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Italian Pages 220/223 [223] Year 2005
BIBLIOTECA DI TESTI E STUDI / 310 FILOSOFIA
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Linguaggio, mente, conoscenza. Intorno a Leibniz A cura di Stefano Gensini
@ Carocci editore
Questa pubblicazione è stata realizzata con il contributo dell'Università degli Studi di Salerno (fondi di ricerca ex 6o% relativi all'anno 2ooo, erogati dal Dipartimento di Scienze della Comunicazione)
13 edizione, febbraio 2005 ©copyright 2005 by Carocci editore S.p.A., Roma
Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Finito di stampare nel febbraio 2005 dalla Litografia Varo (Pisa)
ISBN 88-430-2781-6 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.
Indice
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Pre01essa
di Stefano Gensini
Tra Valla e Scaligero: Leibniz, la linguistica rinasciDlentale e il proble01a del ca01bia01ento se01antico
I5
di Francesco Piro
l01pegno "editoriale" e te01i retorici nella prefazione a Nizolio
39
di Giovanna Varani
59
Leibniz alla caccia di Spinoza
di Enrico Pasini
De Brosses e Leibniz: un 01odello di naturalis01o lin-
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guistico
di Marina De Palo
Eins in Vielem: 01otivi leibniziani nella filosofia del linguaggio di Herder
I2I
di Ilaria Tani
Spirai Lines: Aspects of Leibniz' Language Philosophy and Se01iotics
by Klaus Dutz 7
I
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LEIBNIZ E IL LINGUAGGIO
Spiegazione e riduzione: Leibniz e i filosofi della mente
193
di Clotilde Calabi
Gli autori
21 5
Indice dei nomi
217
8
Premessa di Stefano
Gensini
Questo volume raccoglie e organizza un gruppo di ricerche intorno alle idee linguistiche e all'iniziativa culturale di Gottfried Wilhelm Leibniz . Esse si aggiungono a un panorama bibliografico fattosi negli ultimi anni imponente, collocandosi dal punto di vista del nesso fra linguaggio e teo ria della conoscenza. L'ottica prescelta è ora quella della collocazione che il filosofo tedesco assunse nei confronti di figure di intellettuali e pensa tori del suo tempo o del recente passato, ora quella dell'influsso che la sua elaborazione teorico-linguistica ebbe su studiosi del secolo successi vo; senza trascurare le aperture che Leibniz consente in direzione di te mi e interrogativi inerenti per vie interne al dibattito odierno, sia in filo sofia del linguaggio sia in filosofia della mente. Prima di passare a un'illustrazione dei contenuti del volume, sia consentito fare brevemente il punto di alcuni aspetti della Leibniz-For schung cui esso si richiama, per assenso o dissenso. Un primo elemen to concerne l'esistenza, in Leibniz, di una vera e propria teoria dei lin guaggi storico-naturali, intesi non solo come preparatori alla realizza zione della " caratteristica universale" , ma come realtà semiotiche au tonome e non surrogabili . Si tratta di un tema ancora relativamente controverso. Alla tradizionale concezione dei "due" Leibniz , l'uno in teso alla fondazione logico-simbolica della conoscenza, l'altro alla ri cerca erudita intorno alla storia dei dialetti germanici, senza interfe renze tra i due ambiti di studio, Heinekamp, Dascal e altri hanno op posto l'idea di un fondamento unitario del lavoro linguistico leibnizia no, da ricercarsi nel carattere articolato della sua dottrina gnoseologi ca (che riconosce gradi " confusi" e perfino " oscuri " anche entro le più alte per/ormances intellettuali) e nella corrispondente natura sfaccetta ta, elastica, che il filosofo attribuisce alla semantica lessicale. A questa linea interpretativa - cui chi scrive ha cercato altrove di recare qualche contributo - si oppongono gli studi che preferiscono ritenere la conce zione leibniziana del linguaggio orientata nel suo insieme alla enuclea zione di una sorta di essenza universale delle lingue, a un novello " ada9
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mismo " linguistico che sembra talora assumere la forma di un "lin guaggio del pensiero " fodorianamente inteso. Un secondo elemento ha a che fare con la complessa fisionomia del rapporto linguaggio-pensiero-realtà secondo Leibniz. Lavori degli ultimi 20-25 anni, penso soprattutto a quelli di Mugnai e Bates, hanno consen tito di cogliere il carattere peculiare del nominalismo leibniziano - un no minalismo assunto «in via provvisoria», secondo la formula del 1675 - che non esclude, anzi postula, la ricerca di un "fondamento reale" della co noscenza, lungo una difficile via di sintesi, se possiamo esprimerci sche maticamente, fra le ragioni di Hobbes e quelle di Cratilo. Da ciò conse gue una singolare, originalissima foggia di "naturalismo " filosofico-lin guistico che da una parte ammette, alle origini delle lingue storiche, una interna congruenza fra verba e res (intese queste ultime - si badi - come la rifrazione soggettiva della realtà sugli a//ectus degli uomini) attraverso la mediazione del potere mimetico ed evocativo della voce; dall'altra si apre al vasto territorio della «indétermination du langage», alle mille for me che questo accidentalmente e arbitrariamente assume nel corso della storia, innervandosi alla cultura e ai vari modi di essere delle società uma ne. Né questo naturalismo prende senso, per dire così, solo in chiave dia cronica: come mostra il grande, non ancora sufficientemente penetrato libro III dei Nouveaux essais (I703-1705), esso opera come principio per manente di funzionamento delle lingue, che per un verso schematizzano liberamente i loro significati quando questi vertano su conoscenze " civi li" , frutti pleno iure dell'arbitrio umano, per un altro tendono asintotica mente a circoscrivere !' "essenza" (la condizione di possibilità) delle cose quando vertano sulle "sostanze" del mondo - quanto oggi, con l'occhio a note problematiche putnamiane, probabilmente esprimeremmo in ter mini di generi naturali. Ed è stato giustamente osservato che al Leibniz dei Nouveaux essais è tutt'altro che estraneo il senso di una sorta di divi sione del lavoro linguistico che media tra le forme spontanee e irriflesse della rappresentazione semiotica del reale e quelle, razionalmente e cri ticamente controllate, proprie degli addetti ai lavori, eventualmente in tesi alla prefigurazione di calcoli e caratteristiche universali. Un terzo elemento concerne la "fortuna" di Leibniz sul pensiero lin guistico a lui successivo. Che molto resti da fare in tema di circolazione di idee e problemi leibniziani nella cultura europea fra Sei e Ottocento ha mostrato la silloge curata nel 1990 da Marchlewitz e Heinekamp. Mol tissimo resta da fare, a me sembra, nel campo delle idee linguistiche: do ve si tratta di andare al di là degli influssi risaputi (perfino troppo risa puti, e che sarebbe peraltro utile tornare a verificare) sulla lessicografia germanica o sulla ricerca dialettologica nella Russia di Caterina II, per concentrarsi su quelli specificamente teorici, legati certamente alla difIO
PREMESSA
fusione europea dei Nouveaux essais (pubblicati nel 1765) , ma ben prima anche agli stimoli linguistico-generali desumibili dalla Brevis designatio meditationum de originibus gentium, ductis potissimum ex indicio lin guarum (1710) e dai preziosi excerpta dei Collectanea etymologica, usciti a stampa, postumi, nel 1717. Le idee leibniziane sull'origine del linguag gio, credo, hanno nel corso del XVIII secolo e oltre giocato un ruolo che eccede di gran lunga quello della curiosità erudita, della ricerca più o me no felice di coincidenze tra lingue diverse. Per un verso esse contribui rono in modo potente a smantellare la teoria tradizionale dell'ebraico lin gua-madre (mito ancora ben persistente a fine Seicento) , sostituendole quella di una sostanziale poligenesi del linguaggio verbale; per un altro diedero all'inchiesta etimologica (historia etymologica, appunto, nel sen so antico del termine) il senso di uno studio sulle " cause" interne, uni versali e storiche delle lingue, nella chiave di quella sintesi di naturalismo e storicità che prima si diceva. Chi, da metà Settecento al primo trenten nio del secolo successivo, da Turgot a Humboldt, passando per quel grande, misconosciuto filosofo del linguaggio che fu il nostro Leopardi, azzardò una teoria generale della diversificazione delle lingue a partire dal gruzzolo di poche " radici" primarie, elaborate sull'impatto sensoria le e percettivo, si mosse, l'abbia riconosciuto o meno, l'abbia lucida mente saputo o no, nel solco tracciato da Leibniz molti decenni prima. Dei contributi qui raccolti, il primo, di Francesco Piro, si riallaccia espli citamente al primo dei temi che ho ricordato. Come Piro chiarisce, la ri flessione leibniziana sui tropi non è solo una dimostrazione della sua sen sibilità alla rilevanza non settoriale, ma anche teorica, delle problemati che retoriche; è, più a fondo, un modo per addentrarsi nei meandri del significato linguistico, enucleandone la pertinenza ai fini di un'analisi fi losofica del linguaggio. Il saggio di Klaus Dutz, correlandosi al secondo tema da me citato, si propone una esplicita integrazione fra le categorie linguistiche leibniziane e quelle, non specificamente o privilegiatamente linguistiche, che formano l'ossatura della sua dottrina della conoscenza: nozioni quali «expressio», «repraesentatio», la dottrina delle monadi vengono qui riprese e problematizzate, alla luce delle acquisizioni criti che più recenti, in riferimento al mondo della semiosi. I contributi di Marina De Palo e ilaria Tani si riagganciano al terzo obiettivo menzio nato, quello di un'ispezione degli influssi del pensiero linguistico leibni ziano su pensatori successivi: è il caso del presidente De Brosses , la cui teoria «meccanica» della formazione delle lingue si rivela profondamen te indebitata con Leibniz (e, aggiungiamo, non poco contribuirà a farne circolare gli assunti in Francia e in Italia, basti pensare al nostro Cesa rotti) ; ed è il caso di Herder, nel quale la presenza di Leibniz non solo è II
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evidente e dichiarata, ma risulta nevralgica ai fini della teorizzazione del l'infrastruttura psicologica del linguaggio, del suo radicamento nella soggettività - quanto è a dire nei passaggi forse più delicati e innovativi della dottrina linguistica herderiana. Fisionomia diversa hanno i saggi di Giovanna Varani sull'edizione leibniziana dell'Anti-barbarus di Mario Nizolio e di Enrico Pasini sul contrastato rapporto di Leibniz con Spinoza. In essi prevale l' attenzio ne alle ragioni generali dell'intervento culturale leibniziano, ora rico struito mediante il confronto con una sterminata letteratura cinquecen tesca, di cui Varani ci fa apprezzare il metodo e la duttilità, ora indagato lungo i passaggi della «caccia» a Spinoza, contraddistinta da attrazione e ripulse, da gustosi aneddoti biografici e da ragioni filosofiche profon dissime (basti pensare alla problematica teoria dell' «espressione») che eserciteranno influenza su Leibniz fino alle ultime opere e agli ultimi giorni. Una «caccia» per certi versi analoga a quella che il filosofo tede sco darà a Hobbes, la cui nota e inquietante dzf/icultas inerente all'arbi trarietà del linguaggio darà da pensare a Leibniz fino ai primi anni del Settecento, innervando la stessa polemica con John Locke. (È, questo, un tema sul quale mi auguro di poter presto tornare.) Infine, il contributo di Clotilde Calabi dà un'idea del posto che Leib niz può avere nei dibattiti odierni in filosofia della mente. Al carattere prevalentemente storico-teorico degli altri saggi fa riscontro qui un ap proccio dichiaratamente teorico e analitico. Così, discutendo il celebre argomento del mulino contenuto nella Monadologia, l'autrice si soffer ma sul concetto leibniziano di «spiegazione» e, indagando sull'idea leib niziana della mente come sistema di rappresentazioni, sostiene che quel l' argomento ha forza contro il cosiddetto riduzionismo concettuale, non contro il riduzionismo metafisico. Che è un modo, tramato di autori e di riferimenti dialogici ben diversi, per rimettere in causa il secondo dei te mi critici sopra accennati. Concludendo, desidero ringraziare i colleghi e gli amici che hanno accettato di contribuire a questo volume, sopportandone, anche, le dif ficoltà e le lentezze di realizzazione, connesse da un lato all'esigenza, da parte del curatore, di coordinare il lavoro altrui, dall'altro alle mille in combenze e urgenze della didattica universitaria che, in questi anni di veloce e mal diretta riforma, per chi ha accettato di seguirne seriamente la logica e i ritmi, non poco hanno gravato sui tempi e i modi della ri cerca, individuale e di gruppo . Un grazie tutt'altro che formale è dovu to alle sedi universitarie che hanno sostenuto i costi di pubblicazione: an zitutto all'Università di Salerno che, sulla base di un finanziamento ex 6o per cento relativo al 2000, a me concesso, e di ulteriori interventi suc cessivi, ha dato il contributo maggiore; e poi all'Università di Napoli
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PREMESSA
"L'Orientale" , alla Statale di Milano e all'Università di Torino che, pure, hanno - in anni di finanze per tutti strettissime - garantito un sostegno. L'augurio è che il lavoro qui presentato ripaghi il non minimo investi mento economico (ma anche e soprattutto immateriale, di tempo di stu dio) che esso è costato a parecchie persone e alle loro sedi istituzionali; e che, nell'università che si sta costruendo, vi sia ancora spazio - fisico, mentale, oltre e prima che finanziario - per imprese del genere. Dicembre 2004
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Tra Valla e Scaligero: Leibniz, la linguistica rinascimentale e il problema del cambiamento semantico di
Francesco Piro
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Premessa
questo saggio 1 tornerò su un tema che ho già trattato (Piro, 1996) , vale a dire sulla tesi leibniziana secondo la quale i vocaboli delle lingue storiche cambiano significato - o ne acquistano di ulteriori - grazie al generalizzarsi di accezioni sorte per metafora, metonimia, sineddoche o per combina zione fra questi tropi 2• Vi sono due ragioni per tornare su questo tema. La prima è indicata dal titolo del saggio. Che l' inopia lingua rum co stringa spesso gli uomini a fare uso abituale di traslati, generando feno meni di «catacresi», era una vecchia tesi della tradizione retorica. La si ritrova in Quintiliano, che però non la formula esattamente nello stesso senso di Leibniz , e in Marziano Capella 3• Né, tra i linguisti e i lessicografi del Seicento, Leibniz fu il primo o l'unico a tentare di dare nuovo smal to a questo luogo comune 4• Ma è anche vero che la scoperta della fre quenza, addirittura della quotidianità, degli usi figurati del linguaggio è una delle grandi spie di quel maturare di un approccio storicizzante nei confronti del fenomeno linguistico che si verifica fra Sei e Settecento e del quale Leibniz è uno dei grandi protagonisti 5• Occorre allora cercare di spiegare come mai una tesi così antica abbia potuto acquisire delle funzioni così importanti, questione che nel caso di Leibniz è resa ancor più complessa dalla convivenza tra il piano dell'analisi storico-etimolo gica e quello dell'analisi formale e strutturale. Che questi due piani non siano opposti dal punto di vista di Leibniz lo segnala anche il fatto che, laddove l'opera di Vico è costellata di ironie nei confronti delle gram matiche filosofiche protomoderne degli Scaligero e dei Sanchez, in Leib niz non soltanto non troviamo ironie, ma troviamo addirittura un tenta tivo di retrodatazione allo stesso Giulio Cesare Scaligero della teoria del la struttura tropica della variazione semantica 6• Di per sé, questo dato potrebbe apparire meramente aneddotico - indicativo al più delle di verse personalità di Leibniz e di Vico - ma cercherò di servirmene come spia per comprendere l'integrazione fra tradizioni distinte di teoria linIn
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guistica che si verifica nel laboratorio leibniziano e, per così dire, il " do saggio " (e i problemi teorici aperti) di tale integrazione. Si noti fra l'altro - ed è questa la seconda ragione del mio ritorno sul tema - che l'idea che il fenomeno del cambiamento semantico possa es sere rivelatore di alcuni modi normali di usare il linguaggio da parte dei parlanti e però paradossali dal punto di vista delle ordinarie dottrine del significato non è semplicemente un'anticaglia teorica in cui ci imbattia mo quando discutiamo di Leibniz, di Vico, di Rousseau e dell'immagine che essi si fecero dell'invenzione delle lingue. La logica del semantic change e dello shz/t o/ meaning è questione tuttora centrale, soprattutto per quei settori della filosofia del linguaggio (e della psicologia filosofi ca) che polemizzano contro i modelli classici di semantica formale 7• n cambiamento semantico e la polisemia - si afferma - sono non solo fe nomeni fisiologici e tra loro collegati ma sono la spia delle funzioni co gnitive svolte dalle metafore, sistematicamente ignorate dalle dottrine ordinarie del significato. La etymology diviene in questo modo il punto di partenza per costruire una concezione pragmatica del significato o ad dirittura uno schema generale di psicologia cognitiva 8• In Leibniz, per tornare a lui, la scienza etimologica fu il punto d'arrivo biografico di una lunga carriera di costruttore di lingue artificiali che sono l'ovvio antece dente storico delle tradizioni di semantica formale del XX secolo. Ha un senso questo percorso? Dobbiamo cedere alla tentazione di farne un an ticipatore anche delle correnti che alla semantica formale si oppongono? In altre parole, per giocare con l'opposizione introdotta da Sweetser, quanta pragmatics c'è già nella etymology leibniziana? 2
Lingue e storia: perché il cambiamento semantico è un problema?
L'interesse di Leibniz per il mutamento linguistico nasce da una neces sità pratica, non solo da una curiosità teorica. Oltre a essere un mate matico e un teorico delle lingue artificiali, Leibniz fu anche un giurista e cioè un interprete di testi scritti. Lo documenta un testo redatto a ven tun anni, la Nova Methodus discendae docendaeque Jurisprudentiae, i cui capitoli sull'ermeneutica anticipano l'assorbimento delle categorie della retorica tradizionale all'interno della scienza storica delle lingue, nel mo mento in cui essi fanno dell'analysis rhetorica (dopo quelle logica e gram maticale) una componente fondamentale dell'arte di interpretare e dare una parafrasi accettabile dei testi. L'oscurità o l'ambiguità dei testi tra mandati obbliga infatti l'interprete a ipotizzare, quando tutte le soluzio ni letterali siano fallite, che il testo contenga un «mutamento lieve e pro babile» rispetto al senso usuale delle parole 9•
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TRA VALLA E SCALIGERO
Anche se questo è indubbiamente un punto di partenza, sembre rebbe però difficile giustificare su questa sola base la tesi della normalità dello scivolamento di significato per via tropica proclamata solo tre an ni dopo, nella Dissertatio praeliminaris che apre la riedizione leibniziana del De veris principiis et vera ratione philosophandi di Mario Nizolio: ogni significato non originario è stato un tempo traslato, e precisamente in quel tempo nel quale, per la prima volta, il termine fu esteso dal significato origina rio ad altri significati per mezzo di tropi; ed esso è stato finalmente reso proprio appena è divenuto così popolare da essere egualmente noto o addirittura più no to di quello originario '0•
Le certezze del linguista del 1670 vanno molto al di là della prudenza del teorico dell'interpretazione del 1667. Come spiegarlo? A prima vista, la differenza di tono può avere una spiegazione ovvia. Per l'interprete di un testo, l'ipotesi di un uso tropico deve essere l'ulti ma spiaggia, se non si vuo le dimenticare l'obb ligo di fedeltà al testo. Ma vi è qualcosa di più. Si metterebbe a rischio l'autorevolezza stessa del te sto se si suggerisse che esso è frequentemente ambiguo o oscuro. Leib niz è sicuramente consapevole di questo rischio. Apriamo una breve ma non insignificante parentesi. Le tesi che la Nava Methodus applica al l'ermeneutica giuridica hanno un precedente dichiarato in un recente li bro di ermeneutica biblica, il Philosophia S. Scripturae interpres, che ap punto sull'oscurità e ambiguità del linguaggio biblico aveva motivato la proposta di fare della ragione naturale l'unico interprete legittimo della Scrittura. Il Leibniz del 1667 limita le sue riserve all'ipotesi che l'autore sia di fede arminiana. In realtà, si trattava però di Lodewijk Meijer, me dico amico di Spinoza, come Leibniz stesso registrerà negli appunti per il rifacimento della Nova Methodus, scritti intorno al 1695, che introdu cono una condanna assente nella prima stesura 11 • Per Meijer, la Sacra Scrittura è effettivamente oscura o ambigua. È oscura per la presenza di parole obsolete o barbare o per la corruzione del testo tramandato, cioè per motivi di distanza storica. È invece ambi gua per molte a ltre ragioni, ma in primo luogo per la presenza di ho monymiae, distinte a loro volta in homonymiae a casu ( le omonimie pro priamente dette) e homonymiae a consilio. Quest'ultima categoria com prende innanzitutto i casi di uso tropico di una data voce, che Meijer analizza rifacendosi allo schema di Vossius dei quattro tropi fondamen tali (metafora, metonimia, sineddoche, ironia) , che è esattamente lo schema che ritroveremo adottato in genere da Leibniz 1 2• Anche se l'a nalisi meijeriana dell'ambiguità è molto più ampia e recupera buona par te delle dottrine medievali sull'argomento, sembra comunque probabi-
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le che il testo di Meijer sia una delle fonti primarie delle idee sulla ob scuritas e l' ambiguitas esposte da Leibniz nella dissertazione del 1670. Possiamo dunque agevolmente supporre che Leibniz abbia trasferi to su un terreno più "neutrale" - quello delle questioni generali concer nenti il cambiamento semantico nelle lingue storiche - una questione che, sul terreno specifico dell'ermeneutica bib lica, era estremamente scottante e pericolosa. Vedremo presto che, indirettamente, i problemi di ermeneutica biblica persistono sullo sfondo delle riflessioni leibnizia ne sul linguaggio, le quali utilizzano in modo non sporadico altre nozio ni sviluppa tesi sul terreno dell'ermeneutica bib lica. Chiediamoci però ora più dettagliatamente quali siano i paradigmi di teoria linguistica con i quali Leibniz si misura e che gli consentono di tentare una spiegazione generale del fenomeno dell'ambiguità. Nonostante le tante autorità citate in questo testo, l'unico linguista che Leibniz menzioni a proposito dell'ipotesi della natura tropica dei cambiamenti semantici è Giulio Cesare Scaligero. Non che Leibniz affer mi di aver trovato questa tesi esposta a chiare lettere nello scaligeriano De Causis !inguae latinae, il che sarebbe manifestamente falso. Scaligero vie ne elogiato per la perizia che avrebbe dimostrato nel battere la pista dei «soriti di tropi» in veste di etimologista. Dal momento che Scaligero ave va sì promesso, ma non effettivamente pubblicato, le sue Origines !inguae latinae, l'unico documento scritto che proverebbe questa perizia sono i Coniectanea in Varronem del figlio Giuseppe Giusto il quale avrebbe - a detta di Leibniz - utilizzato i materiali del padre, ma con minori acume e filosofia. Uno sguardo a questo libro non conferma né smentisce le affer mazioni di Leibniz, dal momento che si tratta di un elenco di ipotesi eti mologiche alternative rispetto a quelle di Varrone. Leibniz però conti nuerà a citarlo per tutta la vita, soprattutto per le voci di origine onoma topeica 13 • Può darsi senz' altro che il giovane Leibniz sia stato colpito in particolare da qualche ipotesi etimologica che ripercorre un «sorite di tro pi». Ma perché un omaggio così netto a partire da premesse così vaghe? Iniziamo con il dire che lo schema di ana lisi adottato da Leibniz nel 1670 è effettivamente scaligeriano e rispecchia la diffusa autorità che ave va allora il De Causis linguae latinae. Per Scaligero, le prime voci («vo ces primariae») delle lingue storiche nacquero «sine flexu, sine orna mento, quo tempore nondum rerum naturae cognitae fuissent», cioè per imposizione da parte di uomini rozzi e ignoranti. La rego larizzazione della lingua è stata invece opera delle generazioni successive, che hanno composto nuove parole servendosi di particelle, suffissi e hanno intro dotto regole uniformi di coniugazione e declinazione 14• Come nei gram matici antichi, queste regolarità composizionali sono considerate feno meni di «analogia», concetto vago che si applica alle regole della morfo-
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logia ma anche a fenomeni etimologici come la formazione di nuovi ver bi a partire dalla combinazione preposizione-verbo 15• Il Leibniz del 1670 mutua questo schema, inserendovi però un ulteriore meccanismo, quel lo della modificazione semantica dovuta ai tropi, per spiegare i casi vi sto si di differenziazione del significato corrente ( «usus») da quello del le voci primarie da cui deriva («origo») . Fatum, per esempio, nasce se condo le regole dell'analogia per aggiunta di -atum a (/or), /aris, così co me avviene per dictum rispetto a dicere, ma a un certo punto il destino dei due termini inizia a divergere perché /atum diviene sinonimo di dic tum Dei (per antonomasia) e infine di «detto di Dio sul futuro» (per si neddoche) , cosicché il suo «uso», cioè il significato noto ai parlanti, di venta del tutto eterogeneo rispetto a dictum 16• Una conseguenza di quest'approccio è che l'accezione ormai comune del vocabolo, che Leibniz chiama «usus», può divergere anche notevol mente dal primo significato del vocabolo o dal significato della sua radi ce, cioè dalla «origo». Questa sembrerebbe una concessione alla conce zione «anomalistica» che aveva contestato l'utilità di risalire al di là della consuetudine dei migliori autori, una linea che aveva avuto in Lorenzo Valla il suo grande interprete moderno 17• Dobbiamo allora pensare che il richiamo a Scaligero sia semplicemente un pretesto per introdurre idee prese da una tradizione alternativa? Richiamandosi alla letteratura più re cente sull'opera del linguista cinquecentesco, si può dare una soluzione più sfumata. Secondo Kristian Jensen, l'opera linguistica di Scaligero è co stantemente percorsa da una tensione profonda a livello della teoria del significato. Da un lato, il filosofo cinquecentesco insiste sul fatto che una parola è definita dal fatto di avere un solo significato e che altrimenti non sarebbe nemmeno una parola (si tratterebbe cioè di diverse parole dallo stesso suono, cioè di omonimia pura e semplice) . Dall'altro lato, però, è Scaligero stesso a insistere sull'autorità maggiore che ha l'uso rispetto al l' origine, proprio come fanno gli esponenti della tradizione «anomalisti ca». Anzi, insistendo sul fatto che i primi impositori di nomi furono igno ranti e privi di ogni aiuto da parte della provvidenza divina («legislatori bucolici» li chiama Jensen 18), Scaligero sembra forzato ad ammettere che il potenziale semantico del lessico cambia nel corso del tempo. Introdu cendo il meccanismo della generalizzazione dell'uso tropico, Leibniz poté ritenere di aver risolto un problema lasciato insoluto dal suo autore di ri ferimento. Questa scelta ha due effetti importanti sulla concezione leib niziana del linguaggio. In primo luogo, la tesi dell'inopia linguarum della tradizione retorica veniva assorbita in un tipo di teoria che manteneva la pretesa di scientificità, di ricerca «causale», che era stata propria della grammatica filosofica di Scaligero. Il tentativo del Leibniz maturo di far transitare l'etimologia dall'erudizione alla scienza è figlio legittimo di que19
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sto primo passo. In secondo luogo, Leibniz recepisce un tratto quasi-epi cureo del pensiero di Scaligero, cioè la tesi che le «radici» della lingua sia no espressive di un'umanità ancora incolta. Come vedremo, anche quan do ormai verrà contestato il modello «arbitraristico» di fissazione dell'u so dei segni teorizzato dalla tradizione aristotelica e da Scaligero - cosa che il testo del 1670 non fa ancora - questo presupposto sarà mantenuto 19• Ma, ovviamente, ciò che veniva a cadere nel corso di questo dosaggio di tradizioni diverse era il presupposto dell'unicità del significato per il singolo termine. Ammettere il mutamento di significato nel corso del tempo significa ovviamente ammettere la possibilità di compresenza sin cronica di «usi» diversi, cioè la frequenza dell'ambzguitas 20• Quest'am missione è indirettamente riscontrabile nelle prescrizioni che la disserta zione del 1670 ci dà sul modo di chiarire il significato dei vocaboli in uso. Provo a enumerare le varie possibilità secondo una successione logica. a) Cambiamento semantico riuscito. Si ha quando una data parola ha as sunto, passando per i «canali dei tropi», un «uso» del tutto diverso da quello «originario», ma che è ormai l'unico noto ai parlanti. L'esempio paradigmatico di questa possibilità è /atum, ma possiamo farvi rientrare anche altri casi discussi dal Leibniz maturo: pneuma o spiritus significa no originariamente "soffio " ma acquisiscono un significato più astratto con il passare del tempo, i beni e mali «morali» sono in genere espressi da termini che un tempo denominavano mali fisici e così via 21• In breve, come Clauberg e tanti altri filosofi di quest'epoca, Leibniz ritiene che gli uomini tendano a definire gli oggetti dell'intelletto con termini che un tempo designavano il «sensibile» 22• Tuttavia, egli sottolinea che questo passaggio non implica per nulla un'ambiguità persistente. A un certo punto, il termine assume chiaramente un significato nuovo e sarebbe er roneo definirlo a partire da quello originario. Sarebbe un «abuso» ri condurre i termini biblici sempre al loro significato originario e perciò più «rude», rileva Leibniz nella maturità, polemizzando con uno spino zista ben più radicale di Meijer qual è Adriaan Koerbagh 23 • Si potrebbe suggerire che qui Leibniz intenda la variazione tropica come un passag gio funzionale alla rappresentazione di un ' «idea innata virtuale» e si ser va di quest'ipotesi per confermare che la rivelazione può ben essersi ser vita dell'ebraico anche qualora questa lingua non dovesse esser stata, originariamente, meno rozza e primitiva delle altre. b) Usi/zgurati non autonomi dal szgnz/icato orzginario (potremmo dire: " cambiamento semantico fallito " ) . Nella dissertazione su Nizolio, Leib niz prescrive di rimanere «fedeli all'origine» quando gli usi successivi so no dubbi. Possiamo pensare qui a tutti i casi di usi tropici che, pur es sendo divenuti comuni, restano di senso vago e indefinibile. È il caso, per esempio, delle parole del linguaggio «tecnico» della scolastica: l'in-
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fluere di Suarez, il dependere di Fonseca e così via. Apparentemente, sembrerebbe molto facile distinguere i casi b) dai casi a) . Nel secondo caso, il vocabolo può essere definito chiaramente senza ricorrere all'ori gine, nel primo no. Ma va notato che vi sono casi difficili o sui quali Leib niz cambia idea. Nella dissertazione del 1670, anche l'in-esse della logica aristotelica viene schedato come un traslato poco felice, contrariamente a quanto penserà il Leibniz maturo. c) Polisemia apparente. Si tratta del caso in cui un vocabolo sembra ave re assunto usi disparati nel lessico, ma si può ipotizzare che questi usi sia no tutti giustificabili a partire da un dato «significato formale [significa do formalis] ». Quest'ultima nozione deriva dal teologo Samuel Bohl il quale, in ossequio allo scritturalismo protestante, aveva sostenuto che i termini della Scrittura non possono essere ambigui e deve pur darsi un si gnificato che spieghi tutti gli usi 24• Ma come viene "secolarizzata" , per dir così, l'ipotesi ermeneutica di Bohl da parte di Leibniz? Un esempio spo radico ma espressivo dell'idea che il filosofo ha in testa è colere, voce che presenta una polisemia apparente (colere terram = " coltivare la terra" , co lere Deum = "adorare Dio " ) , ma che si può giustificare ipotizzando che il termine abbia assunto il senso di sforzarsi di rendere benefico qualco sa ( «rem aliquam studio suo sibi beneficam reddere conari») 25• In altri ca si, il significato «formale» è un insieme di condizioni necessarie e suffi denti per l'interpretazione del termine che soggiace agli «usi» contestua li, ma che non è direttamente inferibile da uno solo di essi. d) Polisemia effettiva. Nei casi in cui non appare possibile raggiungere un «significato formale», Leibniz consiglia di ricorrere a un «usus origi narius», derivato anch 'esso dai «canali dei tropi» ma tale da costituire una sorta di «significato formale» di molti degli usi in vigore 26• La mac chinosità di questa terapia dipende dalla complessità del caso. Non de ve darsi un significato largamente prevalente, altrimenti ci troveremmo di fronte ai casi a) o b) . Né i molteplici usi contestuali possono avere un insieme rilevante di tratti semantici in comune, altrimenti ci troverem mo nel caso c) . Dobbiamo dunque supporre che qui ci si stia riferendo a usi affini ma che comunicano per tratti semantici disparati, secondo la logica delle «somiglianze di famiglia» di Wittgenstein. È però possibile che Leibniz stia pensando a casi nei quali il prototipo semantico origi nario è noto, ma gli usi successivi sono talmente consolidati da sconsi gliare la terapia suggerita al caso b) . Nel caso di "gamba" , nessuno du bita che il prototipo semantico sia la gamba del corpo umano, ma una definizione più astratta (un «usus originarius») potrebbe rendere lette rali anche i casi di "gamba di un tavolo " o "gamba di una sedia " . È facile notare che i casi a ) e c) riprendono implicitamente quei pro blemi di spiegazione delle ambiguità scritturali dai quali eravamo partiti 21
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e cercano di suggerire delle strategie alternative rispetto a quelle degli spi nozisti. Ma lasciamo da parte questo livello di arrière-pensées. È evidente che il caso più problematico discusso da Leibniz è d), quello di un'ambi guità persistente e, per dir così, strutturale. A questo punto, dobbiamo domandarci se Leibniz abbia incontrato effettivamente casi di siffatta n a tura. E qui occorre soffermarsi su un problema molto interessante, quel lo delle particelle (particulae) e, in modo speciale, delle preposizioni e del loro valore semantico. Che si tratti di un caso affine a quello che abbia mo definito d) ce lo dice il fatto che Leibniz si premuri di sottolineare che la semantica delle particelle non si adegua al modello della signz/icatio /or malis. Esse non sono sempre suscettibili «di un significato generale o for male come lo chiamava Bohl, che possa soddisfare tutti gli esempi: ma, nonostante ciò, si potrebbero sempre ridurre tutti gli usi di una parola a un numero determinato di significati. Ed è ciò che si dovrà fare» 27• Die tro l'apparente semplicità di questa constatazione, vi sono difficoltà teo riche impegnative, sulle quali è opportuno soffermarsi. 3
La semantica delle preposizioni
Dal punto di vista di uno studio sulle fonti, il caso della teoria leibnizia na delle preposizioni è simmetrico e opposto rispetto a quello dei «sori ti di tropi». Lì avevamo una strana attribuzione, qui una strana dimenti canza, sempre nei confronti di Scaligero. Scaligero aveva infatti soste nuto nel De Causis linguae latinae che le preposizioni del latino hanno la funzione di esprimere posizioni spaziali o movimenti spaziali, cioè che tali tipi di accidenti costituiscono il loro signz/icato 28• Questa tesi, che rientrava nel tentativo di Scaligero di dare un ruolo semantico preciso alle diverse componenti della oratio, fu ben presto ritenuta evidente mente troppo restrittiva e condannata dagli studiosi di grammatica, co me ci informa ancora lo studio di Jensen 29• Ora, intorno alla metà degli anni Ottanta del XVII secolo, Leibniz arrivò a una tesi diversa ma affine, vale a dire che tutte le preposizioni sia del latino sia di altre lingue (il te desco in particolare) abbiano avuto originariamente un significato spa ziale e siano successivamente passate a significare relazioni di altra natu ra per mezzo dei soliti «canali tropici». Tutte le preposizioni hanno come significato proprio una relazione di luogo, co me significato traslato una relazione qualsivoglia30• Non è stupefacente che gli uomini, nel formare le preposizioni, abbiano tenuto conto soltanto delle relazioni di luogo, perché essi all'inizio guardarono soltan to alle cose sensibili e corporee , poi trasferirono per via tropica le voci riferite a
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queste alle cose invisibili. A noi, che ricerchiamo la vera analisi delle nozioni, spetta di elevarci più in altoJ1 • Circa le preposizioni sembra si debba osservare che, nelle nostre lingue abituali, esse significhino tutte originariamente una relazione di luogo e poi vengano tra sferite per qualche tropo a nozioni di tipo metafisica e meno soggette all'immagi nazione. Il che non fa meraviglia, perché gli uomini cercano di spiegare anche ciò che non può essere immaginato attraverso le cose soggette all'immaginazione 32•
Ora, in nessuno dei molti testi che discutono di questa differenza tra «ori go» e «usus» delle preposizioni, si cita mai il nome di Scaligero. In spirito di economia, verrebbe da ipotizzare che Leibniz abbia letto le pagine del De Causis sulle preposizioni e le abbia reinterpretate a partire dalla sua convinzione che Scaligero fosse sostanzialmente un grande etimologista 33 • La periodizzazione odierna dei testi non favorisce però quest'ipotesi dal momento che la dottrina leibniziana delle preposizioni sembra costituirsi solo intorno al 1685, un periodo in cui Leibniz sembra avere sottomano so lo testi molto tecnici sulle particulae34• Ciò che invece è certo è che, con ciò, la teoria dei tropi fa ora il suo ingresso in un settore centrale dell' ana lisi formale del linguaggio proposta da Leibniz, cioè quella che dovrebbe risultare funzionale a costruire una lingua rationis. Con quali effetti? Di primo acchito, questa genealogia delle preposizioni non fa che confermare una politica di riduzione delle complessità del linguaggio na turale che era congeniale al Leibniz progettista di linguaggi artificiali. Al l'interno di una lingua artificiale funzionale al calcolo logico, converrà fa re del tutto a meno di preposizioni. Se il gruppo di/delvon (nonché il ge nitivo nelle lingue con la declinazione) ricorre sia in espressioni indicanti relazioni tutto/parte sia in espressioni indicanti una proprietà, l'unico mo do di sciogliere il guazzabuglio è parafrasare «la testa di Cesare» con «la testa che è parte, in quanto Cesare è tutto», e «la spada di Evandro» con >). 17. Per esempio, nel marzo annotava: «Ora vedo che il numero o la quantità dei pos sibili non esistenti, ossia che non sono né furono né saranno, è pari a zero, in quanto per tale stessa posizione ossia per accidente sono impossibili» (A 6, III, p. 391). Come vedre.
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mo, il successivo rifiuto di questa posizione sarà un punto capitale del dissenso teorico con Spinoza. 18. Per arrivare al ragionamento che, come vedremo, presenterà a Spinoza all'Aia: è perfezione ogni qualità semplice che sia positiva e assoluta, e pertanto irresolubile; siffat te perfezioni sono tutte compatibili tra loro, ossia possono essere in un medesimo sog getto. Dunque vi è, owero è intelligibile, il soggetto di tutte le perfezioni, l'essere perfet tissimo, ed è chiaro altresì che esiste, perché l'esistenza è compresa nel novero delle per fezioni (cfr. A 6, III, pp. 578-9) . 19. Gli interrogativi sullo spinozismo di Leibniz nella Summa rerum e nei testi dei mesi successivi sono ben riassunti in Kulstad (1994, 2001). 20. Per Leibniz, già in uno scritto dell'aprile, l'esser uno era una caratteristica di «tut ti i veri enti, ossia le menti, le sole ad essere une [quae sola una]» (A 6, III, p. 510). 21. Meno significativa, dal nostro ristretto punto di vista, ma anch'essa degna di se gnalazione è la serie di note sulla possibilità dei miracoli in quanto «cose mirabili» che ca pitino «per un singolare concorso di cause» (A 6, III, pp. 365 ss. ) , tema sul quale prose guivano la lettera e le note di Leibniz. 22. Delle cui ricerche di microscopi a aveva saputo qualche mese prima da una lette ra di Schuller a Tschirnhaus (cfr. A 6, III, p. 390). 23. Schuller gli aveva mandato notizia della morte di Spinoza il 26 febbraio 1677 (cfr. A 2, I, p. 304) . 24· Non sappiamo che impressione lo scritto (Quod ens per/ectissimum existit: A 6, III, pp. 578-9) avesse fatto a Spinoza, dal quale, o nella cui cerchia, fu però conservato, co me ci conferma una lettera di Tschirnhaus del 1 677: «Quanto all a tua dimostrazione sul l' ente perfettissimo, l'ho avuta da Schuller, mi è piaciuta molto» (A 2, I, p. 314) . D'altra parte, le idee di Leibniz sullo statuto dell'esistenza muteranno rispetto all ' appunto sul l'Ente perfettissimo assai presto, nella direzione che abbiamo anticipato: se non vi fosse nella natura stessa dell'essenza qualche inclinazione all'esistenza, nulla esisterebbe. Dire infatti che qualche essenza abbia tale inclinazione e qualche altra no, è dire cosa priva di ragione (Leibniz annota al margine: «Se l'esistenza fosse qualcos'altro che un'esigenza dell'essenza, ne seguirebbe che avrebbe qualche essenza o che qualcosa di nuovo si so vraggiungerebbe alle cose, a proposito del quale a sua volta si potrebbe domandare se esi sta questa essenza e perché questa piuttosto che un'altra»), giacché in generale sembra che l'esistenza sia riferita a ogni essenza allo stesso modo (GP VII, pp. 194-5). 25. li quale, secondo l'acida rimembranza di Leibniz nelle note apposte alla lettera in cui Tschirnhaus ne parla, aveva egli stesso capito che cosa intendesse Cartesio solo do po che lui gli aveva spiegato il suo progetto di caratteristica. 26. È in un passo del 1689-90 di sapore spinozista, ma soltanto in apertura, che mi suriamo la distanza di Leibniz rispetto all'emendazione dell'intelletto, dottrina d'altro canto affatto aliena rispetto a quelle tendenze della filosofia moderna cui Leibniz si rifà nel suo progetto: «Siamo liberi in quanto ragioniamo rettamente; e schiavi, in quanto sia mo dominati dalle passioni che vengono dalle impressioni interne. Ma ragionar bene, di te, non dipende da noi. Rispondo che è in nostro potere, perché abbiamo un metodo in fallibile per ragionare rettamente, purché vogliamo servircene. Non bisogna che volerlo» (A 6, IV, p. 1640) . 27. Il loro carteggio, di cui è stata pubblicata una dozzina di lettere (Stein, 1890, pp. 284-96) , verte, oltre che sulle faccende spinoziane, sulle ricerche chimico-alchemiche di Schuller. 28. «Haec Spinosistica sunt» (G, vol. II, p. 67o), annotava con sufficienza leggendo le Origines juris naturalis (1704) di Johann Georg Wachter (cfr. G, vol. II, pp. 667 ss.) ; ri marranno private anche le critiche all'altra opera di Wachter, l' Elucidarius cabalisticus, si ve reconditae Hebraeorum philosophiae brevis et succincta recensio (1706), pubblicate da Foucher de Careil come una Ré/utation inédite de Spinoza, par Leibniz (il testo è com mentato in Friedmann, 1975, pp. 201-29) .
