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Italian Pages 174 [176] Year 2012
GIULIO DI MIZIO
CLAUDIO GENTILE
PIETRANTONIO RICCI
LA RICERCA DELLE TRACCE DI SPARO
Il volume è stato pubblicato con i contributi del Dipartimento di Studi giuridici e del Dipartimento di Diritto dell’organizzazione pubblica, economia e società dell’Università degli Studi “Magna Grecia”.
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PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA ______________
Copyright 2012 Wolter Kluwer Italia Srl
ISBN 978-88-13-31494-1
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5 della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le riproduzioni diverse da quelle dopra indicate (per uso non personale – cioè, a titolo esemplificativo, commerciale, economico o professionale – e/o oltre il limite del 15%) potranno avvenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da EDISER Srl, società di servizi dell’Associazione Italiana Editori, attraverso il marchio CLEARedi Centro Licenze e Autorizzazioni Riproduzioni Editoriali. Informazioni: www.clearedi.org. L’elaborazione dei testi, anche se curata con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabilità per eventuali involontari errori o inesattezze.
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LCC - Laser Copy Center S.r.l. - Via Livraghi, 1 - 20126 Milano
Giulio Di Mizio Ricercatore Universitario e Professore Aggregato di Medicina Legale dell’Università Magna Graecia di Catanzaro. Patologo forense. Consulente e Perito dell’Autorità Giudiziaria in tema di crimini violenti. Conduce ricerca scientifica in tema di balistica forense, balistica terminale e ferite d’arma da fuoco su bersaglio biologico. Claudio Gentile Balistico Forense. Consulente e Perito in tema di Balistica forense, ricerca di residui dello sparo e di microtracce non biologiche. EP6 dell’Istituto di Fisica dell’Università di Messina. Responsabile del Laboratorio di Microscopia Elettronica SEM – EDX per la Facoltà di Scienze MMFFNN. Pietrantonio Ricci Professore Ordinario di Medicina Legale. Direttore della Cattedra di Medicina Legale. Direttore della Cattedra e della Scuola di Specializzazione in Medicina Legale dell’Università Magna Graecia di Catanzaro. Coordina le linee di ricerca dell’Ateneo in tema di Medicina legale.
Collaboratori Federica Colosimo Specialista in Medicina Legale. Medico Interno della Sezione di Medicina Legale dell’Università Magna Graecia di Catanzaro. Collabora ai programmi di ricerca in tema di balistica forense e terminale della Cattedra di Medicina Legale dell’Ateneo. Marco Romeo RIS Carabinieri Messina. Specialista nella ricerca dei residui dello sparo, collabora da alcuni anni con il Gruppo di ricerca formato con gli autori con i quali ha collaborato alla stesura di numerosi lavori scientifici.
Ringraziamenti Un particolare ringraziamento va a Jeffrey Scott Doyle (oggi in pensione). È stato fino al 2007 Firearm and Tool Mark Examiner / Forensic Scientist Specialist, presso il Jefferson Regional Forensic Lab, Louisville, Ky. Jeffrey ci ha cortesemente autorizzati ad utilizzare i bellissimi disegni didattici contenuti nel sito da lui curato, www.firearmsID.com realizzati da Erik Dahlberg
INDICE SOMMARIO
Prefazione ........................................................................................ Pag. XI Introduzione ..................................................................................... » 1
CAPITOLO I GLI ESPLOSIVI E LE POLVERI DA LANCIO 1. Nozioni generali. .......................................................................... Pag. 2. L’esplosione nelle armi. ............................................................... »
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CAPITOLO II ELEMENTI DI TECNOLOGIA DELLE ARMI DA FUOCO 1. L’invenzione della polvere nera ed il suo utilizzo nelle armi da fuoco ad avancarica. ..................................................................... Pag. 10 2. Evoluzione dei meccanismi di accensione. .................................. » 12 3. Lo sviluppo delle armi a retrocarica. ............................................ » 16 4. Le armi lunghe: fucili carabine e semiautomatiche. ..................... » 17 5. Le armi corte: revolvers e pistole semiautomatiche. .................... » 24 6. Le armi automatiche. .................................................................... » 29
CAPITOLO III GLI INNESCHI E LA CARTUCCIA 1. Le cartucce. .................................................................................. Pag. 33 2. Il bossolo. ..................................................................................... » 34 3. Il proiettile. ................................................................................... » 35 4. Gli inneschi................................................................................... » 35 5. La cartuccia da caccia per armi con canna ad anima liscia........... » 38
CAPITOLO IV LA NASCITA DEL METODO ED I PRIMI PROTOCOLLI 1. Nota introduttiva........................................................................... Pag. 41 2. Alcune notizie storiche sulle metodiche in uso prima dell’introduzione della ricerca mediante SEM/EDX. .................................. » 43
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3. I test colorimetrici e la bulk analysis. ........................................... Pag. 44 4. L’analisi particellare mediante SEM/EDX. .................................. » 46 5. L’evoluzione nella ricerca delle tracce di sparo. .......................... » 48
CAPITOLO V LE MISCELE DI INNESCO 1. Nozioni generali. .......................................................................... Pag. 59 2. Composti inorganici presenti nelle miscele di innesco. ................ » 60 3. Alcune delle miscele convenzionali più note. .............................. » 62 4. Composizione note di inneschi di largo impiego.......................... » 67 5. Miscele di innesco a composizione non convenzionale. .............. » 67
CAPITOLO VI LA FORMAZIONE DEI RESIDUI 1. Nozioni generali. .......................................................................... Pag. 71 2. La formazione dei GSR. ............................................................... » 72 3. Elementi presenti nei GSR non derivati dalle miscele di innesco...... » 76
CAPITOLO VII IL PRELIEVO E LE ATTIVITÀ PRELIMINARI 1. I metodi di prelievo: vantaggi e svantaggi. ................................... Pag. 79 2. Il prelievo su soggetto vivente. ..................................................... » 81 3. Il prelievo da cadavere.................................................................. » 89 4. Protocolli di custodia della prova e garanzie di genuinità. ........... » 93
CAPITOLO VIII CENNI SULLA MICROSCOPIA SEM/EDX 1. Il SEM. ......................................................................................... Pag. 95 2. La microsonda analitica EDX....................................................... » 96 3. Problemi interpretativi degli spettri EDX ..................................... » 97 4. Preparazione del campione ed esame analitico. ........................... » 99
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CAPITOLO IX LA VALUTAZIONE DI PRIMO LIVELLO 1. Criteri generali. ............................................................................. Pag. 100 2. I più recenti protocolli di classificazione. ..................................... » 103 3. La raccolta dei dati analitici.......................................................... » 106 4. Considerazioni finali. ................................................................... » 107
CAPITOLO X LA VALUTAZIONE DI SECONDO LIVELLO 1. Criteri generali. ............................................................................. Pag. 109 2. Il fattore tempo/dimensione. ......................................................... » 110 3. Inquinamento e transfer. ............................................................... » 114
CAPITOLO XI LA CONSULENZA E LA PERIZIA TECNICA 1. La premessa. ................................................................................. Pag. 123 2. La consulenza per il P.M. quella per la Difesa e la Perizia. ......... » 124 3. Le conclusioni. ............................................................................. » 127
CAPITOLO XII IL FUTURO DEL METODO. CONCLUSIONI .......................................................................................................... Pag. 129 Bibliografia ...................................................................................... Pag. 133 Atlante delle tracce di sparo ............................................................ » 137
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PREFAZIONE Il libro “La ricerca delle tracce da sparo” approfondisce un tema di indiscutibile importanza nell’attività investigativa, in quanto attiene alle modalità attraverso cui vengono rilevati, esaminati, e quindi contestualizzati, in ambito processuale, i residui dello sparo lasciati da un’arma da fuoco utilizzata per commettere un reato. Per comprendere appieno la portata di questa affermazione, è sufficiente qualche considerazione. Quando un’arma da sparo viene utilizzata per commettere un reato, l’uso della stessa provoca la contaminazione di luoghi e persone tramite la derelizione di residui dello sparo. Si tratta di una conseguenza ineludibile rispetto all’uso delle armi, e quindi costituisce una sorta di “impronta digitale” che consente certamente di risalire al soggetto che ha adoperato l’arma. Questa formidabile traccia costituisce, proprio per la sua decisiva capacità dimostrativa, oggetto di una immediata ricerca, non appena si avviano le indagini a seguito della notizia di reato relativa all’uso di un’arma da fuoco nell’ambito di un fatto delittuoso. Questa è la ragione fondamentale per cui gli approfondimenti scientifici nella materia costituiscono un supporto importante, capace di assumere la qualità della decisività per la soluzione di casi giudiziari in cui siano state adoperate armi da sparo. L’approfondimento tecnico circa le attività di rilevamento, sia sotto il profilo delle modalità di effettuazione dei rilievi, sia sotto il profilo dell’individuazione dei luoghi dove possono essere rilevate le tracce oggetto di ricerca, costituisce una valida guida per lo svolgimento di appropriate indagini. Si tratta di un dato probatorio talmente importante, che è opportuno un contributo tecnico che ne metta in rilievo non solo le potenzialità, ma anche i limiti probatori, dovendo evidentemente i dati di carattere “tecnico” essere supportati da ulteriori elementi di prova che contribuiscano ad attribuire al dato scientifico il carattere dell’univocità dimostrativa Il libro “La ricerca delle tracce da sparo” costituisce un lavoro assolutamente nuovo, sia per il grado elevato di approfondimento delle questioni tecniche e giuridiche affrontate, sia per l’impostazione multidisciplinare che, rappresentando il nastro trasportatore delle diverse
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competenze messe in campo, ha consentito di esaminare le questioni da prospettive diverse. La ricchezza delle informazioni rappresenta proprio il frutto di un approccio nuovo alla materia, nella consapevolezza, che ho avuto modo di acquisire nel corso della mia attività, che le fasi iniziali delle indagini sono particolarmente delicate: da un lato, infatti, occorre rilevare le tracce inevitabilmente lasciate dall’autore del reato, dall’altro, occorre far si che i soggetti intervenuti sul posto ed aventi competenze diverse (medico legale, esperto balistico, pg) possano operare in modo sinergico. Da questo punto di vista, gli autori (esperti balistici e medici legali) sono riusciti in modo mirabile ad eleborare un testo che fornisce ai diversi soggetti che operano in ambito investigativo un ottimo supporto per il perseguimento dello scopo dell’indagine preliminare: l’individuazione dell’autore del reato e l’acquisizione di elementi di prova aventi il carattere dell’efficacia dimostrativa e, ovviamente, della validità processuale. Nel libro sono compendiate e criticamente approfondite una serie di questioni problematiche che si pongono nel contesto investigativo: dalla fase del prelievo, particolarmente delicata, a quella della custodia della fonte di prova, sino, infine, all’attività di analisi e di esame tecnico. Proprio in relazione a tali aspetti, sono affrontate le scansioni temporali e le modalità di effettuazione di tali operazioni. A ciò si aggiunge una dettagliata descrizione delle armi da fuoco, delle cartucce, degli inneschi, delle miscele da innesco, informazioni tutte di indubbia utilità per gli operatori giuridici e per chiunque, perché no, sia appassionato della materia. Esprimo quindi il mio vivo apprezzamento per un testo che, a mio avviso, è unico nel suo genere. Ha, infatti, il grande pregio di trattare una materia così delicata e complessa con approccio tecnico-scientifico ma al tempo stesso utilizzando una tecnica espositiva chiara e lineare, di talchè è facilmente fruibile e consultabile. Sono messe in rilievo le potenzialità dimostrative dell’elemento di prova costituito dalle tracce dello sparo, ma al tempo stesso ne sono evidenziati i limiti L’esame, poi, delle questioni connesse al rilevamento delle tracce da sparo in modo multidisciplinare contribuisce ad attribuire al libro particolare pregio, sia dal punto di vista scientifico che pratico. Ringrazio quindi gli autori per l’attività di studio e di ricerca che hanno profuso nel libro, approfondendo una serie di temi sollecitati
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anche dalla loro esperienza “pratica” sul campo; in tal modo hanno realizzato un’opera che rappresenta un “quid novi” nel panorama scientifico attuale, e che può rappresentare una importante guida nello svolgimento di indagini preliminari relative a fatti in cui sia stata utilizzata un’arma da fuoco, le cui tracce è compito dell’investigatore rilevare e interpretare. Dott. Nicola Gratteri Procuratore Aggiunto della Repubblica - DDA Procura della Repubblica di Reggio Calabria
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INTRODUZIONE
La decisione di scrivere questo libro nacque dalle esperienze che ciascuno di noi aveva vissuto in alcuni decenni di attività scientifica e professionale, esperienze che dimostravano la confusione di giudizi e le diversità di approccio da parte degli operatori che regnavano nel nostro paese. Alla fine degli anni settanta uno di noi, che fino a quel momento si era interessato unicamente di balistica forense, fu pressato da un Giudice Istruttore, che lo considerava il suo esperto di fiducia, ad apprendere le più moderne tecniche di ricerca delle tracce di sparo che andavano sostituendosi ai vecchi metodi quali il test di Gonzales, e per far ciò doveva trovare un esperto che potesse introdurlo in questa attività. In area Universitaria presso gli Istituti di Medicina Legale, che avrebbero dovuto essere il luogo di elezione per lo sviluppo e la pratica delle scienze forensi, si era trascurata ormai da tempo la balistica che, ove praticata, era ristretta unicamente alla balistica comparativa mentre la ricerca delle tracce di sparo, quando effettuata, era basata sull’ormai obsoleto test di Gonzales. Il metodo di ricerca delle tracce di sparo mediante microscopia elettronica a scansione venne introdotto in Italia da Marco Morin, un esperto indipendente che operava a Venezia e si era formato presso il Forensic Science Service inglese, che appresa la tecnica l’aveva introdotta in Italia e ne aveva avviato l’applicazione appoggiandosi presso un laboratorio di Murano ove era presente un microscopio elettronico a scansione dotato di microsonde WDX utilizzato per le ricerche sul vetro ed i controlli di produzione di questo materiale. Contattato Marco Morin ed ottenuta la sua disponibilità, ebbe inizio un proficuo rapporto che dall’apprendimento del metodo passò presto all’interscambio di esperienze scientifiche e professionali dalle quali scaturirono i primi protocolli operativi ed interpretativi frutto del continuo affinamento di quelli già stilati dal Morin all’inizio della sua attività e che costituiscono l’ossatura degli argomenti che saranno trattati in questo lavoro. In quegli stessi tempi veniva fondato ed iniziava ad operare il laboratorio di indagini criminalistiche della Procura della Repubblica di Venezia, fortemente voluto dal dr. Antonio Foiadelli che lo aveva ideato e ne era il responsabile.
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INTRODUZIONE
Nella mission che questo magistrato lungimirante si era data v’era anche la sentita necessità di diffondere le scienze forensi contribuendo alla formazione di una cultura di settore che, presente da anni in paesi come l’Inghilterra e la Germania, era ancora ai primordi in Italia. Il laboratorio della Procura di Venezia operava istituzionalmente per quel Distretto Giudiziario ma, nei limiti imposti dal notevole carico di lavoro che doveva sopportare, dava accesso anche a consulenti di altri Distretti per l’espletamento di incarichi disposti dall’A.G. in tutto il territorio nazionale. Così ai contatti di collaborazione scientifica con Marco Morin si aggiunse presto la frequentazione del Centro della Procura veneziana e del Forensic Science Service presso i laboratori di Londra e Belfast ove fu possibile la conoscenza di altri esperti quali Robin Keeley, Franco Tomei, Victor Beavis e Jim Wallace con i quali nacquero ulteriori e preziosissime occasioni di confronto ed interscambio. Nel corso di questo percorso professionale estremamente significativo fu l’incontro con il Prof. Carlo Torre, uno dei massimi esperti al mondo nel campo della ricerca delle tracce di sparo, al quale si devono sia la formalizzazione del protocollo operativo di ricerca che prevede la valutazione dei risultati su due livelli e che sarà ampiamente discussa in questo testo, sia numerosi lavori originali che rappresentano le uniche vere novità di settore dalla prima introduzione del metodo secondo Wolten e Coll. Da queste esperienze e dalla frequentazione delle Aule di Giustizia deriva l’idea che ha accomunato gli Autori circa la necessità di un testo divulgativo che consentisse a tutti coloro, che dovendosi interessare in ambito giudiziario a vario titolo della ricerca delle tracce di sparo, di apprendere le nozioni essenziali sul metodo per ben comprenderne i limiti scientifici e la valenza processuale dei risultati ottenibili e nel contempo poter effettuare una lettura critica degli elaborati a loro proposti dagli esperti di settore in relazione ai procedimenti trattati. La consapevolezza, inoltre, che il medico legale è il solo interlocutore sia scientifico che giudiziario in tema di clinical forensic medicine e forensic pathology, ha sollecitato la necessità che tale riflessione scientifica fosse effettuata in un contesto multidisciplinare. Essendo infatti il medico legale il primo consulente ad intervenire per il P.M. in caso di crimini violenti, deve nascere la consapevolezza che, con il proprio intervento tecnico, lo stesso assume di fatto la responsabilità di condurre gli accertamenti tecnici medico legali preli-
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minari con modalità atte ad evitare possibili criticità nella ricerca ed acquisizione di campioni di svariata natura (biologica, GSR, dattiloscopica etc) motivate dalla necessità di ulteriori indagini criminalistiche, evitando che il proprio lavoro possa poi compromettere ulteriori iniziative di indagine. Torna pertanto prepotente, nell’ambito delle scienze forensi, il tema di una equipe di lavoro multidisciplinare, dove il medico legale, a cui è demandato “contatto” con il cadavere, possa operare in sintonia con gli esperti di balistica forense e biologia forense, ottimizzando le procedure di intervento. Ci auguriamo dimettendo questo scritto di esserci avvicinati il più possibile agli obbiettivi che ci eravamo proposti per fornire uno strumento utile alla migliore comprensione dell’indagine tecnica per la ricerca delle tracce di sparo. GLI AUTORI
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CAPITOLO I GLI ESPLOSIVI E LE POLVERI DA LANCIO SOMMARIO: 1. Nozioni generali sugli esplosivi. - 2. L’esplosione nelle armi.
1. Nozioni generali. Un’arma da fuoco è una macchina termodinamica a combustione interna che, al pari di un motore a scoppio, trasforma l’energia termica prodotta dalla combustione di un carburante in energia meccanica utile per il lancio di un proiettile. Poiché in un arma la combustione avviene interamente in un ambiente chiuso, non è possibile fornire dall’esterno il comburente necessario come lo si fa con i motori, nei quali, mediante vari sistemi più o meno complessi, si inietta nelle camere di scoppio una miscela combustibile – aria contente la giusta percentuale di ossigeno, pertanto il combustibile impiegato nelle armi deve essere in grado, bruciando, di auto produrre anche l’ossigeno necessario affinché ciò avvenga. Una polvere da lancio è in genere una miscela di sostanze esplosive che contengono in se sia il combustibile che il comburente, ovvero l’ossigeno necessario ad alimentare l’esplosione. Gli esplosivi di base che compongono una polvere da lancio sono i medesimi utilizzati per le polveri da mina sia pur opportunamente trattati per questo particolare impiego. Le sostanze esplosive moderne possono essere classificate in base alla loro capacità di produrre ossigeno incendiandosi in due classi fondamentali, a combustione completa e a combustione incompleta. Appartengono alla prima classe gli esplosivi a base di nitroglicerina, che incendiandosi producono ossigeno in eccesso e temperature molto elevate. Della seconda classe fanno parte gli esplosivi a base di nitrocellulosa che producono ossigeno in difetto ed ossido di carbonio, la temperatura di combustione è meno elevata di quella della classe precedente. Caratteristiche fondamentali di entrambe le classi è quella di trasformarsi con la combustione, caratterizzata da una velocità elevatissima, quasi completamente in gas ad altissima temperatura in grado di fornire una potenza utile molto elevata.
CAPITOLO I
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La combustione di un esplosivo in funzione dell’ambiente in cui si sviluppa può avvenire secondo tre modalità: 1. Combustione semplice o deflagrazione 2. Esplosione 3. Detonazione Abbiamo visto che la caratteristica fondamentale degli esplosivi è la loro elevatissima velocità di combustione già a pressione atmosferica. In un volume confinato al crescere della pressione ambiente l’incremento della velocità di combustione non avviene secondo una legge lineare ma è legato a curve di potenza superiore e ne consegue che la velocità di combustione si auto accelera in modo quasi parossistico con l’innalzamento della pressione. Queste peculiari proprietà di combustione vengono sfruttate nei due impieghi fondamentali delle sostanze esplosive: le mine e il lancio di un proiettile. In entrambi i casi provocando un intasamento della carica nelle mine o la resistenza opposta dal proiettile al suo forzamento nella canna, si ottengono gli effetti di violentissima rottura dei fornelli delle mine, con conseguente proiezione di schegge ad alta velocità, o il lancio di un proiettile. Ciò premesso diviene intuitivo comprendere le tre modalità di combustione sopra elencate. Nel primo caso con la combustione semplice in ambiente atmosferico, e quindi in assenza di intasamento, non si hanno incrementi parossistici della velocità di combustione tipica dell’esplosivo che si è incendiato, gli effetti calorici sono ridotti e non si hanno trasformazioni in energia meccanica. L’esplosione avviene quando la carica è intasata o se l’esplosivo possiede di per se una elevatissima velocità di combustione. In questo caso gli effetti meccanici possono essere anche violenti e si determina un forte rumore di scoppio. La detonazione si ottiene quando l’accensione iniziale è particolarmente energica o l’esplosivo è dotato per le sue caratteristiche fisico chimiche di una velocità di accensione estremamente rapida. A quest’ultima classe di esplosivi appartengono le miscele d’innesco che, come più avanti vedremo in dettaglio, sono anche dotate di una particolare sensibilità allo sfregamento ed alla percussione.
GLI ESPLOSIVI E LE POLVERI DA LANCIO
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2. L’esplosione nelle armi. Tornando agli esplosivi impiegati per le cariche di lancio osserviamo che i gas che si producono a seguito della loro combustione sono confinati all’interno del bossolo, e quindi della camera di cartuccia, che è separata dall’ambiente esterno dal proiettile che a sua volta per essere lanciato dovrà superare le resistenze al moto opposte dal forzamento con cui si impegnerà nell’anima della canna. In un buon progetto d’arma si terrà quindi conto di tutti i fattori esposti e sfruttando le capacità di espansione dei gas, la velocità di combustione, gli attriti a cui soggiace il proiettile nell’attraversare la canna e il graduale aumento di volume dell’ambiente conseguente all’avanzamento del proiettile, cercando di ottenere il massimo rendimento possibile dalla trasformazione termodinamica. Nell’uso pratico per il caricamento delle cartucce si impiegano polveri che possono essere suddivise in tre gruppi principali a seconda della miscela di esplosivi base da cui sono composte: 1. polveri monobasiche: a base di nitrocellulosa, non contengono nitroglicerina. 2. polveri bibasiche (doppie basi): contengono una percentuale di circa il 50% di nitrocellulosa e il 48% di nitroglicerina. 3. polveri bibasiche attenuate: contengono fino al 20/25% di nitroglicerina. Nel caricamento delle cartucce, siano esse a bossolo metallico e proiettile unico che a bossolo sintetico e proiettile multiplo, la polvere da lancio è scelta in relazione al calibro ed al tipo di cartuccia in funzione alla velocità di incendiazione e di combustione e ad essa va accoppiato l’innesco più adatto a tali caratteristiche. La combustione di una polvere da lancio è isotropa, ovvero ogni grano brucia per strati successivi mantenendo fino al suo completamento la medesima forma inizialmente posseduta. Ne consegue che anche la morfologia della granitura gioca un ruolo importantissimo nella velocità di combustione e può essere progettata per esaltarla o attenuarla, anche indipendentemente dalla natura chimico-fisica dell’esplosivo base (o della miscela di esplosivi base) utilizzato.
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CAPITOLO I
In figura 1. sono rappresentate alcune delle forme più tipiche in cui vengono granite le moderne polveri da lancio.
Fig. 1 - 1. Sfere – 2.Sferoidi schiacciati – 3.Piastrine – 4. Dischetti – 5. Prismi – 6. Cordoncini (tipicamente Cordite) – 7. Cilindretti – 8. Cilindretti multicanalizzati – 9. Cilindretti tubolari
Fig. 2 - Due polveri commerciali. A sinistra Cheddite, a destra Rex
GLI ESPLOSIVI E LE POLVERI DA LANCIO
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Molti degli argomenti introdotti in questo capitolo saranno ripresi più avanti quando discuteremo la cartuccia e la formazione dei residui dello sparo. Una buona conoscenza delle polveri da lancio e degli esplosivi in genere è tuttavia necessaria a chi voglia dedicarsi professionalmente alle indagini sulle tracce di sparo.
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CAPITOLO II ELEMENTI DI TECNOLOGIA DELLE ARMI DA FUOCO
SOMMARIO: 1. L’invenzione della polvere nera ed il suo utilizzo nelle armi da fuoco avancarica. - 2. Evoluzione dei meccanismi di accensione. – 3. Lo sviluppo delle armi a retrocarica.. - 4.. Le armi lunghe: fucili carabine e semiautomatiche. -5. Le armi corte: revolvers e pistole semiautomatiche. 6. Le armi automatiche.
