Lettura del «Flauto magico» 8806116304, 9788806116309


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Lettura del «Flauto magico»
 8806116304, 9788806116309

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MASSIMO MILA

LETTURA DEL FLAUTO MAGICO

Piccola Biblioteca Einaudi

PICCOLA BIBLIOTECA EINAUDI

517

Arte. Architettura. Urbanistica. Musica. Cinema. Teatro. Fotografia. Giochi. Sport

© 1989 Giulio Einaudi editore $. p. a., Torino isbn

88-06-11630-4

MASSIMO MILA

LETTURA DEL FLAUTO MAGICO

Piccola Biblioteca Einaudi

Indice

p. vn

Nota dell’editore

Lettura del Flauto magico 3 8 18

3i 55

70 104 129 134

141

150 156

I.

Un’opera non melodrammatica

n. Il teatro barocco e la « Zauberoper » m. L’ultimo anno della vita di Mozart iv. La composizione dell’opera v. L’ouverture vi. Atto primo, Quadro primo (Nn. 1-5): Prologo in Terra vn. Atto primo, Quadro secondo (Nn. 6 e 7), Finale (N. 8): Il viaggio verso la saggezza vm. Atto secondo, Quadro primo (Nn. 9 e io): Il tempio di Sarastro ix. Atto secondo, Quadro secondo (Nn. 11 e 12): Intermezzo ambiguo Atto secondo, Quadro terzo (Nn. 13-15): Intermezzo notturno xi. Atto secondo, Quadro quarto (Nn. 16-17): Prove dell’aria e del silenzio xn. Atto secondo, Quadro quinto (Nn. 18-20): La saggezza di Sarastro e la saggezza di Papageno

x.

VI

INDICE

197

xm. Finale II (N. 21): Prove dell’acqua e del fuoco. La vittoria del bene xiv. Fortuna locale e universalità dell’opera

205

Sulla distribuzione delle musiche

211

Nota bibliografica 1974

p. 168

Appendice 219 228 232 237

Ilflauto magico-, un’opera per i puri di cuore Se «il flauto magico» zufola La Marsigliese Ma è poi tanto «diverso» Ilflauto magico? Sinite parvulos adire ad Sarastrum

Nota dell'editore

Massimo Mila dedicò a vari aspetti della produzione musicale di Mozart sei corsi universitari, complessivamente, trail 1962 e il 1974. Dopo un’analisi della musica pianistica, durante il corso 1962-63, egli si rivolse in anni successivi ai Quartetti, alle Sinfonie, e quindi a tre opere mozartiane: Le Nozze di Figa­ ro, il Don Giovanni, e il Flauto magico. Il corso sulle Nozze, rivisto dall’autore, fu pubblicato in questa collana nel 1979, quello sul Don Giovanni, anch’esso riveduto, nel 1988. La presente Lettura del Flauto magico viene invece riproposta nella stesura originale, che aveva vi­ sto la luce nel 1974 sotto forma di dispense universitarie. Seguono, in appendice, quattro scritti redatti da Mila in varie occasioni.

LETTURA DEL FLAUTO MAGICO

Capitolo primo

Un’opera non melodrammatica

Quando dalla perfetta maturità teatrale dei capolavori italiani di Mozart - Nozze di Figaro, Don Giovanni e Cosi fan tutte - si passa all’ultima sua opera, Die Zaubeìflòte, non è facile sfuggire - almeno per lo spettatore e lo studioso ita­ liano - ad un certo senso di smarrimento. Si è tentati di at­ tribuire a motivi nazionalistici l’enorme pregio che al Flauto magico viene attribuito nei paesi di lingua tedesca. Beetho­ ven, com’è noto, lo considera il capolavoro di Mozart, men­ tre aveva parecchie riserve da avanzare su quella che a lui pareva la frivolezza delle Nozze di Figaro e la sconvenienza morale del Don Giovanni. Il suo giudizio negativo di tali soggetti non poteva fare a meno di riverberarsi sulla musica. Invece l’adesione di Beethoven al Flauto magico era incon­ dizionata, entusiastica: letteralmente ci viveva dentro e lo mescolava alla propria esperienza umana, chiamando «la Regina della Notte» l’invisa cognata alla quale strappò la tu-' tela del nipote Cari, dopo la morte del fratello1. Non minore venerazione nutriva per il Flauto magico Richard Wagner, il quale trovava insulsa la leggerezza di Cosifan tutte. In gene­ re l’opera che ha lasciato piu feconda traccia di sé nel teatro musicale tedesco dell’ottocento è IIflauto magico, attraver­ so Weber, Lortzing, Spohr, con diramazioni nel mondo sla­ vo di Dvorak e Smetana. Se il fattore della lingua è certamente importante per sta­ bilire il valore determinante dell’ultima opera di Mozart nel­ 1 Per una ricostruzione fantastica, ma storicamente scrupolosa, di questa vi­ cenda, si veda il racconto di luigi magnani, Il nipote di Beethoven, Einaudi, To­ rino 1973.

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CAPITOLO PRIMO

lo sviluppo del teatro musicale tedesco, esso non ne esauri­ sce tuttavia le ragioni. Allo stesso modo il fattore linguistico non è la sola causa della difficoltà che prova l’ascoltatore ita­ liano ad accostarsi al Flàuto magico e a penetrarne il segreto. Certamente anche questo conta (la traduzione ritmica italia­ na è forzatamente assai rozza, e del resto anche la più bella delle traduzioni letterarie non riuscirebbe a catturare quel sapore quasi di vernacolo, quel riflesso d’una cultura popo­ lare che si annida nel testo tedesco). Conta, ma non è tutto. Anche un ascoltatore italiano che padroneggi perfettamente il tedesco e che sia in grado di comprendere con facilità il te­ sto originale, non si sottrae a quel senso di smarrimento, per non dire di delusione, che generalmente si accompagna al primo contatto col Flauto magico. In che consiste questa delusione? Si potrebbe dire che si ha l’impressione di cadere dalla matura perfezione d’un tea­ tro per adulti all’ingenuità duna fiaba per bambini. Nei tre capolavori scritti sui libretti italiani che Lorenzo Da Ponte gli aveva apprestati, Mozart aveva sollevato l’opera comica settecentesca alla piena dignità della commedia, nel segno di un realismo psicologico miracolosamente attuato in seno alle strutture musicali. Mai si era visto una cosi spettacolosa coincidenza di suono e vicenda drammatica; mai si era visto la musica creare i personaggi e letteralmente riempirli, impa­ starli di sé, con tanta evidenza e continuità. Lo spettacolo della vita umana fatto musica, questo è il segreto dei capola­ vori italiani di Mozart, e su questa via di realismo psicologi­ co proseguirà l’opera nei paesi latini: Italia e Francia. Non altra è, sostanzialmente, la concezione teatrale di Rossini, di Donizetti, di Verdi, come di Gounod, di Bizet e di Massenet. La realtà della vita ricreata attraverso i suoni musicali. Ora nel Flauto magico tutto questo meraviglioso patrimo­ nio di cultura e d’arte che Mozart ha donato alla civiltà del­ l’uomo, viene improvvisamente lasciato cadere. Dalla digni­ tà della commedia, dall’altezza della ragione tutta spiegata, si precipita improvvisamente al livello puerile della farsa e della fiaba. Il fantastico sostituisce il realismo, colorandosi d’una vena di comicità buffonesca. I personaggi pienamente formati delle opere italiane cedono il posto a marionette ca­ riche di primitivi simboli allegorici. La tentazione è fortissi­

UN’OPERA NON MELODRAMMATICA

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ma, per lo spettatore italiano, di pensare che il povero Mo­ zart, ridotto all’estremo della miseria, accettò come un’an­ cora di salvezza l’invito d’un vecchio amico a scrivere un Singspiel2 per un teatro popolare di periferia; e quasi ci viene da compatire il sommo artista, ridotto dal bisogno a questa umiliante capitolazione. Niente sarebbe più falso che questo modo di vedere. Mozart scrisse IIflauto magico con la gioia di una piena adesione. E del resto basterebbe il posto augu­ sto che a quest’opera viene riservato nella cultura tedesca, e non soltanto in quella musicale, per smentire una simile opi­ nione negativa. Goethe, che divisò perfino di scrivere un se­ guito del flauto magico, senza poi condurlo a termine, ha la­ sciato un monito terribile contro la presunzione intellettuale di chi volesse deplorare la puerilità di quel soggetto d’opera, ° Peggi°, farsene beffe. Affermò infatti volerci assai più in­ telligenza a comprendere il senso profondo dell’ibrido li­ bretto di Schikaneder, che non a rilevarne le evidenti incon­ gruenze. Riecheggiandolo, il musicologo Alfred Einstein scrisse del Flauto magico-, «E un lavoro che incanta il fan­ ciullo, commuove l’uomo più indurito ed entusiasma il sag­ gio. Ogni individuo ed ogni generazione vi trovano qualcosa di diverso: solo a colui che è semplicemente colto, e al puro barbaro, Ilflauto magico non dice nulla»3. Senza dubbio c’è pure un fatto, non diciamo di razza, ma di abitudini teatrali e di cultura nazionale nella difficoltà che l’italiano prova ad accettare l’innegabile rozzezza del li­ bretto di Schikaneder, che sembra rispecchiarsi in una scon­ certante semplificazione delle forme musicali, rispetto alle elaborate strutture delle Nozze di Figaro e del Don Giovanni. Le riserve che lo spettatore italiano può essere indotto ad avanzare circa la bassa estrazione culturale di questo spetta­ colo da barriera, imbottito di filosofia mitologizzata, si fon­ dano in parte in una differente concezione della vita, del 2 II Singspiel era la sola forma di teatro musicale in lingua nazionale che la cul­ tura tedesca fosse riuscita ad esprimere nel corso del Settecento. Differiva dal­ l’opera italiana, anche da quella comica, per il fatto di non essere interamente musicato, presentando invece parti di recitazione, come avviene nell’operetta, che del Singspiel è la trasformazione ottocentesca. Esisteva da poco piu di un de­ cennio quando Mozart lo sollevò ad eccezionale altezza di valori musicali con Die Entfubrung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio, 1782). 3 A. einstein, Mozart. Il carattere e Vopera, Ricordi, Milano 1951, p. 467.

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CAPITOLO PRIMO

teatro e della cultura. Forse nessun popolo europeo conser­ va, come l’austriaco, una cosi ingenua inclinazione al gioco. Basta vedere, nelle feste di fine d’anno, gli alberi di Natale con mille fiammelle che sfavillano nei più remoti villaggi delle montagne tirolesi come nelle grandi città. Sentire le fi­ lastrocche che in quell’occasione cantano i bambini a frotte, mascherati da re magi. Un fenomeno come il Prater, il parco dei divertimenti viennese, sarebbe inconcepibile in Italia, che pure passa generalmente per un paese poco serio. Da noi il carnevale si trascina, più o meno a stento, per un mese, con un acme, diciamo, di una settimana. A nessuno verreb­ be in mente di andare in giostra per tutto l’anno, come av­ viene al Prater. Al meraviglioso, in fondo, in Italia non ci crede nessuno. La sciagurata vittoria di Carlo Gozzi su Goldoni fu un episodio momentaneo: Carlo Gozzi potè vincere una battaglia (e del resto a Venezia, nell’angolo d’Italia più esposto alla cultura viennese), ma perse la guerra del teatro in Italia, che si è sempre sviluppato nel senso della realistica osservazione della vita. Controprova le difficoltà in cui in­ corse il melodramma ogni volta che soggiacque alla tentazio­ ne gozziana sempre in agguato, dalla Turandot di Puccini al­ la Donna serpente di Casella. Unico ad uscirne con qualche fortuna fu Busoni con la sua Turandot, ma tutti sanno di quanta cultura tedesca fosse impastato questo grande artista italiano. Queste differenze di cultura e di gusto sono forse invali­ cabili? No, si superano benissimo, per l’appunto con un sup­ plemento di cultura. Ecco perché a quest’opera, difficile per eccesso di facilità, bisogna accostarsi con una certa prepara­ zione, come se si trattasse d’una severa e complessa opera di pensiero. Bisogna procurarsi le nozioni necessarie per poter­ la collocare nel suo humus storico; acquisire, attraverso lo studio, la conoscenza di quei presupposti di costume che so­ no connaturati nella gente di lingua tedesca, e dai quali noi siamo, nativamente, esclusi per ragioni di geografia e di sto­ ria. Nulla v’è che sia impenetrabile per l’intelletto umano. Spiritus durissima coquit dice un emblema cinquecentesco che mostra uno struzzo - animale di notorie capacità dige­ renti - con un lungo spillo infilato nel becco. La logica in­ terna della melodia gregoriana, che sembra cosi evasiva e in­

UN’OPERA NON MELODRAMMATICA

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decifrabile all’inesperto, non ha segreti per gli organisti e gli studiosi specializzati, che si muovono in essa con la stessa spontaneità con cui noi ci moviamo entro i modi maggiore e minore della tonalità sette-ottocentesca. Si dànno casi di eu­ ropei che sono riusciti a padroneggiare perfettamente le for­ me e il linguaggio delle più lontane musiche orientali. In confronto, è un gioco valicare l’Adriatico e prendere una sommaria conoscenza del costume teatrale austriaco nel Sei e Settecento. Due ordini di studi propedeutici ci devono dunque orientare, prima di affrontare la conoscenza diretta dello spartito: uno riguarda per l’appunto un certo aspetto indigeno della vita teatrale nell’Austria barocca e settecen­ tesca; l’altro si riferisce invece a specifiche circostanze indi­ viduali della vita di Mozart e della sua evoluzione artistica, nel periodo di preparazione della ultima sua opera teatrale.

Capitolo secondò Il teatro barocco e la «Zauberoper»

La moda dello «Zauberstiick», cioè della commedia me­ ravigliosa o fantastica, che signoreggiava nell’ambiente po­ polare viennese al tempo di Mozart, era l’estrema trasfor­ mazione d’un tipo di teatro barocco a grande spettacolo che risaliva in ultima analisi alla diffusione internazionale della opera veneziana del Seicento. Le meraviglie della scenogra­ fia teatrale avevano raggiunto nella seconda metà del secolo vette di cui oggi è perfin difficile farsi un’idea, con l’arte dei Torelli, del bolognese Bibiena (in realtà, Ferdinando Galli, 1657-1742) e dei suoi due figli, Antonio e Giuseppe, e ulte­ riori discendenti, del Burnacini, che operò a Vienna dal 1652 al 1707, e, in epoca posteriore, dei fratelli Bernardino e Fabrizio Galliari, piemontesi, e dei loro discendenti. Fra gli operisti della scuola veneziana, Antonio Cesti (1623-99) si era specializzato in un tipo di opera a grande spettacolo, gradita specialmente nel teatro della corte di Vienna, e di cui l’esemplare piu celebre fu II pomo d’oro (1667), rappresentata in occasione delle nozze dell’impera­ tore Leopoldo I con Margherita di Spagna: nei cinque atti di quell’opera si succedevano la bellezza di 67 cambiamenti di scena! E chiaro che in questo periodo, e in ambienti di particolare sfarzo mondano come le grandi corti, il piacere dell’occhio era diventato la meta principale dell’opera in musica, ed ogni altro elemento, compresa la musica e il te­ sto, finiva per esservi subordinato. Le opere di questo tipo portavano generalmente un titolo in cui entrava la dizione: «... d’oro», da cui si può subito riconoscerne il carattere. In Francia, invece, l’opera a grande spettacolo, anche li gradita per ragioni d’etichetta e di sfarzo regale, era contrassegnata

IL TEATRO BAROCCO E LA «ZAUBEROPER»

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dall’aggettivo «...galante»: L’Europe galante di Campra (1697), Les Indes galantes di Rameau (1735), ancora oggi nel repertorio dell’Opéra per speciali occasioni di rappresentan­ za, come visite di capi di stato e simili. L’Italia, che pure aveva creato il genere, non lo alimentò a lungo, e i nostri sommi architetti teatrali trovarono piu fa­ cile impiego all’estero. Mancava nel nostro paese una grande corte regale che assumesse a proprio carico la gestione d’un teatro ufficiale come il Burgtheater di Vienna o l’Académie nationale de Danse et Musique, cioè l’Opéra, a Parigi. An­ che a Napoli, dove pure la corte regia ci sarebbe stata, il tea­ tro d’opera era faccenda d’impresari, che dovevano fare i conti coi costi dello spettacolo. E poi, forse, Napoli amava troppo il canto per subordinarlo alla magnificenza dello spettacolo. Nel corso del Settecento l’opera seria mantenne una tra­ dizione di sfarzo scenico (l’opera comica neppure quello), ma il crescente razionalismo dell’epoca ne eliminò a poco a poco ogni residuo di magia soprannaturale, specialmente nei paesi di attiva produzione melodrammatica, cioè l’Italia e la Francia. In Austria l’eredità barocca del cosiddetto «teatro di macchine», cioè di sbalorditivi apparati scenici, fu raccol­ ta curiosamente dai Gesuiti, che vedendo l’infatuazione del popolino per gli avvenimenti scenici spettacolosi, frequenti cambiamenti di scena, trasformazioni a vista, catastrofi ed apparizioni magiche che lasciassero a bocca aperta per la me­ raviglia, pensarono di volgere questo gusto popolare a fini edificanti e devoti, secondo la consueta tecnica degli istituti religiosi, ben nota anche a Lutero, di togliere al «mondo», al diavolo, le sue armi e volgerle a buon fine. Con le difficoltà attraversate nel Settecento dalla compa­ gnia di Gesù, tali iniziative le sfuggirono di mano, e il teatro spettacoloso rimase abbandonato a se stesso, sorretto sol­ tanto dal gusto ingenuo del popolino per il meraviglioso e per le prodezze straordinarie della messa in scena. Si dice che Schikaneder, il capocomico ambulante che offrirà a Mo­ zart la possibilità e il libretto del Flauto magico, rappresen­ tasse I Masnadieri di Schiller con uno sbalorditivo finale, nel quale si assisteva all’autentico incendio, con tanto di fuoco e fiamme e fumo, del castello dei Moor.

IO

CAPITOLO SECONDO

Afferma Paul Stefan, amoroso indagatore del teatro au­ striaco, che il teatro barocco, nel quale i Gesuiti avevano volto accortamente a fini religiosi le attrattive del piu fastoso e sorprendente macchinario scenico, manifestava una ten­ denza universalistica, per una fusione delle civiltà occiden­ tali ed orientali, classiche e moderne, tendenza assai confa­ cente allo spirito «cattolico» di Vienna imperiale, capitale d’un enorme stato sopranazionale. Era, egli scrive1, come «una collaborazione di tutti i regni della creazione, la unìversitas mundi», a produrre la «commedia di macchine» dei Gesuiti in seno al teatro barocco, conducendo appunto, quando la sollecitudine teatrale dei Gesuiti si sarà ritirata, allo «Zauberstiick», la commedia del meraviglioso allo stato puro, senza intenti edificanti. Spogliato della destinazione religiosa, il teatro meravi­ glioso, abbandonato ormai alle modeste arti sceniche di compagnie ambulanti per teatri di periferia o di provincia, si riempie a poco a poco di altri contenuti. Il razionalismo set­ tecentesco stava producendo entro se stesso i propri anticor­ pi. L’ideologia massonica, coi suoi rituali misteriosi, col suo sogno di felicità dell’uomo raggiunta attraverso la fraternità universale, coi suoi simboli tratti dal mestiere del costruire, la cazzuola, la squadra, la piramide, coi suoi riferimenti alle fonti d’una saggezza antica, precristiana, veniva incontro a un bisogno crescente di «reazione contro l’esattezza delle scienze naturali e della filosofia, contro il razionalismo, con­ tro un classicismo di seconda mano nelle arti, contro uno scialbo, troppo nordico aspetto della vita e dell’arte»1 2. L’i­ deologia massonica acquistò impetuosa diffusione europea dopo la costituzione della grande Loggia d’Inghilterra a Londra nel 1717; altre ne seguirono tosto a Parigi, all’Aja, a Roma, Madrid, Gibilterra. Non si poneva, in origine, in antitesi alla religione, e anzi nei suoi primordi si mescola cu­ riosamente con l’influenza dell’ordine gesuitico3. Col miste­ 1 p. stefan, Dìe Zauberflòte, Herbert Reichner Verlag, Wien 1937, p. 24. 2 Ibid.t p. 17. 3 Per la mescolanza della prima massoneria con la religione cattolica e col mo­ vimento mistico e cabalistico del «martinismo», si veda il Joseph de Maistre di Adolfo Omodeo e, dello stesso, La cultura francese nell'età della Restaurazione (Milano 1940).

IL TEATRO BAROCCO E LA «ZAUBEROPER»

II

ro di cui si circondava, con le prove segrete di iniziazione, col richiamo a fonti d’antica saggezza orientale o, più esatta­ mente, egizia, veniva incontro al bisogno del meraviglioso di un’epoca sazia di «clarté» razionalistica. Come scrive lo Ste­ fan, «l’età si avviava, stanca di progresso, di razionalismo, di regolarità, al Romanticismo»4. Cosi posta la questione, è facile comprendere l’importan­ za e il valore storico-culturale di quelle istanze apparente­ mente umili che si facevano luce confusamente nell’infatua­ zione del popolino per un teatro spettacoloso, che aprisse una porta al bisogno primitivo del soprannaturale. Le ragio­ ni del Romanticismo vi stanno in incubazione: si comincia a sentire confusamente che «nessuna scienza esaurisce tutto dell’anima, nessuna ragione può smorzare le fiamme arden­ ti»4, e per l’appunto «la massoneria è la fuga nel regno del mistero in un’età razionalistica, che perfino il misticismo della Chiesa cattolica aveva voluto sottoporre alla ragione»4. Queste aspirazioni comprese dall’intellettualismo degli en­ ciclopedisti si fanno strada verso gli strati inferiori della cul­ tura popolare. La spoglia ormai vuota del teatro barocco si riempie della «nostalgia mistico-romantica dell’epoca, con le sue evasioni in associazioni segrete e nel regno dell’utopia» (Traurnland) paese del sogno). La coesistenza di massoneria e cattolicesimo si rende possibile attraverso il proposito mas­ sonico di «soddisfare l’aspirazione» degli umili, degli op­ pressi e dei diseredati, «a una potente lega dei buoni»5. Che poi questa organizzazione possa diventare magari una lega, sf, di mutuo soccorso, ma tra i potenti della classe dominan­ te, questo è un altro discorso. In quelle origini della masso­ neria l’ideale filantropico era reale e sinceramente sentito. A queste componenti dello «Zauberstiick», o teatro me­ raviglioso, sviluppatosi a poco a poco negli strati bassi della cultura popolare austriaca, dalle spoglie del fastoso teatro di macchine secentesco e dalla sua utilizzazione gesuitica, biso­ gna aggiungere un ulteriore elemento, di estrazione assai più realisticamente concreta: quello che lo Stefan chiama le «komòdiantisch-hanswurstlichen Konzessionen» del gusto 4 STEFAN, Op. CÌt., pp. l8-2O, paSSÌttl. 5 Ibid.t p. 22.

12

CAPITOLO SECONDO

aristofanesco connaturato al teatro comico viennese, gusto che avrebbe poi prodotto i suoi piccoli capolavori indigeni nelle farse viennesi di Ferdinand Raimund (1790-1836) e di Johann Nestroy (1801-62). Si tratta d’un fenomeno quasi dialettale di teatro locale, spesso imperniato sulla figura bur­ lesca di Hanswurst (come chi dicesse: Gianni-salciccia), in cui s’incarna lo spirito bonario e paziente, il gusto ridancia­ no del popolino viennese. «Come potè Mozart - si chiede lo Stefan6 - scendere da­ gli eccellenti libretti di Da Ponte, anche letterariamente pre­ gevoli, a queste commedie di magia del teatro popolare vien­ nese»? La risposta è: «Perché Mozart, inconsciamente ep­ pure con sicurezza, come solo può fare il genio, in un’epoca ancora “razionale”, eppure già presaga del romanticismo, cercava il Mito. Il mito, ossia il mondo sepolto dell’anima, ma solo momentaneamente nascosto. La sua strada passa per circostanze eccelse, anche se d’apparenza semplici, per­ fino puerili, e si schiude soltanto al veggente, all’iniziato». Un fatto curioso è che la prosa filosofico-utopistica dell’e­ poca viene dalla Francia, cioè dalla patria stessa del raziona­ lismo settecentesco. Ma giustamente lo Stefan c’invita a pensare ad altri aspetti del genio francese: a Rousseau, alla Pucelle, che sentiva le «voci» del Signore, al mistico Claude de Saint-Martin, che nell’utopia L'homme de désir anticipa le concezioni di romantici come Wackenroder e Novalis. A monte di tutta la fioritura austro-tedesca di fiabe, favo­ le e leggende misteriosofiche che nella seconda metà del se­ colo costituirà l’humus culturale del Flauto magico ci sta un romanzo francese: Séthos, histoire ou vie tirée des monuments anecdotes de Vancienne Egypte, traduite d’un manuscrit grec, pubblicato a Parigi nel 1731. Ne era autore l’abate Jean Terrasson (1670-1750 circa), tutt’altro che un raffazzonatore di bassi romanzi d’appendice ad uso del volgo: al contrario, era professore di filosofia greca e latina al Collège de France. Doveva anche essere un bel tipo, se è vero che aveva tradot­ to in francese tutto Diodoro Siculo, soltanto per mostrare agli adoratori dei classici quanto un classico potesse esser noioso. Questo romanzo, che il D’Alembert riconduceva al 6 Ibid., p. 17.

IL TEATRO BAROCCO E LA «ZAUBEROPER»

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modello del Félémaque di Fénélon, ebbe un successo formi­ dabile: nel 1732 era stato tradotto in tedesco, da un Chri­ stoph) G(ottlieb) W(end), e in inglese; nel 1734 fu pubblica­ to in italiano a Venezia. Ma la sua fortuna non scemò dopo la morte dell’autore, e una nuova traduzione tedesca ne ap­ parve nel. 1777-78 a Breslavia, ad opera del Claudius: fu questa che rilanciò il libro nell’ambiente letterario e teatrale in cui si fondano le premesse del Flauto magico. Il libro era molto considerato nella cerchia massonica, del cui spirito era largamente nutrito, e faceva testo sui misteri egizi. Le analogie con l’azione del Flauto magico sono palesi, sebbene qualcuno ne metta in dubbio l’influenza7, e in due casi il libretto di Schikaneder ne trae citazioni letterali* Ar­ gomento del Séthos è l’educazione di un principe saggio, vis­ suto cento anni prima della guerra di Troia, e comprende una introduzione ai misteri, descritta con grande esattezza. Anche Séthos lo vediamo in caccia di un malvagio serpente, ma, a differenza di Tamino nel principio dell’opera mozar­ tiana, lui è abbastanza abile per catturarlo vivo e portarlo a Melfi, dove ne misurerà la grossezza con l’aiuto di osserva­ zioni trigonometriche: «cosa che, - osserva con umorismo britannico Edward Dent, - sarebbe stato difficile esprime­ re musicalmente»8. La Regina e le Dame sono, nel romanzo di Terrasson, signore anziane sul viale del tramonto, che vanno a caccia di bei giovanotti (si confronti con la contesa delle tre Dame intorno a Tamino svenuto, dopo che l’hanno salvato dal serpente) e cercano di supplire alle sfiorite grazie del fisico con l’interiore elevazione misteriosofica. Il precet­ tore conduce Séthos a visitare le piramidi (si confronti con l’imponenza dell’architettura nelle scene del Flauto magico), ed entrano in una di esse con l’aiuto di lampade frontali (co­ si sono attrezzati nell’opera i due «Geharnischte», gli arma­ ti in difesa del tempio di Sarastro). Séthos chiede di essere iniziato ai misteri. La risposta del precettore Amedes somi­ glia al discorso dei tre Geni e dell’Oratore nel primo atto dell’opera, al discorso di Sarastro nel secondo. La preghiera di Sarastro nel secondo atto («O Isis und Osiris») è tratta 7 b. Paumgartner, Mozart, Einaudi, Torino 1956, p. 454. 8 e. dent, Mozart Òpern, Erich Reiss-Verlag, Berlin s.d., ma 1922, p. 204.

i4

CAPITOLO SECONDO

alla lettera dalla invocazione di Séthos a Iside dopo che ha superato le prove. Analogo è il cerimoniale, il rombo dei tuoni, ecc. Secondo Paul Stefan Séthos è «ein Buch der Sehnsucht», un libro della nostalgia, «dell’aspirazione ad un’iniziazione, ad una potente lega segreta in terre lontane ed in epoca remota»9. Sempre piu numerosa diventa nella letteratura la produzione di romanzi su leghe segrete, uno dei quali, afferma lo Stefan, è anche il Wilhelm Meister di Goethe. Secondo il grande biografo mozartiano Hermann Abert, l’ideale della educazione di «un principe quale dili­ gente scolaro d’un portatore cosmopolitico della saggezza suprema, era un sogno prediletto dell’epoca» (che risaliva al concetto classico della Ciropedia di Senofonte: la paideia, o educazione d’un principe quale fonte di benessere dell’uma­ nità). «Ad esso si collegava tutta l’aspirazione verso un mondo migliore»10. Perciò IIflauto magico rientrerebbe, se­ condo l’Abert, nel filone umanitario settecentesco di cui fanno parte Hatano il savio di Lessing, lo stesso Don Carlos di Schiller, Y Ifigenia di Goethe e la Nona Sinfonia. Non a ca­ so Ilflauto magico non vide la luce in uno splendido teatro di corte, ma sulla scena popolare del teatro Auf der Wieden, nella Freihaus: «non si rivolgeva piu solo agli “intenditori ed amatori”, bensì a una piu ampia collettività, che non pos­ sedeva alcun privilegio di competenza artistica». Il Séthos di Terrasson doveva essere presente anche al ba­ rone Gebler, quando scrisse quel dramma eroico Thamos, re d'Egitto, per il quale Mozart, poco piu che ragazzo aveva scritto alcune musiche di scena a Vienna nel 1773, ritoccan­ dole poi, con l’aggiunta di un nuovo coro e di una scenamelologo nel 1780 quando Schikaneder era capitato con la sua compagnia a Salisburgo, e vi aveva messo in scena, tra l’altro, questo Thamos. Esso costituisce perciò un preceden­ te diretto del Flauto magico, vuoi per la collaborazione in es­ so primamente attuata fra i due autori, vuoi per una certa analogia di contenuti teatrali, fondati sul vago simbolismo di soggetti orientaleggianti, a base di gran sacerdoti, di tem­ 9 STEFAN, op. CÌt., p. 19. 10 h. abert, W. A. Mozart, Breitkopf und Hàrtel-Verlag, Leipzig 1956 (7“ edizione), vol. II, p. 632.

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pii del Sole e di saggezza occulta. Tuttavia non si tratta nel Thamos d’una storia di iniziazione, bensì d’un intrigo da melodramma serio, fondato sul complotto dell’ambiziosa Mirza, suprema sacerdotessa delle vergini del Sole, che per­ suade il perfido consigliere Ferente a soppiantare Thamos sul trono d’Egitto. Il Séthos di Terrasson non doveva essere sconosciuto allo insigne poeta Christoph Wieland (1733-1813) quando scris­ se il poema Oberon, suo capolavoro (1780) e ancor piu il ro­ manzo educativo Agathon, ambientato in un’antichità clas­ sica di maniera, e soprattutto quando produsse i tre volumi delle sue «auserlesene Feen-und Geistermàrchen» (fiabe scelte di spiriti e di fate) intitolato Djinnistan (in tedesco, Dschinnistarì}. Li pubblicò tra il 1786 e il 1789. Soltanto nel terzo volume Wieland se ne dichiarò autore (prima le fiabe venivano presentate come « teils neu iibersetzt und umgearbeitet», in parte nuovamente tradotte e rielaborate). Al pri­ mo volume Wieland aveva premesso come prefazione una specie di discorsetto ai suoi contemporanei, cittadini di un’età superazionalistica, per esortarli a non vergognarsi d’amare storie di fiabe e di spiriti. Mostrava cosi di essere ben consapevole, da quell’uomo colto che era, del significa­ to e della funzione estetica del fantastico. Pare che queste fiabe, come pure V Oberon> siano scritte con mano maestra, e di incantevole lettura. Certo è che divennero immediata­ mente una miniera per il teatro popolare fondato sulle mera­ viglie della «maschinen-komódie», e furono saccheggiate, secondo gli allegri costumi del tempo, dalle compagnie tea­ trali di Schikaneder e dei suoi concorrenti e rivali. L’ultima delle fiabe del Dschinnistan è precisamente Lulu> oder die Zauberflòte, dalla quale Schikaneder trasse il soggetto del Flauto magico, stravolgendolo non poco, come vedremo. Un’altra è Das Labyrinth, dalla quale Schikaneder trasse il soggetto duna sua continuazione del fortunato Flauto magi­ co > scritta nel 1798 con la musica di certo Peter von Winter, antico nemico di Mozart. Il titolo era Das Labyrinth oder der Kampfmit den Elementen (la lotta con gli elementi), e l’opera ebbe un grandissimo successo, tanto che Schikaneder pensa­ va di darle ancora un altro seguito. Certo è che in quel periodo le Zauberopern e gli Zauber-

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stùcke, in musica e in prosa recitata, si sprecavano: se prima del Flauto magico si ricordano solo il Zaubertrommel (tambu­ ro), la Zauberzither (cetra), importantissima per le ripercus­ sioni che ebbe sulla composizione del Flauto magico, e la Zauberinsel (isola), o Der Stein der Weisen (la pietra dei sag­ gi), primo esperimento nel fantastico di Schikaneder, con musica di diversi autori, tra cui lo stesso Mozart che vi con­ tribuì con un’aria (prima rappresentazione Pii settembre 1790), ecco un elenco di Zauberstiicke seguiti al Flauto ma­ gico-. Zauberstein (la pietra magica), Zauberschwert (spada), Zauberdrache (drago), Zaubermantel (mantello), Zaubergeige (violino), Zaubergaben (doni), Zauberdose (tabacchiera), Zauberstem (stella), Zauberbuch (libro), Zauberschleier (velo), Zauberperlen (perle), Zaubermosaik (mosaico), Zauberwald (bosco), Zauberkuss (bacio) e Zaubermandoline. «Erano sto­ rie del brivido della sorta piu grossolana - scrive l’Albert ambientate in terre lontane o favolose, e ponevano i piu esi­ genti problemi all’arte magica di macchinisti e registi»11. Vi ritornava su per giù sempre lo stesso argomento: l’eroe deve riconquistarsi l’amata attraverso mille avventure in terre lontane (come avviene pure nel Ratto dal serraglio, ma in chiave comico-realistica, non fantastica), o strapparla ad un mago malvagio con l’aiuto di spiriti benigni. Questa tendenza al favoloso era fuggevolmente apparsa nell’opera buffa, con l’antico librettista napoletano France­ sco Cerlone, e nell’opéra-comique fin dal suo iniziatore ita­ liano Egidio Duni (1709-75), e di qui era poi penetrata nel Singspiel tedesco e austriaco, trovandovi terreno molto più favorevole. Correnti letterarie analoghe s’erano pronunciate anche in paesi latini, in Francia con le fiabe del Perrault, in Italia con le favole teatrali del veneziano Carlo Gozzi, ma il sostanziale scetticismo razionalistico dei latini ne corrodeva l’innocenza. La supercultura dei francesi le condiva di mali­ ziose allusioni ai fatti presenti e ne stravolgeva allegorica­ mente i personaggi. Gli austriaci, invece, col loro candore ingenuo, riducevano tutto a divertimento superficiale da bambini, e mentre accettavano con piena adesione l’elemen­ to fantastico, lo condivano anche col tipico contributo della Ibid., p. 625.

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«hanswurstiade», la loro comicità buffonesca fondata sul personaggio tradizionale di Hanswurst, che anche lui nel corso della vicenda si conquista la sua amichetta, come fa in un piano elevato l’eroe protagonista. A Vienna, dopo i suc­ cessi riportati dal comico Laroche, il personaggio di Hanswurst era stato sostituito da quello di Kasperl, Gasparino, inesauribile produttore di lazzi salaci e spesso grossolani. Valga ad esempio una famosa battuta di Gasparino in Ka­ spar der Fagottìst, oder die Zauberzither, l’opera di Joachim Perinet, con musica di Wenzel Muller, che la compagnia del capocomico Marinelli, rivale di Schikaneder, aveva preso a rappresentare, 1’8 giugno 1791, nel teatro della Leopoldstadt. Il cattivo mago Bosphoro tiene prigioniera la giovi­ netta Sidi, e Kasperl, che coi suoni grassocci del suo fagotto dà già luogo a scherzi un po’ pesanti, cosi commenta estasia­ to le virtù della fanciulla: «Zwanzig Jahre, und noch unschulding! Wir sind dodi in einer Zauberwelt! » (Vent’anni, e ancora innocente! Siamo proprio nel mondo delle meravi­ glie!) Siamo cosi giunti, seguendo le tracce del fantastico nel teatro popolare viennese, proprio alle soglie del Flauto magi­ co, ed abbiamo visto come questo filone d’estrazione appa­ rentemente umile convogliasse in realtà confuse aspirazioni della cultura europea che ben presto sarebbero esplose nella nobile fioritura artistica del Romanticismo. Ma prima di ve­ dere come questi ultimi anelli della catena - V Oberon di Wieland, Die Zauberzither ossia Kaspar der Fagottìst - si al­ laccino direttamente al Flauto magico e in certa misura ne attraversino e ne condizionino la composizione, vogliamo cercare nella esistenza stessa di Mozart e nell’evoluzione della sua arte durante l’ultimo anno di vita, altre ragioni, più personali, per cui l’artista potè accedere con gioia a una con­ cezione teatrale cosi sempliciotta come quella del Flauto ma­ gico , dopo aver donato con Le nozze di Figaro, col Don Gio­ vanni e con Cosi fan tutte, i capolavori supremi dell’alta com­ media di carattere in seno all’opera comica.

Capitolo terzo L’ultimo anno della vita di Mozart

L’ordinamento cronologico della produzione d’un musi­ cista, anno per anno, presenta uno spaccato della sua vita in­ teriore e piu vera. L’altro ordinamento, per generi musicali, tende a istituire relazioni interne di tipo evoluzionistico, co­ me se davvero l’artista fosse intento a condurre avanti, se­ condo un piano prestabilito, il Quartetto, la Sinfonia e via dicendo. La supposta logica interiore di questi scomparti­ menti si scompiglia nel drammatico disordine esistenziale della attività quotidiana. L’artista salta qua e là, sul filo delle occasioni, con una specie d’irrequieta incongruenza. Spetta­ colo tanto piu irrazionale, se l’anno che si prende in esame sia l’ultimo. Nella produzione mozartiana del 1791 nulla, apparente­ mente, fa presagire la fine. Sganciata da ogni corrisponden­ za romantica di arte e vita, essa ignora la miseria, la dispera­ zione, l’assedio dei debiti e delle malattie, il calvario delle sconfitte, delle umiliazioni. È una produzione copiosa, e per lo piu serena, perfino spensierata, con la sola eccezione fina­ le del Requiem. L’anno nero, l’anno dell’agonia era stato il 1790, quando le fonti della creazione erano sembrate essic­ carsi dopo la rappresentazione di Cosi fan tutte, e a parte qualche lavoretto minore la produzione del musicista s’era ridotta a due Quartetti e un Quintetto', una mole ragguarde­ vole di lavoro per un musicista moderno, da Brahms in poi, ma nulla, assolutamente nulla per i ritmi di lavoro del Sette­ cento musicale e per la sbalorditiva fecondità di Mozart. Ora no. Nella nuova abitazione al primo piano della Kleinkaiserstein, in Rauhensteingasse, l’anno sembrava aprirsi sotto buoni auspici. Il 5 gennaio era compiuto il Con­

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certo per pianoforte in si bemolle maggiore (K. 595), che Mozart avrebbe poi eseguito personalmente, due mesi dopo. Firn questo Concerto con un allegro Rondò, sopra un motivetto che gli girava per la testa. Se ne sbarazzò facendone ancora un piccolo Lied per bambini, insieme ad altri due, tutti in lode della primavera (K. 596-98): era il 14 gennaio. Ma ecco che tosto due mesi sono occupati, devastati, da una spaventosa alluvione di danze orchestrali. Spaventosa perché prova la miseria a cui era ridotto Fautore delle Nozze dì Figaro. E carnevale: gli allegri viennesi vogliono ballare. «Se vuol ballare, Signor contino, Il chitarrino Le suonerò». E Mozart suona il chitarrino per l’aristocrazia e l’alta bor­ ghesia viennese che si accalcano nella Sala del Ridotto. Il 23 gennaio sono pronti Sei Minuetti (K. 599), e il 29 Sei Danze tedesche (K. 600). 4 febbraio: Quattro Minuetti (K. 601) e Quattro Danze tedesche (K. 602). Il giorno dopo (i signori hanno fretta), Due Contradanze (K. 603). 12 febbraio: Due Minuetti (K. 604) e Tre Danze tedesche (K. 605). 28 febbraio: Sei Danze in forma di Làndler (K. 605) e una Contradanza (K. 606). 3 marzo: Cinque Contradanze (K. 609), la prima sul tema di «Non piu andrai, farfallone amoroso», dalle Nozze di Figaro. L’ultima viene riscritta tre giorni dopo, per altro organico strumentale, con due corni e un flauto in piu: si chiama Les filles malìcieuses (K. 610). Sempre il 6 marzo una Allemanda (K. 611), ma è la quinta delle Sei Danze tedesche (K. 600), riscritta per altro organico: probabilmente Mozart serviva diverse sale da ballo, fornite di differenti complessi. Queste sono dure obbligazioni di lavoro, d’accordo, ma è un fatto che, o per bisogno o per altro, la produzione musi­ cale dell’ultimo anno di Mozart prende uno strano indiriz­ zo, come se si allontanasse sempre piu dalle consuetudini uf­ ficiali della vita musicale. La forma augusta della Sonata, re­ gina di tutta la produzione strumentale di Mozart finora, viene sempre più lasciata in disparte. Tanto per cominciare: la Sinfonia. Mozart se l’è ormai lasciata alle spalle. Lui che ne ha scritte una quarantina, ha chiuso questa partita ormai da tre anni coi capolavori del 1788, la Sinfonia in mi bemolle maggiore K. 543, quella in sol minore K. 550, e la Jupiter in do maggiore K. 551. Concerti per pianoforte ne aveva scrit­ ti perfino 14 nel giro di tre-quattro anni, ai tempi del suo in­

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sediamento a Vienna. Ora quello terminato il 5 gennaio è l’ultimo. I due Quartetti K. 589 in si bemolle e K. 590 in fa maggiore sono un’ordinazione del re di Prussia, alla quale deve far fronte. I due meravigliosi Quintetti in re maggiore K. 593 e in mi bemolle K. 614, quelli, si, sono proprio gran­ di e auguste concezioni in una forma classica: ma sono due, e già s’è detto che misura irrisoria sia questa per le abitudini compositive dell’epoca e per la fecondità inesauribile di Mo­ zart. Il Concerto in la maggiore per clarinetto K. 622, ultimo saggio mozartiano di grande forma sonatistica, è in realtà una faccenda privata, uno splendido regalo fatto ad un ami­ co immeritevole, il clarinettista Stadler, sul quale rifluiva l’amore sviscerato di Mozart per questo istrumento, relati­ vamente nuovo, e di cui a Salisburgo non esistevano esem­ plari. Infine c’è, in tutto e per tutto, una Sonata per piano­ forte, quella in re maggiore K. 576, ed anch’essa è l’ultima del suo genere. Insomma, in quest’ultimo anno Mozart pren­ de congedo dalla grande forma. E allora, poiché il 1791 è viceversa un anno di ricca pro­ duzione, in che cosa si manifesta la fecondità mozartiana? Oltre che nel Flauto magico e nella Clemenza di Tito, e nel Requiem dovuto ad una ordinazione misteriosa e preoccu­ pante, in una miriade di pezzettini strani, dovuti alle occa­ sioni più effimere e stravaganti. Poniamo, il conte Deim vuole una composizione per organo meccanico, da inserire in un orologio, meraviglia da baraccone per il Gabinetto d’arte di cui è direttore. Per questo scopo Mozart aveva già scritto un pezzo (K. 594) l’anno prima. («Ho la ferma inten­ zione di scrivere subito l’adagio per l’orologiaio e far compa­ rire in mano alla mia cara mogliettina alcuni ducati... Ma mi è un lavoro cosi odioso che non lo posso finire... Già, se fos­ se un orologio grande e se la cosa sonasse come un organo, allora mi farebbe piacere; ma si tratta solo di piccole cannettine che per me hanno un suono troppo stridulo e infantile», lettera alla moglie, 3 ottobre 1790). Tuttavia non si può fare gli schizzinosi, con l’acqua alla gola, e Mozart scrive il 3 marzo la grande Fantasia in fa minore (K. 608), e il 4 maggio un Andante (o Rondò K. 616) per un rullo d’organo mecca­ nico. Pagine che sgomentano, specialmente la Fantasia, per

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l’ombra di mistero che vi si addensa, per il contrasto tra l’al­ tezza dell’ispirazione e l’incerta destinazione strumentale. Un’altra fonte di reddito si presenta, tanto meschina quanto inopinata: si esibisce a Vienna la ventenne Anna Kirchgàssner, cieca, virtuosa di Glas-Harmonika, uno stru­ mento fatto di bicchieri variamente intonati, da sfregare con le punte delle dita inumidite. Anche per i quattro soldi di questa virtuosa da avanspettacolo, Mozart produce dili­ gentemente un capolavoro di spettrale musica da camera: Y Adagio e Rondò K. 617. Poi arriva l’ordinazione del Flauto magico, e poi quella della Clemenza di Tito per gli amici di Praga, che devono fe­ steggiare l’incoronazione del nuovo imperatore a re di Boe­ mia, e infine quella del Requiem, e cosi si chiude la parentesi di basse bisogne finanziarie. Ma l’ispirazione di Mozart con­ tinua a battere le strade traverse di piccole forme irregolari. Per la scolaresca d’un maestro delle elementari di Baden, sobborgo dove Costanza, in attesa dell’ultimo figlio, è in vil­ leggiatura, scrive il capolavoro assoluto della sua musica sa­ cra: il piccolo, sublime mottetto Ave verum (K. 618), trasfi­ gurato in una specie di trascendente beatitudine in mezzo alla miseria. Mozart aveva scritto una dozzina di Messe in piena regola, e una, da Requiem, la stava scrivendo. Ma nes­ suna uguaglia la purezza di questo gioiello regalato al buon maestro Stoll, per regale ringraziamento di aver trovato un alloggio a Baden per Costanza. («Le bastano due stanze, o anche una sola con gabinetto, ma l’importante è che sia a piano terreno». Perché era incinta e non doveva stancarsi a fare le scale). Certi lavoretti minori denotano il crescente avvicinamen­ to di Mozart alla compagnia di Schikaneder e alla cerchia di­ vertente dei suoi amici, che confortavano con la loro allegria la temporanea solitudine di Mozart, con la moglie in villeg­ giatura. Già nel settembre 1790 non aveva rifiutato di con­ tribuire col duetto «Nun, liebes Weibchen, ziehst mit mir» (K. 625), a Der Stein der Weisen (La pietra dei saggi), primo esperimento di Schikaneder nel genere di moda dello Zauberstiick, o commedia fantastica: ed era una composizione buffonesca, questo duetto, per tutta la durata del quale il so­ prano miagola come una gatta, tanto che l’Abert ha difficol­

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tà ad accettarne la paternità mozartiana. Sempre per la com­ pagnia di Schikaneder aveva fornito un inserto per il Barbie­ re di Siviglia di Paisiello, un’aria che fu cantata da sua cogna­ ta Josepha Hofer, la futura Regina della Notte nel Flauto magico. All’8 marzo 1791 risale l’aria Per questa bella mano (K. 612), destinata al basso Franz Gerì, futuro Sarastro nel Flauto magico e marito d’una bella donnina, nata Reisinger, della quale anche l’Abert, sostenitore a spada tratta della virtu coniugale di Wolfango, ammette che «secondo testi­ monianze di contemporanei, doveva avere completamente irretito Mozart con le sue grazie». L’aria presenta una parte di contrabbasso obbligato, anch’essa destinata a un orche­ strale della compagnia, il Pischlberger. Negli stessi giorni del marzo 1791 nascono le otto Variazioni su «Ein Weib ist das herrlichste Ding» (Una donna è la cosa migliore che ci sia, K. 613), sopra l’omonima canzonetta d’una fortunata farsa di Schikaneder, con musica di Benedikt Schack, ch’era stata rappresentata per la prima volta il 26 settembre 1789. Ammettiamo pure che questi sono leggeri lavoretti occa­ sionali, significativi tuttavia per indicare la crescente adesio­ ne di Mozart alla cerchia della compagnia Schikaneder. Ma al rango degli altri capolavori misteriosi appartengono inve­ ce l’incredibile Studio contrappuntistico K. 620 b, scritto pro­ babilmente nel settembre 1791, per quartetto d’archi, sopra il corale luterano «Ach Gott vom Himmel sieh darein» (Ah Dio, dal cielo guarda quaggiù), e la Piccola cantata massonica K. 623, ultimo lavoro che Mozart abbia potuto condurre a termine prima della malattia mortale, il 15 novembre 1791. Insomma, è come se nel progressivo sfaldamento e ab­ bandono della grande forma, la musica di Mozart si ponesse sulle vie dell’Assoluto, lontano dalle ambizioni dell’«Arte». Non importa più niente, a Mozart, di affermare la propria maestria sinfonica o sonatistica, o di brillare nella forma del Concerto. (Se mai in questi ultimi anni ci tiene a sottolinea­ re presso le autorità la propria esperienza di musica sacra, che Salieri invece non poteva vantare). In questa fase estre­ ma della vita di Mozart la musica sembra quasi sfuggire alla categoria estetica. Attraverso l’insignificanza delle occasioni professionali essa diventa strumento di conoscenza delle co­ se ultime: musica veggente, che non ha bisogno della Sinfo-

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nià in pompa magna o dell’opera italiana, fastoso spettacolo per le classi superiori, ma può benissimo annidarsi in occa­ sioni misere e senza pretese. Ecco perché Mozart era ormai maturo per accettare di musicare, non già un’opera vera e propria per il teatro di corte, bensì un Singspiel fantastico e puerile per l’Auf der Wieden, il teatro di periferia nel grande caseggiato della Freihaus, dove Schikaneder teneva i suoi spettacoli. E come se Mozart si fosse straniato dal mondo, e dall’arte di questo mondo, secondo la bella espressione d’un corale luterano: «Ich bin der Welt abhanden gekommen» (Mi sono tirato da parte dal mondo). Storici tedeschi come l’Abert, o austriaci come il Paum­ gartner ci aiutano a comprendere come questo allontana­ mento di Mozart dalle cose del mondo trovasse alimento non solo nelle sue personali vicende interiori, ma anche nel clima che successe in Austria e nell’impero alla morte di Giuseppe II, avvenuta il 20 febbraio 1790. Quella fiduciosa apertura riformistica che l’illuminismo di Giuseppe II aveva promosso, si raggelò di colpo con l’avvento di suo fratello Leopoldo II, ex reggente di Toscana, incoronato imperatore il 13 marzo 1790. Sotto la sua guida l’indirizzo della cosa pubblica ritornò al prudente conservatorismo di Maria Te­ resa, contribuendovi anche gli allarmanti sviluppi presi dalla Rivoluzione francese, che sulle prime era stata vista con una certa simpatia. Tra l’altro, come sua madre, Lepoldo II si mostrò ostile alla massoneria, cui invece apparteneva Giu­ seppe II, e fra le tante interpretazioni allegoriche avanzate sul Flauto magico c’è pure quella che si tratti d’un velato la­ mento sulle sorti dell’associazione segreta, e che in Tamino si debba vedere proprio l’imperatore Giuseppe II, in Pamina il popolo austriaco, in Sarastro il grande scienziato mas­ sone Ignaz von Born, ex gesuita, fondatore nel 1781 della loggia viennese «Zur wahrer Eintracht» (Alla vera concor­ dia), morto a Vienna il 24 luglio 1791, proprio durante la composizione dell’opera. Secondo questa fantasiosa inter­ pretazione, dovuta al teologo e massone lipsiense Moritz Alexander Zille (1814-72), in una pubblicazione del 1866, nella Regina della Notte sarebbe da scorgere l’imperatrice Maria Teresa, e nel brutto moro Monostato il clero, special­

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mente monaci e Gesuiti, oppure Leopold Aloys Hoffmann, massone rinnegato che nel 1792 cercò di persuadere l’imperatore d’una rivoluzione progettata dai massoni (ma l’opera risale all’anno precedente)1. Leopoldo II aveva scarso interesse per la musica e per la opera. Non che Giuseppe II fosse stato un vero intenditore, alla maniera dei grandi nobili viennesi come i Kinsky, i Lobkowitz, gli Esterhazy e altri illuminati mecenati e dilettanti di musica, tuttavia anche nella vita musicale aveva impresso il segno della sua personalità originale. Di Leopoldo II affer­ ma l’Abert che «consapevolmente o no, anche nel campo dell’arte diede luogo a una marcata reazione: ebbero una ri­ presa le vecchie predilezioni delle corti principesche, ballet­ to e opera seria»1 23*. Ossia, si impose un arresto al vivace na­ turalismo dell’opera comica, con ritorno alle forme della più inamidata arte di corte. Anche Lorenzo Da Ponte, nelle sue Memorie, ricorda la piega sfavorevole che prese la vita tea­ trale viennese per quel tipo d’arte ch’egli aveva difeso nei suoi libretti per Mozart, per Salieri, per il Martin. «Leopol­ do, occupato da faccende importantissime, non avea tempo di badare alle frivolezze ed imbrogli del teatro»5. Può dare un’idea del conto in cui il nuovo imperatore te­ nesse la musica il fatto che si parlasse di costruire un nuovo teatro per l’opera (seria), attrezzato anche per poterci gioca­ re a carte. Salieri, cui Leopoldo II sembrava particolarmente ostile, si dimise dalla direzione dell’opera, e fu sostituito dal suo modesto allievo Joseph Weigl (si era parlato anche di Cimarosa, che infatti nel 1792 avrà a Vienna il trionfo del Matrimonio segreto, replicato tutto intero seduta stante, per desiderio dell’imperatore e della corte). Il 25 gennaio 1791 1 Di altre stravaganti interpretazioni allegoriche dà notizia lo Stefan (op. cit., p. 38). Una di esse vedeva nel Flauto magico non il lamento per le sorti della mas­ soneria, ma il suo trionfo; allora Sarastro era da intendere come Giuseppe II. Oppure in Pamina si volle vedere la libertà, in Tatuino il popolo, nella Regina della Notte il dispotismo (della Francia prerivoluzionaria). Oppure al contrario: la Regina della Notte è la Rivoluzione, Sarastro il buon sovrano difensore del­ l’ordine. 2 abert, op. cit., p. 565. 3 L. da ponte, Le Memorie, Istituto Editoriale Italiano, Milano s.d., p. 195. Insieme ad altre notizie vi si legge pure la riproduzione testuale d’un lungo e sar­ castico colloquio avuto dal poeta col nuovo imperatore.

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venne licenziato dalla direzione dei teatri il conte Rosen­ berg. La liquidazione dei favoriti di Giuseppe II continuò col congedo dato al soprano Ferraresi, che aveva cantato in Cosifan tutte] Lorenzo Da Ponte non tardò a far vela per al­ tri lidi, constatata Paria sfavorevole che tirava a Vienna per lui e per il genere d’arte ch’egli rappresentava. Insediato il 13 marzo 1790, in luglio Leopoldo II non aveva ancora messo piede in teatro o al concerto. Andava al­ l’opera sua moglie Luisa, dei Borboni di Napoli, quella che si assicurò una patente di rara competenza definendo «una porcheria tedesca» La clemenza di Tito, l’opera che Mozart scrisse in fretta e furia per l’incoronazione di Leopoldo a re di Boemia nella città di Praga. Mozart, a dire il vero, non incorse nella purga che l’avven­ to di Leopoldo II portò nelle cariche di corte, perché non aveva goduto particolari favori nel passato regime; ma conti­ nuò appunto a rimanere inosservato e trascurato. Certo, non sarebbe più avvenuto che l’imperatore gli ordinasse un’ope­ ra, come aveva fatto Giuseppe II per Cosifan tutte (di cui si dice che avesse perfino suggerito l’argomento, tratto da un fatto di cronaca avvenuto a Trieste). Ora l’ultima ordinazio­ ne sarebbe giunta a Mozart da livello molto più basso, cioè dall’intraprendenza dell’amico Schikaneder per il suo teatri­ no popolare. Con l’appoggio del barone Van Swieten, colui che gli aveva schiuso i segreti dello stile contrappuntistico di Bach e di Haendel, tentò invano d’ottenere il posto di secon­ do Kapellmeister di corte. Non gli venne neanche affidato l’insegnamento del clavicembalo ai principini! Una lettera all’amico massone Puchberg, che gli prestò più volte generoso soccorso, ce lo mostra, al principio d’a­ prile 1790, immerso nelle solite complicazioni finanziarie e nei suoi mirabolanti progetti di salvezza economica: «Ora sono proprio sulla soglia della mia fortuna; la perdo per sem­ pre, se questa volta non son capace di approfittarne». Ossia, aveva necessità d’un aiuto per tirare avanti, perché, «con tutte le mie favorevoli prospettive, senza l’aiuto di un vero amico devo considerar perduta la mia speranza di un avveni­ re migliore». Conclusione: «Ancora una volta e per l’ultima volta, la invoco pieno di fiducia nell’amicizia e nell’amore fraterno che lei mi ha tanto spesso dimostrato».



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In maggio si raccomanda all’arciduca Francesco, vantan­ do la propria competenza nella musica sacra, dove Salieri in­ vece non aveva titoli. Ma la sua supplica all’imperatore, per quanto accolta, non ebbe seguito e - dice l’Abert - «Mo­ zart fu soltanto piu ricco d’una nuova delusione». Il 14 settembre arrivano a Vienna il re Ferdinando e la regina Carolina di Napoli, per le doppie nozze delle loro fi­ glie Maria Teresa e Luisa con gli arciduchi Francesco e Fer­ dinando. Il re di Napoli amava la musica (e la caccia) e il 15 settembre andò subito a sentire La caffetìera bizzarra di Weigl. Il 21, con lui, l’imperatore fece finalmente la sua pri­ ma apparizione in teatro, a sentire YAxur di Salieri. Per la festa di fidanzamento ci fu un concerto diretto da Salieri nella sala del Ridotto, con la partecipazione della Cavalieri, di Calvesi e dei fratelli Stadler. Fu eseguita anche una Sinfo­ nia di Haydn che il re sapeva a memoria, canticchiandosela dal principio alla fine. Tante feste a Haydn, invitato a recar­ si a Napoli. Di Mozart neanche una parola. Bisogna dire, però, che Mozart era partito il 23 settem­ bre, insieme con suo cognato il violinista Franz Hofer, per recarsi a sue spese a Francoforte in occasione delle feste del­ l’incoronazione di Leopoldo II, che ebbe luogo il 9 ottobre. Ufficialmente invitati, invece, erano Salieri (che aveva con­ servato la carica di Kapellmeister di corte) e il suo sostituto Umlauf, con 15 Kammermusiker. Mozart e il cognato arri­ varono il 28 settembre, e trovarono alloggio con difficoltà, come risulta dalle lettere di viaggio alla moglie. Qui scrisse, con impazienza, il già ricordato Adagio per l'orologiaio K. 593 (lettera 3 ottobre). Il 15 ottobre, dopo le feste dell’inco­ ronazione, Mozart diede il suo concerto, «che per l’onore è stato meraviglioso, ma per il denaro, molto magro» (lettera 15 ottobre). Gli facevano concorrenza un pranzo di gala presso un principe e le grandi manovre per le truppe di Es­ sen. Il viaggio di ritorno li condusse per Offenbach, Magonza, e Mannheim, dove si rappresentava Le nozze di Figaro (pro­ va generale il 23 ottobre), poi Schwetzingen e Monaco, do­ ve c’era di nuovo il re di Napoli: «Bell’onore per la corte di Vienna che il re di Napoli mi debba sentire all’estero! » (let­ tera 2 novembre).

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A Vienna in novembre l’impresario Salomon aveva invi­ tato Haydn a Londra, e Mozart dopo il ritorno di Haydn. Del resto già O’Reilly, direttore dell’opera italiana a Lon­ dra, l’aveva invitato perché restasse fino al giugno 1791, scrivendo almeno due opere per trecento sterline. Queste tournées nella vivacissima arena musicale londinese erano una manna per i musicisti del continente, abituati a un ma­ gro salario come impiegati di corte, e che là invece venivano disputati a suon di sterline da impresari rivali. Perché Mo­ zart non ci andò? Haydn, che aveva ventiquattro anni più di lui, non ebbe la minima esitazione: era in pensione dal suo ufficio di Kapellmeister degli Esterhazy, era disponibile, e forse non gli dispiaceva allontanarsi per qualche tempo da quella Santippe di sua moglie. Mozart, di tanto più giovane, tentennava e di fatto non se la sentiva di lasciare per tanto tempo le sue abitudini, la mogliettina, e soprattutto la sua cara, adorata città di Vienna, col Prater, con gli amici, con le passeggiate fuori porta, per confinarsi sotto il plumbeo cielo del Nord. Si direbbe proprio che le ambizioni artistiche e mondane non abbiano più senso per questo Mozart ingenuamente veggente dell’ultimo anno di vita. Pochi anni prima lo spet­ tacolo degli uomini e dell’esistenza lo aveva affascinato, e ne erano usciti quei capolavori di realismo psicologico che sono le tre opere italiane. A che pro, adesso, cosa gli servirebbe inseguire con la vita pulsante della musica le vicende e i ca­ ratteri di Figaro e di Don Giovanni, di Susanna e della Con­ tessa, di Donna Anna e di Elvira, di Dorabella e Fiordiligi? E ormai un capitolo chiuso della sua arte quello della analisi dell’uomo. Ora lo occupa una specie di ideale etico, un mes­ saggio universale da consegnare all’umanità, al di là e al di sopra delle caratteristiche individuali. Quella esigenza reli­ giosa in senso lato che trapelava qua e là come un sottofon­ do segreto nelle opere italiane, ora vuol venire in primo pia­ no. E per l’appunto abbiamo già visto come in quella forma di teatro popolare e buffonesco a cui lo invitava l’amico Schikaneder si insinuassero contenuti tutt’altro che sprege­ voli, aspirazioni confuse dell’epoca, e soprattutto gli ideali umanitari raccolti dalla massoneria, nei quali Mozart aveva sempre fermamente creduto, prima ancora della sua iscrizio­

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ne alla loggia viennese della «Speranza coronata», avvenuta il 14 dicembre 1784 (Schikaneder, invece, era probabilmen­ te un neofita). Quel mito dell’età dell’oro, del paradiso terrestre al quale l’uomo aspira a ritornare, l’idea giusnaturalistica della feli­ cità, intesa come un diritto naturale dell’uomo, che nelle opere italiane di Mozart dobbiamo cercare per speculum et imaginem, suggerita ed evocata dalla sola musica al di là del­ le vicende letterali dell’azione4, qui, nei simboli del Flauto magico, diventa finalmente esplicita. (Come doveva esserlo, per esempio, nel coro finale per Le gelosie villane di Giusep­ pe Sarti, scritto il 20 aprile 1791. Le sue parole iniziali, «Vi­ viamo felici in dolce contento», si potrebbero prendere co­ me il manifesto dell’ideologia mozartiana). Questo fatto, che nel Flauto magico diventi esplicito ciò che nelle altre opere (specialmente Le nozze di Figaro e II rat­ to dal serraglio) bisogna evincere quasi come un’allegoria na­ scosta in seno alla trama, psicologicamente e naturalistica­ mente fondata, costituisce un’altra delle peculiarità dell’ul­ tima opera mozartiana che la rendono a tutta prima sconcer­ tante all’ascolto, per chi sia avvezzo al raffinato ideale rea­ listico dell’opera italiana. È un bene, è un male la consape­ volezza del Flauto magico, il fatto che nei suoi simboli siano spiattellati apertis verbis quei contenuti che nelle opere italia­ ne sono coinvolti e nascosti dentro una trama narrativa e psicologica per sé stante? Come dice molto bene uno scrit­ tore francese, «nel Flauto magico non c’è più un’azione esterna sotto la quale risieda, immanente, l’azione interiore. Quest’ultima accede ora al primo piano scenico. Nelle opere precedenti era l’intreccio che dava alle azioni il loro impulso e ai personaggi la loro consistenza. Qui, al contrario, l’idea preesiste e presiede al gesto»5. Lo stesso aveva già sentito lo Abert quando scriveva che «Ilflauto magico si basa su un ti­ po drammatico affatto nuovo, anzi, su una diversa Weltan­ schauung». Le tre opere italiane «avevano fatto agire l’e­ 4 Si veda, per esempio: massimo mila, Lettura delle «Nozze di Figaro», Ei­ naudi, Torino 1979, pp. 178-79. 5 jean-victor hocquard, La pensée de Mozart, Editions du Seuil, Paris 1958, p. 494.

L’ULTIMO ANNO DELLA VITA DI MOZART

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vento drammatico per la sua forza interna, senza alcun cri­ terio moralistico. Invece II flauto magico riferisce tutto, azioni e caratteri, ad una fondamentale idea morale. Le sue figure non sono più creature di ingenua gioia creativa,.ma ricevono vita da quell’idea. Essa è la vera meta a cui tendo­ no i personaggi, e secondo il loro rapporto con quella si divi­ dono in buoni e cattivi»6. Si fa ritorno, cosi, ad una psicolo­ gia sommaria da teatro dei burattini, dopo le straordinarie sfumature dei caratteri conseguite nelle Nozze di Figaro, in Don Giovanni ed anche in Cosifan tutte, nonostante la sua apparenza di geometrico schematismo. Non sempre l’arte si giova della libertà. Talvolta la costri­ zione della censura giova. Le cose che non sono dette appo­ sta, ma che si intrufolano surrettiziamente nella formulazio­ ne di altri argomenti e altri temi, apparentemente primari, hanno più efficacia e freschezza vitale. Si pensi, nella lette­ ratura italiana recente, al caso di Vittorini, che nei romanzi scritti dopo la Liberazione, quando poteva ormai dire tutto quello che voleva, non trovò forse più l’altezza dei tempi in cui doveva industriarsi per contrabbandare sotto banco un messaggio proibito. Il «trobar clos» ha i suoi vantaggi stili­ stici, e Conversazione in Sicilia, scritto e pubblicato sotto il fascismo, resta il suo capolavoro. Oppure si pensi al caso di Verdi, che per sei anni dovette lottare d’astuzia con le varie censure della penisola, e si direbbe che la passione nazionale dei suoi melodrammi giovanili ne fosse come rinfocolata e purificata attraverso gli ostacoli e le contrarietà. Nel 1849, quando gli accadde di scrivere La battaglia di Legnano per Roma liberata dal governo papalino, curiosamente sembrò più attratto dai conflitti privati del solito triangolo amoroso, che non da tutto il rataplan patriottico e risorgimentale, or­ mai venuto in piena luce. Lo Hocquard sviluppa coerentemente questo argomento. «Quando, nelle opere precedenti, l’azione interiore traspa­ riva attraverso l’azione esterna grazie alla musica, alla sola musica, la sua immanenza la preservava allora da ogni impu­ rità. Ma qui, dove essa prendeva corpo al punto d’invadere il senso letterale, essa correva il rischio di urtare in un dopABERT, Op. CÙ.y p. 631.

