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Italian Pages 196 [202] Year 1997
MASSIMO MILA
LETTURA DELLE NOZZE DI FIGARO
Mozart e la ricerca della felicità
Piccola Biblioteca Einaudi
PICCOLA BIBLIOTECA EINAUDI
J 71
Arte. Architettura. Urbanistica. Musica. Cinema. Teatro. Fotografia. Giochi. Sport
© 1979 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino ISBN 88-06-18937-9
MASSIMO MILA
LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO» Mozart e la ricerca della felicità
Piccola Biblioteca Einaudi
Indice
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Avvertenza
Lettura delle Nozze di figaro
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i. L’evoluzione del melodramma nel Settecento il. La via teatrale di Mozart in. Origine dell’opera. Rapporti con la commedia di Beaumarchais iv. Il primo Atto dell’opera v. Il secondo Atto vi. Il terzo Atto vii. Il quarto Atto
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Indicazioni bibliografiche
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Avvertenza
Questa lettura delle Nozze di Figaro è il risultato di un corso universitario tenuto alla Facoltà di Lettere di To rino nell’anno accademico 1969-70. Dopo tre corsi dedi cati alla produzione strumentale di Mozart, e precisamen te ai Quartetti) alla musica per pianoforte solo e alle Sinfonie, questo corso fu il tentativo di avvicinare all’opera lirica gli studenti, che generalmente ne diffidavano, attra verso l’esempio di un’opera non melodrammatica. Oggi i teatri d’opera ricominciano ad affollarsi anche di un pubblico giovanile. Allora non era cosi. L’associazio ne della musica ad un’azione scenica attraverso la parola veniva sentita quasi come una sorta di offesa al pudore: un modo troppo plateale di spiattellare in soldoni i ripo sti contenuti espressivi della creazione musicale. Era signi ficativo al riguardo il solecismo, frequentissimo in sede di esame, di dire «la musica» intendendo la parte orche strale; come se il canto non fosse musica. Il teatro di Mozart, che per melomani comuni può es sere un punto d’arrivo e una faticata conquista, si avverò un ottimo avviamento all’opera per la precoce austerità d’una gioventù infatuata di Vivaldi e di Bach. C’è chi attraverso Mozart è arrivato a Verdi e a Puccini, mentre di solito è il cammino contrario che viene percorso lenta mente dal pubblico, come sanno benissimo gli operatori teatrali. La lettura dell’opera condotta nel corso del lavoro non è soltanto musicale, ma anche scenica: all’analisi dello spartito si accompagnano appunti di regia, in sostituzione dello spettacolo teatrale e nella convinzione dell’unità in
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AVVERTENZA
scindibile di parola, musica e scena in seno all’opera lirica. All’origine scolastica del lavoro va addebitato il carat tere confidenziale della bibliografia posta in calce al volu me: semplici consigli di lettura, senza pretesa di comple tezza scientifica, a scopo d’orientamento sommario in se no alla letteratura mozartiana e di indicazione generale delle opere più frequentemente citate.
LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
Capitolo primo L’evoluzione del melodramma nel Settecento
Al principio del Settecento noi troviamo il melodram ma italiano stabilmente assestato sulle posizioni stilisti che ad esso determinate da Alessandro Scarlatti. Netta è la separazione tra l’opera seria e l’opera comica, laddove il gusto barocco del secolo precedente non aveva rifuggito dalla mescolanza dei due elementi. E, nella separazione, è implicita una severa differenziazione gerarchica: l’opera seria è considerata genere artistico di gran lunga superio re, praticato nei teatri d’alto rango col concorso dei piu celebrati «virtuosi»; l’opera comica è un genere inferiore, quasi popolaresco, praticato in teatrini secondari e spesso nella stagione estiva (oppure, nella forma AeNintermezzo, ammesso tra un atto e l’altro dell’opera seria, come un passatempo facoltativo durante gli intervalli). In ogni ca so l’opera comica è affidata ad altri cantanti che quelli dell’opera seria; assai meno bravi sul piano del virtuosi smo vocale, ma spesso, per contro, vivacissimi attori. L’ap parato orchestrale è molto più modesto. Gli argomenti, tratti dalla vita quotidiana. La comicità, cioè il riso, non è, in certo senso, elemento indispensabile dell’opera co mica, e soprattutto sempre meno lo diventerà, nel corso della sua evoluzione. L’opera comica si deve intendere tale - come stabilì il Della Corte ~ soprattutto nel senso di «non tragica», cioè non solenne, non aulica, non stori ca o mitologica nei soggetti, ma fondata sull’osservazione di aspetti della vita quotidiana e sull’impiego di personag gi comuni. Opera comica nel senso in cui il poema dante sco si .chiama Commedia1. 1 Sui caratteri rispettivi dell’opera seria e déll’opera comica, e sul po sto ch’esse rispettivamente occupano nel costume settecentesco, si veda vernon lee, Il Settecento in Italia, Ricciardi, Nàpoli 1932.
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Le strutture che il melodramma settecentesco ereditava da Alessandro Scarlatti stabilivano, tanto nell’opera seria quanto nell’opera comica, una netta separazione del canto in due tipi: l’aria, per lo piu nella forma tripartita A - B A, cioè con «da capo», e il recitativo, per lo più nella forma di recitativo secco, cioè accompagnato dal solo clavi cembalo, anziché dall’orchestra. L’originario «recitar can tando » dei Fiorentini e del primo Monteverdi si era venu to spezzando, nel corso del Seicento, in questa dannosa dicotomia, che radunava nell’aria (e nel duetto: niente più che un’aria a due voci) tutte le risorse della melodia; e ne spogliava completamente il recitativo, cui si affidava la ra pida comunicazione, intonata su formule stereotipate, di quelle parti del dialogo necessarie allo svolgimento del l’azione. Si istituiva così un pericoloso divorzio tra la mu sica- e l’azione drammatica. La prima rinunciava praticamente ad investire l’azione e a realizzarla nei propri valori, accontentandosi, invece, di ampliare le situazioni liriche, di stasi, che nel corso dell’azione si venissero producendo. (Dal punto di vista metrico e quasi grafico, nei libretti, la distinzione è data dall’uso dell’endecasillabo sciolto nel recitativo, e di strofette di settenari o ottonari per le arie). Si stabilirono così le premesse per quella degenera zione a cui il melodramma serio andò incontro nel Sette cento, e che viene riassunta nella formula di « opera-concer to». Un tipo d’opera, cioè, nella quale l’azione non conta praticamente nulla, e non è che il pretesto per addurre le situazioni propizie alla fioritura di magnifiche arie, di su prema bellezza melodica, e non certo inespressive, almeno nei casi migliori, ma corrispondenti alla situazione emo tiva che frattanto si era venuta determinando nell’azione, attraverso gli aridi scambi dialogici del recitativo secco. (Bisogna dire che spesso la degenerazione andava oltre, e nemmeno una generica caratterizzazione espressiva veni va più rispettata, servendo le arie unicamente come tram polino per l’esibizione della bravura vocale di castrati e prime donne). Questa degenerazione del melodramma serio non gli impediva di continuare a mietere successi in tutta Europa, anzi, si può dire che il melodramma trionfava proprio in
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ragione dei suoi difetti, che il pubblico amava. D’altra parte non è che essi non fossero avvertiti. La pubblicistica settecentesca trabocca di satire e parodie del melodram ma. Dotti trattatisti letterari, come il Muratori, il Crescimbeni e il Quadrio, prendendo in esame il libretto d’opera come produzione esclusivamente letteraria, aumentano la confusione imputandogli, oltre ai suoi reali difetti, quelli che sono gli attributi inevitabili e funzionali d’un testo letterario che non pretende ad autosufficienza, ma trova la sua vita soltanto in unione con la musica. Con allegro cinismo l’opera settecentesca fa la parodia di se stessa: pullulano le opere comiche su maestri di cappella, su im presari in angustie, su cantatrici villane. Il capolavoro del la pubblicistica contro i difetti del melodramma è II teatro alla moday del gentiluomo e musicista veneziano Benedet to Marcello. Ciò che piu sorprende, in questa satira pun gente e spiritosa, è la data: 1720. Si era appena agli inizi del secolo: Alessandro Scarlatti era ancora vivo, e alimen tava i suoi ultimi lavori teatrali con la nobile vena d’un recitativo non spregevole né frettoloso, anzi, ancora un po co affine alla dignità dell’antico «recitar cantando». La pa rabola della degradazione dell’opera seria era appena agli inizi, e sarebbe continuata precipitando ancora per mezzo secolo e oltre, eppure in questo vivacissimo libriccino (di cui si sa da pochi anni che è rivolto contro la produzione teatrale di Antonio Vivaldi) le incongruenze e le assurdità del teatro d’opera vengono tutte infallibilmente denun ciate. L’opera seria, come si è detto, continuava a godere di una fortuna strepitosa, nonostante le critiche a cui era fat ta segno. Pure il peso crescente ch’esse prendevano presso l’opinione pubblica piu qualificata, cioè presso gli intel lettuali, accumulò a poco a poco le condizioni perché una riforma del melodramma venisse tentata da Cristoforo Gluck, con la collaborazione del librettista Ranieri de’ Calzabigi. Nella prefazione del?Alceste egli indicò con chiarezza i punti della sua riforma, che non pretende af fatto di sostituire il melodramma serio dell’epoca con altro ideale drammatico, bensì si propone soltanto di ripulirlo degli abusi che lo sfigurano. Tra i principali mezzi a cui
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egli fa ricorso si notano: la qualificazione drammatica del la Sinfonia d'apertura, che deve quasi essere un compen dio, una prefigurazione o un’introduzione del dramma; la rivalutazione del recitativo, con l’abolizione del recita tivo secco in favore del recitativo obbligato, cioè accom pagnato dall’orchestra, e pertanto piu ricco di contenuto musicale; la frequente sostituzione dell’aria col da capo in favore dell’aria semplice, o doppia (in due sezioni), che meglio possono essere piegate al servizio dell’azione dram matica. La riforma di Gluck suscitò appassionate discussioni, fu aspramente contrastata, ed esercitò molto lentamente la sua efficacia, dando i suoi frutti nella prima metà dell’Ottocento. Ma il fatto che ora a noi preme di rilevare, per bene intendere il senso dei capolavori mozartiani nel campo dell’opera italiana, è questo: tutte le esigenze che nel corso del secolo venivano avanzate dalle persone colte e dagli illuminati intenditori teatrali, tutto quell’ideale di un teatro in musica ragionevole, naturale, e ripulito dalle stravaganze e dagli abusi prodotti dalla boria dei cantanti, tutto ciò si veniva già elaborando piano piano, e sponta neamente, in seno alla modesta opera comica. Se ne ebbe la rivelazione quando una compagnia di cantanti napole tani portò a Parigi, nel 1752, il piccolo intermezzo di Pergolesi La serva padrona, vecchio ormai di vent’anni. Ben ché fosse già conosciuto anche a Parigi, questa volta agi come una rivelazione : Rousseau e gli enciclopedisti vi am mirarono la semplicità, la naturalezza, di cui tanto si sen tiva la mancanza nella fastosa retorica dell’opera seria. Ec co il teatro musicale che si auspicava, fondato sull’osserva zione della vita e dei caratteri, con una musica capace di ingrandire, potenziare e approfondire il senso delle paro le, seguendo agilmente l’azione ed esplorando la psicologia dei personaggi. Nessuna staticità introduceva la musica nell’opera comica. Al contrario la musica sembrava imme desimarsi essa stessa nella vicenda e costituire il flusso vi tale da cui tale spettacolo appariva percorso. Indipendentemente dalla sua diversa funzione sociale, dall’estro individuale dei compositori e dei cantanti che vi si dedicavano, quale elemento, nelle strutture dell’ope-
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ra comica, le consentiva di eludere felicemente i difetti capitali dell’opera seria? L’opera comica era, sotto certi aspetti, musicalmente più povera della sua maggior sorel la: l’orchestra, per esempio, era inizialmente assai più ri stretta che nell’opera seria, e il coro le mancava affatto. Né si può dire che per quanto riguarda «il tagliente diva rio tra aria e recitativo» (secondo la calzante espressione di Gluck), l’opera comica stesse meglio dell’opera seria. Anzi, all’opera comica era praticamente estraneo il reci tativo obbligato, che può essere un potente veicolo di can to drammatico, opportunamente disteso, si potrebbe qua si dire spalmato sull’azione. Nell’opera comica il recitati vo è sempre secco, cioè accompagnato dal solo clavicem balo, snocciolato dai cantanti ad altissima velocità, sia pu re con una certa arguzia nella convenzionalità delle ca denze e nel loro gioco reciproco con le rime del verso. L’aria impera anche nell’opera comica. L’asso nella manica dell’opera comica è un terzo ele mento vocale, e precisamente il « concertato», o scena d’in sieme. Questo pezzo musicale dove più personaggi canta no contemporaneamente, e che appunto per questo viene spesso additato come uno dei maggiori motivi di assurdi tà del teatro musicale, divenne invece nel corso del Sette cento, in seno all’evoluzione dell’opera comica, un poten te elemento di realismo e di progresso drammatico. Il con certato è il mezzo di cui si serve l’opera comica per sbattere i personaggi uno addosso all’altro e istituire fra loro il dia logo, un dialogo fitto di botte e risposte ravvicinate, senza cui naturalmente non si fa teatro. Questo elemento musi cale - il concertato - germogliò in seno all’opera comica, dapprima come finale d’opera, poi di atto, e fu accolto solo lentamente, e con estrema resistenza, dall’opera se ria. I grandi cantanti che in questa si esibivano non ne volevano sapere di mescolare le loro nobili voci con quel le di altri cantanti ch’essi giudicavano di merito inferiore, o magari perfino con le voci di veri e propri comprimari. Pareva assurdo distruggere il fascino individuale di voci che valevano un milione per sera con altre voci di minor pregio. A che serve scritturare dei divi, se poi si ostacola la percezione delle loro voci meravigliose impiegandole
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insieme ad altre? Si aggiunga che cantare in un «insieme» richiede una perfetta sicurezza nel ritmo e nel computo delle durate, qualità, questa, in cui spesso non brillavano affatto i «canori elefanti», secondo la definizione pariniana dei castrati, e le capricciose regine del belcanto. Invece i cantanti dell’opera comica, dotati di ugole più modeste, erano spesso buoni musicisti, com’erano buoni attori, e non provavano difficoltà ad andare perfettamente a tem po nella esecuzione dei concertati. Oltre, naturalmente, a -noiLSoffrire complessi di boria e d’alterigia professionale nei riguardi dei colleghi. L’espansione e l’evoluzione del concertato è un fatto lento e di lunga durata. Dapprima generalmente il concer tato è limitato alla fine dell’opera, ed è statico anch’esso, non meno di un’aria. Si canta quando l’azione è già pra ticamente terminata, e i personaggi vengono fuori tutti insieme, avanzando fino al proscenio, per cantare un con certato nel quale si trae, per cosi dire, la morale della fa vola. Concertati di questo tipo, vere e proprie macchine musicali senza conseguenze drammatiche, si trovano an cora in Rossini alla fine degli atti, ben diversi da altri con certati che chiameremo «d’azione», i quali si svolgono spesso nel cuore stesso dell’atto. (Si pensi, per esempio, a tutta la scena che si sviluppa nel secondo Atto del Barbie re di Siviglia quando il Conte d’Almaviva s’introduce in casa di Don Bartolo con un travestimento da soldato ubria co, e l’azione iniziata dai due personaggi ne coinvolge poi altri, Rosina, Figaro, più tardi Don Basilio, ed infine addi rittura il drappello di polizia venuto a vedere il perché di tanto baccano). L’elaborazione drammatico-narrativa del concertato di azione è la via maestra attraverso cui l’opera comica si sviluppa nel corso del Settecento, passando a poco a poco dal rango di parente povera del melodramma serio a quel lo di modello d’efficienza drammatica. Il concertato d’a zione, di cui si conosce ora un singolarissimo embrione secentesco nel finale dell’opera L'armi e gli amori di Do menico Mazzocchi (inedito, dal punto di vista tipografico; ma incluso nell’antologia discografica della musica italiana curata da Aldo Valabrega, vol. II), si estende a poco a po-
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co per cosi dire a ritroso, e dalla fine delTatto, che è la sua posizione naturale, finisce per occuparne in verità la piu gran parte, sempre piu risalendo all’indietro. Nei capola vori di Mozart, per l’appunto, assisteremo talvolta ad esempi in cui un atto d’opera contiene pochissimi recita tivi e arie iniziali, poi inizia il Finale, ancor prima della metà dell’Atto, e si sviluppa in un’enorme costruzione tea trale e dialogica continuamente variata, con personaggi che vanno e che vengono, gruppi contrapposti che si formano, si sciolgono o si modificano, con l’arrivo di nuovi perso naggi, col passaggio di personaggi dall’uno all’altro grup po. In breve, è la commedia: l’opera comica è divenuta commedia in musica. Proprio il librettista italiano di Mozart, Lorenzo Da Ponte, ha lasciato nelle sue divertenti taorfe (parte II) un’egregia definizione di questo nuovo tipo di Finale inte so come commedia dentro la commedia. «Questo Finale, che deve essere, per altro, intimamente connesso col ri manente dell’opera, è una spezie di commediola o di picciol dramma da sé, e richiede un novello intreccio ed un interesse straordinario. In questo principalmente deve brillare il genio del maestro di cappella, la forza de’ can tanti, il piu grande effetto del dramma. Il recitativo n’è escluso, si canta tutto, e trovar vi si deve ogni genere di canto: l’adagio, l’allegro, l’andante, l’amabile, l’armonio so, lo strepitoso, l’arcistrepitoso, lo strepitosissimo, con cui quasi sempre il suddetto finale si chiude». Tale sviluppo del concertato dialogante, che spesso va ad inserirsi anche fuori del Finale, o comunque lo antici pa di molto, dà luogo a una vera e propria terza epoca del la librettistica settecentesca, dopo la prima, severa e clas sicheggiante, di Apostolo Zeno, e dopo quella trionfale del Metastasio, tipica del melodramma settecentesco. Nell’ul timo terzo del secolo, all’incirca, si sviluppa in seno all’o pera comica questo tipo di libretto fittamente dialogato, tipo che non si può, come i due precedenti, mettere sotto l’insegna di un solo nome, e viene perciò ascritto, di so lito, a merito di Lorenzo Da Ponte, il quale ebbe la fortu na di incontrare sul suo cammino un Mozart. Ma forse il vero iniziatore di questo nuovo tipo, piu dinamico e viva-
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ce, di librettistica, fu l’abate Casti, verso il quale non ha limiti la maldicenza del Da Ponte nelle sue Memorie-, i suoi libretti furono musicati specialmente dal Paisiello (come quello, eccellente, di Re Teodoro), ma non ebbero la fortuna di dar luogo a capolavori musicali paragonabili al Don Giovanni o alle Nozze di Figaro. Una singolare testimonianza, per così dire e contrario, e perciò ancor piu preziosa, di questo cambiamento di rotta operato dalla librettistica dell’ultimo terzo del seco lo, ci viene dal Diario di un bisbetico gentiluomo scozzese, Lord Mount Edgcumbe, un patito del melodramma tra dizionale, di vecchio stampo, il quale così si lamentava: «La costruzione di questi libretti di nuova invenzione è radicalmente diversa da quella antica. Il dialogo, che si usava condurre avanti col recitativo e che nelle opere di Metastasio è spesso così bello e interessante, è ora sminuz zato (e reso inintelligibile, nel caso valesse la pena di ascol tarlo) in pezzi concertanti, ossia lunghe conversazioni can tate, che presentano una tediosa successione di motivi sconnessi, sempre mutevoli, che non hanno nulla da fare l’uno con l’altro; e se un’aria soddisfacente viene per un momento introdotta, su cui l’orecchio avrebbe piacere di indugiare, di sentirla modulata, variata e poi ripresa da capo, essa viene spezzata prima che ci sia stato tempo di comprenderla o di ascoltarla a sufficienza, con un’improv visa transizione verso un’altra melodia totalmente diffe rente, in altro tempo e in altro tono, e non ricorre più: co sicché nessuna impressione si può produrre, nessun ri cordo ne viene preservato»l. Non si potrebbe desiderare descrizione più perfetta, come un negativo fotografico, della trasformazione avve nuta nella librettistica dell’ultimo periodo settecentesco, quando l’opera comica a poco a poco sale nella pubblica reputazione, dimette i propri miserelli abiti musicali, e sempre più concorre nel favore pubblico, e soprattutto nella stima dei dotti, con la pomposa retorica dell’opera seria. Al principio del secolo, sebbene tutti gli operisti seri 1 Cit. in April fitzlyon, The libertine librettist. A biography of Mo zart's librettist Lorenzo Da Ponte, John Calder, London s. a.
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coltivassero pure l’opera comica, nessun musicista avrebbe mai potuto aspettarsi la fama solamente dall’opera comi ca: Alessandro Scarlatti, Leo, Feo, Vinci, Pergolesi, Jommelli, Traetta, Porpora, e Di Maio sono principalmente operisti seri che si divertono pure a scrivere opere comi che per le scene minori, ma il peso e l’accento della loro attività compositiva cade sull’opera seria. Nell’ultimo ter zo del secolo assistiamo al rovesciamento di questo rap porto. Piccinni, Paisiello e Cimarosa hanno scritto anch’essi numerose opere serie, ma la loro fortuna e la loro fama si fondano principalmente sull’opera comica. Al cul mine di questa parabola, di nobilitazione musicale dell’o pera comica, ci sta, insieme con gli Italiani or ora nomina ti, Mozart, con la sua immortale trilogia italiana: Le nozze di Figaro, Don Giovanni e Cosi fan tutte.
Capitolo secondo
La via teatrale di Mozart
Nell’immensa produzione di Mozart, che copre tutti i generi di musica in uso nel suo tempo, il settore teatrale può magari apparire scarso: una ventina di lavori a dir molto. Ma questo stato di cose è dovuto soltanto al picco lo numero di occasioni che a Mozart si presentarono di lavorare per il teatro, soprattutto finché Salisburgo, priva di un vero teatro d’opera, fu la sua residenza. Il desiderio suo, per contro, era continuamente rivolto al teatro, che egli anteponeva a qualunque altra attività della sua pro fessione. Nella carriera teatrale di Mozart noi dobbiamo distin guere il primo periodo, che giunge fino d&Idomeneo (1781), da quello delle ultime cinque opere: Dìe Entfiihrung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio, 1782), Nozze di Figaro (1786), Don Giovanni (1787), Cosi fan tutte (1790), Die Zauberflote (Il flauto magico, 1791), alle quali va aggiunta, come un momentaneo passo indietro, verso consuetudini teatrali ormai superate, La clemenza di Tito (1791). Nelle opere precedenti al Ratto dal serraglio, come piu tardi, eccezionalmente, nella Clemenza di Tito, Mozart si attiene agli usi teatrali del suo tempo. La distinzione di opera comica e opera seria è netta e reale in lavori come La finta semplice (1769) e La finta giardiniera (1775) da una parte, o come Mitridate (1770), Lucio Siila (1772) e Idomeneo (1781) dall’altra. Il genio del musicista non fa che crescere, e neMTdomeneo è ormai pienamente spie gato. Quest’opera si può benissimo considerare come la più bella opera seria del Settecento, superiore a quelle di
LA VIA TEATRALE DI MOZART
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Handel, di Gluck o di Jommelli appunto di quanto il ge nio musicale di Mozart è superiore a quello di questi au tori. Tuttavia è un’opera del Settecento, ligia alle consue tudini del melodramma serio. Mozart vi si dimostra quel sommo genio musicale che è. Non ancora in possesso d’una sua personale concezione del teatro. Questa si svilupperà in lui dopo quella svolta determi nante della sua esistenza che fu l’abbandono del servizio salisburghese alla corte dell’Arcivescovo, e l’insediamen to a Vienna, col proposito di viverci liberamente della pro pria professione di clavicembalista e compositore. Fu qui che Mozart prese coscienza, secondo ogni evidenza, di quanto stava avvenendo nel melodramma italiano del tem po: la crescente nobilitazione musicale dell’opera comica, che la doveva portare ben presto a soverchiare il predomi nio dell’opera seria, grazie anche all’accoglimento di nuo vi contenuti, sentimentali, patetici e perfino tragici. Que sta nobilitazione avveniva attraverso l’accoglimento di soggetti letterariamente pregevoli (com’era stato indicato, nell’opera italiana, dalla Buona figliola di Piccinni su li bretto di Goldoni, dal Socrate immaginario di Paisiello, su libretto dell’Abate Galiani); attraverso il ricorso a can tanti di prim’ordine, capaci di affrontare difficoltà vocali inaccessibili ai modesti cantanti dell’opera buffa; attraver so il concorso d’un’orchestra di ampiezza e dignità sinfo nica, e ciò non solo per un materiale aumento del volume di suono, ma soprattutto per soddisfare le necessità di un più denso e articolato pensiero musicale. Questa complessa operazione storica, alla quale diede ro apporti non trascurabili operisti italiani come Piccinni, Paisiello e Cimarosa, trova tuttavia il suo completo coro namento nei tre capolavori che Mozart scrisse su libretti italiani di Lorenzo Da Ponte, letterato veneto apparte nente a quella razza di spregiudicati avventurieri settecen teschi, che ebbe in Casanova e Cagliostro i maggiori espo nenti, e a cui apparteneva pure, tutto sommato, il libret tista italiano di Gluck, Ranieri de’ Calzabigi. Non per nulla il primo prodotto della maturità teatrale di Mozart fu II ratto dal serraglio. Non si trattava di un’o pera vera e propria, interamente cantata da cima a fondo.
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
Apparteneva al genere del Singspiel tedesco, paragonabi le in certo senso all’operetta (o alla francese o péra-conti gue), perché vi si alternano parti recitate e parti cantate. Il Singspiel> coltivato tanto in Germania quanto a Vien na, era di origine relativamente recente, le sue strutture erano ancora deboli e fluttuanti, facilmente aperte a qual siasi iniziativa riformatrice. Mozart prese questo semplice genere di spettacolo popolare, fino allora privo di alte pretese artistiche, e lo investì d’una corrente di musica ad alto potenziale, che aveva la dignità sinfonica e la ricchez za delle sue migliori Sinfonie di quel tempo, per esempio la prorompente Haffner-Symphonie K. 385. L’opera ebbe un vivissimo successo, non più eguagliato, a Vienna, da nessuna delle opere mozartiane che seguirono, ancorché superiori. Si dice che l’imperatore Giuseppe II, nel com plimentarsi con Fautore, facesse all’opera un appunto: «Troppe note». Al che Mozart avrebbe immediatamente replicato: «Non una più del necessario, Maestà». L’osservazione del sovrano non è così sciocca come si potrebbe pensare. Molto probabilmente riflette in manie ra significativa un’impressione che dovette essere generale. Lo stupore, cioè, di sentire un genere teatrale sostanzial mente leggero, trattato con tanta imponenza di mezzi mu sicali. L’aneddoto può perciò valere egregiamente per fis sare schematicamente la natura della trasformazione a cui Mozart, nella sua raggiunta maturità teatrale, si accingeva ormai a sottoporre le forme di spettacolo con musica. Il prossimo passo, dopo aver lasciato traccia così impe riosa nella facile cera del Singspiel, era l’opera italiana, che con la sua tradizione più che secolare, con la solidità delle sue strutture convenzionali, collaudate in migliaia e mi gliaia d’esemplari, presentava problemi ben più difficili. Quale opera italiana? l’opera seria o l’opera comica? Il punto di partenza di Mozart fu l’opera comica, con le sue strutture, le sue forme e le sue convenzioni. Si potrebbe quasi dire che il punto d’arrivo fu (soprattutto nel Don Giovanni) un nuovo tipo di opera seria: tale per la digni tà musicale e anche per l’altezza dei soggetti letterari, ma gratificata invece di tutta quella leggerezza spiritosa, di
LA VIA TEATRALE DI MOZART
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quella vivacità danzante, di quella duttilità della musica nel seguire gli sviluppi drammatici dell’azione, che era prerogativa dell’opera buffa, e che faceva lamentevolmen te difetto nelle paludate forme dell’opera seria. La prima precauzione che Mozart volle prendere fu quella d’assicu rarsi un soggetto di elevato valore teatrale e letterario, col ricorso alla seconda commedia della trilogia di Beaumar chais. Ma prima di venire alle origini delle Nozze di Figaro, conviene soffermarci ancora brevemente sul periodo di composizione del Ratto dal serraglio, per trarne qualche preziosa informazione sulla poetica teatrale di Mozart e sui suoi rapporti con la riforma teatrale di Gluck. Durante la composizione del Ratto dal serraglio a Vien na Mozart corrispondeva di continuo col padre, Leopoldo, ch’era stato il suo maestro, ed ora aveva dovuto rimanere a Salisburgo al servizio dell’Arcivescovo. A lui Wolfango riferiva i progressi della composizione con devozione filia le, ma anche con la confidenza professionale e tecnica che si può avere tra colleghi. Il padre di Mozart era infatti un eccellente musicista, e nei viaggi compiuti in tutta Europa col figlio bambino aveva anche potuto allargare un poco l’orizzonte provinciale delle sue cognizioni musicali. Una delle lettere che Mozart gli indirizza durante la composi zione del Ratto getta una luce preziosa sul rapporto del nostro musicista con la riforma teatrale che Gluck aveva in quegli anni imposto all’attenzione, prima sulle scene di Vienna, poi su quelle di'Parigi. Conosceva Mozart le opere maggiori di Gluck? Certa mente, almeno quelle composte a Vienna, Orfeo ed Euri dice e Alceste, Risulta che considerava quest’ultima supe riore ad ogni altra. Ricettivo com’era a tutte le esperienze musicali nuove di cui venisse in contatto, subì Mozart l’in fluenza di Gluck? Pochissimo, per la verità, anche perché raramente gli accadde di misurarsi col genere dell’opera se ria, che era il terreno di Gluck. I giovanili Mitridate e Lu cio Siila sono opere serie italiane, di stampo metastasiano, anteriori alla presa di coscienza dell’esperienza gluckiana. Risulta che, trovatosi a Parigi nel 1778, quando divampa va colà la polemica artistica tra gluckisti e piccinnisti, Mo zart, in preda a una violenta crisi sentimentale, si disin
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teressò totalmente della querelle musicale che divideva gli animi dei Parigini. I conti con Gluck, Mozart li fece evidentemente nel susseguente periodo di stasi salisburghese, e il risultato ne fu VIdomeneo. Quest’opera segna, più per contrassegni esteriori che per intrinseca concezione musicale e dram matica, il massimo accostamento di Mozart al promotore della riforma nel melodramma settecentesco. Per la co piosa ricchezza e la felicità e l’altezza delle idee musicali si potrebbe arrischiare il paradosso che VIdomeneo sia la più bella opera di Gluck. Ma praticamente Mozart non si mise sulla via di Gluck, che consisteva nel proposito di riformare l’opera seria, ri pulendola dei suoi abusi. Mozart segui invece il corso natu rale delle cose, che portava a individuare nella freschezza dell’opera comica il rimedio ai mali dell’opera seria. Nella lettera scritta al padre il 26 settembre 1781, Mozart rac conta come si sia regolato per scrivere la prima aria di Osmino. Questo eunuco, guardiano del serraglio dove è stata trafugata Costanza, sposa del gentiluomo Belmonte, insieme alla sua servetta Biondine, è un personaggio ple torico e truculento, che sempre sbraita, strepita e minac cia. Pur sotto il profilo comico, vuol essere un personag gio eccessivo, esorbitante, di intenso colorito drammatico, anche se caricaturale. Ora, ecco come Mozart ha procedu to per la sua aria. «La collera d’Osmino vien portata al comico perché la musica turca è adattata alla circostanza... Una persona accesa da collera cosi viva trapassa ordine, misura e, mira; non si riconosce più e cosi non bisogna ri conoscere.nemmeno la musica. Ma poiché le passioni an che violente non devono mai arrivare fino al disgusto, cosi pure la musica, anche nel momento più terribile, non deve mai offendere l’orecchio, ma sempre far godere e rima nere sempre musica». Si aggiùnga à questa importante dichiarazione l’altra che Mozart scriveva al padre pochi giorni dopo, il 13 ot tobre 1781 : « Io non so, ma in un’opera la poesia deve es sere assolutamente la figlia devota della musica». Siamo esattamente agli antipodi della concezione di Gluck, il quale, quattordici anni prima, nella prefazione dell\4Zce5te
LA VIA TEATRALE DI MOZART
17 aveva riecheggiato i principi dei fondatori fiorentini del melodramma affermando di aver voluto « restringere la musica al suo vero ufficio di servire la poesia per l’espres sione». E siamo agli antipodi di quelle tendenze che Sten dhal divinava con straordinaria tempestività, quando av vertiva che se in musica «on sacrifie à quelque autre vue le plaisir physique qu’elle doit nous donner avant tout, ce qu’on entend n’est plus de la musique; c’est un bruit qui vient offenser notre oreille sous prétexte d’émouvoir notte àme». Si presenta qui veramente una linea di displu vio tra una concezione apollinea e festiva, tipicamente ita liana, dell’opera in musica, e la concezione drammatica e dionisiaca, che dal romanticismo evolve verso le esaspe razioni del verismo e poi dell’espressionismo, trascinando con sé anche larghi strati dell’opera italiana, da Verdi al verismo. (Sebbene di quest’ultimo si potrebbe proprio tentare una definizione sulla base della formula stendhaliana, descrivendolo come un tipo d’opera musicale che vuole, si, «émouvoir notre àme», ma evitando possibil mente di «offenser notre oreille», e anzi cercando di con tinuare a blandirla e lusingarla).
Capitolo terzo
Origine dell’opera. Rapporti con la commedia di Beaumarchais
La scelta del soggetto per Le nozze di Figaro fu dovuta al musicista, per dichiarazione esplicita dello stesso Da Ponte, che pure cerca sempre, nelle sue Memorie, di attri buirsi la maggior parte possibile di merito dei capolavori mozartiani. Era una scelta assai aggiornata e alla moda, tale da stupire in Mozart,.che non si teneva particolarmen te al corrente delle novità letterarie: una scelta paragona bile a quella di chi oggi ponesse in musica un dramma di Sartre o di Camus, per non dire addirittura un lavoro di Beckett. Le mariage de Figaro, seconda commedia della trilogia in cui Beaumarchais aveva voluto contrapporre all’inetti tudine e ai vizi dell’aristocrazia e del clero l’intraprenden za del terzo stato, era andata in scena a Parigi soltanto il 27 aprile 1784, sebbene fosse terminata da anni. Presen tata al re Luigi XVI nel 1781, ne aveva suscitato lo sde gno. «Cela est detestable, cela ne sera jamais joué», aveva sentenziato il re. Poi aveva dovuto cedere alla crescente pressione dell’opinione pubblica, degli intellettuali, dei letterati e della gente di mondo, che avendo avuto occa sione di leggere il lavoro, ne volevano ad ogni costo la pubblica rappresentazione. Questa ebbe quindi luogo, co me s’è detto, il 27 aprile 1784, nove anni dopo la prima commedia della trilogia, Le barbier de Seville (1775). La terza parte, La mère coupable, verrà rappresentata nel 1792, con successo di gran lunga inferiore a quello delle due precedenti. Per contro, il successo che il pubblico aristocratico de cretò al Mariage de Figaro, fu trionfale. Gli oggetti stessi
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della satira politica e sociale del Beaumarchais si diverti vano un mondo alla denuncia dei loro difetti, e si spel lavano le mani ad applaudire, secondo una meccanica del successo che si ripete anche nel nostro tempo con la for tuna del teatro di Brecht presso pubblici di estrazione ca pitalistica e borghese. Più tardi Napoleone ebbe a dire del Figaro di Beaumarchais‘che in esso c’è «la revolution déjà en action». Pur essendo furibondo contro il proprio Arcivescovo, Mozart non era impegnato in alcuna polemica contro i ceti dominanti, né, d’altra parte, era specialmente al corrente della nuova letteratura francese, sicché la sua determina zione di mettere in musica la seconda commedia di Beau marchais non manca di stupire. È probabile che egli vi fosse mosso da informazioni ed esperienze di natura mu sicale, operistica: e precisamente dal successo che andava riportando II barbiere di Siviglia composto da Paisiello nel 1782. Nelle sue Memorie Lorenzo Da Ponte attribuisce a sé tutto il merito delle manovre messe in atto per superare l’opposizione di Giuseppe II e dei suoi funzionari teatrali, ed è probabile che le cose siano proprio andate a quel mo do. Dovendo ovviamente restringere il tessuto verbale del la commedia, per far posto alla maggior durata del canto, egli assicurò il sovrano che quest’opera di sfrondamento avrebbe fatto cadere le punte più audaci della polemica po litica di Beaumarchais. E così fu. Oltre a serrare insieme il terzo e il quarto atto della commedia francese (che ne ha cinque, mentre l’opera ne ha quattro), Da Ponte lasciò ca dere il celebre monologo dell’ultimo Atto in cui Figaro, attendendo in giardino che la Contessa scenda per il pro messo appuntamento notturno, rievoca le tappe della sua vita di popolano, costretto a farsi largo tra le ingiustizie sociali, i soprusi e i privilegi altrui. In luogo di questa ti rata fortemente rivendicativa, Da Ponte assegnò a Figaro alcune strofe di convenzionale satira contro le donne, e queste fornirono del resto il destro a Mozart per una straordinaria realizzazione musicale. Quasi a compenso di questa castrazione politica opera ta nell’ultimo Atto, Da Ponte inserì nel primo la rabbiosa
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Cavatina di Figaro «Se vuol ballare, signor Contino»: un sarcastico ed iroso invito alla danza che Figaro immagina di rivolgere al padrone, quando ha notizia delle attenzioni un po’ troppo confidenziali ch’egli rivolge alla sua futura sposa, Susanna. In fondo è questo l’unico caso in cui Fi garo, nell’opera, appare avversario del suo padrone, e del resto, assai piu a titolo personale, che in nome di una classe. Per contro, altre ovvie trasformazioni avvenute nel pas saggio dalla commedia all’opera sono l’accentuazione dei tratti comici, da opera buffa, nel gruppo dei personaggi minori (Don Bartolo, Marcellina, Don Basilio, Antonio il giardiniere) e il maggior rilievo attribuito alla Contessa, quella Rosina che nel Barbiere avevamo conosciuta come vivacissima e furba ragazza, e che ora ci si presenta col fa scino di una bella donna sulla soglia dell’età matura, tra scurata dal marito, che dopo avere messo in moto tante astuzie per sottrarla al tutore Bartolo, ora corre dietro a facili avventure ancillari e contadine. (La differenza cro nologica tra il Barbiere e le Nozze di Figaro è un problema sottile, che non si può risolvere con l’aritmetica del calen dario: per il personaggio della Contessa si direbbe che so no passati almeno una quindicina d’anni, e supponendo che ne avesse diciotto allora, ora ne abbia alquanto piu di trenta; d’altra parte Figaro ci appare tuttora come un bal do giovane che va a nozze, ricco si d’esperienza, ma non troppo più vecchio della sua Susanna, che d’esperienza ne ha pure la sua parte; e personaggi come Bartolo e Marcel lina dovrebbero essere decrepiti, se la Contessa fosse già sulla soglia della quarantina). Dovuta alla prudenza di Da Ponte, l’attenuazione del contenuto politico della commedia corrispondeva anche al poco gusto di Mozart per problemi di quella sorte. Egli spoglia perciò la trama di gran parte della sua «attualità», per portarla in quell’eterno sempre valido dove vivono i capolavori. Osserva giustamente l’Abert, sulla cui opera ci fonderemo spesso, che Mozart, senza propositi né politi ci né moralistici, intaglia personaggi «nei quali, libero da ogni patos morale, come anche dalle accidentalità del quo tidiano, si rispecchia un aspetto dell’eterna ricchezza di
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vita dell’uomo, visto in una luce di superiore umorismo ironico». Li per lì può sembrare sconcertante la definizio ne di ironia, considerando il calore d’affettuoso compati mento per le creature, di cui è permeata l’opera mozartia na; ma vedremo poco oltre in quale senso assai fine, e anzi, proprio consentaneo a questa nozione di compatimento, l’Abert intenda la sua affermazione. Certo, Da Ponte ha sottratto a Figaro le insegne di al fiere del terzo stato, e l’ha ricacciato nella schiera dei soliti servitori di commedia, da cui Beaumarchais l’aveva eleva to. Peccato. Ma Mozart che ne ha fatto? «Certo, non un politico raziocinante, ma nemmeno uno scaltro servo d’o pera buffa, bensì un personaggio vitalissimo e senza ma schera, con un’anima ben complessa, in cui si mescolano singolarmente la gioia di vivere col sangue caldo e ogni sorta di stizzosa impulsività». Così gli altri personaggi. «Essi non sono esponenti di singole qualità o idee, da cui debba derivare per logica ne cessità questa o quella maniera di comportamento». Os serviamo di passata, per contrasto, che questo sarà invece il caso del Flauto magico, ultima opera di Mozart, singola re fiaba popolare, quasi infantile, e d’altra parte gnomica, dotata d’intenti educativi di edificazione laica; perciò la sua forza artistica si fonda su tutt’altre ragioni che il rea lismo psicologico dei tre capolavori italiani di Mozart. Ma, continua l’Abert, i personaggi delle Nozze di Figaro sono «miscugli individuali di vitali forze dell’anima, che si ma nifestano come qualità o azioni. Di qui la loro ricchezza, la loro originalità e verità vitale: essi non determinano nulla, non dimostrano nulla, operano solo attraverso la pienezza di vita immediata che da loro s’irraggia». In una parola, potremmo designare come «concretezza», concre tezza drammatica e psicologica, questa caratteristica che giustamente l’Abert sottolinea nei personaggi mozartiani. La commedia di Beaumarchais è una tipica commedia d’intrigo, fondata su quel che si dice il comico di posizio ne, piu che sul comico di carattere. L’arte dell’imbroglio ne è la sostanza, e mostra i fini particolari di tanti perso naggi che s’intricano gli uni cori gli altri in una fittissima rete d’interessi, d’azioni e reazioni. L’intrigo, in sé e per
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sé, cosi come si viene annodando nei casi dell’azione, non interessa molto Mozart, che lo devolve per lo più alle ra pide battute di recitativo secco. Ma l’intrigo ha per effetto di porre i personaggi in perpetuo movimento, e ciò per mette loro di spiegare sempre nuovi aspetti del loro ca rattere, ben diversamente dalla staticità psicologica dei ti pi fissi nella vecchia opera buffa, consacrati nella stessa terminologia delle attribuzioni teatrali di primo amoroso, prima donna, madre nobile, basso comico, caratterista, tenore di grazia, tenore eroico, e via categorizzando in una galleria di tipi prefabbricati, entro i quali doveva per forza calarsi, o si calava per abitudine, l’invenzione di librettisti e compositori. Le figure di Mozart, invece, hanno la mobilità cangiante e imprevedibile della vita. Sappiamo quale enorme conqui sta sia stata, durante la seconda metà del Settecento, sia nel campo della musica teatrale, sia in quella strumentale, la cosiddetta espressione degli affetti spezzati. È stato pro prio l’Abert quello che ne ha meglio illustrato la apparizio ne precoce nella musica di Mozart, differenziandola da quella del periodo Corelli-Bach-Hàndel-Vivaldi, nella qua le, com’egli scrive, «non viene mai abbordata una nuova Stimmung, prima che la precedente non sia stata intera mente esaurita». Basta pensare a un’aria della 'Passione secondo san Matteo, saldamente intagliata come nel bron zo di un’espressione costante, e a un’aria di Cherubino o della Contessa, tutta cangiante nel suo mobile trascolora re di sentimenti diversi, di desideri e di rimorsi, di volut tà e di pentimento, di umanissime contraddizioni, per ren dersi conto di quel che è successo nella musica dalla prima alla seconda metà del secolo dei lumi, che fu pure, non dimentichiamolo, il secolo della sensibilità. Quel movimento perpetuo in cui il meccanismo dell’in trigo getta l’azione e sospinge i personaggi delle Nozze è la essenza stessa, la natura specifica della musica, arte, co me nessun’altra, di movimento. La musica diventa perciò la materia in cui si sostanzia la vita dei personaggi. Da che cosa è generato questo movimento perpetuo? Ogni movimento presuppone una forza che lo produca. Qual è nel nostro caso questa forza? Giustamente l’Abert
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vede nell’amore la «vera forza motrice di tutta la comme dia». L’amore come «pura forza di natura, che nella mescolanza con altri impulsi nelle singole persone mostra sempre nuove facce del proprio essere fondamentale». Nélla Contessa, mescolandosi con rassegnazione, dà auten tica grandezza. In Cherubino ancora quasi non esce dallo stadio dèi sogno e dell’inconscio, che lascia aperte tutte le possibilità etiche. Opera bufa e commedia. Comicità, satira e ironia. Eduard Hanslick e Hermann Abert. Ne/nasce perciò un diverso tipo di comicità da quello dell’opera buffa. Nel precisarne i rispettivi caratteri, l’A bert si propone evidentemente una risposta implicita a Eduard Hanslick, il grande critico viennese fautore di Brahms, che aveva seguito attentamente la vita musicale e teatrale nella seconda metà dell’ottocento, e costituiva pur sempre un’autorità nel tempo in cui Abert redigeva il suo radicale rifacimento della biografia mozartiana di Otto Jahn, cioè nel 1920-21. Ora si dà il caso che lo Hanslick, osservatore attentissimo, ma non particolarmente te nero, degli sviluppi dell’opera italiana, nel suo saggio su Mozart \ giudicando, com’egli era solito fare, per catego rie prestabilite di generi artistici, considerasse Le nozze di Figaro dal punto di vista dell’opera comica italiana, e tro vasse qualche difficoltà a farcelo perfettamente rientrare. Pervenendo cosi a questa sorprendente conclusione: «Se si riconosce che tratto fondamentale dell’opera buffa, anzi suo autentico polso vitale sia il pieno tono d’una sovrana serenità, una comicità che spara un colpo dopo l’altro, un ritmo alato, allora bisogna anche confessare che questo polso batte piu veloce e allegro nel primo Finale del Bar biere di Rossini, che non nei concertati delle Nozze. Que sto Finale del Figaro rossiniano è l’ideale di una musica della compenetrazione», (Cioè, intende Hanslick, della dialogicità tra i personaggi). In Die moderne Oper, Berlin 1880.