ENRICO PASINI
29. E proseguiva così: «Reputo certamente utile allontanarsi dal rigore nelle que stioni di geometria, perché in essa gli errori si evitano più facilmente, ma in questioni di etica e metafisica ritengo si debba seguire il massimo rigore dimostrativo, perché lì è fa cile sbagliare. Se però avessimo le prescrizioni della caratteristica, ragioneremmo con pa ri sicurezza in metafisica e in matematica» (A 2, I, p. 413; trad. it., vol. I, p. 205). 30. Avrebbe dovuto trasformare la relativa definizione, obiettava dunque qui, in un as sioma: «ciò che non è da altro, è da se stesso, vale a dire dalla propria essenza» (A 6, IV, p. 1769; cfr. Di Bella, 1988) . La questione delle definizioni e degli assiomi era l'argomento prin cipale, nel 1678, del carteggio con il giurista Hermann Conring (A 2, I, passim) . Ne scrisse anche a Tschimhaus, all 'inizio del 168o (A 2, I, p. 504), discutendo proprio di Spinoza. 31. Il Quid sit idea nasce come indagine nel solco francese dell'origine delle idee, ispi rato da Foucher; la prima versione iniziava così: «Quaestionem de idearum in nobis ori gine vel non satis intelligo, vel ita interpretar, ut quaeratur quomodo in rerum cognitio nem perveniamus. Exempli causa, una nobis divinae naturae suspicio venerit, unde cogi tandi de circulo occasio». Poi Leibniz cancellò e appose il titolo De idearum origine, ini ziando così una nuova formulazione del testo: «ldeam voco aliquid in nobis, quod alte rius rei naturam nobis cogitantibus exprimit. Exprimere autem voco» ed eliminò pure questo, riprendendo: «Ut de idearum origine quaeramus, investigandum prius est, quid Ideam appellamus». Solo dopo aver cassato anche quest'ultimo tentativo, vergò il titolo definitivo: Quid sit idea (A 6, IV, p. 1370) . 32. L'ultima frase è ripresa da E, 2P48S: «Non enim per ideas imagines quales in fun do oculi et si placet, in medio cerebro formantur, sed cogitationis conceptus intelligo». 33· Per Spinoza l'idea vera è conforme al suo ideato, definizione che Leibniz conte stava nelle note di lettura degli OP; l'assioma relativo («Idea vera debet cum suo ideato convenire»: E, IA6) è incongruo: «ogni idea conviene con il suo ideato» (A 6, IV, p. 1766) ; e obiettava a proposito di E, 2D4 (l'idea adeguata definita quella che ha le proprietà del l'idea vera), che Spinoza «avrebbe dovuto spiegare che cosa sia l'idea vera, infatti nella p. I ass. 6 adopera solo la convenienza con l'ideato» (A 6, IV, p. 1712). Ciò benché più oltre riproducesse senza commento l'architrave dell'epistemologia spinoziana, sintetizzando così E, 2P43, e la dimostrazione: «Chi ha l'idea vera (adeguata) sa di averla né può dubi tare della verità, ossia non vi è miglior principio del giudicare della stessa idea chiara e di stinta» (A 6, IV, p. 1720) . 34· Troviamo invece nella lettera a Tschirnhaus citata poc'anzi: «Non ignorerai che sono apparse le opere postume di Spinoza. Vi compaiono dei frammenti sull'emendazio ne dell'intelletto, ma proprio dove più mi aspettavo qualcosa, lì finiscono» (A 6, IV, p. 413; trad. it., vol. I, p. 204) . Ricordiamo che il TIE si conclude così: le idee false e fittizie, con siderate tali solo per difetto di conoscenza, non ci dicono nulla «de essentia cogitationis»; questa va cercata invece nelle proprietà positive che sono state considerate, «ossia, biso gna stabilire qualcosa di comune, da cui tali proprietà seguano necessariamente, ovvero, dato il quale esse siano necessariamente date, tolto invece il quale siano tutte eliminate» (TIE, par. uo) . 35· Su Spinoza, Leibniz e l'animazione universale cfr. Bouveresse-Quilliot (1992) . 36. «Tutto il mondo è in verità oggetto di ogni mente, tutto il mondo in qualche mo do è percepito da qualsiasi mente. li mondo è uno e tuttavia le menti sono diverse. La mente dunque non sorge dall'idea del corpo, ma perché in vari modi il mondo è intuito da Dio come una città da me» (A 6, IV, p. 1713) . 37· E nel De a//ectibus, nella redazione G si legge: «natura prius est quod facilius di stincte intelligitur» (A 6, IV, p. 269). 38. Commentando la proposizione 5 della prima parte - in natura non possono esi stere due sostanze o più della stessa natura o attributo -, della quale nel 1677 aveva chie sto e ricevuto tramite Schuller il testo della dimostrazione, aveva scritto tipicamente: «sembra oscuro che cosa sia questo: in rerum natura. Se intenda: nella totalità delle cose esistenti; oppure nella regione delle idee o delle essenze possibili» (A 6, IV, p. 1768).
LEIBNIZ ALLA CACCIA DI SPINOZA
39· Ciò benché la proposizione sia un «paralogismo» (A 6, IV, p. 1775) perché attri buisce a «causa sui», come già più volte Leibniz ha notato, il significato comune, mentre l'espressione è stata definita con un significato speciale. 40. La stessa critica doveva affondare, nell'intenzione, l'idea cartesiana della creazio ne delle verità eterne. Leggiamo in un'altra lettera, inviata a Christian Philipp nel 168o: «se la verità stessa non dipende che dalla volontà di Dio, e non dalla natura delle cose, ed es sendo necessariamente l'intelletto prima della volontà (parlo di prioritas naturae, non tem poris), l'intelletto di Dio sarà antecedente alla verità delle cose e di conseguenza non avrà la verità per oggetto. Senza dubbio un simile intelletto non è che una chimera e, di conse guenza, bisognerà concepire Dio alla maniera di Spinoza, come un essere che non ha né intelletto né volontà, ma che produce tutto indifferentemente, buono o cattivo, essendo indifferente riguardo all e cose e, di conseguenza, non essendovi nessuna ragione che lo in clini piuttosto all'uno che all'altro partito» (A 2, I, p. 507; trad. it. , vol. I, pp. 222-3) . 41 . Le cui critiche a Spinoza erano già state elogiate d a Leibniz nelle Considerazioni sulla dottrina di uno spirito universale unico (cfr. GP VI, p. 537; trad. it., vol. I, p. 550), uno scritto nato nel medesimo contesto delle conversazioni alla corte berlinese da cui trasse origine la Teodicea. 42. «Ho trovato il mezzo (almeno mi sembra) di mostrare il contrario in una maniera che chiarisce e che consente di penetrare, al tempo stesso, nell'intimo delle cose. Infatti, avendo compiuto nuove scoperte sulla natura della forza attiva e sulle leggi del moto, ho fatto vedere che queste non hanno una necessità assolutamente geometrica, come sembra aver creduto Spinoza, ma che non sono neppure meramente arbitrarie, contrariamente a quanto credono Bayle e alcuni filosofi moderni» (GP VI, Préf, p. 44; trad. it. , vol. III, p. 40). 43· Come notava più oltre, quanto al volontarismo cartesiano: le leggi del moto non sono «dimostrabili in senso assoluto, come lo sarebbe invece una proposizione geome trica», e «non nascono interamente dal principio della necessità, ma dai principi della per fezione e dell'ordine» (GP VI, par. 345; trad. it. , vol. III, p. 350) ; ossia dall'armonia e dalle cause finali poste dall a volontà divina. Del resto, in termini generali, le cause finali e la ne cessità solo morale, in Leibniz, simul stabunt, simul cadent. 44· Forse questo passo potrebbe, come anche si è fatto, esser preso quale indizio in base a cui interpretare l'evoluzione della giovinezza del nostro, ma soltanto, direi, se in esso fossero comprese entrambe le posizioni dei due interlocutori, e altro ancora; più complicato di Faust, non zwei, ma drei Seelen wohnten, aeh, in seiner Brust: quantomeno Gassendi (che si nasconde dietro la philosophia re/armata), Hobbes (dietro cui riluce la Diana, Spinoza, che per Leibniz diventò poi piuttosto Atteone), ma anche la complessa eredità culturale e religiosa dell'herbornismo. Riferimenti bibliografici
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De Brosses e Leibniz: un modello di naturalismo linguistico di Marina De Palo
A Leibniz si può far risalire una linea di pensiero antiarbitrarista che, esprimendosi in modo anticartesiano e antiaristotelico, percorre tutto il Settecento avendo come intermediari De Brosses e Condillac, fino ad ar rivare a Vico e Humboldt (cfr. Trabant, 1999, p. 159) . Secondo Droixhe (1978, p. 26) , a partire dall'età dei Lumi in Francia la negazione dell'ar bitrarietà del segno conduce a due vie distinte di comprensione del lin guaggio: riabilitazione psicogenetica del carattere artificiale del segno, orientata verso l'idea del "sistema" in Condillac, e rimotivazione fono genetica che sfocia nella storia, in De Brosses. N el quadro di una teoria monista e sensualista, Condillac integra la teoria del linguaggio in una teoria semiotica della conoscenza che supera il dualismo razionalista ari stotelico e àncora i segni all' «ordre de la nature» (Trabant, 1999, pp. 223 ) . Questo ancoraggio è perseguito da De Brosses da una diversa pro spettiva, incentrata su un programma comparatista che mira a costituire una scienza etimologica universale (cfr. Formigari, 2001, p. 171) . Gensini (in Leibniz, 1995 , p. 43) aveva richiamato l'attenzione sul l'influenza dell'opera linguistica di Leibniz sulla formazione della filo sofia del linguaggio illuministica e romantica. In questo contributo s'in tende documentare lo sbocco del naturalismo leibniziano nel trattato sull'etimologia di De Brosses (cfr. Trabant, 1990, p. 1 50; Gensini, 1996, p . 81) , nel quale sono rintracciabili molti riferimenti espliciti a Leibniz: il te ma dell'origine naturale del linguaggio, d'ispirazione epicureo-lucrezia na, il ruolo strategico dell'etimologia, l'attenzione per l' onomatopea e le radici primitive, la funzione dei tropi nello sviluppo linguistico. I
La svolta linguistica
e
comparativa
li Traité de la /ormation mécanique des langues et des principes physiques de l'étymologie di Charles de Brosses, pubblicato in due volumi nel 1765, era stato redatto parecchi anni prima e aveva circolato ampiamente in forma manoscritta (Formigari, 1972, p . 201 ) . È un'opera interessante non
MARINA DE PALO
solo come snodo della linea di pensiero antiarbitrarista sopra delineata, ma anche perché si affaccia, seppure in modo contraddittorio, sul tema dello sviluppo delle parole, mostrando come esso sia condizionato dalle proprietà fisiche dello strumento vocale e degli oggetti sensibili. Utilizzato nell'Encyclopédie sia da Turgot (alla voce Étymologie) sia da Beauzée (alla voce Langue) , secondo Juliard (1974, p. 128) il Traité è addirittura da considerare una prima opera di linguistica poiché studia sistematicamente il linguaggio come un meccanismo. Dello stesso segno è l'interpretazione di Auroux (1981, p. 187) che non considera il Traité una teoria dell'evoluzione del linguaggio, ma una teoria «du langage quelconque». TI Traité, pur conservando l'obiettivo fondamentale della grammaire générale di spiegare i fenomeni linguistici tentando di conci liare il riconoscimento dell'arbitrarietà del linguaggio e una teoria lin guistica \ ne inverte però il percorso d'indagine: non si tratterebbe più di partire dall'universalità delle idee, ma dalle leggi della materia fonica (cfr. ivi, p. 193 ) . La natura spiccatamente linguistica dell'opera di De Brosses è inscrivibile nel retaggio leibniziano: non a caso Humboldt, che con la sua grande esplorazione sincronica e diacronica delle lingue del mondo ha avviato la svolta della moderna linguistica storica e compara tiva, considerava Leibniz il padre della linguistica generale (allgemeine Sprachkunde) . Di questa tradizione che porta da Leibniz a Bopp, pas sando per Herder e Windischmann, è consapevole anche Bréal nella sua prefazione alla traduzione francese di Bopp (cfr. De Mauro, 1989, pp. 70-1) . L'ispirazione cratilista di De Brosses si colloca in una posizione di continuità con quella dei maggiori rappresentanti della grammatica comparata, della dottrina delle radici primitive, di Friedrich Schlegel, di Bopp e dei suoi seguaci ( cfr. Chervel, 1979, p. 5 ; Formigari, 1990, p. 188 ) . Come vedremo nei prossimi paragrafi, l a comparazione linguistica è vol ta in De Brosses a collegare le parole delle diverse lingue alle stesse ra dici originarie per individuare i fondamenti organici del linguaggio e i fenomeni di iconismo fonico. A Leibniz risalgono l'idea delle lingue come archivi del passato, co me monumenti dell'antichità capaci di condurci al di là delle frontiere della storia, fino alle origini dei popoli (Nuovi saggi III, IX: Leibniz, 1982, p. 324) , e l'avvio di uno studio etimologico basato su una ricerca empiri ca. In Leibniz De Brosses trova l'iniziatore del concept intérieur e la gran de vocazione alla comparazione delle lingue a fini genealogici (cfr. Tra bant, 1990, p. 137; Aarsleff, 1984, p. 133) 2• Alla base della ricerca etimolo gica sta il presupposto leibniziano che le lingue siano il migliore specchio dello spirito umano (cfr. Nuovi saggi III, VII) . Del resto la filosofia di Leib niz può essere considerata (cfr. Gensini, 2oooa, p. 72) non solo un pas saggio chiave verso il collasso del paradigma aristotelico fra il Seicento e 88
DE BROSSES E LEIBNIZ: UN MODELLO DI NATCRALISMO LI:\'GUISTICO
il Settecento, ma anche la base di quella "svolta linguistica" che si so vrappose alla filosofia illuministica e che trova in Francia dei riscontri in De Brosses, il quale, più che valorizzare l'interesse sensualista per il va lore cognitivo del segno, si concentra sulle sue proprietà linguistiche ed espressive. All'impostazione razionalistica deduttiva della grammatica generale di Port-Royal e della linguistica cartesiana si sostituisce così quella empiristica induttiva del periodo illuminista (Rosiello, 1967, p. 8 ) . Quest'ultima non basa l'identità delle lingue sull'universalità della ra gione, ma trova un fondamento nella "natura" che può essere indagata attraverso l'osservazione empirica e l' " uso" (cfr. Droixhe, 1978 , p. 173 ) . L'interesse empirico per l e lingue è coniugato d a D e Brosses con il re cupero del tema delle origini e con la considerazione dell'evoluzione del linguaggio, e viene inoltre insinuata l'idea che questi aspetti rispondano a delle costanti e che siano sottoposti a delle regole fonetiche. L'opera di De Brosses, punto di snodo verso Court de Gébelin, Tur got e Beauzée, documenta l'importanza della ricezione di Leibniz in Francia e la sua influenza sul pensiero linguistico successivo (cfr. i diversi punti di vista di Trabant, 1990, p. 149, e Aarsleff, 1984, p. 404) . Questo in nesto del pensiero tedesco nella cultura francese è tanto più rilevante se si pensa che l'opera di Humboldt ha poi stentato a diffondersi in Fran cia - dove non era nemmeno stata tradotta -, esercitandovi solo un'in fluenza indiretta e ritardata (Chervel, 1979, p. 23) . Un punto chiave della trattazione di De Brosses è l'uso del termine «mécanique», già applicato ai fenomeni linguistici da un rappresentante del cartesianesimo, l'Abbé Pluche, nell'opera appunto intitolata Mécani que des langues et l'art de !es enseigner (1751) 3• De Brosses nel Traité ri prende alla lettera il titolo dell'opera di Pluche, autore che peraltro egli cita (De Brosses, 1765, vol. I, p. 68) , caposcuola del movimento dei Méca niciens in opposizione a quello dei Métaphysiciens. I Mécaniciens, che lottano contro il razionalismo linguistico meritandosi il nome di «mouve ment des langues vivantes», polemizzano con il logicismo dei Métaphysi ciens criticando i grammatici che usavano intitolazioni come quella di Du Marsais: Exposition d'une méthode raisonnée pour apprendre la langue la tine (cfr. Droixhe, 1978 , p. 237) 4• Sulla scia di Pluche, De Brosses (1765, vol . I, p . 261) approfondisce le connotazioni materialiste del termine "meccanismo" rigettando l'intervento della ragione e della coscienza nel lo sviluppo del linguaggio. A questa impostazione De Brosses dà un im portante peso teorico, tanto che in una lettera del 1759 afferma la natura filosofica della sua opera (cfr. Droixhe, 1978, p. 257) . TI lemma "meccani smo" cela, per usare termini moderni, una svolta antimentalista (cfr. ivi, p. 262) : il linguaggio non deve essere studiato come se fosse il risultato del la volontà umana. L'obiettivo primario del Traité è infatti la descrizione
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della «opération matérielle de la voix», contrapposta alla «opération spi rituelle de l'ame qui la dirige» 5• De Brosses (1765, vol. I, p. 24) intende os servare in primo luogo le «opérations corporelles de l' organe vocal» e, in virtù della costituzione fisica degli organi della voce, vuole esaminare co me l'intelligenza spirituale arrivi a far risuonare uno strumento messogli a disposizione dalla natura (ibid.) . Così si potrà osservare come lo spirito sia spesso guidato o trascinato dalle proprietà dello strumento vocale e come quest'ultimo sia determinato dalle proprietà sensibili delle cose (ivi, pp. 24-5) 6• L'uso del termine «mécanique» in De Brosses acquisisce dun que un valore epistemico preciso che rimanda alla materialità della natu ra cui l'uomo appartiene e alla necessità di rintracciare in essa l'origine del linguaggio (cfr. Séris, 1995, p. 56) . De Brosses rinnova così il ruolo strate gico che i Mécaniciens davano all'irrazionale e al sentimento per mettere in crisi il logicismo grammaticale mostrando, come già Leibniz, l'origine affettiva delle lingue (cfr. in/ra, PARR . 3 , 5). 2
Il fondamento fisico e necessario del linguaggio
Le assunzioni di De Brosses (1765, vol. I, p. 4) sono chiare fin dai primi paragrafi del Traité dove egli pone a fondamento del linguaggio un prin cipio fisico e necessario eternamente stabile («non simplement arbitrai re et conventionnelle») , ma offuscato dall'uso e dall'alterazione lingui stica che ha allontanato le lingue dal loro solido fondamento. La "strut tura profonda" del linguaggio non è arbitraria ma costituisce un sistema naturale condizionato dalle proprietà degli organi vocali e dalle pro prietà del mondo esterno (ivi, pp. XIJ-XIIJ; corsivi miei) : Que le systeme de la première fabrique du langage humain et de l'impasitian des nams aux chases , n'est dane pas arbitraire et canventiannel, camme an a cautume de se le figurer; mais un vrai systeme de nécessité déterminée par deux causes. L'une est la construction des organes vocaux qui ne peuvent rendre que certains sans analagues à leur structure; l' autre est la nature et la propriété des choses réelles qu 'an veut nammer.
Ruolo fondamentale nel condizionare lo sviluppo del linguaggio è quel lo giocato dall'organo vocale che determina universalmente le prime ar ticolazioni (ivi, p. n ) : Il n ' y a ici aucun chaix d e s a part, car il ne peut articuler autrement: c'est l'apé ratian nécessaire de la nature; apératian qui dait etre à-peu-près la meme dans taus les langages, dans taus les pays , puisqu'elle n'a rien d'arbitraire, de canven tiannel, ni d'autrement passible.
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La parola fu prodotta da organi fisici determinati dalla natura (cfr. ivi, pp. VIIJ-IX) e fu stimolata dalle reazioni dell'uomo al mondo circostante. Poiché è la materia a determinare la forma del linguaggio, è nelle pro prietà della materia che risiede il principio fisico e primordiale di ogni operazione (ivi, p. 5): L'homme n 'est pas créateur d e l a matière: obligé d'employer l'organe vocal, tel qu'il l'a reçu de la nature, il n'est pas meme ici l'artiste de l'instrument dont il se sert; il ne fait don c que donner bien ou mal, la forme don t le su jet est susceptible.
All'organo della voce, considerato uno strumento meccanico, vengono dedicati diversi capitoli (De l'organe de la voix et de l'opération de cha cune des parties qui le composent; De l'alphabet organique et universe� composé d'une voyelle et de six consonnes) . li principio invariabile che condiziona il linguaggio è dato infatti dall'insieme degli organi che con corrono all'articolazione dei suoni (ivi, p. 9 5 ) : Ramenons les choses à une méthode plus simple e t plus certaine, c'est-à-dire au principe invariable de leur origine et de leur cause efficiente, par l' examen de l'or gane, ou des organes qui s'emploient successivement à former la parole, par-tout où il y a des hommes. Nous trouverons que toutes les lettres ou inflexions pos sibles, don t le nombre est infini, en raison de leur légère différence, peuvent etre rangées par classes sous l'organe primitif qui les forme; que le n ombre de ces or ganes composant l'instrument de la parole, est très-petit, et qu'il en est de meme par conséquent du nombre des lettres qui correspond justement, sans plus ni moins, à celui d' autant d' organes, don t chacun produit son articulation propre.
I suoni specifici utilizzabili dall'uomo («germes») , «d'où sont éclos tous les mots des langages, sont des effets physiques et nécessaires résultans absolument tels qu'ils sont, de la construction de l'organe vocale et du mécanisme de l'instrument» (ivi, p. x) . Infatti, «les premiers germes ori ginaux sont en fort petit nombre, correspondant au petit nombre de leurs causes potestatives» (ivi, p. 16) . I suoni vengono dunque ridotti o ricondotti agli organi - ogni inflessione o articolazione vocale dipende dalla costruzione dell'organo che la produce - e la costruzione di ciascun organo dipende dalla natura. In questo piccolo numero di " germi" o di articolazioni la scelta è determinata «par la nature et par la qualité de l'objet meme; de manière à dépeindre, autant qu'il est possible, l'objet tel qu'il est, sans quoi, le mot n'en donnerait aucune idée» (ivi, p. XJ) . Per questa strada s'intende pervenire a u n numero fisso d i parti dell'or gano fonatorio, di vocali, consonanti, accenti. La natura limita anche i raggruppamenti fra questi suoni che devono essere combinati nella ma niera migliore per riprodurre con la voce l'oggetto che si desidera de-
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scrivere (cfr. ivi, p. X; Juliard, 1974, p . 54) . I suoni sono così classificati esclusivamente in base agli organi che li hanno prodotti (labbra, gola, denti, palato, lingua e naso) , in modo da ricavare un alfabeto organico universale applicabile a tutte le lingue del mondo 7• Si tratta di un alfa beto mimetico in cui ciascuna lettera schematizza il movimento d' orga no che designa 8• Questo macchinoso alfabeto, interamente ideato dal l'autore, è rivolto esclusivamente all'uso professionale degli etimologi 9• De Brosses (1765, vol. I, p. 22) , che peraltro auspica che la filosofia de dichi una scienza particolare alla forma materiale del linguaggio, incentra la sua analisi fonetica sul piano articolatorio trovando un principio fisso negli organi sulla base dei quali classifica le procedure evolutive. n punto debole di quest'analisi della "macchina vocale" è l'insufficienza di una prospettiva fonetica puramente articolatoria che non considera il piano acustico globale 1 0 • Se l'assunto fondamentale della riflessione etimologica di De Bros ses (ivi, p. 26) è di considerare l'organo della voce uno strumento mec canico, una macchina atta a produrre certi suoni articolati in virtù della sua costruzione e organizzazione, facendo astrazione dall'anima, il pun to d'arrivo di questo percorso sembra essere un altro: da esso egli si aspetta delle indicazioni sulle cause della «puissance intérieure» che re gola lo strumento accordando al senso un ruolo determinante; «qu'il faut donner beaucoup plus d'attention au sens qu'au son ou à la figure d es mots. La langue étymologique parle à l'esprit plutot qu' aux yeux ou qu' aux oreilles» (ivi, vol. II, p. 393 ) . 3
La lingua primitiva
De Brosses (ivi, vol. I, pp. XIV-XV) ritiene non solo che il linguaggio si fondi sulla natura e sui principi fisici delle cose, ma che esista una lingua primitiva, organica, fisica comune a tutto il genere umano: Il existe une langue primitive, organique, physique et nécessaire, commune à tout le genre humain , qu' aucun peuple au m onde ne connalt ni ne pratique dans sa première simplicité; que tous les hommes parlent néanmoins , et qui fait le pre mier fond du langage de tous les pays.
Da questa lingua primitiva sono derivabili tutte le altre secondo le leggi individuate dall'etimologia. Essa è l'espressione simbolica delle cose co sì come si realizza automaticamente per la costituzione stessa del corpo umano . La lingua primitiva è "necessaria" in quanto è di natura "fisica" , imposta dalla natura e non arbitrariamente istituita dall'uomo, e questa 92
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necessità è «organica» poiché procede dalla costituzione degli organi della voce (Genette, 1976, p. 87) . La lingua primitiva naturale ipotizzata da De Brosses (1765, vol. I, p. XVIJ) ha un rapporto imitativo con le cose nominate. Essa non è il risulta to di una volontà arbitraria dell'uomo, ma è l'effetto necessario delle sen sazioni provenienti dall'azione degli oggetti esterni senza che la volontà svolga alcun ruolo. Vengono così stabiliti due principi primordiali mate riali (cfr. ivi, p. 16) dipendenti dalla costituzione degli organi della parola, che possono produrre solo certi suoni analoghi alla loro struttura, e dalla natura e dalle proprietà fisiche degli oggetti che si vogliono nominare: 1. l'imitazione degli oggetti attraverso la voce; 2. il movimento proprio a ciascun organo in conformità alla sua strut tura. Più in generale, se i suoni vocali significano le idee rappresentative degli oggetti reali, è perché l'organo ha cominciato «par s' efforcer de se figurer lui-meme, autant qu'il a pu, semblable aux objets signifiés, pour rendre aussi par-là les sons aériens qu'il moule les plus semblables qu'il lui est possible à ces objets» (ivi, p. 9) . La natura ha istituito un rappor to tra la forma del suono e il modo di esistere degli oggetti nominati, un rapporto naturale fondato su una specie di somiglianza imperfetta, tale che il movimento dell'organo utilizzato di preferenza può produrlo me glio di qualunque altro (cfr. ivi, p. 14) . Poiché l'organo fonatorio imita l'oggetto da denominare, di conseguenza anche il suono prodotto dal l' organo imita l'oggetto. I valori significativi dei suoni attengono al ca rattere imitativo del loro movimento articolatorio: «Le lèvres battent ou sz/flent: la gorge aspire; les dents battent, la langue frappe, la langue et le palais ensemble coulent, /rolent ou sz/flent; le nez sz/fle» (ibid. ) . Vi sono diversi "ordini" di parole primitive, risultanti d a «une ma nière nécessaire de la constitution mécanique de l'homme»: le interiezioni (primo ordine: cap. VI , par. 8); le parole necessarie, la cui forma è imposta dalla maggiore o minore mobilità dell'organo fonatorio a un certo stadio del suo sviluppo, come le radici labiali nel vocabolario dei bambini (secondo ordine: cap. VI, par. n); le parole degli organi della voce derivate dall'inflessione stessa dell'organo (come gorge, langue, dent, bouche; terzo ordine: cap. VI, par. 16) ; le parole che imitano onomatopeicamente i rumori degli oggetti esterni (quarto ordine: cap. VI, par. 17) ; le parole dedicate dalla natura all'espressione di alcune modalità de gli esseri (quinto ordine: cap . VI, par. 19) ; l'accento nato dalle affezioni dell'anima (sesto ordine: cap. VI, par. 24) 11• Come già in Leibniz (cfr. in/ra, PAR. 5) , i primi germi generali del lin guaggio umano sono le "radici" , parole primitive, da cui scaturiscono le 93
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parole usate nel linguaggio (De Brosses, 1765, vol. I, p. 15) . Esse sono bre vi, comunemente monosillabiche, di numero esiguo, comprendenti i suo ni vocali, nati dalla conformazione dell'organo indipendentemente da qualsiasi convenzione arbitraria, atti a raffigurare per imitazione l' esisten za fisica dell'oggetto espresso o a mostrare i rapporti generali che si tro vano fra certe impressioni e certi organi (cfr. ivi, vol. II, pp. 297, 335, 363 ) . Inoltre (ivi, vol. I , pp. VIJ-VIIJ; corsivo mio) , il a fallu remonter jusqu'aux racines qui ont produit les mots usités dans le lan gage humain , en découvrir le premier germe, et suivre ses développemens de branches en branches; observer comment et pourquoi ils ont été produits tels qu'ils frappent notre oreille; en un mot, arriver au dernier degré de l'analyse, aux prin cipes les plus simples et vraiment primitifs, puisqu 'il est très -vrai qu'ici, camme dans tous les effets naturels, les grands développemens, qui nous affec tent d'une manière si sensible, ne sont que la suite nécessaire, et l'extension des premiers germes imperceptibles.
Così «les branches participent toujours plus ou moins à la nature de leur racine, quoique plus elle s' en éloignent, plus les formes en deviennent arbitraires, bizarres et anomales» (ivi, p. 17) . De Brosses (ivi, p. XXXJ) sembra quasi anticipare la nozione di " albero" storico formato dalle par late apparentate e dal suo tronco primitivo e dai suoi rami suddivisi qua si all'infinito (cfr. Droixhe, 1978 , p. 194) . Le parole primitive, essendo im mediatamente generate da signes radicaux, sono «comme des troncs sor tis de la racine, et qui vont pousser un nombre infini de branches» (De Brosses, 1765, vol. I, p. 17) 1 2• 3 · 1 . n tema dell'origine del linguaggio n rifiuto dell'arbitrarietà del linguaggio sfocia per De Brosses in fiducia
nella sua razionalità nel recupero della storia (cfr. Droixhe, 1978 , pp. 245) . La convinzione che si possa ipotizzare la solidarietà genealogica di certe lingue e l'idea che i processi di derivazione siano motivati costitui scono la base nell'indagine comparativa fondata sulla natura. n tema del la lingua primitiva introduce un argomento classico della filosofia del lin guaggio, cioè la questione delle origini del linguaggio, che i filosofi del Settecento affrontavano tentando di sfuggire al peso della tradizione bi blica e rifiutando il presupposto cristiano per cui ogni conoscenza e ve rità derivano direttamente da Dio. Nella discussione illuministica sull'o rigine del linguaggio confluivano due temi molto vivi nella cultura se centesca: la disputa sul fondamento naturale o convenzionale del lin guaggio e la dottrina dell'ebraico come lingua madre dell'umanità (cfr. Gensini, 1991, p. 35) . De Brosses (1765, vol. I, pp . 188-93) riprende queste
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discussioni e, pur sostenendo l'ipotesi di una lingua primitiva comune, afferma come «il n'y a nulle preuve en faveur soit de l'hébreu, so it d' au cun autre langage connu, qu'il soit la langue primitive» 13• Citando Leib niz De Brosses (ivi, p. 199) ammette però che la lingua primitiva potreb be contenere molte radici ebraiche: Skittius 14 dixit ex omnibus linguis fieri per abstractionem posse linguam uni versalem matricem radicalem guam nemo loquatur; sed guae sit omnium radix. In hac plurima Hebroea. (Lettre de Leibnitz.)
Giudicata infruttuosa la disputa sulla progenitura ebraica del linguaggio delle origini 15, secondo De Brosses bisogna rinunciare a cercare nella sto ria la lingua primitiva a causa della mancanza di vere e proprie testimo nianze e memorie. Anche le lingue attuali dei popoli selvaggi si trovano a una tale distanza dal loro stadio primitivo che sarebbe impossibile ren dere conto delle cause sconosciute della loro alterazione (cfr. ivi, vol. II, p. 18; Droixhe, 1978 , p. 194) 1 6• Perciò i pareri su tale materia sono molto controversi e la ricerca deve necessariamente spostarsi su «une méthode générale et métaphysique prise au sein de la nature» (De Brosses, 1765, vol. I, p. 2oo) , rivolgendosi alla natura (ivi, p. 194) per esaminare il modo in cui essa procederebbe nel generare una lingua primitiva (ivi, p. 179) : Y-a-t-il une langue primitive, et quelle est-elle? Deux questions que je ne pré tends pas examiner ici ni en théologien , ni en littérateur; mais seulement selon la méthode que j'ai jusqu'à présent suivie, en m'attachant à prendre toujours la nature pour guide , et à suivre dans leur ordre les opérations de l'or gane vocal résultantes de sa pro pre construction. ]'ai déjà remarqué, et la chose est évidente en soi, qu'aucune langue connue n'a été formée en bloc et tout d'un coup.
Rinunciando a ricostruire storicamente la lingua primitiva, De Brosses (ivi, p. 2oo) sposta la sua indagine sullo sviluppo del linguaggio nei bam bini. Stabilito un metodo che si fonda sulle caratteristiche fisiche della macchina vocale, De Brosses (ivi, p. 195) assume che la facoltà del lin guaggio si sia sviluppata gradualmente a mano a mano che l'uomo co minciò a inventare i «signes de la parole» l ? . L'uomo parla per far conoscere a un altro uomo ciò che è in lui, ov vero ciò che sente, percepisce o ha già percepito, ma questo bisogno è del tutto naturale e spontaneo: «il veut nommer et parler, parce que sa faculté constitutive l'y pousse, comme à tout autre mouvement résultant de son organisation» (ivi, p. 252) . Ciò che scatena lo sviluppo della parola sono i sentimenti o le sen sazioni interiori ovvero quella parte dell'uomo comune agli animali (ivi, p. 197) : 95
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S'il est question d'une simple sensation intérieure (car il ne s'agit pas encore ici de réflexion ni d'idée combinée) il la dénote fort bien par le geste , l'accent, le simple cri, et cette partie du langage est donné à l'animai camme à l'homme.
De Brosses (ivi, pp. 208 -9) sembra alludere a una forma di naturalismo continuista di stampo lucreziano 18 per cui vi sarebbe una radice comu nicativa comune fra uomini e animali: Aussi ne peut-on guères douter que ceux-ci [les animaux] n'ayent reçu de la na ture le don de la parole à quelque petit degré plus ou moins grand: mais je n'exa mine ici que ce qui regarde le développement de cette faculté dans l'homme qui la possède à un degré fort éminent.
Si potrebbe ipotizzare dunque solo una differenza di grado, sia pure mol to forte, tra la facoltà del linguaggio umana e quella animale. n bambino in fatti inizia a esercitare la sua facoltà di parlare attraverso suoni che all'ini zio non sono che "accenti" , ma che lui utilizzerà presto con una facilità e una varietà che la natura non ha dato a nessun altro animale (cfr. ivi, p. 208 ) . D a quest'analisi si ricava l'impressione che siano i sentimenti o l e sen sazioni interne (e non gli oggetti esterni) a mettere in moto l'uso della fa coltà di parlare: prima ancora che il bambino apprenda ad articolare le pa role si esprime tramite le interiezioni. Le interiezioni sono qualcosa di più delle parole, «puisqu'elles expriment le sentiment qu' on a d'une chose, et que par une simple voix prompte, par un seui coup d'organe, elles pei gnent la manière dont on s'en trouve intérieurement affecté» (ivi, p. 202) . Esse non esprimono degli oggetti esterni ma delle "affezioni interio ri" (ivi, pp. 202-3; corsivo mio) : Toutes [les interjections] sont primitives en quelque langue que ce soit, parce que toutes tiennent immédiatement à la fabrique générale de la machine orga nique, et au sentiment de la nature humaine, qui est partout le meme dans les grands et premiers mouvemens corporels . Le interjections, quoique racines , n' ont que peu de dérivés. ]' en viens de dire la raison. Elles n} expriment pas des objets extérieurs) mais des a//ections intérieurs.
Come per Leibniz (cfr. in/ra, PAR. s), le interiezioni mostrano l'origine af fettiva e non-razionale delle lingue: «l'on a des sentimens, avant que d'a voir des idées» (De Brosses, 1765, vol. I, p. 207) . I nomi delle affezioni del senso interno sono le prime parole, le più antiche, le più primordiali del la lingua primitiva (ivi, p. 209) : Il y a dane dans la langue primitive des mots nécessaires, et ce sont ceux qui si gnifient les idées nées de l'affection intérieure, le premier de tous les sens; qui
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peignent la douleur ou la joie, l' aversion ou le désir. Ce ne sont d' abord que des accens, des voix simples, tels qu'en profèrent aussi beaucoup d'autres animaux.
Ci sarebbe infatti una relazione fisica di conformità, indipendente da ogni convenzione, fra certi sentimenti dell'anima e certe parti dello stru mento vocale: la voce del dolore è gutturale, la voce del disgusto e del l'avversione è labiale, la voce del dubbio è nasale (cfr. ivi, pp. 204- 5) . A questo argomento De Brosses dedica anche un paragrafo (il par. ro del cap. VI del primo tomo) , intitolato Liaison nécessaire entre !es sentimens et !es sons de la voix. L'imposizione dei nomi a oggetti esterni avviene invece secondo due specie di cause: r. "mediate " , nel caso in cui il termine sia fabbricato per derivazione da un altro termine già esistente; 2. "immediate" , quando il termine è fabbricato a imitazione stessa del l'oggetto, come nel caso delle parole francesi bruit, trictrac, ta/fetas, rader, flairer, tutti vocaboli creati, secondo De Brosses (ivi, p. 198) , per onoma topea (ivi, p. 197) : l'homme imite au moins du mieux qu 'il peut avec sa voix la peinture de l'objet. C'est ce qu'on appelle onomatopée ou vox repercussa naturae. Le mot grec ono matopée signifie à la lettre,/ormation du nom. Mais on ne l'applique que lorsque le nom est formé par la peinture sonore de l'objet meme. Ainsi le mot meme d'onomatopée et son acception particulière concourent à nous montrer que cet te manière de /ormer !es noms a été la plus naturelle et la première employée.
