termini di quantificazione: V x , x è venuto) (in termini di quantificazione: 3 x , x è venuto)

Ciò significa che asserire (15)a implicherà necessariamente (15)^®: (16)

Tutti sono venuti —r —1 Alcuni sono venuti

7. Cfr. il par . 2 .1.2 per le nozioni di quantificazione esistenziale e universale. 8. Il segno —> indica una conseguenza; il segno -1 indica la negazione.

148

(17)

a) Alcuni sono venuti, anzi per la verità tutti —» Alcuni sono venuti —> Tutti sono venuti b) Alcuni sono venuti, ma non tutti —> Alcuni sono venuti —» —1 (Tutti sono venuti)

Per questo motivo, cioè perché (1 fi)a produce un’inferenza relativa alla validità di (1 fi)b, ma (r5)A non produce inferenze relative alla va­ lidità di (15)^2, diciamo che (1 ^)a è più informativa di (1 fi)b. Tuttavia, in condizioni normali, è probabile che un parlante che si limiti ad asserire (15)^ intenda anche, contestualmente, intendere che (15)^ è falso. Uno scambio dialogico di questo tipo sarebbe infatti piuttosto strano: (18)

A - Alcuni sono venuti B - E chi mancava? A - Nessuno, c’erano tutti

Il modo più opportuno di descrivere il valore di (i^)b è allora il se­ guente: l’asserzione (15)^ produce, per la massima della quantità, un'implicatura conversazionale relativa alla non validità di (1 y)a, poi­ ché, se anche (15)a fosse vera e il parlante ne fosse a conoscenza, avrebbe pronunciato (15)22, che fornisce l’informazione più ricca pos­ sibile. Si tratta di un’implicatura generalizzata, cioè di un’implicatura che scaturisce dall’uso dell’espressione alcuni, indipendentemente dal­ lo specifico contesto in cui l’asserzione è fatta. Tuttavia, non si tratta di un’implicatura convenzionale, cioè necessaria, che è parte integran­ te del significato dell’espressione alcuni·, in presenza di un contesto adeguato, infatti, essa può essere smentita senza produrre una con­ traddizione. Su queste linee è anche la descrizione del significato degli avverbi focalizzanti perfino, anche, solo, solamente offerta da Kay (1990) 9. Questi avverbi generano, nell’enunciato in cui sono inseriti, un’impli9. Per una descrizione del valore degli avverbi focalizzanti in italiano cfr. Andorno (19993), che ingloba la proposta di Kay (1990) relativa all’inglese even.

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citazione di quantificazione esistenziale (gli additivi anche e perfino, come in (19)) o negativa (i restrittivi solo e solamente, come in (20)) relativa al referente designato dal costituente che modificano io1. Essi dicono cioè che l’enunciato, oltre ad essere valido per quel referente, è valido per almeno un altro o non è valido per nessun altro: (19)

Anche Gianni è venuto i. Gianni è venuto ii. —» Qualcun altro è venuto [in termini di quantificazione: 3x, x^Gianni, x è venuto] (20) Solo Gianni è venuto i. —> Gianni è venuto ii. —> Nessun altro è venuto [in termini di quantificazione: -i3x, x^Gianni, x è venuto] Accanto aH’implicitazione di quantificazione, gli avverbi focalizzanti generano o possono generare un’inferenza relativa alla posizione ter­ minale assunta, su una scala di valori, dal referente designato dal co­ stituente che modificano. Possiamo provvisoriamente descrivere, ad esempio, il valore scalare di perfino, come in (21 ) ίη ττ·. (21)

Perfino Gianni è venuto i. —> Gianni è venuto ii. —» Qualcun altro è venuto [in termini di quantificazione: 3x, x^Gianni, x è venuto] Hi. —» Gianni è, fra le possibili persone di cui si poteva menzionare la venuta, particolarmente significativa (perché era poco probabile che venisse, perché è un personaggio illustre ecc.)

Diversi tentativi sono stati fatti per descrivere il valore preciso dell’in­ ferenza in (21 fili. La lettura in termini di scale di informatività degli enunciati alternativi a quello espresso pare la più appropriata. Un enunciato contenente un focalizzatore rimanda a un insieme di pro­ posizioni alternative di identica forma di background e con diverso focus (cfr. Kònig, 1991). Se prendiamo ad esempio gli enunciati se­ guenti:

(22) a) L ’Italia ha superato perfino i quarti di finale b) L ’Italia ha superato solo i quarti di finale possiamo dire che, rispetto a un identico enunciato privo di focaliz­ zatore: (23)

gli enunciati con focalizzatore proiettano la proposizione su uno sfon­ do di proposizioni alternative, eventualmente con diverso valore di informatività (nell’insieme ordinato che segue, ogni proposizione è meno informativa di quelle alla sua destra):

L ’effetto di un focalizzatore scalare è quello di sottolineare, oltre alla validità della proposizione enunciata, rispettivamente: la validità di proposizioni meno informative (per i focalizzatori scalari additi­ vi, come perfino)·, la non validità di proposizioni più informative (per i focalizzatori scalari additivi, come solo). Quindi (22)a signifi­ cherebbe: (24)

150

L ’Italia ha superato perfino i quarti di finale i. —¥ L ’Italia ha superato i quarti di finale ii. —i (L’Italia ha superato le qualificazioni) λ (l’Italia ha superato gli ottavi di finale) λ ...

Si osservi che l’inferenza ii emergerebbe comunque dalla conoscenza del sistema di organizzazione dei tornei calcistici (quindi, emergereb­ be anche dall’asserzione di (23)). La presenza del focalizzatore scala­ re serve tuttavia a sottolineare la validità di questa inferenza e a metterla in focus, con un effetto di enfatizzazione del valore della proposizione effettivamente asserita rispetto all’insieme scalare. Vice­ versa (22)h significherebbe: (25)

10. Il costituente su cui i focalizzatori agiscono è normalmente il focus di frase (cfr. anche par . 5.3). 1 1 . Si osservi che, mentre per perfino l’inferenza scalare c è obbligatoria, cioè è un’implicitazione, per anche in (19) un’analoga inferenza è possibile, qualora il conte­ sto lo suggerisca, ma non necessaria. La scalarità non è cioè una componente del si­ gnificato convenzionale di anche, mentre lo è di perfino.

L ’Italia ha superato i quarti di finale

L ’Italia ha superato solo i quarti di finale i. —» L ’Italia ha superato i quarti di finale ii. —> —1 (l’Italia ha superato le semifinali) a —1 (l’Italia ha vinto la finale)A-i...

In questo caso, l’inferenza in ii potrebbe scaturire anche dall’enuncia­ to privo di focalizzatore (23) come implicatura conversazionale legata

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alla massima della quantità. L ’uso del focalizzatore ha l’effetto di ren­ dere tale implicatura convenzionale, ovvero non cancellabile, e di porla nel focus informativo dell’enunciato. I focalizzatori scalari hanno quindi l’effetto di mettere in focus la relazione fra la proposizione asserita e l’insieme delle proposizioni al­ ternative. L ’esatta natura dell’ordinamento scalare, ovvero quale sia il fattore su cui si basa l’ordinamento indotto dal focalizzatore non è parte del significato del focalizzatore: esso si limita a segnalare resi­ stenza di un insieme di proposizioni alternative ordinate scalarmente secondo un criterio di informatività. L ’interpretazione della natura della scala può essere veicolata da altre porzioni dell’enunciato come in (22) e (23), in cui sono il verbo superare e il sintagma quarti di finale, congiuntamente alle conoscenze dei parlanti riguardo all’or­ ganizzazione di un torneo, a indurre la scala - , oppure da conoscenze contestuali, come in (21), in cui saranno le comuni conoscenze dei parlanti riguardo alla persona di Gianni a qualificare la scala relativa ai possibili intervenuti alla festa come una scala di pigrizia, di rilut­ tanza alla mondanità, di importanza dell’invitato ecc. Si osservi che non è necessario che una simile scala sia già stata evocata o in qual­ che modo presente nell’universo di discorso: l’uso del focalizzatore scalare è sufficiente di per sé a introdurre nell’universo di discorso una scala ordinata di proposizioni, che i parlanti cercheranno di mo­ tivare con un fattore di ordinamento plausibile sulla base delle infor­ mazioni a loro disposizione. II rapporto fra implicature conversazionali e convenzionali è stato letto anche in chiave diacronica, per spiegare alcuni percorsi di evo­ luzione semantica di singole espressioni. La progressiva fissazione di implicature conversazionali su un lessema, dipendente dall’uso del lessema in un tipo di asserzione che implica conversazionalmente quel significato, sarebbe ad esempio alla base di molti processi di evoluzione semantica anche osservati interlinguisticamente (cfr. Traugott, Kònig, 1991). Un’evoluzione semantica che avviene ad esempio in modo indipendente ma parallelo in lingue diverse è l’acquisizione di valore avversativo da parte di congiunzioni temporali con valore di contemporaneità come l’italiano mentre e l’inglese while. Negli esem­ pi seguenti, il valore temporale è riportato sotto a e il valore avversa­ tivo è riportato sotto b\ (26) (27)

a) b) a) b)

Alice tende la corda mentre Carlo la fissa a terra Carlo è alto mentre Alice non lo è Jules is leastening while John is talking Jules is tali, while Jim is not

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Le due congiunzioni nascono con valore temporale, come indica l’eti­ mologia. Il valore avversativo scaturisce, inizialmente, come inferenza dal confronto di due proposizioni in contrapposizione. Negli enuncia­ ti seguenti, è la contrapposizione fra i due fatti presentati a far scatu­ rire, di per sé, un valore avversativo, indipendentemente dalla con­ giunzione usata: (28)

a) Gianni dorme, e Maria lava i piatti b) Gianni dorme, mentre Maria lava i piatti

Tuttavia, il sottolineare esplicitamente la contemporaneità dei due eventi attraverso l’uso della congiunzione temporale mentre, può, per la massima del modo, contribuire a evidenziare il valore avversativo come implicatura conversazionale: se sottolineo con un’espressione apposita una concomitanza temporale che potrebbe emergere anche solo dalla semplice enunciazione in sequenza dei due eventi, ho pro­ babilmente lo scopo di mettere in risalto questa concomitanza; un motivo per metterla in risalto può essere la sua anomalia o stranez­ za, come appunto accade in (28). Il valore avversativo non scaturisce dalla congiunzione, ma l’uso della congiunzione incoraggia un pro­ cesso interpretativo che porta a un’inferenza di awersatività. Se la congiunzione mentre comincia ad essere usata con una certa sistema­ ticità in questa funzione, il processo inferenziale che porta all’awersatività potrà nel tempo sorgere indipendentemente dal significato delle proposizioni coinvolte (ovvero, indipendentemente dal fatto che queste siano chiaramente leggibili come contrapposte): in questo caso, una lettura avversativa dell’enunciato potrebbe cominciare ad essere attribuita, indipendentemente dal fatto che il contesto la inco­ raggi, semplicemente per il fatto che il parlante ha scelto una forma espressiva frequentemente usata in associazione a un valore avversa­ tivo. Se ciò accade, significa che il valore avversativo si sta progressi­ vamente fissando sulla congiunzione: da implicatura conversazionale, ovvero da significato che può emergere in virtù di un processo prag­ matico legato alla natura delle proposizioni collegate, il valore avver­ sativo diventa un'implicatura convenzionale, ovvero un significato se­ manticamente connesso alla congiunzione, indipendente dalla natura delle proposizioni collegate. Il percorso evolutivo sarebbe quindi il seguente: implicatura conversazionale > implicatura conversazionale generalizzata > implicatura convenzionale

i5 3

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L ’ultima tappa del percorso evolutivo, cioè la stabile convenzionalizzazione del nuovo valore, può portare a una delle tre situazioni se­ guenti I2: - in ogni contesto, il costrutto produce come implicatura conven­ zionale tanto il primo quanto il nuovo valore, ed è compatibile solo con contesti che consentono tanto il primo quanto il nuovo valore: in questo caso il costrutto avrà modificato il proprio significato origina­ rio, arricchendosi di una nuova implicatura convenzionale accanto alla precedente; - in alcuni contesti il costrutto produce il primo valore, in altri il nuovo, in altri entrambi, a seconda di quanto il contesto consenta o suggerisca: in questo caso il costrutto è ambiguo fra due valori se­ mantici, ed è il contesto a guidare la lettura verso l’uno o l’altro; - in ogni contesto, il costrutto produce come implicatura conven­ zionale il nuovo valore, ed è compatibile solo con contesti che con­ sentono il nuovo valore: in questo caso il costrutto avrà modificato il proprio significato originario, sostituendo alla prima implicatura con­ venzionale quella nuova. Lo stato attuale di convenzionalizzazione di mentre sembra corri­ spondere alla seconda situazione, data la piena accettabilità dei se­ guenti enunciati: (29)