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Tutto ligio a certi suoi cliches tradizionali - musica italiana fatta di vivacità superficiale, musica tedesca fatta di approfondimento lirico - lo Hanslick sottovaluta in spiegabilmente i concertati mozartiani, affermando perfi no che siano scarsi di numero e d’estensione in confronto alle arie solistiche (e nega cosi un dato di fatto statistico inoppugnabile). Tutto ciò per potere arrivare alla conclu sione che «il Figaro mozartiano ci appare assai piu come l’ideale di una musica perfettamente bella, che non di una eminente opera comica». Secondo la convenzionale opi nione della celestiale dolcezza mozartiana, lo Hanslick ri tiene di potere affermare che «il sentimento tedesco di Mozart preferiva mitigare gli elementi buffi, e preferiva quelli tranquilli, sentimentali». In altri termini, giudicando dal punto di vista di ciò ch’egli chiama il derbkomisch^ cioè la comicità cruda, sfre nata e brillante dell’opera buffa, Le nozze di Figaro paiono a Eduard Hanslick inferiori al Barbiere di Siviglia. È cu rioso che una giusta osservazione da lui avanzata circa i personaggi minori dell’opera non gli abbia aperto gli occhi sul fatto capitale che Le nozze di Figaro non sono, o non sono soltanto, una farsesca opera buffa all’italiana, bensì un teatro di così alta concezione che tutte le vecchie cate gorie, di serio e di comico, di commedia e di tragedia, si spuntano contro la sua natura artistica di assoluta auten ticità, non imprigionabile nelle formule di generi presta biliti. Lo Hanslick osserva infatti che i personaggi mino ri, specialmente Don Bartolo e Don Basilio, sono nell’ope ra rossiniana «personaggi di intramontabile comicità e stanno nel centro dell’azione», mentre nelle Nozze di Fi garo presentano una certa staticità. Essi soli, Don Bartolo e Basilio, insieme con Marcellina «rappresentano l’ele mento derbkomisch nelle Nozze; drammaticamente insi gnificanti, anzi, quasi d’intralcio, essi sono anche musicalmente mediocremente concepiti; e non è una gran perdi ta che in quasi tutti i teatri le loro arie vengano omes se». L’Abert non nomina lo Hanslick, ma doveva avere in mente i suoi equivoci quando tracciò una definizione della diversa comicità di Mozart rispetto all’opera buffa, attri
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buendo rispettivamente alla prima il carattere dell’ironia romantica e alla seconda quello di una classicistica satira. «Essa - egli scrive a proposito della comicità mozartiana è la conseguenza naturale del suo atteggiamento affatto di verso di fronte alla materia. Non poteva certo essere suo scopo superare ad ogni costo la pazzia e la vivacità degli Italiani... A nessuno di questi autori sarebbe mai venuto in mente di mettersi in qualche modo sullo stesso piano con le sue creature. Essi si spacciavano per autori satirici, cioè mostravano soltanto i difetti degli altri, dai quali essi stessi erano e si ritenevano immuni. Mozart invece ha me scolato a questo genere di comicità un tratto ben più fine. Certo, per quanto riguarda i personaggi minori Bartolo, Marcellina e Basilio, anch’egli si avvicina alquanto al me tro dell’opera buffa, pur senza lasciarsi fiaccare la libertà dei caratteri dalla caricatura. Egli ne tratteggia le persone come acuto, ma sostanzialmente impartecipe osservatore, le loro debolezze non le prende su se stesso. In tutt’altro modo si comporta invece coi personaggi principali, e cioè ironicamente, non satiricamente. Partecipa personalmen te alle loro gioie e sofferenze, trattandole come traversie proprie, anche se le rappresenta da un punto di vista che, certo, è assai più alto della loro sfera. Questa capacità lo distingue fondamentalmente dal mondo dell’opera buffa, che muove i suoi personaggi qua e là come pedine di scac chiera, senz’alcuna compassione, unicamente per amore dei risultati esterni; conseguenza naturale è pertanto anche un’affatto diversa posizione dello spettatore verso l’opera d’arte. Anch’egli viene attirato nella sfera della compas sione, da questo umorismo finemente ironico, in modo affatto diverso che là dove si fa appello soltanto al suo gusto per l’intrigo e ai muscoli del riso». Dall’esperto meccanismo teatrale della commedia di Beaumarchais non v’è dubbio che Le nozze di Figaro deri vino una solidità ed efficienza d’impianto scenico quale non si riscontra nel libretto, un po’ squinternato, del Don Giovanni, né in quello un po’ gracile di Cosi fan tutte. Per non parlare del livello di fiaba popolare a cui si at tiene la trama del Flauto magico. Eppure è singolare, e vai la pena d’essere ricordato, che proprio questa perfe
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zione di tecnica teatrale potè essere sentita da qualcuno come un difetto. Nella sua costante polemica contro il realismo prosaico del melodramma verista, a favore di un’opera intesa co me gioco e favola, Busoni (che, manco a dirlo, vedeva nel Flauto magico «l’opera per antonomasia») appoggiava la propria requisitoria contro opere come Tosca e La tra viata, dedotte da lavori teatrali autosufficienti, il cui testo «è comprensibile e completo senza musica», sopra una critica del 1803 ripresa dallo Allgemerne Musikalische Anzeiger di Tobias Haslinger nel 1839: «Rielaborare una commedia d’intreccio per un’opera non è certo un’idea felice, anzi si può dire che con la natura stessa dell’opera contrasta assolutamente. Nella commedia La folle tour née Beaumarchais ci offre eccellenti bonmots, battute a doppio senso e situazioni scenicamente efficaci e drammati camente attraenti, nel migliore dei modi; ma per la musi ca non ha fatto nulla; al contrario anzi le ha quasi chiuso la strada, modellando il suo argomento in un tutto chiuso in sé, unilateralmente sagace e satiricamente equivoco, che alla musica non si addice in alcun modo. Mozart prese questo soggetto forse solo perché non ne aveva alcun al tro sottomano che, come questo, portasse già nel titolo i segni della celebrità, e poteva tentare senza paura perché trovare qualche cosa che fosse impossibile a un genio come il suo non era facile». Busoni, che considera una «mostruosità» aver messo in musica drammi compiuti in sé come Tosca e La dame aux camélias, aderisce con entusiasmo alla singolare opi nione dell’ignoto recensore e si appropria delle espressio ni «commedia d’intreccio», «opera d’intreccio», applica te alle Nozze di Figaro per sottintenderne una pretesa re frattarietà al rivestimento musicale1. Questo punto di vista paradossale va ricondotto alle cir costanze storiche della polemica busoniana contro il melo dramma convenzionale. Spuntato della sua insostenibile 1 F. busoni, Abbozzo di un’introduzione alla partitura del «Dottor Faust» con alcune considerazioni sulle possibilità dell’opera, in Lo sguar do lieto, Il Saggiatore, Milano 1977, p. 123 e nota.
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asprezza negativa, esso può servire benissimo a individua re le ragioni specifiche della grandezza mozartiana nelle Nozze di Figaro e la loro singolarità all’interno dei suoi cinque capolavori teatrali, che a livello di una pari perfe zione si articolano tuttavia in altrettante fisionomie diffe renti e inconfondibili, senz’ombra di ripetizione d’un me desimo stampo. L’individualità delle Nozze di Figaro sta proprio nell’efficienza teatrale che loro viene dal geniale mestiere di Beaumarchais, e si può anche ammettere che in un certo senso questa autosufficiente perfezione teatra le dell’originale costituisse una difficoltà, se non un osta colo, per il compositore. Ma l’elogio che Busoni altrove tributa al Don Giovanni, d’essere un «capolavoro di fusio ne tra testo e musica», va ripetuto pari pari per Le nozze di Figaro, con tanto maggior merito in ragione, appunto, della minore permeabilità musicale che la commedia fran cese presentava, essendo già di per sé una completa riu scita teatrale.
Capitolo quarto Il primo Atto dell’opera
OUVERTURE.
Presto, re maggiore, 4/4 alla breve.
Com’era abitudine di Mozart, fu composta per ultima, e rispecchia in certo modo come una sintesi tutto il senso dell’opera. Ma, a differenza delle ouvertures per II ratto dal serraglio e per Don Giovanni, non contiene nessuna citazione tematica dell’opera stessa. Eppure vi si riferisce in modo strettissimo. Non sarebbe possibile scambiarla per una di quelle ouvertures rossiniane, che si potevano tranquillamente spostare da un’opera all’altra, come fu il caso per quella del Barbiere, e che non svolgevano altra funzione se non quella di un allegro e vigoroso avverti mento che lo spettacolo stava per cominciare. Questa è, senza possibilità di dubbio, l’ouverture «per Le nozze di Figaro». Molti vogliono che nella sua verti ginosa vivacità, quasi di girotondo impazzito, essa rispec chi il sottotitolo della commedia, che si chiama Le mariage de Figaro ou la folle journée. Perché no? L’Abert non accetta questa interpretazione, ma in realtà quella che egli propone non contrasta affatto con l’idea di una pazza giornata in cui i nodi vengono al pettine e un gruppo di persone si trovano trascinate in una frenetica sarabanda di casi risolutivi. Certo, non bisogna cercare nell’ouverture nessun rife rimento preciso né a momenti, né a personaggi, né tanto meno a temi dell’opera. «Mai prima né dopo - scrive l’Abert - è stato messo in musica con tanta immediatez za il naturale, sfrenato impulso vitale nel suo aspetto se reno, di gioia dell’esistenza. Tutto è movimento alla piu
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alta potenza in questo pezzo... È un’apoteosi dello sfre nato, lieto Lehensdrang, quale non si può immaginare piu trascinante». Se si ricorda quanto abbiamo detto sul ca rattere di commedia di intrigo che questo soggetto rive ste, e sulla funzione che l’imbroglio vi svolge, come puro movimento vitale, è facile vedere in che senso l’ouverture prefiguri e compendi il significato stesso dell’opera. Che questa apoteosi del movimento fosse uno scopo preciso del compositore è fuor di dubbio. Mozart aveva infatti iniziato a comporre, a metà dell’ouverture, un «Andante con moto», in tempo di siciliana in 6/8, per interporre un episodio lirico e cantabile, come avviene nella ouverture per II ratto dal serraglio. Poi lo strappò via (e ce ne rimane l’abbozzo), improvvisamente convin to della necessità di un movimento incessante, senza in terruzione, e rimase cosi soltanto il «Presto», in tèmpo tagliato, con la fuga sfrenata delle quartine di crome degli archi, su cui si levano le fanfare dei fiati. L’ouverture delle Nozze di Figaro è perciò rimasta il prototipo d’una specie di ouverture velocissima, a pancia a terra, che ha le sue continuazioni piu illustri nella ouverture di Bee thoven per il balletto Le creature di Prometeo e in quella di Smetana per La sposa venduta. È in forma d’allegro di sonata senza Durchfuhrung, cioè senza sviluppo: l’esposizione e la ripresa si fronteg giano specularmente, come in una vecchia Sonata alla Scarlatti, ma le relazioni tonali fra i temi, e fra esposizione e ripresa, sono quelle della Sonata bitematica. Due sono i temi principali; il primo è appunto quello della corsa di quartine di crome con risposta di fanfara, ed è ripetuto, poi conchiuso da scale discendenti e da rimbalzanti affer mazioni della tonica (re maggiore) nei bassi e poi all’acuto, finché il discorso si arresta all’unisono sulla dominante (la maggiore). In questo nuovo tono appare il secondo tema, introdotto da un sussurro decrescente delle viole e dei violini secondi, su cui i violini primi posano una figu ra cromatica di due note, curiosamente statica, ma tosto sbloccata e sprigionata in un rapido guizzo ascendente di biscrome. Poi, su una breve figura arpeggiata dei primi violini, appoggiata a ogni ultima nota da un accordo for-
LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO» 30 te di tutta l’orchestra, questo secondo tema piglia un an damento laborioso, quasi come uno sviluppo, ma esce da queste angustie con una gioviale e vigorosa figura ascen dente dei bassi, che s’avventa tre volte nel frastuono stre pitoso dell’orchestra, e poi riprende piano ai violini otte nendo brevissime risposte dei legni. Alla battuta 108, sem pre in la maggiore, i fagotti avviano una frase conclusiva discendente, cui si associano tosto i violini con una vivace terzina di semicrome, e la ronda di quartine riprende ve locissima, andando a cascare, con un elegante svolazzo dei violini soli, sulla ripresa (battuta 139), in re maggiore. In questo tono apparirà ora anche il secondo tema (battuta 172), poi la ripresa sbocca (battuta 236) in una «coda» vertiginosa che sottopone le quartine di crome a un cre scendo e conclude forte le ribadite e rimbalzanti afferma zioni della tonica conclusiva.
SCENA PRIMA.
N. i. Duettino (Figaro, Susanna). Allegro, sol maggiore, 4/4.
Prima di passare all’esame del primo Atto, si osservi che esso presenta due tipi di suddivisione, una, per così dire, teatrale in Scene, e una musicale, in singoli pezzi (arie, duetti, terzetti, recitativi, finali), divisioni che non coin cidono, né presentano un rapporto costante: per lo più la Scena è più estesa che il singolo pezzo musicale, e può contenerne più d’uno, come avviene per i due duettini iniziali, n. 1 e n. 2, che insieme ai recitativi che li seguono costituiscono la prima Scena. Ma organismi musicali gi ganteschi, come il Finale secondo, vedremo che contengo no in sé numerose Scene. Appena terminata l’ouverture, comincia in sol maggio re, cioè alla sotto dominante di quella, il primo duettino tra Susanna, soprano, e Figaro, basso. «Il teatro rappre senta una camera, mezzo smobiliata, con un seggiolone in mezzo, Figaro misura il pavimento. Susanna, davanti ad uno specchio, s’aggiusta in testa un cappellino». Il tempo è Allegro, in 4/4. Inizio in medias res, senza preamboli. Una figura d’accompagnamento convenzionale (il cosiddet-
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to basso albertino) nei secondi violini stabilisce un senso di continuità (con un passato precedente al levar del sipa rio), come se Figaro e Susanna fossero colti in un momen to qualsiasi della loro giornata. I loro gesti si suppongono già avviati da un tempo anteriore. Il violino primo, solo, inserisce sopra l’accompagnamento una figura semplicis sima: la dominante, cioè il re su cui era finita l’ouverture, ripetuta sei volte con una minima variazione di ritmo, poi la quinta superiore (la), e ritorno al re. A questa escursio ne di quinta nel primo violino corrisponde nei bassi una breve risposta ritmica. È questo il tema maschile (Figaro, affaccendato a misurare la stanza per collocarvi i mobili), cui segue tosto, con un timbro graziosamente miagolante, per la comparsa di flauti e oboi, la frase femminile, di mo vimento circolare, corrispondente a Susanna che si prova il cappellino davanti allo specchio. Tutto è movimento flui do e tranquillo in questo primo duettino, specialmente la frase maschile, su cui ben presto Figaro inserirà nulla piu che intervalli isolati, cioè coppie di note discendenti sulle sillabe delle parole: «Cinque... dieci... venti...», restando affidata all’orchestra la condotta della melodia. Invece Su sanna intona pienamente la «sua» melodia circolare, a pa ro con gli oboi. Figaro v’inserisce a poco a poco le sue nu meriche interiezioni, finché, costretto ad ammirare il cap pellino di Susanna, s’impossessa a sua volta della melodia di lei («Sì, mio core, or è piu bello»), e le due voci pro seguono poi intrecciandosi, mentre figurazioni di terzine passano dagli archi ai fiati (flauti, oboi, fagotti e corni) e l’orchestra aumenta di volume. È un quadretto di pace do mestica, ma pace nella vivacità, se così si può dire, di un movimento solerte e alacre. C’è la felicità, e nello stesso tempo la giovinezza impaziente dei due sposi. Recitativo.
Segue un breve recitativo, durante il quale Susanna avanza i primi dubbi sulla convenienza della camera nuzia le che a loro ha destinato il padrone, dubbi ch’ella chiarirà ben presto nel corso del duettino seguente. È un recita tivo secco, e dovrebbe pertanto essere accompagnato dal
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clavicembalo, come avveniva nell’opera buffa italiana, fino a Rossini. Invece i recitativi delle Nozze di Figaro si svol gono sopra lunghe note tenute dei bassi (violoncèllo e con trabbasso), che seguono docilmente la rapida recitazione intonata dei cantanti. I recitativi mozartiani sono certa mente stereotipati e convenzionali come quelli dell’opera buffa, pure non mancano d’una loro accurata finezza, sot tolineando abilmente con le cadenze il gioco delle rime e le battute abbastanza spiritose che Da Ponte v’infilava, in questo caso trapiantandole dalla commedia di Beaumar chais. Con le sue modulazioni il recitativo serve a prepa rare la nuova tonalità per il N. 2. Duettino (Susanna, Figaro). Allegro, si bemolle maggio re, 2/4.
È raro che un’opera cominci con due duetti consecuti vi dei medesimi personaggi: è una di quelle anomalie do vute all’origine di questo soggetto teatrale, non connessa con le consuetudini operistiche. Un librettista che avesse potuto operare di propria testa, senza obblighi verso un testo letterario illustre, mai avrebbe commesso una simi le stranezza. Ma Da Ponte e Mozart se ne tirano molto abilmente, dando un carattere ben diverso ai due duetti. Il primo, abbiamo visto, è tutto pace e intimità domesti ca; nel secondo questa liscia superficie viene corrugata e turbata dagli inserti drammatici dell’incipiente gelosia di Figaro. Il duettino è costituito da due sezioni, separate da un minuscolo recitativo. La prima sezione è tutta giocata so pra un vecchio artificio da opera buffa, l’intercalare «din, din», «don, don», che designa il campanello suonato dai padroni («din din» dalla Contessa per chiamare Susanna, «don don» dal Conte per chiamare Figaro). Figaro non aveva pensato che gli appelli potessero incrociarsi, e il Conte - don don - potesse arrivare in camera di Susanna, dopo avere spedito Figaro «tre miglia lontan». L’Allegro è una meraviglia di simmetria costruttiva, do ve il comico nasce dallo sviluppo inesorabile e intrinseco dell’idea musicale: i suoni onomatopeici - din din e don
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33 don - perdono ogni traccia di quella leziosaggine che spes so riesce fastidiosa in analoghi momenti di opere buffe ita liane, tanto sono incastonati necessariamente nell’impassibile sviluppo della frase, con le sue corrispondenze ine vitabili. All’inizio, il carattere di questo secondo duetto pare altrettanto spensierato che il primo, ma quando tocca a Susanna, essa porta la frase melodica in sol minore, il to no tragico per eccellenza del melodramma settecentesco, e per Mozart il tono dell’affanno, della passione, del lutto. Una sensazione di minaccia conturba la pace del duetti no, e l’umorismo nasce dalla tragicità del tono di sol mi nore posta a contatto con la frivolezza della melodia, che è pur sempre quella di prima. Come osserva l’Abert, più che temere realmente per sé, Susanna si diverte a eccitare la gelosia di Figaro, e la cosa le riesce a meraviglia. I suoi irridenti «din din» e «don don» si avvolgono con gli al larmati «pian pian» di Figaro in un crescendo che è ap punto il crescere dell’inquietudine di lui, e che resta so speso sulla dominante (fa) dell’orchestra. Qui dunque la rottura del recitativo brevissimo,, e poi dopo un’altra pausa lunga (punto coronato), la seconda parte del duetto, iniziata dall’ammonizione di Susanna: «Se udir brami il resto...» La frase è ripetuta e strascica ta, una pausa di un tempo e mezzo separando nettamente la ripetizione dalla prima enunciazione; e soprattutto, non c’è più alcun accompagnamento che faccia da struttura portante al discorso, la voce cammina sopra una severa ar monizzazione a guisa di corale, sicché, sebbene non sia intervenuto alcun cambiamento di tempo, per la lunga durata delle note si ha l’impressione d’un rallentamento minaccioso. Esso esprime l’ammonizione di Susanna, che rivela qui un tratto tipico del suo carattere: per quanto civetta, Susanna è orgogliosa, e il minimo sospetto sulla sua fedeltà la ferisce. Tutta la carica di ammonizione ac cumulata nella prima metà della frase si scarica nella viva cità pungente della seconda parte («discaccia i sospetti, che torto mi fan»), dove un’alacre figura di quartine di semicrome nei secondi violini viene a restituire al discor so tutto il suo movimento. La pantomima si ripete ora per la voce di Figaro, che
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«udir brama il resto»: uguale sensazione di rallentamen to minaccioso per la prima mezza frase, uguale risoluzione frettolosa per la seconda. Ancora una volta le simmetrie e le ripetizioni non sono un intralcio, ma anzi una necessità determinata dalla situazione e dal rapporto in cui si trova no i personaggi. A differenza del precedente duettino, che sorgendo su una situazione di quiete era di conseguenza prevalentemente statico, questo è in forma di aria doppia ( A - B), con una seconda sezione agitata, ormai ben lonta na dalla serenità deirinizio. Recitativo.
Il seguito delle spiegazioni Susanna lo fornisce allo spo so in questo recitativo secco, anch’esso appoggiato sulle lunghe note tenute di violoncello e contrabbasso. (Da no tare come in queste prime scene dell’opera, contrariamen te a tutte le usanze, il recitativo venga dopo le parti me lodiche, le quali non hanno paura di affrontare ex abrupto le situazioni dell’azione, senza preliminari).
SCENA SECONDA.
Recitativo.
Susanna esce, al suono di un campanello della Contessa, e termina cosi la Scena prima: criterio determinante della divisione teatrale per scene sono infatti le diverse presen ze dei personaggi. Rimasto solo, Figaro, «passeggiando con foco per la camera, e fregandosi le mani» \ dà inizio alla seconda Scena con un recitativo, questa volta un re citativo che precede e prepara l’aria seguente. Per di più, non è proprio un recitativo secco, bensì un recitativo mo deratamente accompagnato. Invece di limitarsi a tenere una lunga nota sempre uguale, violoncelli e contrabbassi variano un disegno prevalentemente discendente, caratte1 Questa didascalia c‘è nello spartito per canto e pianoforte, ed. Ri cordi. Manca nella partiturina Eulenburg.
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rizzato nel ritmo da una coppia di semicrome con due o piu crome. Tale disegno è intercalato alle frasi di Figaro, e queste posano pur sempre sopra una lunga nota tenuta. Ma quando Figaro si accalora immaginando i possibili stra tagemmi del Conte per allontanare lui e restar solo con Su sanna, allora le frasi vocali si fanno sempre piu brevi e col leriche e le inserzioni strumentali ravvicinate. Viene così preparato l’inizio del seguente N. 3. Cavatina (Figaro). Allegretto, fa maggiore, 3/4
È la prima aria solistica dell’opera, ed è affidata al pro tagonista. Ma non ha per nulla i caratteri di una «aria di sortita», per la buona ragione che il personaggio è già in scena da dieci minuti e oltre. Non che esaurire, perciò, la fisionomia del personaggio e le attitudini del cantante, ce lo mostra impegnato in una situazione particolare. Potreb be definirsi un’aria di collera, secondo le catalogazioni del melodramma settecentesco, o un’aria di vendetta: ma della vendetta esprime soltanto il proposito, e la collera è una collera repressa, soffocata, come quella di un inferiore verso un superiore, di un subordinato verso il padrone. È una collera mascherata sotto le apparenze di un invito alla danza: di qui, dal contrasto tra la collera che bolle sotto e la leggerezza del ritmo di danza, il sarcasmo della situa zione. Come scrive l’Abert, si mescolano il ritmo di danza e il risentimento drammatico, che alla fine resta padrone del campo. La forma è quella di un’aria col da capo in miniatura, ma singolarmente complessa e articolata, pur nel minusco lo formato delle strutture, e v’è una perfetta compenetra zione tra la forma musicale e il progresso dei sentimen ti del personaggio. Schematicamente si potrebbe rendere così: A (che contiene una prima e una seconda strofa con transizione drammatica in mezzo)-B- A (solo prima strofa). Nella prima strofa di A si ha soltanto l’invito alla dan1 Nello spartito per canto e pianoforte ed. Ricordi viene intitolata aria.
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za, puro e semplice: se non fosse per la vibrazione minac ciosa che la voce del cantante introduce nella ripetizione delPinvito («Se vuol ballare, signor Contino»), una terza più in alto, la musica non ci offrirebbe davvero nient’altro che un ritmo di danza. L’orchestra non fa nulla di più di quanto faccia la voce: si limita a raddoppiarla con terze e seste degli archi e dei corni (e certamente il loro timbro robusto equivale al digrignar dei denti con cui Figaro can ta l’invito), e l’appoggia sulle singole note pizzicate dei bassi. Da notare, però, che gli accordi dell’orchestra sono valori di croma staccati da una pausa equivalente; le note del canto, senza esser «legate», sono però semiminime sen za stacco tra l’una e l’altra. Si notino le ripetizioni di paro le che la musica introduce nelle snellissime strofe di qui nari del Da Ponte. Si leggano queste nella loro magrezza scheletrica e si ascolti l’aria: nonostante le sue ripetizio ni convenzionali, è l’aria cantata che brilla per realismo psicologico, mentre le strofette poetiche scivolano via sen za dir nulla, aspettando dalla musica la loro verità. Le ri petizioni di parole («il chitarrino le suonerò sì, le suonerò sì, le suonerò») sono il farneticamento di chi per collera sta perdendo le staffe. E perfino l’abusato monosillabo «sì», con cui la musica sconcia la regolarità metrica del verso, serve invece per due acuti minacciosi che «sforano» sulla normale tessitura del discorso di Figaro e ne tradi scono l’interna impazienza. Con la seconda strofa della prima parte dell’aria tutto si mette in moto, sotto la spinta del rovello di Figaro. La melodia vocale non è più così cerimoniosamente tornita in equilibrio statico di frasi che né molto scendono né mol to salgono. Ora, su «Se vuol venire Nella mia scuola La capriola Le insegnerò», Figaro non fa più tante storie: sono rozze frasi discendenti, che calano giù come botte, o come colpi di scure, e poi, nella ripetizione, esplodono più alto sotto forma d’un semplice intervallo di terza, ancora una volta ribadite dall’iroso acuto sul monosillabo «sì». E frattanto è tutta l’orchestra che si è messa in moto, riscotendosi dalla sua impassibile galanteria. Mentre i corni (e gli oboi) ribadiscono con ostinazione la tonica e la do minante, i violini introducono un tremolo inquieto e spez-
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37 zato, in cui ronza tutta la baruffa che sta per scoppiare; gli altri archi invece introducono e raddoppiano le frasi discendenti del cantante. Continuamente si alternano il piano e il forte: la trama sotterranea e lo scoppio d’ira. Ma non è ancora finita la disposizione prospettica dei pia ni orchestrali: i fagotti, che già fin dal primo duettino erano apparsi come Falter ego strumentale di Figaro, ora ne riprendono e completano le monche frasi discendenti. Quelle scendono, e loro vi rispondono con la medesima figura, per terze, ma in senso ascendente; poi (battute 2829), collegando e saldando insieme i due tronconi, ne ca vano una sussurrante figura circolare. Ha qui inizio la transizione drammatica. L’ira di Figaro sta per esplodere, e su rapide scale ascendenti dei violini, ogni volta smorzate nel «piano» di un tremolo, Figaro, quasi strozzato dall’ira, scaglia le sue minacce: «Saprò... saprò...» Cinque volte la parola viene pronunciata, sem pre intramezzata dalle fulminee scalette ascendenti, ed ogni volta le due sillabe danno luogo ad un intervallo di scendente che si va riducendo d’ampiezza: una settima, una sesta minore, una quinta, una quarta, una terza mino re: perfino dal punto di vista grafico, oltre che da quello auditivo, non si saprebbe immaginare procedimento più efficace per rendere la montée* l’ascesa impetuosa della collera di Figaro. Dove si andrà a fermare? a che punto si arresterà questa riduzione progressiva dell’intervallo? Il culmine catastrofico è evitato: sopravviene, con una mo dulazione in re minore, l’autoesortazione alla calma, «ma piano... piano, piano, piano...» Sulla paroletta sei volte ri petuta, in tipico stile d’opera buffa, sbolliscono, nella di scesa uniforme della melodia, le furie imprudenti di Figa ro. Col proposito di scoprire «ogni arcano» per mezzo del la dissimulazione finisce la transizione drammatica ricon ducendo gli elementi musicali che costituivano la seconda idea della prima sezione dell’aria: la dominante ribattuta a lungo da corni e oboi, il tremolo impaziente dei violini, e se è vero che Figaro non fa piu che ripetere una nota sola, la dominante, associandosi a corni e oboi, d’altra parte la sua rozza frase discendente riappare negli archi gravi (vio le, violoncelli e contrabbassi), mentre i fagotti le imprimo
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no la nota configurazione circolare. Sicché quel passo che abbiamo chiamato transizione drammatica è da vedere al l’interno della prima sezione dell’aria, e non fra A e B. La seconda sezione, B, è un Presto in 2/4, in fa mag giore. «Tutto qui è italiano, - scrive l’Abert: - ritmica, melodia, accompagnamento orchestrale». Un breve trillo dei violini primi (e più tardi una scivolata ascendente di due biscrome) è come la fonte dell’irritazione effervescen te che sospinge il declamato di Figaro a velocità da sciogli lingua: «L’arte schermendo, L’arte adoprando, Di qua pugnendo, Di là scherzando, Tutte le macchine Rovescierò». La parte vocale è tipico canto d’opera buffa, con frequenti note ribattute, scalette rettilinee, e qua e là si aprono bu che di ampi intervalli (quinta, settima e ottava): il tutto sempre stretto addosso ai gradi fondamentali di dominan te e tonica. La brevissima ripresa della prima idea di A («Se vuol ballare») acquista ora un sapore di estrema ironia nella sua calma cerimoniosa. La seconda idea della prima sezio ne non appare più, e l’orchestra chiude rapidamente rias sumendo per poche battute, come un epodo, il Presto del la sezione centrale. È questa la prima aria che incontriamo nell’opera, ed è da notare come non sia per nulla un’aria lirica e statica, di quelle che si cantano dopo che l’azione si è già svolta, per sfogo dei sentimenti prodotti in essa. Al contrario, è un’aria dinamica, che potremmo definire «di azione». Nel corso di essa, non diciamo che avvengono veri e propri fatti, ma certo si prendono risoluzioni, e il personaggio che la canta, alla fine non è più nella stessa situazione di con fusa irritazione in cui era all’inizio: ha esaminato i fatti, ha padroneggiato il tumulto dei suoi risentimenti, ha pre so decisioni dalle quali trarrà svolgimento tutto il dram ma che segue. E tutto questo nella misura ridottissima di una miniaria: un gioiellino che, si noti, è tra le poche ag giunte inserite dal Da Ponte nella commedià\di Beaumar chais, e non nel senso di temperarne l’acrediné^ociale, ma al contrario, per assecondarla.
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scena terza
(Bartolo, Marcellina).
Recitativo.
Allontanatosi Figaro, entrano in scena Bartolo, basso comico, e Marcellina, soprano, quest’ultima tenendo in mano un contratto. Sono personaggi del Barbiere di Sivi glia, personaggi del piccolo mondo dei nemici di Figaro (ma anche del Conte), volutamente tenuti nel rango di macchiette e nello stile tradizionale, quasi convenzionale, dell’opera buffa. Non veri e propri personaggi di com media, non caratteri pienamente motivati, ma tipi. Barto lo aveva maggiore importanza nel Barbiere di Siviglia, dov’era tutore di Rosina e pretendente alla sua mano, scon fitto dalle arti di Figaro a pro del Conte d’Almaviva. Mar cellina, che nel Barbiere di Rossini è appena una figura di sfondo, una governante lenta e pigra, alla quale librettista e musicista fanno dono d’una sola, ma splendida Aria, as sume maggiore importanza nell’intrigo delle Nozze di Fi garo, con la sua pretesa di sposare quest’ultimo, in virtù di un certo vecchio impegno. Appunto a questo proposito si consulta con Don Bartolo, suo antico padrone, ora en trato anche lui a far parte del personale di casa del Conte. Il dialogo dei due personaggi si svolge in un normale re citativo secco di settenari ed endecasillabi sciolti, nei quali Da Ponte sparge qualche rima per sottolineare i tratti sa lienti del discorso («E Figaro cosi fia mio marito») o qual che battuta pungente («Avrei pur gusto, - conclude Don Bartolo fra sé, - Di dar in moglie la mia serva antica A chi mi fece un di rapir l’amica»). Da questa battuta trae spunto il N. 4. Aria (Don Bartolo). Allegro, re maggiore, 4/4.
È un’aria di vendetta, anche questa, più specifica e palese che la cavatina di Figaro. È in perfetto stile italia no di opera buffa, e la sua comicità è fondata principal mente sul contrasto tra modi molto solenni, in stile carica turale di opera seria, e altri vivacissimi, quasi vertigino si: rispettivamente l’importanza che Bartolo si dà, posan
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do a uomo autorevole, esperto degli affari del mondo, e la meschinità della sua natura, che dà fuori sconciamente appena lo coglie il pensiero di Figaro, dell’affronto che ne ha subito in passato, e della vendetta che ora egli vuol trarne. L’inizio è solenne, pomposo, quasi tonante, nella sono rità di una ricca orchestra, forte di flauti, oboi, fagotti, corni, trombe e timpani, oltre agli archi. La tonalità di re maggiore viene pomposamente scandita nell’elogio della vendetta che Bartolo canta con prosopopea di moralista. (Da notare una piccola divergenza ritmica tra la partitura d’orchestra Eulenburg e lo spartito Ricordi per canto e pianoforte, alla battuta 7 sulle sillabe cer ser delle parole «è un piacer serbato ai saggi»: nella partitura d’orchestra due minime, nello spartito una minima col punto e una semiminima (J J oppure J. J). Senza esame del manoscrit to, difficile dire quale delle due sia la lezione giusta: quel la dello spartito Ricordi, presa in sé sola, corrisponde a una dizione più nervosa ed espressiva, ma per contro ri pete pigramente il medesimo schema ritmico della bat tuta che la precede e di quella che la segue, mentre la versione della partitura, con due note uguali, introduce un’opportuna modificazione, e aumenta la solennità del discorso). L’aria è un’aria tripartita con «da capo» fortemente variato. La sezione esterna, in re maggiore, non è altro che il portale elevato alla tronfia solennità e importanza di Don Bartolo, mentre la sezione centrale è una mera viglia di mobilità e trascorre per gli affetti più variati. Co mincia, questa seconda sezione, con l’esposizione del con tro-vangelo di Don Bartolo («L’obliar l’onte, gli oltraggi È bassezza, è ognor viltà»), ancora in re maggiore, ma al terato in modo da preparare la modulazione in la maggio re, tono nel quale appare, sotto la ripetizione delle parole «è bassezza, è ognor viltà», una cellula strumentale che sarà il deus ex machina di tutta questa seconda parte. Coin volge oboi, fagotti, violini secondi e viole, mentre solo i bassi e i violini primi restano a integrarla con le loro ri sposte. È un meccanismo breve ma efficacissimo: nel suo gioco snodato di due incisi che si rispondono, quasi un’im-
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magine sonora della macchinazione. Si può protrarre al l’infinito modulando con facilità (da la maggiore a mi mag giore, poi ancora a la maggiore, donde sarà quindi possi bile il ritorno a re maggiore): vero esempio di invenzione strumentale a scopo drammatico e narrativo, sulla quale, cioè, si può edificare una scena teatrale, protraendo finché occorre il sostegno strumentale. (Tutt’altra cosa sono i «temi» di natura sinfonica e sonatistica, i quali recano in sé l’esigenza delle loro proporzioni e del loro sviluppo). Nella seconda sezione dell’aria il tono di Don Bartolo, ancora sostenuto all’inizio, cade ben presto nella fretta far neticante di basse immaginazioni di vendetta («si potreb be, coll’astuzia, coll’arguzia, col giudizio, col criterio, si po trebbe, si potrebbe, si potrebbe»): si noti, ancora una vol ta, l’opportunità realistica delle ripetizioni di parole indot te dalla musica, che non sono riempitivi pleonastici dovuti ad esigenze della forma musicale, ma coloriscono la cre scente eccitazione del personaggio e lo stato di confusione mentale in cui egli entra al pensiero della vendetta. Analogamente a quanto accaduto a Figaro nel corso della sua cavatina, anche Don Bartolo si riprende quando è sul punto di perder le staffe: «il fatto è serio, il fatto è serio». Il manto dell’ipocrisia boriosa e del sussiego pro fessionale viene a coprire lo stato di sconcia eccitazione in cui Don Bartolo stava per entrare pregustando le deli zie della vendetta. Oltre tutto, egli si ricorda in buon pun to che qui è stato richiesto di un parere e d’un consiglio da Marcellina, li presente, e lui invece stava lasciandosi andare a manifestazioni inconsulte di sentimenti persona li. (Si ha l’impressione che Da Ponte e Mozart operino un’inconsapevole quanto irresistibile trasformazione pro fessionale di Don Bartolo: nel Barbiere di Siviglia egli appariva dottore in medicina, e il Conte d’Almaviva, trave stito da soldato ubriaco, poteva beffarsi di lui: «Sono an ch’io dottor per cento, Maniscalco al reggimento»."E « me dico» è detto Don Bartolo nell’elenco dei personaggi delle Nozze di Figaro-, ma nella presente aria si giurerebbe che la sua laurea sia in legge; egli si comporta come un perfet to precursore del manzoniano Azzeccagarbugli). Ecco dunque la frenata con cui Bartolo rientra nel suo
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sussiego professionale: sulle parole «il fatto è serio, il fatto è serio», il discorso è ancora piuttosto veloce, ma già punta i piedi sulla cadenza di la maggiore, che prepara il rientro del tono fondamentale, re maggiore. Questo av viene sulle parole seguenti: «ma credete, si farà», dove un colpo di genio è la lunghezza delle prime due sillabe. Due minime. Avrebbero potuto essere benissimo due se miminime, e stare nell’ultima metà della battuta 50. Da un punto di vista esclusivamente musicale, la cosa sarebbe stata perfino più regolare e naturale. Eppure si pensi che disastro sarebbe l’inizio frettoloso, con due semiminime, di questa frase. (Che, incidentalmente, è rimasta nelle orec chie di Rossini per un’inflessione dell’aria della calunnia, alle parole: «il meschino, calunniato»). Nel prolungamen to, diciamo pure nel rigonfiamento delle note iniziali è tutta la boria di Don Bartolo, che fa cader dall’alto i suoi consigli e la sua protezione alla povera, ma maligna go vernante. Ultimo accesso di stile da opera buffa nel vertiginoso scioglilingua «Se tutto il codice Dovessi volgere...», ormai saldamente stabilito nel tono fondamentale (re maggiore), poi un’ultima apparizione della cellula orchestrale, bilan ciata tra i legni e i bassi, chiude la sezione centrale del l’aria. La ripresa della prima parte riconduce la proclamazio ne solenne del tono di re maggiore, ma con considerevoli variazioni: la prosopopea di Bartolo («Tutta Siviglia Co nosce Bartolo») si alterna di continuo con la sua furiosa e scomposta irritazione («Il birbo Figaro Vinto sarà»). scena quarta
(Marcellina, poi Susanna).
Recitativo.
Uscito Don Bartolo, durante la breve e rumorosa «co da» orchestrale della sua aria, Marcellina vede avanzare Susanna, «con una scuffia, un largo nastro ed un vestito da donna». Finge di non vederla, l’altra fa altrettanto, e per un momento le due donne alternano frasi a bassa vo ce, tra sé, e frasi ostentate a voce alta, all’indirizzo del l’altra, finché tutte due fanno «per partire, e s’incontrano
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sulla porta». (Anche questa didascalia, che prescrive al re gista quei criteri di simmetria indispensabili all’opera co mica, manca nella partitura e si trova nello spartito per canto e pianoforte). N. 5. Duettino (Susanna, Marcellina). Allegro, la maggiore, 4/4.
Il litigio delle due donne dà luogo a un duetto stizzoso e pungente, in cui è prodigiosa l’estrema spezzatura delle frasi vocali: dapprima le reciproche insolenze sono conte nute in una coppia di versi (senari), poi in un verso solo, poi addirittura mezzo verso ciascuna: proprio quel che si dice un battibecco. È facile immaginare quanto poco con venga questo alterco, a battute sempre più strette, alla na tura della musica, di per sé prolissa e bisognosa di ampie strutture. La soluzione mozartiana segna un vero primato in quella scioltezza dialogica che caratterizza l’affermazio ne dell’opera comica nella seconda metà del Settecento, in confronto alle comode dilatazioni del melodramma se rio. Per impedire che ogni nozione musicale di forma vada frantumata nello scambio fittissimo delle piccole frasi vo cali, l’orchestra mantiene la continuità con un accompa gnamento di terzine che non cessa quasi mai, e con un bre ve motivo contrassegnato da una croma puntata seguita da un guizzo di due semicrome ascendenti, quasi un ri tratto grafico e auditivo delle lingue malediche di quelle due comari. Il loro canto è poco più d’una ripetizione di note intonate, che appena qua e là s’incanalano nelle cur ve melodiche segnate dal discorso orchestrale. Questo po trebbe andare avanti all’infinito sul motivo di croma pun tata e guizzo di semicrome: è una di quelle formule tipiche da musica teatrale, sulle quali si può imbastire una scena per tutta la durata richiesta dalle esigenze dell’azione. Per sbloccarlo momentaneamente ci sono due altre figure: l’entrata dei fiati (oboi e fagotti, poi anche flauti) sulle ri verenze ironiche che le due donne si scambiano afferman do «io so i dover miei»; e le volate di terzine in cui par tono i violini quando le due donne sono ridotte a scam biarsi brevissime apostrofi ingiuriose di mezzo verso cia scuna. Nel primo caso, vai la pena di ricordare che queste
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figurazioni strumentali di terze miagolanti, per lo piu con intervento degli oboi, sono per Mozart una specie di sim bolo fonico della femminilità nei suoi aspetti piu leziosi (ne abbiamo già trovato un caso nel primo duettino di Susanna e Figaro), Poiché questo vocabolo Mozart lo usa spesso anche nella musica strumentale (ce n’è un caso, bel lissimo, nella Sinfonia K. 338 in do maggiore, e un altro, non meno affascinante, nel rondò della Sonata in si bemol le maggiore K. 378 per violino e pianoforte), può essere interessante rilevarne il significato attraverso le indicazioni esplicite della musica teatrale. Anche questo duettino, che la base orchestrale riesce a tenere singolarmente compatto nella frantumazione esa sperata delle parti vocali, non è una forma musicale stati ca, che lasci inalterata la situazione iniziale, Al principio Marcellina è aggressiva, e Susanna invece ostenta una cer ta flemma divertita, quasi umoristica, come se contemplas se le furie dell’altra. Ma poi si scaldano entrambe, e Mar cellina perde le staffe alla battuta 33 («Perbacco, precipi to Se ancor resto qua»). Anche Susanna ormai si lascia trasportare dall’ira: «Sibilla decrepita, da rider mi fa». Dice questo «minchionandola», secondo un’efficace dida scalia che si trova solo nella partitura d’orchestra e non nel lo spartito per canto e pianoforte. La partitura è anche assai piu abbondante nelle prescrizioni di «riverenza» che le due litiganti debbono scambiarsi. Ancora una volta è da notare come l’artificio della ripetizione di parole, che così spesso viene imputato al teatro d’opera come un di fetto, si risolva invece in un felicissimo effetto di realismo psicologico. Quando le due donne, sul passo dell’uscio, si offrono la precedenza adducendo vari velenosi motivi perché l’altra debba passar prima («Del Conte la bella. Di Spagna l’amore»), alla fine Susanna scocca la ragione piu perfida e pungente: «l’età». Tocca a Marcellina l’ono re di passare per prima, perché è vecchia, e Susanna è gio vane. Quelle due sillabe, «l’età», infilate nella precipitosa versificazione dei senari di Da Ponte, si notano appena. Ripetute cantilenando (e ancora una volta le didascalie della partitura prescrivono: «minchionandola») diventa no un’ossessione, e ben si giustifica allora lo scatto di Mar-
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cellina: «Perbacco, precipito Se ancor resto qua». Anco ra una volta il testo verbale del libretto funziona come uno scheletro, che aspetta dalla musica la sua pienezza. scena quinta
(Susanna, poi Cherubino).
Recitativo.
Uscita Marcellina, Susanna ha appena tempo di man dare a quel paese la «vecchia pedante», che entra come un turbine Cherubino (soprano), a raccontarle i .suoi affanni. Il Conte l’ha sorpreso solo con Barbarina, la figlia del giar diniere, e l’ha congedato. Se non interverrà in suo favore la Contessa, Cherubino dovrà allontanarsi, non potrà piu vedere Susanna. Questa gli fa osservare che in realtà è per la Contessa ch’egli sospira e smania, e non per lei. Con volubile leggerezza Cherubino trapassa a manifestare il suo inebbriato entusiasmo per la bellezza della Contessa. Da notare, a questo punto, una curiosa e pudibonda mutilazio ne del recitativo nello spartito per canto e pianoforte edito da Ricordi. Il testo del libretto di Da Ponte, interamente musicato nel recitativo della partitura in edizione Eulen burg, reca: Felice te che puoi vederla quando vuoi! Che la vesti il mattino, che la sera la spogli, che le metti gli spilloni, i merletti...
Gli ultimi tre versi sono omessi nell’edizione italiana, cosi sparisce la pausa di semiminima entro la quale deve cadere il sospiro di Cherubino, prima di continuare: «Ah! se in tuo loco...» Piccoli macelli, che denotano l’insensi bilità a lungo nutrita dalla cultura musicale italiana verso il teatro mozartiano. D’altra parte utili, a modo loro, per ché mostrano come neanche nel piu comune dei ’recitativi di Mozart non si possa mutar nulla senza sciupar subito qualche cosa che era stato attentamente calcolato e pre visto. Sfarfalleggiante com’è, Cherubino si distrae ora veden do in mano di Susanna «il vago nastro e la notturna cuf
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fia Di comare si bella», cioè della Contessa: e le sottrae il nastro con un gesto rapido della mano. Piccola birichine ria, che entrerà a far parte dei meccanismi dell’intrigo. Su sanna cerca invano di farselo restituire, e invece Cherubi no, per risarcirla, le propone di leggere una canzonetta; anzi, gliela vuole consegnare perché la legga alla padrona, e a Barbarina, a Marcellina: «Leggila ad ogni donna del palazzo», prorompe Cherubino nella sua esaltazione. «Po vero Cherubin, siete voi pazzo?» chiede ironicamente Su sanna. La canzonetta di Cherubino è la prima delle due arie in cui si costruisce la figura di questo straordinario perso naggio. N. 6. Aria (Cherubino). Allegro vivace, mi bemolle maggiore, 4/4 alla breve.
La miglior definizione di Cherubino non viene da un musicologo, bensì da un filosofo, il danese Sòren Kierke gaard, padre spirituale del moderno esistenzialismo, che dedicò un saggio ^Erotico nella musica. Pur astronomi camente lontano dalle forme volgari in cui l’erotismo è diventato una componente indispensabile del costume con temporaneo, Cherubino è precisamente questo: un’incar nazione dell’eros. Forza, codesta, che come forse nessun’altra sembra giovarsi della musica come ambiente vi tale. L’eros è movimento, attrazione da un polo ad altro, e niente corrisponde meglio alle facoltà specifiche, alla na tura intrinseca della musica, che è anch’essa, prima d’ogni altra cosa, nella sua essenza, movimento. Cherubino è l’adolescente che esce di fanciullezza, e che scopre vagamente, a tentoni, in maniera ancora assolutamente indeterminata, la forza motrice dell’amore. Questa sua aria ce lo mostra innamorato. Non innamorato d’una donna in particolare, ma di tutte, della Contessa e di Su sanna, della giovanissima Barbarina e perfino di quella vec chia strega ch’è Marcellina. Innamorato di tutte le donne, e piu precisamente innamorato dell’amore. In mezzo a mil le fumose complicazioni, forse aggravate dalle traduzioni, Kierkegaard coglie tuttavia esattamente il carattere del
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l’infantile infatuazione amorosa di Cherubino, quando ne fa l’esemplare di un primo stadio del fenomeno amoroso, cui seguiranno quello di Papageno nel Flauto magico e quello, supremo, di Don Giovanni. In Cherubino, scrive il Kierkegaard, «la sensualità si sveglia, ma non in mani festazioni movimentate, bensì come silenziosa quiescenza, non come piacere e gioia, bensì come profonda melanco nia. La cupidigia non si è ancora svegliata: essa è presen tita melanconicamente da lontano. Nella cupidigia è sem pre presente la cosa bramata... La cupidigia possiede in certo modo ciò che deve divenire suo oggetto, ma senza averlo propriamente bramato finora; così non lo possiede in fatto e verità. Questa è la contraddizione dolorosa, ma pure seducente ed affascinante con la sua dolcezza, che ri suona con la sua mestizia, con la sua malinconia attraverso questo stadio». Sotto questo punto di vista, dell’impazien za sensuale dell’adolescenza, ancora indistinta, e prati camente all’oscuro della propria meta, «è di grande im portanza che la parte del paggio sia disposta in modo che occupi il posto duna voce di donna. Con ciò si accenna all’intima contraddizione propria di questo stadio. Il desi derio si muove ancora così indeterminatamente, il suo og getto, ancora così poco separato da esso e messo di fronte, che la cosa desiderata riposa nel desiderio, come nella vita della pianta il maschio e la femmina trovansi in un mede simo fiore». Con altre parole l’Abert: «In tutta la lette ratura musicale drammatica non si trova forse dipinto con altrettanta vita e verità... il risveglio dell’amore ancora seminconscio in un cuore d’adolescente, con tutta la sua emozione febbrile, la sua dolce tortura e la sua intera man canza di direzione». «Non so più cosa son, cosa faccio, Or di foco ora sono di ghiaccio, Ogni donna cangiar di colore, Ogni donna mi fa palpitar». Così prorompe Cherubino nella sua canzo netta, su un metro anapestico ostinatissimo, reso pungen te dalle dislocazioni ritmiche, che portano spesso l’ac cento a cadere sui tempi deboli della battuta. Ciò si rende particolarmente evidente sulla ripetizione terza delle pa role «ogni donna» (battuta io), dove lo spartito per canto e pianoforte dell’edizione Ricordi reca un accento sul mi
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bemolle della sillaba «na» («don-na»), accento che manca nella partitura d’orchestra Eulenburg: francamente l’ac cento ci vuole e ci sta bene. L’aria è assai breve e trascorre via rapida, per membra ture minuscole, di adolescente, appunto. Alla battuta 16 ha già inizio la seconda idea, in si bemolle maggiore, so pra una frase ascendente per gradi cromatici («Solo ai no mi d’amor mi diletto»). La vivacità sfarfalleggiarne del l’inizio si va a poco a poco calmando in questa seconda sezione, soprattutto sulla parola, ripetuta, «un desio». Poi ripresa dell’aria iniziale in mi bemolle maggiore, con la vivacità proterva del ritmo anapestico, e abbiamo cosi avuto uno schema A-B-A. Ma nella «coda» che inizia alla battuta 54 («Parlo d’amor vegliando»), ecco lo smar rimento languoroso dell’emozione d’amore propagarsi co me un torpido arresto nel passo veloce della melodia, fin quasi alla paralisi della triplice ripetizione di una formula di sospensione, sull’enumerazione: «All’acqua, all’ombra, ai monti, Ai fiori, all’erbe, ai fonti, All’eco, all’aria, ai venti», dove il discorso si arresta per un momento, come intorpidito su un punto coronato. Poi lo sblocco geniale della «impasse»: clarinetti (che sono apparsi in quest’a ria per la prima volta nell’opera) e fagotti sorreggono ah l’unissono, con bellissimo impasto timbrico, la sbrigativa e decisiva soluzione melodica («che il suon dei vani ac-. centi...») L’episodio è ripetuto con un passo apparente-^ mente piu spedito, e su un accompagnamento in quartine di crome, che fa pensare a un Lied schubertiano. Poi la malinconia latente in questo canto di infatuazione amoro sa si fa luce pienamente in quattro battute «Adagio», dove il corso del canto folleggiarne quasi si spezza, barcolla («E se non ho chi m’oda»), poi si raddrizza allegramente nella spensieratezza giovanile del «Tempo primo», con la ra pida conclusione: «Parlo d’amor con me». Come scrive l’Abert, qui viene fuori per un momento solo tutta la ma linconia sottintesa di questa irrequietezza spumeggian te. In fondo Cherubino sta male, e i grandi ridono di lui, perché sanno benissimo che cos’ha. L’aria è perciò, dice l’Abert, come una tempesta di primavera, che tutti i mo menti cambia di forza e di direzione: «un misto di auto
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compatimento e di arroganza, propria di quell’età». E, ag giungiamo, con la sua leggerezza spensierata, è come una firma mozartiana: l’adolescente Cherubino è autoritratto involontario di chi aveva saputo conservare inalterato il dono della fanciullezza - cioè la capacità e la voglia di gio care - malgrado le più severe prove della vita. SCENA SESTA
(il Conte e detti).