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pio scoglio: o di ispessirsi nell’astrazione d’un lavoro a tesi, oppure di degradarsi in un misticismo panteistico o teosofi­ co di cattiva lega. Era in fin dei conti una terribile scommes­ sa quella di trattare sulla scena la purificazione interiore at­ traverso l’amore»7. Va da sé che questi scogli il genio di Mozart li ha evitati entrambi, né si vuol qui dire che la consapevolezza esplicita dei contenuti nel Flauto magico ne costituisca un difetto. Ma certamente è anche questo uno dei motivi per cui il sem­ plicismo infantile di quest’opera può lasciare sconcertati gli ascoltatori smaliziati avvezzi alla maturità psicologica dell’o­ pera italiana, in particolare dell’opera comica. Anche questo è un sintomo dell’allontanamento inconsa­ pevole di Mozart dalle miserie, dai travagli e dalle ambizioni della vita terrena. Nulla, si diceva al principio di questo ca­ pitolo, nulla fa presagire la fine nella produzione rigogliosa e felice dell’ultimo anno di Mozart. Nulla, o tutto? Perché quella felicità irresponsabile che alleggerisce i ritmi alati del Quintetto in mi bemolle e del Concerto per clarinetto, quella misteriosa stupefazione metafisica dei lavori per organo meccanico, quella serenità olimpica del classicismo recupe­ rato nella Clemenza di Tito, quella liberazione, infine, nella saggezza fiabesca del Flauto magico, che cosa significano, se non che Mozart non è più di questo mondo? Quella felicità inconsulta, quell’allegrezza in mezzo alla rovina, quel senso di levitazione che già albeggia nel Concerto per pianoforte, cosi sobrio e alieno da ambizioni di virtuosismo, che altro è se non un salpare, un levare gli ormeggi, un prolungato con­ gedo da questa terra? Ich bin der Welt abhanden gekommen. L’umano, il troppo umano sparisce dai lavori dell’ultimo Mozart, e in sua vece si schiude in una luce di saggezza il senso di quel mistero che aveva sempre insidiato la felicità della sua giornata terrena. 7 HOCQUARD, Op. Clt., pp. 494-95.

Capitolo quarto

La composizione dell’opera

La storia esterna della composizione del Flauto magico è complicata e perfino oscura, spesso attraversata da contrat­ tempi e cambiamenti di rotta. Tanto che dovremo spesso appellarci ad una versione tradizionale, forse leggendaria, ed ai risultati della più recente e spassionata critica storica, sen­ za per questo risolverci a prendere sempre decisamente par­ tito in favore di quest’ultima. Le leggende, se nascono, han­ no sempre qualche ragione. La storia esterna del Flauto magico non si può scompa­ gnare dalla conoscenza di colui che ne fu il librettista, il pro­ motore, e artefice della rappresentazione: l’impresario tea­ trale ed attore Emanuel Schikaneder. Pittoresco personag­ gio di capocomico ambulante che pare uscito dalle pagine del Wilhelm Meister di Goethe. Bruciato dalla passione del teatro e peraltro gioviale tipo di gaudente, era entrato a ventidue anni nella compagnia ambulante Schopf, come attore, cantante e poi regista. «La sua voce di basso - ci informa lo Abert - non era né forte né particolarmente istruita, ma lui sapeva rimediare ottimamente a queste deficienze col suo talento mimico e musicale»1. Nel 1776, a venticinque anni, sposò la collega Eleonore Ardt ed entrò con lei nella compa­ gnia Maser, di cui diventò direttore (secondo lo Stefan, «Prinzipal») nel 1778. La compagnia girava da un capo all’altro i paesi di lingua tedesca, specie di rumoroso e polivalente carro di Tespi, buono per la commedia, per l’opera, per la farsa, per gli spettacoli popolari d’incantesimi e stregonerie. Quasi come 1 ABERT, Op. CÌt., p. 585.

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un circo, drizzavano la loro tenda sulle pubbliche piazze, là dove non ci fosse un teatro ad ospitare le loro esibizioni, e cosi li aveva conosciuti Mozart a Salisburgo nel 1780, pro­ prio quando in lui era piu forte la fame teatrale, per la forza­ ta astinenza samburghese. L’arrivo della compagnia ambu­ lante era stato un avvenimento per la pacifica cittadina arci­ vescovile, chiusa nella cerchia dei monti, e Mozart e la sorel­ la non avevano perduto una recita, entrando in relazione coi comici e col loro capo Schikaneder. Per le sue rappresenta­ zioni Mozart aveva ripreso e completato le musiche com­ poste sette anni prima, a Vienna, per Thames, re d'Egitto, il dramma vagamente misteriosofico, a sfondo massonico, del barone Gebler: un antecedente diretto di quel teatro popo­ lare fondato sul meraviglioso, ma dotato di scopi d’edifica­ zione laica, a cui apparterrà IIflauto magico. Tumultuose vicende di compagnie sciolte e ricomposte avevano caratterizzato i dieci anni d’attività di giro della compagnia diretta da Schikaneder, con due capate a Vien­ na, prima ch’egli vi approdasse definitivamente. Non si trat­ tava, però, d’una teatrale armata Brancaleone. Secondo l’Abert, la compagnia era di quelle piu in vista in tutta la Ger­ mania. Recitavano Shakespeare (e quel buontempone di Schikaneder era lui stesso un buon Amleto, a quanto pare), Lessing, Goethe e perfino i primi drammi di Schiller. Nel­ l’opera pare rappresentassero Gluck, Haydn e lo stesso Mo­ zart. Ma Schikaneder non esitava a manipolare i drammi del suo repertorio per renderli piu accetti al pubblico, appicci­ cando magari il lieto fine alle piu nere tragedie. Aveva subi­ to un grave insuccesso a Pressburg con una commedia dove i personaggi erano oche e galletti (viene sempre ricordata l’inclinazione «gallinacea» del suo talento teatrale). Ma nel 1784 a Vienna, nel Kàrtnertor Theater, era riuscito a inte­ ressare un personaggio di gusto come Giuseppe IL Nuove contrarietà insorsero, e la compagnia si sciolse per intrighi amorosi. Dal i° aprile 1785 al 28 febbraio 1786 Schikaneder lavorò come attore del Nationaltheater; ma, ri­ portando insuccessi nelle parti serie, fu costretto a limitarsi a quelle comiche. Tuttavia non era tipo da adattarsi a posi­ zioni subordinate, e dopo altri vagabondaggi nel 1787 ot­ tenne la direzione del teatro di Regensburg, sua città natale,

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dove si segnalò per spettacolose messe in scena. (Fu qui che bruciò in scena il castello dei Moor nei Masnadieri di Schil­ ler). Criticato per queste esagerazioni, già nel 1788 dovette rendersi conto che la sua posizione a Regensburg si faceva insostenibile, e al principio del 1789 riparti per Vienna con la sua compagnia. Li ritrovò la moglie, che nel 1786 si era al­ lontanata da lui per unirsi con l’attore Johann Friedel ed aveva assunto nel 1788 il teatro Auf der Wieden, fondato l’anno prima nel grande edificio del Freihaus nella periferia viennese. (Era una sala rettangolare, di legno, non più gran­ de del Josephstàdter Theater). Ma Johann Friedel l’aveva nel frattempo piantata, e mal gliene era incolto, poiché mori nel 1789. Marito e moglie si riconciliarono e il i° aprile 1789 Schikaneder divenne condirettore del «k.k. privilegierten Theaters im Freihause auf der Wieden»: principale concorrente dell’affermato teatro di Marinelli nella Leopoldstadt, specialista in spettacoli meravigliosi. Con grande duttilità Schikaneder seppe adattarsi al gusto viennese, esercitando una forte influenza sull’ulteriore svi­ luppo di quel teatro popolare. L’Abert gli attribuisce il me­ rito d’aver saputo cogliere molto bene il «Wiener Volkston», il tono popolare viennese, «un misto fatto d’ingenui­ tà, sentimentalismo ed ironia», lusigando il patriottismo municipale della cittadinanza. Al Kasperl, il fortunato per­ sonaggio comico proposto dal Marinelli, oppose il tipo di «Antonio il tonto» (der dumme Anton), presentato in sette farse. Paterno verso i suoi «Kinder», cioè gli attori, con imman­ cabili attenzioni verso le attrici, era, sempre a detta dell’Abert, un vero figlio del suo tempo, in cui era cosi sottile il di­ vario tra imbroglioni e nature geniali. «La sua istruzione giungeva appena alle arti di scrivere e far di conto, il suo ca­ rattere possedeva tutte le qualità del vagabondo nato, gio­ vialità, battuta pronta e spiritosa, spacconeria ed un’incre­ dibile mancanza di scrupoli morali, che però sapeva sempre mascherare con garbo ed umorismo»2. Aveva senso degli af­ fari, ma anche gusto del grandioso: sprecone, dilapidava le sue ricchezze. Viveva con la moglie in un castello principe­ 2 Ibid., p. 582.

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sco nel sobborgo di Nussdorf. Colpiva la fantasia dei vien­ nesi con la sua grandiosità, i suoi ricevimenti pantagruelici, e il numero incalcolabile delle tresche amorose. «Ma nono­ stante tutte le sue sbandate, come artista Schikaneder era molto di più che un direttore di guitti da strapazzo»3. Ave­ va il teatro nel sangue, e non per mera routine^ c’era in lui un geniaccio innato per l’effetto scenico, come si vede dal li­ bretto del Flauto magico. Anche lo Hocquard gli riconosce «un sens très robuste de la réalité scénique, de ce qui passe bien la rampe»4. Non è dunque vero ciò che spesso accade di leggere, che nell’ultimo anno della vita di Mozart, quand’egli stava per soccombere alle avversità finanziarie, Schikaneder sia ap­ parso a Vienna come una provvidenziale ancora di salvezza. Schikaneder era a Vienna ormai da due anni, e IIflauto ma­ gico , non che fiorire di botto per un colpo di fortuna, nasce­ rà dal progressivo ravvicinamento dei due personaggi in un clima di crescente familiarità. Forse non è nemmeno atten­ dibile la versione opposta, e cioè che il 7 marzo 1791, in un momento di grave imbarazzo finanziario, Schikaneder si sia rivolto a Mozart, perché non poteva più farcela senza un la­ voro nuovo che contrastasse il successo del teatro meravi­ glioso di Marinelli, e gli pareva d’avere scoperto una eccel­ lente materia di Zauberoper, che pareva fatta apposta per Mozart, nell’ultima fiaba dello Dschinnistan di Wieland, Lu­ lu oder die Zauberflòte. Secondo questa versione sarebbe ad­ dirittura Mozart, poverissimo e scalcinato, che per amicizia, fratellanza massonica, e per i begli occhi di Frau Gerì, ac­ consente a venire in soccorso del ricco, ma dissestato impre­ sario. E mette le mani avanti: «Se facciamo fiasco» (wenn wir ein Malheur haben), «io non ne posso niente, perché una Zauberoper non l’ho ancora mai composta»5. Conoscendo la sua pigrizia, o piuttosto la sua volubilità, Schikaneder, per tenerlo sotto controllo, sbarazza per lui il piccolo Gartenhaus nel cortile del Freihaus, proprio accanto al teatro: un padiglioncino di legno, poco più grande che 3 Ibid., p. 583. 4 HOCQUARD, Op. CÌt., p. 497. 5 Citato dall*Abert (p. 584), senza indicare la fonte.

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un’edicola da giornalaio, che ora si visita con commozione a Salisburgo nel prato del Kapuzinerberg. Lf, allietato proba­ bilmente ogni tanto dalla visita di qualche graziosa attrice o di qualche ballerina, con le buone bottiglie fornite da Schi­ kaneder, Mozart compose la piu gran parte del Flauto magi­ co , durante la primavera del 1791. Il 2 luglio fa dire dalla moglie al discepolo, segretario, quasi domestico Sussmayer, che gli mandi il suo «Spart» (evidentemente spartito) del primo atto, dall’introduzione al finale, perché possa metter­ si a strumentare. In luglio la composizione era già cosi avan­ ti che Mozart iscrive l’opera, come se fosse terminata, nel catalogo dei propri lavori, ch’egli teneva accuratamente. In realtà mancavano ancora il coro «O Isis und Osiris», le can­ zoncine di Papageno e il Finale II, che dovettero esser stati scritti dopo il 12 settembre, essendoci stata un’interruzione in estate per l’incarico misterioso del Requiem e soprattutto per la frettolosa composizione della Clemenza di Tito, con relativo ultimo viaggio nella dilettissima città di Praga. Lf, in quel padiglioncino di legno, «sono ripassati davanti a lui, come in uno spettacolo meraviglioso, tutta la sua gio­ vinezza, tutte le sue aspirazioni d’un tempo, tutta quella lu­ minosa creazione di temi espressivi, di figure caratteristi­ che, d’immagini sonore sparse e non sviluppate, ridestatesi ora più fresche che mai»6. Cosi scrive il Curzon, e coglie giustamente quell’aspetto d’innocenza infantile del Flauto magico, per cui la sua corposa consistenza melodica appare più vicina alle giovanili Sinfonie K. 183, K. 200, K. 201, che non alla Sinfonia di Linz, o a quella di Praga, o alla dotta Ju­ piter, più ai Quartetti «milanesi» che non agli ultimi vienne­ si; più alla freschezza e abbondanza inventiva di Serenate e Divertimenti che non alla tematica combinatoria dell’alta musica da camera o sinfonica. Il 28 settembre, cioè due giorni prima dello spettacolo, Mozart completò l’ouverture e la marcia dei Sacerdoti. La collaborazione con Schikaneder dev’essere stata assai stret­ ta, più di quanto fosse avvenuto con Lorenzo Da Ponte, il quale si credeva un letterato di riguardo. «La cosa migliore 6 Henri de curzon, Mozart, Editions de la Nouvelle Revue Critique, Paris 1938, p. 186.

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di tutte», aveva scritto una volta Mozart al padre, il 13 otto­ bre 1781, mentre lavorava al Ratto dal serraglio, «è quando un buon compositore, che capisce il teatro ed è in grado lui stesso di dare istruzioni, incontra quella vera fenice che è un poeta intelligente». La canzone Ein Màdchen oder Weibchen Mozart l’avreb­ be scritta dopo molti tentativi su un motivo inventato e can­ ticchiato da Schikaneder. E forse questi ebbe anche parte determinante, secondo l’Abert, nel duetto «Bei Mànnern, welche Liebe fiihlen», e in quello di Papageno e Papagena. Ma l’Abert vuol ridurre l’importanza di questa partecipazio­ ne del librettista all’invenzione musicale: la melodia della canzone «riposa sull’antico patrimonio del canto popolare» e i due duetti sono «cosi ineccepibilmente mozartiani». Del resto c’è un biglietto di Schikaneder: «Caro Wolfango! Ti restituisco qui il tuo Pa-pa-pa, che per me va benissimo. Fa­ rà un ottimo effetto». Secondo l’Abert, la collaborazione non fu a senso unico, ma al contrario Schikaneder avrà mostrato a Mozart dap­ prima soltanto un piano dell’opera, e poi lo avrà realizzato «in stretto contatto» con lui. Dovette esserci un’incessante collaborazione, «quale non ha l’uguale, in tal misura, in nes­ suna delle precedenti opere di Mozart». Schikaneder fa di tutto per tener Mozart di buon umore, lo invita spesso a pranzo durante l’assenza di Costanza e lo introduce nell’ambiente del suo teatro. Ma l’Abert nega che Mozart sia trasceso a baldorie. «Lo provano le sue lettere a Costanza con la loro nostalgia della moglie e della famiglia e col senso di vuoto e d’abbandono che manifestano, senso che nessuna orgia schikanederesca avrebbe potuto sconfig­ gere». In realtà quelle lettere, dove Mozart si mostra amoro­ samente sollecito per la salute della moglie incinta, e le rac­ comanda ripetutamente di non esagerare nei bagni e di guar­ darsi dall’aria fresca della sera e della mattina, non provano un bel niente. Anche se per combinazione Mozart, solo a Vienna, avesse corso un poco la cavallina, che altro avrebbe potuto scrivere alla moglie? E, a voler essere un po’ maligni, può suonare strana la lettera che le scrisse 1’8 luglio, dopo tante precedenti raccomandazioni di non eccedere nei ba­ gni, di non stancarsi nelle passeggiate. Costanza doveva

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aver manifestato il proposito di ritornare a Vienna, ed ecco allora Mozart: «... Ma se vuoi, ti mando il denaro necessa­ rio, paghi tutto e vieni in città. Io certamente sono conten­ to; solo trovo che per te fare i bagni con questo tempo cosi bello deve far molto piacere e anche le magnifiche passeggia­ te devono far bene alla tua salute. Questo devi giudicarlo tu meglio di me; se trovi che l’aria e il moto ti fanno bene, re­ sta costi; io vengo poi a prenderti, oppure, per farti piacere, resterò anche alcuni giorni; o, come ho detto, se vuoi, vieni in città domani; scrivimi però liberamente...» Comunque stessero le cose, Costanza ritornò a Vienna l’11 luglio, e il 26 diede alla luce l’ultimo figlio di Mozart, Wolfango di no­ me pure lui, e l’unico che si sia dedicato alla carriera musica­ le. Visse a lungo in Italia, e mori a Karlsbad nel 1844. Dopo aver praticato piuttosto la farsa e il teatro borghe­ se, Schikaneder si era accostato solo di recente, dopo il tra­ sferimento definitivo a Vienna, allo «Zauberstiick», o tea­ tro fantastico, col citato Stein der Weisen oder die Zauberinsel (La pietra dei saggi o l’isola magica), rappresentato l’n set­ tembre 1790, con musiche di Benedetto Schack e di altri, tra cui un contributo dello stesso Mozart. Lo muovevano in questo senso ragioni di concorrenza col rivale Marinelli del teatro della Leopoldstadt. Incoraggiato dal buon esito della Pietra dei saggi, Schikaneder aveva attinto ancora allo Dschinnistan di Wieland e si era soffermato sull’ultima fia­ ba, Lulu oder die Zauberflóte. Ecco come lo Abert ne riassu­ me l’argomento. «Il cattivo mago Dilsenghuin ha rubato alla fata raggiante Peirifirime la sua dorata bacchetta magica, le cui scintille rendono chi la possiede padrone di tutto il regno degli Spiriti. Il principe Lulu, figlio del re del Korassan, vie­ ne da lei prescelto, come giovane non ancor tocco dall’amo­ re, per ricuperarle il talismano; in compenso riceverà la sua figlia Sidi, pur essa rapita dal mago che la assilla con le sue profferte amorose. Lulu riceve dalla fata un flauto, il cui suono può piegare a suo piacere tutti i cuori ed un anello che gli può conferire qualunque apparenza egli desideri e che, quand’egli lo getti via, chiama la fata stessa in suo soccorso. Cosi attrezzato Lulu, mascherato da vecchio, giunge al ca­ stello del mago, soggioga col flauto prima le belve del bosco e poi il cuore dell’avversario e si conquista l’amore di Sidi.

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CAPITOLO QUARTO

In un banchetto il mago viene addormentato e gli viene sot­ tratto il raggio di fuoco. Con l’aiuto degli Spiriti, e alla fine, della Fata, viene spezzata l’ultima sua resistenza; egli stesso si dà alla fuga, trasformato in gufo. La sua rocca viene di­ strutta e il vincolo dei due innamorati benedetto nel castello della Fata». Ma non è questa l’unica fonte dell’opera, bensì coniugata con altre, come la «Zauberoper» Oberon, re degli Elfi, che Karl Ludwig Giesecke, ora attore della compagnia di Schi­ kaneder, aveva tratto dal poema omonimo di Wieland, o piuttosto dal «Singspiel romantico in 3 atti dall’Oberon di Wieland », che un Friedrich-Sophie Sayler aveva elaborato, e che Giesecke saccheggiò sfacciatamente. Il lavoro di Gie­ secke, musicato dal boemo Paul Wranitzky (1756-1808), fu ripreso a Vienna il 23 luglio 1791 e la compagnia di Schika­ neder lo stava quindi provando nei giorni in cui Mozart la­ vorava al Flauto magico. Ma risaliva a qualche anno addie­ tro, e Mozart doveva averlo già sentito l’anno prima a Fran­ coforte, in settembre o ottobre, quando vi era stato per l’in­ coronazione di Leopoldo II. E in questo lavoro che la «Fata raggiante» diventa «Astrifiammante regina della notte»; l’e­ roe riceve il ritratto della fanciulla e la guida di tre Ragazzi. C’era in quest’opera una parte di Kolor a tur-Soprano per la Hofer, cognata di Mozart, con un’aria in si bemolle, misura di 4/4, Allegro maestoso, come la prima aria della Regina della Notte: arriva fino al re sopracuto; quella di Mozart fi­ no al fa. Titania e le due Ninfe, nell’ Oberon, costituiscono un terzetto di voci femminili, come le tre Dame nel Flauto magico. Il cavaliere Hiion col suo buffo scudiero Scherasmin corrispondono a Tamino e Papageno. Il Dent segnala nelle due opere altri casi di pezzi analoghi, nelle medesime tona­ lità. La marcia dei Sacerdoti, all’inizio del second’atto del Flauto magico, che sempre si dice derivante dall’Alceste di Gluck, viene probabilmente dalla marcia dell’ingresso di Ti­ tania. Ma questa, a sua volta, è «un’aperta e scandalosa imi­ tazione dalla marcia dell’A/ceste»7. Chi era questo Giesecke, che accampò più tardi pretese alla paternità quasi totale del testo del Flauto magico? Nato 7 DENT, op. cZt., p. 216.

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ad Augusta nel 1761, suo vero nome Johann Georg Metzler, aveva studiato dapprima diritto, poi scienze naturali a Got­ tingen, e si piazzerà come distinto professore di mineralogia, prima in Danimarca e poi a Dublino, dove morirà il 5 marzo 1833. «Personaggio fuori del comune», lo giudica Edward Dent8, che presta molto credito alle sue pretese di compater­ nità nel libretto del Flauto magico. Era in relazione con Schiller e Klopstock, teneva rapporti espistolari con Goethe, e sarebbe stato addirittura il modello di Wilhelm Meister. Era autore d’una traduzione AeW Amleto rappresentata a Vienna. Manco a dirlo, massone, bazzicava nell’ambiente teatrale per guadagnarsi da vivere, in attesa di poter salire ad alte funzioni scientifiche. Attore nella compagnia di Schika­ neder, dal 1789, piu versatile e diligente che talentoso, era spesso impiegato come poeta di composizioni d’occasione, specialmente patriottiche, e revisore di testi teatrali per i quali si rendessero necessari ritocchi e adattamenti. Nel Flauto magico cantava la parte del Primo Schiavo. Nel 1819 costui avrebbe dichiarato a Julius Cornet (1793i860), cantante e direttore teatrale, che lo riferì poi nel suo studio Die Operin Deutschland (Amburgo 1849), d’essere stato lui l’autore della più gran parte del libretto del Flauto magico. A Schikaneder si dovrebbero soltanto le parti di Pa­ pageno e Papagena. O. Jahn lo apprese dal musicista salisburghese Sigismund Neukomm (1778-1858), e di questa te­ si si fece aperto sostenitore il Dent, secondo il quale appar­ terrebbero al Giesecke: il discorso di Sarastro ai Sacerdoti, la scena del giardino in cui Sarastro salva Pamina da Mono­ stato, l’addio degli innamorati in presenza di Sarastro e dei Sacerdoti, e tutto il Finale II, salvo la scena dei Papageni. «Dunque sta sul conto di Giesecke la parte di gran lunga mi­ gliore del Flauto magico*. è lui il creatore di Sarastro, che non solo è il cardine dell’azione, ma una delle piu attraenti e sin­ golari figure sceniche nella storia del dramma musicale. Na­ turalmente la formulazione verbale di queste scene non è né originale né molto eccelsa, ma sono compenetrate di schietta solennità, e lo stile raggiunge... una certa dignità»9. 8 Ibid., p. 208. 9 Ibid., p. 215.

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Contrari all’estensione della partecipazione librettistica di Giesecke sono il Komorzinsky, autore d’una fondamen­ tale biografia di Schikaneder, lo Schurig, il Deiters nel suo commento e revisione della quarta edizione della biogra­ fia mozartiana di Otto Jahn, e, riassumendo le loro ragioni, l’Abert. Lascia la questione indecisa E. Blùmml, autore d’u­ na biografia di Giesecke. E singolare come gli stessi argomenti servano talvolta a questi autori per sostenere tesi opposte. «Perché - si chiede il Dent - ormai in fama europea come dotto (Giesecke) si sarebbe dichiarato autore o co-autore d’un testo conosciuto per la sua stupidità, se non fosse stato vero?»1011 . Invece l’Abert si chiede: perché Giesecke avrebbe tardato tanto a di­ chiarare la propria paternità di un’opera divenuta nel frat­ tempo cosi famosa? E non crede nella risposta che avesse paura di mostrarsi implicato in una faccenda massonica, se Schikaneder e Mozart non ne avevano avuto paura. Il Dent cosi ragiona: se è vero che Sarastro sia esemplato sullo scien­ ziato massone Ignaz von Born, v’è maggior probabilità che questo personaggio fosse piu familiare all’universitario Gie­ secke, futuro cultore di scienze naturali, che non a un alle­ gro teatrante come Schikaneder11. Ed ecco Paul Stefan ri­ battere sarcastico: «Già, il Professore poteva essere stato poeta; il teatrante no»12. L’Abert, come s’è detto, crede poco alla partecipazione di Giesecke, suggerendo invece ch’egli possa aver contribui­ to a qualcuna delle numerose continuazioni prodotte dal successo del Flauto magico. «Tutta la redazione esterna del testo corrisponde decisamente meglio alla mano di Schika­ neder che a quella dell’assai più inesperto Giesecke». (Vera­ mente, una traduzione dell’Amleto, Schikaneder non sareb­ be riuscito a farla neanche se fosse campato cent’anni). «Perciò, finché non emergano ulteriori prove decisive del contrario, si farà bene a scorgere in Schikaneder e in Mozart gli autentici autori del Flauto magico e a limitare alla misura indicata la partecipazione di Giesecke» (cioè alle indicazioni 10 Ibid., p. 213. 11 Ibid. 12 STEFAN, op. tit., p. 16.

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che indubbiamente Schikaneder attinse n&W Oberon di Gie­ secke e Wranitzky)13. Anche l’Abert ammette che il testo, di chiunque sia, è criticatissimo e quanto mai «chiacchierato». Tra l’altro egli riferisce alcune significative critiche berlinesi sulla qualità scadente dell’esecuzione e sul contenuto e la lingua del li­ bretto14. Il 9 ottobre il «Musikalisches Wochenblatt» rife­ riva che l’opera non aveva ottenuto l’applauso sperato «per­ ché il contenuto e la lingua del testo sono troppo cattivi», e nel 1793 la «Berlin Musikalische Zeitung» affermava: «L’eccellente musica di Mozart per il Flauto magico viene cosi strapazzata nel teatro di Schikaneder, che si vorrebbe scappar via per lo strazio. Non c’è un solo cantante, uomo o donna, che si possa ascoltare, né che si sollevi appena un po­ co sulla mediocrità nel canto o nell’azione». Ma l’Abert ci ricorda anche che Goethe ammise, si, che il testo è «pieno di inverosimiglianze e di scherzi, che non tutti sanno intendere ed apprezzare», ma affermò anche che «si dovrebbe in ogni caso concedere all’autore che in alto grado conosceva l’arte di operare per contrasti e produrre grossi ef­ fetti teatrali»15. Herder scorgeva nell’idea fondamentale del­ la lotta fra la luce e le tenebre la ragione principale del suc­ cesso del Flauto magico. Beethoven la preferiva fra le opere di Mozart, e non ne respingeva il testo poetico, come fece per Le nozze di Figaro e Don Giovanni16. Apprezzava il testo anche Hegel (nella terza parte delle Vorlesungen uberAesthetik, 1835, p. 203). L’autore teatrale H. von Waltershausen, autore d’un classico studio sul Flauto magico (1920), lo indi­ ca addirittura come «il miglior libretto d’opera». Si avvicina a questo parere estremo l’Abert, che esalta le qualità del libretto in una pagina non priva di esagerazioni (« Non conosce punti morti... »), ma non ha torto quando af­ ferma trattarsi d’un testo ideale per Mozart, dove la poesia, pur teatralmente efficace, resta la «figlia ubbidiente della mu­ sica» proprio in ragione della sua modestia stilistica (e si rife­ risce con ciò alla celebre esigenza avanzata da Mozart nella 13 14 15 16

ABERT, Op. CÌt.y p. 629. Ibid., p. 622,11. I. g. p. eckermann, Colloqui col Goethe, Laterza, Bari 1912. thayer-riemann, Beethovens Leben, voD. IV, p. 211 e V, p. 199.

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lettera al padre del 13 ottobre 1781). Proprio «la semplicità di caratterizzazione dei singoli personaggi lascia al composi­ tore il piu ampio spazio per il loro sviluppo ulteriore17. La ste­ sura del libretto pare all’Abert bene adatta alla musica per­ ché semplice, breve, concisa e precisa. Le scene sono ben mo­ tivate e vivaci. Non v’è in Schikaneder nessuna presunzione letteraria come c’era in Da Ponte (e qui perfino un sommo studioso come l’Abert cede alla tentazione di demolire quan­ to prima, a suo luogo, aveva giustamente apprezzato). Nella simmetria del simbolismo massonico in gruppi di tre (le Da­ me e i Ragazzi) l’Abert scorge un riferimento allo spirito di simmetria (non massonica) di Cosifan tutte. Lo Hocquard, che ritiene il libretto una specie di prodotto collettivo sotto la supervisione di Schikaneder, nel quale «Mozart pla$a souvent son mot», confuta le critiche intellettualistiche del Ghéon ed elogia la semplice efficienza del libretto: niente an­ tefatti, niente racconti retrospettivi, «ognipersonaggio vie­ ne al momento giusto a dire ciò che conviene»18. Le riserve del Ghéon, distinto letterato cattolico e autore d’un libro di autentica passione mozartiana, riflettono, si può dire, la posizione dell’uomo della strada, o per lo meno la reazione normale dell’intellettuale latino, avvezzo a una certa concezione razionalistica del teatro, di fronte alle in­ congruenze e alle ingenuità del libretto di Schikaneder. Per lui non v’ha dubbio che «il difetto iniziale e fondamentale del Flauto, è d’esser stato composto, libretto e musica, in due tempi. Come l’arte del musicista abbia saputo trarre dal mostro un angelo, è uno dei piu belli esempi del miracolo mozartiano». Non che attribuire a Mozart una parte deter­ minante nell’elaborazione del libretto, il Ghéon ritiene che in quel momento della sua esistenza egli «non sembra piu avere la forza, e nemmeno il diritto d’imporre il proprio gu­ sto»: accetta l’offerta di Schikaneder, sia per sopperire ai bi­ sogni dell’esistenza, sia per la «gioia d’esercitare il proprio mestiere»19. 17 ABERT, Op. CÌt., p. 631. 18 hocquard, op. cit., p. 497. Si veda pure, a p. 27, il giudizio sulle qualità teatrali di Schikaneder. 19 Henri ghéon, Protnenadesavec Mozart, Desclée de Brouwer, Paris 1932, p. 407.

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Incidentalmente, oltre alla felicità di lavorare ancora una volta per il teatro, e sia pure per un teatrino, l’occasione del Flauto magico veniva incontro al vecchio sogno nazionalisti­ co di Mozart, di dotare il suo paese d’un’opera lirica in lin­ gua tedesca, affrancandolo dalla soggezione all’opera italia­ na. «Ogni paese ha la sua opera, perché noi tedeschi non do­ vremmo averla? Non si può forse cantare in tedesco come in francese e in inglese? Non è forse lingua piu cantabile che la russa?» (lettera al padre, Vienna, 5 febbraio 1783). E già prima, a ventun’anni, albergava questo sogno: «Come sarei amato, poi, se aiutassi a rialzare le sorti del teatro musicale nazionale in Germania! E questo accadrebbe certamente per mezzo mio, perché quando sentii l’opera tedesca avevo già una voglia immensa di scrivere» (Monaco, 2 ottobre 1777). Quanto alla febbre teatrale dalla quale Mozart era letteralmente bruciato, si tengano presenti altre testimo­ nianze nelle lettere al padre: «Ho unajvoglia irresistibile di scrivere ancora una volta un’opera... E vero, non si ha una gran somma, però è qualche cosa e si ha più onore e più cre­ dito che se si danno cento concerti in Germania, e io sono più allegro, perché posso comporre, ciò che è in fondo la mia unica passione e la mia unica gioia... Perché appena sento parlare d’un’opera, appena sono a teatro o sento delle voci... allora sono subito fuori di me» (Monaco, 11 ottobre 1777). E ancora: «Non dimentichi il mio desiderio di scrivere ope­ re. Sono invidioso di ognuno che le può scrivere; piangerei di dolore quando sento un’Aria o vedo un’opera» (Mann­ heim, 4 febbraio 1778). Ma torniamo alle osservazioni del Ghéon, che meritano di essere riferite come documento esemplificativo delle opi­ nioni correnti sul libretto del Flauto magico, prima della re­ visione tentata dagli studiosi tedeschi. Dopo aver racconta­ to il famoso «capovolgimento» seguito alla rappresentazione di Kaspar der Fagottist (capovolgimento e occasione sui quali il Ghéon non nutre dubbi di sorta), lo scrittore francese commenta: «Ma era ben tardi per gettare del nero su quella povera Regina. Mozart ce l’aveva presentata sotto la luce più favorevole, secondo il primo stadio del libretto... Che fare? Avrebbe voltato casacca, ecco tutto; di colpo, senza al­ cuna ritrattazione preventiva; a rischio di violare la legge es­

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senziale del dramma che vuole la continuità nei caratteri e nel seguito dell’azione». E qui, naturalmente, si applicano le giustificazioni delTAbert e di Paul Stefan: trattarsi di una umile commedia popolare, non tenuta a quella logica aristo­ telica di unità d’azione che s’addiceva, per esempio, ai mo­ delli che Ghéon sembra avere in mente, la tragedia di Raci­ ne o di Corneille. «A questo punto - continua il Ghéon - lo spettatore si smarrisce. Non sa più dov’è il male e dov’è il bene, dov’è il vero e dov’è il falso. Aveva accordato la sua simpatia alla madre afflitta, alle tre fate buone e belle, ed ec­ co che ora deve odiarle per riportare la sua tenerezza su un Pontefice di cui ignora i segreti e che gli riesce difficile rap­ presentarsi come un sant’uomo, dato che fin qui Sarastro non è apparso che in veste di rapinatore». Perciò il Ghéon non ha tema di qualificare IIflauto magico come un «libretto detestabile» e, con acuta immagine, di «soggetto bifido». Come potè allora Mozart cavarne il suo capolavoro? come potè essere apprezzato da Goethe? Isolatamente nelle sue singole parti, monologhi, dialoghi, scene d’insieme, possiede «la fantasia, la poesia: c’è del riso, della nobiltà, della gran­ dezza». Nullo dal punto di vista drammatico, presenta una vena poetica, o per lo meno offre occasioni di poesia. «Per­ ciò apre il campo al dramma di domani, fantastico, romanti­ co e leggendario, a Weber, a Wagner, perfino a Debussy». Perciò, mentre s’allontana dalle oggettivazioni drammatiche e universali del Don Giovanni, delle Nozze di Figaro, di Idomeneo e di Cosifan tutte, Mozart diventa in certo senso pro­ tagonista del Flauto magico, vi si accampa in primo piano, «naturale, tedesco, tirolese puro sangue». Cosi, «eccolo in grado d’imporre “l’essere” al “divenire” oscuro che costi­ tuisce il fondo dell’anima tedesca, la determinazione dell’ar­ te alla fantasticheria indeterminata sulla quale vive il lirismo tedesco... Tutto ciò che vorrà vivere nell’opera romantica di domani si farà tributario, consapevolmente o no, del germanesimo decantato, ordinato e umanizzato del Flauto»20. Ma come sarebbe avvenuto, secondo la fonte tradizionale tramandata da Otto Jahn, l’intervento di Giesecke nella re­ dazione del libretto? Qui s’inserisce una questione contro­ 20 Ibid., pp. 407-17.

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versa d’importanza capitale, e qui piu che mai occorre di­ stinguere nettamente la versione tradizionale, quale è accol­ ta, per esempio, dal Ghéon, e quella accettata nella critica piu recente. Si tratta della questione del cosiddetto «capo­ volgimento» della trama, avvenuto - si dice - quando la composizione della musica era già assai avanzata. Secondo questa versione, avallata dalla biografia di Otto Jahn e co­ munemente accettata fino ad epoca relativamente recente, Schikaneder e Mozart avevano ormai elaborato la loro opera fino al Finale I, cioè fin quasi a metà, secondo una traccia che l’Abert cosi riassume, deducendola probabilmente dal Komorzinsky nella sua biografia di Schikaneder. Il principe «giapponese» Tamino viene salvato da un ter­ ribile serpente ad opera di tre Dame della Regina Astrifiam­ mante. Papageno, venditore d’uccelli, che si presenta al principe come suo salvatore, riceve per punizione della sua menzogna un lucchetto sulla bocca, mentre a Tamino viene consegnato il ritratto d’una bella fanciulla, che tosto lo in­ fiamma del più caldo amore. Com’egli apprende che la fan­ ciulla è Pamina, figlia della Regina Astrifiammante e a lei sottratta da un potente, malvagio incantatore, decide di libe­ rarla e riceve la promessa della sua mano dalla Regina, ora apparsagli personalmente. Per ordine delle Dame Papageno, ora liberato dal suo lucchetto, deve accompagnare Tamino al castello del cattivo Sarastro; a sua difesa Tamino riceve un flauto, Papageno un gioco di campanelli, inoltre devono as­ sisterli nel viaggio, secondo la promessa delle Dame, «tre Ragazzi, giovani, belli, cari e saggi». Nel castello di Sarastro Pamina, che ha voluto sottrarsi con la fuga alle profferte amorose del lubrico moro Monostato, suo guardiano, viene da lui riportata indietro. Arriva Papageno. Egli e il Moro, pieni di paura reciproca, scappano via; quando Papageno ar­ disce d’avanzarsi di nuovo, racconta a Pamina della sua pros­ sima liberazione ad opera del principe Tamino, e lietamente si allontanano entrambi per cercarlo.

Nessun dubbio - parrebbe - che fin qui la storia corresse su un binario dove la Regina della Notte è un personaggio positivo, è «buona», tanto per intenderci, e Sarastro è «cat­ tivo». Ora ecco come suona il racconto storico tradizionale. Sul più bello della preparazione dell’opera sarebbe scoppiato

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come una bomba, nel teatro della Leopoldstadt, il successo d’una commedia, Kaspar der Fagottìst, oder die Zauberzither di Joachim Perinet, buon autore di teatro popolare, con mu­ sica di Wenzel Muller (1759-1835). La commedia, rappre­ sentata 1’8 giugno 1791 dalla compagnia del concorrente e rivale Marinelli, si atteneva anch’essa strettamente alla fia­ ba Lulu del Wieland, con poche insignificanti varianti: il principe Armidoro riceveva dalla fata Perifirima una cetra magica, invece d’un flauto, e l’immancabile Kasperl, suo compagno, un umoristico fagotto, invece dei poetici e ar­ gentini campanelli di Papageno. Ma la storia, in sostanza, era la stessa, consistendo nella liberazione della principessa dalla prigionia in cui la teneva il cattivo mago. Secondo il racconto tradizionale, Schikaneder e Mozart, colpiti da questo autentico infortunio teatrale, sarebbero corsi precipitosamente ai ripari per non incorrere nella tac­ cia di supina imitazione, e senza modificare in nulla la musi­ ca delle prime scene già composte (salvezza di Tamino ad opera delle tre Dame, consegna del ritratto e incarico di li­ berare Pamina dalle mani del mago) decisero di rovesciare la vicenda ad azione già avanzata, facendo della Regina Astri­ fiammante una perfida strega, e del mago (che in quest’occa­ sione ricevette il nome di Sarastro, corruzione di Zoroastro, con allusione alle fonti di antica saggezza orientale) un gran sacerdote d’Iside, ministro e interprete di sovrumana sag­ gezza. Delle necessarie modificazioni sarebbe stato incarica­ to Ludwig Giesecke, attore della compagnia Schikaneder, abitualmente impiegato per simili ritocchi, grazie alla sua cultura e attitudine alla scrittura teatrale. Giesecke, natural­ mente, si sarebbe largamente appoggiato al suo precedente Oberon, e sarebbe in quest’occasione anche avvenuto il ri­ corso al romanzo di Terrasson, Séthos, introducendosi cosi in quella che era in origine una fiaba puramente fantastica un contenuto di pensiero ispirato all’ideologia massonica, gradito tanto a Mozart quanto a Schikaneder. (E probabi­ le che, dei tre, Giesecke fosse il massone piu consapevole). E a questo punto che cominciano ad apparire poco con­ vincenti gli sforzi dell’Abert (e sulla sua traccia, eli scrittori piu recenti) per negare l’intervento di Giesecke e la realtà stessa del «capovolgimento». In un primo tempo lo stesso

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Abert non sembra metterlo in dubbio. Cosi suona il suo rac­ conto. «Ed ecco accadde il fatto nuovo: l’intero impianto fu mutato di colpo, la regina e le sue donne divennero espo­ nenti del male, Sarastro invece un’eccelsa figura luminosa, che invece di stare in un castello incantato sta nel tempio della Saggezza e predispone le prove della coppia di innamo­ rati, non per loro castigo ma per loro purificazione. II Moro rimase dalla sua parte, a cui si associano adesso anche i tre Ragazzi; inoltre quella parte venne rafforzata da tutta una schiera di servitori della luce. Alla fine gli innamorati vengo­ no non solo riuniti, ma anche introdotti ai misteri della lega illuminata, mentre a Papageno quest’ultima consacrazione resta interdetta. Anche per questo il Dscbinnìstan di Wie­ land offriva punti di appoggio, specialmente per le prove del fuoco e dell’acqua e per l’imposizione del silenzio. Ma prima di tutto Schikaneder si servi, per la trasformazione, dell’o­ pera di Hensler Sonnenfest der Braminen (La festa del Sole dei Bramini), rappresentata da Marinelli il 9 settembre 1790: se ne servi per le scene dei sacerdoti, l’apparizione del tempio del Sole e per i nuovi pensieri della fraternità univer­ sale». Incidentalmente, e con tutto il rispetto per un grande studioso come l’Abert, sembra un po’ strano che, proprio per evitare il sospetto d’imitazione d’una opera della compa­ gnia Marinelli, Schikaneder andasse a pescare elementi d’un’altra commedia della stessa compagnia, di appena un anno prima. Bisogna proprio pensare che questo Marinelli, capo­ comico d’origine italiana ma ben radicato nel gusto e nello stile austriaco, fosse nel suo genere un personaggio di rilievo eccezionale. «Cosi - continua l’Abert - Mozart si trovò in una sfera che già una volta l’aveva occupato, quando aveva scritto la musica per Thamos, re d'Egitto»21. Qui interferì pure l’influenza del Séthos di Terrasson, secondo altri l’ope­ ra di Ignaz von Born sui misteri egizi, per introdurre il con­ cetto del «viaggio attraverso gli elementi, prima di essere ac­ colti nel regno della luce e della verità». Forse si fece strada a questo punto l’idea di un larvato omaggio al defunto Giu­ seppe II, protettore della massoneria e fautore dell’idea di fratellanza universale, oppure di una piccola punta contro 21 ABERT, Op. CÌt., p. 625.

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Leopoldo II, che aveva tolto all’ordine il favore accordatogli dal fratello. Non può fare a meno di sembrare un po’ strano il volta­ faccia con cui, nelle pagine seguenti, l’Abert cerca di dimo­ strare che tutto questo racconto sarebbe leggendario, che non ci fu trasformazione del soggetto in seguito all’appari­ zione di Kaspar der Fagottìst e che, in ultima analisi, l’opera non presenta tracce del famigerato «capovolgimento». Se­ guito dal Paumgartner e dalla maggior parte degli studiosi, l’Abert comincia a ricordarci che «la trattazione del mede­ simo soggetto da parte di diversi autori non era in quei tem­ pi nulla di strano». Verissimo, e nessuno vuol sostenere che Mozart e Schikaneder si sarebbero buscati una querela per plagio se nella loro opera avessero ricalcato pedissequamente la Zauberzyther di Perinet e Wenzel Miiller. Ma in un am­ biente ristretto come quello dei teatrini di periferia, col cli­ ma di rivalità accesa che esisteva tra il teatro Auf der Wie­ den e quello della Leopoldstadt, Schikaneder non si sarebbe sottratto ad una brutta figura di fronte al suo pubblico, e avrebbe praticamente riconosciuto il primato di Marinelli, se si fosse messo ad imitarlo palesemente. Si tenga presente che si tratta di teatro popolare, non della nobile opera seria, dove poco importava che duecento e passa compositori met­ tessero le note sulla Didone abbandonata di Metastasi©, per­ ché nell’opera seria quello che conta è la musica, con i prodi­ gi del bel canto. Nessuno si sognava d’andare all’opera per sapere se Didone sarebbe riuscita o no a trattenere Enea presso di sé. Invece al teatro Auf der Wieden e a quello del­ la Leopoldstadt, la musica, anche di un Mozart, aveva fun­ zione subordinata, quasi sussidiaria, in confronto all’interes­ se fanciullesco del popolino per l’invenzione dell’intrigo e degli apparati scenici. Per convertirci alla sua tesi l’Abert ha un’osservazione fi­ ne, quando cita la lettera di Mozart alla moglie (12 giugno 1791), in cui le racconta: «Per svagarmi andai poi al Ka­ sperl» (si diceva cosi, come a Torino si diceva: «andare al Gianduia») «nella nuova opera IIfagottista, che fa tanto ru­ more; ma non c’è dentro proprio niente». Qui l’Abert ha ra­ gione: il tono è di sprezzante indifferenza, non quello irrita­ to di chi si è visto soffiar via una buona pietanza dal piatto.

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Si vede che Mozart non aveva pensato alle conseguenze pra­ tiche di questa coincidenza d’argomenti (l’opera della Leopoldstadt era in scena da appena quattro giorni); sarà stato Schikaneder, quale impresario e direttore teatrale, a preoc­ cuparsene. Si giudichi se non c’è un po’ di forzatura nell’argomenta­ zione che ora l’Abert si ritiene autorizzato ad avanzare. «Perciò l’occasione di quel mutamento dev’essere stata un’altra. Nulla di preciso ci è pervenuto, ma non è infondata la supposizione che proprio Mozart ci abbia avuto mano». Una trasformazione si era operata in lui negli ultimi anni, che l’aveva allontanato dal «tipo di arte corrente» (ed è ve­ rissimo, come abbiamo mostrato in precedenza). Solo per bisogno ci era ricascato con La clemenza di Tito. Ora «lo mi­ nacciava l’ancor piu pericoloso abbassamento verso un ter­ reno artistico di totale primitivismo e Mozart si sentiva preoccupato d’entrare in questo terreno nuovo per lui». (Si riferisce alla frase cautelativa che abbiamo citato a p. 34). «Doveva proprio sprecare il suo talento in una cosa da nul­ la? A questo punto sembra che abbia portato la salvezza l’in­ sorgere delle idee di umanità e della massoneria. Mozart s’accorse che questi fondamentali pensieri etici sollevavano l’opera sopra se stessa e nello stesso tempo davano a lui oc­ casione di rappresentare liberamente e senza alcun vincolo ciò che lo agitava nel profondo. La sua bella frase sull’flpplauso silenzioso alla sua opera mostra che per lui si trattava di ben altro che d’una commedia divertente per un pubblico di periferia»22. E qui che il ragionamento dello Abert comincia a scric­ chiolare, nell’attribuire a Mozart una specie di boria intel­ lettuale che gli facesse disdegnare la semplicità popolana di un pubblico di periferia. E vero che nel suo ultimo anno di vita egli si era allontanato dal «tipo di arte corrente», ma 22 Ibid., pp. 626-27. L’accenno all’«applauso silenzioso» è tratto da una bella lettera di Mozart alla moglie, ch’era ritornata a Baden, del 7 e 8 ottobre, cioè un mese dopo la prima rappresentazione dell’opera; «Torno in questo momento dal teatro. Era pieno come sempre. Il duetto Mann und Weib ecc., e i campanelli del primo atto furono come sempre ripetuti, cosi pure nel secondo atto il terzet­ to dei Ragazzi. Ma quello che mi fa piu piacere è l’applauso silenzioso1. Si vede molto bene come quest’opera sale sempre piu».

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se ne era allontanato per lo piu in basso, non in alto, trascu­ rando la Sinfonia, la Sonata e il Concerto, e non disdegnan­ do di consegnare le più sconvolgenti intuizioni musicali a pezzi per organetti meccanici o per la «Glas-Harmonika» della povera Marianna Kirchgàssner. Per questo appunto l’abbiamo giudicato maturo per lasciarsi alle spalle anche la dignità culturale dell’opera italiana e scendere a far musica per il teatrino Auf der Wieden. Uno scendere, ben inteso, che è un salire addirittura oltre i limiti della condizione ter­ rena. Con maggior finezza lo Hocquard afferma che l’inter­ vento di Mozart trasformò «le merveilleux féerique en un merveilleux metaphysique»23. Ma per questo non c’è biso­ gno di pensare ad un intervento letterario nel libretto. La musica è più che sufficiente. Il Paumgartner, che segue diligentemente l’Abert su que­ sto terreno, è costretto ad uno spreco di condizionali, resi ne­ cessari dal carattere del tutto ipotetico delle ragioni addotte per rifiutare l’intervento esterno (Kaspar der Fagottìst) nel «capovolgimento» della trama ed attribuirlo invece ad un’i­ niziativa di Mozart, desideroso di sollevare il tono del libret­ to di Schikaneder (che pure aveva liberamente accettato e cominciato alacremente a musicare). «Crediamo invece probabile che ciò sia avvenuto in seguito al preciso consiglio di qualcuno... Pare però che a questo punto l’insorger di nuove idee trovasse in lui cosi profonda risonanza da fargli improvvisamente deporre quel certo scetticismo iniziale ed assumere la guida diretta dell’ulteriore sviluppo drammatico. Non più costretto dalla piatta banalità d’una futile, effimera farsa fiabesca, il grande drammaturgo si trovò improvvisa­ mente davanti al compito più meraviglioso e sublime della sua vita. Ignazio von Born era in punto di morte. Quantun­ que non dimostrata, pure non manca di poesia la s up posizionedi Komorzynski, secondo cui l’idea di far dell’o­ pera una esaltazione degli ideali umanitari - la grande vitto­ ria della luce sulle tenebre - sarebbe nata, se non da Born stesso, presso il suo capezzale, al quale Mozart e Schikaneder solevano recarsi a discutere dei loro progetti»24. 23 HOCQUARD, Op. Ctt., p. 491. 24 PAUMGARTNER, Op. CÌt.y p. 453.

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Non si vede davvero la necessità di tante supposizioni, e d’un’ipotesi cosi avventurosa, come quella che vorrebbe Mozart e Schikaneder soliti a discutere i loro progetti tea­ trali al capezzale d’un moribondo, per insignire Mozart d’una patente di drammaturgia in senso wagneriano, come se non bastasse l’eccezionale lievitazione conferita dalla sua musica al soggetto apprestatogli da Schikaneder, e forse da Giesecke dopo la rappresentazione di Kaspar der Fagottìst nel teatro rivale. Rappresentazione che, si badi, è un fatto sicu­ ro ed esattamente datato (8 giugno), cosi come è sicuro e do­ cumentato che il soggetto di Kaspar der Fagottìst derivava dalla stessa fiaba Lulu oder die Zauberflòte seguita da Schika­ neder nella sua prima redazione del libretto. Né l’Abert ha finito di stupirci, quando approfitta della ben nota asemanticità della musica per assicurarci che in es­ sa non c’è traccia di «rovesciamento»: essa non introduce né nel regno della luce né in quello delle tenebre, ma secon­ do i critici fondamentali di Mozart «in una sfera di pura umanità ingenua, che riposa in se stessa e non conosce anco­ ra principi etici. Per nulla affatto si può dedurre, dalla (pri­ ma) aria della Regina, che si tratti d’una fata buona: al con­ trario appare come un appassionato, scomodo essere magico e con la sua cupa fiamma sta molto in disparte dal mondo degli altri»25. A questo discorso fa eco, rincarando, Paul Stefan, quando, affermando che circa la pretesa «frattura», o rovesciamento della trama, «non c’è altro che supposizio­ ni», ci assicura che in fondo la Regina della Notte non sa­ rebbe poi nemmeno «cattiva»: è semplicemente una donna cui una potenza - per combinazione «buona» - ha sottratto la figlia, e lei insorge, animalescamente: «diventa cattiva», in quanto «si oppone a un mondo di luce che esige da lei un sacrificio»26. Quanto alle contraddizioni introdotte nel libretto dal brusco cambiamento, il Waltershausen le aveva rilevate molto bene: i tre Ragazzi che servono prima la Regina della Notte, poi li troviamo di punto in bianco al servizio di Sara­ stro. Quest’ultimo, simbolo della saggezza e della bontà, tie25 ABERT, Op. cit., p. 627. 26 STEFAN, op. CÌt., p. 37.

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ne tra i suoi servi un sudicio carognone come Monostato (naturalmente gli sarebbe andato benissimo, se il mago fosse stato, come previsto in principio, malvagio). Ciò nonostante il Waltershausen dà del libretto il giudizio entusiastico che già abbiamo riferito (p. 41), e lo Stefan, che ritiene anche lui inaccettabile, date le abitudini dell’epoca, una qualsiasi preoccupazione di originalità da parte di Schikaneder nei ri­ guardi del rivale Marinelli, cerca di tranquillizzarci sulle contraddizioni del libretto con l’argomento della « Wienervorstadtbuhne», del teatrino popolare che non ha da seguire la logica giuridica del Bene e del Male. Anche l’Abert vuole persuaderci con questo tipo di discorsi: «Non dimentichia­ mo che si tratta d’una fiaba, le cui leggi non hanno respon­ sabilità di pensiero logico. Non mira affatto a una trattazio­ ne pragmatica degli eventi, ma si compiace d’una coerenza interamente fantastica ed emotiva»27. Tanti discorsi sottili per tentare di negare l’evidenza della frattura nella trama, che altri invece si sforzarono affanno­ samente di giustificare (lo Schurig tirando in ballo perfino Nietzsche) o di rabberciare (il Vulpius, cognato di Goethe). E tanto preme agli studiosi di purificare Mozart dalle pec­ che frequentemente denunciate nel libretto, «specialmente in quei paesi che stanno più lontani dalla sua patria spiritua­ le austriaca; in particolare un certo razionalismo della Ger­ mania del Nord si arrabbiò moltissimo per il barocchismo e le puerilità della sua natura magica, o per le “banalità”, sia reali sia apparenti, del teatro di barriera viennese»28. Ci fu chi giunse a vedere nella collaborazione di Mozart con Schi­ kaneder l’accoppiamento di Apollo e un Satiro, onde gli sforzi dell’Abert per attribuire ad una iniziativa personale di Mozart tutto il merito del dirottamento del libretto verso ideali misteriosofici di saggezza massonica. Quando invece parrebbe cosi giusto e rispondente al vero scorgere in Schi­ kaneder una specie di biblico «asinus portans mysteria», cioè un convogliatore dei materiali grezzi, nello stadio nar­ rativo di fiaba, che il genio musicale di Mozart solleva a un livello iniziatico di rivelazione. Non c’è contrasto tra Mo­ 27 ABERT, Op. cit., p. 627. 28 STEFAN, op. CÌt., p. 35.

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zart e Schikaneder, ma soltanto, come scrive lo Hocquard, «un hiatus de profondeur»29. Certamente, come abbiamo detto (p. 28), nel libretto del Flauto magico Mozart potè trattare in modo esplicito e diretto quei valori di fede nella fratellanza e nell’amore universale, quell’anelito a un regno terrestre di felicità e di giustizia, che nelle sue opere italiane si rannicchiavano invece in una specie di sottofondo della trama, ma non occorre affatto attribuirgli un’iniziativa per­ sonale in questo senso, iniziativa non documentabile allo stato attuale delle conoscenze, quando cade cosi bene a pro­ posito la versione tradizionale della trasformazione del li­ bretto, resa necessaria dall’apparizione dello spettacolo di Marinelli ed operata probabilmente dal massone Giesecke. L’opera andò in scena il 30 settembre 1791. Due giorni prima Mozart aveva scritto la Sinfonia d’introduzione e la Marcia dei Sacerdoti. Ci si domanda quale avesse potuto riuscirne l’esecuzione: specialmente l’ouverture è un pezzo assai difficile, e l’orchestra del teatro Auf der Wieden non sarà certo stata di prim’ordine. In principio l’opera parve avere scarso esito, tanto che Mozart, dopo il primo atto, si rifugiò sul palcoscenico, pallido e sconvolto, rifiutando di presentarsi al pubblico. Schikaneder, che ne aveva viste tan­ te, cercò di fargli animo. Infatti già alla fine dell’opera l’ac­ coglienza fu piu cordiale; la sera seguente le cose andarono meglio, e a partire dalla terza rappresentazione, che Mozart non volle piu dirigere personalmente, si delineò il successo crescente di cui parla Mozart stesso nella lettera poc’anzi ci­ tata (p. 49, nota 22). Del resto, già in quella sera un po’ drammatica della prima rappresentazione, l’« applauso silen­ zioso» tanto gradito a Mozart non aveva mancato di mani­ festarsi: un orchestrale sgattaiolò dalla sua sedia e venuto fin sotto il podio di Mozart gli baciò devotamente una mano, mentre con l’altra il compositore continuava a dirigere l’ese­ cuzione. Tutti i biografi accettano e riferiscono questo epi­ sodio, che potrebbe magari essere assai piu leggendario che l’intervento di Giesecke nel libretto col famoso «capovolgi­ mento». Alcuni fanno anche il nome dell’orchestrale. Se ve­ ro, questo episodio pone un piccolo problema storico di co­ 29 HOCQUARD, Op. CÌt., p. 500.

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stume e di pratica musicale. A quel tempo, in Italia, almeno, non esisteva la direzione orchestrale nell’opera: provvedeva agli attacchi e alle indicazioni essenziali il primo violino, mentre il compositore, invece, sedeva al cembalo dove rea­ lizzava il basso continuo. Non risulta, per esempio, che Ros­ sini abbia mai diretto una sua opera, mentre risulta con cer­ tezza, invece, che alla tempestosa «prima» del Barbiere di Si­ viglia a Roma, egli sedeva al cembalo. D’altra parte, è vero: la scrittura orchestrale delle opere di Mozart, dopo II ratto dal serraglio, è sinfonica ed esclude il basso continuo al cem­ balo, se non negli eventuali recitativi secchi. Sicché anche un aneddoto può servire a farci riflettere su certi particolari strettamente musicali della scrittura operistica mozartiana.

Capitolo quinto L’ouverture

«Ad eccezione dei mistici accordi ribattuti degli ottoni aventi quasi valore di un “motto” - coi quali s’apre l’Adagio introduttivo», scrive il Paumgartner, X ouverture del Flauto magico non reca «alcun altro riferimento diretto con l’azione scenica; piuttosto lo stato d’animo fondamentale, l’andatura solenne e vaghissima ad un tempo della comme­ dia fiabesca»1. Con le ouverture^ del Ratto dal serraglio e del Don Giovan­ ni Mozart si era già avvicinato al tipo romantico della ouver­ ture teatrale, quale sarà fissato per esempio da Weber, che consiste in un vero e proprio compendio musicale dell’ope­ ra, di cui vengono trattati sinfonicamente i momenti salien­ ti. Ma nelle Nozze di Figaro, invece, s’era comportato come ora per IIflauto magico-, una specie di ritratto ideale dell’o­ pera, un’interpretazione musicale del suo significato, ma senza far ricorso a citazioni tematiche dell’opera stessa. Nel­ le Nozze di Figaro il movimento di ronda velocissima, a per­ difiato, dell’ouverture intepretava soprattutto il senso impli­ cito nel sottotitolo dell’opera: «la folle journée». Cioè il paz­ zo girotondo dei destini umani, che si rincorrono senza posa nella commedia, creando un intrigo di casi successivi sempre piu complicati, che vengono infine al nodo della soluzione. Qui, nel Flauto magico, il senso del movimento incessante e leggerissimo che percorre la più gran parte dell’ouverture, sarà l’idea della magia, la nozione di quello che i francesi chiamano «féerique», la trepidazione d’un mondo di spiri­ ti, che può far pensare al turbinio degli eventi governati dalPAUMGARTNER, Op. tit., p. 457.

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CAPITOLO QUINTO

la bacchetta magica di Prospero nella Tempesta di Shake­ speare2. Ma a tutta prima non può mancare di destare stupore il fatto che V ouverture per questa opera popolare, destinata a un teatrino di periferia, e fondata sul libretto un po’ squin­ ternato d’un teatrante come Schikaneder, sia quasi per inte­ ro un saggio di elevata scrittura contrappuntistica, quale Mozart non aveva mai usato per l’addietro in sede teatra­ le. Mozart visse ed operò in un’epoca in cui lo stile contrap­ puntistico era completamente scaduto nel gusto del pubbli­ co e dei musicisti: Bach, morto nel 1750, era completamente dimenticato, oppure ricordato tutt’al piu come uno scoc­ ciantissimo e antiquato pedante. Lo stile del melodramma italiano - canto con accompagnamento di un umile basso continuo - invadeva trionfalmente anche gli altri generi di musica, da quella strumentale a quella sacra, dando luogo, nelle sue forme estreme e massimamente degenerative, alla superficialità del cosiddetto «stile galante», cui anche Mo­ zart sacrificò non di rado, specialmente in certi anni della sua giovinezza salisburghese. Tuttavia il secolo non riusciva a soffocare del tutto una specie di cattiva coscienza nei ri­ guardi della polifonia e dello stile contrappuntistico, cui continuava a tributare, a parole, rispettoso omaggio, cercan­ do di obliterarlo con un funerale di prima classe. Qua e là al­ cuni tenaci teorici continuavano a difendere le ragioni dello stile severo del passato: il pedantissimo e insopportabile Fux, in Austria (mori a Vienna nel 1740), il dotto ma mon­ dano ed affabilissimo Padre Martini in Italia (mori a Bolo­ gna nel 1784, dopo aver modellato generazioni di allievi istruiti da lui nell’arte di un facile contrappunto a tre voci, detto «all’italiana»). 2 Anche g. de SAiNT-FOEX, W. A. Mozart, Desclée de Brouwer, 1946, vol. V, p. 243, afferma: «Nonostante la sua apparenza gioiosa, il senso musicale che si sprigiona dal movimento vivace è d’un ordine molto elevato, un senso quasi sha­ kespeariano». E cita opportunamente le considerazioni dell’estroso studioso rus­ so Oulibischeff (Mozart, Mosca 1843): «Qui Mozart non poteva pensare a im­ piegare il procedimento moderno dell’ouverture a programma, nella quale sor­ gono passi importanti della partitura; l’unico mezzo di risolvere il problema con­ sisteva nel creare un’atmosfera di meraviglioso sonoro, senza alcun aggancio, sen­ za alcun rapporto col dramma ch’essa precede... Cosa v’è di piu lontano... che un fugato... per servire d’introduzione a un racconto fantastico?»

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I rapporti di Mozart col contrappunto sono assai singola­ ri, e caratterizzati da infatuazioni periodiche sempre piu in­ tense. Suo padre era un musicista colto, e pur sacrificando alla moda dello stile galante, non ignorava certo le regole del contrappunto, che insegnò al figlio insieme con gli elementi del basso continuo. Risulta che a Londra, a circa nove anni d’età, Mozart stupì i musicisti terminando con disinvoltura una fuga che Giovanni Cristiano Bach aveva lasciato incom­ piuta. Elementi di contrappunto non mancano nel mottetto Dio è il nostro rifugio (K. 20), e nella Messa K. 49 si trova la prima fuga vocale di Mozart. Ma si può con sicurezza affer­ mare che in quest’epoca il contrappunto e la fuga non hanno per Mozart altro significato che di esercitazioni scolastiche. H viaggio in Italia del 1770, col soggiorno prolungato a Bo­ logna lo mise a contatto con l’insegnamento geniale di Padre Martini, che probabilmente per la prima volta gli fece intui­ re la possibilità d’un impiego moderno e creativo del con­ trappunto. In quest’opinione Mozart fu tosto confermato dalla conoscenza dei sei Quartetti op. 20 di Haydn (1772), tre dei quali contengono un movimento in stile fugato. E su­ bito Mozart cercò di fare altrettanto nel primo e nell’ultimo dei Quartetti detti «viennesi» (K. 168-73). Ma la conoscenza dello stile fugato restava pur sempre per lui un’esperienza di carattere scolastico, e i suoi tentativi non si liberavano da una specie di forzatura arcaistica, una mancanza di natura­ lezza e di spontaneità. La rivelatrice scoperta di Bach, cioè di un contrappunto non teorico né scolastico, bensì in vitale funzione artistica, avvenne per lui a Vienna attraverso la co­ noscenza e la frequentazione del barone Gottfried Van Swieten, ricco dilettante e mecenate viennese, che possede­ va una preziosa raccolta di composizioni di Bach e di Haendel, manoscritte, e che se ne dilettava sommamente, a diffe­ renza della maggior parte dei contemporanei, tutti infatuati per le melodiose comodità dell’opera italiana. Questa fu per Mozart la rivelazione definitiva, e diede luogo in lui a una specie di febbre contrappuntistica, aumentata dal favore che a questo dotto stile musicale sembrava accordare l’impe­ ratore Giuseppe II, e dalla singolare circostanza che la sua giovane sposa Costanza si mostrò anche lei pazza per le fu­ ghe, stimolando il marito a comporne (si vedano, rispettiva­

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mente, le lettere di Mozart del 18 marzo 1781 e del 20 apri­ le 1782). Da questo momento il contrappunto diventa per Mozart una conquista stabile e definitiva, anche se l’impiego ne sarà, ben inteso, saltuario e occasionale. Ma ora esso è diventato natura per lui, non artificio scolastico né contri­ stante limitazione. Ora egli ha appreso ad esprimersi spon­ taneamente e liberamente anche con questo mezzo, senza alcuna rigidezza arcaica. Le vette culminanti di questa con­ quista sono il finale della sua ultima Sinfonia, detta Jupiter, in do maggiore (K. 551) e per l’appunto Y ouverture del Flau­ to magico, dove appare sorprendente, per simile destinazio­ ne, lo sfoggio di contrappunto e di stile severo. Perché questa strana scelta, eppure certamente ben deli­ berata, dato che Fouverture, anche se certamente già medi­ tata da un pezzo, fu scritta per ultima, due giorni prima del­ la rappresentazione dell’opera? Va detto subito che il con­ trappunto del Flauto magico (che nel corso dell’opera riappa­ rirà soltanto una volta, in situazione solennissima) è un con­ tr appunto aereo, leggero, totalmente libero da ogni peso scolastico: e come tale si presta ottimamente a definire la qualità spumeggiante dell’invenzione fantastica, e anche la «impersonalità» di quest’opera, dalla quale è quasi del tutto assente ogni realismo di quell’approfondimento psico­ logico, che aveva costituito la grandezza del Don Giovanni e delle Nozze di Figaro. Ma Fautore di un recente studio sul carattere massonico del Flauto magico ci ricorda anche che «la fuga rappresenta, con la sovrapposizione progressiva del­ le sue voci, la figura ideale della costruzione d’un edificio»3, cioè di quell’attività edilizia che si colloca al cuore dell’ideo­ logia massonica (magons ~ muratori). Certo è che l’impiego dello stile fugato, come pure la grave solennità dell’inizio, porta un forte sostegno alla tesi di coloro che vogliono Mo­ zart corresponsabile, e forse promotore, dell’approfondi­ mento di significati a cui il libretto fu sottoposto, quando venne trasformato dall’ingenuo «conte bleu» della fiaba orientale, in una specie di mistero massonico-religioso. An­ che se non fu lui ad operare la trasformazione, certamente 3 Jacques chailley, «La Flute enchantée» opéra magonnique, Robert Laffont, Paris 1968, p. 189.