Il vicepresidente avanzava un parere favorevole, mentre il presidente approvava col capo (30) Il vicepresidente ha avanzato un parere favorevole, mentre il presiden­ te lo ha smentito una settimana dopo In (29) abbiamo una lettura di contemporaneità temporale, mentre il valore avversativo, non compatibile con il contesto, è cancellato; in (30) abbiamo una lettura avversativa, mentre il valore di contempora­ neità temporale, non compatibile con il contesto, è cancellato: mentre sembra cioè avere attualmente due accezioni - una temporale, una avversativa 13.

12. Le prime due situazioni sono soluzioni alternative al processo evolutivo, mentre la terza è un’evoluzione della seconda situazione: l ’ambiguità può risolversi nella sparizione di una delle due letture alternative. 13. Può poi assumere entrambi i valori, qualora il contesto lo suggerisca: “ Il vi­ cepresidente avanzava un parere favorevole, mentre il presidente disapprovava col capo” . Non è però necessario postulare un terzo valore, temporale-avversativo, accan­ to a quello temporale e a quello avversativo: il “valore aggiunto” avversativo può esse­ re letto come un’implicatura conversazionale del mentre temporale, esattamente come accadeva per roriginario valore di mentre.

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5.1.4. Problemi del modello Nonostante i numerosi spunti che il modello delle implicature conversazionali ha offerto a questioni di pragmatica e semantica, esso ha ricevuto nel corso del tempo critiche e proposte di modifica I4. I pro­ blemi sottolineati non sono tanto legati al fatto che lo si sia ritenuto inadeguato a descrivere il fenomeno della conversazione, cioè alla va­ lidità del modello delle massime e del principio di cooperazione. Piuttosto è stato osservato —dallo stesso Grice (1967), del resto - che esso descrive solo alcuni tipi di interazione verbale. Non descrive ad esempio i numerosi contesti in cui anche il principio di cooperazione viene violato: parlanti che non cooperano possono, ad esempio, pre­ varicare l’uno sull’altro parlando più di quanto sia necessario, o rifiu­ tando di interpretare in modo cooperativo le parole dell’altro. Tutta­ via, più che intaccare la teoria di Grice, queste obiezioni ne ridimen­ sionano la potenza esplicativa, nel senso che puntano l’attenzione su usi del linguaggio diversi dalla interazione cooperativa IJ: si tratterà quindi di estendere il modello o trovare altri modelli per spiegare usi del linguaggio diversi dall’interazione comunicativa cooperativa, ed eventualmente modi per integrare i diversi tipi di uso del linguaggio in una prospettiva comune. Altre osservazioni critiche riguardano la mancata precisazione dei diversi compiti assegnabili a parlante e ascoltatore nel discorso: la formulazione delle massime indica che esse sono rivolte al parlante, lasciando irrisolto il problema dei parametri sui quali egli si debba appoggiare per essere perspicuo, efficace, chiaro; d’altronde, la chia­ rezza che il parlante ritiene di aver adottato può non essere tale per

14. Alcuni di questi problemi, di cui discutiamo in questo paragrafo, sono illustrati in Levinson (1983), in Sperber, Wilson (1986), in Huang (2000), autori, tutti, che si riconoscono tuttavia nel modello griceano. 15. Potremmo anche chiederci se l’interazione non cooperativa sia una forma di comunicazione: all’interno di un dibattito, è una forma comunicativa quella di chi urla sovrapponendo la propria voce a quella altrui? O di chi fa ostruzionismo dilungando inutilmente il proprio intervento per impedire agli altri di parlare? E di chi sostiene palesemente il falso? Non ci stiamo chiedendo se siano “buone forme di comunica­ zione, ovvero non stiamo qui facendo un discorso etico, relativo al dover essere della comunicazione, ma ci interroghiamo proprio sulla natura del fenomeno comuni­ cativo: in tutti i casi citati c e sicuramente un’intenzione da parte dei parlanti di “fare” qualcosa “ attraverso” il linguaggio, ma non è così evidente che, relativamente alle azioni citate, si possa parlare di comunicazione e non ad esempio di anti-comunicazione, cioè di mosse per invalidare la comunicazione in corso, o di atti di aggressio­ ne verbale. Forse, quando i principi di cooperazione non vengono rispettati, la comu­ nicazione semplicemente fallisce o non ha luogo.

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l’ascoltatore, e così via. Su questo punto la formulazione delle massi­ me non è probabilmente la più appropriata. La massima della quanti­ tà recita ad esempio: Dà un contributo tanto informativo quanto richiesto dagli intenti dello scam­ bio verbale in corso quando sarebbe probabilmente più opportuno parlare di intenti “ dei partecipanti allo scambio verbale” che non di intenti “dello scambio verbale” ; parlare di intenti propri dello scambio presuppone una co­ munità di intenti da parte dei partecipanti, i quali possono invece non avere gli stessi intenti, originando quindi conflitti che il modello non prevede e di cui non può perciò suggerire vie di soluzione. Inoltre, il comportamento razionale presupposto dal modello come proprio degli interlocutori può non aver luogo non solo per cattiva volontà, ma anche per incapacità degli interlocutori a seguirlo: ci sono persone che si esprimono in modo poco perspicuo non per volontà di essere oscure ma per incapacità oratoria. In questo caso toccherà all’ascoltatore, in accordo col principio di cooperazione, ri­ pristinare la chiarezza, la perspicuità ecc., con strategie compensatorie anche più elaborate che le implicature conversazionali. Anche questo aspetto non è definito in modo preciso. Infine, altre critiche riguardano l’insufficienza e l’eccessiva genera­ lità dei principi proposti per spiegare in modo più operativo e analiti­ co il funzionamento effettivo dei processi produttivi e inferenziali. Un tipico caso è il conflitto fra più massime in fase di produzione: come il parlante procede operativamente per risolvere, ad esempio, il con­ flitto fra massima della quantità e del modo, per assolvere il duplice compito di dare tutta l’informazione richiesta e di essere economico nella formulazione dell’informazione? D ’altro lato, in prospettiva in­ terpretativa, il modello è troppo generale per suggerire i percorsi operativi che guidano l’ascoltatore, in caso di violazione di una massi­ ma, nel ricostruire le motivazioni di tale violazione. Come soluzione a queste carenze, sono state proposte delle revi­ sioni, che vanno nella direzione di una riduzione o ridistribuzione delle regole, oppure in una loro gerarchizzazione (per cui il rispetto di una regola è subordinato al rispetto di un’altra). Alcune proposte, come quella di Sperber e Wilson (1986) osservano come la massima della pertinenza sia quella che, in ultima analisi, giustifica il compor­ tamento comunicativo: il principio della rilevanza comunicativa è vi­ sto come il principio esplicativo fondamentale della comunicazione umana, che si presenterebbe quindi non come un processo di codifi­

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5 . L A C O N V E R S A Z IO N E

cazione e decodificazione di messaggi, ma come un percorso di ri­ cerca della rilevanza del messaggio per la situazione in atto. In questa prospettiva, Grice darebbe ancora troppa importanza al momento di codificazione e decodificazione, proponendo il sistema della logica della conversazione come un meccanismo riparatore per spiegare ap­ parenti anomalie del processo di codificazione e decodificazione del significato convenzionale; mentre il significato convenzionale non do­ vrebbe essere visto, nella prospettiva di Sperber e Wilson, che come una “ scorciatoia” o un mezzo sofisticato per fornire indizi all appara­ to inferenziale che porta alla scoperta della rilevanza di un messaggio e, quindi, all’interpretazione del suo valore comunicativo. Infine, non sono mancate osservazioni da una prospettiva interlin­ guistica e ancor più interculturale: le massime, presentate come mas­ sime razionali e quindi universali, potrebbero, a un’analisi transcultu­ rale, risultare non valide universalmente ma appartenenti a culture specifiche e, quindi, non informare universalmente la conversazione (cfr. Wierzbicka, 1991). Anche questo ridimensionerebbe il potere esplicativo del modello e richiederebbe, eventualmente, la sua inte­ grazione in un modello più ampio, che consenta di spiegare e descri­ vere la comunicazione interculturale e i suoi eventuali conflittil6.

5,2

L ’analisi della conversazione

5.2.1. Approcci all’analisi delle conversazioni La conversazione, ovvero la comunicazione dialogica, è stata oggetto di studio, oltre che della linguistica, di diverse discipline quali la so­ ciologia, l’antropologia, la psicologia, con una conseguente varietà di approcci adottati e di obiettivi di studio. Questo interesse interdisci­ plinare è motivato dal fatto che la comunicazione dialogica è luogo privilegiato di manifestazione di diversi modi dell’agire sociale e psi­ chico dell’uomo. In quest’ultima sezione noi concentreremo la nostra attenzione sulle indagini di taglio maggiormente linguistico, che mirano a fissare 16. Huang (2000) riporta ad esempio l’osservazione per cui, in alcune culture orientali, la massima della qualità (“ non dare informazioni della cui verità non hai prove” ) sia forse tenuta in minor conto della massima della quantità ( non fornire un contributo comunicativo minore di quanto richiesto” ), per cui risulterebbe più appro­ priato, in tali culture violare la prima massima per non violare la seconda, cioè risulte­ rebbe appropriato fornire un’informazione di cui non si è certi pur di soddisfare la richiesta avanzata dall’interlocutore.