Recitativo.
L’approssimarsi del Conte dà luogo alla Scena sesta, che consiste d’un solo Recitativo (si tenga sempre presente che la divisione in scene è di natura esclusivamente teatra le, non musicale). Si cominciano qui ad annodare i tipici qui pro quo della commedia d’intrigo: l’imbroglio prende corpo. All’ingresso del Conte, Cherubino si nasconde die tro il seggiolone, e cosi ascolta senza volerlo tutto il dia logo seguente tra il Conte e Susanna, questa turbata e agi tata, quello sempre più appassionato e incalzante, finché dall’interno viene la voce di Don Basilio a disturbare la sua offensiva galante. Susanna non vuole che Don Basilio trovi il Conte con lei in camera sua; il Conte perciò fa per nascondersi dietro il seggiolone, dov’è già Cherubino, e Susanna frapponendosi evita lo scontro. Cherubino ne ap profitta: «gira con destrezza e si getta nel seggiolone, ran nicchiandosi alla meglio, Susanna lo copre col vestito che aveva messo sul seggiolone». Don Basilio, che andava in cerca del Conte, entra e dà inizio alla scena settima
(Basilio e detti).
Recitativo.
Entra Don Basilio e chiede a Susanna se per caso ha vi sto il Conte. Susanna nega risentita: «E cosa far deve me co il Conte? » Il venefico Don Basilio esorta Susanna a non mostrarsi tanto scontrosa verso il Conte, che notoriamente la desidera, e a preferire aver per amante, «come fan tutte quante, Un signor liberal, prudente e saggio, A un giovi nastro, a un paggio», a Cherubino, «ch’oggi sul far del
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giorno Passeggiava qui intorno Per entrar». Il Conte, na turalmente, ascolta tutto dal suo nascondiglio, e sente an che il consiglio del perfido Don Basilio a Susanna d’istruire meglio Cherubino, innamorato cotto della Contessa: «egli la guarda a tavola si spesso, E con tale immodestia, Che se il Conte s’accorge...» Quando Don Basilio protesta contro le invettive di Susanna, e si scusa dicendo che lui non fa che ripetere ciò che dicon tutti, il Conte, fuori di sé dalla rabbia, esce dal suo nascondiglio, e col suo intervento ha inizio il N. 7. Terzetto (Susanna, Basilio, il Conte). Allegro assai, si bemolle maggiore, 4/4.
Abbiamo già molto insistito, nelle notizie introduttive, sull’importanza e la funzione delle scene d’insieme, o con certati, per la trasformazione dell’opera buffa in vera e propria commedia musicale, fornita di attitudine al dia logo musicale tra i personaggi. Eccone un primo, piccolo saggio. Piccolo: questo è un concertato interno al primo Atto, non uno di quegli estesi Finali, di cui il Da Ponte aveva detto con molta perspicacia che finivano per diven tare una vera e propria «commedia dentro la commedia». Questo è un breve scampolo, un campioncino di quello che sta diventando, nelle mani di Mozart, il concertato d’azio ne. Ma anche nelle sue piccole proporzioni, è già un esem pio assolutamente probante della unione ideale di musica e dramma (cioè azione, svolgimento di fatti). Questo terzetto introduce due nuovi personaggi, di cui uno di grande importanza: il Conte è addirittura, in certo senso, il deuteragonista, l’antagonista di tutta la vicenda, quello contro cui a un certo punto si troveranno coalizzati tutti gli altri personaggi. È il «cattivo», il vilaìn, che si frappone come un ostacolo alla felicità di Figaro e Susan na. Né a lui, né al maligno Don Basilio, Mozart concede l’onore di un’aria di sortita, che venendo dopo l’aria di Cherubino avrebbe accentuato la prevalenza dei pezzi a solo (fenomeno per lo più inevitabile nel primo atto di un’opera, quando si tratta di presentare a uno a uno i per sonaggi, prima di coinvolgerli in un’azione comune). Co-
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me già aveva fatto la presentazione di Figaro e Susanna attraverso un doppio duetto, anche il Conte e Don Basilio Mozart li presenta nel corso di un terzetto, contrapponen doli in piena azione drammatica. Né si dica che tanto era richiesto dalla struttura teatrale di Beaumarchais. Niente sarebbe stato piu facile, a questo punto, che inserire un’a ria del Conte, sospiroso per Susanna. L’aver evitato que sto luogo comune è frutto di scelta deliberata, obbediente a un partito preso di vivacità drammatica e di continuità narrativa. E vedremo ben presto che la delineazione dei due caratteri nuovi non ci scapita per nulla in evidenza ed efficacia. Praticamente, il terzetto è costruito sopra tre temi ri spettivamente corrispondenti a ciascuno dei personaggi, brevi e ben delineati quelli relativi ai due personaggi ma schili, più effuso e continuato quello di Susanna. L’econo mia dei mezzi è la regola di questo terzetto : i personaggi «cantano» poco, spesso la loro declamazione intonata è poco più d’un recitativo (quando non lo diventa esplicita mente, come avviene per il Conte a metà del pezzo). Il tes suto orchestrale completa e cementa tutto, assicurando la continuità del discorso musicale, durante il quale avven gono in scena numerosi fatti di rilievo, tra cui uno sveni mento, e tutto un gioco di nascondarelli intorno a una pol trona. Il primo tema-personaggio che si presenta, dopo quat tro battute d’introduzione, è quello del Conte (baritono): una scarna declamazione ascendente di poche note, che trova la pienezza del suo ritmo imperioso (sebbene «pia no») nella figura orchestrale che la raddoppia e sostiene, coppie di semicrome che rotolano minacciose verso l’alto. Soltanto nella chiusa, che ribadisce la tonica (si bemolle) è richiesto il «forte» per l’esecuzione. Risponde Basilio, col suo temino, cortissimo, ma in realtà destinato a diven tare il velenoso e comico protagonista di tutta la scena, il deus ex machina del terzetto. È una discesa regolare di gruppi di tre note contigue, le prime due lunghe (minime), la terza, ripetuta, breve (semiminime), come chi dicesse, in termini di metrica greca, due lunghe e due brevi: le due lunghe discendenti per gradi contigui, la terza ripetuta alla
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stessa altezza. Di piu le due lunghe sono, nell’accompa gnamento orchestrale, legate, le due brevi, invece, staccate. Ne viene una specie di finta timidezza, che è il ritratto stesso dell’ipocrisia: come chi, introducendosi in maniera importuna, dica in tono mellifluo: «Non vorrei disturba re». Come apparirà chiaro nel seguito del pezzo, con quel le due note corte e staccate alla fine d’ogni inciso, il temino peritoso di Basilio è proprio il ritratto fonico del gesto di chi lancia la pietra e contemporaneamente ritirala mano. Dopo queste brevi frasette, lapidaria quella del Conte, maligna quella di Basilio, il discorso di Susanna è. invece effuso e agitato, e il tono minore (fa) v’introduce una ven tata di piu o meno autentica disperazione. La melodia, ri presa e raddoppiata in orchestra, va di qua e di là, sem bra che non sappia dove battere il capo, come appunto la frastornata Susanna: «Che mina! me meschina! Sono op pressa dal dolor! » Vi si inseriscono, a vicenda, gli scoppi di voce del Conte, e la solita frase insinuante di Basilio che si scusa con ipocrisia: «In mal punto Son qui giunto. Perdonate, mio signor». Riprendendo la diffusa figurazione melodica di Susanna l’orchestra sottopone ora alla distribuzione delle voci un lungo e rapido discorso dei violini secondi (poi, battuta 38, raccolto dai primi), di strettissima tessitura e di sor prendente severità strumentale: isolato dal contesto vo cale parrebbe l’avvio d’un fugato. Praticamente sono que sti gli elementi su cui è fabbricato il terzetto: i due temi concisi e precisi degli uomini, la effusa figurazione del la confusione di Susanna che serve a sviluppare il discorso ampiamente. La struttura musicale del pezzo è quinaria, secondo uno schema A-B- A (variato) - C-D (coda). La seconda se zione ha inizio alla battuta 43, in fa maggiore, con lo sve nimento di Susanna e i non disinteressati sforzi del Conte e di Basilio per sorreggere e confortare la graziosa servet ta. Si mescola in questa sezione un motivo nuovo, in fa maggiore, nel quale la pronuncia sincopata forma quasi un’onomatopea del battito del cuore, secondo un vecchio luogo comune dell’opera buffa (celebre precedente nella Serva padrona). È un motivo all’inizio poco caratterizza-
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to: Basilio indugia per tre note sulla tonica, e il Conte ad dirittura per sette, prima d’iniziare una modesta ascesa per gradi contigui. L’economia melodica è preoccupazione costante in questo terzetto. Solo alla seconda e terza ri petizione di «Come, o Dio, le batte il cuor» la melodia vocale (raddoppiata in orchestra dai fiati e dai violini pri mi, mentre violini secondi e viole tessono infaticabili la figurazione rapida di stile severo) si avvolge in una specie di refolo, di piccola ventata, che costituisce il contrasse gno saliente di questa sezione. Al motivo che potremmo chiamare del «soccorso di Susanna», si salda il motivo agi tato di Susanna stessa, lievemente modificato, quand’essa, sentendosi condurre verso il seggiolone dov’è appiattato Cherubino, decide rapidamente di rinvenire (battuta 57 e seguenti, quando Basilio la conduce «pian pianin su que sto seggio»). Al divincolamento di Susanna succede (bat tuta 70 ) una ripresa del motivo del « soccorso di Susanna », cui la solenne tonalità di mi bemolle maggiore conferisce una punta caricaturale. A conclusione di questo episodio centrale riappare l’ipocrita frase di Basilio in mi bemolle maggiore, ma riportando al tono fondamentale di si bemol le maggiore, e Susanna replica con un’ulteriore variante del suo motivo agitato: anche questa scarsissima di melo dia in senso convenzionale, ma drammaticamente efficace a rendere la protesta del personaggio, con la concitazione del ritmo di note ribattute sulla dominante (fa). Ha cosi inizio (battuta 101) la ripresa variata di A. Il Conte riprende la sua frase minacciosa dell’inizio, con la ascesa delle coppie di semicrome in orchestra. Ma questa volta, ad ognuno dei suoi scoppi di voce («Parta, parta il damerino! ») risponde una frase supplichevole di Susanna e Basilio, che sospirano: «Poverino! », naturalmente l’una con sincerità, e l’altro con melliflua ipocrisia. Questa spe cie di commediola sonora, che potremmo definire della «ingiunzione seguita da sospiro», è assai interessante, per ché pur nella accezione comica che qui riveste, serve a il lustrare il senso d’innumerevoli passi di musica strumen tale sia mozartiana che beethoveniana, nei quali i commen tatori ravvisano l’alternanza di un comando (imperioso, ritmico, rettilineo) e una preghiera (ricurva, supplichevo
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le e sospirosa). Si veda, per un esempio classico, l’inizio della Fantasia in do minore K. 475 per pianoforte, dello stesso Mozart. La ripresa di A è ben lungi dall’esser testuale, perché oltre a questa nuova struttura a botta e risposta, ben pre sto si avvia verso altri lidi con la rivelazione del Conte di avere già altra volta «sorpreso» Cherubino. La ripetizio ne alterna delle domande di Susanna e Basilio («Come? Che?») crea un crescendo insostenibile di curiosità, che resta ancorato sulla dominante (fa) del tono fondamenta le. L’uscita da questa specie di impasse è realizzata da Mo zart con un tratto di geniale originalità: l’insolita inser zione d’un passo di recitativo nel cuore d’un concertato. Con brevi frasi di recitativo, ogni volta intercalate da due quartine di semicrome degli archi con note tenute dei fiati, il Conte narra come l’altro giorno, in casa di Barbarina, la giovane cugina di Susanna, egli abbia scoperto Cherubino nascosto sotto il tavolo. Nell’atto in cui il Conte, narran do, quasi ripete l’azione narrata, e indietreggiando si acco sta alla poltrona e solleva la vestaglia che v’è su deposta, per far vedere come aveva sollevato il tappeto del tavolo in casa di Barbarina, e così facendo naturalmente scopre Cherubino appiattato nel seggiolone, ripetendosi perciò esattamente la situazione da lui narrata, ebbene in que sto momento il Conte abbandona il recitativo, e si impos sessa per una volta del motivetto rattrappito e furtivo di Don Basilio. È facile capire quale enorme portata associa tiva abbia questa specie di transfert tematico: è come se ci dicesse comicamente che tutti i sospetti e le insinuazio ni dell’ipocrita personaggio erano anche troppo fondati, ed è un modo di gettare una luce allusiva sull’azione, che il teatro di sole parole non possiede. A questo punto l’Abert ha una opportuna osservazione. «Difficilmente - egli scrive - un altro compositore, sia dell’epoca di Mozart, e tanto meno uno più recente, avreb be qui rinunciato a una fragorosa esplosione orchestrale sopra una dissonanza. Mozart invece, con intuizione non meno veritiera, e in ogni caso più realistica, tratteggia sem plicemente una situazione in cui tutti i partecipanti resta no a bocca aperta per lo stupore. Nessun suono d’impul-
55 siva sorpresa, nessuna reazione della ragione o della vo lontà. Tutti cascano dalle nuvole e perciò il meccanismo, sempre fisso sui vecchi binari, semplicemente finisce per arrestarsi da sé, poiché gli è stata tolta la forza motrice». Salvo il rilievo che quanto sopra va riferito soltanto al Conte e a Basilio (per Susanna non può parlarsi di sorpre sa, perché Cherubino nella poltrona ce l’ha nascosto lei), l’osservazione è giustissima, e continua egregiamente ri levando la «paralisi progressiva» in cui incorre il temine ipocrita di Don Basilio, che invece di limitarsi alle solite due coppie di battute, viene ancora strascicato qua e là, sempre piu in basso, da archi e fagotti, poi anche clarinet ti, diventando pigro, informe, finché si arresta in un’armo nia di dominante d’un oboe e dei due corni, clarinetti e fagotti. Dopo un punto coronato ha inizio la sezione C, con la ripresa testuale del tema iroso del Conte. Ripresa testuale salvo appunto che per il testo. Le nuove parole («Onestis sima signora! Or capisco come va») introducono un tono di ironia sferzante, in quello che prima era un comando imperioso («Tosto andate E scacciate il seduttor»). La ripresa di A si limita però a otto battute. In seguito ci tro viamo di fronte a un episodio nuovo, di grande agitazione e di densa tessitura concertante, il culmine polifonico del terzetto. I tre personaggi cantano contemporaneamen te, secondo la personale disposizione d’animo (e l’ironico Don Basilio getta qui il seme di una futura opera mozartia na commentando: «Così fan tutte le belle, Non c’è alcuna novità»). Il materiale musicale di questo vasto e intenso episodio è in parte nuovo, in parte deriva dalle figurazioni del «soccorso a Susanna» e battito del cuore, di cui risen tiamo (alle battute 172-75 e 195-200) il caratteristico refolo melodico, con la figurazione ostinata, di stile severo, in orchestra. Questa si prolunga direttamente nella Coda (battuta 201 e seguenti), che è una continuazione variata della sezione precedente. Ricapitolando, in questo terzetto si sviluppa una strut tura drammatica che si potrebbe definire come segue: pri mo sdegno del Conte (quando prorompe fuori dal suo nascondiglio, sentendo le insinuazioni di Basilio); sveni IL PRIMO ATTO
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mento di Susanna e azione di soccorso, battito del cuore, Susanna rinviene; nuovo sdegno del Conte, sua narrazio ne dell’episodio in casa di Barbarina, e scoperta del Pag gio rannicchiato nel seggiolone; terzo sdegno del Conte, ironia di Basilio, confusione di Susanna. A queste stazioni del dramma corrisponde la seguente struttura musicale: A. Primo sdegno del Conte (battute 1-43). Quattro battute d’introduzione. 1. Tema imperioso del Conte (battute 5-15). 11. Tema ipocrita di Basilio (battute 16-23). ni. Frase agitata di Susanna (battute 23-27), loro libera ripe tizione nel concertato d’insieme e chiusa sulla dominante (battute 27-43).
B. Svenimento, azione di soccorso, Susanna rinviene, ironia di Basilio, protesta di Susanna (battute 44-100). iv. Svenimento e azione di soccorso. Fa minore (battute 44-57)in. Variato. Fa maggiore: Susanna rinviene (battute 58-69). iv. Mi bemolle maggiore (battute 70-84). 11. Mi bemolle maggiore (battute 85-92). in. Variato. Protesta di Susanna (battute 92-100).
A. Secondo sdegno del Conte, sua narrazione e scoperta di Che rubino (battute 101-46). 1. Variato. Si bemolle maggiore: sdegno del Conte e sup plica degli altri due (battute 101-9). Recitativo del Conte. li. Il tema di Basilio passa comicamente al Conte (battute 109-46). C. Terzo sdegno del Conte, ironia di Basilio, confusione di Su sanna, culmine polifonico del terzetto (battute 147-201). 1. (Battute 147-55). V e iv. (Battute 155-67, 168-75). il. (Battute 175-82). iv e v mescolati (battute 182-201).
D. Coda (battute 201 ■ fine).
v. Quest’analisi schematica può solo dare un’idea parziale e imperfetta della «unione assolutamente ideale di musica e dramma» che l’Abert giustamente ammira in questa see-
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na, unione ottenuta attraverso la costanza dei temi, iden tificati con singoli personaggi (e Punica volta che avviene uno scambio, è chiaro ch’esso è pregnante di implicazioni significative); ma d’altra parte i temi, costantemente rife riti a singoli personaggi, vengono fatti slittare su parole e situazioni diverse (per esempio: «Parta, parta il dameri no», e «Onestissima signora»), secondo un sistema asso ciativo per cui «la musica annoda un fulmineo legame tra le due situazioni, legame di cui la poesia nulla sa». Nonostante le simmetrie che abbiamo rilevato nella struttura del terzetto, ognuno dei tre temi, sia i due lapi dari dei personaggi maschili, sia quello corsivo e agitato di Susanna, vengono sottoposti a variazioni: quello iroso del Conte, con l’aggiunta d’una risposta supplichevole; quello ironico di Don Basilio con il prolungamento defor mante e confuso verso il grave; ma sono soprattutto i temi ni, iv e v, cioè quello agitato di Susanna, quello del suo soccorso, e quello della gran scena d’insieme, che praticamente sembrano quasi dedotti da una sola figura generale variamente atteggiata, secondo un principio che l’Abert chiama di «variazione drammatica». Resta a vedere quali sono le risultanze di questo terzet to in merito alla delineazione dei caratteri. Susanna è quel la che già conosciamo: vivace, impulsiva, e un tantino maliziosa. Si tenga presente che per la prima metà del ter zetto il turbamento e la confusione espressi dal suo tema agitato sono più simulati che reali, pressappoco come il suo svenimento. Susanna ha il gusto dell’intrigo e ci gode a sventare le trame altrui; sicché fin qui, più che avere real mente paura, si diverte, con una sfumatura di piacevole eccitazione. Dopo la scoperta di Cherubino nella poltrona, allora i suoi «Giusti dèi, che mai sarà» possono esser pre si sul serio. Dei due personaggi nuovi, Don Basilio è scolpito in ma niera talmente icastica dal suo piccolo temino discendente e claudicante, che non occorre insistere sui suoi caratteri d’ipocrisia velenosa e di maldicenza. Anche perché, tanto è evidente, altrettanto il carattere di Basilio è unilaterale: non un personaggio principale, ma una macchietta secon daria, non un carattere a tutto tondo, con reconditi sfondi
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di psicologia, ma un tipo costante: il maligno, e basta. Ben altro spessore di personaggio ha il Conte, autentico antagonista, come s’è detto, della intera vicenda. L’Abert ne sottolinea la «passionalità elementare», che lo rende ben piu violento e sanguigno dei contini italiani settecen teschi. Nel Barbiere rossiniano il Conte d’Almaviva ha voce di tenore leggero, ed è un giovane scapestrato, un gentiluomo in cerca d’avventure con la complicità di Fi garo. Qui il Conte ha voce piena e adulta di baritono, con inflessioni un po’ cupe, colleriche. C’è qualche cosa di fo sco e violento in lui. Come dice l’Abert, per i suoi capriccetti amorosi è disposto a lottare, a battersi, a commettere ingiustizie e soprusi. Per noi italiani viene spontaneo pen sare a Don Rodrigo, anche se non si tratti di una anima cosi nera. L’essenziale è che il Conte non è un frivolo, non è solo un cavaliere galante in caccia d’avventure. L’attra zione per Susanna non è solo un capriccio: «lo travolge, ancor piu attizzata dalla resistenza di lei, l’elementare pas sione sensuale, l’amore come nudo impulso umano origi nario, che tosto lo solleva sopra l’orizzonte della galan teria». C’è quindi in lui una componente di natura quasi selvatica, primitiva, e ne fa un personaggio dissociato (cul tura e natura, coscienza di casta e passione), e non è da stu pire che tale personaggio si sviluppi fin quasi al tragico, minacciando di «sforare» attraverso l’elegante ricamo del la trama settecentesca. Il Conte non è mai personaggio di opera buffa. Recitativo.
La Scena settima continua dopo il terzetto con un ul teriore recitativo, in cui il Conte chiede spiegazioni sulla presenza di Cherubino: apprende così con raccapriccio che il paggio, appiattato prima dietro e poi dentro la pol trona, ha ascoltato il dialogo del Conte con Susanna nella Scena sesta, e le sue non equivoche profferte amorose. Di fatti dice Cherubino: «feci per non udir quanto potea». Tuttavia il Conte deve contenere la propria ira per l’arri vo di un vistoso coro di contadini e contadine guidati da Figaro.
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SCENA OTTAVA.
N. 8. Coro. Allegro, sol maggiore, 6/8.
Dopo un nodo, musicale e drammatico, cosi intenso co me il terzetto, che costituisce indubbiamente il culmine del primo Atto, ci vuole una tregua, un momento di di stensione. È una di quelle leggi del mestiere teatrale che non hanno nulla da vedere con l’arte, con l’ispirazione, ma dalle quali dipende però che un’opera regga o no alla pro va del palcoscenico. Mozart aveva per queste cose un senso innato, perfezionato attraverso il corso delle sue esperien ze teatrali, non certo fitte come quelle di un operista ita liano, ma nemmeno cosi rare da potersi dire sporadiche o eccezionali. La distensione è portata dal breve recitativo preceden te, e da un coro, anzi, un coretto, volutamente sciocchino e superficiale. Avanzano i contadini del castello e le conta dine, vestite di bianco, guidati da Figaro che reca un bian co velo (secondo la partitura d’orchestra; secondo lo spar tito per piano e canto e secondo il libretto, una veste bian ca, ma sembra insostenibile che il Conte sia invitato da Figaro a vestire Susanna con la veste bianca, il che impli cherebbe la necessità di toglierle quella che ha, con con seguente spogliarello). Vengono a ringraziare il Conte per l’abolizione del jus primae noctis\ la cerimonia è stata ar chitettata da Figaro per impegnare il Conte al rispetto del le nuove norme da lui stesso riconosciute e promulgate. Il contenuto musicale del coro è volutamente stupido. Siamo in un clima di festa scolastica di paese, coi bambini delle elementari che cantano il coretto di lodi alla signo ra direttrice in occasione del suo onomastico. Secondo l’Abert questo coro, «tanto semplice quanto grazioso... me scola al suono festoso di gusto italiano i toni intimi della canzone tedesca; la presenza degli strumenti a fiato (flau ti, fagotti e corni) allude al carattere festivo di questa mu sica; suona come una delle piccole Serenate di strumenti a fiato, allora tanto in voga a Vienna». Sì, e non mancano motivi pastorali, come l’accordo ini ziale in stile di zampogna, e soprattutto la terza battuta
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col suo ritmo cullante, quasi di jodel lento. Ma non sem-. bra di incorrere in un forzamento arbitrario delle intenzio ni di Mozart precisando che questo piccolo intervento co rale vuole e deve essere ridicolo, e che la melodia ne è vo lutamente un tantino idiota. Mozart era assolutamente refrattario alle nostalgie pastorali, tanto care per esempio a Beethoven, Era un essere civilissimo ed eminentemente cittadino. I contadini, lui li vedeva come degli zotici, dei villani, con quell’alterigia culturale ch’era propria, per. esempio, della cerchia medicea nella Firenze quattrocen tesca (si pensi alla Mencia da Barberino). In questo coret to, per quanto graziosissimo, par di ravvisare un anticipo della sprezzante parodia contenuta nel Blivertimento detto I musicanti del villaggio. Giustamente l’Abert rileva i con tinui cambiamenti dinamici, di «forte» e «piano» alter ni: «è come se di fronte all’alto signore questi bravi con tadini si esortassero continuamente alla moderazione e al le buone maniere». Direi che l’induzione del carattere parodistico di questo coretto è confermata dalle prime parole del Conte nel re citativo seguente. Egli chiede a Figaro, con sorpresa: «Cos’è questa commedia?» Definizione sprezzante che auto rizza, nella regia, una realizzazione caricaturale del coro di contadini. Figaro spiega al Conte il significato di questa manife stazione di riconoscenza per avere abolito «un diritto si ingrato a chi ben ama», e lo invita a coprire «di questa, Simbolo d’onestà, candida vesta» Susanna, che la sua ma gnanima concessione ha serbato illibata. («Vesta», come s’è detto, dovrebbe intendersi per velo nuziale, non certo «una bianca veste», come propone la didascalia iniziale). Il Conte comprende benissimo l’astuzia di Figaro, chè vuol legargli le mani ricordandogli il suo impegno, ma finge e ringrazia, mentre Susanna commenta ironicamente: «Che virtù! », e Figaro: «Che giustizia! » Invece il Conte si pro pone di prender tempo per rintracciare Marcellina, che potrà gettare un intralcio decisivo alle nozze di Figaro con Susanna.
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Recitativo.
Il coro se ne va, ripetendo la sua melensa canzoncina di elogio, e il recitativo che segue porta l’attenzione di tutti (il Conte, Figaro, Susanna, Don Basilio) su Cherubi no, mesto perché il Conte l’ha scacciato dal castello. Il Conte cede parzialmente alle intercessioni di Figaro e Su sanna, ma forse anche alla mezza minaccia che si potrebbe intravedere nella interrotta frase di giustificazione di Che rubino: «È ver mancai, ma dal mio labbro alfine...» Cosa voleva dire Cherubino? ho sbagliato, si, però non ho spif ferato nulla di quello che son venuto a sapere, tuttavia po trei sempre farlo. Il Conte forse la intende cosi, perché fingendo di perdonarlo, e anzi, di promuoverlo, si affretta a trovare un nuovo modo decoroso per allontanarlo dal castello: «... vacante è un posto D’uffiz'ial nel reggimento mio; Io scelgo voi. Partite tosto; addio». Il malinconico congedo di Cherubino, che si dispone ad obbedire a malincuore ed abbraccia per l’ultima volta Su sanna, prepara l’avvento della straordinaria aria di Figa ro che chiuderà l’Atto. «Addio, - gli dice Figaro “con finta gioia - picciolo Cherubino, Come cangia d’un pun to il tuo destino! » N. 9. Aria (Figaro). Vivace, do maggiore, 6/8.
Quest’Aria che diventò subito il pezzo più fortunato delle Nozze di Figaro e raggiunse una popolarità ossessio nante, deve tale esito a ragioni essenzialmente teatrali. È soprattutto una straordinaria trovata per risolvere il pro blema del Finale d’atto. Normalmente il Finale è costitui to da un concertato. Ma di solito le opere comiche erano tagliate in due Atti (come il Don Giovanni), o al massimo tre. Le nozze di Figaro, in conseguenza della loro alta ori gine letteraria, sono in quattro. Atti (e l’originale di Beau marchais ne aveva cinque). Difficile allineare quattro con certati finali senza cadere nel peso e nella monotonia. Per il primo Atto fu un colpo di genio quello di chiuderlo con un’aria solistica, su ritmo di marcia scherzosamente mili
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tare, cosi trascinante da coinvolgere tutti i personaggi pre senti in scena e cioè, oltre a Figaro, Susanna, Cherubino, il Conte e Basilio. È dunque un’aria solistica che funziona in certo senso come una scena d’insieme. In particolare è una di quelle arie fornite di potente virtù dialogica, con le quali Mo zart sapeva ovviare al pericolo di monotonia e di staticità drammatica insito nella forma solistica dell’aria. Chi can ta è soltanto Figaro, ma parla continuamente di Cheru bino, e lo descrive, nella sua condizione presente di dameri no e in quella futura di soldato; durante il canto lo prende a partito coi gesti, gli solleva con disprezzo i «pennacchini» e i fronzoli dell’abito da cavaliere. Praticamente l’a ria si comporta come un duetto nel quale uno degli inter locutori non riesce mai a prender la parola, ma è lì presen te, reagisce: praticamente è un dialogo. Un caso ancor più perfezionato di questo tipo d’aria «dialogica» si avrà nel Don Giovanni con l’aria del catalogo di Leporello, il qua le canta in presenza di Donna Elvira, ma ancora una volta il personaggio che canta non parla di sé, bensì parla d’al tri, sicché praticamente l’aria solistica istituisce un rap porto con altri personaggi e si comporta come una scena d’insieme: nell’aria di Leporello la presenza di Don Gio vanni è continua attraverso il catalogo delle sue conquiste, e così attraverso una sola aria solistica noi impariamo a conoscere due personaggi, colui che canta e colui di cui si canta. Se non si tenesse presente questa funzionalità teatrale dell’aria di Figaro (funzionalità che sulla scena non ha bi sogno di commenti, poiché agisce in maniera irresistibile), si potrebbe anche correre il rischio di rimaner delusi per la semplicità elementare della sua concezione musicale. Col suo ritmo di marcia nel tono innocente di do maggio re, essa è volutamente una facile melodia di successo. Sul la natura e il carattere dei finali d’Atto, Mozart aveva ma nifestato idee assai semplicistiche in una lettera scritta al padre durante la composizione del Ratto dal serraglio'. «poi comincia tosto il tono maggiore pianissimo, che deve andare molto veloce, e la chiusa farà molto rumore, il che è tutto ciò che conviene alla chiusa di un Atto: quanto più
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rumore, tanto meglio, quanto più breve, tanto meglio, cosi la gente non si raffredda nell’applauso», (Si tenga presente che Mozart parla qui esplicitamente della chiusa - Schluss - dell’Atto, non di quella estesa e complessa forma che era il Finale). Ma poi se si va a vedere da presso, al solito si rileva la finezza estrema che le strutture musicali, teatralmente significanti, presentano anche in questo Schlager, cioè melodia di successo a livello ultrapopolare. È una piccola aria in forma di rondò (un’idea costante intercalata da episodi differenti), com’era in uso appunto per i finali di Atto (celebre esempio sarà l’aria a rondò di Cenerentola, alla fine dell’opera omonima di Rossini), consentendo l’ampiezza ripetitiva del rondò uno spiegamento formale grandioso, quale richiede la funzione del Finale. Lo sche ma è il seguente A - B - A - C - B - A - C. Va però tenuto presente che ognuna di queste sezioni consta di due frasi in rapporto di antecedente e conseguente, e che nelle ul time apparizioni di B e di C, non l’intera sezione, ma sol tanto la seconda frase di essa viene chiamata in causa. Argomento dell’aria è la descrizione di due aspetti di Cherubino: quello presente, di giovane vagheggino tutto elegante e impennacchiato (e l’aggettivo che denota un preciso stile musicale dell’epoca appare nel verso: «quel cappello leggero e galante»), e quello futuro di militare, costretto a scarpinare nel fango, per montagne e per val loni, con virili mustacchi, in luogo di quell’aspetto imber be che ha ora. In una parola, la naia. In conseguenza di ciò, il ritmo di marcia è per cosi dire latente, o appena accen nato nella prima parte dell’aria, e si spiega poi in manie ra sempre più trionfale nella seconda parte, di soggetto propriamente militare. Il tempo di marcia si avverte nella prima sezione, per il ritmo puntato e per le impennate che la melodia compie nella seconda frase, sulle note dell’accordo perfetto di do maggiore. In che consiste la banalità, la faciloneria di que st’aria che le ha valso la sua immensa popolarità? Per esempio appunto in questo: la vivacità del ritmo, la va rietà e ampiezza degli intervalli (una melodia che si svol ga prevalentemente per gradi contigui è di natura riser-
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vata.e raccolta; una melodia che si muova per grandi passi, scavalcando con frequenza ampi intervalli, presenta piu ovvie ed evidenti attrattive), infine per la elementarietà dei rapporti armonici, per lo piu limitati all’alternativa di tonica e dominante. Si aggiunga infine la brillante qualità dell’orchestrazione, che ad eccezione dei malinconici cla rinetti tira in ballo tutte le forze dello strumentale, com presi i timpani e con marcato impiego degli strumenti a fiato. Continuiamo l’analisi formale dell’aria, che natural mente non si presta a rilievi particolarmente approfonditi. Nella sezione B, in sol maggiore (battute 14-43), scompa rendo il ritmo puntato, il ritmo di marcia viene sostituito da un decorso più piano e fluente della melodia. È la de scrizione, e quasi la commemorazione funebre dei vezzi di Cherubino. Nella seconda parte della sezione B (dalla bat tuta 26) s’innesta un tono quasi maligno è di scherno. An che in quest’aria, come nel precedente invito alla danza rivolto al «Signor Contino», traspare qualcosa della co scienza di classe di Figaro: sebbene Cherubino sia prati camente un potenziale alleato contro i soprusi del Conte, egli appartiene pur sempre alla casta oziosa dei signori, e Figaro ci gode non poco a presagirgli le delizie egualitarie del servizio militare. Ecco quindi che la melodia vocale si rattrappisce con insistenza beffeggiatrice entro l’ambito d’una quarta discendente, dalla sottodominante (do) alla tonica (sol), mentre i violini reiterano con fissità quasi meccanica una scala discendente di semicrome. La mali gnità è esplicita nell’ostinazione con cui la voce ricasca sulla tonica (sol) ad ogni mezzo verso. Ritorna testuale la sezione A, in do maggiore, seguita dalla sezione C («Tra guerrieri poffarbacco!»), dove pro rompe in pieno il carattere di marcia militare. L’orchestra s’ispessisce per l’intervento massiccio di flauti, oboi, fa gotti, corni e timpani. Il contenuto melodico si essicca quasi del tutto, riducendosi il canto a rimbalzare quasi di continuo tra tonica e dominante, come una parte di timpa ni, in alternanza con gli accenti dell’orchestra. Solo sotto la ripetizione ironica delle parole «poco contante» gli ar
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chi e i fagotti introducono una specie di strisciante e cir colare riverenza melodica. Ancor più si atrofizza il contenuto melodico del canto nella seconda parte della sezione C, che inizia alla battuta 61, dopo un vero e proprio ponte di transizione (battute 58-60). L’orchestra, trasformata in una fanfara di soli fia ti, si impossessa di un disegno marziale, mentre la voce quasi si riduce alla ripetizione cadenzata di singole note (otto per battuta). Riappare B2, con la sua ostinata e schernevole insisten za sulla tonica (sol), quindi ultima ripresa di A, infine ri presa del marziale episodio C2, crescendo da «piano» a «forte», con l’orchestra ridotta a fanfara. Il medesimo episodio viene replicato in una Coda a piena orchestra, dove gli archi si uniscono ai fiati per rimpiazzare la voce di Figaro, ormai rientrato nei ranghi fra gli altri quattro personaggi, che sullo strepito sempre crescente, e pur sem pre scherzoso, della marcia orchestrale «partono tutti alla militare». Come si vede, non c’era bisogno che venisse Wagner a predicare l’associazione della danza (cioè del gioco scenico degli attori) alla musica e alla poesia nello spettacolo del dramma musicale. Mozart ci aveva già pen sato in questo finalino che fornisce anche al più scalcinato dei registi la possibilità di una pantomima scenica irre sistibile. Un fatto essenzialmente teatrale, dunque, quest’aria, e chi la volesse considerare sotto un profilo esclusivamente musicale rischierebbe di incorrere in una delusione, come chi credesse di ravvisare il meglio del Rigoletto in «La donna è mobile» o del Trovatore nella cabaletta «Di quel la pira». È chiaro che sono abilissimi inviti rivolti al gusto popolare. Se si paragonasse quest’aria a quella della Con tessa che, con voluto contrasto, apre il secondo Atto, ci si renderebbe conto ch’esse appartengono, per cosi dire, a due diversi mondi estetici. E tuttavia si mostrerebbe inutilmente schizzinoso chi volesse prenderne ombra. L’o pera è fatta di queste alternative e di questi equilibri fra tensioni e distensioni. Quanno ce vo\ ce vo’. Penoso sa rebbe che, volendo infilare in un’opera un pezzo di suc cèsso, l’autore lo tentasse e non ci riuscisse. Ma l’esito di
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«Non più andrai» fu strepitoso. A Praga Mozart si diverti un mondo a sentire gli organetti meccanici che Io strim pellavano, e oggi certamente sarebbe felice se Io potesse sentire in un juke-box. Tanto si compiacque della sua for tuna, che lo infilò, insieme ad altre due melodie in voga, di Sarti e di Martin y Soler, in una scena del Don Giovan ni, dove il protagonista banchetta allegramente al suono di liete musiche d’un’orchestrina in scena, che eseguisce i successi del giorno. Esiste una testimonianza significativa che illustra il ca rattere strettamente scenico di questa musica, legata in trinsecamente al fatto stesso dell’esecuzione, e quasi, per cosi dire, alla personalità dell’interprete. (Mozart, come è noto, amava scrivere non soltanto in maniera appropriata per i singoli strumenti e per le voci, ma proprio per un preciso esecutore: desiderava - sono sue parole - che la parte stesse bene all’esecutore come un abito fatto su mi sura). Scrivendo la parte di Figaro, Mozart ebbe sempre presenti la figura e la voce di Francesco Benucci, un bari tono italiano (basso, secondo le denominazioni di allora) di eccezionale bravura, e soprattutto un interprete viva cissimo, un attore nato, com’era frequentemente il caso fra gli artisti della nostra opera comica. Ora in quel raris simo e prezioso libro che sono le Memorie del tenore ir landese O’Kelly, interprete della parte di Basilio nella prima esecuzione, v’è un interessante resoconto della pro va generale. «Sento ancora - scrive O’Kelly - Benucci cantare l’Aria Non più andrai con la sua gran voce e il suo brio incomparabile. Ero vicino al maestro, che di tanto in tanto si lasciava sfuggire sotto voce un bravo! bravo Be nucci! Ma quando l’artista intonò .con voce stentorea Che rubino alla vittoria, alla gloria militar!, fu un entusiasmo indescrivibile, una vera commozione elettrica. In un bat ter d’occhio tutta l’orchestra fu in piedi e la sala entusia smata gridava a gran voce “Bravò, bravo Maestro! viva! viva il grande Mozart! ” I musicisti in delirio spezzavano gli archi sui leggii a forza d’applaudire». Per essere pienamente apprezzata, un’aria come «Non più andrai» va ricondotta nell’ambiente caldo ed entusia smante del teatro, con la mutua solidarietà di compositore
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ed interprete. Certamente il peggior servizio che le si pos sa rendere è quello di sottoporla ad una schematica analisi formale, dove la semplicità delle sue strutture musicali venga proiettata nella massima evidenza.
Capitolo quinto Il secondo Atto
scena prima
(la Contessa).
N. io. Cavatina. Larghetto, mi bemolle maggiore, 2/4.
C’è uno dei personaggi principali dell’opera, in certo senso il principale, in quanto ad esso ne è affidata la risolu zione catartica, che non abbiamo ancora conosciuto. Mo zart e Da Ponte si sono staccati dall’originale francese ed hanno volutamente ritardato l’ingresso della Contessa per conferirgli maggior rilievo all’inizio del secondo Atto. Nel la commedia di Beaumarchais essa appare nel corso del primo Atto, mescolata agli altri personaggi, senza parti colari riguardi. Il sipario si apre rivelandocela pensosa, malinconica, nell’intimità della sua «magnifica stanza con un’alcova, la porta d’entrata alla destra, un gabinetto alla sinistra, la porta in fondo, che dà adito alle stanze delle cameriere, una finestra a lato». Tutti particolari necessari all’azione che tra poco in questo luogo si svolgerà. Invece nessuna didascalia dice come dev’essere atteggiata l’attrice all’aper tura del sipario e durante il canto di questa breve, squisita Cavatina. Spetta al buon gusto del regista individuare la posizione migliore. In piedi, perché all’inizio della scena seguente si dovrà sedere. Ferma - e assorta, forse accanto alla finestra, come una figura di Vermeer, in uno di quei momenti di discesa entro se stessi in cui si ricapitola il re cente passato e si cerca di fare un bilancio, di vedere chia ro nel proprio io. Ferma, perché, come presto vedremo, l’essenza di que sto personaggio è l’equilibrio nella tenerezza e nella ma linconia, l’unitarietà, mentre il Conte, quello sì, deve es
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sere sempre in perpetuo movimento, perché la sua essenza è l’agitazione: l’agitazione che viene dall’interiore dissi dio di una natura lacerata tra spontaneità e costume, bar barie e cultura, primitivismo degli istinti e aristocratico controllo. E Susanna ha addosso l’argento vivo della gio vinezza. La Contessa pensa al proprio matrimonio, le cui gioie sono cosi presto sfiorite. Invoca l’amore che porga qual che ristoro al suo dolore, o la lasci alfin morir. La vispa Rosina del Barbiere di Siviglia è diventata un’affascinante signora, non certo matura, che è poco più che ventenne, ma trascurata dal marito. Una strofetta di quattro versi, ad apertura d’Atto, sui quali Mozart ha intessuto una squisita mini-aria- (È senz’alcun dubbio una cavatina, anzi il mo dello della cavatina, per la breve estensione, per il carat tere carezzevole e mite; tuttavia nello spartito italiano per canto e pianoforte viene detta aria). Dopo gli intrighi innescati nell’Atto precedente, e dopo lo strepito della chiusa pseudomilitare, ha ragione l’Abert di dire che il canto della Contessa sembra venire «da un altro mondo». Da quale mondo? dal paradiso, evidente mente, da quel paradiso perduto che è al fondo della poe tica, mozartiana, e la cui realtà è appunto testimoniata dal la presenza di creature come la Contessa, come Pamina, come Costanza: pezzi superstiti di paradiso incastrati co me meteoriti in questa nostra terra aspra, litigiosa, piena di Contese, di prepotenze, di soprusi, dove bisogna farsi largo coi gomiti e affermarsi in un continuo bellum om nium contra omnes che è appunto il castigo del peccato originale. Le creature femminili di Mozart si ripartiscono per lo più in due tipi (con particolari estensioni nell’inquietante area psicologica del Don Giovanni)', la dolce e la pungen te, la nobile e la popolana, la pura e la maliziosa, la sotto messa e la autoaffermativa, la tenera e la vivace, la bionda e la bruna (poco male se nel Ratto dal serraglio la vispa servetta è Blondchen, Biondina). La Contessa d’Almaviva è l’esemplare perfetto di quel tipo abbozzato nella Co stanza del Ratto dal serraglio (e già anche nella dolcissima Ilia deìTIdomeneo), e che nel Don Giovanni, alterato da
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violentissime passioni drammatiche, non si ritroverà piu esatto né nella vendicativa Donna Anna, fiera e diritta co me una lama di Toledo, né nell’affannata Elvira. In segui to Pamina sarà quasi una idealizzazione mitica di quel tipo femminile che nella concezione drammatica di Mozart è promessa e-garanzia di paradiso. L’aria, brevissima, nel tono nobile di mi bemolle mag giore, con la parte centrale alla dominante (si bemolle) è preceduta da un’introduzione orchestrale assai lunga (manco a dirlo i teneri clarinetti sono chiamati in azione in quest’aria, essi sono l’equivalente strumentale di quella malinconia femminea e affettuosa che è tipica di questi per sonaggi). Dopo due battute introduttive i violini primi av viano quella che sarà la melodia vocale della cavatina, so pra un frusciante stormire cromatico di violini secondi e viole. Ma soltanto per quattro battute la melodia viene perseguita; poi essa prende un indirizzo strumentale, che la voce non seguirà. Come annota l’Abert, tanti sentimen ti ondeggiano nell’anima della Contessa, senza che nessuno prenda il sopravvento: «nostalgia, fiducia, presentimen to angoscioso, tenera speranza». L’introduzione orchestra le ne è una specie di ricapitolazione. La melodia calma, soave, perfettamente centrata nella tonalità di mi bemolle, ha l’aria di riposare in se stessa: si spiega con naturalezza: il ritmo si increspa appena, alla terza battuta, in una sincope quasi impercettibile, data la lentezza del movimento. La melodia procede per lo più per gradi congiunti, e la sua principale magia sta forse nel perfetto dosaggio tra canto sillabico e brevi vocalizzi. Il primo gruppo di due note su una sillaba appare sulla chiu sa dolcemente strascicata del primo e più piccolo inciso melodico («Porgi, awor»); il secondo, sulla nota puntata della parola «ristoro», è l’effetto classico del sospiro. Quando infine sulla prima sillaba di «duolo» rotolano ben quattro semicrome, allora è come un lento vortice di dol cezza che si mette in moto. Lo raccolgono, manco a dirlo, i clarinetti, mentre su una figura ascendente e ben ritma ta degli archi avviene la modulazione alla dominante, si bemolle. In questa sezione centrale il canto acquista vi brazione d’intensa, appassionata invocazione. Secondo lo
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Abert, la prima parte dell’aria, col suo calmo carattere preparatorio, non lasciava prevedere questa impennata do lorosa, del resto richiesta dall’energia delle parole, che pongono un ultimatum: «O mi rendi il mio tesoro, O mi lascia almen morir». Forse fino a questo punto l’aria, sublime nella sua ma linconia, sarebbe tuttavia niente più che una bella aria, di gusto italiano, come se ne incontrano pure in Paisiello, in Piccinni, in Cimarosa. Il sigillo mozartiano, lo stampo in confondibile è nella replica obliosa di quel ghirigoro me lodico che la voce e gli archi eseguono all’inizio della ripre sa in mi bemolle maggiore: un po’ affrettato in confronto al passo tranquillo dell’aria (sono semicrome), eppure an cora blando, soavissimo. Viene ripetuto come per assapo rarne la dolcezza. La seconda volta, sull’ultima nota, dolo rosamente deformata in la naturale, anziché bemolle, cade un inciso dolente del fagotto (ma in quasi tutte le esecu zioni trasferito invece ai corni). Di nuovo la sillabicità del la melodia si scioglie nel vocalizzo d’una scaletta ascen dente sulla parola «lascia». Poi la tonica viene raggiunta due volte, una volta dall’alto con un salto di quinta, anco ra troppo carico di tensione perché la melodia possa spe gnersi qui, la seconda volta dal basso, dalla sensibile; i clarinetti propongono e i fagotti raccolgono e concludono il dolcissimo epodo strumentale. Tutto in quest’aria rispecchia l’equilibrio interiore del personaggio che, come scrive il Breydert, «non è di quella specie d’attivisti che vogliono sostenere essi stessi la parte del destino». Non c’è nella Contessa né violenza, né durez za, né rivolta contro la sorte, e la sua cavatina si espande tranquilla, concentrica, con la naturalezza dei cerchi d’ac qua che si allargano intorno a un sasso gettato in uno stagno. scena seconda (la
Contessa e Susanna, poi Figaro).
