L'esperienza musicale e l'estetica 8806046144, 9788806046149


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L'esperienza musicale e l'estetica
 8806046144, 9788806046149

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MASSIMO MILA

L’ESPERIENZA MUSICALE E L’ESTETICA

Piccola Biblioteca Einaudi

PICCOLA BIBLIOTECA EINAUDI

Arte. Architettura. Urbanistica. Musica. Cinema. Teatro. Fotografìa. Giochi. Sport

56

Copyright 1950 e © 1956 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino ISBN 88-06-04614-4

MASSIMO MILA

L'ESPERIENZA MUSICALE E L’ESTETICA

Piccola Biblioteca Einaudi

Indice

Prefazione

P- 7 li

Cauto omaggio a Hanslick « Che farò senza Euridice.., »

25

11.

47

111.

Ascoltare la musica Capire la musica 1. 2. 3. 4. 5. 6.

5i 55 57 60 65 68 73

Hanslick, pro e contro

1.

13 20

iv.

Passività edonistica di fronte alla musica Funzioni sociali della musica Collaborazione attiva dell’ascoltatore La musica e l’espressione. Irrealtà dei sentimenti Musica, tempo e memoria La musica come linguaggio

Espressione artistica e linguaggio musicale La musica e il linguaggio musicale In margine a un congresso

75 87

93

v.

Il contributo dell’esperienza musicale all’e­ stetica

103

vi.

Fondamenti storici d’una teoria dell’atto mu­ sicale

105 117

L’equivoco dell’oggettivismo e il suo senso positivo Inconsapevolezza e controllo nell’espressione arti­ stica

6

INDICE

121

124 127 130 136

140 147 150 152 154

vii. Estrema sinistra 1. Ispirazione cosciente ed espressione inconsape­ vole 2. Ispirazione e autocritica 3. Un libro sull’estetica e la creazione musicale 4. Doppia insidia monistica: formalismo e contenu­ tismo 5. L’espressione artistica come «specchio»

vili. Aspetti e applicazioni del concetto di espres­ sione involontaria 1. Espressione implicita ed espressione esplicita 2. Il commento musicale del cinematografo 3. Sulla funzione sociale dell’arte appendice. L’interpretazione musicale

159 173 177

La libertà dell’interpretazione musicale La realtà della musica nell’esecuzione L’insufficienza della notazione musicale

Prefazione

Gli scritti che compongono questo libro furono in parte pubblicati (e Vanno è indicato in calce a ciascuno di essi) nelle riviste: «La Rassegna Musicale» (I, i; II; VII), «Belfagor» (III e VAppendice); «Musica» (I, 2); «Radiocorriere» (IV, 2). Il cap. IV, 1, fu presentato come relazione al V Congresso di Musica del Maggio Musicale Fiorentino 1948, ed elementi d’una relazione presentata al Congresso di Musica del Maggio Musicale 1949 en­ trano nel cap. VI. Il cap. V nacque come introduzione al volume di Camillo Artom, La creazione musicale (Ales­ sandro Minuziano Editore, Milano 1950). La maggior parte di questi scritti sono stati rielaborati, integrati d’e­ lementi nuovi 0 interamente rifatti, com’è il caso dei ca­ pitoli VI e VII. Il cap. Vili fu scritto a guisa di conclu­ sione e riassunto. A eccezione dell’Appendice, che tratta il problema del­ l’interpretazione musicale e il cui primo saggio fu scritto, otto o nove anni prima della data di pubblicazione, in un periodo di particolare intossicazione filosofica e di forzato distacco dall’attività critico-storica, gli otto capitoti del libro trattano in sostanza, e non senza ripetizioni e riba­ dimenti ostinati, un medesimo argomento, che è la natura da attribuire all’espressione artistica. Non si devono, tali scritti, a una particolare vocazione per la formulazione sistematica d’una metodologia, bensì a occasionali rifles­ sioni d’un critico musicale e storico della musica sul pro­ prio mestiere: ripiegamenti inevitabili per chiunque ami rendersi conto di quello che vien facendo e voglia chia­ rire a se stesso le ragioni e i criteri del proprio lavoro.

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PREFAZIONE

Perciò gli otto capitoli ritornano sullo stesso tema a di­ stanza d'anni, spesso muovendo da punti di vista diversi a seconda delle occasioni che li hanno sollecitati, come raggi tirati da vari punti d’una circonferenza a un mede­ simo centro. Nati dall'accettazione condizionata dell'insegnamento d'un maestro del pensiero estetico contemporaneo, e dal bisogno di ritagliarsi, entro quel panno, un abito su mi­ sura, essi accolgono ogni sorta di spunti, di iniziative con­ comitanti, di contributi e di contrasti eh'essi possano ave­ re incontrato o fatto sorgere sul loro cammino, e in par­ ticolare nella definitiva rielaborazione di questo volume si svolgono quasi continuamente con l'andamento d'un dialogo sempre aperto con la parola, scritta o parlata, pri­ vata o pubblica, .di maestri, colleghi e contraddittori, ai quali tutti va indistintamente la sincera gratitudine del­ l'autore. M. M.

(1956).

L’ESPERIENZA MUSICALE E L’ESTETICA

I.

Hanslick, pro e contro

Cauto omaggio a Hanslick

Il piu importante contributo che alle dottrine estetiche sia venuto dal dominio musicale - il saggio Del bello nella musica (1854) di Eduard Hanslick - gode di una dubbia celebrità. Considerato generalmente come il manifesto della tendenza alla «udibilità pura», viene per lo piu citato a titolo sostanzialmente negativo, come esempio tipico d’un errore da evitare. Giustizia vuole che lo si riconduca nel quadro del suo tempo e lo si intenda come reazione polemica a esage­ razioni romantiche e idealistiche. La scuola di Weimar (Wagner e Liszt) cominciava a trionfare in Germania, av­ viando il teatro lirico verso le forme del dramma musi­ cale e la sinfonia verso la concezione pittorica e narrativa del poema sinfonico. Il principio dell’unità dell’arte, in­ staurato dallo Hegel, pareva stesse per trasformarsi in quello della confusione delle arti. Wagner spingeva la capacità espressiva della musica fino al simbolismo de­ scrittivo dei suoi temi (« della spada », « dell’oro », « del­ l’estasi d’amore», «del Walhalla», ecc.). Contro questo stato di cose, Schumann aveva già salutato nel giovanis­ simo Brahms l’alfiere di un nuovo classicismo: e proprio a Brahms, lo Hanslick rimase sempre legato in devota amicizia, conducendo con lui una battaglia antiwagne­ riana che non mancò di episodi aspri e pungenti da una parte e dall’altra. Secondo lo Hanslick l’unità dell’arte è un mito perico­ loso. Ogni arte va ricondotta alla sua tecnica. La musica non è in grado di esprimere sentimenti, ma soltanto, se mai, la loro variabile intensità dinamica: bisogna però

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l’esperienza musicale e l’estetica

che la enunciazione del sentimento venga prestata alla musica dall’esterno, che essa non ha facoltà di determi­ narlo. Il bello musicale non consiste perciò nell’espres­ sione di sentimenti, né, tanto meno, nei sentimenti e nelle fantasticherie che la musica può suscitare negli ascolta­ tori, ma in un armonioso sistema di richiami, di simme­ trie, di equilibrati contrasti, che dànno norma e propor­ zione all’« arabesco » musicale. La dottrina dello Hanslick, cosi ricapitolata, si presenta dunque come un tipico momento di reazione, che afferma polemicamente un estremo, isolandolo dalla sintetica re­ lazione col suo opposto. Antiromantico avanti lettera, Hanslick ha anticipato in pieno Ottocento (condividen­ done anche gli eccessi teoretici) la reazione alle esagera­ zioni sentimentali dell’estetica romantica, rivendicando, come faranno i musicisti del Novecento, i diritti della musica a non essere altro che se stessa, libera da intru­ sioni storiche, psicologiche, morali, letterarie. Il sarcasmo con cui egli canzona le « belle anime » persuase dei valori sentimentali della musica, è stretto parente di quello con cui il Coeuroy, nel suo Panorama de la musique contemporaine (Parigi, 1928), c’informa che «la musique elimine l’expression, au grand désespoir des coeurs sensibles ». Rivedere le posizioni di Hanslick, con i suoi er­ rori di reazionario, con le sue verità di filosofo acuto e penetrante, significa perciò ristabilire un punto fermo con­ tro l’espansione di un errore grave di conseguenze, quale è la nozione d’un’arte unica, totale e indifferenziata, e si­ gnifica pure rendersi conto delle ragioni storiche ed este­ tiche di quella fase tanto discussa della musica contem­ poranea, che si disse dell’oggettivismo musicale, e che fu pure una necessaria disintossicazione dal descrittivismo letterario e pittorico e dal simbolismo filosofico. Certamente lo Hanslick va troppo innanzi quando in­ titola seccamente il secondo capitolo del suo saggio: L’« espressione dei sentimenti» non è contenuta nella musica^ ed erra quando il desiderio di affermare l’esisten­ za d’un bello esclusivamente musicale lo spinge a negare ciò che a molti dei suoi contemporanei era già evidente: l’unicità fondamentale dell’essenza artistica, e, quindi, di

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ogni scienza estetica. Tuttavia, la paradossale identifica­ zione di ciascuna arte con la sua tecnica non va esente, nello Hanslick, da salutari contraddizioni e pentimenti. Bisogna intendere il suo naturalismo scientifico antihege­ liano, non tanto come un principio opposto ed estraneo alla filosofia dell’idealismo, quanto piuttosto come una sua stessa filiazione: la reazione antihegeliana è per lo Hanslick il segno stesso della potente traccia impressa dallo Hegel nel pensiero del suo tempo; autorità a cui i migliori tra gli stessi hegeliani cercano di reagire per affermare la propria originalità. Hegeliano e idealista a suo dispetto, tale la posizione che conviene assegnare allo Hanslick, antihegeliano e naturalista per partito preso, per il bisogno di affermare liberamente la propria perso­ nalità. Questo può spiegare come mai sia accaduto pro­ prio alla recente estetica idealistica di rivalutare il pen­ siero dello Hanslick e ristorarlo dalle troppo facili e sbrigative condanne cui era finora soggiaciuto, si che oggi si può finire per vederlo più vicino al vero che non i suoi avversari.

L’argomentazione antisentimentale dello Hanslick, è duplice: il primo ramo demolisce senza pietà l’estetica musicale fondata sui sentimenti che la musica eccita negli uditori, mostrando l’inevitabile e antiscientifica moltepli­ cità di simili impressioni soggettive, che, condizionate da infiniti fattori momentanei ed estranei, in nessun mo­ do possono aspirare ad un valore sistematico. E questo è oggi verità corrente: analoghe conclusioni (analoghe per­ fino nelle estreme conseguenze paradossali) furono tratte recentemente da Boris De Schloezer in un suo importante articolo, Comprendere la musica \ In secondo luogo, lo Hanslick afferma che la musica non può contenere espressioni di sentimenti, bensì sol­ tanto valori intrinseci di costruzione musicale; dei senti­ menti sarà in grado, se mai, di esprimere solamente l’in­ tensità dinamica. Non è difficile rilevare alla lettura la 1 «La Rassegna Musicale», 1931, I, p. 17.

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l’esperienza musicale e l’estetica

vaga e indeterminata insufficienza di tale principio este­ tico, il « bello musicale », che lo Hanslick cerca - si di­ rebbe, con poca convinzione - di scoprire in un logico sistema di richiami, di simmetrie, di equilibrati contrasti, rifacendosi infine al noto concetto delT« arabesco » mu­ sicale. Ma bisogna riconoscere che altrettanto falsa era l’estetica sentimentale che egli combatteva e che tuttora non è stata sufficientemente smascherata. Per « sentimen­ ti », da esprimersi nell’arte, i romantici intesero, e molti intendono tuttora, alcune astrazioni convenzionali, fis­ sate in una immutabile rigidità, come: amore, odio, spe­ ranza, terrore, pietà, rimpianto, tenerezza, dolcezza, e via dicendo. Pretendere che l’arte debba esprimere simili con­ cetti astratti, determinati e preesistenti, è altrettanto as­ surdo come pretendere ch’essa esprima una battaglia, un’epoca storica, un quadro campestre, il cinguettio del­ l’usignolo e il mormorio del ruscello. Nel qual caso non si riuscirebbe a spiegare l’infinita, inesauribile diversità delle opere d’arte, né si può indicare per quali vie miste­ riose accada che due opere d’arte di diverso autore - e magari non occorre neppure questa condizione - espres­ sive entrambe, poniamo, di tenerezza o d’amore, vivano artisticamente di vita originale e diversa. Sarebbe terri­ bile spiegare come abbiano potuto gli operisti dei secoli scorsi trovare ispirazione sempre nuova nel musicare si­ tuazioni sentimentali che, anche quando non fossero ma­ terialmente le stesse (ma spesso lo erano), non presen­ tavano differenze sostanziali. « Sentimenti » è forse termine troppo facile a equivoci, induce appunto a quella tal restrizione di significato che, allontanando l’attenzione del critico dall’unica realtà uni­ versale dell’opera d’arte, cioè la qualità umana del crea­ tore, favorisce la cristallizzazione di concetti astratti e indeterminati - amore, odio, tristezza, paura, ecc. - che pesano nel fatto artistico come scorie materiali e incapaci di trasfigurazione. Certo, anche amore, odio, paura, ecc., possono costituire il nucleo vitale e generatore dell’opera d’arte, ma sempre richiamati alla personalità umana del­ l’artista, che li accoglie, li modifica, li potenzia e li carat­ terizza nella propria unica e inconfondibile completezza;

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mai amore, odio, paura, intesi in una vuota astrazione, campati nel vuoto come pianeti abbandonati. E in genere chi può catalogare con una sola parola, come bottiglie in cantina, gli infiniti stati d'animo, le condizioni umane sottili, rare, strane, impalpabili, onde Parte può fiorire? Nulla che sia umano si può stimare alieno all’opera d’ar­ te; qualunque situazione, dalla più plateale alla più ricer­ cata, dalla più comune alla più pazza e stramba, può divenire oggetto dell’arte, anzi, può divenire arte, - e, nel nostro caso, musica, cioè sonata, sinfonia, tema, va­ riazione, frammento di canto, accento ritmico, timbro, armonia - purché sia giustificata dalla premessa d’una partecipazione umana, purché sia stata nell’uomo, sia stata vissuta, sentita, sofferta da un uomo. È appena il caso di precisare che non occorre affatto intendere que­ sta partecipazione in senso materiale: ché anzi, spesso le grandi opere dell’arte nascono dal vagheggiamento di si­ tuazioni umane vissute, sentite, sofferte solamente nella fantasia. Questo punto cruciale della questione, lo Hanslick lo sfiora, ma non lo sviluppa pienamente, quando accenna che «i sentimenti non esistono isolati nell’anima sì da lasciarsi, per così dire, estrarre da un’arte...»; e non gli appare la conseguenza che non i singoli determinati sen­ timenti astratti sono oggetto dell’opera d’arte, bensì, in una gamma infinita e sempre nuova di stati d’animo, l’u­ manità, variamente atteggiata, del mondo spirituale del­ l’artista: personaggio, quest’ultimo, che lo Hanslick di­ mentica per intero nella sua dissertazione sopra una illu­ soria e anonima « opera d’arte ». Non era chiara allo Hans­ lick la distinzione, oggi resa di dominio pubblico dalla critica delle arti figurative, tra materia dell’arte e soggetto di un’opera d’arte, cioè l’argomento di un poema, le fi­ gure di un quadro, i sentimenti astratti espressi in una romanza o in un’aria d’opera o in un poema sinfonico. L’esser rimasto al di qua dell’interpretazione del senti­ mento come qualità umana dell’opera d’arte, indipenden­ temente dal suo soggetto, è ciò che ha impedito allo Hans­ lick di pervenire a una moderna visione dell’arte. La necessità di combattere l’errore dei teorici romantici, lo

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trattenne nel loro stesso ordine d’idee. Ma probabilmente non si forza il pensiero dello Hanslick supponendo che, ove gli fosse stato dato di superare l’equivoco romantico tra « sentimento » e « soggetto » dell’opera musicale, egli avrebbe aderito a un’estetica dell’espressione. Chiarito il significato del termine « sentimenti », e libe­ ratolo da una troppo angusta e convenzionale astrazione, si veda infatti quanto da vicino lo Hanslick abbia sfiorato la verità, quando affermava solennemente (nel terzo ca­ pitolo, fondamentale, Del bello nella musica}-. «Crea­ zione di uno spirito che pensa e sente, una composizione musicale per ciò possiede in alto grado l’attitudine a in­ teressare il pensiero e il sentimento. Questo valore intrin­ seco spirituale noi lo esigeremo in ogni opera d’arte mu­ sicale; tuttavia esso non deve esser posto in nessun altro momento della medesima, che nelle costituzioni stesse dei suoni». E poc’anzi aveva detto: «Il comporre è un lavoro dello spirito in materiale atto a riceverlo»; e al­ trove ancora: « Senza attività dello spirito non v’ha piace­ re estetico ». Davanti a simili affermazioni bisogna andar cauti nel sopravvalutare le esagerazioni antisentimentali cui lo Hanslick altrove si abbandona per necessità di rea­ zione, e accogliere con riserva quella qualifica di «pura udibilità » che si vuol dare alla sua teoria \ Questa ricerca a tastoni d’una verità intravista, e solo parzialmente affermata, conferisce al libretto dello Hans­ lick un interesse drammatico vivo e presente. Ma, a parte i contributi ch’egli offre e quelli che suggerisce alle sco­ perte dell’estetica, lo Hanslick insegna ad accostarsi alla musica secondo un abito scientifico severo e orgoglioso, da musicisti e non da dilettanti; di questi ultimi deride, con sarcasmo veramente heiniano, le svenevolezze, l’im­ precisione, il filisteismo comodo e borghese. Dimostra, in numerose analisi sparse qua e là nel lavoro, una capa­ cità non comune di aderire all’opera musicale con sensi­ bilità vigile e profonda. Infine, in tutta l’estrinsecazione del proprio pensiero, anche là dove manifestamente cade 1 Si veda, per questo argomento e, in genere, per le fortune dello Hanslick nell’estetica dell’idealismo: Alfredo parente, Musica e opera lirica, Napoli 1929, cap. VI.