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parametri descrittivi ed esplicativi per analizzare dal punto di vista strutturale gli scambi comunicativi: tali strutture non coincidono con elementi linguistici ma tuttavia si esprimono, per lo più, attraverso il linguaggio. I filoni di studio che più si sono posti questo obiettivo sono quelli noti come analisi conversazionale e sociolinguistica del­ l’interazione. L ’analisi della conversazione prende le mosse dal lavoro di Sacks, Schlegoff e Jefferson (1974) e mira ad individuare le unità minime e le regole basilari di combinazione di tali unità negli scambi comuni­ cativi. L ’obiettivo è la ricostruzione delle regole d’uso del linguaggio nella comunicazione, l’individuazione delle procedure di cui i parlanti si servono nella gestione dello scambio comunicativo, ovvero la rico­ struzione della “grammatica dell’interazione” o, altrimenti detto, della competenza comunicativa dei parlanti riguardo all’interazione. A dif­ ferenza dei lavori di Austin e Grice, che dalla propria origine filosofi­ ca traggono una predilezione per la modellizzazione teorica e una ve­ rifica deduttiva condotta su materiale “ costruito in laboratorio” , l’a­ nalisi della conversazione adotta un metodo rigorosamente empirico e induttivo, basandosi sulla minuziosa analisi della struttura di numero­ si scambi comunicativi reali. L ’analisi di comunicazioni reali non co­ stituisce solo l’oggetto della ricerca, ma anche la fonte da cui origina­ re categorie descrittive: i modelli interpretativi dell’analisi della con­ versazione trovano nel comportamento e nelle aspettative dei parlanti le proprie categorie di definizione, che sono quindi pre-teoriche e non legate a un modello teorico preliminarmente ipotizzato. Si tratta quindi di un approccio costruttivista: l’idea di fondo è che siano i parlanti stessi a costruire, attraverso l’interazione, le categorie che ne regolano il funzionamento, e pertanto la descrizione deve tenere con­ to delle intuizioni che i parlanti hanno relativamente agli scambi co­ municativi in cui sono coinvolti. L ’analisi conversazionale ha ottenuto notevoli successi nella defi­ nizione di alcune categorie di base della struttura delle conversazioni, che descriveremo e discuteremo in parte nei paragrafi successivi. È stata tuttavia oggetto di critica per la minuziosità descrittiva che ha impedito di ottenere generalizzazioni significative o, viceversa, per un’eccessiva vaghezza dei risultati generalizzabili. Ulteriori critiche sono state mosse alla scarsa attenzione dedicata al contesto situazio­ nale, ad esempio ai ruoli sociali reciproci degli interlocutori, al ruolo delle specificità culturali in cui la conversazione si svolge I7. L ’analisi 17 . Su quest’ultimo aspetto sono incentrati gli studi di etnografia della comuni­ cazione che originano dai lavori di Hymes (cfr. Hymes, 1964).

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5 . L A C O N V E R S A Z IO N E

della conversazione non ignora comunque la rilevanza di tali fattori nell’interazione, pur non ponendoli al centro della propria ricerca: nel — sempre piuttosto parco — quadro concettuale di riferimento sono infatti state inglobate nozioni mutuate dalla sociologia della co­ municazione, come quelle di ‘faccia’ o di ‘potere’; del resto, gli indi­ rizzi di ricerca più recenti dell’analisi della conversazione si sono orientati allo studio di specifiche situazioni e tipologie comunicative, oppure di specifiche sequenze comunicative: da questi studi di detta­ glio emerge un quadro a un tempo più articolato e più attento al ruo­ lo dei parlanti come attori sociali in termini non solo linguistici. 5.2.2. La turnazione L ’osservazione di qualunque conversazione porta facilmente all indivi­ duazione del turno come sua primaria unità di costruzione: con turno si intende la porzione di discorso pronunciata da un parlante com­ presa fra le parole di un parlante precedente ed uno successivo. La conversazione è costituita da sequenze di turni temporalmente ordi­ nati, ovvero dall’alternarsi di interlocutori diversi alla parola. L avvi­ cendamento dei turni avviene in modo piuttosto regolare: i casi di interruzione e di sovrapposizione sono limitatil8, e non costituiscono la normalità dell’interazione nelle attese dei parlanti - come è dimo­ strato dall’esistenza di meccanismi di “ riparazione che intervengono quando l’“incidente” di una sovrapposizione si verifica. Questa rego­ larità di avvicendamento presuppone l’esistenza di strategie di alloca­ zione dei turni condivise dai parlanti: regole di questo tipo, cioè re­ gole di pianificazione locale dell’interazione, costituiscono le fondamenta del modello dell’analisi della conversazione. Un turno coincide tendenzialmente con unità linguistiche compiute, ma non predefinite, ovvero può corrispondere a una singola parola, a un sintagma, a una frase o a più sequenze di frasi, così come a un interiezione o anche a un silenzio: i turni non hanno quindi una lunghezza predeterminata, ma contengono dei punti in cui è possibile porre un loro termine. Questi punti sono detti punti di rilevanza transizionale e sono i punti in cui un nuovo parlante può iniziare il proprio turno, nel caso che il parlante attuale si interrompa. La selezione del nuovo parlante può

18. Questa generalizzazione, riportata ad esempio da Levinson (1983), non trova in realtà conferma per tutti i tipi di interazione: nelle conversazioni informali fra ami­ che (gossip), Coates (1988) riscontra un’alta percentuale di sovrapposizioni, che non sono però percepite dalle partecipanti come “ disturbo o incidente comunicativo.

*59

J . L A C O N V E R S A Z IO N E

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FIGURA 5.2

dall’ultimo punto di rilevanza transizionale, quello su cui si è verifica­ ta la sovrapposizione I9*:

Regole di allocazione del turno Se il Parlante seleziona il parlante Successivo nel corso del suo turno, deve smettere di parlare al successivo Punto di Rilevanza Transizionale e far prose­ guire S; b) Se al successivo Punto di Rilevanza Transizionale in cui S tace nessun S è stato selezionato da P, qualsiasi altro partecipante può autoselezionarsi; il pri­ mo che parla si assicura il diritto al turno successivo; c) Se al successivo Punto di Rilevanza Transizionale in cui S tace nessun S è stato selezionato da P e nessun altro partecipante si autoseleziona, P può continuare a parlare. a)

F o n te : Sacks, Schlegoff, Jefferson (1974).

(31)

A - perché non ti puoi fidare, hai visto = B = //sì Ahai visto anche tu

Viceversa, in caso di interruzioni volontarie, in cui il nuovo parlante prende la parola prima che il vecchio parlante intenda cedere il tur­ no, si innesca un sistema competitivo di conquista del turno, per cui il parlante interrotto produce un innalzamento del volume di voce e un rallentamento del ritmo elocutivo fino a che il nuovo parlante tor­ na a tacere 2°:

avvenire per chiamata del parlante precedente, oppure per autosele­ zione. Sacks, Schlegoff e Jefferson (1974) formulano tali regole secon­ do lo schema di procedure riportato nella f ig . 5.2. E importante sottolineare che questa sequenza di regole non è una semplice sistematizzazione di intuizioni riguardo alle modalità se­ condo cui procede la conversazione, ma la spiegazione offerta per al­ cuni fenomeni osservativi di conversazioni reali, relativi ad esempio alla durata delle pause e delle esitazioni nei punti di rilevanza transi­ zionale. Il fatto, ad esempio, che gli intervalli fra turni di parlanti di­ versi siano più brevi degli intervalli fra turni diversi dello stesso par­ lante (cioè, un parlante, una volta arrivato a quella che considera la fine del proprio turno, riprende a parlare solo dopo aver constatato che nessun altro si è selezionato) induce a scrivere la sequenza di re­ gole nel modo riportato, ovvero con la regola c successiva alla regola b e non come un semplice caso particolare della regola b\ le regole mostrano cioè di avere una realtà psicologica, e di non essere solo l’esplicitazione di un modello razionale. La reale esistenza delle regole nella competenza comunicativa dei parlanti è mostrata anche dall’esistenza di procedure riparatone per ovviare ai casi di interruzione e sovrapposizione involontaria, e dall’e­ sistenza di procedure diverse per le interruzioni volontarie, che si configurano come vere e proprie azioni di disturbo della comunica­ zione. Le interruzioni involontarie - o sovrapposizioni - sono dovute a ipotesi errate sulla fine di un turno: un parlante può interpretare un punto di rilevanza transizionale come una fine turno effettiva e quin­ di iniziare a parlare mentre il turno precedente è ancora in corso. In questo caso, la sovrapposizione sarà breve - poiché il parlante “non autorizzato” si interromperà immediatamente - e seguita eventual­ mente, da parte del parlante in atto, dalla ripresa del turno a partire

Un altro problema può verificarsi quando nessun parlante si seleziona per il turno successivo: l’interpretazione e la gestione del silenzio che ne segue sono discusse nel par . 5.2.3. Se la sintassi della turnazione è regolata dai punti di rilevanza transizionale, i quali tendono a ricorrere in punti di confine fra unità linguistiche, la sintassi della conversazione sembrerebbe in ultima analisi governata dalla sintassi linguistica degli enunciati. Tale affer­ mazione va però attenuata da almeno due osservazioni. Innanzitutto, dall’esistenza di una struttura semantica-pragmatica soggiacente che informa la conversazione - il sistema di mosse comunicative che ve­ dremo nel prossimo paragrafo - genera nei parlanti un sistema di aspettative sui turni successivi che non si basa sulla forma linguistica degli enunciati; grazie a tali attese vengono interpretate come turni anche azioni comunicative non verbali, come la mimica gestuale o facciale o il silenzio. In secondo luogo, possono essere non verbali anche i meccanismi di feedback su cui gli ascoltatori fanno affida­ mento per controllare la corretta gestione della turnazione e del cana­ le comunicativo - anche se questi possono venir meno in conversa­ zioni svolte attraverso canali particolari, come le conversazioni telefo­ niche e le chat\ in questo caso, la gestione dell’interazione può avve­ nire solamente per via verbale.

16 0

16 1

(32) J - ma sta // persona che l ’ h a f a t t o * d e v e e s s e r e Vse ho capito bene la persona J _

: :

curata

19. G li esempi riportati, tranne dove diversamente indicato, sono stati raccolti da chi scrive. 20. Esempio citato in Levinson (1983).

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5.2.3. Le mosse conversazionali Il sistema di turnazione ora illustrato descrive solamente, per così dire, il livello puramente coesivo dell’organizzazione interazionale, ma non dice ancora nulla sulla gestione e la struttura dei contenuti, ovve­ ro sul livello della coerenza. Il contenuto delle azioni o mosse comu­ nicative nell’interazione potrebbe essere espresso in termini di atti linguistici: l’analisi della conversazione diventerebbe in questo senso una descrizione degli atti linguistici nel discorso. Di fatto questa stra­ da, che pure viene seguita, presenta alcune difficoltà (cfr. Levinson, 1983). In primo luogo, l’accento posto dalla teoria degli atti lingui­ stici sulla convenzionalità degli atti in campo conversazionale si mo­ stra di fatto di difficile applicazione, dato che da un lato lo stesso atto linguistico può essere realizzato nell’interazione in molti modi di­ versi e, dall’altro, sembra difficile circoscrivere in un numero limitato le tipologie di forza illocutiva esprimibili attraverso una mossa comu­ nicativa Il2I. In secondo luogo, la teoria degli atti linguistici si occupa in ultima analisi delle intenzioni comunicative e non invece di tutta l’attività interazionale che il parlante svolge puramente per gestire l’interazione e la propria e altrui identità sociale. Questi ultimi tipi di attività sono invece stati l’oggetto prediletto degli studi di analisi conversazionale. L ’analisi conversazionale utilizza quindi la nozione di mossa con­ versazionale: esse possono essere in parte assimilabili ad atti lingui­ stici, ma in parte sono descrivibili come procedure rituali confronta­ bili con altre forme di comportamento non verbale. Una mossa conversazionale non coincide con un turno; un turno può infatti contenere più mosse. (33)

M - Pronto? P - Marco? Sono Paola, ciao (conversazione telefonica)

(34)