TI caso esemplare è quello dell' onomatopea uditiva secondo la quale le parole imitano il rumore degli oggetti: «si vrai, que le mouvement natu re! et général à tous les enfans est d'appeler d'eux-memes les choses bruyantes du nom du bruit qu'elles font» (ivi, pp . 230-r) . Troviamo così sparse nel Traité (cfr. ivi, p. 140) molte delle classiche attribuzioni simboliche platoniche o leibniziane: t, articolazione dentale che designa la fissità perché i denti sono i più immobili organi della vo ce; n, la più liquida di tutte le lettere, è caratteristica di ciò che agisce sul liquido; l'articolazione r rappresenta la rudezza degli oggetti esterni (cfr. ivi, p. 242) - la stessa r determina «le nom des choses qui vont d'un mou vement vite accompagné d'une certaine force. Rapide, ravir, rota, rheda, rouler, rader, rainure, raie. Aussi sert-elle souvent au nom des rivières dont le cours est violent: (!ÉeLV, Rh in, Rhone, Eridanus, Garonne, Rha (le Volga)» (ivi, p. 243 ) ; s che Brosses considera una consonante nasale è at ta a rappresentare i rumori del fischiare o sibilare; gr, «coup de gorge, rudement frolé», rappresenta lo sforzo che si fa per salire (ivi, vol. n, p. 97
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36o) ; /l, dal carattere liquido, «est affecté au fluide» sia igneo, sia acqua tico, sia aereo; cl o gl, «inflexion creuse et coulée» che si è sforzata di raf figurare una discesa scivolosa: «Elle n'emploie pas d'autres élémens que la gorge coulée dans la fabrique première des mots français glisser, cou ler, du mot italien calare descendre doucement, descendre en glissant» (ivi, pp. 3 58-9) ; st è impiegata per designare la fissità (ivi, vol. I, p. 238 ) : Par exemple, pourquoi, l a fermeté e t l a fixité sont-elles l e plus souvent désignées par le caractère St? Pourquoi ce caractère St est-il lui-meme l'interjection dont on se sert pour faire rester quelqu 'un dans un état d'immobilité. Exemples Sta re, stabilité, stips, stupide, otat�g, OT'Y]ÀLç, stamen, stagnum (eau dormante) , stel lae Oes étoiles fixes) '9.
Non casualmente De Brosses (ivi, pp . 238 -9; vol. II, pp. 24I-2) cita reite ratamente Leibniz rifacendosi alla sua autorità (ivi, vol. I, p. 239) : «Leib nitz a si bien fait attention à ces singularités, qu'il les remarque comme des faits constans . n en donne plusieurs exemples en sa langue». Più in generale si tratta del fatto, cui De Brosses (ivi, p. I4) accenna fin dalle prime pagine dell'opera, che ogni classe di cose, o di aspetti del le cose, si rapporta, quanto ai nomi che esse hanno ricevuto, a un certo movimento proprio di uno degli organi e si articola quasi sempre con questo movimento vocale. Così Genette (I976, p. 89) sostiene che i suo ni diventano una sorta di epifenomeno dello sforzo compiuto dall'orga no vocale per raffigurarsi simile all'oggetto significato, cioè per pren derne la forma: il rapporto analogico lega quasi direttamente l'organo al l' oggetto e il linguaggio è una sorta di mimica articolatoria. Si è parlato perciò di una teoria fonomimetica dell'origine del linguaggio, sulla linea del Cratilo platonico e di Leibniz, incentrata sul potere evocatore delle diverse articolazioni vocali (cfr. Droixhe, I978, p. I93) . La gradualità dello sviluppo ontogenetico del linguaggio è funzione della gradualità di sviluppo degli organi vocali (De Brosses , I765, vol. I, pp. 2I2-3 ; cfr. ivi, pp . Io-I) 20 : Les mots Baba, Papa, Mama, Atta, Tata, Caga, Nana, sont des racines primor diales nées de la nature humaine, et dont la naissance est une conséquence ab solue de cette vérité physique, thomme parle [ . . . ] . ]e suis très-persuadé que tout enfant abandonné à lui-meme , sans qu'on lui fasse entendre aucune voix hu maine ni animale, commencera de faire usage de la parole par les syllabes, Papa et Mama, composées de sons pleins et de lettres labiales , c'est-à-dire de la voix et de la consonne la plus facile; car il se forment nécessairement dès qu'on em ploie le simple mouvements des lèvres . Ainsi, sans recourir à aucune raison d' étymologie.
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Queste espressioni sono le stesse in tutti i popoli dei quattro angoli del la Terra (ivi, pp. n-2) : «il en faudra conclure qu'elles sont natives au gen re humain, nécessairement résultantes de la structure physique de l'or gane vocal, et du produit de son plus simple exercice». Il principio meccanico sottende dunque la lingua primitiva: nella specie umana la natura deriva le prime parole "necessarie " dall'organo fonatorio più esterno del quale sviluppa i movimenti prima degli altri (ivi, p. 221) . Da questo punto di vista l'ordine dell'alfabeto è sensibil mente conforme all'ordine naturale dell'acquisizione dei suoni: prima la labiale, poi la dentale, poi la gutturale, infine le linguali e le pala tali - con l'errore rilevato da Genette della gutturale c davanti alla dentale d. Un punto interessante è quello che De Brosses riconduce agli " ac centi" congiunti alle parole: «On peut dire qu'ils sont l'ame des mots. lls sont au discours ce que le coup d'archet et l'expression sont à la musi que. lls en marquent l'esprit: ils lui donnent le gout, c'est à dire l' air de conformité avec la vérité» (ivi, pp. 254- 5) . n linguaggio degli "accenti" è generale, espressivo, intelligibile più di quello delle parole in quanto le inflessioni espressive del sentimento formano una lingua universale (ivi, p. 255; cfr. ivi, p. 256) : Ils naissent de la sensibilité de l'organisation: ils tiennent à la conformation phy sique; aussi sont-ils des sons nécessaires appartenans à la langue primitive, et se trouvent-ils plus ou moins dans toutes les langues quelconques , à mesure que le climat rend une nation plus susceptible, par la délicatesse de ses organes, d'etre fortement affectée des objets extérieurs.
Come le interiezioni, gli accenti non sono parole ma sono l'espressione immediata del sentimento interiore. Essi, scrive De Brosses (ivi, pp. 2567) , non nascono solo dalle passioni e dai movimenti dell'anima, ma si di versificano a seconda del clima. Inoltre, è ipotizzabile che il dispositivo accentuale della lingua primitiva, povera di termini, sia stato molto più potente e più utile che nelle lingue moderne, dove i termini si moltiplica no e si arricchiscono continuamente (cfr. ivi, p. 258 ) . Se si immagina un popolo delle origini lo si potrebbe rappresentare così (ivi, vol. II, p. 85): brut, sauvage, sans arts, sans connaissances, sans autres idées que celles que lui don nait la simple sensation des objets extérieurs; sa langue presqu'entièrement com posée de monosyllabes ne contiendrait que les noms appellatifs 21 des choses phy siques, ainsi que nous le remarquons dans les langues des peuples les plus barbares.
Anche De Brosses connette l'origine del linguaggio al costituirsi della so cietà. Fin quando l'uomo vagò solitario nel mondo, egli usò solo pochi gridi e gesti emozionali onde esprimere sorpresa o paura e non impiegò 99
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per nulla, O molto poco, la SUa capacità di parlare (cfr. ivi, p. IO) . n po chissimo bisogno (cfr. ivi, p. I95) che un bambino isolato ha di farsi ca pire nocerà assai allo sviluppo dei suoi organi vocali - produrrà molte vocali e poche consonanti - e svilupperà pochissimo la riflessione in quanto non avrà nessun patrimonio di idee, ma avrà solamente nell' ani mo la memoria di talune percezioni semplicissime (cfr. ivi, pp. Io-I; For migari, I972, pp. 204-6) . Ma se due o più bambini sono riuniti, la natu ra, il bisogno, l'abitudine mettono in moto le facoltà. Ognuno si avvan taggia delle invenzioni dell'altro e le accresce continuamente operando su questo patrimonio iniziale. Fu il riunirsi degli uomini in società che promosse idee nuove e utili che dovettero essere comunicate (cfr. De Brosses, I765, vol. I, pp . n-2) . Una volta formate, le lingue divennero la base delle società e ne rafforzarono i legami. 4
L'etimologia
n progetto etimologico di De Brosses è di individuare una regolarità nel l'evoluzione linguistica, che comunemente è considerata il terreno dello hasard o il luogo di osservazioni frivole nel loro oggetto e inutili nelle lo ro conseguenze (cfr. ivi, p. 2) . L'arte etimologica invece non è il luogo del la casualità, perché ciò implicherebbe che esistano degli effetti senza cau sa 22 (cfr. ivi, p. 29) , ma è un metodo nuovo «d'observer de ce coté méca nique l'expression verbale de nos connaissances et de nos sentiments, ain si que la structure de la machine complète dont la nature nous a doués pour une pareille opération» (ivi, p. 3I) . L'etimologia recupera e mostra la natura mimetica del linguaggio. Del resto, lo stesso termine " etimolo gia" la definisce come studio della verità delle parole (cfr. ivi, p. 27) . Nel Discours préliminaire al Traité (ivi, p. v) , l'etimologia è assegna ta alla logica e, nel primo capitolo, De Brosses specifica che le conside razioni in materia di etimologia non sono di natura grammaticale ma di natura metafisica (ivi, p. 30; corsivi miei) . Esse
s'élèvent en les généralisant jusqu'à la plus subtile métaphysique, jusqu'à la nais sance meme de nos idées. Non-seulement la science étymologique n'est pas in utile dans cette partie de la philosophie, où elle nous montre les rapports des noms aux choses, et nous développe lefil des idées humaines; mais elle est d'un si grand usage dans presque toutes les parties de la littérature, surtout pour ce qui regar de l'histoire ancienne, qu' elle y sert (pour ainsi dire) d'instrument universel.
L'etimologia è una parte essenziale dello studio della storia dello spirito umano e indaga su come gli uomini, dotati della facoltà di servirsi di suoIOO
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ni come segni delle concezioni interiori, siano giunti attraverso alcune considerazioni naturali e primitive ad applicare certi suoni a certi ogget ti (cfr. ivi, p. 36) . Ma l'etimologia fornisce anche indicazioni sulle opera zioni dello spirito umano e sulle sue strategie cognitive: la formazione di idee e parole generali che comprendono sotto un termine una moltitudi ne di esseri particolari, i meccanismi di derivazione e declinazione che con pochi elementi basici riescono a esprimere una grande varietà di si gnificati, la formazione di parole, non solo per oggetti reali, ma anche per negare questi oggetti ecc. (cfr. ibid.) . L'etimologia ci dà anche delle infor mazioni di natura fisica: essa serve a farci conoscere le varietà di confor mazione anatomica dell'organo vocale a seconda dei diversi climi (cfr. ivi, p. 56) . De Brosses afferma che ogni popolo procede nella «fabrique de son langage propre avec une certaine mécanique qui lui est particulière, et qu'on pourrait comparer à ce que les peintres appellent manière, la quelle fait reconnaitre la main ou l' école de l'artiste» (ivi, p. 58) . Studian do questa manière che ogni popolo ha di alterare le parole acquisite da una nazione vicina, si può arrivare a conoscere la particolare attitudine che la natura ha dato all'uomo, a seconda della diversità dei climi in cui esso è nato, a servirsi di tale o tal altro organo della parola (cfr. ibid. ) 23• n clima, l'aria, i luoghi, le acque, il genere di vita e la nutrizione producono delle varietà nell'organizzazione fisica del corpo umano rafforzandone al cune parti e indebolendone altre. Queste varietà che sfuggirebbero all'a natomia possono invece essere individuate osservando quali organi della parola vengano più usati - e in che modo - da ogni popolo. Si vedrà co sì che le parole che emigrano da una parlata all'altra, nella misura in cui avanzano verso nord, vengono caricate dall'uomo di suoni labiali e nasa li, mentre al contrario nella misura in cui avanzano verso sud l'uomo le arretra verso il fondo del canale vocale caricandole di aspirazioni guttu rali. Da ciò segue una disposizione generale nata dall'influenza del clima sull'organizzazione fisica umana (cfr. ivi, p. 59) . Lo sviluppo linguistico amplifica poi le piccole variazioni che potevano darsi alle origini: «La na tura è infatti essa stessa soggetta a un grande numero di piccole varianti nella produzione degli individui di ciascuna specie. Ne ha senza dubbio introdotte anche nella delicata struttura degli organi vocali, secondo le condizioni ambientali e diverse altre cause» (De Brosses, cit. in Formiga ri, 1972, p. 208 ) . Infatti (De Brosses, 1765, vol. II, p. 14) , la nature n'opère pas ainsi, puisqu 'il n'y a pas une feuille absolument pareille sur un meme arbre; mais ils seraient du moins fort approchans, et formés en vertu des memes principes mécaniques. La diversité qu'on y remarquerait naitrait, non du fonds de la méthode pratiquée par la nature, mais du changement par elle pro duit dans l'organisation qu'elle y employe, selon la différence des climats.
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L'impianto materialistico della concezione di De Brosses valorizza e mette in rilievo la fisiologia del linguaggio, la variazione del linguaggio basata sulla diversità del clima, dei luoghi, delle acque, del genere di vi ta e della nutrizione. In effetti, la materia fonica è anch'essa molto va riabile. La natura variazionale del linguaggio dipende non solo da que sti elementi ma anche dalla funzione differenziatrice delle affezioni e delle passioni: «le cceur de l'homme est au fond le meme dans tous les pays [ . . . ] . Les passions se diversifient de mille et mille façons selon les objets qui les excitent, selon les nuances du caractère qui les modifient» (ivi, pp. 14- 5) . Inoltre, i processi di derivazione svelano la natura graduale dell'evo luzione linguistica: «Aucune langue ne s'est faite tout d'un coup [ .. .] on remarque dans toutes une altération insensible et journalière» (ivi, p. 84) . L'evoluzione linguistica è un processo ineluttabile e continuo (ivi, p. 365) : Vouloir que l'assemblage des primitifs reste toujours présent à chaque dérivé, c'est exiger qu'un langage quelconque reste toujours fixe, et sans altération, dans la bouche de ceux qui le parlent; c'est demander une chose impraticable aux hommes. Si une langue philosophique 24, fabriquée dans la plus exacte perfec tion, devenait vulgaire, les traits en seraient défigurés au bout de peu de siècles.
Queste alterazioni continue hanno una causa fisica nella natura delle co se che le rende inevitabili (ivi, p. 3 67) : et qu'il n'est pas plus possible de fixer une langue parlée, que de fixer l'air invi sible et mobile par sa nature: l'air est le véhicule du son; le son est le produit de la parole: produit invisible et mobile camme l' air qui frappe; camme lui varia ble par son essence.
Criticando i puristi dell'epoca De Brosses (ivi, p. 484) sostiene, utiliz zando però argomentazioni di tipo logico, come «il n'y a pas de point fixe où une langue doive absolument etre arretée, et qu' elle est toujours susceptible d'un plus grand degré de perfectibilité». Per tutti questi motivi nel secondo tomo del Traité l'idea che il lin guaggio risponda a una meccanica fisica necessaria è ridimensionata. Nell'ipotesi che quattro gruppi di bambini vengano abbandonati in quattro punti disparati della Terra, De Brosses (ivi, pp . 6-9) conclude che essi potrebbero non sviluppare lo stesso linguaggio privo di differenze. La matrice epicurea di queste idee, poi riprese da Leibniz, è testimonia ta dalle esplicite citazioni che De Brosses trae da Lucrezio (cfr. in/ra, PAR. 5; Séris, 199 5, p. 75) . Le diverse lingue esistenti sono i diversi prodotti del l'azione combinata di tempo e spazio su un fenomeno naturale, l'origi ne naturale del linguaggio (cfr. Séris , 199 5, p. 75) . 102
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4.1. Dall'etimologia fisica alla derivazione delle idee
Se il fondo primitivo del linguaggio non è arbitrario ma necessitato dal la natura, per De Brosses (1765, vol. I, p. XVJ) anche il sistema accessorio di derivazione deve in qualche modo partecipare della natura del primo: puisque le système fondamenta! du langage humain et de la première fabrique des mots n'est nullement arbitraire, mais d'une nécessité déterminée par la na ture m eme, il n 'est pas possible que le système accesso ire de dérivation ne par ticipe plus ou moins à la nature du premier, dont il est sorti en second ordre; et qu'il ne soit comme lui plutot nécessaire que conventionnel, du moins dans une partie de ses branches.
Se la prima "fabbrica delle parole " consiste ovunque nel formare delle immagini imitative degli oggetti nominati, lo sviluppo ulteriore del lin guaggio deve essere «une sui te et un développement de ce m eme méca nisme, employé meme dans les cas où il semble le moins propre et le moins applicable» (ivi, p. XL) . S i tratta d i mostrare attraverso quali determinazioni, quali metodi e fino a che punto l'arbitrario abbia lavorato sul fondo fisicamente e ne cessariamente dato dalla natura ( cfr. ivi, p. XIX) . Poiché le parole non so no arbitrarie anche le loro alterazioni non hanno mai potuto esserlo. Es se devono seguire delle regole costanti, attraverso le quali si potrà sem p re risalire alla prima origine delle parole e seguirle attraverso tutte le lo ro metamorfosi (cfr. ivi, pp . XIIJ-XIV, XVIJ-XVIIJ) . In effetti, nel secondo tomo del Traité De Brosses non si occupa più della lingua primitiva, ma del suo sviluppo e dei suoi progressi, a partire dall'infanzia primeva che si può chiamare il «vagito della natura», fino alla sua infanzia un po' ri flessiva e poi, via via, alla sua adolescenza, maturità e decadenza senile (ivi, vol. II, p. 4; cfr. Formigari, 1972, pp . 201-2) . Quando De Brosses ar riva a parlare di queste cose «la semplice meccanica degli organi non ba sta più» (De Brosses, 1765, vol. n, p. 4; cfr. Formigari, 1972, p. 202) . Bi sogna ricorrere all'osservazione di fatti e procedimenti noti , nei quali s'inseriscono l'arbitrio e la fantasia. Una lingua uscita dalla sua adole scenza, avida di aumentare le sue idee, esercita le facoltà del suo spirito, considera gli oggetti in mille maniere e «en prend les noms en mille et milles acceptions différentes» (De Brosses, 1765, vol. II, p. 49) . Come abbiamo visto, la meccanica dell'organo vocale forma le radi ci attraverso dei suoni che raffigurano gli oggetti o indicano la loro ma niera di essere. Su questo primo germe si è poi esteso il linguaggio. Lo spirito, desideroso di ampliare le sue idee, introduce la metafora, le al lusioni improvvisate, i termini figurati di ogni specie, «les acceptions 103
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d'un meme terme en mille sens détournés de leur vrai sens origine!». In effetti, «o n y voi t comment les idées, en s' écartant de près en près par de petites routes détournées, parviennent en peu de marches à se trouver fort loin du point du départ» (ivi, p. 308 ) . Si apre il vasto campo della de rivazione spogliata di ogni analogia primitiva (cfr. ivi, p. 52) , e in esso si rompe quella necessità che De Brosses (ivi, vol. I, p. 27) aveva postulato all'inizio del Traité, quando si esponeva la prima regola e la più sempli ce che indica la natura nella formazione delle parole ovvero la «vérité d es mots, ainsi que celles des idées», consistente nella conformità alle cose. La fedeltà del rapporto fra oggetto e nome che lo designa, postulata a fondamento del linguaggio, si allenta progressivamente. Infatti, «dès qu' on a dépravé la nature par des allusions idéales qui lui so n t étrangè res, et qu' on a écarté à tel point le dérivé de sa racine primordiale, que la connexité qui devrait facilement s' apercevoir entr' eux , n'y est plus sensible» (ivi, vol. II, p. 52) . L'arbitrario, il contingente sono destinati a svilupparsi nell' evolu zione del linguaggio. Perciò De Brosses, che vede allentarsi le maglie della sua meccanica fonetica, si rifugia nei luoghi classici dell'epoca sca gliandosi contro l'abuso delle parole, la loro incompletezza, il prolifera re dei sinonimi ecc. La parte dedicata alla derivazione è annunciata da alcune pagine caratterizzate da un atteggiamento normativa che adom bra una visione dello sviluppo linguistico inteso come una forma di cor ruzione (cfr. ivi, p. 73 ; Porset, 1981, p. 21 5) , ma in cui traspare un pro gressivo interesse per il piano storico e sociale delle dinamiche lingui stiche. De Brosses lamenta il proliferare dei sinonimi 25, il fenomeno dei prestiti 26 che creano nella lingua confusione e complicano il compito dell'etimologo. Infatti, «ils [les termes] se plient à tant de significations écartées de leur signe radica!, qu'il est impossible d' en suivre le vérita ble sens à travers ce labyrinthe d'idées auxquels ils se fléchissent» (De Brosses, 1765, vol. II, p. 73) . L a derivazione è un processo naturale in cui l'arbitrarietà delle con venzioni umane gioca la sua parte: il punto è allora per De Brosses quel lo di mostrare quanto si estenda l'arbitrario sopra la base fisica data dal la natura. Il miraggio di una fisica del linguaggio strettamente d et ermi nata dalla struttura organica e ambientale dei suoni cede il passo a un'a nalisi di natura storica e sociale. L'etimologia deve far ricorso continua mente al senso per identificare le unità linguistiche : «il faut donner beaucoup plus d' attention au sens qu' au son ou à la figure d es mots» (ivi, p. 393) . Così la linguistica non può più essere ricondotta alle scien ze della natura ma deve essere considerata parte delle scienze umane (cfr. Droixhe, 1978, p. 264) . 1 04
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n campo della derivazione è assai vasto in quanto «nul terme n'est sans étymologie» (De Brosses, 1765 , vol. II, p. 82) . Solamente i termini che hanno un'etimologia fisica, ovvero i termini la cui causa di formazione è condizionata o dalla conformazione fisica degli organi vocali o dagli og getti esterni - come nel caso delle onomatopee -, si sottraggono all'eti mologia di derivazione o grammaticale (cfr. ibid. ) . Lo studio dei proces si di derivazione è distinto da De Brosses (ivi, p. 117) in due classi di fe nomeni: la «derivazione materiale», ovvero l'evoluzione della forma del le parole come nel caso di lat. /raxinus e fr. /resne o di lat. flagellum e fr. fléau, e la «derivazione ideale» o derivazione delle idee, ossia l' evoluzio ne dei loro sensi. La seconda parte del Traité è dedicata alla derivazione, all' abbando no progressivo della mimesis originale, e quindi a quel regno della storia delle parole che Darmesteter (1887) chiamerà La vie des mots. La deriva zione delle idee è quella più difficilmente riducibile a processi meccani ci: i sensi derivati sono dei tropi, dei sensi détournés che si oppongono al senso proprio della parola 27• n senso proprio è consonante al valore espressivo naturale della parola mentre il senso derivato distrugge l'u nità simbolica ossia l'accordo di suono e senso, corrompendo l'armonia primitiva del linguaggio (cfr. Genette, 1976, p. 105) . n senso proprio o originario delle parole è generalmente per De Brosses (1765, vol. II, p. 96) quello che designa un'entità semplice, fisica, materiale, in cui l'arte e i processi umani non hanno nessun ruolo. La significazione primordiale è la migliore guida del lavoro etimologico (cfr. ivi, p. 181) 28 • A partire dalla lingua primitiva dei popoli barbari, ossia una lingua priva di idee astratte e totalmente condizionata dalla presenza di ogget ti sensibili, lo sviluppo dello spirito determina la formazione di un siste ma generale di denominazione di idee astratte e morali derivante dai no mi già dati alle cose fisiche. De Brosses (ivi, pp. 8 6-9) si riferisce all'em pirismo di Locke (Essay III 1 , 5) per il quale le denominazioni delle cose naturali, sensibili precedettero quelle morali e metafisiche 29 • La trasposizione del senso, molto frequente nei termini morali, s'in troduce per esempio quando si prende la causa per l'effetto o riunendo sotto una stessa forma materiale molte idee (cfr. De Brosses, 1765 , vol. II, p. 93 ) . Attraverso due processi che De Brosses denomina «approxima tion» (metonimia/sineddoche) e «comparaison» (metafora) , le radici so no servite per denominare non solo gli esseri che hanno un'esistenza rea le e fisica, ma anche quelli che hanno esistenza astratta, morale, metafi sica. La formazione dei termini intellettuali mostra vari passaggi : dal «primitivo organico e necessario» al «senso proprio» e dal «senso pro prio» al «figurato» che nel giro di qualche secolo provocano l'oblio dei loro sensi letterali. La derivazione estende il senso proprio , l'idea sem-
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plice e primitiva, aggiungendo ad essa l'idea accessoria (ivi, p. 166) . Ma anche se si assume che sia possibile risalire da un termine intellettuale a un germe organico bisogna ammettere che «il est malaisé sur-tout de démeler le fil de ces sortes de dérivations, où la racine n'est souvent plus connue, où l' opération de l'homme est toujours vague, arbitraire et fort compliquée» (ivi, p. 256) . Da una parte ci sono una varietà di parole diverse che indica gli stes si oggetti secondo diversi aspetti e le diverse circostanze in cui vengono considerate 3 0 • Dall'altra la proliferazione di accezioni di una stessa paro la - owero la polisemia - porta alla formazione di «controsensi» fra la pa rola e la cosa (ivi, p. 326) . Tali sono considerati dal De Brosses (ivi, p. 98) ossimori come «il giovane senatore» nei quali si è perso di vista il senso originario del latino senex. Tutte queste derivazioni, nate dall'abitudine di trasportare una parola da una significazione a un'altra vicina alla prima, sono per lo più il risultato di una metonimia, figura che svolge un ruolo decisivo nello sviluppo linguistico (cfr. ivi, p. 107) . Infatti (ivi, p. In ) , c'est par son moyen que les mots radicaux qui sont en petit nombre meme dans les langues les plus abondantes , s'étendent sans se multiplier, jusqu 'à désigner des choses dont les significations paraissent fort éloignées; mais en partant tou jours d'une signification primitive qui désigne une chose matérielle, naturelle, simple, où l'art n'a point de part.
Seguendo i percorsi della metonimia De Brosses (ivi, pp. 104-6) si sof ferma sui termini che sviluppano sensi fra loro contrapposti (enantiose mia) : per esempio la parola latina altus, che significa sia l'altitudine sia la profondità di un luogo, o la parola francese hoste, che significa sia uno straniero ricevuto in una città sia il cittadino che lo ospita. Così De Bros ses (ivi, p . 104) focalizza un tema molto interessante comprendendo che fra queste cose opposte si stabilisce una relazione semantica lungo la quale si articola l'opposizione. n limite della sua prospettiva è dato dal la sovrapposizione tra queste acute intuizioni, che lo portano a in divi duare delle categorie semantiche propriamente linguistiche, e un atteg giamento logicista che utilizza surrettiziamente una analitica delle idee universali 31• Per quanto riguarda le terminazioni, De Brosses osserva come esse si sottraggano all'imitazione, all' onomatopea e rappresentino solamen te delle piccole e vaghe combinazioni mentali (cfr. ivi, p. 173 ) . Ma la com posizione delle parole non è l'opera di una combinazione riflessa bensì d'una metafisica «d'istinto» che si basa sul piano analogico ed esempla re dei movimenti dell'organo vocale (ivi, p. 194) . Le terminazioni delle parole costituiscono una delle modalità di accrescimento del senso del106
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le parole e sembrano essere di natura totalmente arbitraria: «On a di t is sime pour le signe du superlatif; et l' on pouvait, ce me semble, se servir à volonté d'un aut re signe» (ivi, p. 171) . Proprio l'analisi delle termina zioni e le differenze che emergono nelle diverse lingue (cfr. ivi, p. 204) esemplificano di fatto l'arbitrarietà semantica delle categorie grammati cali, ma De Brosses sembra considerarle più da un punto di vista nor mativa, cedendo a una concezione della lingua intesa come nomencla tura di idee prestabilite che il linguaggio deve più o meno rispecchiare 32• La logica delle parole consiste nella loro adeguatezza alle idee che le esprimono e agli oggetti che esse rappresentano (cfr. ivi, p. 404) 33• Ma dalla comparazione delle lingue e dallo studio dei loro percorsi storici si devono rintracciare delle operazioni comuni e costanti ispirate dalla na tura (ivi, vol. I, pp . XLIJ-XLIIJ) : Souvenons-nous encore qu' avec le meme dessein , il est tout ordinaire de parve nir au meme but par des moyens différens, lorsque diverses routes y mènent toutes également; qu'il suffit ici que les procédés soient inspirés par la nature, et du meme genre, malgré les variétés qui se montrent dans la manière d'exécuter. Peindre un objet par l'une ou par l'autre de ses qualités apparentes, c'est tou jours en vouloir tracer l'image.
Tutte le lingue dispongono infatti di processi naturali e comuni quando vogliono marcare il grado superlativo di una cosa raddoppiando lo sfor zo nella pronuncia (cfr. ivi, p. XLIIJ) . Poiché «la natura è uguale dapper tutto», De Brosses pone l'accento sull'universalità di questi meccanismi più che sui risultati concludendo che «la suite et le développement d'un langage quelconque n'est qu'une suite et un développement de ce me me mécanisme, employé meme dans le cas où il semble le moins propre et le moins applicable» (ivi, p. XL) . Come abbiamo visto, D e Brosses tende a sottolineare l'esistenza di un fondo comune universale delle lingue. Ma già in questa base originaria non tutto è necessariamente e rigorosamente prodotto: le interiezioni, per esempio, possono presentare qualche leggera varietà nelle terminazioni: «peindre une réalité par un son, ce sera établir entre eux un lien néces saire mais aussi approximatif [ . . . ] la voix exécute le mieux qu' elle peut» (Droixhe, 1978 , p. 197) . Genette (1976, p. 107) evoca una sorta di deriva zione d'origine per cui vi sarebbero delle mimesis diversificate di matri ce lucreziana - cfr. De rerum natura V, 1056 ss. - in relazione ai diversi aspetti e modi di percepire (De Brosses, 1765, vol. I, p. 251; corsivi miei) : Chaque objet a tant de /aces et de qualités, et chaque homme, tant de manières d'en etre diversement a//ecté, qu'on ne doit pas etre surpris de trouver tant de va107
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riété dans les mots conventionnels, meme dans les racines; s'il est vrai toutefois qu'il puisse y en avoir de cette espèce parmi les racines vraiment primordiales.
Anche le radici primitive sembrano esprimere diversi modi e aspetti del la percezione delle cose. Così una scala può essere resa dall' articolazio ne cl (nel greco climax) che denota la pendenza, o da se (nel latino scala) che indica la cavità dove si posa il piede, o da gr (latino gradus) che espri me lo sforzo di salire (ivi, vol. II, p. 3 6o) : Ces diverses manières de considérer le meme objet, et de le saisir par les uns ou par les autres des ses effets, produisent dans les dénominations une diversité dé jà grande dans la racine meme, et qui ne fait que croitre dans leurs dérivées.
D'altra parte il ruolo delle circostanze è più volte messo in gioco dal De Brosses (ivi, p. 428 ) quantunque venga trascurato dai grammatici che si occupano delle etimologie (ivi, p. 431 ) : «lls sont mal informés des cir constances ou négligent de s' en instruire. Ils donnent trop à la premiè re apparence de probabilité, au lieu d'examiner l'objet par ses différen tes faces». N el caso della parola /leur la trasposizione uditiva del carattere es senziale, non di natura uditiva, rimanda a due processi già menzionati, la «comparaison» e l' «approximation». Riporto il lungo passo del De Brosses (ivi, vol. I, pp . 267-9 ; ultimo corsivo mio) perché in esso mi sem bra si adombri una sorta di «processo semantico primitivo» ( Gensini, 1991, pp . n8-9) e non un rispecchiamento passivo della realtà: ]e l'ai dit, par comparaison, par approximation, s'il est possible, en s'écartant le moins qu'elle pourra du chemin qu'elle sait tenir. Unefleur n'a rien que la voix puisse figurer, si ce n'est sa mobilité qui en ren d la tige flexible à tout vent. La voix saisit cette circonstance , et figure l'ohjet à l' oreille ave c son inflexion li qui de FL que la nature lui a donnée pour caractéristique des choses fluides et mo biles. Lorsqu 'elle nomme cet objet Flos, elle exécute le mieux qu'elle peut ce qu'il est en son pouvoir d'exécuter. Mais qui ne voit combien cette peinture, qui ne s'attache qu'à une petite circonstance presque étrangère, est infidelle et éloi gnée de celle que rendent les mots tymbale, /racas, gazouillement, rader, etc. Toute imparfaite qu'elle est néanmoins, on est rarement dans le cas de pouvoir faire usage de cette approximation. Il faut en venir à la comparaison; appeler une fleur immortelle, à cause de sa longue durée; belsamine ou reine des cieux (en phénicien); ceillet parce qu'elle est ronde camme l'�il; anémone ou venteu se, parce qu'elle s 'ouvre du coté du vent; renoncule ou grenouillette, parce qu'el le croit dans les terrains marécageux, et que sa patte ressemble à la grenouille, etc. Observons ici une chose fort singulière. La fleur est un etre qui agit immé diatement sur un de nos sens, par sa qualité odorante. Pourquoi dane n'est-ce pas de la relation directe à ce sens qu 'elle a tiré son nom? Parce que l'homme 108
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voit de loin et sent de près; parce qu 'il a vu avant que de sentir, et que toujours pressé de nommer ce qu'il voi t de nouveau, il s' attache à la première circonstance forte ou faible qui saisit son appréhension.
In relazione a questi passi si possono sottoscrivere le affermazioni di Au roux (1981 , pp. 19 5-7) il quale sostiene che la parte più interessante del la voro di De Brosses non è quella cratilea che si sforza di dimostrare la ne cessità e naturalità delle parole primitive individuando il loro alfabeto organico, ma la parte in cui, studiando l' onomatopea, egli deve ammet tere un arbitrario originario in ogni lingua parlata: non si possono colle gare direttamente la materia sonora e gli oggetti visibili. In tutte le lin gue ci sono degli elementi irriducibili all'alfabeto organico. Così la ne cessità si sbiadisce e irrompe la contingenza nel cuore del linguaggio 34• Risulta dunque che la meccanica delle lingue è limitata nel suo ruolo esplicativo e che lo studio naturale della parola deve cedere il passo allo studio delle figure retoriche: «La simple mécanique des organes ne suf fit plus pour nous guider» (De Brosses, 1765, vol. II, p. 4) . 5
Leibniz in De Brosses In questa sintetica presentazione del Traité abbiamo avuto modo d'indi viduare la ripresa e lo sviluppo di molti dei fili della riflessione linguistica ed etimologica di Leibniz. TI riferimento e il tributo a Leibniz vi sono ri correnti e già nel Discours préliminaire De Brosses (ivi, vol. I, pp. XX-XXJ) riconosce di lavorare nel suo solco 35: «Ce que Leibnitz demandait, on ta che de le faire ici, non pour les syntaxes dont il ne sera question qu' en passant, mais pour les mots qui font la matière première des syntaxes». Brosses (i vi, p. XXIJ) , il cui obiettivo non è quello di costruire una lingua artificiale, rivolge la sua attenzione al fondo universale e naturale delle lingue. Molti dei riferimenti a Leibniz (per esempio ivi, pp. 239, 241) so no in relazione al tema dell' onomatopea e della comparazione etimolo gica. TI programma di Leibniz è un progetto empirico per la raccolta di una gran quantità di materiale linguistico al fine di ricavare informazio ni storiche ma, soprattutto, di approfondire la conoscenza dell'intellet to umano. A questo grande programma intende lavorare De Brosses che riconosce a Leibniz il progetto di classificazione delle lingue: «]e vou drais, disait, Leibnitz, qu' on divisat l es pays de la terre par classes de lan gues, et qu' on en dressat d es cartes géographiques» (ivi, vol. II, p. 46) . Le lingue del mondo possono essere classificate secondo diversi cri teri: a seconda che siano fatte per gli occhi (lingue scritte) o per l' orec chio (lingue verbali) ; a seconda che siano consonantiche o meno; ma an che in base alla loro sintassi, al loro «genio», al loro carattere (ivi, pp.
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47-8). fl miglior Catalogo che si possa fare è «Un grand archaeologue OU nomenclature générale» che raccolga le radici organiche comuni a tutte le lingue (ivi, vol. I, pp. XLIV-XLV}; cfr. ivi, vol. II, p. 47) : ce sera un magasin tout préparé pour y joindre celles dont on acquérra la connaissance; et il est plus que probable que tous les mots de chacune viendront facilement d'eux-memes se ranger chacun sous leur racine organique, dans leur case propre et préparée, jusqu'à ce qu'enfin on soit parvenu au complet sur cet te matière [ . . ] . Ainsi tout viendra peu-à-peu se ranger, en bon ordre, dans le glossaire général. .
Ad esso bisognerà aggiungere in appendice un breve campionario di tut te le lingue dell'universo (cfr. ivi, vol. II, p. 464) . Com'è noto questa idea era già presente in Leibniz (1995, p. 139) che in una lettera a Ludolf - da Francoforte, 19(?)/29 dicembre 1687 - scrive: Infine vorrei che, certo non per opera tua, ma tuttavia su tua indicazione, e con la tua autorità e il tuo giudizio, fossero pubblicati da uomini esperti di lingue dei piccoli dizionari contenenti le radici e le parole più importanti della maggior parte delle lingue conosciute, con l'aggiunta di un compendio grammaticale di ciascuna [ . . ] . Così, credo , alla fine giungeremmo qualcosa a ciò che Skytte e Stjernhielm e altri tentarono invano, ovvero l'armonia della maggior parte delle lingue nella maggior parte delle cose; per questa via si chiarirebbero mirabil mente anche le origini dei popoli, per tacere di molti altri segreti, che in esse si celano, e che solo il confronto metterebbe in luce 36• .
Più in generale l'etimologia leibniziana in quanto studio della storia e delle origini delle parole includeva anche il problema della natura del linguaggio. Nello scritto che fornisce maggiori indicazioni in materia di etimologia 37, l' Epistolica de historia etymologica Dissertatio (1712?) 38, Leibniz offre un nuovo metodo e concetto della ricerca etimologica e mostra il ruolo che essa giocherebbe nello studio del linguaggio ( Gensi ni, 2ooob) . Le lingue, malgrado la loro origine fisica, sono viste come de rivate o come estremamente alterate e per questa ragione Leibniz mette in guardia dalle ricostruzioni ardite e fantasiose 39• Il fine dell'etimologia non è puramente descrittivo ma consisterebbe nella spiegazione della " causa" (ratio) della funzione delle parole, nella spiegazione di come e perché certe parole sono state attribuite a certe cose (cfr. ivi, p. 234) . Il cuore di questo progetto etimologico è il concetto di «radice» concepi ta come un'originale sintesi di suono e significato40 , concetto evidente mente influenzato dalla tradizione grammaticale ebraica e sul quale De Brosses concentra la sua attenzione (cfr. supra, PAR. 3 ) . Leibniz conside ra l'etimologia non solo sul piano diacronico ma anche sul piano delle conseguenze sincroniche, ovvero delle connotazioni che le radici suscino
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tano nella coscienza linguistica del parlante (cfr. Gensini, 2ooob, p. 234) . Fino ad allora l'etimologia tradizionale consisteva in una pura esposizio ne del meccanismo attraverso cui le parole sono derivate. Influenzato da Schottel, Leibniz sposta la sua attenzione sulla dimensione storica ed esplicativa delle parole: nomi, verbi, e quelle particelle che rappresenta vano perfettamente l'evoluzione dello spirito umano attraverso i loro cambiamenti semantici. Usando una distinzione di Schlegel, Gensini (2ooob , p. 237) evidenzia come l'etimologia leibniziana rappresenti il pas saggio da una concezione grammaticale a una storica. Nella Dissertatio è chiara la convinzione che le lingue siano variazioni delle stesse radici e si ipotizza che i primi semi della lingua siano nelle interiezioni 41 e nelle par ticelle semplici che esprimono la concordanza dei suoni e delle perce zioni e impressioni che le cose suscitano nell'uomo - idea ripresa da De Brosses e che Leibniz espone anche nei Nuovi saggi (III, II r ) . Leibniz for mula l'ipotesi che il linguaggio delle origini fosse formato da interiezio ni, come una sorta di continuazione delle reazioni umane alle cose e ai bisogni immediati (cfr. Gensini, 2ooob, p. 243 ) . Nella Dissertatio Leibniz (1995, p. 69) scrive: le parole hanno un fondamento nella natura, sebbene concorrano in esse mol tissimi fattori accidentali. Infatti i diversi impositori di nomi, seguendo ciascu no i suoi punti di vista, le sue affezioni, le sue occasioni, e anche il suo vantag gio, diedero vocaboli diversi alle stesse cose movendo da diverse qualità e anche da diverse circostanze.