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in errore, egli dà prova di una superiore cultura e attitu­ dine filosofica, d’un elevato livello mentale, che si po­ trebbe dire « universitario » nel senso migliore, e che era raro a quei tempi negli studi musicali. Inaccettabile nel suo insieme, Del bello nella musica resta una tappa del pensiero estetico da farci i conti ancora oggi: Fattualità delle sue impostazioni non è affatto esaurita. L’evidenza stessa dei suoi errori e delle sue manchevolezze è stata causa che si sia sempre passato oltre con troppa facilità di fronte ai problemi che questo libro solleva nei riguardi dell’opera d’arte, non soltanto musicale; non v’è dubbio che, nelle alterne vicende del gusto e delle inclinazioni degli uomini, il nostro tempo stia per offrire molte delle premesse più opportune per una equa riconsiderazione del pensiero di Eduard Hanslick. (i934)-

«Che farò senza Euridice...»

Per me i pensieri che la musica espri­ me non sono troppo indefiniti, ma trop­ podefiniti per essere descritti con parole. (MENDELSSOHN)

A proposito di questa celebre aria dell’opera Orfeo ed Euridice (1762) di Gluck, un libro recente di propedeu­ tica musicale 1 ha ripreso ancora una volta la vecchia stoGiNo roncaglia, Invito alla musica, Milano 1946, P. 127.

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riella della sua genericità espressiva, tale che Faria po­ trebbe ugualmente bene adattarsi alle parole di opposto significato: «Che farò con Euridice?» E se ne deduce la scarsa efficacia drammatica dell’ispirazione di Gluck, più portato a un lirismo di tenera effusione melodica, che escluda l’asprezza pungente dei grandi dolori. Questa spiritosaggine ha un precedente illustre, poi­ ché Eduard Hanslick, il teorico dell’inespressività della musica, credette di poter appoggiare la sua tesi all’osser­ vazione che l’aria di Orfeo si canta ugualmente bene su parole di significato esattamente opposto: « J’ai per­ du mon Eurydice, rien n’égale mon malheur! » Op­ pure: «J’ai trouvé mon Eurydice, rien n’égale mon bonheur! » (Notiamo di passata che la scelta di quest’aria come bersaglio preferito per simili esercitazioni è particolar­ mente tendenziosa: Gluck passa infatti nella storia della musica per il riformatore del melodramma settecentesco nel senso di un riscatto dalla sua generica convenziona­ lità, in favore d’una piu calzante appropriatezza dell’e­ spressione drammatica; quest’aria è il punto culminante della prima opera in cui egli attuò felicemente le sue in­ tenzioni drammatiche, e parve in questo senso una rive­ lazione sconvolgente al pubblico settecentesco. Ove si riuscisse a dimostrarne la completa inefficacia e ambi­ guità espressiva, si sarebbe compiuto un passo molto im­ portante sulla strada che conduce a negare alla musica in genere ogni possibilità d’espressione). Da un punto di vista estetico assoluto, la questione è risolta con l’affermazione che la musica esprime certa­ mente moti e aspetti dell’animo umano, ma appunto per­ ché questi aspetti spirituali trovano la loro espressione in musica, e non in prosa o in poesia, essi non si possono designare perfettamente con parole, e solo per un’ap­ prossimazione descrittiva noi possiamo parlare di dolore, gioia, disperazióne, speranza, ecc.: tutte oggettivazioni astratte di sentimenti che, appunto per aver trovato una loro espressione verbale, non corrispondono esattamente a quegli specifici moti dell’animo che trovarono la loro

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forma in una determinata musica \ E si sa che in queste cose è impossibile distinguere forma da contenuto. Ma l’obiezione hanslickiana merita d’essere rilevata e confutata anche sul terreno piu particolare dell’unione fonica ed espressiva di canto e parola in questo caso spe­ cifico. Eduard Hanslick ha coniato la sua infelice boutade sopra la versione francese dell’aria, che ne tradisce gros­ solanamente i valori espressivi. Nell’artificiosa contrap­ posizione fatta dallo Hanslick, tutto si riduce a una que­ stione di bonheur o malheur, cioè di sentimenti antitetici, felicità o disperazione. Invece la portata espressiva di que­ st’aria (non diciamo il sentimento in essa espresso, che non si lascia puntualizzare in una parola, ma è appunto quell’aura specificamente musicale, che solo malamente si può tradurre in parole) è costituita dal carattere inter­ rogativo delle prime parole: «Che farò?... Dove an­ drò?...» L’interrogazione, cioè il dubbio, lo sgomento dell’uomo colpito da una sventura improvvisa, che non sa più, letteralmente, che fare: questo è il significato e il valore espressivo dell’aria. Tradurla con una afferma­ zione, come fa la versione francese, significa miscono­ scere rozzamente il carattere di quella linea melodica che ondeggia incerta di se stessa, vocalizzando lievemente a due note per sillaba («che... fa...rò...») e arrivando alle sue conclusioni tonali con caute appoggiature, come di chi tasti dubbioso il terreno prima diffidarvi il piede. Questo discorso vale anche a smentire l’altra spiritosaggine sul testo italiano: non si cambia nulla di ciò che è essenziale nell’espressione musicale dell’aria, sostituen­ do alla parola « senza » la parola « con » nella frase « Che farò senza Euridice? » La situazione drammatica resta la stessa: un uomo incerto sul da farsi e dolorosamente sbigottito per l’arrivo imprevisto di una certa Euridice. Che sbigottimento e incertezza derivino dall’arrivo o dal­ la dipartita di Euridice, questo è una circostanza acciden­ tale assolutamente accessoria ai fini dell’espressione mu­ sicale dell’aria. Sono affari privati di Orfeo, in cui non ci 1 Cfr. Alfredo parente, La musica e le arti, Bari 19462, cap. VI (Il formalismo puro, specialmente pp. 85-86).

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tocca di mettere il naso. Certamente (e ogni uomo lo sa) si dànno casi nella vita in cui l’arrivo inopinato di una donna può riuscire di non minore imbarazzo e sconcerto che la sua fatale scomparsa. Vogliamo fare una controprova? proviamo ad alterare le parole del testo in modo che la situazione drammatica ne venga davvero radicalmente capovolta, e di incerta e sgomenta si faccia decisa e piena di risoluzione. Provia­ mo a dire, con barbara espressione poetica di cui, del resto, non mancano esempi nella librettistica del Set­ tecento: Voglio andare da Euridice, le vo’ spezzare il cor.

Provate a cantare queste parole sui vaghi ghirigori me­ lodici dell’aria di Gluck. Un controscnso. Il canto è tutto vaghezza di contorni ondeggianti e indefiniti: le parole tutte energia e precisione. Un’intonazione appropriata di queste parole dovrebbe modificare la linea melodica press’a poco come segue:

1

f i

r r* r 1 r g J-

Voglio an- da - re da Eu - ri - - - di - ce,

le

vo’spezza - re il

cor...

Irrobustire il ritmo, raddrizzare vigorosamente il per­ corso della melodia, piombare con precisione sull’ultima nota. Questo tanto per dire che la musica ha le sue leggi espressive, che certamente non hanno nulla a vedere con il meccanismo semantico della parola parlata, e possono magari sembrare più vaghe e indeterminate: in realtà, sono d’altra natura, non entrano in concorrenza con le possibilità del discorso verbale, ma realizzano altre espres­ sioni che al discorso verbale sono precluse; e, infine, non si lasciano violare impunemente.

(i947)-

II.

Ascoltare la musica

Chi di noi - musicisti, musicologi, critici musicali non ha sognato di scrivere un giorno un equivalente acu­ stico del Saper vedere di Marangoni? Un libro, cioè, in cui venisse sviscerato il modus operandi della musica, e i suoi elementi tecnici venissero illustrati nella loro forza espressiva, permettendo finalmente d’insegnare a « com­ prendere la musica». La grammatica, insomma, e la sin­ tassi della musica. Tutti abbiamo desiderato di scriverlo o ci siamo augurato che altri lo scrivesse: e abbiamo ri­ mandato questo lavoro alla piu tarda maturità, coscienti che per un’impresa di questo genere non saranno mai troppe le esperienze musicali dirette, le conoscenze di opere e di exempla elocutionum. E molti abbiamo con­ servato, in fondo, anche il dubbio che questo bel lavoro sognato fosse, in realtà, impossibile e dovesse necessa­ riamente disciogliersi nell’esercizio della critica e del giu­ dizio estetico rivolto a questa o a quella opera nella sua integrità. Perché, qual vita, qual realtà conservano ancora i singoli elementi espressivi, spiccati dall’organismo vivo dell’opera d’arte cui appartengono e in cui soltanto sono efficaci e attivi? È possibile enucleare il grande a solo per clarinetto ouverture del Freischutzy per farci su una dissertazione sulle caratteristiche timbriche e le possibi­ lità espressive di questo strumento? o non si dovrà piut­ tosto impegnarsi in un’analisi critica àeW ouverture del Freischùtz? E non rimarrà forse la necessità di ricomincia­ re da capo a illustrare i caratteri del clarinetto in Brahms, in Strawinsky, in Ravel? Ossia, questo auspicato concen­ trato di grammatica e sintassi musicale non si trasforma

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l’esperienza musicale e l’estetica

inevitabilmente nell’esercizio della critica e della storia? Non sfugge a questo pericolo, che io chiamerei di un determinismo materialistico, Vlnvito alla musica che Gino Roncaglia ha scritto con la maturità e la prepara­ zione che gli vengono da un’intera vita dedicata agli studi storico-musicali. Esso è un abbozzo, ma non perfetto, di ciò che un tal libro — l’auspicato Saper ascoltare - do­ vrebbe essere: una storia della musica (o, piu esattamen­ te, dell’espressione musicale) non cronologicamente or­ dinata, ma disposta intorno ai singoli elementi d’espres­ sione - ritmo, melodia, armonia, contrappunto, timbro in ima rassegna rievocativa di esempi salienti e significa­ tivi tra gli innumerevoli casi a cui ciascuno di questi ele­ menti dà luogo. Ma è necessario in questi lavori - che rifiutano il metodo storico per un metodo di ordinamento classificatorio piu propriamente naturalistico - conservare un atteggiamento interiore squisitamente storicistico, per sfuggire appunto alle tentazioni del determinismo ma­ terialistico consistente nell’attribuire certi effetti espres­ sivi a un elemento bruto, come un accordo, un intervallo, un ritmo. In realtà, non sono poi queste nostre identi­ ficazioni e attribuzioni determinate appunto storicamente dall’uso che ne hanno fatto i grandi nei loro capolavori? Da sola e in sé e per sé una quinta non significa un bel niente e non ha niente a che vedere con orizzonti campe­ stri, calme profonde e serenità sconfinate; e invece di dire che «l’accordo di 5’... dona allo spirito il senso di benes­ sere dell’aperta campagna » e che « Beethoven inizia ap­ punto per ciò la sua Sinfonia pastorale facendo tenere ai bassi una 5“ che è come una grande apertura d’orizzonte campestre su cui si disegna il motivo villereccio », prefe­ risco pensare che, dacché Beethoven ha fatto uso della quinta in questo modo nel contesto della Pastorale, noi siamo indotti ad associare irresistibilmente a tale accordo questo complesso di sensazioni. E si può pretendere sul serio - piu di quanto pigliamo sul serio il colore delle vocali - la vecchia supposizione che tra una tonalità e l’altra esistano delle differenze espressive originarie, non determinate storicamente nel nostro gusto dall’uso che delle singole tonalità abbiano

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fatto certi musicisti nei loro capolavori (il do minore di Beethoven, il sol minore di Mozart)? Ritmi o accordi, o perfino melodie e temi, isolati e per sé presi, non sono né belli né brutti e non vogliono dir niente; cosi non è né bello né brutto un colore isolato, ma lo diventa dentro un quadro. È la vecchia questione del bello di natura che fa capolino in fondo a queste supposizioni, e richiede - com’è giusto - una risposta negativa. Lo scrittore di un Saper ascoltare deve in sostanza de­ streggiarsi cautamente tra le conseguenze rigorosamente logiche di una sana metodologia estetica e i postulati d’una dubbia psicologia musicale che pure è necessario ammettere almeno in parte, e temperandone le afferma­ zioni in una prudente genericità, se non si vuole annul­ lare in partenza ogni possibilità d’un lavoro di questo genere. Certamente i modi maggiore e minore, la conso­ nanza e la dissonanza, i valori agogici e dinamici e il tim­ bro forniscono il musicista d’un vocabolario rudimentale, d’un repertorio di luoghi comuni espressivi che con quell’espressione individuata e formata che è Parte hanno ben poco da vedere, ma che tuttavia conviene precisare e conoscere. In ogni caso, però, è desiderabile l’astrarre il meno che si può gli elementi espressivi dal contesto delle composizioni in cui sono adoperati, anche se un Saper ascoltare consista appunto nell’ordinare la storia della musica intorno a questi elementi, anziché in ordine cro­ nologico. Giovanissimo, invece, Fautore di un volumetto 1 pas­ sato inosservato al suo apparire per ovvie ragioni (basta por mente alla data di pubblicazione) e presentato come una «iniziazione spirituale a saper ascoltare». Giovanis­ simo e della sua giovinezza orgoglioso, con quella burban­ zosa iattanza che era d’uso negli ambienti dei littoriali della cultura e dell’arte. E la giovinezza questo libro ri­ vela in mille modi, nonostante la precoce maturità di pensiero, anzi, proprio attraverso questa ponderatezza e disciplina metodologica cui Ì giovani si vanno abituando in Italia da una trentina d’anni. È di un giovane la inge­ 1 Giorgio

pass adore,

Introduzione alla musica, Milano 1944.

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nuità con cui ci si rifa ai grandissimi, ai sommi, senza nessuna paura del pompier, per spiccare citazioni: Dante, Shelley, Leopardi, Baudelaire, Kant e Rousseau qui sono di casa, interpellati con la più familiare confidenza. Se l’autore avesse quarantanni, queste chiare e oneste epi­ grafi sarebbero state sostituite con ermetiche citazioni da qualche anonimo del Trecento, da un frammento di Era­ clito, da Raimondo Lullo e da qualche più o meno noto poeta surrealista, allusivi documenti di consumata scal­ trezza letteraria. È di un giovane il coraggio di affrontare con le sole proprie forze - ossia con un bagaglio biblio­ grafico stranamente invecchiato e incompleto, evidente­ mente subordinato a circostanze di tempo e di luogo argomenti di scoraggiante ampiezza e profondità. E di un giovane, infine, è l’illusione di potere con un libro come questo, difficile ed elevato, riuscire a esercitare un’azione efficace sulla massa degli esclusi dalla musica e attirarli, anzi, iniziarli a quest’arte. Già, perché il libro del Passadore è stato scritto « nella speranza che serva appunto a introdurre all’arte dei suoni tutte quelle individualità che le sono lontane... e che ri­ mangono così prive, senza rendersi neppure conto a che cosa esse rinuncino, d’un alto godimento estetico ». Que­ sta è una differenza capitale dal Saper ascoltare che il Ron­ caglia s’è proposto di scrivere e che non si rivolge alla massa degli indifferenti alla musica (nessun libro varrà a persuaderli, se non ci è riuscita la musica ad attirarli a sé), bensì all’altra massa degli appassionati di musica, che non possiedono le nozioni necessarie per diventare consa­ pevoli della propria emozione estetica, che subiscono la musica, così come si subisce la paura, la collera, l’entusia­ smo, senza riuscire a rendersi conto come è fatta la mu­ sica, come agisce su loro. In sostanza: nei Conservatori s’insegnano l’armonia, il contrappunto e l’orchestrazione come mezzi tecnici e nella misura necessaria per diven­ tare musicisti e compositori. E questo evidentemente è troppo per il pubblico degli appassionati, che non può sottoporsi a un corso di otto o dieci anni di studi. Il Saper ascoltare dovrebbe insegnare l’armonia, il contrappunto, la ritmica e l’orchestrazione in funzione espressiva e

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nella misura sufficiente a chi voglia diventare un buon ascoltatore: ascoltatore attivo e consapevole, che capisce la musica, non la subisce abbandonandosi a oziose fanta­ sticherie o disperandosi di non poter padroneggiare e chia­ rire a se stesso la propria emozione. Ciò pone sul tappeto la questione piu scottante ed es­ senziale — come si ascolta la musica? — che nel libro del Roncaglia viene messa a fuoco tra le due esigenze opposte dell’intuizione e del raziocinio, ma non trova una risposta in cui tali esigenze contraddittorie siano soddisfacente­ mente mediate. Le simpatie del Roncaglia vanno chiara­ mente verso l’intuizione. «L’arte è linguaggio interiore raggiunto per intuizione o ispirazione’, e dev’essere parimenti sentito per intuizione o illuminazione e non per raziocinio ». E io sono, fondamentalmente, d’accordo con lui; pure uso, si vede, le stesse parole con altro signifi­ cato, perché non mi sento di condividere le implicazioni ch’egli trae dalla sacrosanta asserzione del carattere intui­ tivo, anziché logico e raziocinante, della creazione e del­ l’apprensione artistica. Mon mi sento di sottoscrivere che ci si accosti all’opera d’arte con « abbandono » a una specie di « rapimento » li­ rico. E non credo che la parola capire, riferita alla musica, sia «sbagliata». E diffido, diffido ferocemente di fronte alla pericolosa retorica che si annida in frasi, a rigore non contestabili, come questa: « la musica non si spiega: non si ascolta col raziocinio, ma col cuore, intendendo per cuore tutto il complesso delle nostre facoltà spirituali». Certo, m’inalbero anch’io quando un «loico» come Dallapiccola 1 mi viene ad auspicare l’avvento di un bel giorno in cui tutti gli ascoltatori sapranno che cos’è una fuga, un canone, una sonata, un rondò, e (implicitamente) conosceranno le leggi del sistema dodecafonico, come se questo volesse dire comprendere e gustare la musica. No, ne ho fatto la prova proprio con i suoi Canti di prigionia, di cui ho ascoltato quattro esecuzioni, due senza essermi preparato con un’analisi tecnica della partitura, e due 1 l. Dallapiccola, Ascoltare la musica, in «Agorà», Torino, marzo 1946.