M - Pronto? P - Marco? M - S ì? P - Sono Paola M - Oh ciao! P - Ciao

Una determinata mossa comunicativa può avere un insieme di poten­ ziali repliche attese. Ad esempio, una mossa iniziale di ‘appello’ pre­ vede una probabile mossa successiva di ‘risposta’, alla quale il primo parlante può far seguire il ‘primo argomento’ 22: (35)

P - Marco? (appello) M - Sì? (risposta) P - Puoi farmi un favore? (primo argomento) (conversazione faccia a faccia)

Le mosse comunicative che si susseguono in modo preferenziale sono dette ‘sequenze complementari’. L ’osservazione empirica rileva anche l’esistenza di sequenze apparentemente “vuote” , cioè prive di conte­ nuto informativo, come le sequenze di apertura (costituite da una coppia appello-risposta, da una coppia di identificazione-riconosci­ mento e da una coppia di saluti) e le sequenze di chiusura. Queste ultime sono costituite da una sequenza di prechiusura, dalla chiusura e dai saluti: (36)

P - Va bene M - Ok P - Allora a dopo M - Sì ciao P - Ciao (conversazione telefonica)

(prechiusura) (accettazione della chiusura) (chiusura) (saluto)

Il turno iniziale di P contiene le tre mosse di ‘riconoscimento’, ‘iden­ tificazione’ e ‘saluto’. Le stesse tre mosse comunicative potrebbero però essere sviluppate in una sequenza più ampia, con una mossa sola per ogni turno:

Le sequenze di prechiusura sono un tipico esempio di mosse conver­ sazionali volte alla gestione dell’interazione: esse hanno lo scopo di segnalare che chi parla ha concluso gli argomenti e si dispone a chiu­ dere, a meno che l’interlocutore non abbia qualcosa da aggiungere; in questo caso, egli segnalerà questo con una strategia marcata nel pro­ prio turno:

2 1. Non mancano tuttavia gli spunti forniti dall’analisi conversazionale alla teoria degli atti linguistici, ad esempio il tentativo di motivare l’esistenza e descrivere la for­ ma degli atti indiretti sulla base delle nozioni di cortesia e salvaguardia della “ fac­ cia” .

22. Nelle telefonate, si considera lo squillo del telefono come appello e la rispo­ sta delfappellato come risposta. A questa sequenza seguono normalmente 1 identifica­ zione e i saluti.

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(37) P - Ok allora M - Sì senti dovevo poi ancora dirti una cosa

(pre-chiusura) (riapertura)

Le sequenze complementari non devono quindi essere considerate strutture rigide, ma modelli che generano un insieme di attese da parte degli interagenti: la prima mossa di una sequenza richiede una specifica mossa di risposta nell’interlocutore e, se questa non viene, ciò è marcato in vario modo. Di fatto, esistono moltissime possibili risposte a una mossa conversazionale, ma esse non sono tutte equiva­ lenti: esistono cioè mosse preferenziali, non marcate, e mosse non preferenziali, che quando vengono eseguite vengono in vario modo evidenziate da strategie di segnalazione o di giustificazione23. Un ti­ pico segnale che evidenzia una mossa non preferenziale è l’esitazione, come quella che nell’esempio seguente precede una dichiarazione di incapacità a rispondere - ovviamente, la replica preferenziale a una ‘domanda’ sarebbe una ‘risposta’: (38) P - V ien i anche tu? M - Eh sì non so ancora (conversazione faccia a faccia) Le mosse interne alle sequenze possono avere diverso grado di cogenza, per cui alcune possono essere cancellate senza che questo crei un’aspettativa delusa 24. Altra turbativa alla successione lineare delle sequenze è poi la possibilità che una sequenza sia incassata in un’al­ tra. Nel caso seguente, all’interno di una sequenza di richiesta-accet­ tazione-ringraziamento è incassata una sequenza di domanda-rispo­ sta: (39)

G - Mi apri un momento? C - C h e su cced e? G - H o dim en ticato le chiavi C - O k sali G - G razie (conversazione al citofon o)

(richiesta) (domanda) (risposta) (accettazione della richiesta) (ringraziamento)

Infine, sequenze altamente routinarie possono non svolgersi in turni successivi e nell’ordine canonico, ma essere assorbite su un unico tur­

23. L a salvaguardia della “ faccia” è alla base di molte scelte preferenziali, cfr. 5.2.5. 24. E il caso della sequenza ringraziamento - minimizzazione nelle sequenze di riparazione, cfr. par . 5.2.5.

par .

16 4

no generando un ordine non canonico. Si osservino le seguenti se­ quenze di richiesta-accoglimento-ringraziamento inserite linearmente fra un rituale di apertura e uno di chiusura nel primo esempio e in­ tersecate con questi nel secondo: (40)

[squillo di telefono] P - Pronto? M - Pronto ciao

(appello) (risposta + identificazione) (riconoscimento; saluto + identificazio­ ne) P - Ciao! dimmi (riconoscimento + saluto; invio) M - Senti passi tu a prendermi? (richiesta) P - Va bene non c’è problema (accoglimento della richiesta; minimiz­ zazione) M - Va bene grazie (pre-chiusura; ringraziamento) P - Ok (accettazione della chiusura) M - A dopo ciao (saluto) P - Ciao (saluto) (conversazione telefonica) (41) [suono di citofono] (appello) V - Sì? (risposta) A - Ciao senti, posso prendere la bici? (saluto + identificazione; richiesta) V - Ciao! sì sì non preoccuparti (saluto + riconoscimento; accoglimento della richiesta) A - Grazie arrivo subito ciao (ringraziamento; saluto) V - Va bene ciao (accoglimento del ringraziamento; salut°) (conversazione al citofono; V e A sono vicini di casa e hanno una bici in comune) 5.2.a . L ’interazione asimmetrica: la dominanza e il potere All’analisi della conversazione sono state mosse critiche di una visione troppo neutra e asettica delle dinamiche comunicative, una visione che ne ignorerebbe l’aspetto più propriamente sociale e i condiziona­ menti che questi aspetti impongono alla gestione dell’interazione. Questa critica, secondo Orletti (1994), è superata dall’attenzione che gli studi più recenti hanno riservato alle concrete condizioni e moda­ lità con cui si sviluppa l’interazione. Alcuni concetti inseriti nel mo­ dello riguardano proprio le relazioni sociali intercorrenti fra i parlan­ ti: in particolare, la nozione di potere e quella di faccia, dalle quali dipende la nozione di cortesia. Il potere cui si fa riferimento (cfr. Brown, Levinson, 1978) è il potere che i parlanti hanno in un’interazione. Una disparità —o asim­

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5 . L A C O N V E R S A Z IO N E

metria - di potere interazionale si ha quando «non si realizza fra gli interagenti una parità di diritti e doveri comunicativi, ma i parteci­ panti si differenziano per un accesso diseguale ai poteri di gestione dell’interazione» (Orletti, 2000, p. 12). Le asimmetrie di una interazione possono manifestarsi su diversi livelli, e non necessariamente sono appannaggio dello stesso interlo­ cutore. Linnell e Luckmann (1991) individuano quattro diversi tipi di dominanza che possono ricorrere in un’interazione, qui riportati nella

caso, benché gli obiettivi dell’intervistatore siano rispondenti alla si­ tuazione comunicativa istituzionale - cioè porgere domande per rac­ cogliere informazioni dall’intervistato - si osserva che la dominanza quantitativa può appartenere all’intervistatore.

F IG . 5 . 3 .

(42)

\It\ \Mk\ \It\ \Mk\ \It\

FIGURA 3.3 Form e della dominanza nell’interazione 25 Dom inanza quantitativa: relativa al numero di parole e di turni a disposizione Dom inanza interazionale: relativa alla possibilità di com piere mosse forti nel con­ trollo delle sequenze interazionali Dom inanza semantica: relativa alla possibilità di controllare gli argom enti e di im porre un punto di vista fonte·. Linnel, Luckmann (1993).

La dominanza quantitativa è un fenomeno di più immediata evidenza, relativo allo «spazio interazionale a disposizione» di ogni interlocuto­ re (Orletti, 2000, p. 14). E importante sottolineare che la dominanza quantitativa è determinata non solo dall’ampiezza dei turni, ma anche dal loro numero. In una situazione di intervista, ad esempio, la domi­ nanza quantitativa in termini di parole appartiene normalmente all’intervistato - cui è normalmente concesso di dilungarsi nelle risposte -, ma il numero di turni è identico nei due interlocutori; in caso di un’intervista di gruppo (ad esempio, ad una squadra di calcio negli spogliatoi dopo una partita) il numero di turni a disposizione dell’in­ tervistatore sarà probabilmente superiore a quello di ogni intervistato. Diamo qui due esempi di un particolare tipo di intervista, l’intervista nativo-non nativo a scopo di indagine sociolinguistica26: in questo

\Mk\ \It\ \Mk\ \It\ \Mk\ \It\ \Mk\ \It\ \Mk\ \It\ \Mk\ \It\ (43) \IT\ \MT\ \IT\ \MT\ \IT\ \MT\ \IT\ \MT\ \IT\ \MT\ \IT\ \MT\

quando sei arrivato in Italia? eh + + + un mese fa un mese fa? sì come sei arrivato? [...] sei partito da + + dunque ++ sei partito da Massaua con la nave? no + da Sudan ah dal Sudan sì sei andato fino a Khartum? Khartum sì con cosa? con il treno o? no ae(re) con l’aereo + da Asmara? sì cioè hai fatto Asmara - Khartum con l’aereo + e poi eh Khartum - (Grich) - eh + Cairo - *A?tenes* - *Milan* ah ah + sempre con l’aereo? + un bel viaggio + poi %parliamo un po’ liberamente% ?tu sei nato* dove_? a Dusseldorf + + + a Dusseldorf Dusseldorf ma- + + ?poi? e poi ? eh + + + ho @vivuto@ mhm tre anni- a Dusseldorf poi- noi siamo trasferi-?ti? a- Stoccarda mhm per- un anno + abiamo vivuto qua mhm poi siamo andati ad Amburgo + eh + lì ho- + sono stato%devo pensare % + sei anni e poi undici anni fa- sono ar­ rivato a Berlino

25. Tralasciamo dal modello di Linnell e Luckmann quella che viene chiamata la dominanza strategica, poiché agisce a un piano più alto, al livello degli scopi dell’inte­ razione che travalicano l’interazione stessa, e come tale non è immediatamente con­ statabile sul piano dell’analisi dell’interazione stessa. 26. I dati sono tratti dal corpus di italiano come seconda lingua del Progetto di Pavia (cfr. Banca Dati di Italiano L2, 2001). /IT / individua l’intervistatore nativo, /M K/, /M T/ e, più avanti, /X I/, gli intervistati non nativi.