Secondo Leibniz le lingue non sono sorte per convenzione, né sono sta te istituite come per legge, «ma sono nate per un qualche impulso natu rale degli uomini, i quali adattarono i suoni alle affezioni e ai suoni del l'animo» (Brevis designatio, in Leibniz, 1990, p. 229 ) . La soluzione pro spettata da Leibniz cerca una via intermedia fra le opposte ipotesi della naturalità e della arbitrarietà/ convenzionalità del linguaggio (De lingua rum origine naturali, in Leibniz, 1995, p. 66) : Le lingue hanno tuttavia una qualche origine naturale, derivante dall'accordo dei suoni con le affezioni suscitate nella mente dalla vista dalle cose. E penso che tale origine non ebbe luogo soltanto nella lingua primigenia, ma anche nelle lin gue nate successivamente, in parte dalla primigenia, in parte dal nuovo uso de gli uomini dispersi per il mondo. E, in verità, spesso l'onomatopea evidente mente imita la natura, come quando alle rane attribuiamo il gracidio, come quan do per noi st vuoi dire un avviso di silenzio o di calma; e r vuoi dire " corsa" e hahaha è proprio di chi ride o ahimè di chi si lamenta. n legame fra lingua e realtà consiste nell'analogia (mimesis) tra una se
quenza di suoni e gli a//ectus umani. Inoltre, a causa del carattere bar-
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barico dell'umanità primitiva, le lingue storico-naturali si basano sui li velli inferiori della conoscenza: perceptiones, a//ectus (Gensini, 1991, p. 69) . Vi è qualcosa di naturale nell'origine delle parole che indica un rap porto fra le cose e i suoni e i movimenti degli organi della voce (Nuovi saggi III, II: Leibniz , 1982, p. 26; corsivo mio) : Poiché, se avessimo la lingua primitiva nella sua purezza, o abbastanza conser vata per essere riconoscibile, bisognerebbe che vi apparissero chiaramente le ra gioni delle connessioni sia fisiche sia di una istituzione arbitraria saggia e degna del primo autore. Ma supposto che le nostre lingue siano derivative quanto al loro fondamento, esse hanno nondimeno qualcosa di primitivo in se stesse, che è loro sopraggiunto in rapporto a parole radicali nuove, formate successiva mente in esse per caso, ma su ragioni/isiche. Le parole che significano i suoni degli animali o ne sono derivate ne forniscono degli esempi.
Ritroviamo dunque in questi passi di Leibniz i temi fondamentali svilup pati dal De Brosses e soprattutto l'idea che le lingue si basino su un fon damento fisico naturale e che questo condizioni e limiti l'arbitrarietà. Nel trattato etimologico del De Brosses vengono riprese alcune prospettive di ricerca della teoria naturale leibniziana messe in luce da Gensini (2ooob, p. 243) 42: una «antropologico-gnoseologica» per cui il linguaggio delle ori gini dipende dall'umano istinto, senso e affezione, e una «geografica» e storica in cui si dà conto della graduale e inesorabile differenziazione dei linguaggi. La varietà dei linguaggi dipende non solo dalle differenti emo zioni ma anche dalle diverse circostanze (occasiones) di enunciazione43• La ricerca linguistica, pur non potendo trascendere la storia, viene in qualche modo "dilatata" da Leibniz che attraverso le sue ricostruzioni linguistiche arriva, a partire dalle parole attuali, a una radice onomato peica. Così nella Brevis designatio dall'osservazione dell'elemento germa nico rik - che si trova in nomi propri come Theodoricus o Fridericus Leibniz (1995, p. 173 ; cfr. Trabant, 1990, p. 141) arriva all'interpretazione onomatopeica secondo la quale r rappresenterebbe un movimento che sarebbe ostruito dall'ostacolo creato dal k. De Brosses attinge a piene ma ni ai passi classici leibniziani in cui si cerca una corrispondenza analogi ca diretta tra suoni e affezioni (Leibniz, 1995, pp. 74- 5): Pertanto i suoni delle lettere, più tenui o più acuti, o più spessi o più sordi, o più dolci o più forti, o più chiari o più oscuri, più striduli ecc. non di rado indicano affezioni equivalenti nelle cose significate; e talvolta ne indicano più d'una nel la stessa voce, anche se si tratta di un monosillabo. In tal modo, le voci che ini ziano con str in dicano le robuste energie della cosa significata, come in strong, "forte " , strength, "forze ", strive, "sforzarsi coraggiosamente " , strike, " colpire " , struggle, "lottare ", stretch , "estendere " , strain , "estendere con violenza", straight,
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" diritto" (owero che si estende in lunghezza) , strout, "gonfiarsi (allargarsi) fin ché si può " . St indica anch 'esso della forza, ma in grado minore, quanta ne ser ve a proteggere qualcosa che già si possiede piuttosto che a conquistarne una nuova: come nel caso di stand, "stare " , stay, "rimanere " , steady, "immobile" , steadfast, " costante " , stout, "pertinace " , stundy, " duramente ostinato " , stick, " dubitare " , sticke, "restare vicini agli aiuti " , stz/f, "inflessibile " , stop , "opporsi, fare da baluardo " , stil, " che sta fermo in perpetuo, immobile " .
Secondo Gensini (1991, p. 92) , s e u n precedente s i può indicare delle con siderazioni leibniziane circa l'origine naturale delle lingue, della funzio ne mediatrice degli a//ectus, del rapporto reciprocamente adattivo di sensazioni e suoni, della dipendenza dell'evoluzione del linguaggio dai bisogni - onde gli uomini hanno abbandonato l' ordre nature! della co noscenza -, questo precedente va rintracciato nel paragrafo linguistico della celebre Epistula ad Herodotum del greco Epicuro e nella teoria lu creziana della utilitas (cfr. Séris, 1995, p. 75) . I punti di convergenza, tra il passo epicureo (Epistula ad Herodotum 75-76) e le prospettive leibni ziane, segnalati da Gensini mi sembra che siano individuabili anche nel trattato etimologico di De Brosses: 1. negazione del carattere convenzionale del linguaggio primitivo, al meno in quanto tale carattere sia visto come punto di partenza della sua genesi; 2. un radicale principio di differenziazione, che si collega alla diversità di natura propria di ogni ethnos; 3 · nesso analogico fra attività psichica e suoni emessi per significare; 4 · l'idea che la maggior parte della variazione nel linguaggio dipenda da elementi geografici ed etnici; 5 . la presenza della convenzione nelle lingue una volta che queste si sia no costituite. La concezione "naturale " dell'origine delle lingue attinta alla filoso fia di Epicuro e al libro V del De rerum natura valorizza la tesi della de rivazione del linguaggio dall'affetto, dal pathos della sensazione del pia cere e del dolore. Questo presupposto accomuna il lavoro di De Brosses a quello di Leibniz. Sono ipotizzabili inoltre delle convergenze col testo lucreziano per quanto riguarda l'idea che la natura possa essere consi derata una fonte di variazioni linguistiche, il ruolo giocato dai bisogni umani nella genesi del linguaggio e la corrispondenza tra varietà delle sensazioni e varietà dei suoni a queste relativi (cfr. Gensini, 1991, p. 93) . L a matrice epicurea e lucreziana delle idee d i Leibniz è rintracciabi le in De Brosses (1765, vol. II, pp. 26-7) , che integra il naturalismo plato nico con quello di Lucrezio 44• Anche per De Brosses - si pensi alla ri cerca della naturalità nei processi di derivazione - si può dire che il mec-
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canismo della naturalità operi non solo all'origine del linguaggio, ma in modo pancronico (cfr. Gensini, 2oooa, p. 71) . Le lingue sono immerse in una dimensione storica e sono soggette a una continua variazione nel tempo e nello spazio. Per De Brosses infatti le lingue non sono state for mate, come vorrebbe qualche filosofo, «sur un plan médité, et suivi avec réflexion». Ciò è impossibile soprattutto per il "primo fondo " di una lin gua che è un prodotto della natura più che dell'arte. Infatti (De Brosses, 1765, vol. II, p. 27) , Le premier fond d'un langage est l'ouvrage du peuple et du vulgaire. TI fabrique les termes selon le besoin qu'il en a:
[. . . ] utilitas expressit nomina rerum. Lucret.
De Brosses (ivi, pp. 28 , 25) riconosce il ruolo del bisogno nella genesi del linguaggio e svaluta quello della riflessione della ragione che tutt'al più può essere così interpretata (ivi, pp . 28 -9) : c'est de la part de l'homme la disposition de ses organes, auxquels il est forcé d'obéir, et de la part des choses extérieures la vérité de peinture qu 'on s'efforce tant qu 'on peut de leur donner dans les noms qu 'on leur applique; en un mot, c'est la nature, à qui tout doit primitivement se rapporter, et à laquelle seule on doit les racines primordiales de chaque terme.
TI punto di vista interessante ripreso dal De Brosses è l'idea di Leibniz secondo la quale l'origine naturale delle lingue si intrecci strettamente con un fattore accidentale. Le lingue receptae, nate da un'originaria me scolanza di natura e "accidenti" (ex accidenti) , sono profondamente sto riche come tutti gli esseri soggetti a variazioni (Gensini, 2oooa, p. 112) . Le lingue sono un intreccio di naturale e arbitrario (Formigari, 2001, p. 132) per cui Genette (1976, p. n8) afferma che in De Brosses «au cratyli sme de droit s'oppose don c chez lui un hermogénisme de fai t». De Bros ses raccoglie la teoria naturale delle origini del linguaggio e la cosiddet ta svolta linguistica di Leibniz senza però cogliere veramente la portata semantica della sua prospettiva: ovvero quel tema della forma interna della lingua che troverà un terreno fecondo nella filosofia del linguaggio di Humboldt. Basti pensare alla mancanza di echi dell'importante di stinzione leibniziana tra il piano delle essenze che pertiene all'ordine me tafisica e il piano dei significati linguistici che afferisce all'ordine storico (cfr. Gensini, 1991, p. 163) . La riflessione sull'etimologia convince Leib niz della centralità del significato nella costruzione e nelle operazioni del linguaggio là dove De Brosses mura il suo lavoro dentro una sorta di " cri tica dei limiti fisici" dell'etimologia fonetica. Così se Leibniz approfon-
DE BROSSES E LEIB NIZ : UN MODELLO DI NATCRALISMO LI:\'GUISTICO
disce la natura cognitiva del linguaggio De Brosses si concentra sul suo valore espressivo individuando i limitati confini di una descrizione mec canica dei suoni linguistici. n cosiddetto alfabeto organico, strumento chiave della scienza etimologica, lascia il posto al ruolo misterioso ma ineliminabile dell'identità semantica 45• Ed è proprio a partire dal piano del significato che verrà riproposta in Francia nell' Essai de sémantique (1897) di Bréal l' ambizione di individuare delle costanti nell'evoluzione linguistica e nelle leggi intellettuali del linguaggio. Note 1. In apertura del Traité De Brosses (1765, vol. I, p. 3) pone le seguenti questioni: «comment l'etre réel, l'idée, le son, et la lettre, quatre choses d'une nature si opposée, et qui paraissent si peu conciliables, se sont-elles ainsi rapprochées ! [. . .] Mais quel rapport entre l'idée et le son vocal, si différent de l'idée, si différent de l'objet, produit par le mou vement matériel des organes situés dans la bouche?». 2. Humboldt vede in Leibniz sia l'iniziatore del concept intérieur sia il responsabile della riduzione della linguistica all a problematica genealogica «ex indicio linguarum» (Trabant, 1990, pp. 137, 140). Secondo Trabant, nella Brevis designatio lo studio delle lin gue doveva servire alla ricerca delle origini dei popoli: le lingue sono considerate docu menti dei popoli, monumenti antichi, e la ricerca linguistica una disciplina ancillare del la storia (cfr. De Brosses, 1765, vol. II, p. 76). Diverso sarebbe il discorso nel libro III dei Nuovi saggi, dove la linguistica diventa lo studio della formazione del pensiero e il lin guaggio viene legato intimamente al processo cognitivo (cfr. Nuovi saggi III, IX 9). 3· Dalla fine del XVII secolo, l'uso di "meccanismo" e affini si estende a tutte quelle di scipline che reclamano, sulla scorta della fisica cartesiana prima, poi dei Philosophiae na turalis principia mathematica di Newton, diritto di cittadinanza nella grande rivoluzione scientifica dell'epoca moderna. L'introduzione di termini appartenenti alla fisica classica in un dibattito linguistico può essere invece fatta risalire a un rappresentante del cartesia nesimo, l' Abbé Pluche, fondatore dell' école des mécaniciens (Marcaccio, 2002, p. 374) . 4· La reazione meccanicista prendeva di mira l'intero fronte degli eccessi del logici smo portorealista per cui le lingue sarebbero il risultato di una ragione presente a se stes sa (cfr. Droixhe, 1978, p. 262) . Dal canto suo Pluche adotta la metafora del meccanismo per riferirsi a una certa solidarietà degli elementi linguistici e all'indipendenza dei feno meni linguistici dalla volontà dei soggetti parlanti (cfr. Auroux, 1981, p. 192) . 5· Anche se lo spirito resta pur sempre un obiettivo secondario, tanto più scomodo dal momento che rimane a tratti perfino indeciso: ora esso pare lasciarsi «guider» o «en trainer» dalla materia, ora è l' «fune qui dirige le jeu de la machine» (Droixhe, 1978 , p. 263). 6. D'altra parte «nous verrons l' analyse des mots nous donner celle de l' opération de l'esprit, et réciproquement les opérations de l'esprit nous donner les causes de la propa gation infiniment variée du très-petit nombre des germes de la parole, et nous découvrir jusques dans sa source tout le système grammatica!» (De Brosses, 1765, vol. I, p. 196) . 7· Cfr. ivi, p. 104. L'intensità e il volume della voce sarebbero determinati invece dal la laringe e dai polmoni. De Brosses (ivi, p. I n ) riprende quest'idea da Lucrezio che cita esplicitamente. 8. De Brosses usa spesso il verbo dépeindre per riferirsi al rapporto imitativo fra no mi e oggetti. D'altronde egli allude a un rapporto analogico e causale che si stabilisce an che tra suoni e organi vocali i quali possono produrre solo suoni analoghi alla loro strut tura (cfr. Genette, 1976, p. 87) . 9· È utile ricordare come lo stesso Leibniz attendesse con interesse dall'orientalista tedesco Hiob Ludolf, con il quale era in stretto contatto e scambio epistolare, l'annun-
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ciato alfabeto universale che sarebbe dovuto uscire in appendice, come poi non fu, al Commentarius del 1691 alla Historia aethiopica (r68r) . L'alfabeto universale doveva consi stere in una sorta di tavola di concordanza degli alfabeti di lingue note, che avrebbe faci litato il loro confronto fonetico e la reciproca traducibilità (cfr. Gensini, in Leibniz, 1995, pp. 136-7). Come poi in De Brosses, l'interesse di Leibniz per l'acquisizione di un alfabe to universale è collegato al grande lavoro comparativo dell'etimologo. Tentativi di scrit tura fonetica che schematizzi i processi articolatori dei suoni sono poi quelli di Alexan der M. Beli del 1867 e di Otto Jespersen del 1926 (cfr. Minissi, 1990, pp. 45-8). 10. Pennisi (1994, p. 62) rileva le superficialità insite nell'analisi fonetica di De Bros ses tra cui la tesi dell'alfabeto come schematizzazione dei movimenti articolatori e la ri duzione universale di tutte le consonanti a sei, corrispondenti ai sei organi di cui sarebbe composto l'apparato fonatorio. n. Nel primo capitolo De Brosses (1765, vol. I, pp. 7-8, n, 13) sintetizza i quattro me todi fondamentali meccanici e naturali che determinano la formazione delle parole e che approfondirà lungo il corso della sua opera: a) riprodurre con la voce lo stesso rumore che produce l'oggetto che si vuole nominare - per esempio «coucou»; b) stabilire una so miglianza del nome con l'oggetto - per esempio attraverso il rumore rude dell'articola zione scelta nella parola «rader»; c) la naturalità di certe articolazioni rispetto ad altre «papa», «mama» - per cui appena si comincia a esercitare la facoltà di parlare esse si svi luppano regolarmente per prime; cl) ricorso al suono che un organo produce per nomi nare l'organo stesso - come l'articolazione «gheu» è l'articolazione propria della gola. Fra questi metodi il procedimento onomatopeico è quello su cui De Brosses si concentra mag giormente tanto che Turgot afferma che il Traité è da considerare un'opera non sull'eti mologia ma sull'onomatopea (cfr. Droixhe, 1978, p. 208 ) . 1 2 . Così si potrà osservare «comment le s branches s e propageant sur l e tronc m eme, et se subdivisant en une infinité de dérivés, forment enfin sur un petit nombre d'origines l' assemblage immense et total d'une langue quelconque, et de tous ses dialectes» (De Brosses, 1765, vol. I, p. r8) . 13. Leibniz ammette la monogenesi delle lingue, ma giudica l'identità dell'idioma pri mevo non definibile, a causa della profondità delle mutazioni intervenute nelle lingue sto riche. Per tale ragione, secondo Leibniz non è possibile attribuire all'ebraico alcuna po sizione di primato (cfr. Gensini, in Leibniz, 1995, p. 171 ; Gensini, 1991 , p. 112) . 14. Sulla figura del dotto svedese Bengt Skytte, che aveva redatto un Sol praecipua rum lingua rum subsolarium in forma manoscritta, Leibniz si sofferma nel par. 25 della Epi stolica Dissertatio (cit. in Gensini, 1991, p. 234), in diverse lettere (cfr. Leibniz, 1995, pp. 135, 139, 154, 191) e nella Brevis designatio (Leibniz, 1990, p. 240). Notizie utili sono fornite da Gensini, in Leibniz (1990) , p. 202. 15. Per quanto riguarda le considerazioni svolte da De Brosses nell'Essai de géo graphie étymologique sur les noms donnés aux peuples scythes anciens et modernes (1773) cfr. Droixhe (1978 ) , pp. 202-3. 16. Scrive Leibniz a questo proposito: «in seguito a molti accidenti e cambiamenti, la maggior parte delle parole sono estremamente alterate e lontane dalla loro pronunzia e dal loro significato originario» (Nuovi saggi III , II: Leibniz, 1982, p. 268). n punto è per De Brosses (1765, vol. I, pp. 181-2) quello di stabilire a) se risalendo di grado in grado la fi liazione genealogica delle lingue si pervenga a una lingua primitiva, b) se tutti gli uomini provengano da un'unica famiglia; cfr. Aarsleff (1984, p. 138) per il quale Leibniz - nella let tera a Sparwenfeld del 29 gennaio 1697 - sosteneva che tutta l'umanità risalisse a un'uni ca razza poi modificatasi a causa del clima (cfr. anche Gensini, 1991, p. 83) . 17. «En exposant (chap. III) l es effets résultans de la fabrique de chaque parti e de l'in strument vocal, je cherchais à pénétrer le mécanisme interne et primitif du langage quel conque. Après l'avoir connu, cherchons à présent à saisir l'instant où les premiers mots naissent des premières sensations. Voyons nos sentimens et nos premières perceptions, créer par l'organe de la voix leurs signes représentatifs, tels qu'ils peuvent convenir aux
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choses signifiées, et autant qu'il est possible à la voix, d'effectuer cette convenance, selon ses facultés naturelles. Hos natura modos primum dedit (Virgil)». 18. La tesi della continuità animali-uomo proposta da tanti secenteschi zoosemiolo gi ante litteram, che sviluppava il passo del libro v (w. 1029-1290) del De rerum natura lu creziano, non trova seguito in Leibniz che pure assume molte suggestioni dell'epicurei smo linguistico (cfr. Gensini, in Leibniz, 1995, p. 22) . 19. In passi come questi è evidente la traccia leibniziana: «Così, nelle voci che più conservano le origini, sembra che M si adatti di più alle cose grandi, e L e T alle cose pic cole; perché nella M la bocca si apre di più che nella L e nella T. Anche il movimento è debole nella L e nella 5, più forte nella R. Da qualche parte Lutero ha osservato (Tomo 5, p. 172) che la parola tedesca per "amore" , Liebe, è molto enfatica, e dubita che non acca da lo stesso in un'altra lingua. Le lettere T e P sembrano un poco interrompere il movi mento. Pertanto ST è un suono adattissimo a chiedere che si faccia silenzio, dato che il si bilo è seguito da una lettera che indica interruzione. T e P, all'inizio della sillaba, produ cono un'esplosione [di suono] , alla fine della sillaba la interrompono» (Leibniz, 1995, p. 71; cfr. ivi, pp. 74-6) . 20. Cfr. Juliard (1974, p. 68 ) . Dal canto suo Voltaire (1816, p. 193) ha criticato De Bros ses mostrando come questi avesse utilizzato esempi isolati tratti da lingue di cui non ave va buona conoscenza. 21. Sulla funzione appellativa del nome in Leibniz, cfr. Gensini (1991) , p. 174; Leib niz (1990), p. 228. 22. A questo proposito Auroux (1979, p. 49) scrive: «Arbitraire peut signifier aussi immotivé, sans cause: un mot serait dit arbitraire, s'il n'y avait aucun motif à ce qu'il soit par rapport à telle idée constitué de tel son plutòt que de tel autre. Ce sens est à peu près unanimement refusé au 18e siècle: si le langage était entaché d'un état arbitraire on pour rait affirmer que des lois le régissent et qu'il soit susceptible d'etre objet de science»; cfr. Droixhe (1978), p. 22. 23. L'osservazione dei condizionamenti del clima sull'organo vocale si accompagna a un topos del pensiero linguistico illuminista ossia al tema del «genio della lingua» (De Brosses, 1765, vol. I, p. 6o). 24· Sulla distinzione fra lingue storico-naturali e lingue filosofiche-artificiali in Leib niz cfr. Gensini, in Leibniz (1990), pp. 16-29; Gensini (2ooob), p. 243· 25. «Les synonymes des choses viennent de ce que les hommes les envisagent sous différentes faces, et leur donnent autant de noms relatifs à chacune de ces faces. Si la che se est un etre existant réellement et de soi dans la nature, sa manière d' exciter l'idée étant nette et distincte, elle n'a que peu ou point de synonymes» (De Brosses, 1765, vol. II, p. 55). 26. «Que sert de parler grec en français? de dire thermomètre et évangile quand il se rait plus clair et aussi facile de dire mesure-chaleur et bonne-nouvelle! » (ivi, p. 63) . 27. Leibniz attribuisce ai tropi l a funzione d i chiavi di volta del cambio linguistico. Le figure del discorso non sono dei semplici abbellimenti ma meccanismi fisiologici del la dinamica linguistica (cfr. Gensini, 1991, p. 179; Leibniz, 1995, p. 72) . 28. n trattato etimologico parte dal presupposto per cui «L'esprit humain tire de l'in strument vocal des consonances et des dissonances; car on peut appeler consonances les mots pris dans leur sens vrai, physique, propre et primordial: et dissonances, les mots pris dans un sens détourné, relatif, figuré, abstrait, moral et métaphysique, en un mot, tout ce qu'en termes de grammaire on peut appeler trope dans le discours. Les accords, qui résul tent du melange ci -dessus, forment le langage commun, par lequel l' opération extérieure et corporelle rend sensible, l'opération intérieure et spirituelle» (De Brosses, 1765, vol. I, p. 25). 29. L'esempio lockiano usato da De Brosses (ivi, vol. II, p. 248) è quello del termine francese ange ( '' angelo" ) . Un passo affine a quello di Locke si trova nella Epistolica de bi storia etymologica Dissertatio (Leibniz, 1995, p. 88) dove si legge: «Le denominazioni del le cose naturali, sensibili, più frequenti precedettero quelle cose più rare, artificiali, mo rali e metafisiche. In tal modo, pneuma, spiritus e anima, vocaboli che attualmente signiII7
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ficano cose incorporee, originariamente denotano un soffio: da questo sono stati trasferi ti a cose diverse, invisibili, e tuttavia attive, quali sono le anime e gli spiriti». 30. La metonimia spiega la varietà di parole designanti lo stesso oggetto a seconda dei diversi aspetti o circostanze in cui sono considerate. n prete è denominato in latino «Sacerdos» in quanto esercita delle funzioni sacre, «Presbiter» per questioni di età, «An tistes» perché in piedi davanti all'altare, «Pontifex» poiché le processioni dei romani pas savano sui ponti del Tevere di cui i preti curavano la manutenzione ecc. (De Brosses, 1765, vol. II, p. 57) . Per ragioni analoghe in francese una stessa cosa - owero una certa distesa di terreno - è denominata région, province, contrée, district, pays, État ecc. 31. A questo proposito cfr. Benveniste (1971, p. 99) che peraltro utilizza l'esempio di altus citato da De Brosses. Secondo Benveniste (1971 , p. 101) «ogni lingua è particolare e configura il mondo in un modo che le è proprio. Le distinzioni che ogni lingua manifesta devono essere rapportate alla logica particolare che le sostiene e non sottoposte di primo acchito a una valutazione universale». 32. «li est impossible de former un nom absolument privatif, c'est-à-dire une locution qui ne contienne pas une idée vraiment positive» (De Brosses, 1765, vol. II, pp. 377-8). 33· Vi sarebbe una struttura profonda delle lingue appartenente alla universalità del la «raison», mentre l'arbitrario concernerebbe l' «esprit» di ciascuna lingua o meglio «le divers génie des peuples». Nella semiotica illuminista la questione dell'arbitrarietà e del genio della lingua trova un terreno d'elezione nel tema, molto dibattuto, dell'inversione e dell'ellissi (cfr. Auroux, 1979 , pp. 197-212). 34· Sebbene nella trattazione di De Brosses emerga una certa dose di arbitrarietà nel la formazione e nello sviluppo del linguaggio, ciò che ha impressionato soprattutto i suoi contemporanei è la fiducia generale nella razionalità evolutiva dei fenomeni linguistici (cfr. Droixhe, 1978, p. 197) . 35. Citazioni esplicite di Leibniz si trovano in De Brosses (1765, vol . I, pp. 239, 241, 373, 464; vol. II, pp. 46, 142, 146, 293, 373, 434, 464) . 36. Cfr. la lettera di Leibniz (1995, pp. 134-5) a Huldreich von Eyben (da Hannover, 5 aprile 1691). 37· Gli studi etimologici emergono chiaramente in diverse opere di Leibniz: a) nel pro gramma che egli stese nello scritto iniziale dei Miscellanea Berolinensia, primo volume de gli Atti dell'Accademia di Berlino (1710) - la Brevis designatio; b) nei Nuovi saggi dove ven gono ampliati i principi dell'etimologia; c) nell'Epistolica de historia etymologica Dissertatio. 38. Nei suoi ultimi anni, Leibniz pensò di pubblicare una parte della vasta raccolta di materiale etimologico. Nel 1717, curata da Eckhart, apparve, sotto il titolo Collectanea etymologica, un'opera composta per lo più di brani non scritti da Leibniz, ma da lui ispi rati. Nel volume non era presente il testo che doveva fare da introduzione all'opera ov vero la storia dell'etimologia dello stesso Leibniz: la Dissertatio, indirizzata a Eckhart (cfr. Gensini, 2ooob) . 39· Leibniz sottolinea l'esigenza della prudenza nella ricerca etimologica (Nuovi sag gi III, II 1: Leibniz, 1982, p. 271 ) . Sulla cautela di Leibniz circa la scientificità delle etimo logie cfr. il bel passo della Dissertatio (Leibniz, 1995, p. 87; cfr. ivi, p. 72) . 40. «Car il me semble en effet que presque toutes les langues ne sont que des varia tions, souvent bien embrouillés, des memes racines» (Leibniz, cit. in Gensini, 1991, p. 83). Cfr. la Dissertatio (ivi, p. 224; Leibniz, 1995, pp. 73, 81). Cfr. Gensini, in Leibniz (1995) , pp. 36-7; Gensini (1991) , pp. 87-8. 41. «È da credere che i primi uomini, o anche i popoli che in seguito si allontanarono dalla lingua primeva, nella misura in cui si foggiarono dei vocaboli propri, adattarono i suo ni alle percezioni e alle affezioni, e si servirono inizialmente di interiezioni o di brevi par ticelle, adattate alle loro affezioni, donde a poco a poco, come da semi, sono nate le lingue. Si prenda il suono di lamento oi, boi, onde gli Italiani, allorché si lamentano, dicono hoi me. Parole come oitos, "affanno" e ozklos, "pietà" , mostrano che lo stesso suono aveva il medesimo senso per i Greci» (Leibniz, 1995, p. 70; cfr. Gensini, 1991, p. n8).
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42. Leibniz conferma i suoi dubbi sulle teorie ebraizzanti secondo le quali tutte le lingue derivano dall'ebraico e considera il principio analogico la vera chiave dell'indagi ne etimologica (cfr. Gensini, 2oooa, p. 103) . 43· Nella Brevis designatio Leibniz (1990, p. 229) sostiene come la rozza barbarie ab bia in sé più impulsi che raziocinio: «momento per momento lasciava prorompere le af fezioni dell'animo in suoni, a seconda delle circostanze». 44· Riferimenti espliciti a Lucrezio si trovano in De Brosses (1765, vol. I, p. 248; vol. Il, p. 27) 45· Scrive De Brosses (1765, vol . I, pp. 1 67-8; corsivi miei): «Quiconque voudra véri fier si une dérivation est juste, n'a qu'à écrire avec les caractères ci-dessus le dérivant et le dérivé, par où il verra si on emploie pour l'un et pour l'autre le meme ordre dans le mouvement des organes. C'est après l'identité de sigm/ication, la meilleure preuve que l'on puisse avoir que deux mots viennent d'une meme source; et quand l'identité de si gm/ication s'y trouve jointe, la preuve est démonstrative». .
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Eins in Vielem : motivi leibniziani nella filosofia del linguaggio di Herder di Ilaria
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Questioni di metodo
Per chi sia interessato a comprendere «il gioco complesso delle riprese, delle trasformazioni e delle rotture che agitano l'apparenza dello svolgi mento storico» (Libera, 1999, p. 20) , l'analisi del rapporto di Herder con Leibniz costituisce un caso esemplare. La riflessione di Herder appare infatti fortemente influenzata dalla lezione di Leibniz e tuttavia a un esa me più accurato i termini di tale legame risultano sfuggenti e le diver genze sembrano prevalere sulle convergenze. n che giustifica la presen za nella storiografia di due diversi orientamenti, uno incline a sottolinea re la continuità (cfr. Haym, 1954, vol. I, pp. 273 ss. ; vol. II , pp. 296 ss. ; Cas sirer, 1976, pp. 111 ss. ; Irmscher, 1966, pp. 154 ss. ; Heinz, 1994) , l'altro vol to a ridimensionarla (cfr. Herder, 1891; trad. it. , 1995, p. 157) . Pochi però sono gli studi esplicitamente dedicati all'argomento: oltre al saggio di Blumenthal (1934) , che ricostruisce il confronto di Herder con Leibniz dalla prima produzione degli anni Sessanta fino al Gott (1789), il lavoro di Dreike (1973) rappresenta il più completo tentativo di messa a fuoco di tale rapporto, ma da un'angolatura specifica, la filosofia della natura. E tuttavia c'è un tema che annoda ancor di più Herder a Leibniz e ne sollecita l'attribuzione a una medesima linea di sviluppo: la riflessio ne sul linguaggio. Herder fa propria infatti la dottrina leibniziana della cognitio symbolica, saldandola però con un orientamento empirico-psi cologico che modifica radicalmente i termini dell'impostazione leibni ziana. Questo sforzo di sintesi prende forma nel modo più compiuto nel l' analisi di quelle questioni che oggi rientrano nel dibattito sulla seman ti ca: arbitrarietà e naturalità del linguaggio, natura dell'astrazione, rap porto fra parola e concetto. Anche in questa prospettiva trova comunque conferma la scansione tracciata da Dreike dell'evoluzione dei rapporti di Herder con la riflessio ne leibniziana in quattro periodi. n primo comprende il passaggio da una conoscenza di Leibniz essenzialmente mediata attraverso Kant, Baumgar1 21
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ten, Christian Wolff, Mendelssohn e Michaelis alla lettura diretta dei Nou veaux essais sur l'entendement humain (pubblicati da Raspe nel 1765) e dei Principes de la nature et de la grace} /ondés en raison - tradotti da Johann C. Gottsched e pubblicati nel volume Herrn Gott/ried Wilhelms Freyherrn von Leibniz Theodicee (Hannover-Leipzig 1744) . Di tale lettura sono do cumento innanzitutto i saggi del 1 769 e in modo più problematico l'Abhandlung uber den Ursprung der Sprache. n secondo periodo (1772-84) è contrassegnato dal confronto con la Monadologia e con la dottrina del l' armonia prestabilita. n Vom Erkennen un d Empfinden continua però a misurarsi anche con i Nouveaux essais, i Principes e inoltre con il Diziona rio storico-critico di Bayle (tradotto da Gottsched nel 1744) . n terzo perio do (1784-98), dominato dall'interesse per la filosofia della natura, docu mentato in particolare dalle Ideen, è quello - secondo Dreike - più deci samente influenzato dalla concezione leibniziana. Infine, il quarto periodo (1799-1803) , segnato dal confronto critico con Kant e l'idealismo, presenta continui riferimenti alla filosofia di Leibniz in funzione antikantiana. Ma diversamente da quanto emerge dall'indagine sulle radici della filosofia della natura di Herder, in questa prospettiva le fasi più interes santi della periodizzazione tracciata da Dreike risultano essere la prima, la seconda e l'ultima, quelle cioè in cui prende forma il dialogo con le te matiche più propriamente psicologiche e linguistiche della filosofia di Leibniz . Da questo punto di vista, più che di una scansione cronologica si può parlare di un filo rosso rappresentato da pochi grandi temi con cui Herder continua a confrontarsi per più di trent'anni. Testi essenzia li di riferimento sono qui, oltre agli abbozzi del 1769, l'Abhandlung iiber den Ursprung der Sprache (1772) , le tre versioni del Vom Erkennen und Empfinden (177 4, 1775, 1778 ) , la Metakritik (1799) . La ricostruzione di questo percorso muove dall'ipotesi che la rifles sione di Herder rappresenti un punto di snodo fondamentale nel pro cesso di rielaborazione della lezione di Leibniz al di fuori dell'orizzonte metafisico e logico più immediatamente associato al suo nome. E tutta via l'intento " archeologico " non esaurisce il senso di questa indagine. Molti sono infatti i fili che legano il confronto di Herder con Leibniz al dibattito contemporaneo, ma tutti si raccolgono attorno a un'unica que stione, rappresentata dalla problematica alternativa fra oggettivismo e soggettivismo nell'analisi del problema del significato linguistico. 2
Dare corpo alla mente
La pubblicazione dei Nouveaux essais ad opera di Raspe nel 1765 cade in un momento di profonda trasformazione della cultura tedesca. Al predo minio della logica e della metafisica subentra lentamente un nuovo orien-
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tamento pragmatico-operativo che alimenta un crescente interesse per i te mi della morale, della politica e dell'estetica, per l'antropologia e la psico logia (Er/ahrungsseelenkunde) , ovvero per le scienze dell'uomo. La pura dottrina delle forme del pensiero appare svuotata ed esaurita, sostituita da una psicologia del pensiero di impianto antiscolastico (Wundt, 1964) . La Leibniz-Renaissance che prende forma in questo nuovo orizzon te epistemologico è un invito a ritornare al "vero " Leibniz , risalendo ol tre la lettura di Wolff, che fino a quel momento ne aveva mediato la dif fusione. La presunta unitarietà della cosiddetta tradizione leibniz-wolf fiana si scompone così in un indirizzo più specificamente legato al nome di Wolff, che resta ancorato a una stabile metafisica dell'«intelletto», e in un orientamento «leibniziano», che accentua l'idea di sviluppo quale «genuino spirito " esoterico "» di Leibniz (Merker, 1974, p. 8; Wilson , 1995, pp. 453 , 460 s . ) . Massimi promotori di questo ritorno a Leibniz sono alcuni Po puliirphilosophen che, nella ricerca di una filosofia estranea a ogni forma di scolasticismo e saldamente ancorata all'esistenza e ai suoi bisogni, ar rivano a fondere in una nuova riflessione psicologica l'orientamento leib niziano e quello lockiano. Su questo progetto convergono due distinti schieramenti, uno più vicino a Locke - rappresentato, fra gli altri, da Johann Georg Heinrich Feder, Christian Garve, Johann Nicolai Tetens, Dietrich Tiedemann -, l'altro più fedele alla tradizione di Leibniz - vi rientrano Johann August Eberhard, Moses Mendelssohn, Johann Georg Sulzer, Ernst Platner (cfr. Beiser, 1987, pp . 165 ss. ) . Prende forma così una linea di riflessione che, come quella di Kant, tenta di superare la con trapposizione fra Leibniz e Locke, ma diversamente da Kant si colloca sul piano di un'indagine psicologico-genetica che finirà inevitabilmente per confliggere proprio con il modello trascendentale. Herder appartiene all'orizzonte della Populiirphilosophie (Formigari, 1994) . Fin dal saggio Wie die Philosophie zum besten des Volkes allgemei ner und nutzlicher werden kann (1765) suo obiettivo primario è riportare la logica dal terreno della metafisica a quello della psicologia, il che si gnifica tradurre l'analisi dei concetti nella ricerca della loro origine (cfr. Herder, 1899, pp . 38 s . ) , e cioè indagare la storia dell'umanità, ovvero del la natura umana con le sue diversità (cfr. ivi, p. 58) , volgere lo sguardo al l'uomo concreto: solo trasformandosi in «antropologia» (ivi, pp. 59, 61) la filosofia può divenire davvero «utile» e «popolare» (ivi, p. 52) . Con l'uso di questo termine (prima ancora della sua adozione da par te di Platner nell'Anthropologie /ur Aerzte und Weltweise, 1772) , Herder (ivi, p. 49) insiste sulla necessità di una «rivoluzione copernicana» che sposti lo sguardo «dal cielo della ragione» «all'uomo concreto». Ogget to di una filosofia riformata in senso pratico sono l'essere umano e la sua 1 23
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formazione, nelle sue diversità, da quelle relative al corpo a quelle dei sentimenti, delle opinioni, delle sensazioni, dei costumi, di religione e di pensiero (cfr. ivi, p. 58 ) . L'antropologia è dunque l'esito necessario di una trasformazione del discorso filosofico conseguente all'abbandono del piano puramente speculativo a favore di un orientamento empirico e ge netico. Come già per Thomasius, anche per Herder la scienza dell'uomo non si identifica con una generica antropologia, ma si configura come una specifica psicologia, una Er/ahrungsseelenkunde che, diversamente dalla metafisica, interessata al problema dell'essenza, si volge a indagare il funzionamento della mente e l'origine delle sue operazioni. All'inter no della psicologia, la logica deve recuperare un legame con l'estetica. Per comprendere lo stato attuale e le condizioni di funzionamento dei nostri concetti, compito che rientra appunto in una logica riformata, oc corre infatti indagarne la genesi, il che significa in particolare rintraccia re le radici corporee delle nostre operazioni mentali. Dal punto di vista metodologico all'andamento sintetico delle definizioni astratte e arbi trarie occorre sostituire la spiegazione dei concetti, della loro origine e del loro sviluppo, e cioè l'analisi nell'accezione storico-genetica indicata da Condillac, la cui impostazione riassume nel modo più completo la di rezione dell'antropodicea dell'epoca (Pross, 1978 ) . Antropologia e psi cologia vengono in tal modo investite di un valore fondativo quali con dizioni non solo della teoria della conoscenza ma anche della storia, del la dottrina dello Stato e della morale. Nel passaggio dalla metafisica alla " epistemologia genetica " , dalla logica alla psicologia della conoscenza e alla sua storia due nuclei tema tici in particolare divengono trainanti: l'attribuzione alla sensibilità di un ruolo centrale nello sviluppo della vita psichica e la riflessione sul lin guaggio naturale. Attorno a questi due nodi ruota l'interesse di Herder (1913, p. 132) per Leibniz, che si configura immediatamente come il ten tativo di integrare la prospettiva di Leibniz con quella di Locke, tenen do presente al contempo la lezione metodologica di Condillac. Questo programma, che Herder non abbandonerà mai, prende forma sin dai primi scritti attraverso un serrato dialogo con i principali rappresentan ti della filosofia tedesca del tempo: Kant, Wolff, Baumgarten, Mendels sohn, tutti autori strettamente legati alla lezione leibniziana. Ma nel 1769 legge direttamente Leibniz , come documentano gli appunti Wahrheiten aus Leibnitz e Ueber Leibnitzens Grundsatze von der Natur und Gnade. n primo di questi scritti è propriamente una trascrizione ordinata e sequenziale della prefazione, del libro I e di parte del libro II dei Nouveaux essais. Tale lettura, che sembra interrompersi senza motivi apparenti, non contiene esplicite osservazioni sul pensiero di Leibniz, tanto che si è ten tati di non attribuire a questi appunti alcun particolare significato teori124