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dopo essermi documentato grazie ai dati fornitimi dallo stesso autore, sull’identità della «serie» che in quell’o­ pera è impiegata e sulle vicende che in essa attraversa. Bene, tale conoscenza non mi è servita affatto a gustare l’opera più di quanto avessi fatto nelle prime due prove: certamente, avevo la soddisfazione di salutare al passag­ gio la serie nella sua formulazione, e poi per moto con­ trario, e rovesciata, aumentata, diminuita; ma era una soddisfazione tutta intellettuale, peggio, catalogante, pa­ ragonabile a quella del wagneriano vecchio stile che co­ glieva a volo, ed infilava come farfalle o fiorellini nell’er­ bario, i temi dell’anello, della spada, del fuoco, ecc. Capire e gustare i Canti di prigionia vuol dire ed è tutt’altra cosa. E quando ancora Dallapiccola mi informa 1 che la So­ nata per due pianoforti di Strawinsky e il Quartetto in mi minore di Hindemith costituiscono delle riuscite, ma rappresentano ima posizione di « staticità » e di rinuncia « a tutto ciò che può essere o sembrare ricerca », ancora io mi allarmo, perché mi vedo improvvisamente tolto di mano il solito criterio valido di giudizio estetico, che è il discernimento del bello e del brutto, e sostituito con certi concetti ibridi e spuri - la ricerca, il nuovo - che non so di dove diavolo vengano fuori e quale giustificazione abbiano. E vorrei sapere da Dallapiccola se per caso egli porta un giudizio negativo d’un’opera cosi manifestamen­ te « statica » e aliena da « tutto ciò che può essere o sem­ brare ricerca», qual è la Kleine Nachtmusik in sol mag­ giore, che risuscita miracolosamente, in mezzo ai fantasmi drammatici della composizione di Don Giovanni, la fidu­ ciosa spensieratezza delle serenate salisburghesi di Mozart ventenne. Vorrei sapere che conto dobbiamo fare rispet­ tivamente d’opere in cui la « ricerca » tiene tanto posto, come il Mefistofele e il Nerone, e d’altre in cui ne tiene tanto poco, come la Sonnambula e la Lucia di Lamrnermoor. Con tutto questo sento di trovarmi di fronte a un equi­ voco più pericoloso e nocivo nelle conseguenze, quando

1 l. Dallapiccola, Musiche al Festival della «Il Mondo», Firenze, n. 35.

nella rivista

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Roncaglia mi esorta a sentire la musica con l’abbandono di coloro «che sanno sognare a occhi aperti, che sanno tornare fanciulli », e mi propone questo inquietante mo­ dello del buon intenditore di musica: «proprio come un fanciullo trasforma un lurido fantoccio di stracci in una fata meravigliosa, un cavallino di legno in un vero pule­ dro purosangue, una commedia di burattini in una vi­ cenda reale, pochi fili d’erba in un incantevole giardino fiorito». Ahimè! e non accadrà a costui di scambiare la Siberia di Giordano per un capolavoro, e di citare come testi di pari autorità esempi tratti dal preludio del Lohen­ grin e dal prologo del Mefistofele, dalla Nona Sinfonia e dall’inno al Sole dell’ira? Questo è quello che può suc­ cedere quando ci si abbandona alla musica come a un sogno a occhi aperti: si trasforma un lurido fantoccio di stracci in una fata meravigliosa, un cavallino di legno in un puledro purosangue. Ma tutto questo ha un nome: si chiama prender granchi. E ritornare fanciulli non è poi un ideale tanto invidiabile, se si pensa che in sostanza significa rimbambire. No, no: la musica si capisce, e come se si capisce! Sol­ tanto capire la musica (come del resto ogni altra arte) non è la stessa cosa che capire logicamente, per forza di razio­ cinio. Come aveva spiegato lucidamente Boris De Schloezer in un suo saggio tuttora fondamentale e indispensa­ bile 1 nella musica non c’è nessun significato da capire oltre i segni usati per rappresentarlo. « Il linguaggio è un sistema di segni che noi decifriamo per giungere al loro significato, nel quale soltanto consiste per noi il valore delle parole. Noi le attraversiamo senza arrestarci, per cosi dire, con lo scopo di afferrare quell’oggetto di cui esse non sono che il segno e l’espressione. Invece se ci sforziamo di “decifrare” il significato di un pezzo di mu­ sica, se lo vogliamo trattare come un sistema di segni e lo attraversiamo nella speranza d’intravedere qualcos’al­ tro, non ascoltiamo piu la musica: ci lasciamo sfuggire i suoni e altro non troviamo». Per questo si può riassu­ 1 b. de schloezer, Comprendere la musica, nella rivista «La Rassegna Musicale», gennaio 1931.

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mere un discorso di propaganda elettorale o una conclu­ sionale d’avvocato, ma non si può riassumere una sinfo­ nia, o un sonetto di Baudelaire: il contenuto non vi può essere esteriore a ciò che si usa chiamare la forma; vi è immanente. «La musica non è un simbolo come il lin­ guaggio, ma la cosa stessa che dev’essere compresa. Il suo significato è il suo aspetto » ’. Secondo il bel motto del liutaio quattrocentesco Lorenzo Gusnasco, di Pavia, che forniva gli strumenti musicali alla corte di Beatrice d’Este e Ludovico il Moro: «Ne la forma sta il tutto». Con tutto ciò negare che la musica si capisca, significa negare l’evidenza. Chi non capisce la musica percepisce suoni isolati; chi la capisce percepisce un sistema di suoni complessi e sente in ogni momento della corrente sonora « in certo modo il peso accumulato dei momenti prece­ denti». Non si può penetrare molto più a fondo nel se­ greto della musica, di quanto avesse fatto, or è più di un millennio, il venerabile ordinatore della musica bizantina S. Giovanni Damasceno, al quale si deve questa defini­ zione: «Tutta la musica non è che una successione di suoni che si chiamano l’un l’altro ». Ma - e qui lo Schloezer parava in maniera esemplare l’errore opposto, quello intellettualistico - « sarebbe errato concludere che la com­ prensione della musica sia necessariamente subordinata alle conoscenze tecniche... Si può conoscere ammirevol­ mente forma, armonia e contrappunto e rimanere sordo all’opera di cui si discernono tutti i singoli elementi. Non che le conoscenze tecniche non possano aiutare nella com­ prensione dell’opera, ma si tratta di due operazioni asso­ lutamente differenti. La storia della musica e della critica musicale offre esempi di totale incomprensione manife­ stata dai più dotti teorici dinanzi a opere di cui erano in grado di smontare pezzo per pezzo il meccanismo e spie­ gare la costruzione... Non si può forse essere un eccel­ lente grammatico e trovarsi perduto davanti a una frase 1 Del resto, anche un’autorità come il Riemann aveva concluso i suol Elemente der musikaliscben Astbetik (1900) asserendo che non v’è alcun motivo di collocare la musica descrittiva più in alto di «quella che si muo­ ve nella sfera della propria destinazione, e non vuole rappresentare altro che ciò che essa è in sé e per sé».

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di cui si riconoscono tuttavia soggetto, attributi e com­ plementi? »

Da tali questioni si astiene sostanzialmente il libro del Passadore, sebbene egli tocchi di sfuggita anche questo aspetto della questione e si adoperi utilmente a correg­ gere in un capitolo le «posizioni spirituali negative di fronte alla musica ». « Il problema su come il musicista si serva del suono è un problema vastissimo », egli dice a un certo punto. Ma non si prova nemmeno a risolverlo, tanto più che intende, non so se per principio, o per sem­ plice opportunità, « mantenersi su linee generali, prescin­ dendo da ogni problema di carattere specificatamente tec­ nico». Altrove egli sfiora la questione e fornisce quasi una specie d’ideale sommario del libro che noi auspichia­ mo, quando scrive: «l’ascoltare, in intima comunione musicale col musicista, comprende la sua opera nel co­ gliere la sua idea-base (a esempio l’espressione tematica) e nel seguire attivamente le necessarie elaborazioni arti­ stiche tese al raggiungimento d’una pienezza estetica; nel percepire la successione dei suoni come un’unità coerente ricollegandone i vari momenti; nell’anticipare lo svolgi­ mento dell’idea musicale del compositore nel presenti­ mento delle note successive; seguendo insomma la mu­ sica nel suo svolgimento ritmico, melodico, armonico». Si tratterebbe, in sostanza, di sviluppare ed estendere a tutti gli altri mezzi di espressione musicale, ma soprat­ tutto approfondire in quello specifico dell’armonia, l’intuièione che il Riemann aveva chiaramente formulata nei suoi Elemente der musikalischen Asthetik, quando aveva parlato della gamma come rivelazione d’una legge imma­ nente dell’attività spirituale e aveva affermato l’esistenza d’una interiore logica musicale per cui si rendono possi­ bili la percezione e il controllo rapidissimi dei suoni, quali avvengono nell’atto di ascoltare un pezzo di musica. Per­ ché «il primo suono... accorda per cosi dire l’orecchio sopra un limitato numero di sonorità e l’attenzione si trova allora fissata su queste a tal punto che l’intonazione delle sonorità successive viene attesa ». La scala - o qual­

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siasi altro schema estraneo alla tonalità storica, che ai compositori piaccia di escogitare - « si trova allora a es­ sere il naturale campo delle evoluzioni musicali che segui­ ranno... Ogni suono sembrerà cadere in una specie di ca­ sellario già preparato a riceverlo ». Ma il compito che si propone il Passadore è un altro, ben più ambizioso: rivolgendosi alle masse degli amusici, cerca di chiarir loro qual sia il posto della musica nella vita dello spirito. Questo si chiama parlare a nuora perché suocera intenda. Evidentemente il libro del Passadore, ufficialmente indirizzato agli amusici come un’evangelica crociata per convertirli, si rivolge di fatto ai filosofi — stu­ diosi di estetica, metodologia, ecc. - e gli amusici se ne interesseranno soltanto in quanto siano filosofi. Questa è la giovanile illusione dell’autore, illusione tangibilmente documentata dall’aggiunta, in appendice, ’ d’un vocabolarietto di termini musicali che dovrebbe servire ad appia­ nare la strada ai neofiti, e la cui sommaria insufficienza forma il più curioso contrasto con la meditata profondità del libro. Il concetto dell’arte che il Passadore propone è sostan­ zialmente quello crociano, rivissuto però e rimeditato con personale libertà, il che ha per effetto di evitare quasi sempre quelle scimmiottature stilistiche, quella termino­ logia di gergo idealistico che si rivolge essenzialmente agli iniziati e indispone a priori i... non addetti ai lavori: in­ conveniente in cui i crociani incappano spesso, attirandosi l’avversione di gente che in realtà la pensa esattamente come loro e non ha nessuna sostanziale novità di vedute da far valere nei loro confronti. Trattando della musica su questa base estetica e metodologica, il Passadore v’in­ serisce un’esigenza che è certamente la più salubre e la più sentita fra quante oggi si avvertano nel campo della musicologia. Si tratta di chiarire il concetto di espressione in modo da non intenderlo come un’intrusione, nell’arte musicale, di sentimenti oggettivati - gioia, dolore, rim­ pianto, tenerezza, ecc. — mere astrazioni psicologiche ap­ partenenti alla sfera pratica della vita spirituale, e non già all’ordine della sua attività estetica. Si tratta di ricon­ durre la musica a se stessa, riparandola da tutte le intru­

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sioni letterarie e sentimentali, come « arte che non ha la sua norma che in se stessa, come interpretazione estetica dello spirito tutto nei suoi piu puri attributi, astratta e indipendente, in maniera assoluta, da qualsiasi elemento estraneo alla spiritualità creatrice, libera pel creatore e pel contemplante da ogni necessità di esperienze e di im­ magini anteriori, purissima emanazione dello spirito, e non penetrazione dal mondo esterno allo spirito stesso». Si tratta, insomma, della famosa questione della « musica pura », che non è - come a tanti fa comodo di credere musica inespressiva, ma, appunto, musica pura, cioè mu­ sica che sia solo e veramente musica, non cattiva lette­ ratura, non oratoria retorica e sentimentale, mirante a « muovere gli affetti » a guisa delle arringhe penali. Questa precisazione è l’argomento capitale del libro di Passadore, ed egli ne viene a capo felicemente, chiarendo il proprio pensiero con la recisione e la severità d’un gio­ vane non ancora compromesso, il quale può affrontare impunemente la sfida: « Chi è senza peccato scagli la pri­ ma pietra ». (Perché non c’è un critico musicale, non uno, e io mi metto per primo, che, pur approvando perfetta­ mente le censure mosse da questo giovane Aristarco ai tessitori di romanzetti psicologici su composizioni , musi­ cali, non debba un poco arrossire di se medesimo e non senta la voce della coscienza dirgli: «Tu questo l’hai fat­ to. Questo pure. E quest’altro. Discolpati, Radamès. Pèntiti, Don Giovanni, cangia vita»). Fissata ben chiara la premessa « che nelle opere d’arte musicali si ha sempre un contenuto sentimentale », l’au­ tore passa a illustrare come questo principio dev’essere inteso, e come non dev’essere inteso. Sentimento e for­ ma, egli scrive, costituiscono nella musica una sintesi in­ scindibile, «in quanto il sentimento musicale è inespri­ mibile e ineffabile senza la sua forma ». Il sentimento che origina l’opera d’arte sonora è, infatti, musicale, indipen­ dente da ogni elemento esterno tratto dalla realtà natu­ rale o storica, puro d’immagini estranee allo spirito crea­ tore. V’è nello spirito una specie di soglia musicale, nella quale i sentimenti, questi residui della vita pratica con la loro tumultuosa materialità di affetti, si disciolgono, si

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spiritualizzano e si fanno musica potenziale: cangiano di natura e si fanno, di pratici, estetici, di materiali, spiri­ tuali. Si fanno musica, dice il Passadore, e si fonda sulla famosa testimonianza schilleriana: « La percezione in me dapprima è senza oggetto chiaro e definito: questo si for­ ma piu tardi. Uno stato d’animo musicale la precede e genera in me l’idea poetica». Ma solo per metafora si dovrebbe qui parlare di musica, e si deve intendere, dove si dice musicale, estetico. In questa soglia dello spirito la materialità dei sentimenti si discioglie e si fa non soltanto musica in senso stretto, ma pittura, poesia, scultura, ar­ chitettura. Riveste, insomma, natura estetica. Invece il Passadore prende alla lettera la metafora e soggiace al­ l’antico pregiudizio di attribuire alla musica ima condi­ zione in certo senso privilegiata rispetto alle altre arti. Egli non è ignaro del pericolo a cui va incontro, poiché assicura: « non per questo l’ideale unità estetica delle arti viene compromessa»; ma questa è un’affermazione gra­ tuita. L’unità estetica delle arti, ch’io preferisco chiamare, per chiarezza, l’unicità dell’arte, è compromessa e come nel suo libro, quand’egli afferma (cap. Ili, su La musica e le altre arti) che l’indipendenza della musica « non esiste per le arti figurative e la poesia... che hanno una fonte inesauribile nella natura (?): la trasfigurazione artistica dello scultore e del pittore trae sempre origine da un elemento naturale ». Ma ci crede sul serio, il Passadore, che la natura sia fonte inesauribile delle arti figurative? Fonte, dico, in una maniera materiale e diretta; perché genericamente, in quanto la natura divenga nostro patrimonio spirituale e arricchisca la nostra vita interiore di vibrazioni nuove, non meno che la storia e i casi quotidiani della vita pra­ tica, allora essa è fonte inesauribile del musicista non meno che del pittore, e ciò non ha niente a vedere col fatto puramente incidentale che i pittori dipingano pae­ saggi, bottiglie, nature vive e morte. Non capisco perché il Passadore si ostini a prestar tanta importanza al legame estrinseco delle opere d’arte figurativa col mondo ester­ no, mero accidente inessenziale e insignificante. E sì ch’e­ gli non è affatto un ragionatore sprovveduto, da poter

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convincere con un argomento di prima istanza. La possi­ bilità di « ricondurre anche le arti figurative a una pura condizione di musicalità» la riconosce anche lui, e cita l’asserto del Flora « tutte le arti sono essenzialmente mu­ sica » (dove è da sottolineare il valore metaforico dell’e­ spressione). Si guarda bene dal confondere il « soggetto » d’un’opera d’arte figurativa col suo « contenuto sentimen­ tale» e distingue esemplarmente: «soggetto è il tema trattato (esempio: Venere sorgente dalle acque), conte­ nuto è la vibrazione lirica dell’artista che sarà fissata in un’immagine fantastica, e può, o no, coincidere col sog­ getto ». Eppure si ostina ad affermare « che lo stesso con­ tenuto vero e proprio, nelle altre arti non sempre si fonde in perfetta, equilibrata sintesi con la forma », mentre in­ vece «per la musica questa sintesi è sempre perfetta, inscindibile, in quanto il contenuto è musicale e ha già un’ideale realtà formale fin dal suo primo sorgere». Do­ ve, mi pare, egli si fa abusare ingenuamente dalla meta­ fora. In quella soglia musicale (ma meglio: estetica) dello spirito, i sentimenti si trasformano, si transubstanziano non soltanto in musica, o solo metaforicamente, bensì, secondo i casi, in pittura, in poesia, in scultura, in cine­ matografia, in danza: insomma, in valori lirici, atteggiati secondo questa o quell’arte, a seconda degli artisti e delle loro attitudini e disposizioni creative. Converrebbe al Passadore rimeditare questo punto, prendendo le mosse da questa realtà « musicale », com’egli dice, delle arti figu­ rative e della poesia, che non è soltanto una possibilità, da lui ammessa quasi con una certa condiscendenza, come per prevedere un’obiezione, ma è la loro specifica condi­ zione estetica. Scordi completamente il « soggetto » delle opere d’arte figurativa e poetica, e ne consideri solamente il « contenuto », cioè la natura lirica, e veda in coscienza se questa non è totalmente sganciata - non meno che per la musica - dalla realtà naturale e storica. Si rimetta nel felice punto di vista da lui adottato nel cap. XI: «I le­ gami che una composizione pittorica, poetica o una scul­ tura può avere col mondo dell’esperienza sono assolutamente estrinseci alle estetiche immagini, che sono sempre intraducibili nella loro essenza». E sviluppi quell’altra

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preziosa concessione ch’egli è disposto a fare, in fondo alla nota di p. 55, esser «doveroso ammettere però che certe correnti della pittura e poesia moderna tendono, forse per la prima volta, a una pura musicalità, non sol­ tanto spirituale, ma anche formale ». Macché prima vol­ ta! non s’avvede che, senza tanti però e tanti forse, tutti i capolavori della pittura e della poesia hanno sempre realizzato (altro che tendere! ) questa pura musicalità (me­ tafora, per: liricità, esteticità) anche se gli artisti per av­ ventura credevano e si proponevano di fare tutt’altro? (Gli artisti un tempo s’illudevano di lavorare al soggetto del quadro: Venere sorgente dalle acque. E invece lavo­ ravano al contenuto', vibrazione lirica, che può anche es­ sere originata da quel soggetto. Oggi per lo più s’illudono di lavorare alla tecnica del quadro: toni, volumi, linee, masse, rapporti, ecc. E lavorano al contenuto del quadro: vibrazione lirica, che può anche trarre origine da quegli elementi tecnici).

