L'inconscio antinomico. Sviluppi e prospettive dell'opera di Matte Blanco 8846414950, 9788846414953

L’opera di Ignacio Matte Blanco (1908-1995), i cui concetti essenziali sono raccolti attorno alla fondamentale scoperta

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Italian Pages 320 [162] Year 1999

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Table of contents :
Introduzione. Verso un’epistemologia bi-logica, di Pietro Bria pag. 11 Parte prima

Bi-logica, riflessione filosofica ed esperienza estetica

1. Ignacio Matte Bianco e la cultura contemporanea. Estetica e

psicoanalisi, di Aldo Giorgio Gargani » 25

2. Antinomie dell’originario, di Cesare Milanese » 44

3. Psicoanalisi e letteratura: dall’inconscio alla logica emotiva,

di Guido Paduano » 54

4. Bi-logica e filosofia: un’affinità elettiva, di Margarete

Durst » 68

5. Lingua, analisi della lingua e bi-logica, di Francisco Matte

Bon » 88

6. Pensare e sentire l’arte, di Fiorangela Oneroso » 133

7. Pensare il sentire e pre-sentire il pensiero. L’esperienza estetica e musicale come esperienza bi-modale, di Antonio

Di Benedetto » 151

8. Il problema del principio di simmetria, di Gabriele Pulii » 166

9. Capogiri bi-logici nell’umorismo di Pirandello, di Pietro

Milone » 177
Parte seconda Bi-logica e clinica psicoanalitica

1. La teoria bi-logica e le sue applicazioni cliniche, di Klaus

Fink pag. 199

2. Bi-logica e terapia psicoanalitica, di Eric Rayner » 214

3. Elementi di bi-logica nel lavoro clinico con bambini ed adolescenti, di Luciana Bon de Matte » 228

4. La cristallizzazione edipica: un’applicazione clinica del

pensiero di I. Matte Bianco, di Alessandra Ginzburg » 239

5. La lacunarità psicosomatica e la bi-logica di I. Matte Bian-

co, di Luigi Scoppola » 248

6. Psicoanalisi, bi-logica, psichiatria, di Alberto Siracusano » 260

7. Rigorosità, apertura e sorpresa nel pensiero teorico di I.

Matte Bianco, di Giuseppe Maffei » 269

8. Granum sinapis: una riflessione sulla relazione tra conoscenza psicoanalitica e conoscenza analogica, di Sergio De

Risio » 278

Parte terza Testimonianze

1. Incontro con I. Matte Bianco, di Doriano Fasoli » 289

2. L’insegnamento di I. Matte Bianco, di Leonardo Ancona » 295

3. Ricordo di Ignacio Matte Bianco, di Paolo Perrotti » 304

Bibliografìa » 313

Gli autori » 318
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L'inconscio antinomico. Sviluppi e prospettive dell'opera di Matte Blanco
 8846414950, 9788846414953

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L opera d i Ign acio M atte B lan co (1 9 0 8 -1 9 9 5 ), i cu i co n cetti essen zia li sono ra cco l­ ti attorno a lla fo n d a m e n ta le sco p e r ta d ella b i-lo g ic a , co stitu isc e l ’u ltim o gran d e momento d e l p en siero p sico a n a litico . Come già era avven u to p er il p en siero di F reu d , q u esti con cetti - in virtù della loro cap acità d i gettare n u ova lu ce sui segreti p iù im p en etra b ili della m ente - tra ­ scendono la p u r im p ortan tissim a sfera della clinica p sico a n a litica , che rim ane cen ­ trale, d isch iu d en d o n u ov e e in a ttese p ro sp ettiv e alle d iscip lin e p iù d iv erse, a p artire da quelle filo so fic h e (logica ed ep istem ologia, in p a rtico la re) e da q uelle in eren ti alle questioni d e ll’estetica (lin g u istica , retorica e teoria d ella lettera tu ra ). Il volu m e raccoglie organ icam en te i la v o ri di alcu n i dei p iù sign ificativi stu d iosi del p en siero d i M atte B ia n co a d im ostrazion e che l ’Ita lia , scelta dal grande p en sa to ­ re cileno com e suo p a ese d ’elez io n e, ha sap u to coglierne la p rod igiosa origin alità, feconda co m è*di fu tu ro , con sp irito di au sp icio p er la sua p ro secu zio n e ed esp a n sio ­ ne. Scritti di: L e o n a r d o A n c o n a , L u c ia n a B o n d e M a tte , P ie tr o B r ia , S e rg io D e R isio, A n to n io D i B e n e d e tto , D o ria n o F a so li, M a r g a re te D u rst, K la u s F in k , A ld o G iorgio G a r g a n i, A le s s a n d r a G in z b u r g , G iu se p p e M a ffe i, F ra n c isc o M a tte B o n , C esare M ila n e se , F io ra n g e la O n e ro so , G u id o P a d u a n o , P a o lo P e r r o tti, G a b riele P ulii, E ric R a y n e r , A lb e rto S ir a c u sa n o , L u ig i S c o p p o la .

a cura di Pietro Bria e Fiorangela Oneroso

L’INCONSCIO ANTINOMICO Sviluppi e prospettive dell’opera di Matte Bianco

P ie tra B r ia , p ro fesso re di Igiene M entale p resso l ’U n iv ersità C attolica del “ Sacro C uore” d i R o m a e m em bro della Società P sico a n a litica Ita lia n a , è il p rin cip a le cu l­ tore in Ita lia (an ch e com e cu ra to re e trad u ttore) d e ll’op era di M atte B ian co. F io ra n g e la O n e ro so , p r o fe sso r e d i P sic o lo g ia G en era le p resso l ’U n iv er sità di Salerno, ha d ed ica to al p en siero di M atte B ian co d iv ersi stu d i, con p a rtico la re rife­ rimento a lle p ro b lem a tich e estetich e.

ISBN 8 8 - 4 6 4 - 1 4 9 5 - 0

Psicoanalisi contemporanea: sviluppi e prospettive

Franco Angeli

1215. Psicoanalisi contemporanea: sviluppi e prospettive Collana coordinata da: Anna Maria Nicolò Corigliano e Vincenzo Bonaminio Comitato di consulenza: Carlo Caltagirone, Antonello Correale, Antonino Ferro e Fernando Riolo La Collana intende pubblicare contributi sugli orientamenti, i modelli e le ricerche in psicoanalisi clinica e applicata. Lo scopo è quello di offrire un ampio panorama del dibattito attuale e di focalizzare progressivamente le molteplici direzioni in cui questo si articola. Come punti di intersezione di questa prospettiva vengono proposte opere italiane e straniere suddivise nelle seguenti sezioni: 1. 2. 3. 4.

Metodologia, teoria e tecnica psicoanalitica Il lavoro psicoanalitico con i bambini e gli adolescenti Temi di psicoanalisi applicata Studi interdisciplinari

La Collana si rivolge quindi a psicoanalisti, psicologi, psichiatri e a tutti coloro che operano nel campo della psicoterapia e della salute mentale. L’ampia prospettiva in cui la Collana è inserita risulta di interesse anche per lo studioso di neuroscienze, linguistica, filosofia e scienze sociali.

a cura di Pietro Bria e Fiorangela Oneroso

L’INCONSCIO ANTINOMICO Sviluppi e prospettive dell’opera di Matte Bianco

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FrancoAngeli

Indice

Introduzione. Verso un’epistemologia bi-logica, di Pietro Bria

pag. 11

Parte prima Bi-logica, riflessione filosofica ed esperienza estetica

In copertina: particolare tratto da un disegno di Enrique Marin Grafica della copertina: Elena Pellegrini

Copyright © 1999 by FrancoAngeli s.r.l., Milano, Italy Edizione 1 2 3 4 5 6 7

Anno_________________ 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009

È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno o didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, non autorizzata. Per la legge la fotocopia è lecita solo per uso personale purché non danneggi l'autore. Ogni fotocopia che eviti l'acquisto di un libro è illecita ed è punita con una sanzione penale (art. 171 legge 22.4.1941, n. 633). Chi fotocopia un libro, chi mette a disposizione i mezzi per fotocopiare, chi comunque favorisce questa pratica commette un furto e opera ai danni della cultura. Stampa: Tipomonza, via Merano 18, Milano.

1. Ignacio Matte Bianco e la cultura contemporanea. Estetica e psicoanalisi, di Aldo Giorgio Gargani

» 25

2. Antinomie dell’originario, di Cesare Milanese

» 44

3. Psicoanalisi e letteratura: dall’inconscio alla logica emotiva, di Guido Paduano

» 54

4. Bi-logica e filosofia: un’affinità elettiva, di Margarete Durst

»

68

5. Lingua, analisi della lingua e bi-logica, di Francisco Matte Bon

»

88

6. Pensare e sentire l’arte, di Fiorangela Oneroso

» 133

7. Pensare il sentire e pre-sentire il pensiero. L’esperienza estetica e musicale come esperienza bi-modale, di Antonio Di Benedetto

» 151

8. Il problema del principio di simmetria, di Gabriele Pulii

» 166

9. Capogiri bi-logici nell’umorismo di Pirandello, di Pietro Milone

Parte seconda Bi-logica e clinica psicoanalitica 1. La teoria bi-logica e le sue applicazioni cliniche, di Klaus Fink

pag. 199

2. Bi-logica e terapia psicoanalitica, di Eric Rayner

» 214

3. Elementi di bi-logica nel lavoro clinico con bambini ed adolescenti, di Luciana Bon de Matte

» 228

4. La cristallizzazione edipica: un’applicazione clinica del pensiero di I. Matte Bianco, di Alessandra Ginzburg

» 239

5. La lacunarità psicosomatica e la bi-logica di I. Matte Bian­ co, di Luigi Scoppola

» 248

6. Psicoanalisi, bi-logica, psichiatria, di Alberto Siracusano

» 260

7. Rigorosità, apertura e sorpresa nel pensiero teorico di I. Matte Bianco, di Giuseppe Maffei

» 269

8. Granum sinapis: una riflessione sulla relazione tra cono­ scenza psicoanalitica e conoscenza analogica, di Sergio De Risio

» 278

Parte terza Testimonianze

The two eyes are replaced b y one b ig eye. that the artist is referring to both eyes

1. Incontro con I. Matte Bianco, di Doriano Fasoli

» 289

2. L’insegnamento di I. Matte Bianco, di Leonardo Ancona

» 295

3. Ricordo di Ignacio Matte Bianco, di Paolo Perrotti

» 304

Bibliografìa Gli autori

» 313 » 318

This suggests

'put in one'.

This,

in its turny suggests the class w h i c h comprises all eyes: one,

two and all eyes.

it is

The capac i t y for looking or proposi-

tional function of this big eye-class

is that of all eyes.

In

other w o r d s } the picture suggests a symmetrizaticn of the class. On the other hand,

the eyelids are represented by what looks

rather like a pair of windows;

eyelid « window:

another symm-

etrization. The eye is big in proportion to the head, to suggest alertness and p enetrating capacity: of the whole symmetfized class.

and this seems

again a suggestion

W hen the lids are closed,

it

I due occhi sono sostituiti da un grande occhio. Ciò suggerisce che l ’artista si sta riferendo a entrambi gli occhi “messi in uno solo”. Ciò sug­ gerisce, a sua volta, la classe che comprende tutti gli occhi: essa è uno due e tutti gli occhi. La capacità di visione o della funzione proposizionale di questo grande occhio-classe è quella di tutti gli occhi. In altre parole,il di­ segno suggerisce una simmetrizzazione della classe. D ’altra parte le palpe­ bre sono rappresentate da qualcosa che somiglia a due finestre; palpebra-finestra: un’altra simmetrizzazione. L ’occhio è grande in proporzione alla testa e ciò sembra suggerire ca­ pacità di penetrazione e di vigilanza: di nuovo capacità della classe simmetrizzata. Quando le palpebre sono chiuse l ’occhio può guardare all’interno: capacità di estro-versione e di introversione... mondo esterno e mondo interno. D ’altra parte l ’occhio appare piazzato in profondità, all’interno della te­ sta e ciò suggerisce non solo una capacità ma anche una propensione ad esplorare il mondo interno. Le braccia e le gambe assomigliano ad oggetti meccanici tenuti insieme da viti. Ciò è in accordo con la loro f inzione essenziale: di tutte le parti del corpo esse sono quelle che possono essere più facilmente sostituite con ap­ parecchi inanimati. D ’altra parte esse, in qualche modo, somigliano a pesci che nuotano nell’aria e quest’impressione è anche rafforzata dal fatto che gli arti inferiori non sono attaccati al tronco. Il disegno, perciò, trasmette un’altalena dall’arto all’oggetto inanimato ai pesci che nuotano : dalla vita alla non-vita, alla vita. La parte del corpo sotto la testa mi sembra simile alla superficie curio­ samente modellata di un tavolo che, tuttavia, è parte del corpo stesso. Vi è su di essa qualcosa di simile ad una penna o allo strumento di un incisore. Ciò suggerisce l ’unità-indivisibilità dell’uomo e gli strumenti che egli usa per la sua creazione: suggerisce, cioè, il modo indivisibile. Il tronco, d ’altra parte, è appena abbozzato e non ha nessun punto di attacco con la testa-tavolo. Le braccia e le gambe nuotano-volano nello spazio con grande facilità e libertà. Tutto ciò suggerisce la supremazia del pensiero-senti­ mento sugli aspetti materiali. Nel complesso, in un flusso del tutto spontaneo che proviene dal profon­ do dell’essere, questo disegno trasmette nel modo più creativo l ’intimo in­ treccio tra i due modi di essere. Credo che potrebbe essere chiamato Vartista^ lo psicoanalista il filosofo: si accorda a tutti e tre.

,

Ignacio Matte Bianco (Traduzione dall’inglese di Pietro Bria)

Nota dei curatori Questo disegno è del noto pittore e incisore spagnolo Enrique Marin che ne ha fatto omaggio personale a Matte Bianco. Il commento - inedito è dello stesso Matte Bianco che lo aveva scritto per apporlo, insieme al di­ segno, come apertura di un volume che, sotto il titolo di “Internai World”, costituiva la prima e creativa versione di quello che, nella definitiva edizio­ ne inglese, sarebbe diventato “Thinking, Feeling and Being”. In questo di­ segno, nato dall’amicizia e dalla stima, Matte Bianco ravvisa, come già aveva fatto in un’altra occasione per un quadro di Magritte, l’espressione di quella “bimodalità” antinómica e costitutiva che, per Enrique Marin, era an­ che un modo di manifestare la sua “simpatia” verso l’autore della bi-logica. Pubblicando il disegno e il commento in apertura di questo nostro omaggio a Matte Bianco intendiamo anche ringraziare l’artista spagnolo.

Introduzione Verso un ’epistemologia bi-logica di Pietro Bria

Desideriamo esprimere un ringraziamento particolarmente vivo a Ga­ briele Pulii che ha dato un contributo essenziale a tutte le fasi di questo la­ voro, da quella ideativa a quella realizzativa. Un analogo ringraziamento va a Fernando La Greca per la sua consulenza nella soluzione dei problemi in­ formatici. P. B. F. O.

Questo volume nasce da un incontro che, a più di vent’anni dalla pubbli­ cazione de L'Inconscio come insiemi infiniti e mentre l’editore'Einaudi sta per pubblicarne la ristampa in una nuova collana, abbiamo promosso attor­ no alla figura e all’opera di Ignacio Matte Bianco. Scopo dell’incontro era quello di fare un bilancio di un percorso che, attraverso la riformulazione dell’inconscio freudiano, era approdato a qualcosa di molto più radicale che rappresenta una vera e propria sfida per l’epistemologia: la scoperta di una realtà antinómica annidata nel cuore stesso dell’essere e per la quale il mon­ do costitutivamente è o può essere visto allo stesso tempo come uno solo e indivisibile e come formato da aspetti o parti o punti di vista diversi tra loro. «Non vi è, nella nostra epistemologia, alcun modo di risolvere questa anti­ nomia. Tuttavia, ciò non implica necessariamente che essa non sia risolvi­ bile». Così si esprime Matte Bianco in uno dei suoi ultimi scritti, in quella lezione indimenticabile con cui riceveva dall’Università di Pisa la laurea honoris causa in Lingue e Letterature straniere. Introducendo la versione italiana di Thinking, feeling and being ho fatto anche notare come con essa egli si ricolleghi idealmente all’ultimo Freud, al Freud degli aforismi sullo spazio, sull’essere e sull’avere del 1938, ristabilendo con il pensiero e con l’eredità freudiana un rapporto di continuità che del resto aveva già segnato la sua opera fondamentale. Attorno a questo concetto nucleare che sorregge tutta l’impalcatura teori­ ca del pensiero di Matte Bianco si sono, così, riuniti studiosi e allievi che in modi diversi nel corso della loro vita si sono imbattuti nella sua persona e nella sua opera e da varia prospettiva hanno utilizzato le sue idee o il suo in­ segnamento per interpretare più adeguatamente i fatti, siano essi i fatti della clinica o quelli della letteratura. E proprio dalla letteratura e dall’analisi testuale sarebbero arrivati - per lo meno in Italia - i primi importanti ricóscimenti per la psicoanalisi matteblanchiana. Da quei settori che, avendo già fatta propria la lezione freudiana

della Traumdeutung, erano in qualche modo pronti ad accettare quel muta­ mento di prospettiva che, rispetto alla versione «contenutistica» dell’in­ conscio fondata sulla rimozione, privilegiava l’anima strutturale della ri­ flessione freudiana (presente nel primo e nell’ultimo Freud) che tendeva a ricondurre nell’«ordine logico» quegli aspetti «irrazionali» od «illogici» del comportamento e delle passioni umane che si presentavano agli occhi della Coscienza come dissoluzioni più o meno ampie della sua trama che è tes­ suto della logica e dei suoi principi - primo fra tutti quello di non contraddi­ zione - ai quali la Coscienza umana appare vincolata. Nell’esporre le motivazioni per cui il Senato Accademico gli conferiva la laurea honoris causa, Guido Paduano esplicitava il tributo che all’opera di Matte Bianco veniva riconosciuto da ambiti culturali come la linguistica, l’arte e la letteratura, campi del sapere «in cui il doppio essere dell’uomo si manifesta con maggiore ricchezza dell’una e dell’altra delle sue forme e del loro equilibrio». «La struttura della comunicazione letteraria - proseguiva Paduano, in sintonia con i contributi già espressi in altra sede da Francesco Orlando ma anche da Stefano Agosti e da Cesare Milanese - ha infatti un carattere compromissorio e dialetticamente bilanciato in un campo di forze: da un lato è un sistema di significazione definito e controllato, cioè uno strumento per conoscere il mondo nelle sue articolazioni, nella chiarezza delle sue distinzioni e alternative; dall’altro, è una spinta verso l’assoluto, l’infinito, la totalità, una necessità inesauribile di arricchimenti e allarga­ menti. Essa si afferma nei cortocircuiti del pensiero creativo garantiti da nessi perfettamenti estranei ad una Weltanschauung razionale, e ancor di più nell’ambiguità delle connotazioni, nell’opacizzazione del rapporto tra significante e significato, nell’eccesso di senso che è in ogni figura, nelle identificazioni impossibili che si creano dalla folgorazione della metafora». Ai rapporti tra universo emotivo e letteratura e, all’interno della stessa opera, tra mondo della «totalità» simmetrica e mondo della «pluralità» asimmetrica Paduano ha dedicato la sua più recente ricerca di studioso. Mi riferisco all’innovativa lettura della poesia di Catullo in termini di emozioni infinite da cui essa è permeata ma, ancora di più, alla sua stimolante e pro­ vocatoria versione e interpretazione dell’Hiade di Omero dove l’universo emotivo del protagonista Achille con i processi di «infinitizzazione» e i continui rimandi delle «identificazioni simmetriche» che lo caratterizzano diventa il motore di tutta l’azione drammatica sino ad arrivare a comporsi in un equilibrio con l’universo storico della pluralità e del finito. Universo emotivo e processi di infinitizzazione. Non c’è dubbio che la teoria dell’emozione che Matte Bianco pone nel cuore della sua opera più importante, L'Inconscio come insiemi infiniti, e che senza dubbio costituisce

il contributo più originale e completo sull’argomento nel panorama psicoanalitico e psicologico post-freudiano, è quella che forse ha avuto l’impatto maggiore su quanti hanno accolto ed utilizzato le sue idee. E ciò non fa me­ raviglia se si pensa che l’analisi dei processi emozionali da una parte rap­ presenta il punto di convergenza della riflessione sull’inconscio freudiano e di quella sull’Infinito e dall’altra viene a costituirsi come vero fondamento empirico per queste due strutture con cui lo spirito umano ha tentato nel corso dei secoli - per dirla con Matte Bianco - di catturare e di irreggimen­ tare l’indivisibile o, il che è lo stesso, di pensare Fin-pensabile. Per tale fon­ damento che sta alla base e dà materia al pensare l’inconscio arriva a radi­ carsi nei vissuti più originari e marasmatici della corporeità e l’Infinito come era nei pensieri di Cantor - si collega alle inquietudini più profonde dell’uomo e al suo bisogno inappagato di assoluto! La logica dell’emozione, attraverso tale percorso, si lega attraverso uno stretto isomorfismo, alla logica dell’inconscio e alla logica dell’Infinito. E forse bisognerebbe parlare di qualcosa di più di un isomorfismo dal mo­ mento che, come ho scritto in un’altra occasione, l’Inconscio (e, quindi, l’Infinito) sembrano non essere altro che la «struttura cognitiva basica» dell’emozione stessa o meglio dei suoi livelli più profondi. Parlare di «logica dell’emozione» significa, così - cito Remo BojJei dal suo «Geometria delle passioni» dove accosta l’intuizione di Matte Blànco al pensiero di Spinoza- «smentire indirettamente la concezione diffusa secon­ do cui le passioni costituiscono energie incontrollabili e cieche». Esse, inve­ ce, non sono cieche, semmai stravedono, «extra-vedono» giacché deborda­ no dal contesto. E in effetti - afferma ancora Bodei - «ogni persona, cosa o evento, in quanto oggetto di passione è sostanzialmente veicolo o occasione che rimanda all’universale, provocando la convergenza istantanea dell’in­ tero genere sul singolo caso, ponendo con ciò in rilievo quel “sovrappiù”, quel vistoso residuo, presente in tutte le passioni, che non cessa di scanda­ lizzare la ragione per la “dismisura” evidente della reazione emotiva istan­ tanea rispetto alla magnitudine della causa che l’ha generata». Siamo nel cuore della riflessione matteblanchiana: in quell’identità tra elemento e classe di appartenenza che è conseguenza del principio di sim­ metria per il quale «l’inconscio non conosce individui ma solo classi o fun­ zioni proposizionali», punta verso l’infinito - quale è stato formulato dai matematici - e sarà, come vedremo, determinante per il discorso psicopato­ logico. Se c’è logica nell’emozione, nell’emozione c’è ragione. Qui Matte Bianco si distacca da tutta una tradizione partita da William James e si av­ vicina piuttosto al pensiero fenomenologico di Sartre. Ma egli aggiunge: la

«ragione» emozionale segue percorsi - percorsi «inferenziali», aggiungerei io, seguendo Peirce - che non si esauriscono nel rispetto della sola logica aristotelica della non-contraddizione ma richiedono - per acquistare senso l’intervento di un’altra logica - la logica simmetrica - con cui Matte Bian­ co traduce logicamente e in positivo quelle violazioni dei principi della lo­ gica che portano all’identità tra parte e tutto e attraverso cui si esprime un aspetto o un modo dell’essere indiviso, quello stesso che cogliamo nelle no­ stre emozioni quando viviamo la classe totale trascurando o annullando ogni distinzione possibile all’interno di essa. L’identità tra parte e tutto o tra ele­ mento e classe di appartenenza nel vissuto emotivo (per intenderci l’equazione e (elemento) = E (classe di appartenenza di e)), apre, come ve­ dremo, le porte all’infinito e con ciò promuove nuove possibilità di com­ prensione per le dinamiche conflittuali della vita affettiva. È anche vero, pe­ rò, che la loro mancata distinzione ha portato molta confusione ed impreci­ sione nel discorso psicoanalitico soprattutto da parte di quelle correnti di pensiero che hanno preteso di indagare e di esplorare - senza un adeguato bagaglio epistemologico - i livelli profondi inconsci del sentire e la dinami­ ca del «mondo interno» e degli strani «oggetti» che lo abitano (il seno, il pene, la madre, il padre, il coito tra i genitori etc.) e che sono solo luoghi di mediazione in cui si esprime l’esperienza della classe totale (il Pene, il Se­ no, la Madre, il Padre etc.) che trascende di molto la realtà dell’oggetto in­ dividuale e concreto, proprio come 1/2 può essere il rappresentante e, in quanto tale, dà il nome ad una classe di equivalenza che contiene in sé infi­ niti elementi che hanno come valore 1/2. Da questo intreccio tra logiche - e quindi tra modi - incompatibili na­ scono percorsi bi-logici, nasce la bi-logica e, con essa, le strutture bi­ logiche - dell’inconscio, dell’emozione, deH’infìnito - che sono espressione (logica) del fatto ontologico di base dal quale siamo partiti: l’antinomia fondamentale! Ne deriva che se l’inconscio è il regno delle strutture bi­ logiche e, in quanto tale, è il regno delle antinomie anche l’universo emoti­ vo sarà un universo antinómico e saturo di infinito! Lo studio dei processi di infinitizzazione che caratterizzano i livelli pro­ fondi del nostro essere emozionale si è rivelato molto importante per l’interpretazione dei fatti psicopatologici. Ciò riguarda entrambi i versanti di quello che Matte Bianco ha chiamato l’aspetto psichico dell’emozione:la «sensazione-sentimento» che lega l’emozione al corpo (il modo di «coglie­ re» gli inevitabili movimenti corporei che la costituiscono) e l’aspetto di «pensiero» (stabilimento di relazioni) che la lega all’oggetto (1’«oggetto» dell’emozione). Perché è proprio così: in ogni nostra emozione - e il discor­ so vale a maggior ragione per le emozioni più basiche come l’amore, l’odio,

la rabbia, la paura - siamo al tempo stesso «corpo vissuto» e relazionati con il mondo! Per quanto riguarda la «sensazione-sentimento» essa ci riporta ai livelli arcaici del sentire (che sono livelli primitivi della relazione corpo-mente): i livelli «simmetrici» dell’esperienza marasmatica del corpo quando quest’ul­ timo occupa la scena con l’insieme disperso delle sue sensazioni che atten­ dono di essere contenute, discriminate e rivestite di significato. Questi li­ velli dell’esperienza sensoriale non più contenuti fanno irruzione nello stato di «panico» e arrivano a sopraffare la mente impedendone il funzionamento. Armando Ferrari (1992) ha parlato per questo livello «corporeo» di oggetto originario concreto la cui eclissi darà origine e sviluppo alla dimensione mentale. Il secondo aspetto dell’esperienza emotiva - quello che la lega al­ l’oggetto - dal momento che si traduce in un processo di «infinitizzazione» delle caratteristiche di quest’ultimo (l’oggetto amato, in altri termini, sarà infinitamente amato e l’oggetto odiato sarà infinitamente odiato) mi ha portato a riflettere sulla peculiare natura del conflitto psichico inconscio e ad affermare che l’infinitizzazione emotiva è fonte di «assoluta» incompati­ bilità quando interessa due opposti - come è il caso dell’amore e dell’odio su cui si fonda la dialettica pulsionale descritta da Freud. In effetti - come ho scritto altrove - nel mondo dell’«illimitato» in cui si muovono le emo­ zioni inconsce, non ancora temperate dal pensiero, l’opposizione tra i «con­ trari infinitizzati» - e cioè tra amore (infinito) e rabbia (infinita) - riguardo allo stesso oggetto diventa incompatibile con il rispetto del principio di non contraddizione perché in questo livello «infinito» amare o odiare sotto certi aspetti diventa amare o odiare sotto ogni aspetto e diventa impossibile una competizione tra i due. Non solo, ma la coesistenza dei contrari sembra, a questo livello, puntare verso l’identità tra i contrari stessi (l’«identitas oppositorum» che è chiara violazione del p. di n. c.): quell’equazione amore= odio che è sentita oscuramente come incompatibile con la stessa sopravvi­ venza. Se seguiamo, poi, l’ipotesi kleiniana sullo sviluppo e il significato che questa attribuisce ai meccanismi di scissione con cui il bambino cerca di far fronte all’esperienza - necessariamente confusiva - per la quale lo stesso Seno è sentito come fonte di Bene e di Male (assoluto), possiamo ben dire che la Klein - al di là della validità globale delle sue ipotesi sulla mente del bambino - sembra cogliere un fatto fondamentale che si sviluppa come ri­ sultato dell’impatto tra l’esperienza emotiva inconscia infinitizzata e le ope­ razioni embrionali ma necessariamente discrete della mente conscia. Per es­ so il bambino che arriva a costituire la “realtà interna schizoparanoide” del Seno Buono e del Seno Cattivo sta in effetti cercando di trattare una realtà

con-fusiva che sente come incompatibile con la propria sopravvivenza af­ fermando, per la prima volta, con un movimento del pensiero, un principio di incompatibilità che pone a difesa della sua salute mentale. Questo princi­ pio vuole che lo stesso Seno non può essere portatore al tempo stesso di be­ ne e di male e, quindi, amato e odiato. Il che vuol dire: non possono darsi al tempo stesso e sotto il medesimo riguardo due opposti rispetto allo stesso oggetto. Mi sembrano qui risiedere - comé più volte ho affermato - i pre­ supposti affettivi per la nascita di un principio logico, quello di non con­ traddizione che, nell’accezione aristotelica, è principio di incompatibilità tra gli opposti con cui l’uomo sembra difendersi dall’irruzione dell’infinito e, quindi, dell’indi visibile e garantire la natura oppositiva e dialettica del reale su cui il pensiero opera. Credo che lo sforzo dell’analisi matematica che nell’800 è arrivata a formulare il concetto di limite con cui ha pensato di padroneggiare l’infinito (da qui la risoluzione apparente dei paradossi di Zenone sul movimento) oltre che agli ovvi problemi da risolvere imposti dalla realtà risponda anche alle esigenze di questa realtà interiore che Zeno­ ne traduceva attraverso i suoi paradossi che denunciavano un insanabile conflitto tra ragione ed esperienza. Si delinea, così, nella concezione matteblanchiana della «mente incon­ scia», influenzata dal concetto di infinito, una topologia pluristratificata del conflitto nella mente. Questa parte dai livelli più superficiali (nei quali modello per il conflitto è il contrasto tra forze o «attrattori» (Thom), ben noto alle scienze fisiche utilizzato da Freud per il suo modello pulsionale e vincolato al rispetto del principio di non-contraddizione) e perviene ai più profondi dove si viene a contatto o ci si immerge nel «regno delle infinitizzazioni» dei vissuti emotivi che danno luogo ad «incompatibilità assolute» laddove erano ancora possibili compatibilità o competizioni dialettiche. E questa zona dell’incompatibilità assoluta sembra come sospesa su una zona muta dell’essere psichico aliena all’idea stessa di conflitto perché qui non si dà opposizione alcuna ma sola vige - seppur inevitabilmente e variamente circoscritta - la legge dell’«identità simmetrica» che richiama - come ha qualche volta suggerito lo stesso Matte Bianco - la strana «calma» di alcuni stati schizofrenici. Questa visione del conflitto - che ricaviamo dal suo pen­ siero - riveste particolare importanza quando interessa quei «sistemi moti­ vazionali di base» che funzionano come sistemi di «opposti» (è il caso del sistema attaccamento-esplorazione) fondamentali per la costruzione della sicurezza e della stabilità del sé. A questo punto possiamo dire, con Matte Bianco: l’infinito è entrato di diritto nella scienza psicologica per restare! E su questi livelli infinitizzati dell’esperienza emotiva il pensiero umano - con la sua attività relazionale e