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co. Se non fosse per un aspetto che balza agli occhi: nella sua registrazio ne, Herder, tranne che in un caso, tralascia proprio quei passi, certo non numerosi in questa parte del saggio leibniziano ma comunque presenti, che fanno riferimento a questioni linguistiche, sebbene già da tempo ab bia maturato un deciso interesse in questo senso. E manca qualsiasi ap punto relativo al libro III, giacché come si è detto la trascrizione s'inter rompe alle prime pagine del II. Per quanto riguarda poi l'altro abbozzo, Ueber Leibnitzens Grundsiitze von der Natur und Gnade, vi troviamo, al contrario di quanto accade nel precedente, una elaborazione critica di al cuni dei principali assunti metafisici di Leibniz, relativi in particolare alla dottrina delle monadi, mentre è assente qualsiasi riferimento alle temati che teologiche, sebbene queste ultime rappresentino una parte prepon derante del saggio leibniziano Principes de la nature et de la grdce. Anche in questo caso da ciò che manca possiamo trarre utili indizi di lettura: quel che a Herder interessa di Leibniz sono le implicazioni della sua dottrina per la riflessione psicologica, in particolare per le tematiche della sogget tività e della percezione. E ciò che fin d'ora egli difende contro la dottri na di Leibniz sono il principio della comunicabilità e la possibilità di un'interazione causale fra le sostanze; una posizione probabilmente ma turata anche nel contesto delle lezioni kantiane a Konigsberg. Proprio at traverso Kant egli può aver fatto propria la dottrina dell' influxus physicus di Martin Knutzen, wolffiano eterodosso che, contro il dettato leibnizia no, sosteneva la possibilità dell'interazione fra sostanze diverse (cfr. Mo ri, 1996, p. 491) e i progetti di Crusius per una «nuova filosofia», volta a correggere e integrare la dottrina di Leibniz con orientamenti più vicini alle correnti dell'empirismo. E sempre attraverso Kant può aver assimila to il principio, ancora crusiano, della priorità dell'esistenza rispetto alla possibilità, difeso nel Versuch uber das Seyn (1764) . E tuttavia, diversa mente da Kant, Herder sta già maturando la sua personale via di uscita dal leibnizianesimo, optando per quell'orientamento psicologistico empi rico che in seguito lo porterà a confliggere anche con il primo maestro e il suo metodo trascendentale. Da questo punto di vista gli appunti sulla filosofia di Leibniz s'inse riscono in modo coerente nella linea di riflessione psicologico-estetica do cumentata da una serie di saggi giovanili: dal Versuch uber das Seyn al Wie die Philosophie, già citati, agli appunti sulla filosofia di Wolff e Baumgar ten, dove prende forma la critica al modello dicotomico in antropologia e all'astrattezza di uno studio delle funzioni superiori scisse dalle attività e funzioni sensibili. Bersaglio polemico è qui innanzitutto Wolff, il quale «parla delle facoltà inferiori dell'anima come uno spirito del suo corpo reciso» (Herder, 1987a, p. Io) . Ma anche Baumgarten il quale, pur aven do determinato un importante spostamento della sfera sensibile dalla pe125
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riferia al centro della riflessione filosofica, restituendo così «dignità filo sofica al campo del sensibile» (Merker, 1989, p. 91) , ha avuto il torto di es sere restato sul piano della pura speculazione, dei ragionamenti astratti e aprioristici, perdendosi nelle altezze dei principi generali, troppo ampi per essere riempiti di particolari, troppo specifici per lasciarsi adattare al l'esperienza. A questa occorre tornare per Herder (1987g, pp. 30 s.) , im mergendosi nelle oscure regioni dell'anima, dove le sensazioni animali divengono sensazioni umane, dove si mescolano impulsi e affetti, piace re e dolore. Rispetto al metodo classificatorio e tabellario che nella p si cologia di Wolff e Baumgarten erigeva a sistema la dottrina delle facoltà, Herder ora trova proprio in Leibniz i presupposti teorici per attaccare quelle posizioni; innanzitutto la nozione stessa di facoltà cui contrappo ne l'idea della monade come vis activa, processo psichico attivo inscin dibilmente riferito a un contenuto, enèrgeia: «Capacità prive di atto, pu re potenzialità non sono nient'altro che fantasticherie che la natura non conosce - dove si trova nel mondo una /aculté non in acte?» (Herder, 1987h, p. 46) . Inoltre, nella misura in cui nella filosofia di Leibniz le atti vità della psiche, pur nella loro diversità, rimandano tutte a un principio energetico unitario, a essere messo in discussione è anche il secondo ele mento fondativo della tradizionale dottrina delle facoltà: il principio di discontinuità. In base alla lex continui, anche le diversità apparentemen te più aspre si risolvono in una sequenza di passaggi intermedi che sfug gono a quel rigido " casellario in muratura" che contraddistingue la psi che nella concezione della psicologia razionalistica classica: «La natura non fa mai un salto. Sempre dal piccolo al grande e viceversa, attraverso gradi e parti intermedi. Al movimento non segue mai la quiete e vicever sa, così come non si percorre mai una linea senza averne percorsa una più piccola» (ivi, p. 36). Come Lessing, Herder (1987b, p. 49) ricava dai Nou veaux essais e dalla dottrina delle monadi riassunta nei Principes il valore teorico dell'individualità, pensata però, a differenza di Leibniz, secondo una dimensione comunicativa che serve a garantire un moto dinamico di espansione, non conciliabile con il preformismo e l'introspettivismo leib niziani. Di Leibniz accoglie inoltre l'idea delle piccole percezioni, che ser ve a spiegare l'oscura ed embrionale genesi dell'individuo, mentre re spinge la dottrina dell'armonia prestabilita - la cui critica giunge a ma tu razione nel Vom Erkennen und Empfinden -, di cui rileva fin d'ora il ca rattere contraddittorio rispetto al generale quadro teorico leibniziano (cfr. ivi, p. 50) . Ancora come Lessing, Herder media la teoria leibniziana con spunti spinoziani, peraltro presenti nello stesso Leibniz . In primo luogo con quella dottrina dell' en kai pan che permette un superamento delle rigide distinzioni della psicologia razionalistica in un modello olisti co concepito in senso dinamico. 126
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Questi accenni trovano un'ulteriore eco in altri due abbozzi coevi: Grundsiitze der Philosophie (1769) e Zum Sinn des Ge/uhl (1769) , in cui emerge in modo esemplare il carattere spurio del "leibnizianesimo" di Herder, sempre incline a mescolare elementi tratti dalla teoria della per cezione sensibile d'impianto leibniziano con temi e soluzioni riconducibi li alla tradizione dell'empirismo e del sensismo, a Locke, Berkeley, Che selden , Condillac , Diderot , nell'elaborazione di una Philosophie des Ge/uhl assolutamente autonoma e originale. Alla tradizione leibniziana appartengono infatti l'attribuzione ai sensi di una capacità conoscitiva e l'inserimento della conoscenza sensibile in una scala gerarchica delimita ta verso il basso dalla conoscenza oscura, presupposto non ulteriormente indagabile, e verso l'alto dalla conoscenza distinta, intellettuale. Alla tra dizione sensista si deve invece l'esame delle specifiche modalità percetti ve dei diversi sensi, in particolare tatto, vista e udito. La fusione di queste due linee di riflessione porta Herder all'elaborazione non solo di un'ori ginale riflessione estetica (elaborata nei due saggi Viertes kritisches Wiild chen e Plastik) , ma soprattutto di una più comprensiva storia naturale del l' anima, qual è quella sviluppata nel Vom Erkennen un d Emp/inden. Proprio le tre versioni del saggio (1774, 1775, 1778) sono la più chia ra testimonianza del processo di maturazione della posizione di Herder da una prospettiva più vicina alla psicologia leibniziana a una "fisiologia psicologica" , in cui la riflessione di Leibniz sfuma nella fisiologia di Hal ler. Al quesito dell'Accademia di Berlino incentrato sulla questione dei rapporti fra conoscere e sentire (1773) Herder risponde contrapponen do alla tesi dualistica un'ipotesi monistica, argomentata attraverso l'e splicito ricorso alla lezione di Leibniz, fatta valere contro la psicologia delle facoltà di matrice wolffiana che Sulzer, ispiratore del concorso, ave va posto alla base della sua concezione estetica (Anmerkungen uber den verschiedenen Zustan� worinn sich die Seele bey Ausubung ihrer Haupt vermogen, niimlich des Vermogens, sich etwas vorzustellen und des Vermogens zu emp/inden, be/indet, 1763 ; cfr. Heinz, 1994, pp . 113-7) . Co me Leibniz, Herder (1987c, p. 562) concepisce il corpo come un aggre gato di monadi, centri di forza di natura spirituale. Come Leibniz, egli ritiene che ogni essere finito è necessariamente corpo : solo «nel suo cor po variegato e molteplicemente organizzato l'anima si sente vivere con tutte le sue forze» (Herder, 1987f, p. 584) , «senza sensazioni, dunque sen za organi corporei, essa non esiste» (Herder, 1987c, p. 5 63 ) , né può co noscere (ivi, p. 566) . Come Leibniz , per illustrare il rapporto fra anima e corpo Herder (ivi, p. 556) utilizza frequentemente nella prima versione del saggio la metafora dello specchio . Diversamente da Leibniz però, per il quale il rapporto di rispecchiamento o di espressione si risolve in un accordo esterno, Herder impiega questa metafora in senso dinamico, re127
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!azionale e riflessivo: se il corpo è specchio dell'anima è perché l'anima si percepisce solo attraverso l'altro da sé, il soggetto non può rappre sentarsi se non rispecchiandosi in ciò che non è; ogni percezione del l' oggetto è sempre anche percezione di sé, ogni percepire è appercepire. Ne consegue la critica - continuamente ribadita non solo nelle successi ve versioni del saggio, ma anche in altri scritti (cfr. Herder, 1987c, p. 562; 1987f, pp. 583-4; 1987e, pp. 671-3; 1887-1909, vol. XIII, p. 172; trad. it. , p. 75; 1909, pp. 459-60) - alla dottrina dell'armonia prestabilita, incomprensi bile irruzione del dualismo meccanicistico entro il monismo organicisti co: ricorrendo infatti alla metafora dei due orologi, essa confligge con l'i dea del corpo come immagine, simbolo, fenomeno dell'anima. Le contraddizioni del sistema leibniziano confermano dunque la ne cessità di abbandonare la metafisica per riesaminare il problema antolo gico del rapporto fra corpo e anima, e conseguentemente quello psico logico e gnoseologico tra conoscere e sentire, alla luce dei più recenti ri sultati delle scienze naturali, in particolare della fisiologia. La fisiologia sembra fornire infatti un fondamentale contributo per l'integrazione e la correzione metodologica dell'apriorismo metafisica leibniziano. Soltan to una «fisiognomica» intesa come «fisiologia psicologica» può intro durci nel «santuario dell'anima» (Herder, 1987c, p. 563 ) , solo innalzando a psicologia la fisiologia di Haller «potremo dire qualcosa su pensare e sentire» (Herder, 1987e, p. 675) . Nella fisiologia del tempo Herder cerca la conferma al monismo leibniziano. Dalla ricerca di Haller egli riprende le nozioni di irritabilità (Reizbarkeit) e di stimolo (Reiz) , e inoltre l'elemento strutturale della fibra (Faser) , base di tutta l'anatomia corporea. Lascia cadere invece la fonda mentale distinzione fra irritabilità e sensibilità, fra tessuto muscolare e tes suto nervoso. L'irritabilità sembra infatti a Herder corroborare dal punto di vista sperimentale l'ipotesi monistica leibniziana, l'idea dell'esistenza di un'unica forza che si manifesta in forme differenti, ossia una visione oli stica dell'essere organico. Nel concetto halleriano di Reiz, germe origina rio della vita psichica, scorge la conferma del principio di continuità che governa la storia dell'anima. Ben diverso dall'impulso esterno, necessario a dare movimento alla macchina corporea, il Reiz è il pungolo interno che anima la materia organica, la sollecita alla ricerca fuori di sé di elementi ad essa affini, per ritornare a sé arricchita di nuovo nutrimento; è la scintilla che muove l'intero organismo in quel costante alternarsi di espansione e contrazione (Starobinski, 1999) che sta a fondamento tanto dei processi fi siologici quanto di quelli psichici, «espressioni di una medesima energia ed elasticità dell'anima» (Herder, 1987e, p. 690) . Leibniziano è anche il richiamo al concetto di elasticità - ripreso pe raltro assieme alla coppia Anziehen-Zuriickstossen da Tiedemann, nelle 128
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Beobachtungen iiber die Entwicklung der Seelen/iihigkeiten bei Kindern (1787) -, che serve a sviluppare una concezione naturalistica dello svi luppo psichico senza ricadere nel meccanicismo. Leibniz infatti aveva formulato le sue leggi del moto e della forza che agisce sui corpi perfet tamente elastici contro tutta la dinamica tradizionale da Descartes a Newton (cfr. Funkenstein, 1996, p. 130) . Ora Herder, attribuendo al si stema nervoso la funzione che Haller aveva riservato al muscolo, inten de contrastare il dualismo ancora presente nel modello esplicativo del fi siologo. Pur non condividendo le proprietà del mondo sensibile, giac ché «non è né suono, né luce, né odore» (Herder, 1987f, p. 607), e nep pure quelle del pensiero (cfr. ivi, p. 6o8 ) , il sistema nervoso, proprio per ché "intermedio " , è in grado di «percepire tutto e tutto trasformare», al punto che «non conosciamo mai l'oggetto, neppure il nostro stimolo or ganico, ma solo il modo in cui ce lo procura il nostro sistema nervoso». Se esso «collega mondo esterno e mondo interno, e in noi cuore e testa, pensare e volere, i sensi e tutte le membra» (Herder, 1987e, p. 684) , è per ché possiede la capacità di discriminare selettivamente un oggetto o un evento, di unz/icare il molteplice. È questa capacità il vero motore della vita psichica, dai gradi infe riori del semplice stimolo fino alle più alte funzioni della mente. Se il ma teriale dell'intelletto deve essere dato dai sensi, come già per l'empiri smo, questa materia è già sempre un molteplice unificato (Eins in Vi'e lem) : a ogni livello si compie una nuova sintesi, una ulteriore spiritualiz zazione dell'esperienza, in consonanza con il modello di Leibniz. Come Leibniz, infatti, Herder non condivide l'attribuzione dell'attività di uni ficazione e di rappresentazione all'intelletto e della passiva apprensione del molteplice alla sensibilità: i sensi sono in grado di procedere all'uni ficazione dell'esperienza e dunque di produrre una prima forma di rap presentazione. Ma, diversamente da Leibniz, ciò non vuol dire che la sensibilità venga ridotta a una più primitiva e oscura articolazione del l'interno, al contrario è l'esterno che viene rimodulato, così da scompa ginare i più consolidati binomi: " dentro " e "fuori " divengono articola zioni della stessa materialità corporea, all'esterno i sensi, all'interno il si stema nervoso (cfr. Herder, 1987f, p. 6o6; 1987e, p. 68o), di cui i primi rappresentano le più estreme propaggini. La divisione fra interno ed esterno propria dell'empirismo e la connessa e speculare divisione tra sensibilità e riflessione sono in tal modo superate, non però a favore di una idealistica interiorità. Grazie all'idea leibniziana di forza e all'idea halleriana di Reiz, Herder ritiene di poter superare anche l'alternativa fra spirituale e materiale nell'idea di una differenza di grado. Nulla può es sere determinato come puramente materiale o puramente psichi co o spi rituale «perché in generale niente è separato in natura, ogni cosa fluisce 129
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nell'altra attraverso passaggi impercettibili» (Herder, 1987e, p . 672) . L'applicazione rigorosa della lex continui leibniziana lo porta a superare il dualismo in una soluzione che, diversamente da quella di Leibniz , non si traduce nella spiritualizzazione della materia, ma neppure nella mate rializzazione dell'anima (ivi, p. 687) : Non so ancora cosa significhi materiale o immateriale; ma non credo che la na tura abbia eretto tra questi due ambiti delle divisioni così ferree , dal momento che non vedo affatto ferree divisioni in natura e tanto meno posso immaginarle là dove la natura è tanto intimamente connessa.
Al privilegiamento dell'ambiente proprio della scuola sensista si con trappone così il recupero dell'interiorità organica, e a quello della men te come principio puro attivo, proprio dell'idealismo, l'idea di un corpo individuale percorso da un reticolo nervoso dotato di una proprietà complessa come la sensibilità. Questo corpo animato diviene la sede del le funzioni attribuite un tempo all'anima, il che apre la strada a una rifor mulazione del classico problema della conoscenza. n distacco da Leib niz si annuncia infine attraverso la definitiva rinuncia all'immagine del lo specchio - rappresentazione di un mondo egoistico (cfr. ivi, p. 688) a favore di metafore biologiche, che sottolineano l'effettivo scambio co municativo fra interno ed esterno : il sistema nervoso «non è un morto specchio rappresentativo dell'universo» (Herder, 1987f, p. 61o) , la men te non ha solo bisogno di rispecchiarsi nell'altro per riconoscersi nella sua identità, ma come un albero ha bisogno di tutti gli elementi della vi t a materiale per costituirsi come tale, per prendere forma, crescere, svi lupparsi, trasformarsi. È questo il senso della parola Bildung, formazio ne organica ed educazione spirituale, espressione dell'unità e della con tinuità del movimento evolutivo, composto da una fase naturale, in cui la mente emerge dall'elemento fisico che l'ha nutrita, e da una artificia le, che prosegue nel mondo umano il lavoro della natura. Natura e arte si trovano così unificate nella generalizzabilità di un approccio storico che in Herder trova la sua espressione più emblematica nella metafora vegetativo-biologica dell'albero che cresce (Tani, 2ooo) . n duplice orientamento, sensistico e idealistico (Heinz , 1994) , di que sto modello psicologico trova infine la sua più compiuta espressione nel linguaggio verbale. Quest'ultimo non si trova contrapposto al dato na turale delle percezioni nel senso di un sistema artificiale di segni: la pa rola costituisce piuttosto il compiuto sviluppo dell'elemento formale presente già nella percezione (cfr. Cassirer, 1976, pp. 112-3 ) . La prospet tiva genetica consente di raccordare la forma linguistica alla concretez za della materia, facendone una derivazione della complessiva attività
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d'interazione corporea con l'ambiente, rinunciando però all'idea del lin guaggio come riproduzione dell'esperienza. Nel processo di produzione della sintesi che conduce dal sentire al pensare, al linguaggio o senso in terno (cfr. Herder, 1987e, p. 691) è assegnata la funzione di mediare fra rappresentazioni sensibili e astrazioni intellettuali. La dottrina leibnizia na per cui ogni modificazione dello spirito è una rappresentazione è al lora trasformata in una teoria del segno che lega la mente al mondo este riore. Da questo punto di vista il Vom Erkennen und Emp/inden ripren de i risultati del percorso compiuto nell'Abhandlung iiber den Ursprung der Sprache. 3
Origine e funzioni del linguaggio
La svolta genetica è il presupposto della svolta linguistica in Herder. TI ri conoscimento della continuità che lega le funzioni della psiche consen te di intaccare il fondamentale presupposto dualistico caratteristico del modello psicologico allora dominante e la connessa dicotomia fra natu ralità e convenzionalità del linguaggio. Quest'ultimo problema - che ha la sua fondazione nella lettera di Epicuro a Erodoto - costituisce uno dei due poli del dibattito sull'origine del linguaggio, assieme alla questione propriamente gnoseologica del rapporto fra nome e cosa (fondata nel Cratilo di Platone: Gensini, 199 5 ) . Si tratta di due tematiche strettamen te intrecciate anche nella riflessione di Herder, che però, nell'Abhand lung, focalizza maggiormente l ' attenzione sulla prima, per poi ap profondire in modo più specifico la seconda nella Metakritik. Già nel Versuch einer Geschichte der lyrischen Kunst (1764) , nel pre sentare la ricerca sull'origine di ciò che è dato come una operazione in tellettuale non soltanto piacevole ma anche necessaria, là dove si aspiri a conoscere compiutamente qualcosa, Herder aveva distinto il livello rela tivo al principio genetico («Ursprung») da quello relativo all'inizio cro nologico («Anfang») . Analogamente, l'«Ursprung der Sprache» su cui ri flette l'Abhandlung non rinvia a una dimensione cronologica bensì fun zionale, a una specifica disposizione naturale dell'uomo che appartiene al piano storico-empirico (Irmscher, 1966, p. 164) . Questa considerazione impone un chiarimento delle due fondamentali nozioni di storicità e na turalità. Leibniz aveva distinto fra ordine naturale e ordine storico (Mu gnai, 1982) , identificando innanzitutto il primo con l'ordine logico, delle idee, con l'essenza in quanto distinta e gerarchicamente sovraordinata al l'esistenza storica. Ma nel gioco di duplicazioni che attraversa tutto l'im pianto della sua filosofia conseguente a quella prima distinzione, la no zione stessa di naturale si trova a essere duplicata: da un lato sta la natu
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ralità del mondo delle idee, contrapposta alla storicità e alla relatività del mondo umano, dall'altro sta la naturalità nel mondo storico, contrappo sta alla dimensione razionalistica e intellettualistica nel medesimo. Diver samente da Leibniz, e in ciò più vicino a Locke, Herder non cerca un or dine più profondo al di là di quello storico: la natura umana è per sua in tima essenza storica. Anziché fornire l'ennesima ipotesi su un presunto stato di natura pre-istorico (piano del possibile) , l'Abhandlung adotta una metodologia empirico-genetica centrata su una fenomenologia dei sensi e del linguaggio, tesa a descrivere come sorge e come funziona il linguaggio nell'individuo, già da sempre inserito nella storicità dell'esistenza (piano dell'essere) , e a mettere così in luce le contraddizioni insite nella classica opposizione natura/artificio. In questa opzione metodologica si cela dun que una decisa presa di distanza dall'orizzonte metafisica di Leibniz. Il problema dell'origine del linguaggio è un problema psicologico, non logico, ma neppure esclusivamente linguistico. Esso obbliga infatti a pensare le radici prelinguistiche del nostro rapporto con le cose e a comprendere le motivazioni che ci spingono verso il linguaggio. Cos'è che ci induce a parlare? Nella sua risposta Herder recupera strumenti concettuali leibniziani - come egli stesso peraltro dichiara in una lettera a Hamann datata Ii25 agosto 1772, in cui accenna alla «Leibniz-astheti schen Hi.ille» dell'Abhandlung (cfr. lrmscher, 1966) . In particolare il mo dello antropologico di Leibniz, che affronta il problema dell'evoluzione della vita psichica dell'uomo dalla fondamentale funzione della perce zione, consente di ripensare la genesi della funzione linguistica a partire dai livelli più semplici dell'attività cognitiva e crea così le condizioni teo riche per recuperare all'interno di un modello arbitrarista una riflessio ne sulla motivazione linguistica (Gensini, 1995) . Herder, come abbiamo visto, prende da Leibniz l'idea di una continuità fra sensi e intelletto, quali manifestazioni di un'unica forza dell'anima: la capacità di avere rappresentazioni, da quelle più oscure e confuse (sensibili) a quelle chia re e distinte (intellettuali) , e sottolinea il ruolo della mediazione lingui stica nel passaggio dal grado più basso della conoscenza a quello più ele vato e complesso. li recupero della lezione leibniziana coincide con il ri conoscimento che ogni agire umano - e dunque anche quello linguisti co - deve passare attraverso una fase di motivazione. Ma Leibniz scorge nel bisogno e nell'emozione, ovvero in condizioni elementari irriflesse (cfr. Formigari, 2001, p. 161) , le condizioni naturali che sollecitano l'e spressione di suoni aventi qualcosa in comune con primari eventi psico logici (cfr. Gensini, 1995, pp. 8-9) : «guidati non dalla ragione ma dall'a! /ectus, gli uomini primitivi simultaneamente vissero esperienze psicolo giche e articolarono suoni» (Gensini, 1997, p. 61) . Herder invece fin dal le prime pagine del saggio prende le distanze da chi - e l'obiettivo pole132
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mi co è in questo caso Con dilla c - riconduce all'esigenza di espressività la spinta che ci induce a parlare (Herder, 1891; trad . it. , 199 5, p. 42) : Ma non posso nascondere la mia meraviglia per il fatto che ad alcuni filosofi, va le a dire gente alla ricerca di concetti chiari, sia potuto saltare in mente di spie gare l'origine del linguaggio muovendo da questi gridi della sensazione, come se non balzasse agli occhi che esso è tutt'altro. [ .. .] An che a voler educare tali ver si animaleschi modulandoli e organizzandoli, se non interviene l'intelletto a ser virsene intenzionalmente [mit Absicht] , non vedo come [ . . . ] essi possano mai tradursi in un linguaggio umano intenzionale [ willki.irlich] . Al pari delle bestie, anche i bambini esprimono vocalmente le sensazioni, ma la lingua che appren dono dagli adulti non è, forse, tutt'altra lingua?
La dimensione espressiva è una componente della parola che tuttavia non può dar conto della sua funzione semantico-concettuale (cfr. Amicone, 1995, p. n) . Occorre risalire a condizioni più profonde e complesse. Que ste vanno cercate in un'originaria modalità di rapporto con il mondo in cui non è dato ancora distinguere tra un piano propriamente logico, in tellettuale, e un piano sensibile-affettivo, ma dove già si annuncia il ca rattere essenziale della specie umana: la produzione della mediazione simbolica. Herder (1891; trad. it. , 199 5, p. 55) chiama «sensatezza [Beson nenheit] » questa disposizione naturale dell'anima: essa si configura, leib nizianamente, come una capacità sintetica che procede per gradi da una maggiore aderenza al «piano sensitivo» a una maggiore prossimità al pia no razionale e trova nell'attenzione la condizione primaria del suo eser cizio. L'attenzione è infatti ciò che consente di isolare nel flusso continuo di sensazioni da cui siamo investiti «un'onda unica», per dirigere la men te verso un solo elemento tralasciando tutto il resto (ivi, pp. 58-9 ) . È que sta già una forma di astrazione, che però, diversamente dal modello di Locke, non è il prodotto di una riflessione intellettuale che opera sul ma teriale dei sensi astraendo dalla particolarità dell'esperienza ciò che ap pare comune a più individui, ma è il risultato di un processo di selezione che della molteplicità dei dati trattiene solo quanto appare per certi ver si a noi comune, cioè compatibile con la nostra conformazione organica. Questa primaria articolazione del continuum sensoriale in porzioni per cettive è «intenzionale [willkiirlich] » (ivi, p. 8o) , non però immotivata (ivi, p. 81) : Nessuno me ne voglia se in questo caso non capisco la parola arbitrario. Lam biccarsi il cervello per cavarne il linguaggio arbitrariamente, senza che nulla giu stifichi la scelta è, almeno per l'animo umano, che di tutto vuole una ragione quan d'anche solo parziale, un tormento. Tanto più nel caso dell'uomo primiti vo rozzo e sensuoso [ . . . ] che nulla fa senza motivo e nulla intende fare invano.
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Nel suo caso l'invenzione di un linguaggio per futile e vano arbitrio sarebbe in compatibile con l'intera analogia della natura, e certamente ripugna all'analogia delle forze psichiche umane un linguaggio escogitato per puro arbitrio.
Come Herder (1881, p. 84) preciserà ulteriormente nella Metakritik, la mo tivazione della produzione linguistica va cercata sia nella costituzione del mondo esterno sia nella conformazione del nostro organismo. A fonda mento di tutte le rappresentazioni sensibili sta un sensorium commune, da cui deriva il loro intimo legame: più oscuri sono i sensi, più influiscono l'uno sull'altro; segrete affinità e simpatie legano tra loro i nostri sensi e i sensi tutti al mondo esterno, e da questo flusso sensibile si genera la pa rola, che proprio per questa sua origine intrattiene con i sensi una profon da parentela. Ma quel che più conta è che ciò che attrae la nostra atten zione e chiede di essere espresso non è primariamente una sensazione soggettiva, un bisogno, un dolore, una gioia, ma la sensazione soggettiva di qualcosa che ci viene incontro nel mondo e a noi si comunica («ci noti fica nel molteplice una unità verso la quale orientiamo il nostro senso»: ibid.) . E la "nota predominante" da un lato s'impone dall'esterno, dal l' altro è posta liberamente e riconosciuta come il carattere più idoneo a rappresentare la totalità dell'oggetto. Solo così un particolare carattere si stacca dallo sfondo dell'indifferenziato e si fa "segno distintivo" . Qui sta per Herder (1891; trad. it., 199 5, pp. 58 -9) l'origine del linguaggio: non nel l' arbitrarietà della convenzione sociale (Locke) ma nella necessità, data nel rapporto diadico dell'uomo col mondo, di assumere certi fenomeni come dotati di senso, e cioè comunicativi e dunque anche comunicabili. Mentre per Leibniz il " naturale" nel mondo storico coincide con ciò che non è volontario, ma emozionale, espressivo, e dunque tale sarà il se gno che presenta un legame di tipo quasi immediato, e comunque ana logico, fra la rappresentazione e la sua espressione, per Herder - in fon do qui più leibniziano di Leibniz - il naturale non esclude il volontario, perché coincide con una condizione originaria di indifferenziazione in cui le funzioni psichiche - cognitive, sensibili e conative (cfr. ivi, p. 53) non hanno ancora raggiunto quell'articolazione modulare che è frutto dell'esercizio e dell'esperienza: una condizione di in distinzione interna cui corrisponde un'analoga condizione di indistinzione fra soggetto e og getto. Diversamente da Leibniz, Herder insiste sulla priorità del rap porto con il mondo sensibile, quale fondamento di ogni pratica lingui stica, e, come Locke, attribuisce al soggetto la capacità di ordinare l'e sperienza. E tuttavia l'articolazione del continuum in cui fin dalla nasci ta ci troviamo immersi non è pienamente arbitraria, ovvero libera, ma è condizionata dalla disposizione del corpo ad accogliere quegli aspetti del mondo con cui ha un rapporto di somiglianza (Tani, 2001) . Se il mondo 134
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è "senza etichette" e variamente interpretabile, le specifiche caratteristi che degli organismi condizionano i processi di categorizzazione percet tiva e di generalizzazione. In questo senso dunque i primi segni non so no pienamente arbitrari (willkiirlich ) , ma parzialmente motivati dalla na tura esterna e interna; sono però arbitrari in quanto implicano l'inter vento di una forma d'intenzionalità da cui deriva la primitiva interpre tazione dei segni della natura. Se l'origine del linguaggio non va cercata nel momento della produ zione di suoni, sia pur intesa naturalisticamente à la Leibniz come spin ta a emettere suoni verbali motivati dall'emozione e dunque aventi qual cosa in comune con le affezioni dell'anima, ma va cercata nel momento della ricezione, il primitivo non ulteriormente indagabile sta nell'inten zionalità dell'interprete che nel continuum percettivo sceglie certi feno meni e li legge come segni, e così facendo fissa e richiama alla mente por zioni d'esperienza che sono l'indispensabile presupposto del linguaggio verbale, anzi sono già «linguaggio virtuale», anche se «privo di ogni im plicazione fonica» (Amicone, 1995 , p . 13) . Lo stesso apprendimento nei bambini lo conferma: i genitori non trasmettono una lingua ma «si limi tano a far notare ai figli le differenze tra le cose» (Herder, 1891; trad. it. , 1995 , p. 64) e s e s i servono d i segni verbali l o fanno solo per stimolare l'e sercizio dell'attenzione e della capacità analitica necessarie alla produ zione del linguaggio articolato, il quale però deve essere poi prodotto dal bambino come un atto originale e creativo. Dunque ciò che ci spinge a parlare è una condizione psicologica che può essere definita una modalità gnoseologico-interpretativa sottesa da una forma d'intenzionalità primaria, ovvero da una direzionalità verso ciò che ci viene incontro, che costituisce il carattere distintivo dell'intel ligenza umana, rispetto a quella animale. E i prodotti, ancora tutti inter ni, di questa disposizione originaria hanno a loro volta natura psicologi ca e semiotica, ma non ancora linguistica. Funzione fondamentale del linguaggio è dunque la possibilità di ri ferirsi a qualcos'altro da sé. Senza questa originaria dimensione psichi ca, non si vede come possa darsi il passaggio da una disposizione pura mente espressiva a una capacità semantica. Se l' espressivismo di Leibniz (e di Condillac) muove contro il cartesianesimo in quanto sinonimo di razionalismo, non lo intacca in quanto sinonimo di soggettivismo. La po sizione di Herder si distingue dal modello espressivista, senza però per questo ricadere nel cartesianesimo (come invece ritiene Aarsleff, 1996) in virtù del suo impianto genetico e dell'introduzione della nozione di «Be sonnenheit». È vero che il rifiuto dell'espressivismo porta Herder a col locare l'origine del linguaggio in uno stato interiore, silenzioso, in un dia logo interno che costituisce il presupposto del dialogo con gli altri 135
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(ibid. ) . Ma questo linguaggio interiore non è un'attribuzione arbitraria di etichette agli oggetti del mondo, in assenza di discorso e di società, perché la relazione protosemantica viene pensata proprio secondo il mo dello dialogico, che è così esteso in modo originale fino a comprendere il nostro stesso rapporto con il mondo (Trabant, 1988) . Ne consegue che, mentre tanto in Locke quanto in Leibniz le due fun zioni dei segni linguistici, individuate già da Hobbes, quella mnemonica e notazionale (intrasoggettiva) , e quella comunicativa (intersoggettiva) , restano distinte, in Herder la funzione comunicativa emerge come parte integrante della funzione cognitiva, anzi l'evento comunicativo diviene la prospettiva fondamentale che rende comprensibile ogni tipo di esperien za, compreso il primario riconoscimento di semplici eventi percettivi. I processi d'interpretazione sensoriale di ciò che del mondo a noi si comu nica costituiscono infatti la premessa del significare linguistico (cfr. Ber der, 1881, pp. 84 ss.) . Ma la capacità di conferire senso a fenomeni natura li, cioè di fissare e memorizzare qualcosa di permanente nel fluire delle sensazioni, apre già alla triadicità della relazione propriamente linguisti ca, ai processi di significazione all'interno di una dimensione culturale e sociale. n ruolo del linguaggio come strumento di comunicazione e quel lo del linguaggio come meccanismo di categorizzazione dell'esperienza non possono essere separati: «il primo contrassegno che io colgo è per me vocabolo caratteristico e per gli altri parola di comunicazione» (Herder, 1891; trad. it., 199 5, p. 70) . Tale continuità viene da Herder sottolineata con l'idea del linguaggio quale senso aggiuntivo che lo spirito si è dato, e che si presenta fin dall'origine, analogamente agli altri sensi corporei, come uno strumento di comunicazione che non sostituisce ma sintetizza e pro lunga gli altri sensi. Anche in un contesto culturale di svincolamento dal la pressione percettiva del " qui e ora " esso serve a ricordare le radici im pure e corporee dell'agire umano, senza per ciò stesso appesantire la men te con un eccesso di sensorialità (Formigari, 1994) . D'altra parte proprio la possibilità di prolungare i sensi al di là della dimensione prettamente biologica testimonia di una radicale discontinuità fra la natura umana, in trinsecamente storica e progressiva, e le altre specie animali. 4
Appercezione e «Besonnenheit»
Al problema di stabilire una cesura tra mondo animale e mondo umano, senza per questo disconoscere da un lato le basi naturali della significa zione umana, dall'altro la possibilità che gli animali abbiano una vita mentale, è strettamente legata la trattazione della «Besonnenheit». L'uo mo, rispetto agli altri animali, appare svantaggiato per quanto riguarda
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il suo naturale equipaggiamento, è un essere costituzionalmente debole. Eppure proprio questa condizione originaria di mancanza, di vuoto, conferisce alla sua attività percettiva e alle sue disposizioni naturali un orientamento completamente diverso rispetto a quelle animali. L'agire umano è sempre un agire mediato. «Besonnenheit» è il termine con il quale Herder indica la fonda mentale funzione umana della simbolizzazione, di cui il linguaggio co stituisce la forma più alta. Tale funzione, qualcosa di più di una facoltà, perché raccoglie e coinvolge tutte le specifiche facoltà umane, intelletto, immaginazione, sensibilità ecc . , consiste nella capacità di rappresentare il reale con un segno e di capire il segno come rappresentante del reale, quindi di stabilire un rapporto di significazione fra qualcosa e qualco s'altro, il che implica il riconoscimento della mancanza di una relazione immediata e diretta fra il soggetto e il mondo e fra i soggetti, e l' assun zione della ineludibilità di una mediazione simbolica, che rende possi bili il pensiero e il linguaggio. Questo è il vero e proprio «carattere della sua specie», non una «for za aggiuntiva» (Herder, 1891; trad . it. , 1995 , p. 53) che comparirebbe co me un supplemento rispetto a capacità condivise con gli altri animali, co me affermava la psicologia d'impianto razionalistico, dove la mediazio ne intellettuale costituisce una funzione di secondo livello rispetto alla ricezione passiva del dato da parte della sensibilità. È «un orientamento completamente diverso» (ibid. ) , «un indirizzo di tutte le energie pecu liare al genere umano» (ivi, p. 5 5 ) , perché «con l'uomo la scena cambia radicalmente» (ivi, p. 48) : Comunque si voglia chiamare questa disposizione complessiva delle sue forze: intelletto, ragione, coscienza, se con queste denominazioni non si intendono energie isolate o meri potenziamenti graduali delle forze animali, per me va be ne. È la complessiva disposizione di tutte le energie dell'uomo: l'intera gestione della sua natura sensitiva e cognitiva, cognitiva e volitiva, o meglio: è la sola for za positiva del pensiero che, associata a una determinata organizzazione fisica, nell'uomo si chiamerà ragione mentre negli animali diventa attitudine tecnica, in lui si chiama libertà, in essi si fa istinto (ivi, p. 53).
La nozione di «Besonnenheit» è senz'altro la più problematica della fi losofia della mente di Herder, quella attraverso la quale prende forma il suo faticoso cammino di distanziamento dalla filosofia psicologica del l' epoca, quella che meglio rivela il suo controverso rapporto con la filo sofia di Leibniz . E infatti, a una prima considerazione , la «Beson nenheit» sembra avere molto in comune proprio con la "appercezione" . Come quest'ultima, la «Besonnenheit» non appare sempre ben delimi137
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tata rispetto a nozioni come pensiero, riflessione, coscienza, anzi il suo statuto teorico è reso ancor più complesso dalla presenza di un termine concorrente: «Besinnung». Come l'appercezione, la «Besonnenheit» ha a che fare con il problema della conoscenza e, come la prima, è stretta mente legata alla memoria e all'attenzione. Ma, soprattutto, come l' ap percezione la «Besonnenheit» è la funzione che consente di unificare il molteplice, è «il riferimento di un contenuto molteplice a un'unità che lo esprime e lo rappresenta» (Cassirer, 1986, p. 261) . Qui sta il principa le debito di Herder nei confronti della filosofia leibniziana: nel ricono scimento del carattere sintetico e relazionale della «Besonnenheit». E tuttavia, diversamente da Leibniz per il quale l'unità non sta mai nelle cose, ma è data esclusivamente dall'atto di unificazione, ed è dunque una funzione che va distinta «da ogni oggettivo [sachlich] sussistere difondo della composizione» (ivi, p. 277) , per Herder non possiamo congiunge re nulla in noi che non sia già in un certo senso congiunto: l'unificazio ne nella mente non è cioè pienamente libera e incondizionata. Proprio il diverso orientamento dato al problema gnoseologico porta a una rimo dulazione di quest'ambito teorico che si traduce in una diversa scelta ter minologica: il fatto che Herder parli di «Besonnenheit» e non di Apper zeption è il risultato di una meditata elaborazione personale. Nei Nouveaux essais e nei Principes de la nature et de la grdce, testi che Herder conosce bene, Leibniz propone due distinti livelli di riflessione sull'appercezione (Thiel, 1994) : il primo relativo alla dottrina delle idee innate e al passaggio dalle conoscenze virtuali alle conoscenze reali, il se condo inerente invece alla dottrina della sostanza, dove la questione gno seologica sconfina in una riflessione sull'io e la coscienza. Entrambi con fluiscono in un modello aprioristico della conoscenza. Nel primo testo i sensi rappresentano soltanto un'occasione che sollecita l'attualizzazione delle idee già contenute nell'intelletto. In questo senso essi sono necessa ri al passaggio dalla possibilità alla realtà delle conoscenze, ma non ne co stituiscono l'origine, così come, sul piano della riflessione metafisica, tra le sostanze non si dà alcun effettivo contatto fisico, sebbene per effetto dell'armonia prestabilita si possa parlare " come se" vi sia una reale inte razione. L'appercezione dunque coincide, nella prospettiva gnoseologica, con il passaggio dalla possibilità alla realtà della conoscenza, per cui è ne cessario l'intervento dell'esperienza, condizione però non sufficiente, e dell'attenzione. Al modello lockiano della derivazione di tutte le idee dal la sensazione e dalla riflessione viene così contrapposto un modello in cui tanto i sensi quanto la riflessione rappresentano soltanto dimensioni con comitanti con la conoscenza, non però la scaturigine delle idee. Queste ultime possono essere rese attuali solo attraverso un faticoso lavoro di sca vo che richiede di considerare con attenzione e ordinare i contenuti vir-
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tuali del pensiero. Un'operazione resa possibile dall'intervento del lin guaggio che consente così il passaggio dalla virtualità (livello delle idee) alla realtà e dunque alla storicità (livello del pensiero) della conoscenza ( Gensini, 1997) . Il tema della innatezza della conoscenza si trasforma nei Principes nella questione metafisica della coscienza, e tale passaggio vie ne evidenziato proprio attraverso la nozione di appercezione, qui esplici tamente riferita all'autocoscienza, alla conoscenza riflessiva dello stato in teriore della monade che percepisce.