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l’ouverture dimostra che era poi ben convinto del nuovo si­ gnificato cosi attribuito al libretto, riscattandolo dalla sua puerilità. L’ouverture consiste principalmente in un Allegro in due sezioni, preceduto da un breve, ma importante Adagio in­ troduttivo, e spezzato a metà da una brevissima, ma impor­ tantissima riapparizione dell’Adagio. Il tono è quello di mi bemolle maggiore, che lungo tutta l’opera contrassegna il mondo luminoso e solare della saggezza di Sarastro. (Anche in seguito, nelle mani di Beethoven, il tono di mi bemolle maggiore - che è quello deW Eroica e del Concerto per pia­ noforte detto «l’imperatore» - avrà sempre un significato di grandiosa maestà. «Immer mi bemol! » diceva Beethoven per manifestare la sua ammirazione verso il noiosissimo, ma nobile e solenne poema La Messiade del Klopstock). L’Adagio introduttivo inizia col solenne accordo di mi bemolle maggiore, a piena orchestra, rinforzata dai timpani, accordo suonato in tutto cinque volte, e cioè una prima vol­ ta isolato e prolungato, poi, dopo una lunga pausa di separa­ zione, ribattuto con ritmo giambico (ta-tàn), e poi, dopo al­ tra lunga pausa, ancora una volta doppiamente ribattuto. Sembra assai verosimile che questa prosopopea del solenne accordo di mi bemolle abbia un significato simbolico, sia cioè un «motto», come suggeriscono l’Abert e il Paumgart­ ner, il cui senso sia da cercare negli istituti della massoneria. Il numero tre, che è spesso celebrato nel corso della partitu­ ra, vuoi col frequente impiego d’accordi di terza, vuoi con curiosi aspetti di strumentazione per gruppi di tre, vi è so­ stanzialmente affermato nella ripartizione in tre gruppi di 1 + 2 + 2. Ma perché cinque, e non tre, oppure nove come saranno gli accordi nella loro inequivocabile riapparizione a metà dell’ouverture? Quasi si sarebbe tentati di aderire allo scetticismo del Saint-Foix, il quale fa osservare che, di ouvertures teatrali iniziami con la triplice ripetizione di un ac­ cordo solenne e maestoso, il mondo dell’opera è pieno4: si tratta d’un semplice mezzo per richiamare l’attenzione sul­ l’inizio dello spettacolo. Il Chailley viene in soccorso con un’ardita supposizione. Il cinque, egli afferma, è il numero 4 DE SAINT-FOIX, Op. CÌt., V, p. 243.

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che nella cabala massonica indica il mondo femminile: due è la donna, e tre, numero perfetto, è l’uomo. Cinque, combi­ nazione del primo numero pari e del primo numero dispari completo, sarebbe dunque l’elemento femminile nella cop­ pia, il femminile fecondato, «il numero di Afrodite in quan­ to dea dell’unione fecondatrice, dell’Amore generatore, ar­ chetipo astratto della generazione». Cosi lo studioso masso­ nico Ghika, citato dal Chailley5. La cosa potrebbe restare confinata in un piano di pura pi­ gnoleria numerica, se lo Chailley non ne traesse motivo, per una suggestiva intepretazione. Secondo lui, quelle sedici battute di Adagio introduttivo, che all’Abert paiono espres­ sive di timore reverenziale «quale una misteriosa ed eccelsa apparizione può evocare nell’anima dell’uomo»6, e per il Saint-Foix di un’atmosfera « douce et rèveuse»7, sono inve­ ce dedicate all’illustrazione musicale del mondo femminile della Notte, il polo negativo dell’opera, cui si apporrà ben presto, con la sua luminosa e rettilinea certezza, l’AIlegro fugato, a simboleggiare il polo positivo, il mondo della sag­ gezza solare di Sarastro. Per avanzare questa ipotesi lo Chailley si appoggia a una abitudine abbastanza frequente nella musica strumentale, e anche teatrale (coreografica) del Settecento, di descrivere coi suoni gli elementi (aria, acqua, terra e fuoco), e il caos, che li aveva preceduti. L’esempio più celebre in questo sen­ so è l’introduzione orchestrale dell’oratorio La Creazione di Hàydn, dove vengono appunto descritte, per mezzo di suo­ ni angosciosi e confusi, le condizioni dell’Universo prima che la creazione divina vi ponesse ordine e trasformasse il caos in cosmo. I mezzi usati dai compositori settecenteschi a questo scopo erano principalmente l’incertezza tonale, la frequenza delle modulazioni, tale da ingenerare incertezza sulla reale situazione delle armonie, lo spezzettamento delle frasi, l’oscurità, la tensione prolungata fino a un punto intol­ lerabile. Lo Chailley ha buon gioco a ricordarci che il famo­ so Quartetto in do maggiore K. 465 è detto «delle dissonan­ 5 Ibid., V, p. 92. 6 Ibid., II, p. 634. 7 Ibid., V, p. 243.

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ze» appunto per il caotico accumularsi di armonie inconsue­ te nella breve introduzione lenta, da cui poi scatta, limpido e sereno, e tonalmente rettilineo, l’Allegro. Nessun dubbio che là Mozart avesse proprio fatto un esperimento di «caos» armonico, accumulando in quella tortuosa introduzione una specie di serbatoio degli orrori, dei valori negativi, cui si contrappone in seguito l’armoniosa costruzione del Quartet­ to. Ebbe la stessa intenzione nell’Adagio àeW ouverture del Flauto magico? Lo Chailley cerca ingegnosamente di persua­ dercene: «velleità di temi abortiti, sincopi che si trascinano, instabilità tonale, silenzi improvvisi, assenza di timbri chia­ ri, mentre striscia un fagotto insidioso»8. E molto a propo­ sito egli ci ricorda quale sia la cerimonia dell’iniziazione massonica, nel corso della quale, come è noto, «si introduce il postulante con gli occhi bendati, poi bruscamente gli si to­ glie la benda ed egli resta abbagliato da luci sfarzose, che simboleggiano l’improvvisa illuminazione della Conoscenza, seguente senza transizione alla notte dell’ignoranza»9. Niente da dire: è una forte tentazione quella di vedere que­ sta cerimonia adombrata nella contrapposizione mozartiana di un Adagio oscuro a un Allegro luminoso. C’è solo un’obiezione. L’Adagio di questa ouverture è proprio cosi oscuro, tortuoso e angoscioso come lo è, per esempio, l’inizio del Quartetto delle dissonanze? Scartata la interpretazione or ora citata del Saint-Foix, che vi scorge addirittura un’atmosfera « douce et rèveuse», onestà vuole si riconosca che, pur tenendo conto delle limpide abitudini armoniche della musica settecentesca, dove bastava poco per produrre un’impressione di turbamento e di oscurità, tuttavia l’interpretazione dell’Abert sembra pur essa giusti­ ficata e calzante. Egli vi scorge un’espressione di venerazio­ ne rispettosa, «quale una misteriosa ed eccelsa apparizione può evocare nell’anima dell’uomo»10. Vero è che anch’egli insiste però sul carattere di «tensione» di queste dodici bat­ tute, tensione che secondo lui deriva dal fatto che i bassi cir­ cuiscono strettamente la dominante del tono (cioè la nota si 8 CHAILLEY, Op. CÌt., p. 189. 9 Ibid., p. 91. 10 ABERT, Op. CÌt., p. 634.

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bemolle) e trapassano poi nella zona, armonicamente oscura, della sottodominante (la bemolle). Ed aggiunge: «La forte tensione insita in questo processo armonico viene ancora ec­ cezionalmente accentuata dall’accompagnamento sincopa­ to». (Si riferisce alla linea dei violini secondi, dove la tonica, mi bemolle, viene a lungo ripetuta in contrattempo e - si noti - sottoposta a piccoli periodici «crescendo», cui rima­ ne estranea tutta la rimanente compagine orchestrale). Non è perciò da escludere che se l’Abert avesse conosciuto la sug­ gestiva interpretazione dello Chailley, forse vi avrebbe ade­ rito. L’Allegro, bivalve, cioè diviso in due porzioni simmetri­ che dalla riapparizione del «motto», pone agli studiosi e agli storici molti problemi. Prima di tutto v’è una discussione sulla non originalità del tema, mutuato da una Sonata di Mu­ zio Clementi (op. 43, N. 2, in si bemolle maggiore), che Mo­ zart aveva sentito eseguire dall’autore alla corte di Giuseppe II, durante uno di quei confronti, o gare di virtuosi che allo­ ra erano in uso. L’identità dei due temi è perfetta, anche se nella Sonata di Clementi esso non viene sottoposto a tratta­ mento contrappuntistico, ma è trattato sonatisticamente e armonicamente accompagnato. In quell’occasione Mozart, visibilmente seccato dalla bravura pianistica dell’italiano, si era lasciato andare ad osservazioni sgradevoli nelle lettere in cui aveva descritto l’incontro alla sorella. «Clementi è un bravo cembalista, ma con questo è anche detto tutto» (lette­ ra del 16 gennaio 1782). E il 12 gennaio: «Clementi suona bene, per quel che riguarda il gioco della mano destra; la sua forza sono i passaggi di terze. Del resto non ha un soldo di sentimento o di gusto, in una parola è un mero mechanicus». E ancora un anno dopo (7 giugno 1783) metteva la so­ rella in guardia contro i pericoli che potevano presentare per la sua «tranquilla, ferma mano», certi passaggi delle Sonate di Clementi. «Quando si fosse ben sforzata di fare seste e ottave alla più grande velocità (cosa che nessuno può fare, nemmeno Clementi) avrebbe solo combinato uno spavento­ so lavoro d’accetta, ma niente d’altro al mondo. Clementi è un ciarlattano, come tutti i Welsche!» (cioè i latini, e più precisamente gli italiani). Non che un ciarlatano, Clementi era un uomo di mondo,

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educato alle riservate abitudini del costume anglosassone. Quando 11flauto magico diventò celeberrimo, dopo la morte di Mozart, portando in giro per il mondo il temino della sua vecchia Sonata, lui si limitò a mettere questa nota in una nuova edizione della Sonata stessa: « Cette Sonate, avec la Toccata qui la suit, a été jouée par 1’Auteur devant Sa. M. J. Joseph II en 1781, Mozart étant présent». Molti autori, specialmente austro-tedeschi, si affannano a scagionare Mozart dal sospetto di plagio, ricordando che un tema simile era assai comune nel Settecento. Lo Abert ne se­ gnala esempi in Hasse, nello stesso Bach. Andrea Della Cor­ te ne aveva segnalato un esempio in un quartetto dell’opera Il barone di Torreforte di Niccolò Piccinni11. Lo scrittore in­ glese Hyatt King segnala impieghi di quella medesima for­ mula tematica nello stesso Mozart in composizioni preceden­ ti l’incontro con Clementi, per esempio neWIdomeneo (N. 5, parte dei violini), nel primo tempo della Sinfonia di Praga (K. 504), nel primo tempo della Sonata in si bemolle K. 570 e in un Allegro per pianoforte (K. 498 a). Inoltre ne cita un impie­ go nell’oratorio Lazarus (1773) di un certo Collo o Rolle e piu convincente - nel finale del primo atto de II mondo della luna di Haydn11 12, Perfino troppi casi di somiglianza, per riu­ scire veramente persuasivi, e bisogna riconoscere che in essi si tratta solo di analogia tematica, mentre nel caso della Sona­ ta di Clementi si tratta di autentica identità. Ciò che di tutto questo importa ritenere è che il tema in questione non è particolarmente «mozartiano»: era di domi­ nio pubblico, ed appare volutamente impersonale, com’era abitudine dei soggetti di fuga, ai quali si richiede soprattutto attitudine combinatoria. In ogni caso l’Abert fa notare che l’espressione di questo tema non è soltanto «giocherellan­ te», come potrebbe sembrare, ma anche energica e «zielbewusst» (consapevole del proprio fine), e nello stesso tempo è vero che «il sollecito movimento delle semicrome gli pre­ sta qualcosa di lievemente alato, fantastico e aereo»13. Esso 11 A. della corte, Piccinni, Laterza, Bari 1928, p. 54. 12 A. hyatt king, Mozart in retrospect, Oxford University Press, London 1955, PP- M3-4413 ABERT, Op. CÌt., p. 636.

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alimenta tutto l’Allegro àeR ouverture, prima in stile fugato e poi liberamente contrappuntistico, dandole un tono di vi­ vacità saltellante, rettilinea, nel suo «staccato» puntiglioso. Vi è disparità d’opinioni tra gli studiosi circa il modo d’intendere lo schema formale di questo Allegro. Ammesso senz’altro che non è una fuga in piena regola, è tuttavia da intendere come un pezzo essenzialmente in stile fugato, o come un connubio tra fuga e sonata? Alla prima opinione aderisce risolutamente lo Chailley, alla seconda inclinano in­ vece l’Abert e il Saint-Foix. Per l’Abert l’Allegro «non è una fuga, ma un tempo di sonata, che solo qua e là, specialmente al principio, si avvicina allo stile fugato»14. Per il Saint-Foix non si tratta di una fuga, bensì di un fugato «che fornirà la sostanza d’un grande pezzo di sonata, o piuttosto, di sinfonia»15. Cerchiamo dunque di vedere da vicino come è fatto que­ sto Allegro bipartito. Dopo l’Adagio introduttivo, in cui ha tanta importanza una figura di semicrome fondata sull’ac­ cordo perfetto (accordo perfetto = triade; manco a dirlo, simbologia numerica massonica), sono i violini secondi a presentare, da soli, il vivace tema «dementino». Esso riceve la sua vivacità e il suo slancio dallo snodo di quattro semi­ crome seguito da un salto ascendente di quinta. Si noti la singolare accentuazione di un «forte» sul quarto tempo d’ogni battuta, il resto «piano», che dà un andamento un po’ zoppo e capriccioso. Dice il Chailley che quell’accento forte periodico fa pensare al lavoro del muratore, come un col­ po periodico di martello; e l’effetto viene accresciuto quan­ do, essendo entrati a loro volta i violini primi col medesimo soggetto, l’accento forte viene a ripetersi con periodicità piu stretta, non piu ogni quattro tempi, bensì ogni due, ora nei violini primi, ora nei secondi. Che fanno i violini secondi quando hanno esaurito la loro esposizione del tema, e questo viene raccolto dai violini pri­ mi? Senza alcuna interruzione accennano quello che si può definire un controsoggetto, cioè una frase sussidiaria e su­ balterna, che si affianca al soggetto principale (passato ai 14 Ibid., p. 635. 15 DE SAINT-FOIX, Op. CÌt., V, p. 241.

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primi violini) e si combina con esso. Qui (batt. 20-24) si tratta d’una ritorta frase discendente, seguita da una scalet­ ta ascendente (sempre di crome), e infine d’un indugio lieve­ mente sincopato su e intorno alla dominante (si bemolle). Più avanti (batt. 27), quando viole, violoncelli e fagotti avranno raccolto il soggetto principale, saranno i violini pri­ mi a formulare il controsoggetto, ponendo in evidenza so­ prattutto la scala discendente. Infine (batt. 33) ultima entra­ ta del soggetto nei contrabbassi e fagotti, mentre i violini se­ condi giocano sul controsoggetto. Si esaurisce cosi, con quattro entrate successive del sog­ getto, l’esposizione della fuga, tenuta sempre in un volume di suono discreto e quasi sommesso, salvo i periodici «sfor­ zando». Invece l’impiego della piena orchestra, con un forte volu­ me di suono, caratterizza l’inizio di quello che possiamo chiamare «primo svolgimento» o, in termini di stile fugato, «divertimento» (batt. 39). Lo stile fugato qui è assai libero: soggetto e controsoggetto si alternano continuamente negli strumenti acuti e negli strumenti gravi dell’orchestra, quello col suo pungente movimento di «staccato», questo con la consueta scala discendente. Alle battute 51, 54 e 56, i violi­ ni introducono una pronunciata sincope ritmica, che au­ menta ancora, se possibile, il carattere d’irrequietezza e di instabilità ritmica del pezzo. Si fa sempre più sentire il biso­ gno d’una sosta nel moto perpetuo, un momento di calma e di distensione melodica. Ed eccolo che viene (batt. 38) con una scala cromatica ascendente dei flauti, in esecuzione «le­ gata», che due volte risponde, come dna specie di prolunga­ mento filamentoso al solito soggetto «dementino», enuncia­ to tre volte da violini primi e viole. Di questa figura filamen­ tosa, completata da un arabesco che scende, risale un poco e scende, s’impadroniscono flauti e oboi, mentre fagotti e cla­ rinetti ripetono in terze il soggetto «dementino», ridotto per un momento a funzione sussidiaria e subalterna; gli ar­ chi, quasi ammutoliti, segnano appena le armonie fonda­ mentali. Il discorso musicale ha qui cambiato completamen­ te di carattere: invece della pungente irrequietezza del sog­ getto di fuga, sempre saltellante e «staccato», subentra un momento di fluidità molto andante e fiduciosa. Per un mo­

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mento (batt. 68-72) gli archi portano alla riscossa il pungen­ te soggetto di fuga, obbligando anche i legni ad associarsi, ma questi ultimi ristabiliscono ancora (batt. 73-77) la fluida e corsiva cantabilità. Che si deve pensare di questa parentesi nel carattere ge­ nerale dell’Allegro? Considerarla come un vero e proprio se­ condo tema di sonata, che si oppone all’ispida vivacità del soggetto principale? Lo Chailley si oppone risolutamente: «cette analyse est évidemment insoutenable» afferma16, pur riconoscendo che questo «souple dessin mélodique de tran­ sition» acquisterà in seguito «una certa importanza». Lo Abert non si pronuncia esplicitamente; in questo attraente dialogo di flauti e oboi, sopra la conversazione «tematica» di clarinetti e fagotti, scorge un «grazioso idillio dei fiati», che gli pare «la parte piu affabile di tutto il pezzo»17. E inu­ tile sforzarsi di dare una risposta netta. Le cose stanno ap­ punto cosi, in un regime sfumato: il pezzo è una contamina­ zione di stile fugato e di forma sonatistica, e questo episodio cantabile dei fiati può considerarsi come un larvato secondo tema. Gli fa seguito, con la consueta alternativa, una ripresa guizzante ed energica del soggetto «dementino» a piena or­ chestra, poi (batt. 84), passandosi dal «forte» ad un improv­ viso «piano», ha inizio un breve ed invitante «crescendo» (questo procedimento orchestrale, che Rossini ha reso cele­ bre, era stato reso possibile dalla bravura della famosa or­ chestra di Mannheim, che Mozart aveva ben conosciuta verso il suo ventesimo anno d’età). Sul «forte» raggiunto dal «crescendo» la intera orchestra sembra quasi impennarsi, come un cavallo lanciato, sulla dominante, si bemolle, pro­ lungata da un punto coronato. E qui, mutandosi di nuovo il tempo in Adagio, ecco intervenire di nuovo il «motto» de­ gli accordi ribattuti, questa volta 3x3 accordi, multiplo perfetto di tre, e non più a piena orchestra, bensì soltanto negli strumenti a fiato, la cui sonorità grassa e pastosa, quasi di serenata, era - ci si assicura - caratteristica delle funzioni musicali massoniche. Se per il primo «motto», in testa alla 16 CHAILLEY, Op. CÌA, p. I92. 17 ABERT, Op. CÌt., p. 637.

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ouverture, potevamo anche serbare un po’ di scetticismo in merito al suo carattere simbolico, potendosi trattare di una naturalissima introduzione solenne, quanto mai consueta nelle ouvertures teatrali, qui invece la riapparizione del «motto» accenna senz’alcun dubbio ad un esplicito messag­ gio. E ben raro, nello stile sonatistico e sinfonico, che un Al­ legro venga cosi spezzato a metà, in due semiallegri paralleli. E se non bastasse ad avvertirci del suo carattere simbolico Teccezionalità del caso, dovrebbe richiamare la nostra atten­ zione l’introduzione del timbro velato, eppur pieno, dei fiati. Dopo questa sensazionale interruzione, la ridda dell’Al­ legro riprende infaticabile. Riprende in si bemolle, e non te­ stualmente con le successive entrate separate del soggetto, ma subito al soggetto (primi violini) si accompagna la scala discendente del controsoggetto (violini secondi e viole); quando il soggetto passa ai bassi la scala discendente è por­ tata prima dai violini, poi dai fagotti per terze; poi il sogget­ to ai violini e la scala discendente si dirama, come una tela di ragno, tra flauti ed oboi, finché si passa dal «piano» al «forte», e tutta l’orchestra è impegnata. La novità di questa ripresa è la sua instabilità tonale. Nel primo «divertimento» le assise tonali del discorso erano semplicissime: tonica-dominante. Tutto filava via ben con­ chiuso entro quegli argini. Ora invece l’inquieto cammino della musica passa attraverso incessanti modulazioni, esplo­ rando le tonalità minori, che nel primo svolgimento erano escluse. Qui si comincia in si bemolle minore, poi si va in do minore (batt. 109), poi nella fatidica (per Mozart) tonalità di sol minore (batt. 112 e 117, dopo un passeggero affioramen­ to dell’originario mi bemolle maggiore). Giustamente affer­ ma il Saint-Foix che questa ripresa dell’Allegro si configura proprio come uno sviluppo sonatistico, cioè con tutti quei caratteri di turbamento, di momentaneo offuscamento dei temi, che nel primo tempo di sonata contraddistinguono la sezione della Durchfiihrung (sviluppo o svolgimento). E nel tono di sol minore che il discorso, sempre piu intricato per il mobile gioco delle tonalità e per la crescente complicazione del contrappunto, s’interrompe d’un tratto bruscamente per una battuta vuota. Quasi ci aspetteremmo che spunti fuori

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di nuovo il «motto», ma no, è proprio una pausa totale, qua­ si per raccogliere le idee in un momento di somma complica­ zione. «La crisi accennata dagli accordi dei fiati prolunga le sue ombre oscure anche in questo alato movimento: simboleggia la lotta per la conquista di quell’altro ideale là indicato». Cosi scrive l’Abert, aggiungendo che nella parte in sol mino­ re si raggiunge il punto culminante del conflitto: nonostante che il guizzo ascendente dei violini sia ancora aumentato di slancio, fino a raggiungere l’ampiezza di una sesta (batt. n8, 120, 122, 124), tuttavia i bassi tirano giu inesorabili il discorso, fino alla sottodominante di sol minore (cioè, fino alla zona dell’armonia di re), dove tutto si arresta nella para­ lisi di quella battuta vuota. Seguono allora, in un clima piu che mai misterioso, ventisei battute di tastonamento a dia­ logo tra il soggetto principale e il controcanto quasi organi­ stico dei legni, spostandosi di continuo lungo il circolo delle quarte (batt. 128: sol; batt. 132: do; batt. 136: fa; batt. 140: si bemolle; batt. 144: mi bemolle), «senza mai poter posare il piede fermamente». E solo dopo questa inquieta trasmi­ grazione tonale che finalmente «con la entrata non prepara­ ta del mi bemolle maggiore il sole irrompe improvvisamente attraverso la nebbia, e la ripresa comincia»18. La ripresa, cioè, di quello che avevamo chiamato «primo svolgimento», o «divertimento» alla battuta 39. Ora la ri­ presa è quasi testuale, e si configura proprio come la terza parte d’un Allegro di sonata tripartito. Quando comincia l’embrione di secondo tema, non è piu il flauto a portare la risposta filamentosa, bensì il clarinetto (batt. 179-80), insie­ me col fagotto la seconda volta (batt. 181-82), e ciò ci con­ traddice, se per caso avessimo voluto vedere nell’uso del flauto la prima volta un’allusione allo strumento che il titolo dell’opera designa come protagonista. Altre piccole varianti distinguono la ripresa dal primo Allegro; l’embrione di se­ condo tema, con la sua benefica e fluente cantabilità, è natu­ ralmente trasferito dalla zona armonica della dominante (si bemolle) a quella della tonica (mi bemolle), confermando il procedimento sonatistico che coesiste in tutta l’ouverture 18 Ibid., pp. 638-39.

L’OUVERTURE

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insieme allo stile fugato. Dopo l’invitante «crescendo» della Coda si ha una lunga e fastosa conclusione, governata dalla scansione ritmica e armonica dei timpani, su tonica e domi­ nante, e qui appare il primo ed unico «fortissimo» di tutta l’ouverture; il soggetto «dementino» appare ancora una vol­ ta in tre enunciazioni discendenti, come un ruscelletto che salti giu da tre gradini, e poi quattro battute di chiusa riba­ discono rumorosamente il rapporto di tonica-dominàntetonica.

Capitolo sesto

Atto primo, Quadro primo (Nn. 1-5): Prologo in Terra

N. 1. Introduzione.

La scena si apre sopra una contrada rocciosa, qua e là co­ sparsa di alberi; «ai due lati monti praticabili, vicino a un tempio rotondo». Mai un’opera di Mozart, e ben raramente un’opera del Settecento, si era svolta in ambiente cosi sel­ vaggio. Generalmente le opere di Mozart si svolgono in case di abitazione, ville, palazzi o strade cittadine; qualche volta la scena può essere la campagna (per le evasioni rustiche di Don Giovanni e Leporello in caccia di villanelle), più facil­ mente giardini e parchi (Cosifan tutte, finale delle Nozze di Figaro). Quando proprio un elemento della natura fa la sua apparizione, allora è il mare (Idomeneo, di straforo lo stesso Cosifan tutte), assai più familiare al costume settecentesco, che non la montagna. Ci voleva proprio la «Zauberoper», l’opera fantastica, per tirare in ballo un paesaggio di rocce e di monti, elementi quanto mai fantastici e irreali prima che la diffusione del verbo di J.-J. Rousseau venisse a introdurli nella cultura dell’epoca. (Il loro ingresso ufficiale nel melo­ dramma è, salvo errore, Elisa ou le voyage aux glacières du Grand Saint-Bernard di Cherubini, 1794). Diciassette battute orchestrali devono lasciarci il tempo - come dice il Dent - di vedere la scena su cui si apre il si­ pario e afferrare la situazione, ammirare il serpentaccio ela­ borato dagli scenografi di Schikaneder, renderci conto che Tamino, mentre salta giù da una roccia «in splendido abito di cacciatore giapponese», ha l’arco, ma non ha più frecce, avendole ormai scagliate tutte invano contro l’orribile mo­ stro, e perciò è senza scampo. (Non accetteremo affatto l’in­ terpretazione di chi vuol scorgere un simbolo massonico an­ che in questa faccenda d’averci l’arco e non le frecce. Sem-

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bra chiaro che ciò ha lo scopo, intrinsecamente drammatico, di evidenziare la condizione disperata di Tamino e di giusti­ ficare il fatto che l’eroe dell’opera si presenti in scena scap­ pando come una lepre). Perché Tamino è «in splendido abito di cacciatore giap­ ponese»? Qualche edizione ha «javanischen», giavanese, ma fa lo stesso, sempre di Estremo Oriente si tratta. Che ci fa un Giapponese, o un Giavanese, nell’antico Egitto? Sembra che si tratti d’un residuo della prima versione dell’opera, precedente al rimaneggiamento massonico e misteriosofico: la novella dello Dschinnistan si svolgeva nel Kashmir, e Ta­ mino, o piu esattamente Lulu, era principe del Korasan. In un’opera che assai poco indulge al descrittivismo (giu­ stamente il Saint-Foix ne rileva la «tendance à l’appauvrissement de l’effet extérieur»), le diciassette battute iniziali rappresentano una delle maggiori concessioni di Mozart a questo procedimento ch’egli non amava. «Una piccola cellu­ la ritmica - scrive il Dent - viene condotta con un graduale crescendo al piu terrificante scoppio di disperazione». Ben inteso, si tenga presente che siamo nel Settecento: Mozart non è Beethoven, né tanto meno Weber o Berlioz. Ma cer­ tamente il crescendo orchestrale è efficace, accompagna be­ nissimo l’azione del serpente che insegue Tamino, e anche la prima frase vocale di quest’ultimo ha un che di wagneriano nelle parole «der listigen Schlange» ed è un verosimile grido di soccorso nella sua concisione essenziale e nella confusione affannosa con cui alla fine si mescolano le parole «schiitzet» (proteggetemi), «rettet» (salvatemi). Il tono è quello, altamente drammatico, di do minore, che succede al suo relativo mi bemolle maggiore dell’ Ouver­ ture. I tre balzi ascendenti dei violini primi nella triade per­ fetta (batt. 1-2 e poi 4-5, 17-18, 20-21), seguiti da una rapi­ da scala discendente, presentano una fortissima analogia con una frase della giovanile Sonata per pianoforte K. 332. Nessuno ci ha mai fatto caso, sebbene esista tutta una lette­ ratura sulle fonti tematiche del Flauto magico1, probabil­ 1 In un articolo della «Revue des Deux Mondes» (febbraio 1913), théodor aveva lanciato là l’idea che IIflauto magico si possa definire «opera pot-pourri», tante sono le reminiscenze, per lo piu mozartiane, talvolta anche alde wizewa

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CAPITOLO SESTO

mente perché detta Sonata è nel tranquillo tono di fa mag­ giore; ma il passo in questione è in un drammatico re mino* re, che nel corso degli svolgimenti passa anche proprio in do minore. Volendo scoprire a tutti i costi eventuali intenti de­ scrittivi, si potrebbe vedere schizzato in quei tre balzi ascen­ denti il modo di progressione del serpente, che guizza velo­ cissimo alternamente appallottolandosi e distendendosi. In­ fatti il Dent ci assicura, genericamente, che nell’introduzio­ ne si può percepire «l’avanzata strisciante del serpente», e l’Abert vede «uno dei pochi esempi descrittivi dell’opera» nei «pesanti balzi di triadi» con cui si slancia il maligno ser­ pente. Ma, ahimè! un altro sommo studioso mozartiano, Ar­ thur Schurig, ci informa invece che in quei singolari accenti forti che punteggiano il «piano» costante dei bassi2 s’ha da sentire l’imitazione del ruggito del leone che nella prima versione dell’opera appariva in luogo del serpente! In segui­ to, spostata l’azione dall’Oriente in Egitto, i leoni - nobili bestie ancorché feroci - passarono in dotazione a Sarastro, il cui carro è tirato da una muta di tali fiere, e il minaccioso persecutore di Tamino divenne il serpente, simbolo masso­ nico del Male e alleato dell’astuzia di Èva nella fatale tenta­ zione del pomo che fece perdere all’uomo i beni del Paradi­ so terrestre. (E appena il caso di osservare che tutto il primo quadro dell’opera si svolge nel campo femminile e negativo della Regina della Notte). Si vede dunque quanto sia perico­ loso appesantirsi sulla ricerca di effetti descrittivi. Accon­ tentiamoci di osservare, sul piano strettamente musicale, che nel Flauto magico è un vezzo assai frequente l’effetto di­ namico di un improvviso accento forte disseminato qua e là nella continuità del «piano»: l’abbiamo già incontrato nel tema fugato deW ouverture, ne troveremo ben presto un altro esempio. Contenuto genericamente espressivo di questo rapido ini­ zio dell’opera è l’angoscia mortale di Tamino minacciato dal serpente. «Vediamo Tamino in certo senso nella fase piu trui, che vi ricorrono. Quest’idea è stata sviluppata e documentata da A. hyatt in un pazientissimo saggio su The tneloaic sources and affinities of the Zauberflòte (in Mozart in retrospect, Oxford University Press, London 1955), saggio cui faremo frequentemente ricorso. 2 Specialmente ravvicinati, alle parole di Tamino «schon nahet sie sich». king

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critica della sua esperienza terrena, quando è ormai quasi ca­ duto in preda della potenza del male». Questa frase dell’Abert suggerisce un curioso accostamento fra l’inizio del Flau­ to magico e l’inizio della Divina Commedia: anche Tamino ha smarrito la retta via, se non in una selva oscura, in questa contrada di rocce e montagne con alberi qua e là, è inseguito da una brutta bestiaccia allegorica, mentre Dante si vede sbarrato il cammino da una lonza, da un leone e da una lupa, e sebbene, trovandosi nel mezzo del cammin di sua vita, avesse un bel po’ d’anni e d’esperienza piu del giovanissimo Tamino, anche lui non si comporta propriamente come un eroe e non fa nessun mistero della maledetta paura che gli aveva il cor compunto. Tamino, per la paura, addirittura sviene, immagine sceni­ ca della morte simbolica, che l’iniziato deve attraversare per ascendere alla nuova vita; si confronti lo svenimento di Dante: «e caddi come corpo morto cade». Ma ecco spalan­ carsi la porta del tempio circolare, ne escono tre Dame vela­ te e armate d’una lancia (o giavellotto) d’argento (metallo femminile, l’oro essendo riservato all’uomo nella simbologia massonica, cosi come femminile sono la Luna e la notte, ma­ schili il Sole e il giorno). Cantando all’unissono: «Muori, o mostro, per la nostra forza! », tagliano bravamente il serpen­ te in tre pezzi, come un capitone, e subito si dànno a sbrai­ tare a tre voci: «Triumph! Triumph! » e a vantare il valore del loro forte braccio che ha compiuto l’eroica impresa. La brusca rottura tonale da do minore a la bemolle (se­ condo lo Chailley sarebbe perfino ottenuta per mezzo d’un «errore d’armonia» di quinte e ottave parallele, che non mi pare ci si riesca a scorgere) agisce come un’improvvisa illu­ minazione. All’angoscia e all’affanno del do minore succede un’atmosfera trionfale; per sette battute in orchestra squil­ lano le trombe e stamburano i timpani (anche se pare si trat­ ti d’un’aggiunta posteriore), e dal passeggero la bemolle si passa tosto alla dominante, cioè a un glorioso mi bemolle maggiore, tonalità fondamentale dell’opera. E un «arrivano i nostri! » in piena regola, che fa tirare un respiro di sollie­ vo agli spettatori (dobbiamo immaginarli come bambini), preoccupati della bruttissima piega che le cose sembrano prendere fin dall’inizio dell’opera. Soccorre qui finissima

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un’osservazione dell’Abert, il cui mirabile commento segui­ remo spesso come trama fondamentale nell’esame dell’ope­ ra. «Con l’aggiunta di timpani e trombe s’insinua subito un lieve tono ironico, che in seguito aumenta e costituisce l’in­ canto principale di questo pezzo. Perché tutto sommato queste tre Dame non sono le valorose Amazzoni che si po­ trebbe presumere da tanto spiegamento di pompa orchestra­ le... Tosto rivolgono i loro pensieri a tutt’altre cose». La scena in cui si spezza il blocco delle tre Walkirie per lasciar luogo all’individuazione di tre donnine invaghite del bellissimo aspetto di Tamino, è una prova del geniaccio tea­ trale di Schikaneder. Sarà una sciocchezza, una burletta da nulla, ma neanche il più accigliato ed austero degli spettatori può trattenere un sorriso di fronte alla pantomima cui si ab­ bandonano le tre donnette, nessuna delle quali vuol saperne di allontanarsi per andare ad avvertire la Regina, e ognuna vuole restare li lei ad assistere il giovane svenuto. Il testo è spiritoso, ma è chiaro che la musica di Mozart l’ha ancora perfezionato, sbocconcellandolo in una frammentazione sempre più bizzosa, ridotta ai soli verbi «ich bleibe... ich wache... ich schiitze» («io resto... io veglio... io proteggo»), e infine al solo pronome di prima persona - l’egoistico e pue­ rile «io... io... io» - sbatacchiato duramente nell’alterco. Dobbiamo vedere in questa scena una prova dell’antifem­ minismo massonico, a continuazione di quell’amaro disprez­ zo verso il gentil sesso che Mozart aveva già adombrato nel titolo stesso di Cosifan tutte? Santo cielo, forse anche, ma purché si intenda che qui, come anche in Cosifan tutte, i di­ fetti delle donne, la loro fragilità, la loro incostanza, il loro egoismo spontaneo di piccole bestioline, sono visti con l’oc­ chio di chi le adora e non si sazierebbe mai della loro compa­ gnia e della loro presenza. Tale era Mozart, un Weìbernarr, come si dice in tedesco: parola che sarebbe erratissimo tra­ durre con «donnaiolo»; significa «infatuato per le donne», uno che ci va pazzo, indipendentemente da qualsiasi pretesa dongiovannistica. Certo, è deplorevole lo spettacolo a cui dànno luogo le tre Dame, prima il loro sdilinquirsi, ancora concorde, sulla bellezza di Tamino, poi il litigio a cui tra­ scendono come erbivendole stizzose, e infine la ridicola ri­ soluzione di partire tutte tre insieme, visto che nessuna vuol

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cedere e andarsene da sola. Il severo fratello massone ha ben ragione di scuotere la testa con compatimento borbottando: «Donne, donne! », ma però sono graziosissime e incantevoli, tal quale come Dorabella e Fiordiligi, perché sono la natura schietta, incontaminata da sovrastrutture moralistiche. Chi si sognerebbe di far la morale a un gatto perché ruba la car­ ne in dispensa o perché se ne sta ozioso al caldo del focolare invece di dedicarsi a feconde attività? Sono belle queste tre Dame? Può anche darsi di no, se dobbiamo dar retta alla villanesca diffidenza di Papageno, che, quando ne verrà richiesto da Tamino, risponde: - Se lo fossero, perché si coprirebbero la faccia? - E già sappiamo che nel Séthos di Terrasson si trattava di dame piuttosto sta­ gionate, in caccia di tardive avventure. Ma è certo che Mo­ zart e Schikaneder, pur ridicolizzandole, le vedono con quella indulgenza affettuosa che secondo una giusta intui­ zione del nostro Labroca si estende anche ai personaggi «cattivi» in una luce di assoluzione universale, assai simile al senso conclusivo del perdono della Contessa nelle Nozze di Figaro3. Quattro battute orchestrali (archi soli) di calmo raccogli­ mento introducono il tono di la bemolle maggiore, nel quale 3 «Anche gli spiriti del male, se sprofondano, sprofondano non già nell’in­ ferno della perdizione, ma nel mite purgatòrio del pentimento: come immaginare la Regina della Notte e le tre ancelle confinate per sempre nel regno del male? Come immaginarlo in quest’opera, dove il cattivone della compagnia è il moro Monostato che poi, in fondo, pecca caso mai per eccesso di amore e non già per odio? No, tutto finirà bene anche per quelli che non vedremo associati all’apo­ teosi di Sarastro, di Tamino e di Pamina; ce lo fa comprendere Mozart, che con­ tro l’oscurantismo della Regina non spezza poi le lance dello sdegno... Né può es­ servi poi tanto di male in una corte della quale fan parte le tre damigelle: cotesto personaggio uno e trino è fra le trovate piu geniali dell’opera; trovata drammatica e trovata musicale per la facoltà che è nelle damigelle di farsi indipendenti (come nel primo terzetto) e di dar luogo alle piu felici soluzioni timbriche ed armoniche allorché i loro caratteri si fondono nella unicità del personaggio. Care damigelle che la vista di Tamino fa di un subito sospirare d’amore, che sanno punire Papa­ geno per le bugie che esso racconta, che forniscono le armi sonore della difesa e profetizzano il magico arrivo dei gemetti che guideranno Tamino e Papageno contro il nemico. Dolci e care damigelle che d’un tratto, nel secondo quintetto, scoprite l’inutilità dei vostri sforzi per ricondurre Tamino nel vostro regno e par­ tite vergognose e dolenti, e che infine tentate appiccare il fuoco al tempio della verità, ma è già chiaro che il vostro tentativo non riuscirà perché vi mancano le armi della inesorabile cattiveria» (m. labroca, Il Flauto magico di W. A. Mozart, Monsalvato, Firenze 1944, pp. 37-38).

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si svolge ora la nuova azione delle Dame: contemplazione della bellezza di Tamino. Sopra una formula armonica che si ripete tre volte uguale nei bassi (sottodominante-dominantetonica), ognuna, a turno, esce in un’enfatica frase di ammi­ razione. La terza, che ha voce più grave, «si dà a divedere dice PAbert - come una speciale umorista» per il suo salto discendente di settima. La sua parte era sostenuta dalla mo­ glie di Schack, il geniale tenore e flautista che impersonava Tamino, ed è trattata con un certo rilievo, pur nell’omoge­ neità di questo «personaggio uno e trino». Finissime sono le osservazioni dell’Abert su questa fase in cui per la prima volta le voci delle tre Dame si separano, ma siccome ognuna prova la medesima sensazione, tre volte si ripete eguale il medesimo giro di armonie. Le voci si uni­ scono ancora in terzettino, ripetendo due volte (sulle parole: «dieser Jiingling sein») una cadenza popolare e fiabesca che avrà un avvenire: su di essa, per esempio, sarà largamente intessuta la vocalità dell’opera per bambini di Humperdinck Haensel e Gretel. E essa che conferisce il tono musicale di fiaba, quel tono per cui - come scrive il Labroca - «qui sia­ mo nel cielo che ha per confini il “c’era una volta” e il “vis­ sero felici cento anni”, nel cielo iridescente della fiaba». A questo elemento musicale piano e legato, per lo sdilin­ quimento concorde sulla bellezza di Tamino, segue una fra­ se pungente degli archi «staccato», come in punta di piedi, ma costellata periodicamente da una terzina forte, appoggia­ ta a un accordo dei fiati: la volontà, l’azione prendono il po­ sto della contemplazione; si tratta infatti di andare dalla Re­ gina e informarla dell’accaduto. I due elementi, piano e stac­ cato, liscio e pungente, si alternano: ritorna infatti la strofetta fiabesca quando le tre Dame riflettono, tutte insieme, che forse questo bel giovinetto potrà restituire alla Regina la pace perduta. Ora si tratta di decidere chi ci andrà, dalla Regina, e di nuovo subentra la frase pungente, dividendosi inoltre le voci nel già ricordato battibecco. Le Dame, scrive l’Abert, «cominciano a spiarsi l’una con l’altra come gat­ te..., le lingue si fanno più svelte e appuntite», la terzina forte, appoggiata all’accordo dei fiati, «suona già come una fanfara, minaccia un litigio di dame, in stile di opera buffa». Giustamente l’Abert ricorda a questo proposito il terzetto

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«Ich bin die erste Sàngerin» nel Schauspieldirektor. Ma qui Mozart evita la scatenata protervia delle cantatrici che in queiroperina fanno impazzire il povero impresario, e con l’Allegretto in sol maggiore, in tempo di 6/8, «piega verso un tono popolare tedesco, con un tipo di melodia che ritor­ na spesso nel Flauto magico». Un tipo di melodia, aggiungia­ mo, che è quasi papaghenesco, col suo ritmo ben cadenzato e con gli sberleffi di quei comici svolazzi di flauti per terze: il discorso orchestrale pare un’anticipazione e un presagio del buffo personaggio pennuto che ben presto apparirà in scena, mentre le voci delle donne, dapprima alterne, si ri­ congiungono ancora in terzettino e si rispondono due contro una nell’altalena dei «nein, nein», poi si sollevano due volte alla dominante (re), prima di raggiungere definitivamente la tonica sulla conclusione «das kann nicht sein». Due battute di forte e pomposa transizione orchestrale portano ora a un Allegro in do maggiore, in tempo tagliato, dove le tre voci si separano decisamente, scendendo e salen­ do a brevi raffiche, sopra una figuretta orchestrale (trillo di violini e oboi che si sposta incalzando), di cui tutti i com­ mentatori rilevano l’identità con un passo delle Nozze di Fi­ garo (il terzetto N. 13 «Susanna, or via sortite»). Le tre voci separate vanno infine ad ammucchiarsi, con rumorosa pero­ razione, sopra l’accordo di settima di dominante. Sembra proprio annunciarsi, come dice l’Abert, una schietta scena d’opera buffa, invece niente: ancora una volta, nel dolce ad­ dio collettivo al «giovinetto bello e amabile», il discorso mu­ sicale deriva verso il tono popolare e fiabesco, con quella dialettica degli stili e dei generi musicali di cui Mozart face­ va sapientissimo uso. Non è vera, infatti, l’affermazione ca­ tegorica del Saint-Foix che nel Flauto magico, opera eminen­ temente tedesca e fondamento storico del teatro musicale in Germania, sia «difficile scoprire il minimo italianismo». Ce ne sono a bizzeffe, ma forse è giusta la fine osservazione dell’Abert, che quando le Dame (o altri personaggi) «tradisco­ no la nobiltà della loro natura, cadono dallo stile tedesco in quello italiano». Sul polistilismo del Flauto magico molti scrittori si sono intrattenuti, e meglio d’ogni altro il Paumgartner, il quale elabora una tabella fin troppo minuziosa dei vari stili vocali



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che occorrono nell’opera, dal Lied popolare (nei couplets di Papageno N. 2 e N. 20) al Lied aristocratico (la Hallenarie di Sarastro N. 15), dallo stile di opera comica (Quintetto N. 5, Duetto dei Papageni, Finale II) a quello di opera seria (arie della Regina della Notte), dalla cordialità umana del Singspiel viennese (attribuita alla Bildniss-Arie di Tamino N. 3) all’alto tono gluckiano di «tragèdie lyrique» (gli accen­ ti ieratici dei cori sacerdotali), fino allo stile liturgico severo (negli accenti solenni e sacrali del corale intonato dai due «uomini armati»). Va da sé che la sintesi di tanti stili diversi sta nella consa­ pevolezza con cui l’artista li usa, quasi vocaboli istituziona­ lizzati, che rimediano in certo senso alla nota asemanticità della musica, indicando all’ascoltatore il clima in cui si svol­ ge la scena, il senso in cui essa va intesa. Con dolce indugio l’addio delle Dame viene interamente ripetuto, parole e musica. Un breve inciso cromatico dell’o­ boe fa quasi eco, da principio, con la sua strascicata discesa, alle tre voci unite, poi queste si staccano in tre cadute di ter­ ze, infine si dispongono variamente una contro due: dappri­ ma la Prima Dama con un sol lungamente ripetuto e tenu­ to, sotto cui salgono brevemente le due altre voci per terze; poi sono invece Prima e Seconda Dama ad unire per terze le loro voci in una cadenza finale dolcissima (sul pronome «dich»), un luogo comune settecentesco usato infinite volte da Mozart stesso e dagli altri compositori dell’epoca: esem­ pio tipico della consuetudine mozartiana di incanalare un di­ scorso melodico originale, e interamente inventato, verso conclusioni risapute, servendosi, per cosi dire, di materiale prefabbricato, di formule convenzionali e consuete nel lin­ guaggio dell’epoca. Assaporata per due volte la dolcezza di questo addio, con le sue sottili ripartizioni delle voci, queste ritrovano infine la loro compattezza, appoggiate discretamente dai fiati, re­ stando ai violini il compito di rispondere ai loro accordi con scale di terzine discendenti nella iterativa conclusione. Forse per le sue compiaciute ripetizioni, il terzetto delle Dame pare al Dent «sproporzionatamente lungo, anche se non se ne vorrebbe perdere nemmeno una battuta». Secon­ do lo scrittore inglese, Mozart obbediva alle esigenze musi­

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cali di simmetria ed equilibrio all’interno d’ogni pezzo. Lo Hocquard, invece, nega le lunghezze del Flauto magico, as­ serendo che Mozart non aderiva al «gusto lungo» da lui stesso biasimato nella musica tedesca. N. 2. Aria di Papageno.

Partite le Dame, che rientrano nel loro tempio rotondo, Tamino si ridesta dal suo svenimento. Dice, senza cantare, poche parole, osservando il serpente fatto a pezzi ai suoi pie­ di. Sente in lontananza il suono d’un «flautino di bosco», cioè del flauto di Pan di Papageno, s’accorge che qualcuno si avvicina, e, sempre coraggioso, si nasconde. Queste poche parole, quasi appena sussurrate, sono il pri­ mo, brevissimo esempio di quel doppio regime vocale - par­ lato e cantato - ch’era tipico del Singspiel, come pure dell’opéra-comique francese, e oggi ancora dell’operetta. Ben presto ne avremo un caso ben piu esteso nel primo dialogo fra Tamino e Papageno. Quest’ultimo è infatti, tra i perso­ naggi del Plauto magico, il più verboso utilizzatore di tale espediente. Espediente che, secondo il Dent, Mozart avreb­ be sopportato come un male necessario perché, educato su­ gli esempi del melodramma italiano dove tale pratica è ban­ dita, «considerava il dramma come un insieme musicale nel quale la parola costituiva una scomodissima frattura». Può darsi. Tuttavia si ricordi quanto fosse nella natura di Mo­ zart di prendere le cose, musicali, per il loro verso: un Sing­ spiel era un’altra cosa che un’opera italiana, lui lo sapeva be­ nissimo, e non era nella sua natura di mettersi a scrivere un Singspiel aspirando segretamente a scrivere un’opera. A Mo­ zart piaceva accettare la realtà delle condizioni musicali: quando scriveva per un oboe aveva in mente l’oboe, e non il suo amatissimo clarinetto; quando scriveva un Concerto per pianoforte o una Sonata destinati a un’allieva non eccezio­ nalmente dotata, non teneva in mente se stesso o qualche al­ tro grande virtuoso; s’investiva proprio del problema di scri­ vere un Concerto per un pianista di mezza forza. Cosi sem­ bra un poco inverosimile attribuirgli l’insoddisfazione ro­ mantica del compositore che vorrebbe scrivere un melo­

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dramma in piena regola e invece deve accontentarsi di scri­ vere un Singspiel. Si ricordi inoltre che Mozart, un tempo, aveva provato una forte attrazione verso il genere ibrido del «duodramma» o «melodramma», inteso alla tedesca, cioè quello che noi chiameremmo melologo: un’azione teatrale recitata, sopra un tenue sfondo orchestrale. Nel 1778 ne aveva sentito alcuni esempi, di Georg Benda, a Mannheim e n’era rimasto entusiasta, scorgendovi quasi una possibile soluzione alla vexata quaestio del recitativo, questo peso morto che l’opera italiana trascinava con sé. Il 12 novembre scriveva ancor tutto eccitato al padre: «Sa quale sarebbe la mia idea? A questo modo si dovrebbe trattare la maggior parte dei recitativi nell’opera e solo talvolta, quando le paro­ le si possono esprimere bene con la musica, cantare il recita­ tivo». E nell’opera incompiuta Zaide ci si era provato. (Inci­ dentalmente, queste poche parole sussurrate da Tamino quando rinviene, dovrebbero forse proprio configurarsi co­ me un breve saggio di «melodramma» o melologo, stando alla prescrizione scenica: «Si ode da lontano un flautino di bosco, sotto il quale l’orchestra accompagna piano. Tamino parla sotto il ritornello». In realtà, il flautino di Papageno si ode nel preludio strumentale della sua prossima aria, e la consuetudine teatrale è che questo preludio abbia inizio sol­ tanto dopo che Tamino ha esaurito il proprio breve solilo­ quio). Ciò posto, il Dent ha ragione quando richiama l’attenzio­ ne sull’enorme quantità di musica rovesciata da Mozart nel gracile telaio popolaresco del Singspiel. A Vienna tutti aveva­ no avuto quell’impressione, fin dal Ratto dal serraglio. Non altro aveva voluto dire l’imperatore Giuseppe II quando, complimentandosi con Mozart per il successo di quest’ope­ ra, aveva aggiunto lo strano appunto che ci fossero in essa «troppe note». E il Dent cita opportunamente un passo dell’Autobiografia del compositore viennese Ditters von Dittersdorf - uno specialista del Singspiel - dove di Mozart si dà questo giudizio: «Non lascia tirare il fiato all’ascoltatore, perché appena si vuole por mente a una bella idea, già subito ne spunta un’altra ancora piu bella che scaccia la preceden­ te, e questo va sempre avanti cosi che alla fine, di tutte que­ ste bellezze non si riesce a ricordare niente». Secondo il

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Dent, l’imperatore Giuseppe II e i cantanti affermavano che «con tutta la sua ricchezza d’accompagnamento Mozart as­ sordava i cantanti». Questa osservazione che oggi, abituati come siamo allo spessore orchestrale wagneriano e straussiano, ci può parere incredibile, coglieva invece ciò che il Dent descrive come il fatto nuovo del teatro mozartiano, cioè la continuità dell’ispirazione drammatico-musicale, ottenuta non già attraverso la mortificazione della musica a vantaggio della parola, ma al contrario attraverso l’intensificazione della musica: «L’opera va avanti d’un passo ininterrotto: quando i cantanti si riposano, l’azione continua in orche­ stra, la fantasia drammatica non si ferma un momento. Que­ sto era nuovo per il pubblico... Mozart ne risultava piu ri­ spettato che amato»1. Questo discorso è stato indotto dall’apparizione del pri­ mo esempio di recitazione e dalla conseguente considerazio­ ne del problema dei rapporti tra parola e musica nell’opera, del loro equilibrio rispettivo di pieni e di vuoti, ma ben inte­ so non ha nulla a vedere col pezzo che ora incontriamo, l’Aria di Papageno, che nonostante l’appellativo italiano di cui si fregia, consiste in realtà di semplicissimi couplets popolari nel gusto viennese. Nascostosi Tamino, appare in scena quello strano essere che è Papageno, impersonato da Schikaneder, il quale ne aveva personalmente inventato il costume, cosi come ne aveva curato con particolare attenzione la parte, forse anche suggerendo e fischiettando a Mozart le ariette che intende­ va cantare. Cacciatore d’uccelli, Papageno appare addobbato in uno strano costume, di cui ci restano due immagini originali, lie­ vemente diverse: una del 1791, nella prima edizione del li­ bretto, un’altra nella preziosa raccolta di acqueforti a colo­ ri, di Josef e Peter Schaffer, riproducenti le scene dell’ope­ ra nella nuova edizione del 1793 o 1794 (se ne conserva una raccolta completa nel Museo municipale di Vienna, e una nel chiostro Strahov, presso Praga). L’uccellatore è pennuto pure lui, come un uccello, indossa cioè una pittore­ sca giacca di penne variopinte; un po’ diversi sono nelle due 1 DENT, Op. CÌt., pp. 217-18.

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versioni i pantaloni che gli modellano le gambe, con macchie nere più grandi e decorative nella versione 1791, con mac­ chioline più piccole, e maggiore naturalezza del carattere «pennuto» nella versione 1794. In quest’ultima pende al collo di Papageno il flauto di Pan, cioè uno strumento a più canne parallele, specie di piccolo organo a bocca. In testa un serto di penne più lunghe, a spalle reca una grossa gabbia, che nel disegno del 1791 è vuota, nell’altro invece contiene diversi uccelli, forse pappagalli, da cui Papageno trae il no­ me. Nell’una e nell’altra incisione si vede a destra, nello sfondo, il tempio rotondo della Regina della Notte. Accenniamo solo di sfuggita all’interpretazione massoni­ ca di questo personaggio che, con la sua grossolana e bonaria pasta popolare, poco si presta ad allegorie. La sua affinità con gli uccelli rivelerebbe in lui il simbolo d’uno dei quattro elementi, l’Aria; ciò annetterebbe l’umile Papageno alla sfe­ ra positiva del mondo di Sarastro (Sole-fuoco-aria-oro) men­ tre il moro Monostato significherebbe la terra, e sarebbe perciò collegato con l’inferiore sfera femminile della Regina della Notte (Luna-acqua-terra-argento). D’altra parte i due personaggi ci si mostrano inizialmente soggetti al principio opposto: l’uccellatore rifornisce delle sue prede la Regina della Notte, ricevendone in cambio cibo e bevanda. Nell’e­ migrazione incrociata dei due bassi prestatori d’opera verso l’opposto padrone consisterebbe il senso occulto della vi­ cenda. A noi interessa soltanto che Papageno, non come simbo­ lo, ma per reale consistenza drammatica, rappresenta l’uo­ mo allo stato naturale, in uno stadio precedente all’insorgere della coscienza morale. Non è cattivo, non è un personaggio negativo come Monostato. Al contrario, nella sua sfera infe­ riore consegue ed esprime una sua positività. Facendo ricor­ so alla teoria crociana dei distinti, cioè dei quattro settori onde sarebbe integrato lo spirito umano, Papageno rappre­ senterebbe la sfera dell’utile, non contrapposta, ma prece­ dente alla sfera dei valori morali; e magari anche quella del­ l’estetica, cioè della conoscenza immediata, alogica e intui­ tiva. Insieme con Papageno, che però appare tardi, ad opera già molto avanzata, forma, rispetto a Tamino e Pamina, il solito contrappunto, caro a Mozart, di coppia nobile e cop­

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pia popolana, cosi evidente nel Ratto dal serraglio (Costanza e Belmonte; Blondchen e Pedrillo), e anche nelle Nozze di Figaro (il Conte e la Contessa; Figaro e Susanna). Molto op­ portunamente l’Abert ci ammonisce a non vedere in Papa­ geno uno «Zerrbild», cioè una controfigura grottesca, di Tamino, qual è Leporello nei riguardi di Don Giovanni. Leporello è, fin dal principio dell’opera, servo di Don Giovan­ ni. Invece il destino di Papageno si unisce a quello di Tami­ no nel corso dell’azione, sia pure fin dal primo quadro. Ma Papageno ha una sua autonomia che Leporello non ha. Quando appare, viene da un altro mondo che quello di Ta­ mino, rappresenta un altro principio, sia pure più basso, ma indipendente. Anche lo Hocquard è d’accordo con l’Abert, che Papage­ no non sia da intendere come una «caricatura satirica» di Tamino2. Ne mima anche lui le prove, su un piano inferiore, e la conquista della donna; nelle prove fallisce, e non perver­ rà al grado dell’iniziazione, pur essendo perdonato delle sue colpe, e accontentato nei suoi terrestri desideri: una cara donnetta, buona tavola, buon vino. Il mondo della luce non è affar suo. Se fosse forte nel fisico, come si vanta comica­ mente di essere nel suo primo dialogo con Tamino, potrem­ mo avvicinarlo al Margutte del Pulci: «Io non credo più al nero che all’azzurro, Ma nel cappone, o lesso, o vuogli arro­ sto..., Ma sopra tutto nel buon vino ho fede, E credo che sia salvo chi gli crede». Per uno scrittore francese, il Tiersot, citato dal Dent, Pa­ pageno è «une sorte de Parsifal comique»3, echeggiando in ciò, come vedremo, una buona intuizione del Paumgartner riguardo a Tamino. Un ben lungo discorso per una paginetta di musica inno­ cente come la prima aria di Papageno, che di Aria, come abbiam detto, ha soltanto il nome. Si tratta d’una semplice strofetta in sol maggiore («il tono della futilità», secondo il Chailley), ripetuta tre volte su parole diverse, e tutta intera­ mente anticipata nell’introduzione orchestrale (Andante, in 2/4), per archi, con parche punteggiature di oboi, fagotti e 2 HOCQUARD, Op. CÌt., p. 510. 3 DENT, Op. CÌt., p. 238.

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corni. Autopresentazione di Papageno nel suo mestiere di uccellatore, in schietto stile di commedia popolare con inser­ zione di esclamazioni puramente foniche, come «heissa hopsasa», consta di quattro membri di frase brevi e simmetri­ ci, il primo chiuso sulla tonica (so/), il secondo modula sulla dominante (ré), il terzo, in re maggiore, resta aperto sul­ la dominante della dominante (la) e il quarto chiude il cer­ chio ritornando alla tonica iniziale. Tutta la semplicissima melodia fa perno sul giochetto del flauto di Pan, o fischietto di Papageno, che per due volte due replica la sua rettilinea zufolatina di cinque note, cui rispondono, come in una co­ mica riverenza, gli accordi modulanti di oboi e corni. (Cin­ que note, si badi: il numero che nella simbologia massonica rappresenta l’elemento femminile). Nelle parole Papageno dà contezza dapprima del suo allegro mestiere di uccellato­ re, poi, a partire da metà della seconda strofa, comincia ad aprire uno spiraglio sopra quella sua aspirazione interiore ad una compagna, che è in sostanza la luce ideale di questo es­ sere per altro tutto immerso nella materialità della vita sen­ sitiva. «Estrema volgarizzazione del pensiero di Rousseau», chiama l’Abert questa trasformazione del buffonesco Kasperl della commedia popolare viennese in un pennuto uo­ mo primitivo, trasformazione che già il Marinelli aveva pra­ ticata in un Kaspar, der Guckguckfanger, del 1783, e, pare, lo stesso Schikaneder in un personaggio del suo Herzog Ludwig von Steyennark. Non si dimentichi, del resto, la curiosa vo­ cazione gallinesca di questo attore e capocomico, che aveva subito un autentico disastro teatrale con una commedia i cui personaggi erano tutti animali da cortile. Tanta è l’innocenza della canzoncina di Papageno, che fuga finalmente la paura di Tamino. Uscendo verosimilmen­ te dal suo nascondiglio, questi lo prende per mano (vedrem­ mo meglio che gli batta sulla spalla, o qualcosa di simile) e lo chiama: «He da!» Non è prescritto esplicitamente, ma è possibile che un po’ di paura sia adesso Papageno a mostrar­ la, o per lo meno di sorpresa, nella risposta: «Was da! » (Che c’è?) Ha inizio cosi uno dei piu lunghi dialoghi parlati dell’ope­ ra (sempre abbondantemente sfrondato nelle esecuzioni). Tamino chiede a Papageno, chiamandolo «allegro amico»,

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chi sia, e la risposta dà modo a Schikaneder di sfoderare al­ cune di quelle sue battute plateali con le quali era sicuro di destare l’allegria del pubblico popolare. («Ma come vivi?» gli chiede Tamino. E lui: «Mangiando e bevendo, come tut­ ti»). Sicuramente, com’è tuttora uso nell’operetta viennese e com’era uso nell’operetta francese di Offenbach, questi dialoghi recitati erano aperti, nel corso delle repliche che lo spettacolo ebbe per molti anni, a inserzioni d’attualità. Oggi Schikaneder non mancherebbe d’infilarci allusioni all’auste­ rità, alla crisi del petrolio, agli sceicchi arabi. Nel discorso salta fuori la menzione della Regina Astri­ fiammante, di cui Tamino sospetta l’identità con la potente Regina della Notte di cui spesso gli raccontava suo padre. Quindi Papageno, senza prendere, in verità, l’inziativa della bugia, lascia che Tamino creda sia stato lui a salvarlo ucci­ dendo il terribile serpente (del quale, anche morto, pure lui in principio si prende una bella paura), e comincia a fare lo spaccone vantando la propria «forza gigantesca». Allora escono dal tempio le tre Damigelle inviperite e consegnano a Papageno, per punirlo delle sue bugie, una bottiglia d’acqua invece del solito vino, e una pietra invece del solito pane zuccherato; la terza gli chiude la bocca men­ zognera con un lucchetto. A Tamino rivelano d’essere state loro a salvarlo, e gli consegnano, da parte della loro grande signora, il ritratto di sua figlia. Se quell’immagine non gli sa­ rà indifferente, allora un grande destino lo attende. Quin­ di se ne vanno con ironici saluti a «Monsieur Papageno», ammutolito dal lucchetto, mentre Tamino è già tutto im­ merso e rapito nella contemplazione dell’immagine di Pamina. La musica può cosi riprendere i suoi diritti con la celebre «Bildniss-Arie», o Aria del ritratto. N. j. Aria di Tamino.