La differenza di comportamento sarà in parte legata alla diversa com­ petenza del parlante non nativo, che nel primo caso ha bisogno del supporto del nativo per organizzare il proprio discorso; tuttavia,

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come vedremo più avanti, la maggior competenza linguistica non è necessariamente causa di fenomeni di dominanza. La dominanza interazionale riguarda la possibilità di compiere mosse interazionalmente forti, cioè mosse che vincolano una o più mosse successive. Per restare all’analisi della situazione di intervista, la dominanza interazionale è normalmente propria dell’intervistatore, che attraverso un canovaccio di domande guida il comportamento in­ terazionale dell’intervistato, che ha come mossa comunicativa preva­ lente la risposta. Anche in questo caso, tuttavia, non si tratta di una caratteristica necessaria della situazione intervista. Traiamo ancora da un’intervista nativo-non nativo un esempio in cui la dominanza inte­ razionale, nonostante i tentativi dell’intervistatrice di riappropriarsene (cfr. turni n. 4 e n. 8 dell’intervistatrice), è per qualche tempo presa dall’intervistata:

tore sono meno determinati, anche se non necessariamente conflittua­ li: l’intervistatore può selezionare in modo più o meno rigido le aree su cui verterà l’intervista, e normalmente consentirà all’intervistato di esporre il proprio punto di vista, evitando di esporre il proprio. An­ che questa tuttavia non è una regola rigida. Si osservi il seguente esempio tratto da Orletti (2000, p. 78): (45)

M:

Senta comunque le sue televisioni/ che le televisioni, che la sua televisione, in qualche modo sia la DIFFERENZA in queste ele­ zioni è chiaro a tutti. A lei è chiaro oppure lei lo nega B: No, a me è chiaro che la r a i , la televisione pubblica che vive coi soldi di tutti: fa la televisione di u n partito politico = M: = questo non è vero

La dominanza semantica riguarda invece la selezione degli argomenti e l’imposizione di un punto di vista: sotto questo aspetto, nella situa­ zione di intervista, il comportamento dell’intervistato e dell’intervista­

In questo caso l’intervistatore rinuncia volontariamente al proprio ruolo “istituzionale” intervenendo direttamente nell’interazione come pari, per esporre il proprio punto di vista. La dominanza è, nella prospettiva di Linnel e Luckmann un feno­ meno di disparità nel comportamento interazionale che può ricorrere all’interno di singole sequenze interazionali o permeare interi scambi comunicativi ed è solitamente una manifestazione dell’asimmetria di potere interazionale. Le asimmetrie possono essere previste istituzio­ nalmente da alcuni tipi di interazione, in cui differenze di ruolo o di competenza possono originare un diverso potere nella gestione della comunicazione: è ciò che accade nelle interazioni medico - paziente, professore - alunno, intervistatore - intervistato, o, per diversa com­ petenza linguistica, nelle interazioni fra parlante nativo e non nativo o fra adulto e bambino. Non necessariamente una condizione di asim­ metria porta a una gestione conflittuale: le parti possono accettare il ruolo che la situazione o gli altri parlanti impongono o inducono. Possono però anche verificarsi casi di conflitto, in cui le parti cercano per sé un ruolo diverso: alcuni degli esempi riportati mostrano casi di conflitto (esempi (44) e (45)), mentre in altri casi una distribuzione “ non canonica” della dominanza può essere accettata e anzi costruita congiuntamente dagli interlocutori (esempio (43)). Del resto, benché possa esistere un’aspettativa degli interlocutori su come si svolgerà la comunicazione, i ruoli non sono predeterminati dalla situazione o dal ruolo sociale dei parlanti nell’evento comunicativo, ma sono costruiti dal comportamento dei parlanti a mano a mano che la comunicazione procede. Ad esempio, uno dei parlanti può non accettare il ruolo che l’interlocutore gli assegna e può tentare di rinegoziarlo. Nel seguente

168

169

(44) \IT\ \XI\ \IT\ \XI\ \IT\ \XI\ \IT\ \XI\ \IT\ \XI\ \IT\ \XI\ \IT\ \XI\ \IT\ \XI\ \IT\ \XI\ \IT\ \XI\ MT\ \XI\ MT\

eh già + + + e poi dei dolci cinesi dolci certo eh_ uguale Italia no? &però cuci/& &(ce ne saran)& di diversi eh cucina eh diversi eh:_ raccontami &diver/& &un dolce& uno dolce? io ho mangiato una volta al ristorante una banana una banana? + &u&guale no? & SÌ&

sì ma era preparata bene ah: [FA VERSO DI NO] non sai come si fa 6da ba&nana? &eh: sì& banana con farina [RIDE] eh (hano) fato vero? probabile non lo so eh banana cruda no era cotta eh? ra cotta? sì

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

5 . L A C O N V E R S A Z IO N E

esempio, tratto da Orletti (2000, p. 114 ), un medico nativo italiano diagnostica a una paziente, non nativa e incidentalmente infermiera, un disturbo:

come qualcosa che non è precostruito attraverso, ad esempio, i dati socioanagrafici, o il carattere o il ruolo sociale specifico che il parlan­ te riveste in una determinata situazione, ma piuttosto come qualcosa che si costruisce e ribadisce - o si mette in discussione - costantemente nel corso dello scambio comunicativo. Proponiamo nella f i g . 5,4 uno schema relativo alla gestione della faccia.

(46)

M: P: M: P: M: P:

saliva con (.) piccoli animali (.) batteri (.) capito? sì, ah: ((ride)) capi::to ah ah ((ride)) io parlo così, però (.) porque me parla // così // capito e:: si per/ come (se) fosse una persona (che) non capisce niente

In questo caso P si trova in una posizione di inferiorità di potere per almeno due motivi: perché è straniera, e perché è in questo momento una paziente. Tuttavia la propria competenza, sia linguistica sia enci­ clopedica, è sottovalutata da M, e per questo motivo P si ribella al controllo che M cerca di esercitare sulla comunicazione, rivendicando un trattamento maggiormente paritario e non protettivo. Analoga­ mente, nel caso seguente (sempre tratto da Orletti, 2000, p. 118 ), una madre tenta di instaurare una “ sequenza pedagogica” , in cui lei come docente ha maggior potere nella comunicazione, ma questo tentativo viene interrotto dalla figlia: (47)

M: F: M: F:

Guarda che bei calanchi, lì in quella valle (...) i calanchi sono // // ma non voglio sapere che sono i calanchi

Questi esempi suggeriscono ancora una volta come sembri essere più appropriata, per l’analisi delle interazioni, una prospettiva costruzionista, che imposta la descrizione delle interazioni come regolata da un insieme di convenzioni non preordinate all’interazione ma che, al­ l’interno dell’interazione stessa, vanno ogni volta rinegoziate. 5.2.5. La gestione della “ faccia” e la cortesia Il concetto di “faccia” viene all’analisi conversazionale dalle riflessioni di Goffmann (1964), studioso di sociolinguistica dell’interazione che non si è occupato direttamente di analisi della conversazione, ma di come attraverso l’interazione comunicativa venga costruito il “ sé” , l’i­ dentità sociale dell’individuo. La prospettiva di Goffmann è appunto costruzionista, ovvero egli vede l’identità sociale di un individuo 170

5.4 La gestione della faccia

FIGURA

1 I partecipanti ad un’interazione intendono salvare la propria faccia 2 L’attenzione alla faccia dell’altro dipende dal potere relativo 3 L’attenzione alla faccia altrui può danneggiare la propria F o n te : Brown, Levinson (1978).

Molta dell’attività interazionale è in questa prospettiva considerata come volta alla costruzione e al mantenimento della “faccia” , cioè del rispetto della propria e altrui identità sociale. Le procedure volte alla gestione della faccia sono sostanzialmente di due tipi: rituali di evitamento, che mirano a preservare una distanza dall’interlocutore; rituali di presentazione, attraverso cui i parlanti attestano le proprie posi­ zioni. A tale aspetto nella comunicazione interpersonale è stata da più parti riconosciuta abbastanza importanza da ritenere di dover riserva­ re un posto specifico alle procedure che vi si riferiscono. E questo il senso della nozione di ‘cortesia’ (politeness, cfr. Brown, Levinson, 1978), che raccoglie l’insieme di strategie e procedure che mirano alla salvaguardia della propria e dell’altrui faccia soprattutto attraverso il rispetto della distanza dall’interlocutore, ovvero l’attenzione ad evita­ re di porre l’interlocutore in una situazione costrittiva e, per questo, intrinsecamente aggressiva - nel senso di aggressione simbolica all’i­ dentità individuale. Lakoff (1973) propone che una ‘massima di cortesia’: “sii cortese” , debba essere istituita come super-massima accanto alle regole sulla logi­ ca conversazionale di Grice (1967): sarebbe questa infatti la massima che motiva l’esecuzione di diversi atti linguistici non in modo diretto ma in modo indiretto: essi consentirebbero al parlante di ottenere l’ef­ fetto perlocutivo voluto senza violare la faccia dell’interlocutore. Ad esempio, la richiesta di aprire una finestra attraverso un imperativo:

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(48) Apri la finestra!

5 . L A C O N V E R S A Z IO N E

per strada; l’interlocutore offre normalmente un conforto come re­ plica 28:

porrebbe l’interlocutore in una situazione priva di uscita, in cui egli non avrebbe scelta fra un atto di accettazione, ovvero di sottomissio­ ne aU’ordine, e quindi di perdita della faccia, e un esplicito rifiuto che genererebbe un conflitto e il rischio di perdita della faccia da parte di chi ha fatto la richiesta. Viceversa, se la richiesta avviene in una forma indiretta, attraverso la constatazione di un dato di fatto: (49) Che caldo! il parlante lascia aperta all’interlocutore che non desideri adeguarsi alla richiesta, indiretta ma perfettamente comprensibile - almeno da parte di un interlocutore che condivida le norme comportamentali del parlante - , la possibilità di ignorare la forza illocutiva indiretta e replicare esclusivamente alla forza linguistica diretta: (50) Davvero! 27 La nozione di cortesia spiega anche alcune opposizioni fra mosse pre­ ferenziali e non preferenziali nelle sequenze complementari: alcune mosse possono essere non preferenziali perché minano la faccia del­ l’interlocutore o del parlante. Vediamo di seguito due concrete appli­ cazioni delle nozioni di faccia e cortesia nella descrizione di due tipi di sequenze complementari: gli scambi riparatori, analizzati dallo stes­ so Goffmann (1971), e le sequenze per esprimere accordo e disaccor­ do studiate da Pomerantz (1984). Le sequenze di riparazione sono sequenze che intervengono nel momento in cui un particolare evento rischia di compromettere la faccia di uno dei partecipanti allo scambio comunicativo. La sequen­ za si apre con una ‘riparazione’ ed è seguita da un ‘conforto’. La ri­ parazione è offerta da un parlante - l’“ offensore” - che compie un atto lesivo nei confronti di un altro - l’“ offeso” , ad esempio lo urta

27. Di fatto, nel caso specifico, l’alto livello di routinarietà di questa mossa co­ municativa - ovvero, dato che la forza illocutiva indiretta è resa trasparente dalla cri­ stallizzazione di tale routine - è probabile che anche l’esplicito ignorare tale atto indi­ retto sarebbe inteso come atto offensivo. È probabile allora che tale risposta, che agi­ sce al livello superficiale come replica a una constatazione, sia seguita da una seconda mossa dell’interlocutore, ad esempio una giustificazione, che esplicita il fatto che egli ha capito le intenzioni del parlante e motiva l’implicito rifiuto, ad esempio così: “Dav­ vero! È che ho mal di gola, altrimenti potremmo aprire” .