1. L’invenzione della polvere nera ed il suo utilizzo nelle armi da fuoco ad avancarica. La leggenda attribuisce a Kostantin Anklitzen l’invenzione della polvere nera ma è molto più probabile che in realtà egli introdusse nel mondo occidentale questo prodotto a quell’epoca già noto in Cina dove lo si utilizzava prevalentemente per il confezionamento degli artifizi. L’Anklitzen, più noto con il nome di Berthold Schwarz che assunse prendendo i voti monastici, è ritenuto essere stato il primo europeo ad aver sperimentato ed utilizzato la polvere da sparo. Nel periodo che va dal 1313 al 1353, il monaco avrebbe condotto le sperimentazioni che gli consentirono di mettere a punto il propellente nel monastero di Friburgo, ma non si possiede alcun documento certo poiché gli archivi del monastero andarono irrimediabilmente distrutti. Alcuni ritengono che abbia costruito o sviluppato le prime armi da fuoco, cannoni e forse anche pistole. La tradizione vorrebbe che la sua morte fu causata da una esplosione accidentale verificatasi nel corso di un esperimento. La leggenda di Berthold Schwarz è talmente radicata in Germania che nel 1853 fu eretto un monumento in suo onore a Friburgo. Queste tesi non sono accettate da tutti gli storici, infatti altre fonti, anticipano i primi esperimenti europei di alcuni anni attribuendoli a Ruggero Bacone. Quel che è certo è che disponibilità di un propellente, facilmente producibile ed impiegabile, come la polvere nera consentì lo sviluppo delle prime armi da fuoco anche in Europa. Il principio di funzionamento delle armi da fuoco, che come abbiamo visto sono vere e proprie macchine termiche, è basato sullo sfruttamento dell’energia prodotta dall’enorme quantità di gas ad ele-
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CAPITOLO II
vatissima temperatura sviluppati da particolari sostanze esplosive durante la loro rapida combustione detta, appunto, esplosione. L’energia prodotta è utilizzata per lanciare a distanza un agente balistico offensivo detto proiettile. Quasi certamente il primo impiego fu effettuato in bocche da fuoco di grosso calibro e solo successivamente si passò ad armi leggere portatili quali i fucili e le pistole. L’evoluzione delle prime armi ad avancarica è stata fortemente condizionata dal perfezionamento dei sistemi di accensione della carica di lancio.
2. Evoluzione dei meccanismi di accensione. Non tratteremo in dettaglio l’evolversi dei sistemi di accensione e ci limiteremo a ricordare che dal più arcaico dei dispositivi succedutisi, la miccia, si è passati alla serpentina, alla ruota e poi alla pietra focaia, evolutasi successivamente nel sistema a luminello che, impiegando per l’accensione della carica di lancio una capsula metallica contenente una miscela di innesco sensibile alla percussione. Questo meccanismo di accensione rappresenta il dispositivo più vicino a quelli oggi utilizzati nelle cartucce per le armi a retrocarica. In figura 3 è rappresentata schematicamente una batteria a pietra.
Fig. 3 - Schema di acciarino a pietra focaia
ELEMENTI DI TECNOLOGIA DELLE ARMI DA FUOCO
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Nei tipi più comuni i principali elementi di questi acciarini erano: •
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Il Cane: ha una forma ad “S” e trattiene, fra le mascelle o ganasce, foderate dal coietto (di cuoio, o di panno), una scheggia di pietra focaia. Termina nella sua parte superiore con una appendice detta cresta o codetta. Facendo forza su questa con il pollice e tirando indietro lo si arma, facendolo ruotare sulla vite-perno, detta bottone. Nella parte superiore, detta gancetto, sono ricavate delle tacche che servono per fermarlo durante la rotazione sul perno a mezza tacca (posizione di sicurezza) o a tutta tacca (posizione di sparo). La Cartella è una piastra di ferro incassata nel legno del calcio e fissata ad esso con viti, sulla quale sono montati i congegni di armamento e scatto che compongono l’acciarino. Nella parte anteriore della cartella è presente il bacinetto, una sorta di scodellino, destinato a contenere una piccola dose di polvere nera in granitura finissima, ed è coperto a sua volta dalla martellina, su cui va a battere la pietra focaia. La Martellina, realizzata in acciaio temperato ripiegata a squadra, percossa dalla pietra focaia produce scintille ed una volta rovesciatasi permette alle scintille di raggiungere la polvere d’innesco che si incendia ed il fuoco così generato si trasmette attraverso il focone alla carica di lancio. Il Mollone è una lamina d’acciaio ripiegata a V e serve ad imprimere il movimento al cane. La Noce, elemento interno dell'acciarino, è realizzata in guisa di settore di cerchio ed è connessa al mollone, Lo Scatto, e quindi lo sparo si ha tirando il grilletto, la cui coda sporge sotto la cassa dell'arma, mentre la parte rimanente del congegno, che rimane all’interno, è deputata a rilasciare l’arpionismo che mantiene il cane in armamento consentendogli di abbattersi sotto l’azione del mollone e colpire violentemente la martellina.
In questo tipo di acciarino il cane (1), che regge la pietra (2) stretta fra le mascelle o ganasce, portato in armamento comprime il mollone ed è trattenuto in tale posizione intercettato da un elemento detto stanghetta.
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CAPITOLO II
Premendo il grilletto (4), il cane spinto dal mollone scatta violentemente colpendo la martellina (3) facendo si che questa, ruotando in avanti, metta allo scoperto il bacinetto (5) che contiene la polvere di accensione. Nel contempo l'urto sulla martellina produce scintille che incendiano la carica di innesco che comunica il fuoco, attraverso un foro detto focone, alla carica di lancio contenuta nella camera di scoppio. L’acciarino a pietra è probabilmente entrato in uso intorno alla metà del XVI secolo, alcuni contratti di acquisto giunti fino a noi confermerebbero tale datazione, tuttavia l'introduzione della piastra a pietra focaia nelle armi da guerra, specialmente della fanteria, risalirebbe alla fine del XVII secolo. Questo sistema, che rappresenta certamente un buon perfezionamento rispetto ai più vecchi sistemi di accensione, rimane in uso fino a circa la metà del XIX secolo. Il dispositivo non era scevro da difetti presentando alcuni limiti intrinseci consistenti nella non infrequente possibilità che l’umidità penetrando nel bacinetto impedisse l’accensione della polvere o che la pietra, a causa di allentamenti delle mascelle, si potesse spostare o rompere. Negli anni a cavallo fra il XVIII ed il XIX secolo si scoprirono composti esplosivi attivabili mediante percussione il cui possibile impiego nelle armi da fuoco apparve subito molto promettente. Intorno al 1805 il rev. John Forsyth mise a punto un primo meccanismo di accensione a percussione utilizzando un composto di clorato di potassio, zolfo e carbone contenuto in un piccolo serbatoio rotante posto sulla piastra dell’arma. Facendo ruotare questo serbatoio (che fu subito detto boccetta di profumo) si faceva cadere una piccola dose del composto su di un dispositivo connesso alla camera di scoppio che, colpito dal cane, esplodeva causando l’accensione della carica di lancio. Il principio di funzionamento dell’acciarino a percussione era stato trovato ma il sistema era poco sicuro a causa della possibilità che il serbatoio, non sufficientemente protetto, potesse esplodere a sua volta. Il sistema Forsyth fu definitivamente abbandonato con l’invenzione della capsula di innesco, databile fra il 1816 ed il 1818, la cui attribuzione è incerta (alcuni AA. la attribuiscono a Joshua Shaw ed altri ad Eggs). Furono sperimentati nuovi composti attivi sensibili alla percussione e, probabilmente, il primo di questi studiato fu il fulminato di mercurio a cui si aggiunsero successivamente l’azotidrato di piombo e lo stifnato di piombo.
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Un piccolo quantitativo di miscela sensibile alla percussione fu posta all’interno di una capsula, in rame, ottone od altre leghe sufficientemente duttili, inseribile su di una appendice pervia comunicante con la camera a polvere dell’arma e percuotibile dal cane in battuta. Nella figura 4, che segue, è rappresentata schematicamente una batteria a percussione il cui funzionamento, salvo che per l’elemento di incendiazione, è del tutto simile a quella a pietra precedentemente descritta.
Fig. 4 Sopra esterno: 1. Piastra o cartella, 2. Cane, 3. Luminello, 4. Sede del Luminello, 6. Capsula. Sotto interno: 3. Noce, 4. Mollone, 5. Stanghetta, 6. Molla stanghetta Armando il cane la noce ruota e la stanghetta, spinta dalla sua molla, si impegna nella tacca di mezza monta od in quella di armamento a seconda dell’arco di rotazione voluto. Esercitando col dito una pressione sul grilletto la tavola di questo entra in contatto con l’appendice posteriore della stanghetta che ruota sul suo perno disimpegnando la noce e quindi liberando il cane che, spinto dal mollone si abbatte sulla capsula schiacciando violentemente la miscela di innesco in essa contenuta che esplode producendo un dardo incendivo che, attraverso il luminello, raggiunge la carica di lancio contenuta nella camera a polvere accendendola e quindi determinando lo sparo dell’arma.
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CAPITOLO II
L’introduzione del sistema di accensione a percussione della capsula su luminello permise ulteriori evoluzioni e perfezionamenti delle armi ad avancarica. Furono progettati i primi revolvers ad avancarica del tamburo, i più famosi li produssero Smith & Wesson, Remington e Colt ed ebbero enorme diffusione negli Stati Uniti che in quell’epoca videro una forte emigrazione interna finalizzata alla colonizzazione dei territori dell’ovest. Anche le armi lunghe beneficiarono del nuovo sistema che consentiva una maggior rapidità di fuoco grazie alla riduzione dei tempi di ricarica. Con l’introduzione della percussione si ebbe una notevole accelerazione nell’evoluzione della tecnologia armiera che, in breve, giunse alla produzione delle armi a retrocarica ed allo sviluppo delle armi lunghe a ripetizione semplice con otturatore girevole scorrevole o con azione a leva prodotte da Winchester e Marlin. Queste innovazioni furono possibili grazie agli inneschi a percussione che permisero la realizzazione delle cartucce, ovvero di un munizionamento pronto all’impiego che comprende in se il proiettile, la carica di lancio e l’innesco, elementi questi che nelle precedenti armi ad avancarica dovevano essere ad ogni colpo inseriti separatamente nell’arma.
3. Lo sviluppo delle armi a retrocarica. La scoperta delle miscele di innesco sensibili alla percussione ha consentito il passaggio dalla tecnologia ad avancarica a quella a retrocarica. Nella seconda metà del XIX secolo si iniziò la produzione di cartucce contenenti una carica di lancio in polvere nera ed inneschi a base di miscele sensibili alla percussione. Le cartucce a percussione anulare contenevano la miscela di innesco nel collarino alla base del bossolo, quelle a percussione centrale erano invece dotate di una capsula posta al centro del fondello che poteva contenere un elemento di contrasto al percussore detto incudine (inneschi di tipo Boxer) oppure esserne prive ed in questo secondo caso l’incudine era ricavata nel bossolo(inneschi tipo Berdan). Le armi da fuoco a retrocarica consentono il cameramento diretto della cartuccia che può essere inserita nella parte posteriore della canna in cui è ricavato un apposito alloggiamento detto camera di cartuccia che sostituisce la camera a polvere presente nelle canne ad avancarica.
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Nelle armi a retrocarica è necessario rendere accessibile la camera di cartuccia per poterne effettuare il caricamento e ciò comporta necessariamente un sistema di chiusura in grado di resistere alle notevoli pressioni esercitate dai gas che si producono durante lo sparo della cartuccia. Nei paragrafi successivi esamineremo i vari congegni di chiusura, armamento, percussione, estrazione ed eventuale espulsione dopo lo sparo dei bossoli spenti e gli automatismi di cui sono eventualmente dotate le armi che possono essere a colpo singolo, a ripetizione semplice, a ripetizione semiautomatica ed a ripetizione automatica. In ognuna delle tipologie descritte al momento dello sparo si diffondono nell’intorno dell’arma i gas ed anche prodotti solidi generati dalla combustione dell’innesco e della carica lancio. In relazione alla tipologia dell’arma, e quindi anche della sua geometria, le modalità di diffusione nell’ambiente circostante delle tracce di sparo può variare anche di molto e di ciò si dovrà tener conto nel corso della loro ricerca e successiva valutazione.
4. Le armi lunghe: fucili carabine e semiautomatiche. La prima delle tipologie che esamineremo riguarda le armi che per il loro specifico impiego sono maggiormente diffuse: i fucili da caccia con una o più canne ad anima liscia basculanti od avanzanti. In queste armi l’apertura si ottiene basculando la canna, o le canne, facendole ruotare sul perno di bascula o facendole avanzare, come nel caso della chiusura Darne.
Fig. 5
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CAPITOLO II
La figura 5 mostra una classica doppietta hammerless (batterie a cani interni) basculate in apertura, si noti il meccanismo di estrazione protruso all’indietro rispetto alle due camere corrispondenti.
Fig. 6 In figura 6 si può osservare una doppietta realizzata con il sistema di chiusura Darne a canne scorrevoli, anche in questo caso si notano gli estrattori protratti all’indietro. In figura 7 è mostrato un sovrapposto in apertura. Gli estrattori, protrusi all’indietro, collocati fra le due canne, sono ben visibili.
Fig. 7
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Il dato di interesse per la ricerca delle tracce di sparo in relazione a queste tipologie d’arma è che la chiusura garantisce la totale assenza di fuoriuscite di gas e di particolati dalla parte della culatta e che le emissioni si hanno esclusivamente dalle volate delle canne, ovvero ad una distanza non trascurabile dalle mani e dal corpo di chi spara. Ricordiamo infine che esistono armi lunghe basculanti sia a canne giustapposte che a canne sovrapposte con anima rigata. Si tratta di armi meno diffuse, denominate express e camerate in calibri con grande potere di arresto. Questi fucili sono utilizzati per la caccia ai grandi selvatici africani ed asiatici. Vi sono inoltre fucili basculanti per le cacce alpine europee in configurazione simile a quella degli express ma camerati per calibri molto meno esasperati, in versioni monocanna (kipplaufbuchse) o con canne accoppiate, lisce e rigate, detti billing e drilling.. Per le armi di questo tipo ai fini della ricerca delle tracce di sparo valgono le medesime considerazioni esposte per quelle con canne ad anima liscia. Le armi lunghe a ripetizione semplice sono in genere i fucili e le carabine con otturatore girevole-scorrevole costituito da un cilindro, azionabile mediante apposita leva detta manubrio, che contiene il meccanismo di percussione e reca al suo esterno un’unghia estrattrice e, alla estremità anteriore, delle appendici, dette tenoni, che portando l’arma in chiusura, si impegnano in appositi recessi ricavati nella parte interna della culatta, prima della camera di cartuccia, garantendo così la tenuta durante lo sparo. Queste armi, ex ordinanze militari o moderne carabine da caccia, sono piuttosto diffuse e camerate per svariati calibri. Quasi sempre si tratta di armi dotate di serbatoio, fisso o mobile, che permette lo sparo di un certo numero di colpi, ma qualche modello più antiquato può essere sprovvisto del serbatoio per cui dopo aver sparato un colpo è necessario reintrodurre manualmente in camera una nuova cartuccia. Nelle figure 8, 9 e 10 è rappresentata in dettaglio una arma tipica di questa classe.
Fig. 8 - Fucile Mauser mod. K98
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Fig. 9 - Fucile Mauser mod. K98 – azione chiusa
Fig. 10 - Fucile Mauser mod. K98 – azione aperta Nella categoria delle armi a ripetizione semplice o manuale rientrano anche i fucili e le carabine a leva. Le più note furono prodotte dalla Winchester e dalla Marlin e vennero largamente impiegate per
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tutti gli usi possibili durante la conquista del West americano giungendo fino ai nostri giorni. Queste armi sono dotate di un serbatoio tubolare alloggiato al di sotto della canna che può essere caricato attraverso un’apertura posta sul lato destro della cassa e protetta da uno sportellino a molla. Il guardamano di queste armi è piuttosto esteso e diviso in due parti delle quali la prima funge da para grilletto ed in essa si infila l’indice della mano che impugna il calcio, la parte posteriore ha la forma di una grossa asola nella quale si inseriscono il medio, l’anulare ed il mignolo della stessa mano. Dopo aver sparato è possibile riarmare l’arma spingendo la leva guardamano verso il basso con il dorso delle dita inserite nell’asola. Così facendo la leva guardamano ruoterà attorno all’asse su cui è imperniata e con questo movimento una sua appendice interna alla cassa disimpegna prima il chiavistello di chiusura dell’otturatore al quale imprime poi il moto di scorrimento all’indietro. Durante la corsa retrograda l’otturatore provvede ad estrarre ed espellere il bossolo spento riarmando infine il cane. Riportando la leva guardamano nella iniziale posizione di chiusura l’otturatore scorre in avanti intercettando il fondello di una nuova cartuccia che sospinge in camera. Nell’ultimo tratto della corsa in chiusura l’appendice interna della leva guardamano provvede a porre in chiusura il chiavistello, assicurando così la tenuta dell’otturatore per lo sparo successivo. Anche in queste armi un’aliquota di tracce di sparo si disperderà nell’ambiente circostante venendo fuori dalla finestra di espulsione o perché veicolate dal bossolo spento.
Fig. 11 - Carabina a leva Winchester mod. 73
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CAPITOLO II
Fig. 12 - Il semplice meccanismo dell’azione Winchester in apertura
Alle armi da caccia con canna ad anima liscia appartengono anche i fucili a ripetizione semiautomatica. Queste armi sono dotate di un serbatoio che può accogliere cinque o più cartucce e di un sistema di ripetizione che, nei progetti più datati, sfrutta l’energia del rinculo che si determina a seguito dello sparo. Nelle armi di progetto più moderno per ottenere l’automatismo si utilizza l’energia degli stessi gas di sparo recuperandoli, in parte, attraverso una presa che, opportunamente posizionata sulla canna, è in comunicazione con un cilindro all’interno del quale scorre uno stantuffo che spinto dai gas aziona il cinematismo di riarmo dopo ogni colpo.
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In queste armi le tracce di sparo, che comunque escono soprattutto dalla volata, in parte vengono veicolate verso l’esterno anche attraverso la finestra di espulsione dalla quale, dopo ogni colpo, vengono proiettati i bossoli spenti nell’ambiente circostante. Pertanto colui che imbraccia l’arma al momento dello sparo si trova sempre ad una notevole distanza dalla fonte principale ma nel contempo la impugna in prossimità della finestra di espulsione, fonte secondaria ma non trascurabile di tracce di sparo. I sistemi di semiautomatismo presenti nei fucili da caccia con canne ad anima liscia sono adottati anche nelle armi con canne rigate destinate alla caccia ed in quelle ad uso militare. Anche per queste ultime, ovviamente, valgono le medesime considerazioni dianzi esposte.
Fig. 13 - Fucile semiautomatico con canna ad anima liscia Franchi
Fig. 14 - Fucile semiautomatico con canna rigata Browning BAR
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CAPITOLO II
5. Le armi corte: revolvers e pistole semiautomatiche. Samuel Colt nel 1836 brevettò e produsse uno dei primi revolvers, il modello “Paterson”. L’arma era ad avancarica del cilindro (o tamburo) e l’accensione delle cariche di lancio era assicurata dalle capsule a percussione che avevano raggiunto una certa affidabilità. A questo primo prodotto seguirono presto altri modelli che godettero di ottimo successo commerciale e grande diffusione come la Colt Navy. L’impresa di Samuel Colt in breve tempo si affermò per la grande affidabilità e qualità dei suoi prodotti ormai venduti in tutto il mondo, e le sue aziende conquistarono la posizione di leader di settore che ancor oggi conservano. anche se altri produttori, quali Smith & Wesson e Remington avevano iniziato la produzione di armi simili già da prima. Nel 1873 Colt brevettò ed iniziò a produrre il mod. 1873 che, anche se Smith & Wesson aveva già da qualche tempo in produzione un proprio revolver a retrocarica, si diffuse in tutto il territorio degli States conquistando buona parte dell’intero mercato. Il tamburo, nel quale si erano ricavate sei camere, veniva caricato inserendo le cartucce dalla parte posteriore ed il tamburo ruotava armando il cane manualmente e l’arco descritto ad ogni rotazione era perfettamente in sincrono con l’allineamento fra ogni camera del tamburo e la canna. Un dispositivo di sicurezza automatico faceva si che il percussore potesse raggiungere la capsula di innesco di ciascuna cartuccia solo con il grilletto completamente retratto. Tale dispositivo evitava che l’arma potesse sparare accidentalmente in caso di cadute od urti. L’azione di questi primi revolvers richiedeva dunque che si armasse il cane per caricarne la molla e per ottenere, dopo ogni sparo, l’allineamento della camera contenente una nuova cartuccia; tale meccanismo fu definito a singola azione. Pochi anni più tardi si perfezionò il sistema e videro la luce i primi revolvers a doppia azione nei quali il grilletto svolgeva la doppia funzione di armare il cane nella prima parte della sua corsa e di rilasciarlo nel breve tratto restante. Caratteristica peculiare dei revolvers è il c.d gap, ovvero una ineliminabile distanza, sia pur brevissima, fra l’invito della canna ed il cilindro. Ciò causa una non trascurabile fuoriuscita di gas durante lo sparo. Per questa particolarità i revolvers sono le armi che potenzialmente rilasciano su chi li impugna al momento dello sparo il maggior quantitativo di residui.
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Fig. 15 - Vista esplosa di un revolver S & W mod. 19 Combat Magnum
Fig. 16 - Revolver Smith & Wesson mod. 29 cal. 44 S&W Magnum
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CAPITOLO II
Nelle due immagini che seguono, ottenute mediante fotografia stroboscopica, si può osservare lo sparo di un revolver Smith & Wesson mod. 686 cal. .357 Magnum. Nella fig. 17 si è sparata una cartuccia cal, 38 Spl P plus nella successiva fig. 18 si è sparata una cartuccia .357 Magnum. Le due immagini mostrano chiaramente le massive emissioni di gas, e quindi di GSR, che fuoriescono sia dalla bocca dell’arma sia dal gap fra cilindro e canna. Le due emissioni ovviamente differiscono nelle intensità in funzione del calibro delle cartucce sparate.
Fig. 17 - Revolver S & W mod. 686 cartuccia cal. .38 Spl +P
Fig. 18 - Revolver S & W mod. 686 cartuccia cal. .357 Mag Sono ben evidenti le fughe di gas veicolanti GSR in corrispondenza della soluzione di continuo fra cilindro e canna, lungo direzioni tali da interessare certamente la mano che impugna l’arma.
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Come già accennato per le armi lunghe nelle pistole semiautomatiche l’energia necessaria ad attivare il sistema di ripetizione è fornita dal rinculo conseguente allo sparo che viene utilizzata per far arretrare il carrello-otturatore che nella sua corsa retrograda espelle il bossolo vuoto, riarma il cane o il percussore, preleva una nuova cartuccia dal caricatore e la introduce in camera. Allo stato attuale dell’arte non vi sono grosse differenze di funzionamento fra le varie pistole semiautomatiche in commercio, tuttavia forse è bene ricordare i due più diffusi sistemi di chiusura in uso. Il primo, che è anche il più semplice, è utilizzato per i calibri meno esasperati (i più diffusi sono il 6,35 mm, il 7,65 mm ed il 9 mm Browning), prevede che il carrello otturatore stia in posizione di chiusura grazie alla spinta del mollone di recupero. Questo sistema è detto anche a chiusura labile. Per calibri che sviluppano pressioni più elevate sono stati ideati numerosi sistemi di chiusura geometrica nei quali l’elemento meccanico che mantiene l’otturatore in chiusura si disimpegna dopo lo sparo sfruttando un primo tratto in cui canna e carrello arretrano simultaneamente. La Walther fu fra le prime fabbriche che introdussero la doppia azione nelle armi semiautomatiche. La gran parte delle armi oggi prodotte sono dotate di tale dispositivo che consente di sparare il primo colpo senza dover prima armare il cane ma semplicemente tirando il grilletto che nella prima parte della sua corsa provvede a tale bisogna e successivamente, nell’ultimo tratto, rilascia il cane che si abbatte in percussione. In relazione al rilascio delle tracce di sparo le semiautomatiche, in genere, proiettano i residui di combustione verso l’avanti e sulla destra e ciò perché la finestra di espulsione è orientata verso quel lato ed il bossolo spento è sempre espulso lievemente verso l’alto ed a destra in avanti.
Fig. 19 - Semiautomatica Walther mod. PPK cal. 7,65 mm Br.
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Fig. 20 - Pistola semiautomatica Beretta mod. 92 SB cal. 9 mm NATO
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Nell’immagine sottostante sono ben visibili le emissioni di gas generate dallo sparo di una pistola semiautomatica Beretta cal. .380 ACP (9 mm. corto). Le emissioni maggiori si hanno dalla bocca dell’arma e sono molto più ridotte di quelle che si hanno da un revolver.
Fig. 21 - Pistola semiautomatica Beretta serie 80 cal. 9 mm. corto
6. Le armi automatiche. La caratteristica fondamentale delle armi automatiche è che sono in grado di sparare sia una successione continua di colpi sia a colpo singolo con riarmo semiautomatico a seconda di come intervenga un dispositivo detto disconnettore azionato mediante una levetta esterna detta selettore di tiro. Salvo che per tale dispositivo che consente il tiro a raffica le armi automatiche non differiscono molto da quelle semiautomatiche. Di norma queste armi sono considerate da guerra in quanto dotazione militare o per uso di polizia. Possono essere divise in due gruppi al primo dei quali possono essere ascritte le piccole mitragliette che sparano ad otturatore aperto sul quale è ricavato un percussore fisso, ovvero con otturatore, detto anche massa battente, tenuto in chiusura solo dal mollone. Sono in grado di sparare a raffica od a colpo singolo anche i fucili d’assalto. In queste armi il selettore di tiro spesso ha anche una posizione che consente di far fuoco a piccole raffiche di tre colpi oltre che il fuoco continuo e quello semiautomatico. Queste armi in genere sono dotate di percussore mobile e di un automatismo a recupero di gas.