Larghetto in 2/4, mi bemolle maggiore, il tono fondamen­ tale dell’opera, indicativo dei valori positivi di bontà, di sag­ gezza, di fraternità universale. E un’aria tripartita; ma non all’italiana, con da capo, secondo lo schema A - B - A, bensf nello schema A - B - C. Non presteremo fede, infatti, alle

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capziose argomentazioni dello Chailley, secondo il quale^ nella terza parte dell’aria sarebbe da scorgere un « rappel dej parente» con la prima parte, una «somiglianza non letterale■' ma ben riconoscibile, degli elementi vocali». In realtà lo svolgimento dell’aria è rettilineo, non circolare; l’ultima se­ zione, piu estesa delle prime due, ne è la conseguenza e la conclusione. Inoltre va subito chiarito che la «BildnissArie», aria del ritratto, è molto piu piccola, molto più mode­ sta che le pompose arie dell’opera italiana. Forse non ha tor­ to il Paumgartner che la ascrive al genere del classico Sing­ spiel viennese, di cui presenta la tipica «Gemutlichkeit», la semplice e affettuosa cordialità umana. Sentimenti di comu> ni mortali, non di altisonanti eroi tragici. Come scrive benissimo l’Abert, argomento dell’aria è «il misterioso germogliare dell’amore in un giovane cuore». Ta­ mino contempla il ritratto di Pamina e sente nascere in sé qualchecosa, un turbamento ch’egli non conosce, ma che suppone sia l’amore. Argomento quanto mai congeniale a Mozart, che ne aveva fatto oggetto d’un capolavoro con l’a­ ria di Cherubino «Voi che sapete» nelle Nozze di Figaro. Se qualcuno poteva temere che l’amarezza della vita avesse compromesso in Mozart il miracoloso candore dell’anima e che l’amaro scetticismo di Cosifan tutte avesse lasciato qual­ che segno, come la morsura di un acido corrosivo, ebbene, può tranquillizzarsi: l’Aria del ritratto prova che nulla è mu­ tato nell’animo di Mozart, anche alla vigilia della morte. Anzi, nella scoperta dell’amore di Cherubino c’era molta malizia galante, soffusa d’un lievissimo, ma reale tono di li­ bertinaggio settecentesco. Cherubino ci fa ricordare che quello è il secolo di Casanova, di Sade e di Choderlos de Laclos. Tamino, no. Tamino è tutto innocenza e purezza di cuore, ed è un miracolo mozartiano che non riesca «mièvre», scipito come un primo della classe del Cuore di De Amicis. Ha ragione il Paumgartner a tirare in ballo l’ultima delle grandi creature wagneriane. «Tamino non è certo un eroe nel senso “eroico”, ma in quello “etico” del termine, e v’è in lui un po’ della dedizione sognante di Parsifal, il puro folle. La sua forza, la sua costanza si traducono in purezza di sentire, e questa si riversa a sua volta, senz’ombra di senti­ mentalismo, nell’intima purezza della “Bildniss-Arie” e fin

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dal principio dischiude all’ascoltatore l’orizzonte del regno della luce»1. La prima sezione dell’aria (che copre i primi quattro ver­ si) è aperta da due battute dell’orchestra, come un sospiro, dice l’Abert: la presenza degli amatissimi clarinetti presta una dolce pasta sonora al leggero intervento dei fiati. La fra­ se iniziale di Tamino appartiene a un modello tipico della vocalità mozartiana: anacrusi di sesta ascendente, e poi una scala discendente di settima, intervallo nel quale Tamino è come imprigionato, secondo un commentatore, finché non imparerà a incorporarlo in un insieme piu vasto12. Non è can­ to tutto spiegato, come in un’aria italiana, e non è mero re­ citativo. È un quid medium, quella specie di «recitati­ vo drammatico» che secondo l’Hocquard è nientemeno che il germe dello stile «durchkomponiert», cioè, tanto per in­ tenderci, della wagneriana melodia infinita, fondamento e contrassegno della futura opera tedesca. «Mozart è cosi un precursore, ed è significativo che proprio in un’opera di lin­ gua tedesca abbia abbozzato la rivoluzione del dramma liri­ co»3. Troveremo piu avanti altri esempi più calzanti di que­ sta «melodia declamante» o «recitativo drammatico», che qui sembra un po’ difficile ravvisare, trattandosi pur sem­ pre, se non d’un’aria all’italiana, d’un’arietta viennese, vici­ na alla dolce melodiosità del Lied. Non dimentichiamo che il Paumgartner, nella sua enumerazione degli stili vocali im­ piegati nel Flauto magico, distingue il Lied in: popolare (i 1 PAUMGARTNER, Op. CÌt., p. 457. 2 frédéric m. breydert, Le gènte créateur de Mozart, Alsatia, Paris s.d., p. 129. 3 HOCQUARD, op. w/., p. 512. Il primo ad affermare l’importanza del Plauto magico nella fondazione dell’opera tedesca era stato probabilmente Julius Cor­ net, l’uomo di teatro che aveva riferito la rivendicazione di Giesecke alla pater­ nità del libretto. Nel suo libro Die Oper in Deutschland (1849) aveva affermato: «Ilflauto magico è il punto centrale dell’opera tedesca; e fra molti secoli ancora ci si dovrà volgere a guardarlo se si vorranno studiare gli elementi fondamentali dello stile operistico germanico». E Wagner: «Con quest’opera il genio ha com­ piuto un passo gigantesco, poiché ha creato l’opera tedesca, dandole al tempo stesso il suo capolavoro». Altrove: «Il tedesco non celebrerà mai abbastanza l’ap­ parizione di quest’opera. Fino allora l’opera tedesca, per cosi dire, non esisteva. Con quest’opera, fu creata... Quale magia divina egli ha insufflato nelle sue ispi­ razioni, dalla canzone piu popolare fino all’inno piu sublime! Che varietà, che ricchezza, che sentimento! E la quintessenza dell’arte, il profumo concentrato dei fiori piu belli e piu diversi! »

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couplets di Papageno) e aristocratico o colto (ne cita ad; esempio la «Hallenarie» di Sarastro, mentre ascrive quest’d^ ria del ritrattò, come abbiamo detto, al genere del classico Singspiel viennese). Hyatt King elenca almeno altri tre luoghi dove Mozart si è servito melodicamente d’una scala discendente di settima. Sono tutti strumentali, e precisamente: con altri valori di durata, l’inizio della Sonata per violino in fa maggiore K. 377; il movimento lento del Quintetto per archi in sol mi­ nore K. 516; una Sonata per pianoforte (K. 279). Altri esem­ pi ne sono segnalati in Gluck e in Haydn. Alla rettilinea scala discendente risponde due volte, sulle ripetute parole «Ich fiihl’es», un sinuoso movimento croma­ tico di quattro note, tipico vocabolo della tenerezza mozar­ tiana. Hyatt King ne segnala la presenza in un’aria deWIdomeneo (N. n, sulle parole «la Patria, riposo»), nell’Andante della celebre Sinfonia in sol minore (K. 550, batt. 6 e 7 del secondo tempo), e altrove. L’Abert ne rileva l’uso in F. E. Bach, in Grétry e in Paisiello; una simile inflessione si trova nella Sonata in sol maggiore di Haydn (secondo tempo, batt. 18-20). E il consueto impiego mozartiano di materiali pre­ fabbricati. Con altri due incisi aperti dalla solita anacrusi (di settima e di sesta ascendente) la prima sezione dell’aria conclude come nota l’Abert - sulla tonica (mi bemolle maggiore), e non, com’è d’uso, sulla dominante. Alla dominante (si bemolle) si svolge la seconda sezione, che copre altri quattro versi. I clarinetti anticipano con estrema dolcezza la nuova melodia vocale, che discende dal­ la terza della tonica precedente, cioè dal so/, ritorcendosi al­ la fine su se stessa con languido cromatismo. Lo Chailley trova un accento schumanniano alla domanda «soli die Empfindung Liebe sein?», che l’Abert qualifica di «frigia», probabilmente per la presenza del mi naturale anziché mi bemolle. Sia la prima che la seconda sezione di questa breve arietta si mantengono in un clima di soave, quasi trasognata auscultazione interiore che porta il personaggio alla ricogni­ zione del sentimento nuovo che tutto lo penetra: è l’amore. La parola viene ripetuta sei volte, nel corso della brevissima sezione seconda, due in senso interrogativo, e quattro in

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senso di lieta e sicura affermazione, in eco con gli archi. La terza ed ultima parte, invece, è tutta attiva e impaziente de­ cisione: «il riconoscimento del suo amore - scrive l’Abert desta ora in Tamino il caldo impulso al possesso dell’amata, e quindi la sua agitazione sprigiona ora le onde piu alte». (Un’aria di struttura simile a questa, cioè tripartita ma retti­ linea, le prime due parti tutte pentimento e compianto, la terza tutta vibrante decisione d’azione, sarà nel Don Carlo di Verdi l’aria di Eboli «O don fatale», naturalmente in proporzioni molto piu vaste). Quest’ultima parte, scrive il Labroca, «è basata sul rove­ scio della prima», ossia su una scala di settima ascendente, anziché discendente. Essa viene raddoppiata da rapide figu­ razioni di biscrome dei violini, che istituiscono un dialogo con gli accenti spezzati della voce. Impossibile tradurre in maniera soddisfacente la sospensione sulle parole «ich wiirde...» «Wiirde» è un ausiliare che istituisce genericamente il modo condizionale, e acquista senso soltanto se collegato con l’infinito di un altro verbo: io direi, io farei, io... Tami­ no, lasciando sospesa la frase sul «wiirde» esprime un pro­ posito indeterminato, e si chiede: «was wiirde ich?»: che co­ sa vorrei? che cosa farei? Non lo sa nemmeno lui, e la sua in­ decisione si traduce realisticamente in una pausa generale: una battuta di silenzio totale, come per una improvvisa frat­ tura. Bellissimo il commento dell’Abert: «è come se Tamino aspettasse in qualche modo la risposta dall’esterno». La risposta viene con la confidente, fiduciosa e piena riaf­ fermazione del tono fondamentale di mi bemolle. Già fin dall’inizio questa terza parte aveva ristabilito il tono fonda­ mentale, ma fino a questo punto i bassi si erano mantenuti nella zona della dominante (si bemolle). Ora il ritorno alla tonica esprime la ritrovata pace con se stesso, la conclusione felice della vicenda interiore di Tamino, la decisione dell’a­ zione raggiunta nel riconoscimento dei propri sentimenti. La voce dialoga quasi in eco coi violini, che alla fine si asso­ ciano ad essa e la sostengono, chiamando in appoggio anche clarinetti, fagotti e corni. Chissà se è un caso o è una finezza di Schikaneder che Tamino manifesti su per giù gli stessi propositi di Papageno, e quasi con le stesse parole. Tutti due si esprimono al condi­

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zionale, tutti due anelano ad incontrare l’oggetto del loro? amore, Tamino vorrebbe «stringerla in estasi a questo petto ; infiammato e lei sarebbe, così, eternamente mia». Papage­ no, un po’ più materialmente, pensa che se potesse catturare le ragazze a dozzine in una rete, le alletterebbe con uno zuc-' chetino, la preferita lo bacerebbe soavemente, «lei sarebbe la mia donna ed io il suo uomo, si addormenterebbe al mio fianco ed io la cullerei come un bambino». Ne trae confer­ ma l’intuizione dell’Abert che nel Flauto magico la coppia inferiore dei Papageni non sia soltanto la solita «hanswufstiade», cioè una semplice buffonata. «Mozart contribuì con questa coppia all’idea fondamentale» (cioè alla conqui­ sta del regno della luce e dell’amore) «allo stesso modo che con la figura di Leporello nel Don Giovanni’, la inserisce or­ ganicamente nell’azione e l’adopera per meglio scolpire la coppia principale degli innamorati. Il mondo superiore di Tamino viene continuamente rapportato a quello infimo di Papageno e viene cosi sottolineato il carattere eccezionale della sua aspirazione». Conviene ricordare la personalità non comune del tenore boemo Benedikt Schack, per il quale Mozart scrisse la parte di Tamino. Aveva studiato medicina e filosofia, ed era pure ottimo flautista e compositore. Scrisse parecchie opere e nel 1790 aveva musicato, con altri, lo Stein der Weisen, oder die Zauberinsel, primo esperimento di Schikaneder nella «Zauberoper». Fece parte della compagnia di Schikaneder dal 1786 (secondo alcuni, 1784) al 1793. Mozart, che aveva due anni più di lui, lo stimava molto e gli era amico. Quando an­ dava a casa sua a prenderlo per uscire insieme a passeggio, soleva sedersi al suo tavolino, in attesa che lui si abbigliasse, e ritoccava le composizioni che lui aveva in corso, specialmente con indicazioni strumentali. Ciò era avvenuto, per esempio, per il duetto «Nun, liebes Weibchen, ziehst mit mir», appunto nello Stein der Weisen, che figura nel catalogo Kòchel al N. 623, ma che probabilmente da Mozart fu sol­ tanto strumentato. Non è ben sicuro se sia di Schack, oppu­ re del basso Gerì, il tema Ein Weib ist das herrlichste Ding, su cui Mozart scrisse le otto Variazioni per pianoforte K. 613, nel marzo 1791.

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N. 4. Aria della Regina della Notte. Cantata la sua aria, Tamino sta per andarsene, quando riappaiono le tre Dame e, in un nuovo intermezzo di recita­ zione, gli annunciano che la Regina, avendo sentito le sue parole di entusiasmo per il ritratto, lo ha prescelto a salvare sua figlia Pamina. Pamina? Salvare? Tamino non ne sa nien­ te, e ha bisogno d’una spiegazione lunghetta anzichenò, che viene per lo più omessa nelle esecuzioni teatrali, riducendo il dialogo parlato ai sommi capi. Ma mette conto di osserva­ re, proprio nella parte generalmente soppressa, che il genere del Singspiel relega nel dialogo recitato proprio un passo che in un’opera del Seicento sarebbe stato invece il clou dell’e­ spressione musicale: il racconto del ratto di Pamina ad opera di Sarastro. «In un bel giorno di maggio ella sedeva soletta nel giardino dei cipressi... » Su queste parole Monteverdi ci sarebbe saltato sopra per costruire un capolavoro come il racconto della Messaggera nell’Orfeo. Il Singspiel non le degna neanche d’un recitativo e le fa sbrigare dalla recitazione, che poi viene generalmente omessa. Come mai? Il melodramma delle origini era fedele alle consuetudini della tragedia classica, dove per ovvie dif­ ficoltà di scena i fattacci non venivano rappresentati, ma raccontati: a Sofocle non sarebbe nemmeno passato in men­ te di rappresentare sulla scena il fatale incidente stradale al trivio della strada per Tebe, dove Edipo uccise senza cono­ scerlo suo padre Laio. Questo lo ha potuto fare Pasolini in cinematografo, ma nella tragedia i fatti si raccontavano, e poi la tragedia si svolgeva sopra le sue considerazioni. Perciò il racconto diventò nel melodramma seicentesco un nucleo originario d’espressione vocale, quasi lontana matrice dell’a­ ria, del pezzo in qualche modo chiuso e individuato dentro l’uniformità del «recitar cantando». Il dialogo delle Dame con Tamino viene bruscamente in­ terrotto dal tuono spaventevole che annuncia l’apparizione della Regina della Notte. Le montagne che limitavano la scena si aprono magicamente (siamo in pieno «Zauberstiick», teatro meraviglioso) e dànno luogo a una straordina­ ria sala, parata di stelle, dove la Regina siede sul trono.

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La Regina è quello che i tedeschi chiamano un «Holora^ tur-Soprano», cioè un soprano leggero d’agilità, capace di^ scoccare note acutissime, di tre o quattro toni più alte del: massimo a cui arriva un normale soprano lirico o drammati­ co (ossia, inoltrandosi alquanto nell’ottava che segue al do sopra il rigo). Tacciare di virtuosismo le due arie della Regi­ na della Notte, e dimetterle come puro sfoggio di acrobazia: vocale è insensato. Tanto varrebbe tacciare di virtuosismo l’ottavino perché suona più acuto del flauto. Voci del genere esistevano e Mozart se ne serviva come di ogni altro mate­ riale che il costume dell’epoca gli offrisse. Era ancora ragaz­ zo quando nel corso del suo primo viaggio in Italia, insieme col padre, aveva avuto occasione di conoscere a Parma una cantante italiana, Lucrezia Agujari, detta la Bastardella, che a casa sua s’era divertita a sbalordire i due ospiti stranieri producendosi in alcune saettanti progressioni che Mozart annotò diligentemente in una lettera alla sorella: arrivano, nel razzo finale, al la sopra il rigo. Pur tenendo presente che il diapason dell’epoca era molto più basso dell’attuale, una prestazione incredibile. Come già s’è avuto occasione di dire, un’aria sopracuta, in si bemolle maggiore, c’era già r&W? Oberon di Wranitzky, destinata a Josepha Hofer, cognata di Mozart, che ora soste­ neva la parte della Regina della Notte. L’aria di Wranitzky sospingeva la voce del soprano fino al re sopra il rigo; questa di Mozart fino al fa, nota che - tenendo conto della diffe­ renza di diapason - si avvicina molto al record della Bastar­ della. Dal punto di vista della drammaturgia, il problema che ci si pone, ascoltando la spettacolosa aria di sortita della Regi­ na della Notte è - detto in parole povere - se costei sia «buona» o «cattiva». Cioè il famoso problema del rovescia­ mento della trama dell’opera a composizione già avanzata. Fino a questo punto non sembra possibile il dubbio: le tre Dame della Regina, anche se un po’ fastidiose col loro com­ portamento collettivo da virago militaresche, hanno fatto fi­ gura di «buone», di personaggi positivi. Sono loro che salva­ no Tamino dal serpente. Ora si tratta di capire se l’aria della Regina della Notte ce la presenta sotto una luce favorevole o negativa, e questo ognuno lo deve decidere per conto suo,

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sulla scorta delle proprie impressioni. Ci sono motivi pro e contro. Certo, il carattere stesso della voce sopracuta non è legato a prerogative di tenerezza o d’affetto. Il personaggio della Regina ne riceve un colorito glaciale, che sottolinea fortemente la sua appartenenza a un mondo superumano. Da questo a identificarla subito con una forza del Male, sembra che ancora ce ne corra. Non darei gran peso all’indi­ cazione tonale dell’aria, che è in si bemolle. D’accordo, non è il mi bemolle, tono specifico della bontà, il tono di Tami­ no. Ma ne è la dominante, e nell’avvicendamento delle to­ nalità finora usate nell’introduzione (do minore, do maggio­ re, sol maggiore, mi bemolle) interviene con assoluta natura­ lezza; non implica nessuna forzatura a scopo espressivo, for­ zatura che invece si dovrebbe sentire, nella scelta d’una to­ nalità estranea e contrastante, se ci fosse l’intenzione di dif­ ferenziare nettamente l’area morale della Regina da quella di Tamino. Piuttosto vedrei come un segno preoccupante la scomparsa dei clarinetti dall’orchestra durante l’aria della Regina: se ricordiamo tutta la mitologia d’affetto che Mo­ zart legava al timbro di questo dilettissimo strumento, que­ sto potrebbe essere un sintomo negativo. D’altra parte, pe­ rò, non aggiunge nulla di più a quanto è già implicito nella scelta d’una voce di «Koloratur-Soprano» per questo perso­ naggio: il suo timbro vitreo e cristallino non lega bene con quello opaco dei clarinetti. Né si può negare che il modo di preannunciarsi della Regina della Notte, con un tuono fra­ goroso che fa sobbalzare il povero Tamino, non è propria­ mente dei più cordiali. I commentatori che seguono la teoria moderna della continuità d’invenzione dell’opera, senza ca­ povolgimento né frattura, pretendono di scorgere nel corso dell’aria altri segni della malvagità del personaggio, ma si tratta d’argomentazioni poco persuasive, come vedremo to­ sto nel corso dell’analisi. L’aria vera e propria è preceduta da una introduzione strumentale in si bemolle e da un recitativo nel medesimo tono; dopo di che essa comincia con un Larghetto in 3/4 in sol minore, seguito dall’Allegro moderato, in si bemolle, tempo di 4/4. L’introduzione strumentale è un altro dei non molti pezzi descrittivi contenuti nell’opera: sopra la tonica dei bassi, il

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sincopato dei violini e le lunghe note spaziate di viole e fiati costruiscono ampie armonie piene di tensione e d’attesa, che accompagnano a meraviglia e quasi simulano il movi­ mento del macchinario scenico, con l’evento miracoloso dei monti che si spalancano per dar luogo alla sala stellata del trono. Questo movimento sincopato dell’orchestra sopravvive ancora, più sommesso, sotto il recitativo della Regina che si rivolge benignamente a Tamino. «Recitativo» viene espres­ samente designato nello spartito, e recitativo è, ma sorretto da un nutrito discorso orchestrale e sottoposto a un processo di crescente intensificazione melodica e armonica. E singo­ lare, ma d’altra parte facilmente comprensibile, che il gene­ re popolare del Singspiel abolisca del tutto il recitativo secco, tuttora presente, invece, nell’opera comica, e largamente praticato da Mozart nelle sue opere italiane, ed accetti sol­ tanto il recitativo obbligato (ossia, accompagnato, dall’or­ chestra), come l’alta tragedia lirica dopo la riforma gluckiana del melodramma serio. Perché la presenza di discorsi recitati toglieva ogni ragion d’essere per la forma sbrigativa del re­ citativo secco. Nelle possibilità melodiche del recitativo ac­ compagnato, cosi come nella scioltezza e duttilità delle pic­ cole arie di mezzo carattere e di gusto viennese, è da scorge­ re il potente contributo arrecato dal Flauto magico all’edifi­ cazione di uno stile vocale per la futura opera tedesca. Il Larghetto dell’aria, in sol minore, non lascia presagire il fuoco d’artificio dei vocalizzi che seguiranno ben presto nell’Allegro moderato. Sol minore era tradizionalmente, nell’opera, il tono della tristezza e del dolore, quando non del vero e proprio lutto. Mozart aveva siglato in questo tono alcuni capolavori di musica strumentale, tra cui due Sinfonie e un Quintetto. La sezione in sol minore della presente aria non fa eccezione al consueto carattere espressivo connesso al tono, specialmente al principio, quando la Regina esordi­ sce con semplicità e modestia, in modo da cattivare la pietà e la benevolenza dell’ascoltatore. Dopo il tono dimesso e asciutto dei primi due versi, la melodia vocale - all’unissono con oboi e fagotti - si gonfia in una curva più vistosa, più vibrante, immediatamente ripetuta una terza più su, col sistema della «progressione», cosi come ripetute sono le pa-

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role («durch sie ging all mein Gliick verloren»). Il canto è sempre essenzialmente sillabico (una nota per sillaba), ma la sua intensità cresce, fin quasi all’imprecazione, quando la Regina nomina il malvagio, «ein Bòsewicht», che le rapi la figlia. Già la voce è molto piu scandita, e le staffilate degli archi (quartine di biscrome e semibiscrome) aggiungono energia. E questo uno dei passi a cui si appigliano i sosteni­ tori della tesi secondo cui il carattere della Regina è «catti­ vo» fin dal principio: «le mot Bòsewicht - scrive Jacques Chailley - apparato craché avec colère»1. Santo cielo! una può essere la più santa donna di questo mondo, ma quando nomina colui che le ha rapito la figlia, le sarà ben permesso d’andare in collera, no? Il discorso musicale continua ad animarsi. La descrizione del ratto, lo spavento della fanciulla, il suo tremare e il suo affanno, vengono sottolineati da un movimento rapido di accompagnamento dei violini. Poi riappare il precedente in­ ciso melodico di florido andamento, ma senza ripetizione al­ la terza, perché qui il discorso è come interrotto dal grido di Pamina, quale la madre lo ricorda e lo ripete: «aiuto! aiuto! » Secondo il Chailley, anche questo è indizio della malvagità della Regina, il fatto che il grido «Ach! helft! » sia dramma­ tico e poi la melodia «ricada bruscamente su un tono neu­ tro» alle parole seguenti: «ella disse». Per questo, dice lo scrittore francese, «la Rein est une comédienne»1 2. Certo, una commediante, nel senso che sa giustamente adattare il tono della voce alle parole che pronuncia. La differenza tra discorso diretto e discorso indiretto riesce difficile alla mu­ sica, la quale non possiede l’artificio tipografico dei due punti seguiti da virgolette. Il tono della mia voce è del tutto diverso se io dico: «e gridò che la soccorressero», oppure di­ co: «e gridò: - Aiuto! aiuto! » È sempre interessante vedere come se la cavano i compositori a rèndere questa differenza. A volte non se ne dànno per inteso. Mozart qui risolve la co­ sa benissimo e mette, per cosi dire, tra virgolette melodiche le parole di Pamina, riconducendo poi il discorso della Regi­ na a un tono narrativo. Questo non ci autorizza affatto a 1 CHAILLEY, Op. CÌt., p. 208.

2 Ibid.

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considerarla indifferente o simulatrice. Giustamente l’Abert giudica questo breve passo «un modello di declamazione drammatica». Certo, l’immagine della Regina si trasforma alquanto quando si passa, con alcune energiche strappate dell’orche­ stra, all’Allegro moderato. Il canto della Regina inizia con la triade perfetta di si bemolle maggiore, distesa sulle tre ripe­ tizioni del pronome «du», rivolto imperiosamente a Tami­ no. (Anche il recitativo, e la stessa introduzione orchestrale, cominciavano già con la triade perfetta di si bemolle). Il can­ to della Regina è ora duro, imperioso, ma non lascia ancora presagire la girandola ubriacante di vocalizzi in cui sta per sfrenarsi. Il carattere virtuosistico è per ora manifesto piut­ tosto nell’ampiezza della tessitura: quando la Regina dice a Tamino «tu sarai il salvatore di mia figlia», sull’ultima paro­ la, «sein», la voce tocca il punto più basso di tutta l’aria (la nota re della seconda ottava). Considerando l’altezza smisu­ rata dei vocalizzi che presto seguiranno, ciò richiede alla cantante un registro superiore all’ampiezza di due ottave. A Vienna non mancavano le spécialiste favolose di queste acrobazie: l’italiana Ferraresi Del Bene doveva essere un fe­ nomeno in questo senso, a giudicare dall’esasperazione qua­ si caricaturale cui è portata l’ampiezza di tessitura nell’aria «Come scoglio immoto resta» nella parte di Fiordiligi di Co­ sifan tutte, scritta espressamente per lei. Pertanto stupisce un po’ leggere nella testimonianza d’un contemporaneo rife­ rita in una nota dall’Abert, che Josepha Hofer s’era dimo­ strata insufficiente nell’analoga aria di coloratura « Schon lacht der holde Friihling», dell’ Oberon di Wranitzky: «Una cantante assai spiacevole, non ha l’altezza sufficiente per questa parte e la abbassa. Inoltre spalanca la bocca come il vecchio Stephanie». Pur ammettendo che altro erano i gran­ di virtuosi italiani del teatro di corte, come la Ferraresi Del Bene, e altro i volenterosi cantanti locali della compagnia di Schikaneder, sembra difficile che Mozart avrebbe spedito sua cognata ancora due toni più su di quanto raggiungesse l’aria di Wranitzky, se quella vi si fosse dimostrata incapace. Il fuoco d’artificio dei vocalizzi comincia ad accendersi soltanto nella ripetizione delle ultime parole dell’ultimo ver­ so; prima, l’intera quartina viene cantata in stile semisillabi-

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co (una o due note per sillaba), dove anzi le parole vengono scolpite duramente. In principio il virtuosismo della colora­ tura consiste principalmente in un fatto d’agilità: quattordi­ ci quartine di semicrome vengono rapidamente snocciolate sulla parola «dann» (allora), ma senza che l’altezza vada ol­ tre i limiti, abbastanza naturali, del la bemolle e si bemolle. In seguito invece, sostituendosi al roteare vertiginoso di quartine tratti rettilinei di scalette ascendenti e figure vocali d’arpeggi staccati, sopra un accompagnamento di corni e fa­ gotti in stile quasi umoristico di serenata, viene toccato tre volte il re sopra il rigo, e infine, al termine d’una nuova figu­ razione di quartine di semicrome, la voce saetta su in due balzi, dopo lo slancio d’una scaletta, fino all’altezza vertigi­ nosa d’un/# sopra il rigo (e ancora una volta si afferma, ad altezza stratosferica, la triade perfetta di si bemolle maggio­ re). Poi la conclusione dell’aria avviene una ottava e mezza piu in basso, ripetendo tre volte le parole «auf ewig dein» (per sempre tua). E appena il caso di far presente, con l’Abert, che in que­ st’aria la coloratura non è meramente ornamentale né edoni­ stica: «è intesa come estrema, violenta intensificazione degli affetti». L’esibizionismo vocale dipinge il carattere gelido e inquietante del personaggio: «di tutte le figure del Flauto magico questa Regina è la più lontana dal mondo del visibi­ le; suo regno è il freddo, scintillante splendore del cielo stel­ lato». Anche lo Schurig osserva che l’«ornamentazione ba­ rocca» è «scintillante come le stelle» che circondano il per­ sonaggio nella pittoresca, quasi oleografica scena immagina­ ta da Schikaneder. Certamente la Regina della Notte risul­ ta, in questa sua apparizione, un personaggio scostante, «unangenehm», come ripetono spesso gli scrittori tedeschi: scomodo, inquietante, non confidenziale. C’è in lei un’essen­ za, veramente barocca, come di ghiaccio ardente o di fiamma glaciale. Ma resta da vedere se si tratti soltanto di fredda maestà ultraterrena, oppure, come altri pensano, di perfidia. «La baine - scrive il Breydert - est le sentiment plus fort qu’elle soit capable d’éprouver»3. 3 BREYDERT, Op. CÌt., p. 165.

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N. y. Quintetto (Tamino e Papageno, poi le tre Dame). Dopo una brevissima riflessione parlata di Tamino, che si chiede se sia realtà quello che ha visto, ha inizio il Quintetto con cui si chiude iTntroduzione. Il primo dei tre Quintetti contenuti nell’opera, e generalmente considerato il piu bel­ lo. Una tradizione più o meno leggendaria, che risale alla prima biografia di Mozart, scritta dal secondo marito di Co­ stanza, Georg Nicolaus von Nissen, vuole che sia stato com­ posto a Praga (evidentemente nel soggiorno che Mozart vi fece, tra agosto e settembre, occupatissimo a scrivere e met­ tere in scena La clemenza di Tito), durante una partita di bigliardo. Il Quintetto è un pezzo assai esteso, almeno relativamen­ te alle abitudini di concisione del Plauto magico, ma scritto per sezioni giustapposte: non una struttura musicale concen­ trica, che cresca organicamente su se stessa, coinvolgendo nel proprio crescere il divenir psicologico dei personaggi, co­ me avviene nei grandi concertati dalle opere italiane di Mo­ zart. Ciò potrebbe indurre a prestar fede, con molta irrive­ renza, alla leggenda della composizione durante una partita di bigliardo, ma in realtà dipende dalla consueta differenza del Plauto magico rispetto alle opere italiane, dal suo carat­ tere fiabesco e, per cosi dire, bambinesco, che esclude l’ap­ profondimento psicologico. Né solo di puerilità fiabesca si tratta, ma - come abbiamo già accennato e come avremo occasione di ribadire - del carattere per cosi dire sacrale e rituale dell’opera. Il Plauto magico non pretende di esporre in musica per l’ennesima volta i moti, i capricci e i drammi dell’anima umana. Il Plauto magico è un mistero parareligio­ so, la storia di un’iniziazione. Come scrive lo Hocquard, idea dell’opera è «la conquista, o la riconquista del Paradiso perduto e del glorioso stato d’innocenza dell’uomo primige­ nio». E chiaro che «la psicologia di questi dati è molto ri­ dotta». Non si tratta di vedere «un personaggio in preda a una passione umana: al contrario si tratta per lui di liberar­ si dagli elementi individuali, che soli possono essere oggetto di analisi psicologica». Specialmente a partire dal Finale I, secondo lo Hocquard, ma in realtà fin dal principio, «si di-

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rebbe che la vita emotiva si ritira dai personaggi, a misu­ ra che s’irradia la bellezza profonda dell’opera... In breve, ciò che manca a quest’opera è il patetico... Bisogna ricono­ scere che non si è mai veramente “presi” dall’azione dram­ matica, come avviene invece negli altri drammi di Mozart. Nel 'Plauto magico è impossibile essere toccati dal contagio affettivo, poiché la situazione manca di mordente psicolo­ gico. Bisogna passare attraverso l’idea per essere commos­ si»1. Che è poi lo stesso che aveva compreso benissimo l’Abert quando aveva affermato che i tre capolavori italiani di Mozart «avevano fatto agire l’evento drammatico per la sua forza interna», mentre «IZflauto magico riferisce tutto, azio­ ni e caratteri, ad una fondamentale idea morale». In breve, la musica del Plauto magico è essenzialmente rivelazione, as­ sai più che osservazione dell’uomo come avviene nella com­ media di carattere. Il Quintetto, dunque, è composto di sezioni giustapposte; non cresce su se stesso, ma trascorre da una situazione all’al­ tra, non essendoci nulla da sviluppare nell’animo dei perso­ naggi. Quante sezioni? Tre, se si guarda all’aspetto drammatico-narrativo, e cioè: duo buffonesco di Tamino e Papa­ geno, ammutolito, quest’ultimo, dal lucchetto; apparizione delle tre Dame e consegna del flauto magico a Tamino, poi dei campanelli a Papageno; infine, quasi come una coda o un poscritto, annuncio dei tre Ragazzi che verranno per guida­ re Tamino e Papageno verso il castello di Sarastro. Ma mu­ sicalmente le sezioni, strettamente saldate fra loro, sono più numerose perché l’episodio centrale è molto articolato, co­ me vedremo. Il tono fondamentale è si bemolle maggiore, cioè lo stesso tono della precedente aria della Regina Astri­ fiammante, ma con numerose diversioni a fa maggiore, sol minore, re minore, la maggiore, re maggiore e mi bemolle. Avviato da una figura strumentale frequentissima in Mo­ zart (un trillo dei violini seguito da un arpeggio discendente: in un recitativo deW Idomeneo ricorre 17 volte nel corso di 50 battute, e frequentissimo è pure nell’Allegro del Concerto per flauto in re maggiore), il duo buffonesco trae pretesto musicale dal castigo inflitto al loquace Papageno, che e ri1 HOCQUARD,

Op. CZA, p. 514.

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dotto a mugolare a bocca chiusa su due note alternamente ripetute. Le risposte di Tamino impietosito si uniformano umoristicamente al suo rozzo stile melodico, ma natural­ mente Tamino canta a bocca aperta, e in fin di frase modula in vario modo con cadenze piu elaborate. I due personaggi sono differenziati dall’accompagnamento strumentale: il canto di Papageno è doppiato comicamente dai fagotti, quello di Tamino si appoggia a sobri tocchi degli archi. Quando le battute vocali si restringono e si uniscono, anche i due elementi strumentali si sovrappongono. È facile imma­ ginare quale partito tirasse Schikaneder dalla sua buffonesca prestazione, che probabilmente avrà egli stesso escogitata e suggerita al compositore2. Prima decisa svolta tonale con la riapparizione delle tre Dame, che annunciano a Papageno il perdono della Regina e gli tolgono il lucchetto, a patto che la smetta di mentire. Il tono è quello solido ed energico di fa maggiore (dominante del precedente si bemolle) e nella breve melodia eseguita una prima volta dalla prima Dama, riecheggiata dagli oboi e poi ripresa da tutte tre, va rilevato il carattere pomposo, principesco e leggendario. Sarà, si, come scrive l’Abert, un ritorno al tono «naiv volkstumlich», ingenuamente popola­ re, ma non se ne coglierebbe l’esatta sfumatura se non se ne rilevasse la sfavillante arroganza proclamatoria: la voce delle Dame squilla come se fossero araldi dalle trombe d’argento. Segue un nuovo episodio musicale, secondo una procedu­ ra che si ripeterà altre due volte nel corso del Quintetto, e cioè: ad una azione (in questo caso il ritiro del lucchetto), se­ gue «sotto voce», con le cinque voci disposte in accordi omoritmici, in maniera che si comprendano bene le parole, un commentino morale, in questo caso: «se tutti i bugiardi si prendessero un tale lucchetto sulla bocca, al posto dell’odio, della calunnia e della nera collera, regnerebbero amore e fra­ tellanza». Sono parole che contribuiscono ad alimentare in noi l’equivoco sulla qualità morale delle tre Dame: chi po­ trebbe sospettare che siano emissarie d’una potenza del Ma­ 2 Gli storici ne ricordano un precedente in un’opéra-comique di Philidor, in­ titolata Le bucheron, dove il personaggio di Margot, ammutolita, è ridotto ad esprimersi con degli «hi, hou! »

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le, quando sfoggiano cosi nobili sentimenti? Il canto sotto voce, a guisa di corale, si anima drammaticamente, come per un empito di sdegno, quando vengono menzionati l’odio, la calunnia e la nera collera. A questo scoppio di virtuosa indi­ gnazione, che viene ripetuto, gli oboi, per un momento soli, fanno seguire due volte una frasetta discendente, un po’ im­ pertinente ed ironica: che voglia avvertirci di non prendere troppo sul serio quella sparata? Ma in essa sono coinvolti pu­ re Tamino e Papageno, che certamente non fingono. Si ritorna al tono fondamentale (si bemolle) con la ceri­ moniosa frase della prima Dama che porge a Tamino il ma­ gico flauto d’oro, regalo della Regina. L’Abert trova che questa frase appartiene ai «tipi fondamentali della musica del Flauto magico». Ci avvertiamo, in realtà, un’eco palese del «vaudeville» finale del Ratto dal serraglio. Il richiamo ci sta a meraviglia, perché nel Ratto dal serraglio questo tipo di frase ricorre, con la stessa disposizione metrica e la stessa gradazione d’intervalli melodici, nel coro di ringraziamento dei Cristiani liberati dalla magnanima virtu del Sultano, os­ sia quando la vicenda salpa a gonfie vele nel cielo della fiaba all’insegna dell’«e vissero felici e contenti». Anche in questo episodio della consegna del flauto magico l’orchestra inserisce tra le frasi del canto un suo motivetto danzante, questa volta affidato ai violini primi. Si noti la ra­ dicale estraneità di Mozart a pretesti di naturalismo descrit­ tivo: manco una nota di flauto, anzi, i flauti sono scomparsi dalla partitura dopo la scena iniziale del serpente, e non vi riappariranno che nel prossimo Terzetto. Che significa que­ sto flauto che, come viene ora spiegato nella nuova «morali­ tà» sotto voce, in stile di corale, può «mutare le passioni umane», rendere lieto chi è triste, aumentare la felicità del­ l’uomo? Pare vi si debba scorgere il simbolo dell’arte, magari della musica stessa. La consegna del flauto magico a Tamino, e ben presto dei campanelli a Papageno, è pur già un princi­ pio di iniziazione. Ma come mai viene dalle mani femmini­ li delle Dame, emissarie del regno della Notte e del Male? Non preoccupiamocene troppo e continuiamo a seguire il corso musicale del Quintetto. Dopo la parentesi quasi de­ vozionale della seconda moralità, uno «staccato» robusto, quasi screanzato dei violini introduce il tono, nientemeno,

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di sol minore per l’episodio che segue: Papageno vorrebbe svignarsela e «si raccomanda», cioè fa i suoi saluti alle tre Dame, che chiama con volgarità «schónen Frauenzimmer», cioè belle femmine, belle figliole. Quelle invece lo trattengo­ no, annunciandogli che per volontà della Regina deve accom­ pagnare il principe (Tamino) al castello di Sarastro. Energigici rifiuti di Papageno, al quale Sarastro è sempre stato di­ pinto come una terribile bestia feroce. Il dialogo tra le Dame e Papageno si estende abbastanza a lungo, in un continuo trascolorare di tonalità: da quella iniziale, abbastanza stupe­ facente, di sol minore, si passa tosto a re minore, poi a la maggiore, di nuovo re minore, infine re maggiore. Quanto mai sobria è la misura del canto, cioè le voci si aggirano tra piccoli intervalli, sillabando le parole con chiarezza. Siamo piu che mai alle fonti di quel tipo di canto su cui si fonderà in avvenire l’opera nazionale tedesca, assai diverso dalla me­ lodia tutta spiegata prediletta dagli italiani. Tra una frase e l’altra delle voci i violini introducono con tanta insistenza una figuretta di cinque note (ritorna quindici volte), che si è tentati di prestar fede all’interpretazione massonica del nu­ mero cinque come simbolo della natura femminile. Al tira e molla delle battute col recalcitrante Papageno le Dame pongono fine col dono d’una cassettina entro cui è custodito il «Glockenspiel», cioè uno strumento di campa­ nelli dal suono argentino. Al momento del dono una cerimo­ niosa transizione orchestrale introduce il tono solenne e fa­ stoso di mi bemolle maggiore. L’infantile natura di Papage­ no è subito sedotta dal giocattolo: «e posso anche suonar­ lo?» chiede. «Ma certo! » assicurano le Dame, mentre anco­ ra, piu insistente che mai, risuona la figuretta di cinque note degli archi. Anche i campanelli avranno sicuramente qual­ che significato simbolico, comunque si riferiscono alla natu­ ra terrestre e infantile di Papageno3. 3 In teoria lo strumento avrebbe dovuto essere suonato dall’attore stesso sul­ la scena, ma Schikaneder fingeva soltanto, e i campanelli li faceva suonare da un orchestrale fra le quinte. Una sera, ad una delle repliche dello spettacolo, si di­ verti a prendere lui stesso i campanelli e suonarli fuori tempo, di modo che il po­ vero Schikaneder restò un paio di volte interdetto sulla scena e lanciò una colo­ rita maledizione verso le quinte. Lo racconta Mozart stesso alla moglie, ancora tutto divertito dallo scherzo, nella lettera dell’8 ottobre 1791.

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Anche alla consegna dei campanelli segue, per la terza volta, una «morale» a cinque voci compatte e sommesse: vi­ vacissima e vibrante, una scaletta discendente degli oboi per terze, «staccato», punteggia due volte l’inizio del consueto corale (che è simile, ma sempre diverso in ognuna delle tre apparizioni). Al corale moralistico si saldano già direttamente gli addii reciproci, quando Tamino e Papageno si avvedono ad un tratto che non sanno dove diavolo andare a cercare il castello di Sarastro. Suona comicamente, in fa maggiore, la ripetuta oscillazione delle loro voci tra sensibile e tonica, vera imma­ gine sonora dell’indecisione e dell’incertezza. Entra cosi, do­ po una lunga pausa, l’ultimo episodio del Quintetto. Ritorna il tono di si bemolle maggiore, cambia il movimento (Andan­ te in 4/4 invece del precedente Allegro in tempo tagliato), e sopra l’armonia dei violini pizzicati la sonorità misteriosa e quasi ieratica di strumenti ad ancia tipici delle funzioni mas­ soniche (prima clarinetti e fagotti, poi anche i corni) introdu­ ce un lento cantico di meravigliosa e rituale solennità: è vera­ mente il mondo magico che si schiude mentre le tre Dame annunciano sottovoce, con la consueta parsimonia di decla­ mazione parcamente melodica, l’assistenza di tre giovani, belli, cari e saggi, che aleggeranno su Tamino e Papageno du­ rante il loro viaggio e saranno loro guide. E un momento mu­ sicale, questo, che fonda veramente un clima per la futura opera nazionale tedesca, il clima del soprannaturale, cosi estraneo per contro al realismo dell’opera italiana, il clima di sogno e di leggenda in cui un giorno Lohengrin potrà intona­ re il suo racconto meraviglioso: «Da voi lontano, in scono­ sciuta terra, Havvi un castel che ha nome Monsalvato...» Seguono ancora gli addii, questa volta definitivi ed iniziati dai due uomini, ormai pronti per la partenza; vi si associano le Dame, poi ancora il congedo si fraziona in uno stretto scam­ bio di « auf Wiedersehen» ravvicinati, quasi in eco, tenera­ mente cromatici quelli delle donne, baldanzosi quelli degli uomini, con ripetuti bicordi su intervallo di quinta, simili a corni da caccia. Tutti se ne vanno, in opposte direzioni, e sva­ nisce piano, con dolcezza, il bellissimo Quintetto, tutto tenu­ to, come osserva l’Abert, sopra una continua altalena di epi­ sodi comici e di «inniger Màrchenton», intimo tono di fiaba.

Capitolo settimo Atto primo, Quadro secondo (Nn. 6 e 7), Finale (N. 8): Il viaggio verso la saggezza

N. 6. Terzetto. Come nei poemi epici ci si sposta alternamente dal campo dei Cristiani a quello dei Saraceni, dalla corte di Carlo Ma­ gno al campo d’Agramante, cosi ora il primo atto del Flauto magico sposta le sue tende nel regno di Sarastro. Eventuali peripezie del viaggio di Tamino e Papageno non vengono narrate. Non sapremo come ci siano arrivati, prima Papage­ no in avanscoperta, senza aver ricevuto la promessa guida dei tre Ragazzi, quindi Tamino. Un lungo dialogo parlato di tre Schiavi di Monostato vie­ ne sempre omesso. Vi si apprenderebbe che la dolce prigio­ niera Pamina è riuscita a sfuggire alla sorveglianza dell'orri­ do Moro, ma poi ne è stata riacciuffata. Quand’egli la trasci­ na in scena comincia il cosiddetto Terzetto, subito dopo il Quintetto, senza stacco di discorsi parlati. Ciò è un po’ con­ trario all’estetica del Singspiel, tuttavia è da tener presente che un po’ di tempo, ovviamente, trascorre nel cambiamen­ to di scena, poiché ora ci troviamo «in una splendida stanza egiziana». L’abituale soppressione del dialogo dei tre Schia­ vi è motivata anche dal fatto che le parti di costoro sono so­ stenute da attori secondari, mentre invece un tipo come Schikaneder aveva modo di brillare ancor piu come attore buffo che come cantante. (Il primo Schiavo era, nelle prime rappresentazioni dell’opera, Ludwig Giesecke, colui che si sospetta abbia avuto parte nel rifacimento del libretto: per­ sona probabilmente assai colta e di un certo rilievo, ma atto­ re semplicemente per ripiego). Il presente Terzetto è un Terzetto per modo di dire, poi­ ché in realtà consta di due duetti successivi.(Pamina-Monostato; Papageno-Monostato): non ci sono mai tre voci che

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cantino contemporaneamente, essendoché Pamina sviene alla fine del suo dialogo con Monostato, e pur restando in scena non apre piu bocca finché il Moro non se ne è andato. Suddito di Sarastro e addetto a funzioni di sbirro, Mono­ stato è il vero polo negativo tra i personaggi dell’opera: libi­ dinoso, prepotente e vile, nel corso dell’azione tradirà Sara­ stro (e non si capisce come questo mago saggio e benefico potesse servirsi d’un tal pendaglio da forca) e passerà nel campo opposto, della Regina della Notte, operando cosi una specie di chassez-croisez col buon Papageno, che certamente non è neppure lui un eroe né un illuminato, ma è un cuore tenero e affettuoso, se non nobile, anela all’amore familiare, si attiene alla regola di vivere e lasciar vivere, e tutto som­ mato si trova piu a suo posto nel campo della saggezza di Sa­ rastro, che presso la vendicativa Regina della Notte. La figura di Monostato è tracciata nell’opera con un toc­ co di popolaresco, ma innegabile razzismo. Il brutto Moro dalle labbra tumide che insidia la candida Pamina, «più bianca che gesso», rientra in una «imagerie» di superstiziosa ignoranza popolare. Ma c’è forse dietro ad essa un curioso e allegro retroscena. Viveva a Vienna in quegli anni un uomo di colore, forse un Masai o un Kikuyu del Kenya, chiamato Angelo Soliman dal nome del suo primo protettore. Dotato di straordinarie qualità intellettuali, era diventato un perso­ naggio in vista nella liberale Vienna di Giuseppe IL Precet­ tore e maestro di cerimonie in casa del principe di Liechten­ stein, aveva sposato una olandese, vedova di Kellermann, il generale di Napoleone. Pure lui era membro della loggia «Zur wahren Eintracht», cui apparteneva Mozart, e i loro nomi si trovano spesso accostati negli atti della loggia stessa. Nessun dubbio che si conoscessero. Allora qualcuno ha pen­ sato che dietro a Monostato possa esserci questo personag­ gio reale. Altri ha protestato con indignazione, asserendo che se mai il Soliman potrebbe essere stato modello del ge­ neroso sultano nel Ratto dal serraglio1. Ma ricordando il gu­ sto inesauribile del gioco che Mozart conservò fino alla vi­ gilia della morte, la vena faceziosa che certamente regna­ 1 p. nettl, Angelo Soliman, der Logenbruder Mozarts, in « MozartJahrbuch», 1962-63, pp. 69-75.

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va nell’ambiente di Schikaneder, non si potrebbe neanche escludere che per allegria e per absurdum il distinto Moro di Vienna sia stato burlescamente preso di mira nel personag­ gio di Monostato. Il Terzetto è in sol maggiore, tono che - come ci ricorda lo Chailley - istituisce «un clima di commedia», giustifica­ to, in verità, solo dalla seconda parte del Terzetto, e cioè dal duo Monostato-Papageno. Lo scrittore inglese Hyatt King, solertissimo indagatore delle innumerevoli analogie musicali racchiuse nel Flauto magico, afferma: «Si direbbe che la friz­ zante melodia cantata da Monostato nelle prime parole del N. 6, “Du, feines Tàubchen”, corresse nella mente di Mo­ zart durante l’ultimo anno della sua vita. L’aveva usata nel Quintetto in mi bemolle K. 614 (ultimo tempo, batt. 27-30, 205-12) e la troviamo, lievemente modificata nel ritmo, al principio dell’ultimo gruppo di Danze tedesche K. 602. Ma nove anni prima quel motivetto cadenzato era servito, in movimento piu calmo e piu liberamente spaziato, come te­ ma d’apertura nel “Larghetto” del Concerto per pianoforte in fa maggiore K. 413. Nel Flauto magico il suo impiego sulle labbra di Monostato è un grazioso tocco d’ironia drammati­ ca, perché anticipa esattamente il grido di disperazione di Papageno e Pamina “ Ach! nun ist’s mit uns vorbei” nel Fi­ nale I, quand’essi sono acciuffati da lui mentre tentano di scappare»2. Aggiungiamo che la melodia in questione non è partico­ larmente significativa, e perciò non deve nemmeno farci specie il fatto ch’essa venga momentaneamente ripresa e continuata da Pamina, personaggio che a rigore dovrebbe esprimersi in maniera opposta a quella di Monostato. Infatti le loro linee vocali ben presto divergono decisamente; il co­ mune motivetto iniziale (preceduto da una rumorosa affer­ mazione orchestrale della tonica) non è niente più che un punto di partenza, un avvio purchessia del discorso musica­ le, che ben presto si qualifica modulando in re maggiore e di qui, con patetica inflessione, in re minore, quando Pamina prigioniera si dispera non per sé, ma per sua madre, che «morirà sicuramente di dolore» quando conoscerà la sua 2 HYATT KING, Op. til., p. 147.

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sórte. Siamo in pieno stile vocale d’opera seria, almeno per quanto riguarda l’«ampio canto appassionato, fluente» di Pamina (Abert), mentre Monostato si esprime con «brevi frasi brutali». Un breve trillo dei violini gira nel discorso or­ chestrale, che, rientrato in re maggiore, fa poi ritorno al to­ no fondamentale (sol) attraverso una drammatica sospensio­ ne sulla dominante, quando Pamina invoca la morte. Poi sviene, e Monostato, voglioso di approfittare dell’occasione, si affretta a mandar via gli Schiavi. Gli va male, perché un pimpante motivetto orchestra­ le annuncia l’arrivo di Papageno. L’Abert dice qui «der furchtsame Papageno», il timoroso Papageno, ed effettiva­ mente quasi sempre in teatro si mostra Papageno avanzare a passi càuti, pieno di paura. La musica smentisce questa in­ terpretazione scenica. La musica ci dice che in questo mo­ mento Papageno è su di giri, in piena forma e sta correndo allegramente l’avventura. Se non sapessimo che è nel suo so­ lito costume variopinto da pappagallo, ed avanza a passi leg­ geri, quasi danzanti, potremmo immaginarcelo - sulla scor­ ta del preludietto orchestrale - come un vecchio viveur ele­ gante ed azzimato, che viene avanti lisciandosi i baffi e don­ dolando la mazza da passeggio. Vede attraverso la finestra una bella ragazza svenuta, e naturalmente entra, pieno d’in­ traprendenza. L’elegante preludietto orchestrale è termina­ to, ed ora subentra una chiara rievocazione della prima arietta di Papageno, quel motivetto spensierato che è quasi il suo inno nazionale. I flauti, questa volta ben presenti in partitura, v’inseriscono per tre volte quella futile figuretta di cinque note che noi avevamo imparato a conoscere, non già nei couplets di Papageno, ma prima, nella sezione «papagenesca», pur essa in sol maggiore, del terzetto delle Dame nell’introduzione. Quando Papageno e Monostato si vedo­ no, spaventandosi l’uno con l’altro per il loro strano aspetto, uno di uomo pennuto e l’altro di uomo nero, la baldanzosa musichetta che potremmo chiamare dell’eleganza di Papage­ no, si spezza: ne resta, agli archi, il frammento ritmico ini­ ziale, alternato con la sillabazione staccata delle due voci; poi, rovesciato l’ordine delle tre note, il ritmo iniziale se lo palleggiano archi e fiati; infine le tre note vengono ancora disposte in altro ordine (prendendo i nomi dei neumi grego­

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riani, si potrebbe dire che nel primo caso producono uno scanàicus, nel secondo un climacus, nel terzo un torculus, os­ sia: tre note ascendenti, tre note discendenti, tre note ri­ torte). Con vecchia pantomima da teatro comico popolare, fini­ sce che i due personaggi, spaventatissimi, scappano entram­ bi, in opposte direzioni. Il pezzo musicale svanisce piano; lo Chailley ha una buona osservazione quando fa rilevare la cu­ riosità che l’ultima battuta finisce sul tempo debole, cioè sul quarto tempo della misura di 4/4, e non sul terzo, come ge­ neralmente accade. Procedimento, egli osserva, usato da Bach nel «Dimisit inanes» del Magnificat', usato da Strawin­ sky nel Sacre du Printemps (fine della prima parte), e ripreso da Alban Berg nella chiusa del Wozzeck. Ovviamente è un procedimento utile per finire con delicatezza, in maniera sfumata; ha lo stesso effetto che ha, nella metrica, chiudere con un verso piano anziché con un verso tronco. N. 7. Duetto (Pamna-Papageno).

Il precedente Terzetto, o piuttosto doppio Duetto, è se­ parato dal presente Duetto per mezzo d’una sezione parlata abbastanza lunga, e sempre abbondantemente sfrondata. Essa permette, come al solito, a Schikaneder di sparare le sue battute comiche, e alla cantante che intepreta Pamina di far valere anche le sue doti di attrice. A Vienna era la bella e gentile Marianne Gottlieb, che lo Hocquard definisce, senza recare prove o fonti ad appoggio, «le plus bel et le plus pur amour de Mozart». Pamina rinviene, pronunciando alcune parole che vengo­ no sempre tagliate. Il discorso è avviato da Papageno che, più coraggioso di Monostato, è ritornato sui suoi passi, ri­ flettendo che un uomo nero non è poi niente di straordina­ rio, visto che di uccelli neri ce ne sono tanti. Nel dialogo, abbastanza grazioso, Papageno ha modo di far sentire che i tre Ragazzi, preannunciati a lui e a Tamino come guida e scorta verso il castello di Sarastro, non si sono fatti vedere, ma questo passo è generalmente tagliato. Rimane il candido, verginale slancio di Pamina verso l’amore di Tamino, riferi­

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tole da Papageno. E poiché Pamina, gentile, ammirando il coraggio con cui Papageno ha affrontato un rischio mortale introducendosi nel castello del terribile Sarastro, s’informa se non abbia nessuna donna che lo attende a casa, Papageno ha modo di esprimere il suo cocente rammarico di non avere ancora una Papagena. «Pazienza, amico! - lo esorta Pami­ na, - il cielo prowederà anche a te». Cosi viene introdotto il tema del duettino «Bei Mànnern, welche Liebe fiihlen» (Negli uomini che sentono amore). E uso dire peste e corna delle parole di questo Duetto, che lo Hocquard trova «particulièrement plates», e sconve­ nienti alla psicologia normale di Papageno. «Per colmo d’e­ quivoco - egli scrive - è un duetto d’amore, eppure coloro che cantano non sono innamorati l’uno dell’altra! »l. Ora non è vero affatto che si tratti d’un duetto d’amo­ re. E un duetto di elogio del matrimonio e della vita coniu­ gale, in cui «uomo e donna, donna e uomo giungono alla divi­ nità». Non duetto d’amore, dunque, ma, in umile forma po­ polare, duetto che potremmo definire filosofico, cioè di con­ tenuto etico, nel senso della concezione filantropica sette­ centesca. Sono concetti che anche Schiller tratta nel Triumph der Liebe. E facile immaginare quanto i concetti espressi in questo Duetto andassero a genio al povero Beethoven, celi­ be per forza, che ne cavò sette Variazioni per violoncello e pianoforte. Anziché un duetto d’amore è una «moralità sul­ l’amore», di carattere sentenzioso e generale1 2, e a dirne l’importanza nel pensiero del compositore basta la tonalità di mi bemolle maggiore, quella fondamentale dell’opera, to­ nalità della luce, della saggezza e dell’amore universale. Pare che il Duetto sia stato composto tre, forse cinque volte, prima che ricevesse l’approvazione di Schikaneder; certamente ne resta un’altra versione, più estesa e più diffi­ cile da cantare, che Schikaneder produsse durante una delle repliche, insieme a un altro pezzo inedito, oggi non indivi­ duato, un paio d’anni dopo la morte di Mozart. 1 hocquard, op. cit., p. 516. Del resto lo scrittore francese qui non fa che rie­ cheggiare un’osservazione non felice dell’Abert. Molto piu avvisato su questo punto lo Chailley, op. cit., p. 221. 2 Ibid.

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Cosi com’è, il Duetto è la semplicità stessa. Il ritmo di 6/8 gli imprime un senso cullante di berceuse, come ha rile­ vato il Labroca. Sopra elementari armonie di tonica-domi­ nante si sviluppano una frase e la sua risposta, composte di quattro incisi sempre più estesi: prima due di tre note cia­ scuno, poi uno di sei, poi uno di undici. Valori ritmici uni­ formi; ogni frase è proposta da Pamina e ripetuta da Papage­ no, poi le due voci si uniscono, il soprano cantando la melo­ dia, il baritono facendo il basso. Tutto viene ripetuto per una seconda strofa, con qualche lieve fioritura ornamentale, poi c’è una terza sezione conclusiva nella quale le voci dialo­ gano con una dolce fanfara di clarinetti, fagotti e corni. Quella elevata «Stimmung», piena di devozione, che l’Abert riconosce in questo Duetto è certamente dovuta alla semplicità e grandezza della musica mozartiana, ma non in contrasto o a dispetto delle disadorne parole. «Stimmung», scrive l’Abert, quale conviene ad anime semplici, «senza al­ cun patos, ma anche senza Empfindsamkeit», cioè senza sentimentalismo. E qui più che mai vale l’osservazione dello Hocquard, che quello che manca, nel Flauto magico, ed è fe­ lice mancanza, è il patetico. Il consueto cacciatore di analogie, A. Hyatt King, ci ri­ corda che la melodia iniziale del Duetto corrisponde da vici­ no alle prime battute del Minuetto della Sinfonia detta «di Linz», K. 425.

N. 8, Finale.

Per le note ragioni, già più volte illustrate - carattere non psicologico, bensì etico e sacrale della vicenda, che è un mistero parareligioso, non una commedia di carattere - il Finale I non si presenta come quelli delle Nozze di Figaro e del Don Giovanni, simile a un «picciol dramma da sé»1, or­ ganicamente sviluppantesi intorno a un centro generativo, bensì come una «successione, non già di scene, ma di qua­ 1 Lorenzo da ponte, Le Memorie, Parte seconda, Istituto Editoriale Italiano, Milano s.d., pp. 149-50.

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dri, senza gradazione drammatica definita»2. Il Saint-Foix non sa nascondere una certa delusione. Parlando dei concer­ tati del Flauto magico scrive: «C’è là come un “impoveri­ mento” quando si paragonano alle grandi scene delle prece­ denti opere di Mozart; tutto vi è piu sobrio e perfino piu nu­ do, malgrado una scienza orchestrale che tocca il suo punto supremo: con tutte le loro sublimità, i due Finali del Flauto magico non si avvicinano punto ai grandi assieme del Don Giovanni, di Cosifan tutte e perfino delle Nozze di Figaro»3. (Curioso quel «perfino», dovuto probabilmente al fatto che Le nozze di Figaro è la più vecchia delle tre opere citate: ma è proprio quella che contiene gli esempi più spettacolosi di grandi finali drammatici fondati sulla stretta compenetra­ zione della musica col divenire psicologico dei personaggi). Proprio a questo punto si ha la svolta decisiva del libret­ to: vi fanno ingresso i valori etici e simbolici, decisi dagli au­ tori in occasione del rimaneggiamento, mentre fin qui l’azio­ ne si manteneva entro il clima fantastico e superficiale dello «Zauber stuck». L’Abert ne illustra con molta chiarezza le conseguenze. «Il primo Finale, come del resto anche il se­ condo, non ha nulla a che fare col vero Finale buffo all’ita­ liana. Non si tratta di un’azione che partendo da un punto determinato procede verso una meta attraverso tutte le complicazioni, bensì di un variopinto seguito di scene, che tenuto insieme senza rigore dai fili dell’azione, avvince più per il cambiamento delle situazioni che per la regolarità del progresso. Ciò doveva naturalmente influire in maniera de­ cisiva anche sulle forme musicali. Solo una volta, quando Monostato introduce Tamino, si giunge a un lavoro temati­ co in senso italiano, tutti gli altri pezzi vi rinunciano e sono o tenuti insieme per semplice accostamento o in quella for­ ma libera che già conosciamo dagli assieme; del tutto a parte se ne sta il grande recitativo dello Sprecher». Naturalmente lo scrittore si premura poi di assicurare che nonostante que­ sta molteplicità regna nel Finale una ben percepibile unità, grazie soprattutto alla disposizione armonica delle tonalità 2 j.-g. prod’Homme, W. A. Mozart. Sa vie etses ceuvres, D’après la 2e édition de l’ouvrage de M. Arthur Schurig, Librairie Delagrave, Paris 1925, p. 397. 3 saint-foix, op. cit., V, p. 160.

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(prevalente quella di do maggiore, connessa con la chiarezza solare della saggezza di Sarastro, e delle tonalità ad essa più strettamente imparentate; solo nei recitativi si spazia attra­ verso un giro larghissimo di modulazioni). In questo seguito un po’ sciolto di scene bisogna anzitut­ to distinguere nettamente due momenti: prima e dopo l’en­ trata trionfale di Sarastro. Prima si susseguono queste sce­ ne: terzetto dei Ragazzi che guidano Tamino alla rocca di Sarastro e dialogano con lui; Tamino al tempio; uscita dello Sprecher (un sacerdote) e suo dialogo con Tamino; suonatina del flauto magico con pantomima delle bestie incantate; entrata di Pamina e Papageno; prima irruzione di Monosta­ to; suonatina dei campanelli con pantomima dell’incantesi­ mo su Monostato e i suoi sbirri, e relativo commentino mo­ ralistico. Poi fa il suo ingresso solenne Sarastro, sopra un carro tirato da sei leoni, e procede successivamente al giudi­ zio di Pamina, rea d’aver tentato di fuggire; di Monostato, reo d’avere insidiato e molestato la prigioniera; di Tamino e Papageno, che vengono avviati alle prove dell’iniziazione. Coro finale. (Scena quindicesima). «Tre Fanciulli introducono Tamino. Ognuno tiene in mano un ramo di palma d’argento».

La palma - ci spiega lo Chailley - fa parte del cerimonia­ le massonico come simbolo del trionfo sulla morte attraver­ so la resurrezione. I fanciulli sono come iniziati di data re­ cente, che possono condurre Tamino verso le prove della sua iniziazione, ma non possono naturalmente deciderle ed imporgliele essi stessi. Equivalgono ai tre «soci presentatori» che si richiedono per proporre un nuovo aderente alla massoneria. L’atmosfera musicale del Larghetto in do maggiore è di natura quasi religiosa. «Già lo strumentale ci dice che ormai un mondo più alto sta per fare il suo ingresso nel tono inge­ nuo fin qui seguito» (Abert). Sono specialmente i clarinetti, i tromboni (alto, tenore e basso), le trombe «con sordini» c i timpani «coperti», a produrre questa impressione. La smorzatura di timpani e trombe ha una chiara intenzione simbolica - ci avverte lo Chailley - come il tono «sotto vo­

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ce» che già abbiamo visto sempre regolarmente prescritto per le piccole «moralità» corali contenute nel Quintetto. All’inizio del pezzo fagotti, violoncelli e contrabbassi fan­ no sentire il tipico ritmo di cinque note puntate che apre V ouverture dell’opera, mentre i timpani velati v’inseriscono invece il ritmo ternario, piu perfetto. Entro questa cornice, su cui una lunga nota tenuta di flauti e clarinetti risplende dice l’Abert - «come una stella», gli archi intonano un can­ tico nobile e grave, tosto ripreso dal terzettino dei Fanciulli (pare che dovessero essere realmente voci di bambini, e non femminili, come generalmente si usa in teatro; infatti nella locandina della prima rappresentazione, assai diffusa per ogni altro particolare, mancano i nomi dei tre Ragazzi). Il ritmo di crome puntate suona assai grave per la lentezza del tempo Larghetto; l’Abert osserva che in fin di frase la sosti­ tuzione delle crome puntate con semicrome puntate lo rav­ viva, e «rende manifesta la freschezza dei Ragazzi, ad onta di ogni gravità». E un «cantico», come dice giustamente lo Chailley, un cantico con qualcosa di processionale, come una lenta marcia. Lo Hyatt King c’informa: «c’è una ric­ chezza di storia nella prima melodia che esce dalle bocche dei tre Geni»4. Questo calmo, regolare terzetto si può ricon­ durre a una vecchia canzone, «die Katz’ die last das Mausen nit, die Gans fliegt fibers Meer», apparsa a stampa nella se­ conda parte del cosiddetto Augsburger Tafelkonfekt (1737), una raccolta di canzoni d’uso, assai importante nella storia antica del Lied. La melodia si può trovare anche, lievemente modificata, nel coro finale della Cantata del caffè di Bach, e «adorna senza possibilità di equivoco il rondò del Concerto per pianoforte op. 15 in do maggiore di Beethoven». Il Wyzéwa, al quale Hyatt King si riferisce, osserva che Mozart stesso l’aveva usata come tema principale del Divertimento in mi bemolle maggiore K. 252; infine essa «appare anche in una versione frizzante come soggetto principale del rondò nel Concerto per due pianoforti K. 365 ». Certamente è «con i suoni solenni dei tre Fanciulli» che - come dice l’Abert - «entra per la prima volta, nel mondo fin qui ingenuo, una concezione piu alta e per la prima volta HYATT KING, Op. CÌt., p. 149.

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si pone la questione fondamentale: il Bene o il Male». Ora per la prima volta «sopra un mondo dell’inconscio sorge il sole della consapevole vita morale». Il simbolismo massonico del numero si manifesta nelle tre virtu che i Fanciulli prescrivono a Tamino: «sii fermo, pa­ ziente e silenzioso! » Ogni aggettivo appoggiato su rintocchi dei timpani velati (con archi, fagotti e trombe con sordini) e punteggiato nettamente - tra un aggettivo e l’altro - da una nota tenuta dei tromboni (con flauti e clarinetti). E il colore timbrico degli strumenti a fiato massonici, le cosiddette «colonnes d’harmonie» («harmonie» designando in france­ se un insieme di strumenti a fiato). Tamino non è ancora a livello di tanta saggezza, e chiede ansiosamente notizie di Pamina. Secondo lo Chailley, egli introduce perciò un’inflessione di stile operistico nel tono elevato dei Fanciulli. Questi rifiutano di rispondere, e riba­ discono la triplice esortazione, dopo di che spariscono. Rimasto solo, Tamino riflette sul loro avvertimento in un pezzo che è esplicitamente designato come «Recitativ». Questo recitativo (e quello che ben presto seguirà nella sce­ na con lo Sprecher sulla porta del tempio) viene considerato dai musicologi tedeschi come la culla dell’opera nazionale e vero fondamento dell’ulteriore stile di recitativo drammati­ co: «se ne prolungano le tracce - scrive l’Abert - molto avanti nell’opera romantica». Ammessa senz’altro l’impor­ tanza storica di queste due scene d’accurato e studioso reci­ tativo, per altro non troppo gradevole all’ascolto, nonostan­ te l’estrema ingegnosità delle modulazioni a cui il composi­ tore fa ricorso per sostenerne l’interesse musicale un po’ lan­ guente, si deve riconoscere che un po’ di sciovinismo fa velo alla chiaroveggenza degli studiosi tedeschi, facendo loro tra­ scurare il precedente di Gluck, che aveva perfettamente fondato nell’opera seria il nuovo stile di recitativo dramma­ tico, fornito d’intensità d’accenti vocali e di sostanzioso ac­ compagnamento orchestrale. Ma Gluck aveva raggiunto questi risultati in opere serie di lingua italiana oppure fran­ cese. Questi del Flauto magico nc sono indubbiamente i pri­ mi esempi in lingua tedesca, e su di essi principalmente si costruì l’edificio dell’opera romantica tedesca, da Beetho­ ven a Weber, fino a Wagner.