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In alcune edizioni questo recitativo viene indicato come «seguito della Scena prima». Come la Contessa ha termi
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nato la cavatina precedente, sopraggiunge Susanna, che le racconta - continuando un discorso precedente - le in sidie che il Conte va tendendo alla sua virtù. Tra le due donne c’è un rapporto confidenziale, più di coetanee che fra serva e padrona. Mentr’esse stanno chiacchierando e facendo le loro considerazioni su «i moderni mariti: per sistema Infedeli, per genio capricciosi* E per orgoglio, poi, tutti gelosi», si ode dall’interno il cantarellare di Figaro, che rompe per un attimo l’uniformità del recitativo. Introdotto dalle due donne, egli completa, «con ilare disinvoltura», il racconto delle trame del Conte, indi espo ne un progetto per sventarle: fargli pervenire, attraverso quel maneggione di Basilio, un biglietto nel quale la Con tessa dia un appuntamento a un amante per l’ora del ballo. «O ciel! che sento! » esclama la Contessa. Ma la sua reazio ne è abbastanza singolare, e traspare in essa qualcosa della vivacità spregiudicata di Rosina, quale appariva nel Bar biere di Siviglia. «Ad un uom sì geloso! » Questo è tutto quel che le pare discutibile nel progetto di Figaro: la fe roce gelosia di suo marito, non il fatto che non stia bene mandar biglietti e fissare appuntamenti ad amanti. In al tri termini, la preoccupano le circostanze, non la cosa in sé. Lo scopo che Figaro si propone col suo stratagemma non è, in verità, molto chiaro: frastornare il Conte, accen dere in lui gelosia che lo distolga per un momento dalle sue mire su Susanna, in maniera da poter guadagnar tem po e compiere il matrimonio, prima che egli abbia potuto ricuperare il diritto feudale della prima notte. D’altra par te, per evitare che il Conte, deluso ed irritato, tiri in ballo Marcellina per impedire il matrimonio di Figaro, questi consiglia ancora che Susanna finga di dare un appuntamen to in giardino al Conte verso sera: all’appuntamento an drà Cherubino (che proprio per questo scopo Figaro ha momentaneamente fermato al castello, ritardando la sua partenza per il servizio militare), «da femmina vestito». La Contessa li sorprenderà e il Conte sarà così costretto a dimettere le proprie pretese. La Contessa è un po’ dubbiosa, e si consulta con Susan na, che approva il piano. «E poi?», chiede la Contessa an cora incerta. «E poi», replica Figaro, e intona rapidamen
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73 te, subentrando al basso continuo gli archi e due corni, una «ripresa del n. 3», cioè della rabbiosa ballatetta «Se vuol ballare, signor Contino». Anche questo fuggevole richia mo è indice della fondata preoccupazione di Mozart di rompere in qualche modo la continuità di questo, in ve rità lunghissimo, recitativo dialogante. scena terza
(la Contessa e Susanna, poi Cherubino).
Recitativo.
Figaro esce, e le due donne chiamato Cherubino, per ché venga a cantare lui stesso la canzonetta che ha compo sta. Ciò dà luogo a una nuova Scena, terza, o per alcune edizioni seconda. Canzonato familiarmente da Susanna per la sua nuova condizione di «uffiziale», Cherubino, arros sendo e tremando, si accinge a cantare la sua canzone, ac compagnato da Susanna sulla chitarra della Contessa (non si dimentichi che siamo in Spagna). N. 11. Canzone. Andante con moto, si bemolle maggiore, 2/4.
Questo pezzo è chiamato «aria» nello spartito italiano per piano e canto, «canzona» nella partitura Eulenburg, dove il tempo è indicato «Andante»; nello spartito «An dante con moto». L’Abert rileva il tono di «canzonetta italiana» assicu rato a quest’aria dal persistente accompagnamento dei violini pizzicati (mentre le viole sono spedite a tener com pagnia ai bassi), simulanti la chitarra. E come canzonetta, infatti, il pezzo è da intendere, non come aria né come pomposa canzona. Giustamente l’Abert istituisce il raf fronto tra questa e la precedente Aria di Cherubino: là («Non so più cosa son cosa faccio») Cherubino era pre da del turbamento amoroso; qui egli tenta di oggettivarlo e descriverlo per proporlo all’esame di quelle due compe tenti ch’egli ritiene, non a torto, siano la Contessa e Su sanna («Voi che sapete Che cosa è amor, Donne, vedete S’io l’ho nel cuor»). Naturalmente la galanteria è soltanto la facciata este
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riore della canzonetta. Sempre l’Abert ha buon gioco ad avvisarci che «dietro... sonnecchia un’emozione solo fati cosamente contenuta». È l’unico a solo dell’opera - egli osserva - che riunisca tutti i legni (flauti, oboi, clarinetti e fagotti) e vi aggiunga ancora una coppia di corni. Sareb be strano un tale spiegamento, e un tale impasto dei suoni midoliosi di tanti legni, per una semplice canzonetta ga lante. Tutti questi strumenti a fiato non seguono o rad doppiano la melodia vocale. «Di solito si contentano di piccole frasi espressive, spesso anche del solo effetto tim brico: è un linguaggio le cui manifestazioni si tengono spesso al di qua del limite della piena coscienza. I fiati in formano l’ascoltatore di quanto passa nel cuore del giova ne poeta e cantore... Il suono ingenuo del flauto, quello ele giaco dell’oboe, quello sensualmente ondoso del clarinet to, quello oscuro del fagotto e il presago romanticismo dei corni, s’incrociano, si mescolano e si fondono in un ritratto dell’anima d’insuperabile pregnanza». Un breve preludio strumentale anticipa la melodia, co me al solito non intera, ma in una specie di compendio, omettendone (e perciò tenendo in serbo) due incisi centra li. La prima parte della frase è di canto puntigliosamente sillabico, perfino nelle semicrome col punto di «cosa è amor». Seguono le quattro battute omesse nel preludio strumentale: sulle parole «donne, vedete s’io l’ho nel cor», due brevi incisi ascendenti di tenero cromatismo ti picamente mozartiano: quel cromatismo che fa scivolare la melodia per gli intervalli minimi, quasi ponendo i semi toni tra un suono e l’altro per ridurre le distanze, per con sentire il passo brevissimo, quasi strisciato, per annullare interamente la durezza dell’intervallo ben marcato. Il cro matismo mozartiano è espressione di tenerezza, natural mente, qualche volta anche di sofferenza, ma anche e pri ma di tutto è manifestazione di civiltà: rifiuto di usare parole grosse, scelta dei termini p'iù gentili e inappari scenti. Per contrasto, a questi due incisi cromaticamente stri sciati segue nella chiusa l’altro ed opposto contrassegno ti pico di questa frase: due battute d’intervalli di terza in direzione opposta (due discendenti e due ascendenti), sulle
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parole «donne vedete», intervalli dondolanti e ripetitivi che producono un effetto sornione come di lento scam panio. . Alla battuta 21, con la modulazione alla dominante (fa maggiore), dobbiamo porre l’inizio della seconda sezione dell’aria, sebbene, come vedremo, Mozart si riservi di ricondurre in essa abilmente una specie di falsa ripresa della prima parte. Il nuovo tono di fa maggiore reca alla melodia di Cherubino una specie di spiegamento afferma tivo. Prima interrogava smarrito, perché le donne gli spie gassero quel ch’egli sentiva. Ora si prova lui stesso a de scriverlo: la melodia si spiega con una certa ampiezza di tono narrativo, finché alla battuta 35 la brusca inserzione del la bemolle introduce un ripiegamento doloroso, pieno di malinconia segreta, col passaggio improvviso da fa mag giore a fa minore. Ma non sono che due battute, dove il fa minore serve di passaggio al relativo maggiore, la be molle, ancora più spiegato e caldo che il precedente fa mag giore. È qui, sulle parole «Gelo, e poi sento l’alma avvam par», che si nasconde, mascherata, la ripresa della prima sezione dell’Aria: della melodia iniziale c’è soltanto la struttura ritmica, su piede dattilico, ma poi alle battu te 41-44 ecco la figura sorniona e dolcemente scampanante degli opposti intervalli di terza. Siamo già alla ripresa? No, ché la seconda sezione del l’aria riprende tosto assai più affannosa ed espressiva in tono di do minore («Ricerco un bene fuori di me»). Il gioco delle modulazioni s’infittisce e passiamo per un mo mento in sol minore («non so chi il tiene, non so cos’è»), la tipica tonalità mozartiana dell’affanno, dello scompiglio interiore e del dolore tragico. La vernice galante della can zonetta si sta screpolando sotto effetto d’una profonda agi tazione. Gli incisi della melodia diventano sempre più corti e ansiosi. Il recupero della tonalità fondamentale (si bemolle, relativo maggiore del precedente sol minore) non porta la pace. I frammenti in cui si è spezzata la melodia salgono faticosamente e tenacemente di un grado alla vol ta, ad ogni passo essendo la nota iniziale della voce pre venuta da uno scivolo cromatico di flauto e oboe, quasi come un’eco anticipata.
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Finalmente alla battuta 62 ha luogo la ripresa regolare della prima parte, non assolutamente identica, ma sotto posta a qualche piccola e finissima modificazione: per esempio l’inciso cromatico ascendente di «Donne, vede te » è anticipato di una battuta da clarinetti e fagotti, che nella prima parte, invece, cominciavano assieme alla voce. Questa canzonetta e la precedente aria di Cherubino si continuano, per così dire, a breve distanza e completano il ritratto di questo straordinario personaggio, la cui essen za poetica consiste nei primi turbamenti innocenti e in consci dell’adolescenza, visti attraverso la malizia degli adulti. Recitativo.
Fatti i complimenti a Cherubino per la sua esibizione póetico-canora, la Contessa e Susanna passano all’attua zione del loro piano: il travestimento femminile del pag gio. La Contessa con qualche residuo di esitazione, a spo gliare nella propria camera quel giovinetto che non è pili propriamente un bambino, Susanna con spavalderia. Du rante l’azione stessa, il dialogo non cessa di annodare le fila dell’imbroglio. Lo spogliarello di Cherubino mette al la luce un documento, la patente d’ufficiale che gli è stata or ora consegnata da Basilio, con interessata prestezza, co me rilevano con ironia la Contessa e Susanna. La Contes sa, pratica di documenti ufficiali, s’accorge che a questa pa tente, compilata con tanta fretta, manca il sigillo: è un particolare che ben presto rivestirà grande importanza nel le prossime scene. Di punto in bianco la vestizione di Cherubino dà luogo a un’aria. N. 12. Aria (Susanna). Allegretto, sol maggiore, 2/4.
Nulla, praticamente, è mutato nell’azione: quello che Susanna stava facendo, cioè l’abbigliamento di Cherubino con la cuffia della Contessa e un abito proprio, lo continua a fare. La lettura dei versi di quest’aria è sbalorditiva:
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Venite... inginocchiatevi... Restate fermo li... Pian piano, or via, giratevi, Bravo, va ben cosi.
Sono le .piu strane parole che si possano immaginare per un’aria. La tradizionale opinione che un’aria d’opera deb ba esprimere dei sentimenti suscitati dall’azione svoltasi durante il precedente recitativo, he è completamente scon volta. Queste parole non esprimono sentimenti di sorta, ma accompagnano un’azione. Quest’aria è un esempio straordinario di quelle arie d’azione, non liriche ma dram matiche, con le quali Mozart si preoccupa di ovviare alla staticità dell’aria tradizionale, coinvolgendo nel loro rag gio d’azione altri personaggi oltre a quello che canta. Già abbiamo visto, come esempio di questa prassi, il Finale dell’Atto primo, l’aria di Figaro «Non piu andrai, farfal lone amoroso». Qui, «Venite, inginocchiatevi» è una ve ra e propria aria-terzetto, che impegna soltanto la voce di Susanna, ma tira in ballo nell’azione Cherubino e la Contessa. Siamo, naturalmente, in un punto saliente della galan teria settecentesca: la scena stessa, due graziose donnine che travestono un paggio in panni femminili, richiama alla memoria la tematica figurativa d’un Watteau, o meglio an cora d’un Boucher. L’ambiguità della scena è accentuata, nella resa musicale, dall’equivoco delle voci: il paggio che vien travestito è, di fatto, una donna pure lui. Siamo nel cuore dell’erotismo galante, e il rischio della leziosaggine è ad un passo. La musica di Mozart par che si diverta a sfiorarlo, questo rischio, e contemporaneamente dissipar lo con la propria purezza. Non arriveremo a pensare, con l’Abert, che qui si manifesti solo «la naturale grazia della giovinezza, attirata verso la giovinezza, senza alcun sottin teso di lascivo erotismo». Questo ingrediente ora diffuso in dosi cosi massicce nella nostra cultura, e ben noto, ma con altra finezza di gusto, al secolo che fu di Sade e di Choderlos de Laclos, non è certamente estraneo all’ispirazione di questa scena. Non vi son dubbi sulla natura voluttuosa di Mozart e sulla sua fortissima propensione verso il sesso
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femminile (ciò che non gli impedì di trascorrere una giovinezza casta, forse fino al matrimonio). Eppure anche questa materia, come ogni altra, viene disciolta nella pu rezza dei valori musicali, si che non si potrebbe immagi nare esempio piu probante di catarsi. Invece che alTAbert ci affideremo questa volta allo Hocquard, che ha trattato quest’aria con molta penetrazione: «Il Venite, inginoc chiatevi - egli scrive - è una meraviglia di tatto e di pu rezza, quando Susanna si diverte a rivestire di abiti fem minili il piccolo Cherubino, tutto agitato d’un equivoco erotismo. Tutto, qui, indirizzava il musicista verso la sen sualità più perversa: l’adolescente innamorato della Con tessa, Susanna che sfiora, che accarezza perfino quel corpo dal sesso indeciso, e che potrebbe forse provare lei stessa per Cherubino un sentimento più complesso che la sem plice gentilezza... Come Mozart si gioca di tutto questo! Nessuno di questi equivoci è respinto; si potrebbe dire che essi sono tutti suscitati per essere, di volta in volta, puri ficati». Ciò che può esservi di scabroso nella situazione è tal mente assimilato nei valori musicali, che di fatto non ab biamo orecchie se non per la straordinaria qualità formale di quest’aria di movimento, così spezzata e duttile ai moti d’un testo discorsivo, da dar quasi l’impressione - se fosse lecito avanzare un simile paragone contraddittorio - di un’aria fatta con frammenti di recitativo. Manco a dirlo, l’orchestra vi ha una parte preponderante: è lei, per lo più, che mantiene il filo del discorso, « mentre la voce è per lo più mantenuta in tono declamatorio». Così scrive l’Abert, il quale ci ricorda che tutti i gesti di Susanna e Che rubino durante la complicata procedura della vestizione cadono su determinati momenti del discorso orchestrale, come in un balletto, a ciò costretti, del resto, dal testo, che continuamente prescrive a Cherubino quanto deve fa re: «Pian piano, or via, giratevi... Più alto quel colletto... Quel ciglio un po’ più basso... Le mani sotto il petto... Ve dremo poscia il passo». Tutte queste ed altre prescrizioni di Susanna al paggio hanno luogo attraverso frasi vocali brevissime, di minimo contenuto melodico: spesso si tratta d’un vero e proprio
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salmodiare su una sola nota più volte ripetuta; oppure di brevissime cadenze intorno alla tonica. (L'aria modula da sol maggiore alla dominante, re maggiore, dopo i primi quattro versi, e tutta la parte centrale in re maggiore è quasi calamitata intorno alla nuova tonica e alla nuova dominante, la. Si veda alle parole: «Restate fermo, or via giratevi: guardatemi! bravo!») Forse l'aulico schema ita liano dell'aria non era mai stato trattato con tanta spre giudicatezza - oggi si direbbe: dissacrato - come in que sta provocatoria aria di movimento. Di un'aria così spezzettata e docile alle esigenze dell’a zione è perfino difficile indicare uno schema formale. Non si tratta della solita forma ternaria con da capo, ma piut tosto d'una piccola aria a rondò, composta di minutissime sezioni, le quali fanno perno sopra una breve figura melo dica, dapprima introdótta in modo quasi inavvertibile, alle parole: «restate fermo li»; poi riappare due volte in or chestra, nella strana strumentazione di violini primi e fa gotti all'unissono, quando Susanna invita Cherubino a non distrarsi guardando la Contessa (se ne dichiara così il ca rattere canzonatorio di ammonizione), e altre due volte nella chiusa dell'aria, quando Susanna si rivolge alla Con tessa in una specie di complicità femminile, anche qui su parole maliziose e determinanti: «Se l’amano le femmi ne Han certo il lor perché». Tra le apparizioni di questo ritornello l’orchestra intro duce numerosi piccoli episodi, a cominciare da quella figu ra della brevissima introduzione, in semicrome discenden ti dei violini, che viene ripetuta tosto nelle battute 4-6, ma poi non riapparirà più nel corso dell'aria: tuttavia do vremo ricordarcene, perché la incontreremo con stupore in altre scene di questo Atto, sempre connessa in qualche mo do con Cherubino, fisicamente assente, ma in qualche modo implicato nell'azione, secondo una tecnica leggeris sima di Leit-motiv prewagneriano. Un'altra figura orchestrale ricorrente in quest'aria con siste in una nota dei violini primi quattro volte ribattuta, con l'inserzione d’un gruppetto rapidissimo, uno svolazzo di tre note, su cui s’inseriscono, con mirabile dilatazione polifonica, i calmi arabeschi di flauti, oboi e fagotti e una
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breve frasetta discendente degli oboi (più tardi, battute 61 sgg., la troveremo ai flauti). È questo anzi il nucleo so stanziale della prima parte dell’aria, fatto d’una trama strumentale impalpabile come una trina. Sopra di esso la voce inserisce il suo quasi-recitativo, di brevissimi incisi spiccatamente sillabati, rapidi, emessi con quella parlanti na vertiginosa, con quella disinvoltura popolana, da ser^ vetta, che è tipica di Susanna. L’aria conosce solo una grande cesura importante, che la divide in due sezioni, quando Susanna cambia interlo cutore e si rivolge «piano alla Contessa», per farle ammi rare, sussurrando in tono di complicità, la bellezza di Che rubino. Tace la voce per due battute e mezza, e il discorso orchestrale, finora così vivace e ricco, subisce una specie di paralisi arrestandosi sulla dominante di sol maggiore (re), tenuta a lungo da oboi e fagotti e ripetuta pianissimo dai violini primi. È il momento dove la futile volubilità di Susanna viene attraversata da un’ombra più profonda e rischiosa di sensualità: il gioco della vestizione di Cheru bino sfiora la possibilità di qualche complicazione più gra ve. È il momento in cui la superiorità di Susanna e della Contessa nei riguardi di Cherubino, in quanto adulte, va cilla di fronte alla sua bellezza, non più propriamente in fantile. Il chiacchierio inarrestabile di Susanna diventa un sussurro turbato, sempre rapidissimo, che si riposa solo nel già citato slargo melodico sulle parole significative: «Se l’amano le femmine Han certo il lor perché». Su di esse è costruita la chiusa dell’aria, dove per la prima vol ta le ragioni formali della costruzione musicale si fanno valere con una certa ridondanza, sulla stringatezza del di scorso scenico, e il sospetto di leziosità si concreta forse in qualchecosa di più che un’ombra. Recitativo.
Proprio sul finire della precedente aria di Susanna ab biamo avvertito un’ombra, non diciamo di fastidio, ma di sospetto per un eccesso di svenevolezza, di smanceria ga lante nell’infatuazione della servetta per il grazioso pag gio. Mozart e Da Ponte non ci dànno neanche il tempo di
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percepire esattamente questa nostra impressione, che su bito ci prevengono: «Quante buffonerie!», comincia la Contessa. È come se gli autori ci dicessero: «Lo sapevamo anche noi. L’abbiamo fatto apposta a spingere la frivolez za di Susanna fino all’estremo limite tollerabile». È la se conda volta, nell’opera, che Mozart ci gioca questo scher zo, di prevenire le nostre eventuali obiezioni. L’altra volta era stata nella Scena ottava del primo Atto, col coro scioc cherello dei contadini; e subito il Conte s’era fatto inter prete della nostra impressione, sbuffando: «Cos’è questa commedia? » Ora le prime battute del recitativo tra Susanna e la Contessa ribadiscono la riprovazione del contegno di Su sanna: «Finiam le ragazzate», intima la Contessa. Nel drappeggiare le maniche del vestito femminile su Cheru bino gli scoprono, al braccio, il nastro della Contessa, che il paggio aveva sottratto a Susanna nella Scena quinta del primo Atto. È macchiato di sangue, e Cherubino s’imbro glia un poco nel darne spiegazione: « Quel sangue... Io non so come... Poco prima, sdrucciolando In un sasso... la pel le io mi graffiai, E la piaga col nastro mi fasciai». Si tratta, come dicevamo, d’un tocco di autentico sadismo - relazio ne tra il sangue e l’emozione amorosa - che Beaumarchais aveva in un primo tempo alquanto esteso, e poi ridotto nella commedia. Da Ponte non se lo lascia sfuggire, e lo tratta a dir vero assai bene, ottimamente configurando nel dialogo il turbamento del ragazzo sul punto di rivelare que sto aspetto profondo del suo sentimento per la Contessa, turbamento che si comunica in parte alla Contessa stessa, ed ella se ne difende con lo scherzo e con una disinvoltura che in realtà non è tanto sicura di se stessa. Tutto ciò resta confinato in un recitativo, quindi a ri gore dobbiamo riconoscere che la musica non s’interessa sostanzialmente a questa inquietante deviazione della ga lanteria settecentesca. E tuttavia sembra anche di potere affermare che non si tratta d’un recitativo come tutti gli altri, non fosse che per le sue fluttuazioni tra tono mag giore e tono minore, col minore che va a cascare - guarda caso - proprio sulle situazioni piu scabrose del dialogo. Susanna si estasia per la bianchezza delle braccia di Che
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rubino («Cospetto! Ha il braccio Più candido del mio! ») e ancora una volta la Contessa la rimprovera («E segui a far la pazza? ») Due volte la servetta viene spedita nel ga binetto della Contessa a cercare «un poco D’inglese taf fetà», e poi un nuovo nastro per bendare il delicato brac cio di Cherubino. Mentre restano soli, il paggio arrischia quasi una dichiarazione alla Contessa, che cerca imbaraz zata di voltare il discorso in scherzo. Ma quando Cherubi no («Oh me infelice! ») si mette a piangere, dando prova della sincerità e dell’intensità del suo sentimento, allora la Contessa è sul punto di perdere la testa: «Or pian ge», esclama con affanno e commozione, e mentre lo rim provera («Siate saggio: cos’è questa follia?»), amorevol mente gli asciuga gli occhi col fazzoletto, chissà quanto soavemente profumato e sottile. Basterebbe ancora un at timo perché Cherubino, stordito dal profumo ed illuso dalla compassione della Contessa, del resto tutt’altro che esente di tenerezza, trovi il coraggio d’abbracciarla. Pro prio in questo momento critico si sente picchiare violen temente alla porta.
scena quarta
(la Contessa, Cherubino, il Conte fuori
della porta). Recitativo.
È il Conte, e col suo arrivo ha inizio una nuova Scena, quarta per la partitura d’orchestra e il libretto, terza nello spartito per canto e pianoforte. Curiosamente, neanche sull’inizio di questa Scena le due fonti non sono d’accor do. Libretto e partitura fanno cominciare la nuova Scena nell’attimo stesso in cui si sente la voce del Conte, fuori scena, che chiede: «Perché chiusa?» Lo spartito, invece, forse considerando che i cambiamenti di scena sono deter minati dalla diversa presenza effettiva di personaggi sul palcoscenico, ritarda l’inizio della nuova Scena (terza per lo spartito) fino all’effettivo ingresso del Conte nella camera della Contessa, dopo che in gran confusione Che rubino è sgattaiolato nel gabinetto della Contessa e ci si è chiuso dentro (Susanna è sempre fuori, alla ricerca del
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nastro). Siccome a questo punto anche la partitura d’or chestra e il libretto collocano l’inizio di una nuova Scena, la differenza nella numerazione aumenta.
scena quinta
(la Contessa, il Conte).
Recitativo.
È la Scena terza per lo spartito piano e canto. Entra il Conte, vestito da cacciatore (si noti come quest’attività sportiva aumenti il carattere di ferocia selvatica del per sonaggio, contrastante con la sua compitezza di genti luomo). Stupore del Conte perché sua moglie si sia chiusa in ca mera. Spiegazioni imbarazzate e imprudenti della Contes sa: «Era meco la Susanna... Che in sua camera è andata». Ma tra poco, non sapendo piu a che santo votarsi per impe dire a suo marito di piombare nel gabinetto dov’è racchiu so Cherubino, gli dirà che c’è dentro Susanna intenta a provarsi un abito da sposa. Il Conte è su tutte le furie: Don Basilio gli ha recapitato il biglietto escogitato da Fi garo nella Scena seconda, per mettere in guardia il Conte verso un appuntamento che la Contessa avrebbe dato a un amante per l’ora del ballo. Il Conte è un gentiluomo, e non si abbasserebbe mai a dubitare di sua moglie per una lettera anonima. Ma le mostra il foglio, e la Contessa lo riconosce con raccapriccio. D’altra parte il Conte tradisce di continuo sua moglie, ed ora la vorrebbe tradire con Su sanna: niente di meglio per chi ha la coda di paglia, che scoprire in colpa la persona a cui fa torto. Perciò il Conte si accanisce ora su questo mistero della porta chiusa, alla na turale gelosia coniugale aggiungendosi sotto sotto una spe cie di protervia: se riuscisse a scoprire la Contessa colpe vole, egli si sentirebbe di punto in bianco giustificato nelle proprie infedeltà, e innocente come un angioletto. Mentre i due discutono, si ode dal gabinetto chiuso un terribile fracasso di mobili rovesciati: vecchia gag dell’o pera comica (c’è pure nel Barbiere di Siviglia), con una co micità che funziona sempre. Vien fuori, stentatamente, tra molte esitazioni e imbarazzi, che nel gabinetto chiuso
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c’è Susanna. Il dialogo ironico tra i due coniugi, che si rin facciano a vicenda il turbamento per la cameriera, coinvol ge finezze e sottintesi che risalgono alla commedia di Beau marchais, e che Da Ponte ha molto abilmente versificato in endecasillabi. Di punto in bianco, senza che nulla asso lutamente nella situazione sia cambiato, si passa dal reci tativo a un terzetto, con la stessa immediatezza e conti nuità già osservata a proposito della precedente aria di Susanna («Venite, inginocchiatevi»), scena sesta
(detti, e Susanna in disparte).
N. 13. Terzetto. Allegro spiritoso, do maggiore, 3/4
Perciò una volta tanto non saremo d’accordo con l’A bert che trova questo terzetto «più lirico» che il prece dente (quello del primo Atto, tra Figaro, il Conte e Ba silio). Neanche per sogno. Anche questo è una meraviglia di naturale coincidenza tra le esigenze formali della musi ca e quelle narrative dell’azione. Dialogo che si fa musica, e musica che si estrinseca in dialogo, secondo la formula esattissima con cui Wagner riconobbe la qualità della drammaturgia mozartiana nelle Nozze di Figaro. Sarà ve ro che «la situazione resta la stessa dal principio alla fine e mantiene i tre personaggi in una tensione febbrile, che non viene risolta, ma dura fino alla chiusa». D’altra par te non è meno vero che la schermaglia di accuse e sotterfu gi, di ripicchi e di scuse in cui si svolge il battibecco tra il Conte e la Contessa, sotto l’occhio inquieto ed ironico di Susanna, la quale lo commenta a parte, è tutto il contrario della staticità: nulla è meno lirico di un litigio coniugale, e infatti anche questo terzetto non finirà di stupirci per il suo dinamismo e la sua mobile progressione. Non solo, ma questa volta ci sembra perfino d’avere sco perto l’ammiratissimo Abert in colpa di distrazione, quan do parla di Dreiteiligkeit (forma tripartita), con «da capo» 1 Anche qui lo spartito per canto e pianoforte non raccoglie l’inizio d’una nuova Scena, determinata dall’ingresso di Susanna, che si ferma sul la soglia e durante il terzetto si nasconderà nell’alcova. Perciò questo ter zetto nello spartito figura come «seguito della Scena terza». Inoltre il tem po è «Allegro di molto».
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variato, a proposito di questo terzetto. È un peccato che egli non abbia poi proceduto a un’analisi sistematica del pezzo, altrimenti sarebbe stato interessante vedere dove sarebbe riuscito a scoprirne la Dreiteiligkeit. Secondo ogni verosimiglianza, la forma del terzetto è quella di una piccola Aria doppia, interamente ripetuta (e variata), con ripetizione dell’ultima sezione a guisa di «co da»: A-B; A-B-B2. L’articolazione del terzetto è estremamente sottile e varia, già fin dal testo poetico. (Quanto sarebbe importante sapere in che maniera lavoravano Mozart e Da Ponte: se il taglio delle arie, e di concertati cosi elaborati come que sto, era interamente prefabbricato dal librettista e poi presentato al compositore, oppure se queste distribuzioni essi le combinavano insieme, alla maniera che Verdi usava coi suoi librettisti! ) La caratteristica che immediatamente colpisce nel ter zetto, anche al solo esame del libretto, è che fii esso si di stinguono parti, diciamo cosi, a dialogo, dove i personaggi parlano uno per volta, rispondendosi, e parti, diciamo co si, a massa, dove due personaggi o tutti tre parlano insie me. Ciò avviene già anche nella prima sezione dell’aria (A), assai piu breve della seconda. All’ingiunzione del Conte verso la porta chiusa («Susanna, or via sortite. Sor tite! Cosi vo’») risponde il canto a due delle donne, seb bene la Contessa si rivolga al Conte («Fermatevi... Sen tite... Sortire ella non può»), e Susanna, invece, rientrata non vista e fermatasi sull’uscio, parli «fra sé». L’ingiun zione del Conte non presenta un profilo melodico elabo rato: è poco più che un recitativo, sui gradi fondamenta li della tonalità di do maggiore, mentre l’orchestra sposta quattro volte un suo disegno quadrato e imperioso, carat terizzato da un breve trillo. Neanche il canto a due delle donne è particolarmente melodico, ma il discorso orche strale che lo sostiene si scioglie in un disegno più gentile e disteso degli archi, poggiato su note lunghe dei legni. Di nuovo energia e durezza quando ancora il Conte solo interroga, sui gradi dell’accordo perfetto di sol maggiore: «E chi vietarlo or osa? Chi?» Con questo passaggio alla dominante (sol) ha già termi
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ne la prima sezione del terzetto, breve e tutta in do mag giore, e con la risposta della Contessa comincia la seconda, assai più estesa, e condotta, dall’iniziale sol maggiore, at traverso un ciclo interessante di modulazioni espressive. Questa volta la Contessa si è un po’ ripresa dalla sua con fusione e si prepara a fronteggiare il marito. L’unissono della voce con gli archi manifesta la sua decisione, la sua energia. « Lo vieta l’onestà », risponde. Ma si noti una squi sita finezza. Tali sono le parole del libretto, secondo le esi genze della versificazione (un settenario tronco). Mozart non se ne dà per inteso, e ripete le parole «lo vieta», ripe tendo tre volte, sempre più basso, la figura di tre note nell’unissono della voce e degli archi. Ne vien fuori un sug-. gerimento teatrale al quale il libretto non aveva neanche pensato: si ha l’impressione che la Contessa cerchi la ri sposta («lo vieta... lo vieta»), e solo alla fine, quando sul la sillaba accentata la frase melodica giunge a riposare fer mamente sulla tonica (sol), la sicurezza del personaggio è pienamente raggiunta. Allora, una volta trovato il bandolo, ecco il fiotto delle spiegazioni: «Un abito da sposa Provando ella si sta». Su queste parole la Contessa inizia, in maggiore, una melo dia, o piuttosto una frase, quasi esclusivamente un ritmo, che ben presto, nell’inquieta tonalità di sol minore, riuni rà le tre voci in un insieme con inizio a canone: «Chiaris sima è la cosa», comincia il Conte; «Bruttissima è la co sa», sopravviene la Contessa; «Capisco qualche cosa», entra per ultima Susanna. L’effetto del breve canone è di mistero e stupore: l’intrigo avvolge i tre personaggi nel l’ignoranza reciproca della situazione. Susanna, appena ar rivata dall’altra camera, è quella che ne sa meno di tutti; il Conte ha molti sospetti e arde dal desiderio di chiarirli; la Contessa è quella che sa tutto, ma è anche la più imbaraz zata, perché sapendo quello che gli altri ignorano, e cioè che nel gabinetto è chiuso Cherubino, sta sulle spine e cer ca disperatamente qualche scappatoia. Questa situazione instabile e diversificata, che mai un dialogo teatrale riu scirebbe da solo a rendere, è resa perfettamente nella ri petizione a canone delle lugubri e spioventi linee vocali. C’è un senso di mistero e d’intrico, a cui dà rilievo il dili-
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87 gente contrappunto a tre voci cui si dedicano oboi e fagot ti, quasi legando i fili d’una ragnatela. Il ritorno al tono di sol maggiore segna l’uscita da questo piccolo incubo. Il canone delle tre voci si ripete a rovescio. Questa volta comincia Susanna: «Capisco qualche cosa»; continua la Contessa: «Bruttissima è la cosa», e entra per ultimo il Conte, ma ormai l’atmosfera oppressiva del sol minore è sparita, gli archi avviano un motivo vivace che occulta pra ticamente il filamentoso contrappunto a tre voci dei legni, e quando i tre cantanti si trovano riuniti sopra una figura oscillante di due note (battuta 50), all’unissono con l’orchestra, una delle voci femminili se ne spicca con un aereo vocalizzo cromaticamente ascendente \ seguito da una pau sa generale di una battuta e mezza, appena rotta da un ti mido accordo perfetto degli archi. Si ha cosi una specie di cadenza sospesa, dopo la quale la frase giunge rapidamen te a termine sulla tonica (sol). Termina pure la prima sezione del terzetto (A - B), ché 1 Sono costretto a scrivere: «una delle voci femminili», perché pur troppo qui si riscontra una grave sconcordanza tra le edizioni. Nello spar tito per piano e canto (ed. Ricordi), è la voce di Susanna che spicca que sta ascesa, e sarà pure lei quando il passo ritornerà identico, ma in altra tonalità, nella seconda parte del terzetto. Nella partitura d’orchestra Eulenburg, invece, è la voce della Contessa. Ciò comporta alcune modifi cazioni non indifferenti anche nel decorso melodico delle note che prece dono questa cadenza sospesa e in un punto (battute 45-46) obbliga perfi no a fare iniziare le due voci femminili contemporaneamente, anziché sca glionate a canone. La ragione di questa sconcordanza risale probabilmen te a necessità esecutive, che per convenienze teatrali portarono ad asse gnare all’uno o all’altro soprano il ruolo superiore nel terzetto. Secondo l’Abert (introduzione alla partitura Eulenburg) l’equivoco nacque dal fat to che Mozart nel manoscritto alternava nel rigo superiore del sistema la voce che di volta in volta si trovasse a cantare più alto, senza segnalare il cambio di personaggio, sicché si vennero a scambiare le parti e nel vec chio opera omnia mozartiano il Rietz inavvedutamente mantenne nel ri go superiore, di Susanna, le parole (e le note) che sono della Contes sa. Le assegnò perciò la volatina incantata verso l’alto che spettava al la Contessa. A quale dei due personaggi meglio si addica l’aereo vo calizzo è questione ardua da stabilire. A Susanna sta bene per la sua vivacità e leggerezza, ancora accresciute, qui, dal fatto di non essere parte in causa e di assistere con una certa divertita estraneità al litigio dei suoi padroni: in tal caso il vocalizzo ascendente come una piccola freccia ha il senso d’un’inserzione biricchina e quasi impertinente. Ma alla Con tessa pure s’addice il librarsi della voce nelle sfere altissime della tessitu ra, e allora il vocalizzo ha il senso d’una fuga, di un’evasione dal carcere terreno, verso lidi di celestiale beatitudine e purezza, dove non ci siano litigi, sospetti e sotterfugi.
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non saprei designare altrimenti che come un motivo di transizione, un collegamento, il breve episodio che segue, a due voci, il Conte e la Contessa, quello ostinato a chia mare Susanna per tirarla fuori dal gabinetto chiuso, e la Contessa altrettanto ostinata a proibirglielo. Le due voci non hanno quasi contenuto melodico, sono brevi incisi quasi recitativi, di tre e di quattro note, sopra un rapido episodio strumentale in quartine di semicrome dei primi violini. Le nove battute di transizione in sol maggiore condu cono alla ripresa, battuta 71, in do maggiore. L’inizio è identico, con la figura imperiosa dell’orchestra caratteriz zata da un trillo, e l’ingiunzione del Conte per ampi inter valli di dominante-tonica. Il seguito è variato, perché sol tanto- la Contessa risponde, con un disegno melodico piu fitto e intenso che la prima volta, e Susanna tace. Essa non apparirà che all’inizio della sezione B, variata: se il ter zetto fosse di forma tripartita, come afferma l’Abert, la ri presa avrebbe dovuto fermarsi alla sezione A. Invece rico mincia, in la bemolle maggiore, l’episodio che abbiamo detto di mistero e d’intrigo: questa volta le lugubri linee vocali discendenti avvengono sulle reciproche esortazioni dei due coniugi («Consorte mia/o, giudizio»), mentre Su sanna canta, sullo stesso motivo: «o ciel! un precipizio, Qui certo nascerà». L’episodio si ripete come la prima vol ta, con lo stesso effetto di oppressione e di mistero, con lo stesso inviluppo di contrappunto a tre voci dei legni, ma il tono questa volta è do minore, e do maggiore quello della successiva risoluzione vivace, che porterà di nuovo all’unissono oscillante delle tre voci. Sicché quando da que sto si spiccherà la voce di Susanna (o della Contessa) per il suo aereo vocalizzo, questo giungerà fino al do sopra il ri go, aumentando con ciò il proprio effetto miracoloso di liberazione e di sospesa levitazione. Il corso del pezzo qui si rompe per tre battute di pausa con punto coronato. Nel silenzio dell’orchestra il Conte e la Contessa si esortano reciprocamente in un breve inserto di «recitativo a pia cere»: «Giudizio! Giudizio! » Poi tutto l’ultimo episodio (cioè la conclusione in maggiore della sezione B del ter zetto) viene ripreso integralmente, compreso il vocalizzo
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incantato fino al do sopra il rigo. Non si vede perciò pro prio come l’Abert potesse parlare di 'Dreiteiligkeit, dato che invece ci troviamo in presenza di una breve forma d’à ria doppia A-B, la quale viene ripetuta interamente (variata), e viene conclusa con una ulteriore ripresa del l’ultima parte di B. Recitativo.
Di fronte al rifiuto della Contessa di aprire la porta del gabinetto, il Conte vuol farla aprire di forza dalla servi tù, ma si ravvede; da gentiluomo qual è, accetta le pro teste della consorte. Aprirà lui stesso la porta,' senza far chiasso e senza dare in pasto il loro litigio ai pettegolezzi del personale di servizio. Ma per essere sicuro che nulla verrà alterato nella situazione, chiude le porte della came ra e invita la moglie ad accompagnarlo mentre andrà a cer care i ferri per aprire la porta senza chiavi. Le offre il brac cio, cerimonioso ed ironico, e con lei s’allontana, pronun ziando a voce ben alta: «Susanna starà qui finché tor niamo ». scena settima
(Susanna, Cherubino).
N. 14. Duettino. Allegro assai, sol maggiore, 4/4.
Susanna invece era nella stanza stessa, nascosta nell’om bra dell’alcova. Appena i padroni sono partiti esce fuori in fretta per chiamare Cherubino che, aprendo dall’inter no del gabinetto, ne esca e scappi via. Ben presto scoprono che le porte di uscita sono state chiuse a chiave dal Conte, perciò Cherubino è in trappola, sarà sorpreso li dal Conte appena questo ritorni. Quell’orco è capace di ucciderlo, perciò Cherubino - a mali estremi estremi rimedi - si af faccia alla finestra che dà sul giardino, valuta l’altezza e salta giù, non senza avere abbracciato teneramente Susan na, che tenta invano di trattenerlo, disperata e sicura ch’e gli si romperà l’osso del collo in quel salto spropositato. Tutto ciò avviene nel corso di questo duettino in sol maggiore (Scena quarta per lo spartito piano e canto), che viene citato in tutti i manuali e gli studi d’estetica musica
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le come un esempio delle possibilità descrittive della mu* sica \ È un pezzo vertiginoso che dura meno di cinquanta secondi e vola via come una folata di vento primaverile (nella pratica teatrale c’è anche l’abitudine, inopportuna, di scorciarlo amputando coppie di battute qua e là, dove sia possibile attuare ugualmente il collegamento delle ar monie). La figura iniziale dei violini primi (la nervosissi ma orchestra è di archi soli) è periodicamente ripetuta e il discorso orchestrale vi viene sempre a ricadere, come un moscone che volendo uscire da una stanza chiusa batta ostinatamente la testa nel vetro. Sono le note dell’accor do perfetto di sol maggiore, dentro i cui limiti il discorso sbatte come impazzito. Le prime parole di Susanna sola, che davanti alla porta del gabinetto chiama Cherubino: «Aprite, presto, aprite. Aprite, è la Susanna», sono, più che canto vero e proprio, appelli concitati, che anch’essi fanno perno di continuo su tonica (sol) e dominante (re). La confusione dei due personaggi in scena, che corrono qua e là per la stanza, tentando porte e finestre a cercare una via di scampo, è rispecchiata realisticamente nel di scorso musicale, tanto da poter consentire, forse, di par lare di imitazione. Il brevissimo pezzo è, naturalmente, unitario. Non v’è che un’idea, continuamente modulata, variata e sbattuta di qua e di là, Questa idea consiste di due sezioni, proposta e risposta: la prima è appunto la già menzionata figura sui gradi della tonica di sol maggio re, completata da una breve integrazione dei violini secon di, la seconda è una scaletta discendente per terze di vio lini e viole, in esecuzione «staccata», che ricasca di nuovo, a sua volta, sull’indaffarato nucleo iniziale (la cui esecuzio ne, invece, è «legata»). Tutto il pezzo gioca qui sopra, sempre «pianissimo» fino all’improvviso crescendo delle ultime due battute, che porta al grido di sgomento e tosto di gioia di Susanna, quando vede il caro «demonietto» vo lar giù agilmente dalla finestra. Anche il decorso armonico è dapprima assolutamente elementare: dopo l’inizio in sol maggiore si passa alla dominante, re maggiore, sulle paro1 Si veda, per un caso recente: Mariangela donà, Espressione e signi ficato nella musica, Olschki, Firenze 1968, p. 88.
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le «Le porte son serrate». Ma poi un giro di modulazioni ben più interessanti e sostanziose ha inizio quando Cheru bino si affaccia alla finestra: « Veggiamo un po’ qui fuori». Di battuta in battuta la cellula iniziale cambia colorito ar monico, e in quel trascolorare si rispecchia il tumulto del l’animo di Cherubino («M’uccide se mi trova»), nel quale si forma e a poco a poco si rafferma l’idea di saltar giù di li. Quand’egli si strappa via alle preghiere di Susanna per ché, oltre salvare se stesso dalle furie del Conte, vuole soprattutto evitare di compromettere la Contessa («pria di nuocerle Nel foco volerei»), il discorso musicale passa da sol maggiore in sol minore, per quattro battute rapidis sime, dove il classico tono mozartiano dell’affanno e della disperazione tragica incupisce fuggevolmente, in maniera appena percettibile, la ridda vertiginosa. Recitativo (Susanna).
Strettamente congiunto al duettino è il recitativo se guente di Susanna, rimasta sola in camera della Contessa dopo il salto di Cherubino: e il grido ch’ella caccia, non notato in partitura, ma indispensabile, unisce anche foni camente i due pezzi. Dopo aver ammirato la veloce fuga di Cherubino («è già un miglio lontano»), va a nascon dersi nel gabinetto, per larvisi trovare dal Conte e con fermare cosi la verità delle scuse addotte dalla Contessa. (Una didascalia presente nello spartito piano e canto e non nella partitura, prescrive che Susanna, al principio del recitativo, sieda un momento, evidentemente per pren der fiato, sopraffatta dallo spavento, «poi va al balcone». Nel libretto si prescrive, con maggiori dettagli: «Cheru bino salta fuori; Susanna mette un alto grido, siede un mo mento, poi va alla finestra»). scena ottava
(la Contessa e il Conte).
Recitativo.
Rientrano la Contessa e il Conte. Questi, con in mano gli arnesi per sfondar la porta del gabinetto, constata con soddisfazione che tutto è come l’aveva lasciato, e dopo
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avere ancora invitato la Contessa ad aprire la porta con la chiave, si accinge a farlo lui stesso col grimaldello. A que sto punto la povera donna, ridotta a mal partito, ha la pes sima idea di dire la verità e di confessare che nel gabinetto non c’è Susanna, ma Cherubino, per una burla innocente. Le maldestre spiegazioni della Contessa moltiplicano i so spetti del Conte, furioso di trovarsi sempre fra i piedi quel bellimbusto, prima in casa di Barbarina, poi nella stanza di Susanna, e adèsso, nientemeno, in camera di sua mo glie. È un tipico tratto di sadismo settecentesco (si pensi a Justine, ou les infortunes de la vertu), qui, come all’ini zio del prossimo Finale, che le circostanze riescano a far parere colpevole l’innocenza, e questo proprio in presen za dei veri prevaricatori, com’è il Conte. N. 15. Finale. Allegro, mi bemolle maggiore, 4/4.
Eccoci giunti al gigantesco Finale, verso cui confluisco no le scene precedenti, spaziate di frequenti recitativi, co me a un grandioso estuario. Abbiamo già detto (cfr. sopra, cap. 1) come l’attivazione del concertato finale, fatto di ventare dinamico, da statico che era nell’opera comica tra dizionale, sia uno dei mezzi principali della drammaturgia di Mozart. Con esso egli forza la musica alla dialogizzazione, e se ne serve per sbattere letteralmente i personaggi uno addosso all’altro, in un nodo di situazioni dramma tiche in continuo progresso, dove la musica investe piena mente l’azione, l’impugna e la realizza in se stessa. Quasi una commedia nella commedia, definiva Da Ponte questi grandiosi finali d’Atto (cfr. ancora cap. 1, p. 9), dove non v’è piu posto per il recitativo, e tutte le vicende devo no ormai trascorrere a suon di musica, in «un’ideale corri spondenza, - come scrive l’Abert, - di dramma e musica». Qualche banale conteggio può dare un’idea di questa costruzione, gigantesca nella sua vispa leggerezza. Nello spartito per canto e pianoforte questo Finale occupa 62 pagine, mentre tutte le scene precedenti dell’At to secon do ne occupano appena 46. Il Finale comporta circa 950 battute, cioè più del doppio che l’imponente Finale della Sinfonia Jupiter, e una volta e mezza il pur esteso Finale
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del primo Atto del Don Giovanni. Riferisce il Saint-Foix che quando si volle per la prima volta rappresentare a Pa rigi Le nozze di Figaro, si dovette dopo trentotto prove rinunciare all’impresa, per l’impossibilità di venire a capo del Finale secondo. Esso ingloba cinque scene, di cui cercheremo tosto di fissare sommariamente il contenuto, e dà luogo a otto pez zi musicali distinti, ma susseguentisi senza interruzione, quando non addirittura concatenati e confluenti l’uno nel l’altro, come il secondo e il terzo, il quinto e il sesto, il se sto e il settimo. Nel corso di questa progressione si produ ce una crescente intensificazione del volume sonoro, pas sando il numero dei personaggi da due (Conte e Contessa) a tre, con l’uscita di Susanna dal gabinetto, a quattro, con l’arrivo di Figaro, e infine a sette, con l’intervento di Marcellina e dei suoi due accoliti, Don Bartolo e Basilio. Pa rallelamente aumenta l’organico orchestrale, che nell’ulti ma scena viene ad avere, oltre agli archi, due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti, due corni, due trombe e timpani. Tutto corrisponde alla descrizione di Da Ponte del moderno tipo di Finale: «Il recitativo n’è escluso, si canta tutto, e trovar vi si deve ogni genere di canto : l’a dagio, l’allegro, l’andante, l’amabile, l’armonioso, lo stre pitoso, l’arcistrepitoso, lo strepitosissimo con cui quasi sempre il suddetto Finale si chiude». Vediamo dunque di stabilire schematicamente il conte nuto delle singole scene e la loro distribuzione in pezzi mu sicali, nel corso del Finale. La prima Scena (ottava nella partitura d’orchestra, sesta nello spartito per canto e pia noforte) è un duetto, e possiamo definirla: confessione della Contessa e conseguente litigio. Consta di un solo pezzo musicale, Allegro molto in mi bemolle maggiore. Scena nona: apparizione di Susanna con stupore di Con te e Contessa; riconciliazione dei coniugi. Dà luogo a due pezzi musicali: Molto Andante in si bemolle maggiore, e Allegro in si bemolle maggiore. Scena decima: entrata di Figaro, e suo primo interroga torio. Due pezzi di musica: Allegro in sol maggiore, An dante in do maggiore. Scena undicesima: entrata del giardiniere Antonio e se
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condo interrogatorio di Figaro. Due pezzi di musica: Al legro molto in fa maggiore, Andante in si bemolle mag giore. Scena dodicesima: entrata di Marcellina, Basilio e Bar tolo. Un solo pezzo di musica, Allegro assai - Piu presto Prestissimo in mi bemolle maggiore. Giustamente osserva l’Abert che ognuna di queste se zioni in cui è articolato il Finale «aggroviglia un nodo e fino a un certo punto anche lo scioglie, ma in modo che la soluzione viene sempre di nuovo sconvolta dalla sezione che segue e ricacciata indietro da una nuova complicazio ne». Una trovata opportuna è stata quella di terminare l’Atto nel punto di massima confusione e suspense, quan do il gruppo dei personaggi «simpatici» sembra in grave difficoltà per l’irruzione dei «cattivi», cioè di Marcellina e dei suoi due accoliti. Nella commedia di Beaumarchais a questo culmine seguono ancora le trattative del Conte con Susanna per un incontro notturno nel giardino, il che, dal punto di vista d’una commedia, è senz’altro utile a getta re una premessa piena d’interesse sugli svolgimenti fu turi, ma invece per le esigenze, soprattutto foniche, d’un Finale d’atto operistico, sarebbe deludente. scena ottava
(Conte e Contessa).