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Ai fini della ricerca delle tracce di sparo per queste armi valgono le medesime considerazioni esposte per i fucili e le pistole semiautomatiche.
Fig. 22 - Fucile d’assalto Beretta mod. AR 70/223 cal. 5,56 x 45 NATO
Fig. 23 - Pistola mitragliatrice Beretta PM 12 cal. 9 mm NATO
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Con questo capitolo si è voluto avvertire il lettore che dal tipo di arma impiegata può, a volte crucialmente, dipendere la dispersione nell’ambiente circostante delle tracce di sparo. sia dal punto di vista quantitativo che da quello topografico e, pertanto, nello studio di un caso non si deve mai trascurare, qualora non si sia in possesso delle armi utilizzate, di esaminare i reperti balistici disponibili e possibilmente individuare la classe d’arma che li ha sparati. Poiché lo scopo di questo capitolo era solo quello di fornire le prime nozioni fondamentali di tecnologia delle armi da fuoco, suggeriamo a chi volesse dedicarsi professionalmente alla ricerca delle tracce di sparo, di procurarsi una buona conoscenza dell’argomento.
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CAPITOLO III GLI INNESCHI E LA CARTUCCIA SOMMARIO: 1. Le cartucce. - 2. Il bossolo. - 3. Il proiettile. - 4. Gli inneschi. - 5. La cartuccia da caccia a proiettili multipli.
1. Le cartucce. In questo paragrafo tratteremo le cartucce con bossolo metallico e proiettile unico destinate all’impiego su armi con canna ad anima rigata sia lunghe che corte. Nell’ultimo paragrafo di questo capitolo svolgeremo una disamina delle cartucce da caccia per fucili con canne ad anima liscia allestite sia con palla unica che con proiettili multipli. La figura sottostante è l’immagine pittorica di una cartuccia a percussione centrale per pistola semiautomatica sezionata.
Fig. 24 - Sezione di una cartuccia per pistola semiautomatica
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Fig. 25 - Sezione di una cartuccia a percussione anulare cal. .22 L.R. In questa tipologia di cartucce la miscela di innesco non è contenuta in una capsula posta al centro del fondello ma è posta all’interno del collarino lungo l’intera circonferenza di esso. Il percussore colpisce in una qualunque posizione la corona periferica del collarino facendo deflagrare la carica di innesco.
2. Il bossolo. Il bossolo metallico è l’elemento principale su cui sono assemblate tutte le altre parti. Generalmente è realizzato in ottone ma sono state impiegate, specie in passato, anche altre leghe o metalli. Il bossolo durante lo sparo aderisce perfettamente alla camera di cartuccia garantendo, al crescere della pressione, la perfetta tenuta dei gas all’indietro verso la superficie di otturazione. Al centro del suo fondello, nel caso di percussione centrale, è ricavata la sede della capsula di innesco che comunica con l’interno del bossolo mediante un foro detto focone. Attraverso questo canale il dardo incendivo, prodotto dalla deflagrazione dell’innesco, raggiunge la carica di lancio che esplode sparando il proiettile.
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3. Il proiettile. Il proiettile è inserito nel colletto del bossolo e fissato mediante crimpatura per evitare che possa muoversi sia durante il trasporto dell’arma carica sia durante lo scuotimento ingenerato dai colpi precedenti. La tipologia più comune è quella cilindrica-ogivale con nucleo in piombo rivestito da un lamierino più o meno sottile che in funzione del suo spessore può essere una semplice camicia o una vera e propria blindatura. L’immagine qui di seguito riprodotta mostra un proiettile blindato calibro 9 mm x 19 NATO e la sua sezione.
Fig. 26 Si noti il notevole spessore della blindatura in ottone che in corrispondenza dell’apice ogivale è ancora maggiore.
4. Gli inneschi. Fra i componenti che costituiscono la cartuccia l’innesco è forse il più critico. Deve essere sufficientemente affidabile e garantire per lungo tempo l’accensione della carica di lancio anche in condizioni ambientali estreme. Oggi sono state abbandonate molte delle miscele in uso nel passato, particolarmente aggressive per i metalli, ed i produttori tendono anche ad eliminare dalle composizioni i sali contenenti metalli pesanti particolarmente nocivi per la salute e l’ambiente.
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La fabbricazione degli inneschi comporta poi notevoli rischi lavorativi per la particolare sensibilità allo sfregamento ed all’urto delle materie esplodenti in essi impiegati. Nella realizzazione e nel miglioramento degli inneschi e delle miscele in essi utilizzati i produttori impegnano notevoli risorse economiche, ed è quindi comprensibile che siano fortemente restii a fornire informazioni sulle formulazioni adottate, informazioni ovviamente preziose per coloro che si dedicano professionalmente alla ricerca delle tracce di sparo. Le capsule di innesco utilizzate nelle cartucce a percussione centrale possono essere di due tipi: Berdan e Boxer, dal nome dei rispettivi inventori Hiram Berdan brevettò gli inneschi da lui ideati nel marzo del 1866. L’innesco Berdan nella prima versione era realizzato con una piccola capsula in rame all’interno della quale è posta la miscela esplosiva. La capsula, in fase di allestimento, viene inserita nell’apposita sede ricavata sul fondello del bossolo. Questa sede al centro presenta una protuberanza, simile ad una colonnina, detta incudine contro cui il percussore schiaccia la miscela di innesco provocandone la deflagrazione. Sul fondo della sede dell’innesco sono ricavati tre fori attraverso i quali si trasmette la vampa d’accensione alla carica di lancio contenuta nel bossolo. Nel settembre del 1869 Berdan deposita un nuovo brevetto dei suoi inneschi che ora vengono realizzati in ottone.
Fig. 27 - Sezione di un innesco Berdan inserito nella sua sede
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Gli inneschi Berdan, oggi poco diffusi, sono stati impiegati soprattutto per il confezionamento del munizionamento militare, anche per scoraggiarne la ricarica, visto che sostituire un innesco di questo tipo è piuttosto laborioso enecessita di una speciale attrezzatura. Il secondo tipo di innesco, che oggi apparecchia quasi tutte le cartucce prodotte, detto Boxer, dal nome del suo inventore Edward M. Boxer, del Royal Arsenal, Woolwich, Inghilterra. Boxer brevetta il suo innesco in Inghilterra nell’ottobre del 1866 e successivamente, nel giugno del 1869, anche negli USA. Gli inneschi Boxer sono molto simili ai Berdan e differiscono da questi per un solo particolare di non poco conto: l’incudine non è più ricavata dal bossolo ma è contenuta all’interno della capsula. Ciò fa dell’innesco Boxer un apparecchio di accensione completo facilmente collocabile nella sede del bossolo ed altrettanto facilmente sostituibile in caso di ricarica.
Fig. 28 - Sezione di un innesco Boxer inserito nella sua sede
Ben visibile la novità introdotta rispetto agli inneschi Berdan: l'incudine è stata integrata alla capsula in cui è interamente contenuta ed opportunamente fissata.
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CAPITOLO III
5. La cartuccia da caccia per armi con canna ad anima liscia. Nelle armi da caccia con canne ad anima liscia si sparano normalmente cartucce a munizionamento spezzato, ovvero pallini o pallettoni. La figura seguente mostra la sezione di una cartuccia a pallini.
Fig. 29 - Sezione di una cartuccia a pallini. Come abbiamo precedentemente visto nelle cartucce per armi a canna rigata l’intasamento della carica di lancio, condizione necessaria per ottenere il miglior rendimento termodinamico dall’esplosione della carica di lancio, è garantita dalla resistenza che la canna oppone all’avanzamento del proiettile che, aderendo all’anima, impedisce che i gas lo sopravanzino e quindi sfruttando al massimo la potenza da questi sviluppata. Nel caso della cartuccia a pallini, essendo il proiettile costituito appunto da svariati piccoli elementi che per ovvi motivi geometrici non potrebbero trattenere i gas, l’intasamento della carica di lancio è garantita dalla borra, elemento cilindrico di diametro tale da realizzare la giusta tenuta dei gas retrostanti trasmettendo alla carica di pallini la spinta dei gas.
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Sono anche abbastanza diffuse, per particolari usi venatori o per difesa, cartucce allestite con proiettile unico in piombo di calibro tale da impedire forzamenti pericolosi nell’attraversamento di una canna ad anima liscia. Anche in questo tipo di allestimento le funzioni di tenuta dei gas sono demandate alla borra, quasi sempre fissata alla base della palla.
Fig. 30 - Cartuccia cal. 12 allestita con palla tipo Brenneke
Dalla descrizione, sia pur sommaria, dei vari tipi di munizioni per armi corte e lunghe, emerge evidente che i singoli elementi che costituiscono una cartuccia sono realizzati con metalli o leghe metalliche esposte alle condizioni termodinamiche dello sparo.
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Ciò fa si che nella formazione delle tracce di sparo, e più avanti affronteremo in dettaglio questo argomento, possano intervenire oltre che gli elementi contenuti nella miscela di innesco anche quelli presenti nella lega del bossolo e del proiettile. È evidente che di tale aspetto si dovrà tener conto nel valutare la composizione di eventuali particelle sospette, poiché la presenza di qualsiasi elemento, ancorché ammesso in un GSR, deve essere compatibile con il complesso arma-cartuccia su cui si indaga.
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CAPITOLO IV LA NASCITA DEL METODO ED I PRIMI PROTOCOLLI SOMMARIO: 1. Nota introduttiva. - 2. Alcune notizie storiche sulle metodiche in uso prima dell’introduzione della ricerca mediante SEM/EDX. - 3. I test colorimetrici e la bulk analysis. - 4. L’analisi particellare mediante SEM/EDX. - 5. L’evoluzione nella ricerca delle tracce di sparo.
1. Nota introduttiva. Da oltre un trentennio la ricerca delle tracce di sparo è divenuta indagine, che purtroppo da più parti ci si ostina a ritenere normale attività routinaria di laboratorio, applicata in quasi tutti gli eventi criminosi in cui si è fatto uso di armi da fuoco. Nulla di più errato, come vedremo la ricerca delle tracce di sparo è una difficile attività scientifica che può essere svolta con il rigore necessario solo da pochi scienziati forensi specialisti del settore. Le cronache, e purtroppo anche la nostra esperienza diretta, ormai trentennale, sono piene di clamorosi equivoci causati da gravissimi errori di metodo ed interpretativi commessi da personale sprovvisto dei minimi requisiti culturali necessari per svolgere questa attività. Il metodo, che fu messo a punto e protocollato per la prima volta da Wolten e collaboratori nel 1978, non subì modifiche significative fino agli ultimi anni del secolo scorso quando, per una serie di evidenti incongruenze emerse nel corso di una perizia disposta dalla Corte di Assise di Roma il perito volle verificare alcune ipotesi interpretative che uno di noi, consulente della difesa, aveva proposto basandosi su informazioni ricevute alcuni anni prima da Robin Keeley, esperto di settore del Forensic Science Service di Londra. Le prime osservazioni, effettuate sia dal perito che dal consulente della difesa, imposero una ricerca, rivelatasi ormai assolutamente necessaria ed urgente, al fine di verificare se le classificazioni di Wolten, successivamente parzialmente modificate da Jim Wallace del NIRFSS di Belfast, fossero ancora attuali e valide. Fino a quel momento tutti gli esperti di settore operanti in ogni parte del mondo adottavano le classificazioni di Wolten e di Wallace per la tipizzazione delle tracce di sparo, noi compresi.
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Tuttavia la scuola italiana, composta da pochissimi elementi indipendenti, a differenza degli operatori istituzionali, considerava tutt’altro che conclusa la ricerca una volta ottenuto il risultato analitico, considerato elemento assolutamente necessario ma del tutto insufficiente per il raggiungimento dell’espressione di quello che il nostro codice di rito definisce parere tecnico scientificamente motivato. Il dato analitico bruto, anche se correttamente ottenuto, non rappresenta che una parte infinitesima dell’indagine che deve essere estesa in tutte le direzioni possibili tenendo nel dovuto conto le condizioni al contorno dell’evento indagato. Carlo Torre, per primo, ha definito le due fasi successive che devono essere percorse per giungere alla formulazione del parere conclusivo come segue:
1. Interpretazione di primo livello. Attività analitica che consente di rinvenire sui prelievi esaminati l’eventuale presenza di particolato che possa essere in qualche modo riferibile a delle vere tracce di sparo. 2. Interpretazione di secondo livello. Rivisitazione critica del dato analitico alla luce delle emergenze di indagine al fine di verificare la compatibilità del dato analitico stesso con tutti gli altri elementi direttamente od indirettamente collegati al caso in esame.
Come autori di questo lavoro ci prefiggiamo l’obbiettivo di fornire all’operatore tecnico gli elementi indispensabili, il più possibile aggiornati all’attuale stato dell’arte, per condurre una ricerca di tracce di sparo rispettando rigorosamente il metodo scientifico, ed a chi esercita le professioni giuridiche gli strumenti tecnici necessari a valutare l’attendibilità e la valenza probatoria di una perizia o consulenza che tratti di tali problemi. Prima di esporre sistematicamente gli argomenti che costituiscono il background culturale indispensabile per affrontare una ricerca delle tracce di sparo riteniamo utile offrire al lettore un breve riepilogo storico dell’evoluzione del metodo dalla sua prima formulazione ad oggi.
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2. Alcune notizie storiche sulle metodiche in uso prima dell’introduzione della ricerca mediante SEM/EDX. Il problema di trovare un indicatore dello sparo eventualmente depositatosi su chi ha fatto uso di un’arma, si pone fin dalla nascita dell’indagine criminalistica moderna e si evolve con l’evolversi delle scienze forensi. Riteniamo pertanto utile ricordare le varie metodiche sperimentate adottate prima del perfezionamento dei protocolli di ricerca mediante analisi SEM/EDX oggi adottati. 3. I test colorimetrici e la bulk analysis. Nel 1933, Teodoro Gonzales, del laboratorio di polizia scientifica di Città del Mexico, mise a punto ed introdusse un metodo universalmente noto come guanto di paraffina. La tecnica in oggetto prevedeva il prelievo sul dorso della mano dell’indiziato di un calco realizzato mediante colatura di paraffina calda. Dopo il raffreddamento, la paraffina veniva distaccata con inglobate le eventuali tracce di sparo presenti. Il calco successivamente irrorato con difenilammina, virava ad una colorazione blu scura in presenza di nitro-composti contenuti in particelle della carica di lancio, parzialmente combuste e non. Questo test, pur dando buone informazioni riguardo alla distribuzione delle particelle, era in realtà indicativo soltanto dell’eventuale presenza di nitrati e quindi aspecifico in quanto gli ossidanti che causano la reazione positiva sono largamente impiegati nei fertilizzanti, nei farmaceutici, negli smalti per le unghie, e perfino presenti nelle urine e sulle mani di persone che abbiano poco prima acceso un fiammifero. Il reagente di Griess, impiegato qualche tempo più tardi, dimostrò di essere leggermente più selettivo ma rimaneva sempre del tutto aspecifico. Nel 1959, Harrison e Gillroy misero a punto un semplice test per la rivelazione dell’eventuale presenza del piombo, del bario e dell’antimonio, contenuti nello stifnato di piombo, nel nitrato di bario e nel solfuro di antimonio costituenti delle più comuni miscele d’innesco. Per raccogliere le tracce di sparo dalle mani si introdusse l’uso di tamponi imbibiti con acido idrocloridrico diluito. Successivamente i tamponi, preventivamente essiccati, venivano trattati con ioduro di tri-
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fenilmetalarsonio, quindi, dopo ulteriore essiccazione, veniva aggiunta una soluzione di rodizonato di sodio. Il primo reagente, in presenza di antimonio, produce macchie arancioni. Il secondo da una colorazione rossa in presenza di piombo o bario e, dopo l’aggiunta di acido idrocloridrico, le macchie tornano porpora per la presenza del piombo. Questa metodica, rispetto al test di Gonzales, presentava il non trascurabile vantaggio di una più bassa incidenza di falsi positivi. Nel 1962, Ruch et Coll. presentarono al meeting della California Association of Criminalist un lavoro con cui suggerivano l’utilizzo dell’analisi ad attivazione neutronica, NAA, per l’identificazione dell’ antimonio e del bario. Il lavoro fu pubblicato nel 1964 e nel 1968, in Canada, la NAA venne proposta, per la prima volta come prova dibattimentale. A quel tempo questa tecnica era di fatto la più sofisticata risorsa disponibile per analizzare la maggior parte degli elementi della tavola periodica. Le sperimentazioni specifiche condotte consentirono di dimostrare che prelievi effettuati sulle mani di un soggetto che aveva sparato un’arma contenevano mediamente valori di circa 4 μg di Ba e 1 μg di Sb. Il metodo, peraltro non utilizzabile per la ricerca del piombo, poteva essere utilizzata solo da personale altamente specializzato e presupponeva la disponibilità di una macchina nucleare in grado di generare neutroni. Nonostante queste limitazioni, la NAA è stata usata a lungo per la rivelazione dei residui dello sparo e per indagare in numerosi altri settori delle scienze forensi quali la determinazione della distanza di sparo o l’analisi comparativa della lega dei proiettili. Nel 1971, veniva pubblicato un metodo per l’analisi dei GSR basato sull’impiego della spettroscopia ad assorbimento atomico (AAS); la fiamma convenzionale dell’AAS garantiva sensibilità sufficiente per la rilevazione dei livelli di piombo eventualmente presenti nei campioni della mano ma era del tutto insufficiente per rivelare il bario e l’antimonio. Lo sviluppo degli atomizzatori termoelettrici (canna di carbonio, fornace di grafite) ed l’evoluzione degli spettrometri AAS flameless ha consentito che la tecnica potesse essere utilizzata anche dai laboratori di scienze forensi.
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Con l’evolversi dei metodi analitici era possibile semplificare anche le modalità di assunzione dei prelievi. Le tracce di sparo cominciarono ad essere raccolte su tamponi inumiditi con acido diluito o ancor più semplicemente “catturando” il particolato mediante un supporto con superficie adesiva. Quest’ultima procedura di campionamento, definita tape lifting, fu ben descritta da Jones e Nesbitt nel 1975 e due anni dopo, Nesbitt et Coll. proposero una tecnica basata sulla fotoluminescenza per l’analisi delle tracce di sparo. Il trattamento del campione prevedeva immersione in azoto liquido e successiva esposizione alla luce emessa da una lampada ad arco al quarzo – neon. Uno spettrometro a fotoluminescenza consentiva di rivelare le emissioni del Pb e del Sb. Si intrapresero nel contempo importanti studi al fine di determinare i tempi di persistenza delle tracce di sparo sulle mani, e fu così possibile dimostrare un decadimento di circa un ordine di grandezza già alla prima ora. Altre osservazioni permisero di dimostrare che le tracce di sparo potevano facilmente trasferirsi da una mano all’altra e dalla mano ai vestiti, in particolare nelle tasche dei pantaloni, durante le normali attività esercitate da un soggetto che poco prima aveva sparato. Kilty, determinando le concentrazioni di antimonio e di bario mediante NAA, ottenne risultati perfettamente sovrapponibili a quelli ottenuti con metodi diversi. Nel 1977, Krishnan riferì i risultati di una ricerca che richiese quasi 8 anni di lavoro durante i quali furono eseguiti ed analizzati più di 1500 tests di sparo con 57 armi armi diverse. La persistenza, che nei casi reali appariva andare anche oltre le 24 ore, nei tests non superava in media le due ore. Studi valutativi del rapporto tra sparo e non sparo e della distribuzione quantitativa di residui fra il dorso ed il palmo della mano fornirono dati che apparsero subito privi di qualsiasi significatività. Fra le numerose altre tecniche sperimentate per la ricerca e l’analisi delle tracce di sparo, si tentò un particolare impiego della voltammetria per strippaggio anodico (ASV) che poteva essere effettuata con un equipaggiamento relativamente economico ma non consentiva di determinare il bario. Il miglioramento della tecnica, consentito dall’introduzione del metodo pulsato (DPASV), permise una simultanea rilevazione, fra l’altro più veloce, del piombo e dell’antimonio.
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Si sperimentò anche l’emissione X a protoni indotti (PIXE), sicuramente più sensibile ma complessa e poco adatta ad essere impiegata in usi di routine. La spettroscopia ad emissione atomica di plasmi accoppiati si rivelò più sensibile della AAS per il Ba, e la microfluorescenza X sembrava idonea per l’analisi delle tracce di sparo sui tessuti umani e sui vestiti. Nel 1998 fu riportato l’impiego della spettroscopia a plasmi accoppiati nell’analisi dei residui dello sparo. Venne sperimentata anche una tecnica di campionamento istochimico basato sull’uso dell’alizarina rossa per l’identificazione delle tracce di sparo. Nel 1996, Singer et Coll. Resero disponibili alla comunità scientifica i risultati di un’indagine effettuata inviando campioni tests ad 80 laboratori criminalistici nei 44 Stati degli U.S.A e a 2 Province Canadesi al fine di valutare comparativamente l’idoneità delle varie metodologie impiegate nell’analisi dei GSR e le capacità degli operatori ad interpretarne i risultati. I dati furono confrontati con quelli ottenuti con una indagine simile precedentemente condotta, nel 1990, da De Gaetano e Siegel. I risultati appaiono a dir poco scoraggianti: la maggior parte dei laboratori (44%) utilizzava soltanto la AAS, una piccola diminuzione (-4%) sul valore riportato nel 1990, solo il 2% adoperava la NAA e nessun laboratorio usava la ICP. Nel 1990, 1.6% usava la NAA e il 4% la ICP.
4. L’analisi particellare mediante SEM/EDX. Tutte le metodiche fin qui esaminate, basate su tipiche tecniche di bulk analysis, per quanto sofisticate ed evolute sono prive della specificità che le scienze forensi richiedono per la tipizzazione delle tracce di sparo. Da quanto precedentemente esposto si evince che i risultati ottenibili con quelle metodiche consentono solo di determinare se i tre elementi (Pb, Sb e Ba) siano o meno presenti su di un prelievo, il che significa che ciascuno di essi potrebbe aver raggiunto la superficie campionata provenendo separatamente dall’ambiente circostante. Havekost et Coll. studiando la distribuzione di bario e di antimonio sulle mani di 269 non sparatori dimostrarono che mestieri come il meccanico, l’elettricista e gli operai edili presentano tendenzialmente livelli più elevati di Ba e Sb sulle mani.
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Brandone et Coll. sperimentarono l’aggiunta di ossido di samario alla polvere di lancio, proponendo l’introduzione di questo marcatore nelle produzioni industriali al fine di protocollare un metodo specifico per la rilevazione dei residui dello sparo tramite la NAA. Il microscopio elettronico a scansione (SEM), in tandem con microanalisi a dispersione di energia X (EDX), è in grado di fornire gli spettri di particolati del volume di pochi micron. Le prime ricerche impieganti il SEM/EDX per l’analisi dei GSR furono condotte nel Metropolitan Police Forensic Lab. di Belfast, New Scotland Yard, intorno al 1968. Il SEM, equipaggiato con un analizzatore EDX è un potente ausilio strumentale, in grado di fornire contemporaneamente sia informazioni morfologiche che determinazioni analitiche di singole particelle isolate in modo non distruttivo ed altamente specifico per l’identificazione delle tracce di sparo. Nessuna tecnica di bulk analysis è in grado di dare una simile specifica selettività di ricerca. Nel 1971, Boehm realizzò una serie di micrografie di GSR (gunshot residue) per illustrare le applicazioni forensi del SEM in un lavoro presentato al quarto Annual Scanning Electron Microscope Symposium. Grazie a questi risultati, decisamente incoraggianti ed all’interesse suscitato, nel 1975 fu avviato presso l’Aerospace Corporation uno studio sistematico sui GSR voluto e finanziato dal Department of Justice statunitense che ancor oggi rappresenta una pietra miliare nella storia della ricerca di settore. Il gruppo di ricerca era costituito da 19 esperti già operativi presso vari laboratori criminalistici fortemente interessati all’argomento. Uno di loro, Matricardi, proveniva dal Laboratorio dell’FBI di Washington, dove, fino a quel momento, per determinare se una persona era stata esposta allo sparo di un’arma da fuoco, si valutava la quantità di Sb e Ba presente sul prelievo mediante NAA. I risultati della ricerca avrebbero dovuto portare, raffrontando fra loro i dati ottenuti col nuovo metodo (SEM/EDX) e quelli provenienti da analisi NAA, alla scelta della tecnica più affidabile da impiegare per il futuro. Dopo una riunione preliminare, nel corso della quale fu valutato lo stato dell’arte del nuovo metodo di ricerca raffrontandolo a quello dei metodi più comunemente impiegati fino a quel momento, questo lavoro ebbe inizio. Nel 1976, Nesbitt et Coll. con un primo lavoro presentarono i risultati raggiunti utilizzando il SEM per la ricerca dei GSR. Essi con-
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dussero test di sparo all’Aerospace Corporation con 7 armi diverse ed i campioni da analizzare furono raccolti su stubs ricoperti con uno strato di nastro biadesivo (tape lifting). Nel 1977, Matricardi e Kilty pubblicarono un esauriente articolo contenete i primi risultati di un’analoga ricerca condotta presso il laboratorio dell’FBI. I GSR venivano raccolti in modo simile a quello descritto da Nesbitt et Coll. nel 1976. Essi misero a punto una tecnica che, grazie all’impiego del rivelatore di elettroni retro-diffusi (BSE), consentiva una più facile individuazione delle particelle rispetto all’osservazione dell’immagine formata dagli elettroni secondari. Emerse inoltre che in alcuni casi l’identificazione analitica dei GSR mediante i rilevatori a dispersione di energia (EDX) poteva essere difficoltosa. La risoluzione del rivelatore infatti è, ancor oggi, tale da non evitare la sovrapposizione dei picchi del calcio a quelli dell’antimonio ed analoghi overlaps fra il titanio ed il bario.