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Il recitativo di Tamino, per il quale è d’obbligo il riferi­ mento al soliloquio di Agamennone al principio dell’Ifigenia in Aulide di Gluck, comincia in fa maggiore (sottodominan­ te del tono di do maggiore del pezzo precedente), passa to­ sto in la maggiore (quando Tamino si chiede: «wo bin ich nun?», dove mi trovo ora?), e modula verso si minore quan­ do osservando le porte e le colonne dei templi (tutti simboli massonici) rileva che «qui regnano accortezza, operosità e arti» (naturalmente un numero ternario di virtu). Il tono di si minore si stabilisce decisamente quando, animandosi il so­ liloquio di Tamino, sopravviene l’indicazione di tempo Al­ legro, ben presto mutata in Allegro assai. Due scale ascen­ denti degli archi, di mi minore e di re maggiore, segnano la decisione di affrontare le porte dei templi nel nobile e puro scopo di salvare Pamina dal malvagio (Tamino adopera il termine «Bósewicht», usato dalla Regina della Notte nella sua aria) che la tiene prigioniera. Tre sono i templi che sorgono qui in un boschetto. Quel­ lo di mezzo reca la scritta «Tempio della Saggezza», ed è collegato per mezzo di colonnati al Tempio della Ragione, a destra, e al Tempio della Natura, a sinistra. Non occorre in­ dagare l’ovvio simbolismo massonico della gerarchia. Sopra una figura orchestrale che al Labroca pare «lo stac­ co di un ritmo deciso», ma che è poi un semplice trilletto di archi in re maggiore, Tamino si slancia verso la porta di de­ stra e l’apre (segno di presunzione e d’impreparazione, ci spiega lo Chailley), ma ne è respinto da una voce che grida: «Zuriick! » (Indietro!) in sol minore. Il nostro Tamino, già lo sappiamo, non è un leone. Re­ spinto da una porta, non insiste e prova ad un’altra. Nuovo trilletto vivace degli archi in sol minore, che accompagna lo slancio verso la porta di sinistra, e nuovo «Zuriick! », questa volta nel nobile tono di mi bemolle maggiore. Nuovo smac­ co, non resta che provare alla terza porta. Trilletto degli ar­ chi nel relativo minore (do). Questa volta Tamino ha impa­ rato le buone maniere, e bussa. Si apre la porta e, come negli Allegretti di Campanile, «apparve l’austera figura di un po­ pe russo». Ossia appare un Sacerdote, naturalmente con vo­ ce di basso, che chiede a Tamino, Adagio, in la bemolle maggiore, che cosa cerca.

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La risposta di Tamino, fa giustamente notare lo Chailley, è sorprendente. Mica dice che cerca Pamina. Dice che cerca «la sede dell’amore e della virtù». «A una domanda rituale, risponde ritualmente. Non siamo a teatro, ma nel tempio»5. Questa stupefacente risposta di Tamino avviene nel nobile tono di mi bemolle maggiore, Andante a tempo (tutto il lun­ go dialogo che segue è un continuo tiramolla fra Tamino che parla in fretta, e il Sacerdote che si esprime con ieratica len­ tezza), ed è introdotta da un dolce ed aereo corale di fiati (clarinetti e fagotti), che ben presto, nel second’atto, sarà la base armonica della marcia dei Sacerdoti. Il lungo recitativo del dialogo fra Tamino e il Sacerdote è un altro di quei venerabili incunaboli storici del melodram­ ma nazionale tedesco che i musicologi esaltano, ed anche Edward Dent, che non era tedesco, ha una battuta spirito­ sa quando dice che il recitativo tra il Sacerdote e Tamino suona come «un dialogo tra Bach e Weber»6. Effettivamen­ te c’è in questo recitativo un colorito arcaico che lo distin­ gue dal moderno recitativo gluckiano, e fa supporre che Mo­ zart avesse ben presente il tipico recitativo tedesco della parte di Cristo nella Passione secondo San Matteo. Questo co­ lorito arcaico è in effetti riservato principalmente alla solen­ nità oracolare del Sacerdote; quella di Tamino ne sembra anch’essa contagiata un momento (alle parole «Sarastro wohnet hier, das ist mir schon genug»), ma poi effettiva­ mente il recitativo di Tamino si mantiene più acceso e dram­ matico, nel già segnalato moto alterno di rapidità e lentezza (non più indicato, ora, da veri e propri cambiamenti di tem­ po, ma da semplici indicazioni «schnell», «rapido» e «langsam», lento, apposte in carattere piccolo sulla parte del sin­ golo cantante). Il giro delle modulazioni è, come sempre, in­ stancabile. Dal mi bemolle del dolce corale di fiati si passa a do minore (a tempo, Adagio), sol minore (sulla parola «Bósewicht»), di nuovo mi bemolle, quando il Sacerdote confer­ ma che, si, Sarastro regna in questo Tempio della Saggezza. Allora un bell’inciso cromatico dei violini primi muove ver­ so fa minore durante la disperazione di Tamino («Allora è tutto menzogna! »), che se ne vuole andare. 5 CHAILLEY, Op. CÌt., pp. 228-29. 6 DENT, Op. Cit., p. 219.

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Il Sacerdote riporta il do minore, quando un po’ piu beni­ gnamente trattiene Tamino e poi, manco a dirlo, s’impanca in do maggiore quando sentenzia le massime antifemministi­ che della massoneria («una donna fa poco e chiacchiera mol­ to»). Sembra che sia massonicamente simbolica anche l’in­ vocazione di Tamino «Wann also wird die Deche schwinden?» («Quando cadrà dunque questo velo?»), allusione alla benda da cui erano cinti gli occhi del candidato (simbolo a sua volta dell’ignoranza); curiosamente qualche volta viene cantato «das Dunkel» (l’oscurità), invece che «die Decke» (il velo, la copertura). È a questo punto che il recitativo a due, un tantino pesante, sale decisamente di tono. Andante a tempo, all’unissono coi violoncelli, il Sacerdote pronuncia una bellissima frase in la minore, di ritmo puntato, ma len­ to, come di oracolo, poi se ne va. Il Labroca trova che que­ sto «tema di bellezza scultorea... porta nel pensieroso mon­ do degli Dei wagneriani» e lo Chailley attribuisce molta im­ portanza, anche simbolica, al raddoppio della voce per mez­ zo dei violoncelli. Mozart aveva già usato questa frase nel basso della Sonata per pianoforte in la minore K. 310 (primo tempo, batt. 129-32). In questo trascorrere dal recitativo al­ la pienezza della cantilena sta, secondo l’Abert, la novità di questo stile vocale tipicamente tedesco: «canto declamato e canto melodico si mescolano e si compenetrano continuamente». Già Beethoven ammirava 11flauto magico per que­ sta sintesi di stili vocali, che ai giorni nostri è messa forte­ mente in rilievo, sulla scia dell’Abert, dal Paumgartner e dall’Hocquard. Il primo vede in questo «stupendo alternarsi di declamato e di arioso» una «luminosa tappa nella storia del recitativo drammatico», e quasi una «presa di posizione nazionale contro il mondo espressivo dell’operistica latina». Infatti, egli dice, «il dialogo di Tamino col Sacerdote inau­ gura un nuovo parlato musicale lontanissimo dal recitativo accompagnato italiano ed enormemente più consono allo spirito dell’opera tedesca». E probabile che nel recitativo accompagnato italiano lo scrittore includa anche quello gluckiano, che in verità è un modello imprescindibile per Mo­ zart. Ma senza l’esempio mozartiano, conclude il Paumgart­ ner, «non sarebbe pensabile la grande parabola del nostro melodramma».

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Noi, naturalmente, siamo meno sensibili a queste bene­ merenze mozartiane verso il dramma musicale tedesco, e quando anche uno studioso cosi equilibrato come l’Abert, e cosi amoroso conoscitore del melodramma italiano, si esal­ ta fieramente perché Tamino, al principio del suo recitativo, non raccoglie il suggerimento proposto dalle parole « ist dies der Sitz der Getter hier?» (è questa la sede degli dèi?), e tira dritto su energici accordi strappati degli archi, che manten­ gono nell’ascoltatore il suo stato di tensione, laddove un compositore italiano non avrebbe sicuramente lasciato pas­ sare questa frase «senza un piccolo idillio orchestrale», eb­ bene, noi, un po’ preoccupati della fiumana di arido recita­ tivo che ci attende, siamo sommessamente dell’opinione che forse all’italiana il passo sarebbe venuto meglio. Anche lo Hocquard, del resto, che tedesco non è, segue l’Abert nell’e­ saltazione di questo «recitativo drammatico» che «non si presenta mai allo stato puro, e in ogni caso non cade mai nella declamazione propriamente oratoria». Esso apparireb­ be, secondo lui, «per esprimere uno stato di passione, di de­ monismo» (in verità anche per sbrigare lunghi dibattiti sen­ tenziosi, come questo tra Tamino e il Sacerdote, dove non è tanto questione di demonismo e di passione, quanto di con­ cetti astratti e di simboli rituali). Quando il personaggio si li­ bera da questa condizione, allora la melodia riprende i suoi diritti assoluti, ma senza ricadere nella melodicità italiana (ci mancherebbe altro!) «L’arte melodica del Flauto magico è cosi originale che può parere interamente nuova: è fatta del­ la sintesi più sottile che ci sia del Lied popolare, del corale, del recitativo romantico, dell’arietta viennese e dell’aria ita­ liana» (meno male!) «Fa capo a uno spirito fatto di cordiali­ tà generosa, di sorridente benevolenza, di calma bonomia (la viennese Gemutlichkeit), ma anche d’una virilità non bruta­ le e d’una profonda nostalgia per un mondo migliore»7. Tutto bello e ben detto, però non c’è spettatore del Flau­ to magico, tedesco o latino che sia, il quale sotto sotto non si rallegri che a questo punto sia finita la penitenza quaresima­ le del recitativo. La nobile melodia con cui si è congedato il Sacerdote viene ripetuta due volte (e fanno tre) dai violonHOCQUARD, Op, «A, p. 512.

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celli, mentre un coretto invisibile risponde «sotto voce» al­ l’appassionata interrogazione di Tamino: «presto, o altri­ menti mai» l’eterna notte finirà e la luce si farà per lui. L’in­ tervento dei tromboni presta solennità alla misteriosa rispo­ sta e all’assicurazione che «Pamina vive ancora». Tanto è l’entusiasmo di Tamino ad apprendere questa notizia, che finalmente dà di piglio al flauto magico per manifestare nei suoni la sua gratitudine agli onnipotenti (curiosamente, al plurale: evidentemente Tamino si rivolge agli spiriti che gli hanno sussurrato sotto voce: «Pamina lebet noch! »). La suonatina di flauto che segue è un semplice e innocen­ te Andante in do maggiore, «cugino primo», dice Hyatt King, dell’entrata di flauto Andante per flauto e orche­ stra K. 315. Qui il flauto in scena è accompagnato dagli ar­ chi; solo verso la fine anche fagotti e oboi aggiungono tocchi discretissimi all’accompagnamento. Tamino suona e poi canta, alternando di continuo le due cose. Si tenga presente che il tenore Schack era pure un bravo flautista: ovviamen­ te, con la sua abitudine a scrivere pezzi ad hominem^ pensati apposta per un determinato esecutore8, Mozart inventò questa scena partendo dal dato di fatto del tenore-flautista. Quando Tamino suona, entrano in scena ogni sorta d’ani­ mali, attirati dal potere magico del flauto; quando questo cessa e Tamino canta (ancorché canti praticamente le stesse melodie prima esposte dal flauto, solo un po’ semplificate da certi svolazzi d’agilità), allora gli animali si ritirano di nuovo tra le quinte, per ricomparire alla prossima suonatina. Sicco­ me il gioco alterno di flauto e canto va facendosi sempre piu stretto, per botte e risposte ravvicinate e sempre piu brevi, è facile immaginare lo spasso di questa pantomima scenica, allusiva in vena popolare al mito di Orfeo e alla potenza del­ la musica. E si aggiunga la tensione che nasceva nel pubblico de!T«Auf der Wieden» per la prova di bravura dell’esecuto­ re, costretto alla fine ad alternare rapidamente singole note di canto su monosillabi «Wo?» (Dove?) a brevissimi guizzi del flauto (tutt’altra cosa essere in presenza d’un attore che realmente fa entrambe le cose, oppure - come adesso awie8 «Mi fa piacere che un’aria sia ben adatta a un cantante, come un vestito fatto bene» (Mozart al padre, Mannheim, 28 febbraio 1778).

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ne - d’un attore che finge di suonare, mentre in realtà il suono viene dal primo flauto in orchestra). C’è in questa trovata tutto il fiuto teatrale di Schikaneder, con buona pa­ ce dei musicologi i quali vi guardano con sufficienza, dimen­ ticando che un’opera non è una Sinfonia o un Quartetto, bensì teatro. Persino l’Abert arriccia il naso: «Che a questo punto salti fuori anche il flauto magico ed incanti le bestie è un residuo della vecchia fiaba di Lulu, e non ha nulla a che fare né con la situazione drammatica del momento né col simbolismo del lavoro». Questi tedeschi sono talmente felici che a questo punto II flauto magico si allontani finalmente dalla sua leggerezza originaria da baraccone di fiera, che vorrebbero ormai murarlo interamente nella profondità del simbolo, e ogni ritorno di fiamma dello «Zauberstiick» li in­ fastidisce. Meno male che l’Abert c’informa: «Col suo dol­ ce, nostalgico cromatismo la melodia appartiene interamen­ te al tono sentimentale dell’arietta viennese». Essa è, grosso modo, di forma ternaria, con ripresa variata. Quando infat­ ti, dopo una pausa vuota su un punto coronato, Tamino ri­ prende l’aria, il pensiero di Pamina, che resta ancora lonta­ na, induce bruscamente il tono di do minore, e canto e suo­ no si spezzano affannosamente nella frammentazione sopra ricordata. Sebbene il teatro di Schikaneder possedesse una pittore­ sca «menagerie», cioè un serraglio, non erano animali veri quelli che venivano in scena e si ritiravano a tempo, appena Tamino smetteva di suonare, bensì comparse travestite da scimmiotti, come appare dai disegni a colori di Josef e Peter Schaffer, pubblicati nel 1794 dall’«Allgemein Europàisch Journal» di Brùnn. Tra le comparse incaricate di questa umile prestazione c’era una giovane viennese che molto più tardi fu anziana domestica in casa del poeta Grillparzer, e questi apprese da lei numerosi particolari sulle prime rappre­ sentazioni del Flauto magico. Come conseguenza di tanto suonar di flauto che accade? Che da lontano, dietro la scena, risponde lo zufolo di Papa­ geno, sgranando la sua scaletta ascendente di cinque note, che già avevamo conosciuto nella seconda scena dell’opera. Tamino lo sente e vi risponde lietamente col proprio flauto. Una grande gioia lo invade - forse Papageno ha già visto

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Pamina, forse il suo suono la guida a lui - il movimento si cambia in un «Presto» tumultuoso, per la conclusione della scena, in cui Tamino si allontana precipitosamente alla ricer­ ca di Papageno e di Pamina. (Scena sedicesima).

Secondo un umoristico contrattempo da teatro popolare, quelli che Tamino è andato a cercare uscendo di scena da una parte, eccoli entrare subito dalla parte opposta. Papage­ no e Pamina arrivano cantando per terze e seste un Andante in sol maggiore, tono, come sappiamo, leggero e distensivo. Andante, ma assai vivacemente cadenzato, come una marcetta; tra un inciso e l’altro delle voci i violini inseriscono uno di quei ghirigori di cinque semicrome che abbiamo già trovato nel terzettino iniziale delle Dame, e nel Quintetto, e che secondo lo Chailley allude, col numero cinque, all’im­ perfezione femminile. Ci informa il solito Hyatt King che lo «scintillante» motivetto «Schnelle Fiisse, rascher Mut» con cui arrivano in scena Pamina e Papageno, ha un precedente nientemeno che nella Vìnta semplice, cioè la prima opera di Mozart, scritta a dodici anni. Secondo l’Abert il duettino «Schnelle Fiisse» si avvicina al tono buffo italiano, «senza tuttavia cadere nella sua crudezza». Con lo stesso fonda­ mento si potrebbe sostenere che si apparenta all’arietta viennese o alla canzoncina popolare. «Canzone disinvolta» lo definisce lo Chailley, che mostra una certa impazienza per la sua «inattesa leggerezza», come già per la «scena un po’ puerile» del flauto magico, che «ci fa abbandonare la tensio­ ne delle scene precedenti»9. Questa gente non vede mai l’o­ ra che Mozart cessi di essere se stesso, e che IIflauto magi­ co cominci a somigliare al Parsifal. Un po’ di serietà, che dià­ mine! L’Arte, con l’a maiuscola, deve essere una cosa seria, grave, profonda, piena di simboli elevati, e possibilmente noiosa. La struttura del duo di Pamina e Papageno è quella solita ternaria. Nella parte centrale il ritmo serrato di marcetta si allenta un poco per la lirica esclamazione di Pamina che peir9 CHAILLEY, Op. CÌt., pp. 233 e 235.

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sa a Tamino («holder Jungling!», caro giovane!, sebbene non lo conosca ancora), e per le zufolatine di Papageno, cui fa eco il flauto di Tamino, mentre oboi e corni aprono e chiudono le armonie, tale e quale come nei couplets di Papa­ geno al principio dell’opera. Forse una pallida eco di italia­ nismo si potrebbe vedere nel comico gioco di Papageno sul suono della parola «stille» (zitti), quattro volte ripetuta. E piu tardi, nella ripresa, Pamina e Papageno ripetono a perdi­ fiato le parole «nur geschwinde» (solo, in fretta), finché ir­ rompe ferocemente Monostato, che «ihrer spottend», sbef­ feggiandoli, s’unisce anche lui al coro e sbraita tre volte, imitandoli comicamente, «nur geschwinde, nur geschwinde, nur geschwinde». {Scena diciassettesima).

Senza interruzione la nuova scena s’incatena alla prece­ dente, restando nel tono futile di sol maggiore. «Mozart ci dice l’Abert - non prende veramente sul serio né la paura della coppia puerile Pamina-Papageno, né il terribile strepi­ to del Moro cattivo ». Ossia, lo prende sul serio nella stessa misura con cui trattava nel Ratto dal serraglio le furie di Osmino. «Una persona accesa da una collera cosi viva tra­ passa ordine, misura e mira; non si riconosce piu e cosi non bisogna riconoscere nemmeno la musica. Ma poiché le pas­ sioni anche violente non devono mai arrivare fino al disgu­ sto, cosi pure la musica, anche nel momento piu terribile, non deve mai offendere l’orecchio, ma sempre far godere e rimanere sempre musica»10. Cosi, tanto per non offendere l’orecchio, Mozart pensa bene di introdurre lo sbraitante Monostato sopra un Allegro che è tal quale l’inizio della ce­ leberrima Piccola Musica notturna, uno dei suoi pezzi piu settecentescamente «deliziosi». Monostato canta veloce­ mente, alternando intervalli abbastanza ampi alla ripetizio­ ne insistente d’una medesima nota («Nur herbei mit Stahl und Eisen! Wart’, ich will euch Mohres weisen»). Siccome quest’ultima frase significa «ora vi farò vedere io chi è il Moro», lo Chailley pensa che ci sia un’allusione melodica a 10 Lettera al padre, Vienna, 26 settembre 1781.

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«O du eselhafter Martin» (O tu, asinesco Martino! O tu, martinesco asino), uno dei canoni buffoneschi di Mozart. Effettivamente la linea vocale e il ritmo sono uguali, ma può anche trattarsi di pura coincidenza, dato che non è una me­ lodia molto individuata. Investiti dalla furia del Moro, Pamina e Papageno escla­ mano «Ahimè, per noi è finita! », sulla stessa frase, o quasi, con cui Monostato, echeggiato da Pamina, aveva dato inizio al Terzetto N. 6. Nel successivo comando di Monostato ai suoi schiavi, «He, ihr Sklaven, kommt herbei! », si suol far notare ch’esso si muove per intervalli di quarta, come quelli coi quali Leporello si lamenta all’inizio del Don Giovanni: «Notte e giorno faticar! » Secondo Hyatt King, è un tipico modo mozartiano per esprimere servitù e sottomissione* Mentre gli schiavi arrivano con le catene da buttare ad­ dosso ai prigionieri, anche a Papageno viene la luminosa idea di servirsi dello strumento magico che gli hanno donato le Dame. Sopra un motivetto degli archi che suona un po’ come la parafrasi della sua prima canzoncina nel N. 2, egli fa «klingen, klingen», cioè suonare i suoi campanelli. Se ne sprigiona, sempre in sol maggiore, una dolce musichetta di carillon, al cui suono Monostato e i suoi schiavi, affascinati, cominciano a danzare vorticando lentamente e cantando sottovoce un coretto di ammirazione, pieno di «laralà-la-la». È questo uno dei punti più alti dell’opera, forse il più alto, dove la virtù benefica della musica viene celebrata non at­ traverso il nobile flauto di Tamino, con le sue reminiscenze gluckiane del mito di Orfeo, ma attraverso uno strumento popolaresco da baraccone, come quegli inverosimili organi meccanici da orologiai e quella Glas-Harmonika per cui Mo­ zart aveva scialato alcuni dei suoi ultimi capolavori. E qui che si coglie il senso ultimo del Flauto magico, e veramente profondo, non già perché sia astruso e grave, ma semplicemente perché, nella sua spontaneità sorgiva, è celato dietro il pomposo apparato delle intenzioni massoniche: è la rivin­ cita degli umili, dei poveri diavoli come Papageno, della gentarella viennese che la domenica affolla il Prater aggiran­ dosi tra la musica dei baracconi e delle giostre. Macché Sa­ rastro, macché saggezza superiore, macché rivelazione! La mente di Mozart può magari essere con loro; ma il cuore di

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Mozart è con Papageno. Trattare con compatimento questo episodio come una concessione edonistica al gusto popolare di Schikaneder e del suo teatro di barriera, e prendere sul serio soltanto il rataplan del prossimo arrivo di Sarastro e la pompa sacerdotale del suo canto, vuol dire esporsi al rischio di fraintendere il senso dell’opera, quello che è additato dai valori artistici e non annidato nelle intenzioni11. Cantarellando sommessamente al dolce suono del caril­ lon, Monostato e i suoi sbirri se ne vanno danzando e giran­ do su se stessi come burattini. Pamina e Papageno cantano una delle solite moralità: «Oh, se ogni brav’uomo potesse trovare simili campanelli! Ogni suo nemico sparirebbe, ed egli vivrebbe nella migliore armonia»; La melodia ha carat­ tere infantile e popolaresco, ed è caratterizzata, in fin di fra­ se, da una vistosa salita dalla sottodominante alla tonica. Il breve pezzettino è di forma ternaria, e nella sezione centrale le due voci si separano in imitazione a canone: unico caso, del resto modestissimo, di stile contrappuntistico in tutto questo Finale. La soddisfazione di Pamina e Papageno dura poco, per­ ché tosto, Allegro maestoso in do maggiore, scoppia con grande frastuono «una robusta marcia con trombe e timpa­ ni». Piu esattamente, le trombe sono questa volta «senza sordini» e i timpani «senza coperta». Sta per arrivare Sara­ stro, al quale inneggia un coro ancora fuori scena, con le no­ te del primo pezzo del giovanile Thamos, re d'Egitto. I colori smorzati fin qui usati nel Finale non hanno più motivo di es­ sere. Tutto diventa sfolgorante e strepitoso. Due volte il so­ lito trilletto inquieto dei violini primi ritrae, questa volta, il tremore di Papageno, mentre Pamina riconosce l’arrivo di 11 II Glockenspiel, probabilmente simile a un rozzo vibraphon, di lamine me­ talliche percosse, era suonato tra le quinte dal contrabbassista Pischlberger. Una sera, a una delle repliche, venne a Mozart la fantasia di suonarlo lui, e si diverti a suonarlo a sproposito, frastornando le entrate vocali di Schikaneder che stava sulla scena nel costume pennuto di Papageno. «Allora feci lo scherzo, dove Schi­ kaneder ha una pausa, io feci un arpeggio; si spaventò, guardò in scena e guardò me; alla seconda volta non lo feci piu; si fermò allora e non voleva andare avanti; io indovinai il suo pensiero e feci di nuovo un accordo, poi lui batté sulle cam­ pane e disse “serra la bocca”: tutti risero. Credo che da questo scherzo tutti han­ no saputo che non è lui che suona l’istrumento » (Ietterà a Costanza, 8 ottobre 1791).

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Sarastro. Papageno vorrebbe essere un topo per nasconder­ si, o una lumachina per strisciare nella propria casupola: e la melodia si rattrappisce comicamente entro un giro strettis­ simo di seconde minori. «Bimba mia - chiede Papageno che cosa diremo ora?» E Pamina risponde con una forte fra­ se drammatica, caratterizzata dall’ampiezza degli interval­ li (settima ascendente, ottava, settima discendente): «La ve­ rità, la verità, anche dovesse costarci la nostra rovina». L’ampiezza degli intervalli era prerogativa tipica dell’alto stile tragico nel melodramma serio. Giustamente rileva lo Chailley che da qui innanzi Pamina comincia a «desolidariz­ zarsi» dal buffonesco Papageno. {Scena diciottesima).

Anche qui si passa senza interruzione da una scena all’al­ tra. Su grande rimbombo della piena orchestra, in do mag­ giore, appare un corteo, al termine del quale avanza Sara­ stro, su un carro tirato da sei leoni della «menagerie» di Schikaneder, simbolo anch’essi, nel loro numero ternario di coppie, di chissà quali alti significati massonici. Il coro con­ tinua ad inneggiare con tutta l’orchestra, su armonia ele­ mentare di tonica-dominante, e può continuare indefinita­ mente, finché Sarastro non sia sceso dal suo carro. Cessa fi­ nalmente lo strepito trionfale ed ha inizio un Larghetto in fa maggiore nel quale compaiono in orchestra i corni di basset­ to, strumenti ad ancia della famiglia dei clarinetti, di cui Mozart era amantissimo. Il solito rintocco di cinque accordi, di cui conosciamo fin àdK ouverture il significato di preini­ ziazione, introduce la confessione di Pamina in ginocchio. E sfuggita a Sarastro per sottrarsi alle voglie indegne di Mono­ stato. La risposta di Sarastro, che la chiama «o Liebe», o ca­ ra, è benigna e affettuosa: il bel giro melodico echeggiato due volte da un tenero impasto di oboi e corni di bassetto, è uguale a quello di Tamino nell’Aria del ritratto (N. 3), che là era anticipato, con procedimento analogo, dai clarinetti. «Tu ami molto un altro, - le dice Sarastro. - Non ti voglio forzare all’amore, ma non ti rendo la libertà». Bisogna pro­ prio volersi acciecare con le proprie mani per dire, come fa l’Abert in una nota: «che Sarastro senta amore per Pamina

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CAPITOLO SETTIMO

non è dimostrato da nulla ed è lontanissimo dallo spirito del­ l’opera». Gli fa eco lo Chailley, il quale traduce disastrosa­ mente le suddette parole di Sarastro in questo modo: «Je ne te force pas à aimer Monostatos!»12. E chiarissimo che ci troviamo di fronte a un residuo della primitiva versione del­ l’opera, dove Sarastro era un mago cattivo che aveva rapito Pamina semplicemente perché s’era invaghito di quella bella ragazzina, e non pensava nemmeno lontanamente a salvarle l’anima ed introdurla nell’empireo degli iniziati. La situazio­ ne, ora, è la stessa, precisa, del Ratto dal serraglio, dove il Sultano è innamorato di Costanza, sua prigioniera, ma es­ sendo un animo nobile non vuole estorcerle amore con la forza. Gli studiosi suddetti sono talmente infatuati per la lo­ ro idea che non ci fu alcun capovolgimento della trama, e che Mozart fin dal principio pensava di costruire un elevato dramma di pensiero, che negano perfino l’evidenza, e, nel caso dello Chailley, non esitano a stravolgere il testo. Sarastro non rende la libertà a Pamina perché vuole ser­ barla alla purificazione e iniziarla ai misteri della saggezza suprema. Quando per la seconda volta le dice «ma non ti rendo la libertà», sull’avverbio «doch» (ma) la voce di basso di Sarastro cala ad un fa grave, messo là in grande evidenza per valorizzare le risorse vocali del basso Gerì, quello la cui mogliettina, impiegata nella piccante parte di Papagena, pia­ ceva tanto a Mozart. All’opera di Vienna il profondissimo «doch» di Sarastro è ancora adesso il «test» per i giovani bassi in prova. Che Sarastro fosse innamorato della cara Pa­ mina non è affatto fuor di luogo, e spiega il tono appassiona­ to, vibrante, della sua libera declamazione melodica, che qui si avvicina molto ai patetici toni wagneriani della « Absage», della rinuncia di quei maturi, ma non spenti amatori di don­ zelle che sono Wotan, Hans Sachs e Amfortas. Sarastro, tanto esaltato dai fautori della «serietà» massonica del Flau­ to magico, è già fin troppo un personaggio tutto d’un pezzo, un monocorde emblema di saggezza e di virtù, perché gli si debba togliere anche questa piccola nota distintiva d’avere un poco amato la tenera Pamina. Pamina si giustifica in nome del dovere filiale, riecheg12 CHAILLEY, Op. CÌt., p. 2z|O.

IL VUGGIO VERSO LA SAGGEZZA

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giando, con una lieve variante finale, il precedente giro me­ lodico che Sarastro aveva già maturato dall’Aria del ritratto di Tamino. Ora Sarastrowotan, dimostrando una spiccata propensione a interrompere il discorso dei suoi interlocuto­ ri, qualifica seccamente la Regina della Notte «ein stolzes Weib», una donna orgogliosa, ed esce nella prima delle mas­ sime antifemministe in cui ben presto sentiremo concretarsi uno dei punti fermi della dottrina massonica: «i vostri cuori bisogna guidarli, altrimenti ogni donna se ne va fuori carreg­ giata». Le ultime due battute di questo discorso sono indica­ te esplicitamente come «Recitativ», mentre prima si tratta di quel libero declamato melodico, integrato sostanziosa­ mente dal discorso orchestrale, che tanto viene pregiato da­ gli studiosi tedeschi. (Scena diciannovesima).

Se non proprio interruzione, una brusca rottura segnala la seconda irruzione di Monostato, che trascina Tamino pri­ gioniero. Viste decisamente sotto una luce di commedia, le furie del Moro portano una parentesi di moderata comicità nella quale verrà coinvolto per un momento perfino il grave Sarastro. Monostato è caratterizzato da una figura dei vio­ lini - Allegro in fa maggiore - che ribatte sei volte la domi­ nante (do) e cade ostinatamente, piu e piu volte, sulla tonica (fa), con piccole acciaccature. E un disegno insistente come la pioggia, e sembra proprio l’immagine musicale di chi arri­ va col dito alzato a muovere rimostranze e portare bambine­ sche accuse: «Ih! lui ha fatto questo! lui ha fatto quello! » Una bella trovata di Schikaneder è che Tamino non se ne curi affatto. Vede Pamina, che riconosce dal ritratto, Pami­ na lo vede per la prima volta, si riconoscono - «E lui! - E lei! - Ci credo appena! - Non è un sogno» - e li, coram populo, si abbracciano teneramente, incuranti della loro situa­ zione di prigionieri. Le furie di Monostato vanno alle stelle, e perciò riprende, in do maggiore, la pioggerella fastidiosa dei disegni discendenti che durante P abbraccio i violini ave­ vano sospeso un momento, per sostenere su figure arpeggia­ te le voci dei due innamorati. Come un arbitro di pugilato che ordini il «break» («Che sfacciataggine! Staccatevi subi-

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CAPITOLO SETTIMO

to! Questo è troppo! ») Monostato riesce finalmente a sepa­ rare i due colombi, e allora s’inginocchia davanti a Sarastro per chiedergli il castigo dei due sfrontati. Sempre, ben inte­ so, sul puntiglioso motivetto discendente, ora in sol minore: nel corso della scena esso viene ripetuto in tutto la bellezza di dicibtto volte, passando attraverso un giro di tonalità. «Tu mi conosci!, - dice il Moro con vanitosa piaggeria, - il mio zelo...» E Sarastro, col suo solito sistema di continuare le frasi cominciate dagli altri: «... merita che gli si conferisca un alloro». E volgendosi ai servi: «Ehi, date subito a questo brav’uomo...» Monostato fa il modesto: «Mi basta la tua grazia!» E Sarastro, di seguito: «... settantasette scudiscia­ te!» Tutta questa buffonesca invenzione di Schikaneder Mozart la fa scorrere velocissima sopra l’imperturbabile mo­ tivetto discendente delle smanie di Monostato, fino alla bat­ tuta finale, quando al lamento del Moro: «Ma signore, non speravo una simile ricompensa! », Sarastro conclude, compi­ tissimo e conciso: «Non c’è di che, dovere! » Mentre Monostato viene condotto via a ricevere il suo premio, un coro «sotto voce» elogia l’alta e imperscrutabile giustizia di Sarastro, nel solito stile di moralità sentenziosa. Con un breve recitativo Sarastro ordina ora che i due stra­ nieri, cioè Tamino e Papageno, vengano condotti nel tempio delle prove, col capo incappucciato, per esservi purificati. Si assiste all’imposizione del sacco (probabilmente con chissà quante smancerie da parte di Papageno-Schikaneder) men­ tre il coro attacca l’inneggiante finale, «Presto» in do mag­ giore, a piena orchestra, con rapide scalette, gran squillare di trombe e rimbombar di timpani: non un pezzo di grande impegno compositivo, ma un brillante e luminoso «per fi­ nire».

Capitolo ottavo Atto secondo, Quadro primo (Nn. 9 e io): Il tempio di Sarastro

N. p. Marcia dei Sacerdoti.

Il contenuto sacrale dell’opera, iniziato col Finale del pri­ mo atto, predomina ora e si espande largamente nel secon­ do, che si apre con una marcia solenne e grave, a guisa di in­ troduzione strumentale. Una marcia, ben inteso, che non ha nulla di atletico o di marziale, bensì introduce al misticismo eccelso del mondo degli iniziati. A detta dell’Abert, contie­ ne, accanto all’ovvio senso di elevatezza, «un tocco commo­ vente di malinconia, quale d’ora innanzi si avrà fino alla fine in tutti i canti degli iniziati». Un misto di solennità e di umano: ciò la distinguerebbe alquanto dal suo riconosciu­ to modello, la marcia dell’A/c^s/e di Gluck, forse del resto attraverso la mediazione della marcia d’ingresso di Tita­ nia nell’Oberon di Wranitzky che, secondo il Dent, è una «scandalosa imitazione» della marcia di Gluck1. Il carattere pacato e spirituale della presente marcia risul­ ta dalle sue caratteristiche esteriori: il movimento è Andan­ te; la strumentazione dà la prevalenza agli strumenti a fiato (gli archi esclusivamente in funzione di raddoppio), ma ne esclude quelli piu penetranti, come trombe e oboi: i masso­ 1 Cfr. sopra, p. 38. L’Abert reca in nota, senza indicare le fonti, una battuta scherzosa di Mozart che avrebbe respinto l’accusa di «furto» della marcia gluckiana dicendo che lui non aveva rubato niente: la marcia dell’AZcesfe era sempre là; con ciò avrebbe praticamente ammesso la derivazione. Inspiegabile, se non come una svista, che il minuziosissimo Hyatt King (op. cit., p. 152) parli a questo proposito di marcia Ifigenia in Tauride di Gluck. Egli ricorda pure, per ana­ logie tematiche con questa Marcia, le parole «Pietoso il ciglio» di Ferrando in Cosifan tutte (N. 29) e, in senso lato, la Marcia dell’Idorneneo, e due Divertimenti in fa maggiore (K. 247 nel sesto movimento, e K. 253 nel primo movimento). Sorprendente, ma del tutto occasionale, l’analogia con l’inizio della Sonata in la maggiore di Arcangelo Corelli, op. 5, N. 6.

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CAPITOLO OTTAVO

nici corni di bassetto e tromboni, insieme con corni, fagotti e un flauto producono un impasto velato e pieno nello stesso tempo. Ad ogni parte è prescritta la consueta indicazione: «sotto voce». Il tono è fa maggiore. La marcia è breve, e consta di due sezioni, la prima delle quali reca il segno di ri­ tornello, che però è forse meglio non eseguire, perché la se­ conda sezione, apparentemente lunga più del doppio della prima (20 battute contro 8), in realtà reca, dopo otto battu­ te, una ripresa variata della prima sezione, sicché, in seno al­ la bipartizione fondamentale si stabilisce una forma terna­ ria: A - B - A'. La variazione della ripresa consiste prima di tutto nello strumentale, che viene alleggerito in modo da esaltare la prevalenza dei fiati: in particolare i corni di bassetto restano per un momento, col flauto, soli veicoli del «cursus» musica­ le. Inoltre la prima sezione viene qui fornita di una termina­ zione diversa e più lunga (ecco perché abbiamo in tutto 28 battute e non 8 + 8 + 8): per tre volte (e manco a dirlo il nu­ mero è simbolico), flauto, corni di bassetto e violini primi, prima su un lungo do acuto, poi sul re, infine sulla tonica fa, aprono una frase che viene tosto integrata da una risposta interna, ben cadenzata nel ritmo di crome col punto, secon­ do quel principio di lieve accelerazione finale del ritmo di marcia che già avevamo rilevato nel terzetto dei Fanciulli, al principio del Finale I (cfr. sopra, p. 125). Al suono di questa marcia spirituale, dunque (che nella didascalia del libretto è chiamata «ein Marsch mit Blasinstrumenten», una marcia di strumenti a fiato), Sarastro e i Sacerdoti di Osiride entrano in scena e vi si dispongono. Va da sé che tutti i particolari scenici rispondono a una simbo­ logia massonica che a noi non preme approfondire: che la scena sia un «bosco di palme», tutte col tronco d’argento e le foglie d’oro, che vi siano diciotto seggi di foglie, su ognu­ no dei quali posa una piramide con un grande corno nero in­ castonato d’oro. Sarastro e i Sacerdoti devono entrare «a passi solenni», e ognuno dovrebbe recare in mano un ramo di palma: la palma è pianta solare, e nel rituale massonico è simbolo della vittoria contro la morte attraverso la risurre­ zione. Segue alla marcia una lunga scena parlata, come al solito

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abbondantemente sfrondata nelle esecuzioni, durante la quale Sarastro comunica ai colleghi la candidatura di Tami­ no, «un figlio di re», che «si aggira alla porta settentrionale del tempio», desideroso di «strappare da sé il velo della not­ te e spingere lo sguardo nel santuario della grande luce». Tutte le frasi sono cariche di significati simbolici, compreso il fatto che Tamino si presenti alla porta settentrionale del tempio e non a quella meridionale o d’altro punto cardinale: il nord è all’opposto del sole e Tamino vive ancora nella te­ nebra. Sarastro informa pure che gli dèi hanno destinato a Tamino «la dolce, virtuosa fanciulla» Pamina e questa egli dice - è «la ragione principale» (der Grundstein) per cui egli l’ha sottratta alla sua orgogliosa madre, che «si crede grande e spera di sommuovere il popolo con inganni e super­ stizione e distruggere il nostro saldo tempio». (Allusione alla politica antimassonica dell’imperatrice Maria Teresa? Ma era morta da undici anni!) Naturalmente la redazione del se­ condo atto viene dopo il rimaneggiamento dell’intera vicen­ da ed ora Sarastro può spiegare che soltanto un nobile fine l’ha indotto al ratto della ragazzina. Secondo il cerimoniale massonico, un primo, un secondo e un terzo Sacerdote s’informano se il candidato possiede le qualità prescritte - virtu, segretezza e carità - e Sarastro se ne fa garante, invitando i colleghi ad unirsi a lui, in segno di approvazione nella triplice fanfara di corni: in realtà è tutta la massa dei fiati a far echeggiare in orchestra tre volte, Ada­ gio, il triplice accordo (3x3 = 9) che avevamo sentito ricor­ rere, in maniera sorprendente, a metà ddK ouverture (cfr. so­ pra, p. 68). Questa cerimonia musicale dovrebbe ripetersi altre due volte, nel corso della scena in cui l’Oratore dei Sacerdoti muove a Sarastro le obiezioni di rito contro la candidatura di Tamino, attirandosi una programmatica risposta di stam­ po settecentesco («Ce la farà Tamino a superare le dure pro­ ve? E un principe». E Sarastro: «Di piu: egli è un uomo! ») Ma per l’energico sfrondamento a cui viene sempre sottopo­ sta questa scena recitata, la fanfara del triplice accordo ri­ suona una volta sola. Guai, ben inteso, se una malaccorta re­ gia la facesse risuonare due volte, distruggendo la simbolo­ gia del numero perfetto.

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CAPITOLO OTTAVO

N. io. Aria con coro. Accolta dunque la candidatura di Tamino, Sarastro into­ na l’aria in fa maggiore in cui invoca là benedizione di Iside ed Osiride sulla «nuova coppia». E un’aria con risposte co­ rali, secondo un modello responsoriale tipico d’ogni culto re­ ligioso, largamente adottato nel melodramma in ogni occa­ sione di preghiere sacerdotali: volendo, se ne possono vede­ re propaggini nella celebre preghiera del Mosè di Rossini, e pertanto in «Casta diva», e nel quarto atto dell’Aida. Il movimento è Adagio, la strumentazione assai singolare: corni di bassetto, fagotti, tromboni, viole (divise in prime e seconde), violoncello; niente violini, niente contrabbassi, niente trombe né flauti né oboi né corni. E chiaro il propo­ sito d’ottenere una sonorità quanto mai discreta e raccolta. La linea vocale, dice l’Abert, mostra «l’antica predilezione dei canti di basso per i grandi intervalli, a servizio d’un ele­ vato tono di predicazione»: l’intervallo discendente di set­ tima ricorre infatti con frequenza (batt. 13-14, 17-18, e an­ che batt. 10-12, sia pure «riempito» da altre note di passag­ gio; a batt. 15 l’intervallo ascendente di settima). «La forma - scrive l’Abert - è bipartita, ma la seconda parte ritorna quasi impercettibilmente alla melodia della pri­ ma». Piu esattamente, la forma si potrebbe indicare come: A + A'-B + A', Ossia, alle parole «nehm sie in euren Wohnsitz auf» comincia una ripresa parziale di A, preso non dal principio bensì a metà (alle parole: «stàrkt mit Geduld sie in Gefahr»), là dove la linea melodica inizia una maestosa discesa, per gradi congiunti, fino a toccare di nuo­ vo il famosograve. Poiché le parole, che si dice attingano largamente al ro­ manzo Séthos dell’abate Terrasson, accennano all’eventua­ lità che il candidato possa soccombere alla difficoltà delle prove ed invocano che in questo caso, morendo prematura­ mente, possa giungere alla beatitudine della dimora celeste di Iside e Osiride, l’Abert suggerisce che in quest’aria, cosi nobile e severa, abbia a vedersi una specie di «religiòses Selbstbekenntnis », una professione di fede religiosa di Mo­ zart, con riferimento alla celebre lettera del 4 aprile 1787 in

IL TEMPIO DI SARASTRO

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cui scriveva al padre d’essersi familiarizzato con l’idea della morte, «questa vera e ottima amica dell’uomo», la cui im­ magine ormai non aveva per lui piu nulla di spaventoso, «ma qualche cosa di tranquillizzante e consolante». «Beruhigendes und tròstendes»: i due gerundi rendono benissimo il senso della preghiera di Sarastro. Ma quest’ipotesi va cor­ retta con l’osservazione dello stesso Abert che, sebbene l’e­ spressione melodica si increspi per una leggera intensifica­ zione («Steigerung») là dove si fa menzione delle prove e dei pericoli che sovrastano alla giovane coppia (al principio della seconda sezione si sfiorano le tonalità di sol minore e fa minore), l’aria è però interamente spoglia di patos: solen­ nemente ieratica. Il disagio della confidenziale confessione romantica, il sudaticcio del «troppo umano» sono sempre le mille miglia lontani dall’atmosfera o fiabesca o sacrale del Flauto magico.

Capitolo nono

Atto secondo, Quadro secondo (Nn. n e 12): Intermezzo ambiguo

Il prologo sacrale del secondo atto è finito. Sarastro si al­ lontana per un poco dall’azione, e anche se rimangono due Sacerdoti, i personaggi umani della vicenda ritornano in pri­ mo piano. In un vestibolo del tempio, ingombro dei ruderi simbolici di colonne e piramidi crollate, «presso ad alcuni cespugli di spine», Tamino e Papageno vengono introdotti dallo Sprecher e da un altro Sacerdote. E notte fonda, e al­ cuni terribili scoppi di tuono aumentano la paura di Papage­ no che la manifesta con le solite buffonate. (« Sii uomo! » lo ammonisce Tamino. E lui: «Vorrei essere una ragazza!»). I due Sacerdoti interrogano Tamino sulla sua volontà di affrontare fermamente le prove, per conquistare i doni del­ l’amicizia e dell’amore di Pamina. Poi interrogano anche Pa­ pageno, al quale promettono una giovane e bella Papagena, se supererà le prove, anche a costo di non temere la morte. «Resto celibe!» dichiara subito Papageno, e fa la propria professione di fede, simile a quella di Margutte nel Morgante maggiore, e tuttavia meno ignobile: «Combattere non è affar mio. E in fondo non me n’importa niente nemmeno della Saggezza. Sono un uomo naturale, che si contenta di dormi­ re, mangiare e bere; e se poi potessi anche una buona volta acciuffare una bella donnina...» Ossia, Papageno è l’uomo comune, senza virtu eroiche e senza malvagità: il buon vien­ nese pacifico, che campa all’insegna del vivere e lasciar vive­ re, ultima e degenerata incarnazione dell’uomo di natura rousseauiano («ich bin so ein Naturmensch»).

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N. ii. Duetto. I due Sacerdoti intonano un brevissimo Duetto, che è ta­ le per modo di dire, poiché le due voci non dialogano mai, ma procedono sempre insieme, per terze e seste, costituen­ do i due individui un unico personaggio collettivo. Questo pezzo, Andante in do maggiore, in tempo di 4/4 tagliato, e perciò abbastanza rapido, appare curioso per più aspetti, a cominciare dalla sua miniaturistica brevità. Diciamo subito che il piglio convenzionalmente settecentesco della melodia induce qualche perplessità. Si fatica un poco a seguire l’A­ bert nella sua interpretazione, che vi scorge un senso di «pe­ netrante ammonizione» e anche «enfasi sacerdotale», nella ripetizione delle severe parole «er fehlte» (egli sbagliò), sor­ rette da note doppie di flauti, oboi e fagotti, e accuratamen­ te separate da due incisi degli archi. Anche il Labroca parla di «melodia autoritaria e ammonitrice» e «dominata da un senso religioso». A dire il vero, questa melodia a noi sembra un po’ arcadica e convenzionale. Argomento del Duetto è l’ammonizione contro le insidie delle donne; e sembra quasi che la frivolezza del pericolo segnalato stinga un poco sul to­ no severo ma non troppo dei due predicatori. Lo Staccato con cui si conchiude il duetto non ci convince mica tanto dell’energia sacerdotale che vi scorge l’Abert, secondo il quale «non si potrebbe sottolineare più acutamente l’ineso­ rabilità del destino » di chi cede alle lusinghe femminili ed avrà cosi come ricompensa «morte e disperazione». Lo Stac­ cato della conclusione strumentale potrebbe benissimo esse­ re inteso in senso galante, e tutto quanto il duettino dei Sa­ cerdoti sembra quasi far da ponte, nella distribuzione gene­ rale del secondo atto, tra la severità iniziatica del primo qua­ dro e il tono mondano del prossimo Quintetto, in cui faran­ no la loro ricomparsa le tre frivole Damine della Regina del­ la Notte. Un’ipotesi interessante propone lo Chailley, al quale que­ sto Duetto pare si svolga «sans grande recherche», pur rico­ noscendogli anch’egli una «atmosfera generale di cantico», cioè di inno religioso, che noi abbiamo difficoltà a scorgervi. Ma lo Chailley ci ricorda che esiste una lettera di Mozart a

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Costanza, dell’n giugno 1791, nella quale egli le annuncia di aver composto un pezzo dell’opera «avec bien de l’ennui». Veramente Mozart dice «per pura noia» («aus lauter Langer Weile»), e dice «un’Aria dell’opera», mentre qui si tratta di un duettino. Però la lettera finisce buffonescamen­ te con le parole di conclusione del duetto: «Tod und Verzweiflung was sein Lohn» («ti bacio mille volte e dico in pen­ siero con te: Morte e disperazione fu la sua ricompensa! »). Forse non è troppo arrischiato scorgere in questo brevissi­ mo, e un po’ insignificante duettino, il pezzo scritto da Mo­ zart 1’ 11 giugno, «per pura noia». Da rilevare, come fanno tutti i commentatori, l’improv­ visa modulazione, o piuttosto l’improvvisa irruzione non preparata del tono di mi maggiore, alla parola «vergebens» (invano), là dove s’inizia a descrivere il tardivo rimorso di colui che ha ceduto alle lusinghe femminili.

N. 12. Quintetto. La vicenda ridiscende sul piano fiabesco, o, piu semplicemente, umano, e si riproduce lo stesso tipo di Quintetto del primo atto (N. 5): Tamino, Papageno e le tre Dame della Regina della Notte, che qui si suppone scaturiscano dalla terra, come divinità wagneriane. Là il duetto era in si be­ molle, qui nel tono «chiaro e cordiale» - dice l’Abert - di sol maggiore. Dopo la gravità ieratica della marcia dei Sacer­ doti e dall’aria di Sarastro, il Quintetto reca una benefica distensione: non solo per il tono frivolo irresistibilmente in­ dotto dalle tre Damine, ma anche - strano a dirsi - per la sua durata. Marcia dei Sacerdoti e aria di Sarastro erano d’una brevità telegrafica: si direbbe che Mozart e Schikane­ der temessero il pericolo insito nella solennità filosoficheggiante del cerimoniale, la noia, e si premunissero con forme musicali brevissime. Ma la grandezza musicale di Mozart è tanta, che con lui (come col Rossini comico) avviene il con­ trario di quanto generalmente si esperimenta nel teatro d’o­ pera: la lunghezza è benvenuta, il comodo sviluppo delle forme musicali reca piacere, invece di far perdere la pazien­ za come generalmente avviene. Nozze di Figaro, Il ratto dal

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serraglio, Cosi fan tutte, Il Barbiere di Siviglia, Cenerentola, L'Italiana in Algeri, sono fra le pochissime opere che si vedo­ no avvicinare alla fine con rimpianto e si vorrebbe che non finissero mai. Tale è la parte fiabesca e umana del Flauto magico. Secondo il Labroca il presente Quintetto è «il momento cruciale dell’opera», in quanto segna la defezione di Tamino dalla Regina della Notte. Consta di due sezioni, la prima im­ periosa, quando le Dame rimproverano Tamino e Papageno e li mettono in guardia contro i pericoli che li sovrastano per essersi inoltrati nel vestibolo del tempio di Sarastro, antica­ mera delle terribili prove di iniziazione; la seconda parte è «dolente e rassegnata», quando le Dame si rendono conto che non c’è niente da fare contro la fermezza di Tamino. L’Abert giudica la struttura formale del Quintetto molto rilassata, e certamente lo stile è quello leggero di Serenata, non sinfonico. Le idee non sono sviluppate secondo un cri­ terio sonatistico, bensì ripetute e giustapposte. Una però ve n’è che, ritornando sei volte nella prima parte, fa quasi da motivo conduttore e spiega il significato fondamentale della scena: potremmo chiamarla il «motivo della seduzione», e consiste in una dolce figura di cinque note ascendenti dei violini primi, ognuna raggiunta con ampio e variabile inter­ vallo da una nota base (il re in tono di sol maggiore) e antici­ pata, per cosi dire amplificata da una semiminima dei flauti. Inaccettabile l’impressione dell’Abert che si tratti di un «italianisierende Buffomotiv»: sarebbe ben difficile trovare qualcosa di simile nell’opera comica italiana, e in ogni caso potrebbe trattarsi soltanto di analogie esteriori: il clima ae­ reo e quasi fatato di questo inciso strumentale è per sua na­ tura estraneo al realismo comico italiano. Argomento del Quintetto è il tentativo di vincere il mu­ tismo di Tamino e Papageno, impegnati al silenzio dalla pro­ messa fatta or ora all’Oratore e al secondo Sacerdote. Come indurre in tentazione due che non vogliono parlare? Chiac­ chierando esse stesse a perdifiato, in un cicaleccio del tutto femminile. Di qui la lunghezza e la verbosità, mai prolissa, del Quintetto. Iniziano il Quintetto le Dame, aggressive, con una dop­ pia frase acuminata e categorica. L’Abert nota più avanti

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con quanta scaltrezza Schikaneder abbia rifornito abbon­ dantemente il compositore, in tutto il Quintetto, della vo­ cale «i». «Wie? wie? wie?» (come?), chiedono indignate le Dame. E tosto ribattono: «Nie, nie, nie» (mai). Poi inter­ viene il tema strumentale della seduzione, e il canto femmi­ nile si addolcisce, quasi per la pietà che provano le Dame a vedere Tamino votato alla morte e Papageno perduto. Que­ st’ultimo rompe subito la consegna del silenzio, protestan­ do che non ne vuol sapere e Tamino lo richiama all’ordine («Schweige stili»: Taci, zitto), modulando in re maggiore. Ciò permette a Papageno di ribattere in la maggiore, per ri­ tornare poi a re maggiore quando sbuffando e brontolando, in un movimento di irosa ninna-nanna, ripete esasperato l’ammonizione di Tamino: «immer stili, und immer stili» (sempre zitto). E qui è vero che, come dice l’Abert, intervie­ ne «ein italienischer Buffoton». Le idee musicali si accendono l’una dall’altra. Su una fi­ gura ascendente, tosto ripetuta una terza piu su, le Dame in­ formano Tamino e Papageno che la Regina della Notte è vi­ cina, essendo entrata segretamente nel tempio di Sarastro. La notizia agita assai Papageno, per il quale, tutto sommato, la Regina resta pur sempre la padrona: nei violini si dibatte un trillo irrequieto, che svolazza qua e là, come un moscone impazzito. A voler spingere molto avanti le similitudini si potrebbe anche supporre che la ferma linea disegnata invece dai bassi e dai fagotti, oscillante intorno alla tonica (ré) nello stretto spazio d’una terza minore, si richiami alla stretta me­ lodia circolare di Papageno nel Finale I, quando all’arrivo di Sarastro egli si augurava di essere un topo per nascondersi. Riappare, come un arcobaleno, il tema della seduzione (e modula da sol maggiore a do maggiore), punteggiando le sup­ plichevoli esortazioni delle Dame: «Tamino, senti, sei perdu­ to! Pensa alla Regina! Molto si sente sussurrare della falsità di questi sacerdoti». La risposta, o piuttosto il commento di Tamino (poiché viene indicato «fur sich», cioè «a parte»), «un saggio non dà peso a ciò che dice il popolino», suona cosi arida e «quasi farisaica», che secondo l’Abert si ha l’impres­ sione che il compositore si faccia beffe della banalità del poe­ ta. Ardua supposizione. Le Dame continuano il loro lavorio di insinuazione, toccando di passata anche la tonalità com-

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movente di la minore. Il testo di Schikaneder parafrasa i luo­ ghi comuni antimassonici dell’epoca, ivi compresa la assicu­ razione che chi si associa al patto di questi ingannevoli Sacer­ doti «se ne va all’inferno dritto e filato». Questo suscita quasi uno scoppio di collera in Papageno, che chiedendo a Tamino se questo è vero, tocca per un momento la pateticissima tona­ lità di sol minore. La risposta sprezzante di Tamino («Chiac­ chiere riferite da donne, ma inventate da impostori») riporta il tono di sol maggiore; ma ci stupisce un poco che contempo­ raneamente risuoni il solito, lusinghevole «tema della sedu­ zione». Il fatto è che non bisogna chiedere a un Singspiel di Mozart un meticoloso impiego di motivi conduttori alla ma­ niera wagneriana: le esigenze formali della struttura musicale hanno la precedenza sulla pittura delle situazioni. La replica di Tamino alle paure del suo compagno si fa energica, dura, ribadita com’è in orchestra da due impreviste staffilate dei violini: una terzina di semicrome ascendenti dal­ la dominante alla tonica, e una quartina di biscrome che con­ tinuano l’ascesa dalla tonica (sol) alla dominante (re). Siamo giunti alla svolta del Quintetto: le Dame comprendono che con la fermezza di Tamino non c’è niente da fare, allora smet­ tono le minacce e le ammonizioni e tentano la via delle moine. Il loro terzettino, su un accompagnamento orchestrale rare­ fatto, diventa, come dice l’Abert, un «Sirenengesang», un canto di Sirene: «Perché sei cosi scontroso con noi?» chiedo­ no a Tamino. Più niente ritmi puntati, più niente aggressive linee ascendenti, ma una successione lievemente discendente di dolci triadi modulanti da sol maggiore a re maggiore. Men­ tre Tamino fa segno che non può parlare, Papageno è subito commosso e sussurra alle Dame che lui vorrebbe bene, ma Tamino lo interrompe con un brusco « Stili! », zitto! L’orche­ stra, invece, ripete per cosi dire a vuoto l’accompagnamento rarefatto del «canto di Sirene» e l’Abert trova che è come se fosse il «Nachhall», l’eco che ne rimane nel cuore dei due uo­ mini: «armonia e accompagnamento rimangono, solo manca la melodia». Papageno comicamente si associa al rimprovero di Tamino: «E davvero una vergogna per me che io non possa smetterla di chiacchierare! » Rispetto alla prima parte del Quintetto il materiale musi­ cale è tutto rinnovato: sparito il motivo della seduzione, la

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prima Dama si stacca dal canto sillabato delle altre due e si slancia, insieme ai violini primi, in un ardito giro melodico. Poi le voci si uniscono stranamente tutte cinque nella vigo­ rosa sentenza: «L’uomo è di fermo spirito: pensa quello che deve dire». Tamino e Papageno la enunciano come un pro­ gramma d’azione; le Dame, forse, come una rassegnata con­ statazione. Certo è che, come dice l’Abert, esse non prendo­ no troppo sul tragico il loro insuccesso e cosi è possibile alle voci di mescolarsi teneramente, o tutte cinque insieme, o, peggio, tre contro due, ma non secondo i sessi e le parti in causa, bensì secondo ragioni di pura distribuzione musicale, la terza Dama insieme con Tamino e Papageno. A rompere il grazioso coretto d’addio tuona opportuna­ mente dall’interno, con una brusca rottura tonale, in do mi­ nore, il coro terribile dei Sacerdoti («Profanata è la sacra so­ glia, giu le donne all’inferno! »). Tutti gli strumenti dell’or­ chestra, compresi trombe, tromboni e timpani, intervengo­ no negli accordi sincopati di settima diminuita. Per un mo­ mento, come dice l’Abert, si raduna un nuvolone di terribi­ lità, come per l’apparizione della statua del Commendatore nel Don Giovanni: sulle note dell’accordo di settima dimi­ nuita precipitanti per due ottave nei violini primi, le tre Da­ me spariscono, dongiovannescamente, nella botola del pal­ coscenico, e ai loro lamenti fa eco, in un sol minore comica­ mente lamentoso, il triplice lamento di Papageno, che crolla al suolo, svenuto per la paura. Una didascalia del libretto dice che qui dovrebbe risuona­ re di nuovo il triplice accordo dei Sacerdoti, cosa che invece non si fa mai. Appaiono con fiaccole l’Oratore e il secondo Sacerdote. L’Oratore elogia Tamino per la vittoria riportata dal suo fermo comportamento e gli impone di nuovo il cap­ puccio per avviarlo alle ulteriori prove che lo aspettano. Lo stesso fa il secondo Sacerdote col riluttante Papageno, il quale, imitando sempre in maniera imperfetta le vicende dei personaggi nobili, ha avuto anche lui il suo bravo svenimen­ to (cioè la morte simbolica attraverso cui bisogna passare per accedere alla rivelazione della saggezza), come Tamino, e, prossimamente, Pamina, o piuttosto, non è veramente sve­ nuto, ma dice comicamente di esserlo. Anche lui viene in­ cappucciato e condotto via dal secondo Sacerdote.

Capitolo decimo Atto secondo, Quadro terzo (Nn. 13-15): Intermezzo notturno

N. zj. Aria di Monostato. Nuovo cambiamento di scena: un bel giardino con alberi disposti a ferro di cavallo, in mezzo una pergola fiorita, sot­ to la quale riposa Pamina, addormentata. La luna le illumina il volto. Monostato viene avanti cautamente. È la scena fis­ sata dal pittore romantico Moritz von Schwind, in uno dei piu celebri fra i suoi quadri sul flauto magico, conservati al? Opera di Vienna. Il monologo parlato di Monostato, che getterebbe una lu­ ce negativa sul personaggio, viene generalmente omesso. Restando solo le parole della breve e rapidissima aria, è im­ possibile attribuirle il carattere bieco e sozzo che l’Abert vuole scorgervi. Monostato rappresenterebbe, a differenza di Papageno, «l’amore nella sua forma piu bassa e stravolta, come volgare libidine». Contrariamente al parere espresso dall’illustre studioso, ci pare proprio che anche qui Mozart abbia continuato a «giocare ironicamente con le potenze del male», come nel Quintetto precedente. Le parole del povero Monostato, che in sostanza rivendica anche per un brutto nero il diritto d’a­ mare una donna bianca, ci trovano pienamente consenzien­ ti, e piu che mai si avvalora in noi il sospetto che dietro a Monostato, col suo ridicolo aspetto da moro del teatro dei burattini, ci stia davvero in filigrana l’immagine di quel sim­ patico uomo di colore, Angelo Soliman, cosi benvoluto nella Vienna elegante dell’epoca e marito - guarda un po’ - di una olandese, forse di bianchissima carnagione. Più che di un’aria d’opera, si tratta d’una canzonetta, di semplicistica struttura ternaria, come i couplets di Papageno nel primo atto. «Quel tanto di infantile che è nel tema - os­

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serva giustamente il Labroca - e quel tanto di meccanico che è nella costruzione sono i riflessi in musica della primi­ tività del personaggio». L’aria è in do maggiore, velocissi­ ma, Allegro in 2/4, da suonare «sempre pianissimo». Il li­ bretto prescrive: «tutto viene cantato e suonato cosi piano, come se la musica fosse molto lontano». Perciò, sebbene il piglio leggermente esotico della melodia e del ritmo ci faccia pensare al personaggio di Osmino, è vero quanto l’Abert os­ serva che qui non c’è nulla delle rumorose esplosioni di col­ lera del guardiano del Serraglio. Meglio d’ogni altro ha colto il carattere del pezzo il Saint-Foix, il quale, osservando che Monostato non ha accenti forti e repugnanti, scorge qui una «scena notturna trattata con prestezza comica, non priva d’una punta d’esotismo, e dove l’ottavino stridente viene ad aggiungere qualcosa di brillante». Caratteristica strumentale del pezzo è infatti l’impiego dell’ottavino, per l’unica volta in tutta l’opera, sempre all’unissono col flauto e coi violini primi. L’aria consta di due strofe identiche, tripartite. La prima frase (già anticipata nell’introduzione orchestrale) viene im­ mediatamente ripetuta, e mentre la prima volta chiude sulla tonica (do), la seconda volta si apre sulla dominante, per­ mettendo cosi la brevissima sezione centrale in sol maggio­ re. Poi ripresa della sezione prima, non identica, però, per­ ché la frase non viene più detta due volte e viene pertanto prolungata ripetendo in tutto quattro volte la conclusione. Soltanto la testa del tema iniziale, poi deviato verso altri esi­ ti di infantile semplicità, riproduce in do maggiore l’inizio del Rondeau, in mi bemolle maggiore, del Concerto per pia­ noforte K. 271, con l’ostinato ritorno sulla tonica. Se è evidente, da una parte, il richiamo a Osmino del Ratto dal serraglio, per il tocco di lieve esotismo (non ci sono i soliti ingredienti strumentali della «musica turca», piatti grancassa e triangolo, ma par quasi di sentirli con l’immagi­ nazione), d’altra parte il fruscio rapidissimo della canzonci­ na di Monostato fa pensare in qualche modo all’«aria dello champagne» di Don Giovanni, e in questo senso l’Abert ve­ de giusto quando parla di «frizzante scintillio, che anche al­ l’ascoltatore fa scorrere caldo il sangue nelle vene e fa vibra­ re i nervi».

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Scena ottava e N, 14. Aria della Regina della Notte.