Non occorre spender molte parole per illustrare la no­ biltà della concezione musicale che questo giovanotto (passato, a quanto pare, attraverso le delusive esperienze dei cosiddetti littoria!! della cultura e dell’arte) ci pro­ pone. « Quante volte, in articoli critici o in intellettuali conversazioni, sentirete menzionare, in patetico linguag­ gio, determinati stati d’animo illustrati in determinate composizioni, stati d’animo spesso dovuti a particolari contingenze nella vita dell’autore, a particolari sensazioni, ecc.! Ebbene, fin d’ora è necessario affermare la banalità di questi luoghi comuni». Ponendo l’origine ultima della musica nella musicalità dello spirito, egli invita a un godi­ mento dell’arte che solo gli inguaribili malati di retorica sentimentale potrebbero accusare di aridità. Dovrebbero invece pregare giorno e notte che venga loro concessa la grazia d’una rivelazione così alta come quella che il Passadore descrive in queste parole: «Chi sa già ascoltare conosce questa posizione spirituale: dopo un’audizione musicale egli sente di aver vissuto più intensamente, di essere penetrato in se stesso più profondamente, nella

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percezione d’intime vibrazioni sentimentali, che non sono più sentimenti rinchiusi nei noti confini d’una facile psi­ cologia, e di cui ignorava l’esistenza nell’animo suo, e che non riesce a interpretare logicamente e a descrivere. Egli sente un senso di superiorità nell’intuizione di essere giun­ to più addentro e più in alto; di essere giunto a conoscere tutto se stesso in quella parte di se stesso che partecipa dell’universale ». Additare in questa rivelazione di noi a noi stessi la na­ tura ultima della musica è certamente il risultato più alto a cui il Passadore sia stato condotto dalla sua scrupolosa auto-analisi: egli è certo un ascoltatore esemplare (e come tale, infatti, si presenta, senza pretendere a critico o sto­ rico della musica), tanto lontano dalla lattiginosa senti­ mentalità dei fabbricatori di romanzetti a base di tramonti e di burrasche, quanto dall’aridità « dei tecnici della mu­ sica, che ascoltano per cogliere la genialità di certe frasi, di certi accordi, di certi procedimenti», oppure degli « storici della musica nel?audizione, che ascoltano per co­ gliere le derivazioni tecniche e stilistiche, filosofiche e sto­ riche dell’opera d’arte». (Intendiamoci: ascoltare per co­ gliere queste relazioni, non va. Ma saperle cogliere, può essere un grande aiuto e un arricchimento della pura emo­ zione estetica).

Ridotta la percezione musicale a tanto aerea, ineffabile astrattezza e indeterminatezza (sono termini che ricorrono con una frequenza un po’ allarmante nel libro del Passa­ dore), c’è da chiedersi che cosa resti da fare alla critica musicale e alla storia della musica. Anche di questo si preoccupa il Passadore, in un capitolo intitolato La critica musicale e Vascoltatore, nel quale è opportunamente illu­ strato il doppio ordine di requisiti che al critico musicale si richiedono: doti di sensibilità artistica per quella fase « pseudo-estetica » del suo lavoro che consiste nel rivivere l’opera d’arte, e doti d’erudizione, nonché di preparazione metodologica e filosofica, « sicuro possesso del concetto, essenza e natura dell’arte». Il Passadore riconosce opportunamente l’autonomia

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della critica, ma lo fa con una frase infelicissima del Tonelli: «la critica è una necessità spirituale come la filo­ sofia, l’arte, la storia: partecipa delle qualità di ciascuna di queste, senza identificarsi con nessuna». In realtà la critica, che è etimologicamente esercizio del giudizio, s’i­ dentifica sotto questo aspetto con la storia (e quindi con la filosofia), e della critica in quanto storia il Passadore non si preoccupa molto. Egli sembra avere in vista piut­ tosto le forme pratiche e spicciole della critica giornali­ stica, e per questa fissa il criterio limitativo ch’essa non debba in alcun modo intendersi come «un tentativo di interpretazione della musica», ma semplicemente come un’illustrazione introduttiva, come un’opera volta a for­ nire « un indirizzo per la nostra sensibilità », un orienta­ mento e un’atmosfera spirituale favorevoli all’accoglimen­ to dell’opera considerata. «E - (meno male!) - se tale critica necessariamente si servirà di immagini apparte­ nenti alla realtà oggettiva o psicologica, se ne servirà solo per creare un’atmosfera spirituale piu pronta e piu atta a vibrare in piena adeguazione con lo spirito creatore e con la sua opera, senza pretendere di tradurre o esprimere le intraducibili immagini musicali». Ora, tutto questo va bene ed è una giusta e sana limi­ tazione, ma si riferisce soltanto a una critica dimidiata e continuamente asservita alla preoccupazione pratica di far capire la musica ad altri, non alla critica-storia, la quale ha solo in se stessa i suoi scopi, e non si cura affatto di « introdurre » all’opera nuova i lettori del quotidiano la vigilia o il giorno dopo la prima esecuzione. L’autonomia e la « necessità spirituale » che il Passadore aveva rico­ nosciuto alla critica con le parole del Tonelli, egli se le riprende poi, forse per l’assunto di trattare della critica non in sé e per sé, ma della « critica musicale e Vascolta­ tore ». Per mio conto - e mi si lapidi pure come psicologista, contenutista, ecc. - ritengo che, a consentire l’esercizio della critica-storia, o storia della musica (cioè storia dello spirito attraverso le manifestazioni musicali), si debba porre l’accento sul momento individuale intrinseco alle singole personalità creatrici: cogliere quella qualità urna-

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na con cui l’artista imprime alla materia il suo signaculum vitae e che si manifesta in quella rete organica di analogie e d’affinità costitutive denominata stile. Perfettamente d’accordo sulla volgarità di quella posi­ zione che consiste nel « collegare ai musicisti e alle loro opere un particolare stato d’animo facilmente determina­ bile: Mozart-serenità, Chopin-dolore, Beethoven-tormento». Nonsensi. Ma non si tratta di questo. Si tratta di riconoscere, nella gamma espressiva infinita di ciascun musicista (infinita e ineffabile, perché esprime soltanto la regione musicale dello spirito nella sua indeterminatezza), quella peculiarità individuale, quella fisionomia incon­ fondibile, quella qualità personale che sono l’impronta, il conio, di valori spirituali chiamati Mozart, Beethoven e via dicendo. Su questa base mi pare si possa edificare la storia della musica. E il nostro giovane Aristarco, seb­ bene non se ne sia proposto il problema, non mi toglie completamente (o m’inganno?) il vento dalle vele, per­ ché parla della regione musicale dello spirito « che si espri­ me cosi, in tutte le sue vibrazioni, sempre con la stessa lingua (lo stile, in questo senso)», e di «stati d’animo legati alla personalità umana del genio», stati d’animo che, ben inteso, «assurgono nella creazione musicale a purissimi valori interiori, partecipando della libera, pura, astratta musicalità intima ». Ma è innegabile che questa musicalità intima sia diversamente individuata in Bach, in Beethoven, in Mozart, e questa peculiarità di atteggia­ menti non è mica cosa di poco conto. « Lo stile espressivo caratteristico per ogni autore e che ce lo fa riconoscere con tanta facilità è semplicemente espressione, in una sintesi inscindibile della musicalità interiore in tutte le sue vibrazioni », dice il Passadore con tautologia piuttosto inconcludente. Una volta ammessa l’esistenza di questi stili espressivi caratteristici per ogni autore, è chiaro che si è trovata la materia della storia della musica. Del resto, nel capitolo sul genio creatore e l’opera d’arte musicale, il Passadore stesso fornisce qualche addentel­ lato metodologico per una simile concezione. Nonostante la sua severa condanna dei romanzetti psicologici, egli ammette infatti la personalità umana del genio e pare ne

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riconosca l’importanza per la comprensione dell’opera d’arte, «che, per quanto minimamente, è sempre legata a essa». Infatti, «il genio, per creare, deve porsi neces­ sariamente in una posizione soggettiva, rispetto al mondo esterno e a se stesso, per cogliere la vibrazione e l’emo­ zione della sua spiritualità dinanzi a qualsiasi fenomeno interno o esterno ». (Se questo vale per tutte le arti, mu­ sica compresa, dove va a finire la pretesa posizione privi­ legiata della musica, che sola non presenterebbe rapporti, nemmeno estrinseci, con la realtà naturale? Va a finire nel cestino, com’è giusto). «Questa posizione genera un particolare sentimento (“ciò che dà coerenza e unità al­ l’intuizione”, B. Croce): il genio fa assumere valore este­ tico a quel sentimento trasfigurandolo e facendolo assur­ gere, attraverso una perfetta forma fantastica, a opera d’arte». Ossia, l’arte prende le mosse da un momento soggettivo (dell’individuale) che poi viene indubbiamente superato nel carattere d’universalità proprio della rag­ giunta oggettività estetica. Superato, però, non vuol dire annientato: il momento individuale permane pur nella superiore oggettività dell’universale estetico, e questo a me basta per fondarci il mio modo d’intendere la storia della musica. Ci sarebbe un ultimo punto importante da rilevare, quello che riguarda l’interpretazione musicale. Il Passa­ dore accoglie pienamente la tesi del Parente che l’attività dell’interprete sia di natura eminentemente pratica, e non artistica; tesi verso la quale ho avuto occasione altre volte di manifestare il mio dissenso e che, secondo me, rispetta forse la lettera ma offende lo spirito dell’estetica crocia­ na, oltre a urtare contro l’esperienza interiore di tutti gli esecutori di musica. Essa fa infatti dell’interpretazione musicale «un’opera continua di rinunzia a ogni libertà fantastica», un’attività eminentemente non libera, in cui lo spirito si mortifica nella soggezione all’originale. Ora ciò è in pieno contrasto con l’esperienza degli interpreti, che proprio nella fedeltà e nel rispetto del testo sentono un mirabile potenziamento delle proprie facoltà artisti­ che, un’esplicazione vitale della propria personalità. La libertà non consiste, naturalmente, nel vano e gratuito

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« fare ciò che ci piace », ma nel sentirci liberi quando si fa una determinata cosa: e questa divina sensazione di libertà non si scompagna mai dalle grandi interpretazioni. Il Passadore s’induce, certo, a rilasciare qualche conten­ tino all’interprete, per consolarlo della sua « eroica umil­ tà » e ammette che « pur essendo, la sua, attività eminen­ temente pratica, tuttavia, indubbiamente, le sue capacità d?ordine intellettivo e d’ordine lirico, sia pur riflesso, in­ fluiscono enormemente sull’attuazione o meno della real­ tà artistica dell’opera interpretata». Imprudente ammis­ sione, e infatti l’autore sente di dover correre ai ripari. «Questo riconoscimento non è in contrasto con quanto siamo venuti via via dicendo». Ahi ahi! La gallina che canta - dice un proverbio - è quella che ha fatto l’uovo. E quando gli autori sentono il bisogno d’assicurare che una loro asserzione non è in contrasto con altre prece­ denti, nove volte su dieci ciò significa che, sotto sotto, un oscuro presentimento ha denunciato in loro la contrad­ dizione, o per lo meno l’insufficiente mediazione di due idee. « Infatti definendo l’interpretazione attività princi­ palmente pratica, non avevamo escluso dai suoi attributi quello lirico, inteso però in un senso riflesso, tale da non farla assurgere ad attività a sua volta creatrice, artistica ». In fondo non è una soluzione propriamente errata, tutt’altro; ma c’è qualcosa d’insufficiente, di poco persua­ sivo, nel modo con cui vi si perviene. Forse è ancor sem­ pre una questione di accenti, di sottolineature: nell’indagare la natura dell’interpretazione si sarebbe piu vicini al vero ponendo l’accento sul suo aspetto lirico, anziché accordarlo come una concessione, dopo avere invece sot­ tolineato l’aspetto pratico. Ricapitolando, tre punti di dissenso, non essenziali, mi dividono dal Passadore: la pretesa d’una posizione pri­ vilegiata della musica rispetto alle altre arti, la necessità di considerare la critica come storia, cioè come funzione autonoma dello spirito, e la questione della libertà del­ l’interpretazione. Ma alla tesi generale del libro (natura strettamente musicale dell’espressione musicale), non si saprebbe fare a meno di aderire con la più calda simpatia, riconoscendo che proprio li s’individua il còmpito prin­

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cipale che oggi si proponga all’estetica - determinare la natura dell’espressione artistica, chiarire il significato di questo termine e di quello di « sentimento », rifiutare il concetto di espressione intesa come « espressione di sen­ timenti » astrattamente oggettivati ed è un compito che proprio dalle esperienze della musica viene sollecita­ to, e dalle circostanze storiche in cui essa si è recente­ mente sviluppata. (1946)-

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va raccontato loro la sua storia: ed ecco, oh meraviglia! che anche i vicini di casa, prima decisamente ostili a quel Concerto (si trattava di musica moderna), questa volta ne furono entusiasmati. Cosi la signora Lander era stata invasa da uno zelo incontenibile per estendere al maggior numero di persone il beneficio della sua scoperta, e aveva scritto il suo arti­ colo esortando tutti a fare la prova. « Tosto che la musica comincia, tenete carta e matita a portata di mano, e scri­ vete giù i primi pensieri che vi passano per la testa. Da quel momento voi sarete in grado d’intessere magiche fantasie di vostra invenzione intorno a quasi ogni musi­ ca ». E anzi, perché non farne un passatempo di società? « Non sarebbe interessante — continua la signora Lander — chiedere ad alcuni vostri amici di ascoltare qualche pezzo di musica tutti insieme, e che ognuno metta giù la sua storia? Immagino che ne verrebbero fuori chissà che bel­ le idee...» Quello che non s’immagina, la buona signora, è quanto sia vecchio questo esperimento. Nel secolo scorso quando si riteneva di poter spiegare tutto con statistiche ed espe­ rimenti, figurarsi se gli studiosi di psicologia se l’erano lasciato sfuggire! Difatti, ecco la «Rivista Musicale Ita­ liana » dei fratelli Bocca, del 1899, epoca del suo maggior splendore positivistico, pubblicare, una memoria di G. C. Ferrari, del Laboratorio di psicologia dell’istituto psichia­ trico di Reggio Emilia, intitolata Primi esperimenti sul­ l'immaginazione musicale. Ecco in che consistevano gli esperimenti: « Mi trovavo in un riunione di una ventina di persone, dai 17 ai 50 anni circa, metà signore e metà uomini: fra cui alcuni molto appassionati per la musica (due soltanto erano musicisti), due o tre altri che la subi­ vano colla corretta rassegnazione che insegna la vita di società, e altri ancora che erano più o meno indifferenti. Grazie ai buoni uffici del padrone di casa, psicologo illu­ stre, potei persuadere tutte queste persone ad ascoltare un pezzo di musica che sarebbe stato suonato sul piano­ forte. Dopo, ognuno da sé, senza comunicare in alcun modo cogli altri, avrebbe dovuto scrivere rapidamente su di un pezzo di carta: i° le impressioni ricevute; 20 che

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cosa credeva che Fautore avesse voluto significare con quella musica; 30 che titolo sarebbe stato opportuno per la sonata udita». Fu eseguita la Berceuse op. 38 n. 1 di Grieg, e per una signora che ci azzeccò in pieno, e scrisse soltanto: « Ninna-nanna », un’altra ci vide: « Gita in bar­ ca. Tempesta. Pericolo», un’altra la «luce lunare sopra un lago terso; ricordi d’amore lontani in un contempla­ tore solitario ». Qualcuno vaneggiò di pastori al mattino che piangono la morte di un compagno e altri tirarono in ballo il solito armamentario di scene campestri, tramonti, temporali che è d’uso in simili casi. Risultati ancora piu esilaranti dette la prova successiva, in cui venne suonato il Warum? di Schumann, dai Phantasiestucke op. 12. Qui si va dalla genericità del «sogno d’una notte di prima­ vera », dello « sfogo di sentimenti dolorosi », delle « lotte di un’anima », alla circostanziata fantasia di una signora che afferma: « È senza dubbio una scena di gelosia. Prima lei comincia dolcissima, sommessa, quasi scusandosi; egli prorompe improvviso e le fa una predica. Essa prega an­ cora e gli sorride. Egli, serio, inquieto, alza ancora la voce. Essa prega ancora: e probabilmente il diverbio finisce in un abbraccio... perché non si sente più nulla». Ecco in­ vece l’interpretazione di un bollente giovanotto: « Siamo a un duello. Prima vi sono i preparativi, poi si battono alla spada. Quasi subito uno dei duellanti resta ferito mortalmente. E mentre stringe la mano all’avversario per riconciliarsi muore col sorriso sulle labbra». Nonostante questi veri e propri infortuni, l’autore del­ la memoria si adopera per ricondurre a una certa unità le impressioni riportate dai soggetti del suo esperimento e cavarne questo fallace criterio di valutazione della mu­ sica: « Se il compositore aveva la fantasia piena d’imma­ gini e l’anima piena di un’emozione vera, profondamente sentita, chiunque ne ascolti la musica vi troverà questa e quelle, alterate soltanto per ciò che comporta la sua individualità; se invece la maggioranza di coloro che ascol­ tano non trova nulla, sarà segno che il musicista ha lavo­ rato senz’“ anima” ». Questo modo d’intendere, o meglio di fraintendere la musica, viene dedotto per analogia dal modo che teniamo

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continuamente, in ogni ora della nostra giornata, per intendere la parola parlata o scritta, quando venga usata non già per un fine artistico, ma per scopi di pratica co­ municazione. In questi casi la parola viene usata come un simbolo: non è lei che conta, non è lei il fine ultimo per cui l’impieghiamo, ma veramente dietro di lei c’è qualcosa a cui si tratta di pervenire, a cui facciamo perve­ nire gli altri per mezzo della parola, e questa non ha che un valore strumentale. Questa radicale differenza di na­ tura che c’è tra la musica (o l’arte, in genere) e i discorsi di pratica comunicazione, si manifesta in piena luce nella possibilità che quest’ultimi presentano, di lasciarsi rias­ sumere, mentre è evidentemente impossibile riassumere una sinfonia o un quartetto. Una sinfonia è semplicemen­ te se stessa: le proprie note, dietro le quali non c’è niente che si tratti di andare a scoprire e che si possa rendere con parole. (Naturalmente, sarebbe un grossolano errore credere che una sinfonia si riassuma citandone i temi fon­ damentali: non si riassume un bel niente perché la musica consiste proprio in quello sviluppo dialettico che muove dai dati tematici iniziali. La citazione dei temi può servire molto bene a ricordare la sinfonia a chi l’abbia già sen­ tita, o tutt’al più a suggerirne, a chi non la conosce, una pallida idea, ma nessuno ardirebbe dire di conoscere una sinfonia per averne sentito i temi). Del resto, la parola stessa tende a questa condizione di insostituibilità, ap­ pena cessi di venire usata per scopi pratici di comunica­ zione e si sublimi in poesia. E quanto più ci si accosti alla poesia più vicina a noi, tanto più si fa evidente questa fuga dalla poesia di ogni elemento concettuale da cogliere al di là della parola. Capire la musica, dunque, e non qualchecosa che se ne stia appiattato dietro la musica, è un’operazione attiva dell’intelligenza e della memoria attentissime quella a cogliere e questa a ricordare tutti i nessi e i rapporti che legano nel tempo le labili apparizioni sonore. Occorre insistere su questo elemento di collaborazione attiva che si richiede all’ascoltatore, e che implica necessariamente una tensione mentale e quindi una fatica, perché è opi­ nione antica e diffusa che la musica sia invece un godi­

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mento passivo, una distensione e un abbandono alla fan­ tasticheria irresponsabile. « Che mi solea quetar tutte mie voglie », dice Dante dell’amoroso canto di Casella.