Allegro, mi bemolle maggiore, 4/4.
La Scena (ottava per la partitura d’orchestra, sesta per lo spartito piano e canto) ha inizio col breve recitativo pre cedente. All’inizio del Finale (Allegro) il Conte grida ver so la porta del gabinetto, ove crede rinchiuso Cherubino, «Esci ormai, garzon malnato...» La Contessa cerca di pla care la sua furia, e continua nello sciagurato proposito, già avviato nel recitativo, di dire la verità. Perciò, oltre a pro testare l’innocenza propria e del paggio, aggiunge che il marito non dovrà lasciarsi ingannare dallo stato in cui lo troverà, « sciolto il collo, nudo il petto... » Figurarsi il Con te: «Sciolto il collo, nudo il petto», interroga scimmiot tando il ritmo esitante della moglie, ma torcendo ironica mente in alto la direzione delle note, che nella parte della
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Contessa erano discendenti. Le spiegazioni della Contessa non fanno che accrescere i sospetti e rinfocolare l’ira del marito. Il discorso vocale dei due personaggi è spezzato in pic coli incisi, per lo piu ascendenti quelli del Conte, che ri battono un ritmo puntato, ora giambico, ora anapestico, sui gradi fondamentali del tono di mi bemolle. La Contes sa avvia una frase melodica discendente un po’ piu pro lungata sulle parole «Giuro al ciel ch’ogni sospetto», ma tosto anche questa melodia si spezza in incisi di poche no te, per l’affanno della discussione, e giambi ascendenti del le battute del Conte si riaffermano nel battibecco, passan do anche alla voce della Contessa. La contesa raggiunge un punto di provvisoria conclusione, o meglio una svolta, quando il Conte ottiene infine dalla moglie, ormai incapa ce d’ulteriore resistenza, la chiave del gabinetto. Sotto le parole imperiose del Conte: «Qua la chiave! » e la rispo sta sbigottita della Contessa: «Egli è innocente», ecco una frase bipartita, proposta imperiosa della piena orche stra, risposta sospirosa di clarinetti, fagotti e corni, che ci dà - per l’appunto - la chiave di tanti analoghi temi di musica strumentale ove a una ingiunzione forte succede piano un sospiro. Ma la svolta decisiva del duetto iniziale è qua. Sopra una pausa con' punto coronato, che stabilisce per un mo mento il silenzio generale, il Conte s’accinge ad aprire la porta, ed intanto assapora fino in fondo il piacere di aver ragione, lui che ha torto, di accingersi a scoprire la prova del tradimento di sua moglie, lui che arde dal desiderio di tradirla con Susanna. La musica passa nel tono patetico di fa minore e all’unissono con tutta l’orchestra il Conte pronuncia una vera e propria esecrazione della consorte, con una solenne frase ascendente: «Va’ lontan dagli oc chi miei, Un’infida, un’empia sei». Nell’amplissimo respi ro di questa ascesa per gradi contigui dalla tonica alla do minante egli esala tutta la sua dignità di marito oltraggia to. La povera donna è sopraffatta; dando la chiave al marito appena riesce a balbettare: «Vado... sì... ma... non son rea...» «Vel leggo in volto! » replica terribile il marito, sopra
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una pausa generale di tutta l’orchestra, e prolungando a piacere la seconda sillaba. Siamo in piena scena di furi bonda gelosia coniugale, quale userà abitualmente, fra cinquant’anni, il melodramma borghese dell’ottocento ita liano, Donizetti in particolare (per esempio, Pia de’ Tolomei\ ed è singolare anacronismo che il genio di Mozart riesca ad anticipare in chiave di parodia una situazione che non aveva ancora avuto la propria formulazione seria. Incidentalmente, si noti che nella battuta del Conte « Vel leggo in volto! » la partitura d’orchestra istituisce ad dirittura un «recitativo» di due battute, che poi si di mentica di sopprimere quando riprende il corso dell’Allegro. Nello spartito per piano e canto, invece, non vi è traccia di questa indicazione1. Quando l’Allegro ripren de, il repertorio della collera coniugale si è arricchito d’un nuovo vocabolo musicale: «Mora, mora», esclama il Con te, servendosi d’un minimo intervallo di seconda minore nel quale si insediano quattro note, una per sillaba, la to nica (mi bemolle), la sensibile (re naturale), in valori lun ghi di semibrevi; e di nuovo due volte la tonica, in valori di semiminime. Tale figura costituisce quasi una specie di tenor mottettistico, sul quale s’innestano certe rapidissime scalette, in salita e discesa, di clarinetti e fagotti per ter ze, e la melodia sollecita e spiovente della Contessa («Ah, la cieca gelosia Qualche eccesso gli fa far»), il tutto anco ra combinato con il consueto ritmo puntato ascendente in cui si estrinseca la collera del Conte. Questo episodio, sul basso «Mora, mora», viene interamente ripetuto. Quando il Conte spalanca la porta del gabinetto snudan do la spada, le sparse voci dei due personaggi e degli archi si coagulano sull’accordo di settima, e vi restano sospese, preparando l’avvento, dopo una lunga pausa di stupore, della dominante, si bemolle. Un commentatore francese, lo Hocquard, trova che il comico di questa Scena deriva dal fatto che la collera del Conte è trattata seriamente in stile tragico, mentre noi 1 Un fatto analogo s’era già dato nel precedente terzetto n. 13, dove la partitura d’orchestra segna un recitativo d’una battuta per ognuna delle due esortazioni reciproche dei coniugi in lite: «Giudizio! »
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sappiamo già che nel gabinetto non c’è più l’oggetto del suo sospetto, Cherubino, bensì Susanna. «Si vede chia ramente il procedimento, - egli scrive: - trattare il tra gico nel suo senso letterale, quando l’interpretazione non può essere che comica». Parodia, cioè, di qualcosa che storicamente non esiste ancora. Ma non insisterei troppo sul preteso carattere comico di questa scena: il Conte e la Contessa, cioè i personaggi nobili, non sono mai realmen te comici, e secondo quella dialettica dei generi musicali cosi abilmente e continuamente usata da Mozart, non solo nel teatro, ma anche nella musica strumentale, essi can tano sempre in stile di opera seria. Il fatto che la collera del Conte non sia giustificata, e che noi spettatori lo sap piamo, non direi che renda «equivoco» lo stile tragico in cui la musica ravvolge il litigio coniugale. Per l’Abert la gelosia del Conte «rasenta quasi la sfera di Otello». Egli si sta investendo con piena convinzione della sua parte di marito tradito, allo scopo inconscio di crearsi un alibi per la sua scappata con Susanna. Se dovessimo trovar comica questa scena del litigio, per il fatto che conosciamo l’in fondatezza dei suoi sospetti e prevediamo lo scorno che tra poco glie ne verrà, all’apertura della porta, allora tra poco dovremmo anche trovar comica la tenerezza amoro sa con cui sollecita dalla consorte il perdono e la riconci liazione, perché sappiamo benissimo che il suo pensiero dominante è quello di portarsi a letto la servetta. Invece anche allora il testo musicale è da prendere alla lettera, e nessuno infatti ne dubita, tanto meno lo Hocquard: in quel momento rifluisce nel Conte l’affetto più sincero per la moglie, e queste contraddizioni fanno parte della com plessità del suo carattere divaricato in opposte direzioni, là dove la psicologia della Contessa è fondamentalmente unitaria e concentrica.
scena nona
(Susanna, Contessa, Conte).
Molto Andante, si bemolle, 3/8.
Susanna esce sulla soglia, spalancando occhi grandissi mi, con l’aria più innocente di questo mondo. Con tutte
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le sue risorse la musica sottolinea la sorpresa che la sua ap parizione produce sugli altri due personaggi. Tutto cam bia nella musica: il tono, da mi bemolle alla dominante; il metro, da 4/4 al metro diversissimo di 3/8, e il tempo, da Allegro a Andante molto. (Naturalmente è un banale errore tipografico l’Allegro molto che si legge nello spar tito per piano e canto). Tutto, nella musica, produce una impressione di arresto, di brusca svolta inaspettata. Come scrive lo Hocquard, «la musica crea uno stupore raccolto e misterioso, degno dell’apparizione di un deus ex machina», Un ritmo compassato, affidato alla compattezza degli ar chi, occupa le prime dodici battute dell’Andante, e su di. esso fiorisce la melodia di Susanna, ironicamente marziale, appoggiata dai bicordi in moto contrario di clarinetti e fagotti. Infinita è la ricchezza, la mobilità di sottintesi di questa melodia. L’apparenza marziale dura appena per quattro battute («il brando prendete, il paggio uccidete»), poi nelle quattro battute seguenti, di andamento discen dente, il senso della melodia si trasforma, diventa ingenuo, arcadico, galante, e dà luogo a uno struggente cromatismo sul monosillabo «qua», dove si rispecchia quasi leziosa mente l’innocenza inoffensiva, la grazia imberbe di Che rubino. Linee spioventi dei violini e dei fagotti, su lunghe, mi steriose note tenute degli oboi, delle viole e dei bassi, fan no da sfondo alla stupefazione del Conte e della Contessa, poi ritorna il ritmo compassato dell’inizio con la inge nua, deliziosa melodia di Susanna, quando il Conte la in terroga ed ella lo sfida ironicamente a cercare il paggio nel gabinetto: «qui ascoso sarà». Allegro, si bemolle maggiore, 4/4.
Il breve Andante precedente, di chiara forma ter naria, funge quasi da introduzione lenta al presente Al legro, che è la sezione più sviluppata dell’intero Finale, e di più alta qualità musicale. L’Andante era lo stupo re per l’apparizione di Susanna, quindi un fatto breve, istantaneo, che si esaurisce in se stesso. L’Allegro è la
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riconciliazione dei coniugi, quindi un processo psicologi co prolungato, grazie alla resistenza e al risentimento della Contessa, che non vorrebbe perdonare facilmente i so spetti indegni di cui è stata fatta oggetto. Perciò questo Allegro presenterà una struttura elaborata, quasi sona tistica, di rondò molto libero, con sezioni piu volte ricor renti, e una di esse fatta anche oggetto di variazioni e di sviluppo. La brevissima assenza del Conte, entrato nel gabinetto per sincerarsi dell’assenza di Cherubino, permette a Susan na di rincuorare la Contessa, comunicandole che il paggio è in salvo. Questo paggio assente è presente nel pen siero di tutti, e la musica trova modi sottilissimi per ricor darcelo. L’Allegro comincia con una rapida frase stru mentale di quattro battute, affidata ai violini primi (e nella terza e quarta battuta anche ai flauti), d’andamento sol lecito; potremmo chiamarla «l’affanno della Contessa», Ora è ben singolare scoprire in questa melodia strumen tale le stesse note d’una inflessione vocale della prima aria di Cherubino (Atto primo, n, 6), alle parole «Solo ai nomi d’amor mi diletto», e precisamente: si bemolle, la naturale, si bemolle, si naturale, do (re), fa, mi bemolle. (Il re c’è nell’aria di Cherubino, manca nella frase stru mentale di cui ora ci occupiamo). La iterazione di molte di queste note e il movimento veloce cambiano intera mente il significato musicale della frase, però essa è prati camente la stessa, con le stesse note, col suo profilo ascen dente e uncinato. A questo tema, di agitazione e di affanno, ne subentra dopo quattro battute un altro, enunciato da violini e fa gotti, e cantato in una versione semplificata da Susanna («Piu lieta, più franca, In salvo è di già»). Questo tema aperto, positivo, che esplora in lungo e in largo la tonalità di si bemolle, toccando ripetutamente la tonica, la domi nante (fa) e la sottodominante (mi bemolle), sarà il prota gonista di questo Allegro, il tema principale in senso sonatistico, e sempre più si chiarirà connesso con l’idea di riconciliazione. Anch’esso dura solo quattro battute, che tosto esce dal gabinetto il Conte, tutto confuso, modulan do verso fa maggiore: «Che sbaglio mai presi! » E qui i
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violini fanno sentire per tre volte tre rapidi tratti discendenti di tre note, che sono anch’essi una nostra vecchia conoscenza, e ci riportano ancora una volta alla mente la inafferrabile figura di Cherubino. Che cosa sono infatti, queste sdrucciolate di biscrome, se non le battute iniziali dell’aria di Susanna per la vestizione di Cherubino (Atto secondo, n. 12)? Ci eravamo stupiti, allora, che questa figura furtiva, come un batter d’ali, apparisse solo due volte, al principio dell’aria, e poi mai piu. Là non ce n’era bisogno ulteriormente, perché, dopo l’invito, anzi, l’ordi ne di Susanna («Venite, inginocchiatevi, Restate fermo lì»), Cherubino era presente, fermo li, a farsi manipolare e cambiar d’abiti da Susanna. Bastava allora aver stabilito quel tratto di riconoscimento, per adoperarlo poi in que sto Finale, come una furbesca allusione all’assente-presente Cherubino, quasi simbolo della sua natura di Ariele, di spiritello inafferrabile, eppure sempre fra i piedi. Riavutosi dalla sua confusione, il Conte chiede lealmen te perdono alla Contessa; violini primi e oboi recano, in fa maggiore, il sollecito motivo iniziale intessuto con note di Cherubino, il nuovo tono di fa maggiore viene riaffer mato chiaramente nei due incisi con cui il Conte aggiunge alle sue scuse qualche modesta rimostranza: «Ma far bur la simile È poi crudeltà». Allora, nel fitto mosaico tematico di questo Allegro, scatta un nuovo elemento che intitoleremo «della solida rietà femminile». Cantando per terze, Susanna e la Con tessa replicano con un motivetto strettissimo e reciso: «Le vostre follie non mertan pietà». Violini, viole e flauti raddoppiano le voci; la frase, di quattro battute, cade sul la tonica con secca precisione, che allude al perdono ri fiutato. Fiorisce allora in orchestra (oboi, poi fagotti e violini primi) il bel tema sonatistico, ora in fa maggiore, e su di esso sorge la preghiera appassionata del Conte (« Io v’amo! Lo giuro! ») Il risentimento della Contessa è ancora vivo: sullo stesso disegno ritmico e melodico delle umili rimo stranze del Conte, ella replica ironicamente, e «con forza e collera», secondo un’indicazione dello spartito piano e
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canto, mancante nella partitura: «Mentite! son l’empia, l’infida, Che ognora v’inganna». Sempre sullo stesso ritmo e disegno il Conte si rivolge allora a Susanna perché lo aiuti a calmare l’ira della moglie. Per il momento il risultato non è dei migliori, che Susan na subito lo mette a posto («Così si condanna chi può so spettar»), con una variante ancora più stretta e inviperita del motivo che abbiamo chiamato di solidarietà femmini le. Flauti, violini e viole si associano alla voce in due battu te di ripetizione d’un semitono, in note staccate, oscillan ti come un dito levato e agitato a rimproverare. Queste battute farsesche della severità femminile, sem pre condotte principalmente dalla intraprendenza rivendi cativa di Susanna, si alternano a quelle gravi, appassiona te, della Contessa, ancora ferita nella sua dignità. Esse por tano ora il discorso musicale nel nobile tono di mi bemolle maggiore, e in questo tono avviene la seconda preghiera del Conte a Susanna, nonché il secondo rifiuto di costei, con la sua pungente oscillazione, questa volta di un tono. Sempre in mi bemolle riappare ora il bel motivo sona tistico, distribuito tra archi, fagotti e clarinetti, per la terza azione di preghiera del Conte, preceduta ormai dall’in tercessione di Susanna: «Signora! », cui fa eco teneramen te il Conte: «Rosina! » A sentirsi chiamare per nome, co me un tempo, la Contessa ha un’ultima ribellione: «Cru dele! più quella non sono! » Un punto coronato sopra una pausa sembra voglia dare alla Contessa tutto il tempo di rievocare «i bei momenti» dell’amore felice con suo ma rito. Ma l’estensione con cui ora si propaga dall’orchestra alle voci il sereno motivo sonatistico, in la bemolle mag giore, ci dice che queste resistenze della Contessa sono ormai le estreme. Difatti, sebbene ella non abbia ancora accordato il suo perdono, e continui a ripetere che «soffrir si gran torto quest’alma non sa», il Conte si comporta co me se il perdono fosse cosa fatta (e questo è infatti il senso della partecipazione di tutte tre le voci al motivo sonati stico), e perciò comincia già lui, ora, a chiedere spiegazio ni: «Ma il paggio rinchiuso?... Ma i tremiti, i palpiti?... Ma un foglio si barbaro?» Per due volte in orchestra, il motivo della riconciliazione è rotto dai tre tratti di tre
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biscrome discendenti, che evocano furtivi l’ombra di Che rubino, quasi ci dicessero, ammiccando: «C’era, altroché se c’era! », proprio mentre il Conte si persuade che non ci fosse. Questo impiego di un medesimo tema in situazioni di verse, e perciò con nuove sfumature allusive, è un espe diente frequente: per esempio, il motivo oscillante di Su sanna e della Contessa ora lo troviamo impiegato per dare al Conte la spiegazione del «foglio sì barbaro», che era stato un’invenzione di Figaro, trasmesso al Conte per il tramite di Basilio. E allora è il Conte stesso che s’inserisce ancor lui su questo motivo oscillante (il dito indice agitato in segno di rimprovero) per inveire a sua volta: «Ah per fidi! io voglio»). Ma le due donne lo interrompono: «Per dono non merta chi agli altri noi dà», questa volta sul mo tivo originario del «rifiuto di perdono», in mi bemolle maggiore. Nella continua alternanza di elementi tematici di cui è costituito questo Allegro (praticamente quattro moti vi principali), ritorna ora, in mi bemolle, quello iniziale, il motivo sollecito di agitazione e di affanno. Ora si com bina con quello della riconciliazione, in mi bemolle per l’ultima, definitiva preghiera del Conte, e modulando in do minore quando ormai comincia a vacillare la resistenza della Contessa: «Ah quanto, Susanna, son dolce di cuore! Di donna al furore chi piu crederà? » Ed è molto comico, ora, sentire il motivetto oscillante e pungente della seve rità di Susanna servire, nel ricuperato tono di si bemolle, per la sua corriva morale popolaresca: «Cogli uomin’, si gnora, Girate, volgete, Vedrete che ognora Si cade poi là». Dove la ripetuta oscillazione di due note serve ora per illustrare, quasi visivamente, il «girate, volgete». Sulla pace ormai fatta, ancora risorge il bel tema della riconciliazione, protratto attraverso numerose e cangian ti modulazioni che lo portano anche a visitare il tono di sol minore, sacro ai piu turbati e profondi affetti mozar tiani. A partire dalle parole «Da questo momento», can tate da tutti in semplice omofonia, il tema della riconci liazione degrada modulando attraverso le tonalità, su mi steriose armonie di fiati, quasi «colomba di pace», come
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scrive poeticamente l’Abert. «È come se un dolce vela rio scendesse sui cuori inquieti, come se si aprisse loro im provvisamente la vista su un paradiso di pace, in cui si lasceranno dietro di sé tutto ciò ch’è passato, come un brut to sogno». E con strana puntata nazionalistica lo studioso conclude: «Questo è tutto ciò che si può dare di più unitalienisch») non italiano. Perché l’Abert, dimenticando la tenerezza e l’intimità di cui sono capaci musicisti come Pic cinni, Paisiello e Cimarosa, attribuisce all’opera buffa ita liana caratteri costanti di vivacità rumorosa e d’allegria travolgente. I tedeschi hanno l’ossessione di Rossini. scena decima
(Figaro e detti).
Allegro, sol maggiore, 3/8.
L’arrivo di Figaro ignaro, tutto giulivo e desideroso di affrettare le nozze, produce questa nuova Scena, anch’essa formata da due pezzi musicali, un Allegro (Allegro con spirito, nello spartito per piano e canto) e un Andante, se parati da una pausa. Giustamente osserva l’Abert che nel rumoroso arrivo di Figaro c’è un’eco del coretto dei con tadini nel primo Atto (Scena ottava). È come se Figaro li avesse lasciati fuori dell’uscio e ne continuasse qui il di scorso con la giovialità un po’ forzata di questa specie di Allegro alla rustica, cui la stessa tonalità di sol maggiore presta un carattere di semplicità. E davvero il semplicismo è la riposta essenza drammatica di questa Scena di appa renza superficiale: Figaro arriva col modo sbrigativo di chi dice: «Su, sbrighiamoci e facciamo ’ste nozze», fingen do di non sapere (e invece lo sa benissimo) che la cosa non è così semplice e che il Conte cercherà ancora di met tergli qualche bastone tra le ruote. Intorno alla melodia saltellante di Figaro l’orchestra pone lieti guizzi strumentali da festa campestre. Si noti un curioso particolare di idealismo musicale. Figaro dice: «Signore, di fuori Son già i sonatori, Le trombe sentite, I pifferi udite». Ora nell’orchestra delle Nozze di Figaro le trombe ci sono: niente costava al compositore di farle sen tire in questo punto dove sono esplicitamente evocate dal
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testo. Invece niente: i guizzi dell’allegria contadina sono affidati a violini e flauti (questi ultimi evidentemente ac cettabili quali «pifferi»). Nell’allegria sbrigativa di Figaro pone un arresto subi taneo il Conte: «Pian piano, men fretta». Senza che cam bi il tempo musicale, il passo della musica rallenta di col po, per far luogo a un episodio di inquieta attesa. Intorno alla voce del Conte che sillaba distintamente «Con arte le carte Convien qui scoprir» (e forse è l’unica volta in tutta l’opera in cui il Conte canta in stile di opera buffa, all’ita liana), le voci dei tre complici intessono lente e dubbiose cadenze, sintetizzate nei lunghi accordi tenuti dei legni (flauti, oboi, fagotti e corni). È l’immagine del sospetto reciproco e dell’inquietudine, e il pezzo resta sospeso su una pausa generale con punto coronato, che vuol essere piuttosto lunga, affinché si possa poi percepire agevolmen te il senso del do all’unissono che impone la nuova tonica all’inizio del pezzo seguente. Andante, do maggiore, 2/4.
Argomento di questo nuovo pezzo musicale (il quinto del Finale secondo) è l’interrogatorio di Figaro. Il Conte gli mostra la lettera anonima che gli rivelava un appunta mento notturno della Contessa in giardino, e gli chiede: «Conoscete, signor Figaro, Questo foglio chi vergò?» Figaro si attiene alla norma di tutti gli accusati, di negare qualsiasi cosa, e le due donne invece lo incitano indispet tite a dire la verità ch’esse stesse hanno rivelata al Conte, e ora c’è bisogno che lui, Figaro, confermi la storia della loro macchinazione, altrimenti potrebbero ricominciare i sospetti e le gelosie del Conte. Tutto questo pezzo è costruito sopra due melodie prin cipali, che presentano entrambe un aspetto assai singolare, se ci si vuol chiedere cosa c’è sotto la loro semplicità can tilenante. La domanda del Conte, sorretta dapprima dai soli archi, cui poi s’aggiungono via via fagotti, flauti, corni e oboi, pare all’Abert ironica e «in tono d’uomo del popo lo». Ironica senz’altro, con quel suo cadenzato modulo ritmico in cui si annida una sfumatura d’importanza e di
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prosopopea, come quella di chi s’accinge a esaminare e in terrogare un imputato. Ma d’uomo del popolo non direi tanto, anche se indubbiamente si tratta d’una cantilena semplicissima. Ma ha un piglio cerimonioso e quasi galan te, accentuato poi dai trilli e dagli ammicchi dell’orche stra intorno alle negazioni di Figaro. Tra l’altro si tratta d’un tema di natura curiosamente strumentale, potrebbe essere la marcetta d’una Serenata o d’una Cassazione, o perfino un tema di Sonata. I violini primi lo variano con trilli e guizzi di biscrome e semibiscrome. Le domande dei tre inquisitori si succedono incalzanti, proprio come in una commissione d’esame, dove il presi dente (il Conte) è inflessibile, e gli altri due commissari (Susanna e la Contessa) vorrebbero suggerire al candidato la risposta e si sforzano con l’intonazione delle domande di fargli intendere quale debba essere la risposta («Noi co nosci? ») Niente da fare: Figaro si tiene cocciutamente alla sua regola di prudenza, e continua a negare. L’orchestra si fraziona in piccoli complessi intorno alle domande esplo rative e suggestive delle due donne, si consolida invece massiccia, con l’intervento di tutti gli strumenti per riba dire le negazioni ostinate di Figaro e le domande minac ciose del Conte. La pantomima delle interrogazioni e delle negazioni si ripete una volta, variata, poi si conclude con una frase del Conte («Cerchi invan difesa e scusa, Il tuo ceffo già t’ac cusa»), che modulando in sol maggiore conduce alla se conda parte del pezzo, fondata su una nuova melodia, che anch’essa, e ancor più della precedente, nella sua fluida fa cilità presenta sottili problemi d’interpretazione espres siva. La nuova melodia di questo Allegro appare sulla stra vagante risposta di Figaro alle parole del Conte: «Mente il ceffo, io già non mento». Questa buffonesca dissociazio ne delle proprie responsabilità dalle apparenze del volto viene celata in una melodia dolcissima e carezzevole. Allo Hocquard pare una «mélodie de style fran^ais qui sonne comme un cantique, tant elle est recueillie et pieine de tendresse». È verissimo, eppure li per li non ci si bada, e anzi la comicità buffonesca della risposta di Figaro sem-
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bra ancora accentuata dal piglio smaccatamente sentimen tale della melodia. Questa viene tosto raccolta dalle due voci femminili («Il talento aguzzi invano»), che la forniscono della sua naturale conclusione («Palesato abbiam Varcano, Non v’è nulla da ridir»). Il Conte stringe i tempi dell’interrogatorio di Figaro. «Che rispondi? — gli chiede, - dunque accordi?», ma Fi garo duro: «Niente, niente! Non accordo». Il dibattito avviene su dure sottolineature ritmiche degli archi (scivo late di biscrome). Anche le due donne mettono alle strette Figaro con una pungente progressione su oscillazioni di semitono («Eh via chetati, balordo»), ed allora Figaro pensa di cavarsela con disinvoltura prendendo Susanna sotto braccio e riattaccandosi al primo tema cerimonioso, che qui rivela la sua giusta natura di marcia nuziale: «Per finirla lietamente All’usanza teatrale, Un’azion matrimo niale Le faremo ora seguir». Subito le donne interpongo no presso il Conte la loro preghiera («Deh signor, noi con trastate, Consolate i lor desir»), e la seconda melodia ri vela anch’essa, solo a questo punto, la sua vera natura di affettuosa, tenerissima invocazione. È l’eterno tema mo zartiano dell’aspirazione alla felicità, sentita come un di ritto dell’uomo, e qui contrastata dal Conte. Il curioso è che anche lui si associa al flusso della dolce e carezzosa me lodia, esprimendo un suo desiderio ardentissimo: ma è il desiderio che arrivi presto Marcellina a recargli soccorso nell’estremo tentativo d’intralciare le nozze di Figaro e Susanna: «Marcellina! Marcellina! quanto tardi a com parir! »
(detti ed Antonio, mezzo ubriaco, portando un vaso di garofani schiacciati).
scena undicesima
Allegro molto, fa maggiore, 4/4.
Invece di Marcellina, arriva Antonio il giardiniere. Il passaggio dalla Scena precedente a questa è immediato, il do terminale della melodia d’invocazione fungendo da do minante della nuova tonalità di fa maggiore. Tutta l’or-
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chestra lo ripete pesantemente, questo do, su un ritmo dat tilico, quasi a preannunciare il carattere zotico del nuovo personaggio e le maniere tempestose della sua irruzione. Dalla finezza diplomatica delle due coppie - scrive lo Abert - si passa alla rozzezza del giardiniere: «nessuna meraviglia che la musica si avvicini di nuovo alla sfera dell’opera buffa all’italiana». Incassiamo pure quest’altro complimento dell’illustre studioso, e vediamo di che si tratta. L’italianismo deteriore di questo Allegro consiste rebbe nella baraonda di terzine che si srotola infaticabile in orchestra, e precisamente agli archi, dopo che all’inizio sono ancora apparsi furtivi, e quasi impercettibili, i soliti frulli di biscrome discendenti che evocano l’ombra di Che rubino: il personaggio di cui qui si parla, alcuni sapendo benissimo che è stato lui a saltar giu dal balcone, il Conte e il giardiniere sospettandolo. Sopra le terzine degli archi il canto di Antonio si svolge in un’orgia di anapesti ottusamente ascendenti («Dal bal cone che guarda in giardino Mille cose ogni dì gettar veg gio»), determinati dal nuovo verso che in questa Scena adotta il poeta: il decasillabo, coi suoi accenti invariabili su terza, sesta e nona. (Ancora una volta, quanto ci piace rebbe sapere se questi cambiamenti di metro - nel pre sente Finale sono usati ottonari, senati, decasillabi e poi ancora ottonari - fossero decisi unilateralmente dal poe ta, che offriva di sua iniziativa suggerimenti ritmici al com positore, oppure fossero attuati di comune accordo! ) Abbiamo detto «il canto di Antonio», ma più che di canto vero e proprio si tratta d’una specie di recitazione intonata, una filastrocca ottusa e pesante che rispecchia l’indole del personaggio. Essa viene solo interrotta ogni tanto dalle strette di accordi, sorretti da tutta l’orchestra, quando gli altri personaggi, tutti insieme, lo incalzano con le loro sollecitazioni: «Via parla, di’ su». Un altro elemento attraversa per due volte la catena di anapesti e di terzine, inserendosi come un segno di pun teggiatura, ed è lo slargo melodico in note lunghe dei bassi che si accompagna la prima volta alle parole sprezzanti di Figaro : « Tu sei cotto dal sorger del di », e la seconda volta alle battute assurdamente idiote di Antonio e di Figaro,
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
rispettivamente: «Dopo il salto non foste cosi» e: «A chi salta succede cosi». Questi due ricorsi d’una frase melo dica a valori lenti pongono come due cesure, due punti di riferimento e di svolta nel corso precipitoso del pezzo, la cui forma, secondo l’Abert, «è la più sciolta che si possa immaginare: singole parti vengono, vanno, ripetute, ma interamente per necessità del dramma». In verità, come al solito in Mozart, alla necessità del dramma si associano, in miracolosa concordia, le esigenze della forma musicale, che è ancora una volta quella, comodissima ai fini narrati vi, del rondò liberamente inteso. Le sezioni che vi si suc cedono sono praticamente le seguenti. Prima di tutto la filastrocca delle terzine e degli anapesti di Antonio, pun teggiati ogni tanto, come s’è detto, dal concorso incalzan te delle altre voci, sorrette da accordi energici della piena orchestra; questa prima sezione passa dall’iniziale fa mag giore a do maggiore («Costui ci sconcerta! ») Dopo il pri mo slargo melodico inserito dalla frase di Figaro, ha inizio una seconda parte, introdotta da un breve trillo di flauti, oboi e violini, in re minore, e poi in si bemolle maggiore quando riappare il medesimo trillo introduttivo. In que sta seconda sezione il ritmo delle terzine in orchestra si fa un po’ meno ossessivo, prendendo una figurazione di versa dalle ghirlande ostinate della prima parte. Il giardi niere ha finito il suo racconto, perciò si ha una tregua an che nell’ostinazione degli anapesti. Il Conte lo interroga, adeguandosi alla sua balordaggine: la stolida ripetizione delle parole del Conte da parte di Antonio per conferma re il proprio racconto («Dal balcone? - Dal balcone. - In giardino? - In giardino») reca con sé la ripetizione delle medesime note su un melenso intervallo di terza discen dente. Il dialogo qui si fraziona, le proteste di Susanna e della Contessa, e soprattutto la loro seconda raccoman dazione a Figaro perché ascolti attentamente, a due voci per intervalli di quinte, quarte e terze, hanno spesso la net tezza vivida di squilli di fanfara. Quando Figaro si decide a sparare la sua bomba, d’essere lui stesso saltato giù dal balcone, allora, poiché incomincia un racconto lungo, co m’era all’inizio quello del giardiniere, egli ne adotta comi camente il pesante metro anapestico.
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A questo punto, quando il discorso si fraziona nelle bre vi esclamazioni di stupore del Conte, del giardiniere e del le due donne (vocalmente associate con Figaro), si produ ce una vera e propria ripresa, ma in si bemolle maggiore, coi guizzi furtivi dei violini che alludono alla presenza inaf ferrabile di Cherubino. Dopo il secondo slargo melodico dei bassi riprende la ronda vertiginosa delle terzine orche strali, seguita immediatamente da quella che abbiamo de scritto come la seconda sezione: non c’è più il trillo d'a pertura, e prima e seconda sezione si saldano direttamen te l’una all’altra. La ronda di terzine sosta un momento, per una tregua al rallentatore, destinata a sottolineare co micamente l’ironia di Figaro («Esso appunto Da Siviglia a cavallo qui giunto»), fraintesa dall’enorme dabbenaggi ne di Antonio («Questo no, questo no, che il cavallo Io non vidi saltare di là»). Quando riprende la ronda delle terzine, il canto si fraziona nelle brevissime interrogazioni del Conte e nelle risposte di Figaro, inquisitive le une, impacciate le altre: una figura di tre note che degrada mo dulando fino a riportare la tonalità iniziale di fa maggiore («Dunque tu... Saltai giù... Ma perché?... Il timor... Chè timor?») Come il discorso musicale raggiunge il terreno saldo della vecchia tonica, Figaro anche lui tocca terra; ha or mai architettato la nuova bugia da raccontare, e per rac contarla («Là rinchiuso, Aspettando quel caro visetto...») adotta ancora una volta gli ottusi anapesti ascendenti del racconto di Antonio, chiudendo cosi il ciclo del rondò. Ancora il solito slargo melodico, questa volta recato dai violini, introduce la buffonesca conclusione della lamen tosa discesa cromatica con cui Figaro afferma, per aggiun gere credito al suo fantastico racconto, d’essersi «stravolto un nervo del piè» mentre saltava giù dal balcone. Andante, si bemolle maggiore, 6/8.
Tanto è svolazzante e dispersivo l’Allegro precedente, contesto di vari elementi cuciti insieme, altrettanto è uni tario fino all’ossessione il presente Andante, che ha come argomento drammatico il secondo interrogatorio di Figa
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
ro. Interrogatorio circa la patente da uffiziale che Cherubi no ha perduto durante il gran salto, che il giardiniere ha raccolto ed ora la porge al Conte, il quale chiede a Figaro che cosa sia: se è lui che è saltato dalla finestra e ha perdu to la carta, deve ben sapere di che si tratta. Il pezzo si svol ge interamente su un motivo ricorrente dell’orchestra (ar chi), che si rigenera circolarmente da se stesso all’infinito, succhiellante come una vite perpetua che trivella e scan daglia nelle oscurità delle incognite addensate intorno a Fi garo. Al motivo circolare e saltellante dell’inquisizione Figaro, che si sente in trappola, e le donne che cercano di speratamente di suggerirgli le risposte, la Contessa passan dole sottovoce a Susanna e questa a Figaro, rispondono con una breve frase discendente, di carattere affettuoso per l’esecuzione «legata», contro lo «staccato» del moti vo d’inquisizione. Non direi, con l’Abert, che il motivo circolare rimanga impassibile a sorreggere l’azione e i di scorsi dei personaggi, ma senza parteciparvi. Si veda, per esempio, come basta torcerlo con una terminazione in al to anziché in basso, perché subito esso si colori di tutto il risentimento litigioso di Antonio, ormai congedato perché la sua testimonianza è esaurita, contro Figaro che l’ha de riso e trattato con superiorità: «Torno sf, ma se torno a trovarti». Basta la modificazione di due note, e il tono di cauta, circospetta inquisizione, di chi si aggira su terreno minato, tosto si muta in un tono d’imprecazione e di mi naccia. Additeremo in questo motivetto circolare, praticamen te infinito, un esempio tipico d’invenzione musicale per teatro, sopra la quale si può distendere una scena tanto a lungo quanto l’azione richiede, senza nessuna esigenza di forma musicale da rispettare. Che cosa evita la mono tonia? ovviamente il giro incessante e caleidoscopico del le modulazioni tonali. Dall’iniziale si bemolle l’Andante passa alla dominante, fa maggiore, sul battibecco di Anto nio ton Figaro e il congedo del giardiniere. Poi si va al tono drammatico ed apprensivo di sol minore nel momento in cui Figaro riesce a indicare che la carta in questione è la patente del paggio, ma è imbarazzatissimo a dire per ché mai essa fosse in sue mani. In mi bemolle la seguente
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IL SECONDO ATTO
fase, in cui la Contessa suggerisce a Susanna, e questa a Figaro, che vi manca il suggello. Tutto il pezzo è general mente da suonare piano, salvo le invettive di Antonio e gli autorevoli interventi del Conte in sua difesa, ma a que sto punto l’orchestra abbozza un breve crescendo per sot tolineare la prodezza vittoriosa di Figaro, che avendo or mai captato la risposta dalle sue soccorritrici, si diverte a stravincere, e finge d’essere imbarazzato («È l’usanza...») quando invece non lo è più, e poi spara in faccia al Conte la risposta trionfale: «È l’usanza di porvi il suggello». Uno scrittore, il Breydert, fa notare un’affinità curio sa tra questo motivo circolare dell’inquisizione e la melo dia di Figaro nel Finale del primo Atto sulla celebre aria «Non più andrai farfallone amoroso». Effettivamente la melodia circolare del Finale secondo è dedotta da «Non più andrai» e dall’intervallo di terza minore che ne è il perno, con la stessa tecnica della iterazione di alcune note, che abbiamo già osservato poco fa, nel terzo pezzo di que sto Finale, per la frettolosa figura orchestrale dedotta da un inciso della prima aria di Cherubino. Si noti ancora, per completare l’esame di questo An dante del secondo interrogatorio di Figaro, il bellissimo concertato a cinque voci con cui si chiude, dominato per tre battute da una lunga nota di Susanna, in una polifonia quasi mottettistica, che poi vede le cinque voci raccogliersi invece in un’armoniosa omofonia accordale.
scena dodicesima
(Marcellina, Bartolo, Basilio e
detti). Allegro assai, mi bemolle maggiore, 4/4.
Siamo all’ultima, e precisamente la quinta, Scena di questo Finale. (Stranamente lo spartito per piano e can to non reca indicazione di una nuova Scena, nonostante l’irruzione di tre personaggi). Consta di un solo pezzo mu sicale, che si ricongiunge alla tonalità del primo, mi bemol le maggiore, modulando, nel corso del suo svolgimento, alle tonalità vicine di si bemolle, fa maggiore, ancora si bemolle, do minore, la bemolle, si bemolle, mi bemolle,
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
ancora si bemolle, per poi radicarsi nella tonalità conclu siva di mi bemolle. Mutamenti di tempo intervengono nel corso del pezzo (Più Allegro: Prestissimo; nello spartito per piano e canto c’è pure, tra i due, un Più Stretto, e in vece del Più Allegro c’è: Con più moto); ma questi muta menti non indicano nuove sezioni della forma musicale, bensì soltanto accelerazioni progressive dell’unico pezzo di cui consta quest’ultima Scena. Anch’esso naturalmente è nella solita forma libera di rondò, giocata intorno al breve motivo enunciato nelle pri me battute a piena orchestra, ricca ora di tutti i suoi mez zi: flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe e timpani, oltre agli archi. Breve, ristretto sulla tonica, quasi sgar bato nella sua ostinazione ritmica, questo motivo è incas sato nella ripetizione della tonica affidata ai corni, ai tim pani, ai violini primi, al primo flauto, al primo oboe, al primo clarinetto, mentre il motivo stesso è affidato a fa gotti, violini secondi e viole, violoncelli e contrabbassi, nonché al secondo flauto, secondo oboe e secondo clarinet to. Su questo motivo avviene l’irruzione dei nuovi perso naggi e in certo senso la simboleggia, anche se nel córso del pezzo il motivo si comunicherà pure ai personaggi dell’al tro gruppo. Le forze vocali di quest’ultimo pezzo produ cono un settimino, ripartito in un gruppo di tre personag gi «positivi» (Figaro, Susanna e la Contessa) e tre nega tivi, i meschini e intriganti Marcellina, Bartolo e Basilio. Il Conte sta in mezzo, apparentemente investito del suo dovere feudale di amministrare la giustizia ed assicurare l’equità tra i contendenti, come già nella Scena precedente s’era interposto tra Antonio e Figaro. In realtà, come spes so accade alla giustizia anche in tempi e regimi che feu dali più non sono, la sua funzione equilibratrice è tutta una lustra, egli parteggia per una delle parti in causa, ed infatti nel concertato conclusivo, quando le voci opereran no in due gruppi, di quattro e di tre, la sua voce andrà ad associarsi a quelle dei «cattivi». L’Allegro assai, fino al Più Allegro (o Con più moto), è tuttora un concertato d’azione, dove la vicenda continua a svolgersi e le voci dialogano attivamente, ora a gruppi, ora anche individualmente. C’è una specie di preludio o di
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prologo, con la richiesta d'udienza da parte dei tre nuovi arrivati, la reazione confusa e discorde degli altri quattro («Son venuti a sconcertarmi», «Son venuti a vendicar mi») in un intreccio di voci quasi madrigalistico, la pro testa di Figaro (che fa passare il breve motivo fondamen tale in si bemolle maggiore), la prima replica moderatrice del Conte («Pian pianin senza schiamazzi», in fa mag giore). Poi comincia la triplice azione di Marcellina, Bartolo e Basilio, che a turno dicono ognuno la sua in una filastroc ca cantilenante e frettolosa in stile d’opera buffa. L’episo dio si ripete tre volte, con la medesima struttura dialogica e musicale, Marcellina in si bemolle maggiore, Bartolo, quale avvocato di Marcellina, in do minore, l’intrigante Basilio, quale testimonio, in la bemolle maggiore. Ogni volta la procedura formale è la stessa: il personaggio «cat tivo» snocciola la sua filastrocca, i tre «buoni» protesta no, e ogni volta il Conte interviene con la frase modulan te: «Olà! silenzio! io son qui per giudicar», che serve a far slittare il discorso musicale dall’una all’altra delle cita te tonalità. Si esaurisce cosi la parte attiva e dinamica del concer tato, ed inizia, al Più Allegro, quella statica e tradiziona le, tipica dell’opera buffa italiana fino a Rossini: quel con certato nel quale tutte le voci si uniscono, magari riparti te in gruppi, per dar vita a un’ampia struttura musicale, dopo che ormai i fatti sono avvenuti, tutte le carte dell’a zione sono state giocate, e ai personaggi non resta più che esalare i propri sentimenti, di soddisfazione o di scompi glio, per gli avvenimenti testé prodottisi. Il materiale tematico però non cambia:, è sempre il bre ve e sgarbato motivo iniziale del rondò a raccogliere le fila della tela musicale. Anzi, per la prima volta questo motivo si estende dall’orchestra alle voci, e precisamente alle voci della Contessa e di Figaro («Son confusa, son stordita»). Al quartetto dei «cattivi» toccano le risposte corali sottovoce : «Che bel colpo, che bel. caso! È cresciu to a tutti il naso! » Loro hanno vinto la partita, almeno a questo punto, e perciò non hanno nessun bisogno di gri dare: nella continua alternanza di una semifrase forte, e
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
una semifrase di risposta piano, quest’ultima è affidata al quartetto dei «cattivi». Le voci dei due gruppi ora si fron teggiano cosi, a botta e risposta, ora si associano in qual che insieme, sempre sorretto dalla piena orchestra, ma sen za mai confluire su una medesima frase: anche negli insie me, i due gruppi cantano cose diverse. La contrapposizione è furbescamente esasperata dalle parole del testo: per Figaro e le sue compagne, è «un diavol dell’inferno» che ha fatto capitare li Marcellina e i suoi compari; questi a loro volta si lusingano nientemeno che sia stato invece «qualche nume» a loro propizio. La musica raccoglie l’uno e l’altro suggerimento, evocando il diavolo dell’inferno con alcune scalette ascendenti di Su sanna e Contessa coi violini, immediatamente corrisposte da fagotti e bassi. Quanto al «nume propizio» di Marcel lina e compagni, sebbene si tratti d’un nume fasullo, Mo zart è ben felice di approfittarne per creare un attimo di raccoglimento in seno alla crescente baraonda del Finale: proprio quando la tonica di mi bemolle viene recuperata definitivamente, le quattro voci dei «cattivi» vengono iso late per tre battute di quasi religioso corale, in valori lun ghi, di semibreve, nel silenzio sospeso dell’orchestra. E anche nelle botte e risposte che si succedono per tre volte fra i due gruppi, sempre più vertiginose e con brevi, aerei vocalizzi di Susanna, il gruppo dei buoni è appoggiato ru morosamente dalla piena orchestra, mentre quello dei cat tivi celebra il proprio trionfo con curiosa compostezza, spesso accontentandosi di armonie quasi religiose dei fia ti. Come dice l’Abert, l’eccitazione e le esclamazioni le la sciano agli altri, agli sconfitti. Loro, con la loro ipocrisia, «conferiscono alla gioia per la riuscita del loro colpo un’e spressione d’effetto per cosi dire infame nella sua calma si cura di sé, quasi religiosa».
Capitolo sesto Il terzo Atto
Per comune consenso dei critici, dal secondo al terzo Atto si produce nell’opera una svolta verso la serietà, an che se col sestetto ancora ci aspetta, entro questo terzo Atto, la punta comica piu sbrigliata e farsesca di tutta la commedia. Ciò nonostante, i personaggi nobili prendono maggior rilievo, estendendo le zone musicali in stile di opera seria, in particolare la Contessa, che da un inizio in sordina, ritardato fino al secondo Atto, viene sempre più in primo piano, ponendo le basi per la sua quasi apoteosi alla fine dell’opera. Non è che con questo l’opera perda del suo frizzante, ma si tratta per l’appunto di stile, d’opera seria o d’opera comica, non già del fatto di far ridere o me no. Cosi scrive lo Hocquard: «Il soggetto esterno (gli ostacoli che si presentano ai due fidanzati) predomina du rante i due primi Atti... Ma a partire dal secondo interval lo il centro di gravità si sposta, perché fin dal duetto ini ziale... si sente bene che non è più un amoretto ancillare, una scappatella un po’ meschina, ma un’ardente passione che divora il Conte e lo porta verso Susanna: l’ostacolo cresce, e i giochetti della commedia buffa sono superati». Nell’economia della commedia questo Atto istituisce una specie di pausa e di ricominciamento dopo l’intensifi cazione progressiva del Finale precedente. Esso ha condot to l’azione a una conclusione provvisoria, con l’apparente trionfo del partito avverso a Figaro e a Susanna. Ora per ciò si ricominciano da capo le trame per sventare quelle dei nemici - il principale dei quali è naturalmente il Con te, nonostante le sue apparenze di imparzialità - giungere al sospirato matrimonio, e possibilmente ricondurre il
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
Conte all’ovile, cioè all’amore paziente e trepido di sua moglie. Per questa sua stessa natura interlocutoria, il terzo At to non può avere lo spicco che hanno gli altri: il primo per l’interesse suscitato dalla presentazione progressiva dei numerosi personaggi, il secondo per la condensazione del l’imbroglio, e l’ultimo per lo stesso motivo e per la risolu zione che l’intrigo finalmente ottiene. Di piu, la stessa ar chitettura dell’Atto, attraverso l’equilibrio delle quattor dici scene in cui è distribuito, non sembra così infallibile e armoniosa come quella del secondo e quarto Atto, forse anche per la difficoltà di condensare in un Atto solo la ma teria del terzo e quarto Atto della commedia di Beau marchais. A somiglianza del primo, il terzo Atto non ha un Finale imponente: termina con un coretto arcadico senza pretese. Un grande concertato d’azione c’è pure in questo Atto, il sestetto che chiameremo dell’agnizione, perché Figaro ha or ora ritrovato in Bartolo e Marcellina i suoi inopinati genitori. Questo sestetto è un capolavoro di comicità, e tra l’altro è il pezzo che piaceva di piu a Mozart stesso. Tuttavia, proprio anche per la sua assoluta compiutezza, sembra un poco ingombrante tra le scene solistiche in mezzo a cui è collocato. Anzitutto è un con certato interno, e non in fine d’Atto, dove un concertato si colloca egregiamente per la sua stessa dimensione foni ca; Mozart se ne rende conto benissimo, e questa sottile differenziazione verrà poi approfondita e coltivata da Ros sini, Bellini, Donizetti e gli altri operisti italiani della pri ma metà dell’ottocento. Recentemente una curiosa teoria è stata avanzata da due scrittori inglesi1 per spiegare le ragioni di questa architet tura non perfettamente soddisfacente che sembra di rav visare nel terzo Atto. Secondo loro, quella certa debolezza di struttura, a dispetto della splendida musica, per un cer to eccesso di cesure, troppi andare e venire a vuoto, tanto piu percepibili dopo la splendida compattezza dramma1 ROBERT moberly e Christopher raeburn, Mozart's «Figaro»: the plan of the Act III, in «Music & letters», aprile 1965. Cfr. anche m. mila, Mozartiana, in «Rassegna Musicale Curci», settembre 1966.