È dunque opportuno distinguere fra: a) la percezione [perception] che è lo stato interiore della monade che si rap presenta le cose esterne, e b) l'appercezione [apperception] , che è la coscienza [conscience] o cono scenza riflessiva di tale stato interiore; essa però non è data a tutte le anime, né una medesima anima è dotata di appercezione in ogni momento (Principi della natura e della grazia, in Leibniz, 200 1 , p. 41) . Nei Principes l'apriorismo dei Nouveaux essais viene portato alle sue estreme conseguenze: l'esperienza diviene un processo tutto interno, i sensi non giocano più alcun ruolo, neppure quello molto ristretto di oc casioni della conoscenza. La nozione di appercezione prende forma dunque attraverso tre rinunce: al corpo, nella sua materialità; al mondo, come realtà che produce le nostre rappresentazioni; agli altri (cfr. Cassi rer, 1986, pp. 283 ss. ) . Sin dagli appunti sulla filosofia d i Leibniz Herder (1987b) critica la chiusura della sostanza rispetto all'esterno, la sua natura immateriale, senza estensione e senza parti, la mancanza di una relazione di tipo cau sale fra il mondo esterno e le rappresentazioni che ne ha la monade, ov vero l'incomunicabilità delle monadi stesse, il loro essere "senza fine stre " . Se condivide la definizione anticartesiana della sostanza leibnizia na quale forza attiva, rivendica la necessità di riconoscere accanto all'at tività una dimensione di recettività che sola garantisce la comunicazione della monade con il mondo esterno. Già in quegli abbozzi prende dun que forma l'esigenza di una riapertura della riflessione filosofica verso il soggetto vivente (la persona concreta) , gli altri (la comunità umana) , la realtà materiale. Lo studio del linguaggio diventerà il cardine di questa triplice direzione della filosofia di Herder, che intende dimostrare la compenetrazione della dimensione gnoseologica (riferimento al mon do) , della dimensione psicologica (rapporto con sé) e di quella morale (rapporto con l'altro) . La riflessione sulla «Besonnenheit» è il luogo in cui si condensa il maggiore sforzo teorico di Herder in questo senso. E tuttavia, nell'Abh an dlun g dove tale discorso acquista tutta la sua valenza, Leibniz non emerge quale interlocutore esplicito . li rinvio, pe,
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raltro relegato in una breve nota, è a Sulzer, autore «di uno dei più bei trattati per mettere in luce la natura dell'appercezione [Apperzeption] partendo da esperimenti fisici» (Herder, 1891; trad. it . , 199 5 , pp . 58-9 no ta) . Il testo in questione, Sur l'apperception ( 1764) , venne in seguito pubblicato (1773 ) dallo stesso Sulzer in tedesco con il titolo Von dem Bewusstseyn und seinem Ein/lusse in unsre Urtheile: una traduzione che mette in evidenza il legame d ell 'autore con l 'insegnamento di Wolff, cui si deve l'introduzione del termine Bewusstsein , il quale ac centua proprio quegli aspetti razionalistici dell'appercezione che inve ce Herder intende contrastare con una interpretazione che ne sottoli nei gli elementi sensoriali e semiotici. Sulzer (1974, p. 2oo) delimita la nozione di appercezione a «quella attività dello spirito tramite cui distinguiamo il nostro essere dalle idee che ci tengono occupati e che dunque ci consente di sapere cosa faccia mo e cosa accade in noi e attorno a noi». Ma l'idea di noi stessi non è da ta aprioristicamente e in modo astratto, bensì, come le idee degli ogget ti esterni, viene ottenuta attraverso i sensi. E fra tutti i corpi che possia mo percepire ce n'è uno legato alla nostra esistenza in modo tanto con tinuativo ed essenziale da determinare la percezione di noi stessi: il no stro corpo, sebbene anche questa percezione sia, come tutte le altre, più o meno chiara a seconda dei momenti e dunque possa apparire in certi casi sganciata dall'anima. Quest'ultima tuttavia, senza il mondo mate riale, non sarebbe che una forza inerme: per poter essere attiva deve es sere stimolata dall'esterno. La coscienza non può dunque prescindere dal corpo. Anche per Sulzer, come per Herder e per la tradizione della psicologia materialistica e anticartesiana, la coscienza non può prescin dere dal corpo. Mentre però Sulzer sottolinea la dimensione percettiva di sé nella coscienza, Herder ne coglie la complessità, data, oltre che dal momen to autopercettivo, dalla direzionalità e dalla intenzionalità a dare senso alle percezioni esterne e interne nella produzione della mediazione sim bolica. Mentre cioè Sulzer è interessato a sviluppare quel lato della no zione leibniziana di appercezione legato alla dimensione soggettiva del la coscienza di sé, Herder è interessato alla dimensione relazionale e sintetica dell'esperienza, quale ineludibile presupposto dell' unità del sé. Proprio con l'adozione di un termine non connotato in senso carte siano (come invece la nozione di Bewusstsein ) , Herder tenta di uscire dal modello della filosofia del soggetto , caratterizzato dalla priorità an tologica della coscienza di sé. La sua è una delle modalità con cui il pen siero del Settecento tenta di elaborare una riflessione anticartesiana sul la mente, la coscienza, il suo rapporto con il mondo, con la natura e la cultura.
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Per il razionalismo la coscienza, intesa come immediata certezza sog gettiva, è la realtà primaria, identificata con la ragione raziocinante che opera sugli oggetti forniti dall'intuizione. La coscienza è dunque essen zialmente un'attività cognitiva, da cui sono esclusi fattori affettivi ed emozionali, storici e culturali. Essa opera a un livello del tutto separato sia dal piano biologico e neurologico sia dal contesto sociale e culturale. Per Herder la costituzione dell'io non è un atto razionale, ma innanzi tutto corporeo. Con il «Gefi.ihl», che costituisce un senso oscuro della propria esistenza, Herder introduce l'idea di un'autorelazione più fon damentale di quanto non sia l'autocoscienza mediata simbolicamente e riferita gnoseologicamente agli oggetti del mondo esterno. Essa è data dalla capacità di sentire il proprio corpo attraverso il movimento e le sen sazioni di piacere e di dolore che si accompagnano a ogni esperienza sen soriale: tale consapevolezza propriocettiva non lascia spazio al dubbio su chi sia il soggetto che avverte certe sensazioni. Una percezione di sé im mediata, una riflessività corporea che si risolve nella immediatezza del presente, e che è tuttavia fondamentale per ogni ulteriore e più com plessa coscienza di sé. La percezione di sé in prima persona, quale si dà nell'esperienza immediata del «Gefi.ihl», non comporta l'identificazione di sé come una sostanza pensante, ma obbliga a partire dalla propria col locazione spazio-temporale, dunque in un ordine obiettivo, per potersi pensare come soggetti. In assenza di questa condizione non può inne scarsi alcuno svolgimento dei processi mentali e linguistici. A differenza della psicologia classica in cui la coscienza, in quanto principale attributo di una mente esterna alla natura, è data indipen dentemente dall'esperienza e fondata sull'attività intellettuale, Herder fa dell'io una funzione di sintesi che - nel suo grado più oscuro - appar tiene già all'organismo in quanto fascio di fibre animate dalla forza ci netica. Non più sostanza - come nella tradizione cartesiana - e neppure forma, la coscienza è per Herder un processo: essa si costituisce e si mo difica solo nel divenire continuo dei suoi atti rivolti a qualcosa di ester no alla coscienza stessa, dunque in un nesso inscindibile con il mondo empirico. Solo un «pensiero egoistico», o un «egoismo astratto» può pretendere di fondare la propria identità sull'immediata certezza del proprio essere pensante. Per Herder si tratta di un hysteron pròteron che riduce il mondo a costrutto mentale. L' "io penso" deve al contrario es sere inteso come funzione di un io corporeo, vivente, la cui identità pri maria è data in un concreto "io sento " , cui ogni pensiero fa riferimento in una dipendenza funzionale: «L'io penso è solo un modo della mia esi stenza» (Herder, 1881, p. 152) . Tale modello si precisa non solo rispetto a Leibniz ma anche rispetto a Locke, riferimento costante della filosofia della mente del tardo Sette-
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cento tedesco. In Locke l'area tematica in questione coinvolge tre termi ni: " coscienza " , "senso interno " e " riflessione" , non sovrapponibili, in quanto la prima rappresenta una dimensione imprescindibile del pensie ro, mentre il senso interno viene assimilato alla riflessione, capacità della mente di riflettere sulle proprie operazioni, non essenziale allo svolgi mento del pensiero. Nella rielaborazione di questa terminologia in Ger mania, il senso interno perde l'identità con la riflessione e finisce per coin cidere con la coscienza, intesa come " consapevolezza delle proprie perce zioni" . Così Basedow, Feder, Platner e Tetens identificano il senso interno - o «Selbstgefiihl», come Basedow propone di chiamarlo, onde evitare l'ambiguità semantica data dalla sua assonanza con il senso esterno - con la coscienza della percezione, distinguendo la relazione a sé attraverso il senso interno dalla relazione a sé mediata concettualmente (Thiel, 1997) . Diversa la posizione di Herder. L'unica modalità di percezione immedia ta di sé è quella - come abbiamo visto - che coincide con il «Gefiihl», pri maria modalità riflessiva di natura corporea. Ogni altro riferimento a sé è sempre mediato. La «Besonnenheit» costituisce la modalità di questa re lazione complessa che presuppone sempre anche un riferimento all' og getto. Si potrebbe avanzare l'ipotesi che per Herder - il quale, ricordia molo, vuole uscire dalla psicologia delle facoltà e dunque evitare la molti plicazione di moduli operazionali distinti - il senso interno sia la dimen sione assunta dalla «Besonnenheit» laddove la produzione simbolica resta maggiormente legata alla natura sensoriale dell'esperienza. Così, precisa Herder (1881, p. 87) nella Metakritik, il senso interno non è certo un apriori incognito, una parte del creato avulsa e separata da ogni oggetto. In molte lingue la si chiama senso, come quello esterno, che ne è l'or gano. Senso interno [innerer Sinn] : bel nome che abbraccia tutte le facoltà in feriori dell'anima, elevandole alla natura sua, a una superiore unità. È in esso che memoria, ricordo, immaginazione diventano i "sensi " .
Quanto più i contenuti della percezione perdono i n icasticità, quanto più il processo di unificazione del molteplice dell'esperienza procede nella produzione di unità sempre più complesse - e dunque più distan ti dal dato sensibile -, quanto più i segni percettivi si traducono in segni propriamente linguistici, tanto più quella modalità della «Beson nenheit» che coincide con il senso interno lascia spazio a una modalità di riflessione interna più articolata: la «Besinnung». Infatti, il carattere unitario, olistico della conoscenza umana proce de senza soluzione di continuità dalla elementare esperienza sensibile al le più generali idee teoretiche appoggiandosi sull'attività simbolica qua le medium indispensabile allo svolgimento del processo conoscitivo. Di 142
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questa attività simbolica la parola esteriore non è che la forma più svi luppata, la parte pubblica di una sequenza di linguaggi che percorre l'or ganismo, la parte emergente di un insieme di codici sottostante. Ma so lo il compiuto sviluppo del linguaggio verbale consente di articolare in una complessa coscienza riflessiva («Besinnung») quella generica moda lità riflessiva («Besonnenheit») che, come capacità sensibile di indivi duazione e riconoscimento, ne costituisce il presupposto naturale. n passaggio dalla primaria riflessione sensibile alla superiore coscienza ri flessiva trova nel linguaggio articolato la condizione della sua realizza zione. Esso rappresenta il medium di «questa interna elasticità», e cioè «un vero senso dell'anima umana» (Herder, 1891; trad. it. , 1995, p. 70) . Un senso che, come gli altri, richiede apprendimento. Il bambino, infat ti, impara a parlare come impara a vedere , e con l'intervento del lin guaggio articolato il processo di unificazione del molteplice si sviluppa a un livello più complesso, compare un nuovo sensorium commune. Sebbene dunque Herder non definisca esplicitamente i rispettivi ambiti di applicazione della «Besonnenheit» e della «Besinnung» e ten da in qualche caso a sovrapporli, è fondato cogliere in queste due no zioni «due fasi non simultanee, ma successive della coscienza» (Amico ne, 1995, p. 164, nota 8 ) , una sorta di duplice articolazione tra una rifles sività primaria, corporea ma pur sempre semiotica, e una coscienza su periore e linguistica. Basti pensare ai passi dell'Abhandlung in cui Her der delinea una chiara sequenzialità genetica fra i due termini osservan do che «fin dal primo momento non si è destato all'universo un bruto, bensì un uomo, una creatura seppure non ancora dotata di coscienza [Besinnung] , di certo già capace di sensatezza [Besonnenheit] » (Herder, 1891; trad. it., 199 5, p. n 2 ) ; giacché (ivi, p. n 6) non ogni operazione dell'anima è immediata conseguenza della coscienza [Be sinnung] , tutte però lo sono della riflessione [Besonnenheit] , e nessuna potreb be manifestarsi, così come adesso accade nell'uomo , se l'uomo non fosse uomo e non pensasse secondo i dettami di una tale legge naturale.
Come per Locke, riflessione e coscienza restano dunque distinte, ma il loro statuto appare rovesciato rispetto a quello individuato da Locke, dal momento che modalità imprescindibile della mente è la riflessione, men tre la coscienza appartiene solo a un livello successivo. Operazioni sim boliche inconsce intervengono nella strutturazione dei processi simboli ci che sottostanno alla genesi delle forme linguistiche. n passaggio dalla «Besonnenheit» alla «Besinnung» è una funzione del carattere progres sivo della natura umana, la cui capacità di sottoporre il dato a un pro cesso di crescente articolazione linguistica va di pari passo con lo svi luppo della coscienza riflessiva. 143
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Viene in tal modo anche risolta in una prospettiva genetica la rigida contrapposizione fra interno ed esterno, uno dei punti dirimenti fra Locke e Leibniz: interna è la riflessività primaria, ovvero la produzione di simboli nell'individuo che ha la sua fonte nell'originario scambio con il mondo, ma a questo livello l'individuo non è ancora un soggetto, non ha cioè la coscienza di essere cosciente. Questa è l'origine del linguag gio, un'origine ancora tutta interna, psicologica, legata all'individuo. Soltanto con lo sviluppo dell'aspetto pubblico del linguaggio matura la coscienza di ordine superiore, la persona, i cui contenuti mentali sono formati dagli scambi sociali resi possibili dal linguaggio. In questo senso Aarsleff (1996) ha ragione nell'individuare in Herder il tentativo di asse gnare a un soggetto non ancora inserito in una comunità il punto di par tenza dell'attività riflessiva e linguistica. Quest'ultima per Herder non si costruisce esclusivamente attraverso pratiche sociali. E tuttavia non si tratta di una ricaduta nel modello cartesiano. Non solo perché, in base a quanto è stato detto fin qui, la nozione di «Besonnenheit» risulta es tra nea all'orizzonte cartesiano - inconciliabile con l'interpretazione natu ralistica della riflessione come modalità dell'umano essere corporeo ma anche perché Herder riconosce esplicitamente nella mediazione lin guistica la condizione del divenire pubblico del soggetto privato, il che vuoi dire che solo l'ingresso nel mondo dei significati condivisi amplia i confini del soggetto e lo rende tale, in quanto inserito in (e riconosciuto da) una comunità di soggetti linguistici. Insomma per Herder la riflessi vità dell'io è in prima persona solo per quanto riguarda la percezione del la propria esistenza corporea, ma è in terza persona per quanto riguarda i contenuti del pensiero, che sono sempre mediati da uno schema inter soggettivo: i significati linguistici. A questo livello, la coscienza non è più solo privata ma per sua stessa natura già pubblica, proprio perché me diata linguisticamente. Ciò non toglie che l'attività simbolica trovi la sua originaria giustificazione semantica in un rapporto primario, di tipo cor poreo e dialogico, con il mondo. 5
Parola, concetto, cosa
Se, come abbiamo visto, l'alternativa natura/convenzione sta al centro dell'Abhandlung, l'altro polo della discussione sull'origine del linguag gio, la questione cratilea relativa al rapporto nome-cosa, sottende l' ar gomentazione della Metakritik. ll confronto con Kant diviene l' occasio ne per ripensare i nodi salienti del dibattito sei -settecentesco sulla n a tu ra dell'intelletto umano e il problema della categorizzazione e dunque l'insieme dei temi legati alla questione del significato. Herder (1881, p. 17) 144
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legge infatti la prima Critica in continuità con i lavori di Locke, Leibniz, Hume e Reid, il che lo porta a strutturare la sua Metakritik attorno alla decisiva questione gnoseologica legata alla triade "parola, concetto, co sa" , a quel nodo del dibattito medievale sugli universali su cui il pensie ro moderno era tornato a interrogarsi, come attesta la ripresa dell'ada gio nihil est in intellectu quod prius non /uerit in sensu (Libera, 1999). Proprio il confronto con la filosofia di Kant conferisce allora nuovo spes sore alla ricerca di un superamento della contrapposizione fra Leibniz e Locke che, diversamente dal tentativo di Kant, si colloca sul piano di un'indagine psicologico-genetica, il cui obiettivo è disarticolare il pro blema kantiano della validità dei nostri concetti attraverso la domanda sulla loro origine (Herder, 1881, pp. 40-1) : invece di trascendere, ritorni la ragione all'origine di quanto le è proprio, torni cioè su se stessa con la domanda: " come sei giunta a te stessa e ai tuoi concetti? Come li hai espressi e applicati, concatenati e connessi? Come arrivi a dar loro certezza universale e necessaria? " . [ ] Tradotta in termini comprensibili la que stione non è dunque come siano possibili l'intelletto e la ragione umani [ . . ] , la questione è piuttosto la seguente: Che cosa sono l'intelletto e la ragione? Come arrivano ai loro concetti? E come si collegano) questi? Che diritto abbiamo di cre dere che alcuni di essi siano universali e necessari? [ ] L'espressione impropria " critica della ragione " cede allora il passo a quella più vera e appropriata di fi siologia dei poteri conoscitivi de/t uomo. ...
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Accentuare il momento genetico implica ripensare il problema del rap porto fra il particolare e l'universale alla luce di una nuova teoria della percezione, che riconosce nella unificazione del molteplice una funzio ne già attiva nel relazionarsi corporeo e sensibile al mondo. In questa prospettiva il concetto diviene il punto d'arrivo di un processo che at traversa stadi intermedi di generalizzazione, nel cui svolgimento la pa rola riveste un ruolo decisivo. Diversamente da Kant, Herder considera la parola un elemento indispensabile alla genesi del concetto, da cui però resta distinta, costituendosi come fattore di mediazione tra la sfera del la sensibilità legata all'esperienza materiale e l'astrazione delle operazio ni psichiche superiori. Nel fondamentale capitolo intitolato Origine e sviluppo dei concetti del!)intelletto umano Herder (1881, pp . 82 ss.) riprende quanto già espres so nei lavori precedenti a proposito del funzionamento della sensibilità: non c'è bisogno di ricorrere a una funzione di unificazione come prero gativa di una spontaneità dell'intelletto separata dalla concreta espe rienza sensibile, dal momento che già nei sensi è attiva una dimensione formale di sintesi da cui origina una prima forma di mediazione basata sulla scomposizione e differenziazione del dato e sull'assunzione di un 145
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tratto caratteristico offerto dall'esperienza come sostituto e rappresen tante del tutto (cfr. Cassirer, 1984, p. 1 50) . È senz'altro il continuismo di Leibniz - come abbiamo visto - a for nire gli strumenti teorici per il superamento della dicotomia sensibilità intelletto che accomuna il modello kantiano all'empirismo classico. Su questa base Herder può dare al problema della mediazione una risposta diversa da quella fornita da Kant nella dottrina dello schematismo. Ma è Locke che ispira l'orientamento teorico di fondo, costituito dal pro blema del rapporto fra la categorizzazione linguistica e l'organizzazione dell'esperienza, un problema che oggi possiamo definire di semantica cognitiva (cfr. Formigari, 2001 , p. 161 ) . Tuttavia Herder si distanzia da Locke su un punto decisivo, quello dell'astrazione. Diversamente che in Locke, la conoscenza per Herder (1881, p. 250) non procede dal partico lare all'universale ma comporta un continuo passaggio dall'indifferen ziato al differenziato, «conoscere significa distinguere, cogliere e appro priarsi di un uno nel molteplice», è dunque un movimento dal generale al particolare. Particolare è infatti l'unità ottenuta per separazione dal generale, che colpisce come un tutto indiviso i sensi e l'intelletto. La ge neralità non è una forma separata e dotata di esistenza reale (come nel platonismo) ma neppure il prodotto di una ragione compiutamente svi luppata che astrae la forma dai dati sensibili (come nell'aristotelismo) , è innanzitutto il modo in cui una mente corporea, non ancora giunta alla chiarezza del concetto, si rapporta conoscitivamente al mondo. Genera le e particolare sono dunque concetti relativi, che possono definirsi tali solo in riferimento a stadi specifici dello sviluppo intellettuale (cfr. ivi, p. 135) . Come per il bambino di Piaget ogni lumaca incontrata è percetti vamente la Lumaca, ovvero il particolare è l'universale, così il bambino di Herder (1881, p. 251) ama generalizzare l'esperienza singolare, una so la percezione sensibile basta cioè a formare un concetto specifico, prag maticamente efficace sebbene cognitivamente provvisorio: Quando vede un elefante, crede di averli visti tutti; l'individuo, con tutte le sue particolarità, diviene per lui il tipo della specie. Se l'elefante era grigio allora tut ti gli elefanti devono essere grigi, fino a quando non sente o non legge che esi stono anche elefanti bianchi.
N on più risultato di una collezione di particolari, come nella concezione induttivistica di Locke, per Herder il prodotto dell'astrazione estetica (e poi linguistica) è il tipo, il quale, diversamente dall'essenza nominale, re sta riferito alla singola esperienza, che però viene investita di una funzio ne di esemplarità che fa del tipo il rappresentante della specie. La gene ralità del tipo si differenzia dalla generalità logica perché l'esempio è sen sibile senza essere distinto, si riferisce all'esistenza e non all'essenza.
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Qui la prospettiva di Herder tende ancora una volta ad avvicinarsi a Leibniz , che aveva riconosciuto nella mente non ancora giunta alla ma turità dell'elaborazione concettuale la tendenza a cogliere la realtà «at traverso schemi largamente comprensivi» (Gensini, 1997, p. 63) , docu mentati dalla frequenza di termini generali, come " cosa " , "pianta" , " ani male" . Le prime parole sono legate a un'imperfetta capacità di conosce re. Le designazioni generali precedono nel bambino quelle particolari e concrete e ogni procedimento astrattivo fino al pensiero libero si confi gura come un progressivo passaggio non dal particolare all'universale, come vuole Locke, ma dall'indeterminato al sempre più determinato. Questo passaggio può compiersi solo in virtù della condensazione del molteplice attorno a un " carattere evocatore" , un segno, quale mezzo in dispensabile alla formazione di livelli di generalità sempre più distanti dal pensiero concreto e dunque sempre più determinati concettualmen te (Herder, r88r, p. 250) : Forse che l'uomo ha come prima cosa attribuito a ciascun individuo il suo no me? Data la somiglianza dei suoi membri, avrà chiamato l'insieme con un nome unico: pecore, alberi, stelle; ha visto il singolo nell'universale [ . . . ] . Così è nata la lingua umana; essa è piena di termini generali che solo col tempo sono stati par ticolarizzati, di molti che ancora non lo sono, e di alcuni che non possono né po tranno esserlo mai. Davanti a un albero per l'uomo era più facile pron unciare la parola albero che non indicare ciascuna particolare specie di albero.
La condizione del linguaggio è un sapere estetico, un sapere vago che pro prio perché indeterminato preserva la sensatezza del nostro parlare e co noscere dallo scetticismo gnoseologico che minacciava la dottrina lockia na delle essenze nominali. Proprio tale minaccia aveva spinto Leibniz, nel tentativo di salvare lo statuto antologico delle idee, a riproporre contro la tesi lockiana dell'arbitrarietà delle essenze nominali la distinzione tra piano delle essenze o idee (dei pensieri possibili) , da cui l'arbitrarietà re sta esclusa, e piano dell'esistenza o dei concetti (dei pensieri pensati) , ar bitrari perché di natura storica e non logico-metafisica, al cui interno gli aspetti motivazionali, e dunque non-arbitrari, venivano rintracciati - co me abbiamo visto - nella dimensione emotiva e affettiva, dunque non-ra zionale, dell'esperienza. Herder cerca invece un ancoraggio all'interno della sola dimensione dell'esistenza e della storia, e lo fa ponendosi non sul piano del pensato, ma su quello del pensare e delle sue radici, non sul piano della rappresentazione in quanto oggetto mentale, ma su quello dell'attività di rappresentazione che origina dalla relazione estetica, ov vero sensibile e corporea col mondo, e procede per stadi successivi di ar ticolazione dell'esperienza. Decisivo è in questo processo l'intervento del 147
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segno come mezzo per indirizzare e dare coerenza allo svolgimento dei processi psichici attraverso i diversi stadi del loro sviluppo. Nella Metakritik si compie così un decisivo passaggio da una seman tica rappresentazionale - come era ancora in parte quella lockiana, dove il significato è costituito dal riferimento " uno a uno " tra il segno e l'idea relativa - a una semantica operazionale. n problema che sollecita questa soluzione risiede nell'analisi della dottrina dello schematismo. Kant, con la distinzione tra schematismo trascendentale (relativo alla questione del la mediazione tra forma e materia) e schematismo empirico (riferito al rapporto fra un universale e il particolare) , era tornato a proporre una duplicazione di livelli in qualche modo simile a quella sostenuta da Leib niz con la distinzione tra ordine metafisica (delle idee) e ordine storico (dei pensieri) . E se il problema del significato si pone in Leibniz soltanto sul piano dei pensieri (nozioni attuali sulle cose: cfr. Gensini, 1997, p. 57) , analogamente in Kant tracce di una teoria semantica possono essere cer cate solo all'interno della dottrina dello schematismo empirico. Sul pia no dello schematismo trascendentale, infatti, le categorie - non essendo tanto funzioni di identificazione di oggetti particolari quanto condizioni di possibilità della conoscenza in generale - non hanno un significato, ma solo rendono possibile il significato dei concetti empirici. Di qui i tenta tivi di interpretare il significato logico delle categorie come una sorta di grammatica della ragione o grammatica trascendentale (Simon, 1972) . Di versamente, lo schematismo dei concetti empirici nasce da un problema analogo a quello della possibilità mentale dei concetti generali discusso da Locke e Berkeley, e simile alla soluzione di Locke è quella di Kant: lo schema - come l'essenza nominale, risultato dell'astrazione in Locke può mediare fra particolare e universale in quanto rappresentazione di una classe di percezioni depurata dalle loro connotazioni percettive (cfr. Formigari, 1994, p. 21) . Lo schema kantiano appare allora una versione so fisticata della concezione secentesca dell'idea come mediazione tra la pa rola e la cosa (cfr. Herder, 1881, pp. 113 ss. ; per un'analisi più particolareg giata Tani, 2ooo, pp. 152 ss. ) . Herder (1881, p. 114) respinge l a possibilità stessa d i una rappresen tazione mentale sul tipo dello schema kantiano, un'immagine priva di ogni elemento percettivo e come tale rappresentativa di tutta una classe, «un triangolo che rappresenterebbe tutte le figure triangolari [ .. .] un ca ne che rappresenterebbe tutte le figure canine»: Se pensiamo un caso che ricada sotto una regola, per esempio un triangolo, lo pensiamo quale esso appare ai nostri sensi; quando mi accorgo che si sta par lando di un triangolo rettangolo, allora, se per caso in precedenza ne avevo pen sato uno equilatero, sono costretto a cambiare immagine.
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L'elemento decisivo che mette in relazione il particolare e l'universale è la parola. Come già per Leibniz, anche per Herder il simbolo non è un rivestimento accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed es senziale. Non serve a comunicare un contenuto concettuale già dato ma è lo strumento attraverso il quale quello stesso contenuto viene pensato. Per questo il concetto, la parola e la cosa vanno rigorosamente distinti; la parola non ha alcuna valenza rappresentazionale nel senso di "stare per" l'idea o l'immagine ma ha la funzione di tenere aperto il rimando alla cosa e di agevolare la formazione del concetto (ivi, pp. 109-10) : Il nostro concetto non produce la cosa, né sul piano del possibile, né su quello del reale; è solo una notizia di essa quale ci è dato di averne, secondo il nostro intelletto e i nostri organi. Tanto meno la produce la parola, alla quale spetta so lo di sollecitarci alla conoscenza della cosa, di conservarne e riprodurne il con cetto; anche concetto e parola non sono dunque lo stesso. Questa può solo ac cennare a quello, non può mai diventarne la copia. Si inganna di gran lunga co lui che si avvezza alle formule convinto di possedere così i concetti; o ai concet ti convinto di possedere la cosa; o chi confonde tutto questo e ritiene che le pa role rappresentino concetti dell'intelletto.
La sfera intensionale e la sfera estensionale non possono essere sovrap poste, significato e verità vanno distinti. La parola media fra sensibilità e intelletto non soltanto dal punto di vista genetico, in quanto produ zione di un livello di generalità intermedio, condizionato dall'attività sin tetica dei sensi e condizionante la formazione del concetto, ma anche dal punto di vista funzionale, perché opera secondo due differenti direzio ni: denotativa e ideazionale. La parola dunque media tra particolare e universale. E dal momento che la lingua fornisce anche le strutture co gnitive con cui diamo forma ai nostri pensieri, l'intera dottrina dello schematismo si trova a essere linguisticamente trasformata. Tuttavia la schematizzazione linguistica - sia quella tra particolare e universale sia quella tra forma e materia - è sempre una schematizzazione di secondo livello, un metaschematismo condizionato da generalizzazioni di natura percettiva e da schemi di tipo corporeo. La teoria del significato di Herder si delinea allora con più chiarez za. Se esso non coincide con l'idea non si identifica neanche con il rife rimento , non è né l'universale determinato del concetto, né il particola re determinato dell'oggetto. Neppure si risolve però nella trama delle re lazioni che i segni intrattengono nella lingua, intesa come sistema for male autonomo, secondo la concezione oggettivistica del significato cui può essere in qualche modo ricondotta la prospettiva di Leibniz (cfr. Gensini, 1997, p. 69) . Herder non appartiene alla tradizione oggettivisti149
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ca della semantica per cui le espressioni linguistiche si riferiscono diret tamente al mondo, indipendentemente dalla comprensione umana. Non si dà alcuna corrispondenza univoca tra la parola e la cosa o tra la paro la e il concetto. n segno linguistico condensa in sé, di volta in volta, i trat ti semantici selezionati dai parlanti in quanto rilevanti rispetto a certi fi ni comunicativi. Fra intensionalità ed estensionalità del segno linguisti co sta l'intenzionalità del parlante. L' attività semantica implica cioè l'in tervento della mente individuale, che sola consente di specificare e de terminare nella prassi linguistica l'indeterminatezza semantica della pa rola. Come per Leibniz, il piano linguistico acquista qui una sua specifi cità rispetto al piano logico perché la parola resta distinta dal concetto e tuttavia essa conserva, come in Locke, una valenza psicologica proprio perché la funzione sintetica assegnata alla parola non ha niente di stabi le e separato dall'attività mentale, è una prassi finalizzata al controllo del pensiero e della comunicazione. La parola è espressione di un obiettivo che sottende l'intelletto umano, che parla «perché si vedano le cose ed esso stesso sia percepito» (Herder, I88I, p. 125 ) . n problema dell'antipsi cologismo leibniziano si dissolve: la semanticità delle parole è data dalla loro fondamentale capacità di suggerire la formazione di un concetto e di consentire il riferimento alle cose. E le parole possono svolgere que sta duplice funzione proprio perché affondano le radici nella primaria interazione corporea con il mondo. La generale esigenza di riforma del sapere che animava la riflessione del giovane Herder trova allora compimento in una soluzione pragmati co-funzionale della vecchia questione cratilea, che nella ricerca di una conciliazione ispirata a Kant chiama in causa sia Leibniz che Locke. Quanto egli accoglie di Leibniz non è certo la fondazione metafisica, l'i dea cioè dell'esistenza di universali che precedono la formazione delle rappresentazioni empiriche: un'idea che Herder torna a respingere nel la sua formulazione più aggiornata, quella offerta dal trascendentalismo di Kant. È piuttosto l'antropologia leibniziana, quella ricomposizione della dicotomia tra sensibilità e intelletto, che gli consente di ripensare la relazione tra particolare e universale in termini diversi dall'empirismo lockiano e dalla sua ripresa nella dottrina dello schematismo empirico. Ma l'adozione di un orientamento psicologico-genetico avvicina Herder, in definitiva, più a Locke che a Leibniz. Sarà Humboldt, nella ripresa di questo modello conciliativo, ad assumere un punto di vista più marcata mente leibniziano, recuperando nel progetto della trasformazione lin guistica del trascendentale l'interesse primario di Leibniz per le lingue e la semantica storica . La trasformazione psicologico-genetica del tra scendentale, il progetto di Herder, prenderà un'altra strada, quella che porterà alla nascita della psicologia tedesca dell'Ottocento.
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TAN I
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Spirai Lines: Aspects of Leibniz' Language Philosophy and Semiotics by Klaus Dutz
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Prelude
It is almost impossible to read a study either on the history of semiotics or on the history of linguistics (or language philosophy) and not to find therein a honourable mention of Gottfried Wilhelm Leibniz and his thought . This tendency even seems to have increased in the last years 1• If one looks closer at these references, there are some difficulties to find anything more than the usual standard propositions about Leibniz , mostly taken from earlier surveys which already took their valuation from tradition as well. It could be a historiographically tempting task to reconstruct the ways which the opinions about Leibniz took during dif ferent centuries and how they were instrumentalized . This kind of 're ception research' \ in the case of Leibniz, is a desideratum stili more so because of the number of existing 'surface' descriptions. In the matter of Leibniz ' own work, to take the other way, we might decide to 'peel the orange' an d h ave a closer look on wha t Leibniz in /act has w ritten himself. An d not only this. Reconstructing the circumstances and the contexts in which he had written the one or the other theoreti cal study also means that we might get a more extensive view on the fune don and reason, why Leibniz is reflecting about such problems in such frames. In particular, in his case this reconstruction is methodologically intricate. Besides taking the well-known and often cited statements about 'signs' and 'language' into account - which, taken out of the con text, give not much more than 'everyday's knowledge' of his own time we should ask ourselves how his arguments may be embedded (and un derstood) in their entirety into Leibnizian thought. If we look at the subject from another different side, we notice that in case of 'semiotics' 3 there is an often told , long history of 'semiotical' thinking. Besides actual reasons, every science is writing its own legiti mative history, as goes without saying4• The number of more or less dif ferent histories, introductions and classifications (of signs) is nearly un-
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KLAUS D U TZ
countable. Parallel to this one might feel that the definition of the 'object' of the science in question was left aside. Notwithstanding that there are semiotical surveys about very different frames: language, behaviour, cin ema, plays, communication in its broadest sense, and so on. There are, of course, some epistemologica! studies , touching knowledge and under standing from a semiotic standpoint. Nothing less than the number of replies we find to the question 'how' an object of consideration (Betrach tung in a philosophical sense) becomes a semiotic(al) object 5• This ques tion is not as na'ive as it sounds. Designating an object of consideration requires a definition of this object in its own frame. It does not suffice to cali an object a 'sign', based on the methodological definition of consid eration to make it an object of semiotics - although this is often done. To define an object of consideration in the frame of semiotics means to give the aims, in which this semiotic view is productive for a certain aim. And this must not be a 'semiotic aim' at all 6• The present essay is meant to pro pose some steps into this direction, starting from some observations in physics and human perception and comparing it with Leibnizian think ing, which may lead us to certain different opinions about what possibly are reason an d content of a reconstructed semiotics an d language philoso phy in Leibniz. On this walk I shall also touch some aspects of 'semiotic' creativity an d 'innovation' in semiotics 7• 2
Perceptions
Let us start with an everyday phenomenon. Remember the jocular ques tion why in the reflection of a mirror 'right' and 'left' are interchanged, and 'up' and 'down' are not. The optic-physiological explanation is sim ple. The mirror simply acts representationally correct. But what about the picture in the mirror one sees? There is your face, and you lift your left hand to touch the left cheek. The mirror image lifts its right hand to touch its right cheek - only that the right cheek an d the right han d seem to look like your own left counterparts . Obviously, there is a cognitive shift in recognizing your own image, on the one hand, and to notice an image acting somewhat similar, but differently, on the other hand. It is a question of everyday multiple perception. We usually name a mirror im age side-inverted 8• More specifically, humans looking into a mirror per ceive the image reconstructing the correct allocation of the side, side-cor rect ( ' seiten richtig' ) , by a mental operation, while the mirror physically is side-correct ( 'seiten richtig ' ) . The necessary coordination of hand, eye and perception is, in everyday's phenomenology, trivial and is learned in early youth 9.
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So why bother about this? Just because within this example we are moving ourselves inside of a 'semiotical room' . There is reception of a 'something' , there are the conditions of the reception, it follows the in terpretation of the something observed and, finally, the designation of the observed something. It may be asked what was observed, but more over, the being what which was observed . Which relevance does remain to com mon words like 'right' or 'left' (semiotically speaking) in front of this back ground? Obviously both expressions refer under different points of view differently in reception. Obviously we do not accept the consequence that both designata had different objects of reference, respectively: "entia non sunt multiplicanda sin e ratione " . I t seems to be a given fact of ho mogenising to use 'left' and 'right' in reference to situational and cogni tive circumstances 10 • This was observed by Leibniz (GP II, p. n2) n, too: Une chase exprime une autre larsqu 'il y a un rappart canstant et réglé entre ce qui se peut dire de l'une et de l'autre. C'est ainsi qu'une prajectian de perspec tive exprime san géamétral. L'expression est cammune à tautes les farmes , et c'est un genre dant la perceptian naturelle, le sentiment animai, et la cannais sance intellectuel san de espèces.
Of course, Leibniz had more in mind when writing this to Antoine Arnauld (1612-1694) in 1687, and I shall return to this more explicitly below. Let us keep in mind that our 'left'/'right' example serves only as an initial expla nation, pars pro toto, of the frame of my considerations. It goes without say ing that phenomena in physiology of perception ( "wahrnehmungsphysio logische Phanomene" ) form a relevant part not only of everyday life, but have structural qualities, which may be transferred to a methodological study in the historiography of semiotics - and linguistics as well. We have to recall that belonging to such aspects there are other physi cal 'trivialities' 12 which, put into the structure of physics, give a different point of view on "toutes les formes " . In physics, reference to locus, di rection and velocity in movement is relative in aspect, becoming only meaningful within a defined reference system . Accelerations are treated as absolute because they may be neutral in respect to the reference sys tem. The same holds for in physiological perception, there also are 'ab salute' and 'relative' aspects: the input of retinal data into the organism is 'relative' at first hand (cf. Bischof, 1974, p. 310) and becomes 'absolute' because of the perceived difference between physiological perception and 'absolute notional sphere' ( "Anschauungswelt " ) . In turn, it finally becomes 'relative' phenomenologically 13• H the reader asks himself here about the connection to semiotics and Leibniz: it is the structure and not the singular fact which makes these arguments valid, an d I shall return to similar structures in the following sections, when necessary. 157
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The Semiotic Object
Let me first raise the question, how 'innovations' in the history of sign theory may be described subsequently: in a reconstructive, in a historio graphical, or in an analogizing way 14• H. Walter Schmitz (1989, p. 9) took the opportunity of a hidden introduction to make the points ( "Teilex plikationen " ) clear from his point of view: " 'Entstehung einer wis senschaftlichen Tatsache', 'Entstehung und Entwicklung von Neuem' , 'Kontinuitat und Diskontinuitat' , 'Hypothesenbildung und Induktion' " . And he continues on thematical topics (Schmitz, 1989, p . Io) : r. Bedingungen , Formen und Elemente innovatorischer Konzeptualisierung oder Theoriebildung in der Geschichte der Reflexion iiber Zeichen. - Es steht hier die innovatorische wissenschaftliche Arbeit von Zeichentheoretikern im Mittel punkt; und in makroskopischer Perspektive zudem umfassen dere Entwick lungsperioden der Wissenschaftsgeschichte, in denen es Bedingungen und For men von Innovationen, Diskontinuitaten, Theorieschiiben etc. aufzuspiiren gilt.