2. Funzioni sociali della musica.

In verità la musica non produce soltanto quest’effetto calmante sull’ascoltatore, indipendentemente dallo sfor­ zo che egli faccia per capirla, ma molti altri, di qualsiasi genere, come ben sapevano i Greci, che li avevano accu­ ratamente vagliati e catalogati, distinguendo nella mu­ sica. Y ethos diastaltico (ossia energico, eroico, eccitante), l’ethos sistaltico (ossia snervante, paralizzatore della vo­ lontà), e l’ethos esicastico (ossia inebriante, estatico, quel­ lo appunto che Dante riconosceva nel canto di Casella). Sbagliavano, poi, schematizzando arbitrariamente e at­ tribuendo questi « effetti » della musica non a un singolo pezzo in sé, ma al genere in cui fosse scritto; mentre noi sappiamo benissimo che, sebbene il modo minore sia comunemente inteso come produttore d’impressioni ele­ giache di malinconia, il modo minore di Vivaldi, per esem­ pio, è tutto quello che si può immaginare di più robusto, salubre ed energico; e al contrario Beethoven e Schumann hanno scritto in modo maggiore alcune delle pagine più torturanti e angosciose che la musica conosca. Comunque, anche ricondotta ai singoli pezzi di musica, e non al ge­ nere in cui sono scritti, sembra che quest’efficacia attiva della musica sulla volontà e sui centri nervosi dell’uomo (che si risolve per converso in una passività dell’ascolta­ tore), sia diminuita nei tempi moderni, in confronto ai racconti mirabili che ne tramandarono i Greci. Tuttavia, si dice che alla prima esecuzione del poema sinfonico di Strauss, Vita d'eroe, il grandioso episodio che rappre­ senta una battaglia abbia comunicato una tale eccitazione guerriera agli ascoltatori, che molti di questi balzarono in piedi brandendo i loro ombrelli e poco mancò che si az­ zuffassero gli uni con gli altri. Stendhal racconta che dopo l’esecuzione del Mosè di Rossini, il medico napoletano Cotugno ebbe a curare diversi casi di febbre convulsiva

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in ragazze sovreccitate dall’audizione della celebre Pre­ ghiera. Questa facoltà della musica di produrre impressioni in chi l’ascolta, fantasticherie e magari determinazioni della volontà, è una realtà che non si saprebbe in alcun modo negare, ma è una realtà accessoria e accidentale, che non ha nulla a vedere con la natura artistica della musica. Co­ me s’è già detto, la musica condivide questo potere con molte droghe e sostanze eccitanti o calmanti, e nessuno che ami la musica vorrà vederla ridotta, suppongo, al rango della simpamina o del veramon. Di questa attitu­ dine della musica tengono il debito conto coloro che hanno interesse a valersi della musica stessa per fini pra­ tici, anziché per gusto dell’arte, e di qui discendono le varie funzioni sociali della musica: nelle chiese ci si vale di preludi d’organo e di concenti vocali atti a indurrò nello spirito dei fedeli una disposizione di devoto racco­ glimento; negli eserciti si esperimenta sempre l’efficacia di un’alacre marcetta a rialzare il morale e rinvigorire il portamento dei soldati affaticati per una lunga cammi­ nata; nei locali notturni si suonano e cantano musiche i cui caratteri ritmici, melodici e strumentali sono tutti indirizzati a promuovere il consumo dello spumante e il commercio delle donnine che tali locali frequentano. Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza di tali funzioni sociali della musica, fondate sulla sua attitu­ dine a produrre determinati « effetti » sulla disposizione psicologica dell’uomo, proprio perché da tale considera­ zione risulta ben evidente la differenza di comportamento in chi ascolta la musica per se stessa, attento ai valori artistici ch’essa racchiude. L’atteggiamento passivo, di chi si abbandona alla vaga produzione d’immagini dilet­ tevoli suggerite dai suoni, non è l’atteggiamento del buon ascoltatore di musica, ma è l’atteggiamento del consu­ matore di musica nella sua funzione sociale; l’atteggia­ mento del devoto che dai suoni si lascia indirizzare il pensiero verso un pio raccoglimento, del soldato che al­ lunga il passo, raddrizza la schiena sotto lo zaino e spinge in fuori il busto, quando in testa alla colonna la banda attacca il suo ottimistico repertorio; del nottambulo a

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cui le canzonette e i ballabili servono da eccitante. A nes­ suno di costoro interessa la musica per se stessa, come valore, ma tutti chiedono alla musica qualchecosa che la oltrepassa, che sta dopo e fuori di lei; e la musica subi­ scono come una specie di sortilegio, senza nessun con­ tributo attivo del loro spirito *.

3. Collaborazione attiva dell’ascoltatore. Questo atteggiamento di passività spirituale e intellet­ tuale non deve essere trasferito, da tali sedi, nella sala di concerto. Capire la musica significa svolgere un’opera­ zione attiva e costante dello spirito, e cioè, essenzialmen­ te, percepire i rapporti che legano un suono all’altro se­ condo le leggi dell’armonia e che determinano una conti­ nuità dialettica dalla prima esposizione dei temi, attra­ verso l’elaborato sviluppo, fino alla loro ultima formula­ zione nella quale essi sono ancora gli stessi, eppure sono anche altri, arricchiti di tutte le metamorfosi cui il com­ positore ha saputo assoggettarli lungo l’elaborazione, di tutti gli aspetti eh’essi sono venuti via via prendendo nelle loro modificazioni, si che nell’accordo finale non ci sono soltanto quelle note determinate che lo compon­ gono, ma in certo modo sono presenti, per una vittoria dello spirito sul tempo, tutte quelle che lo hanno prece­ duto e a esso hanno condotto. È stato osservato con fi­ nezza 2 che l’accordo finale suona ben diverso per un ascol­ tatore che sia stato nella sala durante tutta l’esecuzione della sinfonia, e per un altro che càpiti a entrare in sala in quel punto stesso. Percepire questi nessi che avvin­ cono nota a nota e istituiscono la continuità dal principio alla fine di un pezzo di musica, è ciò che si chiama capire la musica e può essere facile o difficile a seconda dei casi; 1 Sulla Funzione pratica del linguaggio musicale si è intrattenuto con grande abbondanza di esempi storici salvatore pugliatti, « La Rassegna Musicale», luglio 1947, pp. 213-21, cavandone illazioni estetiche non sempre accettabili, allo scopo di dimostrare l'attitudine espressiva del lin­ guaggio musicale. 1 Boris de schloezer, Comprendere la musica, «La Rassegna Musi­ cale», gennaio 1931.

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a seconda, cioè, della lunghezza del pezzo e della mag­ giore o minore evidenza di questi rapporti interni. Faci­ lissimo, per esempio, è «capire» la cabaletta del Trova­ tore « Di quella pira ». Qui i rapporti tra nota e nota sono elementari e lampanti: si tratta d’una costruzione sche­ matica di quattro brevi frasi, la cui reciproca connessione è fondata sulle funzioni fondamentali della tonalità tra­ dizionale, e tale che .anche l’orecchio meno esercitato la percepisce immediatamente, facilitato, inoltre, dal breve respiro delle frasi stesse. Ben altra difficoltà presenta la comprensione, per esempio, d’una sinfonia di Brahms, dove le frasi, anzitutto, si fanno lunghissime, ed è già arduo individuarle e fissarle nella loro identità: figuria­ moci poi connetterle l’una con l’altra, quando si pensi che lo schematismo della struttura viene da Brahms ge­ neralmente evitato come una rozzezza primitiva, e attorno ai pensieri principali germoglia una ricca fioritura di di­ gressioni, d’idee secondarie che però giganteggiano ben presto fin quasi a soffocare le premesse del discorso mu­ sicale, e lunghe parentesi si aprono di continuo, spesso parentesi nella parentesi, non sapendo il compositore ri­ nunciare a nessuna delle suggestioni che alla fantasia ec­ citata vengono proposte da fuggevoli analogie, allusioni sottili spesso difficilissime da percepire. (Incidentalmente osserviamo che di solito è assai più facile seguire le opere dei musicisti che compongono secondo una legge di con­ trasto, come Beethoven e Verdi, che non la musica conce­ pita secondo leggi di affinità e d’analogia, come quella di Brahms e di Debussy). Ma nonostante il diverso grado di difficoltà, la natura dell’operazione intellettuale che si compie per « capire » la cabaletta del Trovatore e una sinfonia di Brahms, è affatto la stessa: la differenza è appunto di grado e non di natura. Nell’un caso e nell’altro si tratta di rendersi conto del perché a un suono tengano dietro altri determi­ nati suoni, quelli e non altri; sentire la necessità della loro successione e il loro conglobamento in un superiore organismo sonoro per quella specie di vittoria sul tempo, o meglio, di conservazione del tempo che è la mu­ sica. Conservazione del tempo che, mentre i tic-tac di un

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orologio si seguono l’uno all’altro senza alcun rapporto, e ognuno elimina il precedente, la musica invece, quasi materializzando il concetto bergsoniano della « durata » spirituale, opposta alla nozione meramente fisica del « tempo », entra per così dire nella trama indifferente e astratta del tempo, la investe e le dà un corpo, ritaglian­ dovi organismi proporzionati e forniti d’interiore coeren­ za, nei quali ogni attimo non si cancella man mano che viene superato dai successivi, ma in essi viene conservato e si perpetua con una presenza lungamente operante. Non date retta a chi vi dice che la musica consiste di suoni: è un’opinione superficiale. Tempo e memoria sono la vera essenza della musica, com’era noto già ad Aristosseno. Qualcuno potrebbe osservare che qui si riduce la mu­ sica alle relazioni tra suono e suono, cioè, praticamente alle leggi dell’armonia che governano la successione oriz­ zontale dei suoni nella melodia, e la loro associazione ver­ ticale negli accordi. Mentre invece nella musica operano anche altri elementi, come il ritmo e il timbro. È vero: ma ritmo e timbro non sono elementi che, nella musica, si debbano capire. Ritmo e timbro agiscono irrazional­ mente sull’ascoltatore, senza bisogno di un suo concorso attivo, e sono infatti gli elementi ai quali più si affidano i manipolatori di musiche destinate a uno scopo pratico, a quelle tali funzioni sociali di cui si è parlato più sopra. Ritmo e timbro sono gli elementi in cui più si manifesta il carattere magico, incantatorio, della musica, sul quale si è molto insistito e che - ripetiamo - non s’intende affatto contestare; ma bisogna precisare senza possibilità d’equivoci che esso è estraneo alla natura estetica della musica, ed è pertanto accessorio, e non essenziale. Col che si respingono senz’altro le «teorie della musica» e le «estetiche musicali» fondate sul concetto di magia come quella del Combarieu. Ora si potrebbe anche pensare che, se capire la musica significa seguire attivamente il trapasso dialettico delle note e dei temi, sia perciò necessario, per capire la mu­ sica, avere studiato le leggi dell’armonia: e molti appas­ sionati di musica che tali leggi non hanno studiato, po­ trebbero essere indotti da questo pensiero al più nero

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scoraggiamento. Ma l’armonia - quel complesso di norme e di leggi che forma una precisa disciplina d’insegna­ mento - non è nient’altro che una codificazione a poste­ riori delle operazioni che il nostro spirito compie quando capisce una musica; perciò non è affatto necessario avere studiato l’armonia per capire la musica; al contrario è indispensabile capire la musica per conoscere l’armonia, se non ci si vuole ridurre a imparare a memoria delle for­ mule senza intenderne il valore.* Tutto quello che si per­ de, ascoltando una musica senza avere studiato armonia, è la possibilità di applicare delle etichette - secondo una nomenclatura escogitata dai teorici - alla sostanza con­ creta dei fatti musicali. E in cambio si evita un pericolo comunissimo, e cioè di scambiare l’etichetta per la so­ stanza e di credere d’aver capito una musica quando se ne è fatto quella specie di analisi grammaticale, di cui ci deliziano molti commentatori.

4. La musica e Vespressione. Irrealtà dei sentimenti. La definizione che si è qui cercato di tracciare della nozione racchiusa in queste parole: capire la musica, po­ trebbe essere tacciata di intellettualismo. Infatti si è scelta questa espressione: capire la musica, in luogo di altre che si sarebbero potute adottare, come sentire la musica, o gustare la musica, proprio per accentuare polemicamente la necessità di un concorso attivo da parte dello spirito dell’ascoltatore, diciamo pure dell’intelligenza dell’ascol­ tatore: necessità che viene troppo spesso dimenticata in favore della concezione « quietistica » della musica, quella che consiste nel subire la musica come droga, e lasciarsela operare addosso in una fanciullesca produzione di fanta­ sticherie arbitrarie. Non si è nascosto, tuttavia, che que­ sto concorso attivo dell’intelligenza di chi ascolta si limita essenzialmente all’elemento armonia, cioè alla successio­ ne e combinazione dei suoni. Per ciò che è strumentazione e ritmo, ne abbiamo riconosciuto il carattere prevalente­ mente incantatorio. Non si richiede il concorso dell’intel­ ligenza per sentire il fascino d’un’orchestrazione sugge­

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stiva: il timbro degli strumenti opera direttamente sulla sensibilità, senza intermediari intellettuali. E cosi per il ritmo - sebbene questo possa prestarsi ai piaceri d’inge­ gnosi calcoli intellettualistici, che sfuggono al controllo dei sensi abbandonati a se stessi - generalmente non v’è che da lasciarselo operare addosso, abbandonarvisi come a una forza di natura. E infatti timbro e ritmo sono gli elementi a cui fanno maggior ricorso i manipolatori di musiche per le sopraddette funzioni sociali: chiesa, eser­ cito, locali notturni. Esposto questo punto di vista su quel che sia intendere la musica, occorre ora purgarlo dalla taccia d’intellettua­ lismo, per prevenire possibili obiezioni. Nella musica - s’era detto - non c’è da capire altro che la musica stes­ sa: la successione dei suoni nella loro, logica continuità. Capire una sinfonia di Brahms non significa nient’altro che rendersi conto del perché a determinati suoni ne se­ guano determinati altri; capirlo con la stessa perspicuità con cui ciò si capisce nella cabaletta del Trovatore. E abbiamo escluso con insistenza l’ipotesi che al di là dei suoni ci sia qualcos’altro da capire - un’idea, un’imma­ gine, o una storia composta d’immagini e d’idee - di cui la musica sia soltanto il simbolo, il mezzo per arrivarci; così come avviene del linguaggio nei suoi scopi pratici di comunicazione. Mi par di sentire il suono delle deluse obiezioni che quest’affermazione può suscitare: «E l’espressione? e il sentimento? »; e mi preme di dissipare un possibile equi­ voco, quasi ch’io volessi ridurre la musica a un sistema aritmetico di calcoli più o meno coscienti, dai quali esuli ogni partecipazione dell’anima umana. Affermando che nella musica non bisogna cercare nient’altro che la mu­ sica, non si esclude certamente dalla musica una qualità profondamente spirituale, che si determina storicamen­ te e anche psicologicamente nelle personalità dei singoli compositori. Possiamo qui riconoscere che c’era un po’ di esagerazione polemica nella prima formulazione del problema: che capire la musica sia semplicemente ren­ dersi conto della successione delle note. Effettivamente, questo modo puramente tecnico di capire la musica, non

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ne esaurisce il valore spirituale: è il modo dei teorici e dei dotti, che spesso sono in grado di smontare pezzo per pezzo il più complicato organismo sinfonico e di mostrare com’è fatto, senza sapere per questo qual sia il suo valore nella storia dello spirito umano. Ma importava allora escludere che, col pretesto del­ l’espressione, si riducesse la musica a una mera funzione simbolica com’è quella del linguaggio strumentale e pra­ tico: cioè un sistema di segni che si debbano decifrare, che si attraversano senza arrestarvisi, per afferrare al di là un oggetto, del quale essi non sono che il segno e il simbolo. Nell’espressione artistica, come tutti sappiamo ma non è male riconfermare, non esiste alcun rapporto di simbolo tra un contenuto e una forma distinti l’uno dall’altra: non si esprime qualchecosa - e sia pure un valore spirituale - per mezzo della musica, ma la musica è questo valore spirituale nella sua unica veste ed espres­ sione possibile. Quindi ritorniamo da capo all’affermazio­ ne che la musica non esprime che se stessa, sia pure rico­ noscendole una portata spirituale che va ben oltre alla definizione leibniziana della musica come un calcolo in­ consapevole. Il termine «espressione» ha appunto questo di peri­ coloso, che facilmente induce a pensare di una duplicità della cosa da esprimere e del «mezzo» per esprimerla. Duplicità che non esiste affatto e che ridurrebbe la musica a una mera funzione strumentale. Il termine « sentimento » è ancora più pericoloso. Si dice che la musica è espressione di sentimenti, e si pensa che essa esprima gioia, dolore, speranza, timore, rasse­ gnazione, odio, impazienza e via dicendo. Ora la musica non può esprimere gioia, dolore, speranza, ecc., per la buona ragione che questi pretesi sentimenti non esistono. Sono oggettivazioni e generalizzazioni astratte che ima scienza naturale - la psicologia - compie per suo uso e anche per nostra utilità pratica, ma non hanno più realtà di quanta ne abbiano le specie del regno animale e vege­ tale. È noto che non esiste la famiglia dei felini, così in genere: nessuno l’ha mai vista in nessun posto e non si potrà mai vedere. Bensì esistono gatti, tigri, pantere, leo-