sollecitato anche dalla realtà - trova sin dagli inizi la materia prima per il suo operare e la giustificazione per la sua nascita e il suo sviluppo. Ma il suo compito sarà purtroppo destinato a rimanere insaturo perché - come ha affermato più volte lo stesso Matte Bianco - «è nell’essenza del pensare uno scarto incolmabile con l’essere omogeneo che non può essere mai colto nella sua totalità e nella sua essenza»! «Per il resto - aggiunge Matte Bianco - non resta che viverlo ma la qualità e la adeguatezza del vissuto dipenderà dalla capacità della mente-pensiero di trattare con la realtà emotiva che è sua matrice: il che, nella visione di Matte Bianco, sarà anche capacità di sa­ per oscillare armonicamente- nei posti e nei tempi giusti - tra i vari livelli della «struttura polistratificata» che costituisce la mente. Gran parte della psicopatologia dipenderà dal fallimento - che rimanda a complessi fattori bio-ambientali - di questa funzione di «contenimento» e di «modulazione» (funzione asimmetrica di traduzione o di dispiegamento, nei termini di Matte Bianco) che il pensiero non riesce ad assolvere. Lo studio delle strutture bi-logiche inaugurato e sviluppato da Matte Bianco ha trovato applicazioni nella clinica psichiatrica (vedi quelle sul pensiero ossessivo e su quello schizofrenico avviate dallo stesso Matte Bianco e punto di partenza della sua indagine sull’inconscio freudiano ma anche la formulazione della struttura bi-logica cortocircuitata rilevata nel delirio di Schreber) e nella terapia psicoanalitica (mi riferisco qui breve­ mente alla proposta avanzata da Matte Bianco nei suoi ultimi scritti sulla te­ rapia riguardo le possibilità di trasformare strutture bi-logiche non-vitali in strutture bi-logiche vitali isomorfe alle prime: una proposta che attende di essere sviluppata). Si può, però, dire di più: lo sviluppo della ricerca sulle strutture bi-logiche attraverso cui trovano espressione quelle che a ragione possiamo chiamare le «categorizzazioni affettive» potrà senza dubbio con­ tribuire a costruire un fecondo rapporto - con effetti inevitabili per la terapia - tra la psichiatria clinica e le più avanzate proposte che provengono dalle neuroscienze (mi riferisco, ad esempio, alle ricerche di Edelman sui proces­ si di categorizzazione percettiva che sembrano muoversi in un’ottica paral­ lela o, quanto meno, compatibile con questa). E così arriviamo a un territorio che è stato sempre centrale nella rifles­ sione matteblanchiana sulla mente: quello dei rapporti tra spazio e mente che occupa gran parte degli ultimi contributi di Matte Bianco e che rappre­ senta un campo di studio per il futuro della psicoanalisi e della conoscenza in generale. La riflessione sullo spazio nella mente ci riporta ai suoi antichi Studi di Psicologia dinamica (1954) quando analizzando la struttura del te­ sto onirico - via regia verso l’inconscio - e utilizzando il concetto di spazio multidimensionale egli arriva ad affermare: «il sognatore (e l’inconscio) si

comporta come un geometra che adopera un numero di variabili superiore a tre ma è costretto ad usare nella sua rappresentazione uno spazio di dimen­ sioni non superiori a tre». Questo processo di «tridimensionalizzazione» e cioè di «dispiegamento immaginativo» di qualcosa (la realtà multidimen­ sionale dell’inconscio) che in sé sarebbe alieno all’immagine e alla rappre­ sentazione, applicato al sogno e al «lavoro onirico» che lo fa venire alla luce capovolge, di fatto, tutta l’ottica prevalente nella Traumdeutund freudiana fondata sulla rimozione e configura il testo del sogno come una struttura bi­ logica affatto particolare cui Matte Bianco dà il nome di Struttura Bi­ logica Tridimensionalizzata. Questo percorso viene esplicitamente affer­ mato dal nostro autore in un suo intervento alla Fondazione Cini di Venezia (1982) dove, proponendo una ipotesi di topologia deU’onirico, egli ne espone i presupposti in termini di dinamica tra spazi di dimensione diversa. E così nella sua riflessione il sogno, nel suo contenuto manifesto, sembra non più e non solo - come voleva Freud nel suo programmatico capitolo terzo dell’Interpretazione dei sogni - il risultato del «mascheramento» di­ fensivo del desiderio latente o inconscio quanto piuttosto il prodotto della coscienza immaginativa che cerca di attrarre e di tradurre o dispiegare nello spazio che le è proprio - che è spazio tri-dimensionale - la «multi-dimensionalità» che è propria del desiderio inconscio e che in sé sarebbe alie­ na all’immagine e alla rappresentazione come bene intuì Magritte, pittore e geometra dell’onirico. Con questi strumenti concettuali ne L ’inconscio come insiemi infiniti Matte Bianco aveva rivisitato il principio di non contraddizione proponen­ done una interpretazione geometrica che apriva enormi possibilità di com­ prensione per i fatti psicologici. «Il principio di non-contraddizione - egli affermava - deve essere considerato nei termini dello spazio preso in esame o nei termini delle corrispondenze biunivoche che si possono stabilire tra asserzioni e punti di quel particolare spazio». Se si può concepire un nume­ ro infinito di spazi, si possono concepire un numero infinito di leggi di con­ traddizione, ciascuna delle quali corrisponde a un determinato spazio e non ad altri. E il rispetto del principio di non contraddizione in un determinato spazio (non p e non-p) potrebbe non valere più se passiamo ad uno spazio di dimensioni superiori (p e non-p, dove non-p è il corrispondente, in uno spa­ zio di dimensione maggiore, del punto p). Viceversa ciò che è contradditto­ rio in un determinato spazio potrebbe non esserlo in uno spazio di dimen­ sione maggiore. Come Alice nel paese delle meraviglie assistiamo a uno sconvolgente ma anche affascinante mutamento di prospettiva quando ab­ bandoniamo i limiti della tri-dimensionalità e ci lasciamo andare nel mondo della multidimensionalità dove scopriamo paure e terrori ma anche nuove

possibilità creative e un rapporto più profondo con le cose e con gli esseri che ci circondano! All’interno di questo riferimento multidimensionale e di questa dialettica dimensionale Matte Bianco esplora in Pensare, sentire ed essere, come mai aveva fatto prima e con un continuo rimando ai fatti clinici, la vita del mondo interno («Internai world» era, ricordo bene, il titolo originario del suo volume poi modificato), la natura degli oggetti spesso strani o «bizzar­ ri» che popolano la mente e il loro metabolismo («introiezione», in quale spazio?, si interroga Matte Bianco). In sintonia con un altro grande psicoa­ nalista, R. Wilfred Bion, che verso la fine della sua vita, in Memoria del futuro, si avventura anch’egli nei tortuosi e strani labirinti dell’interiorità cosparsi di paradossi - che sono anche «paradossi della temporalità» Matte Bianco ci offre in quest’opera, accanto alla sua grande esperienza cli­ nica, una illuminante meditazione sulla natura dell’oggetto psichico che si apre verso il futuro della scienza psicoanalitica. Per essa l’oggetto interno quale ci viene descritto dalla clinica psicoanalitica appare come una realtà cosparsa di paradossi - che sono paradossi bi-logici - risultato della strana «topologia» che vige nell’inconscio. Per essa l’oggetto (come oggetto con­ creto tri-dimensionale) è sentito come interno al sé ma al tempo stesso, in quanto classe, è sentito come qualcosa di più generale che sembra piuttosto contenere il sé: una «simmetrizzazione della relazione contenuto-con­ tenitore che in un mio lavoro su Bion ho posto alla base del suo concetto di «cambiamento catastrofico». Tutto ciò - afferma Matte Bianco - è conse­ guenza del fatto che «ci sono fatti essenziali a proposito della mente e delle relazioni tra l’individuo e gli altri individui (seno, madre, padre, mondo) che semplicemente non possono essere colti in termini di antitesi tra esterno­ interno... ma si riferiscono agli aspetti non-tridimensionali che sono essen­ ziali per gli esseri umani e rappresentano l’espressione dell’esperienza del­ l’indivisibilità, essa stessa parte della natura umana (e alla base del suo essere emozionale)... Il pensiero cerca frequentemente di concepire questi aspetti in termini di spazio ma il miglior risultato che può raggiungere in tale tentativo è quello di usare il concetto di infinito e di spazio di infinite dimensioni». Ho parlato poco fa di «paradossi della temporalità» e proprio con il problema del tempo vorrei concludere questa mia introduzione necessaria­ mente incompleta al pensiero di Matte Bianco perché mi permetterà di apri­ re un altro varco verso l’antinomia costitutiva. Parto da una citazione di Freud tratta dalla trentunesima lezione delle sue Lezioni Introduttive alla Psicoanalisi: «Nulla si trova nell’Es che corri­ sponda all’idea di tempo, nessun riconoscimento di uno scorrere temporale e - cosa notevolissima e che attende un’esatta valutazione filosofica - nes-

sun’alterazione del processo psichico ad opera dello scorrere del tempo. Impulsi di desiderio che non hanno mai varcato l’Es, ma anche impressioni che sono state sprofondate nell’Es dalla rimozione, sono virtualmente im­ mortali, si comportano dopo decenni come se fossero appena accaduti. Solo quando sono divenuti coscienti mediante il lavoro analitico essi possono ve­ nir riconosciuti come passato... e su ciò si fonda, e non in minima parte, l’effetto terapeutico del trattamento analitico. Ho costantemente l’impres­ sione che da questo fatto accertato al di là di ogni dubbio, dell’inalterabilità del rimosso ad opera del tempo, noi abbiamo tratto troppo poco profitto per la nostra teoria. Eppure qui sembra aprirsi un varco per penetrare in profon­ dità. Purtroppo nemmeno io sono andato oltre su questo punto». In linea con queste affermazioni Freud nel suo lavoro L ’inconscio del 1915 aveva già parlato di processi inconsci in sé a-temporali enunciando a sua insaputa come più volte Matte Bianco ha rilevato - una antinomia che vuole l’inconscio - in quanto processo - immerso nel tempo ma anche al di fuori del tempo: antinomia che Matte Bianco fa propria e risolve in positivo nella sua riformulazione bi-logica dell’inconscio freudiano. Nel 1988 Aldo Giorgio Gargani scrive l’autobiografico Sguardo e Desti­ no che si annuncia come una svolta nel suo percorso di uomo e di scrittore. Matte Bianco, a lui legato affettivamente, coglie il senso di questo muta­ mento e prepara uno scritto per la presentazione del volume che, pur in non perfetto stato di salute, tiene a comunicare personalmente a Gargani. Trovo questo piccolo saggio inedito, mosso com’è dall’affetto, profondamente ispirato. In esso, partendo da alcune affermazioni dell’autore, Matte Bianco ritorna forse per l’ultima volta sul problema del tempo e attraverso le intui­ zioni di Freud e dei filosofi presocratici (Parmenide ed Eraclito) getta di nuovo lo sguardo sull’antinomia costitutiva quale si esprime nel profondo dell’essere in una struttura bi-logica pluritemporale. E con le sue parole vorrei concludere questo piccolo saggio introduttivo al suo pensiero: «Mi sembra che nella sottile analisi della coscienza che ritoma su se stessa - ave­ re coscienza, avere coscienza di avere coscienza, avere coscienza di avere coscienza di avere coscienza... - egli (Gargani) si confronta con un problema inquietante: esi­ ste per noi una realtà indipendente da noi stessi, esseri che pensano, sentono e ricor­ dano? Alternativamente, non sarà forse che tutto ciò che consideriamo reale, come per es. i ricordi della nostra infanzia, non sia soltanto che quell’aspetto del passato che è sempre rimasto in noi, non come un semplice ricordo passivo bensì come una realtà a se stante e attiva, che agisce su molti e diversi aspetti della nostra vita di ogni giorno (Struttura bi-logica pluritemporale)? Se fosse così, allora bisognerebbe concludere che non esiste il passato bensì soltanto il presente. Ma il presente si defi­ nisce in rapporto a passato e futuro. Allora non si può dire «soltanto il presente». Forse sarebbe più accurato dire che non esiste il tempo. Eppur... esiste. Esiste e non

esiste. E se la formuliamo così, allora stiamo davanti ad una antinomia che Freud ha definito senza chiamarla con questo nome... Penso che tale conclusione, dell’esistenza di un’antinomia fondamentale dell’essere, costituisca un’importante comprensione della natura del mondo. E ciò apre nuove porte, sia alla psicoanalisi che alla filosofia. Quando Gargani dice «come se un tempo sterminato si fosse contratto in un istante» troviamo una conferma del suo sforzo per accettare l’a-temporalità senza far scomparire la temporalità, poiché un istante è sempre una porzione di tempo. In altre parole, egli non riesce a rinunciare a nessuna delle due. Così facendo si colloca nel v mezzo dell’antinomia fondamentale, che sarebbe l’espressione della coesistenza di due logiche - aristotelica e simmetrica - che sono incompatibili tra di loro. Questa antinomia porta a sua volta alla concezione anch’essa antinómica dei due modi dell’essere: da un lato l’essere è uno solo e indivisibile; dall’altro gli esseri sono molti... E ci accorgiamo che il nostro autore, senza dirlo in queste parole, si trova nella stessa atmosfera di pensiero quando scrive: «siamo diventati figli di un padre che è divenuto nostro figlio, che ora lo sappiamo anche noi, che era vero, ma non era vero; che è vero, ma non è vero».

Parte prima Bi-logica, riflessione filosofica ed esperienza estetica

1. Ignacio Matte Blanco e la cultura contemporanea. Estetica e psicoanalisi di Aldo Giorgio Gargani

Nel confronto fra un’analisi informata alla logica ordinaria, asimmetrica, rispettosa del principio di non contraddizione da un lato e una logica invece simmetrica, che assume l’identità della parte con il tutto al quale appartiene, consegnata al principio di contraddizione e dunque aH’infinitizzazione di tutti i possibili asserti, l’opera di Matte Bianco coglie un aspetto fondamen­ tale della problematica estetica quale si è venuta delineando a partire dalla Critica del Giudizio di Kant fino ai più recenti dibattiti1. Tale aspetto si rife­ risce a quella modalità dell’esperienza estetica che ha una relazione con un’unità indeterminata e oscura della realtà psichica totale, della quale non possiamo avere un concetto, né una definizione formale, né una presa intel­ lettuale esaustiva. La teoria psiconalitica per Matte Bianco è quella discipli­ na che analizza il processo nel quale una logica basata sul principio di non contraddizione e sul principio dell’asimmetria cerca di strappare al mondo infinito dell’inconscio le relazioni asimmetriche che vi sono potenzialmente depositate. A questo intreccio di logica asimmetrica, fondata sul principio di non contraddizione, e di logica simmetrica Matte Bianco dà il nome di bi­ logica. La psicoanalisi trascorre dal mondo eterogeo, distinto, asimmetrico della logica ordinaria al mondo simmetrico, omogeneo, indiviso e infinito dell’inconscio per restituire un’intelligibilità di quest’ultimo, senza peraltro poter mai raggiungerlo e risolverlo nelle proprie formule finitarie. «La psicoanalisi sta facendo con l’essere psichico reale, che è l’uomo, quello che la matematica ha fatto con il suo oggetto, l’essere psichico ideale: sta scoprendo complessità e sottigliezze sempre crescenti. È una funzione di traduzione: “strappar via” dagli infiniti simmetrici molte delle relazioni asimmetriche in essi implicite potenzialmente. Ma è un modo peculiare di strappar via, poiché la fonte rimane di­ stante dall’asimmetria e non toccata da essa. La funzione di traduzione è, assai para1 Sulla problematica estetica aperta da Kant, cfr. Pietro Montani, Estetica ed Ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 3 e sgg.

dossalmente, simile ad un’immagine speculare di qualcosa che in sé non ha nessuna forma e struttura, ma che potenzialmente suggerisce un numero infinito di forme e di strutture: è la creazione di un numero (potenzialmente) infinito di immagini di qual­ cosa che da solo non è capace di essere riflesso»2. Da Kant a Heidegger l’esperienza estetica, intesa in un senso lato, dun­ que non più semplicemente ed esclusivamente come dottrina del bello e della forma, ma come paradigma di ogni processo conoscitivo, costituisce una condizione esemplare di quel processo psichico nel corso del quale l’uomo esperisce un sintomo inesprimibile dell’infinito, un presagio dell’indicibile. Matte Bianco ravvisa precisamente il tratto specifico del­ l’esperienza estetica nella circostanza che essa contiene e significa una va­ rietà pressoché illimitata di simboli in forma implicita. Dunque l’esperienza estetica come tale si manifesta nel suo rapporto strutturale e costitutivo con l’infinito e con l’ineffabile. «Un tratto costitutivo e distintivo della creazione artistica del suo prodotto, l’ope­ ra d’arte, è di dire molto di più di quanto dice esplicitamente. In altre parole, ogni opera d’arte ha attorno a sé un alone di significati apparentemente non visibili ma tuttavia presenti e costitutivi della natura dell’arte»3. La teoria psicoanalitica di Matte Bianco nel suo complesso, da L'inconscio come insiemi infiniti fino a Pensare, sentire, essere4 si inserisce in questa tematica. Quell’unità indeterminata e oscura rappresqnta l'emozio­ ne infinita in cui, secondo Matte Bianco, consiste l’inconscio. «Il meno che si possa dire su emozione e inconscio è che sono molto simili, se non identici. L’emozione viene espresa nei termini delle stesse violazioni della logi­ ca che osserviamo nell’inconscio. Nessuno dei due è una pura espressione del mon­ do indivisibile, ma entrambi ne sono altamente saturi. Così possamo anche dire che l’inconscio, che rispetta così poco le leggi del pensiero logico, è ciononostante il pa­ dre del pensiero logico»5. La concezione della bi-logica coglie la relazione di un pensiero e di un linguaggio logico, basato sul principio di non contraddizione e di asim­ metria, che deve fronteggiare l’impatto di un pensiero e di un racconto che si sottrae a quella strategia logica, che emerge e si dispiega nel flusso caoti­

co di relazioni simmetriche, nelle quali i termini sono invertibili (parte-tutto, padre-figlio e simili), in cui il finito si infinitizza, il membro di una classe, un suo sottoinsieme, si identifica con la classe alla quale appartiene, per esempio un seno viene identificato con la classe di tutti i seni. In questi ter­ mini la dottrina di Matte Bianco riesce a decifrare l’aspetto infinito e uni­ versale dell’oggetto estetico per se stesso contingente, particolare, determi­ nato dalle intemperie dello spazio e del tempo. «Un tratto distintivo dell’opera d’arte sarebbe di offrire al suo contemplatore qualcosa che appare come più o meno circoscritto e di insinuare dentro questo qual­ cosa, in modo armonioso e più o meno invisibile, molte o tutte le classi cui l’oggetto o situazione concreta in questione appartiene»6. La bi-logica di Matte Bianco combinando pensiero logico ordinario, asimmetrico, fondato sul principio di non contraddizione, definito su para­ metri spazio-temporali7 da un lato e logica simmetrica, basata sulla contrad­ dizione, fuori del tempo e dello spazio - che è la logica dell’inconscio e del­ l’emozione infinita - dall’altro rende ragione di quella condizione esisten­ ziale e di quella condizione emotiva in cui l’uomo esperimenta il limite in­ superabile e intrascendibile della sua domanda di senso8. In questo senso, l’uomo deve continuare a cercare instancabilmente, sen­ za mai arrestarsi, la parola autentica che gli restituisca parti del suo Sé. Questa parola suscita in lui l’esperienza dello stupore perché lo sorprende, perché lo inizia a quello che egli è, ma che al tempo stesso deve anche di­ ventare attraverso la parola e l’espressione. Le parole dunque sorprendono noi stessi e ci insegnano qual è il nostro pensiero. Samuel Beckett nel terzo volume della sua Trilogia, L'innominabile chiarisce la condizione di questa scoperta. «Bisogna continuare, bisogna dire delle parole, intanto che ci sono, bisogna dirle, fino a quando esse non mi trovino, fino a quando non mi dicano, strana pena, strana colpa, bisogna continuare, forse è già avvenuto, forse mi hanno detto, forse mi han­ no portato fino alla soglia della mia storia, davanti alla porta che si apre sulla mia storia, ciò mi stupirebbe, se si apre, sarò io, sarà il silenzio, là dove sono, non so, non Io saprò mai, dentro il silenzio non si sa, bisogna continuare, e io continuerò»9. 1. Matte Bianco, «Riflessioni sulla creatività artistica», cit., p. 271. 7 Ricordiamo che il principio di non contraddizione prevede vincoli spazio-temporali, in quanto esso stabilisce che una proprietà non può essere e non essere predicata di un oggettosorto il medesimo riguardo e nel medesimo tempo. 8 Su questa tematica cfr. ancora P. Montani, op. cit., pp. 5 e sgg. 9 S. Beckett, L ’innominabile, in Id., Trilogia, a cura di A. Tagliaferri, Einaudi, Torino, 1996. p. 464. 6

2 1. Matte Bianco, L ’inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Introduzione di Pietro Bria, Einaudi, Torino, 1981, p. 333. 3 1. Matte Bianco, «Riflessioni sulla creatività artistica», in Filmcritica Argomenti, 1986, p. 256. 4 I. Matte Bianco, Pensare, sentire, essere, Einaudi, Torino, 1995. 5 Ivi', op. cit., p. 113.

Anziché una soggetivizzazione dell’esperienza estetica, Matte Bianco attraverso la connessione fra psicoanalisi ed estetica, fra logica del conscio e logica dell’inconscio - ristabilisce la dimensione conoscitiva della poesia, delle arti e della letteratura e restituisce la dimensione ontologica dell’espe­ rienza estetica. Questa dimensione ontologica si riferisce ad un dato di realtà, l’emozione infinita dell’inconscio che è la voce dell’altro presente nel pensiero conscio della veglia, regolato dai principi della logica ordina­ ria. Il pensiero non è la riduzione della realtà alla misura della coscienza o ad una rappresentazione della realtà entro il teatro della coscienza, ma è la coscienza che si illumina allorché un evento, un processo interiore si com­ piono e con una estremità terminale si estendono e arrivano fino a lei, la «zona chiara», diurna dell’interiorità umana. Come scriveva Robert Musil, «Il pensiero non è qualcosa che osservi qualcosa di accaduto interiormente, ma è questo stesso accadere interiore. Noi non ci mettiamo a pensare su qualcosa, ma qualcosa emerge in noi pensante. Il pensiero non consiste nel fatto che vediamo chiaramente qualcosa che si è sviluppato in noi, ma nel fatto che uno sviluppo inter­ no si estende fino a questa zona chiara»10. Nel confronto delle due modalità di pensiero, nel cui intreccio consiste secondo Matte Bianco l’effettività del pensare umano, si origina la condi­ zione o lo stato psichico di un’emozione fondamentale all’origine del sapere e che è precisamente lo stupore. Lo stupore è infatti l’apertura di orizzonte che l’uomo esperimenta di fronte al dato finito e contingente che però fa se­ gno alla struttura di una realtà infinita, in cui consiste per Matte Bianco l’inconscio. Il tema dello stupore rappresenta qualcosa di più di una nuova dottrina sulla verità, e precisamente un mutamento di paradigma. Intendo per paradigma di verità qualche cosa di più importante, di più vasto e di più comprensivo di quanto possa essere una specifica teoria della verità. Un mutamento di paradigma rappresenta un nuovo orizzonte di significato e di verità, una nuova prospettiva o una nuova grammatica all’interno delle quali si aprono dottrine della verità alternative fra loro, che nondimeno condivi­ dono un comune orizzonte (per esempio la nozione di verità come corri­ spondenza fra parola e cosa, fra proposizione e fatto, oppure la verità come coerenza fra le proposizioni, o ancora la verità come verifica sperimentale e simili). Vorrei dire che, in fondo, noi ritroviamo il concetto di stupore in un’epo­ ca in cui questo tema era stato disertato da quella che è stata una cultura che ha finito per collocare al centro della sua attenzione e della sua analisi 10 R. Musil, Tagebücher, Rowohlt, Hamburg, 1976, Heft 24, pp. 117-18; tr. it. di E. De Angelis, Einaudi, Torino, 1980.

quella «fallacia della centralità dell’io» che l’opera di Matte Bianco ha sot­ toposto ad una severa revisione critica. In sostanza, l’assunto di quella falla­ cia, che secondo Heidegger avrebbe inizio con Platone, consiste nella ridu­ zione della conoscenza della realtà alla misura delle facoltà umane. È ovvio che la conoscenza se è umana non potrà che essere ricondotta alla misura delle facoltà umane, ma altra cosa è invece assumere che la realtà sia sol­ tanto quella che l’uomo conosce, che essa consista soltanto in ciò che è, per così dire, posseduto secondo la misura delle facoltà umane. Questo atteg­ giamento è ciò che è stato definito da parte di certe scuole del pensiero contemporaneo come una forma di logocentrismo. Ossia un sapere domi­ nato dall’ansia o dalla brama di dominio e di controllo da parte dell’uomo e che inoltre, proprio come tale, finisce per cancellare quell’apertura in cui consiste propriamente l’esperienza, anche emotivamente significativa, dello stupore, della meraviglia, con la quale Aristotele saluta l’origine del filoso­ fare, e in cui Heidegger ravvisa la tonalità emotiva fondamentale della filo­ sofia11. La parola greca per designare la verità è A-létheia. Alétheia indica, con l’alfa privativa, qualcosa di nascosto che comincia a manifestarsi, ovvero­ sia, svelatezza o, se preferite, dis-nascondimento, qualche cosa che in parte si rivela e in parte si sottrae e che, quindi, può essere la scaturigine della fondamentale condizione intellettuale ed emotiva dello stupore. In effetti, se la verità diventa la verità nel senso di ragione, di calcolo, secondo il quale l’uomo può produrre le conoscenze in conformità alle sue facoltà, ecco che la verità non è più questo dis-nascondimento, che essa cessa di indicare questa svelatezza, questo parziale ri-velarsi (nel doppio senso di manifestarsi e di na­ scondersi) della realtà, e diventa un oggetto che è totalmente illuminato e controllato da una ragione perfettamente rischiarata, la quale sancisce il pri­ mato dell’uomo, il primato, appunto, antropocentrico e logocentrico. Secondo questa concezione che sarebbe inaugurata da Platone, la realtà è idea, cioè la realtà è ciò che si manifesta nella visibilità intellettuale, ciò che si mostra e si fa vedere alle facoltà cognitive umane. Dice Heidegger che da quel momento metafisica e umanismo sono andati di pari passo, mano nella mano, nel senso che la realtà si riduce ad una collezione di oggetti subordi­ nati al controllo dell’uomo e alla sua brama di di potere. La cultura scienti­ fico-filosofica e letteraria contemporanea ha proceduto ad una destruttura­ zione radicale di questa centralità dell’io. Ernst Mach parlava di «das un­ rettbare Ich», dell’io insalvabile12, ossia dell’esigenza di rompere con ,lM. Heidegger, Domande fondamentali della filosofìa, a cura di Ugo Maria Ugazio, Mur­ sia, Milano 1988, p. 115. 12 E. Mach, Analisi delle sensazioni e il rapporto fra fìsico e psichico, a cura di L. Sosio,

l’assunto dell’io come asse di riferimento centrale del mondo. Robert Musil dirà che la dissoluzione del primato antropocentrico è cominciata con la ri­ voluzione di Copernico ed è pervenuta in epoca contemporanea alla disso­ luzione dell’io, alludendo alla psicoanalisi, alle topiche di Freud secondo le quali l’io viene spodestato dalla sua centralità o, quanto meno, l’io non esaurisce l’intero mondo della psiche, ma diventa una delle istanze della no­ stra vita interiore. Wittgenstein riduce il termine «io» ad un puro strumento della lingua per predicare qualche cosa di noi, ma non come il nome che de­ signa il centro insondabile dell’universo, fino allo scrittore austriaco Tho­ mas Bernhard che ha dichiarato: «Das ganze Leben: ich will nicht ich sein, Ich will sein, nicht ich sein» (per tutta la vita: io non voglio essere io, Io vo­ glio non essere io)u spodestando appunto la fallacia della centralità dell’io. Ritrovare lo stupore è proprio la condizione di questo spodestamento. La dottrina della bi-logica di Matte Bianco, attraverso il suo assunto di una molteplicità di piani della realtà, presenta una forte analogia con la de­ finizione che Heidegger formula per esempio nelle Domande fondamentali della filosofìa, che è il testo di un corso del 1937-38 svolto a Friburgo, se­ condo la quale lo stupore è «la dismisura dell’indecisione tra quel che un ente nella sua totalità è in quanto ente e quel che si spinge avanti come ciò che non ha stabilità, non ha struttura e che costantemente è trascinato via, ossia, qui, nel contempo, ciò che subito si sottrae»14. Un regime di verità a mezza luce costituisce la matrice dello stupore in quanto contiene l’indicazione chiara di ciò che è. nascosto, lontano o assen­ te. Mi viene in mente a questo proposito il passo di Montaigne che scriveva: «Perché Poppea pensò di nascondere le bellezze del suo volto, se non ren­ derle più preziose agli occhi dei suoi amanti?»15. Nell’assenza, nella lonta­ nanza, perfino nella dissimulazione, nell’impossibilità di tutto vedere e di tutto conoscere c’è una forza misteriosa che porta la mente verso l’inac­ cessibile. È il carattere proprio del mistero, sottolinea Starobinski, quello di indurre la mente umana a sacrificare tutte le sue conquiste, tutto ciò che ha, per accedere a ciò che è nascosto, in quanto il mistero fa apparire vacuo e futile tutto ciò che non ne favorisce l’accesso. «L’ombra ha certo il potere di farci abbandonare tutte le prede, per il solo fatto che è ombra e che suscita Feltrinelli, Milano, 1975, pp. 53-4: «L’io non è un’unità immutabile, determinata, nettamente delimitata... È impossibile salvare l’io. In parte questa convinzione, in parte il timore che essa suscita conducono alle più singolari assurdità religóse, estetiche e filosofiche, pessimistiche e ottimistiche... Si perverrà così ad una concezione più libera e radiosa della vita, che ci eviterà l’errore di disprezzare l’io degli altri e di sopravvalutare il nostro». 13 T. Bernhard, Attiras, Suhrkamp, Frankfurt a. Main 1985, p. 64. 14 Domande fondamentali della filosofia cit., p. 114. 15 M. De Montaigne, Saggi, a cura di E. V. Enrico, Mondadori, Milano 1986.

in noi un’attesa senza nome»16. L’indagine psicoanalitica, secondo W. Bion, «rappresenta solo l’inizio di un’indagine. Essa stimola la crescita del campo che in­ daga... Dedicare tempo a ciò che è stato scoperto significa concentrare la propria at­ tenzione su qualcosa di estremamente secondario. Ciò che importa è l’ignoto, e è su questo che lo psicoanalista deve concentrare la propria attenzione»17. Lo stupore di fronte all’ignoto diventa il pensiero che allarga il campo stesso che va indagando, e in questo senso lo stupore guida verso l’infinito. Lo stupore è la condizione emotiva in cui il soggetto umano, spogliandosi delle sue identificazioni proiettive, si rimette alle cose e al tempo stesso consente una remissione delle cose a se stesse. Ma questo senso di stupore implica un’energia interpretativa infinita, senza limiti. E sarà questa la ra­ gione per cui una conoscenza che si pretende completa ed esaustiva di un oggetto in realtà appiattisce l’oggetto e ne ostacola una apprensione più pro­ fonda. Non sarà dunque paradossale affermare che laddove conosciamo troppo, laddove pretendiamo di dominare a perdita d’occhio un oggetto ne smarriamo al tempo stesso la cognizione. A questa condizione fa segno la dottrina centrale di Matte Bianco dell’emozione infinita. È una parte fon­ damentale del discorso dello stupore - una parte in cui è difficile entrare e poi anche sostare - prendere atto che ciò che importa, ciò che alla fine è ve­ ramente rilevante non è la conformità di un processo intellettuale o esisten­ ziale in via di svolgimento con Videa precostituita che ne abbiamo fin dalVinizio, bensì il riconoscimento di ciò che effettivamente ne risulta, che ci sorprende e ci sorpassa. Questo è l’autentico termine di confronto dello stupore. Lo stupore è anche e soprattutto forse lo stato di una remissione a quello che ne diviene di noi, in luogo del controllo strategico che l’io pre­ tende di estendere sulla sua esperienza totale. Dalla religione alla psicoana­ lisi, dalla filosofia alla poesia, lo stupore si coniuga all'evento dell'impen­ sato., ossia all’inconscio strutturato nei termini della dottrina di Matte Bian­ co come insieme infiniti. Lo stupore costituisce una vera e propria iniziazio­ ne all'evento nel tempo e nello spazio del discorso: «Ma in sé la sensazione-sentimento è sperimentata come un’unità indivisibile, non come una sequenza e come tale essa è al di fuori della successione o tempo e non si presta al lavoro della coscienza; che si sposta nel tempo, con considerazioni successive prima di un aspetto e poi di un altro. Il pensiero accade o si dispiega, la sensazione è»18. 16 J. Starobinski, L'occhio vivente, Studi su Corneille, Racine, Rousseau, Stendhal, Freud, trad. it. di G. Gugliemi, Einaudi, Torino, 1975, p. 5. 17 Cfr. W. Bion, Attenzione e Interpretazione, Armando, Roma 1987, p. 94. 18 L ’inconscio come insiemi infiniti, cit., p. 261.