172

(51)

P - Scusi (riparazione) I - Niente (conforto) (conversazione faccia a faccia, per strada, fra sconosciuti)

L ’obiettivo di P, nella prospettiva di Goffmann, è quello di evitare che l’atto potenzialmente offensivo venga valutato come tale; la re­ plica vale da parte dell’offeso come assicurazione di aver accettato di evitare tale valutazione negativa. Ora, lo stesso rischio di offesa potenziale scaturisce da molte altre situazioni: ad esempio, possono esserci atti intenzionali che possono essere interpretati come potenzialmente offensivi e, perciò, sono pre­ ceduti da sequenze di riparazione o fondate su di esse. Sono di que­ sto tipo per Goffmann i rituali di richiesta e soddisfacimento di una richiesta: (52)

P - Scusi, passo. (richiesta) I - Prego (soddisfacimento) (conversazione faccia a faccia, in autobus)

La sequenza può essere prolungata da una seconda coppia di turni, in cui l’offensore ringrazia per l’accettazione da parte dell’offensore della propria giustificazione (‘ringraziamento’) e l’offeso minimizza la portata della propria concessione (‘minimizzazione’) per sancire e ri­ pristinare una parità di dignità fra sé e l’interlocutore: (53)

P - Scusi, mi fa timbrare? I - Prego P - Grazie I - [sorride] (conversazione faccia a faccia,

(riparazione + giustificazione) (conforto) (ringraziamento) (minimizzazione) in autobus)

Gli scambi riparatori possono essere innescati anche dall’offeso. Ciò accade ad esempio quando l’evento offensivo non è provocato da un altro attore: nel caso seguente, in seguito a una “brutta figura” l’offe-

28. Come per molte mosse comunicative, la mossa di conforto può essere risolta anche da un semplice sorriso, che indica da parte dell’offeso l ’accettazione della ripa­ razione offerta dall’offensore.

173

5 . LA C O N V E R S A Z IO N E

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

so ripristina la faccia nei confronti di un altro partecipante all’evento innescando per primo uno scambio riparatore a base non verbale 29:

(56)

R - Bello, no? (giudizio + richiesta di giudizio) C - Moltissimo (accordo) (conversazione faccia a faccia; uscita da teatro)

(54) I inciampa nel marciapiede sconnesso. I - [rivolto a un passante sconosciuto che ha assistito alla scena, P, sorride] P - [sorride]

In generale, le valutazioni positive sono preferenziali a quelle negative:

Si osservi che nella stessa situazione lo scambio potrebbe essere ini­ ziato da P, invertendo cioè l’ordine dei sorrisi, con lo stesso effetto: ottenere un accordo fra i due attori della comunicazione sull’attenuare l’offesa arrecata all’immagine di I. Lo scambio riparatore può essere innescato dall’offeso anche quando esista un preciso offensore; in questo caso, l’offeso non offre all’offensore una riparazione ma piuttosto una ‘mossa d’avvio’ che consenta all’interlocutore di avviare uno scambio riparatore e risolve­ re il conflitto senza danni per le rispettive immagini sociali:

Una manifestazione di dissenso, o una valutazione negativa sono mos­ se non preferenziali, e come tali vengono infatti segnalate da esitazio­ ni, o da giustificazioni, che eventualmente possono anche essere pre­ messe al disaccordo vero e proprio o sostituirlo:

(55)

In treno, P si siede nel posto già occupato da I, che è momentanea­ mente in piedi. I - Scusi, c’ero io (avvio) P - Oh scusi, avevo visto vuoto (riparazione + giustificazione) I - Niente (conforto)

Goffmann cita altre possibili “variazioni sul tema” degli scambi ripa­ ratori, che tutte possono essere ricondotte alla semplice sequenza illu­ strata ora: l’analisi degli scambi conversazionali in termini di funzioni sociali che le mosse adempiono permette cioè di osservare regolarità di comportamento nell’interazione fra parlanti che non sarebbe possi­ bile cogliere attraverso, ad esempio, un’analisi contenutistica o lin­ guistica. Anche le sequenze per esprimere accordo e disaccordo mostrano il peso della gestione della cortesia nell’interazione. In generale, per una regola di cortesia, la replica preferenziale a un’espressione di giu­ dizio è una manifestazione di assenso:

29. Per Goffmann (19 7 1) «i sorrisi permettono all’individuo di comunicare il suo desiderio di non provocare contestazioni anche prima di sapere su che cosa le contestazioni potrebbero vertere». Nel nostro caso, il sorriso di I è una segnalazione - pre­ ventiva a qualsiasi reazione di P - che il comportamento goffo non va considerato, ad esempio, come provocato da incapacità di reggersi in piedi; è cioè un invito a consi­ derare sotto una luce benevola e positiva l’evento, ad esempio attribuendolo a disat­ tenzione e “ scagionando” I da interpretazioni più lesive della sua faccia. Il sorriso di replica di P indica la disponibilità di quest’ultimo a tale interpretazione.

z74

(57)

R - Allora che te ne pare finora? C - C’è una bellissima atmosfera (conversazione faccia a faccia; durante una manifestazione di piazza)

(58)

R - D’accordissimo, e tu? C - Mah, mica tanto

(59)

C - Che dici del film di ieri? R - Ma sì no era un po’ lungo (conversazione faccia a faccia)

(m e s sa g g io

(giudizio, richiesta di giudizio) (esitazione, disaccordo)

sm s)

(richiesta di giudizio) (esitazione, giustificazione)

Situazioni di conflitto emergono evidentemente nei casi in cui un in­ terlocutore è chiamato ad esprimere un accordo su una valutazione negativa che un parlante da di sé: in questo caso l’interlocutore si scontra fra le due opposte esigenze di cortesia di manifestare accordo con il parlante e di non darne una valutazione negativa. La strategia preferita sembra essere quella della segnalazione di disaccordo, o, in caso che venga segnalato un accordo, questo viene effettuato con gli strumenti più deboli di cui dispone il repertorio. Un mezzo per se­ gnalare accordo attenuando il danneggiamento della faccia altrui è quello di mostrare una propria appartenenza alla stessa categoria: (60)

C - Sono una disordinata cronica - Anch’io

Z

I due esempi brevemente proposti delle sequenze di riparazione e delle manifestazioni di accordo/disaccordo mostrano come l’indivi­ duazione di situazioni di conflitto piuttosto generali può consentire di descrivere con schemi regolari e semplici un ampio ventaglio di situa­ zioni comunicative. E evidente tuttavia anche dagli esempi che queste descrizioni non hanno alcun intento prescrittivo né predittivo, ma piuttosto si presentano come uno studio etnografico del comporta­

175

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

mento di attori sociali in un determinato contesto comunicativo e ambiscono, al limite, a individuare delle regolarità di comportamento valide per una certa cultura. In questo caso è infatti più che mai im­ portante un approccio interculturale, che determini le differenze che, all’interno di una griglia descrittiva comune, possono individuarsi da cultura a cultura: il livello di salvaguardia del sé e la soglia oltre la quale ci si può sentire aggrediti o umiliati può evidentemente differi­ re da cultura a cultura, e può essere analizzata solo in prospettiva interlinguistica e interculturale.

5 . L A C O N V E R S A Z IO N E

(63) - Perché chiedi se ha fame? - Perché sono arrivate le pizze in cui un fatto (l’arrivo delle pizze) è portato come giustificazione non di un fatto ma di una domanda (la domanda relativa all’aver fame). Un altro modo per evidenziare questa differenza è una para­ frasi del tipo: (64)

a) Dico che è nervoso, e il motivo per cui è nervoso è che ha fame b) Chiedo se ha fame, e il motivo per cui lo chiedo è che sono arrivate le pizze

5 -3

Un banco di prova per la linguistica testuale: le particelle discorsive

Concludiamo il volume con una descrizione della classe delle particelle discorsive, le quali, sfruttando i diversi piani di analisi che fin qui abbiamo individuato come propri della descrizione dei testi, fun­ gono da “banco di prova” della loro appropriatezza ed efficacia espli­ cativa e illustrano bene in che modo essi possono essere applicati. Impostiamo il problema osservando il diverso valore della con­ giunzione perché negli enunciati seguenti: (61)

a) È nervoso perché ha fame b) Ha fame? Perché sono arrivate le pizze

La congiunzione perché ha in entrambi gli enunciati significato causa­ le: tuttavia essa non ha lo stesso valore. Questa differenza, a prima vista non evidente, è messa facilmente in luce dal diverso comporta­ mento della congiunzione nei seguenti contesti dialogici: (62)

a) b) ?? -

Perché Perché Perché Perché

è nervoso? ha fame ha fame? sono arrivate le pizze

La trasformazione in coppie dialogiche mostra chiaramente come la relazione fra le frasi legate da perché sia diversa nei due esempi: in (61 )a un fatto (l’aver fame) è portato come giustificazione di un altro fatto (l’essere nervoso), mentre in [6i)b non è così: il fatto dell’arrivo delle pizze non spiega il fatto di avere fame. La corretta resa dialogi­ ca di (61 )b sarebbe invece:

176

oppure, come in (63), attraverso un sistema a parentesi che metta in evidenza il diverso ambito d’azione (portata) della connessione causa­ le: una connessione tra eventi in un caso, tra eventi e atti linguistici nell’altro. (63)

a) Dico che [è nervoso] perché ha fame b) [Chiedo] se ha fame perché sono arrivate le pizze

Le ‘particelle discorsive’ (discourse particles, Abraham, 1990) - o ‘connettivi pragmatici’ (pragmatic connectives, van Dijk, 1979), ‘avver­ bi pragmatici’ (Conte, 1988), ‘segnali discorsivi’ (Bazzanella, 1995) sono appunto elementi linguistici di articolazione e di strutturazione che non esprimono relazioni al livello degli eventi evocati dagli enun­ ciati, ma relazioni fra elementi del testo stesso, cioè fra enunciati o fra atti di enunciazione. Possono essere ricondotti sotto una o più di queste categorie, ad esempio, gli elementi in corsivo nel testo se­ guente: (66)

Ardeche? No, non sono annegato io ed anche ribaltarsi non è così fa­ cile (oddio io sono andato accompagnato da canoista esperto e con poca acqua...). Il giro è comunque splendido, con acqua tiepida ed un sacco di gente (pure troppa). Avevo poi dormito in un campeggio con uno splendido arco di roccia e mangiato petto d’anatra in salsa di mir­ tilli, innaffiati da un vino splendido... {ehm, esagero...). La discesa era stata fatta in un giorno solo (spero di non averti raccontato già tutto questo, visto che a volte tendo a dimenticarmi ciò che racconto) ed era finita con una strana esaltazione (ci siamo sentiti veramente tosti, un po’ come dopo l’Emilius). Più che altro è il periodo che mi sembra non tanto buono: caldo mostruoso e tanta gente, io ero andato a metà settembre ed era stato veramente bello... (messaggio e-mail)

1 77

L IN G U IS T IC A T E S T U A L E

La varietà di etichette adottate, etichette che non sono equivalenti ma nemmeno nettamente distinte 3°, dà una prima indicazione dello stato ancora aperto e in corso della ricerca linguistica nel campo. Noi adotteremo l’etichetta di ‘particella discorsiva’ come termine generale per indicare questi elementi, adottando denominazioni specifiche per alcune sottocategorie maggiormente studiate. Sono state proposte nu­ merose analisi di singole particelle discorsive e sono state avanzate va­ rie proposte di classificazione, che rischiano però in molti casi di es­ sere episodiche e asistematiche, da un lato riducendosi a una mappa degli usi osservati, dall’altra mescolando criteri diversi di analisi e classificazione e risultando quindi incomparabili fra loro. Cercheremo nel seguito di mettere in luce i principi generali finora individuati at­ traverso un confronto fra diverse proposte. Tutti gli elementi evidenziati negli esempi proposti sono modificatori che agiscono al livello frasale (cfr. Lonzi, 19 9 1; Conte, 1988). Al livello frasale si possono però individuare, come abbiamo visto nei capp. 3 e 4, più piani di significato. In primo luogo, una frase, come proposizione, ha un valore a livello semantico, relativo agli eventi a cui l’enunciato fa riferimento: a questo livello possiamo avere modifi­ catori relativi allo “stato di cose” e al valore di verità di una proposi­ zione. In secondo luogo, una frase, come enunciato, ha un valore di tipo pragmatico, relativo alla funzione che l’enunciato ha nel discor­ so: a questo livello possiamo avere modificatori dell’enunciato, ovvero del testo, e dell’enunciazione, ovvero dell’atto linguistico come evento in sé. Con le etichette di ‘avverbi o connettivi pragmatici’ e di ‘se­ gnali o particelle discorsive’ si fa riferimento ai modificatori del li­ vello pragmatico, ovvero dei piani dell’enunciato e dell’enunciazione.