Quando Monostato sta per ghermire Pamina, appare di sottoterra, da una delle botole di cui era ricco il palcoscenico di Schikaneder, la Regina della Notte. Pamina ridestandosi riconosce la madre e la chiama, e Monostato si nasconde ad origliare. Il lungo colloquio tra madre e figlia viene di solito ridotto ai minimi termini. La Regina chiede a Pamina noti­ zie del giovane che aveva mandato a salvarla, apprende che è passato al campo nemico, e allora pone in mano alla figlia un pugnale perché con esso vada ad uccidere Sarastro, senza di che Tamino sarà per lei perduto. Secondo certi commentatori è invece importantissimo il dialogo tra le due donne, dal quale si apprendono le ragioni dell’odio della Regina per Sarastro: essa sarebbe stata de­ fraudata della sua potenza quando il padre di Pamina, mo­ rendo, aveva lasciato moglie e figlia eredi di tutti i suoi teso­ ri, eccettuata una certa «collana del Sole che tutto arde», da lui destinata invece a Sarastro, il quale l’avrebbe saputa «usare virilmente» come lui. C’è qui sotto una simbologia massonica, con la consueta sfumatura di razzismo sessuale: La Collana del Sole è simbolo della Saggezza suprema dalla quale sono di norma escluse le donne (con l’eccezione di Pa­ mina che se la conquisterà attraverso le prove d’iniziazione). Nella tragica tonalità di re minore ha inizio cosi la secon­ da aria della Regina della Notte, l’aria della vendetta, o piu esattamente, della sete di vendetta. Il personaggio ritrova quella che il Paumgartner chiama l’« inaccessibile, gelida lu­ centezza stellare» dei suoi vocalizzi sopracuti, il dinamismo di grandi intervalli propri dello stile tragico, l’esasperazione del virtuosismo di coloratura a scopo espressivo. Gli acuti non sono prodezze sportive, ma gridi di rabbia, una rabbia fredda che sembra sempre stia per esplodere in una crisi d’i­ sterismo. Il tono di re minore colloca senza equivoci l’aria nel pano­ rama dell’espressività mozartiana. E il tono del più grande fra i Concerti per pianoforte K. 466, considerato come la più alta affermazione del «demoniaco» mozartiano. E ad esso richiama esplicitamente, all’inizio dell’aria, la rotolata di tre

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biscrome con cui violoncelli e bassi, nella seconda battuta, si avventano sulla tonica: il medesimo stilema si trova pure ab­ bondantemente usato all’inizio di quel Concerto. E lo si tro­ va pure nell’aria del Don Giovanni in cui Donna Anna chie­ de vendetta al Conte Ottavio contro il perfido che l’ha ol­ traggiata («Or sai chi l’onore rapire a me volse»). L’aria di Donna Anna è in re maggiore, con un passaggio in re mi­ nore. Se paragoniamo la seconda aria della Regina della Notte con la prima (cfr. N. 4, p. 91), constatata l’analogia della tecnica vocale di «coloratura», vedremo che la prima aria, in si bemolle maggiore, era piu complessa ed estesa, facendo susseguire prima un recitativo, poi un Larghetto espressivo e commovente in sol minore, infine l’Allegro virtuosistico, alla fine del quale si scatenano le prodezze del picchiettato vocale, toccando infine il record di altezza del fa sopracuto. La presente aria, invece, è più corta e raccolta, tutta in tem­ po di Allegro assai, e le prodezze vocali costituiscono il nu­ cleo principale dell’una e l’altra delle due sezioni di cui è composta. Il fa sopracuto non viene più soltanto raggiunto una volta, come un traguardo supremo, bensì toccato e pos­ seduto fermamente per ben quattro volte nella prima sezio­ ne dell’aria. La seconda sezione non spinge più la voce cosi in alto (soltanto al re sopracuto, da toccare quattro volte a distanza ravvicinata e declinando poi attraverso il do a livel­ li più respirabili), ma in compenso è ancor più grande l’esi­ genza di agilità. Abbondano gli ampi intervalli, tragici, specialmente di quarta e sesta, in particolare la cosiddetta sesta napoletana (accordo di terza minore e sesta minore sulla sottodominan­ te). Si veda per esempio la discesa della voce sulle parole «flammet um mich her! » (batt. 8-10): sulla sottodominante (sol, nei bassi) i violini edificano la sesta napoletana con la terza minore (si bemolle) e la sesta minore (mi bemolle). Questo punto pone termine all’introduzione in re mino­ re. Qui una potente transizione orchestrale di tre note porta nel tono relativo maggiore (fa) in cui si svolge il nucleo del­ l’aria, scatenandosi ben presto la girandola dei vocalizzi pic­ chiettati, dove si esige dalla voce umana una secca purezza e precisione di Staccato strumentale. Fiati e archi si alternano

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nell’accompagnamento, quasi a tendere una rete protettiva sotto le spericolate acrobazie vocali, con l’accorgimento che nei punti piu vertiginosi l’accompagnamento si assottiglia in lievi accordi staccati di flauti e oboi. Ha inizio ora, sempre in fa maggiore, la seconda sezione dell’aria, e la vertiginosa ebbrezza dei vocalizzi cede il passo per un poco a un canto piu drammaticamente espressivo: la maledizione della figlia, appena pronunciata nei gorgheggi precedenti («so bist du meine Tochter nimmer mehr», cosi non sarà mai più mia figlia), viene ora ribadita e sviluppata secondo le leggi della retorica: «Sii scacciata per sempre, sii abbandonata per sempre, infranti siano per sempre tutti i vincoli della natura!» La melodia si fa più sobria e incisi­ va: scolpisce e morde la parola nella ripetizione della tonica: ventitré fa consecutivi, sottolineati per tre volte da un salto d’ottava, mentre invece un disegno ascendente mareggia di continuo in orchestra (archi e fagotti; invece flauti oboi e corni fissano anche loro la tonica, un prolungato appoggio alla voce). Da questo furioso martellamento della tonica si esce con una figura sinuosa di quattro minime (sulle parole «Bande der Natur») che giustamente l’Abert ricollega ad un altro dei grandi momenti «demoniaci» di Mozart: lo sdegnoso ri­ fiuto del Commendatore all’invito di Don Giovanni: «Non si pasce di cibo mortale». A questo punto i bassi iniziano una salita cromatica che dal primitivo fa li porta al la, in­ staurando nel passaggio un episodio in sol minore. Col ritor­ no della tragica figura di quattro minime si approda a uno strano, imprevisto la maggiore, e qui termina la vocalità di ti­ po drammatico, gluckianamente incisivo, per lasciare di nuo­ vo il passo ai prodigi della coloratura. Oscillando ad ogni battuta tra la maggiore e re minore la voce si libra in un’ae­ rea ghirlanda di terzine, non picchiettate né eccessivamente acute, che pongono tutt’altro genere di difficoltà d’emissio­ ne. Il picchiettato virtuosistico viene ben presto stimolato e provocato dai violini primi con un arpeggetto ascendente Staccato di re minore, sulla cui imitazione si lancia subito la voce, cui si unisce in un pericoloso unissono il flauto solo. Sempre saltellando e picchiettando la voce degrada cosi dal­ le altezze sopra il rigo, per rientrare, con la conclusione del­

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l’aria, nello stile del canto tragico a grandi intervalli. Riap­ pare la sesta napoletana dell’inizio, col medesimo arpeggio discendente di una sesta. Riappaiono negli archi le pesanti staffilate delle terzine di semicrome che rotolano sulla toni­ ca, come nel Concerto K. 466, riappare ancora una volta (sulla parola «Rachegótter! ») la sesta napoletana con l’ar­ peggio di sesta discendente, e la voce chiude sulla dominan­ te (la), incaricandosi l’orchestra di riportare la tonica con una poderosa ascesa a cui prendono parte, oltre agli archi, le trombe e i legni, sopra un rullo di timpani. I corni suggella­ no soltanto la chiusa, mentre la Regina della Notte rispro­ fonda nella botola da cui era sorta. Breve, raccolta e scattante, l’aria non è certamente da in­ tendere come un puro saggio di virtuosismo vocale; secondo l’Abert, nei salti energici dei suoi ampi intervalli e nel suo «selvaggio tremolio» si manifesta «un demoniaco odio scin­ tillante», che ne fa «il pezzo piu appassionato dell’opera» e una delle somme realizzazioni di Mozart nel terreno dell’al­ to patos. E tanto maggiore è la sua efficacia drammatica, se si pensa che essa non è un’aria chiusa in sé, circoscritta nel personaggio che la canta, ma è una selvaggia esortazione alla povera Pamina, un mostruoso incitamento all’omicidio. Non ha torto lo Chailley quando afferma che in certo senso Ilflauto magico è centrato sul «dramma del passaggio di Pa­ mina da un universo all’altro»1: da quello notturno della madre a quello solare di Sarastro. N. jj. Aria di Sarastro.

Secondo un’ovvia strategia teatrale, le due arie virtuosi­ stiche della Regina della Notte sono entrambe appoggiate a pezzi di tutt’altra espressione: la prima segue alla tenera «Bildniss-Arie» di Tamino; alla seconda segue la serena e lu­ minosa aria di Sarastro detta comunemente, dalle prime pa­ role del testo, la «Hallen-Arie». Sparita la Regina della Notte, Pamina resta sgomenta, col pugnale che la madre le ha ficcato in mano, quando MonoCHAILLEY, Op. CÌt., p. HO.

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stato esce dal suo nascondiglio, per tentarla di nuovo, e rice­ vuto un altro rifiuto sta per ucciderla col suo stesso pugnale quando appare Sarastro e lo allontana. L’aria di Sarastro è la celebrazione idilliaca delle «heiligen Hallen», delle sacre mura, o portici, della contrada feli­ ce degli iniziati alla Saggezza, dove non si conosce la vendet­ ta, dove regnano amore e fratenità, e i fratelli procedono uniti, la mano nella mano, verso una terra migliore. Per una volta tanto Sarastro, che parla alla spaurita Pamina, è più paterno che ieratico e sembra scendere un poco dall’esclusi­ vismo della sua monolitica virtù. Da questo ad affermare, come fa qualcuno, che Sarastro è «il personaggio più profon­ do che Mozart abbia mai creato per la scena», o peggio, che è «una delle personalità più reali che siano mai state create in musica»1 ci resta una bella differenza, e accetteremo ben volentieri l’affermazione dello Chailley, che «Sarastro è un personaggio statico, quasi un’astrazione. Non conosce pas­ sioni né peripezie»1 2. Anche l’aria di Sarastro è un’aria per modo di dire: un’a­ ria a couplets, di due strofe uguali, come quella di Monosta­ to, perciò appartiene al genere austriaco e popolare del Lied, non già a quello dell’aria d’opera italiana, per la quale era d’uso la tripartizione. Ma, scrive l’Abert, se il genere è quel­ lo del «deutscher Volks ton » si tratta di un tono popolare tedesco nobilitato al massimo. Il tempo è un Larghetto in 2/4, molto lento e soprattutto tranquillo; il tono è quello chiaro, ed insolito, di mi maggiore; le armonie regolari e co­ stanti (quasi sempre la successione di tonica, sottodominan­ te, dominante, tonica, quale si può osservare fin dalle prime quattro note dei bassi nella brevissima introduzione). Osser­ va giustamente il Labroca che, dopo tanto Staccato e pic­ chiettato nell’aria della Regina, e dopo tanto sfoggio di ampi intervalli tragici, il canto di Sarastro è calmo, diatonico, pro­ cede per gradi congiunti, prevalentemente Legato. Lo stru­ mentale è leggero: flauti e, più parcamente, fagotti e corni oltre agli archi. La preminenza dei flauti accentua una certa vaga somiglianza di quest’aria con la visione di felicità dei 1 BREYDERT, Op. CÌt., p. 143. 2 CHAILLEY, Op. CÌt., p. 109.

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beati nella scena dei Campi Elisi dell’Oz/eo ed Euridice di Gluck. Alcuni scrittori (Schurig e Hyatt King) rilevano una affinità melodica con un passo di espressione analoga nell’Idomeneo, l’aria «Torna la pace al core». Potremmo ancora suggerire una certa parentela tra entrambe queste melodie e quella del duetto di Pamina e Papageno, «Bei Mànnern, welche Liebe fiihlen» (cfr. N. 7, p. 108), di cui già abbiamo osservato come confluisca, attraverso la tradizione musicale viennese, in un celebre Lied di Schubert. Semplicissima è anche la struttura formale dell’unica strofa, ripetuta, in cui l’aria consiste. Sono due episodi, di cui il secondo un po’ più esteso e sviluppato. Il primo esau­ risce quattro versi in due frasi musicali, o più esattamente, una sola frase musicale, ripetuta con diversa terminazione: la prima volta resta sospesa sulla seconda (fa diesis), la se­ conda termina sulla dominante (si). Pure all’inizio della ri­ petizione c’è una piccola differenza, il si diesis sulla paro­ la « Mensch»: una specie di lieve forzatura, quasi di lace­ razione, che - nota con finezza l’Abert - suona come il do­ lore patetico di Sarastro al pensiero che un uomo sia caduto nel peccato. L’ultima battuta della prima sezione introduce nel calmo ritmo della melodia un interessante sbilanciamen­ to, subito echeggiato nella replica dei flauti. La seconda sezione si inizia su un sospetto di modulazio­ ne alla dominante (si), che poi rientra sùbito, e di fatto non ci si allontana realmente dal tono fondamentale (mi maggio­ re). La voce del basso percorre un’ascesa per gradi congiun­ ti, ben «legata», ascesa che raddoppiano all’unissono i vio­ lini primi, «staccato»: simbolismo musicale, si dice, per raf­ figurare nei suoni l’immagine del testo, dei due amici che procedono, «la mano nella mano», verso una terra migliore. Ma un piccolo gioco curioso e stuzzicante è che quando la voce del basso comincia poi a scendere, i violini continuano imperterriti a salire. L’episodio viene ripetuto (tutta l’aria procede sistematicamente per coppie, cioè ogni frase viene immediatamente ripetuta), poi una nuova frase (anch’essa ripetuta, ma solo in orchestra, mentre la voce tenderà ormai alla conclusione, indugiando fra tonica dominante e sotto­ dominante) porta la voce verso il registro più profondo (fa

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diesis), inserendo una cadenza dolcissima, tipica di Mozart per le espressioni di serenità e di pace quasi arcadica (sulle parole «in’s bessre Land»). La seconda sezione dell’aria, sebbene piu lunga della prima, consuma soltanto gli ultimi due versi, ma con molte ripetizioni di parole. Lo Chailley, indefesso ricercatore di simbolismi massoni­ ci nella partitura, fa osservare che tanto la brevissima intro­ duzione strumentale dell’aria, quanto la conclusione, pure strumentale, si fondano su figure di sette note, e sette è il numero della saggezza.

Capitolo undicesimo

Atto secondo, Quadro quarto (Nn. 16-17): Prove dell’aria e del silenzio

Allontanatosi Sarastro con Pamina, la scena si trasforma in una sala «dove può andare la macchina volante». Tamino e Papageno, non incappucciati, vengono introdotti da due Sacerdoti, che tosto li lasciano soli, ammonendoli a rispetta­ re il silenzio. Invece Papageno tenta invano, comicamente, di intavolare conversazione con Tamino, quando la sua at­ tenzione è attratta da una vecchia grinzosa, uscita su da una botola, con un vassoio e una tazza. Papageno prova a bere, ma è acqua. Comico dialogo con la vecchia a cui Papageno chiede l’età: diciotto anni e due minuti. Se ha un fidanzato? Certo che l’ha: ha dieci anni più di lei, e si chiama Papage­ no. Terrore di Papageno; un colpo di tuono fa sparire la vec­ chia, proprio quando stava per dirgli il proprio nome. Ap­ paiono ora, «in una macchina volante coperta di rose», i tre Fanciulli, benefici protettori e guide dei due iniziati. Natu­ ralmente, nelle rappresentazioni dei nostri giorni, non se ne parla nemmeno di farli arrivare dall’aria in quell’apparec­ chio che i macchinisti del teatro Auf der Wieden non aveva­ no difficoltà a costruire: oggi arrivano volgarmente a piedi. Ma, a parte i precisi riferimenti che la musica contiene al fatto del volo, il costume teatrale dell’epoca non poteva transigere su questi fatti scenografici che oggi vengono omessi sotto pretesto di sobrietà. L’opera è tutta intessuta di due piani che si alternano e talvolta s’incrociano: l’elevato piano massonico e misteriosofico, e il piano popolaresco, in­ fantile, dello «Zauberstiick». Qui siamo appunto in un mo­ mento in cui, appena Sarastro e i suoi Sacerdoti hanno vol­ tato le spalle e sono usciti di scena, il meraviglioso riafferma i suoi diritti.

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N. 16. Terzetto dei Fanciulli.

I tre gemetti dànno il benvenuto per la seconda volta ai due pellegrini nel regno di Sarastro, e restituiscono loro quanto gli era stato tolto: il flauto a Tamino, e la scatola col Glockenspiel a Papageno. Lasciano inoltre una tavola im­ bandita, poi se ne vanno incoraggiando Tamino, ed esortan­ do ancora quel chiacchierone di Papageno al silenzio. Il pezzo è semplicissimo, un Allegretto in la maggiore, tempo di 6/8. Le tre voci procedono quasi sempre nota con­ tro nota, in quel tono popolarfiabesco che è tipico dei perso­ naggi uni e trini dell’opera: primo e secondo Fanciullo quasi sempre per terze e seste, con qualche quinta di passaggio, il terzo Fanciullo discanta più liberamente al grave, spesso unito ai violoncelli, mentre i violini secondi si accompagna­ no per lo più alle due voci superiori. I violini secondi, perché ai violini primi è riservata una figura strumentale tipica di questo Terzetto e dell’elemento aereo cui allude la macchina volante: sono coppie rapidissime di biscrome, separate da una breve pausa, che volteggiano ora ascendendo ora scen­ dendo, simili, anche graficamente, a farfalle svolazzanti. Si tratta d’una figura tipicamente violinistica, che ricorre per esempio nel finale del Concerto in la maggiore K. 219, parti­ colarmente anche nell’ultima battuta. Spesso si trova scritta non in forma di due biscrome, ma come un’appoggiatura (per esempio nell’Adagio del bellissimo Divertimento per ar­ chi in mi bemolle K. 563). Quello che nessuno rileva, nem­ meno l’attentissimo Hyatt King, è la palese analogia, al limi­ te della citazione, fra la curva discendente dell’introduzione (cioè la terza battuta dei violini primi) e una frase violinisti­ ca del Minuetto contenuto nel celebre Divertimento in re maggiore K. 334. Certo è che un’aura violinistica d’alta clas­ se aleggia su questa canzoncina a tre voci, che del resto pro­ cede nel modo più semplice e infantile, per frasette elemen­ tari di 2 + 2 battute: quattro battute il benvenuto, quattro battute alla dominante (mi maggiore, il tono della preceden­ te aria di Sarastro) per la consegna degli strumenti musicali e dei cibi, poi ripresa delle prime quattro battute in la mag­ giore, e infine il congedo, dove la voce dei Fanciulli appare

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sempre piu spaziata e si sbizzarriscono invece gli svolazzi dell’aerea figura violinistica. Lo strumentale è assai curioso, ché per il nucleo del pezzo consiste esclusivamente degli ar­ chi, ma al principio e alla fine entrano in appoggio flauti e fagotti, oppure oboi e fagotti. Scene diciassettesima e diciottesima e N. 17. Aria di Pamina.

Papageno non si fa pregare ad assaltare le vivande ed in­ vita Tamino a fare altrettanto, ma Tamino preferisce suona­ re il flauto appena ricuperato, col che attira Pamina. Felice di averlo ritrovato, essa è tosto amaramente afflitta ed umi­ liata dal silenzio ch’egli le oppone, invitandola ad allonta­ narsi. Si rivolge a Papageno per spiegazioni, ma malaugura­ tamente quello, che certamente non avrebbe taciuto, si è in­ gozzato con un buon boccone, e risponde soltanto a mugo­ lìi. Donde, disperazione di Pamina. L’aria in cui essa si esplica, nella tonalità dolorosa di sol minore, parrebbe, nel caleidoscopio di stili vocali che trova­ no la loro sintesi nel Plauto magico, un tipico esempio, que­ sta volta, di stile italiano. Siamo in pieno clima di opera se­ ria, dove l’aria in sol minore segnava il momento culminante del lutto e della tragedia. Il movimento è Andante, il tempo di 6/8, ma un 6/8 molto lento, lontanissimo dal senso di fe­ stosa circolarità che il 6/8 presenta in tante arie e duetti mo­ zartiani, dove la ronda in 6/8 è il contrassegno della recupe­ rata felicità dopo gli affanni. Qui il tempo di 6/8 si riduce a una costante e lugubre scansione trocaica, su cui sorge il canto desolato di Pamina. Ma, se si guarda bene, la nostra fiducia di trovarci di fronte a una schietta aria italiana comincia a vacillare, e ben presto dovremo convincerci, con l’Abert, che si tratta anco­ ra una volta d’una di quelle tipiche formulazioni melodiche «oscillanti tra canto spiegato e recitativo», in cui si manife­ sta l’originale «germanesimo» del Plauto magico. Tanto per cominciare, dov’è la ripresa? L’aria comincia con una bella frase, evidente e ben marcata, in sol minore, con una discesa dalla dominante alla tonica e poi, su questa, un balzo d’otta­

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va, quasi un grido. Bene, questa frase non ritorna più in tut­ to il resto dell’aria. Troveremo ancora il balzo d’ottava, il grido disperato, ma alla fine dell’aria, in tutt’altro contesto. Qual è allora la forma di quest’aria? A una frase iniziale in sol minore (batt. 1-7) ne segue una al relativo maggiore, si bemolle (batt. 8-16), senza che ci sia vera interruzione del discorso. Questa interviene invece dopo la battuta 16, quan­ do il canto si fa rotto e agitato, sopra una marcia di instabili armonie: non è più il lamento di Pamina, ma l’implorazione agitata, il suo rivolgersi supplichevole a Tamino per chieder­ gli spiegazione del suo crudele silenzio. Questa sezione dura dalla battuta 16 alla 26, e si può considerare come sezione centrale di un’aria larvatamente tripartita. Dopo di che non si ha la ripresa letterale come in un «da capo» all’italiana, ma elementi della prima sezione riappaiono molto libera­ mente: alla battuta 29-30, sulle parole «der Liebe sehnen», ecco la figura che, nella battuta 6-7, chiudeva la prima frase in sol minore («der Liebe Gliick»). E subito dopo, ecco quel dolcissimo arpeggio metodizzato, quasi un tubare di colom­ be, che appariva nel cuore della frase in si bemolle maggiore («meinem Herzen », batt. 12-13). Il postludio strumentale s’impadronisce della cellula di tre note con la quale Pamina aveva invocato il nome di Tamino all’inizio della sezione centrale e crea una specie di amplificazione tragica all’idea della morte. «Tutte le dolcezze e gli affanni dell’amore - scrive il Paumgartner - sono riservati a Pamina. Il suo angosciato lamento “Ach, ich fuhl’s” è forse la più commovente e schietta espressione di verginale nostalgia di tutta l’arte»1. Crederemo al Paumgartner, o crederemo a J. V. Hocquard, il quale, preoccupato di affermare fino in fondo il carattere fiabesco-sacrale del Flauto magico, assolutamente alieno dal realismo psicologico della commedia all’italiana, afferma: «Non possiamo prendere sul serio il dolore di Pamina, come quelli di Elvira o di Fiordiligi. Ma questo dipende dal fatto che l’intensità ne sia minore, oppure dal fatto che ne sia differente il registro drammatico?»1 2. 1 PAUMGARTNER, Op. CÌt., p. 458. 2 HOCQUARD, Op. CÌt.,p. 514.

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Eh no, perbacco, ci vorrebbe proprio un cuor di sasso a non prendere sul serio il dolore della povera Pamina in que­ sta aria, e proprio lo stesso Hocquard si smentisce felice­ mente quando pone in rilievo la passività inerme di Pamina in confronto al dinamico attivismo di Donna Anna nel Don Giovanni. «Subisce un destino che non comprende; sembra dire: - Ma cosa mi succede? che ho fatto a Tamino perché mi abbandoni cosi? - E un uccellino ferito, una povera pic­ cola cosa ansimante, che geme in gran pena. Le parole che canta hanno ispirato a Schikaneder qualche bagliore di poe­ sia, e non mancano... d’una certa bellezza»3. Il dolore di cui tutta l’aria è intrisa produce quello che l’Abert chiama una continua «tendenza a corrodere il fermo profilo della melodia con alterazioni cromatiche, anticipi, ri­ tardi»: si veda per esempio l’insistito cromatismo della batt. 11, si vedano le frequenti appoggiature (batt. 2 e 4), le ter­ minazioni femminili di frasi che non cadono mai direttamente sulla nota conclusiva, sia essa la tonica o la dominan­ te, ma la raggiungono attraverso l’interposto gradino d’un semitono cromatico (batt. 7, 15). Nella sezione centrale, più drammatica e mossa, lo strumentale delicatissimo stabilisce con la voce echi alterni di flauti e oboi (batt. 16, 18 e soprat­ tutto 21), che suonano quasi come un coro invisibile e som­ messo di pietà. Nella prima parte dell’aria costituisce un commovente tocco timbrico la discesa del fagotto sulla do­ minante, raccolta poi dall’oboe e quindi dal flauto. C’è chi trova in quest’aria un’eco gluckiana della celebre aria «Che farò senza Euridice». Non è molto evidente, mentre invece evidentissimo è il richiamo, interno a Mozart stesso, tra l’inizio della frase in si bemolle maggiore, là dove la voce scende fino al re («Nimmer kommt ihr, Wonnestunden») e la situazione analoga della celeberrima aria di Susan­ na, verso la fine delle Nozze di Figaro, quando l’astuta ser­ vetta, nell’ombra notturna del giardino, canta un’appassio­ nata invocazione d’amore («Deh vieni, non tardar, o gioia bella»), presumibilmente all’indirizzo del Conte, e ben sa­ pendo che il suo fidanzato Figaro è li nascosto, in ascolto. Ma d’altra parte la passione, «l’amoroso foco» ch’ella finge Ibid., p. 521.

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verso il Conte, è verissima, reale, ed è per Figaro ch’ella sta per sposare, e nella voce della ardente servetta vibra tutto il turbamento della fanciulla che si prefigura il prossimo gau­ dio nuziale. Anche nell’aria di Susanna c’è la stessa discesa nel registro grave, assai piu profonda, prolungata verso un caldo colore viscerale che, per chi intenda il linguaggio della musica, può suonare addirittura indecente. Nell’aria di Pa­ mina la voce scende molto meno in basso (siamo in si bemol­ le, invece l’aria di Susanna è in fa maggiore). E come un’al­ lusione: la povera Pamina piange le «Wonnestunden», le ore di voluttà che non torneranno mai piu. Ma lei, poverina, in realtà non le conosce ancora (mentre invece la vivace Su­ sanna un’idea, più o meno precisa, doveva ben avercela), ed è commovente come la biblica figlia di Jefte, che quando sa di dover morire sacrificata in seguito al voto paterno, accet­ ta rassegnata la sua sorte, soltanto chiede una dilazione di un mese per andare sui monti con le sue compagne a piange­ re la propria verginità, cioè le gioie della vita che non cono­ scerà. Sul finire dell’aria, quando appare l’idea funesta della morte («so wird Ruh im Tode sein», cosf sarà la pace nella morte) alle espressioni tragiche della melodia (principalmen­ te grandi intervalli) si alterna un’espressione ambigua di pa­ ce e di falso riposo, preparando cosf abilmente la prossima situazione tragica del tentato suicidio di Pamina. Scena diciannovesima.

Pamina s’allontana disperata, lasciando in scena Tamino, sempre zitto, e Papageno che mangia allegramente, innegiando al «signor cuoco» e al «signor cantiniere», e sfida perfino i leoni di Sarastro a smuoverlo dalla tavola imbandi­ ta. I leoni appaiono puntualmente e Tamino deve salvare lo spaventatissimo compagno allontanandoli col suono del flauto magico. Ma questa scena recitata viene generalmente soppressa.

Capitolo dodicesimo

Atto secondo, Quadro quinto (Nn. 18-20): La saggezza di Sarastro e la saggezza di Papageno

N. 18. Coro dei Sacerdoti. Si rientra nell’eccelso mondo di Sarastro, all’interno di una piramide, dove si trova lo Sprecher con alcuni Sacerdo­ ti, due dei quali portano sulle spalle una piramide illumina­ ta. Ogni sacerdote, poi, tiene in mano una piramide traspa­ rente della grandezza d’una lanterna. Il coro, naturalmente maschile, tenori e bassi, canta un solenne cantico di invocazione a Iside ed Osiride, e si ralle­ gra che Tamino abbia superato felicemente le prime prove. Non è ancora giunto al termine: ma il suo cuore è puro, l’a­ nimo ardito, tosto sarà degno dell’ammissione definitiva. Adagio, nella tonalità qui un po’ imprevista di re maggio­ re, il canto dei Sacerdoti è trattato a maniera di corale, per lo piu a tre voci omoritmiche, con qualche lievissimo scam­ bio nella seconda parte, là dove l’affermazione «sein Geist ist kùhn, sein Herz ist rein», viene prima detta da tutto il coro in blocco, poi anticipata dai bassi e replicata dai tenori. Conformemente alle parole, che sono una congratulazio­ ne con Tamino, ma non ancora un definitivo diploma di vir­ tù raggiunta, l’espressione del pezzo, pur nella sua costante solennità, è tutta un alternarsi di chiari e di scuri, di piano e di forte, di limpidezza armonica elementare e di conturba­ menti. Le parole «die diist’re Nacht» (l’oscura notte) recano una figura agitata e frusciante degli archi, ma tosto, a «verscheucht der Glanz der Sonne », prorompe maestosa la pie­ na orchestra in la maggiore, per figurare la vittoria della luce sulle tenebre. Alternative dinamiche di piano e forte punteggiano tutto il coro, sempre in bilico tra lo splendore della promessa lu­ minosa e la cautela dell’ammonizione. All’inizio della secon­

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da sezione, ancora in la maggiore («Sein Geist ist kuhn») la mistica e religiosa dolcezza della melodia anticipa davvero per un momento la circolarità dei cori parsifaliani. Il pezzo rientra nel tono fondamentale quando, constatata la fermez­ za e la purezza di Tamino, il coro introduce la promessa che tosto («bald, bald») Tamino sarà degno d’entrare fra loro. N. 19. Terzetto (Pamina, Tamino, Sarastro).

In un breve dialogo recitato Tamino viene congratulato da Sarastro, e incoraggiato per le due prove che ancora gli ri­ mangono da superare. Poi viene introdotta Pamina, anche lei velata, come una neofita, e accolta dal silenzio generale di tutti i Sacerdoti, forse perché segretamente contrari al­ l’ammissione di una donna. Sarastro aumenta il suo affanno dicendole che Tamino l’attende per «l’ultimo addio». Su queste premesse poggia il Terzetto, Andante modera­ to in si bemolle maggiore. L’Abert ci assicura eh’esso «sta degnamente a fianco dei piu drammatici pezzi d’assieme di Mozart», e lo Hocquard lo definisce, dal punto di vista drammatico, «il passo piu intenso dell’opera» (forse inten­ deva dire la situazione). A noi non può fare a meno di parere singolarmente compassato e regolare per un momento cosi fatale. «Quale sconvolta eruzione di sentimento avrebbe usato l’opera seria per questo ultimo amplesso! » Cosi osserva in tono ironico l’Abert, usando in italiano le ultime due pa­ role. Eh, lo credo bene! Pensiamo a Verdi, che fuoco e che fiamme avrebbe tirato da una situazione di questo genere, due innamorati costretti alla separazione, per opera d’una potenza superiore che li allontana, sia pure a fin di bene e sia pure temporaneamente. Ma loro non lo sanno, specialmente Pamina. E Tamino crede ciecamente, da vero S.S., agli ordini superiori di Sarastro, senza mai essere nemmeno sfiorato dal sospetto che magari questa crudele prova del di­ stacco possa non essere una finzione. E proprio questo che ci dispiace: che in Tamino non ci sia neanche l’ombra del­ l’appassionata imprudenza di Orfeo, che si volta a guardare se veramente Euridice lo segue. Lui è rigido alla consegna. E Pamina, poi, è disperata sul serio: lei non sa niente che que-

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sta sia soltanto una prova, anche se Sarastro, nel corso del Terzetto, viene ora dicendo parole di generico conforto ed assicurazione. Lo Hocquard spiega tesori di dialettica per chiarirci che proprio cosf deve essere il Terzetto, compassato e misurato (l’Abert parla di «eloquente laconicità»), perché si tratta d’una situazione «falsa»: sembra una separazione totale, ma non lo è. «L’azione non è situata da Mozart sul piano psico­ logico della separazione»1. Ma questo è ancor da vedere: le parole parlano chiaro, e in ogni caso per Pamina di separa­ zione vera e di disperazione autentica si tratta. Il Terzetto è caratterizzato dalla presenza quasi costante di una ostinata figura d’accompagnamento (quartine acefale di crome) affidata a fagotti, viole e violoncelli. Secondo lo Chailley essa evocherebbe «la fatalità inesorabile del sacri­ ficio imminente»2, e l’Abert la chiama «bohrend», che vor­ rebbe dir noiosa, ma ben inteso lo scrittore non dice questo a titolo di biasimo. Lf sopra, con regolarità geometrica, Pa­ mina propone una frase di due battute, cui risponde Sara­ stro col corrispettivo d’altre due battute, concludendo sulla dominante (fa). Seconda frase di Pamina di due battute; re­ plica di Tamino di due battute, che ritorna sulla tonica. Ter­ za frase di Pamina di due battute; risposta simmetrica dei due uomini, insieme per intervallo di terza. Pamina allunga il tiro, con una frase di quattro battute. I due uomini le dànno la replica con una frase di quattro battute. Pamina sale a sei battute, in una frase che tocca la tonalità commovente di sol minore («O, se tu mi amassi come t’amo... ») Risposta in sei battute di Sarastro e Tamino, che si premurano subito di riportare il discorso nelle serene e auliche sponde del mi be­ molle maggiore. (Generalmente le frasi di Pamina hanno la funzione di aprire armonicamente verso la dominante o ver­ so toni vicini; le risposte maschili hanno la funzione di ri­ portare la tonica o allontanare le tonalità conturbanti). A questo punto interviene nel pezzo una svolta impor­ tante. Cessa di colpo l’accompagnamento insistente di fa­ gotti, viole e violoncelli, e Sarastro introduce una specie di 1 HOCQUARD, Op. CÌt.t p. 523. 2 CHAILLEY, Op. CÌt., p. 279.

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ammonizione: «Die Stunde schlàgt!» C’è poco da dire: le parole sono drammatiche, l’intenzione di manifestare una fatalità inesorabile c’è, ma la musica, nella sua regolarità quasi impassibile, non riesce a tenerne molto conto. Figurar­ si cosa sono per Verdi parole come «Suonata è l’ora» nel Don Cariai Sono questi i momenti dove divampa la fiamma del dramma nell’urto delle anime contro la forza inesorabile del destino. Qui, noi ci limitiamo ad assistere ad uno scam­ bio di posizioni: Tamino non canta piu di pari con Sarastro, ma con Pamina, e il basso è lui, ora, a proporre le frasi. Cu­ riosamente, poi, a questo punto le voci mostrano una certa moderata tendenza a separarsi ed imitarsi contrappuntisti­ camente. Sul reciproco «lebe wohl» (addio) di Pamina e Ta­ mino, riappare per tre battute e mezza la formula sistemati­ ca di accompagnamento, distribuita questa volta tra viole e violoncelli, e ad essa si associa (con le viole) la voce di Sara­ stro. Non si vorrebbe dar qui l’impressione di accanirsi per partito preso contro questo Terzetto, che presenta tanti pre­ gi di elegante scrittura. Ma che fatto singolare: una delle vo­ ci si mette a cantare l’accompagnamento! Quale indicazione migliore si potrebbe desiderare per renderci conto della in­ soddisfazione che il pezzo ci lascia dal punto di vista dell’op­ portunità ed efficienza drammatica? E un pezzo di natura eminentemente strumentale: un elegante pezzo di musica da camera, che per malaugurata combinazione viene a cadere nel punto del più bruciante conflitto drammatico tra i perso­ naggi, con la povera Pamina torturata dalla barbara imposi­ zione di separarsi dal suo amato. Non per niente una frase vocale di questo Terzetto, sulle parole di Tamino «Der Got­ ter Wille mag geschehen», è citazione letterale di un «lo­ cus» mozartiano tipico, ma tipico per la musica strumentale. Essa è, anzi tutto, il secondo tema del celebre Quintetto con clarinetto in la maggiore, scritto un paio d’anni prima del Flauto magico. E tal quale, o con lievissime varianti, questa melodia ricorre nelle seguenti composizioni strumentali: Concerto per tre pianoforti K. 2,42 (primo tempo, batt. 74-75), Concerto per pianoforte K. 450 in si bemolle mag­ giore (primo tempo, batt. 33-35), Concerto per pianoforte in fa maggiore K. 459 (terzo tempo, batt. 151-53); Sonata per

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pianoforte K. 283 in sol maggiore (secondo tempo, batt. io), Sonata per pianoforte K. 309 in do maggiore (secondo tempo, batt. 67-68); Rondò per pianoforte K. 494 in fa mag­ giore (batt. 70-71); Serenata Haffner K. 250 (ottavo movi­ mento, batt. 1-2). Una volta tanto la «dialettica dei generi musicali», che Mozart pratica con tanta scaltrezza tirando impressionanti effetti allusivi dall’inserzione d’un passo di stile chiesastico in un contesto teatrale, o d’una frase teatrale in una Sonata, lo ha tradito. Trattare un Terzetto altamente drammatico in stile di musica da camera strumentale poteva anche essere un’idea plausibile, visto che argomento drammatico di que­ sto Terzetto è la presenza d’una ferrea fatalità che separa i giovani innamorati («die Stunde schlàgt»). Ma questa volta il trucco non ha funzionato: la compassata regolarità dello stile cameristico non si traduce in senso d’inesorabilità del destino. Resta proprio compassata regolarità, e cioè l’oppo­ sto di quel che ci vuole per una situazione come questa, di disperata lacerazione. Le difese d’ufficio degli studiosi non convincono, e anzi, coi loro sarcasmi sulla violenza appassio­ nata che l’opera seria italiana avrebbe scatenato in una si­ tuazione di questo genere, lasciano capire che in fondo essi stessi si rendono conto benissimo del difetto drammatico di questo pezzo. Su per giù intende dire la stessa cosa il Labroca quando insiste sul «senso rigidamente strofico della com­ posizione, senso che accentua il suo carattere lirico»3, là do­ ve è chiaro che qui di dramma c’era bisogno. Più esplicito lo Chailley, quando ammette che «la curva graziosa delle frasi in maggiore» (in maggiore è appunto quella frase eminente­ mente strumentale mutuata dal Quintetto con clarinetto e da vari Concerti e Sonate per pianoforte) «non è molto bene ac­ cordata col sentimento espresso»4. L’Abert conclude che si tratta di un «echt deutsche Abschied der Liebenden aus»: un addio schiettamente tedesco degli amanti. Bene, tutto quel che si può dire è che in Italia gli amanti si separano in altro modo. Proprio alla fine del pezzo che, come s’è visto, è armoni­ 3 LABROCA, Op. CÌt., p. 74. 4 CHAILLEY, Op. CÌt., p. 278.

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camente tutto compreso fra il tono fondamentale (si bemol­ le), la dominante (fa) e la sottodominante (mi bemolle), con una breve incursione di Pamina nel relativo minore (sol), proprio alla fine del pezzo si fa notare, dallo Chailley, la suc­ cessione di dodici accordi negli archi5. Dodici è, pare, l’ora simbolica dell’inizio dei lavori in massoneria. Già nel primo lungo dialogo tra Pamina e Papageno (atto I, scena xiv), la fanciulla chiedeva: «Quanto è alto il sole?», e Papageno: «Presto sarà mezzogiorno». Sicché si potrebbe pensare che i dodici accordi siano quasi l’equivalente sonoro della frase: «Die Stunde schlàgt», l’ora è suonata. Scene ventiduesimo, e ventitreesimo.

Allontanatisi i tre del Terzetto, si sente la voce esterna di Papageno che chiama Tamino, poi il personaggio entra e si aggira smarrito, affacciandosi alla porta da cui Tamino era uscito. Ne viene respinto con un severo: «Zuriick! » (Indie­ tro!) Sopraggiunge lo Sprecher, o oratore dei Sacerdoti, con la sua brava piramide, e gli spiega ch’egli non può seguire Tamino nelle prove: si è mostrato indegno dei piaceri cele­ sti. Papageno se ne consola facilmente («ci sono tanti altri nelle mie condizioni»): si accontenterebbe d’un buon bic­ chiere di vino. Manco a dirlo, il bicchierone sorge colmo e maestoso dalla solita botola del palcoscenico. Papageno se ne sazia con gioia, e lo Sprecher allora gli chiede severamen­ te: - Non hai nessun altro desiderio in questo mondo? La domanda è messa li accortamente per scatenare la se­ guente arietta di Papageno. Questi raccoglie la domanda, la fa propria: «vorrei... desidererei... già, che cosa?», e tosto col Glockenspiel estrae le prime note del celeberrimo Lied «Ein Màdchen oder Weibchen»: una ragazza o una donnet­ ta Papageno vorrebbe per sé. 5 Ibid., pp. 279 e 220.

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CAPITOLO DODICESIMO

N. 20. Aria di Papageno.

Pomposamente intitolata «aria», è anche questa, come quella del precedente atto (N. 2), una tipica canzoncina a couplets, cioè strofica con ritornelli. L’esperto mestiere tea­ trale di Schikaneder si manifesta nell’uso abilissimo ch’egli fa del proprio personaggio come elemento di distensione. Veniamo da una successione di tre scene molto gravi e serio­ se: l’aria della disperazione di Pamina, il coro solenne dei Sacerdoti, il drammatico Terzetto della separazione. Per uno «Zauberstuck» popolare il clima è andato facendosi molto severo: lo spensierato uccellatore riporta il diverti­ mento. Ma si tratterebbe solo d’una volgare strategia da pal­ coscenico, se, secondo la giusta osservazione dello Hoc­ quard, la distensione arrecata dalle scene di Papageno non fosse «impregnata d’una poesia abbastanza concentrata per non provocare, dopo le grandi scene drammatiche, l’impres­ sione d’una caduta di livello»1. La collaborazione di Schikaneder con Mozart doveva na­ turalmente essere stata strettissima per le scene a lui desti­ nate, con le quali egli badava a costruire il proprio successo personale. Si può esser sicuri che la melodia iniziale di «Ein Màdchen oder Weibchen» fu una di quelle che egli cantic­ chiò o fischiettò a Mozart perché ci fabbricasse su misura una canzoncina di successo, per la quale lui aveva già in te­ sta tutte le smorfie, tutte le inflessioni di voce, tutte le buf­ fonate che aveva intenzione di sfoggiare durante la esecu­ zione. Era una melodia di dominio universale, la cui origine viene rintracciata dagli studiosi in un corale cinquecentesco del bergamasco Antonio Scandello, emigrato con fortuna in Germania e diventato maestro di cappella a Dresda, presso la corte sassone, dove diede alle stampe, tra l’altro, dei Ne­ ve Peutsche Liedlein e dei Neve und lustige weltliche Deudsche Liedlein. Le parole erano religiose («Errett dein armes Leben, Nimmt dich in seinem Schiitz»: Egli salva la tua po­ vera vita, ti prende sotto la sua protezione), il movimento probabilmente lento e misurato, a guisa, appunto, di corale. 1 HOCQUARD, Op. CÌt., p. 539.

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Bastava accelerarlo un poco, e accentuare i tempi forti in maniera un po’ provocante, perché ne uscisse fuori una gra­ ziosa marcetta, tutta impettita nel suo ritmo di 2/4, e un po’ infantile. In tempi vicini al Flauto magico il motivetto fu ri­ preso, nel 1782, dal celebre teorico del colorito espressivo da attribuire alle diverse tonalità, Friedrich Schubart (che venne a morte a Stoccarda proprio nell’ottobre 1791, men­ tre si rappresentava l’opera di Mozart a Vienna), e nel 1786 da un Christoph Reineck, non meglio identificato. Curioso è trovare il nostro motivetto nel rondò di una irriverente operetta rappresentata a Parigi in piena rivoluzione, il 7 lu­ glio 1792, cioè pochi mesi dopo la creazione del Flauto ma­ gico a Vienna: Les Visitandines, del celebre flautista Francois Devienne (1759-1803). Le parole qui suonavano: «Enfant chéri des Dames, Je fus en tout pays. Fort bien chéri des Dames, Mal avec les maris». Che ci fece Mozart con questa melodia? La provvide di una incantevole strumentazione fondata sul tintinnante Glockenspiel di Papageno, e poi vi applicò una seconda se­ zione, Allegro in 6/8, che reca lo stampo della sua invenzio­ ne. La canzone è strofica, ripetuta tre volte integralmente, senza mutamenti per la parte vocale. Muta invece la parte strumentale. Anzitutto, nella prima e nella seconda strofa, la voce, appena appoggiata su rinforzi degli archi negli ac­ centi principali, è raddoppiata integralmente dal Glocken­ spiel, che subisce, dalla prima alla seconda, leggere, ingegno­ sissime variazioni. Alla terza strofa, invece, il Glockenspiel si abbandona a rutilanti arpeggi di semicrome, biscrome e semibiscrome, mentre nel preludietto strumentale subentra in suo luogo la fanfaretta dei fiati (flauto, oboi, fagotti e cor­ ni), che accentua e quasi rivela il carattere di marcia, dell’Andante in 2/4. Ne nasce quella che il Saint-Foix chiama «une atmosphère d’entrain... irrésistible». L’Allegro in 6/8, che riteniamo di sicura invenzione mo­ zartiana2, è un luogo topico della musica teatrale di Mozart. 2 Anche il Saint-Foix, pur senza istituire il raffronto con altri celebri 6/8 di Mozart, osserva che «la seconde partie du Lied... ne nous semble plus offrir le mème caractère véritablement populaire, et émane certainement de Punique personnalité de Mozart» (op. cit., V, p. 236).

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È quel movimento di ronda trascinante che, specialmente nei duetti, scatena la liberazione del piacere, la gioia della concordia ricuperata dopo i litigi amorosi, in breve, il conse­ guimento dell’agognata felicità. Esempi tipici, il duettino «Pace, pace, mio dolce tesoro», di Figaro e Susanna riconci­ liati in mezzo alla gran baraonda del finale nelle Nozze di Fi­ garo, e l’Allegro «Pace, pace, vita mia» dell’aria di Zeriina «Batti, batti, o bel Masetto»3. Naturalmente qui, nel Flauto magico, Papageno è solo (nel Don Giovanni, anche se si tratta di un’aria della sola Zeriina, questa si rivolge però al suo Masetto, lf presente), perciò quel caldo moto di regresso impetuoso verso un para­ diso perduto e recuperato di felicità terrestre, che è il senso di questi 6/8 mozartiani, qui resta a mezz’aria, in una specie di vago limbo del sogno: è beatitudine amorosa vagheggiata e auspicata, è il desiderio di Papageno che se la finge e se la colorisce in maniera sempre piu seducente con gli aerei suo­ ni del Glockenspiel. Pare - ahimè - che non dovremmo chiamarli aerei, perché nella simbologia massonica accurata­ mente studiata dallo Chailley, il Glockenspiel è strumento terrestre, cioè basso e volgare, mentre la nobiltà dell’ele­ mento aereo risiede nel flauto magico di Tamino. Ma con­ corderemo pienamente con lo Hocquard, quando osserva: «On pent affirmer que Papageno tire de son talisman un effet bien plus enchanteur que Tamino ne fait de sa flute»4. Sia nella prima sezione, Andante, sia nella seconda, Alle­ gro, la melodia, semplicissima ed elementare, procede per frasi di quattro battute, mantenendosi sempre fra la tonica (fa maggiore) e la dominante (do), e sbocconcellandosi verso la fine in incisi più brevi. Caratteristica della seconda sezio­ ne sono due salite rettilinee della voce (una di settima, dalla dominante alla sottodominante; l’altra, più breve ma più al­ ta di registro, che rimane per un momento sospesa su un punto coronato). Sono caratteristiche e d’effetto perché si snodano in seno a una melodia per lo più d’andamento cir­ colare e ritorta su se stessa. 3 Cfr. mila, Lettura delle «Nozze di Figaro» cit., pp. 178-79; id., Lettura del Don Giovanni di Mozart, Einaudi, Torino 1988, pp. 145-46. 4 HOCQUARD, Op. CÌt., p. 539.

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Le esibizioni buffonesche di Papageno sono sempre viste con un po’ di altezzosa condiscendenza dagli studiosi. «Eine typisch kasperlmàssige Szene», giudica l’Abert quest’ariet­ ta, cioè una tipica scena dà Kasperl, il personaggio buffo, co­ me fosse l’Arlecchino o il Gianduia, della scena popolare viennese. E per lo Hocquard Papageno recita qui «une sorte de tragi-comédie burlesque qui parodie le drame de Tami­ no»5. Ma poi l’Abert trova modo di farci della filosofia sulla semplicistica concezione dell’amore in Papageno: egli lo in­ tende unicamente come «soddisfazione d’un impulso natu­ rale che vive in lui», laddove nel Flauto inarco anche l’amo­ re, vecchio tema fondamentale dell’arte operistica di Mo­ zart, deve anch’esso subordinarsi all’idea etica. «Non è piu l’impulso umano originario, che si spiega con la violenza d’una forza della natura, ma prende valore soltanto nel suo rapporto con virtu e saggezza». Tutte belle cose, come belle sono le parole che Adolphe Boschot scriveva in un articolo sul Flauto magico nell’«Echo de Paris» del 25 dicembre 1922: «L’amore, fonte di forza, d’allegria, di confidenza e di fede; l’amore che rinnova, trasfigura, incanta l’anima e le permette di traversare vittoriosamente le prove del destino. E non è la passione ma ben penetrato di carità (charitas}, e tale che può nascere soltanto in un’anima pura, più forte che le prove e già in procinto di liberarsi dai suoi limiti troppo umani. Ricondotto al vero amore, concezione centrale che è conforme al pensiero e all’anima stessa di Mozart, il puerile libretto del Flauto magico diventa una delle più belle favole che il teatro possegga. Quelli fra i nostri contemporanei che si sentono imbarazzati da troppa intelligenza, possono ripe­ tersi che il grande Goethe ammirava l’argomento del Flauto magico e vagheggiava perfino di dargli un seguito». Verissimo, e tale è proprio l’elevata concezione dell’amo­ re che passa fra Tamino e Pamina. Anche fra loro, come più tardi tra Florestano e Leonora, non avviene alcun duetto di amore, ed ha ragione il Dent quando afferma: «Sentiamo Ilflauto magico più imparentato al Fidelio che a Don Giovan­ ni o a Cosifan tutte, e sentiamo che il Fidelio ha più rapporti col Flauto magico che col Freischutz o VEuriante. Il Mozart 5 Ibid., p. 538.

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del Flauto magico diede un colpo mortale alla musica del Set­ tecento. L’epoca che lo segui lo prese per un tipico rappre­ sentante del rococò; il suo contemporaneo Neukomm fu me­ glio avvisato quando lo definì un Sanculotto della musica»6. E tuttavia sono probabilmente «imbarazzati da troppa intelligenza» quelli che snobbano la parte di Papageno come una concessione alle ambizióni sceniche di Schikaneder e al gusto del popolino. Noi sappiamo che il cuore di Mozart batte all’unissono con quello di Papageno. Sappiamo che la vera massoneria di Mozart non è quella, in cui lui credeva di credere, degli iniziati, ma è quella in cui crede con tutta spontaneità e naturalezza, dei poveri diavoli, della gentarella comune, dei bravi viennesi. Della gente che, per riprende­ re le elevate parole del Boschot, non è «in procinto di libe­ rarsi dai suoi limiti troppo umani». Del resto anche l’Abert, in altra parte del suo esame, riconosce la positività di Papa­ geno. Anche se gli rimangono precluse le somme consacra­ zioni, il suo amore poggia tuttavia su un piano di moralità naturale ed elementare, ed è inserito in una fondamentale concezione della felicità familiare. Sicché, conclude l’Abert, se si confronta il suo ultimo duetto (con Papagena) con le volgari musichette che ornavano questo tema negli altri Singspiele viennesi, si scopre «tutta la nobiltà morale di Mo­ zart anche nella concezione di questo personaggio», ben di­ verso da quell’incarnazione del negativo - del resto blanda e bonaria pur essa - che è Monostato. «Perciò quest’opera, non meno del Don Giovanni, ma sotto tutt’altri punti di vi­ sta, presenta l’amore nelle sue forme più diverse, che si ap­ poggiano ed illustrano una con l’altra». A chi volesse prendere sotto gamba i facili couplets dell’a­ ria di Papageno converrà ricordare quanto Mozart l’amasse e come si sia divertito una sera a suonare lui stesso il Gloc­ kenspiel tra le quinte, sbagliando apposta e alterando l’ordi­ ne negli interventi, per il gusto di mettere nell’imbarazzo Schikaneder in scena7. E converrà ricordare che Beethoven non si lasciò sfuggire la canzoncina delle smanie d’amore del solitario Papageno, e la fece oggetto puntualmente d’un ci6 DENT, op. CÌt., p. 235. 7 Cfr. sopra, p. 102, nota 3 e p. 124, nota 11.

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ciò di variazioni per violoncello e pianoforte (1798), come farà di li a poco per il duetto di Papageno e Pamina «Bei Mànnern, welche Liebe fiihlen». E si ponga mente a un par­ ticolare: nella frettolosa e quasi rustica perorazione finale con cui l’orchestra chiude l’aria, dopo le tre strofe vocali, par quasi di avvertire un’anticipazione delle danze dei con­ tadini nello Scherzo della Pastorale. Scene ventiquattresima e venticinquesima.

Come evocata dal sogno d’amore cantato da Papageno, appare danzando e appoggiandosi sul bastone l’orribile vec­ chia di poc’anzi e gli si offre: «Eccomi, angelo mio! » Comi­ co raccapriccio di Papageno, che all’invito di porgerle la ma­ no in pegno della loro unione, replica: «Piano, piano! Un le­ game cosi richiede un po’ di riflessione». Ma di fronte alla minaccia di restare per sempre solo e incarcerato a pane e acqua, si rassegna a giurarle fedeltà («finché - aggiunge sot­ tovoce - non ne trovo una più bella»). Immediatamente la vecchia strega si trasforma per incanto nella giovane e bella Papagena, vestita anche lei di piume variopinte come Papa­ geno. La loro felicità è di breve durata, ché subito lo Spre­ cher interviene severamente a strappar via la bella fanciulla: Papageno non ne è ancora degno.

Capitolo tredicesimo

Finale II (N. 21): Prove dell’acqua e del fuoco. La vittoria del bene

Il dialogo dei due Papageni, con intervento del Sacerdo­ te, è l’ultimo caso di recitazione parlata nell’opera. Ora co­ mincia il Finale, nel quale la musica non subirà più interru­ zioni. Finale vastissimo, di cinque episodi concatenati in quattro quadri con tre scene diverse, ma per l’appunto si tratta di quadri distinti e accostati, non di un Finale all’ita­ liana, che cresca organicamente su se stesso, coinvolgendo a poco a poco tutti i personaggi in un’unica azione drammati­ ca. V’è un certo parallelismo con l’inizio del Finale I. Là es­ so cominciava coi tre Fanciulli, poi seguiva Tamino. Qui di nuovo sono all’inizio i tre Fanciulli, e segue Pamina. Scena ventiseiesima e scena ventisettesima.

Dal punto di vista musicale l’analogia si estende anche al­ l’inizio del secondo atto, cioè alla Marcia dei Sacerdoti, del­ la quale bisogna però ricordare che fu composta per ultima, insieme con V ouverture, due giorni prima della rappresenta­ zione. Simile è il clima di solennità sacrale, tempo di marcia lenta, sonorità di fiati massonici. Nel caso presente riappaio­ no infatti i clarinetti, che con due flauti, due corni e due fa­ gotti richiamano il regime timbrico d’un Divertimento per fiati. Specialmente i fagotti hanno una loro pungente, e un po’ comica emergenza, e non è escluso che Mozart, amico inveterato degli orchestrali, abbia voluto offrire qui ai fagot­ tisti un’occasione di mettersi discretamente in luce. Questo primo episodio del Finale consta di due movi­ menti musicali, Andante in tempo pari, e Allegro, in mi be­ molle maggiore, che non coincidono con la suddivisione

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drammatica in due scene: questa è determinata dall’ingresso di Pamina, e la sostituzione dell’Andante con l’Allegro av­ viene piu avanti, quando il dialogo dei Fanciulli con Pamina è già avviato. Anche questo episodio, di forma assai libera, è un saggio di quel modo di cantare tedesco che viene giustamente esal­ tato dagli studiosi quale fondamento della futura opera na­ zionale, e che non è recitativo né aria chiusa, ma un decla­ mato melodico duttile e mobilissimo. «Tutta la forma musi­ cale si modella strettamente sul decorso poetico», scrive l’A­ bert. Valgono qui le osservazioni che abbiamo già fatto nel capitolo vn a proposito del recitativo di Tamino e di quello dello Sprecher. All’inizio la situazione è serena, dominata da una «Morgenstimmung», dice l’Abert, una lieta freschezza mattinale. Riprendendo la melodia del breve preludietto strumentale di fiati, i Ragazzi intonano a tre voci una specie di corale, in­ neggiando al prossimo avvento del sole e alla vittoria della saggezza sulla superstizione. Richiamando le parole di chiu­ sa del primo atto, vantano l’età futura in cui la terra sarà un regno celeste e «i mortali pari agli dèi», concetto di cui Schi­ kaneder doveva essersi fatto uno slogan ideologico, desu­ mendolo da chissà quali sottoprodotti della pubblicistica settecentesca. Il tono è quello nobile di mi bemolle maggiore, con un’e­ vasione alla dominante, si bemolle, che i fagotti affermano con insistenza, incaricandosi poi essi stessi di ricondurre la tonica con una comica e divertente discesa allo scoperto. Dopo questa piccola e armoniosa forma tripartita, la religio­ sa serenità del discorso musicale si conturba improvvisa­ mente: un movimento sincopato s’impadronisce degli archi. Con una breve ma intensa frase discendente nel registro grave essi annunciano l’arrivo della disperata Pamina, che brandisce il pugnale e nella sua innocenza mima con sempli­ cità fanciullesca la grande scena tragica del suicidio. Ma per ora noi non la vediamo ancora: il suo avvicinarsi e il suo aspetto sconvolto sono riflessi nelle esclamazioni dei tre Fanciulli, il cui discorso musicale adesso naturalmente si di­ sunisce in interiezioni spezzate e alterne, abbandonando la concordia dello stile di corale. Come scrive lo Hocquard, il

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mondo della serenità luminosa e il mondo passionale della tragedia umana vengono qui in contatto, e per un momento l’uno contagia l’altro. Anche l’assetto armonico del discorso musicale viene tur­ bato e ben presto (alle parole: « Wo ist sie denn? Sie ist von Sinnen! ») il tono di mi bemolle cede il posto al suo relativo minore. I Fanciulli si nascondono ed entra - scena ventiset­ tesima - Pamina col suo pugnale sguainato, a cui dice ama­ ramente: - Allora sei tu il mio sposo? - Ciò dice in due figu­ re di quattro note ciascuna, anticipate da figure omologhe degli archi: coi loro grandi intervalli di stile tragico e quasi, si direbbe, sinfonico, scandiscono in modo incisivo la tona­ lità di do minore. Il commento dei Fanciulli, a parte, è in sol minore. Il giro delle tonalità si fa instabile e affannoso: Pa­ mina raccoglie dai Fanciulli il tono di sol minore e lo tramu­ ta subito in fa minore. Il suo monologo è spezzato, affanno­ so, e racchiude (alle parole «bald werden wir vermàhlet sein») una stupefacente allusione a una figura strumentale bachiana. Attraverso la bemolle («Holdes Màdchen») si fa ritorno a mi bemolle maggiore («Dies gab meine Mutter miri ») Sulla parola «mir» s’instaura una preziosa relazione enarmonica tra il do bemolle di Pamina e il si naturale di due battute dopo. Il discorso oscilla ora tra sol minore e re maggiore. Ben presto (alle parole «Ha, des Jammers Mass ist voli! ») fa la sua apparizione quello che insieme all’insta­ bilità tonale, ai grandi intervalli e al ritmo sincopato, è l’al­ tro grande coefficiente musicale dell’espressione tragica di questa scena: il cromatismo. Alla citata frase, discendente, di Pamina, ne segue tosto una ascendente dell’orchestra (sincopati gli archi, in valori lunghi e tenuti i fiati), che un semitono dopo l’altro passa faticosamente dalla tonica alla dominante. Il tono fondamentale di mi bemolle si ristabilisce ormai in maniera definitiva nel momento culminante, quando Pa­ mina sta per vibrarsi la pugnalata e i tre Fanciulli saltano fuori dal loro nascondiglio per trattenerla. Scatta a questo punto l’Allegro, in 3/4. Questo Allegro consta anch’esso di due sezioni, la prima delle quali è tutta un’alternativa del­ le frasi corali di consolazione dei Fanciulli e delle individua­ li esclamazioni della disperazione di Pamina. Questa sezio-

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ne è introdotta, e poi tutta governata, da una straordinaria frase strumentale che si ripete di continuo, e che consiste d’una discesa di cinque note degli archi (talvolta coi flauti) e d’una risposta di clarinetti e fagotti, su cui si modellano le risposte dei tre Fanciulli a Pamina. Questa frase strumentale è straordinaria semplicemente perché, se la isolassimo, come si fa talvolta fotograficamente con certi particolari di quadri classici, ci avvedremmo che potrebbe stare perfettamente, senza bisogno del minimo ritocco, in una Sinfonia di Schu­ mann. L’intensità dell’espressione ha prodotto, per cosi di­ re, il romanticismo della forma. (È strano che l’Abert, il quale pure cita con un esempio musicale questa frase, non ne rilevi lo straordinario valore di anticipazione, e la elogi solo come «un amabile gesto di carezza»; mentre invece c’è nella frase piu impeto e più fuoco romantico). Sulla capacità di questa frase di rinascere sempre dalle proprie ceneri come la Fenice, si dispone tutta la prima par­ te dell’Allegro, sempre a dialogo tra le voci riunite dei Fan­ ciulli e quella singola di Pamina, con sottile contrasto tra la loro aerea serenità e la sua smarrita inquietudine terrestre. Non darei troppo peso a una possibile analogia d’una frase di Pamina («Fiihrt mich hin, ich mòcht’ihn sehn! ») con la sua frase di apertura nel Terzetto N. 19 (entrambe le frasi si potrebbero ricondurre a un modello precedente, nel Vaude­ ville finale del Ratto dal serraglio). Si noti invece il colore do­ loroso del do bemolle dei bassi, che con la sua ripetizione sottolinea e seconda l’ostinata insistenza delle parole di Pa­ mina: «Ich mòcht’ihn sehn!», voglio vederlo. Su queste parole termina la prima sezione dell’Allegro. Un breve stacco affidato a flauti e clarinetti, e poi la trage­ dia di Pamina finisce in quello che l’Abert suol chiamare «innigen Màrchengliick», intima felicità fiabesca. Cessa l’a­ gitazione del dialogo; le quattro voci femminili si uniscono in smagliante luminosità per una conclusione che qualcuno vuol considerare come una delle solite «moralità» sotto vo­ ce, che abbiamo conosciute nel primo atto. Le parole infatti possono suggerire una simile interpretazione («Due cuori che ardono d’amore, nessuna debolezza umana potrà mai separarli»), ma la linea musicale del discorso non è solo quel­

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la del coretto moralistico sottovoce: Pamina trova modo di segnalarsi in un prolungato e operistico acuto. Scena ventottesima.

Nuovo cambiamento di scena, questa volta designato con una descrizione minuziosissima. «La scena si trasforma in due grandi montagne: in una è una cascata, che si sente stor­ mire e rumoreggiare; l’altra montagna sputa fuoco; entram­ be hanno un’inferriata spezzata, dove si vedono (rispettiva­ mente) fuoco e acqua; là dove arde il fuoco, l’orizzonte de­ v’essere di un rosso acceso, e dove c’è l’acqua, giace una ne­ ra nuvola. Le quinte sono rocce, ed in ognuna si apre una porta di ferro». Siamo finalmente nel cuore delle prove d’iniziazione, che consistono - si ricordi - nel viaggio attraverso gli elementi: terra, aria, acqua e fuoco. Le prime due - terra e aria - ci sono state appena accennate in modo allusivo. Quella della terra pare si debba ravvisare nei frequenti tuoni, da intende­ re come fragori sismici, in particolare durante il dialogo fra Tamino e Papageno che segue il N. io, cioè l’aria con coro in cui Sarastro, invocando la protezione di Iside e Osiride sulla «nuova coppia» di iniziati, aveva detto, nell’ipotesi d’un loro insuccesso: «se dovessero scendere nella tomba». Alla terra, abbiamo visto, potrebbe anche alludere il fatto che nella scena ventiquattresima Papagena arrivi danzando pesantemente e appoggiandosi su un bastone. Dalla terra ar­ rivano, per una botola, a Papageno banchetto e calice di vi­ no, e la terra lo inghiotte, sempre attraverso la solita botola, quand’egli fa lo spaccone: «La terra deve piuttosto inghiot­ tirmi prima ch’io mi tiri indietro! » Abbiamo visto l’evidentissima simbologia dell’aria nel terzetto dei Fanciulli (N. 16), che arrivano in scena su una macchina volante: il disegno costante dei violini primi allu­ de apertamente al volo. Aereo è lo strumento magico di Ta­ mino, il flauto, cosi come terrestri sono gli argentei campa­ nelli di Papageno. Ma se non mancavano le allusioni ai due elementi, l’elemento della prova non era affatto evidente. Ora invece, per le due che rimangono, il senso del rischio, del cimento, è esplicito, anche se la natura delle prove stesse

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resta avvolta nel mistero, com’è del resto consuetudine nei riti massonici, di cui gli iniziati non debbono rivelare nulla ai profani. Va perciò subito accolta l’osservazione del Dent, ripetuta da molti altri studiosi, che Mozart non indulge ad alcuna de­ scrizione musicale del fuoco e dell’acqua, a differenza di quanto avrebbero fatto con entusiasmo Weber o Wagner1. L’idea di un incantesimo del fuoco non sfiora minimamente la sua fantasia musicale. Egli scarica le funzioni descrittive sulla messa in scena, e punta tutta la sua attenzione sull’idea della prova, del discrimine decisivo, della stretta a cui è per­ venuta l’avventura di Tamino (e di Pamina, che ben presto vedremo unirsi a lui). Per rendere questo senso della «pro­ va», dell’esame, col pericolo ad esso connesso, e la tensione d’impegno supremo che ad esso si accompagna (si pensi, an­ cora una volta, agli esami che Dante subisce in Paradiso: «Di’, buon cristiano, fatti manifesto»), Mozart ricorre ad espedienti cosi singolari che fanno della scena ora in esame il pezzo piu straordinario di tutta l’opera. Avevamo detto, a proposito della seconda aria di Papage­ no (N. 20: «Ein Màdchen oder Weibchen») ch’era forse il pezzo più famoso del Flauto magico. Potremmo ripeterlo a proposito di questo pezzo, ma per ragioni opposte. L’arietta di Papageno è il pezzo più famoso per la sua estrema facilità. Il cosiddetto «corale degli Armati» è il pezzo più famoso perché, in quest’opera di livello popolare e quasi infantile costituisce, insieme con X ouverture > l’unico pezzo di elevata difficoltà musicale. «Armati» è termine inesatto e sbrigativo per tradurre la parola tedesca «Geharnischte», che significa: rivestiti di ar­ matura. L’armatura di questi due personaggi è completata da un curioso elmo su cui è accesa, quasi una cresta, una fiamma, una specie di lampada da minatore (il Dent pensa alle candele fissate sui berretti di muratori e spazzacamini nell’epoca vittoriana). Essi sono i misteriosi guardiani del­ l’acqua e del fuoco: non potenze del male, dunque, bensì funzionari del regno di Sarastro. E tuttavia la loro stessa funzione di guardiani - di rappresentanti del potere e del1 DENT, Op. CÌt., p. 228.

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l’autorità - non li rende simpatici; tanto meno la strana e ostile armatura che indossano. L’impressione è cosi inevita­ bile, che lo Hocquard ritiene opportuno mettercene in guar­ dia: «gli uomini armati non rappresentano minimamente il male, non piu che i Cherubini con la spada fiammeggiante messi a guardia del Paradiso terrestre»2. D’accordo, ma guardie sono e la gente, si sa, ha simpatia per le guardie sol­ tanto quando la proteggono da ladri e da malviventi, non quando impongono divieti, contravvenzioni e castighi. A buon conto, è giustissima l’interpretazione dello scrittore francese: «Essi rappresentano l’aspetto strangolatorio della morte spirituale, e il passaggio per la Porta stretta». Onde rendere questo senso di severità, Mozart ha fatto un ricorso stupefacente a quello che si chiama in musica «stile severo», o «strenger Satz». E in maniera sorprenden­ te ha associato nella medesima scena due citazioni musicali religiose, una tratta dalla fede cattolica, ch’era la sua, e l’al­ tra da quella protestante, con la quale egli non aveva nessu­ na relazione (né nella cattolicissima Austria la religione ri­ formata aveva una presenza sensibile), ma che era musicalmente incarnata nell’enorme esperienza di Bach, sulla cui grandezza Mozart aveva a poco a poco aperto pienamente gli occhi. Tali elementi sono rispettivamente: il terzo Kyrie d’una Messa di Sant'Enrico (1701) del musicista Heinrich von Bi­ ber (1644-1704), attivo a Salisburgo, dove venne a morte, e probabilmente ancora eseguito in Duomo ai tempi del­ l’infanzia di Mozart, e un corale luterano, scrupolosamente indicato in una nota dello spartito con le parole originali: «Ach Gott, vom Himmel sieh’ darein». Questo corale, do­ vuto allo stesso Lutero, è rintracciabile fin dal 1524. Mozart lo dedusse sicuramente da una celebre opera teorica del suo tempo, Die Kunst des reinen Satzes in derMusik (1771-76), di Johann Philipp Kirnberger (1721-83). Quest’opera era, in­ sieme coi Grundsdtze des General-Basses (1781), il libro di te­ sto indispensabile per lo studio della composizione nei paesi di lingua tedesca. Certamente, l’una e l’altra opera erano uscite troppo tardi perché Mozart avesse potuto servirsene 2 HOCQUARD, Op. CÌt., p. 531.