I assume this is possible, I doubt whether the necessary methodological tools are already at our hands. A description of 'innovation' at a certain stage of development implies necessarily the description of the state of knowledge before. Both (then later) the hypotheticaliy 'innovated' state of the conscience of theory and its preceding one have to be comprehended in contrast and/or comparison by means of contemporary theories on the subject: one may compare the standards of today with that of the earlier period in question, one may, on the other hand, contrast the former con ception with the present one(s) . Therefore, inevitably, you need to take at least three parameters into regard: the state of theorizing in modern time, the second state from which you start the comparison, and the third state of theory which presumably contains the so-called innovation 1 5• These aspects imply questions which are not as simple to reply to as they might sound. The description of earlier stages of development in sign theory stili has its deficits , although certain steps have been made in the last years 16, moreover, we fin d even more deficits in the development of a 'metahistoriographical' methodology, which takes its steps into the direction of giving inter-subjective criteria of reconstruction and rein terpretation of historiographical data in semiotics . One of the stili unsolved aspects in this frames is undoubtly the de finition of a 'semiotic object' in historiography of the science itself. This term, for some scientists a delicate one, to others a 'trivial' expression, should not be mixed with the well-known French formulation objet
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sémiotique. A 'semiotic object' needs its expianation within an epistemic frame. This means that there is an epistemic presupposition to take the ' object' being created by the shape of examination ( " Betrachtungs /orm " ) at the time. Even on the basic, chronoiogicai ievel 1 7 semiotic-historicai 'facts' are not facts of existence ( "Existenzfakten" ) but facts of relevance ( "Relevanzfakten " : Dutz, 198 8 , pp. 30-1) . Concerning "semioti cai representation " , Gerhardus and Philippi (1980) take a similar view 18• The research interests mirror themselves in the results of the survey. Therefore historiographicai reconstruction impiies necessarily an inter pretation of the data in survey19, changing the data via interpretation into /acta 20• lt may be argued that this discussion Iies somewhat 'outside' of common deliberations in sign-theory, but if we want to avoid arbitrary constitutionalizing of the objects of research in semiotics (and, especially, in the historiography of semiotics) , we h ave t o fin d methodoiogically sufficient frames to soive these probiems. The selected frame here is dose to the epistemic thought of Roderick Milton Chishoim, though it is no t fully congruent with it 21 • Present conceptions of 'reconstructing' and 'interpreting' estimateci sign-theories in previous times naturally orient themselves on the ground of research (an d presentation) interests 22• They are mostly directed to domains where there aiready is a reconstructive defined starting-point or a certain tradition is to be continued. If we Iook at these spheres more closely, we predominantly find the discussion of topics in the frame of Iinguistics and/or semiotics. Treating 'Ianguage(s) ' or 'signs' starting from Iinguistics into the direction of semiotics, impiicitly Ieads to iden tz/y the object of observation and the ground or reason of observation. At first han d, there seems to be no methodoiogicai ground to Iook at the objects of semiotics differently, if they are aiready defined on a declared basic Ievel. This may expiain why the question concerning the 'semiotic object' seldom is asked explicitly 23. Therefore it is tempting to change the 'piayground' of consideration an d scientific objects into the direction of natural science an d phiiosophy. If the often declared generai assumption of semiotics to be a science 'above sciences' is justified, then we can just put the question about the 'semiotic object' onto such a touchstone as well 24• There is not much rele vance to ask whether sign-theoretic conceptions existed before Locke, Peirce and Saussure or not. Surely they did. But what were the data dis cussed in the past and interpreted in certain way so that a modern semi otician may declare them to be 'semioticai facta' or 'semioticai objects '? Often overlooked is the frame in which Locke in his Essay Concerning Human Understanding (IV 21, 4) called Oll�ELWtlX'rl ( "or the doctrine of signs" ) in his generai divisi on of sciences as one of the three main parts 159
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of science. For Locke, semiotics stili remains an equivalent of logic. Leib niz (NE IV, XXI 1, pp. 521 ff.) agrees, but takes the term itself somewhat dif ferently 25. At this point of discussion we may already see that the defini tion of a 'semiotic object' depends on a theory-guided process, a 'semi otic factum' owes its existence to scientific consideration and reflection of the individuai scientist or the schooi of scientists in question . A science of semiotics referring to the above-mentioned scientific generai assumption is forced to declare the totality of sign-declarative processes its own profession, or it has to regulate that the methodoiogical and systematic search for gaining the object of knowiedge in this specific science is specifically irrelevant. Both aspects are nonsense in consequence: 'semiotic study' wouid have to be biamed for esoteric self-sufficiency26. 4
'Creative Physics': The Coriolis-Effect
In 1835 the French mathematician, physician and Iand surveyor Gaspard Gustave de Corioiis (1792-1843) pubiished his theory on the behaviour of manoeuvrable substances on rotating surfaces 27. Centrai to his consid erations is the finding that a body moving in relation to a rotating system of co-ordinates underlies an apparent acceleration, which is to be deter mined verticaliy to its own trajectory and in respect to the axis of rota tion. Now the surface of the earth, our common frame of experience, is likewise a rotating ellipsoid and forms a system of co-ordinates. If we drop a thing, therefore it deviates from the estimateci verticai gravita tionai line before it impinges on the ground 28. The 'Coriolis -/orce' , as this effect is named by its seeming conse quence, belongs together with the centrifugai force to the group of in ertia forces. Inertia forces are oniy describabie in respect to a certain sys tem of co-ordination, they are relative forces , and they are indescribabie in other frames of reference. Rea! inertiai systems are factualiy impossi bie to find within our human experience, because we aiways are depend ent on rotating systems of co-ordination 29. One of the most common experiences of inertia force is made when whiie driving a car the brakes suddenly are applied. The car stops and the passengers stili move on rectilinear and steadily. Every passenger feels a certain force pressing him forward. But for an observer there is no such negative acceieration on the passengers, because no additional energy is needed that they stili move on . Reason is that the car effects mechanical forces (applying the brakes) by putting energy into its own system of co-ordination (in fact, Ieaving the old one) , while the passen gers stili remain in the oid one. So there is no real inertial /orce? 30 160
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FIGURE 1
Calculation of the Coriolis-/orce
y = ra =
vt � wt
Source: Gerthsen, Vogel (1993) , p. 50.
Specimens of the Coriolis-force are not experienced as directly as those of the inertia force, but they are constantly present. One phenomenon is the seeming deviation from trajectories (of bullets, planes, rockets, ballistic curves), rotating sun-spots, galaxies, which often form spiral-like forms, and most well-known, the apposite left- or right-spin trajectories of the monsoon winds. The spin of water in the drain (left-spin on the northern hemisphere, right-spin on the other) forms another example. The reason behind is, again, that the object - bullet, rocket, wind or water - in its in ertial frame (non -accelerated rectilinear and steady moving) leaves the sys tem of co-ordination of the rotating earth (a non-inertial frame) and acts as if underlying an additional 'force' . To every physical body moving within a rotating frame of reference - that is, when you watch it from a standpoint within this frame - such a Coriolis-force is effective. It is vertical to the direction of the axis of rotation and also vertical to the velocity. On our rotating earth (being an ellipsoid) the Coriolis-force generally has a vertical and a horizontal factor. Observed at the surface, at the geographical poles it effects only horizontally, at the equatorial zone only radially (and becomes rectilinear with the centrifugai force) . The horizontal component causes to ali moving bodies in the northern hemisphere a deviation to the right, and to the left in the southern hemisphere 31 • Ian Hacking (198 5) gives an impressive example to show that also the Coriolis-force is no real force. Imagine two persons, A and B, standing on a moving carousel . Another person, C, stands in front, on 'solid ground ' , and watches both A and B. Now A changes his position from the inner circle to the periphery of the platform. For C the (relative) ve locity of A grows: he accelerates. For B, being on the same platform, but
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stili in the inner circle, Ns velocity remains unchanged, oniy Ns position changed. Therefore the Iinear velocity of A has expanded, although the carousel has not changed its rotating speed. This is observed by C, who has not changed his system of co-ordination. To B, on the other hand, whose Iinear velocity has not increased (for C) and who is stili on the same piace of the piatform, nothing has changed with A. For B, A stili is not moving - after A has finished his moves to the periphery of the piat form, of course - in respect to his frame of reference 32• So there is no Corioiis-force at ali? 33 In the frame of conservative N ewtonian mechanics there may be given good reasons for this. Since the 'force' has no cause, it finally cannot produce an effect, causa aequat ef/ectum 34• Newton's mechanics starts with the description of non-moving substances which in an inertial condition are exposed to an additionai 'force' an d start moving then. The acceptance of a Coriolis-force impiies the conception of rotating bodies. Therefore this 'force' belongs to the group of so-called pseudo-forces - seen from the Newtonian point of view. It is because their effect, strictly speaking, is nothing else but the inertial momentum in equivalent to the mass of the body - in reference to the rotating movement of the system of co-ordina tion. A moment of inertia is not a force, it is treated as a 'pseudo-force' . In front of the background of this limitation the question immediately ap pears on the difference between 'reai' and 'fictive' forces. Remember that our discussion of structures in physics has oniy ex pianatory reason. Indeed, here again we face a semiotic probiem: the ex perience of a certain deviation of a body from its reguiar pattern can be harmonized by an additionai ruie-expianatory statement, if (an d oniy if) we can proof that exactly this ruie-expianatory statement oniy rests on hypothesis. What is the relevance within a semiotic system when we see that this hypothesis is maintained on a 'fictive' parameter and - simulta neousiy - shows the correspondence of the fictitious statement to today's vaiid approaches to the physicai frame of the world? Ian Hacking has put quite similar considerations into his study Why Motion Is only a Well-Founded Phenomenon (198 5) , where he discusses the nexus between Leibnizian theory and the question of the epistemic status of 'motion' . His main starting-point was the Corioiis-force an d its fictivity, too. Hacking now shows that the Leibnizian thoughts about time an d space come definitely closer to modern relativistic theories than Newton's mechanics ever couid have managed. That is to say, time and space in Leibniz are 'pseudo-reliabie' elements in physicai description. Dependent upon this the same goes for motion as well. 'Pseudo-reliabie' elements in a scientific frame are elements which do not need to have their pendants in ' reaiity' but serve as systematic constructions of ne-
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cessity in tbe system of tbougbt (cf. SD, par. 5; GM VI, p . 23 8 ) . In a certain way tbey sbare tbe role of axioms in logica! researcb. Hacking credits Leibniz for designating sucb given factors as "pbae nomena realia bene fundata " 35• His discussion refers primarily to tbe text Specimen dynamicum pro admirandis naturae legibus circa corporum vires et mutuas actiones detengendis et ad suas causas revocandis (169 5 : SD; cf. GM VI, pp . 234- 54) . In connection witb our arguments, De modo di stinguendi phaenomena realia ab imaginariis written between 1 683 and 1 6 8 5/86 (A 6, IV/2, pp . 149 8 - 504) seems to be more important. Tbere Leibniz writes (A 6, IV/2, p. 1 504) : De corporibus demonstrare possum non tantum lucem, calorem, colorem et si miles qualitates esse apparentes, sed et motum, et figuram, et extensionem. Et si quid est reale, id salurn esse vim agendi et patiendi adeoque in hoc (tanquam materia et forma) substantiam corporis consistere, guae corpora autem formam substantialem non habent, ea tantum phaenomena esse, aut saltem verorum ag gregata 36.
Following Hacking, an often used example for tbe "pbaenomena realia bene fundata" according to Leibniz ' view may be seen in tbe rainbow. One example is in tbe beginning of tbe Genera/es inquisitiones de analysi notionum et veritatum (168 6) : "Omittamus nunc quidem omnia Abstrac ta, ita ut Termini quicunque non nisi de Concretis, sive ea sint substantiae, ut Ego, sive pbaenomena, ut Iris, intelligantur" (A 6, IV h, p. 740) . A rainbow, on tbe one band, is based on tbe refraction of ligbt into its cbromatic parts (e.g. by a lens) , on tbe otber band - in a quasi Gestalt like leap - is again to be taken as bomogeneous repraesentatio 37• As is widely known, Leibniz insisted on tbe conception tbat substances bad no 'real' existence but are merely 'pbenomena' , insofar tbey are not com posed by otber components, wbicb again are composed from substan tial forms. lt was again lan Hacking w bo pointed out two quite different meanings of tbe term 'pbenomenon' . Tbe first usage is more or less pri vately bo un d an d refers especially to an individuai perceiving perso n, re ducing 'pbenomenon' t o sense-data 38• Tbe second, an d apposite, usage reflects its communicability, refers to sometbing (scientifically) remark able, or to a natural law, or to facts of tbe case including botb aspects. Tbis more commissive usage bas obviously been preferred by Leibniz . In idealistically orientated tbeories it makes some difficulties to separate between individuai and commissive usages. Tbe relation between 'pri vate' and 'generai' pbenomena appears to be dialectic: of course, ali pbenomena privately comprebended are 'pbenomena' ; simultaneously tbey are, being pbenomena, 'generai' pbenomena. In interpretation of
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Leibnizian thought we therefore may say that Leibniz referred to 'time' and 'space' as phenomena. But how may we follow the thought that, on the one hand, absalute existence of 'time' and 'space' is denied and, on the other hand, the character of these terms should be understood as based on the ground of common experience and derived from this experience? Besides this, we should refer to the conceptions of George Berkeley (1685-1753 ) . In his Treatise Concerning the Principles o/Human Knowledge (1710) , he reintroduces an epistemic argument already known to the scholastics: esse est percipi. lt can be understood as a radicalisation of sen sualism, insofar as it is asked whether sense perceptions are dependent on any 'real' objects at ali, or if the sense perception itself localizes the be ing. In a sensualism like Locke's the ground of experience always is a re lation of sense-data to the outside world . Berkeley makes clear that such a relational order is tautological: singular objects in Locke are in fact al ways singular objects perceived. Berkeley's position does not remain with out consequences for Locke's epistemology but, moreover, for the no tional foundation of physics, as MittelstraB (1980, p. 286) points out: r. Es entnillt wegen der Identifikation von 'wirklichen Dingen ' ( ''real things " ) u n d 'wahrgenommenen Dingen' ( "things that are perceived " ) ( Treatise § 8 6 ) die Unterscheidung zwischen primaren und sekundaren Qualitaten , die [ ] dazu cliente, die Rede iiber physikalische Gegenstande auch ohne Rekurs auf deren wahrgenommene Eigenschaften zu konstituieren. 2. Physikalische Grundbe griffe wie Ursache und Kraft treten, weil sie sich weder als mechanische Griin de noch als abstrakte Ideen [ ... ] formulieren lassen, als 'unklare Ideen' auf [ . ] . 3 · Newtons Begriffe eines absoluten Raumes , einer absoluten Zeit und einer ab soluten Bewegung werden kritisiert; auch Raum , Zeit und Bewegung sind blo.B 'nahegelegt' ( " only suggested " , Treatise § 43) durch kooperierende, in der Sinn lichkeit verbundene Wahrnehmungen. ...
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'Creative Geometry' ? Various Spirals
We just have seen that one main difference between the 'classic' system of Newtonian mechanics and alternative conceptions of physics in the 17th and 18th centuries is based on the presupposition of a 'resting' (in ertial) or a ' dynamic' ( rotating) initial system - for historical back ground, cf. Mainzer (1984) . Newton's famous 'proof' to show that in his physics a Coriolis-force is not deducible - which primarily was directed to show that 'gravitation' has to be taken as part of a mechanical picture of the world - will be discussed below. Let us first have a short look at a special geometrie phenomenon, the spirai and its different ways of ap pearance.
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First of all, there are not only uncountable variously formed spirals, but there are different forms of spirals, too. All spirals are piane curves, where their polar co-ordinate r is a definite function r f(cp) of the an gular size. Specimens of spirals are often found in nature: in mussel conches and in snail-shells, in receptacles of composite flowers like sun flower and daisy, in the shape of fir-cones etc. 39• If we look at different forms of spirals, we first have the involute o/ a circle. The distance be tween its whorls is always constant 40 • Secondly, we find the spira! o/ Archimedes. lt looks quite similar to the involute of a circle, but now it is described by a point which glides in constant velocity along a ray cir cling with constant angular size around the pole of co-ordination. The distance between the convolutions is constant, too, but it has to be meas ured strictly at the radius41 • The third important kind of spirai is the loga rithmic spira!. lt is also called equiangular spira! because it cuts every ra dius in the same angular. lt is the most seen shape of spirai in nature 42• =
FIGURE 2
P,
a) Involute of a circle
b) Spirai of Archimedes
c) Logarithmic spirai
The logarithmic spirai has certain characteristics which make it most in teresting for our discussion. lt is the only spirai which forms an extreme between a line and a full circle, depending whether the angle t 0 to the radius is 0° or 90°. If t 0 is approximately 74°39' , we get a logarithmic spi rai being its own involute. Generally, involutes of logarithmic spirals are logarithmic spirals again and, more generally, involutes are functions of spirals on higher level order - there are more aspects of spirals 43, but for our purposes I shall proceed to semiotically interesting applications within non-linear dynamic systems, which also leads back to the physics of inertial rotating ellipsoids . Let us therefore return to the problem of a 'semiotic factum' . We put aside the difficulty to distinguish between spirals of Archimedes and
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their involutes - as their similarity was already described above - for the present, and take a closer look at the phenomenon of logarithmic spirals. What possible semiotic reference does the designation 'logarithmic spi ral' have, if it and , simultaneously, its involute are identica! on mathe matical ground as well as in human perception ? What possibility of semiotic 'knowledge' and differentiation do we have at hand? This ques tion, please mind, does not mean that there is a divergence in the objects of reference, e.g. as it is the case in a polysemy/homophony discussion . The problem lies in the epistemic determination of an object of percep tion in frame of semiotical theories. Without doubt, there are enough different designations to different species of spirals, as there are also dif ferent words for the same kind of spirai. But as long as we do not know how the spirai in respect has been constructed, we cannot discern it from the similar (but in fact: different) object. Remember also the 'pseudo-force' named Coriolis-effect. In an every day application of signs for physical phenomena like this one, we use the designation 'force' for forces, which are not forces at ali. We use 'force' to designate phenomena of mass inertia, and we use 'spirai' to designate da ta which are at least not coherent with human capability of perception. In this the examples so far discussed fin d their common focus. An d this gives strong remembrance to Leibniz' discussion of 'identity' , especially to the principium identitatis indiscernibilium. 'ldentity' seen from the point of logic is a binary relation between two objects . lt has two aspects : reflex ivity ( "each object is identica! with itself" ) and substitutivity ( "if a and b are identica!, then each valid proposition about a is also valid about b " ) 44• There are two versions in which Leibniz takes up the idea. The first ver sion is placed in a metaphysical and ontological frame: "Car il n'y a jamais dans la nature deux Etres, qui soyent parfaitement l'un comme l'autre, et où il ne soit possible de trouver une difference interne, ou fondée sur une denomination intrinsique " (Monadologie, par. 9: GP VI, p. 6o8) 45• The second version stems from logic: "Eadem sunt [propositiones] quorum unum in alterius locum substitui potest, salva veritate, ut Trian gulum et Trilateratum, Quadrangulum et Quadrilateratum " (Specimen calculi universalis: A 6, IV h, p. 282) . Here, the substitution " salva veritate" is an important aspect of Leibniz' logica! conception and is closely connected to the principle of non-per-saltum (cf. Dutz , 1989a, pp. 224-7, for explicit discussion) . In modern discussions the principium identitatis indiscernibilium often is split into a conjunction of its two implications. Only the first implication is called 'sentence of indiscernibility' ( "what is indiscernible, is identi ca! " ) , the second one is called 'sentence of substitution ' ( "what is iden tica!, is indiscernible " ) 46• There are more implications, some of which 1 66
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are important for our question on the 'semiotic object' again, and which linger on the difference of 'strong' identity (substitutionality) an d 'weak' identity (similarity) . I shall return to this. 6
Creative Semiotics ? Leibniz'
vis viva
Especially in his discussion of Cartesian and Newtonian physics, Leib niz has developed arguments which are of certain interest to sign-the ory. Here we find two pieces which h e even published during his lifetime, Theoria motus abstracti seu Rationes motuum universales, a sensu & pha?nomenis independentes (1671) 47 an d Specimen dynamicum pro admi randis naturae legibus circa corporum vires et mutuas actiones detengendis et ad suas causas revocandis (1695) 48• In the latter study h e explicitly dis tinguishes between vis viva and vis mortua (5D, par. 6; CM VI, p. 238) : Hinc Vis quoque duplex: alia elementaris, quam et mortuam appello, quia in ea nondum existit motus, sed tantum solicitatio ad motum, [ . . . ] ; alia vero vis ordi naria est, cum motu actuali conjuncta, quam voco vivam. Et vis mortuae quidem exemplum est ipsa vis centrifuga, itemque vis gravitatis seu centripeta.
Again we come to the point where there is a division between 'absolute' and 'relative' forces, 'real' and 'fictive' substances. Obviously, Leibniz' conception of vis viva aims at 'kinetic energy' , in modern terms, i t is a limited quantity, while vis mortua is seen as elementary infinitesimal quantity, se. 'potential energy' 49• Leibniz in his discussion correctly criti cizes the positions of René Descartes (1 596-1650) and Galileo Galilei (1564-1642) and rectifies them 5 0 , but leaves open on the one side, why he wants to attribute 'realness' to the concept of vis viva, and, on the other si de, declares motion itsel/ can only be determined as phenomenon (cf. Hacking, 198 5, p. 134) . The reply to this question may again be found in the epistemic frame of his thinking concerned with 'forces' : cf. De po tentiae absolutae conservatione (?1689-90: A 6, rv/3 , p. 2078) . Just imagine the following example: bind a string around your finger, fix a weight on the other end of the string and whirl it around . We notice that the weight seemingly tugs at the finger. Commonly we cali it the cen trifugal force which makes the effect. But the weight in its trajectory can not tug at ali. In whirling it around , we have given it a linear velocity. The weight now wants to keep its inertial force and moves on rectilinear and steadily. lnstead, there is the string to which it is bound and that forces it to change its linear motion, keeping in the circle. From this follows that it accelerates from the centre of the circle (the finger) and this accelera-
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tion has to be compensated that we have to tug and not that the weight is tugging. The centrifugai force is only a hypothesis on the weight seem ingly practicing force on us 51• The only 'real' force is the force we prac tice with the finger, forcing the weight to change its direction continu ously. Centrifugai and centripeta! 'forces' are no 'reai' forces, physically. They share the fate of other 'fictional forces' like the Coriolis-'force' . Besides this statement, the pseudo-force acting o n the weight (or more exactly: on the frames of reference) is caiculable mathematically. This is Leibniz' point when he writes in Specimen dynamicum: "Quan quam non ideo velim haec Entia Mathematica reapse sic reperiri in natu ra, sed tantum ad accuratas aestimationes abstractione animi faciendas prodesse" (SD, par. 5; GM VI, p. 238) 52• So pseudo-forces do not belong to physical 'reaiity' in strict sense, they have to be understood in the Leibnizian sense of "phaenomena" . We have to be cautious here not to mix the 'modern' usage with that of our philosopher an d no t t o mingle different frames of reference ahistori cally. In Leibniz, bodies, i.e. substances underlying forces, were treated in such quaiity as bodies in the sense of phenomena. But are these the so called "phaenomena realia bene fundata " ? Leibniz' dynamic conception of substances 53 has its reason in making clear the basic terms of descrip tive mechanics evoking its foundations as science of forces. Dynamics 54 discusses a problem inaccessible to phoronomy: is motion 'real'? (Cf. for this the Erliiuterungen to SD, especially pp. 99-101.) Since motion never exists as integrai whole, only the momentary condition is 'real' 55• Ali the paradoxes discussed have one thing in common. In implying differences between experience and theoretical description, or between physical and factual perception they put in the problem of the state of the object under examination into a semiotical point of view. Seen from sign-theory, obviously experiences of pseudo-forces must 'exist' (in a broad sense of the word) , there is a phenomenological divisi on on dif ferences between 'existing' spirais mathematically no t provable, an d spi rals mathematicaily provable but not to be experienced semiotically. To fancy a harsh consequence: are 'signs' perhaps only "phaenomena realia bene fundata " ? Did Leibniz in his differentiation between realia in fac to and realia in sensu anticipate a distinguishing element, which may be virulent to the understanding of sign-theories? It may be, and it may be not. If we follow some of the strong hints concerning Peirce's sign-theory with its affinity to describe models of mental processes, one is tempted to read from modern semiotical con ceptions the interpretation of 'sign(s) ' not as part of realia in facto but as cognitive quantities - but there are nearly as many proofs that i t is ex actly the other way around. This is a difficult starting-point for the his-
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toriographer of semiotics. Further on it is necessary to remember that Leibniz made his discussions in the frame of his time. Therefore the transfer of Leibnizian thought on "phaenomena realia bene fundata" to sign-theoretical problems runs danger to be disqualified as a conse quence of analogia. Despite this obvious difficulty, it is most interesting to look at the methodological situation of Leibniz and compare it with the one of today's historiography of semiotics, keeping in mind that ex actly within reconstruction of former sign-theoretical constructions the problematic question of reason and effect is inherent and can be solved at best in interpretation . The example of the controversy between Descartes , Leibniz and N ewton shows that possible physics is dependent on the interpretational frame attached to the question, but also asking these questions is a re sult of the view on the section of the systems of co-ordination ( "Weltan sichten" ) guided by theoretical reflection. Leibniz' critique of the non epistemic, non-metaphysical physics of his time impressingly shows this methodological glass bead game. - There is another important aspect: from Leibniz we can take the argument that objects of our observation do not have to be necessarily 'real' to become part of a theory to be de veloped . Contrary, a scientific theory has to maintain its inner complete ness and its consistency being non-contradictive. In a science like semi otics completeness involves the implements of Coriolis-like elements, but consistency then implies to formulate a frame in which semiotics itself is embedded. And it is tempting to ask whether metaphysics in its strict Leibnizian sense may serve as such a frame, as it did in Leibniz' discus sion on mechanics and dynamics. lt is tempting as well to read in the con ception of phaenomena a way out of one semiotic dilemma which is the need to fulfil exposures only explicable (as phenomenon) in the frame of the theory in respect, on the one hand, or on the other hand to make re course to pre-theoretical presuppositions, introducing arguments alien to the theoretical structure 56• But t o this, we receive just another advice in looking at Leibniz' principium identitatis indiscernibilium. As we have seen above, it is modern practice to split the sentence of non-discernibility into two implications. But there is another way out of the problem which already is inherent in Leibniz' formula. We can make partial identities logically equivalent if we define a frame of propositions according to a certain bivalent relation R. If by xRy follows P(x) ._ P(y) generally, proposition P is invariant in respect to R. If we are using only R invariant propositions, a transfer via abstraction from originai (concrete) objects to new (abstract) objects is possible 57• lt may be clear that before we make any logica! examination of identities the procedures to form the frames of co-ordination have to be discussed (Lorenz, 1984, p. 191) :
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Um zu klaren, was es heillt, einen Gegenstand zu erkennen oder wiederzuer kennen, insbesondere einen Gegenstand - bestimmt oder unbestimmt - be nennen zu konnen , [ ... ] ist die Gliederung von Gegenstandsbereichen in ein zelne identifizierbare Einheiten [ . . . ] erforderlich. Nur so la.Bt sich die von G. Frege [ ] in die moderne Diskussion eingefiihrte Unterscheidung zwischen ei nem Gegenstand und der Art seines Gegebenseins [ . ] und damit auch zwi schen Aussagen (bloB) ii ber einen Gegenstand und die Art seines Gegebenseins (z.B. in epistemischen Aussagen [ . ] ) vollziehen. ...
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6.1. Coda: The Semiotical Object Revised
Besides theoretical reflexion it seems to be appropriate to exemplify some aspects of the discussion above. Remember the discussion on spirals . We meet spirals also in our uni verse in the shape of many galaxies. Their arms appear to come dose to logarithmic spirals, and spirals are asymmetrically organized, i.e. there is, theoretically speaking, always a possible side-inverted pendant of a specimen. Remember the consideration on the image of a mirror and the latera! difference between direction of perception and direction of re flection . Therefore, a spiral-like galaxy may be seen like rotating clock wise or counter-clockwise. Imagine, we have contacted another inhab ited planet, have learned each other's language more or less, and so on, that at first sight the other planet seems to be an equivalent of the earth. Besides one aspect: the species on this planet is not able to watch sky an d stars directly and therefore has a very different kind of astronomy. If we now send a message like "The spirai nebula NGC 5194 owns, seen from our earth, two spirai arms rotating clockwise (in right-spin) from inside to the outside" , for obvious reasons the reply will be "What does 'clock wise' ('right-spin', respectively) mean ? " . The astronomer on the other planet wants to be sure not to report the galaxy side-invertedly. lt was the starting condition that there is no simultaneous observation of a physical fact in respect to the two planets, as it may go without saying in a factual connection with interstellar life-forms . lnevitably, there is no possibility t o transfer the meaning of 'right' or 'clockwise' t o the other planet 58• Do w e h ave t o talk with the inhabitants of the other planet about "phaenomena realia bene fundata" ? Problems of this kind are not solely problems of natura! science. In these, observation and theorizing requires an a priori definition of the frame of reference, the system of co-ordinates, the explanation of ex perimental prerequisites etc. lt is the object of semiotics - at least, it should be - to transcend the frame of references . Sign-theoretical ob servations happen not only in circles of quasi-experiments, but always 170
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direct themselves (more or less outspoken) on the frames themselves. What is the frame of a frame for the science of signs? 59 When Isaac Newton wanted to proof that 'space' is absolute, being no relative quantity, he used the famous 'bucket-experiment' . The prob lem to be solved was that to each frame of reference being in motion, a resting point of observation may theoretically be supposed . This implies the possibility of motion being 'relative' - an d time an d space together with it, too. Newton was looking for a system of co-ordinates in which only the hypothesis of an 'absolute' space would be coherent. The ex periment went as follows : Newton filled a bucket partly with water and fixed it to a rope hanging from the ceiling. Then he winded up the rope in vertical axis 60 • Next he released the bucket and it started to rotate in vertical axis . With a certain retard, the water started to rotate, too. In this, the level of water rose at the rim of the bucket and sank in the cen tre. If one stops the bucket then, as Newton did, the water keeps on ro tating for a longer while. lt is the well-known inertial effect shown here. Following Newton, the concavely curvatured surface of the water ex emplifies the rotation of the water against the absolute space. George Berkeley, as seen above, criticized Newton's deduction heavily 6 1 • But this long-time falsified experiment gives us the frame of a 'semi otic' reflection. Let us imagine a water-flea in the water, equipped with outstanding intelligence. This water-flea now could insist on the fact that in his 'universe' (the bucket) the water is driven to the edges by a mys terious 'force' , so that the plain surface gets a curvature but stands stili from its point of view. Moreover, the bucket , usually keeping in rest, suddenly is rotating to him. To the water-flea the inertial force becomes centrifugai force. Being a little astronomer, it observes the stars rotating in the sky and concludes that they simultaneously attract the water so that it rises at the edges. The water-flea went into the Newtonian trap, but the other way around than it was expected in the experiment. 7
Towards a Semiotical Object in Leibniz: Walking in a Historiographical Labyrinth
As we have seen already (cf. supra, SECTIO� 2) , there is a certain con nection with the term " expressio" an d what is thought t o be the key t o a Leibnizian semiotics. We may take a look at certain most prominent passages in Leibniz, concerning the definition of a sign 6\ together with a few short comments. There we find: "Exprimere aliquam rem dicitur illud in quo habentur habitudines, quae habitudinibus rei exprimendae respondent " (Quid sit idea, 1677: A 6, IV/2, p. 1370) . 171
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This often cited passage concentrates on habitudo and leaves the question why in sign-theory there is no discussion about this term. And more, "exprimere " does not name a t first hand a sign-function 63• Some more theoretical steps would be necessary to see h ere a starting-point for somewhat 'cognitive semiotics' . One who tries t o take one of these steps is Winfried Noth (2ooo, p. 17) : "Was Leibniz mit diesen Gedanken der Korrelation zwischen Diskurs und Weltstruktur meint, ist das, was Peirce spater als diagrammatische Ikonizitat definiert " . But Noth, mainly referring t o Poser (1979 ) , does not take the step into the discussion why here, at least, there is only sign-/unction and not sign-definition in Leibniz. And he keeps to Poser, when he writes (N 6th, 2000, p . 17) : [D] ie tiefere Ursache fiir die Ikonizitat, die sich nach Leibniz in den Strukturen des rationalen Diskurses zeigt, liegt in dem metaphysischen Prinzip der prasta bilisierten [sic] Harmonie. Danach ist die ganze Welt tatsachlich im Geist eines jeden lndividuums reprasentiert, denn die Fahigkeit, diese Welt zu erkennen setzt voraus, da.B die Strukturen der zu erkennenden Welt in gewisser Weise zu vor im menschlichen Geist reprasentiert sein miissen.
Poser (1979, pp. 312-3) keeps that the sign-conceptions of Leibniz (signum intellectus-res) 'generally' follow the common scholastic estimations 64, but was there not the problem of denotation in Leibnizian philosophy. Dennoch sin d der ProzeB des Erlernens der Zeichenbedeutung, des Aus driickens von Tatsachenwahrheiten und die Bezugnahme auf wahrnehmbare Gegenstande sekundar gegeniiber der eigentlichen Grundlage der Denotations relation; diese ist vielmehr in den Ideen zu suchen (Poser, 1979 , p. 313).
Per modum per se stantis then it is impossible to talk about 'iconicity' - this would exclude connotation then -, but perhaps opens the ways to look at isomorphy, seen as structure-extensional pendant t o a connota tively interpreted intension . " [ . . . ] les définitions ne sont qu'une expres sion distincte de l'idée de la chose" (GP VII, p. 27) 65• This does not yield much. But it introduces a way into a historio graphic-receptional labyrinth, when we get to know in Noth (2ooo, p. 16) : " Leibniz hat mehrere Zeichendefinitionen formuliert" , the first of which may be, " Das Zeichen ist etwas Wahrgenommenes, aus welchem man die Existenz eines Nicht-Wahrgenommenen schlieBen kann " 66• lt is really helpful to look up this sentence in Burkhardt (1980, p. 175) , then, and to find nothing but the same words, except an illuminating intro duction: " In der Tafel der Definitionen findet sich auch eine Definition des Zeichens als Zeichen" 67• Besides this intellectual effort, it might have been easier to look up the sentiment where it was edited, for the first
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time in 1903 : "Signum est perceptum ex quo colligitur existentia non per cepti. Sed hoc Ioco est signum cogitationis " (Table de dé/initions: c, p. 497) , obviousiy taken from one of the definitory tabies which Leibniz used for his preparatory work on the characteristica universalis 68 • In most cases (as in Noth and Burkhardt) , the second, reievant sentence of the 'definition' is left out 69• But is this really a 'definition' of signs? If we Iook at the passage in its whoie, we find the listing of the following terms: "signum " , "litera " , "syllaba " , "nomen " , " casus nominis " , "figura " , "genus " , "species infima" etc. - finally it seems that Leibniz did not in tend to define 'sign' (in a semioticai sense, or if so, in a quite simpie, not originai sense) but 'sign-vehicles' , using a modern term 70 . To follow the thread becomes even more Iabyrinthine if we read a sec ond exampie of a sign definition in Noth , which in this case is a transia tion from Dascal (1987, p. r8o) 71• But Iet us take a few Iittle steps of 're construction' : in summer 1688 Leibniz makes a short note " iiber die Be deutung der ars characteristica als Organon scientiae generalis " (Schepers, 2ooob, p. 918) . This text was edited for the first time by Johann Eduard Erdmann (r8o5-1892) in 1840 (E, pp. 92-4) under the title Fundamenta cal culi ratiocinatoris. In the edition of Carl lmmanuei Gerhardt (r8r6-r899) of 1890 it is untitled (GP VII, pp. 204-7) . In 1960, 1968 and 1982 the text was transiated into German, ltalian, and Spanish, respectively (Leibniz, 1960, pp. no- 5; 1968, pp. 240-4; 1982, pp. r88-93 ) . Since 1987 the text is critically edited in VE (VI, pp. 1203-6) , titled like in E. The first edition of Handbuch der Semiotik is pubiished in 198 5 (for comparison of the 1985 and 2ooo edi tions, cf. Dutz, 2ooo, p. 182) . Dascal (1987, pp. 181-8) transiates (from GP VII, pp. 204-7) into English, and Noth (2ooo, p. 17) retransiates Dascal's text into German. Perhaps we shouid pay attention to the originai pas sage (Fundamenta ca/culi ratiocinatoris: A 6, rv/r, p. 918 ) : Omnis humana ratiocinatio signis guibusdam sive characteribus perficitur. Non tantum enim res ipsae, sed et rerum ideae semper animo distincte observari negue possunt negue debent, et itague compendii causa signa pro ipsis adhibentur 72•
Seen from the aspect of a theory of historiographicai reconstruction this chain of 'reception' seems to be quite interesting 73• On a closer Iook one notices that in this citation there is Iess a de/inition of a sign than an ex plication of sign-/unction . Another passage of Leibniz introduces the terminus "lex expres sionum " (BH, pp. 8o-r) : Ars characteristica est ars ita formandi atgue ordinandi characteres, ut referant cogitationes, seu ut etiam inter se habent relationem, guam cogitationes inter se habent. Expressio est aggregatum characterum rem guae exprimitur repraesen-
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tantium. Lex expressionum haec est: ut ex quarum rerum ideis componitur rei exprimendae idea, ex illarum rerum characteribus componatur expressio.
We now realize a certain change in quality of explication. It is not the 'sign' - which modern semioticians like to take as point of departure -, it is the projection (and representation) of relations and proportionalities, from which Leibniz starts. Expressio therefore cannot be something which de fines a 'semiotic sign' in the way as Noth and the other authors mentioned above like to take it 74• The priority of the arrangement of signs of some thing(s) is analogous to the arrangement of ideas and of substances75• Let us return to expressio itself for short. In 1977 Mark Kulstad dis cussed at least 21 examples of its appearance in relational context 76• Since I h ave referred t o his listing already 77, I shall give here only a few background aspects. If we look at Kulstad's list of examples, we note that only the first four ones refer explicitly to " expressio" or the "lex ex pressionum " 78 • Besides there is the discussion of rep raesentatio an d repraesentare. First Leibniz makes a differentiation : "Patet enim expres siones alias fundamentum habere in natura, alias vero saltem ex parte fundari in arbitrio, ut sunt expressiones quae fiunt per voces aut charac teres " (Quid sit idea: A 6, N/2, p. 1371) . And which receives its correlate in discussion of similitudo 79 in leading to repraesentare 80• We have to note though that Leibniz in ali of these examples refers to expressiones [ . . . ] /undamentum habere in natura, and he gives only a short remark on " [expressiones] ex parte /un dari in arbitrio " . "Fieri etiam potest ut ea sese mutuo exprimant quae oriuntur ab eadem causa, exempli causa gestus et sermo. Ita surdi quidam loquentes non ex sono, sed ex motu oris in telligunt" (Quid sit idea: A 6, N/2, p. 1371) 8 1 • But there is also a different explication by Leibniz which refers to a more mutuai relationship between "expressio " and " repraesentatio " (Monadologie, par. 62: GP VI, p. 617) : Ainsi quoyque chaque Monade créée représente tout l'univers, elle représente plus distinctement le corps qui luy est affecté particulièrement et dont elle fait l'Entéléchie: et camme ce corps exprime tout l'univers par la connexion de toute la matière dans le plein , l'ame représente aussi tout l'univers en représentant ce corps , qui luy appartient d'une manière particulière.
The dose connexion of 'expressio' and 'repraesentatio' to Leibnizian metaphysics has already been observed by Norman Kretzmann (1967, p. 382; cf. also Ghio, 1979 ; and also Heinekamp, 1980 ) : Leibniz also recognized a more persuasive kin d of "realness " in natural lan guages [ . . . ] . lt constituted the essential ingredient in his doctrine of " expres-
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sion " an d thus formed part of his metaphysics (monads express the universe) as well of bis philosophy of language.
It was Yvon Belava! (1977, pp. so-I) who emphasized on a "théorie de l'ex pression " in Leibniz: La théorie de l'expression : L est une mathématisation de la théorie de l'analogie [ . . . ] . L'expression est une correspondance réglée, dont la géométrie projective [ . . ] offre une bonne image. [ . ] 4· [ . . ] est une théorie générale du langage (ou pourrait presque dire: de la sémiologie) [ . . . ] . 5· la Monadologie put etre interprétée camme un 'modèle' du langage. .