L’esercizio del pensiero dischiude l’orizzonte dell’altra faccia della pre­ senzacontingente, determinata e finita di un oggetto o di un evento e apre al senso e all’emozione dell’infinito. Il movimento del pensiero-evento, di cui parla Matte Bianco, costituisce la matrice del pensiero declinato nel tempo e nello spazio, è il motivo del discorso, nel senso estetico di passaggio da una parola all’altra, da un significato ad un altro significato, e nel senso etico in quanto motivo inteso come motivazione. Il soggetto patologico e catatonico non ha il coraggio di parlare perché non ha più la forza di elaborare il pas­ saggio da una parola all’altra. Per questo ripete con monotonia sempre la stessa parola, sempre lo stesso termine. Parlare è, in qualche modo, un atto di coraggio e di rischio. È un movimento, precisamente il dirigersi verso l’oggetto, una disposizione ad «aprirsi» verso quell’oggétto infinito, che è l’inconscio, per ascoltarlo. In questo senso direi che per Matte Bianco parla­ re è anche sempre ascoltare. Invece, l’aspetto estetizzante dell’effetto arti­ stico nella sua immediatezza o istantaneità è l’esperienza di un valore este­ tico consegnato alla sua immediatezza, ancora subordinato ad un gioco dell’io che non ha la cosa stessa, che non conosce alterità e dunque nessuna realtà. Come dirà Schoenberg, il pubblico si attiene per lo più alla sensazio­ ne, all’impressione sensoriale della cosa, anziché alla cosa stessa19. La convergenza di strutture concettuali, di riflessioni psicoanalitiche e di considerazioni matematiche nell’opera di Matte Bianco esprime il progetto di oltrepassare l’estetica per ritrovarla in una serie di situazioni psichiche, intellettuali ed esistenziali dove non venivano sospettate. L’estetica, la lette­ ratura, l’arte Matte Bianco le ha investigate non semplicemente in un nuovo modulo formale, ma nella scoperta di un diverso modo di esperienza, ossia nella scoperta di nuovi piani della realtà. Matte Bianco connette pensiero scientifico-filosofico ed esperienza artistica nella relazione in cui la grande scoperta di un nuovo, inaudito pensiero è coinvolta nell’incontro tra proces­ si consapevoli e processi inconsci della sfera interiore. Musil ha dato voce a questa combinazione di un nucleo logico lucido e di uno sfondo oscuro della psiche in cui consistono i pensieri vivi. «Anche se un pensiero è entrato nella nostra mente molto tempo prima, esso prende vita solo nel momento in cui qualcosa, che non è più pensiero, che non è più logico, si combina con esso, così che noi sentiamo la sua verità, al di là di ogni giu­ stificazione, come un’ancora che lacera la carne viva e calda... Ogni grande scoperta si compie solo per metà nel cerchio illuminato della mente cosciente, per l’altra metà nell’oscuro recesso del nostro essere più interiore»20. 19 Cfr. A. Schönberg, Analisi e pratica musicale, Einaudi, Torino 1974; Id., Manuale di Armonia, Il Saggiatore, Milano 1973; Id., Stile e Idea, Feltrinelli, Milano 1980. 20 K. Musil, Die Verwirrungen des Zoeglings Toerless, in Id., Gesammelte Werke cit., Bd.

Matte Bianco ha investigato questa ambigua relazione fra scoperta e in­ venzione, ponendo in luce il ruolo della creatività. Matte Bianco è andato oltre la dicotomia fra invenzione e scoperta, per risalire ad un ’unione più intima in cui l ’una è strettamente collegata all’altra, anziché esserle con­ trapposta. «La differenza tra creazione e scoperta sembra, di prima impressione, enorme... La riflessione dimostra invece che ogni creazione è, in fondo, una scoperta di qual­ cosa d occulto nel creatore, qualcosa che emerge dalla profondità eli’inconscio e che è o sembra estranea alle funzioni dell’io dell’individuo. D’altra parte, il creatore (ar­ tista, scienziato che sviluppa un’interpretazione della realtà, filosofo, ecc.) presenta qualcosa che è nuovo anche per il suo io, ma che è semplicemente la traduzione o l’espressione di un aspetto del supo inconscio»21. Questa tesi di Matte Bianco corrisponde alla visione di Nietzsche («come si diventa quello che si è») e di Freud (là dove era l’Es, deve subentare l’io») che attribuiscono appunto all’uomo il compito di diventare quello che egli è. La scoperta di quella che Proust chiama «la scoperta della nostra vera vita», può compiersi solo nel processo creativo che secondo Matte Bianco genera l’opera d’arte. Questa complessa e pregnante relazione stabilita da Matte Bianco fra scoperta e creazione coglie la tensione presente nell’idea stessa di riuscire a diventare «chi si è realmente»22. Come osserva Rorty, l’espressione «chi si è realmente» non vuol dire «chi in realtà si è sempre stati», bensì «ciò che si è fatto di se stessi mentre si creava il gusto in base al quale si è arrivati poi a giudicarsi». Matte Bianco sottrae l’esistenza umana al dominio e al controllo del principio di non contraddizione. La vita umana non è comprimibile in una forma razionale unitaria. L’esistenza umana si compie in forme concrete, distinte, parziali, provvisorie che elaborano secondo i paradigmi di una lo­ gica finitaria il flusso dell’emozione infinuta dell’inconscio. Matte Bianco non fa altro che perseguire una ricerca dell’esame di realtà. L’analisi che egli svolge della ragione logica asimmetrica, fondata sul principio di non contraddizione, è infatti destinata a decostruire una soggettività autocentrata che riduce l’alterità, l’essere del mondo alla propria misura per restituirla al confronto con una realtà psichica che chiede di essere tanto scoperta quanto elaborata, di essere ascoltata, ritrovata e interpretata. La rottura di Matte VI, pp. 136-37; trad. it. A. Rho, I turbamenti del giovane Toerless, Einaudi, Torino, 1959. ‘I I. Matte Bianco, «Creatività e orotodossia», in Rivista di Psicoanalisi, 1975, p. 224. 22 Cfr. A. Nehamas, Life as Literature, Harvard UP 1985, p. 188; F. Nietzsche, Crepuscolo degli Idoli, in Id., Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, vol. VI, t. Ill, trad. it. di F. Masini, Milano, 1970, p. 151; R. Rorty, La fdosofia dopo la filosofìa, a cura di A. Gargani, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 120.

Blanco con l’atteggiamento intellettualistico e logicizzante è in funzione di un disvelamento di un profondo sentimento religioso deir essere. La verità, la cognizione si compiono per Matte Bianco nei termini di una rivelazione che si riferisce ad una realtà che non è mai completamente do­ minabile e dicibile. Di qui anche la critica che Matte Bianco non manca di svolgere nei confronti di chi pretende di avvicinare la realtà con parole troppo dirette, troppo tastanti. Matte Bianco ha avvertito che la realtà, ciò che è inesprimibile in quanto al di là dell’uomo, altra dall’uomo - qualcosa come un destino che non si domina e non si controlla - non si può cogliere nè attraverso procedure del pensiero categorizzante e intellettualistico, né d’altronde con l’immediatezza della sensazione, ma nell’elaborazione di un un esercizio razionale e discorsivo che è sempre in funzione di un certo rap­ porto di approssimazione con un’emozione infinita. Come ha scritto Matte Bianco, «L’emozione offre all’intelletto illimitate possibilità di sviluppo. Per questa ra­ gione, vista dall’intemo, l’emozione non è pensiero perché non è attività proposizionale-relazionale, ma l’emozione è la matrice del pensiero»23. Analogamente W. Bion afferma che la ragione «è schiava dell’emozione ed esiste per razionalizzare l’emozione»24. Nell’opera di Matte Bianco e nella cultura contemporanea più avvertita la psicoanalisi è stata considerata come una rielaborazione di tipo costruttivo ed estetico di un antefatto che precede il pensiero consapevole e razionalizzatore. Per Wittgenstein la psi­ coanalisi è una rielaborazione di tipo costruttivo, poietico e poetico di uno scenario in cui il paziente accede ad una corretta interpretazione della sua condizione psichica attraverso la chiarificazione di uno spazio mentale in cui egli prende atto degli errori, delle interpretazioni erronee. Scrive Witt­ genstein: «Noi possiamo convincere qualcuno del suo errore soltanto quando gli lo ricono­ sce come la corretta espressione di ciò che egli sente. Il punto è: soltanto quando egli la riconosce come tale essa risulta la corretta espressione (psicoanalisi). Si deve cominciare dall’errore per portarlo alla verità. Cioè, si deve scoprire la sorgente dell’errore, altrimenti non serve a nulla udire la verità. Essa non può penetrare, se qualcos’altro occupa il suo posto. Per convincere qualcuno della verità, non basta constatare la verità, ma bisogna trovare la strada che va dall’errore alla verità»25. 231. Matte Bianco, L ’inconscio come insiemi infiniti, cit., p. 335. 24 W. Bion, Attenzione e Interpretazione, Armando, Roma 1973, p. 7. 25 Cfr. L. Wittgenstein Ms. 213, p. 410, citato in A. Kenny, Wittgenstein on the Nature of Philosophy, in B. F. McGuinness (a cura di), Wittgenstein and his Times, Oxford 1982, p. 4; L. Wittgenstein, Bemerkungen über Frazers «The Golden Bough», in «Synthèse», XVII (1967), p. 234. •

Ne risulta che per Wittgenstein «i problemi della vita sono insolubili alla superficie (Oberfläche), e che essi si possono risolvere solo in profondità (Tiefe)»26. Di qui la distinzione che Wittgenstein traccia nella comunica­ zione fra «grammatica superficiale» (oberflächliche Grammatik) e «gram­ matica profonda» (Tiefengrammatik)21. Potremmo dire che la grammatica superficiale o l’illusione grammaticale che ostacolono la comprensione della psiche sono il segno di un atto di coraggio mancato. La comunicazione richiede necessariamente un’etica per poter essere ottimizzata. L’etica della comunicazione richiede non soltanto sincerità e purezza di valori, perché un’espressione sincera, ma destituita di un prezzo morale, può risultare una banalità moraleggiante e una comunicazione superficiale. L’etica della co­ municazione presuppone lo sforzo, che è uno degli sforzi più difficili che possa essere richiesto, il quale consiste nell’affrontare con coraggio il dolo­ re di discendere negli intimi recessi della propria interiorità. Se un uomo vuole parlare, se soprattutto un uomo deve parlare, egli è esposto al perico­ lo, che è il suo massimo pericolo, di risultare superficiale se non è disposto ad affrontare sofferenze e tormenti. Come scriveva ancora Wittgenstein: «Chi non vuole discendere in se stesso, perché è troppo doloroso, costui ri­ mane naturalmente alla superficie anche nello scrivere» (Wer in sich selbst nicht heruntersteigen will, weil es zu schmerzhaft ist, bleibt natürlich auch mit dem Schreiben an der Oberfläche)2*. In una annotazione del 1937 scri­ veva Wittgenstein: «Si può scrivere solo in mezzo alle più atroci sofferenze e allora ha tutt’altro significato. Ma proprio perciò nessuno deve citare que­ sto come verità, a meno che egli stesso lo dica nel tormento (Qualen)... Più che una teoria, è un gemito, oppure un grido (eher als eine Theorie, ist es ein Seufzer, oder ein Schrei)»29. Attraverso un rapporto comunicativo in un linguaggio autentico, l’uomo può arrivare, attraverso l’analisi di sé e un percorso interiore, ad una nuova descrizione di se stesso. Una nuova descrizione di sé costituisce una nuova nascita, non quella stabilita e determinata dall’atto di procreazione genitoriale, e poi dalle autorità familiari, parentali e sociali, ma quella che un indi­ viduo si dà da sé attraverso una nuova descrizione e una nuova rieleborazione di se stesso. Una nuova o una seconda nascita nel senso che un indi­ viduo stabilisce con una nuova autodescrizione lo stile secondo il quale 26 L. Wittgenstein, Vermischte Bemerkungen, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1977, p. 140. 27 Cfr. L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Parte I, sez. 664; trad. it. di M. Trincherò, Ricerche Filosofiche, Einaudi, Torino, 1966. 28 L. Wittgenstein, Ms. 120, in R. Rhees (a cura di), Recollections of Wittgenstein, Oxford UP, 1984, p. 174. 29 L. Wittgenstein, Vermischte Bemerkungen, Suhrkamp, Frankfurt a. Main 1977, p. 63; trad. it. di M. Ranchetti, Pensieri diversi, Adelphi, Milano, 1980, pp. 62-3.

pretende d’ora in poi di essere inteso e considerato dagli altri. Una nuova descrizione di se stessi assolve al compito di diventare quello che si è. Ma per dire quello che si è occorre praticare al tempo stesso la scoperta e Vinvenzione. Dire quello che si è non significa raccontare quello che si è stati nei termini di un protocollo scientifico, di un resoconto analogo ad un bollettino meteorologico, ma quello che ne è stato di noi mentre eravamo alle prese con il problema di definirci. L’uomo contemporaneo, diceva Kafka, ha conservato l’uso della parola, ma ne ha perso la sensazione inter­ na {das Empfinden), e questa perdita lo destina alla dannazione (Ver­ dammung), all’abbandono di Dio (Gottverlassenheit) e al nonsenso (Sinnlo­ se Per Wittgenstein la filosofia è un’attività compositiva, che per mezzo an­ che di metafore innovatrici, connette in un quadro armonioso e convincente fatti ed eventi fra loro irrelati. È Wittgenstein a richiamare l’affinità fra filo­ sofia come terapia linguistica e psicoanalisi per poi affermare la loro vici­ nanza e la loro affinità con l’estetica piuttosto che non con una scienza ipotetico-deduttiva. La filosofia è un’attività compositiva (dichten) radicata nel medesimo etimo della parola tedesca Dichtung, poesia. «Credo - scrive Wittgenstein - di poter riassumere la mia posizione rispetto alla filosofia di­ cendo: la filosofia si dovrebbbe solo comporre poeticamente (Philosophie dürfte man eigentlich nur dichten)»31. Decisiva in questo contesto è la funzione della metafora, la metafora vi­ va. Metafora radicale che inaugura uno nuovo scenario di senso entro il quale viene costruita una nuova concettualizzazione dell’esperienza psichi­ ca. Come se il suo pensiero consistesse propriamente nello stabilire passag­ gi, transizioni da un codice simbolico ad un altro. La metafora viva non è né vera, né falsa, cioè non costituisce un buon candidato per il calcolo delle funzioni di verità dal momento che per definizione rappresenta la rottura con il linguaggio ordinario di codice. La metafora è il sintomo di una realtà - l’inconscio - più grande e più complessa, secondo Matte Bianco, di quella che può essere dominata dalla logica ordinaria asimmetrica, fondata sul principio di non contraddizione; la metafora è il sintomo di una realtà che già da sempre precede il pensiero conscio, asimmetrico e razionalizzatore. La creatività artistica è l’espressione di un invenzione che, come abbiamo visto, secondo Matte Bianco rappresenta la scoperta di uno strato profondo della psiche. Nelle riflessioni di Arnold Schoenberg possiamo trovare la ef­ fettiva testimonianza di un’esperienza artistica in cui il gesto creativo au30 Cfr. G. Janouch, Gespräche mit Kafka. Aufzeichnungen und Emnerungen, Fischer, Frankfurt a. M. 1968, p. 144., 31 L. Wittgenstein, Vermischte Bemerkungen, cit., p. 53; trad. it. cit., p. 54.

tentico e originale fa segno ad un processo inconsapevole che sorprende proprio il suo creatore. «Quando, dopo un periodo di riposo, sento una gran voglia di lavorare e penso alle composizioni che scriverò, ho sempre così chiara davanti a me la tendenza futu­ ra che posso star certo che poi sarà diversa da quella che ho sempre così chiara da­ vanti a me la tendenza futura che posso star certo che poi sarà diversa da quella che immagino. Si può ancora indovinare che cambio, forse che mi rigiro, che giro vorti­ cosamente; ma può dipendere solo dalla mia cecità se non avverto dove sono e dove stavo. Solo una cosa risulta ben presto: che il nuovo mi appare estraneo e incom­ prensibile come una volta mi appariva il vecchio, e che finché dura questa condizio­ ne le cose più vecchie mi appaiono più comprensibili fin quando finalmente ciò che è più nuovo sembra farmisi più familiare e non capisco come prima potessi scrivere delle cose diverse»32. La previsione e la certezza rispetto alle procedure praticate, per esempio, nella simbologia musicale sono i sintomi di un disciplinamento al quale si è voluto subordinare la condotta intellettuale. Il pensiero musicale creativo, come dichiara Schönberg, non può essere codificato secondo un patrimonio di certezze acquisite che fissino una linea previsionale di svolgimento. «Si comincia a comprendere che non soltanto si è destinati a non indovinare l’avvenire (solo a realizzarlo), ma anche a dimenticare il passato (che si è già realiz­ zato). Si raggiunge una sensazione di profonda lealtà se non si fa - anche se lo si de­ sidera - quello che nel passato ci appariva sacro, se si svela quello che il futuro sembrava promettere e se si comincia in segreto a rallegrarsi a occhi aperti della propria cecità»33. La metafora viva è una vera e propria trasgressione del linguaggio di co­ dice in quanto apre costruttivamente un nuovo contesto di senso. La metafo­ ra viva prima ancora di essere un significato riconoscibile è un gesto intran­ sitivo, che agisce «auf eigene Faust», di testa propria o di proprio pugno come diceva Wittgenstein, e che sospende la verbalizzazione ordinaria. Qualcosa di paragonabile alle strida di un uccello sconosciuto, al dare uno schiaffo o un bacio all’interlocutore, all’interrompere una discussione mo­ strando una fotografia o facendo una smorfia. La caratteristica che costitui­ sce il tratto di novità o di sorpresa di una metafora è una proprietà estetica in essa racchiusa che si può percepire ogni volta di nuovo. Per Mary Hesse le rivoluzioni scientifiche vanno considerate come «ridescrizioni metafori­ che» della natura, anziché come intuizioni dei fondamenti oggettivi ed es32 A. Schönberg, Certezza, in Id. Analisi e pratica musicale, cit., p. 42. 33 Ivi.

senziali del mondo fisico34. Va anzitutto osservato che la metafora in quanto passaggio da un genere ad un altro, da un codice ad un altro racchiude l’esperienza essenziale nel corso della quale un pensiero, transitando dalla sfera della coscienza logica, della lucidità razionale alla sfera oscura del­ l’affettività, dell’emotività infinita dell’inconscio, diviene un pensiero reale, avente un peso di verità, una responsabilità di senso. Nella metafora viva ritroviamo l’archeologia delle immagni influenti che hanno aperto i nuovi scenari delle teorie scientifiche, le nuove ridescrizioni che l’individuo di tempo in tempo avverte il bisogno di tracciare quando fa poesia, letteratura, arte, attraverso modalità anche diverse di inventare nuovi modelli dell’essere uomo, attraverso nuovi dispositivi metaforici, attraverso l’oltrepassamento delle barriere dei codici per mezzo dei tropi del discorso figurato. La razionalità non consiste più nello stato di costrizione sotto re­ gole. Il pensiero diviene un’esperienza reale soltanto in quanto attraversa l’incrocio di stili differenti, di testualità variamente intrecciate fra loro, al di fuori della normatività imposta da un codice invariante, unico ed esclusivo. A questo riguardo, analizzando la logica bivalente nel suo confronto con il pensiero simmetrico, Matte Bianco osserva: «L’osservazione clinica mostra che quell’aspetto dell’uomo che può essere de­ scritto nei termini del principio di simmetria - e che può essere riferito all’inconscio - sta continuamente esercitando una pressione per esprimere se stesso, e in questo modo è sempre presente. A questa pressione, però, sempre oppone resistenza, per così dire, l’altra parte dell’uomo che sottostà alle regole della logica bivalente ... Bi­ sogna riconoscere che vi è una difficoltà emozionale nell’accettare che il pensiero umano è come un gioco che si conforma allo stesso tempo a due differenti regole; e il peggio è che una delle regole diventa visibile soltanto nei termini dell’altra, cioè nei termini della violazioni dell’altra; se non fosse per questo, la secondo regola sa­ rebbe “muta” e “invisibile”. È “da far impazzire” ma è così»35. La metafora rappresenta dunque la dinamica dell’esistenza nella quale l’uomo si mostra incapace di restare a lungo dove si trova e avverte quel bi­ sogno irrefrenabile di mutare posizione, luogo, lavoro, amori, compagnie che lo guida alla metafora come ad un destino. La metafora risulta essere quel dispositivo semiologico per effetto del quale un testo narrativo porta a compimento il motto «come si diventa ciò che si è»36. In questo che è il problema essenziale dell’autoindividuazione è all’opera la tensione para­ dossale fra il codice della scoperta e il codice d ell invenzione. In sostanza, 34 Cfr. M. Hesse, The explanatory Function of Metaphor, in M. Hesse, Revolutions and Re­ constructions in the Philosophy o f Science, Bloomington, Indiana UP, 1980. 35 L ’inconscio come insiemi infiniti, cit., p. 63. 36 F. Nietzsche, Ecce Homo, in Id., Opere, vol. VI, tomo III, Adelphi, Milano, 1986, p. 263.

ciò che è più sorprendente, e non bisognerà stancarsi di questa sorpresa, è che l’uomo debba inventare se stesso per scoprire ciò che egli è. Questo si­ gnifica che nel flusso del divenire, nell’attraversamento delle casualità im­ prevedibili dell’esistenza, l’uomo acquisisce il riconoscimento di se stesso. La metafora viva designa un percorso di lutto e di sofferenza perché pre­ suppone il sacrificio del possesso, delle certezze, dei fondamenti teorici as­ soluti e inesorabili, una presa di distanza dalla letteralità familiare dei codi­ ci sociali e istituzionali; al tempo stesso delinea una promessa di felicità preadombrata in un mutamento dove è stabilito l’incontro con la verità da attendersi in un punto temporale dove la realtà non è ancora. E questa la promessa e la felicità della psiconalisi, così come Matte Bianco l’aveva at­ tesa e definita. La metafora viva, dunque, è l’allarme percettivo di quella situazione inaudita in cui un uomo avverte il proprio essere nel corso di un mutamento. Qui si può misurare la distanza che, a séguito di queste rifles­ sioni e di tali incursioni esistenziali, viene presa dall’astrettezza soffocante degli schemi aprioristici e intellettualistici, da quella che, come abbiamo vi­ sto, Wittgenstein definiva come la Über-Ordnung zwischen Uber-Begriffen, «il super-ordine fra super-concetti». La circostanza che andiamo alla ricerca di una nuova metafora, di una metafora viva, e che riconosciamo nel nostro essere un antico desidero ritrovato, non dipende da un atto volontaristico e non dipende nemmeno da un passivo rispecchiamento di una realtà presta­ bilita. Le trasgressioni dei codici si compiono sotto molteplici rispetti. Vi è l’interdizione del semplice errore di lingua, poi del nonsenso logico per es. «questo tavolo è più identico di quello», vi è l’interdizione delle espressioni di natura religiosa, politica o sessuale che sono sottoposte a censura. Ma a partire dalla fine del secolo XIX ad opera della letteratura e della psiconalisi possiamo dire che si sia prodotta una specifica trasgressione del linguaggio di codice nel senso che espressioni appartenenti al linguaggio ordinario in effetti trasmettono un significato che appartiene ad un codice diverso e han­ no il potere di sospendere il regno della lingua nel corso di un gesto attuale di scrittura. Il lapsus e la poesia documentano nei rispettivi àmbiti un lin­ guaggio doppio, ossia un’espressione la quale, mentre appartiene a, e deriva dal, linguaggio di codice, compie Visolamento della parola e fa segno ad un nuovo codice che però non preesisteva all’espressione medesima. Come di­ re che la parola della poesia o quella della psicoanalisi attesta, traendolo dalla piega della propria autoimplicazione, un nuovo codice segreto e inter­ detto, che ora risulta introdotto nell’orizzonte dell’espressione. Tutto questo non basta ancora perché in qualche modo rimaniamo all’interno delle negoziazioni fra differenti codici simbolici, mentre a questo punto sorge il problema ulteriore che consiste precisamente nel movimento

fra ciò che è codice e ciò che non è codice. Tale movimento contraddice alla tradizione fondazionalista del pensiero occidentale, soggetto e respon­ sabile di un progetto storico-sociale di dominio, che ha assunto la verità nei termini di un’equazione autoriflessiva, per effetto della quale ogni alterità si risolve nella specularità dell’io. Questa autoreferenzialità è la matrice di un delirio di onnipotenza e di un’attitudine all’identificazione proiettiva che ca­ ratterizzano l’uomo moderno. Nel movimento fra ciò che è codice e ciò che non lo è, nel concetto di in­ conscio, di pre-verbale e delle sue elaborazioni nell’opera di Freud e di Matte Bianco, è possibile individuare la fisionomia estetica della psicoana­ lisi e una nuova dimensione dell’estetica intesa non più come culto di un codice stilistico, come rito della forma, come ricerca del bello o cura della lingua in se stessi, ma come espressione di uno scatto cognitivo ed etico in­ sieme, di una svolta, di portata complessiva, del pensiero. In questi termini il fattore estetico nella psicoanalisi freudiana risulta essere uno strumento di comunicazione del materiale pre-verbale, per esempio del dolore che non si sa di provare31. L’elemento estetico è l’allarme percettivo del contenuto pre-verbale, nel senso che esso fa segno all’indicibile dall’interno del dici­ bile. L’uomo contemporaneo, nella crisi diffusa dei valori spirituali che lo circonda, è esposto ad un vuoto nel quale si può aprire lo spazio della sua depressione, in cui si può spalancare il panico psicotico, nel quale si fran­ tumano e si proiettano a distanza le schegge della sua personalità originando una sintomatologia schizofrenica. Questo vuoto è la conseguenza di una re­ sistenza che il paziente psicotico o il soggetto di vissuti psicotici oppone alla comunicazione e alla trasformazione del suo contenuto psichico pre­ verbale in una rappresentazione in termini umani e dunque necessariamente finitari. Questo soggetto avverte un’insopportabile frustrazione a racchiude­ re il teatro della sua psiche in un’espressione finita, nel legame verbale di una proposizione. Frustrazione che la psicoanalisi da Freud fino a Matte Bianco avverte come resistenza alla terapia analitica. In ogni caso il pro­ blema essenziale sarà quello di rappresentare uno spazio a n dimensioni dove n è molto grande e irrappresentabile - mediante uno spazio a n-1 di­ mensioni38. Questo soggetto allora preferisce l’allucinosi, una non-cosa, una fuga in uno spazio illimitato. Pertanto egli si oppone alla elaborazione e alla trasformazione dei suoi contenuti psichici attraverso scambi di codice. Con­ 37 Cfr. S. Freud, Caso clinico dell’uomo dei lupi, in Id. Psicoanalisi infantile, Boringhieri, Torino, 1968, pp. 220-21; Id. Metapsicologia, in Opere, Boringhieri, Torino, 1980, vol. Vili, pp. 16, 87; Id., Ipnotismo e suggestione, in Opere, cit., vol. I, p. 93. 38 P. Bria, «Complessità e multidimensionalità nella mente. Una riflessione psicoanalitica», in AA. VV. (a cura di M. Turno, E. Liotta, F. Orsucci), Fra ordine e caos. Confronti della ri­ cerca; Cosmopoli, Bologna, 1996.