5. L’evoluzione nella ricerca delle tracce di sparo. La tecnica di ricerca ed individuazione delle tracce di sparo è protocollata per la prima volta in un rapporto scientifico commissionato dal Department of Justice statunitense redatto da un gruppo di ricercatori del M.I.T. diretti da G.M. Wolten denominato AEROSPACE REPORT NO. ATR-77(7915)-3 e pubblicato nel 1977 dal titolo Final Report on Particle Analysis for Gunshot Residue Detection al termine della ricerca(1). Wolten e coll., che effettuarono la loro ricerca mediante osservazione dei campioni raccolti con il microscopio elettronico a scansione (SEM) in tandem con la microanalisi a dispersione di energia X (EDX), conclusero che, almeno allo stato delle conoscenze di allora, non esistevano attività umane o fonti naturali alternative che producessero particolati con morfologia, granulometria e composizione elementale simile a quella osservata nei campioni prelevati su oggetti o persone che avevano avuto a che fare con lo sparo di un arma. Fu così redatto il primo protocollo di classificazione dei GSR (gun shot residue) che definiva particolati “caratteristici” dello sparo di un’arma ovvero osservati solo in seguito a tale fenomeno, particelle, le più caratteristiche a morfologia sferica, aventi le seguenti composizioni:
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1. piombo, bario ed antimonio 2. bario, calcio e silicio con una traccia di zolfo 3. bario, calcio e silicio con una traccia di piombo se rame e zinco assenti 4. antimonio e bario
Nelle composizioni sopra riportate secondo gli autori potevano aggiungersi anche uno o più dei seguenti elementi: silicio, calcio, alluminio, rame, ferro, zolfo, fosforo (raro), zinco (solo in presenza contemporanea di rame), nichelio (raro e solo in presenza di rame e zinco), potassio e cloro. Le composizioni che seguono invece venivano classificate come solo indicative e non esclusivamente provenienti dallo sparo di un’arma: 1. piombo ed antimonio 2. piombo e bario 3. piombo 4. bario se lo zolfo è assente o presente solo in traccia 5. antimonio (raro)
Qualche anno più tardi, nel 1984, J.S. Wallace e J. McQuillan (entrambi scienziati del Northern Ireland Forensic Science Laboratory di Belfast) rivisitarono la classificazione di Wolten et Coll. e pubblicarono un loro lavoro nel vol. 24, pp. 495 - 508 del Journal of the Forensic Science Society “Discharge Residues from Cartridge-operated Industrial Tools”(2). Ecco quanto troviamo a pag. 503 e ss.Classificazione dei residui di sparo di arma da fuoco. Il seguente sistema di classificazione è una modifica di quello dato da Wolten e colleghi [1]. È basato su esperienza di lavoro con sistemi di analisi qualitativi e analisi di particelle, su prove di armi e munizioni (incluse quelle per strumenti da lavoro) eseguite in laboratorio e sulla letteratura disponibile concernente la chimica riguardante le armi da fuoco. ...Omissis...
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Questo sistema di classificazione si applica a cartucce con bossolo in ottone e innesco a base di piombo, antimonio e bario e a cartucce con bossolo in ottone e innesco a base di piombo e bario. È inteso solo come guida generale ed è riepilogato nella Tavola 4.
TAVOLA 4-Classificazione delle particelle residuo di sparo1 Univoche
Indicative
Pb, Sb and Ba
Ba, Ca e Si2
Sb and Ba
Pb e Sb Pb e Ba Sb (con S) Sb (senza S) Ba2 Pb Pb, Sb e Ba assente3,4
1.
Le particelle di tipo indicativo sono elencate in un ordine approssimativamente decrescente di significatività.
2.
S assente o accettabile solo in traccia quando il Ba è presente a livello maggiore.
3.
Ciascuna delle sopraelencate combinazioni possono contenere parte o tutti dei seguenti elementi: Al, Ca, S, Si a livello maggiore, minore o in traccia; Cl, Cu, K, Fe, Zn (solo se Cu è anche presente e Zn/Cu < 1) a livello minore o in traccia; Mg, Na e P solo a livello di traccia, vedi testo.
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4.
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Le particelle che non contengono Pb, Sb o Ba possono essere considerate indicative se sono composte esclusivamente degli elementi elencati al punto 3. e se sono accompagnate da altri tipi di particelle indicative. Nello schema, i tipi di particelle appartenenti alla categoria indicativa sono approssimativamente elencati in ordine di decrescente significatività. I termini 'livello maggiore, minore e in traccia' vengono definiti secondo l'altezza dei picchi piuttosto che secondo la concentrazione. L'altezza del picco più forte dovrebbe essere 'in scala' (i.e. non superare la scala verticale) e deve essere lasciato spazio per i livelli di fondo. Le altezze dei picchi dipendono dalle irregolarità superficiali del campione e dagli effetti matrice e vi è ulteriore complicazione con i picchi che si sovrappongono. Tenendo presente quanto sopra noi definiamo i termini come segue:
Maggiore. Qualsiasi elemento la cui altezza del picco principale è più grande di un terzo dell'altezza del picco più forte presente nello spettro.
Minore. Qualsiasi elemento la cui altezza del picco principale è compresa tra un decimo e un terzo della altezza del picco più forte presente nello spettro.
Traccia. Qualsiasi elemento la cui altezza del picco principale è inferiore a un decimo dell'altezza del picco più forte presente nello spettro."
Come si può vedere le quattro composizioni considerate univoche da Wolten et Coll. si riducono a due soltanto nella revisione di Wallace e Mc Quillan. Il metodo non subirà variazioni di rilievo fino alla metà degli anni novanta, se non in relazione al procedimento analitico, che è stato solo migliorato con il continuo aggiornamento della strumentazione utilizzata, certamente oggi più maneggevole ed affidabile di quanto allora non fosse. Più avanti vedremo in dettaglio che, il progresso tecnologico sviluppatosi dal 1978 ad oggi, non solo ha inciso sulla qualità del mezzo analitico impiegato, ma ha comportato l’introduzione e diffusione sui
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mercati internazionali di manufatti prima non esistenti spesso contenenti le medesime specie chimiche caratteristiche delle miscele d’innesco convenzionali realizzate a base di sali del Pb, dello Sb e del Ba, ancor oggi le più diffusamente impiegate dai produttori di munizioni. Nel 1990 D.G. Havekost et Coll. (un gruppo di ricercatori dell’Analysis Unit della sede di Washington dell’FBI e del Forensic Science Research Unit dell’FBI Laboratory, FBI Academy, Quantico, USA) hanno pubblicato un lavoro dal titolo “Barium and Antimony Distributions on the Hands off Nonshooters” - Journal of Forensic Sciences, JFSCA, vol 35, n° 5 Sept. 1990, pp. 1096 – 1114(3), nel quale si raccomanda di agire con molta attenzione nei casi in cui si rinvengano su prelievi effettuati a sospetti particelle contenenti antimonio e bario. Il suggerimento, alla luce dei risultati ottenuti, è di verificare sempre tutte le condizioni al contorno del caso in esame per non incorrere in falsi positivi. In buona sostanza l’ambiguità del significato che possono avere particelle di antimonio e bario è già noto nel 1990. Nel 1995 sotto la designazione E 1588 – 95(4) l’ ASTM (American Society for Testing and Materials) pubblica uno standard per la ricerca e classificazione dei residui dello sparo che sostanzialmente ricalca le classificazioni di Wallace e Mc Quillan. Nel 1997 B.J. Heard nella sua opera “Handbook of firearms and ballistic” – John Wiley & Sons Ltd. Chichester, England, 1997(5) a pag. 193 afferma che un prelievo può essere considerato positivo se e solo se il medesimo stub contiene almeno due particelle in cui sono presenti contemporaneamente Pb, Sb e Ba accompagnate da un numero consistente di particelle a due soli componenti che solo in questo caso vengono considerate indicative. Particelle di quest’ultimo tipo rinvenute senza la contemporanea presenza di particolato a tre elementi non assumono alcun significato. Nel 1999 il Col. Luciano Garofano, comandante del Servizio Carabinieri Investigazioni Scientifiche di Parma, ed un gruppo di suoi collaboratori appartenenti alla medesima Istituzione, pubblicano il lavoro “Gunshot residue Further studies on particles of environmental and occupational origin” Forensic Science International – 103 (1999) pp. 1 – 21(6). Gli autori rendono noto che il rischio di giungere a falsi positivi in caso di ritrovamento di particelle contenenti antimonio e bario è piuttosto elevato e che tale rischio può essere scongiurato solo mediante una accorta analisi morfologica. Pur non proponendo ancora apertamente la declassificazione a semplicemente indicativi dei residui
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dello sparo contenti antimonio e bario raccomandano la massima attenzione quando si incontrano particelle di questo tipo. Nel 2000, a Brescia, in occasione del XVI Convegno sulle Armi, Claudio Gentile presenta un lavoro preliminare dal titolo “Intorno all’ipotesi di modifica delle classificazioni di Wolten e Wallace”(7). L’autore da conto per la prima volta dell’esistenza di particolati generati dagli elementi di attrito degli impianti frenanti a disco che hanno la medesima composizione dei GSR univoci, così come enunciato da Wolten e da Wallace. Lo stesso anno Carlo Torre e Coll. pubblicano un breve articolo che riporta i primi risultati di una ricerca che si sta conducendo nel suo laboratorio di Torino. Nel lavoro, dal titolo “Piombo, bario ed antimonio in particelle non correlate a sparo – prime osservazioni”, Zacchia, anno 73° (vol. XVIII della Serie 4a ) – Fascicolo 1 – 2 Gennaio Giugno 2000(8) , gli Autori comunicano di aver rinvenuto particolati provenienti da impianti frenanti a disco contenenti contemporaneamente piombo, antimonio e bario che potrebbero essere confusi con residui dello sparo. Nel 2001 Francesco Saverio Romolo e Pierre Margot ( il primo era all’epoca funzionario del Servizio di Polizia Scientifica - Gabinetto Centrale di Roma – oggi docente presso la Sapienza, il secondo era Direttore del Institut de Police Scientifique et de Criminologie, Università di Losanna) pubblicano il Lavoro “Identification of gunshot residue: a critical review”, Forensic Science International, 119 (2001)pp. 195 – 211(9). Gli Autori operano una rivisitazione di quanto pubblicato fino a quel giorno in materia di tracce dello sparo, concludendo che anche qualora si siano rinvenuti sui prelievi in esame veri GSR, nel dimettere le proprie conclusioni il tecnico non può esimersi dal verificare, se i risultati conseguiti siano compatibili con gli elementi noti del caso in esame, o se l’origine delle particelle rinvenute non sia diversa dallo sparo per cui si indaga. Sempre nel 2001 l’ASTM licenzia una versione revisionata dello standard E 1588 – 95 (reapproved 2001)(10) che sostanzialmente conferma la precedente versione. Nel 2002 il prof. Carlo Torre ed i suoi collaboratori pubblicano un nuovo articolo dal titolo: “Brake Linings: A source of Non GSR Particles Containing Lead, Barium and Antimony. – Journal of Forensic Science 2002, 47 (3) pp. 494 – 504(11), nel quale rendono noti i risultati finali del lavoro, già anticipati nel 2000, ribadendo la possibilità
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che particelle contenenti piombo, antimonio e bario prodotte da impianti frenanti a disco possano essere erroneamente identificati come GSR. Nel 2004 Bruno Cardinetti e Coll. (gruppo di ricercatori tutti appartenenti al Reparto Carabinieri Investigazioni Scientifiche di Roma) pubblicano il lavoro “X-ray mapping technique: a preliminary study in discriminating gunshot residue particles from aggregates of environmental occupational origin” Forensic Science International, Vol. 143 (2004), pp. 1–19(12). Il lavoro propone i risultati di uno studio preliminare che consente mediante l’applicazione della tecnica X–ray mapping di distinguere le particelle contenenti Pb, Sb e Ba o solo Ba ed Sb prodottesi con lo sparo di un arma da quelle di composizione analoga prodottesi in seguito a frenatura a disco. La tecnica, già utilizzata da alcuni anni dal prof. Torre e dai suoi collaboratori, è promettente e consente di discriminare la maggior parte dei particolati provenienti da frenatura automobilistica, ma gli Autori non possono, ovviamente, escludere che particelle di tale origine possano comunque mimare in tutto e per tutto i veri GSR. Dal 31 maggio al 3 giugno del 2005 si è tenuto a Quantico (USA), presso la sede dell’FBI, l’ FBI Laboratory’s Gunshot Residue Symposium. Gli atti del convegno sono stati successivamente pubblicati a cura di Diana M. Wright, Forensic Examiner della Chemistry Unit dell’FBI Laboratory di Quantico, e di Michael A. Trimpe, Forensic Scientist dell’Hamilton County Coroner’s Office di Cincinnati, nel numero 3, della rivista elettronica dell’FBI “Forensic Science Communication” volume 8, luglio 2006(13), pubblicamente disponibile sul sito Internet www.fbi.gov. Nel corso di tale importante convegno di settore gli specialisti intervenuti hanno discusso tutti gli aspetti della ricerca dei GSR ed in estrema sintesi si è convenuto quanto segue: 1. Le uniche particelle che possono essere classificate indicatore univoco dello sparo devono essere costituite da piombo, bario ed antimonio con ammissione od esclusione di altri metalli e possedere morfologia sferoidale e sufficiente uniformità nella distribuzione spaziale degli elementi che le compongono secondo le direttive già consolidate nei lavori di Wolten e coll. e di Wallace e coll.
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2. Le particelle a composizione univoca eventualmente rinvenute devono essere accompagnate da una significativa popolazione di particelle semplicemente indicative con esse compatibili. 3. È assolutamente necessario per definire positivo un prelievo che sul medesimo stub siano presenti un numero minimo di particelle a tre componenti che viene individuato fra tre e cinque, accompagnate da particelle di contorno compatibili con esse. 4. Devono essere rigorosamente verificate le condizioni di fermo, eventuale trasporto e prelievo sull’indagato. Analoghe rigorose verifiche devono essere condotte sulle modalità di sequestro e successiva repertazione di indumenti od oggetti appartenenti al sospettato. 5. Il contatto con personale armato, il trasporto su vetture di servizio e la permanenza in ambienti di polizia è definitivamente considerato fattore di rischio per eventuali inquinamenti specifici involontari sia della persona dell’indagato che degli indumenti da questi indossati. 6. Infine i congressisti prendono atto della possibilità che gli impianti frenanti a disco delle autovetture possano rilasciare particelle difficilmente discriminabili da veri GSR. Il 15 febbraio 2007 l’ASTM approvava una nuova release dello standard per i GSR denominata E 1588 – 07(14). Oltre a numerose altre modifiche rispetto alla precedente versione E 1588 – 95 (reapproved 2001), la novità più rilevante è che gli estensori declassificano definitivamente le particelle composte da antimonio e bario da caratteristiche a compatibili, alla stregua di tutte le altre a due o ad un solo componente. Dal 23 al 26 ottobre dello stesso anno 2007 si teneva a Lione il 15th International Forensic Science Symposium(15) indetto dall’Interpol. Lo stato dell’arte in materia di GSR è trattato riassuntivamente da pag. 40 a pag. 45 degli atti, consultabili pubblicamente su Internet. In linea di massima in tale congresso furono recepiti i criteri e le linee guida già fissati nel corso dell’FBI Symposium del 2005 e di
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alcuni altri lavori nel frattempo pubblicati da numerosi ricercatori del settore. Nel 2008 vede la luce una nuova release dello standard denomina(16) ta, ASTM E 1588 – 08 del 2008 , sez. DATA ANALYSIS, al
punto 7.1.3 possiamo leggere:
7.1.3 Particles with a composition characteristic of GSR will have the following elemental profile: 7.1.3.1 Lead, antimony, barium 7.1.3.2 Particles with a composition described in section 7.1.3.1 may also contain one or more of only the following other elements: silicon, calcium, aluminum, copper, iron (trace), sulfur (trace), phosphorus, zinc, nickel (in conjunction with copper and zinc), potassium, chlorine, tin, and zirconium.
Nello standard pubblicato dall’ASTM nel 2010, release denominata ASTM E1588 – 10 İ1 (17) ed attualmente in vigore, A pagina 3, nella sezione DATA ANALYSIS, di questo ultimo standard si può leggere:
7.1.3 Particles characteristic of GSR (that is, most likely associated with the discharge of a gun) will have the following elemental composition: 7.1.3. Lead, antimony, barium.
Come si può vedere il termine characteristic of, che comunque non è mai stato sinonimo di “esclusivo”, trova finalmente nel nuovo standard la corretta definizione. In buona sostanza particelle sferiche o sferoidali, aventi struttura superficiale non cristallina e composte soprattutto da piombo, antimonio e bario, con piccole quantità di altri elementi “permessi” ma prive di altri “vietati”, possono provenire, ma non in modo certo ed esclusivo, dallo sparo di arma da fuoco. Nella nuova edizione ASTM E1588 – 10 İ1 in sostanza si riconosce, con ritardo ultradecennale e con ritrosia prossima a reticenza, quanto la parte più seria della comunità scientifica internazionale già conosceva, che non esistono particelle che possano essere considerate certamente derivate da fenomeni di sparo d’arma da fuoco.
LA NASCITA DEL METODO ED I PRIMI PROTOCOLLI
57
A scanso di equivoci, rileviamo che gli standard tecnici, siano essi dell’ASTM1, come di qualsiasi altra agenzia di normazione tecnica, non hanno alcuna validità ufficiale e non possiedono un effettivo rilievo scientifico essendo redatti al di fuori dei normali canali di diffusione della scienza e pertanto non possono e non debbono essere spacciati da chicchessia, come purtroppo accade, per protocolli universali. E, per finire, segnaliamo l’opinione di uno dei “padri nobili” della materia, J. S. Wallace del North Ireland Forensic Science Laboratory (NIFSL), scienziato notissimo a livello internazionale. Nel suo libro Chemical Analysis of Firearms, Ammunition, and Gunshot Residue (Boca Raton, 2008)(18), a pagina 272, nel paragrafo finale dedicato all’interpretazione dei dati strumentali ottenuti, scrive quanto segue:
1
La Technical Committee E30 che si occupa di Forensic Sciences e stata formata piuttosto tardi, nel 1970, è attiva dal 1974 e si riunisce una sola volta all’anno, in febbraio. Conta attualmente circa settecentonovanta membri e ha giurisdizione sulla redazione di cinquantaquattro standard, pubblicati nel volume 14.02 dell’Annual Book of ASTM Standards; alla riunione annuale partecipano mediamente centoventicinque membri e lo Staff Manager e oggi Timothy Brooke. La commissione E30 dispone di sette sottocommissioni:Criminalistics (E30.01), Questioned Documents (E30.02), Interdisciplinary Forensic Science Standards (E30.11), Digital and Multimedia Evidence (E30.12), Executive (E30.90), Terminology (E30.92) e Awards (E30.93). La sottocommissione E30.01 (Criminalistics) pone in vendita in questo momento ventisei standard attuali nelle diverse discipline criminalistiche oltre alle versioni precedenti che rimangono sempre disponibili per l’acquisto anche quando superate dagli aggiornamenti. In tempi relativamente recenti il Mar. Marco Romeo del Ris di Messina è entrato a far parte di questa commissione in qualità di esperto nella ricerca delle tracce di sparo.
CAPITOLO IV
58
E cioè: Non è oggi più possibile che una particella “univoca” residuo dello sparo (FDR= Firearms Discharge Residue) venga indicata come tale dal momento che può derivare anche da fonti non legate ad armi da fuoco. I criteri di classificazione identificativa sono stati riesaminati da altri studiosi. Io suggerisco che i termini “molto indicativo” e “indicativo” sostituiscano quelli precedentemente utilizzati.
Ribadiamo dunque che oggi non è più lecito, come abbiamo già scritto , sostenere scientificamente l’esistenza di particelle esclusivamente riconducibili ad uno sparo. Per concludere ricordiamo che si possono ottenere informazioni determinanti, oltre che dallo studio della letteratura di settore, da fonti scientifiche che dedicano la propria ricerca alle condizioni dell’ambiente e delle fonti inquinanti che ne determinano il degrado. In questi studi non solo vengono individuate fonti alternative di particolati contenenti anche Pb, Sb e Ba ma se ne quantizza pure la diffusione ponderale negli ambienti monitorati.
59
CAPITOLO V LE MISCELE DI INNESCO SOMMARIO: 1. Nozioni generali. - 2 Composti inorganici presenti nelle miscele di innesco. - 3. Alcune delle miscele convenzionali più note. - 4. Composizione note di inneschi di largo impiego. - 5. Miscele di innesco a composizione non convenzionale.
1. Nozioni generali. Warlow(19) e Wallace (2;18) trattano diffusamente nei loro lavori la storia dell’evoluzione delle miscele di innesco. Nel 1921 è stata adottata la prima miscela d’innesco che possiamo definire “moderna”, contenente stifnato di piombo, nitrato di bario e trisolfato di antimonio. La più recente e significativa tendenza nella formulazione delle miscele di innesco è rappresentata dall’introduzione di miscele che non contengono il piombo e, spesso, anche altri metalli pesanti. Questi tipi di innesco sono stati sviluppati e prodotti in risposta alla forte richiesta del mercato al crescere delle preoccupazioni in materia di l'inquinamento ambientale e per i problemi sanitari connessi all'esposizione in ambienti in cui sono presenti livelli elevati metalli pesanti, come quelli presenti nelle miscele più moderne19. Questi argomenti sono stati diffusamente trattati in un recente lavoro di rassegna realizzato da Oliver Dalby ed altri nel 2010(35). Per ragioni legate strettamente al suo impiego una miscela di innesco deve contenere, tutte o in parte, sostanze dotate di qualità specifiche. In genere troviamo: Un iniziatore o esplosivo: Stifnato di piombo ( trinitroresorcinato di Pb; C6HN3O8Pb) Fulminato di mercurio [ Hg(CNO)2] Un sensibilizzante: Tetracene ( C2H8N10O ) TNT Pentrite
CAPITOLO V
60
Un ossidante: Nitrato di bario [ Ba(NO3)2 ] Nitrato di piombo [ Pb(NO3)2 ] Clorato di potassio ( KClO3 ) Biossido di piombo ( PbO2 ) Un carburante (non indispensabile per percussione anulare): Solfuro di antimonio ( Sb2S3 ) Siliciuro di calcio ( CaSi2 ) Solfocianato di piombo [ Pb(CNS)2 ] Polvere di alluminio Un frizionatore: Vetro in polvere Carbone in polvere Un legante: Gomma arabica Gomma dragante Alcool polivinilico Alginato di sodio Gomma karaya
2. Composti inorganici presenti nelle miscele di innesco. Come abbiamo visto i componenti inorganici derivano prevalentemente dalle miscele di innesco. Il particolare innesco utilizzato in una cartuccia genererà particolati la cui composizione potrebbe avere caratteristiche di tipicità discriminabili grazie alle variazioni nella formulazione della miscela di innesco adottata da ciascun produttore. Qui di seguito è riportato una tabella dei composti inorganici che possono essere contenuti nella composizione di una miscela di innesco.
LE MISCELE DI INNESCO
TABELLA 1 Aluminum sulfide
Lead thiocyanate
Antimony sulfide
Magnesium
Antimony sulfite
Mercury
Antimony trisulfide
Mercury fulminate
Barium nitrate
Potassium chlorate
Barium peroxide
Potassium nitrate
Boron
Prussian blue
Calcium silicide
Silicon
Copper thiocyanate
Sodium nitrate
Gold
Strontium nitrate
Ground glass
Sulphur
Lead azide
Tin
Lead dioxide
Titanium
Lead nitrate
Zinc
Lead peroxide
Zirconium
61
CAPITOLO V
62
3. Alcune delle miscele convenzionali più note. Vediamo ora le composizioni delle più comuni miscele di innesco usate attualmente o nel passato prossimo.