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come studente; ma come insegnante, per esempio col giova­ ne Siissmayer, se ne sarà certamente servito, e in ogni caso non c’era musicista che non ne avesse preso conoscenza. In Die Kunst des reinen Satzes il Kirnberger cita spesso il corale in questione e lo adopera due volte come «cantus firmus» di composizioni a più voci. Il pezzo di cui ora ci occupiamo è un «adagio», in do mi­ nore, tempo pari. Il vero e proprio, straordinario, lavoro di combinazione del corale luterano col severo fugato sopra il Kyrie di Biber è preceduto da sei battute d’introduzione or­ chestrale, la prima delle quali è semplicemente un triplice e solenne rintocco (degli archi coi tromboni) sulla tonica. Poi due battute discendenti d’una specie di corale dei fiati (flau­ ti, oboi e fagotti, coi violoncelli), lamentoso, quasi lugubre. Alla quarta battuta, nuovo triplice rintocco, questa volta sulla dominante, e poi altre due battute di lamento dei fiati. A questo punto, tacendo tutto il resto dell’orchestra, i violini secondi, soli, introducono il motivo del Kyrie di von Biber, accorciato e ridotto a una sola battuta, con un guar­ dingo «staccato» che si manterrà per tutta la durata del fu­ gato. Una battuta dopo entrano, all’ottava, i violini primi, con la medesima figura, anch’essa ridotta a una sola battuta. Il tema biberiano si srotola invece in tutta la sua lunghezza, di tre battute e mezza, alla terza entrata, che è delle viole, rinforzate dai violoncelli. La quarta entrata sarà di violon­ celli e bassi. Ma nel frattempo i violini primi hanno già in­ trodotto il controsoggetto, che a dire il vero è l’elemento più importante e più caratteristico di tutto il pezzo, più dello stesso tema biberiano e più del corale luterano che verrà in­ tonato fra poco dai due «Geharnischte». Da esso viene a tutto il pezzo il suo carattere arcaico di venerabile contrappuntismo bachiano: è una figuretta spezzata di tre crome, separate ogni volta da una pausa di croma, che scendono per gradi cromatici, come un tedioso stillicidio, sopra l’enuncia­ zione del tema biberiano, ora lungamente dipanato dai bas­ si. Dice l’Abert che questa figura si trova anch’essa (e ne re­ ca un esempio musicale) nell’elaborazione di un altro corale («Es woll’uns Gott genàdig sein») ad opera dello stesso Kirnberger (che tra le sue pubblicazioni aveva pure una ela­ borazione a quattro voci di corali di Bach). Ma più giusto è

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quanto lo studioso aggiunge in nota, e cioè che «il motivo porta in fronte il marchio della sua origine dalla scuola di Bach». (Kirnberger era forse stato allievo di Bach a Lipsia). Se ne veda un impiego nell’aria di soprano «Biute nur, du liebes Herz», della Passione secondo San Matteo. A questo punto, col meccanismo della fuga ormai piena­ mente avviato nella sua combinazione di soggetto e contro­ soggetto, le voci dei «Geharnischte», tenore e basso all’ot­ tava, intonano il corale luterano. Viene giustamente fatto osservare, specialmente dallo Chailley, il quale in questa sce­ na vede quasi la culminazione del suo studio di interpreta­ zione massonica del capolavoro mozartiano, che i due guar­ diani dell’acqua e del fuoco non «cantano un corale». Essi conducono Tamino, senza sandali e leggermente vestito (co­ me si conviene a un neofita), davanti a una piramide su cui sta una scritta trasparente, eh’essi gli leggono, con la melo­ dia del corale luterano. Le parole vengono quasi di peso, co­ me prova lo Chailley con riproduzione fotografica del testo originale, dal Séthos di Terrasson. Séthos Chiunque farà da solo que­ sta strada, senza guardarsi in­ dietro, sarà purificato dal fuo­ co, dall’acqua e dall’aria; e se può vincere il terrore della morte, uscirà dal seno della terra, rivedrà la luce e avrà di­ ritto di preparare la propria anima alla rivelazione dei mi­ steri della grande dea Iside.

Plauto magico Colui che, pieno d’affan­ no, percorre questa strada, di­ verrà puro attraverso fuoco, acqua, aria e terra; se potrà superare il terrore della mor­ te, si slancerà dalla terra al cielo. Illuminato sarà egli allo­ ra in grado di dedicarsi inte­ ramente ai misteri di Iside.

Le parole massoniche del libretto di Schikaneder non hanno lo stesso numero di sillabe del corale luterano, perciò il musicista è costretto spesso a raddoppiare le note lunghe e uniformi del corale, il quale invece è eseguito nella sua li­ nea pura da flauti oboi e fagotti, in minime, e dai tromboni, in semiminime separate da pausa di semiminima. Giusta è l’osservazione del Labroca che rileva «il senso di indipen­ denza del corale dalla macchina contrappuntistica» degli ar­

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chi3. Le due cose procedono di pari passo senza mescolarsi, come acqua e olio. Lo Hocquard cita al riguardo una bella frase del dilettante russo Ulibischeff, un personaggio pitto­ resco della cultura musicale nell’ottocento, le cui due opere, su Mozart e su Beethoven, meriterebbero probabilmente un’attenta rilettura: «La coppia misteriosa canta per conto proprio, mentre i temi di fuga, indipendenti da parte loro, s’ingranano come le ruote di un orologio che cammina sem­ pre, ma sul quadrante del quale non si vedono né cifre né sfere»4. La melodia del corale originario finiva là dove termina ora il verso «erleuchtet wird er dann im Stande sein». Per l’ultimo verso del testo di Schikaneder Mozart fu costretto ad aggiungere una conclusione di sua invenzione, sia per co­ prire tutte le parole, sia per dare al cantico una chiusa mo­ dernamente intesa sulla tonica (do), mentre la melodia cin­ quecentesca si chiudeva a mezz’aria, secondo le abitudini modali, e non tonali, dell’epoca. C’è chi trova che questa ag­ giunta non sia molto felice e sappia di appiccicatura. Nel frattempo gli archi hanno dipanato fino alla fine il gomitolo delle loro deduzioni contrappuntistiche sul tema Staccato del Kyrie, e cosi il pezzo giunge alla sua conclusione naturale, in do (maggiore), per lasciar posto, senza interru­ zione, all’intervento di Tamino, in tutt’altro stile musicale. Se si intuisce abbastanza facilmente la ragione del ricorso a un pezzo di «strenger Satz», in stile severo, per rendere la severità della situazione, giunta al punto cruciale, e si com­ prende quindi l’impiego d’uno stile contrappuntistico rigo­ roso, per quanto esso sia cosi diverso dallo stile generale del­ l’opera, non si può fare a meno di chiedersi, con lo Chailley: perché un corale luterano? Lo studioso francese propone due risposte, che si completano l’una con l’altra. Anzitutto egli osserva che le parole originali del corale luterano sono una parafrasi del Salmo XI (Salvum me fac), dove a un certo punto si dice: «Quanto pochi sono i tuoi santi! », sfiorando cioè l’idea della iniziazione riservata agli eletti, e in altro 3 labroca, op. cit., p. 77. È anche il Labroca a rilevare «l’importanza che as­ sume una figurazione del contrassoggetto». 4 HOCQUARD, Op. cit., p. 530.

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punto si accenna all’argento che, «provato dal fuoco sette volte, si troverà piu puro». (Nel testo biblico: «Argentum igne examinatum, probatum terrae, purgatum septuplum»). Ora nella liturgia cattolica i Salmi non hanno una melodia fissa, ma la cambiano da una festa all’altra (salvo l’eccezione di In exitu Israel de Aegypto). Volendo richiamare quei con­ cetti, senza usare le parole stesse del Salmo, Mozart avrebbe pensato di usare la melodia luterana applicata stabilmente a quel Salmo5. L’altra ragione che lo Chailley adduce con molta cautela ed in forma dubitativa ci sembra in verità assai piu persua­ siva, e soprattutto più suggestiva. Secondo certe Costituzio­ ni citate dallo Chailley, la Massoneria settecentesca combat­ teva duramente l’ateismo e l’irreligiosità, ma non riteneva poi di dover prendere posizione per una religione piuttosto che un’altra, «lasciando ad ognuno le proprie opinioni, cioè di essere uomini per bene, quali che siano le denominazioni o confessioni che servono a distinguerli». Non ci sarebbe da stupire che questo ideale ecumenico, come oggi si direbbe, fosse condiviso da Mozart, e che egli abbia voluto elevargli un nobile monumento musicale mescolando in questa pagi­ na un corale luterano col Kyrie d’una Messa cattolica. Sul significato espressivo e il valore artistico di questa pa­ gina sono da ritenere le conclusioni dell’Abert, secondo cui era intento del compositore rendere attraverso un «severo colorito religioso» il terrore dell’ora decisiva a cui è giunto Tamino. «Ma vi si mescola anche un tratto soggettivo, che risulta con evidenza dai testi originali delle due melodie: la coscienza che ha l’uomo della propria colpevolezza nel pec­ cato e la preghiera per ottenere la pietà del Signore. E vera­ mente tutto il pezzo è immerso in profondo dolore, come di­ mostrano specialmente il motivo di lamento a guisa di sospi­ ro e la condotta cromatica delle voci che si manifesta già a partire dalla terza battuta. Cosi questo corale figurato, le cui ultime radici si trovano in Bach, sviluppa una commovente immagine: il pellegrinaggio lungo l’oscura strada della vita, al termine della quale aspetta la morte, e il senso d’impoten­ za che sempre più schiaccia al suolo il viandante. C’è un’in­ 5 CHAILLEY, Op. CÌÌ., pp. 125, 154-55, e 291.

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quietudine demoniaca nell’incessante, sempre uguale passo del tema di Kyrie e nei sospiri che gli rispondono costantemente, mentre la melodia del corale procede come il bron­ zeo destino attraverso l’intreccio delle voci. Il pezzo è con­ trappuntisticamente rigoroso e riduce al minimo gli inter­ mezzi, affinché la marcia del corale non abbia a subire in­ terruzioni. La tonalità rimane, almeno per la terminazione d’ogni versetto, do minore, anche là dove al principio, in conformità col senso del testo, appare il mi bemolle maggio­ re. Nell’ultimo versetto, dove il moto discendente investe l’intera orchestra, tutto il pezzo sembra avvolto dall’affan­ noso presentimento di morte. Cosi l’inclinazione dell’opera viennese verso il contrappunto, sensibile fin dai tempi del vecchio Fux, raggiunge in questo pezzo la sua piu alta spiri­ tualizzazione drammatica». Lo straordinario corale dei «Geharnischten» in realtà non è altro che un prologo alla scena culminante del dram­ ma, quella delle prove del fuoco e dell’acqua. Gli archi hanno appena condotto a una terminazione so­ spesa il motivo, sempre Staccato, del vecchio Kyrie di von Biber, che Tamino, in fa minore, proclama la sua risoluzione di « agire da uomo », senza paura della morte, per seguire la via della virtu. Con l’energia dei suoi ampi intervalli, col rit­ mo risoluto di tre brevi contro una lunga, è uno dei non po­ chi momenti prewagneriani del declamato di Tamino: se alle volte egli ci ha fatto pensare a Parsifal, qui parla come Sig­ frido. «Apritemi le porte del terrore», egli chiede: e un tre­ molo degli archi sottolinea l’espressione. Dall’interno, come se scendesse dal cielo, giunge la voce di Pamina: «Ferma, Tamino! debbo vederti! », e sulla secon­ da parte della frase, che porta a re bemolle, Pamina ritrova la figura di quattro note che nel Finale I già era apparsa a rendere la gioia del loro primo incontro («Ich glaub’ es kaum! »): primo esempio d’una fitta rete di richiami che in questa scena occorrono come nodi al pettine, alludendo a precedenti situazioni analoghe. Sarebbe assurdo attribuire a Mozart un deliberato uso del leit-motiv o anche solo del weberiano «motivo di reminiscenza»: tuttavia è anche dif­ ficile attribuire soltanto al caso queste coincidenze, sebbene possa supporsi una specie di necessità organica e morfologi-

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ca per cui a situazioni affini corrispondono spontaneamente figure musicali affini. Al lieto stupore della domanda di Tamino, «Che odo? la voce di Pamina?», sopra un ritmo sincopato degli archi, ec­ co avvenire un miracolo: l’umanizzazione dei «Geharnischten», che pur catafratti nella loro antipatica armatura di pizzardoni, dopo avere sbraitato con impersonale rigidità il loro corale, ora si rivelano due bonaccioni, tutti contenti di poter confermare a due voci: « Sf, sf, è la voce di Pamina! » E a tre, con Tamino, ecco rizampillare il vecchio tono popolarfiabesco del Flauto magico', sulle parole «Fortuna per me (te), ora ella può venire con me (te), piu non ci (vi) separa il destino », ci viene incontro la dolce melodia popolaresca con cui le tre Dame, alla fine del Quintetto N. 5, avevano an­ nunciato a Tamino e Papageno il soccorso dei tre Ragazzi. Proprio in questo punto riappaiono nella partitura i clarinet­ ti, che erano presenti nel Quintetto N. 5: riesce davvero un po’ difficile pensare a coincidenze puramente casuali. Sempre rispettoso dei regolamenti, Tamino chiede ai due pizzardoni: «Mi è permesso parlarle?», e quelli sono tut­ ti contenti di rispondergli, quasi facendogli il verso: «Ti è permesso parlarle». Un’altra nostra vecchia conoscenza fa a sua apparizione, quando Tamino esclama, in un florido la Demolle maggiore: «Che felicità, rivederci e andare lieta­ mente al tempio, la mano nella mano! » E nientemeno che la frase discendente di settima nella quale era racchiusa e per cosi dire imprigionata la melodia di Tamino all’inizio dell’a­ ria del ritratto (N. 3). Ora che l’opera sta volgendo al termi­ ne sembra quasi che il passato ci venga incontro da tutte le parti: il compositore raccoglie quello che aveva seminato nella nostra memoria, le reminiscenze zampillano e ammic­ cano coinvolgendoci nella loro rete allusiva. Puntualmente i gendarmi fanno, eco e tengono bordone: «Che felicità rivederci...», con note comicamente separate da una pausa: par quasi di vedere le loro grosse teste di ma­ rionette dondolare buffamente nella soddisfazione di poter­ si finalmente mostrare cordiali verso questa coppietta di gio­ vani cosi simpatici, dopo aver dovuto esibire tutta la severi­ tà del loro «strenger Satz» in stile antico di corale. Sulle parole, certamente emblematiche e cariche di re­

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conditi significati, «la mano nella mano», Tamino replica subito la discesa melodica di settima dell’aria del ritratto (frase che non si comunica mai ai «Geharnischten») e la bra­ va Pamina, «una donna che non teme la morte», viene pro­ clamata degna d’essere iniziata, rimediando cosi con questa consacrazione alle frequenti frecciate antifemministe del ri­ tuale massonico accolte precedentemente nel libretto. Una breve transizione esitante dei violini accompagna l’a­ zione dell’apertura della porta per ammettere Pamina, e sembra voler modulare dal precedente la bemolle verso fa minore. Ma, con straordinario «effet d’éclairage», come di­ ce lo Chailley, è invece in un luminoso fa maggiore che, do­ po l’intenso silenzio di un punto coronato, Pamina e Tamino si gettano nelle braccia l’uno dell’altra e danno inizio a quel­ lo che lo scrittore ora citato chiama il «primo pannello» della celebre trilogia di «grandes retrouvailles» amorose nell’ope­ ra in musica6. Le altre saranno: «Tristan! - Isolde! - Geliebter!» e: «Pelléas! - Melisande! Est-ce toi, Melisande?» «Tamino mio! », grida, su una frase discendente con ana­ crusi di sesta ascendente, Tamina. E subito, sulle parole se­ guenti: «o welch’ein Gliick! » (che felicità!) ritrova la già ri­ cordata figura di quattro note del loro primo incontro. Ta­ mino riprende la frase, ch’essa aveva lasciato aperta sulla dominante, e la chiude sulla tonica: prolungando la sua frase discendente, eccolo ricavarne la discesa melodica di settima della «Bildniss-Arie», e subito, puntualmente, ripetendo le parole «O welch’ein Gliick!» anche lui ripete la figura di quattro note del loro primo incontro, quando riconoscendo­ si d’istinto si erano abbracciati coram populo, davanti a Sa­ rastro, a Monostato e a tutti i Sacerdoti. Dopo le due esclamazioni entusiastiche, l’Andante si av­ via ora su un discorso continuato dove il canto di Pamina tocca una tale purezza ed intimità di vibrazioni da far dire allo Abert che l’opera non aveva ancor mai conosciuto toni di cosf ingenua tenerezza. E allo Hocquard questo duetto che termina in quartetto (con l’intervento dei «Geharni­ schten») sembra «il punto di culminazione del Flauto magi­ co , il punto estremo dell’ispirazione che, da un pezzo all’al­ 6 Ibid., p. 294.

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tro, si concentrava sempre piu». Ancora una volta quest’o­ pera popolare e bambinesca ci ricorda l’altezza della Divina Commedia', Pamina sembra Beatrice quando, non che spau­ rirsi per l’avvertimento di Tamino («Qui sono le porte del terrore: affanno e morte mi minacciano»), gli risponde con semplicità: «Io sarò dovunque al tuo fianco; io stessa ti gui­ derò, l’amore mi guida». Non è vero al cento per cento quel­ lo che affermano molti studiosi, che il Flauto magico sia uni­ camente un dramma di simboli e d’idee, al di là di ogni real­ tà psicologica7. Noi non crediamo di avanzare un’interpre­ tazione tendenziosa sottolineandone gli aspetti umani, non solo nel personaggio cosi terrestre di Papageno, ma anche nella giovane coppia degli iniziati, soprattutto nel candore incantevole di Pamina, che è pura ma non insulsa, che è co­ raggiosa ma non sfrontata, vera sublimazione dell’ideale femminile di Mozart. Il duetto si assesta sopra un’impalcatura strumentale co­ stituita da crome ribattute degli archi, note lunghe (minime col punto) di fagotti e corni, e certi pizzicati dei bassi, in gruppi di cinque note separate l’una dall’altra da una pausa, ai quali l’Abert attribuisce il significato di un’eco lontana dei terrori che minacciano la coppia degli iniziandi. Non è d’accordo con questa interpretazione lo Hocquard, che nei pizzicati dei bassi vede piuttosto lo stabilimento di «un rit­ mo incantatorio» che blocca il tempo e lo immobilizza stra­ namente8. Sembra nel vero lo scrittore francese, ché nessu­ na inquietudine turba per il momento la mistica felicità dei due innamorati. Pamina ricorre ben presto anche lei alla di­ scesa melodica di settima della «Bildniss-Arie», ripetendola due volte consecutive e spremendone (sulle parole «weil Ro­ sen stets bei Dornen sein») un acuto sentore di Lied roman­ tico. Da fa maggiore si passa in do maggiore quando Pamina invita Tamino a suonare il flauto magico per comune prote­ zione e, in maniera un po’ inopinata, gliene racconta l’origi7 Cfr., per esempio, ANNA AMALE abert nel recente voi. VII della Oxford Hi­ story of Music (The Age of Enlightenment}, p. 168: «Nel Plauto magico (Mozart) penetrò in un mondo di idee, dove ogni personaggio ha il suo posto fisso dentro il suo gruppo». 8 HOCQUARD, Op. cit., p. 534.

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ne, completando cosi l’informazione sugli antefatti della vi­ cenda, già largamente avviata dalla Regina della Notte nel «parlato» che precede la sua seconda aria. Il flauto era stato ritagliato dal padre di Pamina (predecessore di Sarastro nel regno della Saggezza), dal cuore di una quercia millenaria, «in einer Zauberstunde», in un’ora magica, «tra tuoni e ful­ mini, tempesta ed uragano». «Quasi romantico» suona, se­ condo l’Abert, questo oscuro episodio, dove si passa al tono di sol minore. Il colorito leggendario è accentuato dal tim­ bro di un fagotto solitario e violenti tremoli degli archi sot­ tolineano l’idea della tempesta, dei tuoni e dei fulmini. Ancora una volta il canto di Pamina s’appropria della melodia di settima discendente, poi Tamino e i «Geharnischte» intervengono a formare un quartetto, di cui si dice sempre che sia stato per Wagner il modello del quintetto dei Maestri Cantori. Tamino introduce e ripete tre volte un dise­ gno ornamentale di quattro note, mentre il canto di Pamina è più melodioso; ben presto i due si scambiano le parti, men­ tre i «Geharnischte», per lo più a distanza di decima (sono uno tenore e l’altro basso) eseguono anch’essi un disegno melodico più che altro ornamentale. Gli strumenti si asso­ ciano variamente alle parti vocali, e lo spessore polifonico della scrittura è considerevole, anche se non si tratti mai di stile contrappuntistico, bensì di consonanti armonie. Per l’Abert l’espressione è quella di una «Verklàrung», un ras­ serenamento, a carattere quasi mistico. Lo Hocquard di­ ce che si tratta di una enunciazione della Ars poètica di Mo­ zart, tenendo conto soprattutto delle parole stilate abba­ stanza sottilmente da Schikaneder - «Noi procediamo (voi procedete) grazie alla potenza del suono attraverso l’oscura notte della morte» - dove « Macht » (potenza) fa rima con «Nacht» (notte), e «des Tones» (del suono) fa da corrispet­ tivo a «des Todes» (della morte). Conchiuso il quartetto vocale, una bellissima frase di ar­ chi e fagotto all’unissono e per terze (di solito poco rilevata dai commentatori) accompagna l’aprirsi delle porte che ad­ ducono alle prove del fuoco e dell’acqua; Pamina e Tamino vi si avventurano. Dice la didascalia: «si sente il rombo del fuoco e il soffio del vento, di tanto in tanto anche il rumore cupo del tuono, e strepito d’acque». Di questi pretesti de-

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scrittivi, che naturalmente sarebbero stati un invito a nozze per un compositore romantico, la musica non degna prende­ re nota. Essa si applica interamente al fatto che «Tamino suona il suo flauto, accompagnato a tratti da timpani vela­ ti». Nessun incantesimo del fuoco, quindi, nulla di demo­ niaco né di raccapricciante nelle famose prove che costitui­ scono la culminazione della vicenda. La nostra plateale cu­ riosità di vedere Tamino e Pamina passare come salamandre attraverso le fiamme, e poco oltre dibattersi tra i flutti, è to­ talmente e deliberatamente delusa. Il suono del flauto di Ta­ mino dà luogo a una Marcia, Adagio, in do maggiore, dove lo strumento disegna calmi e quasi arcadici arabeschi, inevi­ tabilmente reminiscent! dell’a solo di flauto della scena dei Campi Elisi nell’Orfeo ed Euridice di Gluck, e non manca di appropriarsi anch’esso della discesa melodica di settima, proveniente dalla «Bildniss-Arie». L’arcadica melodia del flauto si staglia nettissima sopra un sottile sfondo sonoro, nel gusto di Serenata, costituito da accordi isolati di corni, trombe e tromboni, con lievi rintocchi dei timpani smorzati. «Non si saprebbe immaginare - scrive il Breydert - una melodia piu separata dal mondo esterno dei suoni, un piu ri­ goroso isolamento di un timbro»9. Appena usciti dal fuoco (che noi non abbiamo visto), Pa­ mina e Tamino si abbracciano e rimangono in mezzo alla scena, cantando una melodia nient’affatto eroica, ma piut­ tosto pastorale, o secondo l’Abert popolaresca: «Siamo pas­ sati attraverso le fiamme, abbiamo combattuto bravamente il pericolo. Il tuo suono ci protegga nelle acque, come già ci protesse nel fuoco». Nuova suonatina di flauto, identica alla precedente, e di nuovo Tamino e Pamina arrivano felici e contenti dalla breve prova, cantando un’altra strofetta di ringraziamento, questa volta molto più corta. L’interiorizzazione della vicenda è quindi deliberata e to­ tale in questo tempo di Marcia lenta, che all’Abert pare di «suono solennemente mistico». Tutto l’orrore della situa­ zione dovrebbe essere affidato alla messa in scena. Nella musica - scrive l’Abert - non c’è posto per l’inconscio, il caotico, l’orribile: essi non possono prevalere contro la co­ BREYDERT, Op. cit., p. 152.

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scienza. «Né ricordo dei pericoli attraversati, né giubilo ap­ passionato...: solo la tranquilla, sognata felicità della sicurez­ za finalmente conseguita». Dopo la seconda prova, sul palcoscenico dev’essersi aperta una porta, attraverso la quale si vede l’ingresso di un tempio sfarzosamente illuminato: di là tosto scoppia il coro trion­ fale dei Sacerdoti che acclamano i vittoriosi («Triumph! Triumph! Du edles Paar!»), con gran strepito di fanfare (oboi corni trombe, oltre agli archi) sul ritmo rimbombante segnato dai timpani, questa volta non piu velati. Del coro impetuoso, sommario e un po’ superficiale si fa sempre no­ tare l’analogia di una frase con l’inizio della Marsigliese (alle parole: «der Isis Weihe ist nun dein»), Marsigliese che allo­ ra non era ancora scritta, e che del resto Mozart aveva già una volta miracolosamente presagita nel Concerto per piano­ forte K. 503. Apparentemente l’opera potrebbe essere finita, e non è detto che molti spettatori a questo punto non si alzino dalla poltrona. Ma finirebbe malissimo, con una rumorosa chias­ sata, e lasciandoci all’oscuro sulle sorti del nostro caro Papa­ geno. D’altra parte, a prevenire che non si tratta della fine, basterebbe il tono, di do maggiore: tono di sfavillante splen­ dore, che libera dall’oppressione del grave do minore nel co­ rale degli Uomini Armati, ma non di grave e solenne gran­ dezza, come il mi bemolle maggiore che apre, e naturalmen­ te chiuderà l’opera, riportandoci nel clima mistico dell’ini­ ziazione. Ma del resto, che l’opera non finisca a questo pun­ to conferma la nostra opinione che, in fondo, e magari in maniera inconscia, le vere prove non sono quelle del cerimo­ niale massonico, bensì quelle della vita attraverso cui deve passare l’uomo per conquistare duramente la felicità a lui dovuta, prove nelle quali, allora, anche le discipline di sette e religioni possono configurarsi negativamente come intral­ ci e ostacoli frapposti dalla civiltà sul cammino dell’uomo verso un paradiso terrestre naturale, ma perduto. E su que­ sto tema ha ancora molte cose da dirci Papageno, versione popolare dell’uomo-natura secondo la concezione di Rous­ seau.

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Scena ventìnovesima (Papageno).

E venuta anche per Schikaneder l’ora della scena madre, e Mozart lo serve regalmente: non piu una canzoncina a cou­ plets da ripetere tali e quali, come nei due casi precedenti (N. 2 e N. 20), bensì un ampio pezzo musicale in forma di rondò, in quattro episodi, col quale anche Papageno vuol farsi dei meriti nella fondazione del canto teatrale in lingua tedesca, non meno di Sarastro, Tamino e Pamina. Non sem­ bra infatti accettabile F analisi dello Chailley, che vorrebbe ridurre anche questa vasta cantata di Papageno a quattro re­ frains o ritornelli, ogni volta preceduti da una diversa intro­ duzione. Questa è precisamente la forma del rondò. Completando la rete di simmetrie tra le due coppie di personaggi, quella elevata e quella umile, Papageno dà la re­ plica, a suo modo, al tentato suicidio di Pamina, personaggio cui lo legava nel primo atto una curiosa solidarietà, e conse­ gue anche lui il risultato finale di Tamino: la conquista della propria donna. Naturalmente il suicidio tentato da Papage­ no non è nell’alto stile tragico di Pamina, a base di classico pugnale. E un suicidio da poveri: un pezzo di corda e un al­ bero a cui impiccarsi, nel modo piu economico possibile. Gli studiosi non sono molto d’accordo non solo sulla for­ ma del pezzo, ma anche sul modo d’intenderne il significato espressivo. Per l’Abert il' tema circolare su cui viene sempre a battere il rondò di Papageno è «simbolo della decisione di morte» su cui sempre il personaggio ritorna, e il grande bio­ grafo mozartiano vi scorge nientemeno che uno stile severo e un effetto di particolare energia dovuto all’insistenza della doppia dominante. «Anche Papageno si trova davanti alle oscure porte del destino», come Tamino nel corale figurato. Per lo Chailley «il tono leggero di sol maggiore e un ritmo allegro in 6/8 ci riconducono nel clima delle scene dell’Uccellatore, senza riferimento alla sua disperazione, che resta un sentimento di commedia»1011 . Anche per lo Hocquard si tratta d’una «sorta di tragicommedia burlesca che fa la paro­ dia del dramma di Tamino»ll. Sembrano più vicini al vero i 10 CHAILLEY, Op. CÌt.} p. 298. 11 HOCQUARD, Op. CÌt., p. 538.

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due studiosi francesi, tanto più che nel corso del rondò si istituisce un episodio comicamente funebre in sol minore: se già fosse tragico l’inizio del rondò, tutta l’efficacia di questa inserzione burlesca svanirebbe. Il rondò vocale è preceduto da dodici battute di intro­ duzione orchestrale (con flauti, oboi, fagotti e corni oltre agli archi), che ne racchiudono già tutti gli elementi, tra cui la solita zufolatina di cinque note ascendenti del fischiet­ to di Papageno. L’idea fissa del rondò - un corrivo motivo circolare in 6/8, molto invitante e cordiale - viene alla fine di ogni episodio, sempre introdotto da una doppia cadenza di settima di dominante (re-fa-la-do, che risolve su sol), tanto che - scrive l’Abert - «il suo inizio ne sembra la naturale continuazione». Effettivamente questa allettante melodia ha proprio la curiosa caratteristica di sembrare che cominci a metà, come se fosse già avviata, preceduta da un inizio sot­ tinteso. In realtà non è sottinteso niente affatto, e in ogni sezione del rondò è costituito dalla prima parte, sempre più estesa da una sezione all’altra. Bellissima è l’osservazione di Mario Labroca sull’inizio della prima sezione (introduzione strumentale agli archi, e poi Papageno sulla triplice invoca­ zione: «Papagena!»): «Il tema con l’elevarsi lungo le no­ te dell’accordo di sol dà il senso della invocazione»12. Il can­ to, sillabico e declamante, rotto in interiezioni insistenti («Weibchen! Tàubchen!»: donnina! colombella!), modula alla dominante (ré) per ridiscendere gradevolmente al tono fondamentale con la melodiosità dell’idea fissa conclusiva. Anche l’Abert trova tragicomico l’episodio in mi minore che dà inizio alla seconda sezione, col curioso cromatismo dei violini primi: un’avventurosa scorribanda strumentale di sapore vagamente zingaresco. Non sembra sia da porre in relazione con l’idea del vino, menzionato solo metaforica­ mente da Papageno, perché il medesimo episodio, in sol maggiore, ritornerà nella quarta sezione, dove di vino non si parla affatto. La prima parte della seconda sezione è già un po’ più estesa che nel caso precedente, e invece di toccare soltanto la dominante (re), vi sovrappone un’escursione alla dominante della dominante (la), da cui poi naturalmente è 12 LABROCA, Op. CÌt., p. 8o.

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piu lungo il ritorno alla tonica, per mezzo del passaggio ob­ bligato attraverso la dominante re, per raggiungere la solita idea fissa conclusiva. Nella terza sezione Papageno tira fuori una corda per mettere in atto il suo funesto proponimento: «voglio an­ dare ad ornare questo albero», e si congeda dal «nero mon­ do» (più tardi, dal «falso mondo»), con un comico «gute Nacht», che potrebbe essere ricordo parodistico d’una cele­ bre cantata bachiana. La musica entra in un buffonesco sol minore, corrispondente a quello tragico e serioso di Pamina in analoga circostanza, poi va al relativo maggiore (si bemol­ le), di qui a re maggiore, quindi indugia a lungo sulla solita settima di dominante (re-fa-la-do) prima di rientrare nell’al­ veo della consueta idea fissa conclusiva in sol maggiore. Se­ condo lo Chailley questo indugio, quando la terza sezione ha ormai raggiunto l’estensione delle precedenti, è un sottile effetto comico suggerito dalla situazione: Papageno ha deci­ so d’impiccarsi, ma in realtà si guarda intorno disperatamente per vedere se almeno una ragazza arrivi che si prenda pietà di lui. Invece nessuno viene, «nessuno mi sente, tutto è silenzio, tutto tutto silenzio! » (Non è la prima volta che la liquidità della parola «stille» si presta ad un effetto comico). La quarta sezione comincia, come s’è detto, con la scorri­ banda zingaresca, ma in sol maggiore. Papageno s’infila il cappio al collo e poi dà di piglio al suo zufolo per un estremo appello, contando «uno, due, tre!», sempre più lentamente tra una fischiatina e l’altra. Ovvio effetto comico del rallen­ tamento progressivo delle zufolatine, e più spiritoso ancora il fatto, rilevato dallo Chailley, che a ciascuna delle scalette ascendenti di cinque note non risponde questa volta la con­ sueta cadenza dei fiati su settima di dominante-tonica, bensì un angoscioso silenzio prolungato da un punto coronato: «décidément, la machine à miracles est détraquée»13. Ulti­ mo, sconsolato «gute Nacht, du falsche Welt! » in lamento­ so sol minore, e poi questa volta non sopravviene la consue­ ta idea fissa circolare, bensì la triplice voce dei Ragazzi che costruiscono un accordo di settima per frenare il gesto di­ sperato di Papageno, risolvendo in un chiaro do maggiore. 13 CHAILLEY, Op. CÌt.t p. 299.

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Papageno riporta il discorso in sol e in re maggiori nella sua rimostranza («avete un bel dire e scherzare, voi, ma se vi bruciasse come brucia a me il cuore, anche voi andreste in cerca di ragazze»). Da sol maggiore a do maggiore oscilla di continuo il discorso durante 1’allegro consiglio dei Ragazzi a Papageno di ricorrere ai suoi magici campanelli, ed è incre­ dibile quanta freschezza possa conferire a formule armoni­ che cosi elementari Parte mozartiana del «prefabbricato» musicale: le locuzioni piu logore e scontate ritrovano una nuova verginità quando vengono addotte sapientemente, con Paria d’una citazione inevitabile. L’argentina suoneria del Glockenspiel si dispiega nell’aria intorno alle frasette cantate da Papageno su accompagnamento degli archi, in lu­ minoso do maggiore. E l’atmosfera magica di aerea serenità che già abbiamo conosciuto nel primo atto, quando il Gloc­ kenspiel aveva salvato Papageno e Pamina allontanando gli uomini di Monostato in un’irresistibile voglia di ballare. E il senso della fraternità umana, dell’innocenza che inerisce strettamente nella trovata timbrica di questo strumento la cassetta magica. «Se Papageno riesce talmente a intenerirci, è perché tocca ciò che ogni spettatore ha conservato in sé della propria infanzia»14. Cosi scrive lo Hocquard, e aggiun­ ge altre considerazioni sulla funzione di Papageno, quale «archetipo di certi aspetti dell’uomo», di «impedire al Flau­ to magico di diventare un lavoro a tesi e di versare in un mi­ sticismo sofisticato». Con le sue canzoncine « propices au frédonnement » fa tenere a Tamino i piedi sulla terra del realismo. Mentre Papageno canta al suono del Glockenspiel i tre Ragazzi corrono al loro «Flugwerk», il loro apparecchio, e ne traggono la bellissima giovinetta Papagena, invitando poi Papageno con una pomposa perorazione, sospesa sulla sen­ sibile di sol maggiore, a guardarsi intorno. Gli archi soli, staccatissimo, avviano un pimpante moti­ vetto, reso pungente da due trilli e una terzina, sul quale i due Papageni iniziano il gioco buffonesco e sublime dei loro «Pa... pa... pa...» dapprima esitanti e poi sempre piu entu­ siasticamente ravvicinati e tumultuosi. Ancorché un po’ di14 HOCQUARD, Op. CÌt., pp. 538 e 541.

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lungato nella visione dei futuri Papageni e Papagene che ver­ ranno ad allietare l’unione dei due capostipiti (il Labroca lo definisce un «programma demografico»), questo duetto in semplice forma tripartita: sol maggiore, re maggiore, sol maggiore - segna regolarmente l’acme del successo in ogni rappresentazione del Flauto magico. Un’ondata di euforia passa come un gas esilarante sulla platea e nessuno potrà mai dire le ragioni per cui una simile farsa sillabica, di contenuto musicale quasi puerile, produca insieme all’allegria un tale effetto di commozione. E uno dei tanti casi in cui l’arte di Mozart sfiora, nelle apparenze della piu infantile semplicità, un presagio inconscio di verità altissime. Del farsesco esor­ dio del duetto dei Papageni sono possibili interpretazioni ai piu diversi livelli. Su un piano naturalistico, il tartagliamen­ to sillabico si può spiegare benissimo come effetto d’un’in­ contenibile trepidazione: la gioia del ritrovarsi è tanta, che le parole non riescono a uscire dalla strozza. Su un piano, per cosi dire cosmologico, di quella che il Vico avrebbe chiamato la storia naturale eterna dell’uomo, si potrebbe avanzare l’i­ potesi che Papageno e Papagena si posseggono vicendevol­ mente, si appropriano l’uno dell’altra, nel solo modo con cui all’uomo è dato possedere il non-io, le cose, il mondo ester­ no: dandogli un nome. Solo col dargli un nome l’uomo s’ap­ propria di ciò che è fuori di lui e lo assimila alla propria so­ stanza. E prescritto che all’inizio del duetto Papageno e Pa­ pagena svolgano, durante l’introduzione strumentale, un «komisches Spici», un gioco di gesti comici. Questi consi­ stono in uno starnazzare pestando i piedi larghi, come dei volatili (sono entrambi pennuti), poi a poco a poco, attraver­ so il ritmo ravvicinato della sillaba «pa» si svolge l’azione ri­ tuale di «conquista del nome», col che i due, praticamente, escono da uno stadio ferino ed entrano nella zona dell’uma­ nità tutta spiegata. Ben inteso, si avanzano queste ipotesi co­ me variazioni fantasiose sulle possibilità latenti di un pezzo di musica elementare. Niente sarebbe piu catastrofico che, volendole prendere alla lettera e troppo sul serio, qualcuno si avvisasse di dare una interpretazione «profonda» del duetto dei Papageni: è chiaro che queste cose funzionano soltanto in quanto sia possibile adombrarle con mano leggera, la­ sciando intatta la felice puerilità del dettato musicale.

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La bella osservazione dello Chailley sulle «grandes retrouvailles » in musica15 va estesa a questa versione comica ed assai piu universale dell’incontro fra due creature: in fon­ do Tristano e Isotta, Pelléas e Melisenda, in misura minore gli stessi Tamino e Pamina, sono personaggi individuali, sin­ gole coppie di amanti illustri, la cui ricongiunzione ci com­ muove ed interessa con l’oggettività di una vicenda di ro­ manzo. Papageno e Papagena no: di loro, come singoli indi­ vidui, non ci importa un bel niente. La commozione nasce dal fatto che Papageno e Papagena siamo tutti noi, e il loro giubilante impatto oltrepassa perfino la casistica specifica del fatto amoroso: è, in verità, l’incontro dell’uomo con l’uomo, della creatura umana con la creatura umana, la pos­ sibilità di comunione, tanto acerbamente compromessa dal­ le complicazioni del vivere civile, il gesto fraterno di pren­ dersi per mano e camminare insieme sulla strada della vita. «Uscita dal cuore, possa ritornare ai cuori», dirà un giorno Beethoven della Missa solemnis. Il segreto di Mozart è quello di dire queste cose sublimi senza alzare la voce, in tono co­ mico di canzonetta. La semplicità costante, la continua pos­ sibilità di risoluzione nel riso fanno si che «mai nel Flauto magico ci sentiamo travolti dal quel soffio panteistico che è la grande tara del romanticismo tedesco»16. Le fumisterie teosofiche della simbologia massonica non lasciano traccia sulla musica di Mozart: da artista classico, egli trova il mera­ viglioso - come scrive l’Abert - nel mondo luminoso del giorno, non «nelle regioni intermedie del crepuscolo e della notte». Fondamento dell’opera nazionale tedesca, certo, Il flauto magico, e premessa dei suoi Walhalla, dei suoi incan­ tesimi, dei suoi filtri magici e dei suoi cacciatori stregati e maledetti* Ma, insiste ancora lo Hocquard, «il divenire ger­ manico, di cui i romantici coltiveranno il fiore velenoso, Mozart non lo conosce affatto»17. Il suo germanesimo è temperato da un’ugual misura di spirito musicale italiano e il patetico ne è felicemente assente, pur nella più schietta sincerità dei sentimenti. 15 Cfr. sopra, p. 181. 16 HOCQUARD, Op. CÌt.} p. 508. 17 Ibid., p. 512.

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Scena trentesima.

Prima dell’apoteosi finale, con l’assunzione di Tamino e Pamina nel cielo degli eletti, ci resta da liquidare il gruppo dei «cattivi»: la Regina della Notte con le sue tre Dame, pur cosi carine, e Monostato, che è definitivamente passato dal­ la sua parte. Essi tramano una congiura di palazzo per rove­ sciare Sarastro e i suoi Sacerdoti: Monostato, pratico dei luoghi, guida le cospiratrici verso il tempio, facendosi pro­ mettere ben chiaro che in ricompensa avrà la mano di Pami­ na. Questa bieca congiura dà luogo all’ultimo dei tre Quin­ tetti dell’opera. Moderato, 4/4, in do minore, gli archi, Stac­ cato, dànno inizio a un motivetto saltellante per intervalli di quarta, con un accento sbilenco sul tempo debole della se­ conda e quarta battuta, tutto circospetto e in punta di piedi. Questo preludietto, dice lo Chailley, «è un vero mimodram­ ma», tanta è la coincidenza dei gesti musicali con quelli sce­ nici richiesti dall’azione. E quel solito procedere per inter­ valli di quarta, che abbiamo già visto connesso col personag­ gio di Monostato nella scena diciassettesima, quando il Mo­ ro acciuffa Pamina e Papageno e chiama a sé i propri schia­ vi. Abbiamo detto allora18 come questa figura risalga alla prima scena di Leporello nel Don Giovanni («Notte e giorno faticar») e sia sempre connessa, in Mozart, con qualche sot­ tinteso d’insofferenza, di ribellione, di peso mal sopportato. E Monostato a dare inizio al Quintetto, con quel solito «Stille, stille» (zitti zitti) che è un leit-motiv verbale dell’o­ pera. Si ha qualche reticenza ad attribuire a questo pezzo il tono di do minore, che pure è il suo ambiente tonale preva­ lente, perché caratteristica di quella figura - il gioco delle quarte seguito da un trillo - è di poter viaggiare attraverso tutte le tonalità: volendo, si può prendere la nota conclusiva del trillo come prima nota d’un nuovo gioco d’intervalli di quarta, e andare avanti all’infinito attraverso il circolo delle tonalità. E perciò una tipica cellula di musica drammatica, sulla quale è possibile imbastire qualunque vicenda scenica da sviluppare liberamente, secondo le esigenze dell’azione: 18 Cfr. sopra, p. 123.

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tanto la musica può sempre venir dietro. Da do minore a fa minore, poi di nuovo a do minore, poi a sol minore per un lungo tratto, poi, cambiando ogni due battute, mi bemolle, do minore, la bemolle,/# minore e ancora do minore, il mo­ tivetto passa attraverso un continuo caleidoscopio di colori tonali, assicurando l’interesse dell’ascolto pur nella conti­ nuità immutabile della figura tematica. Quel che ci vuole per consentire alla Regina e a Monostato di stringere il loro patto, ribadito e riecheggiato dalle Dame. Abbiamo cosi oc­ casione di sentire per una volta la Regina della Notte canta­ re con voce normale, e non inerpicata nella stratosfera dei sopracuti. Quando il patto è concluso, le voci abbandonano il moti­ vo della cospirazione, che si rifugia negli archi; le voci inve­ ce, di Monostato e delle Dame, si riuniscono in un quartettino omoritmico di acclamazione della Regina («dir, grosse Kònigin der N acht »). La fine dei malvagi è sbrigativa: il quartettino ha appena pronunciato l’ultima sillaba del suo omaggio, sulla tonica (do minore), che gli archi vengono sollevati in una scala ascen­ dente di semicrome, che va a spezzarsi, come un’ondata, su un accordo sincopato di settima diminuita. (C’è chi vuol ve­ dere nelle cinque ripetizioni sincopate di quest’accordo la rievocazione dell’accordo «femminile», cinque volte ribat­ tuto all’inizio dell'ouverture). Su un accordo di settima dimi­ nuita, naturalmente, non si può «stare»: è un momento su­ premo di crisi che richiede la transizione alla tonica, e per­ ciò, non potendovi «stare», i cinque congiurati ne precipita­ no giu rovinosamente percorrendo per due volte in discesa l’accordo di settima diminuita e piombando sopra un si na­ turale (sensibile risolutiva sopra il prossimo do minore), che sta ad aspettarli - scrive l’Abert - come un baratro spalan­ cato. Nella sua sommaria e convenzionale stringatezza, la fi­ gura musicale è proprio l’equivalente sonoro di un’immagine che la scena non potrà mai dare, a meno di servirsi di burat­ tini o di acrobati con una rete di protezione nascosta sotto il palcoscenico: i cinque personaggi che precipitano all’indie­ tro nel vuoto, sgambettando disperatamente. Tutta l’orchestra è entrata in azione durante la catastro­ fe: flauti, oboi, clarinetti, fagotti, corni, trombe, tromboni

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e timpani, che di solito eravamo abituati ad ascoltare varia­ mente raggruppati, ora sono tutti spiegati, fino alla fine trionfale dell’opera. Per ora danno luogo a una transizione tonale, dal raggiunto do minore a un passeggero fa maggiore, dominante di un altrettanto passeggero si bemolle maggiore, per il breve recitativo di Sarastro, necessaria transizione al conclusivo mi bemolle maggiore. Durante l’episodio orche­ strale in fa maggiore una serena frase discendente degli ar­ chi evoca irresistibilmente la «Verwandlung», cioè l’ultimo cambiamento di scena: essa si trasforma nell’immagine del sole, su cui sta al sommo Sarastro, con ai lati Tamino e Pa­ mina, entrambi in abiti sacerdotali; accanto, sui due lati, i preti egiziani; i tre Ragazzi recano fiori. Nella presenza di Pamina in tanta gloria si potrebbe anche vedere il significa­ to ultimo dell’opera. Lo sfolgorante finale è, sf, la vittoria delle forze massoniche del bene. Ma non è una vittoria tota­ le, incontrastata: su un punto le forze del bene hanno dovu­ to cedere e correggere un particolare del loro razzistico rego­ lamento, riconoscendo la parità dei sessi. Che questa vitto­ ria sia toccata a una donnina gentile e tenera come Pamina, e non a un’amazzonica suffragetta litigiosa, può anche esse­ re un insegnamento. Nel breve recitativo di Sarastro si noti il rilievo conferito alla parola «Heuchler» (ipocriti) con un intervallo di de­ cima. Il trionfo dei buoni, ormai tutto praticamente in mi be­ molle maggiore con momentanee transizioni alla dominante, si svolge in due episodi musicali: un Andante in 4/4, di gran­ de solennità, e un Allegro in 2/4 quasi comicamente fretto­ loso. Per l’Andante Mozart richiama l’introduzione orche­ strale al corale degli Armati, che a sua volta ripigliava l’ulti­ mo dei suoi cori giovanili per il Thamos, re d'Egitto: qui, ad­ dobbato con una ricchissima orchestrazione, ci sta a pennel­ lo. Qualche volta, in precedenti scene grandiose del Finale I, possiamo anche aver avuto l’impressione che non Mozart personalmente, ma la musica del Settecento in genere, po­ tesse risultare un po’ magrolina in occasioni per le quali l’Ottocento, da Beethoven in poi, ci ha avvezzati allo sfog­ gio d’una pompa trionfale. Questa volta no: la pienezza del suono, dove emergono i corni con singolare maestà, non ha

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nulla da invidiare neanche alle trasfigurazioni della Nona Sinfonia. Anzi, quando il coro intona il «Dank», il ringrazia­ mento a Iside ed Osiride, Mozart ci fa la sorpresa di addob­ bare ulteriormente il cerimoniale sonoro con una frase di­ scendente in semicrome dei violini che avrà tutto un avveni­ re in situazioni analoghe dell’opera tedesca dell’ottocento: basti ricordare, per tutte, l’esempio clamoroso della ouver­ ture del Tannhduser. Scrive l’Abert che questa figura stru­ mentale ha le sue radici in Haendel e in Gluck, ma purtrop­ po non ne reca esempi. Col ringraziamento alle divinità si chiude il solenne An­ dante e inizia la parte conclusiva del Finale, un velocissimo Allegro in 2/4, naturalmente in mi bemolle maggiore. Il peso dell’orchestra si assottiglia per un momento ai soli archi col primo flauto, ma nelle risposte tutta la massa interviene. La fretta del coretto di giubilo è quasi comica: è la convenzione teatrale del «per finire» accettata in tutta la sua innocenza. Non diversamente negli avanspettacoli e nelle riviste di terz’ordine tutti i componenti della compagnia, perfino i mac­ chinisti, sfilano sulla passerella, distribuendo al pubblico sorrisi e gesti più o meno scollacciati, ma in realtà con una fretta indiavolata di chiudere lo spettacolo e andarsene pre­ sto a casa con l’ultimo tram. E il momento in cui il passo ra­ pido dei violini avverte il pubblico che lo spettacolo sta per finire, le signore cominciano ad infilarsi i guanti, i più impa­ zienti già si avviano all’uscita per essere i primi al guardaro­ ba. Sembra che Mozart voglia proprio assumere consapevol­ mente e maliziosamente queste convenzioni, ma in realtà il compositore tiene ancora in serbo una carta: quando il coro ha già ripetuto due volte gli ultimi quattro versi con passo rapido e frettoloso, un punto coronato sembra sospendere tutto sull’accordo di settima di dominante, poi il coro ri­ prende gli ultimi due versi, non già più adagio, che il tempo Allegro rimane immutato e sempre di crome è il movimento melodico, ma il fatto è che al rapido canto sillabico di prima i soprani sostituiscono un canto vocalizzante che fa scorrere due, tre e perfino quattro note per sillaba; li sotto, contralti e tenori inseriscono le loro repliche in un dialogo moderatamente contrappuntistico ed imitativo. E l’istituzione d’un procedimento dotto, in seno a questo finalino frettoloso,

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che potrebbe anche portare a sviluppi di interminabile poli­ fonia. Ma è solo uno scherzo, giocato alla fine dal sapiente compositore al suo pubblico popolare. Come una bonaria minaccia: - Guardate che potrei ancora tenervi qui per un quarto d’ora! - In realtà il coro ritrova tosto la sua unità sil­ labica ed omoritmica, i soprani rientrano nei ranghi e la smettono con la loro ornamentazione vocalizzante, tutti in­ sieme ripetono per l’ultima volta la strofetta conclusiva e l’orchestra chiude l’opera col motivetto iniziale dell’Allegro, ormai coperto dai primi applausi e dal tumulto dell’uscita. I personaggi sono come svaniti in seno al coro, il quale - caso unico nelle ultime opere teatrali di Mozart - assume intera­ mente su di sé il compito del finale.

Capitolo quattordicesimo Fortuna locale e universalità dell’opera

«Agli squilli solenni dell’Ouverture del Flauto magico scrive il Paumgartner - si spalancarono le porte del meravi­ glioso tempio dell’opera germanica»1. E lo chiama, non a torto, considerandone le enormi ripercussioni, «la prima grande creazione del secolo xrx». Fa eco, del resto, all’entu­ siastico giudizio wagneriano: «Il tedesco non potrà mai ce­ lebrare abbastanza l’apparizione di quest’opera. Fino allora l’opera tedesca praticamente non esisteva: con questo lavoro fu creata... Quale divino incanto vi spira, dalla piu popolare delle canzoni all’inno piu eccelso! Quale varietà, qual ric­ chezza!... Qual naturale eppur nobile popolarità in ogni me­ lodia, dalla piu semplice alla piu potente! Di fatto, il genio ha fatto qui un passo da gigante, quasi troppo grande, per­ ché, mentre creava l’opera tedesca, ne stabiliva già, contem­ poraneamente, il capolavoro più perfetto, che non avrebbe più potuto essere superato, né il genere esserne più allargato o continuato»12. Quando scriveva queste parole Wagner non era ancora l’autore del Tristano e dell’Anello del Nibelungo, se no, pri­ vò com’era di complessi di modestia, non avrebbe manca­ to di far sentire che dopo II flauto magico l’opera tedesca avrebbe dovuto aspettare lui per compiere un passo avanti. Né, del resto, è completamente equo verso il suo amato We­ ber quando afferma l’impossibilità di «allargare» o «conti­ nuare» il genere aperto dal Flauto magico. Ma è vero che, in fatto di valore artistico assoluto, la lunga scia aperta dal to­ 1 PAUMGARTNER, Op. CÌt., p. 456. 2 R. wagner, Ges. Schrifte, I, p. 162.

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no popolarfiabesco del Flauto magico al filone fantastico del­ l’opera tedesca, con E. T. A. Hoffmann, con 1’Oberon di Weber, col gentilissimo Lortzing, e poi, attraverso Glinka, Dargomizki, Rimsky Korsakov e Dvorak, trasmessa al set­ tore della musica slava, non ha mai più prodotto un capola­ voro di tale statura, autorizzando, anzi, seri dubbi sulla pos­ sibilità di relazioni proficue tra la musica e il fantastico. E curioso che la musica si sia sempre tanto giovata del Tasso, e poco o niente dell’Ariosto, dove la fantasia è, per cosi dire, allo stato puro. E curioso che le Mille e una notte abbiano suggerito cosi poco alla musica, specialmente a quella teatra­ le, e che le fiabe del Gozzi, seducendo tanti musicisti, si sia­ no quasi sempre rivelate una trappola pericolosa. Del resto, chi abbia seguito la nostra interpretazione dell’opera, si sarà probabilmente reso conto che l’accento della musica non batte molto intensamente sul fantastico, spesso scaricato su­ gli effetti della messa in scena. Già s’è detto come l’entusiasmo, perfettamente giustifi­ cato, degli studiosi tedeschi per la fecondità del Flauto ma­ gico come fondamento dell’opera nazionale ci interessi ab­ bastanza mediocremente e non basterebbe ad esaurire le ra­ gioni dell’universalità dell’opera. Universalità sulla quale non c’è dubbio di sorta, nonostante le difficoltà che tuttora l’opera incontra ad affermarsi fuori dei paesi di lingua tede­ sca, dove invece la fortuna dell’opera divenne ben presto trionfale, inimmaginabile per chi aveva assistito al tepido successo della prima sera, il 30 settembre 1791. In realtà, l’opera veniva incontro, come s’è accennato3, alle esigenze nuove del gusto romantico, in forma popolare ed accessibile a tutti4. Solo nei paesi latini l’opera ebbe difficoltà a pene­ 3 Cfr. capitolo n. 4 Un fresco documento della fortuna del Flauto magico nella Germania pre­ romantica è una lettera in cui la madre di Goethe ne racconta al figlio il successo a Francoforte. La lettera è datata 9 novembre 1793. «Nulla di nuovo, qui, salvo che IIflauto magico è stato dato 18 volte, a teatro sempre pieno zeppo. Nessuno vuole che si dica che non l’ha visto, anche i manovali, i giardinieri, perfino il po­ polino di Sachsenhaus, i cui bambini fanno le scimmie e i leoni. Uno spettacolo simile qui non l’ha ancor mai visto nessuno, il teatro deve aprire già ogni volta prima delle quattro, e con tutto questo si devono sempre rimandare indietro cen­ tinaia di persone che non hanno trovato posto. Ne hanno fatti di soldi! Il re, l’ul­ tima volta che è stato qui, ha pagato 100 carolini, ed ha ottenuto soltanto il pic­ colo palco di Willmer». Il 6 febbraio la vivace signora ritornava ancora sull’ar-

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trare nella roccaforte delle rispettive opere nazionali. A Mi­ lano fu rappresentata nella primavera del 1816 (evidente frutto della Restaurazione), ed ebbe in verità trentotto re­ pliche, ma poi non ritornò piu alla Scala fino al 1923, quan­ do ce la riportò Toscanini. A Firenze nel 1818 non piacque. Molte città italiane, anche grandi, aspettano ancora la loro prima rappresentazione del Flauto magico. A Parigi ebbe fortuna, dal 1801 fino al 1827, uno sciagurato rifacimento, con inserzioni e manipolazioni vergognose di un certo Lachnith, intitolato Les mystères cTlsis, e ribattezzato, dai pochi intenditori, «les misères d’ici». Soltanto nel 1865 il Théàtre Lyrique mise in scena una rappresentazione fedele del Flau­ to magico. Non si vuol mettere in dubbio l’esattezza di quanto affer­ mato dall’Abert: «La lingua tedesca fu di influsso decisivo sulla musica. Schikaneder non sapeva nulla dell’adorna ver­ sificazione degli italiani, con le loro immagini e il loro fiorito discorso, che inducevano anche i compositori a un descritti­ vismo minuzioso». Sicché l’espressione vocale del Flauto magico risultò d’una sorprendente concisione ed essenzializzazione espressiva. I canti di Tamino e di Pamina, e di Sara­ stro, hanno un valore esemplare di modelli, veri e propri exempla elocutìonum, cosi calzanti e inevitabili che rischiano perfino di parere ovvi. Ma come ci comporteremo di fronte all’altra, fondamen­ tale affermazione con cui l’Abert cerca di definire la speci­ ficità di quest’opera? «Già si è osservato come lo svolgimen­ to dell’idea generale e il simbolismo con essa connesso ab­ biano determinato anche la caratterizzazione drammatica go mento: «La settimana scorsa IIflauto magico è stato rappresentato per la ven­ trigli at tresima volta, a teatro esaurito, ed ha già reso 22 000 fiorini! Com’è ese­ guito da voi? le vostre scimmie lavorano cosf bene come i nostri popolani di Sachsenhaus?» E Goethe, di cui s’è già detto come avesse progettato e in parte scritto una continuazione dell’opera, ha lasciato bellissima testimonianza della sua penetrazione nel costume familiare tedesco in alcuni versi del casalingo poe­ ma borghese Ermanno e Dorotea. «Minchen sedeva al pianoforte; di fronte c’era il padre, e ascoltava la sua figliola cantare. Era incantato, e di buon umore. Tante cose non le capivo, di quel che si diceva in quelle canzoni; ma sentivo molto par­ lare di una Pamina, d’un Tamino, e non volevo poi mica restar lì muto come un pesce! Quand’ebbe finito, m’informai del testo e dei due personaggi. Tutti tac­ quero, e poi risero; ma il padre disse: - Ma allora, amico mio, lei conosce sol­ tanto Adamo ed Èva?»

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dei singoli personaggi. Essi si muovono come dietro un ve­ lo leggero, che sfuma i contorni precisi del loro carattere e ne fa piu dei tipi, che personaggi vivi nel senso dell’opera italiana». Certo, sarebbe pazzesco pretendere di negare del tutto la fondatezza di questa opinione. In confronto al corposo rea­ lismo psicologico delle opere italiane IIflauto magico motiva la propria grandezza soltanto se portato su un altro terreno: terreno che - ammettiamolo pure - sarà quello dell’arte po­ polare, intesa come serbatoio di forze oscure, non raziona­ li5, della specificità viennese e dello spirito tedesco. E tutta­ via noi abbiamo cercato di mostrare come tra IIflauto magi­ co e i capolavori italiani di Mozart ci sia più continuità di quanta ce ne riconoscano gli studiosi tedeschi. Abbiamo cer­ cato di mostrare il realismo che pur non manca in questa fia­ ba intessuta di simboli, ai quali, in fondo, non siamo invitati a credere fermamente. La delimitazione dello spazio in cui l’opera si colloca è nell’equidistanza tra moralità e diverti­ mento edonistico. Ci poniamo perciò agli antipodi dello Chailley, strenuo assertore degli ideali massonici dell’opera e della loro validità artistica, che magnifica il «simbolismo» del Flauto magico e lo paragona pertanto a Pelléas etìtà-élisande. «Nell’una come nell’altra opera, i fatti che si mostrano sulla scena non sono che immagini e riflessi d’una realtà in­ visibile, che sola costruisce nello sfondo la vera azione. Più ancora che nel Pelléas, tutta la logica deriva qui dalla conca­ tenazione dei simboli, e non da una psicologia da cui si vede eliminato ogni realismo»6. E abilmente lo scrittore francese si serve della lettera di Mozart dell’8 ottobre 1791, per mo­ strare quant’egli tenesse alle parti serie e, per cosi dire, ri­ tuali della sua opera, e come per lui « Papageno» fosse un epiteto spregiativo7. 5 HOCQUARD, Op. tit., p. 506. 6 CHAILLEY, Op. CÌt.y p. 307.

7 «Subito dopo pranzo andai a casa e scrissi fino all’ora del teatro. Leitgeb mi ha pregato di condurlo ancora, e cosf feci. Domani vi conduco la mamma» (di Costanza). «Il libretto, Hofer glie lo aveva già dato da leggere. Della mamma si può dire che guarda l’opera, ma non la sente... (Gli N.N.) oggi avevano un palco e mostravano il loro consenso per tutto. Ma lui, il sapientone, si mostrò tanto ba­ varese ch’io potevo trattenermi a stento e gli avrei dato del somaro. Per sfortuna ero per l’appunto dentro quando cominciava il secondo atto e c’ero pure alla gran

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E un fatto frequente, quasi comune, nell’arte, di scoprire TAmerica cercando le Indie. L’intenzione dell’artista si pro­ pone davvero una certa meta, e il risultato artistico fiorisce altrove, un po’ piu in là o un po’ piu in qua, dove lo hanno spostato le forze incontrollabili dell’inconscio. Non si mette in dubbio che Mozart abbia preso molto sul serio la celebra­ zione massonica proposta nel rimaneggiamento della favola desunta dallo Dschinnistan di Wieland (dove di massoneria non era questione); potremmo anche ammettere, sebbene non ce ne sia la minima prova, che questa coloritura della fiaba originale l’abbia voluta e proposta lui stesso. Ma, come abbiamo già avuto occasione di anticipare8, l’opera coi suoi valori artistici rende un altro suono che quello della mera ce­ lebrazione della massoneria. E questo suono è pur sempre quello che, attraverso un corposo realismo psicologico, già rendevano le precedenti opere italiane di Mozart, ed anche il tedesco Ratto dal serraglio. Questo suono è, come scrive lo Hocquard, «la trasfigurazione più alta possibile dell’amo­ re»9. Non certo dell’amore in una stretta accezione erotica o sentimentale, bensì dell’amore universale tra le creature. «Tutto converge verso il centro unico della carità irradian­ te... Un ritorno all’Unità illusoriamente perduta, la ricon­ quista dell’immortalità che la coppia predestinata realizza reintegrando il Paradiso perduto»10. Ma tutto questo nella massima semplicità: l’ideale d’un Paradiso terrestre alla portata di tutte le borse, da elargire all’uomo comune, non a superuomini avvolti nelle nubi simscena. Lui rise di tutto. Da principio ebbi pazienza; gli facevo osservare alcuni passaggi, ma lui rideva sempre. Era troppo per me, allora lo chiamai Papageno e me ne andai». In un’altra lettera, del 14 ottobre, Mozart racconta come abbia condotto allo spettacolo Salieri e la cantante Cavalieri, prima interprete di Co­ stanza nel Ratto dal serraglio: «Non puoi credere come tutti due fossero gentili e come a tutti due piacesse non solo la mia musica, ma il libretto e tutto l’insie­ me. Dicevano entrambi che è un operane, degna di esser data con la più grande festività davanti ai piu grandi monarchi, e l’andrebbero a sentire certo molto spesso perché non hanno mai veduto uno spettacolo più bello e più piacevole. Lui ascoltò e guardò tutto con la più grande attenzione, e dalla prima sinfonia fino all’ultimo coro non vi fu nessun pezzo che non gli strappasse un Bello o un Bravo-, e non potevano quasi finir di ringraziare della mia gentilezza». 8 Cfr. sopra, cap. vn, scena xvn. 9 HOCQUARD, Op. cit., p. 546. 10 Ibid., p. 548.

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Eoliche del mito. Certo, Mozart soggiaceva al fascino del meraviglioso teatrale con la stessa spontaneità fanciullesca del popolino viennese. Nel miscuglio stravagante appronta­ to da Schikaneder e da Giesecke ammirò una rivelazione di saggezza piu che umana e di quello spettacolo da barriera, punteggiato dai grossolani sberleffi di Papageno, si fece la base per un trascendente mistero nel quale ospitare tutte le aspirazioni migliori della sua anima candida: due creature che si sforzano di aprirsi una via dall’oscurità verso la luce, tale il significato che Mozart cercò di tradurre con l’entusia­ smo d’una sincera convinzione. E certo, se mai musica si prestava a tale trasfigurazione magica d’un ibrido soggetto teatrale, era questa la musica del suo ultimo anno di vita terrena: la musica del Quintetto in mi bemolle, del Concerto per clarinetto e orchestra, la mu­ sica del sublime Ave verum. musica che, rinnovato il lin­ guaggio nella perfetta assimilazione del contrappunto mo­ dernamente inteso, rifiorisce in un empito incredibile d’ul­ tima giovinezza, come una luminosa e disincarnata appari­ zione trascendente, epurata d’ogni vibrazione troppo uma­ na, in un potere miracoloso di astrazione dalle miserie terre­ ne. Ilflauto magico si pone come la piu imponente conferma di quella attitudine che il genio di Mozart possedeva in mi­ sura eccezionale, a sublimare artisticamente le occasioni più banali, creando un’opera d’arte per un orologio meccanico o per l’esibizione da avanspettacolo d’una virtuosa cieca di ar­ monica a vetro. In un certo senso IIflauto magico è il capola­ voro di quella che Mozart chiamava curiosamente la «musi­ ca in charitatis camera», cioè quei giochetti musicali come il Terzetto del nastro (Liebes Mandel K. 441) o i canoni burle­ schi, improvvisati in famiglia o in una brigata di buontem­ poni. Anche IIflauto magico è il risultato della sublimazione artistica d’un gergo musicale privato, un lessico familiare in­ tessuto di modi di dire convenzionali e di doppi sensi fonda­ ti su un’intesa segreta e ammiccante11. 11 Abbiamo già citato (cfr. sopra, cap. ix) il burlesco impiego privato d’una frase dell’opera («Tod und Verzweiflung war sein Lohn») in una lettera alla mo­ glie. Un altro caso è nella penultima lettera di Mozart, or ora citata, dell’8 otto­ bre. Per chiudere la lettera e congedarsi, Mozart usa comicamente le parole di Sarastro nel Terzetto N. 19: «Die Stunde schlàgt».