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ni, leopardi, ecc., e non già gatti tigri o leoni in genere, bensì gatti giovani e gatti vecchi, gatti grigi e gatti bian­ chi e gatti neri, e bianchi e neri, ecc., gatti buoni e gatti cattivi, leoni spelacchiati e in gabbia e leoni ben portanti nella libertà del deserto e delle foreste africane, ognuno con la sua concreta realtà individuale, puntualizzata nel tempo e nello spazio. Questa è la realtà: il resto sono classificazioni utilissime e delle quali potremo magari dire che siano vere, ma alle quali non possiamo certo attri­ buire il predicato della esistenza. Così è dei sentimenti. L’allegria non esiste. Esistono singole persone allegre. E l’allegria di ognuno è talmente diversa dalle altre, condizionata com’è dalle più varie circostanze di tempo e di luogo, e soprattutto modificata dalle caratteristiche individuali del soggetto, che non ri­ mangono in piedi elementi sufficienti per giustificare una generalizzazione che sia ancora dotata d’esistenza reale. Diciamo di più: questi nomi di sentimenti — gioia, do­ lore, speranza, ecc. - sono oggettivazioni astratte di de­ terminate realtà umane, oggettivazioni ottenute facendo ricorso a una determinata facoltà d’espressione - la pa­ rola - il cui meccanismo operativo viene cristallizzato per determinati scopi pratici. È quindi soltanto con la più grossolana approssimazione che tali termini vengono adoperati per designare analoghe realtà umane le quali si siano invece manifestate attraverso un’altra facoltà d’e­ spressione: la musica. Quando nominiamo la gioia, il do­ lore, il tormento, ecc., non soltanto nominiamo delle oggettivazioni astratte che sono morte cristallizzazioni rispetto alla realtà vivente (il tale uomo con quel suo bagaglio di caratteristiche personali, e nelle tali circostan­ ze che lo fanno allegro, o addolorato, o tormentato), ma ci serviamo, inoltre, d’immagini letterarie, che si appli­ cano malissimo alla realtà musicale, e alle quali si può far ricorso soltanto come a un imperfetto e approssimativo mezzo di descrizione. La cosiddetta espressione dei sen­ timenti nell’arte (con tutto quel che di improprio si cela nell’oggettivazione astratta dei cosiddetti sentimenti) è espressione musicale in musica, espressione pittorica in pittura, mentre la terminologia con cui designarne questi

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pretesi sentimenti è il residuo cristallizzato della loro espressione letteraria \ . In quale senso parliamo allora d’espressione e magari anche di sentimenti? E in qual senso, quindi, possiamo ammettere che capire la musica non sia soltanto rendersi conto della successione dei suoni che la compongono? Già Roberto Schumann, testimonio non sospetto, avver­ tiva: « Si sbaglia di certo, se si crede che i compositori si mettano innanzi penna e carta nel misero proposito d’e­ sprimere, descrivere e colorire questa cosa o quella... » \ Il vero valore espressivo della musica non si deve infatti a un proposito. E la conseguenza della sua qualità invo­ lontaria, ma ineliminabile, di produzione umana. Certo, la musica è espressione della qualità umana, di un uomo così e cosi individuato, che nella sua singola puntualizza­ zione è il portato e il compendio d’un’intera situazione storica, e che naturalmente passa, nella sua vita, attraver­ so ogni sorta di disposizioni dell’animo (i cosiddetti « sen­ timenti », ma concretamente individualizzati), disposizio­ ni che si riflettono sulle varie parti dell’opera sua. Capire la musica, allora, vuol anche dire possedere tutto quel bagaglio di cognizioni storiche ^'filologiche che permet­ tono di collocare un autore musicale nella storia dello spirito umano e della cultura, e anche quelle doti di pe­ netrazione umana, perfino psicologica, che consentono d’intenderne con calore d’affetto la personalità, e di rico­ noscerne nelle opere i vari aspetti e momenti. Non per arrivare ad afferrare o ricostruire, al di là delle opere musicali, qualche presunta realtà biografica di cui quelle siano l’« espressione », nel deprecato senso simbolico del­ la parola, ma semplicemente per intenderle nella loro essenziale qualità umana. Qualità umana, diversamente atteggiata secondo le in­ finite determinazioni individuali indotte dalle circostanze eternamente variabili, che mai si ripetono perfettamente uguali (donde l’improprietà della generalizzazione che si 1 La prima formulazione di questo motivo si deve a Alfredo parente, La musica e le arti, pp, 63-81. 2 r. Schumann, La musica romantica, a cura di Luigi Ronga, Einaudi, Torino 1942, pp. 32 sgg.

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opera quando si parla di dolore, di gioia, ecc., quando il dolore di Beethoven è tutt’altra cosa dal dolore di Schu­ mann, e questo ancora altro dal dolore di Brahms; e il dolore di Beethoven nei tempi lenti delle prime Sonate per -pianoforte è tutt’altra cosa dal dolore di Beethoven negli ultimi Quartetti). Avvertire nella musica l’espres­ sione continua di questa multiforme qualità umana, que­ sto è ancora capire la musica. Ma non nel senso che là ci sia la qualità umana, e qua la musica, sua espressione; bensì nel senso che sono una cosa sola. Espressione, non nel senso che l’innalzamento della colonna di mercurio d’alcuni gradi sopra il 37 è espressione della febbre; ma nel senso che la fronte calda, l’occhio lucido, la frequenza delle pulsazioni, la sete, l’offuscamento della mente sono espressione della febbre; sono la febbre. 5. Musica, tempo e memoria.

Ora in qual modo la musica opera con la propria tec­ nica particolare questa identificazione di espressione e forma? Come avviene questa specie di osmosi tra l’espe­ rienza vissuta della singola coscienza umana e la trama sonora di un discorso musicale? Chi riuscisse a fornire una risposta esauriente a questa domanda, avrebbe chia­ rito fino in fondo ai segreti più riposti che cosa significhi « capire la musica ». Una simile delucidazione finora non esiste, e chissà se si farà mai. Ma da qualche tempo le riflessioni degli studiosi si vengono orientando con insi­ stenza sopra l’indirizzo, cosi fecondo e cosi suggestivo, che viene dischiuso dalla concezione del tempo inteso come durata e della sua relatività. Senza pretendere di trarre delle conclusioni, è possibile allineare alcuni testi e alcune constatazioni da cui sembra emergere un parallelismo tra i fenomeni musicali e i feno­ meni onde si costituisce la coscienza umana. Sarebbe già gran cosa se si potesse in questo modo pervenire alla so­ glia della soluzione, e far balenare il presagio di quella in­ tuizione che dovrebbe darci davvero l’essenza della musica. Tempo e durata: relatività del tempo. Chiamiamo tem­ po quell’aritmetica suddivisione delle fasi astronomiche

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in tante unità di misura d’ordine decrescente - l’anno, la settimana, il giorno, l’ora, il minuto — che si succedono l’una all’altra, perfettamente uguali tra loro e tali che ognuna è per cosi dire soppressa ed eliminata da quella che le succede. Una pura astrazione, un artificio che l’uo­ mo ha inventato per sua comodità, così come ha inventato il metro e le classificazioni delle specie animali e vegetali, come ha inventato quelle altre astrazioni della psicologia che sono i sentimenti. Il tempo diventa reale quando viene, per cosi dire, riempito dalla nostra esperienza interiore, dai fatti spiri­ tuali e affettivi che costituiscono, nella loro stratificazione accumulata, la nostra coscienza. In questo caso possiamo designare il tempo col termine bergsoniano di « durata », che è caratterizzata dalla conservazione del passato nel presente. La durata è la vera realtà del tempo, tanto negli organismi biologici quanto negli organismi spirituali. Ve­ ra natura del tempo, inteso come durata, è di essere la sostanza stessa dell’uomo, la trama della sua coscienza che cresce su se stessa per l’accumulo di acquisti succes­ sivi l’uno nell’altro conservati. Forse la durata si potrebbe definire, nel campo spirituale, semplicemente come il ri­ sultato di una moltiplicazione del tempo, nella sua astrat­ ta definizione aritmetica, per la memoria; chiamando me­ moria il segreto di questa conservazione, di questo pro­ lungamento del passato nel presente. Una simile intuizione aveva già avuto Goethe in una estemporanea improvvisazione conviviale. Si festeggiava con una cena, la sera del 4 novembre 1823, il concerto a Weimar della bella pianista polacca Maria Szymanowska, al cui fascino non era indifferente il più che settuagenario poeta. Fra i tanti brindisi, qualcuno ne propose uno « al ricordo». Ed ecco, narra il cancelliere Miiller, Goethe prorompere vivamente in queste parole: «Io non am­ metto il ricordo nel senso in cui l’intendetè voi. Ciò che di grande, bello, significativo incontriamo nella vita non ha da essere ricordato, quasi immesso nel cuore dal di fuori; fin dal suo sorgere deve intessersi col cuor nostro, diventare con esso una cosa sola, foggiare in noi un nuovo e migliore io, e così, perpetuamente creando, continuare

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a vivere e agire in noi. Non esiste un passato che si debba richiamare col desiderio, esiste solo un perpetuo presente, che si foggia con gli elementi potenziati del passato » \ Ora una scrittrice che unisce la competenza musicale alla specializzazione psicologica ha indagato recentemente i modi di questo parallelismo con cui, nell’atto della crea­ zione musicale, si stabilisce un rapporto tra la forma arti­ stica e la vita interiore. Mette conto di riferire alcune del­ le principali sue osservazioni12. In ogni nota che entra nel discorso musicale è insito un valore di movimento o di riposo, a seconda della sua posizione armonica che può essere di trapasso o di stati­ cità. Come scrive Strawinsky, nella sua Poétique musi­ cale , « ogni musica non è che un seguito di slanci conver­ genti verso un punto definito di riposo». Ora questa vicenda di movimento e di riposo, di conservazione e di mutamento che dà senso e continuità al discorso musi­ cale conglobando il significato delle note che precedono in quelle che seguono, è pure, d’altro lato, la definizione stessa del tempo inteso come durata. Passando dalle minime entità musicali, quali sono le singole note, ad altre più ampiamente costituite, anche il rapporto di tema e variazione si presenta come espres­ sione della legge temporale che regola il divenire stesso della coscienza e sembra alludere, nell’àmbito della sua realtà sonora, a quella « dialettica di fedeltà e di rinno­ vamento con cui la coscienza edifica se stessa ». Nessuno ha ancora illustrato compiutamente questa coincidenza, questa identificazione del processo interiore della coscienza con la dinamica della forma musicale. Ma il fatto è che tutti sappiamo distinguere tra uno sviluppo artificioso, che solo faticosamente vien dedotto dal tema, e uno sviluppo naturale, che il tema produce da se stesso per una specie di fecondità interiore. Tutti sappiamo di­ stinguere tra melodie che sono soltanto un’arzigogolata giustapposizione di note, e melodie nelle quali si svolge 1 Goethe a colloquio, conversazioni scelte e tradotte da Barbara Allason, Torino 1947, p. 223. 2 gisèle brelet, Esthétique et creation musicale, Presses Universitaires de France, Paris 1947»

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armoniosamente un organismo che nasce, si sviluppa e giunge a conclusione. Ci sono musiche che « finiscono » e musiche inconcludenti che non «finiscono» affatto: si sente che sono state troncate a un certo punto, per un atto esterno di volontà, che poteva intervenire anche pri­ ma, cosi come d’altra parte avrebbe potuto ritardare an­ cora. Invece uno dei piaceri della musica è proprio quello di accompagnare lo svolgimento di un pezzo fino alla sua conclusione, nella quale esso trova non già la sua morte, ma al contrario il suo compimento. Bene, tutto ciò noi non sappiamo dire, così in astratto, come accada, e descriverlo caso per caso è la croce e la delizia dello storico della musica. Ma una cosa è certa, ed è che la musica acquista la sua logicità, la sua coerenza interiore di discorso convergente a un fine, proprio quan­ do la sua forma si sostanzia dell’esperienza vissuta dal­ l’artista, della sua coscienza interiore.

6. La musica come linguaggio.

Con questa affermazione del valore umano insito nella musica, come in ogni altra arte, si previene pure il sospet­ to di aridità aritmetica e d’intellettualismo calcolatore che potevamo aver l’aria di introdurre nella reazione sogget­ tiva dell’ascoltatore di musica. Non certo nel pigro ab­ bandono a fantasticherie oziose consiste il gusto della musica, né in una pratica esortazione a determinati atti, né in una modificazione dell’umore e in una produzione artificiale di passioni e stati d’animo. Ma è piuttosto un inveramento di se stessi, qualcosa che ci fa maggiori di noi, come se nell’individuazione e nella comunione per­ fetta con lo spirito dell’autore la comune qualità umana venisse potenziata e accresciuta, quasi che le forze del nostro spirito si moltiplicassero per quelle del grande spi­ rito che nei suoni ci si manifesta. Questo, e non già l’in­ venzione di storielle sentimentali o guerriere, è quel senso esaltante, quasi di un crescere su se stessi, che la grande musica produce, qualunque sia il suo occasionale colorito espressivo, lieto o triste, fiero o melanconico, e senza pre-

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giudizio della partecipazione attiva del raziocinio. Fra i molti tentativi di descrizione a cui ha dato luogo questa esperienza interiore (più rara di quanto si creda, poiché richiede circostanze particolarmente favorevoli di bontà dell’esecuzione e di disposizione soggettiva a riceverla), due se ne ricordano che risalgono entrambe all’epoca del più acceso romanticismo, insospettabile di aver mai vo­ luto negare o sminuire nella musica i valori dell’espres­ sione. Eppure né l’una né l’altra di queste descrizioni la­ sciano àdito all’erronea interpretazione dell’espressione che potremmo chiamare simbolica o semantica, tale cioè che riduca la musica a una mera funzione di simbolo o di segno per giungere ad afferrare qualche altra realtà che stia oltre a essa. Una è di Berlioz, e muovendo da uno spunto eccellente di profonda verità, si smarrisce poi in ima certa ostentazione di particolari fisiologici. À Faudition de certains morceaux de musique, mes forces vitales semblent d’abord doublées; je sens un plaisir délicieux, où le raisonnement n’entre pour rien; Fhabitude de Fanalyse vient ensuite d’elle-mème faire naitre Fadmiration; Fémotion croissant en raison directe de l’énergie ou de la grandeur des idées de Fauteur, produit bientót une agitation étrange dans la circulation du sang; mes artères battent avec violence; les larmes qui, d’ordinaire, annoncent la fin du paroxysme, n’en indiquent souvent qu’un état progressif, qui doit ètre de beaucoup dépassé. En ce cas, ce sont des contractions spasmodiques des muscles, un tremblement de tous les membres, un engourdissement total des pieds et des mains, una paralysie partielle des nerfs de la vision et de Faudition, je n’y vois plus, j’entends à peine; vertige... demi-évanouissement...

Per fortuna Berlioz si affretta a tranquillizzare che « des sensations portées à ce degré de violence sont assez rares». L’altra testimonianza non è di un musicista, ma di tale che i suoi conoscenti definivano, con un misto di ammirazione e di indulgenza, un artista: artista in tutto, non solo nel dipinger quadri e scrivere romanzi, ma, più ancora, un artista nella politica, un artista nel matrimo­ nio, un artista nella vita signorile e originale ad un tempo. hector berlioz,

A travers chants, Paris 1906, p. 8.

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Voglio dire quella simpatica e unica figura di Massimo d’Azeglio. La sua descrizione dei poteri della musica è certamente inquinata da una sopravvalutazione della sua efficacia sui costumi dell’uomo, ma in fondo non vi si deve avvertire che un’oscura intuizione, leggermente de­ viata da un moralismo manzoniano, di quel senso ine­ briante di potenziamento di se medesimi che abbiamo detto essere la vera essenza del godimento musicale. E in cambio, invece, è notevole come proprio la musica induca il d’Azeglio a recedere dalla sua concezione dell’arte co­ me imitazione della natura, per accostarsi oscuramente all’intuizione della sua natura di linguaggio: anche se sia ancora aperta la strada alla possibilità di confusione tra il linguaggio inteso come strumento di comunicazione pratica, per convogliare un senso al di là di esso, e il lin­ guaggio come estrinsecazione fantastica della personalità umana, compiuto e sufficiente in se stesso \ 1 È questo il «linguaggio puramente estetico» della cui esistenza du­ bita il Pugliatti (art. cit., p. 22). Con ragione, perché presto o tardi ogni linguaggio estetico finisce per corrompersi ed essere impiegato a scopi pratici: quello della poesia per scrivere delle comparse giudiziarie, quello della pittura per fare cartelloni pubblicitari, quello della musica per per­ suadere la gente a pregare o a divertirsi, o a farsi ammazzare in guerra. Ma quello che non si comprende è come il linguaggio estetico possa sem­ brare al Pugliatti «assai povero». Diamine, basta confrontare il linguaggio delle Grazie con quello del «Corriere della Sera», il linguaggio della Nona sinfonia con quello della Vedova allegra, il linguaggio della Gioconda con quello dei cartelloni del Prestito della Ricostruzione, per persuadersi del contrario. Il Pugliatti è ritornato sull’argomento (Memoria di suoni, ne «La Rassegna Musicale», luglio 1949, pp. 165-174), deplorando d’essere stato frainteso e precisando ch’egli non crede «all’autonomia assoluta del lin­ guaggio estetico e del linguaggio pratico, ma soltanto alla duplice funzione o al duplice atteggiamento - estetico e pratico - del linguaggio, esclusa la possibilità di una radicale scissione dell’unità essenziale di esso, ma rico­ nosciuta invece la possibilità di prevalenza del momento estetico o del momento pratico». Ora, che la musica si presenti anche in veste di lin­ guaggio pratico di comunicazione, nessuno lo nega (si veda qui, nel pre­ sente cap. Ili, le pp. 55-57, e più oltre nel cap. Vili le pp. 149-50; ma non si vede proprio quali misteriosi arricchimenti possa arrecare alla mu­ sica, cioè alla funzione estetica del suono, l’impiego dei suoni come segni. Anzi, si deve tenere ben distinto il momento pratico dal momento estetico del linguaggio musicale, per evitare di ricadere negli equivoci che hanno tanto a lungo appesantito il progresso della critica musical? con l’indebito fraintendimento della musica come linguaggio pratico, anziché estetico. Si veda, del resto, il significativo fastidio con cui il Croce è tornato a ribadi­ re, in una nota dei «Quaderni della Critica» (novembre 1949, p. 118) che, «nato come poesia, il linguaggio si è poi piegato a servire come segno».