TABELLA 2 Non riferibile ad uno specifico produttore - Anno di introduzione: 1898 Componente
Percentuale %
Clorato di potassio
49,6
Solfuro di antimonio
25,1
Zolfo
8,7
Polvere di vetro
16,6
TABELLA 3 Composizione H-48 adottata negli USA per la cartuccia .30 Krag nel 1901 Componente
Percentuale %
Fulminato di mercurio
39,0
Nitrato di bario
41,0
Solfuro di antimonio
9,0
Acido picrico
5,0
Polvere di vetro
6,0
LE MISCELE DI INNESCO
63
TABELLA 4 Primo innesco non-corrosivo, prodotto in Germania dalla RWS nel 1910 Componente
Percentuale %
Clorato di potassio
47,20
Solfuro di antimonio
30,83
Zolfo
21,97
Polvere di vetro
6,0
TABELLA 5 Composizione FH-42 del Frankford Arsenal in uso nel 1910 Componente
Percentuale %
Fulminato di mercurio
55,0
Solfuro di antimonio
11,0
Perossido di bario
27,0
TNT
7,0
CAPITOLO V
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TABELLA 6 Composizione per cartucce calibro .22” prodotta dalla RWS nel 1911 Componente
Percentuale %
Clorato di potassio
53,0
Solfuro di antimonio
17,0
Tiocianato di piombo
25,0
TNT
5,0
TABELLA 7 35-NF della Winchester Repeating Arms Company. Anno 1927 Componente
Percentuale %
Fulminato di mercurio
Sconosciuta
Nitrato di bario
Sconosciuta
Polvere di vetro
Sconosciuta
Tiocianato di piombo
Sconosciuta
LE MISCELE DI INNESCO
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TABELLA 8 FA-70 adottata dal Frankford Arsenal nel 1928 - .45 ACP e .30-06, II WW - 1950 Componente
Percentuale %
Stifnato di piombo
25,0 – 55,0
Biossido di piombo
5,0 – 10,0
Solfuro di antimonio
0,0 – 10,0
Nitrato di bario
24,0 – 25,0
Siliciuro di calcio
3,0 – 15,0
Tetracene
0,5 - 15,0
TABELLA 9 Denominata Sinoxyd dalla RWS nel 1940. Fu la prima non mercurica e non corrosiva Componente
Percentuale %
Fosforo Rosso
Sconosciuta
Nitrato di bario
Sconosciuta
Idrossido di alluminio
Sconosciuta
CAPITOLO V
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TABELLA 10 Nel 1962 la RWS produce una nuova "Sinoxyd" Componente
Percentuale %
nitroaminotetrazolato di piombo
Sconosciuta
Nitrato di bario
Sconosciuta
Solfuro di antimonio
Sconosciuta
Alluminio
Sconosciuta
Tetracene
Sconosciuta
TABELLA 11 Inneschi tedeschi DM 1016 e DM 1028 per cartucce calibro 7.62 x 51 NATO, DM 41 e DM 41 A1 - Anno di introduzione sconosciuto Componente
Percentuale %
Tricinato - Tetracene
43,0
Nitrato di bario
42,0
Ossido di piombo Siliciuro di potassio NB. Il tricinato non è altro che lo stifniato di piombo
5,0 10,0
LE MISCELE DI INNESCO
67
4. Composizione note di inneschi di largo impiego. SELLIER & BELLOT, PRAGA 1) Pb, Ca, Ba e Sn 2) Pb, Ca, Si e Ba 3) Pb, Sn, Sb e Ba 4) Pb, Sb, Ba (la più recente) SINTOX Ti e Zn FIOCCHI (NATO) stifnato di piombo 39 ± 5 % nitrato di bario 41 ± 5 % tetracene 4 ± 2 % perossido di piombo 5 ± 2 % solfuro di antimonio 6 ± 2 % siliciuro di calcio 5 ± 2 % FIOCCHI (cartucce calibro 9mm corto) stifnato di piombo 40 % nitrato di bario 40 % tetracene 2 % perossido di piombo 5 % solfuro di antimonio 10-15 %
5. Miscele di innesco a composizione non convenzionale. L’evolversi della tecnologia nel campo delle munizioni per armi da sparo leggere ha modificato enormemente il quadro iniziale a suo tempo analizzato da Wolten e Coll. e da Wallace e Mc Quillan. Particolari richieste del mercato, specifiche di funzionalità intrinseche ad alcuni tipi di munizioni di largo impiego sportivo ed esigenze militari imposte in vari capitolati d’appalto hanno fatto si che pressoché tutti i produttori abbiano effettuato in questi anni un notevole sforzo per la ricerca di nuove formulazioni per le miscele d’innesco.
68
CAPITOLO V
Tenendo in conto che l’innesco rappresenta il componente più critico di qualsiasi cartuccia si comprende come ciascun fabbricante tenda a tener riservati i dati emersi dalle ricerche effettuate, pertanto, visto che è quasi impossibile ottenere da ciascuno di essi specifiche complete sulle formulazioni adottate, non rimane che effettuare una ricerca su larga scala al fine di realizzare un data base delle miscele d’innesco oggi impiegate. Molti ricercatori all’apparire sul mercato di nuove munizioni hanno effettuato analisi mirate a determinare la composizione dei residui da queste rilasciate. Trattandosi di un’attività di routine, piuttosto banale, difficilmente a fronte di nuove tipizzazioni si è proceduto alla pubblicazione di veri e propri rapporti scientifici, tuttavia questi dati sono ormai abbastanza conosciuti grazie alla raccolta di informazioni effettuata presso i laboratori del Forensic Science Service inglese, della Polizia Israeliana e della Polizia Tedesca che, a differenza di altre Istituzioni, non hanno mai avuto alcuna difficoltà a diffonderli. Inoltre particolari tipi di munizioni quali le Blazer, i vari tipi leadless o clean primer e munizioni in cui sono assenti l’antimonio od altri componenti classici sono state diffusamente studiate in casi di lavoro spesso eclatanti e quindi la panoramica oggi disponibile agli esperti di settore è da ritenersi abbastanza completa. Nelle tabelle che seguono sono indicate le composizioni di GSR prodotti dallo sparo di cartucce innescate con miscele non convenzionali.
LE MISCELE DI INNESCO
69
TABELLA 12 Munizioni con innesco privo di Pb,Sb e Ba - Dati dei laboratori forensi di Monaco Produttore
Commenti
Elementi principali
RUAG (ex DN, DAG, Geco)
Sintox
Zn, Ti (+ Sn dal rivestimento della palla)
MEN
Senza Pb
Zn, Ti, Al, Si, Ca, (+ Sn da coating del proiettile)
Hirtenberger
Sr (Autorizzato clearfire US-pat.) Sr, Ba
Fiocchi (Italia)
Frangibili Cu/Plastiche)
Al, Ba (+ Ca,Cu)
Fiocchi
Senza Piombo
Sb, Ba
Lapua (Finlandia)
Sr, Ba
IMI (Israele)
Sr
CCI
Blazer
Zn, Al
CCI
Altri
Zn, Mn, Al
Winchester
WCC
K (Innesco: KNO3 + B) (+ Sn, Cu)
CAPITOLO V
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TABELLA 13 Munizioni comuni negli USA, con innesco privo di piombo. Dati aggiornati al 3/2003 Produttore
Marchio di fabbrica
GSR
CCI
Blazer CF®
Sr
Winchester
Clean®
K
Winchester
Super Clean®
K
Remigton Arms
Frangibili senza Piombo
Cu, Zn, Sb,Ba,
Federal
Balistic Clean®
Ba, Si, S, Al
Sellier & Bellot
Nortox
K, Si
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CAPITOLO VI LA FORMAZIONE DEI RESIDUI SOMMARIO: 1. Nozioni generali. - 2. La formazione dei GSR. - 3. Elementi presenti nei GSR non derivati dalle miscele di innesco. - 3. La polvere nera. - 4. I composti esplosivi. - 5. Le polveri senza fumo.
1. Nozioni generali. Quando una cartuccia è sparata in un'arma da fuoco, si producono particolati originati dalla deflagrazione dell’innesco e dalla combustione della carica di lancio che vengono rilasciati contemporaneamente nell’ambiente esterno in prossimità dell’arma. Nel corso degli anni sono stati coniati diversi acronimi internazionali che definiscono il particolato prodotto durante lo sparo di una cartuccia, i più comunemente utilizzati sono: • • • •
GSR CDR FDR OGSR
= gunshot residue = cartridge discharge residue = firearms discharge residue = organic gunshot residue
I primi tre, GSR, CDR ed FDR, fra loro sinonimi, indicano la medesima specie di particolati a composizione inorganica originati principalmente dalla deflagrazione della miscela di innesco, e quindi costituiti da un mix degli elementi in essa presenti. Gli OGSR, divenuti oggetto di studio da parte degli specialisti solo in tempi più recenti, derivano invece anche dalla combustione della carica di lancio. Alcuni Autori ritengono che l’individuazione e lo studio di questi particolati possa fornire notevoli contributi nella valutazione dei singoli casi, poiché la contemporanea tipizzazione degli elementi presenti nella carica di lancio potrebbe restringere notevolmente i margini di incertezza che impediscono di attribuire ad uno sparo specifico le tracce rinvenute sul sospetto o su oggetti comunque a lui connessi. Si può dunque affermare che i residui dello sparo sono costituiti da composti combusti e/o parzialmente combusti della carica di lan-
72
CAPITOLO VI
cio, dell’innesco, dalle fezze derivate dai fumi di combustione del grasso eventualmente presente sui proiettili, dei lubrificanti dell’arma e dai metalli provenienti sia dal bossolo che dalla stessa arma che ha sparato la cartuccia. Possiamo definire residui inorganici le particelle metalliche provenienti dall’innesco alla cui composizione possono partecipare anche metalli presenti nel propellente, nel bossolo, nella camicia del proiettile, nel suo nucleo (generalmente in piombo più o meno puro), e , solo se si verifichino determinate ed accertate condizioni, dalla canna dell’arma. La granulometria dei particolati che si formano, a morfologia generalmente sferoidale, è compresa fra i 0,5 ed i 10 ȝm di diametro, anche se si sono osservate particelle di dimensioni ben più grandi, anche 100 ȝm, e con morfologia non sferoidale che per tali caratteristiche vanno attentamente studiate poiché tali caratteristiche sono più tipiche dei particolati generati da fonti diverse dallo sparo.
2. La formazione dei GSR. Non appena il percussore di un’arma colpisce la capsula di innesco la miscela in essa contenuta deflagra e si ha un repentino innalzamento della pressione e della temperatura all’interno del bossolo. L’aumento della temperatura determina la fusione della miscela di innesco ed in un tempo brevissimo sono raggiunti i punti di vapore degli elementi presenti in essa: Pb 1620°C, Ba 1140°C, Sb 1380 °C. Per effetto della sovrasaturazione dell’ambiente in cui il fenomeno avviene, le particelle vaporizzate condensano in guisa di microscopiche gocce. Pur non essendovi alcuna prova che i GSR si formino prima dell’incendiazione della carica di lancio, le particelle che si producono sono costituite unicamente dagli elementi contenuti nella miscela di innesco. Quando il dardo incendivo prodotto dalla deflagrazione dell’innesco raggiunge ed attraversa la carica di lancio questa, a sua volta, si incendia trasformandosi istantaneamente in una notevole quantità di gas che determina un ulteriore innalzamento di pressione e temperatura ed il proiettile, attraversata la canna per tutta la sua lunghezza, è espulso violentemente all’esterno dell’arma. Durante questo processo le particelle che si sono prodotte in una prima fase fluttuano, per un tempo brevissimo, all’interno di un am-
LA FORMAZIONE DEI RESIDUI
73
biente confinato e sono sottoposte a condizioni estreme di pressione e temperatura a cui segue un repentino crollo della pressione ed un altrettanto rapido raffreddamento. Wolten e Nesbitt (23) hanno ipotizzato che i GSR formati da sostanze inorganiche possono essere suddivisi in due categorie: • •
particelle da innesco particelle da proiettile.
Le particelle da innesco contengono ossidi, solfuri e sali in cui è contenuto l'anione ossigeno (oxysalts), quali il meta antimoniato di bario e il solfato basico di piombo (lanarkite). È stato osservato che gli ingredienti della miscela di innesco sono inizialmente dei composti e pertanto non ci si può aspettare che possano essere ridotti a singoli elementi per l’effetto ossidante della deflagrazione dell’innesco. Particelle contenenti singoli elementi dovrebbero pertanto derivare dai metalli costituenti il proiettile (23). Basu (22) a sua volta ipotizza che per una miscela di innesco composta da stifnato di piombo, nitrato di bario e trisolfato di antimonio, la formazione dei GSR possa avvenire in tre fasi distinte e che il particolato originato in ciascuna di queste fasi possegga caratteristiche diverse tanto da poter essere ricondotto, in funzione della fase di origine, a tre distinte categorie. Nella figura che segue è riprodotto il diagramma di formazione dei GSR secondo Basu(20).
74
CAPITOLO VI
Fig. 1 - La formazione dei GSR attraverso 3 fasi (I, II e III) dell’esplosione dell’innesco (1 psi = 6.89 kPal.)
Appartengono alla prima categoria le particelle che si formano durante la fase I. Queste particelle sono quelle che si possono trovare più comunemente sulle superfici cutanee delle mani di una persona che abbia sparato un arma. Piccoli sferoidi che possono presentare sulla loro superficie noduli e/o protrusioni. I noduli generalmente sono costituiti da un solo elemento e possono provenire dall’innesco o dal proiettile, in questo secondo caso possono apparire non specifici, ovvero non costituiti da piombo, bario od antimonio. Si ritiene che i noduli si aggreghino alla massa principale delle particelle quando, durante il raffreddamento, la particella principale si è solidificata. Il corpo principale di queste particelle è composto da una miscela uniforme nella quale sono presenti contemporaneamente Pb, Ba ed Sb, le cui dimensioni variano fra i 2 ed i 10 ȝm di diametro. Il corpo principale è poi generalmente “solido”, ovvero non presenta alcuna cavità all’interno del nucleo.
LA FORMAZIONE DEI RESIDUI
75
È possibile che i moti browniani causati dall’agitazione termica determinino una sorta di omogeneizzazione delle particelle che si formano in questa fase. Le particelle appartenenti a questo primo gruppo si formano prima che sia avvenuta l’accensione della carica di lancio e rappresentano circa il 68% del residuo totale di GSR prelevabili sulle mani di un soggetto che abbia sparato un colpo di arma da fuoco. I GSR che si producono nella II fase costituiscono circa il 25 % di tutte le particelle prelevate dalle mani del medesimo soggetto che abbia sparato un colpo di arma da fuoco. Presentano una distribuzione discontinua di Pb, Ba, e Sb. L’eterogeneità è determinata da un distribuzione finale di piombo, bario e antimonio irregolare, che potrebbe essere correlata alle modalità di accrescimento della particella. Queste particelle hanno spesso una cavità centrale, cosa questache farebbe pensare che possano essere state sottoposte ad una qualche forma di disturbo durante la loro formazione, il che può spiegare anche la particolare distribuzione degli elementi costituenti. Le particelle originate nel corso della III fase sono quelle che si trovano meno comunemente. Sono caratterizzate da una buccia di Pb, che circonda un nucleo omogeneo di Ba e Sb. Si ritiene che mentre il nucleo di Ba e Sb è in corso di solidificazione possa acquisire il Pb sotto forma di vapori provenienti da residui surriscaldati dell’intagliamento del proiettile che si verifica durante il forzamento nella rigatura della canna. Il rivestimento di Pb, in determinate condizioni, può anche assumere l’aspetto tipico della superficie di un’arancia pelata. Le osservazioni di Basu suggeriscono dunque che le particelle GSR si formino secondo processi diversi, in funzione del modo in cui interagiscono con l’ambiente durante lo sparo dell'arma. I GSR che si formano nel corso della prima fase sono quelle che provengono direttamente ed unicamente dall’innesco e viaggiano attraverso la carica di lancio con la maggiore velocità. Alle categorie che si formano durante la II e III fase appartengono le particelle di dimensioni più grandi che viaggiano più lentamente attraverso il fronte di accensione del propellente e pertanto sono sottoposti ad un secondo aumento dei valori di pressione e temperatura ambientale ben più elevato di quello tipico della prima fase. L’incremento parossistico dei parametri termodinamici ambientali in tempi brevissimi fa sì che queste particelle passino attraverso
76
CAPITOLO VI
vari stati metastabili, dovuti all’ebollizione, e pertanto che, prima di assumere una forma definitiva, possano frammentarsi. Burnett ha ipotizzato un processo alternativo per la formazione di particelle irregolari, del tipo di quelle appartenenti alla II categoria di Basu, segnalando che alcune particelle possono essere ancora allo stato fuso al momento dell'impatto. Sono state osservate, infatti, particelle “spiaccicate” od appiattite per l'impatto che ne ha causato talvolta una drastica modifica dell’originaria forma sferica. Ciò si è verificato soprattutto a distanze comprese fra i 20 ed i 30 cm fra la bocca dell’arma ed il bersaglio, anche se il medesimo fenomeno si è riscontrato anche per distanze comprese fra 10 – 70 cm. Particelle più grandi, diametro > 2 ȝm, che siano entrate in contatto con un bersaglio solido entro 40 cm dalla bocca dell’arma erano spesso fuse al momento dell’impatto (cal. 9 Parabellum). A distanze > 50 cm, è stato dimostrato che le particelle possono aderire alla superficie di destinazione o andare in frantumi impattandola. Attualmente pochissimi produttori hanno adottato inneschi privi di composti del piombo, la stragrande maggioranza di essi, infatti, continua ad utilizzare miscele d’innesco contenenti questo elemento. Tuttavia si deve tenere in conto che anche le cartucce apparecchiate con inneschi privi di piombo possono rilasciare residui che lo contengono dato che questo, come già detto, può provenire dal proiettile. I composti del piombo, contenuti nelle varie miscele d’innesco, possono differire da produttore a produttore.
3. Elementi presenti nei GSR non derivati dalle miscele di innesco. Come abbiamo visto i componenti inorganici derivano prevalentemente dalle miscele di innesco, tuttavia nella composizione dei GSR possono essere presenti elementi rilasciati anche dal bossolo, dalla capsula di innesco, dalla camicia e dal nucleo del proiettile, e dalla stessa arma che ha sparato la cartuccia. La tabella 14, riportata alla pagina successiva, fornisce un elenco abbastanza completo, anche se non del tutto esaustivo, di questi elementi complementari.
LA FORMAZIONE DEI RESIDUI
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TABELLA 14 Elemento o composto
Origine
Proiettile
ȋΪȌ
proiettile » capsula » bossolo
Ǧ
proiettile
Ȁ
proiettile
bossolo
proiettile
78
CAPITOLO VI
Un ultimo aspetto del problema, tutt’altro che trascurabile, è rappresentato da un fenomeno ormai abbastanza noto e compiutamente studiato per la prima volta da Arie Zeichner della Polizia Israeliana(21). L’Autore ha dimostrato la possibilità che si formino residui ibridi a composizione mista nel caso in cui, con una medesima arma, vengano sparate in successione più o meno rapida munizioni innescate con miscele a composizione diversa. Un caso di questo genere comporta problemi interpretativi gravissimi ed il giudizio finale può essere lecitamente espresso se, e solo se, si sia in possesso di bossoli e proiettili repertati in quella particolare vicenda e se i risultati analitici abbiano dimostrata la presenza anche residui “puri” provenienti da ciascuna delle miscele innescanti. In mancanza di tali riscontri oggettivi non è possibile avanzare ipotesi alcuna qualora ci si dovesse imbattere in GSR a sospetta composizione mista. Ulteriori complicazioni nascono in quei casi in cui la composizione della miscela d’innesco delle cartucce esplose non è di tipo tradizionale, ovvero quando non è possibile neppure riferirsi a quelle composizioni ritenute fino a non molto tempo fa esclusive. Come abbiamo già visto munizionamento prodotto nei paesi dell’est europeo (area dell’ex patto di Varsavia) contengono stagno in assenza di Sb (Arie Zeichner (23)) la quasi totalità delle cartucce a percussione anulare cal. .22” oggi commercializzate è priva di Sb; un numero sempre più grande di produttori, sollecitati da specifiche richieste di mercato, hanno sviluppato varie miscele d’innesco c.d. “pulite”, ovvero senza rilascio di piombo e di altri metalli pesanti(24, 25). Esperienze su casi concreti relativamente recenti hanno poi messo in luce possibili fonti alternative di inquinamento innocente correlabili ad origini diverse dai pattini per freni. Nei filtri delle marmitte catalitiche sono state rinvenute particelle estremamente simili se non addirittura sovrapponibili ai GSR rilasciati dalle cartucce Eley cal. . 22 L.R.
79
CAPITOLO VII IL PRELIEVO E LE ATTIVITÀ PRELIMINARI SOMMARIO: 1. I metodi di prelievo: vantaggi e svantaggi. - 2. Il prelievo su soggetto vivente. - 3. Il prelievo da cadavere. - 4. Protocolli di custodia della prova e garanzie di genuinità.
1. I metodi di prelievo: vantaggi e svantaggi. Le zone elettive da cui possono essere raccolti i GSR sono le più varie e tipicamente: 1. Superfici cutanee, da vivente e da cadavere: le zone elettive devono essere prelevate separatamente in modo che l’operatore che procederà alle analisi conosca con esattezza il distretto anatomico da cui provengono gli eventuali particolati prelevati. 2. Veicoli: sedili, portiere, finestrini, cruscotti, interni ed esterni. Anche in questo caso i prelievi devono essere ben differenziati per zone. 3. Porte e finestre del locale in cui si è sparato, parti del corpo della vittima i suoi indumenti, tutte le superfici nelle immediate vicinanze del supposto epicentro di fuoco Nel tempo sono state sviluppate e messe a punto numerose tecniche di prelievo che possono essere utilizzate per raccogliere le tracce di sparo. Nell’elenco che segue sono ricordate le tecniche più diffuse: 1. Sollevamento mediante supporto adesivo. 2. Tamponamento mediante supporto imbibito. 3. Sollevamento mediante collanti. 4. Prelievo narinale. 5. Prelievo dal condotto uditivo. 6. Prelievo dai capelli.
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CAPITOLO VII
Le tecniche richiamate nei primi tre punti dell’elenco sono utilizzate per prelevare le superfici cutanee in tutti i distretti anatomici, ma anche altri tipi di superfici quali le parti esterne ed interne degli indumenti e le superfici di oggetti o mobili presenti sulla scena del crimine, dall’interno di autovetture, ecc. Il prelievo narinale, che si esegue all’interno delle narici può essere effettuato o mediante bastoncino con testa in cotone idrofilo o, più massivamente, invitando l’esaminando a soffiare il naso su di un apposito fazzoletto. Successivamente in laboratorio, con le metodiche più opportune, eventuali particolati così raccolti saranno trasferiti su stub. Dai condotti uditivi si preleva mediante bastoncino con testa in cotone idrofilo e si utilizzano le medesime procedure per il trasferimento su stub. Ricordiamo che in Inghilterra queste attività di prelievo sono considerate atto medico e quindi rigorosamente eseguite da un medico, che al pari dell’operatore generico ha a disposizione nel kit uno stub destinato al monitoraggio della sua persona al fine di escludere possibili inquinamenti da GSR a lui attribuibili durante il prelievo. Le tecniche di prelievo dai capelli, vista la maggior persistenza temporale dei GSR in questo distretto, è praticata da molto tempo ed è stata protocollata per la prima volta in Israele da Zeichner e Levin(22). La modalità di prelievo per i capelli è di esecuzione estremamente semplice ed efficace. Si pettinano, con un pettine fitto contenuto nel kit, ripassando più volte i capelli dell’indiziato al quale si fa tenere il capo reclinato sulla superficie di un tavolo su cui è stato posto un foglio di carta che raccoglierà il particolato fatto cadere dall’azione meccanica dei denti del pettine. In mancanza di pettine nel kit, si può comunque procedere ad un prelievo, meno efficiente, mediante semplice tamponatura con uno stub dedicato esclusivamente a tale scopo. Di tutte le operazioni eseguite sull’indagato si deve dare conto in apposito verbale che al termine dei prelievi sarà sottoscritto sia dall’indagato che da eventuali difensori presenti all’atto. La giurisprudenza della Suprema Corte definisce le operazioni di prelievo “atto ripetibile”, non concordiamo con tale convincimento alla luce dell’esperienza maturata sul campo. Se nel caso delle superfici cutanee, posto che ormai è ben noto e comunemente accettato, un limite temporale di permanenza sulle superfici cutanee esposte che va da un minimo di tre ore ad un massimo di sei – sette, ed in questo secondo caso solo per i distretti diversi dalle
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mani, non vediamo alcuna necessità di agire con procedure di urgenza per prelievi diversi da questi, ad esempio sugli indumenti. In questo secondo caso infatti, una volta correttamente repertati, gli abiti dell’indagato possono essere conservati anche per tempi lunghissimi prima del prelievo che dunque potrà essere effettuato successivamente garantendo tutti i diritti della difesa. Nella tabella che segue forniamo i limiti temporali proposti dal G. Warman (MPFSL) nel corso del Workshop on Forensic Firearms Examination tenutosi a Belfast presso il Northern Ireland Forensic Science Laboratory il 29 settembre 1993(26).
Superficie di prelievo Superficie cutanea delle mani
Max ore dal fatto 34
Superficie cutanea del volto
Fino a 6
Capelli, mucosa nasale e condotti uditivi
Fino a 12
Indumenti se ancora indossati dopo lo sparo
Fino a 24
Indumenti se dismessi dopo lo sparo
Sacche, veicoli finestre
In funzione delle circostanze, può essere anche indefinito In funzione delle circostanze e se non puliti dopo lo sparo
2. Il prelievo su soggetto vivente. Gli operatori che procedono ad effettuare prelievi per la ricerca di GSR su soggetti indiziati di reato dispongono di appositi kit che contengono il materiale necessario ad eseguire questa operazione. Le forze dell’ordine di ciascun paese dispongono di kit preconfezionati, identificati dal proprio logo, e prodotti industrialmente secondo specifiche richieste. In Italia i più diffusi sono quelli utilizzati dalla Polizia di Stato e quelli utilizzati dall’Arma dei Carabinieri.