30. Le etichette di ‘connettivo pragmatico’ e ‘avverbio pragmatico’ nascono in un ambito più legato alle tradizioni logico-pragmatiche di studi di linguistica testuale, mentre le etichette di ‘segnale discorsivo’ o di ‘particella discorsiva’ nascono piuttosto nelle tradizioni di studi di analisi della conversazione: da qui discendono classificazio­ ni diverse, che adottano di preferenza le categorie descrittive dell’una e dell’altra tra­ dizione di studi. Si osservi ad esempio questa definizione di ‘segnale discorsivo’ di Bazzanella (1995), nettamente orientata al versante interazionale: «I segnali discorsivi sono quegli elementi che, svuotandosi in parte del loro significato originario, assumo­ no dei valori aggiuntivi che servono a sottolineare la strutturazione del discorso, a connettere elementi frasali, interfrasali, extrafrasali e a esplicitare la collocazione del­ l’enunciato in una dimensione interpersonale, sottolineando la struttura interattiva della conversazione». Tuttavia è possibile individuare tratti comuni fra queste defini­ zioni, riconducibili sostanzialmente al fatto che gli elementi che vi sono inclusi opera­ no tutti ai livelli pragmatici del significato (Dijk, 1979). Sulle difficoltà della delimita­ zione della categoria e sui più o meno ampi confini attribuiti all’etichetta di ‘particella’ (paritele) si veda Hartmann (1994).

178

5 . LA C O N V E R S A Z IO N E

Secondo la definizione di Moeschler: «un connettivo pragmatico è una funzione i cui argomenti sono unità di discorso e il cui valore è un’unità di discorso» (1996, p. 22, trad. nostra) 31. 0 3 Le particelle discorsive appartengono di solito alle classi sintatti­ che degli avverbi e delle congiunzioni, ma, come gli esempi in (66) mostrano, possono avere anche altra origine sintattica: possono fun­ gere da particelle discorsive interiezioni {eh, oh...), sintagmi verbali (1diciamo, senti, concludendo...), sintagmi preposizionali {per esempio, in sostanza, fra parentesi...), frasi {a dire il vero, tutto sommato...). Tuttavia, quando hanno funzione di particelle discorsive, questi ele­ menti perdono le proprietà sintattiche proprie della classe da cui pro­ vengono e assumono piuttosto il comportamento proprio degli avver­ bi frasali: hanno infatti una notevole autonomia sintattica rispetto alla frase in cui sono inseriti, autonomia che si manifesta come libertà po­ sizionale, possibilità di ricorrere in posizione parentetica, possibilità di costituire gruppo tonale a sé (cfr. Bazzanella, 19 9 5 )3L Dal punto di vista semantico, una peculiarità delle particelle di­ scorsive è il ruolo fondamentale che il contesto discorsivo riveste per l’interpretazione della loro funzione e, simmetricamente, l’estrema sfuggevolezza del loro significato. In senso negativo, le particelle di­ scorsive si caratterizzano per non contribuire al valore di verità della proposizione; in senso positivo, qualificano e connotano i livelli del­ l’enunciato e dell’enunciazione. Una prerogativa spesso messa in luce, per diversi gruppi di esse, è la loro polifunzionalità (Bazzanella, 1993, p. 223), ovvero la possibilità di una stessa particella di assolvere a diverse funzioni comunicative. Tuttavia la polifunzionalità non è soli­ tamente descrivibile come un fenomeno di sinonimia, ma piuttosto come il risultato dell’intreccio fra un valore semantico stabile, intrin­ seco alla particella, e i diversi contesti discorsivi in cui essa può esse­ re inserita. Una particella come diciamo, ad esempio, può fungere da

3 1. Sono invece modificatori del livello dell’evento gli avverbi valutativi (Conte, 1988), che qualificano l’evento descritto dalla frase: Purtroppo il treno è partito Stranamente non c ’è ancora nessuno mentre sono modificatori del valore di verità della proposizione gli avverbi modali (Venier, 1986; cfr. qui par . 4.2.1): Forse arrivo domani G li avverbi modali sono da tenere distinti dalle particelle modali, di cui parleremo qui, che sono invece modificatori dell’enunciato. 32. Ciò non toglie che specifiche particelle discorsive possano avere una colloca­ zione preferenziale nella frase, ad esempio iniziale (i segnali di presa di turno) o post­ verbale (le particelle modali).

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5 . LA C O N V E R S A Z IO N E

particella modale (come attenuatore dell’asserzione) in (67), da indi­ catore di esemplificazione in (68), da segnale fatico di esitazione in (69) (cfr. oltre per queste etichette):

normalmente detti particelle modali (o abtònungspartikeln, Stammerjohann, 1980), sono da tempo studiati specialmente nella linguistica tedesca, dato che il tedesco ne presenta una classe numerosa (cfr. Weydt, 1983). Anche l’italiano tuttavia ne possiede diverse 33. Citia­ mo, a puro titolo esemplificativo, oltre al già menzionato diciamo, ma­ gari e pure, che attenuano la forza di un atto linguistico di tipo di­ rettivo; un po’, che attenua la forza di un’asserzione34:

(67)

Nutre forti riserve per l’apparato del partito, pur essendo svelto nell’infilarvisi perché l’uomo, diciamo, non è schiavo dei suoi principi. (“Corriere della Sera” , 15 giugno 1994) (68) Se la ripresa arriva, allora questo significa che la Federai Reserve e Greenspan hanno finito di abbassare i tassi di interesse. Anzi, è proba­ bile che stiano già pensando al momento in cui dovranno rialzarli. Di­ ciamo all’inizio del 2004? Nella primavera del 2004? (“la Repubblica” , 7 luglio 2003) (69) Si possono eh, diciamo avere molte varianti (seminario universitario, cit. da Bazzanella, 1995, p. 250) Gli esempi seguenti di diciamo mostrano due casi “di confine” fra uso come esemplificatore e come attenuatore, che illustrano il nesso semantico che è probabilmente all’origine della doppia funzione te­ stuale. Avanzare una proposta attraverso un esempio, cioè presentan­ dola come suggerimento possibile, è un modo di attenuarne la forza coercitiva: ecco una possibile via attraverso cui un segnale di riformu­ lazione può divenire un segnale di attenuazione. (70) (71)

Riguardo al cinema invece potremmo già metterci più o meno d’accor­ do per lunedì 3 febbraio diciamo al Warner Village (messaggio e-mail) Allora decidiamo di trovarci domani sera alle diciamo 21,15 davanti al Cinema Kong? (messaggio e-mail)

La descrizione che Bazzanella (1995, p. 250) dà degli usi di diciamo illustra questa varietà di funzioni sconfinanti l’una nell’altra: «Diciamo realizza una scala di intensità rispetto alla forza illocutoria, che va dalla correlazione come riformulazione ad un uso prevalentemente fa­ tico, come segnalatore di incertezza o di difficoltà di formulazione, insieme a pause ed altri segnali discorsivi, passando attraverso ai gra­ di intermedi di limitazione ed attenuazione, o di “ cortesia” ». Conte (1988) distingue fra gli avverbi pragmatici i modificatori di enunciato (in cui include i modificatori di forza illocutiva e i connet­ tivi testuali) e i modificatori di enunciazione (fra i quali individua i modificatori di atto linguistico). Nel seguito descriveremo queste sot­ tocategorie di avverbi pragmatici, che sono state piuttosto studiate in lingue diverse. Fra i modificatori di enunciato, i modificatori di forza illocutiva, 18 0

(72) (73)

Se vuoi estendere l’invito alla tua amica, fallo pure (messaggio e-mail) Portate una torta e magari anche piatti, bicchieri e posate di plastica (messaggio e-mail) (74) Ecco un po’ direi se vuole un po’ il cuore del problema è proprio a questo livello (trasmissione televisiva, cit. da Bazzanella, 1995, p. 240). Sono poi modificatori di enunciato i connettivi o avverbi testuali (Berretta, 1984; Conte, 1988; gliederungssignale, Giilich 1970; ‘con­ giunzioni testuali’, Sabatini, Coletti, 1997) che «concernono [...] la funzione e la posizione d’un enunciato in un testo. In altri termini, sono indicatori testuali che danno istruzioni sullo statuto testuale di ciò che segue». Si possono ricondurre a questa funzione i demarcativi (Berretta, 1984; Bazzanella, 1995), attraverso cui «il parlante segnala l’articolazione delle varie parti del testo: apertura, proseguimento, chiusura, ed il rapporto tra gli argomenti e i temi trattati» (Bazza­ nella, 1995, p. 246), gli indicatori di riformulazione (voglio dire, in altre parole, cioè...) e di esemplificazione (ad esempio, poniamo, faccia­

l i . Studi descrittivi di questo tipo di segnali discorsivi in italiano, pur senza pre­ tese di essere rassegne sistematiche, sono Stammerjohann (1980), Burkhardt (1985), Held (1983, 1983), Bazzanella (1995). Sulle interiezioni si veda Poggi (1981). Una pa­ noramica degli studi sulle particelle modali in italiano, fin a partire dalla descrizione di Spitzer (1922), è Held (1988). 34. D a osservare che, nonostante il comune valore attenuativo, le particelle ma gari e pure non sono intercambiabili. La loro sostituzione può dar luogo a un enun­ ciato poco accettabile: ??Se vuoi estendere l’invito alla tua amica, fallo magari o mutarne il valore: Portate una torta e pure (anche) piatti, bicchieri e posate di plastica. Questo piccolo esempio mostra le difficoltà insite nell’analisi semantico-pragmatica “fine” di questi elementi. Per i due avverbi si vedano rispettivamente Radtke (1985), Spiti (1986) e Held (1983); Andorno (19993), da cui si evince che il valore modale di magari origina da quello epistemico di possibilità vs. certezza, mentre il valore modale di pure nasce da un significato di quantificazione additiva (cfr. oltre ranalisi di anche modale). Per un po’ come attenuatore in frasi imperative (dimmi un po’) cfr. sempre H eld (1983).

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mo...), che segnalano il ruolo che il testo che segue ha rispetto a quel­ lo che precede. I connettivi testuali, analogamente agli elementi di deissi testuale (cfr. par . 2.3.4), svolgono funzione metatestuale (Con­ te, 1988), poiché hanno come oggetto gli enunciati stessi come por­ zioni di un testo, e quindi qualificano il testo stesso. Nell’esempio che segue, un avvocato poco abile pronuncia un’ar­ ringa di accusa articolandone le parti attraverso una serie di connetti­ vi testuali: (75)

Eh, monsignore, hanno commesso falsa diceria, e in più hanno detto false verità; secondo, sono dei calunniatori; sesto ed ultimo - se li porti il diavolo! - hanno macchiato il nome di una dama; terzo, hanno fatto creder d’esser vere cose che invece erano falsissime; e insomma son furfanti mentitori (Shakespeare, Much ado about nothing, atto 5, scena 1, trad. it. di G. Raponi, 2001).