IL TERZO ATTO
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tica del Finale secondo, sarebbe dovuta a un curioso mo tivo pratico: poiché alla prima rappresentazione un solo baritono doveva coprire le parti di Bartolo e del giardinie re Antonio, ci si sarebbe accorti che non ce la faceva a cambiar d’abito così sollecitamente per potere comparire in due scene consecutive; perciò si sarebbe sconvolto l’or dine naturale delle scene, adottando quello che è ora co nosciuto, cioè posticipando l’Aria della Contessa «Dove sono i bei momenti», con relativo Recitativo e dialogo «Andiamo, andiam, bel paggio», dopo il sestetto, mentre forse avrebbe dovuto venire dopo l’Aria di collera del Conte, «Vedrò, mentr’io sospiro», prolungando il corso naturale delle scene a due o individuali, e ritardando l’av vento di quello straripante sestetto, che davvero si ha l’im pressione arrivi un po’ troppo presto, interrompendo le trame individuali dell’azione. Dato che oggi i personaggi di Antonio e di Bartolo sono sempre affidati a due cantan ti, i suddetti scrittori propongono un curioso terremoto nell’ordine delle scene all’interno del terzo Atto, per ri stabilire quello che a loro pare debba essere l’ordine na turale e originario. scena prima
(il Conte solo che passeggia).
Recitativo.
L’Atto terzo, che condensa in sé il terzo e il quarto della commedia di Beaumarchais, smaltisce inoltre al proprio inizio un residuo del second’Atto, e cioè l’apparente fles sione di Susanna alle insistenze del Conte. Ovviamente Mozart e Da Ponte volevano chiudere l’Atto precedente nel momento di piu rumorosa e dinamica confusione di una grossa scena d’insieme; invece gli intrighi di Susanna e della Contessa per tirare in trappola il Conte vanno benis simo all’inizio del nuovo Atto per instaurare quel clima diverso, di ricominciamento da capo, che esso comporta. Il Conte, dunque, in questo breve recitativo iniziale, sta riflettendo sui casi testé occorsi e cerca di trovarne il filo. Sopravvengono, non viste da lui, Susanna e la Con tessa che si soffermano sul fondo dando luogo alla
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
scena seconda
(suddetto; la Contessa e Susanna in
fondo). Recitativo.
Caso abbastanza insolito nella procedura teatrale, que sta Scena dà luogo, almeno in principio, ad un recitativo a tre. Mentre il Conte va strologando sui propri piani (ha spedito Basilio a Siviglia per sapere se Cherubino vi sia arrivato o no), la Contessa istiga Susanna a fingere di asse condare i desideri del Conte, fissandogli un appuntamen to notturno in giardino, al quale andrà poi lei, la Contes sa, travestita nei panni di Susanna. Questa fa qualche par venza di difficoltà («O cielo! e Figaro?»), ma infine ac consente e, ritiratasi la Contessa, si presenta al Conte col pretesto di chiedergli «il fiaschette degli odori» per la Contessa. Poche battute di dialogo, nelle quali il Conte si mostra ostentatamente freddo e distaccato, ma tosto pren de fuoco appena Susanna trova modo, raccogliendo una sua frase, di fargli capire che è disposta a seguire il suo vo lere. Ha cosi inizio il N. 16. Duetto (Conte, Susanna). Andante, la minore, 4/4 alla breve.
È questo uno di quei tipici pezzi delle Nozze di Figaro, come Faria della vestizione di Cherubino nel secondo At to, che presentano un aspetto smaccatamente frivolo di galanteria settecentesca, senonché il loro contenuto non si esaurisce nell’apparenza esterna: c’è un sottofondo. Questo duetto potrebbe essere un tipico caso di scherma glia amorosa in chiave di galanteria, come una scena di Watteau o di Boucher, se non fosse che la reciproca posi zione dei due personaggi non è così semplice come ap pare in superficie: Susanna inganna il Conte, finge tene rezza per procura, per incarico della Contessa. D’altra parte, e il vecchio Abert se n’era accorto per primo, con molta finezza, Susanna non mente interamente, al cento per cento. Un pochettino è presa al gioco. Non solo è per
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natura un poco civetta, e farsi fare due dita di corte già le piace sempre. Ma non si tratta soltanto di questo: «non sarebbe Susanna — scrive con notevole intuizione l’illustre musicologo - se nella calda offerta del Conte non sentisse ella stessa uno stuzzicante stimolo sensuale». Susanna sta in guardia, e non perde il suo umorismo proverbioso di donnetta popolana («Signor, la donna ognora Tempo ha di dir di si», in un innocente tono di do maggiore che svia per qualche poco l’appassioijato, quasi appiccicaticcio la minore del Conte). Ma nello.stesso tempo sfiora consape volmente il precipizio: è chiaro che le fa piacere, e anche qualche cosa di piu, questo assalto da parte dell’illustre suo signore, che tra l’altro è un bel pezzo d’uomo. Si determi na una di quelle situazioni di turbamento ambiguo (come piu tardi Mozart istituirà nel rapporto tra Don Giovanni e Donna Anna), che soltanto la musica può suggerire. Ed è questo che salva il presente duetto dal pericolo della leziosaggine galante, lasciando intravvedere, sotto le ap parenze bamboleggianti, qualcosa di assai piu forte e ge nuino nel campo dei sentimenti, o dei sensi, legato alla vigorosa personalità, quasi selvatica, del Conte. Nel conte gno di quest’ultimo si produce immediatamente un cam biamento, non appena Susanna gli getta l’esca di una fra se invitante. Scompare in lui il piglio padronale. «Ciò che sentiamo fin dal principio nella sua frase magistralmente declamata è il linguaggio genuino della natura, d’una calda passione sensuale, e la confessione senza veli del tormen to ad essa connesso. Questo è uno di quei momenti dove siamo proprio vicini ai confini del tragico». Cosi scrive l’Abert, sempre incline a vedere nel Conte i tratti dell’uo mo robustamente appassionato e sensuale, anziché quelli del damerino e del dongiovanni a vuoto. Le battute del dialogo hanno, specialmente in principio, un contenuto musicale relativamente modesto, ma traggo no interesse dal gioco delle modulazioni (la minore, do maggiore, la minore; poi, nella seconda parte, la maggio re, mi maggiore, la maggiore), e traggono pregio dalla finissima integrazione di voci e strumenti in un discorso aereo, tutto trapunto d’impalpabili frammenti.
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
Dopo la risposta evasiva di Susanna in do maggiore, l’assalto del Conte si fa piu stretto: ritorna la tonalità ap passionata di la minore, e in essa i cromatismi striscian ti della voce e dei legni («Verrai? non mancherai?») la sciano una traccia quasi vischiosa. La ripetuta risposta po sitiva di Susanna spalanca la via alla gioia del Conte, con l’irruzione del tono giubilante di la maggiore. E qui fa capolino anche l’unico elemento che, in questo duetto, sembra meno persuasivo, piu per considerazioni di ordine verbale e drammatico, che non musicale. In questo empi to di gioia è naturale che i due cantanti uniscano le voci, e mentre il Conte dice giustamente: «Mi sento dal con tento Pieno di gioia il cor», a Susanna il librettista non ha trovato di meglio che far dire: «Scusatemi se mento, Voi che intendete amor», forse per ricordarci che lei non par tecipa realmente alla gioia e all’entusiasmo amoroso da cui è travolto il Conte. Ma è un concettuzzo contorto, che tra l’altro reca confusione, perché li per li non è facile capire ch’essa non si rivolge al Conte dandogli del voi, ma parla per proprio conto, indirizzandosi ad immaginari «intendi tori d’amore». La frase infelice fornisce, se fosse neces sario, la controprova che certi sottintesi, certe riserve men tali, solo la musica li può tranquillamente esprimere, ma gari insieme al sentimento stesso ch’essi sono chiamati a contraddire, mentre la parola, per la sua semanticità trop po esplicita, fallisce in situazioni del gènere. Un grazioso motivetto dei violini e dei fagotti rilancia, in seno all’episodio giubilante in la maggiore, la trepida e bamboleggiante schermaglia dei «Verrai? non manche rai? », le domande sempre piu ebbre con cui il Conte strin ge l’assedio intorno alla pecorella apparentemente caduta nelle sue grinfie. E qui si ha un celebre esempio delle ini ziative che la musica di Mozart sapeva prendersi nei con fronti del testo fornitogli dal librettista. Il libretto, infat ti, non reca che una volta i quattro versi di dialogo diretto e conciso: Dunque in giardin verrai? Se piace a voi, verrò. E non mi mancherai? No, non vi mancherò.
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È Mozart che istituisce il gioco delle iterazioni insistenti, non solo, ma inventa, ispirato dalle simmetrie dell’architettura musicale, il celebre lapsus di. Susanna, che, frastor nata da quell’incalzare di domande, e forse distratta, per ché tutto sommato sa che non è vero niente, che lei in giardino non ci andrà, bensì la Contessa, e quindi di tutte queste storie in fondo non glie ne importa niente, rispon de due volte a sproposito, lasciandosi sfuggire un «no» dove dovrebbe dir «si», e viceversa: grido di protesta del Conte e docile correzione di Susanna, tutto il giochetto perfettamente incastonato nelle simmetrie della frase mu sicale. Anche qui era già stato l’Abert il primo a mettere in guardia: questo qui pro quo «è certo qualcosa di piu che un mero Buffowitz», una semplice arguzia verbale da opera buffa. Sulla sua scia si sono gettati i commentatori contemporanei ed è facile immaginare quante sottili inter pretazioni siano state date del passo, tirando in ballo la psi canalisi. Ecco l’illustrazione che ne fornisce lo Hocquard. « Susanna si sente presa da pietà, e da una reale simpatia (che non vuol dire amore!) per quest’uomo che è talmen te innamorato di lei. Si sente crudele a giocargli questo scherzo, e bisogna che si sovvenga della missione affidatale dalla sua padrona, e della lotta per il proprio amore, per trovare il coraggio di beffare il Conte. Con un tratto di ge nio (è impossibile che Mozart non ne sia stato l’inventore, tanto bene ciò s’iscrive nel movimento spontaneo della melodia), le si fa commettere un lapsus che anticipa cu riosamente sulla teoria freudiana degli atti mancati... Que sto lapsus, che è ripreso una seconda volta in termini ro vesciati, si apre sull’anima di Susanna come su un abisso, e fa valere la complessità dei suoi sentimenti. Significa pri ma di tutto che il suo cuore non risponde all’amore del Conte: lei dice di no, perché non hà nessuna intenzione di andare. Ma dato che è lei che propone questo appunta mento, ciò significa anche altra cosa: nel fondo di se stes sa ella rifiuta di partecipare a un sotterfugio così vile come quello a cui è addossata per un senso di fedeltà. Non è meraviglioso, diciamolo di passaggio, che tante cose così sottili e così gravi possano stare in un duetto che non si
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
scosta per nulla dalla semplicità piu melodiosa e dalla più deliziosa galanteria? » Recitativo.
Al duetto segue ancora, nel corso della stessa Scena se conda, un breve recitativo a due, nel corso del quale il Conte si persuade d’avere ormai conquistato Susanna, e in particolare s’intenerisce quando apprende che la faccen da della fiaschetta degli odori per la Contessa era tutta una storia inventata dalla servetta per venirgli a parlare. In vece Susanna se ne va, mormorando fra sé un commento irriverente alle pazze brame del Conte. scena terza
(detti e Figaro).
Sul passo dell’uscio Susanna s’imbatte in Figaro, e ha l’imprudenza di annunciargli la buona piega che prendono le loro trame con la frase: «Senza avvocato Hai già vinto la causa». Questa frase, udita dal Conte, gli rivela l’in ganno, e passandosi immediatamente a un’altra Scena, per ché Susanna e Figaro se ne vanno, scatena la seguente aria del Conte. scena quarta
(il Conte solo).
Recitativo ed aria. Maestoso-Presto. Allegro maestoso, re mag giore, 4/4 alla breve.
Eccoci in pieno stile di opera seria, senz’ombra di quel l’ironia che talvolta Mozart connetteva con l’impiego dello stile d’opera seria in seno ad opere comiche, sempre per quella dialettica dei generi musicali ch’era una delle sue armi preferite. Qui non c’è ombra di caricatura. Il Con te assurge a dignità di personaggio tragico, incorrendo an che nei rischi di retorica che possono celarsi in un simile innalzamento di tono. «Per cprrer miglior acqua alza le vele Ornai la navicella del mio ingegno...» Può anche es sere lecito avvertire una certa prosopopea, come una for-
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zatura di tono, in quest’aria celebratissima, ammirata da gli studiosi per ragioni formali, e che del resto è pure una pietra angolare dal punto di vista drammatico, perché fa del Conte definitivamente l’antagonista dell’intera azio ne, il motore del dramma, colui che scatena la dinamica dei fatti. Scrive il Breydert: «Come principale ostacolo all’unione pacifica di Figaro e Susanna, il Conte Almaviva ha tutte le qualità essenziali che creano il conflitto dram matico. La musica di Mozart non lo glorifica né lo giudica. Spinto dai suoi cattivi desideri, il Conte passa attraver so ogni sorta d’emozioni forti, agitazione, gelosia, col lera, false speranze di soddisfazione, tutto salvo la felici tà. Egli accetta tutto ciò perché l’ha voluto, e la musica fa altrettanto». Questa tempesta di sentimenti che si aggirano nell’ani ma del Conte trova la sua manifestazione nella forma in solita di un recitativo obbligato, cioè accompagnato dal l’intera orchestra. Tale tipo di recitativo, rarissimo anche nell’opera seria prima di Gluck, era affatto eccezionale nel l’opera comica, la quale per lo più resta tranquillamente fedele al rapido e sbrigativo recitativo secco, accompa gnato dal solo clavicembalo (o da violoncello e contrabbasso): praticamente, un’abdicazione quasi totale della musica di fronte a quei momenti dell’azione e del testo che non si prestino a una trattazione liricamente effusa. L’apparizione d’un recitativo obbligato è dunque sen z’altro il sigillo dello stile d’opera seria che a questo pun to interviene decisamente nelle Nozze di Figaro. Due fat tori musicali traducono la tempesta di sentimenti che si agita nell’animo del Conte: il frequente mutamento dei tempi (Maestoso - Presto - Andante - Ritorno al Tempo primo, nel giro di diciotto battute) e l’irrequieta instabili tà tonale, che alcuni vogliono sia una caratteristica del l’intera parte del Conte, lungo tutta l’opera, quasi simbolo del suo animo diviso. Il recitativo comincia in do mag giore, per modulare a sol maggiore alla fine della quarta battuta. Ma subito, alla quinta, bruscamente il Presto attacca in mi maggiore, modulando in la maggiore già alla seconda battuta, e chiudendo in fa diesis minore. In que sto tono insolito e inquietante ha luogo il bellissimo epi
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sodio dell’Andante: tre battute nel corso delle quali il Conte attraversa una specie di momento di riflessione, e immagina a se stesso i possibili ostacoli che potrebbero frapporsi ai suoi piani di vendetta («Ma s’ei pagasse La vecchia pretendente?») Il discorso strumentale si assot tiglia sommesso in una figura meditativa e misteriosa, che si ripete degradando. Quando invece vengono in mente al Conte possibili alleanze ed appoggi alla sua causa (la boria del giardiniere Antonio che, abilmente coltivata, po trebbe indurlo a ricusare di dare sua nipote Susanna a un figlio d’ignoti- come Figaro), ecco fiorire negli archi una confidente melodia in sol maggiore, e il discorso del Con te, dapprima tutto spezzato in brevi incisi pieni di per plessità e contraddittori, si avvia piu spedito verso la con clusione sospesa sulla dominante (la) del tono di re mag giore in cui debutta l’aria vera e propria. L’appellativo di «maestoso» è ancora richiamato, a ca ratterizzarne il tempo Allegro. L’imponenza dello stru mentale si associa alla solennità delle idee musicali, con quelle grandi scale discendenti di re maggiore, che sembra no gesti di collera e di impecio. La piena orchestra, con trombe e timpani, è radunata per quest’aria solistica, co me se si trattasse di un Finale: mancano solo i teneri cla rinetti, il cui timbro morbido e notturno non avrebbe nul la da dire in questa prosopopea dell’orgoglio ferito e del l’onore offeso. L’aria è una tipica aria di collera, secondo le meticolose catalogazioni e definizioni in uso nel melo dramma settecentesco (e può essere una curiosità ricordare qui che la prima aria vocale scritta da Mozart bambino era pur essa un’aria di collera: «Va dal furor portata»). Le impetuose scale discendenti, la durezza del ritmo e an che l’ampiezza d’alcuni intervalli ne stabiliscono senza incertezze il carattere. Il ritmo giambico della prima pa rola («Vedrò») ne definisce l’identità tematica. Ma si noti l’originalità con cui è costruita la frase melodica: dopo il primo membro di frase («Vedrò, mentr’io sospiro») non segue affatto, come le abitudini settecentesche potrebbero far prevedere, una ripetizione del medesimo modulo, un po’ più su o un po’ più giù. La seconda parte della frase («felice un servo mio! ») adotta tutt’altra figura, ed inizia
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un’ascesa nella quale - scrive il Breydert - c’è come uno sforzo fisico, come di chi porti su un gran peso. Anche nell’aria regna l’inquietudine delle modulazio ni tonali. Dall’iniziale re maggiore si passa alla dominante (la) per le due battute di rapidi e serrati trilli dei violini, poi subito a mi maggiore (dominante della dominante), per passare di nuovo a la maggiore nella ripresa variata (al secondo «Vedrò», battute 44-45). La variazione con siste nel fatto che la melodia è stata come telescopizzata, e la faticosa ascesa, questa vòlta piu veloce, in crome anzi ché in semiminime, non attende il complemento oggetto («felice un servo mio»), ma ricorre subito, sull’indicazione temporale: «mentr’io sospiro». In orchestra appare un elemento nuovo, e cioè le dure, imperiose terzine in semi crome, che andranno intensificandosi verso la fine di que sto episodio, combinandosi con ancor più rapide e bale nanti quartine di biscrome. Queste figurette rotolanti so stituiscono le ampie scale discendenti dell’inizio, quasi ne fossero un risultato per frantumazione. L’inquietudine tonale non è ancora spenta, che la terza ripresa variata di «Vedrò, per man d’amore» introduce la tonalità lontana di re minore, e la mantiene fino alla fine dell’Allegro assai. Quest’ultimo, invece, corre tutto in re minore, con la ripetizione d’un medesimo episodio, dove spicca la colle rica frase «Tu non nascesti, audace», simile a uno scop pio di voce. Le perplessità, le titubanze, le oscurità sono ormai svanite dall’animo del Conte, che anela alla vendet ta: la compattezza di questa ritrovata unità interiore, nel la decisione dell’azione, è manifesta nel passo veloce del pezzo e nella franchezza con cui esso punta ormai di con tinuo alla tonica (re maggiore), alla quale avviano e fanno segno i risolutivi trilli che si accendono nelle parti dei vio lini. L’Allegro assai consiste, come s’è detto, nella ripe tizione immediata di un medesimo episodio, sicché la for ma dell’aria potrebbe indicarsi come quella di un’aria doppia, dove la prima sezione è due volte variata (quindi: A - A' - A"), e la seconda, in funzione di cabaletta, è sem plicemente ripetuta: B-B. In verità anche la seconda
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
parte subisce qualche variazione, soprattutto vocale, per ché la seconda volta il Conte si abbandona a un periglioso vocalizzo in terzine, che fu aggiunto a composizione ulti mata e la cui opportunità musicale e drammatica è parsa a molti discutibile, ma viene difesa a spada tratta dall’Abert. Sui contenuti drammatici dell’aria l’Abert ha scritto una bella pagina, insistendo secondo il suo solito sul ca rattere forte e primitivo del Conte, e sulla realtà della sua passione per Susanna, non un mero capriccio, ma qualco sa di profondamente sentito, per cui la gelosia gli brucia dolorosamente («di mia infelicità», egli dice), e l’orgoglio del gentiluomo offeso nel vedersi preferito un servo è sol tanto una spezia in più, un additivo sullo smacco cocente dell’uomo che soffre d’immaginare il caro oggetto dei suoi desideri in braccio a un altro uomo, nobile o vile che sia. Secondo l’Abert, il precedente duetto e la presente aria «strappano l’ultimo velo dall’essere profondo del Conte, e fanno apparire sotto la maschera dell’uomo di mondo la figura d’un uomo vero, dal temperamento sanguigno». La vanità mascolina va di pari passo, anzi sovrasta, con l’or goglio di casta.
(il Conte, Marcellina, Don Curzio, Figa ro, Bartolo, indi Susanna).
scena quinta
Recitativo.
In questo recitativo viene compendiata, e a dire il vero, alquanto strozzata, la scena, che in Beaumarchais aveva altra estensione e rilievo satirico, del tendenzioso e parziale processo nel quale Don Curzio, giudice asservito al vo lere e alle ricchezze del Conte, condanna Figaro a sposare Marcellina oppure a restituirle i denari ch’ella gli aveva prestato. Qui non abbiamo il processo vero e proprio, che aveva prestato il destro a Beaumarchais per una satira della giu stizia, ma solo la sua conclusione, la sentenza di Don Cur zio: «È decisa la lite. O pagarla, o sposarla», e i commen ti che ne seguono fra gli interessati. Di tutta la carica sati
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rica di Beaumarchais non rimane altro che la buffoneria ridicola del personaggio di Don Curzio, al quale il primo interprete - il tenore irlandese Kelly - aveva appioppato una parlata grottescamente tartagliante. Pare che Mozart non fosse contento di questa esagerazione buffonesca, ma essa si è perpetuata nella tradizione esecutiva, non solo, ma ha anche fatto il suo ingresso nella partitura d’orche stra (invece nello spartito per piano e canto non è pre scritto a Don Curzio di tartagliare). Nei discorsi che seguono alla sentenza si scopre rapi damente, senza alcun particolare rilievo musicale, la sen sazionale origine di Figaro, rapito nei suoi teneri anni da masnadieri: «l’oro, le gemme e i ricamati panni» ond’era adorno il bambino al momento del ratto facevano prova della sua nascita illustre, ed ora il tatuaggio ch’egli reca su un braccio permette a Marcellina di riconoscerlo com^ il figlio suo e di Don Bartolo, rapito in culla. Questa decisiva agnizione viene sbrigata rapidamente in un convenzionale Recitativo, riservando alla prima par te del seguente sestetto di trarne le conseguenze musicali. Sestetto. Andante, fa maggiore, 4/4.
Questo concertato interno (cioè non di fine Atto), la cui collocazione dà adito, come s’è detto, a qualche per plessità, sorge - scrive lo Hocquard, che ne fornisce una dettagliata analisi -- « come un isolotto di commedia buffa in mezzo alla corrente di spirito drammatico che comin cia a sommergere la commedia». È l’ultimo sprazzo di co micità, francamente farsesca, prima che il progressivo ri lievo acquisito dal personaggio della Contessa conduca l’opera sui sentieri della tenerezza e della commozione. Ri sulta dalla testimonianza del tenore Kelly nelle sue Me morie che questo sestetto era il pezzo preferito di Mozart. Che cosa ne dobbiamo concludere? Che Mozart, pur sa pendo scrivere Finali d’Atto e concertati di straordinaria ricchezza nel contenuto drammatico, preferiva poi per con to suo un concertato francamente buffonesco nel gioco manieristico delle simmetrie formali, allo stesso modo che si divertiva come un bambino al Prater per gli spetta
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
coli del Kasperl, il tradizionale burattino viennese? Forse, ma è anche possibile pensare che invece Mozart fosse molto fiero di questo sestetto da un punto di vista profes sionale, per l’eccezionale bravura spiegata nella condotta polifonica delle voci. E inoltre bisogna tener presente che la testimonianza del pur simpatico Kelly va presa con qual che cautela: il sestetto era Punico pezzo importante al quale egli prendesse parte nei panni di Don Curzio (veto è ch’egli impersonava pure Don Basilio). Il sestetto consta chiaramente di tre parti: la prima, in fa maggiore, anteriore all’arrivo di Susanna; la secón da, in do maggiore, con l’arrivo, stupore e collera di Su sanna; la terza, di nuovo in fa maggiore, con le buffone* sche spiegazioni a Susanna e il coro di felicità che riunisce quattro personaggi, mentre il Conte e Don Curzio conti nuano a manifestare il loro dispetto. È Marcellina che dà inizio al sestetto andando ad ab bracciare Figaro, il figlio ritrovato, con una cantilena do ve la tenerezza materna si mescola impercettibilmente còti la leziosaggine smorfiosa dell’antipatico personaggio. Giu stamente osserva l’Abert che dal tono tragico della precè dente aria del Conte, qui siamo ricaduti in una bonaria atmosfera borghese e quotidiana. Anche Bartolo riconó sce il figlio ritrovato, con una punta della sua consueta e pomposa solennità. Figaro, forse, sembra il più sincero e commosso dei tre, in ogni caso la melodia vivace dei violini ci consiglia fin dal principio di non prendere trop po sul serio questa effusione di santi affetti familiari. Na turalmente non la condividono per niente il Conte e Don Curzio, nelle frasi ch’essi pronunciano a parte, inserendo le come interiezioni più vibrate nel disteso tessuto melo dico dei tre personaggi felici. È Don Curzio che introduce questa specie di controcanto irritato, con una figuretta ascendente di poche note, che servirà poi di base per il crescendo delle interrogazioni stupite di Susanna. Il Conte e Don Curzio stanno per andar via seccatissimi, quando arriva Susanna, fresca come una rosa, «con una borsa in mano » dove tiene « mille doppie » per paga* re il riscatto di Figaro e liberarlo dall’obbligo di sposare Marcellina. (Osserva malignamente l’Abert che sulla pro*
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venienza di quelle mille doppie regna la più completa oscu rità). Una figuretta replicata dai violini, con una acciacca tura iniziale, sbarazza il discorso da tutta quella melassa di serafici affetti familiari e prepara il terreno per il canto vivace e pungente di Susanna, in do maggiore: «Alto al to, signor Conte, Mille doppie son qui pronte». Ella ha appena finito di parlare, e di reclamare con animosità ed affetto la restituzione del suo caro sposo, che - scrive lo Hocquard - «gli altri cinque personaggi riprendono il lo ro canto d’insieme come se niente fosse. Si direbbe una di quelle scene di cinematografo dove gli attori immobiliz zati riprendono vita di colpo: ricominciano le effusioni, e questa volta è Marcellina che riprende in eco le esclama zioni pompose di Bartolo». In verità, il Conte e Don Cur zio dànno retta a Susanna, e indicandole la commovente scena familiare di Figaro abbracciato teneramente da Mar cellina le dicono, con una specie di scontrosa indifferenza: «Non sappiam com’è la cosa, Osservate un poco là». La rabbia di Susanna di fronte a quello spettacolo iso la per un istante la sua voce in una serie ascendente di strappi dinamici, con una momentanea escursione nel tono tragico di do minore sul tremolo dei bassi, di pretto stile drammatico e serio. Tanto sono dure e taglienti le battu te melodiche di Susanna, ora sopra imperiose scale ascen denti dei violini primi, altrettanto è cordiale, intenerito e pacioccone il tono con cui Figaro cerca di spiegarle la situazione. Figaro non canta quasi, il suo «Senti, o cara, senti, senti! » avviene sulla ripetizione d’una sola nota, la dominante, ma i violini intonano un disegno di estrema tenerezza, che dura imperterrito anche quando Susanna, approfittando di un gioco di parole rifila una sberla a Fi garo («Senti questa! ») e poi si associa nel canto al rabbio so disegno di trochei discendenti del Conte, echeggiati de bolmente anche dal marionettistico Don Curzio, mentre gli altri continuano le loro giubilose vociferazioni di feli cità familiare. «L’effetto musicale di tutto ciò, - scrive lo Hocquard, - è estremamente umoristico, perché se ne spri giona una stupefazione calma e quasi placida, da cui emer gono i singhiozzi di Susanna e la voce furiosa del Conte». Umoristico è già il fatto stesso che le voci di due nemi
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ci, il Conte e Susanna, si trovino appaiate in questa se zione del concertato. Comicissimo è, naturalmente, che avendo Susanna menato uno schiaffo a Figaro, se ne adon ti il Conte, mentre lo schiaffeggiato va in brodo di giuggio le perché questo schiaffo (come avverrà poi ancora nel Fi nale dell’opera) è prova dell’amore di Susanna per lui. Una figura di flauti, fagotti e violini per terze discen denti, durante due battute di pausa delle voci, introduce la terza sezione del sestetto, riconducendo il tono di fa maggiore. Una specie di ripresa, anche se in seguito il con tenuto musicale del terzo episodio sarà affatto nuovo e di verso dal primo. Ma qui la ripresa c’è, sebbene masche rata, poiché la leziosa cantilena, su dondolanti intervalli di terza minore, con cui Marcellina aveva dato inizio a questo sestetto, è ora confidata a flauti, oboi e fagotti, spesso poco percepibili, a seconda delle esecuzioni, in con fronto ai violini, i quali riprendono la medesima figura vi vace che avevano all’inizio del sestetto, confermando cosi l’impressione che qui ci si trovi in presenza di una vera è propria ripresa. E Marcellina allora che cosa canta? Mar cellina, invece di cantare la sua figura iniziale di terze don dolanti, ora passata ai legni, ne canta una specie di varian te che ci ricorda qualche cosa, specialmente per quel suo insistente riportarsi sulla dominante (do). Il battibecco con Susanna nella quarta Scena del primo Atto: le esage rate e velenose cerimonie sul passo della porta, «Via, re sti servita, madama brillante». La stessa insistenza osten tata sulla dominante (che là era mi), e naturalmente è mol to comico che Marcellina conservi il suo modo di fare complimentoso anche ora che non v’è più nessun sottinte so ostile nel suo atteggiamento verso Susanna. Ci avvedia mo ora qual era il tipo umano nel quale il personaggio ci si era presentato fin dalla sua prima apparizione: la suo cera, per lo meno nella sua accezione di bassa comicità con venzionale. Si sviluppa ora il passo di più farsesca, quasi pantagrue lica comicità di tutto il sestetto, e forse di tutta l’opera, e cioè quella che lo Hocquard chiama felicemente «la ca scata delle cinque domande identiche che Susanna pone a Bartolo, poi al Conte, poi a Curzio, poi a Marcellina, in
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fine a Figaro». Per queste domande ella raccoglie lo spun to ascendente con cui Don Curzio aveva reagito, nella pri ma parte del sestetto, all’agnizione di Figaro: «Ei suo padre? ella sua madre? », e lo stupore risentito della do manda si tempera via via nelle successive conferme, finché da ultimo, quand’ella, mutando l’aggettivo possessivo, chiede a Figaro: «Tua madre? », già trema nella sua voce l’allegria smisurata in cui la mette la certezza di questa buffa novità. Non solo la gioia che il principale ostacolo al matrimonio sia con ciò spianato, ma anche, poiché l’im pertinenza e il senso dell’umorismo sono componenti es senziali del caratterino vispo di Susanna, l’irresistibile vo glia di ridere per un fatto cosi comico, che il suo caro Fi garo sia figlio di quella vecchia befana di Marcellina. Tutta questa pantomima sonora della moltiplicazione delle domande e risposte è totale invenzione della musica; il libretto non aveva nient’altro che la domanda di Susan na: «Sua madre?» e la risposta unica e corale di tutti gli altri: «Sua madre». Il gioco si ripete tale e quale rinviando l’inquisizione dalla madre al padre di Figaro, ed ora è Don Bartolo che diventa oggetto della medesima ascesa d’interrogazioni in credule e della divertita curiosità di Susanna. È questo uno dei casi tipici in cui si scorge pienamente l’essenza della via italiana all’opera lirica, quale sarà poi tanto sviluppata da Rossini, e che consiste nel sentire le convenzionalità e i manierismi del genere stesso, le sue ripetizioni, le sue simmetrie, le sue stroficità, non già co me un inconveniente e un difetto, bensì come uno strumento per sviluppare gli effetti del drammatico o del co mico, secondo una specie di leibniziana armonia prestabi lita tra la vicenda scenica (ossia il testo poetico) e la for ma musicale. Curioso che proprio lo Hanslick, fautore dell’opera all’italiana e nemico delle severe soluzioni ap portate da Wagner ai problemi del dramma musicale, si mostrasse refrattario alla comicità musicale di questa sce na: «Quanto ci rende impazienti la ripetizione di " E que sto è suo padre che a te lo dirà! ”» ‘. 1 e.
hanslick,
Die moderne Oper, Hofmann, Berlin 1880, p. 39.
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
Sono queste ultime le parole con cui Figaro dà risposta e sfogo alla tensione intollerabile, ancorché comica, accu mulatasi attraverso la ripetizione delle domande e rispo ste. E la melodia di Figaro è larga, gioviale, accentuata fino alla caricatura dall’unissono con tutti gli archi. Nessuna modulazione, si noti, all’interno di questo gio co delle ripetizioni, laddove la precedente aria del Conte e il duetto con Susanna vivevano per buona parte proprio sull’inquieta instabilità delle modulazioni. È ovvio il per ché: qui siamo ormai in uno stato di ricuperata concordia (dal quale sono esclusi solo il Conte e Don Curzio), e qua lunque varietà tonale di modulazioni diminuirebbe l’effi cacia comica delle ripetizioni, che, quanto più sono preci se e testuali, tanto più fanno ridere. La conclusione del sestetto raccoglie tutte le voci in un concertato, dove il Conte e Don Curzio continuano a scan dire gli accenti ben ritmati del loro corruccio, mentre gli altri personaggi, invece, con un canto più riposato e piano, formano una specie di sfondo sonoro, quasi un continuo movimento di diastole e sistole armonica, su cui si leva limpida e aerea la voce di Susanna, vocalizzante in una specie di ebbrezza con quel tono quasi religioso che la mu sica di Mozart attinge quando è in gioco il tema della fe licità dell’uomo.
scena sesta
(Susanna, Marcellina, Figaro, Bartolo).
Recitativo.
Partito il Conte, in gran furia, con Don Curzio, i quat tro rimasti, un tempo nemici, ora alleati e parenti, defi niscono le loro questioni con un dialogo molto arguto. Bartolo, seccato che sia tornata a galla questa vecchia fac cenda, promette di sposare Marcellina. Questa condona a Figaro, a titolo di dono nuziale, il suo debito; Bartolo v’ag giunge un sacco di denaro, e Susanna le mille doppie che aveva misteriosamente procurato per riscattarsi lo sposo. Figaro raccoglie tutto: «Bravi, gittate pur, ch’io piglio ognora». Alla fine di questo dialoghetto i quattro si riti rano dalla porta di fondo, e mutandosi per tre battute il
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recitativo in un Andante a tempo, cantano insieme il breve inno della loro solidarietà contro il comune nemico: «E schiatti il signor Conte al gusto mio! » Questa trovata insolita (trasformazione a vista di recitativo in canto) ri porta per un momento in luce quella carica di polemica sociale che dopo la Cavatina di Figaro del primo Atto era quasi totalmente svanita nell’opera. scena settima
(Barbarina, Cherubino).
Recitativo.
Segue, nella partitura d’orchestra, un breve recitativo tra Barbarina, la figlia del giardiniere Antonio, e quindi cugina di Susanna, e Cherubino. La ragazza persuade il paggio a lasciarsi vestire da donna per venire con lei e con le altre ragazze del villaggio a presentar dei fiori alla Con tessa. Questo recitativo doveva essere seguito da un’aria di Cherubino: «Se cosi brami, Teco verrò». L’aria, che non fu mai eseguita, è andata perduta, sicché anche il pre sente recitativo viene omesso e non si trova neppure stam pato nell’edizione per canto e pianoforte. Tuttavia non si può negare che quando Cherubino verrà scoperto, vestito da donna, nel coro delle ragazze, alla fine di questo Atto, la cosa risulti piuttosto sibillina. Anche questo particolare fa parte della struttura un po’ elastica e scombinata che presentano le scene del terzo Atto.
scena ottava
(la Contessa sola).
Recitativo ed aria. Andante-Andantino, do maggiore, 2/4.
Comincia con questa purissima aria la riscossa della Contessa, personaggio rimasto fin qui in ombra, e che in vece sta a poco a poco per prendere il sopravvento, sia nella determinazione successiva dell’intrigo, sia per la sua altezza morale e la sua femminilità. Ormai la partita tra il Conte da una parte e Susanna e Figaro dall’altra è termi nata con la vittoria dei servi. Quale molla drammatica
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
tiene ancora in piedi la commedia per un Atto e mezzo? La lotta affrontata con dolcezza, ma con tenacia, dalla Contes sa per ricuperare l’affetto del marito. Quest’aria costituisce, com’è ovvio, un perfetto riscon tro all’aria di collera e di gelosia del Conte. L’Abert ha notato sottilmente che ci sono perfino dei parallelismi di situazione, nonostante il diverso carattere espressivo dell’una e dell’altra aria: in particolare l’umiliazione che si mescola al sentimento dominante di ciascuno dei due per sonaggi, per il fatto di dover ricorrere (nel caso della Con tessa) oppure cedere (nel caso del Conte) a un personag gio di bassa estrazione, a un loro servo. L’aria della Contessa ci riporta dunque in uno stile no bilissimo di opera seria, anche se di gusto italiano, e come già quella del Conte è preceduta dal suo bravo recitativo accompagnato, duttile, mobile e discreto strumento di scandaglio nell’anima del personaggio. Come dice l’Abert, «il recitativo rappresenta l’impulso proveniente direttamente dalla situazione, mentre l’aria raccoglie i singoli sentimenti commossi nella pienezza del ritratto lirico». Il recitativo dà voce ai contrastanti sentimenti che si agitano nel cuore della Contessa: impaziente attesa del ri torno di Susanna, inquietudine per l’audacia forse ecces siva del complotto ordito. Non è rigido, ma al contrario si affretta per una battuta di Allegretto, quasi avvampan do in una subitanea fiammata la figura ornamentale degli archi che lo sostiene, quando la Contessa pensa con preoc cupazione al carattere dello sposo, «si vivace e geloso». Ma poi si rinfranca, nella coscienza del suo diritto a lot tare per la propria felicità; cosi si ristabilisce nel recitati vo il calmo Andante iniziale, mentre gli archi punteggiano la voce con intervalli sempre più dilatati: di sesta maggio re, di settima diminuita, di settima, che introducono co me una lenta, blanda tensione. Una battuta e mezza di re citativo a voce sola, senz’alcun sostegno orchestrale, ha un piglio classico di passione, quasi monteverdiano. Poi semplicissima, di soppiatto, tanta ne è la natura lezza, inizia l’aria, in do maggiore, Andantino, secondo la partitura d’orchestra, Andante secondo lo spartito per pia no e canto. E forse quest’ultimo è da preferire, per toglie
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re alla purissima aria ogni sospetto di leziosità, che l’Andantino potrebbe conferire. Ispirazioni come quella di quest’aria tolgono la paro la al commentatore per la loro semplicità. Bisognerebbe sapersi elevare con la parola ad altezza lirica pari a quella della musica, il che non è dato a tutti, né è sempre possi bile a comando. Qualsiasi pretesa di analisi stona in pre senza di questa pagina elementare e sublime. Chi non s’av vede che l’aria è divisa in due sezioni, Andante (o Andan tino) e Allegro, entrambe in do maggiore, e che la prima è in classica forma ternaria A - B - A, con la parte centrale in un tono di sol, che da maggiore diventa subito minore? Nella prima sezione il canto della Contessa si muove per lo più per intervalli contigui, quasi con la castità del canto gregoriano, E del resto l’Abert ci ricorda che que st’idea melodica appare già prefigurata nell’Agnus Dei della Messa in do maggiore K. 317. Non si saprebbe imma ginare indicazione più significativa: siamo in quella sfera parareligiosa che per Mozart si connette con l’idea della felicità, e lo stile è proprio uno stile da Agnus Dei, cioè della parte più tenera della Messa. Perché felicità, se il personaggio si lamenta? Perché l’oggetto di questa prima parte dell’aria è la perduta felicità coniugale: «Dove so no i bei momenti Di dolcezza e di piacer...» La nostalgia è la dimensione espressiva dell’aria e sottostà, minando lo, a tutto quell’apparente canto di serena beatitudine che è l’inizio dell’aria. Già la parola «menzogner», alla fine della prima quar tina, conturba la calma linea melodica con un principio di agitazione, che si insedia poi stabilmente nella seconda sezione, dove l’affanno di quell’anima gentile straripa nel l’inquietudine modale (sol maggiore e il patetico, sol mi nore), nell’ampiezza di alcuni intervalli, nell’agitazione del ritmo, nei presaghi - ominous, direbbero gli Inglesi - in terventi dei fiati, oboi, fagotti e corni. Poi la religiosa pace della ripresa rientra come prima, di soppiatto, una pa ce tutta fasciata di malinconia, perché è l’immagine d’una felicità che non c’è più. L’Allegro inizia quasi come un ritorno di recitativo. Un’idea nuova riscuote il personaggio dalla sua tristezza:
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
la speranza. Forse non è tutto perduto, donde l’energia, lo scatto di questo Allegro. Sono quasi delle fanfarette animose quegli interventi dei fiati che punteggiano e scan discono le due strofe simmetriche e praticamente uguali del canto. Strofe che ondeggiano per un momento dalla sicura confidenza del do maggiore all’inquieto tormento del do minore, ma ogni volta una frase confidente e co raggiosa viene a riportare il tono maggiore. Due volte, alla fine, la voce raggiunge un acuto, del resto moderatissi mo, un la; eppure sembra chissà che. In verità in questa aria si «canta», realmente, nel senso italiano della paro la, e ci accorgiamo quasi per contrasto, retrospettivamen te, quanto parca sia di solito la vocalità degli altri perso naggi e con quale personalissima economia di mezzi (no nostante l’italianismo apparente del suo stile) Mozart muova di solito le fila della commedia. scena nona
(il Conte, Antonio).
Recitativo.
Questo breve recitativo ha la funzione d’informare lo spettatore di quanto non può altrimenti sapere, se viene omessa la scena precedente all’aria della Contessa, tra Cherubino e Barbarina, quando quest’ultima persuade il paggio a lasciarsi travestire da fanciulla per partecipare all’omaggio che le ragazze del villaggio faranno alla Con tessa in occasione delle doppie nozze, tra Susanna e Figa ro, Bartolo e Marcellina. Qui Antonio mostra al Conte il cappello di Cherubino, dimenticato in casa sua durante quel colloquio con Barba rina che viene generalmente omesso, sicché tutto questo settore dell’azione risulta, nello spettacolo, passabilmente oscuro. scena decima
(la Contessa, Susanna).
Recitativo.
Partiti Antonio e il Conte, entrano la Contessa e Su sanna. In questo e altri casi analoghi di sostituzione dei
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personaggi non sono indicati cambiamenti di scena. È chia ro che sarebbe più attendibile vedere la Contessa intratte nersi con Susanna in altro locale del palazzo che non nel la stanza teste sgombrata dal Conte e Antonio, ma, per evitare ritardi e pause nello spettacolo, il libretto non prescrive cambiamenti di scena: fin dal principio del terzo Atto siamo sempre in una «sala ricca, con due troni, e preparata per la festa nuziale», cioè nel luogo che dovrà servire per l’ultima scena dell’Atto. Parrebbe il colmo dell’assurdità far svolgere in questa sede anche il dialoghetto, difatti sempre omesso, tra Barbarina e Cherubino, ma se si bada bene alle parole, ci si accorge che la diffi coltà è stata prevista e in qualche modo aggirata dal li brettista: Barbarina invita Cherubino così: «Andiamo, andiam, bel paggio: in casa mia Tutte ritroverai Le più belle ragazze del castello». È questo un caso estremo, che conferma l’unicità della scena fissa lungo tutto l’Atto, per quanto inverosimile essa possa apparire. Adesso, per l’appunto, nello stesso luogo da cui si sono appena allontanati il Conte e Antonio, giungono la Con tessa e Susanna, e dal discorso evidentemente già avvia to tra loro dobbiamo comprendere che Susanna ha narrato alla Contessa la scena, svoltasi in questo medesimo luogo, del riconoscimento dei parenti di Figaro. «Cosa mi narri! E che ne disse, il Conte?», chiede la Contessa. Risponde Susanna: « Gli si leggeva in fronte II dispetto e la rabbia». Poi insieme perfezionano il progetto di invitare il Conte in giardino per un falso appuntamento serale con Susan na. In luogo suo andrà la Contessa, travestita coi panni della cameriera. Susanna ha già concesso a voce questo appuntamento, nel duetto della Scena seconda col Conte. Ora si tratta di confermarglielo per iscritto, al che Susan na mostra qualche riluttanza. In effetti rischia molto: la sera stessa delle sue nozze, invitare il Conte per iscritto a un appuntamento notturno, sia pur falso, all’insaputa di Figaro, potrebbe recarle conseguenze catastrofiche se per caso Figaro ne venisse a conoscenza. La Contessa vince la sua resistenza: «Eh, scrivi, dico: e tutto Io prendo su me stessa». In un primo tempo questi due versi erano prece duti da un altro, che Mozart poi cancellò con una matita
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
rossa: in esso venivano molto accentuati l’affanno patèti co e il risentimento della Contessa: «Sei per tradirmi tu d’accordo ancora». Come abbiamo già accennato, la com media sta attraversando in queste scene una svolta decisi va: la trama indicata nel titolo, cioè le nozze di Figaro e Susanna, sta per esaurirsi; le nozze saranno infatti cele brate alla fine di questo Atto, sia pure con gran dispetto del Conte. La materia dell’ultimo Atto sarà altra, e qui co minciano a porsene le premesse: la materia dell’ultimo Atto è la lotta della Contessa per riconquistarsi l’affetto del marito. Le due donne procedono così alla scrittura della lettera, dettata dalla Contessa e scritta da Susanna, espediente, questo della dettatura d’una lettera, ch’era assai comune nel melodramma settecentesco. Duettino. Allegretto, si bemolle maggiore, 3/4.