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CAPITOLO VII
Un buon kit dovrebbe contenere, oltre ai materiali di protezione che devono essere rigorosamente indossati dall’operatore e posti a protezione della superficie di lavoro, un numero di stubs sufficiente ad effettuare il prelievo su ciascun distretto anatomico in modo selettivo. Come abbiamo visto in precedenza i tempi di permanenza dei GSR sulle superfici cutanee variano notevolmente a seconda dei distretti anatomici interessati, da ciò l’assoluta necessità che ogni stub sia utilizzato esclusivamente per uno di questi. Ad esempio uno stub per la mano destra, uno per la mano sinistra, uno per il volto, uno per i capelli (qualora si proceda per prelievo diretto). Il prelievo all’interno delle narici e quello a livello del meato acustico esterno possono essere effettuati con i medesimi stick utilizzati per i prelievi di tracce biologiche e saranno i tecnici di laboratorio che successivamente provvederanno a trasferire i particolati eventualmente raccolti su stub. Il prelievo dalla mucosa nasale può essere realizzato in modo più efficiente facendo soffiare il naso al soggetto sospettato su di una apposita salviettina, ove questa fosse presente nel kit. Anche in questo caso saranno i tecnici di laboratorio a provvedere al trasferimento su stub dei particolati eventualmente presenti. I capelli possono essere prelevati mediante tamponamento diretto con stub, tuttavia sarebbe meglio procedere per via indiretta facendo reclinare il capo al sospettato su di una salvietta di raccolta e procedendo quindi alla pettinatura dei capelli con pettine fitto determinando così la caduta dei particolati presenti che potranno essere raccolti, subito dopo questa operazione, mediante tamponamento con stub. Ciascuno degli stubs dovrà essere chiaramente identificato per distretto di prelievo e conservato all’interno di contenitori che impediscano il transfer sugli altri stubs relativi al medesimo soggetto indagato, ed infine sigillati in un security bag su cui saranno riportati i dati identificativi del prelievo e le firme dei presenti all’operazione. A nostro avviso il kit utilizzato dal Forensic Science Service è al momento il più efficiente in uso e il kit che abbiamo adottato per il nostro laboratorio a quello si è ispirato.. Per concludere rammentiamo che la genuinità della prova in materia di ricerca dei GSR è elemento cruciale ed affinché ciò sia ottenuto è necessario evitare che l’indagato abbia contatti con personale armato al momento del fermo, che non sia trasportato su vetture di servizio in cui normalmente sale personale armato, che il prelievo non sia effettuato presso uffici di polizia o caserme ma preferibilmente presso l’abitazione
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dell’indagato stesso o all’interno di locali dei quali sia facilmente dimostrabile la più assoluta assenza di possibili fonti di inquinamento specifico. Nelle immagini che seguono sono mostrati sia i materiali che le metodiche di prelievo in uso presso l’Arma dei Carabinieri.
Un kit di prelivo in uso presso l’Arma dei Carabinieri
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CAPITOLO VII
Il contenuto del Kit
Una delle due provette contenenti gli stick di prelievo ed uno dei tre supporti-custodia degli stubs
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Uno dei supporti-custodia degli stubs. Si noti la protezione in carta della superficie adesiva
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CAPITOLO VII
Il tecnico, dopo aver distaccato la protezione dalla superficie dello stub effettua il prelievo sulla mano dell’indiziato.
Terminate le operazioni di prelievo lo stub viene reintrodotto nella custodia-supporto che deve essere immediatamente richiusa.
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Dopo aver richiuso la custodia supporto si procede alla sigillatura.
Completati i prelievi a mezzo stubs si introducono gli stessi nel security bag
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CAPITOLO VII
Anche gli stick utilizzati per i prelievi ai condotti uditivi, richiusi nella provetta di protezione, vengono inseriti nel security bag.
Ad operazioni concluse si procede ad apporre il sigillo sul security bag
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3. Il prelievo da cadavere. Le modalità di prelievo su cadavere non differiscono molto da quelle precedentemente esposte per il soggetto vivente. Qualora si sospetti o si sappia che il soggetto deceduto possa aver partecipato ad un conflitto a fuoco, e quindi aver fatto uso di armi da fuoco, diventa necessario integrare le attività su cadavere con ulteriori procedure operative atte salvaguardia di elementi di prova di molteplice e differente natura. Un crimine violento, come quello perpetrato con armi da fuoco, presenta la necessità di uno studio cadaverico preliminare già in sede di ispezione dei luoghi. Il patologo forense è quel medico chirurgo, specialista in Medicina legale, che, interviene su richiesta dell’Autorità Giudiziaria (art. 359, 360 cpp) o della Polizia Giudiziaria (348 cpp), ed è deputato all’attività tecnica su cadavere. E proprio nella specificità ed esclusività dell’attività tecnica da compiersi direttamente su cadavere, che è insito il compito dello stesso medico di stabilire i tempi dell’intervento e le priorità rispetto ad ulteriori attività tecniche che debbano essere rispettate. Il Codice di Procedura Penale prevede che, nell’ambito di atti urgenti disposti o delegati dal P.M., il Consulente Tecnico possa effettuare una serie di attività finalizzate alla comprensione della dinamica dell’evento criminoso e ad impedire la dispersione di eventuali mezzi di prova. È pur vero che proprio durante le attività tecniche finalizzate allo studio di un caso di omicidio – dal confronto del Patologo Forense con la Polizia Giudiziaria e con il PM procedente – sorge la necessità di svolgere sul posto e nell’immediatezza alcune di queste. Tale necessità, per altro, può divenire ancor più urgente qualora le condizioni ambientali come pioggia imminente e/o vento forte possano contribuire alla dispersione dei mezzi di prova. Pertanto, sia per formazione professionale che per compito istituzionale, il patologo forense dovrà – sulla base del confronto con gli altri operatori – fornire la scansione dei tempi e delle priorità di intervento. Difatti sarà utile, ovviamente a seguito di una valutazione che tiene conto delle specificità di ogni singolo caso, conferire una sequenza razionale delle attività tecniche rispetto all’esecuzione di:
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CAPITOLO VII
- rilievi di temperatura cadaverica per il quesito tanato-cronologico; - ispezione del cadavere e degli abiti; - ispezione di eventuale autovettura o del luogo ove lo stesso giace; - prelievo su superfici corporee di elezione finalizzata alla ricerca dei GSR; - prelievo di eventuali tracce biologiche; - studio e rilievo fotografico della morfologia di tracce biologiche che nel semplice trasporto e/o manipolazione potrebbero essere alterate. Pur essendo consapevoli che tali attività tecniche di natura medico legale siano da rinviare ad una sede idonea come una sala autopsie di una moderna Sezione Universitaria di Medicina legale, appare comunque necessario ribadire che più volte sussiste l’opportunità di procedere ad una anticipazione di alcune delle attività tecniche già in sede di sopralluogo, onde prevenire la dispersione di mezzi di prova. L’algoritmo valutativo deve tenere conto delle reali “possibilità operative” e dei “mezzi” che l’equipe operante ha in quel contesto ambientale ma l’autonomia di giudizio in merito deve essere totale e mai in nessun caso si deve cedere alle sollecitazioni degli investigatori. Sul territorio italiano sussistono ancora grandi differenze operative legate alle realtà culturali ed economiche dei singoli territori. Vi sono Comuni che danno ampia attuazione al DPR 285/90, (Regolamento di Polizia Mortuaria), fornendo un adeguato servizio di recupero delle salme giudiziarie (operatori con DPI, cassoni di recupero in acciaio, body bags, mezzi per la movimentazione dei carichi, autoveicoli dedicati e periodicamente sanificati etc). Di di contro, in altre realtà il recupero ed il trasporto dei cadaveri è affidato a ditte di Onoranze Funebri, secondo accordi più o meno ortodossi che le amministrazioni locali stipulano al fine di non incorrere in sanzioni previste dal regolamento di polizia mortuaria. Pertanto il valore aggiunto all’equipe operante sulla scena del crimine è di fatto conferito dalla sensibilità valutativa del patologo forense che, attribuendo le corrette priorità alle attività da compiere, consente – dopo i preliminari rilievi fotografici di rito e/o riprese audiovideo – di operare, ad esempio, dapprima i prelievi sulle superfici cutanee per la successiva ricerca al SEM EDX dei residui dello sparo, prevenendo così successive manipolazioni incongrue delle estremità cadaveriche da parte dei necrofori, procedendo poi ai rilievi della temperatura rettale operando un movimento minimo necessario ad una svestizione mirata del cadavere.
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Quindi ricercando e prelevando eventuali tracce biologiche di interesse investigativo e solo successivamente procedendo, tenendo in conto un possibile imbrattamento ematico della salma e degli abiti che indossa durante il trasporto, ad una svestizione su telo o lenzuolo al fine di impedire che eventuali elementi balistici possano andare dispersi. Questa sequenza è ovviamente rapportata al singolo caso, alle reali necessità investigative, che comunque non possono in alcun modo prevalere sulle necessità di conservazione della prova, alle condizioni ambientali etc…secondo il principio fondamentale che la salvaguardia della prova prevale su qualsiasi altra necessità occorrente. Le criticità maggiori in caso di omicidio perpetrato a mezzo d’arma da fuoco, sul cui cadavere si debba poi procedere a ricerca dei GSR, derivano infatti dal trasporto dello stesso eseguito non correttamente, dalla movimentazione dello stesso non adeguata, individuando soprattutto come punti di presa le estremità degli arti superiori, senza preventivamente proteggere le stesse con i previsti sacchetti di carta assicurati al terzo medio dell’avambraccio, e manipolando inutilmente il volto ed i capelli. Del resto, in molte realtà, il recupero della salma viene effettuato direttamente in bara, costringendo poi gli operatori delle onoranze funebri ad una nuova manipolazione appena giunti in obitorio per la sistemazione sui tavoli di osservazione o in cella frigorifera. È il patologo forense, in qualità di medico chirurgo e quindi di unico soggetto abilitato ad approcciare il cadavere e quindi a “toccarlo”, che deve assicurare la protezione delle superfici corporee di elezione da possibili inquinamenti e/o perdite di particolati, ricordando che su soggetto deceduto le tracce di sparo possono permanere per tempi lunghissimi se il cadavere non è disturbato da fattori esterni. Avrà inoltre cura, durante l’ispezione esterna, di evitare di toccare (e di far toccare da chicchessia) mani e volto senza essersi adeguatamente protetti con guanti monouso prelevati da confezione sigillata e sostituiti di frequente (lo stesso guanto imbrattato è veicolo di inquinamento così come lo sono, ovviamente, gli operatori di PG presenti). Gli eventuali agenti di PG o militari operanti non dovranno avere alcun contatto con il cadavere (ricerca di documenti ed effetti personali) prima dei prelievi per i GSR. Attività che – in caso di somma urgenza – potrà eventualmente essere chiesta dagli operanti proprio al patologo che sta eseguendo l’attività tecnica. Mani e volto del cadavere, qualora non fosse possibile procedere ai prelievi in situ ed in corso
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di esame medico legale preliminare, prima del trasferimento in obitorio da parte dei necrofori, dovranno essere protetti con sacchetti in carta scevri da ogni possibilità di inquinamento specifico. Tale metodica non solo consente di proteggere le superfici coperte ma permette anche di conservare all’interno dei sacchetti eventuale particolato distaccatosi dalle superfici cutanee che potrà essere facilmente raccolto tamponando con stubs l’interno degli stessi sacchetti di protezione, adeguatamente recuperati, repertati e conservati. La buona pratica che quindi suggerisce di evitare svestizione anche parziale del cadavere in sede di ispezione, può essere superata solo motivatamente, rispettando comunque le modalità operative sopra esposte, qualora il medico operante sia un patologo forense (specialista in medicina legale) documentatamene esperto anche in materia balistico-forense. È esperienza consolidata difatti che frequentemente ispezioni esterne cadaveriche condotte sul campo, in assenza di veri specialisti del settore, o peggio, condotte confusamente da soggetti privi delle conoscenze criminalistiche necessarie, divengono causa di dispersioni della prova, a volte poi rivelatesi cruciali, per il buon esito delle indagini stesse. Ricordi sempre il medico legale intervenuto sui luoghi che la conservazione della prova sul cadavere è sua responsabilità diretta e pertanto non consenta mai che le esigenze altrui possano prevalere sui suoi doveri di corretta custodia. Ciò ovviamente ha valore dal momento in cui lo stesso specialista giunge sulla scena del crimine, assumendo automaticamente il coordinamento delle attività su impulso del PM procedente. È proprio in funzione di quest’ultima considerazione che il primo atto da compiere da parte del medico legale è proprio ottenere immediatamente tutte le notizie relative all’attività già svolta in sua assenza, dandone immediatamente atto a verbale. Tale criticità purtroppo è frequente in quanto, per strutturazione territoriale e per organizzazione delle forze dell’ordine, i primi a giungere sul posto in genere sono gli operatori meno competenti per l’area tecnica, i quali dovrebbero limitarsi, oltre alle comunicazioni di rito, al congelamento dello stato dei luoghi, impedendo con ogni mezzo l’accesso a chicchessia, e soprattutto a se stessi, in attesa che giungano sul posto gli specialisti. Fermo restando questo principio generale, inteso soprattutto alla salvaguardia della correttezza dell’iter di ricerca delle tracce di sparo,
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non possiamo non tener conto che già in corso di ispezione esterna il medico legale operante può modificare le priorità in funzione di un’identica salvaguardia di prove di altra natura.
4. Protocolli di custodia della prova e garanzie di genuinità. Come meglio e più diffusamente discuteremo nei capitoli IX e X, la validità di un’indagine mirata alla ricerca delle tracce di sparo può essere fortemente condizionata od addirittura annullata da operazioni di prelievo mal eseguite durante le quali non sono stati rispettati i corretti protocolli che devono garantire l’assoluta assenza di possibili inquinamenti specifici. Effettuare prelievi su superfici cutanee oltre i limiti temporali previsti per ciascuno di questi distretti deve essere considerato intervento eccezionale eseguibile solo in casi particolari, ad esempio quando si può dimostrare che l’indiziato ha continuato ad avere contatti con l’arma nel tempo intercorrente fra il fatto reato ed il prelievo. L’operatore che esegue i prelievi, oltre a rispettare le precauzioni imposte sulla propria persona, non può e non deve essere il medesimo soggetto intervenuto sui luoghi del crimine e, men che mai, deve aver maneggiato eventuali reperti balistici od armi rinvenuti nei luoghi né avere avuto contatti con i colleghi che queste incombenze hanno assolto. Si deve evitare di trasportare, prima dell’effettuazione dei prelievi, il sospettato su macchine di servizio o, peggio ancora, sottoporre a prelievo soggetti che siano venuti a contatto durante il fermo con agenti operanti, specie se il fermo è avvenuto dopo colluttazione a seguito di resistenza all’arresto. Se i prelievi vengono effettuati in locali di polizia giudiziaria (anche Gabinetti di Polizia Scientifica che non posseggano apposito locale protetto e monitorato da periodici controlli strumentali), cosa che come già visto dovrebbe essere assolutamente evitata, la struttura deve garantire l’assoluta “pulizia” di tali luoghi, che deve essere documentata sia con prelievi di controllo sistematici e certificati da ente terzo, sia con l’esecuzione di prelievi occasionali effettuati subito prima di procedere sull’indagato, che vanno allegati ed inviati al laboratorio unitamente agli stubs formati tamponando l’indagato stesso. Se gli indagati da prelevare sono più di uno i prelievi occasionali di controllo devono essere ripetuti prima di ogni altra azione su ogni
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indagato successivo al primo e, ovviamente, tutti gli ausili di prelievo, dai guanti che indossa il prelevatore alle buste di conservazione dei prelievi devono essere rigorosamente nuovi ed estratti da confezioni monouso certificate. Tutto ciò premesso si consiglia, in tutti i casi in cui ciò sia possibile, di procedere ai prelievi presso l’abitazione dell’indagato, fermo restando che anche in tal caso devono essere poste in essere tutte le precauzioni necessarie ad evitare qualsiasi possibilità di inquinamento addebitabile all’operatore. Il sequestro, la conservazione ed il confezionamento di effettiersonali, indumenti od oggetti appartenenti all’indagato dovrà essere condotto con le opportune cautele da personale che preventivamente abbia effettuato su di se, e sulle superfici su cui opera, i bianchi di controllo che saranno avviati al laboratorio unitamente a quanto dovrà essere sottoposto ad analisi. Il confezionamento dei reperti sarà effettuato utilizzando buste di sicurezza numerate e monouso a sigillo inviolabile. I reperti così formati dovranno rimanere nella disponibilità degli agenti operanti solo per il tempo strettamente necessario per avviarli all’Ufficio Corpi di Reato competente per territorio, che successivamente provvederà a consegnarli personalmente al tecnico officiato per la ricerca di eventuali tracce di sparo che, a sua volta, procederà all’apertura dei plichi nei modi previsti dalla legge per i reperti da sottoporre a perizia o consulenza tecnica che, anche se limitatamente a quest’atto preliminare, deve essere considerata irripetibile. Il soggiorno dei reperti così formati presso uffici di PG o, peggio, la consegna diretta da parte di questi ai laboratori è inammissibile in una corretta catena di custodia.
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CAPITOLO VIII CENNI SULLA MICROSCOPIA SEM/EDX SOMMARIO: 1. Il SEM. - 2. La microsonda analitica EDX. - 3. Problemi interpretativi degli spettri EDX. - 4. Preparazione del campione ed esame analitico.
1. Il SEM. Il fascio di elettroni generato dal SEM incide sul campione determinando l’emissione di tre segnali di interesse: 1) Gli elettroni secondari, provenienti da un volume del campione molto piccolo ma significatamene più grande del fascio stesso, raccolti e rivelati per formare l’immagine, 2) gli elettroni retrodiffusi facenti parte del fascio entrate e rimbalzati indietro in un volume di campione un po’ profondo e largo, che raccolti da un secondo rivelatore forniscono un’immagine meno risolta ma che contiene informazioni relative alla composizione del campione, 3) emissioni X, alle energie caratteristiche degli elementi presenti, sono eccitate in un volume di elemento del campione considerevolmente più profondo e più largo. Gli elettroni secondari pertanto sono rivelati per formare l’immagine, gli elettroni retrodiffusi restituiscono un’immagine a più bassa risoluzione contenente anche informazioni composizionali. L’immagine ottenuta dagli elettroni retrodiffusi, opportunamente raccolti ed elaborati, può anche mettere in evidenza la topografia della superficie del campione. Il componente meccanico più critico di un SEM è il tavolino porta campione, che permette ai campioni di essere inclinati, ruotati e mossi lungo le direzioni degli assi x, y e z. Quando si osserva ad ingrandimenti di diverse centinaia o diverse migliaia di volte, si possono manifestare enormemente amplificate discontinuità dei movimenti x e y causati da una cattiva esecuzione degli stessi con salti del campione lungo il campo di osservazione che rendono difficile la centratura dell’oggetto di interesse ed a volte impossibile condurre una ricerca rapida e sistematica su una grande area.
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CAPITOLO VIII
Lo strumento utilizzato deve poter fornire un potenziale di accelerazione superiore a 25 KV con variazione continua o a step. I campioni, che possono essere danneggiati dal fascio di elettroni eccessivamente intenso, devono essere osservati alla più bassa tensione di accelerazione utile. Una tensione di accelerazione di almeno 20 KV è tuttavia necessaria per ottenere una sufficiente emissione di fotoni X. Operando a 25 KV si ottiene la massima risoluzione, ma si determinano contaminazioni più rapide della colonna e delle aperture, specialmente in presenza di materiale organico, come l’adesivo, il che comporta interventi di pulizia più frequenti. Quando l’operatore individua sul monitor di osservazione una particella di possibile interesse, o per la sua forma o per la sua luminosità, aumenta l’ingrandimento per ottenere una visione migliore. Se la particella è ancora considerata interessante si aumenta l’ingrandimento fino a che la particella riempie lo schermo (mantenendola centrata) e si comincia un’analisi ai raggi X. Ad un ingrandimento così elevato l’immagine perde enormemente di risoluzione, ma lo scopo è solo quello di mantenere la particella centrata per l’analisi X.
2. La microsonda analitica EDX. Il rivelatore comunemente impiegato per la microanalisi X al SEM, è a stato solido e fornisce spettri di analisi a dispersione di energia. Le altezze di picco relative alle righe di emissione caratteristiche non sono proporzionali alle concentrazioni. Per campioni lappati e perfettamente pian paralleli, le ampiezze potrebbero essere convertite in concentrazioni mediante complessi algoritmi matematici previa taratura della microsonda con campione standard per ciascun elemento ricercato. Non essendo utile alla ricerca una rigorosa determinazione quantitativa si assume la seguente classificazione convenzionale degli elementi come costituenti maggiori, minori od in traccia basata sulle ampiezze dei picchi piuttosto che sulle concentrazioni. Elementi il cui picco maggiore raggiunge almeno il 30% dell’ampiezza del picco più alto dello spettro è definito “maggiore”. I costituenti minori sono quegli elementi il cui picco più elevato è più basso del 30 % del picco principale dello spettro ma è ancora chia-
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ramente identificabile mantenendo in scala il picco di riferim,ento ovvero quello più alto dello spettro. Col termine traccia si indicano gli elementi che possono solo essere visti od identificati amplificando la scala verticale o proseguendo il conteggio delle emissioni X fino a che il picco più alto va ben oltre il limite superiore della scala. Queste definizioni date da Wolten e Coll. sono state successivamnente modificate, come vedremo più avanti da Wallace e Mc Quillan.
3. Problemi interpretativi degli spettri EDX Righe extra, artefatti L’assorbimento del cristallo rivelatore al silicio di emissioni X ad energia più elevata di quella della riga K α del silicio può determinare l’emissione di un raggio X K α del silicio che apparirà nello spettro accompagnato da un picco di fuga la cui energia sarà pari alla differenza fra l’energia della riga di eccitazione e quella della riga K α del silicio (1,74 KeV). Se particolarmente intense, le righe M α del piombo non risolte (2.34 KeV e 2.35 KeV), sono accompagnate normalmente dalla riga K α del silicio a 1.74 KeV e da un picco di fuga a 0.606 KeV. L’operatore, dunque, dovrà sempre tenere in conto il rapporto tra l’intensità della riga M α del piombo e quella spuria K α del silicio: un aumento dell’intensità dell’ultima indica la reale presenza di silicio nel campione. L’operatore deve anche essere consapevole della possibilità che altri picchi, particolarmente intensi, possono causare fenomeni di fuga del silicio.
Righe extra reali L’analisi degli spettri è resa più facile e più rapida se il sistema di rivelazione ed analisi è stato disegnato in modo tale da fornire i markers di riferimento per ciascun elemento sugli spettri delle particelle esaminate. Gli spettri ai raggi X dei particolati esaminati sono più ricchi di quanto comunemente si creda.
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CAPITOLO VIII
Risoluzione degli overlaps dei picchi: Calcio e antimonio Il calcio è riconosciuto dalle sue righe KĮ e Kȕ a 3.69 KeV e 4.02 KeV. L’antimonio è identificato dalla sua riga LĮ 3.60 KeV, Lȕ1 a 3.84 KeV e Lȕ2 a 4.10 KeV. A causa dell’overlap che si determina fra la riga K del calcio con quella L dell’antimonio, la discriminazione fra questi due elementi può diventare difficile quando entrambi sono presenti. Calcio e antimonio in presenza di bario Il bario è riconosciuto principalmente dalle sue righe LĮ a 4.46 KeV, Lȕ1 a 4.83 KeV, Lȕ2 a 5.16 KeV e Lγ1 a 5.53 KeV. Se i segnali del bario sono sufficientemente intensi, è possibile anche risolvere la debole riga Ll a 3.95 KeV, la cui presenza complica la rivelazione di piccole quantità di calcio e di antimonio, e questa è una situazione piuttosto comune. Titanio e bario Con una risoluzione del rilevatore di 170 eV, l’identificazione del titanio e del bario può presentare problemi di risoluzione analoghi a quelli sopra discussi per il calcio e l’antimonio. I moderni rivelatori consentono risoluzioni dell’ordine di di 140 – 150 eV riducendo sufficientemente i problemi di overlap anche senza eliminarli del tutto. Piombo e zolfo Lo spettro M del piombo contiene un certo numero di righe, ma la più intensa non è sufficientemente risolta dalla sua vicina e forma con questa un unico singolo largo picco a 2.4 KeV. Lo zolfo da un unico picco, la riga K, proprio a 2.4 KeV non risolto rispetto alla M del piombo. In presenza di piombo, dunque, la K dello zolfo si sovrappone al picco picco M del piombo. Per decidere se un picco a 2.4 KeV è dovuto allo zolfo o al piombo, si deve verificare l’eventuale presenza delle righe L del piombo. Se queste sono assenti, il picco a 2.4 KeV è attribuibile allo zolfo, se, invece, sono presenti, il picco a 2.4 KeV è o del solo piombo o di una miscela di piombo e zolfo.
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4. Preparazione del campione ed esame analitico. Il primo step nell’analisi è la marcatura identificativa del campione da sottoporre ad analisi, da apporsi sul lato inferiore dello stub, allo stesso tempo si effettua una marcatura di riferimento anche sul verso dello stub, il che consentirà in futuro, ove fosse necessario riesaminare il campione, di reinserirlo sul tavolino approssimativamente con la stessa orientazione della prima osservazione e quindi ritrovare più facilmente le medesime particelle precedentemente analizzate. Il secondo step è la metallizzazione dei campioni. Il campione per poter essere esaminato al SEM deve essere reso conduttivo e ciò si ottiene mediante deposizione di un sottile strato di carbonio mediante sputtering sotto vuoto. In alternativa possono essere deposti anche sottili film di altri metalli. Per ottenere immagini di migliore qualità sono spesso usati metalli nobili come l’oro, il rodio ed il palladio, tuttavia films di questi metalli penalizzano la microanalisi EDX poiché attenuano le intensità di emissione degli elementi sottostanti per il notevole assorbimento di elettroni da essi determinato, inoltre, tali metalli danno origine ad ulteriori fastidiosissime interferenze spettrali. Questo secondo passaggio tuttavia non è necessario se lo stub è stato montato con disco di carbonio adesivo poiché in tal caso il campione è di per se quasi sempre sufficientemente conduttivo da poter essere esaminato in alto vuoto. Analogamente la metallizzazione non è necessaria se si dispone di uno strumento di nuova generazione in grado di operare in basso vuoto.
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CAPITOLO IX LA VALUTAZIONE DI PRIMO LIVELLO SOMMARIO: 1. Criteri generali. - 2. I più recenti protocolli di classificazione. 3. La raccolta dei dati analitici. - 4. Considerazioni finali.