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Di tutte le opere dell’uomo, la piu meravigliosa e insieme la sola per me inesplicabile, è la musica. Capisco la poesia, capisco la pittura, la scultura, le arti d’imitazione, insomma. (In realtà erano proprio queste che non capiva, mentre capiva benissimo la musica). Il loro nome ne svela l’origine. V’era un modello, l’umanità c’impiegò secoli per giungere a imi­ tarlo, e finalmente lo imitò. - Capisco le scienze. Dato il razio­ cinio, non trovo difficoltà a comprendere che profittando ogni età delle riflessioni dell’età antecedente e, per cosi dire, sa­ lendo sulle sue spalle, l’umanità si sia innalzata al punto al quale oggi si trova... Ma dove siamo andati a prendere la mu­ sica? Questo è quello che non capisco. - La musica è un mi­ stero. Credo che bisogna dirne quello che si dice delle lin­ gue -. Eppure la musica c’è; è nella nostra natura... Non ha mai provato talvolta, a certe melodie, sentirsi umidi gli occhi come a una cara voce, come a una dolce memoria rapita che si ridesta? E talaltra sentirsi diventar migliore, piu franco, trovarsi l’anima nobilitata a un tratto? Il cuore reso piu ge­ neroso? La volontà piu onesta?... Come si spiega l’influenza della melodia e dell’armonia sul senso morale? Che cosa vi dissero quelle note, quali ragioni vi espressero per ispirarvi il bello, il buono, il grande? Non sarebbe la musica una lin­ gua perduta? della quale abbiamo dimenticato il senso e ser­ bata soltanto l’armonia? Non sarebbe una reminiscenza? la lingua di prima? e forse anche la lingua di dopo? (1948).

IV.

Espressione artistica e linguaggio musicale

La musica e il linguaggio musicale

Uno dei temi proposti a questo congresso 1 - problemi del linguaggio musicale contemporaneo - ha il pregio, tra l’altro, di indurre a un movimento doveroso di riflessione. Linguaggio musicale! chi di noi non ha fatto uso, e ma­ gari abuso, di questo modo di dire? Chi di noi non ha parlato o scritto del «linguaggio musicale» di questa o quell’opera, di questo o quel compositore, con il compia­ cimento di dire qualcosa di particolarmente fine, qualcosa di molto sottile che, tra noi, comprendiamo a volo, anche se non ci siamo mai preso la briga di spiegare esattamente che cosa intendiamo con quella locuzione? Perché « linguaggio musicale » e non, per esempio, sti­ le? E soprattutto, perché «linguaggio musicale» e non, semplicemente, «musica»? Perché oggi siamo qui radu­ nati a parlare dei problemi del linguaggio musicale con­ temporaneo e non, tout court, della musica contempo­ ranea? Quand’anche non si trattasse che di una lieve sfuma­ tura di pensiero, sarà prudente cercare di metterla in chia­ ro, poiché è una norma elementare di buon senso preoc­ cuparsi anzitutto di sapere di che si parla: interrogare le parole che si adoperano, enucleare i significati reconditi delle frasi fatte e rendersi conto della portata dei luoghi comuni. Rinuncerò quindi volentieri al gusto di spaziare nel panorama della musica contemporanea e di rilevarne questo o quell’aspetto lessicale, linguistico, per tentare 1 II presente scritto fu presentato come relazione al quinto Congresso di musica del Maggio Musicale Fiorentino, nella sezione che aveva per tema: «Problemi presenti del linguaggio musicale». Cfr. Atti del quinto congresso di musica, Firenze 1948.

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invece questa precisazione metodologica, quasi come una premessa - un preludio - ai vostri lavori. E se mi avverrà di mettere in guardia contro certe insidie che si annidano nella nozione di « linguaggio musicale » e in certi modi di usarla, non crediate ch’io voglia svalutare a priori i la­ vori di questo congresso e metterne in dubbio la ragion d’essere, la validità del tema. Desidero soltanto prospet­ tarli sotto una luce che a me pare - e potrò sbagliare la più opportuna, la più conforme a un soddisfacente con­ cetto generale dell’arte. Sia ben chiaro, quindi, che non penso nemmeno lontanamente di confutare i discorsi che qui si faranno, o di contestarne la validità, ma vorrei sol­ tanto tentare di precisarne la portata, il peso, il posto che a essi si debba attribuire nell’insieme della nostra disci­ plina. È noto che uno stesso discorso può avere significati affatto diversi, può suonar giusto o può suonare falso, a seconda che venga subordinato alla consapevolezza di certe premesse metodologiche generali, oppure venga get­ tato là perentoriamente, come un valore assoluto e in­ condizionato.

Un ascoltatore ingenuo e sprovveduto, il quale non co­ nosca che gente complicata sono i critici musicali, sempre pronti a « buscar el Levante por el Poniente », cioè, se ci sono due modi di dire una cosa, a scegliere il più diffi­ cile, sempre disposti a contraddire l’uso normale delle parole per paludarsi in un gergo di categoria, - e natural­ mente io mi metto tra i primi; parlo per esperienza con­ trollata sul mio stesso lavoro, - bene, un ascoltatore sprovveduto potrebbe credere che quando si parla con tanto compiacimento di « linguaggio musicale » noi si vo­ glia dire una cosa semplicissima: e cioè che noi si attri­ buisca alla musica la natura di linguaggio per affermare ch’essa è un mezzo di comunicazione, come la parola scrit­ ta o parlata, che il suo valore non si limita alla sua appa­ renza, al fenomeno sonoro, ma va ricercato al di là dei suoni, in un significato che questi suoni servirebbero a trasmettere grazie a un’efficacia simbolica e semantica, qual è quella delle parole.

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Invece - ecco la complicata natura dei criteri musicali proprio quelli di noi che fanno maggior uso della nozione di linguaggio, sono pure quelli - anzi, devo dire: siamo quelli che più si affannano a mettere ben in chiaro che nella musica non c’è altro da cercare fuori della musica stessa, e che i suoni non sono da usare e da intendere come un surrogato delle parole - insufficiente, come tutti i sur­ rogati - per funzioni narrative, descrittive, o comunque di pratica comunicazione. Resta perciò ben inteso che quando parliamo di lin­ guaggio musicale, non intendiamo già alludere al comune linguaggio pratico e strumentale, che s’interpone con un sistema di simboli tra l’uomo e le cose, e anche tra l’uomo e i suoi sentimenti, i suoi bisogni, le sue aspirazioni; ma abbiamo in mente l’accezione di un linguaggio intera­ mente fantastico e creativo, non strumento dell’espres­ sione, ma esso stesso immediata e diretta espressione. Il linguaggio musicale è perciò essenzialmente una sin­ tassi, e quando noi facciamo uso di quella locuzione vo­ gliamo in ultima analisi affermare l’esistenza di una logica intrinseca della musica che coordina la successione e le combinazioni dei suoni. Ma se si volesse spingere fino in fondo l’analogia racchiusa in quella metafora e paragonare il linguaggio della musica con il linguaggio delle parole, usate come strumento di pratica comunicazione, allora dovremmo riconoscere che la musica resta nella incorpo­ rea generalità delle analisi logiche e grammaticali. Cioè tra il linguaggio parlato utilitario e la musica passa press’a poco una differenza dello stesso ordine di quella che corre tra una frase esplicitamente formulata in parole e la sua analisi logica e grammaticale. Quando io dico al mio vi­ cino di tavola: «Questa minestra è scipita; passami la saliera», io intendo anzitutto comunicare al mio vicino una mia sensazione di gusto, e poi ho in mente un certo oggetto, che si trova discosto, e voglio che il mio vicino eseguisca gli atti necessari a condurmelo a portata di ma­ no. Tutto questo va perduto quando della mia frase si faccia la descrizione, o, come si suol dire, l’analisi logica e grammaticale: proposizione indipendente; attributo del soggetto, pronome dimostrativo singolare femminile; sog­

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getto, sostantivo singolare femminile; predicato nominale di modo indicativo; predicato verbale di modo impera­ tivo, ecc. Quello che resta è il telaio sintattico della frase, il numero delle sue parti, il numero e la successione degli elementi che queste parti compongono. La musica, quan­ do la si volesse assolutamente confrontare con il linguag­ gio parlato, non potrebbe andare piu in là di questa gene­ rica organizzazione sintattica. Ma è appunto questa la sua capacità di darsi una soddisfacente organizzazione sintat­ tica, ciò che si vuol sottolineare quando si parla di « lin­ guaggio musicale ».

Ecco quindi chiarito il senso di cui tanto ci compiac­ ciamo, noi critici musicali, quando ricorriamo a quella locuzione, ed ecco chiarito il tema intorno a cui ci tro­ viamo qui convocati: i problemi del linguaggio musicale contemporaneo. Cioè i modi con cui la musica al giorno d’oggi impiega e coordina i propri elementi per conse­ guire quella coerenza logica di cui essa è capace. C’è qui dentro tutta la musica? I problemi del linguag­ gio musicale contemporaneo sono senz’altro i problemi della musica con temporanea? È a questo punto che il mio discorso potrà prendere un’apparenza restrittiva, che non deve però essere scambiata per una confutazione, per una negazione recisa del tema propostoci: vuol essere soltanto una delimitazione, una sua subordinazione a un concetto generale dell’arte che non deve andar smarrito, un tenta­ tivo di collocazione metodologica. I libri che trattano di proposito del linguaggio musicale - e dopo quello fondamentale, ma ormai un po’ invec­ chiato dell’Emmanuel, due ne sono usciti recentemente in Italia e in Francia, del nostro Pannain e di René Lei­ bowitz - si potrebbero descrivere semplicisticamente co­ me storie della musica, o di particolari epoche della mu­ sica, in cui si tacciano i nomi dei compositori. E sarebbe un semplicismo soltanto apparente, che in realtà coglie proprio l’essenza della questione, perché le storie del lin­ guaggio musicale, riducendo la musica ai suoi meccanismi sintattici e grammaticali, prescindono di proposito dalle

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personalità dei compositori. Questi ci entrano, se ci en­ trano, solo incidentalmente, e non come i soggetti del discorso. Soggetti del discorso sono invece l’armonia e il con­ trappunto, la tonalità e i modi, la melodia e il ritmo, il timbro strumentale, la composizione dell’orchestra, ecc. È bene o male operare questo spostamento di mira e concentrare l’interesse critico sopra gli elementi del di­ scorso musicale, prescindendo dalle personalità dei sin­ goli compositori? È lecito, nell’àmbito di una estetica nella quale, grosso modo e pur con le frequenti proteste di volerne evadere, tutti crediamo? Non è né male né bene, non è lecito né illecito, e può essere male ’o bene, a seconda dell’intenzione e della con­ sapevolezza metodologica con cui questa operazione ven­ ga compiuta. È bene, cioè è necessario, occuparsi del lin­ guaggio musicale, e volere intendere com’esso è fatto, come funziona; perché, sebbene la personalità degli arti­ sti sia l’essenziale, il divino, la sostanza dell’arte, questa personalità non abbiamo il diritto né la possibilità di cer­ carla altrove che nelle loro opere, ed è quindi indispensa­ bile intendere il linguaggio di cui esse si servono. Inten­ derlo - ripetiamolo ancora una volta - non già nel senso di pervenire, attraverso a esso, a una verità che stia die­ tro e di cui esso linguaggio non sia che il segno; inten­ derlo, non nel senso di passargli oltre e scoprire qualche messaggio che stia dietro, ma intenderlo, per cosi dire, nella continuità della sua superficie, individuare le ragioni della sua durata e della sua coerenza. Comprendere per­ ché a un suono ne segue o se n’accompagna un altro, pro­ prio quello, e non un terzo qualsiasi, rendersi conto della necessità di un determinato timbro strumentale, sentire la tempestività di un ritmo o di una alterazione agogica, la convenienza di un’intensificazione o diminuzione del suono, ecc. Tutto ciò, dunque, è indispensabile poiché è la sola via per cui sia permesso accedere al nucleo dell’opera d’arte, cioè alla forma in cui la personalità dell’artista si manife­ sta. Ogni altra via - biografica, psicologica, aneddotica e via dicendo - è insufficiente e forse totalmente inutile.

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Per gustare la comicità del Barbiere non basta sapere che Rossini era buontempone, amante della buona tavola e delle barzellette saporite. Non basta, e magari non serve à niente. Ma è chiaro quale pericolo possa nascondersi in questa operazione pur necessaria. Può accadere che nell’atto di isolare da quel tutto che è la musica gli aspetti linguistici e lessicali per studiarne la morfologia, si perda di vista la considerazione che questo isolamento è arbitrario e prov­ visorio: si scompone quell’unità che è la musica, unica­ mente per ricomporla dopo averne individuato e inteso gli elementi. Ma l’uomo è facilmente portato ad attribuire un valore assoluto a ciò che sta facendo; è quasi indispen­ sabile che così avvenga, se si vuole fare un lavoro con convinzione. Gli specialisti sono facilmente portati a non vedere oltre i limiti della propria specialità. E cosi può accadere che gli studiosi del linguaggio musicale lo scam­ bino per la musica stessa, e quell’esclusione dell’elemento essenziale - la personalità dell’artista - che si è fatta prov­ visoriamente e per comodità di lavoro, essi persistano poi a mantenerla e immiseriscano la musica nei suoi valori lessicali, sostituendo alla sua realtà fantastica genera­ ta dall’anima dell’uomo immaginarie mitologie di nozioni astratte indebitamente sostantivate. E allora si ha l’affer­ mazione di immaginarie « leggi » della materia musicale, la quale si « evolverebbe » secondo una sua interiore lo­ gica e per determinazione organica, laddove esiste certo una intrinseca logica musicale con le sue leggi, ma queste leggi non sono leggi fisiche esterne come quelle che pre­ siedono al corso degli astri e alle combinazioni degli ele­ menti chimici, bensì vengono di volta in volta generate dalla fantasia dell’artista, che può crearne di sana pianta o può accettare quelle che altri aveva trovato prima di lui, ma nell’atto stesso di adottarle le ricrea, le mette in vita una seconda volta; nel senso letterale della parola, le ri­ genera. Invece, i fissati del linguaggio musicale annientano per intero la libertà della creazione artistica e si riconoscono subito per quel loro tipico modo di concepire la storia della musica come una lunga catena di cui i singoli com-

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positori sono, com’essi dicono, gli anelli. Lasciamo stare l’uso polemicamente tendenzioso a cui talvolta viene pie­ gata questa concezione: e cioè, che chi non ha la buona grazia d’inserirsi come anello in questa catena si vede magari rifiutato il diritto all’esistenza artistica. Tralascia­ mo pure questo aspetto poco simpatico della questione; ma anche quando viene affermata in uno spirito di puro disinteresse teorico, è chiaro che la concezione della sto­ ria della musica come una catena manifesta il piu lugubre e mortificante determinismo materialistico, uccide la real­ tà e la libertà creatrice dello spirito umano, e lo subordina a immaginarie personificazioni di concetti astratti, trattando l’ombre come cosa salda.

Credo non esista ormai nessuno il quale non sia per­ suaso dell’assurdità che c’era nell’antico modo di conce­ pire la storia della musica per generi intesi come organi­ smi veri e propri - la sinfonia, il mottetto, il madrigale, il Lied, l’opera, il quartetto, ecc. - che nascono crescono e si sviluppano secondo leggi proprie e assorbono in sé mo­ struosamente l’apporto dei singoli compositori, la testi­ monianza della loro qualità umana, che è poi la sola cosa concreta di tutto questo. Se su questo punto si è d’accor­ do, basta ripetere la stessa operazione mentale su scala piu larga per ripudiare quell’altra equivalente assurdità che sarebbe il concepire non più i singoli generi musicali, ma il « linguaggio musicale », in blocco, come un enorme molòch che si evolve in mostruosa autonomia e ingerisce di volta in volta quelle uniche realtà concrete che sono le singole opere d’arte per nutrirsene e formarne come le vertebre di un gran serpente a sonagli, che cresce su se stesso in un pauroso determinismo.

Due libri recenti - ho detto - trattano di proposito del linguaggio musicale. Ma quello del nostro Pannain è tal­ mente pervaso dalla convinzione della natura fantastica, e non semantica, creativa, e non strumentale, del lin­ guaggio musicale, che il pericolo ora accennato non lo

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sfiora nemmeno \ Direi, se mai, che il titolo del libro fa torto al suo contenuto: vi si parla ben poco degli ele­ menti del linguaggio musicale, come armonia, contrap­ punto, timbro, melodia e ritmo, e molto invece di qual­ cosa che potremmo chiamare la natura della musica, o magari, col titolo di un altro libro famoso che da noi aveva dato l’avvio a questi studi, della posizione della musica nella vita dello spirito. Quella dissociazione arbitraria e convenzionale, eppure necessaria, che bisogna fare per occuparsi di proposito del linguaggio musicale e della sua morfologia, il Pannain si rifiuta in sostanza di compierla e tratta invece della musica nella sua interezza, senza mai perder di vista l’importanza essenziale dei fattori spiri­ tuali, sia pure considerati nella loro apparenza di vaste correnti storiche, anziché puntualizzati nella realtà indi­ viduale dei singoli artisti e dei momenti umani che nelle singole opere hanno trovato la loro forma. Invece il libro di Leibowitz12, che porta per sottotitolo Uétape contemporaine du langage musical, opera con estremo coraggio questa dissociazione, e riesce pertanto a un’analisi appassionante, di straordinaria lucidità, delle vicende storiche del linguaggio musicale. (Più che al nu­ cleo centrale del libro, sul quale siamo un poco costretti a credere all’autore sulla parola, mi riferisco piuttosto a quei «Prolegomeni alla musica contemporanea» dov’è mirabilmente tracciata la storia degli elementi lessicali e linguistici della musica occidentale, il trapasso dalla strut­ tura melodica modale alla concezione tonale, e il lento consumo e la corrosione di quest’ultima a opera del prin­ cipio contrappuntistico). Ma il libro di Leibowitz è anche l’opera tipica di chi, compiuta la dissociazione tra la real­ tà spirituale dell’arte e gli aspetti morfologici del linguag­ gio musicale, perde poi interamente di vista l’arbitrarietà e la provvisorietà di quella dissociazione, e attribuisce allora agli elementi del linguaggio musicale quella realtà assoluta che è solo dell’opera d’arte, e nelle vicende sto­ ricamente constatate del loro divenire - cioè riconosciute 1 guido pannain, La vita del linguaggio musicale, Milano 1947. 2 rene Leibowitz, Schoenberg et son école, Paris 1947.