seguentemente il paziente rinuncia al sollievo e al conforto che l’elabora­ zione di pensiero gli procurerebbe se egli fosse in grado di sopportarla. Egli compie il tentativo di annientare la comunicazione linguistica, la proposi­ zione, il legame - che per lui è una non-cosa - allo scopo di conservare uno spazio illimitato, infinito che coincide con lo spazio della sua allucinazione. Nella transizione fra codici differenti e nel conseguente rovesciamento del loro formalismo, come avviene nell’opera di Matte Bianco, si compie la più significativa vicissitudine umana, che va al di là del semplice esperi­ mento formale, in quanto racchiude l’integrazione del dicibile e dell’in­ dicibile, del successo e del fallimento, del bene e del male, infine della vita e della morte. Si compie il più alto evento accessibile all’uomo, quello pre­ cisamente di scorgere l’individuazione del proprio sé nell’esperienza dell’erranza (e dunque anche dell’errore), nel flusso delle vicende di un mondo aperto, infinito e imprevedibile. Attraverso questa esperienza si compie la trasmutazione per effetto della quale le tristezze, le afflizioni non sono solo sciagure, ma costituiscono momenti in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi. In questo senso si delinea il senso del destino, non più come decreto del fato, ma nondimeno come una condizione di una necessità interiore, e più precisamente come la necessità che si compia e avvenga ciò che ormai da lungo tempo ci appartiene. Hofmannsthal, Musil, I. Bachmann, Celan, ci insegnano che l’uomo con­ temporaneo pretende di gettare una luce completa sulla sua esistenza e sulla realtà. In questa maniera l’uomo vede bene ciò che ha, ma non ciò che egli è, come hanno mostrato variamente Kafka, Wittgenstein, Musil, Freud, Bion e Matte Bianco nella loro polemica contro l ’etica del possesso. «Pen­ sare, sentire e essere sono la nostra sola speranza», dichiara Matte Bianco39. Per effetto del suo delirio di onnipotenza l’uomo incontra difficoltà a comu­ nicare con gli altri uomini ed esperisce l’impossibilità della via della salvez­ za, che consiste precisamente nel non cedere all’immediatezza per lasciarsi invece pensare da se stesso, per farsi pensare da un ’istanza più profonda di se stesso nell’atteggiamento dell’ascolto e della reverenza - in cui consisto­ no poesia, anima e religione - di fronte alle cose, quali che siano. Questa possibilità di lasciarsi pensare da se stesso, di farsi pensare da se stesso da parte dell’uomo implica che la sfera del pensiero non è più riservata e ri­ stretta alla zona rischiarata della coscienza e dell’io. La psicoanalisi da Freud a Matte Bianco quale cultura della psiche, stru­ mento di emancipazione dalle idealizzazioni e dalle sublimazioni, così come la filosofia del linguaggio di Wittgenstein intesa come terapia linguistica della mente, nella loro connessione con la narrazione poetica costituiscono 39 Pensare, sentire, essere, cit., p. 154.

la teoria e insieme il lutto della teoria, ossia la teoria, con i suoi assunti paranoidi, e insieme l’espressione della sua finitezza e contingenza che ne re­ dimono la patologia. Ciò che la cultura, la letteratura, la scienza devono realizzare è un diverso atteggiamento verso il dolore, la malattia e verso il soggetto della sofferenza. Non si tratta di costruire edifìci oratori che deb­ bano redimere il dolore, l’infelicità, la malattia come tale o sermoni retorici edificanti e consolatori. Si tratta di trasmettere la consapevolezza che la sof­ ferenza, per esempio la malattia, non è un mero incidente, ma è in ogni caso la via di una trasformazione, l’accesso ad un nuovo percorso interiore. Dun­ que la sofferenza come iniziazione ad un processo interiore, e non solo co­ me vita non vissuta, avvilita, perduta, di cui si può solo morire. Come os­ serva Rilke40, se ci fosse dato di veder più oltre del nostro sapere e della no­ stra vista limitata e delle nostre stesse facoltà di presentimento, «sopporte­ remmo le nostre tristezze con maggiore fiducia che le nostre gioie». Le tri­ stezze sono infatti momenti in cui qualcosa di nuovo è entrato in noi, qual­ cosa di inaudito e sconosciuto. La sofferenza, l’infelicità, la malattia costi­ tuiscono una fase della nostra vita in cui qualcosa di estraneo e di nuovo è entrato in noi. Quello che ci era familiare e noto se ne è andato, ci è stato tolto, e noi siamo entrati in un processo di trasformazione nel quale non possiamo fermarci. La tristezza, l’inquietudine, la sofferenza apparente­ mente svuotano l’uomo, ma quest’ultimo dovrebbe prima o poi giungere alla consapevolezza che quel momento fìsso e vuoto, determinato dalla sof­ ferenza, è in realtà più vicino alla vita rispetto alla sonorità degli eventi esterni vistosi. Dovrebbe prima o poi giungere alla consapevolezza che quanto maggiori sono la calma, la pazienza e l’apertura alla sofferenza, all’inquietudine, alla tristezza, alla malattia e tanto più profondamente entra in noi la novità e che quanto più la facciamo nostra, tanto più questa novità diventa il nostro destino. Destino significa non un decreto del fato, ma nondimeno una condizione di necessità, e più precisamente la necessità che si compia e avvenga ciò che oramai da lungo tempo ci appartiene. Destino non è il decreto di un fato esteriore, di una legge esterna, bensì la necessità interiore. Destino è una conformazione di senso che si è andata formando all’insaputa della nostra consapevolezza. Mentre si compie il destino, il mondo cambia; mentre noi cambiamo cambia anche il mondo, perché noi siamo anche il mondo, e il mondo accade mentre noi accadiamo. Destino è ciò che esce dall’interiorità più riposta degli uomini, non qualcosa che entra in essi dal di fuori. La tri­ stezza, la sofferenza, la malattia isolano l’uomo, lo rendono solo. Noi di­ ventiamo soli. Quando diventiamo soli noi diventiamo testimoni di una tra­ 40 Cfr. R. M. Rilke, Lettere ad un giovane poeta, Adelphi, Milano, 1994, pp. 55-63.

sformazione profonda della nostra esistenza. In questa condizione di solitu­ dine sorge la consapevolezza che dobbiamo accettare la nostra esistenza quanto più ampiamente ci riesce. Per effetto della concretezza della mediazione estetica, lo psicoanalista può dimenticare memoria e desiderio nel senso raccomandato dalla psicoa­ nalisi freudiana, ossia nel senso dell’esigenza di «accecarsi artificial­ mente»41. La certezza vivente costituita dall’immagine estetica ha l’effetto di realizzare la distanza psichica dalle ingiunzioni imperative della memo­ ria e del desiderio. L’elaborazione estetica convincente di un contenuto psi­ chico ha l’effetto di realizzare un effetto della presenza, cioè un senso della realtà in grado di allontanare i fantasmi superegoici di memoria e deside­ rio42. La verità è che soltanto alla fine della ricerca scopriamo quello che cercavamo. «Non il motivo e lo scopo della tua azione - scriveva Nietzsche - la rendono buona, bensì il fatto che nell’azione la tua anima trema e lucci­ ca»43. Nella dottrina e nella pratica della psicoanalisi da Freud a Matte Bianco si compie il movimento paradossale per cui la psicoanalisi - che normalmente è intesa e correttamente intesa come disciplina di movimento dall’inconscio al conscio - qui diviene una restituzione dell’inconsapevole che è tutfuno con la vita stessa. La psicoanalisi, consegnata alla narratività e alla transizione fra i codici, è la restituzione delVemozione indivisa e in­ consapevole della vita stessa. Non diversamente in sostanza da quanto av­ viene nell’arte, nella poesia e nella letteratura. Un ritorno dunque al princi­ pio di realtà attraverso la discontinuità che si apre nelle transizioni fra codici e intrecci testuali, producendo più testi allo stesso tempo.

41 Cfr. su questo punto W. Bion, Attenzione e interpretazione, Armando, Roma, 1970, pp. 62, 80. 42 Scrive Bion in Attenzione e Interpretazione (p. 97) che «la trasformazione dell’esperienza emotiva in crescita mentale dell’analista e dell’analizzando accresce le difficoltà che ambedue incontrano nel ricordare ciò che ha avuto luogo... se non viene assimilata, essa si aggiunge agli elementi che vengono ricordati e dimenticati». 43 F. Nietzsche, Frammenti postumi, in Id., Opere, voi. VII, tomo I, parte II, Adelphi, Mila­ no, 1986, p. 3.

2. Antinomie d ell’originario di Cesare Milanese

1. Dell’originario in sé non si può dare definizione se non indirettamente, giacché dell’originario va detto ciò che si potrebbe dire dell’infinito1. A ri­ gore si dovrebbe dire ciò che ne dice Aristotele: che l’originario (così come è dato di dire dell’infinito) è indimostrabile. Sta di fatto, tuttavia, che esso è cognitivamente predicabile (è nominabile), sia pure come virtuale; e che è altresì sperimentabile perché esistenzialmente (il che significa emozional­ mente) si è condotti a percorrerlo in quanto condizione d’essere. L’infinito (asimmetrico o simmetrico che esso sia) è condizione stessa dell’essere (asimmetrico o simmetrico che esso sia). È cosi che ci risulta dalla rappre­ sentazione matteblanchiana considerata nella sua prospettiva complessiva: nella sua concezione globale; starei per dire nella sua filosofia, se la sua si può dire filosofia. Si pone innanzitutto una domanda: a quale genere di discorso appartiene il sistema di pensiero di Ignacio Matte Blanco? E per genere si intende quello del lessico classificatorio della retorica. Genere come genere lettera­ rio, per l’appunto. Mentre il termine sistema di pensiero ci fa premettere la domanda: il sistema di pensiero matteblanchiano in che misura si inscrive nel discorso filosofico piuttosto che nel discorso psicoanalitico? Il fatto che il pensiero di Matte Bianco si sia costituito, nell’ordine di fatto, in ambito psicoanalitico, da cui è stato tratto e per cui (nell’intenzione dell’autore) è stato argomentato, non si risolve riducendolo all’ambito psicoanalitico. Lo travalica. Dal mio punto di vista il discorso psicoanalitico può essere messo sullo sfondo. Il discorso psicoanalitico quanto più si afferma come psico­ analitico tanto più si riduce all’area di una soggettualità estrema. Mentre l’impostazione matteblanchiana, vista filosoficamente, si colloca in una pro­ spettiva ad impostazione oggettiva. Tanto oggettiva da porsi da se stessa come una vera e propria ontologia. 1 Cfr. C. Milanese, «Il sublime come insieme infinito», in AA. VV., Il pensiero e l'infinito. Scritti sul pensiero di Ignacio Matte Bianco, Teda Edizioni, Castrovillari, 1989.

L’ontologia, d’altronde, è inscritta nel pensiero di Matte Bianco dal suo stesso parmenidismo. Filosofia la sua che concepisce l’unità dell’essere co­ me unità logica del mondo del di dentro e del mondo del di fuori: unicità della logicità con la fisicità, della dimensione mentale con l’estensione ma­ teriale. Più che una filosofia è una cosmologia. Ciò sembra coincidere con ciò che avviene nel panorama dei discorsi che si collocano tra l’era del mo­ derno e l’era del postmoderno, La sua problematica, giacché è destinata ad avere avvenire, si colloca nel versante della postmodernità, ma la forma del suo sapere lo colloca nel versante addirittura dell’antichità. Ignacio Matte Bianco è un pensatore antico. Attuale de re, antico de dictu. Antico perché connesso con l’arché. Come tale non più moderno, ma nemmeno del tutto postmoderno. Gli si può ascrivere la denominazione di postantico, coniata da Mario Perniola2. Quand’è che un autore è postantico? Occorre prima definirlo come an­ tico. Un autore è antico quando le sue asserzioni di fondamento si pongono come assolute, svincolate dalle determinazioni della storicità, non implicate nel divenire. Il parmenidismo non è una filosofia, è una cosmologia. L’autore postantico è l’autore antico che di volta in volta compare, sia nella modernità, sia nella postmodernità. La postantichità è la cosmogonia che si accompagna ad ogni filosofìa (ad ogni dialettica) riportandola ad un arché, al suo originario. Inteso così il pensiero postantico è il completante della forma del pensiero postmoderno. D’altronde il pensiero postmoderno si dif­ ferenzia dal pensiero moderno per il modo in cui viene interpretato il pen­ siero antico, cioè l ’arché. Postmoderno e postantico, cosi come modernità e postantichità in tutto il periodo della modernità, costituiscono una forma di pensiero bimodale. E la bimodalità è tipicamente una formula matteblan­ chiana. Se esiste una bimodalità esiste una relazione fondata sulla corri­ spondenza biunivoca: perciò la bimodalità è una forma che si richiama alla bi-logica. La formula matteblanchiana non solo permette di scorgere la rela­ zione bimodale nella costruzione del pensiero: modernità-postantichità, postmodernità-postantichità; ma è essa stessa un corpo bimodale. Un corpo di sapere postantico. 2. Ed ecco il tema: la presa d’atto che la nozione di bi-logica è paradigma di fondamento del discorso letterario, tenuto conto che il discorso letterario vale come il miglior discorso che consente di attingere l’originario. Perciò la bi-logica stessa come miglior dottrina a fondamento di una teoria della letteratura. Da qui l’utilizzazione da parte mia della bi-logica come struttura di una poetica, su cui ho costruito un testo letterario, un romanzo. Aggiun2 Cfr. M. Perniola, L'estetica del Novecento, D Mulino, Bologna, 1997.

go: un romanzo ermeneutico, dal momento che la funzione attante del pro­ tagonista è svolta dal dio Ermes, dio dell’ermeneutica e dio dei tempi futuri, i nostri. Dio dell’ermeneutica perché dio logoteta per eccellenza: portatore di discorsi, nei quali la verità e la menzogna sono trattate alla pari, come recto e verso, coerentemente però. Apparentemente espositore di paradossi, in realtà esperto in antinomie. Pertanto, non tanto il dio della doppiezza, come si crede e si dice, semmai come il dio della doppia logica, perciò della bi-logica. Questa è la matrice che consente al dio Ermes di praticare la con­ traddizione come operazione di verità. Egli non propone falsità come verità, esplica antinomie. Esplica verità. Ma questa virtù di verità, di cui Ermes è portatore, ci si rivela come tale perché veniamo a scoprire che il dio logoteta parla il linguaggio della bi-logica. Ciò che vorrebbe essere il mio romanzo, che si intitola La tela1: un testo che fa uso della bi-logica. Per il lettore non matteblanchiano il dio Ermes (ed il romanzo stesso) può apparire come il datore di una sofistica gratuita; per il lettore matteblanchiano, invece, sarà il latore (e forse l’ideatore) della bi-logica. Qualche cenno alla fabula occorre. Il romanzo prende spunto da qualche frammento dell 'Odissea e da un passo della Poetica di Aristotele, che parla di una tragedia di Sofocle, andata perduta, il Tereo, citata a proposito di un messaggio che Procne manda alla sorella Filomela, intessendolo críptica­ mente su una tela, e che Aristotele qualifica come «la voce della spola»4. E il romanzo si intitola La tela con questo riferimento. Parla dell’episodio in cui il dio Ermes giunge all’isola di Ogigia, dove Ulisse si trova al tempo stesso «gettato là» e «strappato via», in uno stato di sospensione dell’agire e del vivere, in stato di epoché, che tale è la realtà immaginaria da cui è av­ volto nel mondo di malia della ninfa Calipso, la quale, come si sa, quando il dio messaggero arriva alla sua dimora, è intenta al lavoro della tela. Calipso sta operando con «la voce della spola», oltre che con quella del proprio canto. Calipso non sa che l ’ordito è simmetrico e la trama asimmetrica o viceversa, che se il primo è cantoriano, il secondo è aristotelico e viceversa. Lei non lo sa ma il dio della bi-logica si; se dipendesse da lui glielo spieghe­ rebbe, ma è lei che non è in grado di capire. Ermes non è soltanto un conoscitore bi-logico, è un operatore bi-logico. Non agisce soltanto sulla singolarità, agisce sull’insieme. Opera sull’intera rete delle tele delle donne implicate nel ritorno di Ulisse (oltre Calipso, Ele­ na, Penelope, Circe). Le tele sono telemáticamente collegate tra loro, messe in sincronia intorno alla stesso messaggio: il loro essere tessute avviene con 3 C. Milanese, La tela, Feltrinelli, Milano, 1998. 4 Aristotele, Poetica, 16, 1454b.

un processo di generalizzazione e di simmetrizzazione che coinvolge tutte le vicende singole in una vicenda complessiva che le rende omologhe. Il mio romanzo ovviamente non espone e non spiega la bi-logica, la ap­ plica, o cerca di applicarla, come può. La bi-logica è materiale concettuale con cui il romanzo è stato scritto non tanto perché essa costituisce il conte­ nuto di sapere di cui il dio Ermes è portatore, ma anche perché essa diventa criterio per la «tessitura» del testo stesso. Sia a livello di inventio, di dispo­ sino e di elocutio. Di dispositio a livello dei significati, di elocutio a livello dei significanti. Penso di aver sviluppato cosi una «tessitura» antinómica che corrisponde ad una poetica del tutto particolare. Questo per quanto riguarda il romanzo La tela. La bi-logica come teoria di supporto di una poetica. Ma la bi-logica riveste un’importanza ben più profonda perché dà spiegazione delle figure principali su cui si articola la retorica: metonimia, sineddoche, metafora, allegoria. 3. La metonimia, configurandosi come un insieme linguistico a struttura paratattica, implica perciò che gli elementi che la configurano (nel loro alli­ neamento paritetico che li designa come categorie a se stanti) abbiano valo­ re di entità unitarie, distinte (organizzabili e raggruppabili in classi a loro volta unitarie e distinte) e come tali definibili nei termini della logica divi­ dente. La metonimia è una figura di riferimento della logica asimmetrica. Il costrutto di figura dell’ordinamento metonimico è pertanto regolato dalla logica bivalente. Ordinamento entro il quale ogni termine incluso vale come categoria a valore univoco; ed ogni categoria vale come designazione di un’entità, cui spetta di essere considerata sulla base del principio di identità e di non contraddizione. Ne consegue che la configurazione metonimica debba essere considerato un sistema regolato precipuamente dall’ordine lo­ gico di tipo aristotelico. La figura della metafora, di contro, risulta essere inclusa nell’ordine logi­ co cantoriano. Se il paradigma è biunivoco è per conseguenza bi-logico. Quindi è l’ordine matteblanchiano. Difatti la metafora è figura precipua­ mente antinómica. Gli elementi linguistici presenti nell’ordine metonimico si presentano infatti come entità divise e dividenti. Mentre quando appaiono trasformati dall’ordine metaforico si presentano invece intrecciati nel chia­ smo costitutivamente antinómico, quale risulta dalla combinazione della modalità della logica asimmetrica e della modalità della logica simmetrica, costituite a loro volta come un insieme bimodale. Ne consegue che la meta­ fora si presenta come figura e struttura costitutivamente bi-logica. Ciò vuol dire che, nella metafora, gli eleihenti linguistici che la com­ pongono si presentano come predicabili, sia per la loro struttura metonimica

di valore logico asimmetrico che conservano, sia per la loro struttura di va­ lore logico simmetrico che acquistano in quanto assunti nella struttura meta­ forica. Ma tale assunzione metaforica è possibile perché tali elementi, tali termini, sono passati attraverso l’elaborazione specifica della figura della sineddoche: la figura retorica che segue la metonimia e che precede la meta­ fora. La sineddoche è la figura che sta nel mezzo e costituisce l’unità cen­ trale di processo della messa in logica simmetrica dei termini ordinati in prima istanza dalla logica asimmetrica che è propria della metonimia. In sintesi: la metonimia dispone gli elementi (o le classi) nell’ordine asimmetrico. La sineddoche dispone gli elementi (o le classi) nell’ordine simmetrico. La metafora li assume nell’ordine bi-logico, che è comprensivo dell’ordine asimmetrico e dell’ordine simmetrico. Ripeto lo schema: la sineddoche è la figura che opera sulla trasformazio­ ne di senso degli elementi del discorso (destinati ad assumere valore di fun­ zione poetica) perché determina il loro passaggio dalla dimensione biva­ lente della metonimia alla dimensione bi-logica della metafora. La sineddo­ che è la figura che fa da termine medio nella trasformazione di funzione e di senso degli enunciati, nel loro passaggio, per dirla con Jakobson, dalla or­ ganizzazione della contiguità (la metonimia) all’organizzazione della simi­ larità (la metafora), dall’ordine sintagmatico all’ordine paradigmatico5. Giacché, se per sineddoche si intende, la sostituzione della parte con il tutto e del tutto con la parte; del contenuto con il contenente e del con­ tenente con il contenuto; dello spazio parziale con lo spazio totale e dello spazio totale con lo spazio parziale; del tempo parziale con il tempo totale e del tempo totale con il tempo parziale; della causa con l’effetto e dell’effetto con la causa, e così via all’indefinito verso la locutività infinitaría; se, ripe­ to, la sineddoche è la figura di elaborazione, che operando nei rapporti di proporzionalità tra grandezze diverse le riduce a situazione di identità, trat­ tando la parte come il tutto, la specie come genere, il singolare come plura­ le, le estensioni spaziali e temporali limitate (dividenti) come estensioni il­ limitate (omogenee) e viceversa, diventa conseguente che tale elaborazione si configuri come una applicazione (o trascrizione che dir si voglia) del principio della corrispondenza biunivoca che si instaura tra gli insiemi e le loro parti, sia che si tratti di insiemi finiti, sia che si tratti di insiemi infiniti. È qui che si introduce l’asserzione di Bolzano-Dedekind per cui una clas­ se di un insieme infinito può essere messa in corrispondenza biunivoca con se stessa6: asserzione che costituisce il principio basilare da cui muove la bi­ logica di Mátte Blanco. E la sineddoche è la figura linguistica che lo regi5 Cfr. R. Jakobson, Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano, 1966. 6 J. W. R. Dedekind, Was sind und was sollen Zahlen?, 1988.

stra. Si dirà che il procedimento di formazione della sineddoche non può es­ sere la riproduzione omologa deH’algoritmo messo in cifra da Dedekind, certamente; ma sotto l’aspetto della forma, della Gestalt concettuale, ne può essere e ne è senz’altro la riproduzione analoga. Che è quanto basta per con­ siderare come compiuta l’operazione di metalessi letteraria (trasferimento contemporaneo di più significati). In questo senso la letteratura può avvaler­ si benissimo, compiendo un’operazione metaforica, di far uso di un’analo­ gia come se fosse un’omologia. È il gioco logico della metafora, che come si sa è un gioco linguistico. Se a detta di Wittgenstein la letteratura nasce come gioco linguistico7, è lecito pensare, per estensione, che anche i giochi logici, essendo giochi linguistici, costituiscano materiale di letteratura. Il pa­ radosso infatti fa da tramite. In filosofia il paradosso non è che un gioco lo­ gico, che in letteratura si presenta come teorema dell’abnorme: l’impos­ sibile possibile, l’arbitrario necessario. Paolo Zellini ricorda che Vailati di­ chiarava arbitraria la matematica8, figuriamoci se non può esserlo la lette­ ratura, che deve esserlo, dal momento che muove per sua definizione da un'inventio ipotetica, da una teorematica dell’ipotetico, che fa della para­ dossalità 1’assunto del proprio fondamento. Cerchiamo ora di andare a definizione. Alla definizione della metafora pensata in termini matteblanchiani, ben si intende. Definizione che presup­ pone la definizione, sempre matteblanchiana, della sineddoche. Eccola: se la sineddoche è in letteratura una funzione trasformazionale che corrisponde a ciò che in matematica costituisce il principio summenzionato di Dedekind (ciò che consente il passaggio dall’ordine del finito all’ordine del transfini­ to), in termini più propriamente matteblanchiani essa diventa la figura gene­ rativa che dà luogo al processo principale considerato dalla teoria matte­ blanchiana, il processo di simmetrizzazione (che per l’appunto è un passag­ gio dall’ordine del finito all’ordine del transfinito). Stabilita la predefinizione della sineddoche sì è in grado di passare alla definizione matteblanchiana della metafora. Diciamo che la metafora, matteblanchianamente intesa, è la figura di una messa in figura dei risultati del processo di simmetrizzazione che è stato messo in atto precedentemente dalla sineddoche. Diciamo, inoltre, che la metafora, da intendersi come luogo logico della condensazione e dello spostamento contemporaneamente operanti, è anche il luogo logico in cui il processo di simmetrizzazione vie­ ne a completarsi anche come processo di generalizzazione, altro principio di fondamento della teorica matteblanchiana.

7 Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1967. 8 P. Zeliini, La ribellione del numero, Adelphi, Milano, 1985, p. 27.

4. Tuttavia la funzione della generalizzazione non è esclusiva della metaforizzazione: essa è altresì funzione che viene assunta dalia figura che a sua volta è una generalizzazione della metafora, vale a dire dalla allegoria, che in quanto metafora allargata è coestensiva con quell’insieme complesso che costituisce l’opera d’arte intesa nel suo insieme. È nella sua generaliz­ zazione come figura deH’allegoria che l’organismo linguistico-poetico, cul­ minato nella metafora, assume allora la configurazione di un discorso che si inoltra nella dimensione del transfinito. E il transfinito costituisce di per sé un discorso connesso con l’originario. L’allegoria viene definita una metafora allargata. È quindi una metafora particolare che può corrispondere a ciò che in matematica si intende come primo numero transfinito: il numero omega. Se la matematica dispone del numero omega, la letteratura dispone della metafora omega, individuabile a un di presso in quella determinazione inventiva che Thomas Eliot qualifica come correlativo oggettivo9: che in parte è metafora allargata e in parte è allegoria ristretta. Chiamiamola allegoria determinata: la metafora omega da cui inizia l’arcano di ogni opera. È da qui, dall’allegoria, da questa figura complessiva che si squaderna la dimensione infinitiva dell’opera d’arte come organon navigante nell’ori­ ginario. Tenuto conto che l’allegoria è la costruzione in cui il simplesso metonimia-metafora assume le dimensioni della complessità simbolica, per­ ciò del valore aggiuntivo di senso che si accompagna all’opera d’arte com­ piuta. Tenuto conto inoltre che l’allegoria è in sé e per sé una aggiunta in­ terpretativa di significato dei significati dell’opera oltre ad essere a sua volta una metafora interpretante del proprio predicato10. L’allegoria è una figura che opera virtualmente come un’ermeneutica metalinguistica. È propria­ mente 1’organon attraverso il quale trova compimento un circolo ermeneuti­ co di progressive simmetrizzazioni e di progressive generalizzazioni. La lo­ gica dell’allegoria non può essere che bi-logica: un’ermeneutica bi-logica. Una logica che essendo conformata come circolo è perciò stesso generativa di un discorso infinitivo. Per cui: l’opera d’arte, considerata sotto questo aspetto, si costituisce di per sé, data la dinamica della complessità a cui appartiene, come una simmetrizzazione delle simmetrizzazioni e come una generalizzazione delle ge­ neralizzazioni. Un vortice bi-logico che dà luogo, come suo derivato, a un vortice semiologico. Perciò processo di infinitizzazione possibile dei suoi significati possibili. Su questa base l’opera d’arte diventa una costruzione 9 Th. S. Eliot, Amleto e i suoi problemi, in Opere, Bompiani, Milano, pp. 366-8. 10 Cfr. U. Artioli, Il combattimento invisibile. D'Annunzio tra romanzo e teatro, Laterza, Roma-Bari, 1995.

simbolica che autorizza su di sé ogni elaborazione ulteriore. Il circolo erme­ neutico diventa allora circolo dell’anagogia. Anagogia proprio nel senso di estensione e di alterità di significato come intendeva Dante11. Diciamo allo­ ra che il testo allegorico richiede un’ermeneutica anagogica. D’altronde l’ermeneutica non è che una filosofia dell’anagogia. Qui da intendersi come intenzione (fenomenologica quindi) di cogliere la realtà rappresentata dal­ l’opera come l’essenza della realtà in quanto tale. In questo senso l’opera è veramente portatrice della Lebenswelt husserliana, o di qualunque altro ter­ mine che sia indicativo dell’originario. Per esempio Erlebnis. È evidente con questo che ciò che si designa come originario è costituito da una costellazione di antinomie generatrici in continuum di altre an­ tinomie e che l’allegoria è la via per conseguirlo. D’altronde la letteratura non è che una costellazione di antinomie (bi-logiche, naturalmente): così è in ogni passaggio (trasformazione) dalla metonimia alla sineddoche, dalla sineddoche alla metafora, dalla metafora all’allegoria, dall’allegoria all’ana­ gogia: percorso di un continuum di mise en abîme di antinomie bi-logiche. Una mise en abîme che è una ascesa o una discesa (l’alto e il basso negli in­ siemi sottoposti a simmetrizzazione e a generalizzazione si equivalgono) verso l’originario. Valga come designazione dell’originario ciò che di volta in volta è stato definito come sublime dallo Pseudo-Longino12, aorgico da Hölderlin13, assoluto da Hegel, il transfinito da Cantor ed essere da Parme­ nide (almeno per come Matte Bianco intende che l’essere sia stato inteso da Parmenide14): tutti pensatori postantichi se considerati in queste frasi e fasi culmine del loro pensare e perciò (in queste frasi e fasi di culmine del loro pensare) estensori non tanto di filosofie, quanto piuttosto ideatori di cosmo­ gonie. Compito precipuo delle letterature (e delle filosofie in quanto alla fin fine elaborazioni di letterature). 5. Il tempo in letteratura. Nietzsche, riguardo alla filosofia, diceva: «In ogni caso la filosofia giunge sempre troppo tardi. In quanto pensiero del mondo essa appare soltanto dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione e s’è bell’è assestata». Giulio Ferroni sembra voler dire la stessa cosa riguardo alla letteratura. Anche la letteratura giunge sempre troppo tardi. In quanto poesia del mondo arriva sempre dopo, quando le co­ se di cui parla non ci sono più. In effetti, all’apparenza, avviene proprio co­ sì: la letteratura compare solo postfestum, opera in un reale che non è più 11 Dante Alighieri, Convivio, II, 1. 12 Pseudo-Longino, Il sublime, Aesthetica Edizioni, Palermo, 1987. 13 F. Hölderlin, Sul tragico, Feltrinelli, Milano, 1980. 14 I. Matte Bianco (1975), L'inconscio come insiemi infiniti, tr. it., Einaudi, Torino, 1981, Prefazione dell’autore, p. CXIV.

quello da cui e per cui è nata ed è pertanto postuma15. Così come la luce che arriva a noi dall’ordine-disordine delle galassie ci informa sullo stato delle costellazioni quali esse sono state nel passato e come non lo sono più al presente, la letteratura ci parla della realtà di cui parla quando questa realtà è fuori tempo (il tempo inteso come krònos), quando è già finita. La lettera tura equivale ad una lettera che gli antichi hanno scritto, ma che viene letta dai posteri, i quali possono anche non esse­ re interessati ad essa. I posteri sono destinatari non necessari della letteratu­ ra. Potrebbero anche far a meno di essa. Questo varrebbe se il tempo vissuto nell’umano fosse soltanto tempo discreto, tempo diviso (krònos); ma il tem­ po vissuto nell’umano è anche tempo continuo, tempo simmetrico (aiòn): l’umanità è una specie che vive dopo che è vissuta, è postuma di per sé, è di per sé postantica. Il suo esistere è intessuto di compresenze temporali, che si estendono dall’antichità alla posterità. Il tempo come krònos viene presentizzato nel tempo come aiòn: compito questo che è proprio della letteratura. E l’aiòn (aspetto profondo dell’originario) altro non è che un insieme infi­ nito come Matte Bianco lo intende. È pur vero però che la letteratura è ciò che viene dopo, come dice Ferroni. Dopo che i fatti di cui si celebra il fasto sono storicamente accaduti. È un dopo riferito al tempo storico, che è un tempo esterno: il tempo suddiviso tra il tempo dell’evento di cui l’opera parla, il tempo in cui l’autore parla (un tempo postumo rispetto al primo) e il tempo in cui l’opera viene letta dal destinatario (che è un tempo postumo rispetto al tempo dell’evento ed è postumo rispetto al tempo in cui l’autore ne parla). Sono tre tempi che co­ stituiscono il percorso del transito dell’opera ed è esterno ad essa. L’opera dispone di un tempo tutto suo, interno, il suo tempo originario. Il tempo come aiòn in cui i modi del tempo del krònos: il prima e il dopo diventano compresenti perché matteblanchianamente simmetrizzati. Il tempo-krònos (scandito nei modi del prima e del dopo) della letteratura è incluso nel modo del presente assoluto del tempo-aiòn, entro il quale as­ sume la forma di un flusso circolare ed oscillante, in cui il dopo viene anti­ cipato e il prima presentato in un dopo, assieme al presente che li risolve entrambi nella sua presentità. Questo flusso del tempo letterario è soprattutto una questione di dispositio. E nella dispositio del testo l’articolazione del tempo (il tempo del testo ben si intende) è tutto. Chiamiamolo il tempo del testo. Non a caso ogni testo, essendo postumo, sottintende la sua parola d’ordine di inizio: «Una volta c’era». L’opera si ri­ 15 G.- Ferroni, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Einaudi, Torino, 1996.

ferisce sempre a qualcosa che c’è già stato e la sintassi temporale del testo conferma che il testo è comunque postumo. Per tutta la sua durata di testo il testo ritorna sempre indietro: il suo procedere è una rammemorazione del già stato e pertanto si pone come postumo. Il testo è nostalgico del già stato. A questo fine il suo movimento è scandito dal procedimento dell’analessi. L’analessi è la figura che accompagna lo svolgersi in avanti del testo in quanto recupera di volta in volta il già stato, riprendendolo di nuovo. Analessi: lepsis-ana: prendere di nuovo. Ricominciare dal passato, ritornare in­ dietro, presentificare il passato, darsi alla dimensione postuma. Ma è vero altresì che il movimento in avanti del testo procede anche as­ sumendo la figura dell’operazione opposta: procede in avanti anticipando ciò che accadrà in avanti. Se il testo parla di ciò che è accaduto (è postumo) esso parla anche di ciò che ancora non è accaduto (è profetico). Se il testo è strutturalmente costituito dalla figura dell’analessi è anche costituito dalla figura della prolessi: anticipazione di ciò che ancora non è presente, ma che diventerà presente. L’intreccio dell’evento quale si presenta nel testo pre­ sentificante è un simplesso di antepresente (analessi) e di postpresente (prolessi)16. L’autore nell’intrecciare il suo testo dispone di un doppio sguardo, quello di Epimeteo che guarda indietro e quello di Prometeo che guarda in avanti. Il suo testo è il risultato di un movimento di spola tra tem­ po andato e tempo che verrà. I due modi del tempo-krònos, che il tempoaiòn del presente assoluto dell’opera (del testo stesso) mette in equivalenza; in questo contesto matteblanchiano diremmo che mette in corrispondenza biunivoca, che poi diventa, per generalizzazione, un processo di messa in corrispondenza plurivoca. Risultato di questo movimento di spola della tessitura del testo è la presentificazione di ogni forma di temporalità, sia che questa sia data come passata (come postuma), sia che essa sia data come futura (come profetata, preparlata). Questo punto di presente peculiare e proprio della letteratura, dell’opera, ha il suo fondamento costitutivo nella struttura della bi-logica, ovviamente. Il punto in cui si coniugano la forma della temporalità che si svolge in successione (la temporalità dividente del tempo-krònos) e della temporalità che ignora la divisione (la temporalità aorgica del tempo-aiòn). Tutto lavoro della «voce della spola» di cui parla Aristotele nella sua poeti­ ca ed il mio testo La tela che vorrebbe esserne una riprova, almeno nell’intenzione.