1. Criteri generali. Come anticipato nel IV capitolo dalla pubblicazione del Final Report fino ai primi anni di questo secolo gli esperti del settore si sono rigidamente attenuti alle classificazioni proposte da Wolten e collaboratori pur tenendo in conto delle modifiche e precisazioni proposte successivamente da J. Wallace. In buona sostanza si consideravano indicatori univoci dello sparo di un’arma da fuoco le particelle contenenti contemporaneamente piombo, antimonio e bario e, sia pure con una certa prudenza, quelle contenenti antimonio e bario. Particelle composte da due od anche uno solo degli elementi piombo, antimonio bario erano considerate semplicemente indicative poiché potevano provenire oltre che dallo sparo di un’arma anche da altre innumerevoli fonti alternative. Sotto determinate condizioni era ammessa la contemporanea presenza di altri elementi che tipicamente potevano provenire dal bossolo, dalla capsula di innesco o dal proiettile. La morfologia e la granulometria del particolato rinvenuto, pur prese in considerazione, non sempre erano ritenute sufficientemente significative per confermare od escludere l’origine da sparo di una particella, e tale atteggiamento derivava in massima parte dalla convinzione profonda che il criterio composizionale era sufficientemente stringente per l’espressione del giudizio. Inoltre la pratica quotidiana e le innumerevoli analisi condotte su prelievi diretti dal bossolo sembravano dimostrare che con le particelle più tipiche, quelle sferiche, che presentavano anche particolari andamenti superficiali, coesistevano altre particelle di forma e dimensioni di ogni tipo e misura composte dai medesimi tre elementi piombo, antimonio e bario. Dalla certezza che non esistessero fonti alternative per le particelle a composizione univoca discendeva la convinzione diffusa che an-
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CAPITOLO IX
che una sola particella rinvenuta su di un intero stub fosse sufficiente per affermare la positività del risultato analitico. La possibilità di un inquinamento innocente specifico, ritenuta sempre inattuale, non turbava i sonni degli operatori di settore che, almeno nel nostro paese, tenevano in ben poco conto le modalità di fermo, trasporto e successivo prelievo degli indiziati. Nel 2000, l’individuazione da parte di Carlo Torre e di uno di noi, di una fonte alternativa di particelle contenenti piombo, antimonio e bario, giunse come un fulmine nel cielo sereno dei laboratori istituzionali di tutto il mondo. Crollava il mito dell’univocità e da quel momento in poi, se la comunità internazionale avesse convalidato le nostre osservazioni, la ricerca delle tracce di sparo non poteva continuare con le stesse modalità del passato. Questa attività diveniva estremamente delicata e praticabile solo da chi possedesse un’adeguata preparazione accademica e fosse abituato al metodo scientifico ed al rigore intellettuale del laboratorio di ricerca. Per essere più chiari: qualsiasi tecnico ospedaliero che operi presso un laboratorio di analisi cliniche è perfettamente in grado di determinare strumentalmente il valore di una azotemia o di una glicemia ma certamente non può permettersi di esprimere una diagnosi basandosi sui dati analitici da lui stesso ottenuti, sia pur correttamente. Sarà il clinico a formulare la diagnosi dopo aver interpretato il dato analitico alla luce delle sue conoscenze mediche, che vanno ben oltre quelle necessarie all’uso corretto di uno strumento diagnostico per quanto complesso esso possa essere. A fronte dell’annuncio dato alla comunità scientifica secondo i normali canali della pubblicazione su rivista internazionale del ritrovamento della fonte alternativa si scatenarono querelles internazionali a tutti i livelli e solo nel 2005 la comunità scientifica accettò definitivamente il fatto che non esistevano più indicatori univoci dello sparo. Ciò non cambiò la vita a chi aveva scoperto la fonte alternativa, e che da sempre aveva operato muovendosi su due livelli interpretativi successivi: un primo livello analitico dedicato al rinvenimento di particolati compatibili con lo sparo di un arma ed un secondo livello diagnostico, ben più complesso del primo, che tenendo conto di innumerevoli fattori, e soprattutto delle condizioni al contorno del caso indagato, consentisse di correlare o meno allo sparo, anzi a “quello sparo”, le tracce rinvenute. Nel successivo capitolo IX vedremo in dettaglio quali siano le conoscenze tecniche e scientifiche che deve possedere l’esperto che si
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dedica alla ricerca delle tracce di sparo e di quali dati si debba disporre per raggiungere un risultato scientificamente sostenibile.
2. I più recenti protocolli di classificazione. Studi relativamente recenti hanno consentito di accertare che anche particelle, financo sferoidali, contenenti piombo, antimonio e bario non possono e non debbono più essere considerate univocamente ed esclusivamente prodotte dalla deflagrazione di inneschi di cartucce. Si è infatti visto che particelle di questo genere si formano anche nei sistemi di frenatura a disco di svariate autovetture.(1) (2) (3) (4) Prima di procedere oltre è certamente utile fornire qualche ulteriore chiarimento sulla valenza degli standard ASTM. L’ASTM, che è l’equivalente statunitense delle agenzie tecniche europee di standardizzazione (UNI, DIN, CE etc.), agenzie che forniscono indicazioni su metodi o specifiche tecniche per eseguire misure e stabilire caratteristiche nei più svariati settori della tecnologia ed ingegneristica, fra i numerosissimi standards tecnico-industriali pubblicati ne ha inserito anche uno specifico per la classificazione dei GSR. Co me già precedentemente visto dalla lettura del documento ASTM risulta evidente che il termine “unique” che nella più datata classificazione di Wallace era stato scelto per indicare l’univocità di origine, non è più utilizzato ed è stato sostituito dal termine inglese “characteristic” che può essere tradotto in italiano con il termine “caratteristiche” ovvero un termine ben più debole del vecchio univoche e che quindi non è più espressione dell’ormai superato concetto di univocità. Analogamente le particelle che fino a qualche tempo fa erano considerate semplicemente indicative dello sparo sono definite con il termine inglese “consistent” del quale si ritiene corretta la traduzione in italiano con il termine “compatibile”. Riteniamo che anche in questo caso gli estensori abbiano voluto mitigare la precedente accezione per evitare qualsiasi equivoco e ciò avendo finalmente recepito l’orientamento corrente del mondo scientifico. Apprendiamo anche che affinché una particella possa essere considerata characteristic o consistent deve presentare una morfologia sferoidale, non cristallina ed una granulometria compresa fra 0.5 e 5.0 μm od in alternativa una forma irregolare con granulometria compresa fra 1.0 e 100.0 μm a condizione che tali morfologie e granulometria
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siano compatibili con prelievi effettuati sulle munizioni o sulle armi accertatamente impiegate per il crimine per cui si indaga. Le particelle caratteristiche oltre a soggiacere alle condizioni morfologiche e dimensionali sopra ricordate devono contenere contemporaneamente i tre elementi Pb Sb, e Ba e nella loro composizione è ammessa la presenza contemporanea di uno o più dei seguenti elementi Si, Ca, Al, Cu, Fe (solo in tracce), P, Zn, Ni (in presenza di Cu e Zn), K, Cl, Sn, Zi (punto 8.1.3.2). La composizione formata da Sb e Ba per essere presa in considerazione non deve contenere più di una traccia di S e/o Fe. Nelle immagini che seguono sono rappresentate alcune microfoto di veri GSR, ovvero particelle che possono essere definite tali conformemente allo standard ASTM.
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3. La raccolta dei dati analitici. Nel capitolo VIII si sono discusse le modalità di gestione del complesso SEM/EDX per la ricerca delle tracce di sparo. Sappiamo dunque che i moderni strumenti in uso presso i laboratori criminalistici sono gestiti da software appositamente progettato per la ricerca automatica del particolato di interesse, e l’operatore, inserito il campione nella camera del SEM, ottenute le necessarie condizioni di vuoto, imposta i parametri per la ricerca automatica ed avvia il run a conclusione del quale procede all’esame del report che contiene tutte le particelle rinvenute classificate secondo i criteri impostati in precedenza. Qualora siano presenti particelle di interesse si procederà a riesaminarle tutte in manuale acquisendo un nuovo spettro e verificando, facendo uso di tutte le opzioni analitiche disponibili, la composizione ed il mutuo rapporto fra gli elementi rivelati, e, ove necessario, acquisirà una accurata mappatura X delle particelle che presentassero margini di dubbi interpretativi. Di ciascuna particella di interesse si acquisisce una serie di foto a rapporti di ingrandimento crescenti, ciò renderà più facile il ritrovamento della medesima particella ad altri che in un secondo tempo dovessero verificare il lavoro fatto dal primo operatore.
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Infine, a ricerca ed analisi concluse, l’operatore procederà alla stampa di tutti i reports documentativi dei risultati ottenuti che saranno forniti all’Autorità committente in allegato alla relazione di perizia o di consulenza a seconda del tipo di mandato ricevuto.
4. Considerazioni finali. Le linee guida esposte nei paragrafi precedenti, ben note a tutti gli operatori che si dedicano scientificamente alla ricerca delle tracce di sparo, tuttavia non possono essere rigidamente ed acriticamente applicate a tutti i casi reali di lavoro. I criteri composizionali dettati dalle linee guida possono essere utilmente adottati per le miscele di innesco ancora oggi più diffuse, ossia quelle contenti sali del piombo, dell’antimonio e del bario, ma sono del tutto incoerenti con miscele di natura diversa che sempre più si vanno diffondendo per la loro minore tossicità e maggiore stabilità. Molti di questi nuovi composti non contengono i tre classici elementi o ne contengono solo una parte, altre prevedono nella loro formulazione l’aggiunta di elementi come il cerio ed il lantanio, altre ancora sono essenzialmente basate su composti del titanio. Questa estrema variabilità composizionali esige un continuo aggiornamento da parte dello specialista e nel contempo rende impossibile qualsiasi ricerca di tracce di sparo che non sia sufficientemente mirata. Al ricercatore che si accinge ad una ricerca di tracce di sparo devono essere forniti, oltre a tutte le indicazioni utili riguardanti il fatto per cui si indaga, anche i reperti balistici rinvenuti sui luoghi ed eventualmente anche l’arma, se in possesso degli inquirenti. In linea di massima sarebbe bene che chi è stato demandato alla ricerca delle tracce di sparo effettuasse anche l’indagine balistica. Qualora ciò non fosse possibile è imperativo che i reperti balistici vengano affidati prima a chi è stato incaricato di ricercare le tracce di sparo e soltanto dopo che questi abbia effettuato su di essi i prelievi di riscontro. Quanto emerso dall’indagine balistica dovrà essere tempestivamente comunicato all’esperto che ricerca le tracce di sparo ed il balistico dovrà sempre agire collegialmente con quello. Un esame del particolato prelevato dal proiettile può spesso dare informazioni essenziali per l’interpretazione del caso e ciò fin dall’approccio di primo livello. Particolari condizioni termodinamiche di uno sparo potrebbero avere esaltato, attenuato, ritardato od addirit-
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tura stravolto del tutto il meccanismo di formazione dei residui di sparo con la conseguenza che siano scarsamente rappresentate le morfologie sferiche più classiche o del tutto assenti. Il conoscere questi dati prima ancora di esaminare i prelievi a cui stato sottoposto l’indagato o gli indumenti a lui sequestrati è ovviamente di capitale importanza nell’economia dell’indagine. Il fenomeno della formazione e successivo rilascio nell’ambiente circostante delle tracce di sparo di un’arma è estremamente complesso e per di più assolutamente casuale e la sua interpretazione è un’attività criminalistica delicatissima che, pur valida, troppo spesso è ritenuta a torto la soluzione per eccellenza di un caso giudiziario. Ancora una volta ricordiamo che, al di la delle valutazioni complessive a cui comunque deve essere sottoposto il risultato analitico, una positività non può in alcun modo essere considerata prova che il soggetto prelevato abbia sparato e men che mai che ciò abbia fatto in una particolare occasione. Un positivo è al più un mero indizio che deve essere valutato nell’ambito dell’intera economia processuale e la valenza che esso può assumere non è intrinseca al dato strumentale, di per se poco significativo, ma può derivare solo dal confronto con le condizioni al contorno del caso al termine di una valutazione complessiva di tutte le oggettività eventualmente emerse nel corso dell’indagine o dell’istruttoria. Va dunque posta estrema prudenza nell’attribuire qualsivoglia significato al dato strumentale: solo un’accorta ed attenta lettura della vicenda nel suo complesso potrà poi consentire una serena valutazione di secondo livello specie quando si affrontano problematiche tecnico scientifiche che per loro stessa natura possono condurre a conclusioni incerte ed ambigue.
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CAPITOLO X LA VALUTAZIONE DI SECONDO LIVELLO SOMMARIO: 1. Criteri generali. - 2. Il fattore tempo/dimensione. - 3. Inquinamento e transfert. - 4. La repertazione e la catena di custodia dei reperti balistici e degli indumenti degli indiziati.
1. Criteri generali. La perizia o la consulenza tecnica in materia di ricerca delle tracce di sparo nelle forme del nostro codice di rito si forma solo nel momento in cui l’esperto di settore procede alla valutazione dei dati analitici alla luce delle condizioni al contorno del caso in esame, ovvero quando giunge alla formulazione delle conclusioni mediante “l’espressione di un parere tecnico scientificamente motivato”. I dati analitici bruti, ancorché dimostrativi della presenza di veri GSR, sono totalmente privi di significato se non armonicamente correrelabili ai dati di specifica e di generica contenuti in atti. Nei successivi paragrafi vedremo quanto sia cruciale per la formulazione delle conclusioni la compatibilità del particolato rinvenuto rispetto alla composizione della miscela d’innesco presente nelle cartucce utilizzate per il crimine, la congruenza dei tempi trascorsi fra il fatto ed il prelievo con i limiti temporali previsti perc ciascuna elle superfici prelevate e così via. Ogni possibilità di inquinamento specifico innocente dovrà essere indagata a fondo al fine di fugare qualsiasi ragionevole dubbio in proposito. Nel caso di possibile provenienza del particolato rinvenuto da fonte diversa dallo sparo di un arma si dovranno condurre indagini specifiche e giungere a conclusioni univoche, scientificamente dimostrate, sia in senso positivo che negativo. La valutazione di secondo livello dovrà essere dunque una serrata autocritica dei risultati ottenuti al fine di considerarli o meno validati dalle circostanze specifiche dell’indagine in atto. Solo al termine di tale percorso si potrà dimettere in forma compiuta il parere conclusivo corredando doverosamente la propria relazione di tutta la documentazione raccolta durante l’indagine tecnica per consentire a tutte le parti
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di causa di esercitare il diritto di verifica e, se del caso, di critica del convincimento raggiunto.
2. Il fattore tempo/dimensione. Sussiste uno stretto rapporto fra la quantità e le dimensioni delle particelle residui dello sparo rinvenibili e il tempo trascorso fra sparo e prelievo. Dobbiamo innanzitutto ricordare come approfonditi esperimenti di laboratorio, confrontati ad accurate valutazioni scientifiche dei casi reali, hanno permesso di stabilire un limite massimo di permanenza dei residui (qualsivoglia sia la loro dimensione) sulle superfici delle mani (e dei tessuti). Questo limite risulta individuato intorno alle quattro ore. Sottolineamo che i tempi di permanenza sulle mani delle particelle residuo dello sparo, non differiscono da quelli di permanenza superficiale sui tessuti a trama fitta,: le particelle residui dello sparo vengono perse dalla superficie degli indumenti grosso modo con la medesima velocità con cui vengono perse dalla superficie delle mani. J. Andrasko e A.C. Maehly (1) ritengono aleatoria la ricerca di residui su un prelievo effettuato oltre 3 ore dopo lo sparo e affermano: “ Il fattore tempo. Nei casi reali, quando una persona è sospettata di aver sparato con un'arma da fuoco è di grande importanza poter individuare i residui sulle mani anche qualche tempo dopo lo sparo. È noto che la quantitativo di tracce dello sparo depositatesi sulle mani nel caso di normale attività decresce velocemente al trascorrere del tempo. Tale fenomeno ovviamente non può verificarsi nei casi di suicidio. Per quantificare l'influenza del fattore tempo sull'individuazione delle tracce di sparo con il SEM, sono stati eseguiti cinque esperimenti sparando un solo colpo in ciascuno di essi. Dopo lo sparo i soggetti hanno continuato a svolgere le loro normali attività quotidiane (quali scrivere a macchina, leggere, attività tecniche o di laboratorio). L'unico divieto imposto è stata la proibizione di lavarsi le mani. l tempi intercorsi tra lo sparo ed il prelievo sono stati di 1, 2, 2½, 3 e 5 ore. Con
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le analisi successivamente eseguite vennero individuate tracce di sparo in tutti test, eccettuato l'ultimo ( 5 ore ).” Ricordiamo che l’aver sparato più colpi non comporta un prolungamento proporzionale dei tempi di persistenza in quanto i principali fattori di perdita sono legati alla forza di gravità e all’attività dello sparatore. Detti fattori agiscono con la medesima intensità su qualsiasi numero di particelle presenti, siano esse 10 o 1.000. Tutte le sperimentazioni effettuate hanno dimostrato la bassissima persistenza temporale sulle mani dei residui di sparo. Come risultato di questa realtà nei Paesi più avanzati la ricerca dei residui di sparo, in questi ultimi anni, si è orientata verso i capelli dell'indiziato; la ricerca sulle mani viene eseguita solo se il prelievo avviene nella certa immediatezza dello sparo. J.S. Wallace e J. McQuillan(2) affermano a tal proposito: “Le statistiche elaborate sui risultati delle analisi condotte su casi di lavoro dimostrano che il 98% di tutti gli indagati sulle cui mani sono state rinvenute tracce di sparo erano stati arrestati (e sottoposti a prelievo) entro due ore dal fatto reato. Ne consegue che i prelievi eseguiti ad oltre due ore dallo sparo non sono più analizzati.” Anche in un sia pur ormai datato convegno tenutosi il 29 e 30 Settembre 1993 a Belfast presso il Northern Ireland Forensic Science Laboratory si è ribadito che il tempo massimo per il prelievo sulle mani è di 3-4 ore dopo lo sparo. Che questo limite sia universalmente accettato dagli specialisti risulta anche da quanto scritto in uno dei più recenti testi di balistica giudiziaria pubblicati. Si tratta dell’ Handbook of Firearms and Ballistics di Brian J. Heard, nel quale, a pag. 190, possiamo leggere: Persistenza dei residui di sparo Le particelle GSR (gun shot residues = residui di colpo di arma da fuoco) depositate sulle mani quale conseguenza di uno sparo non rimangono fissate grazie a una “magica” proprietà adesiva. E neppure rimangono infisse nella cute. Esse risultano semplicemente posate sulla superficie della
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pelle. Vengono pertanto prontamente rimosse da una qualsiasi normale attività. ... omissis ... Nondimeno, tutte le particelle residuo di sparo verranno rimosse dalle mani dalla normale attività quotidiana entro tre ore da quando è stata sparata l’arma.
Il grafico che segue (Figura 6.4) visualizza in modo chiarissimo la permanenza delle particelle in funzione del tempo trascorso.
Fig. 6.4. - GSR retention on the hands Passando al rapporto tempo/dimensioni, dal già citato lavoro di J. Andrasko e A.C. Maehly – “Detection of Gunshot Residues on Hands by Scanning Electron Microscopy”(27) apprendiamo che dalle loro osservazioni emerge che il tempo trascorso dallo sparo influisce crucialmente sia sul numero di particelle GSR rinvenute sia sulla granulometria di quelle ancora rimaste: dopo appena due ore dallo sparo si rinvengono solo particelle più piccole di 3 μm.
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Nel SEM/MPA Training Manual(29), edito nell'Aprile 1980 dal Metropolitan Police Forensic Science Laboratory di Londra, a pag. 11, nell'ambito del paragrafo dedicato alla distribuzione e persistenza, leggiamo: “La persistenza dei residui è stata approfonditamente studiata con il SEM (microscopio elettronico a scansione) e con altri metodi. Le particelle vengono perse dalla superficie della pelle e dal vestiario in un modo estremamente rapido (fig. 12), e vengono rimosse completamente lavando le mani o anche detergendole con un panno asciutto, ... Le particelle più grandi, quelle più facili da trovare durante la ricerca, vengono perse per prime, cosicché tre o quattro ore dopo lo sparo rimangono solo piccole quantità di particelle minori. Fortunatamente i residui possono persistere sul vestiario per periodi più lunghi; risultati positivi sono stati ottenuti fino a 24 ore dopo lo sparo.” Per chiarire, a scanso di equivoci, l’ultima frase sopra riportata in corsivo grassetto, ricordiamo che si riferisce alle particelle eventualmente indovatesi nelle maglie di tessuti a trama larga e successivamente recuperate per aspirazione. Per quanto riguarda la fig. 12 vediamo come il medesimo disegno, indicato come Figure 5 e qui sotto riprodotto, si trova anche a pag. 27 del manuale SEM/MPA Firearms Discharge Residues - Vol. 2(29) edito nel Novembre 1980 sempre dal Metropolitan Police Forensic Science Laboratory di Londra.
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Come è possibile riscontare dal grafico di destra, dopo poco più di un’ora dallo sparo si possono rinvenire solo particelle aventi un diametro di 2 μm o meno. 3. Inquinamento e transfer. Uno dei più importanti principi dell'investigazione criminalistica è quello che il ben noto specialista Edmond Locard ha così enunciato: “Ogni qualvolta due oggetti vengono a contatto vi è sempre uno scambio di materiale. Il metodo di indagine può non essere sufficientemente sensibile per dimostrarlo o il tasso di decadimento può essere così rapido che qualsiasi prova del transfer può sparire dopo un dato tempo. Ciononostante, il transfer ha avuto luogo.”
Riteniamo utile riportare sull'argomento quanto scritto da P.R. De Forest et al. (30) : “Transfer e prove in traccia: natura, differenze, varietá, evenienza
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I termini elemento di prova da transfer e elemento di prova in traccia sono talvolta impiegati come sinonimi, benché se attentamente considerati differiscono nel loro significato. Gli elementi di prova in traccia possono essere pensati quali elementi di dimensione così piccola da essere trasferiti o scambiati tra due superfici senza essere notati. A rigore di termini, gli elementi di prova da transfer sono quelli che vengono scambiati fra due oggetti quale risultato di un contatto, e spesso le prove in traccia sono un tipo di prove da transfer. Si possono però incontrare prove in traccia non originate da contatto. Questi scambi senza contatto sono meno comuni ma possono includere il deposito di particelle atmosferiche oppure situazioni nelle quali piccole quantità di materiale sono proiettate o cadono su un altra superficie. Il deposito di particelle residui dello sparo (Capitolo 14) è un esempio relativamente comune di transfer senza contatto. ....omissis.... La diversità degli elementi di prova da transfer viene dimostrata dalle molte diverse varietà elencate nella Tavola 6-1. In detta tabella troviamo elencati numerosissimi materiali che rappresentano però solo in parte quanto può essere preso in considerazione in un’indagine scientifica investigativa. Insieme ai materiali da costruzione (cemento, polvere di mattone, gesso, ecc.) troviamo, fra l'altro, i lubrificanti, il sangue, le piume, le fibre tessili, i cosmetici, il terriccio, i frammenti di vetro, i residui dello sparo. Per questi ultimi bisogna distinguere i vari casi che si possono presentare e cioè:
1.
il deposito 'diretto' (transfer senza contatto) dei residui sul tiratore (mani, volto, abiti);
2.
il deposito 'diretto' (transfer senza contatto) dei residui su coloro che si trovano, al momento dello sparo, vicino al tiratore (mani, volto, abiti);
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3.
il deposito per transfer su coloro che maneggiano armi o altri oggetti inquinati da residui dello sparo (mani) o che entrano in ambienti inquinati e con particelle in sospensione;
4.
il deposito per transfer su coloro che, per qualsiasi ragione, vengono a diretto contatto con persone che hanno sparato o che comunque sono a loro volta inquinate da residui di sparo (mani, volto, abiti);
5.
il deposito per transfer su coloro che vengono a trovarsi in ambiente inquinato da residui dello sparo (mani, volto, abiti, e, ovviamente, apparato respiratorio esterno).
I problemi del transfer di residui dello sparo venne già affrontato da G.M. Wolten e colleghi a pag. 52 ss. del Final Report “C. Il transfer dei residui. La nostra casistica dimostra che le armi da fuoco con cui si è sparato ripetutamente e che non sono state pulite risultano coperte da residui che possono trasferirsi nella zona compresa tra pollice e indice della mano di chi successivamente impugna l'arma. Mentre tale deposito verrebbe ricevuto inizialmente sul palmo piuttosto che sul dorso, si deve dedurre che qualsiasi genere di attività farà spargere qualche particella intorno alla mano. Un deposito di particelle abbastanza forte è stato trovato sul dorso della mano di una persona che strinse la mano stessa ad altra persona immediatamente dopo che quest'ultima aveva sparato con un'arma. Individui collocati di fianco, parallelamente, ad un tiratore vennero sottoposti a prelievo immediatamente dopo dei tiri di prova. Sulle mani di coloro che si erano trovati a tre piedi di
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distanza dal tiratore vennero trovati residui di sparo; niente venne trovato a chi si era trovato a dieci piedi di distanza. Queste distanze possono variare col variare delle circostanze e delle armi e delle munizioni impiegate. Si sono talvolta osservate nuvole (di gas di sparo) allontanarsi dall'arma con direzione perpendicolare all'asse della canna: si tratta di un fenomeno riportato anche da altri studiosi.19 Una persona posta dietro al tiratore, a tre piedi di distanza, risultò avere depositi di residui di sparo alquanto rarefatti su entrambe le mani. In tutti questi test di prossimità le persone interessate tenevano le braccia lungo i fianchi. L'arma impiegata è stata un revolver Colt calibro .22 a canna corta (Test Combination No. 24).”