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Unfortunately, Belava! follows most other authors in his way not to ex plain the " correspondance réglée" in detail. An often used example is referred to by Belava! (1977, p. so) and Ishiguro (1972, p. 24) , concerning the structural identity in forming both Latin lucz/er (from lux an d /ero) an d Greek qxoocp6goç (from cpwç an d cpÉgw) in a linguistic aspect of composition (cf. Dutz, 198sc, pp. 286-8) . Already Leibniz relativizes this 'simple' conception of simzlitudo 82• Jiirgen MittelstraB (1970) hints at a different aspect of the frame in dis cussion. The term 'monad', being usually synonymous with 'substance' in Platonism an d neo-Platonism, receives its special aspect by Leibniz in his reconstruction of the 'classica!' concept of 'substance' insofar as h e logically incorporates Aristotelian conditions for individuai substances. The start ing-point for Leibniz were early deliberations on the problem of 'indivi duation' in his Dz'sputatio metaphysica 83 and the formulation of the princi ple of continuity in Theoria motus abstracti (1671) already84• In our context we can only limit ourselves to hint at the Dz'ssertatio exoterica (167s) 85, and at the Système nouveau, where the question of existence of elementary quantities is replied to in the frame of conceptional entities 86• But again the circle is closed back to the discussion in the beginning of this essay, con cerning spirals, mirrors and forces, and to the Specimen dynamicum 87• Returning to the arguments of Quid sit idea, we see that Leibniz is well aware of the doubled interpretation of "habitudines " . Habitudo rela tivizes the "lex expressionum " to a "lex relationum" . "Sufficit enim ad expressionem unius in alio, ut constans quaedam sit lex relationum, qua singula in uno ad singula respondentia in alio referri possint" (c, p. IS). Habitudo may have, a s seen above, a t least two grounds, one based in nature of the objects put into relation, the other being founded on convention ( "arbitrio " : for additional discussi on in linguistic frames, cf. Gensini, 2000, pp . 43 -72) . We must not fail to notice that a certain piane of reflection li es upon it: does " exp ressi o" designate a relationship in i t175
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self (analogia or similitudo) or does it function on the base of a certain " connexio " ? Following Leibniz' examples, 'similarity' between a big and a small circle depends on categorizing both geometrica! objects via abstraction to the same ground figure, on the one hand, but also, by de finition of 'circle' in itself, delivers perceptions of substances following the same principle of structure, on the other hand. But if we look at the " circulus "lellipsis (an d vice versa) comparison, we cannot speak about a common principle of structure at first glimpse, the construction of an ellipsis is too different . The same may count for " regionis tabula geo graphica" and regio. Here we do not find abstract geometrica! entities, but only ' real' objects, designated by " characteres " 88• One may argue that h ere we have expressiones habentes /undamentum in arbitrio an d, of course, facts drawn on the map are conceptualized, but who gives the reason of recognizing these elements correctly? This reason cannot be within the artefacts 89• We have to look for a certain " connexio " , which is able t o create this representationallrepresenting link. 8
Isomorphy, Perception, po int de vue
At least i t becomes obvious that Leibniz preferably discusses problems of perceptual an d metaphysical structures in a logica! frame than by con centrating on 'signs' an d 'sign-vehicles' (to take a term of Morrisian semi otics) . In secondary literature concerned with linguistics and sign-theory, we meet the often repeated argument, in Leibniz there was a strict re versible relation (in the sense of if-and-only-if; right/left-hand-equiva lence) 90 between sign an d object signified, an d/or conception an d deno tation 91• I think we become more acquainted with Leibniz' thoughts if we use the principle of structural isomorphy in a mathematic -logical sense 92• Now it is also valid for 'circle' and 'ellipsis' , for on the side of the circle we have the constant radius to the centre and on the side of the ellipsis the constant sum of both radii to both focuses. But stili this does not work in case of the ma p and the landscape be cause maps in any possible projection shape cannot deliver an equiva lence in relation for the surface of a sphere 93• In some discussions it was tried to make an interpolation between modern and Leibnizian concep tion by taking " expressio " as cognitive quantity. Damit ist die expressio, d. h. die 'geregelte Beziehung' von Elementen unserer An sicht, nicht in den Elementen selbst enthalten , sondern stellt die aktive Leistung des Wahrnehmenden , Erkennenden dar. Diese wiederum ist Voraussetzung fur die Auffassung, uberhaupt von Zeichen im Leibnizschen Sinne reden zu konnen.
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Sie sin d letztlich kognitive Einheiten, nicht als characteres, als Dinge, die es zu be schreiben gilt, sondern in ihrem Fungieren faBbar (Dutz, 1985c, p. 288 ).
Unfortunately, this explanation falls too short of the problems involved. It ignores the metaphysically virulent determinations drawn in Leibniz ' thought , and it goes in the same direction of a 'standard' interpretation of modern time, where the necessary access to epistemic, ontological, and metaphysical problems is overlooked in linguistics and sign-theory. The one or the other lip-service that Leibniz' sign-theory is anchored in his metaphysics does not lead anywhere (cf. Dutz, 1985c, p. 288; Dascal, Dutz, 1997) . This entails to a final and short explanation to show how ali of the problems discussed in connection with Leibniz finally direct to his the ory of monads. Perhaps herein the discussed conceptions may find their respective frame and it may be given a very specific reply to the problem of reconstructing the 'semiotic object ' . I n dose relation t o our example o f map and landscape there i s an other illustration Leibniz prefers to use. Concerning a town and the dif ferent perspectives on it, despite of the individuai perceptions there al ways remains the unity of the town as a concept. Although the propor tions change, the projection, i.e. the relation of singular objects to each other, keeps its shape 94• Heinrich Schepers (2oooa, p. 18o) shows evi dently that 'perceptions' in modern thought are something quite differ ent to Leibniz' conception of them and refers to our example: lm Stadtgleichnis ist die Stadt nur virtuell auflerhalb der perzipierenden Be trachter. In Wirklichkeit existiert sie nur in den Betrachtern, in jedem auf die ihm eigentiimliche Weise, entsprechend seinem point de vue, und es gibt so viele Betrachter, wie es verschiedene Standpunkte gibt.
Within the frame of Leibniz' theory of monads the term perceptio now receives its special meaning. It is closely connected to the conception of complete notions and their function in respect to individuai substances (Principes de la Nature et de la Grace, /ondés en raison: GP VI, p. 598 ) : e t par conséquent une Monade en elle meme, e t dans le moment, n e sauroit etre discernée d'une autre que par les qualités et actions internes, lesquelles ne peu vent etre autre chose que ses perceptions (c'est à dire, les représentations du composé, ou de ce qui est dehors , dans le simple) et ses appétitions (c'est à dire, ses tendances d'une perception à l'autre ) qui sont les principes du changement.
And he even makes his point stronger (Discours de Métaphysique: A 6, IV/2, p. 1551 ) : 177
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On pourroit dane dire en quelque façon, et dans un bon sens, quoyque éloigné de l'usage, qu'une substance particulière n'agit jamais sur une autre substance particulière, et n 'en patit non plus si on considère, que ce arrive à chacune n 'est qu'une suite de son idée toute seule, puisque cette idée enferme déjà tous les prédicats ou evenemens, et exprime tout l'univers. En effet rien ne nous peut ar river que des pensées et [des] perceptions , et toutes nos pensées et perceptions futures ne sont que des suites quoyque contingentes de nos pensées et percep tions précédentes.
Perceptions therefore belong to the inner 'determinators' of an individ uai substance and not to the external sphere. Of course we are remind ed to a famous example in the Nouveaux essais on the roaring of the sea (NE, Pré/ace: A 6, VI, p. 54) : Et pour juger encore mieux des petites perceptions, que nous ne saurions dis tinguer dans la faule, j'ay coutume de me servir de l'exemple du mugissement ou du bruit de la mer don t on est frappé quand on est au rivage. Pour entendre ce bruit, camme l'an fait, il faut bien qu 'on entende les parties, qui composent ce tout, c'est à dire le bruit de chaque vague, quoyque chacun de ces petits bruits ne se fasse connoltre que dans l' assemblage confus de tous les autres ensemble, et qu'il ne se remarqueroit pas si cette vague, qui le fait, estoit seule. Car il faut qu'on en son affecté un peu par le mouvement de cette vague, et qu'on ait quelque perception de chacun de ces bruits, quelques petits qu'ils soyent; au trement on n 'auroit pas celle de cent mille vagues, puisque cent mille riens ne sauroient faire quelque chose.
Heinrich Schepers (2oooa, p. I8o) does not hesitate to cali this concep tion of perceptio a radically new, metaphysically conception, "der weder mit dem des Wahrnehmens noch mit dem des Denkens verwechselt werden darf" . But for this radically new metaphysics Leibniz also has to pay his price, because he needs to combine in his model both passive ness and activeness at one conceptual point, which means that he also has to introduce the Aristotelian entelechia 95• Complementary to the aspect of point de vue, Leibniz uses another model, the one of the "miroir vivant " . lm Modell des lebenden Spiegels dagegen ist das Gespiegelte [ . . . ] nur virtuell au/Serhalb des Spiegels. In Wirklichkeit erzeugt der Spiegel, einem autarken in neren Prinzip folgend, spontan sein Bild der Welt. [ . . . ] Komplementar sind die se Modelle insofern als im Stadtgleichnis durch die Vielheit der Betrachter eine Stadt reprasentiert wird, im Spiegelgleichnis dagegen ein Spiegel in si eh die Viel heit der Welt vereinigt 96 • (Schepers, 2oooa, p. r8o).
To take this seriously, in fact it needs a different kind of sign-theory.
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Notes 1. To name but a few of the latest publications: Dascal et al. (I992-96); De Pater, Swig gers (2ooo); Eco (I997) ; Gardt (I999) ; Noth (2ooo); Posner, Robering, Sebeok (I997); Sebeok (I994). This selection refers to generai surveys, for speciai studies on Leibniz, cf. below. 2. This term is only a makeshift translation for German 'Rezeptionsforschung': cf. e.g. Bollenbeck (I99o); Jau� (I969a, I969c, I992) ; Klein (I974); Koch, Schmitz (I993); Nau mann (I986); Warning (I979). There is stili another side of the medai: 'Rekonstruktion'. It is even more difficult to translate it into an English understanding. It does not mean tech nicai 'reconstruction' (e.g. of a house etc.), but in its strict sense the interpretati ve recon struction of a structure which is in certain aspects similar to the originai one. For this, cf. below; Dutz (I985c, I986a, I988, I990, I992a) . 3· 'Semiotics' here and in the following is aiways taken as a class-term which em braces sign-theory, sémiologie etc. in their whole varieties, referring to today's under standing of a practiced part of the (not only) human sciences. In later passages I shail re fer to Leibnizian 'semiotic' thinking explicitly. 4· The term 'legitimative' needs explanation. lts designation goes beyond the legai context in which it is used commonly. In historiographicai study, I cail an argument 'le gitimative' if an author makes references to former topics and/or subjects not by inten tion to give some new research information on these, but intentively tries to 'dignify' his own research, 'legitimizing' i t (and himself) with historiographicai décor, only. This is, in strict sense, no historiographicai research, and this tendency is labelled 'legitimate' with a borrowed technicai terminus. 5· Note the difference between the terms 'object(s) of semiotics' and 'semiotic(ai) ob ject(s) '. The first one stands for teleologicai description(s) , the second one forms class terms of scientific results. 6. In physics, the scientist does not share this problematic view as much as we have to do: "Das Wesen des Experimentes besteht darin, da.B der Experimentator die Bedin gungen scha/ft, unter denen der Vorgang ablaufen soll" (Gerthsen, Vogel, I993, p. I; itai ics in text). But, how to define an 'experiment' in the historiography of semiotics? 7· Earlier thoughts on the subject of this essay go back to the v. lnternationaier Kon gre� der Deutschen Gesellschaft fi.ir Semiotik (Essen, Oktober I987) with "Kreativitat" as its generai subject, and to the Proceedings of the section on 'Historiography of Semi otics' therein , which were published with the title Innovationen in Zeichentheorien (Schmitter, Schmitz, I989; cf. aiso Dutz, I989b). 8. This habit is obviously incorrect - consider the question at the beginning - or are ups and downs no 'sides' in the reflection? 9· But even adults have their difficulties cutting their own hair in front of a mirror. Be sides, there are early reports by anthropologists about African peoples, whose members in many cases could not identify a photographic portrait of them as a reproduction of their appearance (their face, their body etc.). Instead, they supposed the content of the pictures to be a (for them) more familiar representation - tree(s) , elephant(s) etc. Cf. the detailed study of Bischof (I974) , especially on the problem of retive locaiisation ("relative Lokalisa tion" ) and for the relation between the space of perception ( "Wahrneh-mungsraum" ) and physicai space ( "physischer Raum " ; cf. Bischof, I974, pp. 3I7 ff.) ; cf. aiso B34ar, Roth (I996) . Io. The same goes with 'up' and 'down' for 'north' and 'south' referring to maps, ai though - in most cases - the map lies on the table, and there is no up or down at all. There are but a lot of additionai examples, not only from topologicai spheres. n . The citation marks for Leibniz' works follow the established abbreviations (cf. in fra, Re/erences) . I2. Note that 'physicai' here and in the following directs to scientific frames, ac cording to the distinction between 'physisch' and 'physikaiisch' in German, the latter des ignation is meant.
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13. E.g., a light ernitter (or reflector) fixed at the perimeter of a wheel is always inter preted as drawing a circle in its movement. In fact, it is a garland-like unwinding curve which reels itself off in relative locomotion. In modem neurologica! terms: "Bewegt sich ein bestimmtes visuelles Objekt vor einem Hintergrund, dann haben alle Punkte dieses Objektes hinsichtlich der Bewegung, Bewegungsrichtung, Geschwindigkeit, Geschlossen heit der Kontur, der Farbe und Farbschattierungen, des Kontrastes usw. ein gemeinsames raumzeitliches Schicksal. Dieses kann nun dadurch reprasentiert werden, daB Nervenzellen in denjenigen raumlich getrennten Himzentren, die fiir di e Verarbeitung dieser Merkmale 'zustandig' sind, in ihrer gleichzeitigen Aktivitat ein distinktes raumzeitliches Muster bilden" (Ba�ar, Roth, 1996, p. 31 6). A walk along a road is always experienced as if one moves and the road is on a standstill - but there is no absolute 'resting space' . Experiences of relative positioning like 'vase on the table' look grotesque in the - logically possible reversal 'table below vase'. Orthogonal orientations like contours ('vertical', 'horizontal') receive their attributes only in condition of acceptance of a reference system. If this is changed, references to a system of co-ordinates are invalid. Moreover, the habitual per ception of 'vertical' walls (within a town etc.) implies the hypothesis of perception that the earth is 'flat' , and not in its physically given ellipsoid shape. Not to forget phenomena in physiological perception like 'post-effects' ( " Nachfelder") in producing complementary views of direction whose flux runs orthogonally to the lines of the pattem. 14. I refer here again to the methodological frame which is mentioned supra, note 7· 15. Some semioticians argue that it deserves a look at only two parameters: the the ory at time t1 and the other at t2• But if t1 is in the past and t2 is in the present, you cannot mark any 'innovation', because of the missing link to a theory at t0 before. ( Otherwise you may want to prove your 'modern' identity at t2 as innovation in front of the earlier back ground - but this is no historiographical work but fishing for authority) . If one looks at both t1 and t2 placed in the past, one is missing the criteria of the continuity of change which took piace at t2 presumably, because one only can tell about the differences be tween the past t1 and t2• These criteria come self-withstanding from the modern histori ographer's reconstructing (and therefore: selecting, interpreting, and judging) the data. 16. Cf. De Pater, Swiggers (2ooo) , pp. 99-102; Dutz (2ooo) , pp. 190-3; an opposite, op timistic side takes Noth (2ooo) . Be that as it may, stili there is a certain legacy in Schmitz' (1989, p. 21) statement: "auf diese Untersuchungsaufgaben der Metahistoriographie sind Wissenschaftshistoriker bisher weder theoretisch noch methodisch hinreichend vorbe reitet und eingestellt . Auf lange Sicht wird m an vor dieser notwendigen Reflexion der ei genen Forschungsarbeit allerdings nicht weiter zuriickscheuen diirfen " . 17. In consideration of the different 'levels' of (meta-)historiographical examination, cf. Dutz (1988), pp. 30-7 and, more explicit, Dutz (2003) . 18. "Statt einen von semiotischen Handlungsmitteln im wesentlichen freien Zugang zur Wirklichkeit erreichen zu konnen, sind wir darauf angewiesen, uns erst rnit Hilfe be stimmter handlungsmii./Sig orientierter Umgangsformen Wirklichkeit zur Verfiigung zu stellen und dann darauf mit bestimmten semiotischen Formen als Darstellungsmedien aufzubauen" (Gerhardus, Philippi, 1980, p. 427). The authors take the same direction as we do, but with different methodology. 19. You cannot decipher an 'Aquinian semiotics', when in the text Thomas Aquinas is writing about transubstantiation and uses the word 'sign' - although this has been clone severa! times. And you have to give your own interpretation when reconstructing 'semi otic thoughts' in Leibniz, when in the passages discussed at least no 'semiotically' estab lished term is mentioned by him. Cf. Dutz (1988, p. 30) for the first, and Dutz (1985c, pas sim; 2ooo) for the second argument. 20. For a closer and more extensive discussion of the datai/acta conception in histo riography of sign theory, cf. e.g. Dutz (1988, pp. 32-7; 2003, pp. 32-41) in contrast to Schmit ter (1986) and, more generally, but closely related, Dutz (1985a, 1986a, 1986b, 1990, 1991, 1992a, 1992b); Dascal, Dutz (1997).
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21 . Cf. Chisholm (1979, especially the subchapter on "Selbstreprasentation und Wahmehmung" , pp. III-6) . For another explication of the here sought delimitation of a 'semiotic object' cf. Martin (1982) . 22. For background information cf. the specimen study (Dutz, 1986b) on Wemer Roeder's 'reconstructions' of German sign-theory in the 18th century. Cf. also Dutz (1986a, 1988). In these papers, studies dignifying either the mainstream of research, or a certain explicitly obscure position were - on heuristic reasons - called 'legitimative' ("legiti mierend") when they took advantage of possible sweeping statements. I keep this desig nation here in some of the following arguments. For the consequences in the sign-theo retic interpretation of Leibnizian thought, cf. Dutz (1985b, 1985c) . 23. Thus, the realized advantage of such surveys becomes relative as to a feedback of the results to the sciences being started from. You may find, e.g. , that Hjelmslev's lin guistic definitions of a sign are applicable in semiotic research. But does this application also change the interpretation of Hjelmslevian thoughts in linguistics? How far does the possibility of application without changing the theoretical concept go? In certain cases, there is no critique in such procedures. Only that one may be surprised to see how much a certain matter-of-course thinking effects an abstainment of the methodological reflec tion on such research strategies. 24· I do not only take 'modero' semiotics into discussion, but shall refer to Leibniz ian philosophical thought in comparison as well. We shall see later that the last is open ing a door to a very different 'semiotical' understanding. 25. This example goes without saying pars pro toto. We know that Locke borrowed the term from scholastic philosophy and partly from Aristotle. For a broader discussion about the differences in interpretation between Leibniz and Locke on this question, cf. Dutz (1985c), pp. 260-4. 26. A final addition to the problem of creativity an d innovation: the conditions to tell and to report about such aspects in historiography of semiotics concentrate on the ques tion, at which 'point' or 'level' relational terms like these behave in respect to recon structed facts functionally, in respect to semiotic theorizing. More than this, let us ask how 'innovations' within sign-theories - and: therefore strings of reception, too - may be di rected to creative processes, or seen as a result from them. Obviously, this touches ex plicitly processes of formulation of the 'semiotic object' . What is needed first is a certain consciousness of the problem: the question for 'creativity' in science, bound to the ques tion of 'innovation', implies necessarily the question for the ability of hermeneutic re flection in the science, respectively. In case of semiotics one doubts whether there is not only a need of explanation (" Auslegungsbediirfnis " ) but also a deficit in explanation (" Auslegungsdefizit " ) . We therefore do not ask what is 'creative' in the semiotic frame, but in tandem arrangement we check the standpoints which tell us that it may be possi ble at least to cali a historiographical datum/factum 'creative' or 'innovative'. 27. Sur !es équations du mouvement relatz/ des systèmes de corps was published in a line of courses which Coriolis delivered at the École polytechnique. For Coriolis and his 'discovery' cf. Costabel (1971), pp. 416-9; Gerthsen, Vogel (1993), pp. 50-1 . 28. This is a deviation of o.o2 centimetres in a dropping height of 1 metre - valuable on 45th degree of latitude. 29. Note that the physical term 'inertial system' means a non-accelerateci frame of reference; inertial force and centrifugai force only become valid when two different frames of reference are compared. 30. In fact, the passengers only experience that their bodies have conserved the mo mentum. They apply energy on their own to adjust their system of reference to that of the car again. But this is the same mechanical energy as the brakes applied before. 31. And this gives the reason for the impressive appearance of the monsoon winds. 32. For explanation, Hacking (1985, pp. 136-7) refers to a textbook of physics by David Halliday and Robert Resnick: "The observer [B] on the merry-go-round saves the
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situation by declaring that two inertial forces act on the walking man [A] , just cancelling the (real) frictional forces. One of these inertial forces, called the centrifugai/arce [. .. ] acts radially outward. The other, called the Coriolis force [. .. ] acts apposite to the direction of rotation. By introducing these forces, which seem quite 'real' to him, [ ... ] the observer [B] in the rotation reference frame can apply classica! mechanics in the usual way. The ground observer [C] , who is an inertial frame, cannot detect these inertial forces. Indeed there is no need for them - an d no room for them - in his application of classi cal mechanics" ( the letters in square brackets bave been added for illustration) . 33· A t least for observer [C] : "Note that the forces are propounded partly because they help us to explain phenomena, and partly to enable us to keep the laws of classica! mechanics. An alternative would be to use different frames of reference" (Hacking, 1985, p. 137). But Coriolis-force does not belong to the frame of classica! mechanics (cf. below for this) , it only helps to keep concepts of everyday life thinking. A strange instrument a semiotical instrument? 34· The originai formulation of this principle we find in Leibniz: cf. e.g. "Nrhil esse sine ratione, seu nullum effectum esse absque causa" (Principia logico-metaphysica, 1689: A 6, IVh, p. 1643) . Newton himself argues in the second law on movements in his Principia that causing force and effected change of movement stand to each other proportionally. 35· To be clear, this expression is not to be found in Leibniz in the strict sense of its formulation. We only find an indication of the source of Hacking's term in Eisler (1930, vol. II , p. 415). Leibniz's common usage extends between phaenomenon corporeum, imaginarium, - materiale, - naturae and phaenomena correspondentia (cohaerentia; con gruentia; consentientia) inter se (A 6, IV/4, p. 206) . 36. Compare to this: "Porro ut Ens definio per conceptum, ita Existens definio per sensum sive perceptionem; concipimus Entia etiam possibilia, percipimus existentia, aut quae apparent existentia" (A 6, IV/2, p. 1499), and "Quemadmodum autem Ens explicatur per distinctum conceptum, ita Existens per distinctam perceptionem, quod ut melius in telligamus videndum est quibus modis existentia probetur. Et primum sine probatione ex simplici perceptione sive experientia existere judicio, quorum intra me conscius sum, hoc est primo me varia cogitantem, deinde ipsa varia phaenomena sive apparitiones, que in mente mea existunt" (De modo distinguendi phaenomena realia ab imaginariis: A 6, IVh, p. 1500) - bere Leibniz adds some interesting thoughts on dreams. 37· There are indeed some passages in Leibniz which suggest a possible Gestalt-psy chological interpretation. For example an often cited reference goes to the sensation of the sound of hundreds of singular waves at the sea shore ("Wellenschlagen") which forms the idea of surge ("Meeresrauschen " ) as an entity (NE: A 6, VI, p. 54) . We bave to be at tentive to the fact that terminology from Gesta lt-psychology is not Leibniz' part, this would be an ahistorical interpretation, although it may be a relevant question of historio graphical study to compare both poles. 38. Immanuel Kant (1724-1804) was not the first to use 'phenomenon' in this sense, but without doubt he helped to popularize this kind of usage. 39· I owe these explications and some of the following to Gardner (1978). For mathe matical and geometrica! background, cf. any dictionary of mathematics at band. 40. The easiest way to imagine an involute of a circle is the picture of a sheep on a meadow fastened to a round post by a rope. Let the animai graze and move steadily in one direction round the post to the inner space. If you mark the way, you fin d exactly this involute. You may also measure that the distance between the spirals lines is not only al ways the same but also identica! with the circumference of the post. 41. This type of spirai is call ed after Archimedes (287-212 b.C. ) who made certain progress in mathematics and in physics, especially with this kind of spirai, and even carne dose to the concept of integrals (Janich, 1980) . Its mathematical formula is r = f(cp) = aq:;; with a t o, if o 5 q:; < oo .
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42. Ali examples at the beginning of the passage refer to logarithmic spirals. Its con struction is closely related to the golden section and to Fibonaccian figures and goes r = a(exp)(kq:;); with a > o and k � o. The eguiangularity is characterized by t0 = ArcCotk. 43· It is told that the Swiss mathematician Jacgues Bernoulli (1654-1705) was so much impressed by the characteristics of the logarithmic spirai that he ordered to carve it on his gravestone and to add the epitaph "Eadem mutata resurgo" ('Although changed l'li revive in same shape'). But it is reported, unfortunately, that the carver left out the epi taph and carved a spirai of Archimedes only. For further reading cf. the interesting col lection of Holden (1986) , especially Holden, Muhamad (1986) . 44· We find a special case in Aristotle ( Top. H2.152b27-29), who argues that the de signed objects a an d b are logically egual, if any chosen proposition about a is of the same value with a corresponding proposition about b. 45· Compare to this: "Seguitur etiam hinc non dariposse in natura duas res singulares solo numero dzf/erentes" (Principia logico-metaphysica: A 6, IVh, p. 1645) . 46. The first sentence i s also called Ununterscheidbarkeit des Identischen o r 'Leib niz's law', the second one Identiti:it des Ununterscheidbaren or, sometimes, 'N ewton's law' . 47· It was published without indication of piace and date, but was attached to his Hypothesis physica nova, qua ph�Rnomenorum natur�R plerumque caus�R ab unico quodam universali motu, in globo nostro supposito, neque Tychonicis, neque Copernicanis asper nando, repetuntur which he dedicateci and sent to the Royal Society in London, which im mediately made a reprint of both texts (A 6, II, pp. 219-57; A 6, II, pp. 258-76, respectively) . For background cf. Schepers (1966) , pp. XXX I -XXXI V. 48. The first part was published in " Acta Erudito rum " , 1695, Aprii, pp. 145-57 (cf. SD) . 49· In translation of "vis " , I follow the decision of the editors of SD to use 'force' (" Kraft " ) to take into regard the common understanding at Leibniz' time. In modern ter minology, 'energy' would be more adeguate. 50. But he takes only half of the way. He corrects Descartes' formula of motional ac tivity (in modern terms: theorem of momentum; se. mv) to mv2. (se. 'kinetic energy') , but it was again Gaspard de Coriolis who made i t more precise to Y2mv2.. - A certain vis viva controversy started in 1686 in respect to the difference and validity of mv vs. mv'-, which could not be solved by Jean Le Rond d' Alembert (1717-1783) as guarrel about words - al though this is stili often told -, but by the introduction of the sentence of energy mainte nance by Hermann von Helmholtz (1821-1894) in 1847. Cf. for background information lltis (1971 ) ; McLaughlin (1996) . 51. The same goes for the circularity into which the weight is forced by us. Its natur a! move would be linear. 52. Reason might force us, but space does not allow to make here a 'subcoda' con cerning the basics of mathematics in light of Leibniz' statement. Some similarities are convincing, some aspects are really worth to be discussed. Therefore I can only hint at Bourbaki (1974) , pp. 144 ff. , 153, 157; Brieskorn (1974), esp. pp. 230 f. Serres (1968) is im portant for the modern interpretation of Leibniz in this context (for a reflection on Ser res, cf. Dascal, 2ooo). 53· We have to understand that in Leibniz singular substances never rest, in princi ple. " [ ... ] ut non tantum omne guod agit sit substantia singularis, sed etiam ut omnis sin gularis substantia agat sine intermissione, corpo re ipso non excepto, in guo nulla unguam guies absoluta reperitur" (De ipsa natura sive de vi insita actionibusque creaturarum, pro dynamicis suis con/irmandis illustrandisque, in "Acta Eruditorum" , 1698, September: cf. GP IV, p. 509). Cf. also GP IV, p. 511 , where Leibniz calls substantia - seu unum per se 'Monads', a practice he follows since about 1695-96. 54· The term dynamica ('dynamics') referring to a scientific discipline was in fact coined by Leibniz and stems from 1689, the time of his first studies on Isaac Newton's Principia.
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55· This consideration introduces again another statement of a problem, that is how to decide between a theoretical momentary condition and a measured condition at a cer tain time. I shall, nevertheless, leave out here questions of quantum mechanics. 56. Although it sounds polemic, the latter possibility is the preferred practice, obvi ously. 57· "Die jeweils aquivalenten Gegenstande werden bei diesem AbstraktionsprozeB miteinander identifiziert, die Aquivalenz zwischen den konkreten Gegenstanden wird zur Identitat zwischen den neugewonnenen abstrakten Gegenstanden, und die konkreten Gegenstande - im Fali von Zeichen - konnen dann iiberdies als Eigennamen der zuge horigen Abstrakta verwendet werden" (Lorenz, 1984, p. 190) . 58. If you take the frame of physical systems, there are either symmetrical or asym metrical processes. Symmetrical processes give no idea of a spin, asymmetrical ones are reversible. In biology, the characteristics of objects may show asymmetry, but this is a mere accident in evolution, not necessarily to be present on the other planet. Within elec tromagnetism 'right' /'left' differentiation is based on convention. 59· This argument is, of course, no invitation to an endless regress from one meta leve! to another. 6o. A note aside: a cross-section through the rope would then show again a spirai of Archimedes. 61. For similar criticism cf. GM VI, pp. 253-4. It was finally Emst Mach (I838-1916) who solved the problem when publishing his generally accepted laws of inertia, but Newton's 'proof' was falsified, then. Seen from the modem logica! point of view, 'rotating' is a bi-val ued predicate like 'moved' and needs a connection to a frame of reference to avoid that the propositions about it become elliptic and therefore not-provable. Newton's 'bucket-experi ment' only may be used for definition of a system co-ordination in respect to a certain axis. 62. 'Prominent' in this case does not reflect on Leibniz' own judgment, but on the number of references to them in secondary literature. 63. It becomes clear from the less often cited context: "Multa autem sunt in mente nostra, exempli causa, cogitationes, perceptiones, affectus, guae agnoscimus non esse ideas, etsi sin e ideis non fiant. Idea enim nobis non in quodam cogitandi actu} sed/acultate consistit [ . . . ] . Idea ergo postulat propinquam quandam cogitandi de re facultatem} sive fa cilitatem" (Quid sit idea: A 6, IVh, p. 1370) . 64. Unfortunately, this analogy is only approximate. We find some other 'projective' interpretations on Leibniz' possible sign-theory, acting on a different ground, maybe on Morris-like semiotics (Dascal, 1978) or exactly on the seeming scholasticism of Leibniz in Burkhardt (1980) . Cf. the strong critique on the last by Schulthess (1982) ; cf. also Dutz (1985a) , pp. 49 ff. 65. This citation is often used in its fragmentary shape, as above. Therewith the context which precedes the 'ideai' may be overlooked: "Car les paroles que nous avons, étant assés obscures et ne donnant souvent que des notions con/uses, on est obligé de substituer d'autres characteres dont la notion soit précise et déterminée" ( GP VII, p. 27; italics mine). This is tempt ing in equating characteristica universalis with Leibnizian sign-theory and to ignore elemen tary structures of sign-theory to be incorporated in reconstructed conditions of frame. 66. This now is: " [Leibniz n.d.;] zitiert in Burkhardt (1980, p. 175 ) " . 67. Such 'definitions' have been well-known since early modem time, commonly be ing called "The Feinhals complexor" (Dutz, 1996, p. 56, note 96), contrary to "The Feinhals emergency brake" which becomes clear in the following; cf. also Dutz (1996, p. 48, note 71) . 6 8 . There i s a certain danger o f misinterpretation i f you cite from the countless ta bles of definition. In many cases the context of philosophical frames is disregarded, some times it is not even taken into account to look at the different date of composition, re spectively. Cf. my exemplification in the case of Maat (1995) in Dutz (1996) , pp. 51-5. 69. Burkhardt's (1980, p. 175) comment on the passage is fundamental and profound on the surface to such a degree that it deserves citation: "Wie so viele Definitionen bei
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LANGUAGE PHILOSOPHY AND SEMIOTICS
Leibniz stammt auch diese aus der Scholastik, denn schon Thomas von Aquin, Ockham und Albert von Sachsen hatten das Zeichen in diesem Sinne verstanden. Die Auffassung von Zeichen ist aiso instrumentell. Zeichen werden dadurch zu Zeichen, daB sie fiir et was anderes stehen" . The reader may ask himself what kind of a non- "instrumentell" con ception of signs might be possible, then. 70. Couturat dates the passage to 1702h7o4 (cf. C, p. 437). There are many earlier ex amples of maybe definitions which could be re-examined in detail. Cf. A 6, rv/4, p. 263, for the time between 1677 and 1690. The generai impression is that Leibniz does not centre 'signum' in his discussion. "De là il est manifeste, que si l' on pouvoit trouver des caracteres ou signes propres à exprimer toutes nos pensées, aussi nettement et exactement que l'arith métique exprime les nombres, ou que l'analyse géométrique exprime les lignes, on pourroit faire en toutes les matières autant qu'el/es sont sujettes au raisonnement tout ce qu' on peut faire en Arithmétique et en Géométrie" (La vraie méthode, 1677: A 6, rvh, p. 6). 71 . If only it were so. Noth (2ooo, p. 17) refers to Dascai (1987, p. 187) - but there we only find a footnote which misses the passage. 72. About twenty lines below we fin d one of the most explicit extensional explication of 'signum' by Leibniz: "Signorum igitur numero comprehendo Vocabula, literas, figuras chemicas, Astronomicas, Chineses, Hieroglyphicas, notas Musicas, steganographicas, arith meticas, aigebraicasque, aiiasque omnes quibus inter cogitandum pro rebus utimur. [ ... ] Porro tanto utiliora sunt signa, quanto magis notionem rei signatae exprimunt, ita ut non tantum repraesentationi, sed et ratiocinationi inservire possint" (A 6, rvh, pp. 918-9). 73- A similar case, aithough less labyrinthine, may be observed in Eco (1997, p. 97): "[ ... ] daB die Sprache Adams historisch unwiederbringlich verloren ist; [ ... ] wir werden sie niemais wiedergewinnen: nobis ignota est. Falls es sie je gegeben hat, ist sie entweder vollig verschwunden oder iiberlebt nur noch in wenigen Resten (undatiertes Fragment in Gensini 1990, p. 197, vgl. Siimtl. Brie/e und Schrz/ten [sic] Vl/3, ed. Schepers, Berlin 1980, S. 208) " . The fragment in Gensini's Itaiian translation (Leibniz, 1990) is taken from c, pp. 1 51-2 (where it is called Leibnitius de connexione inter res et verba, seu potius de linguarum origine; not indicated by Gensini - there is another translation into English by Dascai, 1987, pp. 189-90); it was first criticaily edited in 1984 by Schepers (VE III, p. 497: dated pre liminarily 1677/85 with the title De linguarum origine naturali), and finally now is to be found in A 6, rvh, p. 59 (with the same title, dated October 1677-December 1678 ) . There it sounds "Sed taiem linguam vel omnino intercidisse, vel in ruderibus tantum nonnullis superesse oportet, ubi artificium deprehendere difficile est " . In Eco's reference to A 6, III, p. 208, we only find there a short allusion to "linguae sensuaiis deperditae " in connection with Athanasius Kircher's Polygraphia. The true source for nobis ignota est is: "Lingua Adamica, vel certe vis ejus, guam quidam se nosse et in nominibus ab Adamo impositis essentias rerum intueri posse contendunt, nobis certe ignota est" (GP VII, pp. 204-5, then A 6, lVII, p. 919; itaiics mine) and was discussed at length in Dutz (1989a) . 74· We may, of course, ask ourselves at this point whether " expressio" forms a definiens of a 'semiotic object' . 75· There i s another passage i n Leibniz which supports the view above: "Nam etsi characteres sint arbitrarli , eorum tamen usus et connexio habet quiddam quod non est arbitrarium, scilicet proportionem quandam inter characteres et res; et diversorum charac terum easdem res exprimentium relationes inter se" (Dialogus, 1677: A 6, lVII, p. 24). 76. Unfortunately, Kulstad does not take his examples directly from the originai Leibnizian texts but uses the English translations by Leroy E. Loemker (Leibniz, 1969). 77· Cf. Dutz (1985c, pp. 284-7; 2ooo, pp. 186-90) , where aiso the terms were recon structed on the ground of the originai passages in Leibniz. 78. All of them stemming from the same source: "Sed ea expressiones variae sunt; exempli causa, modulus Machinae exprimit machinam ipsam [I] , oratio exprimit cogita tiones et veritates [2] , characteres exprimunt numeros [3] , aequatio Algebraico exprimit circulum aiiamque figuram [4] " (Quid sit idea: A 6, IV/2, p. 1370; itaiics mine).
KLAUS DUTZ
79· "Quae in natura fundantur, eae vel simzlitudinem aliquam postulant, qualis est inter circulum magnum et parvum [5] , vel inter regionem et regionis tabulam geographi cam [6] " ( Quid sit idea: A 6, IVh, p. 1371; italics mine) . 8 o . " [ ... ] vel certe connexionem qualis est inter circulum e t ellipsin quae eum opti ce repraesentat [7, 8 ] , quodlibet enim punctum ellipseos secundum certam quandam legem alicui puncto circuii respondet. Imo circulus per aliam figuram similiorem in tali casu male repraesentaretur. Similiter omnis effectus integer [9] , repraesentat causam plenam [IO] , [ . . . ] . Ita facta cujusque [ I O] repraesentant ejus animum [9] , et Mundus ipse quo dammodo repraesentat Deum " (Quid sit idea: A 6, IVh, p. 1371 ; italics mine) . 81. In a strict sense, this is the only 'linguistic' reference in Quid sit idea; it is not men tioned in Kulstad (1977) . Besides this, there is a preference amongst linguists and semi oticians for citing this text (Dutz, 1983) . 82. Mter the arguments on parallelism in the nexus of words (or signs) , a lapidary comment follows: " Poterant Graeci non hac sed alia voce uti [ . . . ] , [n] am etsi characteres sint arbitrarli, eorum tamen usus et connexio habet quiddam quod non est arbitrarium, scilicet proportionem quandam inter characteres et res" (Dialogus: A 6, lVII, p. 24). Kul stad, who refers mostly to Quid sit idea, may have found severa! additional examples in the Dialogus (cf. A 6, IVII , pp. 20 ff.) . 8 3 . Disputatio metaphysica de principio ( A 6, I, pp. 3-19; cf. Moli, 1978 ) . Cf. the later De primae philosophiae emendatione} et de notione substantiae (GP IV, pp. 468-70), pub lished in "Acta Eruditorum " , 1694, pp. no-2; cf. Collins (1979). 84. Theoria motus abstracti seu Rationes motuum universales} a sensu & phcenomenis independentes (A 6, II, pp. 258-76; cf. MittelstraB, 1984a, p. 923; 1984b, p. 925) . 85. Dissertatio exoterica de statu praesenti et in incrementis novissimis deque usu geometriae (GM VII, p. 326) . 86. Système nouveau de la nature et de la communication des substances} aussi bien que de Funion qu1il y a entre Fame et le corps, in "Journal des Sçavans" , 1695, }une (GP IV, pp. 477-93) . For semiotical reconstruction cf. also Hafner (1976); Kni.ifer (1911); Salomon (1902) . 87. "In systematischer N ah e zum modernen Begriff des Massenpunktes ordnet Leib niz elementaren physikalischen Einheiten Punkte im geometrischen Raum zu und inter pretiert diese Einheiten als Kraftzentren. Dies ist dadurch gerechtfertigt, daB man dif ferentialgeometrisch Punkten auf Raumkurven Beschleunigungsvektoren zuordnen kann, denen physikalische Krafte entsprechen, wenn man die Kurven als Bahnen be wegter Massen versteht" (MittelstraB, 1984a, p. 923) . 88. It is important to note that "characteres" in Leibniz are not to be equated with 'signs' . The counting with signs delivers "characteres " , and " expressiones fiunt per voces aut characteres" (A 6, IVh, p. 1371 ) . 8 9 . Noth's argument mentioned i n the beginning of discussion does not meet the re quirements either, when he is arguing that Leibniz uses a kind of Peircean 'model' of 'iconicity' in the frame of the "prastabilierte Harmonie" . 'Iconicity', in a strict Peircean sense, implies each sign containing the reason of its recognizability in itself, and then we would have to discuss the expressiones habentes /undamentum in natura, again. 90. In linguistics, this logica! formula is not always used in a very strict sense, by us ing only right-hand equivalence. 91. For examples in secondary sources, cf. the titles indicated in Dutz (1983) , p. 301. For a further discussion of isomorphy in Leibniz, cf. Dutz (1985c, pp. 286-8; 2ooo, pp. 190-1). 92. Two algebraic structures A an d B are isomorphic, if ali relations between the ele ments of A transgress into equivalent relations in B. B therefore is a projection of A. If this is only valid for A onto B, it is called homomorphism, if it is valid even vice versa, we have a real isomorphy. Just for illustration : taken a set of natura! numerals MN and an other set of natura! even numerals MG, then both sets are isomorphic in relation to "be ing smaller as" : MN {I [