Oltre a questa funzione più “ sintattica” , di organizzazione lineare del testo, i connettivi testuali possono qualificare anche la natura seman­ tica delle relazioni che intercorrono fra le diverse porzioni del testo: sono di questo tipo gli avverbi quindi, infatti, dunque, allora... Anche questi connettivi hanno spesso più funzioni, potendo agire, oltre che al livello testuale come connettivi pragmatici, anche come connettivi semantici, cioè come modificatori al livello degli eventi. La distinzio­ ne fra uso semantico e pragmatico è sistematicamente segnalata da Sabatini, Coletti (1997), di cui proponiamo nell’esempio (76) la de­ scrizione dell’avverbio allora 35: come modificatore a livello dell’even­ to esso ha valore temporale, mentre come congiunzione testuale ha valore deduttivo-conclusivo all’interno di un’argomentazione; infine, esso possiede alcune funzioni interazionali: quella di accompagnare un’esortazione o, come espressione autonoma, di invitare l’interlocu­ tore a esprimere le conclusioni del suo discorso (e allora?). (76)

a l l o r a (avverbio). In quel preciso momento; in quel tempo determi­ nato, con riferimento sia al passato che al futuro: arrivava a. da una gita in montagna; andrò via solo a.; [...] 2. In un tempo indeterminato riferito al passato: a. c’erano maggiori possibilità di riuscita·, [...]

In funzione di congiunzione testuale, in tal caso, dunque, ebbene (talo­ ra preceduta da e o ma); conferisce valore deduttivo-conclusivo a una frase o sequenza di discorso rispetto a quanto detto in precedenza (isolata da pause, può essere anteposta, interposta o posposta alla frase

35. Si confronti anche il diverso uso di perché negli esempi (61 )a e b.

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a cui appartiene): il film era noioso e a. uscii; se la metti così, a. c’è poco da discutere; visto che non vuoi capire, a. te lo ripeto; freq. in frasi esortative, di tipo imperativo o interrogativo, che rinviano generica­ mente a precedenti noti: a., chiudi tutto e partiamol; e a. set pronto?; finiamola, a., una buona voltai; deciditi, alloral; in uno scambio dialogi­ co: “Allora?” "A. niente; tutto rinviato alla prossima riunione”. Svolgono una analoga funzione di scansione del testo anche tutta una serie di segnali discorsivi che riguardano le funzioni interattive della conversazione, come segnali di presa e cessione di turno {senti, allo­ ra...), di controllo della ricezione, della comprensione, dell’accordo {eh?, no?, sì, già...), o segnali di specifiche mosse comunicative, oltre a fatismi (elementi che segnalano la coesione sociale, la condivisione fra parlante e ascoltatore) e riempitivi (elementi utilizzati per mante­ nere la parola in caso di difficoltà di pianificazione del turno) (cfr. Bazzanella, 1993). Fra i modificatori di enunciazione, Conte (1988) individua infine i modificatori di atto linguistico, che segnalano l’atteggiamento del par­ lante verso l’enunciazione. Sono di questo tipo le espressioni franca­ mente, (detto) in confidenza, sinceramente... (77)

Io, francamente, di vedere Matrix non avrei troppa voglia (messaggio e-mail) (78) Detto in confidenza, la serata mi è piaciuta fino a un certo punto (mes­ saggio e-mail) I modificatori di atto linguistico svolgono funzione metacomunicativa (Conte, 1988), poiché hanno come oggetto l’atto di comunicazione, ovvero qualificano il modo in cui avviene l’enunciazione. Possono es­ sere infatti parafrasati attraverso un’espressione contenente un verbo di dire: (79)

Te lo dico in modo franco·, io di vedere Matrix non avrei troppa vo­ glia (80) Te lo dico in confidenza·, la serata mi è piaciuta fino a un certo punto Abbiamo visto da diversi esempi {pure, magari, allora, perché) che le particelle con funzione pragmatica hanno spesso anche una funzione di modificatori frasali di tipo semantico: l’origine delle particelle pragmatiche è effettivamente di solito un connettivo o un modificatore semantico. Nonostante l’apparente idiosincrasia di significato di molte particelle pragmatiche, nella ricostruzione dei percorsi attraver­ so cui, a partire dal valore semantico, si produce il valore pragmatico

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si osservano regolarità che agiscono su scala interlinguistica, in modo analogo e indipendente in diverse lingue del mondo. Traugott, Kònig (1989) e Kònig, Requardt (1991) propongono un modello per questo tipo di evoluzione semantica che, in ultimo, si riallaccia alla teoria della rilevanza di Sperber, Wilson (1986). Proponiamo qui di seguito un esempio di tale percorso, illustrando la nascita di un valore prag­ matico di tipo modale per la particella anche a partire dal suo origi­ nario valore semantico di quantificazione additiva. Come avverbio modificatore di frase, anche appartiene alla classe dei focalizzatori, avverbi che agiscono al livello della struttura infor­ mativa 3Ó, quantificando in senso additivo {anche, pure) o restrittivo isolo) la proposizione relativamente all’elemento in focus (Andorno, i999a, 2000, cfr. qui parr . 3.1.6 e 3.1.3). In pratica, nell’enunciato:

La funzione modale di anche è esemplificata invece dall’enunciato seguente:

(81)

Porto anche i bicchieri

l’additivo anche agirebbe sulla proposizione indicando, a proposito della proposizione di background porto x, che essa è valida, oltre che per l’elemento in focus i bicchieri, almeno per un altro elemento al­ ternativo: porto i bicchieri, e porto qualcos’altro. L ’elemento alternati­ vo può essere esplicitato nel testo; in questo caso, il focalizzatore an­ che funge anche da connettivo, con funzione di rimando all’elemento alternativo (nell’esempio seguente, l’ultima sigaretta rispetto a le altre) e all’enunciato che lo contiene: (82) Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso (Svevo, La coscienza di Zeno, cap. 3, par. 37). L ’elemento alternativo può però non essere esplicitato: (83) Anch’io ne ho una così (conversazione faccia a faccia, indicando la borsa dell’interlocutrice). In questo caso l’elemento alternativo (la borsa del parlante rispetto alla borsa dell’ascoltatrice, indicata qui deitticamente dal gesto e dal pronome una) non è esplicitato nel testo: l’avverbio anche evoca allo­ ra un referente alternativo (la borsa del parlante) che non viene men­ zionato, ma viene comunque attivato nell’universo di discorso. 36. Secondo un’altra impostazione, “inducono” o “ producono” tale struttura sul­ la proposizione, ritagliando per il costituente nella propria portata il ruolo di focus: si veda Andorno (19998, 2000) per questi diversi approcci.

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(84)

Sono anche le tre... (pubblicità televisiva).

Per la comprensione dell’esempio occorre la ricostruzione del conte­ sto di una popolare pubblicità televisiva di qualche anno fa: la scena si apre su un rapinatore che nottetempo, dall’intemo di una banca, detta col megafono le sue condizioni a una squadra di carabinieri al­ l’esterno; mentre si svolge la trattativa, una finestra di un caseggiato che si affaccia sulla piazza si apre e un uomo in pigiama intima di smettere di urlare e di lasciar dormire la gente; sguardo di disappro­ vazione dell’ispettore di polizia (rivolto al commissario ma riferito alle parole dell’uomo in pigiama); il commissario guarda cautamente l’i­ spettore e in tono conciliante esclama, appunto: “ Sono anche le tre...” . Anche non funziona qui come un additivo nel senso canonico; l’e­ nunciato non ha un significato del tipo: (85) a) *Sono le tre, ed è anche un’altra ora b) Sono le tre e fa freddo. Anche ha invece un chiaro valore modale di attenuare l’asserzione del commissario. La stessa asserzione, priva di anche: (86)

Sono le tre...

avrebbe indicato da parte del commissario un’adesione molto mag­ giore alle ragioni dell’uomo in pigiama. Ora, come si origina questa funzione attenuativa di anche a partire dal suo originario valore addi­ tivo? La descrizione può essere data a partire da due fenomeni: un processo di rianalisi sintattica di anche - da modificatore di focus a modificatore di enunciato - e un suo riutilizzo pragmatico in chiave argomentativa. Anche come particella modale mantiene cioè il valore additivo, ma cambia la portata, cioè il livello dell’enunciato su cui questo valore agisce. Quando ha funzione di focalizzatore additivo, come abbiamo visto, il valore di anche si può parafrasare così: (87)

Anche oggi abbiamo finito

(focalizzatore additivo: portata sul focus)

cioè “Anche oggi (come tutti i giorni passati) abbiamo finito” . Quando ha funzione di particella modale, anche si può invece pa­ rafrasare in questo modo: 185

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(88)

Sono anche le tre

(particella modale: portata sull’enunciato)

cioè “ Fra le varie cose che si possono dire, c’è da dire che sono le tre” . Ora, il valore additivo di anche con portata sull’enunciato, ovvero la segnalazione che il fatto che sono le tre è solo uno dei fatti che si potrebbero rilevare nella situazione data, funge da operatore argo­ mentativo. Nel contesto dato, il commissario intende infatti, con l’as­ serzione “sono le tre” , sostenere le ragioni dell’uomo in pigiama, il quale ha ragione a protestare del rumore, dato che sono le tre di not­ te; con l’uso di anche, contemporaneamente, egli attenua la carica ar­ gomentativa del proprio enunciato, accettando anche le possibili ra­ gioni dell’ispettore - che col suo sguardo ha mostrato di disapprovare le rimostranze dell’uomo in pigiama - , ad esempio il fatto che la trat­ tativa col rapinatore è una questione importante che non può essere paragonata a degli schiamazzi notturni. L ’uso di anche vale quindi: “effettivamente sono le tre, ma del resto questo è solo uno dei fatti che vanno considerati in questa circostanza” oppure “ ci sono validi motivi per continuare il nostro lavoro, ma insieme bisogna considera­ re che sono le tre” . Si noti che, data questa descrizione, non c’è bisogno di attribuire ad anche un significato attenuativo supplementare: la sua funzione re­ sta quella di particella additiva, ma, operando al livello di enunciato, essa evoca degli enunciati alternativi che possono fungere, come acca­ de nel contesto proposto, da attenuatori dell’asserzione. L ’attribuzio­ ne di un valore attenuativo, anzi, complicherebbe la descrizione, co­ stringendo ad attribuire ad anche un diverso significato, rafforzativo, nei casi come il seguente: (89)

Si è tenuto un incontro, anche interessante, che ha sviluppato proprio questo aspetto (trasmissione radiofonica)

in cui anche modale porta argomenti che vanno nella stessa direzione dell’asserzione (“ si è tenuto un incontro, e per giunta era un incontro interessante” ). Il valore attenuativo, ovvero la funzione pragmatica della particella modale, nasce, invece, come intreccio fra il valore se­ mantico convenzionale di anche - il valore additivo -, l’insieme delle inferenze che questo valore evoca, e la capacità dell’interprete di sele­ zionare, fra le inferenze possibili, quelle pertinenti e appropriate al discorso in atto, ovvero quelle rilevanti per l’universo discorsivo dato: un esempio interessante dell’intreccio fra semantica e pragmatica che solo un’attenzione, insieme, al testo e agli interpreti, consente di met­ tere in luce.

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