Siamo di nuovo a una tipica scena di edonismo settecen tesco, nel genere della pittura galante d’un Fragonard o d’un Boucher, ma molto giustamente l’Abert, di cui ri produciamo e in parte letteralmente citiamo la perfetta analisi, parla di Rokokostimmung, non di Rokokostil'. è lo stato d’animo, diciamo meglio, la situazione che è di gusto rococò, non lo stile. In altri termini, c’è nel musici sta la consapevolezza di chi decide: «Adesso qui ci vuole, e ci metto una scena di gusto rococò». Non è il caso del compositore settecentesco che fa il rococò perché c’è den tro lui stesso e non sa fare altro, perché quello è il suo stile e basta. È, diciamo così, un rococò padroneggiato, impiegato di proposito, e perciò il rischio della leziosag gine che è connesso con questo stile è felicemente evitato, o per così dire superato nell’atto di assumerlo consapevol mente. La lettera, del resto brevissima, e questo è un segreto della sua sobrietà, viene stilata sotto forma di canzonetta da cantare su un’aria nota. «Canzonetta su l’aria» sono le ultime parole della Contessa nel recitativo precedente, e il duettino si apre con la ripetizione parziale che Susan na ne fa, scrivendo: «Su l’aria». La strumentazione è leg-
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gerissima: archi, un oboe e un fagotto, i fiati in funzione melodica a complemento e integrazione delle voci, gli ar chi come strumenti d’accompagnamento, divisi in due se zioni : i violini all’unissono, e le viole praticamente coi bas si, in una semplice distribuzione a due voci, che sottolinea il carattere di canzonetta. Il «soave zeffiretto», di cui nel testo della lettera, spira dolcemente nel ritmo cullante dell’accompagnamento dei violini. La dolce melodia è a tratti per gradi contigui (battute n-12, 28-29), talora con insinuanti strisciamenti cromatici (battute 18-21), ma più spesso invece è, come scrive l’Abert, «un continuo inflet tersi e dondolarsi su armonie di accordi spezzati», con pre ziose appoggiature e ritardi armonici prima di ricadere sulle toniche. Minimo il movimento modulante: delle due parti di cui il duettino consiste, soltanto la prima com pie una modulazione elementare dalla tonica alla domi nante (le battute 11-17 sono in fa maggiore), per tutto il resto il pezzo riposa tranquillo nella tonalità di si be molle maggiore. Il fattore timbrico delle due voci femminili, che s’inseguono continuamente in eco, contribuisce grandemente alla voluttuosa galanteria della situazione musicale. La forma è quella di un piccolo Lied in due strofe, con vera e propria ripresa alla battuta 37, introdotta da un quasi «parlato» della Contessa. La prima strofa è la dettatura vera e propria della lettera, perciò le voci sono alquanto distanziate, e i fiati intervengono melodicamente quando Susanna scrive, cantando ad alta voce ciò che sta scriven do; tacciono quando la Contessa detta, e ciò basta a sta bilire fonicamente il clima diverso che si ha quando qual cuno detta, in modo chiaro e incisivo, e un altro ripete scrivendo, ed ovviamente pronuncia meno distintamente e quasi strascicando. Perciò Susanna ripete le frasi melo diche della Contessa, con qualche libera riformulazione. La seconda strofa è la rilettura che le due donne compio no dello scritto, perciò le due voci sono molto più ravvi cinate e si sovrappongono spesso per qualche nota. Man mano che la rilettura procede, «la gioia per ciò che è stato scritto diventa sempre più evidente e si scarica perfino in una piccola coloratura» (battute 48-49). Cosi giudica l’A-
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bert. Invece lo Hocquard sente una «malinconia comune ripresa in eco incessanti dal serico arrotolarsi della linea sonora» e aggiunge: «Come non vedere una tristezza pensosa, mescolata alla speranza, nelle parole ripetute: - Certo, il capirà! » Il curioso è che la musica di questo duettino è così divinamente ambigua e ambivalente, che si è tentati di dar ragione a tutti due, all’Abert che la trova al legra, e allo Hocquard che la trova songeuse e malinconica. L’interpretazione psicologica delI’Abert accentua mol to l’aspetto di maliziosa galanteria. «Nel canto alterno, a repliche sempre più strette, di queste due figlie d’Èva si ravvivano tutti gli spiriti segreti della seduzione, che aleggiano intorno a quei luoghi notturni. È delizioso co me i sensi delle due donne entrano lievemente in agita zione al pensiero di quel galeotto scenario naturale». Cioè, secondo l’Abert, nel duettino in cui viene complottato l’appuntamento notturno passerebbe già come un soffio anticipato di quell’aura voluttuosa che avvolgerà poi nel suo incanto tutta la grande Scena finale dell’opera, tra i profumi notturni del giardino. Recitativo.
Cosi come il duettino si sviluppava senza soluzione di continuità dal recitativo precedente, ugualmente è segui to da un ulteriore breve recitativo, sempre appartenente alla Scena decima tra le due donne. Anche questo ha lo scopo di preparare una circostanza dell’intrigo che si svol gerà nel Finale d’Atto. Scritta la lettera, c’è il problema di sigillarla. La Contessa si cava una spilla e la porge a Susanna, perché la usi a questo scopo, scrivendo sul rove scio del foglio: «Rimandate il sigillo». Questa spilla avrà larga parte nelle prossime vicende. Intanto si sente arri var gente, e Susanna nasconde il biglietto nel capace ser batoio del suo decolleté.
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(la Contessa, Susanna, Barbarina, Cherubino e Contadinelle).
scena undicesima
Coro di Contadine. Grazioso, sol maggiore, 6/8.
Il coro femminile che viene a riverire la Contessa ci riconduce a quel clima di rusticità pastorale leggermente stupida che già abbiamo conosciuto nel primo Atto, col coro di contadini della Scena ottava «Giovani lieti, fiori spargete». Ci sono molte analogie stilistiche: tono di sol maggiore, ritmo campagnolo di 6/8, una vera e propria derivazione tematica (si veda, nel coro del primo Atto, Tettava battuta dal fondo), gran rilievo dei flauti nell’in troduzione strumentale. Tutti sanno che Mozart aveva il flauto in cordiale antipatia. Nell’opera comica italiana que sti cori di contadini avrebbero avuto un tono d’innocenza sinceramente affettuoso. Nell’irresistibile aristocraticità musicale di Mozart spunta sempre un sospetto di dileg gio. Non che ci sia una deliberata volontà caricaturale. Siamo sul discrimine della seria innocenza e della sua pre sa in giro. Ognuno può reagire come crede: incantarsi per la serenità di quei rustici canti, o ridere sotto i baffi per la loro stupidaggine. La ridicola parata delle contadinelle che fanno il loro inchino e poi se ne stanno impettite ciascuna col suo mazzolino, la meccanicità dei loro inevitabili ritor nelli, possono suggerire alla regia una scena parodistica alla René Clair. Recitativo.
La Contessa gradisce l’omaggio delle contadine e ne nota nel gruppo una che non conosce. Quella buona lana di Barbarina mentisce sfrontatamente: «È una mia cugi na e per le nozze È venuta ier sera». La Contessa la fa avvicinare, si fa dare il mazzolino e la bacia in fronte, al che la sconosciuta contadinella arrossisce violentemente. La Contessa se n’accorge, e dice a Susanna: «E non ti pa re che somigli ad alcuno? » Susanna sta rispondendo: «Al naturale...», quando irrompono nella sala il Conte e il
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giardiniere Antonio, quest’ultimo col cappello di Cheru bino in mano. scena dodicesima
(il Conte, Antonio e detti).
Recitativo.
Antonio smaschera Cherubino cavandogli la cuffietta femminile e cacciandogli in testa il suo cappello. Ira del Conte, rimostranze alla Contessa e fieri rimbrotti a Cheru bino, il quale però viene salvato dalla piccola Barbarina, che con la sua finta innocenza sa rimettere il Conte in un fiero imbarazzo. «Eccellenza, Eccellenza, - gli ricorda, Voi mi dite si spesso, qualvolta mi baciate e m’abbrac ciate: Barbarina, se m’ami, Ti darò quel che brami». Di conseguenza ora Barbarina chiede in sposo Cherubino, e promette al Conte di amarlo come ama il suo gattino, se la vorrà esaudire. È la volta della Contessa, ora, di ridere verde alle spalle del Conte, il quale impreca ai contrattem pi che gli attraversano il cammino. SCENA tredicesima (Figaro e detti). Recitativo.
Come al solito, Figaro arriva tutto pieno d’allegra in traprendenza, frettoloso di concludere le nozze e perfetta mente ignaro di quanto è accaduto. Il Conte e Antonio gli rinfacciano la presenza di Cherubino, che smentisce la sua versione d’essere saltato lui stesso dal balcone in giar dino. Figaro se ne sbriga come può, intanto «si ode una marcia spagnuola da lontano», come specifica la didasca lia del libretto e dello spartito per canto e pianoforte, al principio del Finale. Finale. Marcia, do maggiore, 4/4.
La Marcia, che raduna tutti gli strumenti dell’orchestra, comprese trombe e timpani, comincia tuttavia pianissimo, poiché avanza da lontano. É in do maggiore, ma comincia
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Allegretto, do maggiore, 2/4.
Secondo l’Abert sarebbe di gusto francese il contrasto tra la rigida marcia, che intanto ha raggiunto il massimo di sonorità, chiamando in causa anche i clarinetti, e la semplice Canzone che intonano subito dopo due voci fem minili, pur essa in do maggiore, in elogio della magna nimità del Conte che ha abolito il jus primae noctis. Il tes suto orchestrale si dirada con la scomparsa dei clarinetti; quasi tutto il peso dell’accompagnamento è sostenuto dagli archi, con ripetuti mordenti e corti abbellimenti dei vio lini, mentre gli oboi si abbandonano a un trillo piu pro lungato quando è fatto cenno alla magnanima concessio ne del Conte. Va da sé che la ripetitiva melodia vocale, anch’essa in ritmo di marcetta in 2/4, e conclusa rumoro samente da tutto il coro, ha il solito carattere un po’ ga glioffo che quasi sempre si riscontra in Mozart nella rap presentazione musicale di quelle che oggi si chiamerebbe ro le «masse». Andante, la minore, 3/4.
È questo l’unico pezzo di colorito spagnolo di tutta l’opera, un «fandango» evidentemente ben noto a Vien na, poiché Gluck se ne era già servito nel suo balletto Don Juan, che è del 1761. La trattazione che Mozart ne ha dato crea un efficacissimo contrasto in seno a questo Finale de
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corativo e coreografico. Tanto il coretto era pomposo ed esteriore nella sua vacua solennità, altrettanto il fandan go è misterioso e pieno d’ombre col suo ritmo di 3/4 in note prevalentemente staccate degli archi, su cui interven gono a tratti flauti, oboi, fagotti e corni. È un tocco di romanzesco avventuroso, e infatti serve a consentire lo svolgersi della trama, dell’intrigo narrativo, in seno alla pompa della cerimonia festiva. È proprio durante la danza del fandango che Susanna mostra il biglietto al Conte e glielo passa, portandosi una mano a ravviarsi i capelli die tro la testa, mentre il Conte le impone il cappello della ce rimonia. Per prima cosa il Conte si punge un dito nella spilla usata come sigillo, e, sempre sul ritmo aguzzo e dan zante del fandango, se n’esce in quattro battute di recita tivo singolarissimo, una specie di imprecazione musicale d’una modernità come non si trova l’uguale in tutto il Set tecento e che ci porta di colpo, poniamo, al Verdi degli ul timi anni, della Forza del destino o magari del Falstaff. Figaro, che balla il fandango malgrado la pretesa storta a un piede (e il Conte non aveva mancato di ricordarglie la), osserva da lontano la scenetta e la fa notare a Susan na. Naturalmente egli non sa che biglietto e spilla vengo no al Conte proprio da Susanna. Il fandango modula da la minore a mi minore e ritorna in la minore, sempre con la solita eleganza di ombreggiatura e di «staccato» in punta di penna, e su di esso le voci di Figaro e del Conte si in seriscono praticamente come in un libero recitativo: e mai s’è visto recitativo più riccamente accompagnato da un fluente discorso orchestrale! Terminata la danza, il Conte invita tutti alla cerimonia nuziale disposta per la sera con la più ricca pompa, e fa ciò in un breve inserto di recitativo secco, cui segue la ripresa, questa volta da parte di tutto il coro, dell’Allegretto un po’ melenso con cui poco prima due voci fem minili avevano elogiato la magnanimità del Conte. Il curioso è che di questo promesso apparato nuziale non si sentirà più parlare nell’ultimo Atto dell’opera: tan to è vero quanto avevamo rilevato, che la vicenda delle vere e proprie «nozze di Figaro» termina praticamente col sestetto dell’At to terzo. Dopo di che una nuova trama
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s’innesta sulla precedente, e consiste nella coraggiosa lotta della Contessa per riconquistarsi il marito. «È notevole - scrive lo Hocquard - che questa festa non dia in alcun modo l’impressione di una conclusione, come dovrebb’es sere se gli intrighi degli Atti precedenti tendessero verso queste nozze come a loro soluzione: il matrimonio di Fi garo e di Susanna, che era il termine dell’azione esterna, diventa completamente secondario, ora che s’impegna la azione interna. Anzi, col fandango, che è destinato a co ronare la festa, l’atmosfera si oscura e si aggrava. Il trillo iniziale e i motivi dolorosi dei fiati creano perfino un cli ma di angoscia, che annuncia la scena del ballo alla fine del primo Atto del Don Giovanni. Quando la voce del Conte, in una specie di recitativo melodrammatico, copre il seguito del fandango in un contrappunto impressionan te, ci eleviamo a un momento cruciale del dramma... La commedia è a questo punto cento leghe piu in basso di noi, coi suoi intrighi e le sue sorprese, e Mozart ci rivela qui uno stile di comico estremamente impressionante, per ché è ad un tempo atroce e buffonesco». E lo scrittore continua le sue deduzioni un po’ azzardate, paragonando la situazione di Figaro che ride dell’irritazione del Conte, puntosi con la spilla, e non sa che il biglietto segreto è del la sua Susanna, alla quale egli fa rilevare la scenetta, con la comicità chapliniana, o con quella del George Dandin di Molière, consistente nel mettere ironicamente alla berlina un personaggio il quale ride di sventure che crede altrui, e sono invece sue. Ricapitolando quanto s’è già avuto occasione d’accen nare sulla tecnica dei Finali nelle Nozze di Figaro, ricordia mo che due di essi, quelli degli atti di numero pari, sono Finali in piena regola, cioè concertati d’azione che coinvol gono numerosi personaggi e promuovono attivamente la vicenda attraverso un dialogo continuamente mosso e can giante. Il Finale del primo Atto, invece, è un’aria di Fi garo, a carattere comicamente militaresco; vede in scena numerosi personaggi, ma uno solo canta. Questo Finale del terzo Atto è invece un Finale decorativo e coreografi co, con la presenza non solo di tutti i personaggi, ma an che del coro e di numerose comparse (al suono militare
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sco della Marcia compaiono in scena «cacciatori col fucile in spalla», contadini e contadine, insomma, tutto il perso nale del castello). L’azione indubbiamente procede, anche durante questo Finale, ma non tanto attraverso il dialogo dei personaggi, quanto attraverso gesti e pantomime. Il rivestimento musicale ha piuttosto carattere di cerimonia esteriore e di pompa festiva.
Capitolo settimo
Il quarto Atto
scena prima
(Barbarina, tenendo in mano una lan
terna). Cavatina, fa minore, 6/8.
L’inizio del quarto Atto è una delle cose più sorpren denti dell’opera, d’una originalità che per il fatto d’esse re assolutamente casuale non cessa di apparire quasi scon certante. Ad apertura di scena, nel «giardino con due padiglioni» che ospiterà poi le complicazioni e la risoluzio ne del Finale, passa la piccola Barbarina, con una lanter na in mano, cantando una brevissima e patetica cavatina in tono minore. Non sembra più la precoce biricchina che abbiamo visto poc’anzi. Sembra una bambina, quasi pia gnucolosa. Ha perduto qualche cosa e la cerca nella notte a lume di lanterna. Accompagnato dai soli archi, il suo è un lamento infantile, su una melodia sospirosa, di stampo nettamente italiano. L’Abert, sempre preoccupato di rile vare le differenze dell’arte di Mozart dal gusto italiano, am mette: «Frasi come questa dimostrano in modo particolar mente chiaro quanto Mozart abbia appreso da Paisiello». Da Paisiello, ma anche, potremmo dire, da Pergolesi: per lo meno da un certo tipo di patetismo napoletano del tono minore che risale, come a fonte più cospicua, a Pergolesi. Li per lì, il passaggio di questa figuretta e il senso di questo lamento infantile restano enigmatici, e la tentazio ne è fortissima di attribuirvi perciò una specie di sopra senso, dedotto da esperienze culturali del nostro tempo. Questa specie di «catastrofe infantile», secondo la bella espressione dell’Abert, il dolore di questa bimbetta sin ghiozzante, tutta sola nella notte, non può tentare a vede-
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re nel dolore dei piccoli, non compresi dai grandi, l’imma gine dello straniamento, dell’incomprensione generale tra le creature? D’accordo, Mozart non ne aveva la piu lonta na idea. E il mistero di Barbarina presto si chiarirà: sta. semplicemente cercando la famosa spilla che aveva fatto da sigillo al biglietto segreto di Susanna, e che il Conte le aveva dato perché la riportasse a Susanna, secondo quan to era prescritto sul rovescio della lettera. E la stranezza di quest’aria assegnata a un personaggio minore si spiega con le usanze teatrali dell’epoca, che volevano il dono di almeno un’aria a ciascuno dei comprimari (subito dopo, Marcellina e Basilio saranno gratificati di due arie così manifestamente superflue e dannose all’economia dramma tica, che vengono sempre omesse). Nessun mistero, dun que, nella piccola cavatina di Barbarina, e nessuna illu minazione straordinaria che possa farne un simbolo della solitudine e dell’incomunicabilità. Tuttavia, chi ci vieta di leggere i capolavori del passato alla luce della nostra espe rienza di moderni? Ed è proprio un segno distintivo della grande arte quella di poter resistere a tale prova. Sicché, il lamento sbigottito di Barbarina ci rimanda irresistibil mente a una scena altrettanto misteriosa d’un capolavoro del teatro lirico moderno, scena che proprio per la sua sconcertante originalità viene talvolta omessa in esecu zioni poco riguardose: nel quarto Atto del Pelléas et Ntelisande di Debussy, il piccolo Yniold, figlio di Golaud, che si aggira fra i «grandi» come in un mondo straniero, è solo al crepuscolo su una terrazza. Chissà perché, si sforza di sollevare una pietra, e non ci riesce, è troppo pesante. Passa un gregge di pecore. «Dove vanno? — si chiede Yniold. - Pastore! pastore! Non mi sente più. Sono già troppo lontani... Dove dormiranno questa notte?... Oh! oh! è già troppo buio... Voglio dire qualcosa a qualcuno! » Ed esce. Scena incomprensibile, e musicalmente bellissi ma, dalla quale un filo misterioso si diparte che la collega al lamento di Barbarina: casi, entrambi, della solitudine infantile nel mondo dei grandi.
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scena seconda
(Barbarina, Figaro e Marcellina).
Recitativo.
In realtà, l’inserzione della misteriosa apparizione di Barbarina nell’economia del racconto avviene tosto in que sto recitativo. Rimasta sospesa sulla dominante la cava tina, sopraggiungono Figaro e Marcellina, e in poche bat tute di dialogo Figaro scopre il segreto dell’appuntamento notturno di Susanna, presso i pini del boschetto.
scena terza
(Marcellina e Figaro).
Recitativo.
Invano Marcellina, divenuta insolitamente benigna nei riguardi di Susanna, cerca di calmare il figlio distoglien dolo da idee di vendetta. Figaro parte furibondo. «Dove vai, figlio mio?» «A vendicar tutti i mariti. Addio».
scena quarta
(Marcellina).
Recitativo e aria. Tempo di minuetto, sol maggiore, 3/4 (poi Allegro, 4/4).
Rimasta sola, Marcellina canta un’aria, che viene sem pre omessa, perché infatti non presenta nessuna necessi tà drammatica, ed è solo un contentino accordato, per esi genze che oggi si direbbero sindacali, alle pretese dei can tanti minori. Essendo una difesa del sesso femminile, sem pre maltrattato dagli uomini, vuol essere evidentemente un corrispettivo della Weiberarie, dell’aria misogina che tra poco canterà Figaro. È un’aria in due parti, garbata, con accompagnamento orchestrale di soli archi, e presen ta un particolare spiritoso: il ritmo cerimonioso di mi nuetto è riservato alla prima parte, dove si parla delle be stie, e delle maniere gentili che fra esse governano i rap porti di maschi e femmine; e cessa quando si viene a par lare degli uomini e della loro inciviltà verso le donne.
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
scena quinta
(Barbarina, con un canestro in mano).
Recitativo.
Inesplicabile riapparizione di Barbarina, con un cane stro di frutta. Va a nascondersi nel padiglione di sinistra, dove aspetterà qualcuno, che lì le ha dato appuntamento (evidentemente Cherubino). Questa Scena, poco compren sibile, viene sempre omessa.
scena sesta
(Figaro, poi Basilio e Bartolo).
Recitativo.
Anche questa Scena, nella quale Figaro inizia i prepa rativi per il tranello col quale vuole sorprendere il Conte e Susanna nel loro appuntamento in giardino, non si ese guisce mai, e così la seguente.
scena settima
(Basilio e Bartolo).
Recitativo. Aria (Basilio). Andante, si bemolle maggiore, 4/4 alla breve.
Anche quest’aria è evidentemente un obbligo contrattuale verso il tenore, ed è totalmente inutile, trattandosi d’un sermoncino di bassa morale servile, ove Basilio inse gna che a prendersela coi potenti c’è sempre da rimetterci. È però un’aria abbastanza curiosa per il suo tono di lun ga ballata favolistica, e per l’ostinazione con cui Mozart ha svincolato il ritmo della melodia dal metro del verso, per mezzo di ripetizioni di parole, nel tempo di minuetto che costituisce la sezione centrale dell’aria tripartita. Se condo l’Abert, è un’aria di gusto italiano, e «la prima par te potrebbe essere di Paisiello»; mentre la precedente aria di Marcellina viene accostata al gusto francese.
IL QUARTO ATTO
scena ottava
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(Figaro solo).
Recitativo e aria. Andante, 4/4. Moderato, mi bemolle maggio re, 4/4.
Questa terza ed ultima aria solistica di Figaro (le due precedenti gli erano toccate entrambe nel primo Atto) è il risultato del compromesso prudenziale escogitato da Da Ponte per ottenere dall’imperatore il permesso di porta re sulla scena il soggetto della temuta commedia di Beau marchais. Anche in essa, a questo punto, vi è un mono logo del protagonista. Solo, di notte, appiattato nell’oscu rità del giardino per sorprendere il Conte e Susanna nel loro colloquio notturno e chiamare gli abitanti del castel lo a testimoni dello scorno inflittogli dalla sposa e dal pa drone, Figaro trae una specie di malinconico bilancio del la sua vita di povero diavolo, uscito dalla dura scuola della miseria, uomo del popolo che si è fatto largo nell’esistenza lottando contro i privilegi e i soprusi delle altre classi. Ora che con tanta fatica si era sollevato un poco sopra le strettezze della sua condizione, e stava per coronare il so gno della sua felicità privata, ecco che tutto gli crolla ad dosso, ad opera, ancora una volta, d’un potente, del suo «signore». Questo passo è senz’altro la più vigorosa re quisitoria sociale contenuta nella commedia di Beaumar chais, e fu la ragione per cui Luigi XVI ne ritardò a lungo il permesso di rappresentazione; dovette certamente es sere il principale oggetto della contrattazione avvenuta tra l’imperatore, che pure era l’illuminato Giuseppe II, e il librettista Da Ponte. Questi sostituì la tirata sociale di Beaumarchais con uno sfogo di satira antifemminile, un soggetto comune nell’o pera buffa italiana, che lo derivava da tradizioni letterarie antichissime. Apparentemente non sembra gran male, an zi, pare un ripiego abbastanza naturale: credendosi tradito dalla giovane sposa, Figaro, anziché prendersela col pa drone, se la prende con lei, e per estensione con tutto il sesso femminile. Una soluzione abbastanza verosimile. Ma l’Abert non ha torto ad osservare che, sostituendo la tira ta sociale di Figaro con una Weiberarie, un’aria contro le
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
donne, Da Ponte «mise innegabilmente il suo composito re in una situazione difficile». Questo stratagemma, infat ti, rischia di ricacciare Figaro nella buffoneria all’italiana, proprio nel momento in cui la sua situazione (di sposo che si crede tradito) sta toccando il tragico. Il genio di Mozart si misura anche dalla eleganza con cui si è cavato da questa situazione difficile. Egli non ha accettato di gettare subito Figaro in pieno stile buffone sco. Ce lo lascia scivolare a poco a poco, slittando con una specie di dérapage stilistico dalla nobiltà di un’alta decla mazione tragica alla comicità dell’opera buffa. La «dialet tica dei generi», già tante volte ricordata come uno dei mezzi d’espressione più efficaci ed arguti impiegati dal compositore, tocca qui sottigliezze eccezionali, ed il risul tato è, per esempio, che chi non sappia nulla della comme dia di Beaumarchais e del diverso contenuto ch’essa pre senta a questo punto, non avverte il minimo difetto: la Weiberarie di Figaro funziona magnificamente, sia per quanto contiene di comicità tradizionale, sia per quel ri sentimento collerico che tuttavia il personaggio v’intro duce. Primo provvedimento di Mozart fu quello di far prece dere l’aria da un recitativo accompagnato dall’orchestra, in alto stile tragico, alla Gluck: una distinzione che finora è stata accordata soltanto al suo antagonista, il Conte, pro prio in una situazione analoga di smacco amoroso (Atto terzo, Scena quarta: «Vedrò, mentr’io sospiro»), e alla Contessa (Atto terzo, Scena ottava: «E Susanna non vieni »), cioè ai due personaggi nobili. Tosto vedremo che questa distinzione, dell’aria preceduta da recitativo ac compagnato, verrà accordata anche a Susanna (Scena de cima: «Giunse alfine il momento»), sollevandola cosi a completare il quartetto dei personaggi principali. Brevi incisi degli archi, sobri ma tutt’altro che insigni ficanti, sottolineano e punteggiano le meste riflessioni di Figaro, che ripensando ai recenti avvenimenti durante la cerimonia, si rende conto d’essere stato crudelmente beffa to: «io rideva di me senza saperlo». La rabbia dispettosa si muta in tenerezza dolente: la rievocazione della «inge nua faccia » e degli « occhi innocenti » di Susanna è punteg-
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giata da due incisi ascendenti degli archi, su ritmo punta to, apparentemente la cosa più comune di questo mondo, eppure nella loro dolcezza, nell’indecisione con cui re stano aperti verso l’alto, hanno il potere di richiamare lì in scena la personcina di Susanna, come potrebbe fare un regista che risolvesse, poniamo, di commentare ed illu strare i pensieri di Figaro con proiezioni luminose sul fon do della scena. L’intenerimento di Figaro è di breve du rata, il ritmo e l’accento del recitativo s’induriscono verso la fine, preparando il terreno all’esplosione dell’aria, che pur nella sua comicità convenzionale, è a modo suo un’a ria di collera. Figaro viene avanti verso l’orlo della ribalta, per apo strofare direttamente gli spettatori di sesso maschile: «Aprite un po’ quegli occhi, uomini incauti e sciocchi». È questo un gesto tipico del teatro comico, e certamente ben diverso dal monologo assegnato da Beaumarchais al suo personaggio, solitario bilancio d’un’esistenza amara e dif ficile. Ma anche l’aria, come scrive l’Abert, «va a modo suo, nonostante il carattere buffo». È comica, ma di quel comico ringhioso che abbiamo già conosciuto nella prima aria di Figaro, la cavatina «Se vuol ballare, signor Conti no». Di nuovo abbiamo un Figaro che digrigna i denti: il fondo pessimistico del suo animo viene a galla, nonostan te la buffoneria, e la musica si aggrappa abilmente proprio a quel fondo di pessimismo che c’è nella tradizione della satira antifemminile, anche se sempre più occultato da pre testi comici, ma ben evidente, invece, nei suoi più antichi esempi, biblici e greci. I continui «sforzati» dell’orchestra (che comprende cla rinetti e corni oltre agli archi) imprimono a tutto il discor so musicale il suo tono risentito e collerico. «Un singolare miscuglio di serio e di' comico, un arcigno umor nero » ca ratterizzano quest’aria comica. La parola esatta dell’Abert è Galgenhumor, cioè umorismo della forca, del patibolo, tipica espressione tedesca per designare, appunto, V hu mour noir, l’umorismo di chi fa lo spiritoso facendo stra zio delle proprie sventure. La forma dell’aria è quella di un’aria doppia, prece duta da un’introduzione; la ripresa dell’aria (seconda se
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
zione) è in parte abilmente variata, in parte testuale. Chia mando I l’introduzione, e A la strofa dell’aria, veniamo ad avere uno schema di questo genere: I (composto di due frasi) - A - A variato. Ciò che colpisce subito, nella condotta dell’aria, è il suo piglio eloquente, regolato, si direbbe, sui canoni del l’arte oratoria: siamo nel regno dell’alta retorica, il mae stro è Quintiliano. Abbiamo dapprima una duplice protasi, molto solenne e pomposa: l’apostrofe diretta agli spet tatori, e poi, potremmo dire, la proclamazione dell’argo mento (« Queste chiamate dèe Dagli ingannati sensi, A cui tributa incensi, La credula ragion»). Sono due distinte frasi musicali, la prima in mi bemolle maggiore, la se conda alla dominante (si bemolle), entrambe altisonanti, piene d’importanza (nell’esecuzione non si dovrebbe sol lecitare, come spesso avviene, il tempo, che è «Mode rato»). Fin qui il parlare, il cantare di Figaro non è ancora pro priamente comico, e tanto meno buffonesco: è solenne, elevato. Lo stile buffo comincia ad insinuarsi a poco a po co nella strofa seguente. Finora avevamo la premessa, la proclamazione altisonante dell’argomento. Adesso viene, secondo i canoni dell’eloquenza forense, la dimostrazione, l’adduzione delle prove e la citazione dei fatti, e di conse guenza la massiccia grandiosità del discorso si sbriciola ora nella proliferazione pettegola delle accuse: «Son stre ghe che incantano Per farci penar, Sirene che cantano Per farci affogar, Civette che allettano Per trarci le piume, Comete che brillano Per toglierci il lume». Il discorso si fa piu fitto, piu rapido. Nella protasi l’unità di misura del canto era fondamentalmente la semiminima; qui è la cro ma, spesso col punto, quindi con produzione di semicro me. Sugli ultimi versi citati interviene per quattro battute un curioso sistema di appoggiature cromatiche della me lodia, in concomitanza con le fratture ritmiche. Nei versi che ora seguono («Son rose spinose, Son volpi vezzose, Son orse benigne, Colombe maligne, Maestre di inganni, Amiche d’affanni, Che fingono, mentono, Amore non senton, Non senton pietà») l’accelerazione progres siva del canto (prima crome, poi, dalla parola «maligne»,
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terzine di crome) punta verso una velocità da scioglilin gua tipica del cantare comico. L’orchestra accentua, anzi introduce lo stile buffo con certe scivolate dei violini se condi che fanno da controcanto ai trilli e alle figure rim balzanti dei violini primi. È quasi una scena da circo eque stre, che si abbozza negli archi, con i periodici cascatoni dei clowns e con la danzante leggerezza degli acrobati t Quando entrano in gioco le terzine, il canto di Figaro diventa sempre più concitato: egli s’infervora nella sua di mostrazione dei difetti femminili, sembra quasi che stia per prendergli un accidente, tanta è la comica agitazione che lo conturba, per fortuna si frena a tempo nel punto più alto raggiunto dalla marcia ascendente della melodia, e declina prudentemente in basso dicendo: «Il resto noi dico, Già ognuno lo sa». E qui corni, fagotti e clarinetti scappano fuori con una battuta di vera e propria fanfara. A questo punto si ha la ripresa, almeno dal punto di vista verbale. Figaro ricomincia il suo invito agli spetta tori: «Aprite un po’ quegli occhi, Uomini incauti e scioc chi». Né la melodia né l’accompagnamento orchestrale sono più esattamente gli stessi dell’inizio. È giustissimo, proprio secondo le leggi dell’arte oratoria: in questa ripre sa delle parole iniziali, che è bel motivo retorico, non con verrebbe più quel tono pomposo e altisonante che s’era avuto al principio dell’aria. Là si trattava proprio di an nunciare, di proclamare l’argomento: giustissimo alzare molto la voce con solennità. Ma qui ormai l’argomento è stato pienamente enunciato, questa è una ripresa, un ri torno sul già detto, ecco perciò che la musica viene abil mente variata. Questa volta la curiosa figura cromatica ap pare subito, un po’ appianata nel ritmo, all’inizio della elencazione dei capi d’accusa, cioè alle.parole «Son streghe che incantano» (nella sezione precedente invece tale figu ra era apparsa un po’ più avanti, alle parole: «civette che allettano»). Per prolungarne la durata, affinché possa co prire tutta l’irosa filastrocca, viene quattro volte farcita d’un comico intercalare, quasi parlato nel registro grave, una vera e propria parentesi nel discorso: «(il resto noi dico)». Variata con questo stratagemma la prima parte della sezione A, veniamo poi a raggiungerne la ripetizione
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
testuale a partire dall’accelerazione del moto in «Son rose spinose», con le comiche scivolate dei violini secondi che si riproducono puntualmente, e la fanfaretta marziale di corni, fagotti e clarinetti, che questa volta viene ripetuta. Si perviene cosi alla breve «codetta» dove i corni da soli saltano fuori per tre volte ben in rilievo, a spiegare che co sa intende Figaro con la reticenza della sua ripetuta paren tesi: «(il resto noi dico, Già ognuno lo sa)». E se qual cuno non avesse capito questo saggio di simbolismo stru mentale, s’incarica Figaro sulla scena di spiegargliene il doppio senso, facendo con le dita il segno delle corna. (la Contessa, Susanna, ambe travestite, Marcellina).
scena nona
Recitativo.
Poche battute di dialogo (nello spartito per piano e can to, di diversa numerazione, questa è la Scena settima), do ve Marcellina informa le due donne della presenza di Fi garo, sicché esse sapranno regolarsi nel parlare con osten tazione ad alta voce, mentre Marcellina si nasconde nel padiglione di sinistra. scena decima
(suddette, Figaro in disparte).
Continuazione diretta del recitativo precedente: con la scusa del freddo la Contessa si ritira, e Susanna chiede il permesso di restare una mezz’ora a prendere il fresco sot to le piante. «Il fresco, il fresco», commenta iroso Figaro lì nascosto. Susanna sa benissimo che «il birbo è in senti nella», e maliziosa com’è vuol divertirsi un poco alle sue spalle, cantando un caldo canto che potremmo definire dell’attesa d’amore. Canto che non è affatto simulato: è sincero, solo che l’amore atteso non è quello del Conte, co me s’immagina fremendo Figaro, bensì lui stesso, suo spo so. La situazione in cui fiorisce la prossima aria è un’in venzióne di Da Ponte e Mozart: non esiste nella comme dia di Beaumarchais.
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Recitativo ed aria. Allegro vivace assai, do maggiore, 4/4. An dante, fa maggiore, 6/8.
Con quest’aria Susanna viene ad affiancarsi a Figaro, alia Contessa e al Conte nel gruppo dei personaggi prin cipali, gratificati dell’onore di un’aria preceduta da recita tivo accompagnato con l’orchestra, alla maniera dell’opera seria. Traendo un bilancio, vediamo che a Figaro sono toc cate in tutto tre arie; alla Contessa, a Susanna e a Cheru bino due, ma Cherubino non ha alcun recitativo accompa gnato; al Conte un’aria solistica, con recitativo accom pagnato. Lo stato di servizio di Susanna ce la mostra im pegnata, inoltre, nei due primi duettini con Figaro, in un duettino con Marcellina, nel terzetto col Conte e Basi lio; durante il secondo Atto ella prende parte al terzetto col Conte e la Contessa, al velocissimo duettino con Che rubino («Aprite, presto, aprite!»), e naturalmente al Fi nale dell’Atto; durante il terzo Atto Susanna ha l’ingan nevole duetto col Conte («Crudel, perché sinora»), par tecipa al sestetto dell’agnizione di Figaro, sopraggiungen do a rivelazione avvenuta, ha il duettino della lettera con la Contessa, e partecipa al Finale. Il recitativo che precede quest’aria non è soltanto un recitativo accompagnato con partecipazione dell’orche stra, ma possiamo anzi dire che si conoscono ben pochi casi d’un accompagnamento orchestrale a un recitativo cosi musicalmente formato. La frase con cui gli archi in troducono il recitativo stesso, e che poi ripetono due vol te per punteggiarne le frasi, potrebbe essere l’inizio d’una piccola Sinfonia, o altra composizione strumentale, tanto è pronunciato il suo carattere tematico. Non si tratta solo di riempitivi d’accompagnamento, ma d’una vera e pro pria idea musicale, ben formata e caratterizzata. Giusta mente l’Abert ha notato come verso la fine il recitativo entri a poco a poco nella Stìmmung appassionata e sensua le dell’aria, a partire dal momento in cui esso entra nel l’orbita del tono di fa maggiore (alle parole: «Oh come par.,.») Si produce quasi un fenomeno di attrazione co-
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
me quello che coinvolge la corrente d’un fiume nella pros simità d?una cascata. Nessun dubbio che quest’ultima aria completi la figu ra di Susanna con un tocco definitivo. Fin qui era stata sempre in movimento, come l’argento vivo. Quest’aria dà al suo carattere Vubi consìstavi d’una concreta sostan za umana. Fin qui abbiamo conosciuto in lei la figura del la servetta sbarazzina, la popolana maliziosa ma onesta, pungente nel parlare e di mano lesta: un tipo, per l’appun to il tipo teatrale della soubrette, non realmente un ca rattere. Quest’aria rivela la donna. È un Brautlied, un canto di sposa: un canto d’amore, e più ancora un canto di attesa ansiosa dell’amore. Come dice l’Abert, viene qui in luce il forte temperamento sensuale di Susanna: la sua prerogativa di ragazza sana e naturale, che nell’imminen za delle nozze affretta col pensiero le gioie che l’attendo no, e di cui deve già avere una nozione abbastanza preci sa, speriamo soltanto teorica. Come scrive poeticamente Io Hocquard, «la voce proclama nella notte immensa il desiderio, quello della carne e quello dell’anima, il lan guore dell’attesa, la dolcezza della gioia promessa, l’offerta e il dono totale di se stessa, la comunione serena nell’amo re più puro». Ancora l’Abert scrive che Susanna «lascia fluire qui il proprio desiderio in suoni di tale verità di sen tire che si ha l’impressione che questa musica non rappre senti più il desiderio, ma sia il desiderio stesso, un desi derio... che anela al suo esaudimento sensuale». C’è quella discesa della voce nella regione grave, alle parole « nottur na face», che non lascia dubbi in proposito. Molte can tanti e maestre di canto giudicano che sia un capriccio vir tuosistico, e pensano che in fondo non c’è niente di male se dopo i due fa della prima mezza battuta si sale al do su periore, invece di scendere al do grave. Naturalmente tut to è perduto a questo modo: la voce scende cosi in basso (a un punto dove ben pochi soprani riescono realmente ad arrivare senza sforzo e facendosi ancora sentire) perché si fa viscerale, e più che dalle corde vocali proviene dalle segrete fibre femminili del personaggio. Ha ragione l’A bert: più che rappresentare il desiderio, quest’aria è il desiderio stesso, e se le censure sapessero il fatto loro do-
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vrebbero proibire quest’aria, assai più che accanirsi su quattro centimetri di cosce o di natiche di qualche maggio rata fisica sullo schermo. Ma Susanna non sarebbe Susanna, e Mozart non sarebbe Mozart, e il Settecento non sarebbe il Settecento, se la portata dell’aria si esaurisse tutta nella sua profonda vi brazione sensuale. La vibrazione sensuale c’è, ma diventa anch’essa oggetto d’uno scherzo, di una burla che la mali ziosa Susanna gioca alla gelosia di Figaro. Lei canta dav vero tutta la sua trepida attesa della prossima notte di nozze. Ma sa che Figaro è lì nascosto nell’ombra della not te e la sente, e non potendo distinguere al buio il suo tra vestimento coi ricchi panni della Contessa, la riconosce alla voce e sapendo del biglietto segreto e dell’appunta mento in giardino ritiene che questo appassionato canto di attesa dell’amore sia rivolto al Conte. Susanna lo sa, e si diverte un mondo a castigare la gelosia dello sposo («Il birbo è in sentinella. Divertiamci anche noi, Diamogli la mercé dei dubbi suoi», ha detto nel precedente recitativo secco). Ricordiamo che uno dei tratti distintivi del carat terino pungente di Susanna è l’orgoglio: non tollera di essere sospettata. «Discaccia i sospetti Che torto mi fan», cantava nel secondo duettino con Figaro al principio del l’opera. Tutto questo gioco di sottintesi maliziosi, questo sapo re di beffa vale a purificare d’ogni pesantezza lasciva una situazione di vibrazione sensuale che potrebbe riuscire scabrosa, perfino indecente, se trattata con l’insistenza espressiva d’uno stile naturalistico o verista. Dal punto di vista della struttura musicale, l’aria è un miracolo di semplicità, come quella della Contessa («Do ve sono i bei momenti»), e come quella sfida l’analisi. È in tre sezioni: la prima in fa maggiore, fino al verso «fin che l’aria è ancor bruna e il mondo tace». La seconda se zione inizia in do maggiore e ritorna a fa maggiore («qui ridono») e termina col verso «ai piaceri d’amor qui tutto adesca». La terza è in fa maggiore, e chiude con l’appas sionata ripetizione d’un ritornello lievemente vocalizzato («ti vo’ la fronte incoronar di rose»). Nella prima e se conda parte la melodia procede per frasi di tre battute;
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
nella terza parte per frasi di quattro battute. Nella prima e seconda parte la partecipazione orchestrale è meno in tensa che nella terza. Nella prima e nella seconda parte la melodia si compone principalmente di note dell’accordo perfetto (per il Breydert esse fanno pensare a una palla di gomma che salti giu rimbalzando da un gradino all’altro) e pertanto presenta qualche analogia col modo di cantare di Susanna nel primo duettino dell’opera (particolarmen te alle parole «che Susanna ella stessa si fé») e nel duetto della lettera con la Contessa. Nella presente aria, però, troviamo questo canto per intervalli armonici fondamen tali punteggiato da voluttuosi strascicamenti cromatici («Vieni ove Amore», «E l’erba è fresca»). Tutta l’aria ha manifesto carattere di Serenata, grazie ài pizzicati di violoncelli e contrabbassi e grazie alla so norità dei fiati singoli (un flauto, un oboe, un fagotto). Serenata, cioè musica notturna: in questo senso, e in quanto colloca l’attesa dell’amore entro un paesaggio com plice e partecipe, l’aria di Susanna è il preludio di quel grande poema della notte che sarà il prossimo Finale del l’opera.
scena undicesima
(suddetti, poi Cherubino).
Recitativo.
Figaro impreca contro il supposto tradimento di Susan na, quando arriva cantarellando Cherubino, in cerca di Barbarina. Invece s’imbatte nella Contessa, e naturalmen te la scambia per Susanna, di cui essa veste gli abiti. Finale. Andante, re maggiore, 4/4. Con un poco più di moto, sol maggiore, 4/4. Larghetto, mi bemolle maggiore, 4/4. Al legro molto, mi bemolle maggiore, 3/4. Andante, si bemolle maggiore, 6/8.
Inizia cosi il meraviglioso Finale, che è il coronamento dell’opera e dà senso compiuto a tutto quanto si è venuto fin qui svolgendo. È il momento di ricordare il sottotitolo della commedia di Beaumarchais: La folle journée. Quella
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giornata pazza, i cui intrighi erano sembrati annodarsi già nel movimento incessante dell’ouverture, viene ora alla sua conclusione attraverso gli equivoci d’una notturna commedia di travestimenti, nella oscurità d’un parco set tecentesco, provvisto di nicchie, padiglioncini e nascondi gli per chi spia, per chi non vuole esser visto, per coppie in cerca di compiacente rifugio. Grande poema della notte, abbiamo detto, questo Fi nale. Al di sopra dei personaggi si stende e palpita la na tura che li avvolge nel suo manto. L’aria di Susanna ha per l’appunto stabilito il luogo dell’azione e l’ora, meglio di quanto possa fare, di solito, la scenografia teatrale: Deh, vieni, non tardar, o gioia bella, Vieni ove amore per goder t’appella, Finché non splende in ciel notturna face Finché l’aria è ancor bruna e il mondo tace. Qui mormora il ruscel, qui scherza l’aura, Che col dolce sussurro il cor ristaura; Qui ridono i fioretti e l’erba è fresca; Ai piaceri d’amor qui tutto adesca.
I versetti di Lorenzo Da Ponte sono ancora prigionie ri d’una estetica del paesaggio arcadico, e ci dipingono una scena che potrebb’essere quella classicheggiante d’un Trionfo di Venere del Domenichino. La musica di Mo zart, e nell’aria di Susanna e nel Finale, libera questo paesaggio dal manierismo settecentesco e gli conferisce un respiro umano. Forse, salvo errore od omissione, ed ec cettuate ben inteso le solite miracolose anticipazioni di Monteverdi, è questa la prima volta in tutta la storia del l’opera in musica, che l’ambiente esterno, il luogo dove si svolge l’azione, in una parola, la natura, avvolge e compe netra le vicende umane. Gli avviluppati imbrogli e il lieto fine di questa pazza notte in giardino sono possibili e com prensibili appunto perché il giardino avvolge e quasi inebbria tutti i personaggi coi suoi effluvi di primavera. Il Finale delle Nozze di Figaro segna una svolta storica nella concezione poetica della notte, e fa da cerniera tra il superficiale edonismo settecentesco e la suggestiva con
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LETTURA DELLE «NOZZE DI FIGARO»
cezione romantica. Nel costume settecentesco la notte era semplicemente il tempo del divertimento e del piacere. Si pensi alla Notte del giovin signore pariniano. Genette, teatro, casa da gioco: la notte è il tempo in cui ci si di verte, mentre il giorno è il tempo dei negozi. Il Notturno musicale settecentesco non conosce il profondo patos del Notturno chopiniano. Nel Settecento è semplicemente un tipo di Serenata, di musichetta allegra da suonare all’aper to per divertimento o per omaggio a qualche dama. Bine kleine Nachtmusik’. la celeberrima composizione mozar tiana con questo titolo è precisamente una deliziosa Sere nata. Solo lentamente penetra dal Nord dell’Europa quella nuova poesia della notte, pervasa di pensierosa, quasi filo sofica malinconia, che era stata preannunciata dalle elegie delle Notti, o piu esattamente Night Thoughts on Life, Death and Immortality dell’inglese Edward Young (16831765). Sulla strada che porta agli Inni alla notte (1799) e al secondo Atto del Tristano, c’è il Finale delle Nozze di Figaro, dove un elemento nuovo e romantico comincia a penetrare nella concezione della notte: il mistero. Questo Finale si articola in otto pezzi musicali, corri spondenti ad altrettanti momenti dell’azione, di cui tre compresi nella Scena ultima, che si determina con l’arri vo di Bartolo, Antonio, Basilio, Don Curzio, e in genere di tutto il personale del castello, chiamato a gran voce dal Conte perché venga a constatare la presunta infedeltà del la Contessa. Nei cinque pezzi precedenti l’azione si svolge tra i personaggi principali, e cioè Cherubino, la Contessa, Figaro, Susanna e il Conte, di volta in volta variamente annodati in gruppi di due, di tre e più personaggi, gruppi che continuamente si formano, si sciolgono e si ricompon gono diversi, secondo l’avventuroso intrecciarsi degli equi voci e dell’imbroglio. Il primo episodio, Andante in forma di rondò, pren de origine direttamente dal recitativo precedente. Cheru bino avanzatosi di notte nel giardino scorge nel buio la Contessa e naturalmente la scambia per Susanna, di cui veste gli abiti. Vuol perciò prendersi un po’ di piacere con lei, sapendo benissimo, o meglio ritenendo che sia li in
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attesa del Conte. La Contessa, imbarazzatissima, cerca di allontanarlo come si farebbe con un cagnolino importuno, ed intanto si sente arrivare il Conte: «Ecco qui la mia Su sanna». Figaro e Susanna, ognuno per conto suo, separati e ancora ignari l’uno dell’altra, commentano ironicamen te: «Ecco qui l’uccellatore». Poi tanto il Conte, quan to Susanna e Figaro, s’accorgono che con la Contessa (solo Susanna sa che si tratta di lei) c’è un altro uomo, cioè Cherubino. Questi si fa insistente e chiede alla supposta Susanna un bacio, rincarando la domanda con le piu in caute ed inopportune argomentazioni: «E perché far io non posso Quel che il Conte or or farà? » E al suo rifiuto aggiunge: «Oh ve’ che smorfie! Sai ch’io fui dietro il so fà». A un certo punto Cherubino avanza per baciare la cre duta Susanna, il Conte furibondo s’interpone e riceve lui il bacio di Cherubino, che scappa impaurito nel padiglio ne ov’è già nascosta Barbarina. Anche Figaro vuol vedere cosa succede intorno a quella ch’egli crede Susanna: s’in tromette, e riceve lo schiaffo che il Conte aveva cercato di allungare a Cherubino. Sùsanna, da lontano nascosta, e la Contessa li presente ridono: «Ah! ci ha fatto un bel guadagno con la sua curiosità» (la Contessa, riferendosi a Cherubino, dice «temerità»). Parole che Figaro ripete ed echeggia in persona prima, naturalmente usando il ter mine «curiosità». Tutto questo episodio è, come si è detto, un rondò, fondato sopra un motivetto dei violini che ha tutta la ga lanteria pimpante, e anche l’insistenza importuna di Che rubino. Esso appare tre volte, in re maggiore, in la mag giore poi di nuovo in re maggiore, inquadrando altret tanti episodi. La prima e la terza volta è seguito da altro motivo, teneramente affettuoso e cantabile, anch’esso affi dato ai violini, ma con ricca integrazione di oboi e fagot ti. La prima volta questo motivo tenero appare alla domi nante (la maggiore) e vi si mantiene: esso si accompagna all’intraprendenza di Cherubino che prende una mano di Susanna (cioè della Contessa) e l’accarezza, deciso a mo lestarla per farla indispettire: «Or la burlo in verità». La seconda volta, invece, il motivo circolare e carezzevole ap pare comicamente sulle parole: «Ah! ci ho fatto un bel
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guadagno Colla mia curiosità», e resta nella tonalità prin cipale (re maggiore), come per una ripresa sonatistica. Naturalmente la necessità del suo ritorno è puramente musicale, dovuta a esigenze di simmetria strutturale, ma stabilisce una sottile e spiritosa allusione tra due azioni manuali analoghe, che differiscono solo per grado d’inten sità e di energia: la carezza e lo schiaffo. Invece nella sezio ne centrale non ha luogo il motivo carezzevole. Dopo la ripresa del pungente tema principale, in la maggiore, che coincide con l’arrivo del Conte e il commento irriverente di Figaro e di Susanna, agitate figure sincopate degli archi sottolineano il dibattito della Contessa che vuol liberarsi di Cherubino (e già nella sezione precedente ciò aveva da to luogo, dopo i due temi, a un episodio agitato, in la maggiore, di scale di biscrome dei violini, ascendenti e discendenti). Come già nella sezione precedente, assume valore quasi tematico il ritmo caratteristico di quattro no te (semicroma col punto, biscroma e due crome con inter valli melodici variabili), sulla parola «temerario» (nella sezione precedente si trattava d’altre parole quadrisillabe come «arditello!» «sfacciatello! ») Nella terza sezione del rondò, ritornato alla tonalità di re maggiore per entrambi i temi, come in una «ripresa» sonatistica, avviene lo scioglimento violento dell’azione, col bacio di Cherubino ricevuto dal Conte, fuga di Cheru bino, schiaffo del Conte che va a finire per sbaglio in viso a Figaro, e relativi commenti ironici («Ah! ci ha fatto un bel guadagno») dapprima sulla bella melodia carezzevole e ricurva, poi prolungati sopra un semplice intervallo di scendente di terza maggiore ripetuto comicamente, e in fine preceduto da un gruppetto ornamentale di due noti ne, che ne accentua ancora l’ironia canzonatoria. Questa figura di quartine di semicrome, organizzate sopra un in tervallo di terza discendente con triplice ripetizione della nota bassa, ogni quartina preceduta da una specie di sci volata ornamentale, resta nell’ultima battuta ai violini, che l’adoperano per scendere modulando da re maggiore alla sottodominante (sol) e passare così al secondo pezzo musicale del Finale.