16Cfr. G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino, 1997.

3. Psicanalisi e letteratura: d a ll’inconscio alla logica emotiva di Guido Paduano

1. Una volta, Matte Bianco definì una sfortuna il fatto che Freud avesse dato il nome di inconscio al mondo pulsionale rivelatogli dal disagio psichi­ co e sottratto alle coordinate del pensiero tradizionale: il principio di con­ traddizione, la griglia spazio-temporale e il suo maggiore prodotto, il prin­ cipio di causalità. Credo che lo stesso assunto possa essere ripetuto con particolare con­ vinzione da quanti negli ultimi decenni non hanno smesso di chiedersi in che senso, forme e limiti la psicanalisi, inevitabilmente e giustamente allar­ gata da metodo clinico ad antropologia generale, potesse contribuire a illu­ minare quella privilegiata dimensione umana che è la letteratura. Un’investigazione che ha tratto i maggiori profitti dalfesame delle strut­ ture formali, e delle relazioni da esse reciprocamente intrattenute, che il di­ scorso letterario risulta avere in comune con il campo studiato da Freud, non foss’altro che per la natura di linguaggio che anche quest’ultimo pos­ siede, così enfatizzata da Lacan, ma da Matte Bianco considerevolmente allargata oltre i limiti dell’inconscio. Il più elaborato e maturo tentativo di costruire una teoria freudiana della letteratura, lo studio di Francesco Orlan­ do che così si intitola1, gioca la più importante delle sue carte sul carattere di formazione di compromesso che accomuna il ritorno del represso nella storia individuale e collettiva dell’uomo (del represso, non del solo rimosso, che la topologia freudiana associa univocamente all’inconscio) alla figuralità della letteratura, per cui essa infrange la trasparenza della relazione fra significante e significato, e con ciò quella fiducia nell’ordine razionale del mondo che è la più sicura remora dei nostri desideri. Invece dalla centralità dell’inconscio e dei suoi contenuti peculiari, a co­ minciare dalle relazioni familiari basiche, centralità che da Freud si è tra­ smessa non solo ai suoi seguaci ma anche ai suoi utilizzatori profani, di­ 1Per una teorìa freudiana della letteratura, Einaudi, Torino, 1978.

scendono aporie, passaggi a vuoto, vicoli ciechi dell’incrocio fra letteratura e psicanalisi: dovuti tutti, come ha limpidamente mostrato Orlando, al di­ sconoscimento del carattere comunicativo della letteratura, del suo essere una nervatura del processo sociale che organizza il dialogo civile tra gli uomini. 2. Alla caratterizzazione di medium sociale la categoria dell’inconscio si oppone in modo anche più profondo della semplice ed evidente opposizione tra privato e pubblico: al limite, quando si voglia intendere alla lettera la natura negativa della sua denominazione, essa coincide col silenzio. Non innocuo, certo: da lì si generano, come dalla notte schellinghiana, opzioni arbitrarie, illimitate e indistinte. Fu proprio Freud il primo a cadere in questa trappola, e proprio a pro­ posito di una grande opera letteraria, allorché le obiezioni avanzate alla sua lettura dell’Edipo Re di Sofocle e da lui non senza ragione e non senza an­ sietà considerate esiziali alla formazione dell’intero edificio teorico, non ri­ chiesero di meno per essere respinte: «Così ci è stata rivolta l’obiezione che la leggenda del re Edipo non ha in verità nulla a che fare con la costruzione dell’analisi, trattandosi di tutt’altra cosa, dal momento che Edipo ignorava che l’uomo da lui ucciso fosse suo padre e la donna da lui sposata fosse sua madre:... ma l’insipienza di Edipo è la legittima raffigurazione dell’incon­ sapevolezza nella quale per l’adulto l’intera vicenda è sprofondata»2. L’uso di due parole diverse per la mancanza di conoscenza (in tedesco, Unwissen­ heit e Unbewusstheit), rispettivamente riferite alla ignoranza fattuale e all’oscura ipoteca psichica, è il solo scrupolo ad avanzare un’equivalenza tra inconscio e non noto che giustifica le più dure accuse ai fondamenti epi­ stemologici della psicanalisi e in particolare alla sua non falsificabilità, se è vero che essa può servirsi della testimonianza del detto come del non detto, e soprattutto avvalorare quest’ultimo sulla sola base del non essere detto. Compromesso risulta lo statuto complessivo della nuova scienza, ben ol­ tre la possibilità della sua applicazione alla letteratura: tuttavia non si può non sottolineare come si realizzi una preoccupante sinergia tra questo atteg­ giamento e una delle tendenze più in voga nella critica letteraria degli ultimi decenni, quella decostruzionista che, negando come pura illusione l’identità funzionale del testo, ne fa la palestra indiscriminata delle letture soggettive moltiplicate e parcellizzate che lo usano come punto di partenza di una ne­ bulosa associazionistica.

2 S. Freud (1938), Compendio di psicoanalisi, tr. it. in Opere di Sigmund Freud (OSF), Boringhieri, Torino, 1967-80, vol. XI, p. 618.

3. Ma problemi derivano anche da una definizione dell’inconscio freu­ dianamente corretta, non semplicemente come il non noto ma come ciò che, non presente alla coscienza, si fa vivo attraverso le pause e le violazioni della razionalità cosciente sviluppando una retorica e una semiotica del sintomo. Se vogliamo abusare della facilità emblematica del paradigma Edipo, diciamo un Edipo che, pur non sapendo né tanto meno desiderando né incesto né parricidio, carica tuttavia di suggestioni ambigue e irrisolte magari razionalizzabili con la differenza d’età - il suo rapporto coniugale con Giocasta, o di sensi di colpa in apparenza sproporzionati (e/o di soddi­ sfazione ribelle ed emancipatoria) la sua casuale uccisione di Laio. Estranei a Sofocle, questi atteggiamenti appariranno puntualmente da quando la ci­ viltà cristiana non permetterà più a nessun figlio di dirsi, in profondo e in segreto, innocente. Rapportato alla mediazione letteraria, anche questo concetto di inconscio sortisce conseguenze euristiche distruttive, che riusciranno meglio illumi­ nate, credo, da un esempio testualmente più specifico, e da una sua lettura alla luce delle tecniche di manifestazione dell’inconscio freudiano (non, come nel caso di Edipo, dei suoi contenuti). Il protagonista di una grande commedia aristofanesca, Le vespe, è un vecchio ateniese che, esautorato nella sua casa, si compiace di rifarsi nella vita pubblica esercitando con assoluto e maniacale piacere la funzione di giudice popolare. In un dibattito col figlio, che, portavoce ideologico dell’autore, condanna questa funzione in quanto cieco strumento del potere corrotto dei demagoghi, il vecchio Filocleone sostiene la tesi della propria suprema gratificazione (che la cultura antica codifica nella definizione di rnakarismos), fino a quando una svolta improvvisa e imprevista del suo di­ scorso porta acqua al mulino della causa avversaria. «Subito, fin dall’inizio, dimostrerò che il nostro potere non è inferiore ad alcuno. Chi è più felice, più beato di un giudice, più temuto e vezzeggiato anche nella vecchiaia? In­ nanzitutto la mattina, appena alzato dal letto, ci sono pezzi grossi che mi aspettano ai cancelli del tribunale. Non faccio a tempo ad avvicinarmi che qualcuno mi tende la mano molliccia, che ha rubato denaro pubblico. Si chinano e mi supplicano, gemendo: «Abbi pietà di me, padre mio, se anche a te è mai capitato di rubare esercitando una carica o facendo il furiere nell’esercito». «E costui neanche saprebbe che io sono al mondo, se non fosse che la volta prima l’ho già assolto» (vv. 546-558). . La battuta finale non si capisce se non si tiene presente che altrove, ripe­ tutamente e in maniera ossessiva, Filocleone interpreta il ruolo di giudice in funzione punitiva, fino a ipostatizzare questa sua tendenza in un oracolo che gli vieterebbe di assolvere gli imputati. Ma di condannare gli imputati ec-

celienti gli vieta invece con tutta evidenza la Realpolitik, la dinamica dei rapporti di potere che, proprio come sostiene suo figlio, lo strumentalizza a copertura delle malefatte della classe dominante. Il quadro trionfalistico soggettivo si crepa lasciando involontariamente passare la gelida ventata del reale e delle frustrazioni che esso infligge. Uno splendido esempio del processo per cui una verità emerge forzando i mec­ canismi razionali di controllo e di censura, anche se il lapsus è qui impre­ ziosito dal chiasmo che separa e oppone la coscienza al senso di realtà, che usiamo pensare associati. Qui invece è cosciente - centro di un lucido pro­ cesso retorico e argomentativo - l’illusione, e oscuramente incontrollabile l’angoscia con cui la psiche accoglie il risveglio dal sogno. Ma quello che più interessa il mio discorso è un altro, più paradossale e generalizzabile, chiasmo: se è vero che un senso trasmesso in condizioni difficili, a rischio di non farsi capire (e spesso infatti la battuta di Filocleone non è stata capita), acquista rispetto a un andamento standard dell’infor­ mazione un rilievo peculiare, quasi l’opera letteraria fosse una caccia al te­ soro, allora all’involontarietà rappresentata dal personaggio corrisponde un massimo di intenzionalità compositiva, o, come io preferisco pensare, una coerente assunzione di funzioni nella strategia semantica del testo. Basti pensare che il cedimento di Filocleone fa da indispensabile tramite fra la simpatia istintuale e vitalistica che il personaggio suscita e l’antipatia atti­ rata su di lui dalla posizione fiancheggiatrice degli odiati demagoghi; ma se di questi è in ultima analisi vittima... 4. Nel discorso letterario dunque il percorso dell’inconscio verso una dicibilità contrastata e impedita viene capovolto, strumentalizzato e in ultima analisi assorbito dentro la volontà comunicativa che lo riproduce, facendone una propria funzione al pari degli elementi della personalità volontari ed esibiti, e riducendo a propria funzione l’individuo complessivo non diver­ samente dei fattori non direttamente antropomorfici della rappresentazione. È illuminante a riguardo una frase della Poetica di Aristotele: «non si agisce per imitare i caratteri, ma si assumono i caratteri in dipendenza delle azioni» (1450 a 21-23). Su questo punto potremo concludere che propriamente parlando l’inconscio non potrà predicarsi degli esseri di carta (o di cartapesta tea­ trale), ma solo di quelli in carne ed ossa, che sono liberi, con tutte le virgolette possibili, ma almeno nel senso che i loro movimenti non sono leggibili dentro una organizzazione data e nota del senso. Chi pensa, come anche Matte Bianco pensava, che il senso dell’esistenza umana sia comunque or­ ganizzato da un autore universale, ammette infatti che i suoi disegni sono

imperscrutabili; e comunque sia, il reticolo di un’esistenza ha troppe più va­ riabili combinatorie, nel gioco tra eterogenee volontà e casualità, della fan­ tasia artistica che da sempre ha preso per il suo più persuasivo dogma quello dell’unità. 5. Ma il rimando alla volontà compositiva ci ha messo, dopo tutto, in contatto con un essere in carne e ossa che ha a che fare con l’opera: il suo autore. Si capisce che verso questa indubitabile e in certa misura ineludibile esistenzialità non abbiano smesso di puntare gli studi che più immedia­ tamente mettono in contatto le scoperte psicanalitiche con la creatività lette­ raria: a cominciare ancora una volta dallo stesso Freud, che attribuisce l’enigma di Amleto e della sua impossibile vendetta al trauma irrisolto ge­ nerato in Shakespeare dai sensi di colpa per la morte del padre3. Ma ancora una volta, è sintomatico delle aporie successive un altro in­ fortunio accaduto a Freud, che la sua immensa onestà intellettuale mise in evidenza: convintosi, in base a uno dei tanti terremoti della critica sha­ kespeariana, che il vero autore della tragedia fosse il conte Edward de Vere, Freud cercò - con successo, purtroppo - nella biografia di quest’ultimo quanto potesse spiegare quello che un’altra biografia aveva già spiegato4. Una perdita di specificità che ci illumina simbolicamente sulla generale in­ congruità della relazione fra arte e vita, e sul carattere circolare che assume il ricorso a ognuna delle due per illuminare l’altra. Il trionfo della soggetti­ vità romantica, nella cultura di cui siamo anche noi figli poco più distanti di quanto lo fosse Freud, non deve ingannare; perfino nelle autobiografie la formalizzazione del racconto dentro la cornice normativa cui è stato dato il nome di pacte autobiographique prevale sul materiale dell’esistenza empi­ rica e fa prevalere il personaggio sulla persona; ma per ogni autore e non solo per questo autore-personaggio varrà la contraddizione già vista tra il nascondere e il mostrare, mentre quest’ultima operazione è indispensabile a definire il discorso letterario in quanto fruibile da parte di più soggetti di­ versi dall’autore.

6 . Tuttavia proprio la medesima antinomia tra nascondere e mostrare ci guida a individuare una superstite possibilità di predicare correttamente la categoria dell’inconscio in letteratura: essa si ritrova nel caso in cui non debba essere nascosto un segreto individuale, ma si attui una rinuncia alla dicibilità che le norme costitutive della civiltà abbiano imposto al gruppo 3 S. Freud (1900), L'interpretazione dei sogni, tr. it. in OSF, vol. Ili, p. 247; id. (1925), Autobiografia, tr. it. in OSF, vol. X, p. 131. 4 S. Freud (1938), Compendio di Psicoanalisi, cit., p. 619.

sociale, identificato con la comunità dei fruitori presupposti dal testo come necessario punto d’arrivo del suo discorso (ben diversa quindi dall’insieme dei fruitori impliciti che attraversano la diacronia di tempi, civiltà e tabu di­ versi). In queste condizioni può accadere che il testo richieda un orienta­ mento emotivo da un lato necessario e dall’altro necessariamente inespres­ so. Orlando5 situa in questa tipologia i testi comici in cui il protagonista vie­ ne aggredito dalla sanzione sociale del riso come portatore di una deviazio­ ne, di un vizio, di una mania degradante, tale cioè da non consentire nessuna compensazione o recupero di solidarietà alla luce del giudizio morale o al­ trimenti ideologico. Quest’ultima puntualizzazione va fatta per escludere doverosamente dalla fattispecie le situazioni comiche in cui il protagonista ha, alla luce della coscienza, a cominciare da quella dei suoi interlocutori scenici, una parte di ragione: si pensi per esempio al Misantropo, cui le età seguenti daranno tanta ragione da renderne incomprensibile la caratterizza­ zione comica. Ma si pensi invece all’Arpagone dell’Avaro, accaparratore e usuraio, detentore di un’autorità paterna ingiustificata, priva di valori affet­ tivi oltre che etici: nessuna attenuante gli è concessa, e dunque nessuna an­ che parziale simpatia può essergli espressa. Qualcuno si meraviglierà sem­ mai che si parli nei suoi confronti di una simpatia comunque necessaria; ma ciò discende immediatamente dal codice semiotico dell’opera letteraria, e in particolare teatrale, perché può considerarsi un equivalente contronominale del protagonismo, tanto più in opere come VAvaro, dove verso la funzione protagonística convergono tutte le risorse espressive, e gli altri personaggi non hanno altro compito che mediarne e illuminarne aspetti particolari. Come è impossibile non condividere il giudizio espresso, direttamente o in­ direttamente, dai virtuosi figli di Arpagone sul loro padre, altrettanto è im­ possibile interessarsi autonomamente alla loro sorte, direi anche solo ricor­ darne il nome (e non solo perché indimenticabile è quello di Arpagone, dal quale ben comincia la gigantesca rappresentazione). Il mondo di cui si parla, direbbe Wittgenstein, è precisamente, non più e non meno, non altro che Arpagone; ma esso contiene l’identificazione emo­ tiva come tratto definitorio, principium individuation is dell’esperienza lette­ raria nella sua capacità di suscitare piacere: o dovremmo ammettere che del nostro vivere VAvaro non mobiliti altro che la ripugnanza a un vizio, proce­ dimento non specifico, indirizzato al fine di edificazione e persuasione che altre forme di discorso esercitano direttamente. Questa istanza logica si riempie, attraverso la rappresentazione, di un in­ teresse minuto e profondo per il mondo interiore del protagonista, per il far5 Per una teoria freudiana della letteratura, cit., pp. 84-5.

si laborioso delle sue scelte, iniziative e reazioni, lette nel microscopio di un tempo drammaturgico proposto allo spettatore come il suo stesso tempo biotico; se il piacere che così si consegue è l’universale desiderio di cono­ scenza che Aristotele mette a fondamento anche della poetica, si tratta di una conoscenza più certa e più ricca del giudizio morale. Non lo vanifica certo, ma lo assume contemporaneamente alle resistenze oscure che nel­ l’uomo, individuo e specie, contrastano la sua azione civilizzatrice. Noi dunque amiamo Arpagone; altrimenti non lo amerebbero neppure gli attori che dall’identificazione emotiva sono i primi ad essere investiti, fa­ cendosene tramite per un circolo virtuoso che la moltiplica e reinveste, e che da sempre sono stati affascinati da queste parti grandiosamente «antipa­ tiche»: in Arpagone vediamo l’immagine intera o ricostituita del narcisismo infantile che nega ogni esigenza esterna, e nel mondo vede nient’altro che la proiezione trionfale dell’affermazione di sé; ma l’indugiare nostalgico su questa posizione, da parte di chi con fatica si è abituato a tener conto degli altri nella quotidianità aspra dell’esistenza, è reso possibile proprio dalle di­ stanza proclamata attraverso il riso, che non è solo la sanzione sociale dell’infantilismo, ma è garanzia dell’integrazione nel mondo maturo e adulto, compenso e consolazione dei benefici perduti. 7. Per la verità, credo che alla tipologia comica individuata da Orlando debba aggiungersene un’altra, eminentemente tragica, in cui il giudizio mo­ rale costituisce alla simpatia una barriera ancora più difficile, e il conflitto che ne nasce è più duro proprio perché non può approfittare dell’attenua­ zione conciliatrice che sta comunque nel riso, per sprezzante e violento che sia, ma strumento di repressione ed emarginazione pur sempre minori, so­ stituto simbolico delle violenze carcerarie e manicomiali. Alludo alla rap­ presentazione dei grandi colpevoli, e in particolare alla drammatizzazione del potere politico violento che la tradizione senecana ha trasmesso, àdXYEcerinis di Albertino Mussato in poi, alla scena delle corti europee mo­ derne. Il nucleo ricuperabile dall’inconscio è lo stesso che nel caso precedente, l’onnipotenza infantile; ma recuperarlo diventa tanto più difficile quanto più forti sono le compromissioni estroverse e i danni arrecati agli altri soggetti, avente carattere essenziale e irreversibile. La medesima irreversibilità, nelle forme sceniche della catastrofe violenta, spetta al protagonista come puni­ zione: ma spesso sta proprio in essa l’unico tributo pagato alla coscienza morale da un fascino perverso che verso l’eroe negativo attiva un’ammira­ zione sgomenta. Anche in questo caso la distanza verso l’oggetto dell’iden­ tificazione ha valore rassicurante: si pensi alle già senecane (ma già eschi-

lee) lodi della vita modesta, spina dorsale del topos in cui si organizza la falsa coscienza della civiltà europea. Lo stesso è comunque l’esito: perfino nel Riccardo III di Shakespeare non interessa l’antagonista virtuoso, quel conte di Richmond in cui si co­ stellano soltanto, assumendo sostanza scenica di fantasmi, le istanze di ven­ detta delle vittime di Riccardo. E dico perfino perché l’occasione è istruttiva a mostrare operante una differenza tra la volontà personale dell’autore e la strategia funzionale del testo (cui avevo prima accennato): non c’è dubbio infatti che alla persona empirica di Shakespeare la figura del fondatore della dinastia regnante non potesse che interessare moltissimo. 8. Qui è piuttosto il caso di rilevare come questa fascia sia comunque ben esigua rispetto all’insieme delle situazioni letterarie. Per Orlando occupa una delle cinque tipologie possibili, mentre le altre, che via via concedono alla trasgressione sempre maggior spazio, sono quelle in cui la solidarietà col represso ha conquistato il livello della coscienza e quindi dell’espres­ sione diretta, ma a prezzo di scatenare un intimo conflitto di valori (conscio ma non accettato); quella in cui essa ha conquistato interamente il soggetto, ma al prezzo di emarginarlo rispetto alla società (accettato ma non propu­ gnato); quello in cui essa si fa portavoce di un’istanza rivoluzionaria in­ compatibile con l’ordine sociale esistente (propugnato ma non autorizzato), e finalmente quella più vicina all’equilibrio e alla pacificazione, in cui ci si limita a mettere in conflitto valori entrambi accreditati nell’ordine vigente (autorizzato, ma non da tutti i codici6). Lo spazio dell’identificazione inconscia viene ulteriormente ridotto se si tiene presente che, anche nei testi che la adottano, tanto difficilmente essa può restare compatta e incontaminata quanto facilmente l’onnipotenza in­ fantile può essere inquinata anche da frustrazioni che non hanno origine nell’universo etico-razionale, ma sono omogenee al suo stesso statuto emo­ zionale. Nei confronti di Arpagone che soffre la perdita della sua cassetta come una irrimediabile ferita affettiva, non casualmente alimentando l’equi­ voco che stia piangendo una persona cara, o di Riccardo III che rimprovera alla «natura fraudolenta» la sua deformità, si produce un movimento di soli­ darietà conscia modellato sul grande dogma occidentale della dignità del dolore, dignità che viene riconosciuta prescindendo dalle motivazioni e con esclusivo riguardo alla magnitudine emozionale. Allo stesso modo Aristo­ tele quando esamina le situazioni teatrali e ne scarta alcune perché incapaci di suscitare i canonici sentimenti di pietà e paura, introduce alla loro sordità un’eccezione: «niente che si compia o che si mediti di compiere verso un 6 Ivi, pp. 79-81.

nemico suscita pietà, tranne per la sciagura (pathos) in sé»7: sciagura che non si limita, evidentemente, ai traumi esterni della sensibilità, la morte e il sangue. 9. Torniamo al punto: a riscontro di una parzialità così rigorosamente (spero) delimitata, totalitario e indifferenziato è l’impatto che la critica psi­ canalitica, intesa come critica dell’inconscio, ha esercitato in favore di una concezione spontaneistica dell’arte, capace di riesumare le vecchie mitolo­ gie dell’ispirazione e magari anche della possessione, nel quadro di quella che sempre più mi pare la deriva irrazionalistica globale della nostra epoca. Disconosciuta ne è stata non solo, come si è detto prima, la natura comu­ nicativa della letteratura, ma il messaggio complessivo della tradizione oc­ cidentale che, a partire dalla codificazione dei generi letterari nella Grecia classica, vi legge l’affermazione della persona umana nella sua progettualità e decisionalità, protagonista di un processo dove dalla giustificazione inte­ riore del senso discendono i fatti nel loro ordine e nel loro reticolo di rela­ zioni. La negazione di tutto ciò solo apparentemente trova riscontro nel caos che la letteratura novecentesca sembra aver messo al posto del cosmo clas­ sico: rigettato o rimpianto, nelle due relazioni, entrambe freudiane, che la generazione dei figli intrattiene coi padri, quel cosmo è l’assenza funzionale e indispensabile alla presenza di quel caos. Per fare solo un esempio, il chiacchiericcio agghiacciante e nonsensico dei personaggi di Beckett non è immaginabile se non in un mondo che per il fatto di avere introiettato i mo­ nologhi di Amleto e la maieutica insinuante di Jago sia in grado di misurare come quotidiana angoscia individuale e sociale la perduta creatività della parola. Peggio ancora, il prevalere di una concezione irrazionalistica dell’arte si è tirato dietro un analogo fenomeno riflesso per la critica letteraria, attraver­ so il narcisistico compiacimento délV arti/ex additus artifici e il principio implicito che delle cose oscure si deve parlare oscuramente. Non si poteva tradire più la matrice originaria della psicanalisi: l’istanza che proprio in di­ rezione delle cose oscure sia necessario il maggior sforzo illuministico, e la fiducia che spiegare il mondo sia la premessa necessaria a cambiarlo. Né si potrebbe tradire di più, a me sembra, il compito educativo che la critica letteraria assume nella scuola e nell’università, a fondamento non ul­ timo di una ricognizione e recupero critico delle esperienze umane che nel loro sistema formano la storia. 7 Aristotele, Poetica, 1453 b 17-8.

10. Come accade quasi sempre, la pars construens del mio disçorso sarà più breve e incerta, anche perché preferisco affidare la sua possibile e tenta­ tiva persuasività a un esempio di lettura, e per di più, in questo contesto, ne­ cessariamente sommario. In questo stesso contesto, peraltro, posso confidare che siano già impli­ citamente emerse dalla ricognizione delle difficoltà addebitate alla categoria dell’inconscio i grandi vantaggi che all’uso dei dati della ricerca psicanaliti­ ca in campo letterario possono venire dalla teoria di Matte Bianco che tra­ sforma la dialettica freudiana da topologica in funzionale. Dal fatto cioè che non per una zona della psiche, ma per la totalità dei comportamenti umani si assuma una duplicità essenziale dell’essere: la convivenza di una visione del mondo come insieme di parti razionalmente distinte e governate dai principi della logica classica, e di una visione del mondo come totalità omogenea e indivisa, e per tale oggetto d’investimento emotivo. Un’emozione tuttavia non più considerata «irrazionale», né esclusa - non importa se con disprez­ zo o con rivendicazione orgogliosa - dai modelli organizzati del vivere, bensì intesa come il regno di un’organizzazione logica diversa: essa am­ mette la reversibilità di ogni proposizione (con conseguente annullamento del tempo e del principio di causalità), e l’identità di tutto e parte che, rica­ vata dalla possibilità di identificare interamente due qualsiasi entità che ab­ biano un qualche punto in comune, contiene a sua volta come caso partico­ lare la negazione del principio di contraddizione. Prendere la parte per il tutto è una delle più modeste fra le figure classifi­ cate dai retori; più in generale, quella che Aristotele chiama «metafora», ri­ conoscendovi l’impronta decisiva del talento poetico, ma che in realtà ri­ sponde nelle classificazioni posteriori al più vasto concetto di traslato, ha precisamente come suo principio costitutivo l’operazione che innalza a identità globale l’identità di un singolo aspetto: che dunque dalla teoria di Matte Bianco l’utilizzazione delle categorie psicanalitiche in rapporto alla strutturazione formale del testo letterario, cui accennavo all’inizio della mia relazione, non possa che venire fortemente potenziata, appena mette conto di dire. Qui però voglio indicare la possibilità di ripensare alla luce della logica simmetrica i contenuti letterari, la maggior parte dei quali abbiamo visti esclusi dalla definizione di inconscio. Ma tutti invece rientrano nel sistema dialettico della razionalità e del­ l’emozione cui Matte Bianco ha dato il nome di bi-logica: ciò è particolar­ mente evidente se l’orizzonte del discorso letterario viene definito, ancora secondo la più illustre delle poetiche, come l’insieme delle azioni umane.