FORTUNA LOCALE E UNIVERSALITÀ DELL’OPERA

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Ma, come abbiamo già avuto occasione di anticipare, la vera massoneria di Mozart non era quella, in cui egli crede­ va ingenuamente di credere, delle logge viennesi, con i triangoli, la cazzuola e i riti grotteschi delle prove, rievocate nella trama del libretto. La massoneria di Mozart è quella degli umili e della povera gente, come Papageno e Papagena, come Pamina e Tamino, anche se quest’ultimo è un impro­ babile principe giapponese e lei è la figlia della Regina Astri­ fiammante. La massoneria di Mozart è quella di coloro i quali non hanno altra forza che quella degli affetti umani, non altra ricchezza che il loro cuore. È la massoneria della buona gente contro tutti i potenti, contro tutti i «domini», i «signori», contro tutti coloro che vestono delle divise, del­ le «armature», e portano dei galloni. Perciò, irresistibilmen­ te, a dispetto delle intenzioni drammaturgiche proposte dal libretto e accettate da Mozart, la parte musicale riguardante Sarastro e il suo regno, pur contenendo quei nobilissimi cori e quegli spettacolosi esemplari di recitativo che si è visto, non riesce veramente a porsi come convincente polo posi­ tivo dell’azione, dove raggiano la bontà e la saggezza. Per quanto «buoni», Sarastro e i suoi accoliti sono pur sempre dei potenti. Il loro tono non è quello cordiale delle due cop­ pie, nobile e popolana, che pervengono alla felicità attraver­ so l’amore. E ad ascoltare la musica, senza dar retta ai sim­ boli del libretto, accade che le prove massoniche del silen­ zio, del fuoco e dell’acqua, proclamate dalla severità arcaica del corale figurato, si configurano anch’esse come altri in­ tralci, traversie ed affanni, non sostanzialmente dissimili da quelli che la perfidia dei «cattivi», la Regina della Notte e Monostato, frappone alla felicità delle creature semplici e naturali, dei miti, degli inoffensivi. Se si dovesse sviluppare interamente la filosofia implicita nella musica - non nel li­ bretto - del Flauto magico, si arriverebbe alla conclusione che il Male è il potere, il Male è la forza, il Male è l’autorità, la volontà di dominazione, la cupidigia, la prevaricazione, mentre il Bene è l’innocenza, il vivere e lasciar vivere, in una parola, la Natura. Un credo, cioè, di anarchia settecen­ tesca, fondato sul mito giusnaturalistico dell’età dell’oro: al quale c’è del resto un preciso accenno nel primo Quintetto dell’opera.

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CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Le traversie e gli affanni e le prove attraverso cui si realiz­ za il sogno amoroso di Tamino e Pamina sono l’immagine del commovente ottimismo di Mozart pur nel fondo della miseria, sono la sua irragionevole c sublime parola di fede nella bontà dell’uomo e nella positività della vita. E poiché la legge morale di questa semplice umanità indifesa, incapa­ ce di finzioni e d’artifici, è l’obbedienza alla Natura, ecco che della piena felicità d’ispirazione viene a beneficiare an­ che la parte fantastica, estrinsecata nei personaggi «cattivis­ simi» di Monostato c della Regina della Notte, e nelle appa­ rizioni une e trine delle Dame e dei Fanciulli: shakespearia­ ne presenze invisibili della Natura, forze favorevoli o nemi­ che in mezzo a cui scorre l’esistenza dell’uomo. Anche i mezzi piu puerili per concretarle - fischietti, sonagliere, ca­ rillons, apparizioni di belve da baraccone e di nerissimi mo­ stri - acquistano nella musica mozartiana la verità poetica di una finzione fondata nelle premesse storicamente concre­ te d’una cultura popolare. Questa rinsangua di robusta schiettezza anche la comicità dei due personaggi buffi, Papageno e Papagena, riflesso de­ teriore della coppia ideale di Tamino e Pamina, ma non per questo visti con minor calore di simpatia. Papageno e Papagena sono la prosa della vita umana, la buona e onesta prosa che è retaggio della più gran parte degli uomini («Beh, ce ne sono tanti come me», dice Papageno quando lo Sprecher gli dichiara che non potrà mai provare la gioia celeste degli ini­ ziati). Anche in loro arde la fiamma vivificante dell’amore amore per le creature e per il creato, per i colori, le luci e le forme di questo mondo - e nonostante la buffoneria dell’i­ nizio tartagliarne, accentuata dalle smancerie gallinesche in­ ventate da Schikaneder, anche il duetto della loro congiun­ zione ribadisce il vangelo mozartiano della felicità attraver­ so l’affetto.

Sulla distribuzione delle musiche

Per intendere bene la struttura del dramma e memorizzarne la di­ stribuzione dei pezzi musicali, può essere conveniente raggrupparli schematicamente intorno ad ogni personaggio cui appartengono.

Tamino N. i Introduzione (sua entrata drammatica, «Zu Hilfe! »). N. 3 Bildniss-Arie, in mi bemolle maggiore. N. 5 Partecipa al primo Quintetto con Papageno e le tre Dame. Finale I, scena xv E guidato dai tre Ragazzi e bussa alle porte dei templi; recitativo-dialogo col primo Sacerdote (o Sprecherà) Scena xix Primo incontro con Pamina, di fronte a Sarastro, Mono­ stato e i Sacerdoti. Atto II, N. 12 Secondo Quintetto, con Papageno e le tre Dame («Wie? wie? wie?»). Scena xvm (muta) Il silenzio di Pamina. N. 19 Terzetto della separazione, con Pamina e Sarastro. Scena xxvm Recitativo drammatico e terzetto con gli Armati; secon­ do incontro con Pamina e prove del fuoco e dell’acqua.

Pamina Terzetto N. 6 (In realtà duetto con Monostato; poi sviene). Duetto N. 7 Con Papageno («Bei Mànnern, welche Liebe fiihlen», in mi bemolle maggiore). Finale I, scena xvi Duetto con Papageno (« Schnelle Fiisse »). Scena xvn Duettino-moralità con Papageno sulla virtu del Glocken­ spiel. Scena xvm Recitativo con Sarastro. Scena xix Primo incontro con Tamino. Atto II, scena xvm Silenzio di Tamino e N. 17: aria della decisione di suicidio («Ach, ich fiihl’es», in sol minore).

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SULLA DISTRIBUZIONE DELLE MUSICHE

N. 19 Terzetto della separazione con Tamino e Sarastro. Finale II, scena xxvn Scena del suicidio, coi tre Ragazzi. Scena xxvm Incontro con Tamino («Tamino meinl») e prove del fuoco e dell’acqua.

Sarastro Finale I, scena xvin Dialogo con Pamina (recitativo). Scena xix Dialogo con Monostato (recitativo). Atto II, N. io Breve Aria col coro («O Isis und Osiris »). N. 15 Hallen-Arie (in mi maggiore). N. 19 Terzetto, con Tamino e Pamina («die Stunde schlàgt»). Finale II Breve recitativo.

Sprecher (o Sacerdote?) Finale I, scena xv Grande recitativo con Tamino. Atto II, N. 11 Duetto col secondo Sacerdote («tod und Verzweiflung war sein Lohn»).

2 Geharnischte

Atto II, scena xxvm

Corale figurato e dialogo con Tamino.

Coro (dei Sacerdoti) Finale I, scena xvm Ingresso di Sarastro («Es lebe Sarastro») e chiu­ sa («Wenn Tugend und Gerechtigkeit»). Atto II, N. io Nell’aria di Sarastro «O Isis und Osiris». N. 18 « O Isis und Osiris » (scena xx). Scena xxi «Triumph!» dopo la riuscita di Tamino e Pamina nelle prove. Finale II, scena xxx Coro finale («Heil sei euch, Geweihten! » e «Es siegte die Stàrke»).

Papageno 2 Aria in sol maggiore («Der Vogelfànger bin ich ja»). 5 Quintetto con Tamino e le tre Dame. 6 Terzetto (in realtà, duetto con Monostato). 7 Duetto con Pamina in mi bemolle maggiore («Bei Mannern, welche Liebe fuhlen»). Finale I, scena xvi Duetto con Pamina in sol maggiore («Schnelle Fiisse»). Atto II, N. 12 Secondo Quintetto, con Tamino e le tre Dame («Wie? wie? wie?»). N. N. N. N.

SULLA DISTRIBUZIONE DELLE MUSICHE

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Scene xiv e xv (recitate) Prova del silenzio e primo incontro con Papagena. N. 20 Aria (con Glockenspiel) «Ein Màdchen oder Weibchen», in fa maggiore. Scena xxix Aria-rondò del suicidio, Glockenspiel e duetto con Papagena. Regina della Notte N. 4 Aria di coloratura in si bemolle maggiore. Atto II, N. 14 Aria di coloratura in re minore. Scena xxx Quintetto della congiura (con Monostato e le tre Da­ me).

Monostato N. 6 Terzetto (prima con Pamina, poi con Papageno). Finale I, scena xvn Sorprende Pamina e Papageno, ma viene incan­ tato dal suono del Glockenspiel. Scena xix Trascina Tamino davanti a Sarastro e ne viene ironicamen­ te ricompensato. Atto II, N. 13 Aria alla turca («Alles fiihlt der Liebe Freuden») in do maggiore. Scene x e xi (parlate) Insidia nuovamente Pamina. Scena xxx Quintetto della congiura (con la Regina della Notte e le tre Dame).

Le tre Dame Introduzione (terzetto intorno a Tamino svenuto). N. 5 Primo Quintetto, con Tamino e Papageno. Atto II, N. 12 Secondo Quintetto, con Tamino e Papageno («Wie? wie? wie?»). Finale II, scena xxx Terzo Quintetto (della congiura), con la Regina della Notte e Monostato.

I tre Ragazzi Finale I Guidano Tamino ai templi della Saggezza. Atto II, scena xvi Terzetto dell’aria. Finale II, scena xxvi Vedono arrivare Pamina. Scena xxvm Confortano Pamina. Scena xxix Salvano Papageno dal suicidio e gli conducono Papagena.

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SULLA DISTRIBUZIONE DELLE MUSICHE

Il flauto magico Finale I, scena xv Evocazione di Pamina e incantesimo delle belve. Atto II, scena xxvn Marcia lenta nella prova del fuoco e dell’acqua.

Glockenspiel Finale I, scena xvn Incantesimo di Monostato e dei suoi schiavi («Das Klinget so herrlich»). Atto II, N. 20 Aria «Ein Màdchen oder Weibchen». Finale II, scena xxix Evocazione di Papagena dopo l’aria del suicidio.

Nota bibliografica 1974

[Sono indicate, tra parentesi quadre, alcune edizioni o traduzioni successive alla Nota 1974 redatta dall’autore].

La bibliografia su Mozart è dominata da due opere fondamentali, dalle quali discendono quasi tutte le altre. Una di esse è:

H. Abert, W. A. Mozart (Breitkopf & Hartel, Leipzig 1921, ed. 1955), geniale rifacimento d’un precedente lavoro di Otto Jahn (1856-59). È una grossa opera di 1600 pagine, in due volumi, non solo un testo insostituibile per l’argomento specifico, ma un quadro vivo di tutta la musica nelle seconda metà del Settecento, immersa nelle correnti culturali dell’epoca. Si tratta d’un modello raramente uguagliato, in qualsiasi disciplina, di biografia critica. Il capitolo sul Flauto magico, al quale abbiamo fatto costante riferimento, occu­ pa le pp. 619-91 del vol. II [trad. it. H Saggiatore, Milano 1984 e 1985]. L’altro pilastro della bibliografia mozartiana è l’opera in cinque vo­ lumi di:

Th. de Wizewa e G. de Saint-Foix, W. A. Mozait (Desclée de Brou­ wer, Bruges 1912-46). Quest’opera contiene l’analisi e la descrizio­ ne di tutte le composizioni di Mozart, ed è particolarmente pregiata per la diligente ricerca delle fonti e delle influenze artistiche subite da Mozart ed elaborate nella sua straordinaria recettività.

Da questi caposaldi derivano quasi tutte le altre biografie mozartia­ ne di dimensioni più ridotte. Ottima per completezza d’informazione, e pertanto un po’ estesa, è: B. Paumgartner, W. A. Mozart (Berlin 1927; trad. it. Einaudi, Torino 1956). Contiene tra l’altro un catalogo dell’intera produzione mo­ zartiana suddivisa per generi [nuova ed. ibid,, 1978]. Un buon catalogo è contenuto pure nella traduzione italiana della modesta biografia di:

C. Bellaigue, Mozait. Vita e arte (Biblioteca Universale Rizzoli, 949-50, Milano 1955).

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NOTA BIBLIOGRAFICA 1974

Un ottimo catalogo è posto in appendice ad una breve operina, non proprio una biografìa nel senso sistematico della parola, ma attraente esplorazione di distinti settori della personalità mozartiana: A. Greither, Mozart (Hamburg 1962; trad. it. Einaudi, Torino 1968). Opera preziosa, e indispensabile è:

A. Einstein, VZ. A. Mozart. Ilcarattere e l'opera (New York 1945; trad. it. Ricordi, Milano 1955). E una geniale descrizione e ricostruzione dal­ l’interno dell’arte e della personalità di Mozart, ma presuppone la co­ noscenza dei dati di fatto, e non sostituisce una comune biografìa.

Breve biografìa con sommario esame critico della produzione è: M. Mila, W. A. Mozart (Arione, s.d. ma 1946) [ora in Wolfgang Ama­ deus Mozart, Studio Tesi, Pordenone 1980, pp. 11-100].

Frequente riferimento si fa, oltreché all’Abert, a: J.-V. Hocquard, La pensée de Mozart (Editions du Seuil, Paris 1958).

Sul teatro di Mozart: H. A. Bulthaupt, Dramaturgic der Oper (Leipzig 1887; 3a ed. 1925). E. von Komorzynski, Mozart (Berlin 1941; 2a ed. 1955). E. J. Dent, Mozart's Operas (London 1913; trad. ted. Berlino s.d.; trad, franc. Paris 1958). A. Della Corte, Tutto il teatro di Mozart (Edizioni Radio Italiana, To­ rino 1957). F. M. Breydert, Le genie créateur de Mozart (Alsatia, Paris s.d.).

Anche sul Flauto magico vi è una copiosa letteratura specifica, di cui ricordiamo:

M. Kufferath, La Flute enchantée (Paris-Bruxelles 1914). H. von Waltershausen, Die Zauberflòte, eine operndramaturgische Studie (Bruckmann, Miinchen 1920). E. von Komorzynski, Die Zauberflòte, in «Neues Mozart-Jahrbuch», 1(1923)E. von Komorzynski, EmanuelSchikaneder, ein Beitrag zur Geschichte des deutschen Theaters (Berlin 1901; nuova ed. rifatta 1951). P. Stefan, Die Zauberflòte (Reichner, Wien 1937). M. Labroca, Il Flauto magico di W. A. Mozart (Monsalvato, Firenze 1944). G. Barblan, Iniziazione al Flauto magico, in aa.w., Mozart. La vita e le opere (Edizioni della Scala, Milano 1956). A. Rosenberg, Die Zauberflòte, Geschichte und Deutung (Prestel, Mun­ chen 1964).

NOTA BIBLIOGRAFICA 19 74

2 15

J. Chailley, «La Flute enchantée» opéra magonnique (Robert Laffont, Paris 1968). [Reprint Éditions D’Aujourd’hui, Paris 1976]. Su singoli punti riguardanti l’opera sono stati tenuti presenti i se­ guenti saggi:

A. Hyatt King, The melodie sources and affinities of the Zauberflòte, in Mozart in retrospect (Oxford University Press, London 1955). E. von Komorzynski, Die Zauberflòte und Dschinnistan, in «MozartJahrbuch», 1954. E. K. Blumml, Ausdeutungen der Zauberflòte, ivi, 1923. P. Netti, Séthos und die freimaurerische Grundlage der Zauberflòte, in «Bericht der musikwissenschaftlichen Tagung Salzburg», 1931. P. Netti, Angelo Soliman, der Logenbruder Mozarts, in «Mozart-Jahrbuch», 1962-63. V. Junk, Zweiter Teil «Faust» und Zweite «Zauberflòte», ivi, 1942. Sulle idee artistiche e il carattere di Mozart quali risultano dalle let­ tere, e sulle diverse interpretazioni proposte nell’ottocento e nel no­ stro tempo per l’arte mozartiana, si veda:

M. Mila, Saggi mozartiani (Il Balcone, Milano 1946) [ora in Wolfgang Amadeus Mozart cit.,pp. 103-75]. Per le lettere di Mozart si può ricorrere, con qualche cautela, a: A. Albertini, Mozart. Epistolario (Bocca, Torino 1926; esaurito).

L’edizione completa dei carteggi mozartiani (Mozart-Briefe und Aufzeichnungen, in 5 volumi) è stata pubblicata dalla Barenreiter (Kassel 1962-65). Su una fase del teatro settecentesco, determinante anche per le sorti dell’opera comica, ma sostanzialmente laterale rispetto al Flauto magi­ co, si è tenuto presente:

W. Fischer, Lessing uber das «weinerliche» und das «riìhrende» Lustspiel, in «Mozart-Jahrbuch», 1954. Il professor Claudio Magris, che ha contribuito al corso universita­ rio con una preziosa lezione sulla commedia popolare viennese, sugge­ risce su tale argomento i seguenti titoli:

O. Rommel, Die Alt-Wiener Volkskomòdie. Ihre Geschichte vom Barocken Welt-Theater bis zum Tode Nestroys, Wien 1952. J. Kindermann, TheatergeschichteEuropas, Salzburg 1962. H. Kindermann, M. Dietrich, la Commedia dell'arte e l'antico teatro viennese, Roma 1965. R. Bauer, La réalitéroyaume de Dieu. Etudes sur l'originalitédu thédtre viennoisdans la première moitié duxixè siècle, Munich 1965.

2IÓ

NOTA BIBLIOGRAFICA 1974

A. Destro, Dìe Schaubuhne ohne bobere Anspriiche. Profilo del teatro po­ polare viennese da Stranitzsky a Raimund, in «Annali 1st. Univ. Or. Napoli», sez. germ., vol. XV, 1, pp. 7-45; XV, 2, pp. 37-79, Napoli 1972. R. Urbach, Die Wiener Komòdie und ihr Publikum, Wien-Miinchen 1973-

Appendice

Ilflauto magico', un’opera per i puri di cuore

Nell’ultimo anno della sua vita Mozart era caduto nella miseria più nera, aggravata dalle non buone condizioni di salute, sue e della moglie. Mentre si arrabattava a comporre Contradanze e Allemande, handler, Minuetti per i balli di cor­ te e dell’alta borghesia viennese (K. 599-607; 609-11), fan­ tasie e rondò per organi meccanici (K. 608 e 616), pezzi per armonica (K. 617), ecco comparire a Vienna, come inviato dal cielo a rinfrescare i suoi antichi entusiasmi per la crea­ zione di un’opera musicale tedesca, un vecchio amico: l’im­ presario Emanuele Schikaneder. Pittoresco personaggio questo capocomico ambulante che pare uscito dalle pagine del Wilhelm Meister di Goethe. Bru­ ciato dalla passione del teatro, e peraltro gioviale tipo di gaudente, girava da un capo all’altro i paesi di lingua tedesca con la sua compagnia ambulante, specie di rumoroso e poli­ valente carro di Tespi, buono per la commedia, per l’opera, per la farsa, per gli spettacoli popolari d’incantesimi e stre­ goneria. Quasi come un circo, drizzavano la loro tenda sulle pubbliche piazze, là dove non ci fosse un teatro ad ospitare le loro esibizioni, e Mozart li aveva conosciuti cosi, a Sali­ sburgo, nel 1780, proprio quando in lui era più forte la fame teatrale, nella forzata astinenza salisburghese. L’arrivo del­ la compagnia ambulante era stato un avvenimento per la pa­ cifica cittadina arcivescovile, chiusa nella cerchia dei suoi monti, e Mozart e la sorella non avevano perduto una recita, entrando in relazione coi comici e col loro capo Schikane* Dal programma di sala del Teatro La Fenice di Venezia (13 dicembre 1969).

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APPENDICE

der. Per le sue rappresentazioni Mozart riprese e completò le musiche che già sette anni prima, a Vienna, aveva compo­ sto per Thamos, re d'Egitto, un dramma di Gebler vagamen­ te misteriosofico, a sfondo massonico: un antecedente diret­ to, ancorché embrionale, di quel teatro popolare fondato sul meraviglioso, ma dotato di scopi d’edificazione laica, a cui apparterrà IIflauto magico. Naturale, pertanto, che la collaborazione di Mozart e Schikaneder, ritrovatisi a Vienna, si riallacciasse a quel pre­ cedente. Dopo tumultuose vicende di compagnie sciolte e ri­ composte, Schikaneder era ritornato a Vienna, dove già ave­ va lavorato a lungo al teatro della Porta di Carinzia. Ora il dinamico impresario dirigeva il teatro Auf der Wieden, che era a quei tempi un teatro di periferia, frequentato da un pubblico popolare, vago di spettacoli fantasiosi, ricchi di trucchi scenici che lasciassero a bocca aperta per lo stupore, e amante d’una grossa, artistofanesca comicità, spesso mate­ riata d’allusioni a fatti e figure del giorno, come.avviene ai nostri giorni nella rivista. Per queste scene assai diverse dal colto e mondano am­ biente del Teatro di Corte, per cui Mozart aveva creato i suoi capolavori di opera italiana, Schikaneder chiese ora la sua collaborazione a un progetto d’opera fiabesca e simboli­ ca, su libretto ch’egli stesso aveva messo insieme ricavando la trama da una fiaba di Wieland, Lulu oder die Zauberfldte. Era nel genere allora in voga, soprattutto nei teatri popolari di barriera, dello «Zauberstuck» (dramma meraviglioso), che derivava dal teatro barocco dei Gesuiti, e questo a sua volta dalla secentesca «commedia di macchine», volta da quelli a scopo edificatorio, col proposito di educare diver­ tendo. Con le commedie fantastiche di Carlo Gozzi questo genere teatrale austriaco aveva spinto un’estrema ondata fin sul piu vicino lembo di suolo italiano, ma all’insegna del pili totale e frivolo disimpegno. Gli intenti moralistici perdura­ vano invece nella continuazione locale del genere, di gusto specificamente viennese, anche quando il «Zauberstuck» passò dalle mani dei Gesuiti a quelle dei massoni. Il talentacelo errabondo di Schikaneder v’inserf, magari senza volerlo, germi di aspirazioni e ideali che la cultura eu­ ropea veniva elaborando in quella agitata fin di secolo, fra il

APPENDICE

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tramonto del razionalismo settecentesco e i primi albori d’un romanticismo utopistico, esaltato e visionario. Natu­ ralmente Schikaneder aveva aggiunto l’inevitabile contorno di lazzi e buffonate alla vicenda dell’eroico Tamino, incari­ cato dalla Regina della Notte di liberarle - con l’aiuto d’un flauto magico - la figlia Pamina, prigioniera del cattivo ma­ go Sarastro: i personaggi farseschi di Papageno e Papagena forniscono il consueto parallelismo mozartiano tra la coppia nobile e la coppia plebea e introducono nello spettacolo un filone di comicità grossa e vigorosa per cui si potrebbe arri­ schiare la definizione di «opera dialettale». Singspiel. Ma ecco, a composizione già iniziata, un autentico infor­ tunio teatrale minacciare l’impresa dei due amici: un Gaspa­ re il fagottista, tratto dalla medesima fiaba di Wieland, viene rappresentato con grande successo nel teatro d’un impresa­ rio rivale. Schikaneder non si perse d’animo: con l’aiuto di un certo Giesecke, attore della sua compagnia, riformò tutta quanta la vicenda. La Regina della Notte divenne una perfi­ da strega, e Sarastro un mago benefico e saggio: di qui l’in­ sanabile frattura nella continuità dei caratteri che compro­ mette la coerenza dell’azione, o per lo meno ne rende un po’ sconcertante l’inizio, perché, nella fretta, le prime scene già composte furono lasciate tali e quali, destinate ad attirare la simpatia dello spettatore sulla Regina della Notte. Ma ap­ poggiandosi ad uno strano racconto dell’abate Terrasson, Séthos, storia dell'antico Egitto, che presentava qualche vaga analogia coi casi narrati nella fiaba del Wieland, Schikane­ der fece di Sarastro un gran sacerdote d’Iside, ministro e in­ terprete di sovrumana saggezza, e piegò tutto l’intreccio verso una tinta di simbologia massonica-orientale, umanita­ ria e filantropica. In questo colpo si rivelò il fiuto teatrale dell’impresario. Tali argomenti erano nel gusto del tempo: convogliavano tutto un complesso d’indistinte aspirazioni verso il mito, verso le realtà dell’anima irraggiungibili dalla ragione, aspi­ razioni nelle quali l’imminente romanticismo reagiva contro l’arida esattezza delle scienze e della filosofia. La massone­ ria, ai suoi prosperi inizi, tutta occupata a procurarsi uno stravagante aspetto di liturgia laica, mal si distingueva dallo stesso cattolicismo gesuitico: come ha scritto Paul Stefan,

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amoroso indagatore del costume teatrale viennese, essa si­ gnificava «la fuga nel regno del mistero, di un’età razionali­ stica... che perfino il misticismo della Chiesa cattolica vuol sottoporre alla ragione»* Mozart a Vienna era diventato massone, come Schikane­ der, e non era una testa forte. Soggiaceva al fascino del me­ raviglioso teatrale con la stessa spontaneità fanciullesca del popolino viennese. Nel miscuglio stravagante approntato da Schikaneder ammirò una rivelazione di saggezza piu che umana e di quello spettacolo da barriera, punteggiato dai grossolani sberleffi di Papageno, si fece la base per un tra­ scedente mistero nel quale ospitare tutte le aspirazioni mi­ gliori della sua anima candida: due creature che si sforza­ no di aprirsi una via dall’oscurità verso la luce, tale il signi­ ficato superiore che Mozart cercò di tradurre con l’entusia­ smo d’una sincera convinzione. E certo, se mai musica si prestava a tale trasfigurazione magica d’un ibrido soggetto teatrale, era questa la musica del suo ultimo anno di vita ter­ rena: la musica del Quintetto in mi bemolle del Concerto per clarinetto e del sublime Ave verum, musica che, rinnovato il linguaggio nella perfetta assimilazione del contrappunto modernamente inteso, rifiorisce in un empito incredibile d’ultima giovinezza, come una luminosa e disincarnata ap­ parizione trascendente, epurata d’ogni vibrazione troppo umana, in un potere miracoloso di astrazione dalle miserie terrene. Ilflauto magico è esaltato in Germania come il capolavoro di Mozart e il fondamento dell’opera tedesca; e veramente è, con la sua irreale fantasticheria, una rivincita del germanesimo, sia pure decantato e ordinato attraverso il filtro d’u­ na luminosa chiarezza latina. Per noi italiani esso è meno fa­ cile da intendere che il sobrio realismo umano e la perfetta coerenza drammatica di commedie psicologiche come il Don Giovanni e le Nozze di Figaro. Il successo della prima rappre­ sentazione (30 settembre 1791) non fu eccezionale, ma andò crescendo col tempo; e dopo la morte di Mozart IIflauto ma­ gico divenne per Schikaneder una miniera d’oro. Giustamente è stato osservato come ci sia nel Flauto ma­ gico una resurrezione della freschezza tematica che caratte­ rizzava le Serenate e i Divertimenti di Mozart ventenne: e

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questo non per una stanchezza della fantasia costretta a ri­ piegare su vecchie invenzioni, ma per la miracolosa e irrazio­ nale fioritura d’una nuova giovinezza che permette all’arti­ sta di approdare al possesso d’una semplicità seconda, o di conquista, successiva all’assimilazione definitiva della mae­ stria contrappuntistica. Nella festa che fu per Mozart la composizione del Flauto magico (nel padiglioncino in legno apprestatogli da Schikaneder nel cortile del teatro, che ora si può visitare intatto a Salisburgo, allietato probabilmente ogni tanto dalla visita di qualche graziosa attrice o di qual­ che kellerina con le buone bottiglie fornite da Schikaneder), «sono ripassati davanti a lui, come in uno spettacolo mera­ viglioso, tutta la sua giovinezza, tutte le sue aspirazioni d’un tempo, tutta quella luminosa creazione di temi espressivi, di figure caratteristiche, d’immagini sonore sparse e non svi­ luppate, ridestatesi ora piu fresche che mai». Cosi scrive il Curzon, e coglie giustamente quell’aspetto d’innocenza in­ fantile del Flauto magico, per cui la sua corposa consistenza melodica appare più vicina alle giovanili Sinfonie K. 183, K. 200, K. 201, che non alla Sinfonia di Linz, o a quella di Pra­ ga, o alla dotta Jupiter, più ai Quartetti milanesi che non agli ultimi viennesi; più alla freschezza e abbondanza inventiva di Serenate e Divertimenti che non alla tematica combinatoria dell’alta musica da camera o sinfonica. Il flauto magico, abbiamo detto or ora, viene esaltato in Germania come il capolavoro di Mozart e fondamento del­ l’opera tedesca, già proteso verso un fermento di presagi ro­ mantici che tendono la mano alla fantasticheria barocca, quasi volessero scavalcare il razionalismo settecentesco. Dal punto di vista del linguaggio musicale si possono addirittura individuare certi nodi da cui si dipartono le premesse dell’o­ pera romantica: per esempio, all’inizio del Finale I, si svol­ ge fra Tamino e il sacerdote di Iside un dialogo di magistra­ le declamato melodico, che sta a mezza strada tra Gluck e Wagner, tra l’Ifigenia in Aulide e il Parsifal. (Si ponga mente, tra l’altro, alla nuova dignità artistica che assume il recitati­ vo nel genere del Singspiel, dove già è ammesso anche il par­ lare ordinario: mentre nell’opera italiana il recitativo era un ripiego utilitario, per sbrigare rapidamente le parti prosaiche

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del dialogo, qui esso si impone come una specifica necessità artistica, dotata d’una sua autonomia e d’un suo pregio este­ tico). Per gli ascoltatori non tedeschi, portati a prescindere dai motivi nazionali che alimentano in Germania il culto per l’ultima opera di Mozart e dalle considerazioni d’ordine sto­ rico sulla sua funzione di apertura verso le vie dell’opera ro­ mantica, riesce un po’ difficile liberarsi da ogni riserva sull’incongruenza determinata nei caratteri di Sarastro e della Regina Astrifiammante dal brusco mutamento di rotta im­ presso alla vicenda, a composizione già avviata. Eppure, da parte della piu alta e qualificata cultura tedesca, si ergono moniti impressionanti contro il rammarico a cui si può esse­ re tentati per l’abbandono del sobrio realismo psicologico e della perfetta coerenza drammatica di Don Giovanni e Noz­ ze di Figaro; contro le riserve che l’ascoltatore può essere in­ dotto a formulare circa la bassa estrazione culturale di que­ sto spettacolo da barriera, imbottito di filosofia mitologizzata. Goethe che scrive, senza condurla a termine, una conti­ nuazione dell’ibrido libretto di Schikaneder, ed ammonisce volerci assai piu intelligenza a comprenderne il senso pro­ fondo, che non a rilevarne le evidenti incongnienze. L’Einstein che del Flauto magico afferma: «E un lavoro che incan­ ta un fanciullo, commuove l’uomo piu indurito ed entusia­ sma il saggio. Ogni individuo ed ogni generazione vi trova­ no qualcosa di diverso: solo a colui che c semplicemente “colto”, e al puro barbaro, Il flauto magico non dice nulla». Ora è un fatto che IIflauto magico si pone proprio come la piu imponente conferma di quella attitudine che il genio di Mozart possedeva in misura eccezionale, a sublimare ar­ tisticamente le occasioni piu banali, creando un’opera d’arte per un orologio meccanico o per l’esibizione da avanspetta­ colo d’una virtuosa di «armonica a vetro». In un certo senso Ilflauto magico è il capolavoro di quella che Mozart chiama­ va curiosamente la «musica in charitatis camera», cioè quei giochetti musicali come il terzetto del nastro o i canoni bur­ leschi, improvvisati in famiglia o in una brigata di buontem­ poni. Anche IIflauto magico è in certo senso il risultato della sublimazione artistica d’un gergo musicale privato, un lessi­

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co familiare intessuto di modi di dire convenzionali e di doppi sensi fondati su un’intesa segreta e ammiccante. Ma a rischio di passare per persone «semplicemente col­ te» (non essendovi alcuna speranza di poter valere come esempio di «puri barbari», non ci si può sottrarre al bisogno di isolare in seno al Flauto magico ciò che la felicità dell’ispi­ razione musicale ha davvero investito della propria fiamma, nobilitando l’umile materia librettistica. In un certo senso si potrebbe dire che con la sua potenza rinnovatrice la musica instaura nel Flauto magico una sua drammaturgia che non coincide sempre, in tutto e per tutto, con la linea proposta dal libretto e accettata in buona fede dal compositore. Sarà verissimo che Mozart abbia sposato con entusiasmo il cam­ biamento di rotta imposto alla vicenda con il capovolgimen­ to dei caratteri di Sarastro e della Regina Astrifiammante, e che davvero con zelo neolitico egli abbia cercato d’esprime­ re i sottintesi simbolici connessi con tali personaggi, entusia­ smandosi per l’ideale di saggezza laica e di massonica filan­ tropia concretato nella figura di Sarastro e dei suoi ministri. Ma la musica che irresistibilmente si accende intorno alle fi­ gure dei semplici, di Pamina e di Tamino, di Papageno e Papagena, la musica che vince la rischiosa partita di questo Singspiel nobilitato soprattutto grazie a due carte buone, la tenerezza degli affetti umani e il fantastico fiabesco, ci dice che la vera massoneria di Mozart non era quella, in cui egli credeva ingenuamente di credere, delle logge viennesi, con i triangoli, la cazzuola e i riti grotteschi delle prove, rievoca­ te nella trama del libretto. La massoneria di Mozart è un’altra, è la massoneria de­ gli umili e della povera gente, come Papageno e Papagena, come Pamina e Tamino, anche se quest’ultimo è un principe giapponese e Pamina è la figlia della Regina della Notte. Ma la massoneria di Mozart è quella di coloro i quali non han­ no altra forza che quella degli affetti umani, non altra ric­ chezza che il loro cuore; è la massoneria della buona gen­ te contro tutti i potenti, contro tutti i «domini», i «signo­ ri», contro tutti coloro che vestono delle divise, delle «ar­ mature», e portano dei galloni. Perciò, irresistibilmente, a dispetto dalle intenzioni drammaturgiche proposte dal li­ bretto e accettate da Mozart, la parte musicale riguardan­

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te Sarastro e il suo regno, pur contenendo alcuni nobilissimi cori e, come s’è visto, esemplari recitativi, e una solenne aria, finisce per schierarsi in una zona d’ombra. Dovrebbe essere il polo positivo dell’azione, dove raggiano la bontà e la saggezza. Ma per quanto «buoni», Sarastro e i suoi acco­ liti sono pur sempre dei potenti. Il loro tono non è quello cordiale delle due coppie, nobile e popolana, che pervengo­ no alla felicità attraverso l’amore. E ad ascoltare la musica, senza dar retta ai simboli del libretto, accade che le prove massoniche del silenzio, del fuoco e dell’acqua, attraverso cui Pamina e Tamino potranno pervenire alla superiore sag­ gezza, si configurano in realtà anch’esse come altri intralci, traversie ed affanni, non sostanzialmente dissimili da quelli che la perfidia dei «cattivi», la Regina della Notte e Mono­ stato, frappone alla felicità delle creature semplici e naturali, dei miti, degli inoffensivi. Se si dovesse sviluppare intera­ mente la filosofia implicita nella musica - non nel libretto del Flauto magico, si arriverebbe alla conclusione che il Male è il potere, il Male è la forza, il Male è l’autorità, la volontà di dominazione, la cupidigia, la prevaricazione, mentre il Bene è l’innocenza, il vivere e lasciar vivere, in una parola, la Natura. Un credo, cioè, di anarchia settecentesca, fonda­ to sul mito giusnaturalistico dell’età dell’oro: al quale c’è del resto un accenno nel primo quintetto dell’opera. Quali che abbiano potuto essere le sincere convinzioni massoniche di Mozart, un sospetto di magniloquenza e di retorica predicatoria s’insinua, per qualche attimo, appena sul cattedratico misticismo di Sarastro e dei suoi iniziati, Tamino e Pamina sono i veicoli preferenziali dell’ideale umano mozartiano, e se il tenore gli è riuscito un po’ scial­ bo, come già nelle opere italiane, Pamina è la creatura mo­ zartiana per eccellenza, tenera, affettuosa, bella, tutta gen­ tilezza inerme e innocenza perseguitata. Le traversie e gli af­ fanni e le prove attraverso cui si realizza il loro sogno amo­ roso sono l’immagine del commovente ottimismo di Mozart pur nel fondo della miseria, sono la sua irragionevole e subli­ me parola di fede nella bontà dell’uomo e nella positività della vita. E poiché la legge morale di questa semplice uma­ nità indifesa, incapace di finzione e d’artifici, è l’obbedien­ za alla Natura, ecco che della piena felicità-d’ispirazione vie­

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ne a beneficiare anche la parte fantastica, estrinsecata nei personaggi «cattivissimi» di Monostato e della Regina della Notte, e nelle triplici apparizioni delle Dame e dei Genietti: presenze invisibili della Natura, forze favorevoli e nemiche in mezzo a cui scorre l’esistenza dell’uomo. Anche i mezzi piu puerili per concretarle - fischietti, sonagliere, carillons y apparizioni di belve da baraccone e di nerissimi mostri - ac­ quistano nella musica mozartiana la verità poetica di una finzione fondata nelle premesse storicamente concrete d’u­ na cultura popolare. Questa rinsangua di robusta schiettezza anche la comicità dei due personaggi buffi, Papageno e Papagena, riflesso de­ teriore della coppia ideale di Tamino e Paniina, ma non per questo visti con minor calore di simpatia. Eppure snobbati dai «simbolisti», Papageno e Papagena sono la prosa carnale della vita umana, la buona e onesta prosa che è retaggio del­ la piu gran parte degli uomini, ed è quasi una proiezione di­ retta della naturale giovialità del popolino viennese, quello che ama accalcarsi la domenica al Prater per giocare sulle giostre e ridere alle facezie di Kasperl, nel teatro dei burat­ tini. Ma anche in loro arde la fiamma vivificante dell’amore - amore per le creature e per il creato, per i colori, le luci e le forme di questo mondo - e nonostante la buffoneria del­ l’inizio tartagliarne, accentuata dalle smancerie gallinesche inventate da Schikaneder, che fu il primo Papageno, anche il duetto della loro ricongiunzione ribadisce il vangelo mo­ zartiano della felicità attraverso l’affetto. Del resto, non commedia di personaggi: «Essi si aggirano come dietro un velo leggero, che sommerge i contorni preci­ si dei loro caratteri, e ne fa piuttosto dei tipi, che piene e vi­ tali personalità nel senso dell’opera italiana».

Se «il flauto magico» zufola La Marsigliese

Diceva Goethe che ci vuole molta piu intelligenza per ca­ pire il valore del libretto del Plauto magico che non per farsi beffe della sua puerilità. Schopenhauer lo definiva «un gero­ glifico grottesco, pieno per altro di significati e d’importan­ za». E Hegel (decisamente il librettaccio dell’estroso tea­ trante Schikaneder gode di estimatori illustri): «Si può spes­ so sentir dire che il testo del Flauto magico è troppo lamen­ tevole, benché questo testo, di cosi poco conto, sia da anno­ verare fra i più notevoli libretti d’opera». Di quel tipo d’intelligenza auspicata da Goethe ne hanno da vendere gli autori, a quattro mani, d’un libro dove quella «favola per la ragione» che è l’ultima opera di Mozart viene inserita nel crogiuolo d’idee settecentesco, e tutti i suoi signi­ ficati vengono esplorati, e forse anche sollecitati con un po’ d’immaginazione creativa, alla luce dell’ermeneutica più mo­ derna - da Propp a Bettelheim, da Adorno a Deleuze e Guat­ tari, da Bloch a Benjamin, da Spitzer a Starobinski - oggi im­ pegnatissima a cercare nel secolo dei lumi, assai più che nell’Ottocento, le radici del mondo moderno e della nostra civil­ tà, o inciviltà che dir si voglia (Renato Musto e Ernesto Na­ politano, Unafavola per la ragione. Miti e storia nel «Flauto ma­ gico» di Mozart, Feltrinelli, Milano 1982). Collocato nel «momento del confronto e del conflitto della nascente coscienza borghese col declinante potere as­ soluto», Ilflauto magico viene sottoposto a una rilettura ri­ ferita al tema della rivoluzione. Con abili excursus ad altre opere - particolarmente d&Idomeneo e alla Zaide, e natural* Da «La Stampa», 27 giugno 1982.

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mente alle Nozze di Figaro - si sostiene che «la sostituzione di poteri» è tema pressoché costante della drammaturgia mozartiana. Opera massonica 11 flauto magico, certo, di quella massoneria ingenua e casalinga come l’intendeva Mo­ zart, ma assai piu che alla ricerca puntuale e bigotta delle simbologie massoniche l’attenzione dei due autori va alle « ansie di trasformazione » che agitano il secolo e sottendo­ no, certamente, anche la massoneria, senza esaurirvisi. Il mito del buon selvaggio e l’utopico ideale settecentesco di ricerca della felicità - il regno di Saturno, il ricupero del­ l’età dell’oro - sono i motivi della «tensione umanitaria che percorre l’opera». Papageno è figlio di Rousseau e nella vi­ cenda di Tamino e Pamina che si trovano ed uniscono dopo aver superato le «prove» si celebra la «esaltazione della cop­ pia come modello di umanità» e primo nucleo di «un idea­ le socializzato». Questo flauto magico zufola la Marsigliese. Instancabili ricercatori (o inventori) di soprasensi e di si­ gnificati reconditi Musto e Napolitano non hanno pietà per i semplici che si fermano all’aspetto esteriore e al significato letterale della fiaba, come fa Bergman col suo film. Nella lo­ ro indagine c’è sempre una «trama piu sotterranea» da op­ porre al «livello più manifesto». Profondità! Profondità! «Altra cosa è il senso della vicenda da ciò che ascoltiamo, e la musica vi si può sottrarre, se non giungere persino a ne­ garlo». Ribaltare! Ribaltare! È la parola-spia del libro (l’ab­ biamo contata almeno una dozzina di volte, non per casuali coincidenze, ma come segno d’una forma mentis). La prima obiezione che si sarebbe tentati di muovere a una simile procedura critica è che si eserciti semplicemente sul libretto. Ma non sarebbe giusto. Certo, gli autori attri­ buiscono «insospettato spessore» all’«innocente libretto di Schikaneder», ma affermano fin dal principio che «è la mu­ sica... a farsi spia segreta delle fratture e della tensione che in molti episodi esiste fra il loro significato più apparente e manifesto e la loro più interna natura». E se la prima metà del libro spazia quasi esclusivamente nella storia delle idee, sia pur ricondotte ai personaggi e alla trama del Singspiel, nella seconda metà si avverte quasi un cambiamento di registro (forse un autore passa la mano al­ l’altro) e l’analisi musicale prende il sopravvento, con pene­

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tranti riferimenti non solo alla natura particolare del Plauto magico, opera eminentemente non-psicologica, e perciò tan­ to diversa dalle strutture musicali e teatrali delle tre comme­ die italiane, ma anche a molte altre composizioni mozartia­ ne, sia vocali che strumentali, vuoi tra le piu celebri, vuoi tra le più rare e neglette. In secondo luogo, chi scrive sarebbe l’ultima persona a poter muovere al libro un rimprovero di scarsa attenzione agli aspetti musicali dato che gli autori hanno la benevolenza di affermare che il corso universitario sul Plauto magico te­ nuto dal sottoscritto nel 1973-74 «rende largamente super­ flua un’ulteriore, dettagliata descrizione musicale! » Seconda obiezione possibile: ma voi, con la sbalorditiva cultura storico-filosofica di cui fate sfoggio, attribuite al Plauto magico una valanga di significati di cui Mozart e Schikaneder, nella loro semplicità, non sapevano assolutamente nulla. Sarebbe anche questa un’obiezione sostanzial­ mente infondata. Il lavoro di Musto e Napolitano consiste nel riportare alle sue fonti culturali tutto quel bagaglio di pensiero, di ideolo­ gie e di concezioni filosofiche settecentesche che era sceso fino a Mozart e Schikaneder sotto forma di costume, di opi­ nioni correnti, di moda, attraverso i ramificati canali di me­ diazioni divulgative e di mass-media dell’epoca. Sarebbe ba­ stato un accenno a tutto quel processo di penetrazione socia­ le attraverso cui le idee di un’epoca scendono da chi le ha in­ ventate agli strati più umili e incolti della popolazione - in questo caso, Schikaneder e Mozart - e li pervadono, li im­ pregnano a loro insaputa. Asinus portans misteria. Resta - e questo non si può nascondere - che si tratta d’un libro eccezionale, ma di difficile, quasi irritante lettura per l’enorme bagaglio di materiale non perfettamente domi­ nato. Idee che si accavallano o fioriscono l’una con l’altra e divertono continuamente in nuovi suggerimenti accettando tutte le proposte. Il martirio delle note! Trecentoventi in un libriccino di centottanta pagine! E non sono semplici pezze d’appoggio bibliografico; quasi sempre sono continuazioni del discorso avviato nel testo, e che in esso avrebbero dovu­ to essere organicamente assimilate per mostrare la germina­ zione del pensiero. Oppure contraddicono il testo con obie­

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zioni che gli scrupolosissimi autori muovono a se stessi, o spesso - tipico segnale dell’affastellarsi di idee - prometto­ no: di questo parleremo più avanti nel capitolo tale. Tutto ciò genera nel lettore una specie d’impazienza feb­ brile, ma è bella e felicissima colpa quella di aver troppe idee, specialmente in un campo come la musicologia dove le idee sono più rare che le mosche bianche e perciò vengono sospettate, e tenute in conto di dilettantismo. E vero che ci si sono messi in due (ed è prima singolarità di questo libro cosi compatto), ma anche in due, le idee restano tante. Se­ conda singolarità, che gli autori siano, si, entrambi professo­ ri universitari, ma di che cosa? Di fisica! Per chi si è battuto tutta la vita allo scopo d’introdurre la musica nella circola­ zione generale della cultura, una bella soddisfazione.

Ma è poi tanto «diverso» Ilflauto magico?

Che nel Flauto magico, parole e musica, si affrontino due mondi, quello del Bene e quello del Male, lo sanno tutti. Sa­ rastro, con la solenne corte dei suoi Sacerdoti, il Bene. La Regina della Notte, coi suoi emissari e con le sue graziose Damigelle, il Male. Tamino compie la difficile traversata dall’uno all’altro mondo. Partito per liberare Pamina dalla reclusione in cui si suppone la tenga Sarastro, accetta invece di quest’ultimo l’ideale di redenzione educativa e conduce Pamina con sé, anzi, ne è validamente incoraggiato durante le prove iniziatiche dell’aria, dell’acqua e del fuoco, fino a raggiungere anch’essi la saggezza. Questo è l’apparato solenne e, diciamo cosi, eroico della trama, appoggiato sul cerimoniale massonico, ed è l’aspetto per cui IIflauto magico si riscatta, agli occhi dei dotti e delle persone serie, dalla lamentevole puerilità fiabesca dei suoi contenuti teatrali. I saggi come Goethe vi scorgono l’annun­ cio di segreti veri sul senso della vita, il destino dell’uomo e tanti altri bei problemi insolubili perché mal posti. Giubila­ no i musicologi scorgendo nelle tirate di Sarastro e dello Sprecher i germi della unendliche Melodie e del teatro musi­ cale tedesco. Ma c’è un’altra contrapposizione di mondi, nel Flauto magico, che passa attraverso quella ufficiale e ne taglia l’uni­ verso secondo altre ascisse e coordinate. E la contrapposi­ zione gerarchica della gente semplice e dei pezzi grossi, dei poveri diavoli e delle autorità, in parole povere, dei perso­ naggi umani e dei personaggi-simbolo. * In aa.vv., Intorno al «Flauto magico», Mazzetta, Milano 1985.

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In questa ottica Papageno viene ribaltato ad una funzione d’importanza determinante. Era semplicemente una mac­ chietta di bassa comicità popolare, il tradizionale ruolo di buffone che Schikaneder si era ritagliato nello spettacolo. Nella realtà della rappresentazione ci si rende conto che Pa­ pageno è lui uno dei poli dell’azione. L’antitesi non è mica tra Sarastro e la Regina della Notte, che avranno le loro buone ragioni per essere nemici, ma possono essere nemici proprio perché sono dei pari grado, inseriti nello stesso regi­ me, appartenenti alla stessa casta, quella dei potenti. L’an­ titesi è tra costoro e Papageno che alle prove iniziatiche, non che superarle o soggiacervi sconfitto, non è nemmeno ammesso, perché lui non appartiene a quelle alte sfere dove per accedere all’esistenza c’è bisogno d’esami di qualifica­ zione. «Ce ne sono tanti altri come me», risponde Papageno quando lo Sprecher gli annuncia solennemente che lui è escluso dalle prove perché si è mostrato indegno dei piaceri celesti. Papageno vuol dire, con questo, che tutti praticamente sono come lui, salvo alcuni eroi come Tamino. Questi è l’eccezione e lui è la regola. Lui è l’esponente d’una specie di maggioranza silenziosa, che è la gente comune. Una volta tanto anche lui è un simbolo. Simbolo della gente che non è simbolo di niente, ma che è semplicemente se stessa, inseri­ ta nella realtà dell’esistenza. Allora ci rendiamo conto che sul terreno dell’arte la vera antitesi del Flauto magico non è quella tra il Bene c il Male, bensì tra l’astratto e il concreto, di cui - del concreto - Pa­ pageno è il portatore. Né egli rimane un polo isolato dell’an­ titesi, ma del suo principio di concretezza egli contagia in varia misura i personaggi con cui viene in contatto, massi­ mamente Pamina, che si accompagna con lui per un lungo tratto alla ricerca di Tamino e che molto più di costui è aper­ ta al riconoscimento e alla professione dell’umana natura. Tamino è un principe, è uno che verso l’altezza del supero­ mismo ci ha la vocazione, è un chiamato, un eletto. Pamina no, Pamina è una creatura umana, impastata di affetti. Ta­ mino si comporta con Papageno in maniera altezzosa, come un cavaliere col suo scudiero. Lo redarguisce per le sue de­ bolezze, per la sua ingordigia, per la sua incapacità di rispet­

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tare la regola del silenzio. Pamina no. Pamina accetta Papa­ geno cosi cotn’è e si accompagna con lui lietamente, senza far storie. CqsI accade che con lei Papageno si trova a suo agio: non è quel Leporello impacciato e pauroso che è con Tamino, ma è sicuro di sé («Schnelle Fùsse, rascher Mut»), è perfino brillante come un damerino di periferia, uno sport­ ing life in paglietta, canna da passeggio e vestito a righe. Facendo leva su Papageno e sulla sfera di concretezza ma­ terialistica ch’egli estende in seno alla trama simbolica della favola, sembra possibile ricondurre l’interpretazione entro i limiti più familiari, ed esteticamente più sicuri, del reali­ smo psicologico che faceva grandi i tre capolavori italiani di Mozart. Il divario tra II flauto magico e Le nozze di Figaro sembra un po’ meno ampio e meno inesplicabile. Non è vero al cento per cento quello che affermano molti studiosi, che 11flauto magico sia unicamente un dramma di simboli e d’idee, al di là d’ogni realtà fondata nella natura dell’uomo. La nostra ammirazione potrebbe allora spostarsi di qualche grado sul diagramma di gradimento dell’opera, avvicinandosi al giudizio e al gusto del popolino viennese che dopo la prima freddezza affollava sempre più convinto l’Auf der Wieden e che ammirava si, a bocca aperta e senza capirci molto, la grande parata della Saggezza di Sarastro e dei suoi Sacerdoti, ma l’adesione piena, l’entusiasmo più partecipe lo riservava ogni sera alla scena del carillon con cui Papageno, facendo klingen-klingen i suoi campanelli, paraliz­ za Monostato e i suoi schiavi in un irresistibile incantesimo, si che essi cominciano a danzare vorticando lentamente e se ne vanno canterellando e girando su se stessi come burat­ tini. E questo uno dei punti più alti dell’opera, forse il più al­ to, certo quello di più immediato consenso popolare. La vir­ tù benefica della musica vi viene celebrata non attraverso il nobile flauto di Tamino, con le sue reminiscenze gluckiane del mito di Orfeo, ma attraverso uno strumento popolaresco da baraccone, come quegli inverosimili organi meccanici da orologio e quella Glas-Harmonika per cui Mozart aveva scia­ lato alcuni dei suoi ultimi capolavori. È qui che si coglie il senso ultimo del Flauto magico, celato oltre il pomposo appa­ rato delle intenzioni massoniche: è la rivincita degli umili,

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dei poveri diavoli come Papageno, della gentarella viennese che la domenica affolla il Prater aggirandosi tra la musica dei baracconi e delle giostre. Macché Sarastro, macché sag­ gezza superiore, macché rivelazione! La mente di Mozart può magari essere con loro: ma il cuore di Mozart è con Pa­ pageno. Trattare con compatimento questo episodio come una concessione edonistica al gusto popolare di Schikaneder e del suo teatro di barriera, e prendere sul serio solo il rata­ plan del prossimo arrivo di Sarastro e la pompa magna del suo canto, significa esporsi al rischio di fraintendere il senso dell’opera, quello che è additato dai valori artistici e non an­ nidato nelle intenzioni. C’è un piccolo episodio, generalmente inosservato, dove si coglie in maniera quasi emblematica il passaggio tra i due mondi del Flauto magico, quello astruso ed astratto della so­ lennità simbolica, e quello concreto della verità di rapporti umani. Si approssima la scena culminante del dramma, quel­ la delle prove del fuoco e dell’acqua; con un declamato pre­ wagneriano che riempie di gioia i musicologi tedeschi Tami­ no ha appena proclamato la sua nobile risoluzione di «agire da uomo», senza paura della morte, per seguire la via della virtu, ed ecco da lontano giunge la voce di Pamina: «Ferma, Tamino! Debbo vederti! » Lieto stupore di Tamino: «Che odo? la voce di Pamina?», ed ecco avvenire un miracolo, l’umanizzazione dei Geharnischten, i misteriosi guardiani del­ l’acqua e del fuoco, polizieschi funzionari di Sarastro. Cata­ fratti nelle loro antipatiche armature di pizzardoni, sembra­ vano capaci soltanto di sbraitare con impersonale rigidità un antico corale luterano; invece ora, quasi smontassero di guardia, si rivelano due bonaccioni, tutti contenti di poter confermare a due voci: «Si, si, è la voce di Pamina!» E quando Tamino, sempre rispettoso dei regolamenti, chiede: «Mi è permesso parlarle?», loro sono lieti di rispondergli, quasi facendogli il verso: «Ti è permesso parlarle». Non di­ versamente, durante una traduzione in cellulare o nella lun­ ga consuetudine del carcere, può stabilirsi una sorta di fami­ liarità tra guardie e detenuto, fondata nella comunione della natura umana e nella consapevolezza d’essere legati a una medesima mala sorte. Ribaltati a questo modo i piani dell’opera, ed accettata la

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sua natura popolare, che l’aspirazione ad una saggezza su­ prema ammanta d’un meraviglioso ingenuo, da teatro da ba­ raccone, resterebbe allora da riconoscere come questa singo­ larissima condizione s’incarni particolarmente in un elemen­ to musicale, e cioè nella melodia, quella melodia straordina­ ria, incredibile, del Flauto magico che, questa si, lo differen­ zia realmente dal comportamento musicale del Don Giovan­ ni, di Cosifan tutte. Melodia che è stata giustamente ricono­ sciuta come una sintesi d’elementi i piu disparati quali il Volkslied, il corale, il recitativo preromantico, l’arietta vien­ nese e naturalmente l’aria italiana. Già Beethoven ammira­ va Ilflauto magico per questa coniugazione di stili vocali di­ versi, da cui sorge il miracolo d’un tipo melodico che non aveva uguali né nel melodramma né nella musica strumenta­ le dell’epoca. Lo studioso ungherese Benno Szàbolczi ha individuato e documentato la presenza di «modelli» melodici, quasi come maqam persiane, che ricorrono con costanza nel nobile de­ clamato di Sarastro e dello Sprecher e nei cori dei Sacerdoti. Sembra d’intuire che ancor piu evidente è la presenza di co­ stanti maqam, d’altro tipo, nelle canzoncine dei personaggi umili. Definirne la fisionomia, riconoscerne le leggi, calco­ larne gli equilibri e le proporzioni potrebbe essere uno dei compiti ancora utilmente aperti alla ricerca musicologica.

Sinite parvulos adire ad Sarastrum

Con tutti i luoghi comuni che circolano sull’eterna fan­ ciullezza del genio di Mozart, parrebbe che la sua opera deb­ ba essere particolarmente adatta ai bambini. Ma - a parte che non siamo sicuri se i bambini gradiscano chi si rivolge a loro con un linguaggio da bambini - resta da vedere se la semplicità mozartiana sia tanto facile da intendere, o non costituisca soltanto un’istanza superficiale, una provvisòria sala d’aspetto da cui accedere al nucleo dell’invenzione arti­ stica. Lasciando da parte la musica strumentale, dove il gusto infantile rischierebbe di privilegiare una serie stucchevole di Marce turche e di Piccole musiche notturne, tra i capolavori teatrali quali si addicono meglio all’orecchio del fanciullo? Escluso il Don Giovanni, per i suoi impervi risvolti demo­ niaci, escluse Le nozze di Figaro, tipica commedia matrimo­ niale per adulti, esclusa Cosi fan tutte, malizioso marivaudage sui temi dell’amore, della fedeltà e della fragilità femminile, li per li vien fatto di rispondere: - Ma II flauto magico, perbacco! Cosa c’è di meglio per la mente dei bambini che questa fiaba tutta tintinnante di strumenti magici, con aeree apparizioni come i tre gemetti che proteggono l’avventura di Tamino e Pamina, con perso­ naggi buffi come Papageno, o comicamente terribili come il nero Monostato, con situazioni di suspense come le prove dell’aria, dell’acqua e del fuoco? Parrebbe; ma a guardar bene, vale di nuovo la metafora * Da l. rino 1986.

allasia,

s. camodeca e A. quesada, Ilflauto magico, Castalia, To­

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APPENDICE

della sala d’aspetto. L’apparenza fiabesca del Flauto magico è un’anticamera. Al di là, la musica schiude la fuga di came­ re d’un appartamento enorme, le sale d’una reggia, le cap­ pelle d’un tempio, in una prospettiva sconfinata. Forse l’u­ nica opera di Mozart veramente per bambini è il Ratto dal serraglio. Li la superficie è realtà. Non c’è che da goderne, senza pretesa d’intender altro. Per il Flauto magico no. Die­ tro il velame dei suoi canti, non strani, anzi semplicissimi, e appunto per questo difficilissimi, c’è un mondo. Per pene­ trarvi, il bambino (ma anche l’adulto) ha bisogno d’essere guidato.

Stampato per conto della Casa editrice Einaudi presso le Arti Grafiche Giacone &C., s.n.c., Chieri (Torino) c.l. 11630

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Piccola Biblioteca Einaudi Volumi pubblicati nella sezione «Arte. Architettura. Urbanistica. Musica. Cinema. Teatro. Fotografia. Giochi. Sport»

Tristan Tzara, Manifesti del dadaismo e Lampisterìe, Wilhelm Worringer, Astrazione e empatia. Georges Sadoul, Manuale del cinema [8]. Italo Insolera, Roma modèrna. Un secolo di storia urbanistica [25]. Massimo Mila, Breve storia della musica [31]. Lionello Venturi, Storia della critica d'arte [38]. Arnold Hauser, Storia sociale dell'arte (due volumi) [47]. Enrico Fubini, L’estetica musicale dal Settecento a oggi [50]. Massimo Mila, L’esperienza musicale e l’estetica [56]. Angelo Maria Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia [81]. Anthony Blunt, Le teorìe artistiche in Italia dal Rinascimento al Manierismo [83]. Giorgio Graziosi, L’interpretazione musicale [88]. Edward Carter, Ilfuturo di Londra. L’evoluzione di una grande città [94]. Giuseppe Campos Venuti, Amministrare l’urbanistica [97]. Aloys Greither, Mozart [106]. Otto Karolyi, La grammatica della musica. La teorìa, le forme e gli strumenti mu­ sicali [119]. Roland Penrose, Pablo Picasso. La vita e l’opera [122]. Gianni Rondolino, Dizionario del cinema italiano 1945-1969 [128]. John Summerson, Il linguaggio classico dell’architettura [132]. Gillo Dorfles, Le oscillazioni del gusto. L’arte d’oggi tra tecnocrazia e consu­ mismo [137]. Bertolt Brecht, Scrìtti teatrali [154]. Theodor W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica [160]. Peter Szondi, Teorìa del dramma moderno (1880-1950) [178]. Gillo Dorfles, Introduzione al disegno industriale [181]. James S. Ackerman, Palladio [185]. Hans Mayer, Brecht e la tradizione [192]. Antonin Artaud, Il teatro e il suo doppio. Con altri scrìtti teatrali [193]. Enrico Fubini, Musica e linguaggio nell’estetica contemporanea [201]. Sergej M. Ejzenstèjn, Lezioni di regia [203].

Bruno Zevi, Il linguaggio moderno dell*architettura. Guida al codice anti­ classico [214]. Bruno Zevi, Poetica dell'architettura neoplastica. Il linguaggio della scomposizione quadridimensionale [215]. Bruno Zevi, Architettura e storiografia. Le matrici antiche del linguaggio mo­ derno [216]. Roman Vlad, Strawinsky [217]. Philippe Carles e Jean-Louis Comolli, Free Jazz/Black Power [218]. Giorgio Simoncini, Città e società nel Rinascimento (due volumi) [224]. Andrea Emiliani, Una polìtica dei beni culturali [236]. Francesco Poli, Produzione artistica e mercato [237]. H. H. Stuckenschmidt, La musica moderna. Da Debussy agli anni Cinquanta [240]. Jean-A. Keim, Breve storia della fotografia [274]. Erwin Piscator, Il teatro politico [277]. Italo Alighiero Chiusane, Storia del teatro tedesco moderno. Dal 1889 ad oggi [280]. Henri Béhar, Il teatro dada e surrealista [281]. Enrico Fubini, L’estetica musicale dall'antichità al Settecento [285]. Paolo Fossati, La realtà attrezzata [304]. Massimo Mila, Lettura della Nona Sinfonia [306]. Cesare De Seta, Città, territorio e Mezzogiorno in Italia [315]. Cesare Brandi, Teorìa del restauro [318]. Giovanni Romano, Studi sul paesaggio [349]. Michael Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento [350]. Rhys Carpenter, Gli architetti del Partenone [358]. Bruno Zevi, Editoriali di architettura [359]. Massimo Mila, Lettura delle «Nozze di Figaro» [371]. Claudio Gallico, Monteverdi. Poesia musicale, teatro e musica sacra [373]. Paolo Castelnovi, La città: istruzioni per l'uso. Semiotica della comunicazione nel progetto e nello spazio urbano [389]. Carlo Olmo, La città industriale. Protagonisti e scenari [391]. Anna Maria Damigella, La pittura simbolista in Italia (1885-1900) [412]. Millard Meiss, Pittura a Firenze e Siena dopo la Morte Nera. Atte, religione e società alla metà del Trecento [422]. Giovanni Ferracuti e Maurizio Marcelloni, La casa. Mercato e programma­ zione [429]. Nikolaus Pevsner, Le Accademie d'arte [430]. Theodor W. Adorno, Ilfido maestro sostituto. Studi sulla comunicazione della mu­ sica [431]. Filiberto Menna, La linea analitica dell'arte moderna. Le figure e le icone [436]. Nicolas Ruwet, Linguaggio, musica, poesia [437]. Manlio Brusatin, Storia dei colori [442]. Enrico Fubini, Musica e pubblico dal Rinascimento al Barocco [452]. Daniela Goldin, La vera fenice. Librettisti e libretti tra Sette e Ottocento [454].

Sergej M. Ejzenstejn, La forma cinematografica [460]. Manfredo Tafuri, Stona dell'architettura italiana 1944-1985 [470]. Armando Petrucci, La scrittura. Ideologia e rappresentazione [472]. Henri Focillon, Vita delle forme [474]. Jean-Jacques Nattiez, Il discorso musicale [476]. Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. 1. Preistoria. Antichità. Medioevo [482]. n. Rinascimento. Manierismo. Barocco [483]. m. Rococò. Neoclassicismo. Romanticismo [484]. iv. Arte moderna e contemporanea [485]. Béla Balàzs, Ilfilm. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova [486]. Ernst H. Gombrich, Otto Kurz, Stephen Rees Jones, Yoyce Plesters, Sul re­ stauro [487]. Massimo Mila, Lettura del Don Giovanni di Mozart [494]. Giulio Carlo Argan, Walter Gropius e la Bauhaus [499]. Ernst Kris, Ricerche psicoanalitiche sull’arte [500]. Arnold Hauser, Le teorie dell’arte. Tendenze e metodi della critica moderna [502]. Bernardo Secchi, Un progetto per l’urbanistica [503]. George Kubler, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose [507]. Linda Nochlin, Il realismo nella pittura europea delxix secolo [508]. Julius von Schlosser, L’arte del Medioevo [511]. Rudolf Arnheim, Entropia e arte. Saggio sul disordine e l’ordine [513]. Giorgio Ciucci, Gli architetti e ilfascismo. Architettura e città 1922-1944 [515]. Massimo Mila, Lettura del Flauto magico [517].

Dal catalogo Einaudi

Musica EPOCHE E COMPOSITORI

Adorno, Wagner, Mahler Bastianelli, Il nuovo dio della musica Bortolotto, Fase seconda. Studi sulla Nuova Musica Duse, Gustav Mahler Gallico, Monteverdi. Poesia musicale, teatro e musica sacra Goldin, La vera Fenice Greither, Mozart Gruber, La fortuna di Mozart Il melodramma italiano dell'ottocento Magnani, La musica in Proust Mayer, Richard Wagner a Bayreuth Mila, Compagno Strawinsky - L'arte di Verdi - Lettura del Don Giovanni di Mozart - Lettura della Nona Sinfonia - Lettura delle Nozze di Figaro - Moderna musicista europeo Paumgartner, Mozart Pirrotta, Li due Orfei: da Poliziano a Monteverdi - Musica tra Medioevo e Rinascimento Prieberg, Musica ex machina Rognoni, Gioacchino Rossini - La scuola musicale di Vienna Savinio, Scatola sonora Schumann, La musica romantica Strawinsky - Craft, Colloqui con Strawinsky Stuckenschmidt, La musica moderna Vlad, Strawinsky

Mozart, con Beethoven e Brahms, fu la passione dominante del grande musicologo Massimo Mila. A Mozart egli dedicò una mirabile sintesi interpretativa nella sua Breve storia della musica, e poi tutta una serie di «letture», cioè di minuziose, ma limpide e affascinanti destrutturazioni della par­ titura di singoli melodrammi, dalle Nozze di Figaro al Don Gio­ vanni, a questo Flauto magico che compare postumo, appassionata guida alT« opera che ha lasciato più feconda traccia di sé nel tea­ tro musicale tedesco».

ISBN 88-06-11630-4

[email protected] Lire 16000

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In copertina: Tamino e Pamina di Moritz von Schwind.

Massimo Mila (1910-1988), laureato in lettere all’Università di Torino nel 1931, ha insegnato Storia della musica al Conservatorio Giuseppe Verdi di Torino dal 1955 al ’74, e ha fondato ITstituto di Storia della Musica all’U­ niversità di Torino. Ila collaborato a diverse riviste e giornali ed è stato il critico musicale del quotidiano torinese «La Stampa». L’editore Einaudi ha di lui sin qui pubblicato L'esperienza musicale e iestetica, Cronache musicali I955I959> Breve storia della musica, Moderna musicista europeo, Lettura della Nona Sinfonia, Lettura del Don Giovanni di Mozart, Lettura delle Nozze di Fi­ garo, L'arte di Verdi, Compagno Strawinsky. Questo volume, il primo a veder la luce dopo la sua scomparsa, sarà seguito da tre raccolte di studi su Rossini, sul Novecento e su aspetti e problemi di storia della musica e da tre sillogi di Scritti civili, Scritti sulla montagna, e di Lettere alla madre dal carcere.