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Con un poco piu di moto, sol maggiore, 4/4.
I violini, ai quali si associa il fagotto, indice strumen tale della presenza di un personaggio adulto e autorevole come il Conte, propongono un bel tema, equilibrato, tran quillo, sicuro di sé: il tema del rondò precedente, che si riferiva a Cherubino, era pungente, giovanile, malizioso; questo, che allude al Conte, è nobile, pieno d’importan za. La voce del Conte se ne ritaglia solo una frase («Par tito è alfin l’audace»), che somiglia quasi alla lettera alla domanda speranzosa del Conte nel duetto con Su sanna: «Dunque in giardin verrai?» Molti commentatori si compiacciono di raccogliere in questo Finale riferi menti e allusioni a frasi musicali intercorse in precedenza nel corso dell’opera. Non si deve certo attribuire a Mozart alcuna intenzione d’istituire una tecnica di motivi condut tori ottocentescamente intesi. Ma è ovvio che in questo Finale rifluiscano spesso i materiali di tutta l’opera, come in una necessaria ricapitolazione, e soprattutto è naturale che ogni personaggio si sia costituito, durante l’opera, il proprio lessico musicale: un bagaglio di locuzioni, di giri di frase melodici, ritmici e armonici connessi con la sua personalità, locuzioni che saltano fuori adesso e zampil lano di qua e di là, quando tutti i personaggi, poco per vol ta, vengono chiamati in azione, sbattuti uno contro l’altro e coinvolti nella trama di questo Finale. Così il prossimo intervento ironico e rabbioso di Figaro («Che compiacente femmina! che sposa di buon cor!»), all’unissono con tutti gli archi, è imparentato nello spirito, se non proprio nella lettera, col suo modo di cantare nel l’ultima aria, la satira contro le donne. Però la frase ger mina qui: la testa del tema, quella discesa di una sesta per mezzo di due semicrome (si-sol-re) già è apparsa nei vio lini due battute prima, preparando la risposta della Con tessa («Giacché così vi piace»). Più avanti, in la maggio re, essa serve ai commenti moralistici di Susanna sull’in fatuazione del Conte («La cieca prevenzione Delude la ra gione»). Infatuazione che, a sua volta, si esplica in quello che lo Hocquard chiama «un motif cabriolant» («Mi piz
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zica, mi stuzzica»), dove il Conte sfiora il ridicolo. Ma, sot to le sue smanie vocali, gli archi infaticabili intrecciano un tessuto strumentale rigoroso. Il gioco delle modulazio ni è vario e pieno di interesse. L’imprevisto tono di mi mi nore quando il Conte regala un anello alla supposta Susan na sembra quasi riflettere l’umiliazione e il dolore della Contessa in una simile situazione. Il canto prende un’apparenza discorsiva e rapida di re citativo quand’ella cerca d’interrompere l’imbarazzante colloquio («Signor, d’accese fiaccole io veggio il balenar») e nella risposta del Conte, in la minore: «Entriam, mia bella Venere, Andiamoci a celar! ») Sempre più serrato il gioco delle modulazioni: sol maggiore la dubbiosa doman da della finta Susanna: «Al buio signor mio?» Do mag giore la risposta libertina del Conte: «È quello che vogl’io: Tu sai che là per leggere Io non desio d’entrar», anch’essa in uno stile vocale di recitativo, ma con grandi intervalli, e in un curioso unissono con tutti gli archi, flauti e fagotti. Questa frettolosa e sussurrata parentesi di quasi-recitativo ha termine con l’intervento di Figaro, che riporta la irosa figura della sesta discendente, in re maggiore e poi in sol maggiore. Oboi, fagotti e archi se ne impadroni scono, modulandola in minore, ed operano così il trapas so al terzo episodio musicale degli otto di cui consta il Finale. Larghetto, mi bemolle maggiore, 3/4.
A differenza del Finale secondo, che, come si ricorderà, seguiva uno sviluppo rettilineo, e partendo da un Allegro con due soli personaggi (il Conte e la Contessa), aumen tava per aggiunta progressiva di nuovi personaggi in sce na, fino a un totale di sette cantanti dialoganti in scena, questo Finale è fatto - se fosse lecito dire - a fisarmonica, si gonfia e si sgonfia continuamente in un mobile avvicen darsi di complessi vocali che si compongono, scompongo no e ricompongono secondo il corso degli avvenimenti. A questo punto resta solo in scena, per un momento, Figaro, che già nel corso dell’opera ha avuto il privilegio
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di tre arie solistiche, contro due degli altri personaggi prin cipali. Qui viene gratificato ulteriormente d’una miniaria, un pezzo solistico di dodici battute. Con pompose imma gini barocche egli si prepara, «nuovo Vulcan del secolo», a cogliere nella rete «la bella Venere», cioè Susanna, «col vago Marte», cioè il Conte. Qualche commentatore si stu pisce di questa prosopopea e parla di parodia d’un passo operistico di Giovanni Cristiano Bach: sembra eccessivo che Figaro, sia pure comprensibilmente eccitato per il sup posto tradimento della sposa e per la sorpresa che si ac cinge a compiere a danno del padrone, ricorra a toni cosi alti e a paragoni mitologici. Ma si osservi la musica di que sto Larghetto, che introduce il nobile tono di mi bemolle: non ha nulla di pomposo, essa. Su un accompagnamento uniforme di terzine dei violini, corni e clarinetti introdu cono la figura ritmica del declamato di Figaro, poco più che recitativo, con molte ripetizioni di una nota (e precisamen te la dominante, si bemolle). L’associazione dei timbri di corni e clarinetti produce un che di silvestre e notturno, che illumina interamente la situazione. Di questa miniaria di Figaro quello che conta è il primo verso: «Tutto è tran quillo e placido». Qui è il segreto della scena: diradando si il numero dei personaggi fino a lasciare Figaro solo con la sua disperazione, la notte, la natura, il paesaggio ri fluiscono sulla scena quasi vuota e stabiliscono il clima poetico di questo Finale. Dove gli uomini s’allontanano, la natura notturna piglia a vivere coi suoi effluvi e i suoi palpiti misteriosi. Lo scopo della prosopopea di Figaro, ol tre a manifestare l’esaltazione del personaggio sul punto di compiere un clamoroso colpo di testa, è proprio questo: di stabilire una pausa di quiete e di raccoglimento, prima che ricominci la ridda degli irrequieti personaggi. Allegro molto, mi bemolle maggiore, 3/4.
Mantenendosi il tono di mi bemolle e il metro di 3/4, il precedente Larghetto di Figaro si può considerare anche solo come un breve preludietto a questo nuovo episodio musicale, il quarto degli otto di cui consideriamo compo sto il Finale.
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L’apparizione di Susanna distrugge quell’oasi di calma notturna ch’era stato l’a solo di Figaro. Il suo tempera mento mercuriale riconduce il movimento indiavolato, la fretta, l’agitazione. Ciò si manifesta in un motivo stru mentale strettissimo, a tre voci (e cioè i violini primi, i secondi che eseguono una specie di continuo trillo di se microme, e le viole coi bassi), un motivo che ricasca di continuo dalla tonica (mi bemolle) alla dominante (si be molle) e viceversa. È la figura stessa di Susanna, dinami ca, frettolosa, stringente, anche se tosto servirà a Figaro per denunciare alla creduta Contessa, con voce piena d’af fanno e d’agitazione, il tradimento del Conte con la sup posta Susanna. Ancora una volta,' come nel sestetto del terzo Atto, le simmetrie convenzionali e schematiche della commedia d’intrigo servono a meraviglia al disporsi delle forme mu sicali e vengono assunte di proposito. Nel secondo pezzo del Finale avevamo avuto un falso duetto d’amore tra il Conte e quella ch’egli credeva Susanna? qui ne avremo un altro tra Figaro e quella-che per un momento egli cre de la Contessa. L’importanza e la complessità delle strutture musicali salgono e scendono di continuo, secondo le esigenze e le opportunità detrazione. Qui le strutture musicali si arric chiscono sensibilmente. Siamo di nuovo in presenza di una specie di rondò pluritematico con frequenti riprese e ri petizioni dei temi, e con un gioco assai esteso di modula zioni. Quello che chiamiamo il tema stretto di Susanna signoreggia per tutta la prima parte del rapido duettino, prima in mi bemolle maggiore, poi (dalla risposta di Su sanna «Di qua non muovo il passo, Ma vendicar mi vo’») in si bemolle maggiore. Si passa a fa maggiore (dominante della dominante) in quel passo interlocutorio in cui, Figa ro avendo riconosciuto la voce di Susanna, il dialogo duettistico s’interrompe momentaneamente per dar luogo a due «a parte» di ciascun personaggio. Passo interlocuto rio alla fine del quale appare in orchestra e alle voci (sul secondo «la volpe vuol sorprendermi» di Figaro) la se conda figura importante di questo duetto, cioè una specie
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di perorazione trascinante. Da notare in essa un partico lare di scrittura armonica singolarmente audace. Siamo in fa maggiore, dominante della dominante: è chiaro che per ritornare al tono fondamentale (mi bemolle) occorrerebbe passare attraverso la dominante (si bemolle maggiore), come infatti regolarmente avverrà nel seguito del pezzo. Ma nella battuta 42 di questo duettino, e precisamente alla seconda enunciazione di «la volpe vuol sorprender mi», Pinopinata apparizione d’un la bemolle sulla prima sillaba della parola «sorprendermi» riconduce a forza, per un momento, il tono di mi bemolle, con una specie di sin golare forzatura. Subito dopo («e secondar la vo’») si pas sa regolarmente al tono di si bemolle, nel quale ci si indu gia per alcune altre battute di transizione, finché la discesa di biscrome dei violini riconduce al tono fondamentale di mi bemolle. Qui, sulla recuperata tonica, abbiamo come l’inizio di una seconda parte del duetto, con la dichiarazione osten tata di Figaro, che già ha riconosciuto Susanna nella sua interlocutrice, e ora vuole ricambiarle la burla. Il langui do cromatismo della tenerezza mozartiana fa la parodia di se stesso nella enfatica dichiarazione di Figaro, caricata fino alla smargiasseria. Ancora una volta le fanfare di cor ni e clarinetti, per terze, quinte e seste, vi aggiungono la seduzione del loro patetico alone timbrico. La grottesca dichiarazione di Figaro tende a rallentare il corso velocissimo della musica, coi valori lunghi di cui è formata, mentre invece gli «a parte» dei due personag gi («Come la man mi pizzica! Come il polmon mi s’alte ra!») riconducono il moto vertiginoso. Pareva d’essere entrati in una sezione del tutto nuova, ma invece ecco ap parire per un momento il tema che abbiamo detto di pe rorazione trascinante. Il tono di la bemolle appare quando Susanna finge di avanzare obiezioni per frenare il fuoco di Figaro («E sen za alcun affetto?»): la bemolle è la sottodominante del tono fondamentale, e getta come un’ombra sul discorso musicale, proprio come richiede la situazione del dialogo. Il gioco delle modulazioni si fa sottilissimo: per un atti
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mo la risposta di Figaro («Suppliscavi il rispetto»)1 con duce il tono di fa minore, relativo minore del precedente la bemolle maggiore; la tonalità fondamentale di mi be molle è ristabilita per un momento («Non perdiam tempo invano! »), interrotta per un attimo dal tono di si bemol le (sul vocalizzo che conclude questa frase), e poi ristabi lita definitivamente quando Figaro, riprendendo la melo dia appassionata e cromatica della sua focosa dichiarazione, supplica: «Datemi un po’ la mano». Si ha allora qui una specie di ricapitolazione musicale dell’intero duettino. La sequenza degli schiaffi che Susanna lascia andare al suo spasimante riconduce il motivo iniziale, quella figura stret ta, a tre voci, serrata tra tonica e dominante, che avevamo detto essere la figura di Susanna, l’immagine della sua mo bilità, cui Figaro risponde con la melodia della dichiara zione enfatica, ora trasferita comicamente sulle parole « O schiaffi graziosissimi! » Pur cercando di ripararsi, e pregan do Susanna di «non batter cosi presto», Figaro è felice di questi schiaffi che gli provano la fedeltà e l’amore della sua sposa. La carica di cromatismo patetico, che prima era grottesca, adesso in certo senso s’invera ed assume segno positivo. La figura che abbiamo detto di perorazione tra scinante porta il pezzo ad una chiusa brillante, dopo che in ogni parte è stata straordinaria la giustezza con cui gli sviluppi della forma musicale hanno esattamente coinci so con le situazioni, sia vere sia simulate, dell’azione. Andante, si bemolle maggiore, 6/8.
La vicenda Figaro-Susanna è definitivamente conclusa: i due si sono riconosciuti e rappacificati, ed ora continue ranno la finzione, d’una Contessa grottescamente corteg giata da Figaro, solo per divertimento, per il piacere di far si beffe del Conte che aveva insidiato il loro matrimonio. Quando la pace e la concordia sono raggiunte, sempre in Mozart scatta un particolare meccanismo musicale che po tremmo chiamare del duetto in 6/8. Nel ritmo bilancia1 Parrebbe più giusto «dispetto», se Figaro si riferisce alla Contessa. «Rispetto» se si riferisce a se stesso.
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to e cantilenante di siciliana o di quasi barcarola due cuo ri manifestano la felicità del raggiunto accordo, degli ostacoli superati, della gioia recuperata: è l’ingenua corsa al piacere, il regresso irresistibile verso un Eden originario d’innocenza felice, quello stato di natura vagheggiato dai filosofi del Settecento, che è la condizione spontanea del l’anima di Mozartl. Di quel Mozart che, bambino, scrive va in una lettera: «Il mio cuore è tutto felice, perché hò dei gran divertimenti». O alla sorella: «Di’, Mariannina, mi fa tanto piacere che tu sia stata cosi spaventosamente allegra». O al padre: «Per oggi non posso far altro che augurarle con tutto il cuore ciò che ogni giorno, mattina e sera, le desidero: salute, lunga vita e un cuore allegro». Di solito questo tipo di inno alla felicità costituisce una pausa lirica e una sosta dell’azione, ma invece in questo caso non è un arresto: abbastanza comicamente entra nel giro della melodia dolciastra e felice il Conte, che invece felice non è affatto («Non la trovo e girai tutto il bosco»), ma un tantino melenso e rimbambito dalla cotta per Su sanna. Sicché, sempre sul ritmo dell’inno alla felicità, Susanna ha modo di spiegare a Figaro l’intrigo ordito da loro donne, e cioè che il Conte non ha conosciuto la Contessa, travestita nelle vesti di Susanna. Onde Figaro, entrando nel gioco, improvvisa a Susanna, vestita da Con tessa, una dichiarazione d’amore ancora più smaccata e pi ramidale di quella che aveva esibito prima, quando si trat tava d’ingannare soltanto lei. Ora c’è da ingannare il Con te, perciò i toni della dichiarazione di Figaro, in ginocchio ai piedi della finta Contessa, si fanno, se possibile, ancora più ardenti ed esagerati. «Un ristoro al mio cor concede te! » egli sbraita ad alta voce, passando da si bemolle a un 1 L’altro caso classico di duetto della felicità in 6/8 è la conclusione del celebre «Là ci darem la mano», nel Don Giovanni. Nella prima par te del duetto, Andante in 2/4, Don Giovanni vince le resistenze di Zeriina. Quando queste sono crollate, fiorisce, Allegro in 6/8, il canto della felicità: «Andiamo, andiam, mio bene, A ristorar le pene D’un in nocente amor». Per nulla innocente, l’amore, poiché Don Giovanni aveva appunto sottratto Zeriina a Masetto nel giorno delle nozze. Ma che l’inno cenza dell’ingenua aspirazione al piacere produca una situazione e una melodia assolutamente analoghe sia in questo caso, che in quello dell’a more legittimo di Figaro e Susanna, può dirla lunga sulla natura dell’epi cureismo ingenuo di Mozart.
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pateticissimo sol minore. E come quella .volpe di Susanna sa stare al gioco! La sua risposta «Io son qui, fate quel che volete», sempre in sol minore, ha l’incertezza sgomen ta della donnina che ormai cede, sopraffatta, all’assalto veemente della passione maschile. Il Conte, si capisce, va su tutte le furie, segnate da due rapide scalette ascenden ti degli archi sotto l’imprecazione: «Ah, ribaldi! » Sul che tosto, chiusa la parentesi drammatica, gli sposi felici ri prendono l’inno cantilenante della loro concordia ricupe rata, mentre si ritirano verso il padiglione di sinistra: « Ah corriamo, corriamo, mio bene, E le pene compensi il pia cer». Quasi motto e compendio dell’etica mozartiana e del suo epicureismo ingenuo: il piacere concepito come giu sto indennizzo delle pene e degli affanni che la civiltà com mina all’uomo, sortito per natura alla felicità.
SCENA ULTIMA.
Allegro assai, sol maggiore, 4/4. Andante, sol maggiore, 4/4.
Se ci richiamiamo in mente la definizione del nuovo ti po di Finale d’opera buttata là dal Da Ponte, come piccolo dramma nel dramma, commedia entro la commedia, pos siamo ora constatare quanto fosse azzeccata. Questo Finale delle Nozze di Figaro, nella successione articolata dei suoi otto pezzi musicali variamente composti per numero di personaggi, ci si presenta proprio come una ricapitolazio ne in nuce di tutta l’opera o, meglio ancora, quale un se condo dramma sbocciato in seno al primo: come abbiamo già detto piu d’una volta, finita la vicenda delle nozze di Figaro e Susanna, si insedia ora l’altra azione, in certo sen so piu seria e piu nobile, cioè la riconquista della felicità coniugale da parte della Contessa. Abbiamo avuto una prima scena introduttiva e, per co si dire, deviata da un falso scopo: la Contessa importuna ta da Cherubino, occasione per consentire a questo per sonaggio un’ultima sortita individuale. Poi si annoda il filo degli intrighi che tra poco vedremo giungere a solu zione: duetto amoroso del Conte con la finta Susanna, pre-
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senti nell’ombra Figaro e la vera Susanna; piccolo a solo di Figaro, deliberato a trarre clamorosa vendetta; duet to di Figaro con la finta Contessa, ben presto smascherata, collera e schiaffi di Susanna, felicità di Figaro; duetto della riconciliazione con inserzione ridicola del Conte, e finta dichiarazione amorosa di Figaro alla finta Contessa. A questo punto l’intrigo è stato annodato in tutti i partico lari: è come se fossimo giunti a un punto culminante del l’azione, dal quale non si potrà poi che scendere verso la conclusione. Le batterie dell’intrigo si sono caricate fino al massimo della tensione. L’esplosione avviene all’inizio di questa scena, con le grida del Conte che chiama «Gente! gente! all’armi! all’armi!» per arrestare Figaro sorpreso sul fat to in piena dichiarazione appassionata alla presunta Con tessa. Per otto battute la musica non è che generica agi tazione drammatica di movimenti rettilinei degli archi, esclamazioni del Conte e di Figaro sulle tre note dell’ac cordo perfetto di sol maggiore, né cambia sostanzialmen te quando spuntano fuori Basilio e Antonio, tutti sbalor diti, a chiedere cos’è avvenuto: all’unissono si associano ora anche i fiati, clamorosamente. In un attimo in cui tace il Conte, sottovoce Basilio e Antonio rievocano il comico ritmo dell’ipocrisia di Basilio ascoltato nel terzetto del primo Atto sulle parole «In mal punto, Son qui giunto» (due lunghe e due brevi), e Figaro vi si associa comica mente. Il Conte ricomincia a tempestare con una frase di col lera, del resto ampia e grandiosa, quando si affaccia al pa diglione di sinistra per tirarne fuori la Contessa, e invece, quasi nuovo Ercole a sbarazzare le stalle di Augia, ne estrae uno dopo l’altro Cherubino, segnalato da un vivace tdi letto degli archi, poi Barbarina, Marcellina e infine Susan na, tutti recalcitranti come malviventi incappati in una re tata notturna. La comica cascata dei riconoscimenti che avevamo sentita nel sestetto del terzo Atto si rinnova qui nelle esclamazioni del Conte, di Antonio e di Figaro: «Cherubino! - Mia figlia! - Mia madre!» Solo Antonio ha riconosciuto Susanna nel suo travestimento, gli altri
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esclamano: «Madama!» e il Conte ribadisce: «Scoperta è la trama, La perfida è qua! » Esaurita questa prima ventata di agitazione dinamica e di confusione, inizia ora quella che si potrebbe chiamare l’azione della domanda di perdono, dapprima su gruppi e rivolti di tre note ascendenti dell’accordo di re maggiore, poi con supplichevoli figure di terze, ogni volta su un gra do piu alto della scala, e ogni volta sbarrate da un pode roso «No! » del Conte, appoggiato dai fiati. Più che mai il Conte ci appare ancora, chiaramente, come l’autentico an tagonista dell’azione teatrale. Tutti i personaggi sono qui coalizzati a pregarlo di perdonare, e lui solo è ostinato a dir di no. La situazione dovrebbe esser comica, poiché si chiede il perdono d’un reato che non è stato commesso, ma la grandezza tragica del Conte non ne resta scalfita, così come fra poco la sua dignità non sarà menomata quan do mettendo un ginocchio a terra chiederà lui perdono alla Contessa, riconoscendo il proprio errore con lealtà di gentiluomo. Solo per alcuni momenti, in tutta l’opera, il Conte sfiora il ridicolo, ed è sempre nella sua infatuazio ne per Susanna: quando bamboleggia con l’insistenza dei suoi «Verrai?» «E non mi mancherai?» nel duetto del terzo Atto, oppure in questo Finale quando va in visibilio accarezzando la mano di sua moglie («Che dita tenerelle! Che delicata pelle! Mi pizzica, mi stuzzica, M’empie d’un nuovo ardor »), o ancora quando si aggira nell’oscurità del boschetto in cerca di Susanna («Non la trovo e girai tutto il bosco »), e si appropria comicamente della melodia in cui Figaro e Susanna stanno cantando la propria ritrovata fe licità, come uno che, usando parole di cui non conosce il senso, proclami lui stesso la propria disavventura. Dunque il Conte è ridicolo solo quando l’infatuazione per Susanna lo fa scendere un momento sul piano comico dei personaggi servili. Altrimenti, sia ingannato, sia scon fitto e pentito, il Conte non perde la sua nobiltà. Anzi, ora darà prova ancora una volta di quella sua possanza sanguigna di carattere, di quella sua terribilità virile d’uo mo ispido e irsuto, che già avevamo conosciuta quando, in tenuta da cacciatore, era giunto, nel secondo Atto, a cercare Cherubino negli appartamenti della Contessa. In
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fatti, per levarsi di torno quel fastidioso sciame di postu lanti che piatiscono perdono, il Conte li ammutolisce con una scarica di sei «no» consecutivi, potentemente discen denti all’unisono con la piena orchestra, lungo lo spazio tonale di sol maggiore. Sembrano — scrive lo Hocquard la frenata d’un bolide in corsa. E invece di arrestarsi, co me sarebbe naturale, sulla dominante (re), si vanno ad am mucchiare, quasi a schiacciare sulla sottodominante (do). Ciò crea una tensione estrema, non solo per il culmine di furore al quale il Conte sembra pervenuto, ma soprattut to perché questa frase sospesa a mezzo sulla sottodominan te richiede d’essere completata, ed evoca perciò irresisti bilmente l’apparizione, ormai non più differibile, del per sonaggio che ancora manca a completare il quadro finale: la Contessa. E tanta è la soavità melodica della semifrase su cui ar riva la sua risposta («Almeno per loro perdono otterrò! »), tale è la purezza della sua parabola, venata a metà dolce mente di una discreta inflessione cromatica, che l’uscita inattesa del personaggio dal padiglione di destra, tra la sorpresa generale, ne risulta radiosa come la rivelazione d’un miracolo eucaristico. È la grazia, infatti, che col pros simo perdono della Contessa scenderà non solo sul Conte, ma su tutti i personaggi. Accenniamo di passaggio a un problema esecutivo cui dà luogo questa frase di sortita della Contessa: se in essa debba aver luogo un considerevole rallentamento del tem po, o no. Ci starebbe assai bene, e più d’un direttore lo fa, ma non c’è scritto, e i sostenitori della tesi opposta pensano che un rallentamento a questo punto, dove non è previsto dall’autore, pregiudichi l’effetto del prossimo Andante. La stupefazione prodotta dall’apparizione della Contes sa si esterna in brevi accenti delle voci, disposte per lo più per terze e seste ed echeggiate dai fiati, mentre gli archi iniziano pianissimo una furtiva e quasi zingaresca melo dia «staccato» in sol, non già maggiore, che è il tono fon damentale del pezzo, ma improvvisamente in sol minore, cioè nel tono mozartiano della passione e dell’affanno. In questa frase cauta e procedente in punta di piedi, si riflet
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te la stupefazione da cui sono paralizzati i personaggi: sen tiamo avanzarsi come un presagio il mistero, la levitazione verso le altissime sfere, che l’apparizione della Contessa sta per introdurre. La duttilità delle modulazioni è conti nua: dall’iniziale sol minore si passa dopo due battute a re minore («O cielo! »), dopo altre due battute a mi be molle maggiore (« che veggio! »), per risolvere ancora (« de liro! ») su do minore («vaneggio! »), poi si bemolle («che creder non so») e infine re maggiore e sol minore alter nati per due volte nelle ultime quattro battute. Andante, sol maggiore, 4/4.
Una lunga pausa stacca il precedente quadro di agitazio ne e di sorpresa dalla improvvisa solennità di questo pe nultimo pezzo musicale del Finale. Siamo al momento cul minante di tutta l’opera, stiamo per penetrare nel sancta sanctorum dov’essa ci rivela i suoi ultimi segreti. Rallen tato il tempo dal precedente Allegro assai allindan te, ricuperato stabilmente il sereno tono di sol maggiore, che nel pezzo precedente era incorso in caleidoscopiche modulazioni, si leva nobile e supplichevole la preghiera del Conte: una sesta ascendente, con portamento di due note su una sillaba, mentre la discesa seguente distribui sce accuratamente una nota per sillaba. Stessa distribu zione nel secondo inciso, dove però l’intervallo ascen dente iniziale si allarga con fatica a una settima, nello sforzo di una preghiera più intensa, e perciò la discesa delle note seguenti avviene da un grado più in alto che prima. Del resto la discesa delle quattro note residue vie ne, per le ultime due, ritorta lievemente verso l’alto con strisciante cromatismo, sottolineato dai punti coronati che prolungano a piacere ciascuna delle ultime note. Ciò con ferisce a tutta la prima mezza frase un senso di attesa in tollerabile, quasi spasmodica: il supplicante ha detto in sincera umiltà la propria preghiera, con quella mezza fra se melodica che, come scrive lo Hocquard, « curva la schie na, ma senza alcuna ossequiosità, e si risolleva sull’ansia terminale dei due punti d’organo, quasi a spiare il verdet to della Contessa».
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E la risposta viene ancora una volta a colmare quel vuo to, a placare quella sete, a terminare quella mezza frase ri masta in sospeso. Dolcissima, la semifrase della Contessa echeggia quella del Conte nella sua umiltà di preghiera, ne adotta il fervoroso balzo iniziale d’una sesta ascendente, poi sale ancora d’un grado, mentre quella del Conte ini ziava subito la ricaduta discendente; quindi ripete l’inter vallo di sesta, si riproduce uguale, salvo uno spostamento d’accento, prima di sciogliersi, letteralmente, nella dolcez za d’un piccolo vocalizzo circolare di semicrome, che scen de sulla tonica. È la grazia, veramente, che dall’animo puro della Con tessa scende come un balsamo sugli accidentati personaggi di «questo giorno di tormenti, Di capricci e di follia». Di colpo ci troviamo trasferiti in un clima religioso. La frase della Contessa viene ripresa da tutti i personaggi sotto vo ce, in un’armonizzazione a quattro parti, e cosi ci accor giamo che questa frase è un corale, nient’altro che un co rale religioso, pieno di devozione e di fervore. La dialet tica dei generi musicali, supremo strumento della poetica mozartiana, si spiega qui in tutta la sua efficacia. Come per incanto cadono i fronzoli della musica teatrale, e Susan na, la Contessa, Marcellina e Cherubino appaiati, Basilio, il Conte, Antonio e Figaro non sono piu personaggi d’o pera riuniti in un concertato, ma sono voci anonime d’un coro, che proclama la suprema aspirazione dell’anima di Mozart, la sua settecentesca fede nel vangelo del piacere e della felicità: «Ah tutti contenti saremo così! » Che senso avrebbe la vita, se non servisse a conseguire la felicità? a farci tutti contenti? «Il racconto di un idiota, pieno di rumore e furore, che non significa nulla». Mozart non co nosceva il Macbeth, ma era appunto per evitare di dover trarre queste conclusioni, che si appoggiava disperatamen te al mito della felicità, dell’età dell’oro, del paradiso ter restre che deve ritornare, cancellandosi attraverso la bon tà e l’indulgenza le tracce del peccato originale. Il coro dei personaggi che riprende la melodia della Contessa si dispone in tutto e per tutto secondo i dettami e le tecniche della musica sacra: non solo la curva della me lodia è piena di fervore e di devozione, ma secondo una
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tipica tecnica responsoriale, che risale ai canti delle cata combe, due voci — Susanna e la Contessa - danno il via al la frase, anticipando un intervallo ascendente di quinta, e poi tutta la massa tien dietro, come avveniva nelle conven ticole cristiane tra ofiicianti-guida e la massa dei fedeli. In questo elevamento di tono si consegna il messaggio morale dell’arte mozartiana. La musica delle Nozze di Fi garo corre verso la catarsi di una generale, grandiosa as soluzione. Se l’indulgenza dei personaggi mozartiani co mincia da se stessi, non vi si limita con egoistico lassismo, ma si estende invece in un affettuoso abbraccio di solida rietà umana, di reciproca comprensione. Sul perdono in vocato dal Conte alla Contessa la vivace ronda in sol mi nore che gli archi avevano già avviato per il calar del sipa rio, s’arresta nell’imprevisto raccoglimento dell’Andante, tutto intriso di religiosa bontà. L’episodio musicale potrebbe stare, tal quale, in una delle Messe di Mozart, che spesso ne contengono altri ben più mondani e bril lanti. E il suo significato è appunto quello di un’assolu zione generale, una specie di gioioso lavacro dalla macchia del peccato originale, che consenta il ricupero dell’età dell’oro. La promozione finale a tutti, a Cherubino e a Su sanna, al Conte e alla Contessa, a Figaro e a Barbarina, e anche agli altri, sì, ai «cattivi», agli antipatici nemici della felicità di Figaro e Susanna, a Bartolo (che in realtà non c’è, perché, per ragioni di economia, nella prima rap presentazione era sostenuto dall’attore che impersonava anche Antonio), a Marcellina e all’ipocrita Don Basilio, che cattivi sembrano perché questa è la parte loro toccata in sorte nella vita, ma proprio per questo son tanto più da compatire, ché buoni invece son tutti, per il solo fatto d’essere creature umane. È questo uno dei tanti punti dove affiora, nelle opere italiane di Mozart, il nucleo profondo di quella che si può ben chiamare la sua religione, prima di pervenire a completa formulazione nel Flauto magico. La religione di Mozart è la religione della felicità, e sebbene egli fosse uomo del tutto in disparte dalle correnti di pensiero filo sofico ed ignorasse forse perfino l’esistenza di qualcosa chiamato giusnaturalismo, la sua religione si innesta mi-
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steriosamente, per una specie d’osmosi di alta quota, nella tematica settecentesca del diritto alla felicità. Il terribile Saint-Just arrivava un po’ in ritardo quando in piena Rivoluzione francese parlava di «cette idée de bonheur si neuve en Europe». Fin dal 1749 il Maupertuis aveva proclamato, nel suo Essai de philosophic morale: «C’è un principio nella natura, ancora più universale di quello che si chiama lume naturale, piu uniforme ancora per tutti gli uomini, del pari presente tanto nel più stupido quanto nel più sottile: è il desiderio d'essere felici», E non che essere «nuova in Europa», parecchi anni prima che Saint-Just scrivesse i suoi pamphlets rivoluzionari, l’idea di felicità era già emigrata in America per insediarsi solen nemente in testa alla dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, il 4 luglio 1776 (Mozart aveva vent’anni, e tra Finte Giardiniere e Re Pastori rodeva il freno, sempre più insofferente alla servitù arcivescovile di Salisburgo): «Ri teniamo queste verità di per sé evidenti, che tutti gli uo mini sono creati uguali e sono dotati dal loro Creatore di certi Diritti inalienabili, e che fra questi ci sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità». The pursuit of Happiness: ecco il vangelo di Mozart, quale si effonde in quel ritmo cantilenante e corrivo di 6/8 con cui Susanna e Figaro, ormai riconosciutisi nella not turna ombra del parco, si ricongiungono dopo le traversie, valicando gli ostacoli che le contrarietà e le leggi, le con suetudini e le convenienze avevano posto sul loro cam mino: Ah! corriamo, corriamo, mio bene e le pene compensi il piacer.
Le pene e gli ostacoli alla felicità di due cuori amanti li costruisce soprattutto il mondo esterno - Venfer c’est les autres - per un meccanismo d’integrazione e di contempe ramento dei diritti di tutti, che filosofi precedenti alla cor rente del pensiero libertino, e più austeri, - o più realisti, avevano prudentemente riconosciuto. «Ciò che definisce la vita umana, - secondo Locke, - è un insieme di doveri e il diritto di promuovere la felicità in ogni modo compati bile con quei doveri». Ma, proseguiva il filosofo, «per am
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pio che possa essere il diritto dell’uomo a promuovere la propria felicità, sarebbe un errore assegnargli una priorità sul suo dovere». La semplicistica analisi etica mozartiana riconduceva l’idea di felicità a quello che la psicanalisi avrebbe poi chia mato «principio di piacere», insidiato dalla civiltà che si sviluppa a prezzo d’una fatale perdita di felicità da parte del singolo. Nell’evoluzione del lattante la sottrazione del seno materno costituisce la prima nozione, negativa, di un «oggetto» che si trova «fuori». Da quel momento, - scri ve Freud, - sorge la tendenza a tenere distaccato dall’io tutto ciò che può divenire fonte di dispiacere, a respinger lo all’esterno e a formare un puro Io-piacere, al quale si contrappone, minaccioso ed estraneo, il “fuori”». Senza mai nominare Mozart, perché il fondatore della psicanalisi era refrattario alla musica, sembra quasi che Freud ne tracci l’interiore biografia quando redige i capito li de II disagio della civiltà (e si noti che il titolo originario doveva essere Das Ungluck in der Kultur\ solo in un se condo tempo il termine Ungluck fu attenuato in Unbeha gen). «Il programma del principio di piacere stabilisce lo scopo dell’esistenza umana» (cfr. duetto Susanna-Figaro: « e le pene compensi il piacer » ). Ma questo « programma », - constata Freud, - è in conflitto con il mondo intero. «È assolutamente irrealizzabile, tutti gli ordinamenti dell’uni verso si oppongono ad esso; potremmo dire che nel piano della Creazione non è incluso l’intento che l’uomo sia “ fe lice”». Si colloca in questo dilemma la ragion drammatica che Mozart trae dalla sua concezione del mondo. Si potrebbe dire che la sua tragedia - e quella dei suoi personaggi - na sce dalla disastrosa scoperta che la premessa del Paradiso terrestre era soltanto una favola - un mito - e si sviluppa in un ostinato sforzo di recessione verso il perduto Eden originario a cui l’uomo ha diritto e di cui è stato defraudato con la trappola del peccato originale. Fuori del mito, il peccato originale sta nella triplice cau sa d’infelicità che insidia l’esistenza. «La sofferenza ci mi naccia da tre parti: dal nostro corpo..., dal mondo ester no... e infine dalle nostre relazioni con altri uomini... Nes-
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suna meraviglia se, sotto la pressione di queste possibilità di soffrire, gli uomini sogliono ridurre la loro pretesa di felicità...; nessuna meraviglia se ci riteniamo felici per il solo fatto di scampare all’infelicità, di sopportare la soffe renza, se, nel senso piu generale, il compito di evitare il dolore relega sullo sfondo quello di procurarsi il piacere. La riflessione insegna che è possibile tentare di portare a termine questo compito per vie molto diverse: tutte que ste vie sono state raccomandate dalle varie scuole della saggezza del vivere e percorse dagli uomini». Ma sono proprio queste «vie» che Mozart rifiutava di percorrere, cosi come si ribellava alle ragionevoli limita zioni e decurtazioni lockiane al diritto d’esser felici e alle coartazioni che la civiltà esercita sul principio di piacere allo scopo di assicurarne la durata. «Di fatto Tuomo pri mordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizio ne pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità è molto esigua. L’uomo civile ha ba rattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza». Questo baratto Mozart lo ricusa. E se una delle cause più insidiose d’infelicità, perché interna all’uomo, Freud la addita nel senso di colpa, ebbene, Mozart il senso di colpa non sapeva neanche dove stesse di casa. E se «la tendenza all’aggressione è il fattore che turba i nostri rapporti col prossimo», e se «per via di questa ostilità primaria degli uomini tra loro la società civile è continuamente minac ciata di distruzione», ebbene, ancora una volta la musica di Mozart, con la gentilezza curvilinea delle sue cadenze tonali, quasi sempre piane, e addolcite dal semitono della sensibile, è l’antitesi di questa impostazione dei rapporti umani. L’aggressività è tutto quel che c’è di più estraneo alla sua natura, e l’essenza di quel paradiso perduto in es sa continuamente vagheggiato non è nemmeno tanto la pacchia permissiva del «se piace ei lice», né il paese di Bengodi dove scorrono di latte i fiumi, quanto l’ideale filantropico d’un mondo dove l’uomo sia all’uomo davvero fratello e non lupo. In ogni caso non si esaurisce nel perdono universale d’un lassismo grandiosamente indulgente il messaggio
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consegnato da Mozart al finale delle Nozze di Figaro. C’è ancora in serbo qualcos’altro. All’inno religioso into nato da tutti i personaggi segue ancora un’ulteriore inten sificazione e approfondimento dei contenuti. Tacciono le voci, e tre battute gravi, pianissimo, degli archi prolun gano questa sosta, prima che la tumultuosa baraonda del lieto fine riprenda il sopravvento, riconducendo la tona lità (re maggiore) e il carattere dinamico dell’ouverture. La volontà dell’artista impone ancora una pausa alla fret ta del lieto fine. Il tono di questa specie di recitativo stru mentale è cosi solenne, che ci si aspetta debba ad esso se guire la luce duna sfolgorante rivelazione. Sembra pro prio che l’artista stia per sollevare il velo d’Iside, e tra poco vedremo i misteri ultimi, col rischio di restarne ab bagliati e per sempre acciecati. Si tratta d’un preambolo strumentale di beethoveniana altezza dopo il quale ci si aspetta almeno un’affermazione del peso di quella della Nona Sinfonia’, «sopra il padiglione celeste deve vivere un caro Padre». Beethoven queste grandi parole le dice va, e le diceva da par suo, essendo forse l’unico artista al mondo che abbia potuto permettersi di dirle senza restar ne schiacciato. Mozart no, Mozart non le dice. E qui s’in serisce la sua seconda lezione, lezione di stile, prima di tut to, ma anche di costume morale. La lezione della litote, del pudore espressivo: la sensibilità acuta di quello che si può dire, e di quello che deve soltanto essere accennato, suggerito, ma a dirlo esplicitamente si sciupa. Il riserbo, il rifiuto delle grandi parole, e della retorica che cosi fa cilmente vi si annida. Ciò non vale soltanto per questo mo mento culminante, ma per tutta l’opera, e in genere per l’arte mozartiana. Lungo tutto lo spartito delle Nozze di Figaro il benefico correttivo dell’ironia, senza inaridire l’e spressione dei sentimenti, sorveglia continuamente eh’es si non si prendano troppo sul serio e non diventino enfa tici (a meno che si tratti di enfasi voluta, caricaturale, co me nelle strampalate dichiarazioni d’amore di Figaro alla falsa Contessa). Si al sentimento, no al sentimentalismo, questa ricetta dell’eterna giovinezza ripara l’arte di Mo zart dal destino di diventare adulta e di conseguenza di ap-
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pesantirsi, di segnare troppo i tratti, di ricattare l’ascol tatore col patos dei contenuti. In questo senso Le nozze di Figaro appare come un’ope ra aurorale. Essa raccoglie con mano leggera, e senza pare re, il filone filantropico dell’ideologia settecentesca che più tardi, nel Flauto magico, verrà formulato di proposito: il mito dello stato di natura, la convinzione della bontà ori ginaria dell’uomo, fondamento d’ogni concezione imma nente e progressiva della civiltà. Ma il calore della frater nità universale, il senso dell’indistruttibile solidarietà uma na contro tutto ciò che umano non è - e quindi, per una conseguenza che pochi s’attentavano a trarre esplicitamen te, e che avrebbe fatto inorridire Mozart, perfino contro il divino —, questo mozartiano «Seid umschlungen, Millionen», questa religione dell’uomo, si attua nell’incon scia e sorridente leggerezza delle Nozze di Figaro per mez zo d’una tecnica allusiva, forse più efficace, e di portata più universale, che non l’esplicita teorizzazione massonica del medesimo ideale nel Flauto magico.
Indicazioni bibliografiche
La bibliografia mozartiana è dominata da due opere fondamen tali, dalle quali quasi tutte le altre derivano. Una di esse è:
Hermann Abert, W. A. Mozart (Breitkopf und Hartel, Leipzig 19557). Geniale rifacimento di un’opera ottocentesca di Otto Jahn, è un lavoro di gran mole (due voli, per oltre 1600 pp.)> finora non tradotto né in italiano né in francese). Modello inu guagliato di biografìa critica, colloca l’argomento entro la situa zione storica, si da costituire anche un quadro completo della musica settecentesca prima di Mozart, attraverso singoli capi toli di volta in volta dedicati ai vari generi abbordati dal com positore. L’altro pilastro della bibliografia mozartiana è l’opera in cinque volumi di: Teodor de Wyzewa e Georges de Saint-Foix, W. A. Mozart (Desclée de Brouwer, Bruges 1912-46). Soltanto i primi 2 volumi si de vono ad entrambi gli autori; gli altri al solo Teodor de Wyzewa. Quest’opera contiene l’analisi e la descrizione formale di tutte le composizioni di Mozart, ed è particolarmente pregiata per la diligente ricerca delle fonti e delle influenze subite da Mozart ed elaborate nella sua eccezionale recettività.
Da questi caposaldi derivano quasi tutte le altre biografie mo zartiane di dimensioni piu ridotte. Tra queste si raccomanda per accurata completezza d’informazione: Bernhard Paumgartner, Mozart (Berlin 1927; trad. it. Einaudi, Torino 1945; nuova ed. riveduta e aggiornata 1978). Essa con tiene tra l’altro un catalogo dell’intera produzione mozartiana suddivisa per generi. Direttore dal 1917 al 1959 dell’istituzio ne salisburghese del Mozarteum, e dell’orchestra ad essa con nessa, l’autore associava all’esperienza diretta della pratica mu sicale la disponibilità d’un materiale di consultazione assolutamente completo.
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INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE
Un ottimo catalogo, con ragguaglio delle diverse numerazioni assunte nel Kdchel Verzeichniss in seguito alla revisione operata dall’Einstein per la 6a edizione, è posto in appendice ad una breve operetta, non propriamente biografia nel senso sistematico della pa rola, ma attraente esplorazione di distinti aspetti della personali tà mozartiana: Aloys Greither, Mozart (Hamburg 1962; trad. it. Einaudi, Torino 1968).
Opera preziosa è: Alfred Einstein, W. A. Mozart. Il carattere e l’opera (New York 1945; trad. it. Ricordi, Milano 1955). È una geniale ricostru zione dall’interno dell’arte e della personalità di Mozart, ma presuppone la conoscenza dei dati di fatto e non sostituisce una comune biografia. Frequente riferimento vien fatto nel presente lavoro, oltreché all’Abert, a: Jean-Victor Hocquard, La pensée de Mozart (Editions du Seuil, Paris 1958).
Sul teatro di Mozart: Edward J. Dent, Mozart’s Operas (London 1913; trad. it. Rusconi, Milano 1979). Andrea Della Corte, Tutto il teatro di Mozart (Radio Italiana, To rino 1957). Frédéric M. Breydert, Le genie créateur de Mozart (Alsatia, Pa ris s. d.).
Stampato per conto della Casa editrice Einaudi dalla Eantonigrafica - Elemond Editori Associati c.l.
Ristampa
23456789 io
18937
Anno
91 92 93 94 95 96 97
Dedurre esclusivamente dal contesto musicale i nessi che s’intrec ciano fra una composizione e la cultura del suo tempo: questo il fine di quelle «letture» di capolavori, alle quali Massimo Mila si dedicò con tanta passione e penetrazione critica. Attraverso l’analisi stilistica delle forme musicali e delle strutture teatrali messe in atto nelle Nozze di Figaro l’autore colloca l’arte di Mozart nella civiltà del Settecento, mostrandone le relazioni, del tutto intuitive e ingenue, con la corrente del pensiero giusna turalistico. Alla base della concezione mozartiana c’è l’idea mitica dell’età dell’oro, intesa come un Paradiso ingiustamente perduto, che l’uomo ha diritto di ricuperare. Questo il messaggio, di por tata piu universale, e forse più radicale, che Mozart sostituisce al la polemica di Beaumarchais in favore del terzo stato. Il diritto dell’uomo alla felicità, inteso come irresistibile regresso a un Eden originario, si configura in precisi connotati musicali, che lo storico decodifica entro il linguaggio dei suoni. Di Massimo Mila (1910-1988), Einaudi ha pubblicato: L’esperienza musicale e l'estetica (1956), Cronache musicali 1955-59 (1959), Rreve storia della musica (1963), baderna musicista europeo (1976), Lettura delle Nona Sinfonia (1977), L’arte di Verdi {1980), Compagno Strawinsky (1983), Lettura del Don Giovan ni di Mozart (1988).
ISBN 88-06-18937-9
[email protected] Lire 18000
9 788806 189372