«Chi imita - dice Aristotele - imita persone in azione»8. A me non pare che sia mai stato meglio definita la relazione che la lette­ ratura intrattiene con il mondo; né a parer mio il suo antropomorfismo ha bisogno di essere altrimenti corretto che comprendendo tra le possibili «per­ sone» anche soggetti portatori di istanze collettive o comunque super­ individuali. È per il fatto di non contemplare questo potenziale allargamento che Aristotele si trova a escludere dalla poetica un Empedocle cantore della vicenda cosmica9. La rappresentazione letteraria delle azioni ammette la stessa griglia inter­ pretativa e gli stessi strumenti ermeneutici della psicanalisi (questa è la for­ mulazione che assume, nel caso particolare, la teoria della poesia come imitazione), in quanto è in grado di respingere risolutamente le obiezioni che la teoria dell’inconscio incontrava a proposito della sua indebita tenden­ za a incarnare e clinicizzare le creature dell’arte. In particolare: non si verifica più l’incrocio tra le opposte finalità del di­ scorso letterario e del sintomo psichico, giacché non v’è dubbio che le azio­ ni degli uomini costituiscano altrettanti messaggi consapevoli e intenzionali - almeno nella tradizione greco-romano-cristiana che ha per cardine la re­ sponsabilità della persona, e da cui il macrotesto letterario dell’Occidente ha tratto la fisionomia cui prima mi è capitato di accennare. Non per questo i personaggi verranno trattati come persone, in quanto si ricorderà che la mancanza di libertà che fa tutt’uno con la loro dipendenza dalla strategia formalizzante era stabilita da Aristotele proprio in rapporto alla sovranità dell’azione: «non si agisce per imitare i caratteri, ma si assu­ mono i caratteri in dipendenza delle azioni». Su questa distinzione, tra l’altro, riposa il peculiare significato attribuito nella Poetica al termine mimesi, che esclude ogni idea di riproduzione pe­ dissequa o fotografica del reale. È addirittura possibile fare un altro passo avanti in corrispondenza del­ l’altra e più famosa frase aristotelica secondo cui «la poesia è più filosofica e più seria della storia»10, traducibile in termini moderni con l’affermazione che sia più facile attingere le verità essenziali della condizione umana attra­ verso l’esperienza della mediazione letteraria che non attraverso la conside­ razione diretta delle vicende empiriche (questo senso stesso ha da parte di Freud riconoscere i grandi poeti come precursori delle sue scoperte). A me sembra infatti che una probabile e feconda solidarietà possa attivarsi tra l’universalità su cui poggia la valutazione aristotelica («la poesia si occupa 8 Ivi, 1448 a l . 9 Ivi, 1447 b 18-20. 10 Ivi, 1451 b 6-7.

piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i particolari»11) e la pro­ cedura di totalizzazione che allarga infinitamente l’orizzonte dell’emotività umana, attraverso un aspetto della quale, e cioè il piacere istituzionale e specifico dell’arte, passa il nostro contatto con l’arte medesima. Chiediamoci infatti qual è la ragione e il senso del nostro identificarci con una grande esperienza letteraria - il problema cui come a tanti altri Shakespeare ha dato una forma drammatica essenziale, quando Amleto commenta il pathos che anima la recita dell’attore professionista da lui stes­ so chiamato alla corte, chiedendosi: «Che cosa è lui per Ecuba o Ecuba per lui?». Non sarà mai soddisfacente supporre che l’identificazione dipenda dalla verificabile e ragionevole presenza di tratti ricorrenti nell’esperienza lettera­ ria e nella nostra, o in altri termini nella possibilità di tipizzazione che il personaggio comporta o sopporta. È al contrario l’umanità globale che rico­ nosciamo in noi stessi dopo averla riconosciuta in Amleto (poniamo), e pro­ prio perché l’esperienza di Amleto non è la nostra, è idiosincratica e irripe­ tibile, e precisamente dalla sua eccentricità apre sull’essere uomo una pro­ spettiva arricchente. Oppure, nei termini di una semplice metafora geometrica, se rappresen­ tiamo l’esperienza del personaggio e quella del lettore/spettatore come due circonferenze secanti, non è sulla loro interferenza che gioca l’empatia, ma sulla completa sovrapponibilità dei due cerchi tra loro che deriva dalla loro sovrapponibilità all’esperienza umana complessiva, generata dalle tecniche di composizione e comunicazione. 11. Rispetto all’opposizione tra conscio e inconscio nella simpatia del fruitore, il Tieste di Seneca si colloca nella stretta fascia delle opere che su­ scitano identificazione inconscia, ed è anzi il testo a mio parere e a mia co­ noscenza più significativo (anche più del Riccardo III di Shakespeare) tra quelli che non sciolgono il loro nodo in valenze comiche. Atreo che contro il fratello, colpevole di avergli insidiato la moglie e il trono, persegue la ri­ cerca della vendetta perfetta, non lascia spazio a nessuno spiraglio di sim­ patia umana, ma realizza nell’equivalenza di male assoluto e assoluto domi­ nio il più inconfessabile e fosco dei sogni umani. Considerato invece come sistema dei comportamenti del protagonista Atreo, il dramma senecano presenta la più stretta e inquietante relazione tra la concezione e strutturazione razionalistica del progetto che forma l’azione drammatica, e una smisurata e insaziata aspirazione all’infinito che si gene­ ra controcorrente dalla stessa esperienza. "Ivi, 1451 b 7-8.

La ricerca della vendetta perfetta si svolge infatti per gradus, aderendo alla griglia del tempo lineare che è condizione e garanzia della logica classi­ ca, delimitando parzialità e opposizioni significative; d’altro canto però proprio la nettezza riconoscibile di questa scala, di cui ogni gradino richiede un successivo, suggerisce un disagio rispetto alla finitezza delle energie umane e del tempo, drammaturgico stavolta, che le inscena. L’iter della progettazione prende inizio da un conflitto interiore colto in medias res: in un tormentato monologo, Atreo, si rimprovera di fiacchezza e inerzia per non avere ancora agito, e si pone l’obiettivo di superare con la vendetta il crimine da vendicare (vv. 176-204). Occupata la totalità dello spazio psichico individuale, il progetto assume una dimensione estroversa nel dialogo intersoggettivo: invano un satelles di Atreo esprime remore legate all’opinione pubblica e ai valori della solida­ rietà familiare (vv. 205-244). Superate queste, la scalarità non investe più la certezza della vendetta quanto il suo statuto qualitativo, che dovrà superare «la misura di un comune rancore» (v. 255): non basta la morte, che deve es­ sere considerata la liberazione dai supplizi piuttosto che essa stessa un sup­ plizio (v. 246); poi vengono respinte come insufficienti le proposte di usare il ferro, il fuoco (v. 257): finalmente ci si assesta sulla scelta di usare come strumento della vendetta «Tieste stesso» (v. 259): il che trasforma la vendet­ ta stessa da relazione di conflittualità in relazione di dominio e di possesso. In quest’ambito Atreo intravvede un gesto «oltre i confini del costume umano» (v. 268), un non so che, ma «qualcosa di grande» (v. 270). La truce leggenda trace del figlio di Tereo dato da mangiare al padre fornisce un modello che ci si propone di superare per dichiararsi finalmente soddisfatti: bene est, abunde est (v. 279) Successivamente, il percorso naturale dalla progettazione alla realizza­ zione imposta una nuova, sgomenta climax nel racconto del messaggero che, dopo avere comunicato un orrore simbolico e riassuntivo (vv. 623638), narra le azioni di Atreo, indugiando minuziosamente sul luogo della strage e sul perverso rito sacrificale. Gli interventi del corifeo scandiscono, insieme alle fasi dell’orrore, le sue inevase possibilità di arrestarsi. Così do­ po avere appreso dell’uccisione dei due figli maggiori di Tieste si può. spe­ rare che il più giovane sia stato risparmiato (vv. 730-731): come nella Me­ dea, Seneca ha utilizzato come stilema espressionistico la ripetizione dell’atto di sangue e la sua distensione nel tempo. Così, avvertito che Atreo non solo ha completato l’opera di morte, ma è andato oltre (iperbolicamen­ te, «se il suo delitto si fermasse a questo punto, sarebbe un uomo pio»; vv. 744-745), fi corifeo riesce a immaginare solo quello che dall’incipit delVIliade è il tradizionale limite dell’empietà contro i defunti: la sottrazione

degli onori funebri e l’abbandono dei cadaveri alle fiere (vv. 747-748). Ma ben peggio della negazione della sepoltura è la sepoltura inventata da Atreo per i suoi nipoti; peggio della dispersione la spaventosa concentrazione che fa della sventurata famiglia un solo viluppo dolorante e sanguinolento. Ma se l’atto supera in violenza il progetto, è superato dal godimento che Atreo ne trae impregnandone un nuovo e mostruoso rapporto con il fratello. Questo godimento che fa di lui un dio: il bene est, abunde est ripetuto non dalla lungimiranza delle speranze, ma della pienezza del compimento segna nell’apoteosi la meta apparentemente ultima: «Incedo alla stessa altezza de­ gli astri e al di sopra di tutti tocco la sommità del cielo con la testa superba. Ora possiedo lo splendore del regno, il trono di mio padre. Licenzio gli dei: ho raggiunto il vertice dei miei desideri» (vv. 885-889). Ma, subito dopo, la soddisfazione si crepa aprendosi a nuove ingordigie: gli dei che col loro «licenziamento» marcano l’instaurazione di una tiranni­ de sovrumana e cosmica, più forte, vasta e spietata la marcano se vengono richiamati nella funzione servile di spettatori e testimoni coatti: «Potessi trattenere gli dei in fuga e trascinarli con la forza a vedere la mensa vendicatrice: ma è sufficiente che la veda il padre» (vv. 893-895). Nella rivelazione a Tieste, infine, il crescendo si arresta dopo avere reso il più spaventoso omaggio al potere del tempo («non voglio vederlo infelice, ma mentre diventa infelice», v. 907). Ma il delitto e il piacere che qui risie­ dono, più grandi di quelli già vissuti, non sono tuttavia i più grandi che si possano immaginare: dopo essere tornato ad assaporare la preparazione delle orribili vivande, Atreo piega di colpo il discorso a un’imprevista e iperbolica delusione: «il mio rancore è caduto nel vuoto: sì, ha sbranato con l’empia bocca i suoi figli, ma non lo sapeva lui e non lo sapevano loro» (sed nesciens, sed nescientes - vv. 1066-1068). Se quest’ultima limitazione forza la violenza espressionistica nella dire­ zione illimitata del selvaggio, regredendo oltre la frontiera culturale tra cru­ do e cotto e oltre la perversione stessa cui è stata qui sottoposta, la prima designa le contraddizioni e dunque le frustrazioni del possesso che l’uomo è in grado di avere dell’uomo. La bocca empia e la coscienza di Tieste mutuamente si escludono, giac­ ché non è pensabile che sciens Tieste divori i suoi figli: lo sapeva bene l’Atreo fabbricatore del pur inaudito progetto, che comunque riposava sulla disponibilità della vittima a lasciarsi ingannare, sulla credulità considerata corollario certo della sua presunta smania di potere (v. 295). Ma compatibili sono come funzioni libidiche, nel sogno della totalità che è appunto coincidentia oppositorum.

4. Bi-logica e filosofia: un’affinità elettiva di Margarete Durst

appunto il prodotto più consistente: la bi-logica, teoria tanto vitale da riusci­ re a evolvere e trasformarsi, implementando il processo creativo avviato dalla fruttifera contaminazione con la filosofia2.

1. La filosofìa quale desiderio e rischio di uno sguardo diverso

La pura luce e la pura oscurità son due vuoti, che son lo stesso. Solo nella luce determinata, e la luce è determinata dall*oscurità -, quindi solo nella luce intorbidita, si può distinguere qualcosa. Parimenti qualcosa si distingue solo nell’oscurità determinata e l ’oscurità è determinata dalla luce quindi solo nell’oscurità, rischiarata. Ciò avviene perché non v ’ha che la luce intorbidata e l ’oscurità rischiarata. (G. W. F. Hegel, Scienza della logica, tr. it. di A. Moni, riv. da C. Cesa, Laterza, Roma-Bari, 1984, p. 83).

In una famosa pagina delle Affinità elettive Goethe fa ruotare il dialogo, anticipatore dell’intera problematica che porterà i protagonisti a trasformare radicalmente il loro reciproco legame, sul tema prettamente scientifico delle reazioni chimiche tra elementi diversi. La chimica - arte della distinzione e della combinazione - può dunque costituire la trama di una tessitura amoro­ sa, cioè di un processo essenzialmente emotivo e sentimentale che appare tra i più refrattari all’analisi scientifica. Senza entrare in merito al signifi­ cato di chimica nel contesto linguistico/conoscitivo sotteso al testo goethiano, ho richiamato questo caso perché, a mio avviso, il pensiero di Matte Bianco, avviatosi sul filone medico psichiatrico e costantemente attento alla formulazione logica e alla quantificazione, è coinvolto in un legame di attractio electiva con la filosofia, cioè in un rapporto analogo a quello che si crea tra elementi diversi che «si cercano e si stringono con la massima deci­ sione, si modificano e formano un corpo nuovo»1. Come sempre è il frutto che rivela la vitalità dell’unione, e il connubio tra Matte Bianco e la filoso­ fia mostra di essere tutt’altro che contingente o parziale, né tanto meno for­ zato e quindi «facile a decomporsi», attraverso quello che ne rappresenta 1 Ho trattato questo tema in uno dei primi lavori in cui ho utilizzato la bi-logica; cfr. M. Durst, «Arte dialettica ed arte chimica: percorso di ricerca sul concetto di diavolo nell’opera hegeliana», in II Veltro, XXXIII, 3-4, 1989, pp. 319-324.

«Guardata alla luce della filosofia la psicoanalisi potrebbe rivelare, for­ se non in tutti i suoi aspetti propriamente psicoanalitici ma sicuramente in alcuni di essi, nuovi punti di vista, suscettibili di arricchirla e aprirla a nuove forme di comprensione, teoretiche e pratiche, con l'effetto, per esem­ pio, di rendere più efficace la terapia. Ciò vale anche per la filosofia vista alla luce della psicoanalisi»3. Questa risposta di Matte Bianco alla domanda sul possibile rapporto tra filosofia e psicoanalisi risale al 1990, ad un perio­ do quindi in cui si è ormai consolidato, traducendosi in forme di sistematico approfondimento delle potenzialità filosofiche della bi-logica, quel contatto tra lo psicoanalista e alcuni filosofi italiani4 che si era precedentemente av­ viato sulla base di incontri incisivi ma ancora occasionali. Contrario come era ad ogni «visione rigida e sterile sia del concetto di scienza che di filoso2 Per quanto mi riguarda, la bi-logica mi ha stimolato a riprendere l’itinerario filosofico che a livello di ricerca teorica avevo interrotto. 3 «Tra psicoanalisi e filosofia. Intervista con Ignacio Matte Bianco», a cura di M. Durst, in MondOperaio, 43 (4) aprile 1990, pp. 129-130. 4 Nel 1985 Antimo Negri, professore di storia della filosofia alla II Università di Roma, nel sostenere quale mia tesi di dottorato l’approfondimento del rapporto tra filosofia e bi-logica mi invitò a tentare il collegamento con la dialettica filosofica di matrice hegeliana; cfr., M. Durst, Dialettica e bi-logica. L'epistemologia di Ignacio Matte Bianco, Marzorati, Milano 1988, con Prefazione di I. Matte Bianco. Un accostamento tra il pensiero di Hegel e la bi-logica era stato proposto da Vincenzo Vitiello nel convegno «Ignacio Matte Bianco. Logica dell’inconscio e scienze dell’uomo» (1984, Università di Salerno). Degli interventi filosofici, più o meno circostanziati, in merito alla bi-logica si ricordano quelli di P. Filiasi Carcano, A. G. Gargani, C. Mangione, E. Severino, R. Bodei; come si nota già solo con questi nomi si copre una parte si­ gnificativa della mappa delle università italiane. Per quanto mi riguarda non ho ancora smesso di utilizzare la bi-logica; cfr. : M. Durst, «Proposta per un’ermeneutica bi-logica del Canto del nottambulo di Nietzsche», in Hermenéutica 7. Forme dell’Etica, vol. I, 1988, pp. 355-373; Id., «L’approccio epistemologico in Simone Weil», in Aa. Vv., Le rivoluzioni di Simone Weil, a cura di G. Invitto, Capone, Lecce 1990, pp. 221-241; Id., «Anticipazioni del perturbante freu­ diano in alcuni scritti di Schelling e Hegel», in / problemi della pedagogia, . XXXVII, n. 1, 1991, pp. 67-87; Id., «Le strane simmetrie dell’inconscio», in MondOperaio, 43 (4) aprile 1990, pp. 124-128; Id., «Ignacio Matte Bianco: uno psicoanalista proiettato verso la filosofia «, in Archivio di Psicologia, neurologia e psichiatria, 5-6, LVII, 1996, pp. 605-15; Id. «Una teo­ ria fenomenologica dell’emozione», relazione al I Congresso Intemazionale di Fenomenologia e Scienze della Vita, Dipartimento di Filosofia, Università di Macerata, 1996 (ora negli Atti come «A Phenomenological Psychology of Emotion», in Life The Outburst of Life in the Hu­ man Sphere, ed. by A. T. Tymienieska, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, in corso di stampa).

fía», Matte Blanco riteneva che dal mutuo rapporto tra discipline, «se ben impostato e ben impiegato», potesse scaturire l’arricchimento reciproco e «un contatto più intimo con tante sfaccettature dell’essere»5, perché, a suo avviso, l’interesse interdisciplinare, quando scaturisce da un autentico biso­ gno di approfondire la nostra visione di un aspetto del mondo, nell’ampliare lo schema di rapporti tra quell’aspetto ed altri, rende anche più piena la no­ stra esperienza della realtà. In questa prospettiva la psicoanalisi, come disciplina di settore, sembra condurre verso la filosofia, quale sapere del “tutto”; eppure la filosofia già agisce in quel bisogno di approfondimento e, quasi musa ispiratrice, aiuta la psicoanalisi a non chiudersi nello specialismo. «Oltre la matematica, la lo­ gica, e la psicoanalisi, verso la filosofia», con queste parole, Matte Bianco apre la sua relazione Le crepe e i vulcani dell’essere: preludi per una nuova epistemologia alla facoltà di Filosofia della II Università di Roma6, a ripro­ va di quanto fosse convinto che la sua riflessione riguardava la filosofia. Tale convinzione si rafforzò nel corso della sua indagine sullo psichico pro­ fondo inducendolo a sviluppare la sua teoria interpretativa del mondo inter­ no, e della realtà emozionale nel suo complesso, nella forma di un’episte­ mologia fenomenica di grande impatto ermeneutico. Nel configurarsi come un’epistemologia fenomenica la bi-logica giunge ad interpretare il materiale che trae dal terreno clinico, da cui appunto essa prende avvio ed attinge costantemente, sulla base di criteri esplicativi elabo­ rati non solo su quel terreno ma assunti da altri campi (prioritariamente da quello logico e matematico), ed in tal modo estende la sua interpretazione all’intero mondo psichico, quindi alle fondamentali strutture emotive, co­ gnitive ed esistenziali dell’uomo e del suo mondo, fino a proiettarsi (come scrive il suo ideatore) «verso la metafisica e la teologia». Una simile dilata­ zione del proprio raggio d’incidenza è già indice della valenza filosofica di una teoria, valenza che nel caso della bi-logica si concretizza in uno specifi­ co nucleo tematico, centrato sull’emergenza ricorsiva dell’antinomia e della contraddizione e sulla conseguente focalizzazione del rapporto uno/molte­ plice, dal cui approfondimento, capillare e sistematico, la stessa teoria trae quella vis evolutiva che la porterà a svilupparsi in forma di concezione complessiva della realtà o mondo. La duplice modalità con cui la filosofia esercita la sua influenza sulla bi­ logica è quanto cercherò qui di esplicitare, iniziando dalla prima che vede la

filosofia all’origine del processo espansivo della bi-logica. Si è già accen­ nato all’ampio arco di ripercussione della concezione di Matte Bianco, stu­ dioso così attratto dal confronto con più settori di ricerca da dar prova di un interesse conoscitivo non meramente tecnico, bensì di autentico amante del sapere; e che tale dilatazione della ricerca non fosse effimera o velleitaria lo prova l’eco che di tale confronto giunge dalle aree disciplinari toccate, e che risuona dagli studi di quanti, non psicoanalisti, si sono sentiti a loro volta attratti dalla bi-logica. «Se si traducono le intuizioni freudiane sull’inconscio in un linguaggio più generale, logico e filosofico, come io ho cercato di fare, si diventa co­ scienti che tali intuizioni sono solo una espressione di un fondamentale pro­ blema epistemologico che è rinvenibile anche in altri campi, quali quelli della matematica, della filosofia e probabilmente della fisica»7. Così Matte Bianco presenta, nell’ordine in cui si sono immesse nell’orizzonte della sua riflessione, le discipline che hanno alimentato la sua ricerca, nata in ambito psicoanalitico e ben presto indirizzatasi verso un ordine problematico più ampio (in senso non solo metateorico). In effetti, delle tre, è la matematica ad avere inciso in maniera prioritaria sull’elaborazione del primo nucleo teorico della bi-logica, rimasto sempre saldamente ancorato alla concezione freudiana dell’inconscio e alla pratica terapeutica; a meglio considerare pe­ rò, la filosofia non ricopre solo la posizione mediana che le è assegnata formalmente, situata come è tra i due diversi ordini di interessi, di natura nettamente scientifica, che la precedono e seguono: quello per la logica e la matematica da un lato e per la fisica dall’altro, interessi che sèmbrano legar­ si rispettivamente al passato e al futuro della riflessione di Matte Bianco, essendo giunto solo il primo a concretizzarsi in approfondimento sistemati­ co. Infatti la filosofia, disciplina di non facile e comunque non univoca de­ finizione, oltre a fungere da ponte tra quelle due aree del comune territorio scientifico (peraltro prevalentemente considerate sotto il profilo filosofico), ne determina ed orienta l’orizzonte di ricerca rappresentandone il movente originario e lo sfondo di riferimento. Evocata in tutti gli scritti di Matte Bianco, soprattutto in quelli di grande respiro, la filosofia opera nel contesto della bi-logica come un orizzonte di senso da cui le varie scienze, innanzitutto psichiatria, psicologia e psicoana­ lisi, attingono l’impulso ad avanzare nella propria ricerca, e, quindi, a non arretrare di fronte ai punti di rottura che, prima o poi, si affacciano in ogni progetto teorico di vasta portata. Già questo desiderio di superare Vimpasse

5 «Tra psicoanalisi e filosofia», cit. fu tenuta nel 1985 nel contesto dei seminari di Filosofia della scienza orga­ nizzati dal prof. A. Carsetti; si riprendeva una frase di «Scoperte freudiane: limiti e sviluppi della formalizzazione» (in AA. W ., Delle psicoanalisi possibili: Bion, Lacan, Matte Bianco, a cura di M. Pissacroia, Boria, Roma, 1985, pp. 42-99, p. 77).

7 I. Matte Bianco (1988), Thinking, Feeling, and Being. Clinical reflections on the funda­ mental antinomy o f human beings and world, Tavistock, Routledge, London, New York, tr. it. (di P. Bria), Einaudi, Torino, 1995, pp. 43-44.

6La relazione

accettando di cimentarvisi, anche quando ciò comporta la messa in discus­ sione di metodi e paradigmi interpretativi consolidati, rivela la forte tensio­ ne emotiva del pensiero di Matte Bianco, che lungi dal sottrarsi all’investimento dell’affetto vi attinge per avanzare nella sua esplorazione conosci­ tiva. Una tale assimilazione tra cognizione e istanze psichiche profonde pa­ lesa un approccio di natura filosofica, determinato cioè dalla «brama di sa­ pere», come traspare anche dagli specifici rimandi ad autori e testi, ad esempio al Pascal del famoso: «le coeur a ses raisons que la raison ne con­ naît point». Citando, come spesso fa, soprattutto nel suo ultimo libro, questo pensiero, Matte Bianco, non sottolinea tanto l’inadeguatezza tra ragione e sentimento quanto la profondità del loro nesso, come risalta dal fatto che Pascal «uses “raisons” to refer to “coeur”», quasi a suggerire l’idea di una logica diversa da quella della ragione cosciente, tanto da far avanzare l’ipotesi che: «he also was, unawares, referring to the fundamental antinomy of human beings and world!»8.

2. «Tutte le cose sono incatenate, intrecciate, innamorate»9 Antinomia: parola chiave del lessico bi-logico, da annoverare tra quelle che nella nietzschiana Tiefe Mitternach scandiscono il canto di Zarathustra, facendogli dire, quasi «lira impazzita»: «proprio ora il mondo divenne per­ fetto, mezzanotte è anche mezzogiorno, - Dolore è anche un piacere, male­ dizione è anche una benedizione, notte è anche un sole, - andate via o vi toccherà imparare che un saggio è anche un folle»10. Forse uno dei più evi­ denti segni della presenza nella riflessione di Matte Bianco della filosofia è dato dall’atteggiamento di assoluta disponibilità con cui questo studioso af­ fronta la difficoltà espressa in forma radicale di contraddizione, antinomia e paradosso, non arrestandosi di fronte all’impossibilità di trovarvi soluzione: segno appunto di un’apertura e un interesse particolari, tali da richiamare l’amore che accende la filosofia, spingendola a guardare al lato più contro­ verso dei problemi, là dove essi appaiono irrisolubili. Il fatto che l’irri­ ducibilità del dato accresca il desiderio di comprensione, quasi a rendendolo altrettanto irriducibile, nel richiamare lo Zarathustra nietzschiano evoca 8 1. Matte Bianco, Pensare, sentire, essere, cit., pp. 17, 63, 76. 9 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Il canto del nottambulo, in Opere, ed, it. a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1968, v. VI, tomo I, pp. 385-393, p. 392. Cfr„ M. Durst, «Proposta per un’ermeneutica bi-logica del Canto del nottambulo di Nietzsche», cit., p. 361, n. 24. 10 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 392. Cfr„ M. Durst, «Proposta per un’ermeneutica bi-logica del Canto del nottambulo-di Nietzsche», cit., p. 361 e sg.

l’eracliteo «divino fanciullo», che guarda al mondo come ad un gioco infi­ nito di contrarietà conciliate. Per quanto fortemente carico di valenza emo­ zionale il pensiero di Matte Bianco non è però altrettanto pervaso di ebbrez­ za, e il divino fanciullo assume più l’aspetto dell’Eros platonico, nato dal connubio di povertà (Penia) ed espediente (Poros)11, dell’Eros dunque che, secondo Platone, anima l’itinerario della ricerca mirata al vero ed al bene. Frutto della forte congiunzione che lega gli opposti, Eros ben simboleggia la sproporzione della situazione cognitiva sperimentata da Matte Bianco e l’energia che essa introduce nella sua indagine, spingendolo a sperimentare nuove vie d’approccio e, innanzitutto, inducendolo ad assumere la contrad­ dizione come spia di una diversa chiave di lettura delle cose. Lo psicoanalista si scopre così filosofo e mobilita la sua creatività, sia avventurandosi in terreni insoliti, sia guardandovi con occhi diversi; la ca­ pacità di bilanciarsi tra l’esposizione anche spregiudicata al nuovo e la pon­ derazione con cui persegue l’avventura dei connubi interdisciplinari allinea Matte Bianco ai grandi teorizzatori scientifici, soprattutto a quelli di loro che riescono a coniugare arte a scienza. Anche per il fatto di svilupparsi in un contesto scientifico - psichiatrico e psicoanalitico, quindi logico e ma­ tematico - la disponibilità a correre delle avventure (sì del pensiero ma non per questo indolori visto che ci si muove sul terreno della patologia psichi­ ca) è comunque sempre supportata dal rigore metodologico. Ancora richia­ mando Platone attraverso l’immagine del processo conoscitivo verso la ve­ rità quale ascesa alla sommità di una montagna, dalla cui cima lo sguardo, spaziando a trecentosessanta gradi, vede le cose nei loro tratti essenziali, si può dire che il cammino verso la visione più ampia e chiara intrapreso da Matte Bianco è mosso sì da passione, ma è nel contempo vincolato passo per passo ad un’attenzione vigile e all’uso accorto di strumenti adeguati. La visione più in grande delle cose è proprio quella cui aspira Matte Bianco, e rispetto a tale meta, che affiora da un’idea di verità di tipo quasi metafisico, la stessa bi-logica, sia come teoria interpretativa dello psichico profondo o inconscio che come concezione complessiva del «mondo inter­ no», rappresenta solo uno strumento. Nel dire questo si riconosce appieno il valore degli strumenti, come pure lo scarto che intercorre tra qualunque pur valido strumento e il fine che si persegue, fine che nel caso di Matte Bianco non è mai solo tecnico o parziale. Per questo la consapevolezza del valore strumentale che hanno i mezzi costruiti dall’uomo per capire il mondo, se 11 Platone, Simposio, tr. it. di P. Pucci, in Opere, 2 voli., Laterza, Bari 1966, vol. I, pp. 6989. Eros, secondo il racconto di Diotima espresso nel simposio da Socrate, fu concepito in occa­ sione della nascita di Afrodite da Poros e da Penia: la Povertà (o Mancanza) approfittò del son­ no ebbro di Espediente (o Astuzia) per congiungersi con lui.

stesso e i suoi simili, procede all’unisono con quella della continua alterità della meta: Inútil la fiebre que aviva tu paso / No hay nada que puede sa­ ciar tu ansiedad12. Questi versi dell’amato poeta Amado Nervo, danno bene l’idea di come ogni avanzamento compiuto non realizzi quel fine e di come tale incommensurabilità stimoli, invece di scoraggiare, a continuare la ricer­ ca. Matte Bianco si ritiene quindi compagno di viaggio di tanti altri pensa­ tori, confluiti da percorsi diversi nel cammino verso l’inafferabile «assolu­ to», cammino il cui itinerario si delinea solo percorrendolo. Un simile senso di affratellamento, determinato dalla condivisione di un interesse conosciti­ vo tanto profondo, gli permette di attingere liberamente al pensiero altrui e di intessere la sua tela con fili disparati, ma tutti in grado di concorrere ad un disegno unitario13. Il fatto che negli scritti di Matte Bianco le citazioni ri­ sultino rapsodiche ed insieme consequenziali (mai dei meri puntelli argo­ mentativi) si spiega alla luce di quest’idea della verità in forma di progetto formato dal concorso, a volte invisibile, di tutte le persone autenticamente interessate al sapere e che intendano il sapere come fonte di vita. Infatti la parola, o segno, gettata da un altro va raccolta per poter essere rilanciata e resa nostra14; ciò non significa solo che si è se stessi con gli altri, ma che a certi livelli si è se stessi e gli altri. Appunto per far luce su questi livelli è nata la bi-logica e si è quindi più strettamente legata con la filosofia. Si potrebbe osservare che, alla luce dell’accezione di filosofia qui avan­ zata, qualsiasi scienziato intensamente coinvolto nella sua ricerca di settore sarebbe un filosofo. A parte il fatto che la filosofia è legata all’indagine scientifica fin dalle sue più remote origini, non è solo per questo aspetto che essa influenza la riflessione di Matte Bianco, bensì ne determina a fondo il modo di guardare, investendolo di quella tensione teoretica che punta all’essenza delle cose. Ed è proprio nell’assunzione dello sguardo filosofico che va individuata la specificità dell’incontro di Matte Bianco con la filoso­ fia, incontro che favorisce l’ampliamento dell’orizzonte di ricerca dello psi­ coanalista, rendendone più flessibili le cornici di riferimento e disponendolo all’innovazione. L’atteggiamento critico dello studioso, man mano che egli 12 Cit. in I. Matte Bianco (1975), The Unconscious as Infinite Sets. An Essay in Bi-logic, tr. it. (di P. Bria), L'inconscio come insiemi infiniti. Saggio sulla bi-logica, Einaudi, Torino 1981, p. 320. 13 Studiosi di logica, di matematica, di filosofia, poeti, pittori, si succedono nei testi di Matte Bianco senza una contestualizzazione storiografica. I loro nomi si aggregano intorno al nucleo tematico della bi-logica (si citano tra i più ricorrenti: Bergson, Cantor, Frege, Galilei, Hegel, Hilbert, Kant, Lotze, Magritte, Neruda, Ortega Y Gasset, Pascal, Parmenide, Peano, Russell, Unâmuno, Valery, Whithead, Wittgenstein, Zenone). 14 Si cita dal commento che Matte Bianco appose a mano alla bozza del mio tesi di dotto­ rato; la frase termina in questo modo: «per dirla con Amado Nervo, io “lancio senza pensare la sua (mia) frase di cristallo”».

prende coscienza del suo interesse filosofico, assume il tratto dell’interro­ gazione radicale che distingue appunto la ricerca proiettata al di là della prospettiva meramente analitica. La bi-logica trova dunque un suo movente primario nella spinta all’universalità e all’essenzialità da cui trae l’energia capace di trasformarla in una concezione complessiva del mondo psichico. Confrontato con quello di Money-Kyrie, lo psicoanalista che ha forse più valorizzato il rapporto tra psicoanalisi e filosofìa, l’atteggiamento assunto da Matte Bianco verso questa «sorta di stolta avanzata della scienza»15 è più partecipe e carico di una valenza ontologica che lo induce a cercare un più ampio orizzonte di senso per i dati dell’osservazione. La filosofia, oltre a far lievitare l’impegno «nella costruzione, nella critica e nella chiarificazione delle nostre immagini o modelli del mondo»16, riaccende infatti nell’idea­ tore della bi-logica «l’esigenza metafisica», quale spinta verso «l’interezza e la cosmicità del sapere»17, e, nell’escludere ogni ripiegamento nello specialismo, gli prospetta l’idea di «un Eden dell’intelletto e dell’essere»18 che lo orienta sempre più verso l’ontologia. Una volta accettato, «come una sfida che impegna interamente la sua persona, il rischio di pensare l’essere»19, Matte Bianco allarga la sua riflessione, sorta come rielaborazione della con­ cezione freudiana dell’inconscio, al mondo umano nel suo complesso; la­ sciando quindi emergere l’enigmaticità degli assunti ontologici ne favorisce la funzione produttiva, sul modello di quanto accade in altri ambiti scientifi­ ci (ad esempio nella matematica infinitaria). Lo scarto, cui si è accennato a proposito del rapporto tra mezzi e fini, agisce dunque dinamicamente anche nei confronti di qualsivoglia ordine, schema, o rete, di significati, che appunto perché parziale rappresenta, nel suo collegamento con tutti gli altri possibili ordini, schemi, o reti, solo un «pezzo» dell’ordine complessivo, in sé inafferrabile, in cui è inscritto.