Il grave pericolo di falsi positivi per inquinamento è una dimostrata realtà e deve pertanto essere tenuto in costante e seria considerazione. Quale esempio delle cautele che vengono adottate riportiamo quanto hanno scritto J. S. Wallace e W. J. McKewon -descrivendo il KIT di prelievo da loro messo a punto per il laboratorio di scienze forensi nordirlandese (31) Kit per i prelievi sull’indiziato. Il kit è contenuto in un singolo sacchetto di nailon diviso per saldatura a caldo in tre scompartimenti. Il primo scompartimento contiene le istruzioni per l’impiego del kit, una X-ray wipe (una grande salvietta inumidita contenuta in una busta sigillata in foglio di alluminio) e una penna a sfera. Il secondo scompartimento contiene una tuta usa e getta e un paio di grandi guanti usa e getta in polietilene, il tutto da essere indossato da chi effettua i prelievi. Nel terzo scompartimento vi sono i materiali di prelievo in un contenitore rigido di plastica con coperchio dotato di sigillo antiintrusione, un coperchio di ricambio per il contenitore (per risigillarlo dopo l’uso), un sacchetto di nailon, due etichette sigillanti, una etichetta per corpi di reato, una X-ray wipe (salvietta) e un modulo per il verbale di rapporto. Impiego del kit
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Il kit contiene le istruzioni dettagliate (Appendice 1). Colui che effettua i prelievi e il locale dove i prelievi vengono effettuati devono essere incontaminati da residui di esplosioni o di sparo. Le mani guantate dell’operatore e la superficie di lavoro vengono sottoposte a prelievo per ottenere campioni di controllo relativi all’operatore e all’ambiente. Ed ancora a pagina 112: È stata presa in considerazione la possibilità che sia l’operatore sia il locale di prelievo siano contaminati. Le probabilità di evitare contaminazioni vengono migliorate dalle procedure impiegate. Il kit contiene tre tamponi di prelievo, uno dei quali viene lasciato sigillato e serve come controllo per il materiale del kit stesso, un altro che serve per il controllo dell’operatore e il terzo che serve per il controllo dell’ambiente. ... omissis ... La tuta viene indossata dall’operatore per evitare la possibilità che eventuali residui presenti sul suo vestiario vengano trasferiti sul sospetto o sulla superficie di lavoro. Wallace, qualche anno dopo, perfezionò ulteriormente il kit di prelievo al fine di proteggere la persistenza dei residui e pubblicò la modifica in: Journal of the Forensic Science Society 1995; 35: 11-14. Le notevoli cautele usate per eseguire il prelievo di eventuali residui e la verifica della “asetticità” dell’operatore, dei materiali impiegati e del locale ove si effettuano le operazioni illustrano meglio di qualsiasi altro mezzo la realtà dei pericoli di inquinamento specifico. C.C. Quinn (32), della Northern Ireland Forensic Science Agency, segnala un pericoloso fenomeno di inquinamento specifico originato da una ventola di aerazione dalla quale penetravano nella zona protetta del laboratorio particolati provenienti da una centrale di polizia che si trovava ad alcune centinaia di metri. Analogamente una ricerca condotta nella sede centrale dell’FBI a Quantico dimostra che anche locali che dovrebbero essere scevri da qualsiasi possibilità di inquinamento specifico da GSR in realtà siano risultati inaspettatamente quanto massivamente contaminati.
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E per concludere la discussione su questo importante aspetto ritorniamo al già citato Handbook of Firearms and Ballistics di Brian J. Heard, nel quale, a pag. 190, possiamo leggere:
“È estremamente importante che venga evitata ogni possibilità di contaminazione. Dopo lo sparo di una cartuccia sulle mani si troveranno depositate solo alcune particelle residui dello sparo. La contaminazione da parte di una singola particella vagante proveniente da chi esegue i prelievi (o sequestra gli indumenti) risulterebbe di difficile individuazione e potrebbe facilmente portare a un falso positivo. Se chi esegue i prelievi ha un qualsiasi contatto con armi da fuoco, costui dovrebbe, prima di iniziare le operazioni, cambiare gli abiti, fare una doccia lavandosi con cura i capelli. Durante i prelievi devono essere indossati tuta, guanti e cuffia del tipo usa e getta. Questa precauzione vale anche per chi non ha contatti con armi da fuoco. I settori della scienza ufficiale che si occupano di tali problematiche da oltre vent'anni, hanno fornito e imposto rigidi protocolli ormai ampiamente consolidati ed universalmente accettati, ai quali ogni operatore dovrebbe rigorosamente attenersi tanto nelle fasi di prelievo e repertazione quanto in quelle successive di ricerca, analisi ed interpretazione dei risultati. Rammentiamo inoltre che tanto lo standard ASTM E 1588 – 95, il primo pubblicato dall’American Society for Testing and Materials, quanto la versione E 1588 – 95 (reapproved 2001) prevedevano che per affermare la positività di un campione dovevano essere rinvenute più particelle univoche sul medesimo stub; ciò significa che un’unica particella, peraltro non accompagnata da altre semplicemente indicative, non può ritenersi prova sufficiente che la superficie prelevata sia stata raggiunta dai residui di uno sparo. Altra difficoltà che si presenta nella formazione del giudizio finale è la particolare composizione elementare delle particelle in questione. La più tipica, ed anche la più diffusa, è quella degli inneschi amercurici adottati da quasi tutti i fabbricanti di munizioni occidentali, ovvero adottata nel 60% circa dell’intera produzione mondiale di cartucce. Va segnalato a tal proposito che anche gli inneschi con cui sono apparecchiate le cartucce Fiocchi in dotazione alle forze dell’ordine
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del nostro paese sono realizzati con composti del piombo dell’antimonio e del bario. Nell’ipotesi di inquinamento innocente contratto da operatori di Polizia o per la permanenza in ambienti di Polizia o su vetture di servizio si possono citare alcuni lavori che qui di seguito ricordiamo. Carlo Torre effettuò una ricerca sulle possibili fonti di inquinamento specifico ottenendo risultati che, pur da lui stesso definiti “limitati”, porterebbero a ritenere che il rischio che determinati ambienti, fra i quali quelli di polizia giudiziaria, le autovetture di servizio, o persone che portano abitualmente armi su di se, possano essere inquinati dalla presenza di GSR è estremamente ridotto ma non impossibile non potendosi in alcun modo escludere, sic et simpliciter, tale evenienza. In una relazione dimessa in qualità di Perito della Corte di Assise di Reggio Calabria il prof. Torre così scrive: Nel rammentare che nel già citato lavoro di cui uno di noi è coautore (VARETTOL., TORRE C et al., “Sulla contaminazione accidentale da residui di sparo…” Medicina Legale – Quaderni Camerti, 3, 603-607,1994) non ci siamo imbattuti in casi di accertata contaminazione “innocente” avvenuta in ambiente di Polizia Giudiziaria, dobbiamo però anche segnalare che non è comunque consentito escludere con certezza che ciò abbia potuto qui verificarsi (anche tenuto conto della singolarità del risultato ottenuto) in questo caso. Lo stesso argomento è trattato da Dean M. Gialamas (33). Esaminando attentamente il lavoro citato si rileva che a differenza di Torre e coll. questi ha effettuato i prelievi sulla persona di 43 soggetti che operano costantemente armati, dei quali 12 avevano sparato in un periodo che andava da mezza giornata (un solo soggetto) a 10 giorni prima del prelievo ed i restanti 33 per un periodo che andava da 13 a 90 giorni prima del prelievo. È interessante notare che gli unici tre soggetti armati di revolver (due in cal. .38 spl ed uno in cal. .357 mag) sono risultati privi di GSR univoci (il soggetto n° 4 ed il soggetto n° 16 avevano particelle semplicemente indicative di solo Pb + Sb, ed il soggetto n° 29 è risultato del tutto negativo) mentre tutti gli altri soggetti prelevati erano armati con pistole semiautomatiche cal. 9 mm. Parabellum. Di questi ultimi tre sono risultati positivi per contaminazione di GSR univoci, tredici sono risultati positivi per contaminazione da GSR semplicemente indicativi ed i restanti venticinque sono risultati del tutto negativi.
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I soggetti risultati positivi per GSR univoci, il n° 25, il n° 39 ed il n° 42 avevano sparato l’ultima volta rispettivamente 20, 90 e 90 giorni prima del prelievo. Gli autori concludono il loro lavoro a pag. 1089 affermando: Sebbene la contaminazione per transfer secondario da un ufficiale che sta operando un arresto ad un soggetto sussista, il basso numero empirico di particelle GSR trovato su questi ufficiali che non hanno sparato suggerisce che il potenziale di tale evenienza è relativamente basso. Il medesimo problema, affrontato sia al Simposio FBI del 2005 che al Simposio Interpol di Lione portò i convegnisti a concludere che la possibilità di inquinamento indotto dagli agenti operanti nel corso del fermo o del trasporto dell’indiziato non può essere esclusa a priori ma che anzi tale possibilità deve essere sempre verificata ed eventualmente accertata. Per chiudere sull’argomento ricordiamo che Robert E. Berk et Coll. (34) dopo aver individuato nel corso della loro ricerca numerose fonti inquinanti correlate con gli agenti, gli uffici e le vetture di servizio della polizia concludono con le seguenti raccomandazioni : La constatazione dell’esistenza di tali fonti suggerisce le seguenti raccomandazioni: trasportare i sospetti solo su vetture identificabili con sedili in vinile, evitare di trasportare i sospetti in squad rolls o veicoli con sedili in panno, non consentire ai sospetti di entrare in contatto con le superfici dei tavoli, non riutilizzare equipaggiamenti senza un minimo di ricondizionamento per eliminare possibilità di inquinamento. Il basso numero di particelle veri GSR rinvenute nelle o dentro le fonti di potenziale inquinamento suggeriscono che la possibilità di un transfer secondario, comunque possibile, è relativamente basso. In buona sostanza, per Torre e Coll., per Gialamas e Coll. e per Berk e Coll. la possibilità di inquinamento da parte di chi va armato per motivi professionali sussiste ed il fatto che dagli studi condotti il realizzarsi di tale evenienza appare poco frequente non autorizza nes-
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CAPITOLO X
suno a non tener conto della possibilità di inquinamento innocente accidentalmente indotto. Il fatto che in tutto il mondo ormai da tempo si richieda per affermare la positività di un prelievo la presenza contemporanea di più particelle caratteristiche a tre componenti e che tale assunto sia ormai accettato anche da alcuni laboratori istituzionali italiani non è una perversa pretesa garantista ma ha un chiaro fondamento scientifico. Un inquinamento occasionale innocente da GSR non può razionalmente essere massivo se non in casi eccezionali (che proprio per l’eccezionalità che li caratterizza sono facilmente documentabili) nella stragrande maggioranza dei restanti casi l’inquinamento si riduce ad una sola od al massimo due particelle magari distribuite su prelievi diversi effettuati al medesimo soggetto. In questo paragrafo abbiamo voluto rappresentare in via del tutto esemplificativa alcuni dei parametri che possono incidere crucialmente sull’interpretazione finale di un risultato analitico positivo, tentando di trasmettere a chi legge come un’indagine tecnico scientifica non possa limitarsi alla collazione del dato strumentale bruto, che di per se è addirittura privo di significato, ma che la valutazione di questo deve essere fatta alla luce di tutte le condizioni al contorno dello specifico caso indagato e comunque in nessun caso può essere espresso un parere che non tenga conto del munizionamento e dell’arma impiegati per commettere un crimine.
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CAPITOLO XI LA CONSULENZA E LA PERIZIA TECNICA SOMMARIO: 1. La premessa. - 2. La consulenza per il P.M. quella per la Difesa e la perizia. - 3. Le conclusioni.
1. La premessa. Nel nostro ordinamento la perizia e la consulenza tecnica sono definite “espressione di un parere tecnico scientificamente motivato”, riteniamo necessario ricordare questa definizione che, cogente in ogni genere di attività tecnica giudiziaria, è ineludibile in materia di analisi di tracce dello sparo. Nei precedenti capitoli abbiamo cercato di trasmettere al lettore le nozioni fondamentali necessarie a comprendere le modalità di ricerca delle tracce di sparo ma soprattutto le difficoltà che si incontrano quando si devono esprimere le conclusioni di un’indagine. Il metodo, efficacissimo ed abbastanza semplice dal punto di vista analitico, diviene estremamente complesso e delicatissimo nel momento conclusivo: l’esperto e non la macchina, che fornisce un semplice dato bruto privo di qualsiasi valenza scientifica e quindi giuridica, dovrà interpretare in scienza e coscienza i risultati ottenuti con la sua indagine e quindi, in ultima analisi, esprimere un parere tecnico scientificamente motivato alla luce di tutte le condizioni al contorno del caso indagato. Tutto ciò non può essere fatto senza essere in possesso degli strumenti teorici e culturali necessari. Il tecnico, esperto nella ricerca delle tracce di sparo, deve possedere un’ottima conoscenza delle armi da fuoco, delle munizioni in esse utilizzate, della balistica interna ed esterna e di quella terminale. Queste conoscenze rappresentano il completamento specialistico di una particolare figura di ricercatore, già in possesso di una laurea in Fisica o Chimica, e che sia uso alla metodologia ed al rigore del laboratorio di ricerca universitario. Il possesso degli strumenti culturali sopra esposti rappresenta la condizione necessaria, ma non sufficiente, per svolgere questa attività possibile solo a coloro che dispongano anche dei più sani principi epistemologici e deontologici.
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CAPITOLO XI
La valenza processuale di una ricerca, apparentemente positiva, potrebbe rivelarsi del tutto nulla se correttamente interpretata alla luce dei dati oggettivi disponibili dai quali non si può prescindere in nessun caso. La responsabilità interpretativa è totalmente in capo all’esperto che non può permettersi di eluderla fornendo al vaglio degli inquirenti o del Giudice solo i risultati analitici. In questa attività professionale il rischio che un consulente od un perito possa evitare di esprimere il proprio giudizio per sfuggire alle responsabilità che l’Ufficio gli impone è purtroppo sempre in agguato. Analogamente il committente, sia esso il P.M. procedente, la Difesa od il Giudicante, dovrà pretendere dal tecnico che ha nominato una chiara ed inequivoca interpretazione dei risultati da questi ottenuti con l’indagine affidatagli, accertando se le conclusioni dimesse non siano in contrasto con i dati oggettivi costituenti le condizioni al contorno del caso studiato.
2. La consulenza per il P.M. quella per la Difesa e la Perizia. Di norma il P.M. procedente nomina il proprio consulente fin dalle fasi iniziali delle indagini e, nel caso di rinvio a giudizio dell’indagato o degli indagati, questi affiancherà l’accusa in tutti i gradi di giudizio. Difficilmente la Difesa riesce a nominare un proprio consulente con la medesima tempestività, dovendolo scegliere fra i pochissimi professionisti indipendenti specialisti in questo specifico settore della criminalistica, e tale ritardo, molto spesso, nel corso del procedimento causerà innumerevoli difficoltà per la parte. Il consulente dell’accusa ha il vantaggio di intervenire a brevissima distanza dall’evento per cui entra immediatamente nella disponibilità dei prelievi effettuati sul soggetto, o sui soggetti indagati, e di altri effetti personali a questi appartenenti quali indumenti, borse ed altro che si sospetti possano essere rimasti inquinati da GSR durante il fatto. Avrà inoltre la possibilità di richiedere tempestivamente, e prima che vengano sottoposti ad indagine balistica, bossoli, proiettili, borre e/o armi repertati nel corso del sopralluogo, dell’esame autoptico od eventualmente sequestrati in seguito a perquisizione. Gli indumenti della vittima attinti dal o dai colpi di arma da fuoco, in assenza di reperti balistici, possono essere comunque sufficienti, se opportunamente prelevati, alla determinazione della composizione
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delle tracce rilasciate dagli spari, e vanno immediatamente consegnati al consulente. Come più volte ricordato nei precedenti capitoli una ricerca delle tracce di sparo non può e non deve prescindere dall’analisi mirata all’accertamento della composizione e morfologia delle tracce di sparo disperse durante il verificarsi del fatto-reato. Se il consulente officiato dal P.M. è in grado di effettuare sia la ricerca delle tracce di sparo che l’intera indagine balistica, il prodotto della sua attività risulterà estremamente più completo, conducente e significativo di quanto possano essere due attività distinte condotte separatamente da soggetti diversi. Le analisi al complesso SEM/EDX devono essere condotte sull’intera superficie di ciascuno stub esaminato e delle particelle di interesse eventualmente rinvenute si acquisisce lo spettro analitico avendo cura di mantenere in scala tutti i picchi identificativi presenti in esso; di ciascuna particella analizzata si deve acquisire una serie di microfotografie a vari rapporti di ingrandimento per consentire a chi eventualmente dovesse ripetere l’indagine di ritrovarla facilmente. La relazione del consulente dell’accusa dovrà contenere in premessa i termini del mandato ricevuto e chiaramente esplicitati i quesiti a lui posti, l’elenco degli atti di P.G. consultati, eventuali documenti redatti dai sanitari intervenuti se la vittima del fatto ha ricevuto un primo soccorso o, in caso di decesso, se non ancora disponibile la relazione del perito settore, almeno il verbale dell’esame esterno. Tutte le operazioni di prelievo, per la particolare delicatezza che ad esse attiene, dovrebbero essere ritenute atti irripetibili e pertanto da compiersi nel contraddittorio fra le parti. La giurisprudenza della Suprema Corte non è di questo avviso, ma, se il prelievo sulle superfici cutanee dell’indagato o degli indagati, visti i ristrettissimi tempi di permanenza delle tracce di sparo in tali distretti, può giustificare tale interpretazione, così non è per i prelievi dai reperti balistici o dagli indumenti sui quali, purché ben conservati ed opportunamente repertati, tale permanenza può prolungarsi per tempi estremamente più lunghi e comunque indefiniti, venendo così a cadere l’esimente dell’urgenza connessa alla necessità di conservare la prova che altrimenti potrebbe essere dispersa. Ove il consulente della difesa fosse disponibile entro il termine di inizio delle operazioni è opportuno che questo partecipi all’indagine tecnica. La presenza del consulente della difesa è un’ulteriore garanzia per entrambe le parti poiché, se il consulente dell’accusa assolve il suo
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CAPITOLO XI
mandato con lealtà e competenza le sue conclusioni non potranno che essere rafforzate da questa presenza. Inoltre operando nel contraddittorio delle parti il consulente della difesa potrà effettuare richieste o rappresentare riserve fin dalle prime attività operative, facendo così emergere subito le reciproche posizioni e, quando possibile, sanando eventuali divergenze con ovvi vantaggi in termini di economia processuale. Nella propria relazione il consulente della Difesa, a sua volta, in premessa, dichiarerà quali atti di specifica e di generica ha consultato, rappresentando eventuali critiche all’operato della controparte. Qualora le conclusioni da questi raggiunte dovessero divergere da quelle dimesse dal consulente dell’Accusa, ha il preciso dovere di specificare chiaramente i motivi di contrasto supportando le proprie argomentazione con dati certi ed eventualmente facendo riferimento a supporti bibliografici facilmente accessibili ancor meglio se allegati integralmente alla relazione. I consulenti delle parti possono poi produrre dati sperimentali da loro stessi raccolti con simulazioni di laboratorio di cui siano note le condizioni sperimentali, ovvero in termini tali che chiunque ripetendo l’esperimento proposto nelle medesime condizioni giunga ai medesimi risultati. Non sono invece proponibili esperienze derivate da casi di lavoro dei quali, ovviamente, non tutte le variabili sono note; la soluzione di un caso di lavoro passa attraverso l’interpretazione soggettiva a cui l’analista perviene per comparazione con i dati sperimentali tratti da osservazioni di laboratorio, è dunque evidente che l’esperienza, anche pluriennale, che ciascun operatore possiede non può essere invocata a supporto della soluzione di un nuovo caso di lavoro che deve essere affrontato nella sua specificità e solo alla luce delle indicazioni che provengono dalle esperienze di laboratorio. Alla relazione il C.T. del P.M. dovrà allegare la documentazione analitica e microfotografica ed i reports che indicano la composizione di tutte le particelle presenti su ciascuno stub rilevate durante i runs di ricerca automatica. La conoscenza dell’intera popolazione di particelle presente nei vari campioni analizzati è fondamentale per giungere alla valutazione finale. Infine l’allegato analitico dovrà contenere un quadro completo dei parametri strumentali utilizzati nella ricerca.
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3. Le conclusioni. La relazione di perizia o consulenza, secondo una prassi consolidata, dovrà chiudersi con un capitolo dedicato alle “conclusioni”. Il tecnico che ha compiuto l’indagine dovrà cercare di riepilogare in questa parte finale i risultati raggiunti rispondendo nel contempo con estrema chiarezza ai quesiti posti con il conferimento del mandato. Si tenga bene in conto però che un riepilogo non deve essere un telegrafico condensato riassuntivo, specie tenendo in conto che molto spesso coloro a cui la relazione è destinata rinunciano alla lettura completa dell’elaborato limitandosi alle sole conclusioni. Alla luce di questa poco edificante esperienza suggeriamo di comporre il capitolo delle conclusioni in modo da indurre, se non addirittura costringere (p.e. con rinvii a particolari passaggi significativi dell’elaborato), chi legge ad un esame più approfondito dell’elaborato.
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CAPITOLO XII IL FUTURO DEL METODO. CONCLUSIONI
Allo stato delle conoscenze attuali l’unica evoluzione in fase di studio preliminare è rappresentata dal tentativo di aggiungere alla ricerca dei classici GSR di natura inorganica, generati dalla miscela d’innesco, la contemporanea analisi delle tracce di sparo derivanti dalla combustione delle cariche di lancio. Qualora questa metodica, ancora in embrione, venisse definitivamente messa a punto e resa facilmente utilizzabile per l’attività di routine, probabilmente si otterrebbero indicazioni che renderebbero meno vaga, di quanto oggi non sia, la compatibilità fra i particolati rinvenuti sui prelievi effettuati sul sospetto (o su superfici comunque a lui correlabili) con la particolare cartuccia impiegata per consumare un crimine. Per quanto a nostra conoscenza, tuttavia, i primi approcci a questa nuova tecnica sono ben lontani da consentirne una immediata diffusione presso i laboratori specialistici, molti dei quali dopo trent’anni di esercizio non dimostrano ancora di aver ben compreso quale sia il loro compito. Quel che invece si sta già facendo utilmente, grazie al superamento del dogma dell’univocità dei GSR contenenti Pb, Ba ed Sb, è l’attualizzazione della necessità ineludibile di affrontare una ricerca di tracce dello sparo procedendo attraverso le due fasi di valutazione di primo e secondo livello tenendo così in conto tutte le variabili possibili imposte dalle condizioni al contorno del particolare caso indagato. Fortissime resistenze contro questo metodo, che ribadiamo è l’unico che possa definirsi scientifico, sono ancora opposte da molti laboratori istituzionali più propensi a privilegiare la quantità che la qualità. Un operatore che svolga con correttezza l’incombenza affidatagli non potrà licenziare l’elaborato finale di un caso semplice prima di un mese di intenso lavoro. Considerati i tempi minimi necessari per un lavoro corretto è impensabile che si possa continuare a trattare 500 o addirittura mille casi in un solo anno. Se è vero che la richiesta di risposte in materia di tracce di sparo è nel nostro Paese elevatissima , è altrettanto vero che una gran parte
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CAPITOLO XII
delle richieste degli inquirenti in Gran Bretagna o Germania sarebbe respinta al mittente per l’assoluta mancanza di utilità a procedere. Richiamiamo l’attenzione sui casi più semplici: comprovata contiguità fra personale armato ed indagati, tempi intercorsi fra l’episodio criminoso ed il prelievo, assoluta inidoneità della repertazione e della catena di custodia della prova, accertata manipolazione di armi da parte dell’indagato (classico esempio quando prima del fermo lo si invita a consegnare le armi lecitamente in suo possesso prelevandole personalmente). In queste ed innumerevoli altre circostanze la ricerca delle tracce di sparo sarebbe del tutto inconcludente e sarebbe più che sufficiente un semplice e rapido screening preventivo per sollevare i laboratori da gran parte del lavoro inutile che oggi sono chiamati a smaltire. Se si comprendesse questa semplice realtà si potrebbe finalmente dedicare tempo e risorse all’analisi completa secondo il vero metodo scientifico dei soli casi che meritano di essere studiati. Questo modo di procedere, da noi rigorosamente seguito da più di un decennio, alla luce delle abitudini di quasi tutti i laboratori di settore che ancor oggi si ostinano a limitare la propria attività alla mera somministrazione al committente del dato bruto strumentale, apparrà ai più come una novità financo fastidiosa. Tuttavia al lettore, che è giunto pazientemente alla fine di questo breve lavoro, dovrebbe essere ormai chiara l’assoluta necessità del rispetto delle procedure indicate affinché una perizia od una consulenza assuma validità scientifica e quindi giuridica. Per poter esprimere un giudizio scientificamente fondato è assolutamente necessario esplorare l’intera superficie degli stubs utilizzati per i prelievi, un laboratorio oberato da un carico di lavoro che non può sopportare non può limitarsi, pur di far tutto, all’analisi di una sola porzione di ciascuno degli stubs che gli sono stati affidati, poiché sia il numero di particelle rinvenute, comunque correlabili allo sparo, sia la natura di tutti gli altri particolati copresenti sono dati essenziali per comprendere l’origine di essi e quindi la loro valenza probatoria. Inoltre il prelievo e la formazione dei reperti, operazioni imprescindibili per effettuare questo tipo di indagine tecnica, dovrebbero essere eseguite sempre in ambienti sicuri la cui idoneità deve essere dimostrata scientificamente, mediante continuo monitoraggio che la certifichi; non è eticamente, epistemologicamente e giuridicamente ammissibile la pretesa di ribaltare l’onere della prova a carico della difesa
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degli indagati esigendo da questa una sorta di impossibile probatio diabolica. Il personale addetto ai prelievi, infine, deve essere ben addestrato e reso edotto dell’estrema facilità con cui un inquinamento innocente può verificarsi non rispettando le cautele necessarie od operando in ambienti inadeguati.
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