3. Una sete senza oggetto? Por mucho que bebas: el alma es un vaso / Que solo se llena con eterni­ dad: ancora si ricorre ai versi di Amado Nervo20 per far capire quanto sia 15 R. Money- Kyrie, «Psicoanalisi e filosofia», in Aa. Vv. Psicoanalisi e pensiero contem­ poraneo, ed. by., J. D. Sutherland, tr. it., Armando, Roma, 1971, pp. 113-139, p. 115. 16 Ivi. 17 A. Negri, «L’unificazione del sapere», in Atti del XX Congresso nazionale di Filosofìa, Sansoni, Firenze, 1967, pp. 357-65, p. 360, p. 364. 18I. Matte Bianco, Scoperte freudiane: limiti e sviluppi della formalizzazione, cit., p. 88. 19 M. Durst, Dialettica e bi-logica, cit., pp. 64-5. Cfr. ivi tutta la problematica relativa al di­ battito sullo statuto scientifico della psicoanalisi. 20 Cit. in I. Matte Bianco, L'inconscio come insiemi infiniti, cit., p. 320.

forte nell’essere umano il desiderio dell’infinito. Queirinfinito che perfino come concetto logico/matematico appare «crivellato» di contraddizioni e paradossi, ma che continua ad attrarre la mente umana ponendola di fronte alla propria inadeguatezza. Si richiama di nuovo Nietzsche per l’espressione «sete di mondo» usata da Zarathustra per descrivere lo slancio verso la pie­ nezza dell’essere e il desiderio di eternità che lo animano 21. Tutta una serie di assonanze linguistiche e concettuali riecheggia comunque negli scritti di quanti cercano con tanta passione la verità; ripetuto non è solo il richiamo alla sete del vero: il bisogno di verità si esprime anche come fame, come ri­ cerca, dunque, di qualcosa che possa nutrire. La bellezza, nel suo misterioso intreccio con il giusto e il vero, è qualcosa che si mangia, scrive Simone Weil, parlando di quell’amore del sapere che come un «lungo e perseve­ rante desiderio impiega il pensiero»22. Tra la riflessione della giovane filo­ sofa - autrice, tra gli altri, di un testo come L ’enracinement, la cui prima parte è intitolata Le esigenze dell’anima - e quella di Matte Bianco intercor­ rono delle somiglianze molto specifiche, innestate soprattutto sul tema della contraddizione che per la Weil, «lungi dall’essere un’imperfezione del pen­ siero filosofico, ne è un carattere essenziale senza il quel non si ha che una falsa apparenza di filosofia»23. E un giudizio che potrebbe essere piena­ mente assunto in quello più comprensivo espresso da Matte Bianco sul rap­ porto tra contraddizione e pensiero, e l’affinità trova conferma nel fatto che la Weil, occupandosi del rapporto tra scienza e filosofia, concentra la sua attenzione sulla questione dell’infinito, ed in maniera specifica sulla cantoriana teoria degli insiemi. In particolare sulla questione del continuo colpisce la convergenza tra la riflessione della Weil e quella di Matte Bianco: «per entrambi dalla consta­ tazione che la mente umana non può attenersi né al numero né al continuo scaturisce la conseguenza che non ci sia nella natura qualcosa che risponda all’una e all’altro ..., fenomenologicamente si evidenzia quella che Matte Bianco chiama «costituiva antinomicità dell’essere dell’uomo e del mon­ do»24. Su un altro della giovane filosofa che risulta insospettatamente affine al pensiero dello psicoanalista riguarda la trasformazione che può subire la contraddizione una volta posta ad un livello «più esteso», cioè su un piano conforme ad uno spazio multidimensionale. Scrive la Weil, a proposito ap­ punto della contraddizione, «cercare l’equilibrio su un altro piano, o (e) in 21 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 392. 22 S. Weil, Oppressione e libertà, tr. it. a cura di C. Falconi, Comunità, Milano, 1956, p. 238; cfr. M. Durst, «L’approccio epistemologico in Simone Weil», cit., p. 239, n. 31. 23 S. Weil, Quaderni, tr. it. (di G. Gaeta), Adelphi, Milano, 1982, vol. I, p. 33, n. 1. 24 M. Durst, «L’approccio epistemologico in Simone Weil», cit., p. 240, n. 51.

una maggiore estensione»25, e collega questo spostamento di prospettiva alla possibilità di configurare in una nuova maniera il paradosso della Trinità, lo stesso paradosso che prende in esame Matte Bianco, sempre in relazione ad un maniera opportuna di trattare la contraddizione26. Seguendo percorsi di­ versi i due autori giungono ad una medesima idea circa il ruolo vitale che può svolgere la contraddizione in filosofia come in religione: affrontarla può condurre a guardare verso il punto limite dell’unità indivisa, dove per­ fetta giustizia, perfetta bellezza e perfetta verità sono misteriosamente uni­ te27. La messa a fuoco sia in un caso che nell’altro è la stessa: l’infinito. La prospettiva fin qui delineata lascia facilmente trasparire il concetto d’infinito quale tema aggregante della riflessione di Matte Bianco, e con al­ trettanta evidenza richiama il problema filosofico del rapporto uno­ molteplice sotto il duplice profilo della pluralità e differenza e dell’unità e indistinzione. Se tale problematica, invece di risolversi nella mera constata­ zione dell’emergenza, sempre rinnovata ed ineludibile, dell’alterità, si è in­ canalata nell’approfondimento circostanziato del concetto di infinito attuale, rendendo possibile la teorizzazione della bi-logica, si deve anche all’attractio electiva scattata tra Matte Bianco e la filosofia. Questo legame ha in­ fatti intensificato l’esigenza unitaria e assolutizzante già presente nella bi­ logica ed ha accentuato la focalizzazione sul nesso uno-molteplice (o iden­ tità-distinzione) emerso dall’analisi delle patologie psichiche, contribuendo ad allargare ed approfondire il gioco di associazioni e confronti tra gli aspetti paradossali di ambiti disciplinari diversi. Trattati alla stregua di trac­ ce di una presenza in sé «ignota» i dati disturbanti hanno costituito per Matte Bianco un oggetto privilegiato di ricerca e la contraddizione, soprat­ tutto considerata nella forma di antitesi radicale, è stata assunta come preci­ pua chiave di lettura per una serie disparata di fenomeni, spazianti dalle simbologie matematiche alle espressioni patologiche, artistiche e della vita quotidiana. L ’inclinazione a concentrare l’attenzione su aspetti della realtà che si mostrano assurdi (inclinazione che da un punto di vista epistemico è indice di creatività) caratterizza tutta la ricerca di Matte Bianco ed anche la con­ nessione da lui rinvenuta tra psicoanalisi, matematica, filosofia e fisica sca­ turisce dal rilievo che in tutte quattro questi campi ha la contraddizione28; 25 S. Weil, Quaderni, vol. I, cit., p. 385. 261. Matte Bianco, L ’inconscio come insiemi infiniti, cit., p. 363. 27 S. Weil, Sulla scienza, tr. it. in Opere di S. Weil, Boria, Roma, 1971, p. 103. 28 I. Matte Bianco, Pensare, sentire, essere, cit., pp. 43-44 (matematica, filosofia e fisica «incorrono, almeno in qualche loro aspetto, nella medesima mancanza di rispetto delle regole della logica scoperta da Freud nell’inconscio (per come la logica finora è concepita e usata)». Rispetto a Freud Matte Bianco considera però la contraddizione in ufi ambito disciplinare più

sempre dal modo in cui affronta e tratta la contraddizione risalta inoltre l’impronta non semplicemente tecnica e procedurale dei suoi interessi co­ gnitivi. Infatti, nel suo caso, l’impulso alla teorizzazione è orientato in senso prevalentemente innovativo proprio perché i dati contraddittori sono assunti come spie di un diverso sistema di significazione; l’istanza critica e l’esi­ genza di universalità e di senso espresse dalla bi-logica non possono quindi essere ricondotte a delle visioni di settore e manifestano un esplicito intento emancipativo, oltre che nei confronti delle impostazioni metodologiche ri­ gide, dettate da vari tipo di scientismo di stampo riduzionista (per cui, come dice Matte Bianco attingendo a Unamuno, la stessa logica può rivelarsi «meschina»), sul piano morale e pratico, non permettendo che le distinzioni di ambito finiscano con l’estromettere i dati disturbanti. Quest’accezione di interesse emancipativo, di cui si è debitori ad Habermas29, è carica di una modalità interrogativa chiaramente filosofica, cioè dalla messa in discus­ sione di ogni sapere che, appunto in quanto tecnico, si proponga compiuto. Lo stesso Matte Bianco investe la filosofia di un simile ruolo quando ne richiama il significato originario di «amore di sapere» e dichiara inestingui­ bile la propria sete conoscitiva, che avverte rivolta a fonti non solo parziali e localizzate; tant’è che nell’attingere, come è necessario alla tecnica, egli è consapevole di non potersi lì soddisfare. In quest’ottica la filosofia, vista appunto, al pari dell’arte e della poesia, quale forma di sapere profondo ed essenziale, può riuscire ad esprimere, in modo più diretto e sintetico di quanto non facciano le scienze, alcune verità o aspetti significativi del mon­ do, come succede nel caso della «strana» commistione di identità e distin­ zione che si produce a certi livelli del pensare e del sentire. Se fin qui il le­ game tra bi-logica e filosofia ha riguardato lo sfondo di riferimento e l’orizzonte di senso della teoria psicoanalitica, con l’immissione nel pro­ blema del rapporto uno/molteplice si è giunti a toccare il punto nodale di quel legame, che nel garantirne l’irreversibilità ne incrementa anche la ca­ pacità trasformativa. Il principio di simmetria, primo frutto di connessioni tanto ardite, è una chiave che introduce Matte Bianco dalla decodifcazione delle espressioni dei malati di schizofrenia al più ampio problema del mondo interno o psi­ chico; da qui, con l’estensione delle corrispondenze tra pratiche e saperi di­ versi, l’interpretazione si volge al mondo umano nel suo complesso. Come si è detto, tale itinerario è tutto inscritto in un orizzonte filosofico, visto che la filosofia già impregna di sé la logica e la matematica con cui lo psicoana­ lista si misura agli inizi della sua ricerca, che è appunto orientata in senso ampio, e si accosta alla filosofìa in maniera più esplicita e diretta. 29 J. Habermas, Knowledge and Human Interests, Heinemann, Londoñ 1972.

fondazionale e utilizza teorie generali ed astratte (quali la teoria degli in­ siemi nella versione proposta dalla matematica infinitaría). Per quanto quest’approccio possa essere ricondotto ad una precisa stagione culturale, tesa a privilegiare i paradigmi scientifici di taglio formale e rigorista, sen­ z’altro originale è l’incursione così capillare di uno psicoànalista nel­ l’ambito di teorie logico/ matematiche e la lettura dei materiali inconsci che ne consegue. Più che l’arditezza di tali accostamenti, certo non unici nella storia della psicoanalisi ma mai prima perseguiti in maniera così continuati­ va e sistematica, sorprende il forte investimento ontologico del pensiero di Matte Bianco, che caratterizza la bi-logica lungo tutto il suo sviluppo. Va osservato, innanzitutto, che l’ontologia cui fa riferimento Matte Bian­ co non è espressione di un pensiero arrogante che presume di afferrare, ri­ ducendolo a sé, l’essere, cioè proprio quanto non è riducibile al pensiero. Allo stesso modo quando si parla di metafisica non è in questione una ra­ gione che, pretendendosi onnicomprensiva, applica i suoi strumenti cono­ scitivi al di là del suo ambito di competenza, creando nel migliore dei casi solo nuovi sogni e illusorie visioni. Quanto si è detto ai fini di mostrare l’intensità del legame tra bi-logica e filosofia - filosofia, intesa sia come ri­ cerca appassionata di una verità non solo di settore, tecnica o parziale che nella sua specifica modalità epistemica, aiuta anche a capire in che modo la metafisica entri nella bi-logica, agendo in essa soprattutto in maniera impli­ cita e dinamica, non quindi come cornice precostituita in cui incasellare i dati dell’osservazione. Questa considerazione trova ulteriore conferma se, focalizzando sempre la problematica che si è individuata come nodale, si rintraccia negli scritti di Matte Bianco il filo dei richiami alla filosofia.

4. «Per simili cose sulla terra non esiste tempo»30. La valenza ermeneu­ tica della bi-logica La prima chiara assonanza che Matte Bianco percepisce tra il suo modo di vedere il mondo e la filosofia riguarda i pensatori eleati, e il riscontro di una simile affinità, nel riempirlo di stupore, rinnova in lui quella sete che lo induce a spingersi più avanti sul fronte della ricerca, quasi trascinandolo (come gli accadde andando con il figlio a visitare le vestigia dall’antica Ve­ lia) a guardare oltre. Va subito detto che l’accostamento alla filosofia elatica non genera alcun travisamento della bi-logica, in quanto lo psicoanalista ri­ tiene di avere offerto solo un contributo «alla rivalutazione delle concezioni 30 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, cit., p. 396; cfr. Aa. Vv., La crucialità del tempo. Saggi sulla concezione nietzschiana del tempo, a cura di M. Cacciali, Liguori, Napoli 1980.

apparentemente fantastiche ed altamente metafisiche di Parmenide e Zeno­ ne»31, e se le somiglianze tra le due concezioni «sono sorprendenti», «è al tempo stesso evidente che le vie seguite sono radicalmente diverse». Ecco di nuovo affiorare Vattractio electiva quale forte legame tra elementi diffe­ renti, infatti, per quanto Parmenide sia partito «da considerazioni puramente logico-metafisiche», e la bi-logica «dalla considerazione della realtà psico­ logica con l’aiuto di strumenti e concezioni psicoanalitiche, riformulate in termini logico-matematici»32, in entrambi i casi si giunge ad una visione del mondo che presenta i fenomeni o «fatti» logicamente inspiegabili «in termi­ ni di due modi di essere coesistenti nel mondo: un modo omogeneo e indivisibile e un modo eterogeneo e dividente». L ’assonanza con i filosofi eleati rafforza dunque lo sviluppo in senso bi­ modale della bi-logica e ne orienta l’interpretazione sul rapporto d’implica­ zione reciproca tra pensiero ed essere. In questo percorso la psicanalisi ha svolto un ruolo di grande rilievo, innanzitutto perché ha riconosciuto la pro­ pria inadeguatezza di fronte a molti aspetti del mondo psichico che pure è stato suo merito mettere in luce; dalla sua postazione di frontiera, in prossi­ mità delle crepe e vulcani da cui emergono i frammenti di un’intera realtà sommersa, raccogliendo tali frammenti come tracce o segni di un modo d’essere in sé inaccessibile, essa ha costruito una serie di «parole vedetta» che hanno reso possibile una più ampia ed approfondita interpretazione. Ciò ha rinsaldato il suo legame con la filosofia, usa a guardare l’essere in forma di «cifra» e di per sé disposta ad accogliere il materiale fenomenico offerto­ gli dalle scienze. Per questa via il Logos parmenideo (che in sede filosofica trova nell’essere la sua prima radice) agisce sulla bi-logica stimolandone lo sviluppo in senso ermeneutico e inducendola a proporsi come chiave inter­ pretativa per l’intera realtà - una, indivisa e in sé aliena alla coscienza - che costituisce il «mondo interno». L’Uno di Parmenide acuisce l’attenzione di Matte Bianco sul «precipitato d’identità» che si produce nello psichico pro­ fondo e che sembra calamitare verso sé tutte le molte «cose» o «fatti» del mondo. Per altro verso, come Matte Bianco ha più volte auspicato, la com­ prensione dell’uomo e del mondo offerta dalla bi-logica (intesa non come semplice teoria ma come concezione complessiva dello psichico profondo) ha affinato lo sguardo filosofico sui processi d’identità-distinzione, ricondu­ cendolo a considerare il rapporto uno/molteplice nel contesto di una pro­ blematica ontologica. L’ontologia, quindi l’essere, è parola che ricorre molto negli scritti di

Matte Bianco ma che la filosofia, così a lungo centrata su questo termine, sembra ormai quasi evitare, paventando la possibile eco di una metafisica intesa in senso forte, cioè nell’accezione più invisa alla cultura filosofica post-moderna, sia che si concretizzi in un quadro di riferimento esaustivo dei fenomeni aleatori, sia che si proponga come discorso risolutivo sulla natura ultima delle cose. L’accrescersi dell’interesse di Matte Bianco al problema dell’essere e il ruolo via via più significativo che egli attribuisce all’interazione tra le oppo­ ste istanze dell’unità e della dualità, nell’accentuare l’affinità tra bi-logica e filosofia, stimola quest’ultima a guardare con occhi nuovi l’antico proble­ ma, considerandolo sotto il duplice profilo dell’unità e della distinzione. Va sottolineato che nel Logos parmenideo si delineano entrambi i due aspetti, visto che, come una specie d’infezione, vi affiora una tendenza alla mute­ volezza che ne incrina la monolitica stabilità. Per quanto sia importante la messa in evidenza di una tale non risolta tensione, è innegabile che Parme­ nide sia mosso soprattutto da un’istanza unitaria; laddove quella tensione spicca particolarmente nel caso della bi-logica: frutto, come il suo stesso nome indica, dell’intreccio di due tipologie logiche inconciliabili. Sarebbe quindi opportuno nel dar rilievo alla componente parmenidea della bi-logica porre l’accento sul concomitante influsso di Eraclito33, cioè del Logos che «vuole e non vuole essere chiamato Zeus», la cui eco infatti si avverte nel «Dio indivisibile, con diversi nomi umani - Bellezza, Bontà, Scienza, So­ cietà politica ideale e Dio - ma, in fondo, Jahweh impensabile, essenzial­ mente inconoscibile, ineffabile», evocato da Matte Bianco34. Giunto di fronte al gioco d’intersezioni che si produce tra ciascuna cosa e le altre, gioco che nell’allargarsi all’infinito si concentra dando luogo a sempre più stringenti forme di identità, Matte Bianco avverte un’eccedenza di significato che fa di tale visione non più che una descrizione parziale di una realtà incommensurabile. Egli è quindi ricondotto alla filosofia quale bisogno di sapere che impegna sul fronte di una rinnovata interpretazione e, soprattutto nell’ultimo periodo della sua attività di studioso, tende, quasi inavvertitamente, ad accentuare la valenza ermeneutica della bi-logica, am­ pliandola ed affinandola, pur continuando ad esplicitarne la portata episte­ mologica. Molto è stato scritto sulla vocazione ermeneutica della psicoanalisi, scienza che fa della comprensione proiettata sul fronte dell’intesa il suo asse portante; questa convergenza tra ermeneutica e psicoanalisi, rafforza, ove ce

311. Matte Bianco, L ’inconscio come insiemi infiniti, Prefazione, cit, p. CXV. 32 Ivi, p. CXIV; si cita in nota E. Hussey, The Presocratics, 1972, tr. it, ¡Presocratici, Mur­ sia, Milano 1977, p. 94), Calogero (1967) e Comford (1939).

33 M. Durst, Dialettica e bi-logica, cit., p. 188. 34 Cit. da P. Bria nella sua Introduzione (dal titolo Pensiero, mondo e problemi di fondazio­ ne) all’edizione italiana da lui stesso curata de\Vinconscio come insiemi infiniti, p. CVII.

ne fosse bisogno, quella più ampia tra psicoanalisi e filosofia, discipline già accomunate dall’orientamento dinamico e volte alla comprensione condotta sul filo dell’accoglienza e dell’ascolto, quindi anche della cura e della solle­ citudine. Nel caso della bi-logica la rilevanza della dimensione ermeneutica si palesa fin dal suo iniziale proporsi come teoria, non solo esplicativa ma anche interpretativa, del mondo psichico, e trova conferma nelle applicazio­ ni fatte, in campi diversi da quello psicoanalitico, sia da Matte Bianco che da altri studiosi. Si potrebbe anzi dire che la bi-logica, intrecciata all’erme­ neutica fin dalla sua genesi e lungo tutto il suo percorso (ancora in atto), sia stata concepita da Hermes: il dio messaggero e mobile da cui la filosofia dell’interpretazione trae nome. È questa divinità dei commerci, degli scam­ bi, dei transiti, posta a proteggere glirincroci di strade, l’Hermes poliforme e ambiguo, adatto a muoversi su terreni incerti, che Matte Bianco sembra evocare, quando, ormai ottantenne, si definisce: «curioso e incerto, molto curioso e molto incerto»35, quasi a testimoniare come la sua vita sia rimasta fino all’ultimo animata dalla sete di sapere e dall’inquietudine della ricerca. L’affinità tra concezione bi-logica e riflessione parmenidea, come si è detto, ha costituito per Matte Bianco una felice sorpresa, egli non si riteneva infatti un filosofo né pretendeva alcun attestato di competenza filosofica. Eppure, se si tiene conto che il brano filosofico più insistentemente richia­ mato dall’ideatore della bi-logica è tratto da un testo di Lotze, quest’as­ sonanza parmenidea non dovrebbe stupire. Questo scritto, che potrebbe es­ sere preso come filo conduttore della intera bi-logica, quasi a rappresentarne sia la fonte ispiratrice che la sintesi ricapitolati va36, ha un’impronta essen­ zialmente ontologica e metafisica, tanto che vi ricorre, a più riprese, un ter­ mine assunto dal lessico hegeliano: Geist, Spirito. È noto alla storiografia filosofica che l’autore del Mikrokosmus si muove nell’orbita del pensiero di 35 Citato da L. Cancrini, nel suo articolo in commemorazione di Matte Bianco, significati­ vamente intitolato «Incertezza da maestro» (in l'Unità, 12 febbraio 1995, p. 5). 36 «La natura (o essere o essenza: das Wesen) delle cose non consiste di idee; e il pensiero (o il pensare: das Denken) non è capace di coglierla. Lo spirito completo (Geist) vive forse in altre forme della sua attività e della sua emotività profonda (Ergriffenseins) il senso essenziale di ogni essere e agire. Il pensiero è quindi utilizzato dallo spirito come strumento per porre quel che è vissuto nella relazione richiesta o domandata dalla sua natura e per vivere più intensa­ mente, nella misura in cui diventa padrone di questa relazione. Errori molto antichi si oppon­ gono a questa intuizione. Invece di riconoscere il ruolo della vera fantasia nel pensiero, è stata per lungo tempo data precedenza alla briglia che assicura permanenza, sicurezza e verità al suo corso. E finché non si riconosce che la briglia non può creare il movimento che regola, un tale errore persisterà. L’ombra dell’Antichità, la sua insoddisfazione (Unheilvolle), ipervalutazione del logos, si stende ancora ampiamente su di noi, e ci impedisce di notare, nel reale e nell’ideale, ciò per cui ambedue sono di più di ogni ragione». H. Lotze, Mikrokosmus, S. Hirzel, Leipzig 1905, V ed., vol. Ill, pp. 243-44; cfr. L ’inconscio come insiemi infiniti, cit., p. 183.

Hegel e che, quindi, inscrive la sua riflessione in una tradizione che consi­ dera Parmenide all’origine di una problematica concettuale che condizione l’intero percorso della filosofia, quella appunto relativa al rapporto tra pen­ siero ed essere, tra unità e molteplicità. Nell’ambito della filosofia della scienza, in particolare della matematica, è stato, ad esempio, più volte sot­ tolineato il ruolo che svolge la contraddizione nella tradizione che, inne­ standosi su Parmenide, sviluppa il tema della conoscenza come processo ascensivo (o discensivo) verso l’unità, ed un caso tra i più considerati ri­ guarda proprio i paradossi di Zenone, in specie a partire dall’interpretazione avanzata da Platone nel Parmenide. Da un punto di vista filosofico può quindi apparire ingenuo l’atteggiamento dello psicoanalista che posto di fronte ai problemi dell’identità/distinzione scopre il collegamento con pen­ satori tanto lontani nel tempo, mostrando di non sapere che si tratta di quei «monumenti» della filosofia su cui la polvere non ha quasi avuto modo di posarsi tanto sono stati rivisitati. Ingenuità che Matte Bianco non nasconde, anzi denuncia. Dalla capacità di «meravigliarsi», che Aristotele pone all’origine della filosofia37, egli attinge l’impulso a espandere la sua teoria, e, proprio perché pervaso da «stupore», è spinto a diramarne i principi in di­ rezioni impreviste, quali l’arte e la poesia, fino ad approfondire in maniera sempre più articolata il raccordo tra i modi antinomici del pensiero e dell’essere. Lo «stupore», non meramente fantasioso ma immaginativo, che costituisce il presupposto dell’ideazione e il sostrato filosofico di ogni ricer­ ca scientifica, opera in Matte Bianco come una sorta di vitale distanzia­ mento dalle cornici concettuali precostituite e lo aiuta a forgiare cornici più ampie e duttili, adeguate a forme di comprensione più estese e profonde. Matte Bianco si esprime spesso, senza saperlo, come Teeteto, il quale, ri­ volgendosi a Socrate, dice: «in verità io sono straordinariamente meravi­ gliato di quel che siano queste “apparenze”; e talora, se mi ci fisso a guar­ darle, realmente, ho le vertigini»38, e la visione da «capogiro» non scoraggia né lo psicanalista né il filosofo, ma li induce a guardare con più attenzione. Di nuovo ci si trova a rilevare la profonda assonanza che intercorre tra gli studiosi, diversi per formazione e competenze, animati da un analogo amore di sapere; ciascuno di loro ritiene che l’esperienza della verità coinvolga, con il pensiero, il sentire - il feeling - e che generi, magari per un attimo, quella «visione» di «splendore» che è fonte di indicibile «gioia». Nel caso di Matte Bianco la valenza mistica di tale esperienza non arresta il bisogno 37 Questa relazione tra filosofia e meraviglia espressa dalla famosa frase aristotelica: «gli uomini furono mossi a filosofare, allora come ora, dalla meraviglia» (Metafìsica, Libro I, 982 b, tr. it. a cura di A. Carlini, Laterza, Bari 1959, p. 10) è già avanzata nel Teeteto platonico (155 d; cfr. nota 19). 38 Platone, Teeteto, tr. it. M. Valgimigli, in Opere, cit., vol. I, p. 284.

di capire e, anzi, ne rinvigorisce l’attenzione. È interessante osservare che Matte Bianco usa l’attenzione, anche nello specifico contesto psicoanalitico, in una maniera che si potrebbe definire hegaliana, visto che, secondo Hegel, l’attenzione è tutt’altro che immediata ed «esige piuttosto uno sforzo. Infatti, l’uomo, quando vuole comprendere un oggetto, deve astrarre da tutte le migliaia di cose che si agitano nella sua mente, dai suoi restanti interessi, ed anche dalla propria persona, per far sì che in lui domini solo la cosa. L’attenzione, dunque, contiene la negazione del far valere se stessi e l’affidarsi solo alla cosa: due momenti necessari al vigore dello spirito»39. Va aggiunto che Hegel si esprime così proprio men­ tre, trattando dello spirito soggettivo, si occupa della psicologia, scienza o arte che, a suo avviso, non dovrebbe considerare l’interiorità umana come «un sacco» da cui trarre le varie facoltà, caratteri e atteggiamenti. In realtà egli delinea le grandi linee del metodo fenomenologico, su cui da tempo si trovano a convergere filosofia e psicanalisi. Nella prospettiva hegeliana esso riguarda la coscienza resasi consapevole di sé nella forma dell’intuizione, cioè ad un livello che pur mantenendo il tratto dell’immediatezza dispone la soggettività ad una considerazione più unitaria e globale delle cose, portan­ dola ad accettare il confronto con le contraddizioni. Seguendo quest’impo­ stazione, Hegel intende dare una fondazione filosofica alla psicologia, così da non ridurla ad un «mucchio» di dati. Ci sembra che anche l’attenzione di Matte Bianco, nel raccordarsi alla filosofia, acquisti un rilievo teoretico che la riscatta dal fenomenismo.

5. Bi-logica e dialettica filosofica Proprio il modo sistematico con cui affronta la realtà psichica, trattando­ la, a livello sia micro che macro, nella sua interezza come un «mondo», o unità globalmente significativa, e l’accento che mette sulla funzione tra­ sformativa degli elementi di contraddizione, avvicinano la bi-logica alla dialettica filosofica, che si articola oggi nelle forme di un pensiero aperto e critico. Per questo suo intrinseca natura dialettica, che non le permette di estromettere dall’orizzonte della ricerca alcun dato, per quanto anomalo e insensato, la bi-logica si espone al rischio di correre delle avventure, non però, come scriveva Adorno40, in riferimento appunto alla dialettica hege­ liana, qualsiasi avventura. Matte Bianco era così convinto dell’alto poten­ 39 G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, tr. it. di B. Croce, ed. a cura di N. Mercker, 2. voli, Laterza, Bari 1967, vol. II, p. 411. 40 T. W. Adorno, Tre studi su Hegel, tr. it., Il Mulino, Bologna 1971.

ziale di energia della sua teoria da richiamare, per il suo uso, alla prudenza, quale virtù non disgiunta dal coraggio. Assunta nella sua accezione dialettica che fa leva su una radicalizzazione dei concetti di identità e di contraddizione, la filosofia si rivela assai più che la musa ispiratrice dello psicoanalista cileno, ed anche il fatto che il nucleo specificatamente filosofico del suo pensiero ruoti intorno ad un gruppo cir­ coscritto e costante di testi acquista un significato più profondo, implicita­ mente espresso dallo stesso Matte Bianco quando dichiarava di non essere interessato alla filosofia in forma di erudizione. All’istanza filosofica che ispira la bi-logica si lega il desiderio di guardare a fondo l’intima natura delle cose da angolature sempre diverse ma a partire da uno stesso tema dominante. Ed è la medesima istanza che in certo senso costringe a cercare i nessi tra i due antitetici modi di essere dell’uomo e del suo mondo, riaffron­ tando alla radice il problema uno-molteplice; segno peraltro di quell’anima dialettica che spinge a cimentarsi proprio dove la mediazione sembra votata allo scacco, infatti la dialettica, già prima della formulazione hegeliana, si sviluppa all’interno della logica dell’identità come mezzo per dar conto della pluralità e della differenza, senza polverizzarle nella frammentazione. La precisione ed il rigore con cui Matte Bianco ha indagato sui dati of­ fertigli dalla fenomenologia psichica ha, a sua volta, prodotto ulteriori ar­ gomenti a favore della concezione dialettica della realtà elaborata in sede filosofica. I riscontri tra bi-logica e dialettica sono plurimi: - il modo di por­ re il rapporto identità\differenza, sottolineando la necessaria interazione tra le due -, il considerare la contraddizione all’interno stesso dell’identità, - il muoversi sul duplice piano del pensiero e dell’essere, mettendo in luce i punti di mutua reciprocità - la valorizzazione del ruolo svolto dall’emo­ zione nel processo creativo, sul fronte sia ideativo che pratico, - l’accen­ tuazione della dimensione olistica o sistemica dell’operatività umana, - la considerazione positiva della negatività e dell’estrinsecazione del conflitto, - l’orientamento della ricerca verso un luogo di ricomposizione risolutiva delle contraddizioni, che Matte Bianco considera inaccessibile al pensiero cosciente e che Hegel indica con la metafora del mare «calmo»41. Questa zona, forse utopico non-luogo, che secondo Wittgenstein impone all’uomo il silenzio, nella misura in cui si profila come l’essere uno e indiviso - in­ conscio perché inaccessibile alla coscienza - sembrerebbe risolvere la dia­ lettica, sia filosofica che psicoanalitica, nell’indicibilità dell’essere parmeni-

41 Ci si riferisce alla famosa frase della Scienza della logica (2 voli., tr. it. di A. Moni, rev. da C. Cesa, Laterza, Bari 1984, vol. I, p. 99): «il divenire è una sfrenata inquietudine, che pre­ cipita in un resultato calmo».

deo, indicibilità che è appunto da ricondurre all’assoluta unità di tale esse­ re42. Va però osservato che il concetto di totalità indivisibile espresso da Matte Bianco, certo in maniera più esplicita di quanto non accada per l’essere parmenideo, tiene conto della pluralità, innanzitutto perché pensare l’unità, dal punto di vista umano, significa dividerla, distinguerla, quindi contraddirla affermando l’essere nella forma della pluralità. Inoltre, nella prospettiva di una superiore sintesi, che è diversa dal regresso in un amal­ gama confusivo, dovrebbe venire meno l’incompatibilità tra la contempora­ nea identità e distinzione delle cose, incompatibilità che appare inevitabile per il pensiero umano. In questo modo la bi-logica, permetterebbe di «rintrodurre, in un modo nuovo, come parte di un tutto più ampio, alcune anti­ chissime intuizioni di Parmenide»43. Il fatto che Matte Bianco riferendosi al modo d’essere unitario, sostituisca l’attributo «indivisibile» a quello «omo­ geneo», conferma questa lettura, che peraltro corrisponde al significato dialettico di «superamento», inteso quale forma di inclusione trasformativa di una situazione, o realtà data, in un ordine di cose più comprensivo. Questi ed altri possibili raccordi tra bi-logica e filosofia dialettica hanno permesso ai filosofi di mestiere che hanno approfondito la concezione di Matte Bianco un nuovo strumento per avanzare nell’ermeneutica filosofi­ ca44. Tale mutua recettività tra filosofia la bi-logica è evidente frutto di quel­ la affinità elettiva richiamata in apertura di questo lavoro. Matte Bianco, as­ similando creativamente nuovi materiali ha sviluppato la bi-logica, da cano­ ne o metodo di conoscenza, in forma di concezione dinamica; nel rendere esplicitata la portata filosofica del suo sfondo di riferimento egli ha mirato con più determinazione alla comprensione di quei punti d’intersezione tra pensiero ed essere, che i brani dei filosofi più amati gli avevano fatto bale­ nare davanti. Va aggiunto che se la dimestichezza con questioni considerate refrattarie agli approcci tradizionali acquisita con la pratica psicoanalitica può avere 42 II riferimento alla totalità indivisibile porta l’autore a sviluppare l’idea di una superlogica che permetta di rappresentare la struttura bi-modale del mondo in forma non contrad­ dittoria come inevitabilmente accade con la sola bi-logica {L’inconscio come insiemi infiniti, cit., p. 93). Quest’ipotesi di super-logica non risolverebbe l’antinomia dell’essere e del pensie­ ro, antinomia bi-modale e bi-logica, ma permetterebbe di rappresentarla ad un livello più alto in forma di compatibilità. Comunque l’esperienza dell’essere non può essere descritta (/vi, p. 113) e ciò implica un limite, da intendere kantianamente come indicazione di un «oltre» in movimento, che stimola a guardare più avanti e più in profondo, e che, quindi, incita a trarre dall’esperienza della visione tanto il senso della propria inadeguatezza che il desiderio, e la speranza, di poter fare affidamento su un sapere diverso da quello puramente conoscitivo e più arricchente sul piano esistenziale. 431. Matte Bianco, L ’inconscio come insiemi infiniti, cit., p. 439. 44 Vedi sopra, nota 12.

indotto Matte Bianco al lavoro nelle zone di confine, è alla conformazione filosofica ed in particolare dialettica del pensiero di questo studioso che va ascritta la portata esplicativa della bi-logica, teoria che, come il suo nome dice, è nata per interpretare due modi del pensiero tra loro tanto diversi da essere reciprocamente incompatibili. E visto che l’epistemologia scientifica contemporanea assegna un ruolo di rilievo alla filosofia quale sfondo di ri­ ferimento e atteggiamento di apertura critica nei confronti di qualsivoglia «datità», la bi-logica appare per quest’aspetto allineata con le impostazioni più avanzate. Nel concludere ricordo che Matte Bianco, innamorato della filosofia, tanto da individuare in essa la fonte primaria della sua ricerca, non ha mai preteso di essere considerato un filosofo, tanto che è rimasto ancorato ad un ristretto nucleo di contenuti filosofici, anche quando la consapevolezza che l’ispirazione e la finalità della bi-logica fosse da ricondurre alla filosofia si fece in lui più chiara. La presa di coscienza dell’intima tessitura filosofica della sua concezione gli ha fatto comunque aspirare di essere valutato anche «als Philosoph», come scrive Antimo Negri, avviando un circostanziato confronto filosofico con la bi-logica45. La stessa attenzione che i filosofi di professione hanno dedicato alla bi-logica, soprattutto quando non si sono limitati a coglierne delle assonanze con alcuni aspetti della riflessione filo­ sofica ma hanno cercato d inscriverla in dei precisi percorsi filosofici, co­ stituisce una testimonianza della fondatezza di tale profonda aspirazione.

45 A. Negri, «Bi-modalità ontologica e bi-logica», in I problemi della pedagogia, 36 (2-3), pp. 149-173 (maggio-giugno 1990). Secondo Negri Matte Bianco è un autore che «ambisce ad essere trattato als Philosoph» (p. 160), dove la parola “ambire” sta ad indicare l’intensità dell’interesse filosofico dello psicanalista impegnando ad un confronto critico sulla fondatezza di tale aspirazione. Un primo riferimento di Antimo Negri alla bi-logica è in Hegel nel Nove­ cento, Laterza, Bari 1987, p. 147).

5. Lingua, analisi della lingua e bi-logica' di Francisco Matte Bon

1. Introduzione Come da più parti è stato ampiamente dimostrato negli ^tudi sul lin­ guaggio - in particolare nell’ambito della pragmalinguistica - spesso (la maggior parte delle volte, bisognerebbe dire) quando parliamo, diciamo co­ se ben diverse da quelle che intendiamo dire2. Eppure, ci capiamo. Sorgono, a volte, piccoli o grandi malintesi, ma ci capiamo. Partendo da questa considerazione, e dall’analisi di numerosi fenomeni grammaticali in più lingue, sono giunto alla conclusione che non si può ren­ dere conto del funzionamento del linguaggio - e insieme ad esso, del pen­ siero e della mente umana in generale - se non si tengono nel dovuto conto le idee sviluppate da Ignacio Matte Bianco, mio padre. Mi riferisco, in particolare, al fatto che la mente umana è retta, organiz­ zata e strutturata, secondo due logiche antinomiche ma coesistenti, le quali, paradossalmente, non possono prescindere l’una dall’altra. Di queste idee, con mio padre, ho spesso avuto occasione di parlare. Ho avuto, soprattutto, la fortuna di sentirgliele esprimere in molteplici occasio­ ni, in molteplici modi, con quella sua insistenza martellante sui pochi punti fondamentali, quelli che rendono possibile la comprensione della nostra esperienza umana e della percezione che abbiamo dei nostri vissuti. Ne ho capito troppo tardi, però, la portata - soprattutto per quanto riguarda l’ana­ lisi e la comprensione dei fenomeni linguistici. Delle implicazioni di queste 1La presente meditazione vuol essere un omaggio a Ignacio Matte Bianco. La prima parte del presente lavoro (sezioni 1-3.1.5, pp. 88-102) è già stata pubblicata in Understanding Argument. La logica informale del discorso, a cura di G. Elisa Bussi, Marina Bondi, Francesca Gatta, Clueb, Bologna, 1997. Ciononostante, la ripropongo qui per fornirne al lettore una versione completa evitando rimandi. ‘ È significativa in questo senso una delle definizioni di pragmatica che propone George Yule in Pragmatics, Oxford UP, Oxford, 1996, p. 3: «Pragmatics is the study of how more gets communicated than is said».

idee sviluppate nel presente lavoro, con mio padre, purtroppo, non ho potuto parlare. Il dialogo, ora, può continuare soltanto dentro di me, con quello che delle sue idee sono riuscito a cogliere, o con terze persone che l’hanno co­ nosciuto e con le sue idee hanno lavorato - mia madre, alcuni suoi discepoli (come lui era solito chiamarli, in linea con la sua tradizione accademica) aiutato, stimolato, dalla conoscenza che mi è rimasta della sua persona, delle sue reazioni, del suo lucido modo di ragionare. Grazie a questa cono­ scenza posso, bi-logicamente, intuire quali potrebbero essere alcune delle sue reazioni e i suoi commenti. Dopo una breve presentazione degli aspetti della teoria di I. Matte Bian­ co che ritengo più essenziali per la comprensione del linguaggio3, sviluppe­ rò nelle pagine che seguono alcune riflessioni di carattere generale sulle conseguenze che ne derivano per l’analisi e la comprensione delle lingue nelle loro manifestazioni naturali4.

2. Introduzione al concetto di bi-logica Come spesso accade con le idee semplici nei loro aspetti essenziali, ma di grande portata per la conoscenza, le idee di I. Matte Bianco sono da molti ritenute complicate. Esse risultano, in una certa misura, inquietanti, perché ci costringono a rivedere tutto il nostro quadro di riferimento per quanto ri­ guarda la conoscenza del mondo e del pensiero. 3 La breve sintesi delle idee di Matte Bianco che presento in seguito può risultare superflua per chi con tali idee ha già familiarità e, ancor di più, in un lavoro pubblicato in un volume in­ teramente dedicato all’opera di Matte Bianco. Tuttavia, essa può essere utile come primo ap­ proccio per chi si muove in un ambito come quello degli studi linguistici, nel quale il pensiero di Matte Bianco è meno conosciuto. In questa introduzione mi limiterò soltanto alle idee principali della teoria di Matte Bianco che sfrutterò nel resto del presente lavoro. Non mi riferirò agli aspetti più specifici, quali, ad esempio, le tipificazioni delle strutture bi-logiche (stratificate, Alassi, Simassi ecc.). Ritengo che molti di tali aspetti siano da esplorare in modo approfondito dalla prospettiva della lingui­ stica, e che possano risultare estremamente utili per rendere conto in modo dettagliato di nume­ rosi fenomeni. Oltre ai lavori raccolti in questo volume con i loro rispettivi riferimenti biblio­ grafici, per un’introduzione al pensiero di Matte Bianco rimando il lettore a Eric Rayner, Un­ conscious Logic. An Introduction to Matte Blanco's Bi-Logic and its Uses, Londra, Routledge, 1995, e, naturalmente, ai due libri principali di Matte Blanco, The Unconscious as Infinite Sets, Londra, Duckworth, 1975, nuova ed. Londra, Kamac, 1998, tr. it. (di P. Bria), L'inconscio co­ me insiemi infiniti, Torino, Einaudi, 1981; e Thinking, Feeling, and Being, Londra, Routledge, 1988, tr. it. (di P. Bria), Pensare, sentire, essere, Torino, Einaudi, 1995. 4 Con questa espressione mi riferisco alle produzioni dei parlanti nei loro vari contesti. Non uso l’espressione manifestazioni spontanee perché è avvolta in una certa ambiguità: spesso è associata a questioni di registro e viene impiegata - insieme al termine colloquiale, anch’esso ambiguo negli usi che se ne fanno - per riferirsi a registri informali e/o famigliali.

Nei suoi studi sulla logica che governa la nostra attività mentale, sia conscia sia inconscia, Ignacio Matte Bianco mette in luce l’esistenza di un’interazione tra due logiche antinomiche - alla quale dà il nome di bi­ logica. Da una parte la logica asimmetrica - quella alla quale ci riferiamo comunemente quando parliamo di logica dall’altra, una logica più osser­ vabile nell’attività dell’inconscio - che tuttavia non è la logica dell’in­ conscio, bensì soltanto parte di essa, e che obbedisce a regole ben diverse. Ma vediamo brevemente le caratteristiche di ognuna di queste due logi­ che.

2.1. La logica asimmetrica La logica asimmetrica - o logica aristotelica - corrisponde grosso modo al concetto di logica al quale facciamo comunemente riferimento nella no­ stra vita quotidiana. Essa è contraddistinta dal suo rifiuto di qualsiasi con­ traddizione5 (principio di non contraddizione), e qualsiasi incompatibilità. Così, se un elemento A è caratterizzato da una proprietà P, non può, al tem­ po stesso essere caratterizzato da non P (impossibilità di ammettere le con­ traddizioni). All’interno di questa logica, i rapporti esistenti tra i diversi elementi vengono suddivisi secondo le loro caratteristiche. Pur trattandosi di una lo­ gica definita come «asimmetrica», questa tiene in considerazione anche al­ cuni rapporti - o relazioni - universalmente riconosciuti come simmetrici, quali ad esempio, il rapporto di eguaglianza, o, nell’ambito delle relazioni di parentela, quella di fratellanza: così, se A è uguale a B, automaticamente di­ remo che B è uguale ad A; se Paolo è fratello di Gianni, Gianni è fratello di Paolo. Altri rapporti sono, invece, asimmetrici, come, ad esempio, il rap­ porto di superiorità, o quello di genitore-figlio: se A è superiore a B , B non può, a sua volta, essere superiore a A, deve necessariamente essere inferio­ re. Se Paolo è il padre di Gianni, Gianni non può essere il padre di Paolo, visto che ne è il figlio. Per non incorrere in ragionamenti illogici, in base a questa logica, si presuppone una corretta categorizzazione - o classificazio­ ne - del mondo e dei diversi tipi di rapporto in esso esistenti. Ogni cosa de­ ve essere considerata per quel che è. Si tratta quindi di una logica che classi­ fica, divide e suddivide per poter studiare i rapporti esistenti tra i vari ele­ 5 Non si tratta di negare l’esistenza delle contraddizioni nei ragionamenti, bensì, semplicemente, di smascherarle, di renderle esplicite. Quando un ragionamento contiene una contraddi­ zione non esplicita, viene rifiutato come non valido proprio con espressioni del tipo «ti con­ traddici», o «questa è una contraddizione». Le contraddizioni possono, dunque, venir affrontate come oggetto di riflessione o ragionamento, ma non incluse come parte del ragionamento.

menti e le differenti categorie di elementi. Una buona parte della nostra vita viene dedicata a questo lavoro di classificazione. Un elemento può apparte­ nere a più categorie soltanto se queste non sono incompatibili tra loro: si tratta, generalmente di diversi livelli di classificazione. Così, ad esempio, un cane e un essere umano, pur appartenendo a categorie diverse, appartengono entrambi a quella degli animali, la quale si inserisce in quella degli esseri viventi, ecc. Un elemento X non può appartenere al tempo stesso alla cate­ goria degli esseri umani e a quella dei cani. D’altro canto, una cosa non può essere al tempo stesso verde e rossa (incompatibilità). In base a questa logi­ ca, i ragionamenti giudicati illogici si fondano su errate considerazioni dei rapporti tra gli elementi coinvolti, o errate categorizzazioni del mondo (e quindi degli elementi in questione). Quando la diffusione e la natura degli errori oltrepassa certi limiti - ritenuti invalicabili - i ragionamenti vengono giudicati folli.

2.2. La logica simmetrica A fronte di questa logica ve ne è un’altra, governata da regole incompa­ tibili con quelle fin qui descritte: la logica simmetrica. Due sono i principi che ne regolano il funzionamento: il principio di simmetria e il principio di generalizzazione. In base al primo, tutti i rapporti vengono trattati come se fossero simmetrici: così, se A è superiore a B, allora B è superiore a A. Se Paolo è il padre di Gianni, allora Gianni è, a sua volta, il padre di Paolo. Il secondo vuole che ogni elemento sia equivalente a tutta la categoria alla quale appartiene. Così, un cane o un essere umano sono rappresentanti equi­ valenti di tutta la categoria degli esseri viventi. L’applicazione di questi due principi porta a conseguenze devastanti. Un cane può essere o diventare un essere umano. Tutto diventa uguale a tutto. È ovvio, che la logica simme­ trica è incompatibile con la maggior parte dei concetti sui quali si fondano la nostra percezione consapevole del mondo e il pensiero: spazio, tempo ecc. Concetti come quello di sequenza, non possono esistere in base a tale logica. La nostra vita si configura come un lungo percorso che parte da un’unità omogenea indivisibile (regno della simmetria) e ci porta a distinguere, clas­ sificare, affinare le distinzioni tra elementi diversi e tipi di relazioni diverse. Un percorso, cioè, che partendo dalla simmetria totale tende alla asimme­ tria, senza mai raggiungere, tuttavia, l’asimmetria totale.

2.3. La bi-logica La mente umana è caratterizzata dall’intreccio di queste due logiche, sempre compresenti - sebbene in misura variabile - in tutte le nostre azioni e tutti i nostri ragionamenti. Nella nostra vita consapevole, una persona equilibrata è, quindi, una persona che riesce a calibrare in modo adeguato al contesto la parte di ognuna delle due logiche. La logica asimmetrica è fondamentale perché ci permette di distinguere, di collocare ogni elemento al suo posto, di attribuire ad ogni cosa il suo giusto valore. È quella che caratterizza maggiormente il pensiero razionale, il quale, tuttavia non è esente dalla logica simmetrica. Quest’ultima, a sua volta, regina del mondo delle emozioni, è quella che, in ultima istanza, ci permette di sentire, ma anche di pensare. Senza le «confu­ sioni» che, a vari livelli, essa introduce nei nostri ragionamenti asimmetrici, altro non saremmo se non degli elaboratori elettronici, incapaci di sentire, di pensare, di avere idee originali, di stabilire collegamenti tra fenomeni o elementi apparentemente ben distinti tra loro. Uno dei motori del pensiero - e della mente umana, con la sua immagi­ nazione e la sua capacità di sentire - è proprio l’interazione tra queste due modalità contrastanti apparentemente incompatibili. Numerosi sono gli studi sulla logica e il linguaggio. La conclusione alla quale si arriva il più delle volte è che il linguaggio è retto da una logica non rigida, che possiede un certo margine di tolleranza per l’illogicità - la co­ siddetta logica informale del linguaggio. La mia ipotesi è che il linguaggio, come la mente stessa, sia retto dalla bi-logica e che la logica informale del linguaggio si possa - in una certa mi­ sura - descrivere e spiegare almeno nella dinamica del suo funzionamento, con i concetti proposti da Matte Bianco. Il linguaggio e le lingue sarebbero, dunque, permeati di simmetria a vari livelli, così come lo sono gli studi stessi sul linguaggio e sulle lingue. Nelle pagine che seguono vorremmo pertanto proporre un breve excursus nei diversi ambiti legati al funziona­ mento e all’analisi delle lingue naturali per i quali il concetto di bi-logica potrebbe apportare un contributo chiarificatore.

3. La bi-logica e il linguaggio Nel linguaggio la bi-logica si manifesta con identificazioni improprie tra diversi elementi, nelle quali si perde di vista il reale rapporto esistente tra i due termini identificati, o mediante la presunzione di relazioni che spesso

non rispondono a logica6. Ciò è osservabile a vari livelli: nella concezione che hanno i parlanti della relazione esistente tra la lingua e il mondo extra­ linguistico, nel rapporto che instaurano con la lingua e con i loro interlocu­ tori, nelle strategie discorsive scelte per esprimere i diversi concetti e le di­ verse intenzioni comunicative che con la lingua essi esprimono, nel funzio­ namento stesso della lingua, ma anche nelle analisi che della lingua si fan­ no. Ma vediamo la questione più dà vicino, attraverso alcune brevi esempli­ ficazioni.

3.1. Le simmetrizzazioni nella nostra percezione della lingua 3.1.1. Il rapporto tra la lingua e il mondo extralinguistico. Il primo punto nel quale si osserva una chiara simmetrizzazione risiede nella concezione che della lingua hanno i parlanti e nel rapporto che instaurano con essa. La lingua, si sa, è un sistema di rappresentazione con il quale ci riferiamo al mondo extralinguistico. Così, a fronte dei diversi elementi o processi osser­ vabili nel mondo extralinguistico, le lingue hanno coniato parole per nomi­ narli. Tali parole, in quanto elementi virtualmente utilizzabili della lingua, sono astrazioni - segni - con una doppia vertente: un concetto astratto asso­ ciato ad un’immagine acustica ideale, anch’essa astratta7. Il rapporto tra ele­ mento rappresentante e elemento rappresentato è per sua natura asimmetrico giacché l’elemento rappresentato esiste indipendentemente dall’elemento rappresentante e può perfettamente farne a meno. La lingua può essere un sistema di rappresentazione del mondo8, ma, se si ragiona in termini logici, il mondo non può, a sua volta, essere la rappresentazione della lingua, né presentare un determinato fenomeno o oggetto perché esiste nella lingua. Tuttavia, nei commenti che si sentono comunemente sulla lingua, si per­ cepisce spesso una certa tendenza alla simmetrizzazione di tale rapporto: la lingua, con la sua categorizzazione del mondo diventa spesso un filtro per la 6 Almeno apparentemente e stando alle regole di quella logica che sopra abbiamo chiamato «asimmetrica». 7 Per una trattazione di questi aspetti, rimando il lettore agli appunti dei corsi che F. De Saussure teneva agli inizi del secolo, posteriormente pubblicati dai suoi allievi. Cfr. Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, edizione italiana a cura di Tullio de Mauro, Later­ za, Bari, 1967. Vedi, in particolare, pp. 83-8 e 125-48. 8 Ci limitiamo, per ora, alla dimensione rappresentativa della lingua nella misura in cui ci permette di svelare la bi-logica (con una buona dose di simmetria) presente nella concezione stessa che si ha comunemente dell’oggetto del nostro studio - la lingua. Va sottolineato, tutta­ via, che questa è soltanto una delle sue dimensioni, giacché, come è stato da più parti messo in luce, e in particolare dagli studi sviluppatisi nel campo della pragmatica, vi è ben dell’altro, come vedremo più avanti.

nostra percezione, e ci impedisce di vedere l’extralinguistico se non attra­ verso il setaccio che essa costituisce. Un esempio caratteristico e ben noto è costituto dalla nostra percezione dei colori, che, com’è risaputo, è forte­ mente influenzata dalla loro suddivisione nella nostra lingua. In realtà, lo stesso avviene con tutte le parole. In un ambito diverso, si pensi alla varietà di sapori, colori, consistenze, profumi ecc. comunemente racchiusi sotto l’etichetta mela. Un normale e semplice meccanismo di astrazione ci porta a cancellare le differenze al punto di non riuscire più a percepirle e apprez­ zarle nella giusta misura. Così, la lingua da sistema di rappresentazione, di­ venta la realtà. Le simmetrizzazioni di questo genere possono essere alla ba­ se di malintesi esemplari tra persone di lingue e culture diverse: anni fa ci è capitato di trascorrere le vacanze estive ospiti da amici. Una sera, alla fine della cena, siamo stati testimoni delle rimostranze rivolte dal padrone di ca­ sa - tedesco - a sua moglie - spagnola - per la mancanza di immaginazione nella scelta della frutta. La sera precedente ci aveva servito del melone (in tedesco Honigmelone o semplicemente Melone), e quella sera dell’anguria (in tedesco Wassermelone, chiamata anch’essa, a volte, semplicemente Melone). La signora non capì immediatamente il problema, e lui le spiegò che in fondo si trattava di due varietà dello stesso frutto! Davanti alle obie­ zioni degli altri commensali sconcertati, egli aggiunse che erano entrambi «meloni» e che il sapore gli sembrava molto simile9. Gli aneddoti come questo, frequentissimi, dimostrano che il rapporto tra oggetto rappresentante e oggetto rappresentato, di per sé asimmetrico, tende a simmetrizzarsi nella mente dei parlanti di una lingua. Tutti sappiamo molto bene che le lingue sviluppano il lessico relativo a un certo campo semantico secondo i bisogni e la capacità e la necessità di percezione delle differenze che hanno i membri della comunità nella quale esse vengono utilizzate: esempi ormai classici presenti nei manuali di lin­ guistica quale quello delle parole che esprimono le diverse sfumature del colore bianco nelle lingue degli esquimesi, o i diversi termini usati per rife­ rirsi ai cavalli dai gauchos dell’Argentina, lo dimostrano abbondantemente. La simmetrizzazione avviene nel momento in cui la presenza o l’assenza di queste distinzioni nella lingua diventa realtà extralinguistica. 3.1.2. La ricerca di referenti extralinguistici per il lessico. Un secondo livello di simmetrizzazione ancora maggiore si osserva nella tendenza gene9 Non abbiamo mai appurato se questa tendenza a percepire questi due frutti come molto più simili tra loro rispetto alla percezione che ne hanno i parlanti di altre lingue sia generaliz­ zata tra le persone di .lingue tedesca. Tali fenomeni sono comunque osservabili anche in altri ambiti e dimostrano una tendenza, che è quella sulla quale ci interessa soffermarci in questa sede.

ratizzata tra i parlanti delle varie lingue a ricercare per forza nell’extralinguistico le differenze di vario genere presenti nella lingua: così, ad esempio, a fronte di due parole diverse per esprimere lo stesso concetto, si nota una propensione alla ricerca di realtà extralinguistiche diverse. Vengono così stabilite false equivalenze tra la lingua e l’extralinguistico anche laddove le opposizioni tra i termini disponibili nella lingua e il loro rapporto con il mondo extralinguistico non sono tanto chiari. Vediamo due esempi. Ci è capitato di partecipare ad accese discussioni tra romani e non romani sulle differenze tra la rucóla e la rughetta (variante diatopica per designare la stessa realtà extralinguistica). I primi erano convinti che si trattasse di due cose diverse; gli altri affermavano che entrambe le parole designavano la stessa pianta. Per i romani, la rucóla era l’erba coltivata che essi acquistano in buste al supermercato (prodotte in Alta Italia, da qui il termine su di esse stampato), di sapore meno intenso, mentre la rughetta era quella dalle foglie leggermente più dure, raccolta nei campi, di sapore più intenso, che essi ac­ quistano al mercato (da qui l’uso della variante regionale). Pur essendo con­ sapevoli dell’esistenza di varietà regionali, davanti ad un problema concreto la tentazione di cercare nell’extralinguistico le differenze regionali era mol­ to forte. Un problema analogo sembra sorgere con i termini cocomero e an­ guria: un collega ci raccontava tempo fa di un lungo dibattito tra i suoi stu­ denti (di una facoltà di lingue) perché un certo numero di essi affermavano qhe il cocomero era tondo, mentre l’anguria sarebbe stata allungata. La simmetrizzazione, in questo caso, è ancora più interessante, perché sembra essere, almeno in parte, associata ai movimenti articolatori necessari per pronunciare i due termini. Nel caso di cocomero si tratta di vocali intermedie, con tre [o] (arrotondamento delle labbra), e meno spostamenti articolatori tra gli estremi. È da notare, tra l’altro, che sia le [o] che i suoni [k] sono posteriori, mentre i suoni [m] e [e] vengono en­ trambi articolati nella parte anteriore della bocca. Si ha quindi uno schema del tipo (con un grado medio di apertura costante), as­ sociato allo schema