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a posteriori - va ipostatizzando immaginarie leggi determinatrici di una non meno immaginaria evoluzione. Tut­ to ciò per il bisogno di ritrovare nella parte, isolata prov­ visoriamente a scopo di studio, quei valori assoluti che esistono solamente nel tutto dell’opera d’arte. Si vuol dire con questo che l’analisi condotta dal Lei­ bowitz sul divenire del linguaggio musicale è falsa, è - diciamolo in parole spicciole - sbagliata? No, anzi, si è già detto che quest’analisi è mirabile ed è una delle letture più appassionanti e stimolanti che oggi ci sia of­ ferta dalla pubblicistica musicale. Salve alcune riserve su casi particolari, non è possibile discordarne e bisogna in­ vece adottarla e farla propria come un eccellente stru­ mento di lavoro. Non è l’analisi in sé dei fatti tecnici, la constatazione dell’ordine in cui si sono succeduti, quella che appare inaccettabile nel libro del Leibowitz; sono invece i presupposti e le deduzioni, è il valore attribuito all’analisi, e ai fatti tecnici che ne sono oggetto, che non possiamo concedere senza rinunciare praticamente a una concezione generale dell’arte che, se è stata in questi ul­ timi tempi intensamente criticata e discussa, non è stata ancora sostituita. Come ho già detto, uno stesso discorso può suonare diversamente, falso o persuasivo, a seconda delle premesse che vi si sottintendono, a seconda che venga presentato come una verità assoluta, o come una formulazione provvisoria di verità parziali e strumentali. Così è dell’analisi del linguaggio musicale contenuta nei Prolegomeni del Leibowitz: ineccepibile, quando sia fat­ ta con la riserva che si tratta d’una distinzione momen­ tanea allo scopo di individuare e di serrare da presso una parte della realtà; insostenibile, invece, quando ci sia la esplicita o sottintesa pretesa di esaurire negli aspetti del linguaggio musicale la totalità della musica. Quando il Leibowitz afferma che la moderna polifonia si può considerare « come una sintesi continua, in seno alla quale tutte le acquisizioni precedenti continuano a vivere e formano un tutto, di modo che in ogni momento della sua storia la totalità delle acquisizioni polifoniche non costituisce che una specie di premessa alle acquisi­ zioni del momento storico seguente », quando il Leibo-

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witz afferma questo, e scrive in corsivo le parole « sintesi continua », trascura il fatto che sintesi è sempre integra­ zione di due termini; non si dà la sintesi di un elemento solo con se stesso. E qui mi sembra che siamo proprio vicini al nodo della questione. Nella musica infatti si opera sempre la sintesi del linguaggio musicale preesi­ stente, su cui il compositore si trova ad agire, e di ele­ menti nuovi imponderabili che vengono dall’esterno dalla storia, dalle condizioni politiche e sociali, ed essen­ zialmente daH’umanità individuale dei singoli composi­ tori e dai vari momenti dei suoi atteggiamenti psicolo­ gici - e che entrano in una feconda reazione dialettica con il primo termine, con quel troncone semovente, con il serpente a sonagli del linguaggio musicale occidentale, o la tradizione, o la polifonia moderna, come lo si voglia chiamare. L’uno e l’altro termine è indispensabile ad attuare la pienezza della sintesi, cioè l’arte, la musica; e l’un termine rappresenta il momento della materia e della determinazione, che, isolato in se stesso, sembra svol­ gersi secondo le leggi immanenti di un inesorabile deter­ minismo evolutivo; l’altro termine rappresenta il mo­ mento della libertà e della creazione, e sebbene nessun termine da solo possa aspirare alla pienezza e all’assoluto della realtà, è chiaro quale dei due termini agisca nella sintesi come termine positivo e quale come termine ne­ gativo. Contro la pericolosa personificazione di nozioni astratte, contro la minaccia del determinismo inesorabile implicito nell’evoluzione organica del linguaggio musica­ le, occorre allora tenere ben fermo e accentuare all’occorrenza il momento della libertà creativa e ricordare per assurdo che se non fosse vissuto Wagner, uomo cosi e così formato dalle sue esperienze umane, o se vivendo non si fosse innamorato di Mathilde Wesendonck e non avesse scritto il Tristano, oggi niente esisterebbe proprio di quel linguaggio musicale in cui si muovono Schoenberg et son école e che al Leibowitz sembra essersi autogene­ rato per un’irresistibile concatenazione di conseguenze e in virtù di indeclinabili leggi interiori alla sua stessa natura. Intendiamoci, ho citato il libro del Leibowitz per co-

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modità di esemplificazione, non perché esso sia qui di­ rettamente in questione. E giustizia vuole gli si renda atto ch’egli comincia la conclusione del suo libro con ima confessione della massima importanza, per la quale è possibile forse immaginarlo più vicino a noi di quanto egli stesso voglia dare a intendere. « Eppure è evidente - egli scrive - che tutte le analisi, tutti i commentari di cui sono riempite queste pagine, si rivelano insufficienti, perché tacciono l’essenziale ». Dove pare di intrawedere l’oscura intuizione della realtà della musica e dell’arte, superiore e più ampia, nella libertà della sua natura spi­ rituale, che l’angusto determinismo evolutivo d’un lin­ guaggio musicale arbitrariamente e convenzionalmente isolato per comodità di studio. Ma, ripeto, il libro del Leibowitz qui non è in que­ stione se non per gli ammonimenti che possiamo trarne in queste nostre discussioni sui problemi del linguaggio musicale contemporaneo. Ammonimento a tenere ben presente la natura condizionale e parziale di queste di­ scussioni, le quali è bene che si facciano, soprattutto in una sede come questa, dove siamo tutti gente del me­ stiere, perché in verità è arduo concepire la possibilità d’un musicologo e d’uno storico della musica il quale della musica non intenda il linguaggio e i mezzi tecnici di cui si serve; ma devono conservare un valore essen­ zialmente strumentale e filologico, e come la filologia e la glottologia non si arrogano di sostituire la storia della letteratura e della poesia, ma si limitano a fornirle pre­ ziosi strumenti di lavoro per intendere sempre meglio le opere dell’arte, cosi qui si tenga ben presente che il lin­ guaggio musicale non è tutta la musica, e che le sue appa­ renti leggi sono in realtà delle convenzioni o delle codi­ ficazioni a posteriori di fenomeni storici, che è bene inda­ gare e conoscere, ma che non bisogna scambiare per la sola legge che regge la vita dello spirito e dell’arte, che è la libertà. Ciò premesso, e tenuto ben fermo il loro carattere di generalizzazioni inevitabilmente approssimative, in con­ fronto alla individuata concretezza delle opere d’arte, ben vengano in questo congresso le disamine e le discussioni

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sugli aspetti e sui problemi che presenta il contempora­ neo linguaggio musicale, sia nei suoi caratteri piu estesi e collettivi, sia nelle formulazioni particolari di singoli autori. Si discorrerà allora di rifioritura del contrappun­ to, di crisi della tonalità, di sostituzione del principio com­ positivo della variazione d’un solo tema a quello della dialettica bitematica ò pluritematica, di combinazioni rit­ miche e di ricerche timbriche, della progressiva riscossa degli strumenti a fiato che minacciano sempre piu la su­ premazia un tempo incontrastata degli archi come settore cantante dell’orchestra, e di tanti altri aspetti che qui verranno illustrati del linguaggio musicale contempora­ neo, e tanto piu utilmente se ne discorrerà quanto più si sia consapevoli della esatta portata di questi elementi, del posto importante ma parziale che essi occupano nella realtà piena della Musica, del loro carattere di distinzione convenzionale e provvisoria in seno a quella sintesi as­ soluta che è la creazione artistica.

In margine a un congresso

I temi proposti al congresso di musica svoltosi a Fi­ renze dal 14 al 17 maggio 1948 potevano dirsi, grosso modo, l’uno di natura teorica e critica (Problemi presenti del linguaggio musicale), e l’altro prevalentemente rivolto a interessi pratici (La musica nella vita contemporanea). Contrariamente a quanto si poteva prevedere, l’ultimo diede luogo alle discussioni più vivaci, sebbene tutti i relatori si trovassero sostanzialmente d’accordo nel rile­ vare alcuni punti fondamentali, e cioè come una delle ragioni della lamentata (e talvolta esagerata) scissione tra il pubblico e la musica moderna, sia l’assenza di una nu­ merosa e agguerrita classe di dilettanti di musica, e come a formare questa classe, che sarebbe veramente il tocca­ sana di molti dei mali che oggi affliggono la vita musi­ cale, sia necessaria un’estensione della cultura musicale nella scuola nazionale, in tutti i suoi gradi, a cominciare da un serio insegnamento del canto (lettura musicale e solfeggio) nelle scuole elementari, e poi insegnamento della storia della musica nelle scuole medie e nelle facoltà di Lettere, allo stesso titolo della storia dell’arte.

Strana e singolare concordia è stata quella rivelata dall’altro gruppo di relazioni, quelle che avevano per oggetto i Problemi presenti del linguaggio musicale. L’a­ scoltatore comune, il quale trova generalmente astrusa la musica moderna, e ritiene che ciò avvenga per un suo eccessivo compiacimento nei propri mezzi tecnici, sarebbe cascato dalle nuvole ascoltando un coro di patetiche af­

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fermazioni che il linguaggio musicale, in sé e per sé con­ siderato, non conta nulla, che la tecnica è niente e il cuore è tutto, che l’essenziale è di ritrovare le vie perdute della comune umanità, riaccostarsi all’espressione e al senti­ mento, dopo di che i problemi si risolvono da sé. Questo coro usciva tanto dalle bocche di musicisti e compositori, i quali spesso avevano l’aria di recitare il peccavi, quanto dalle bocche di critici, e soprattutto di studiosi d’estetica e di metodologia: i quali rischiarono di trasformare il congresso, con poche eccezioni, in una spietata requisi­ toria contro la musica moderna, fatta segno alle solite accuse di cerebralismo, intellettualismo, tecnicismo, scar­ so senso di umanità, aberrazione e, perfino, di porno­ grafia! Non è venuto in mente a nessuno (eppure non man­ cavano i filosofi) che la totale assenza di espressione è impossibile: è un concetto assurdo, un mostro logico che la mente non ha modo di pensare. La natura dell’espres­ sione artistica (che non è descrizione di alcuni singoli sentimenti, astrattamente oggettivati, ma è manifestazio­ ne d’una personalità individuale) è tale ch’essa non può mancare mai, in qualunque cosa l’uomo faccia, e anche se egli si propone, in sede teoretica, di escludere l’espres­ sione stessa (come fanno, o facevano, alcuni compositori contemporanei). L’espressione è il marchio che l’indivi­ duo lascia sulle proprie azioni, sulle proprie parole, sui propri gesti, e quindi anche sulle proprie costruzioni di suoni musicali o di linee plastiche, anche se per caso egli si proponga di combinare queste linee o questi suoni in maniera interamente astratta, senza volerli piegare a uno scopo espressivo. In realtà l’espressione si insinua allora a sua insaputa e contro la sua volontà in quelle combina­ zioni astratte di suoni o di linee, nelle quali egli dà, anche senza volerlo, la misura della propria personalità. Natura involontaria e inconsapevole dell’espressione artistica, la quale avviene come un processo di osmosi ineluttabile per cui le qualità umane del compositore si trasferiscono intimamente, «stingono», sulle sue produ­ zioni musicali, sia che egli si proponga di dar voce ai propri sentimenti, sia ch’egli pretenda esclusivamente di

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risolvere problemi tecnici di linguaggio musicale: questa era la parola chiave, che al congresso non abbiamo sen­ tita, e che avrebbe fatto giustizia degli equivoci in cui il congresso stesso si è lungamente attardato. Qualche esempio. Nessuno ha negato più esplicitamen­ te e accentuatamente la qualità espressiva della musica che Igor Strawinsky. «N’est-ce pas, en effet, lui (alla musica) demander l’impossible que d’attendre qu’elle ex­ prime des sentiments, qu’elle traduise des situations dramatiques, qu’elle imite enfin la Nature? » \ Ora Stra­ winsky è forse l’ùnico genio musicale che venga rico­ nosciuto, magari a denti stretti, anche dai più accaniti detrattori della musica contemporanea, ed è probabile che i vari relatori i quali hanno tuonato al congresso contro l’aridità umana della musica d’oggi, interrogati su questo punto, avrebbero riconosciuto alla produzione di Stra­ winsky, o almeno a parte di essa, un autentico valore artistico. È difficile negare che dai « giochi » inespressivi di Strawinsky emerga un’appassionante figura umana, iro­ nica e tormentata da una pena, che è poi la pena univer­ sale dell’uomo moderno, incapace, certo, dei confidenti abbandoni sentimentali in cui si compiacevano i roman­ tici, e di questa incapacità segretamente dolente e segre­ tamente orgoglioso. E anche questa non è umanità? Sol­ tanto Otello e Francesca da Rimini han da essere creature umane, e non anche più sottili ed elusive figure, come Amleto, Faust, Don Chisciotte? Che se poi è un certo genere di umanità che non piace, allora il processo all’arte del nostro tempo si trasforma in un processo al nostro tempo; e anche di questo si ebbe qualche accenno, fran­ camente spiacevole, al congresso. Un altro esempio. Si può essere ben certi che Casella non si proponeva di « esprimere » un bel niente quando scrisse Scarlattiana e Paganiniana. Voleva semplicemente esercitare la sua enorme destrezza musicale sopra alcuni temi di Scarlatti e di Paganini che gli piacevano e gli as­ sillavano la fantasia. Eppure proprio questi due lavori sono tra quelli che ci conservano il più e il meglio del1 Igor Strawinsky» Poétigue musicale, Paris 194.5, p. 116.

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la sua personalità umana, e che tramandano dell’uomo Casella ciò che nessuna malattia potrà mai più consu­ mare. Ma si dirà che questi sono moderni, che fanno tutti parte dell’arte « degenerata » dei nostri giorni. E va bene. Guardiamo Bach, allora. In Bach c’è tutto, come nella Bibbia e nei poemi omerici. In Bach c’è la musica che si propone realmente un compito espressivo (per esempio le Cantate e le Passioni) e c’è la musica che tale compito non si propone, ma nasce unicamente da sollecitazioni di natura tecnica, di artigianato musicale: VArte della fuga, VOfferta musicale, il Clavicembalo ben temperato. È bra­ vo chi dimostra che cosa volesse esprimere Bach nel Clavicembalo ben temperato, sia preso nel suo insieme, sia in ognuno dei singoli preludi e fughe. Eppure anche qui Bach ha espresso, senza volerlo, se stesso, quella enor­ me testimonianza umana ch’era la sua personalità. Restiamo ancora un momento in casa sua. Diamo un’oc­ chiata ai figli suoi, specialmente a Filippo Emanuele e Giovanni Cristiano. Questi fanno di tutto per «espri­ mere»: la loro musica fa letteralmente le smorfie, si di­ mena, sculetta, per esprimere qualcosa. E non dico che non ci riesca: esprime - sì, si - esprime le loro riverite personalità in tutti gli atteggiamenti ch’essi vogliono as­ sumere. Il guaio è che essi sono - specialmente Giovanni Cristiano - omettini abbastanza comuni, nonostante la loro buona volontà di rivelare al prossimo i propri senti­ menti, e il padre loro, invece, era quel Padreterno che tutti sanno, e questo si vedeva sempre, qualunque co­ sa egli facesse o scrivesse, Arte della fuga compresa: con buona pace di chi dice che è soltanto un’esercita­ zione. La qualità volontaria dell’espressione musicale, già da lungo tempo presente nel canto, entra nella musica stru­ mentale all’incirca sulle soglie del Settecento. Basta met­ tere a confronto un Concerto grosso di Stradella con un Concertino di Pergolesi per rendersi conto che qualcosa del genere è successo in quest’epoca. Qualcosa che forse potrebbe anche fornire lo spunto per una definizione esau­ riente e interiore del romanticismo come arte in cui l’e-

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spressione viene cercata di proposito come uno scopo consapevole e del classico come arte dell’espressione in­ volontaria, attuata per un fenomeno naturale di osmosi. (1948).

V.

Il contributo dell’esperienza musicale all’estetica

Il gran bersaglio, oggi, è l’estetica crociana. E lo si vede praticare, questo tiro al bersaglio, con tanta inettitudine da gente che non ha sentito nemmeno il bisogno di pro­ curarsi la conoscenza diretta dei testi, e scaglia certe palle mal confezionate di stracci acquistati proprio, senza che i tiratori lo sospettino, alla bancarella dell’estetica cro­ ciana, che lo spettacolo di tanta improntitudine è fatto per render cauto chi volesse tentare un equo bilancio storico della grandiosa esperienza culturale che ha alimen­ tato la critica delle arti in Italia durante mezzo secolo. Non è allettante il rischio di confondersi con lo sciame di Davidi in diciottesimo comicamente indaffarati a tendere una fionda, di cui legno ed elastico sono stati forniti loro da Golia. Ma col passar degli anni, e man mano che questo pa­ trimonio d’idee vien sempre piu definitivamente assimi­ lato, e si determina un distacco nel tempo che consente lo stabilirsi della normale prospettiva storica, si apre la possibilità di valutare serenamente questo fenomeno e di riconoscerne gli eventuali limiti, anche servendosi di quegli stessi criteri di giudizio appresi alla scuola del pen­ siero crociano. Non si tratta tanto di scoprire vizi intrinseci ed even­ tuali contraddizioni interne del sistema, quanto piuttosto di rendersi conto delle circostanze storiche in cui esso ebbe a formarsi e che mossero il Croce ad accentuarne e svilupparne maggiormente certi aspetti, e altri lasciarne in ombra, secondo che lo richiedevano le condizioni e le tendenze della cultura d’allora. Condizioni e tendenze che

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sono naturalmente mutate nel corso di cinquantanni (an­ che per l’azione assidua esercitata appunto dal Croce), sicché certi postulati dell’estetica crociana ci sembrano ormai sfondare delle porte aperte; d’altra parte si sono sviluppati in noi i germi d’altre curiosità, d’altri bisogni intellettuali non interamente soddisfatti dalle enunciazio­ ni che il Croce è pur venuto successivamente apprestando della sua estetica, anch’egli sensibile ai mutamenti del clima culturale. Non è detto, tuttavia, che tali nuovi bi­ sogni la contraddicano necessariamente e non possano trovarvi risposta, sol che si voglia fare - senza presumere di scoprir l’America - ciò di cui il Croce stesso ha dato l’esempio: svilupparne, cioè, nuove formulazioni, ade­ guate ai nuovi punti di vista in cui la storia, nel suo cam­ mino inarrestabile, ci viene ponendo. Per rendersi conto del genere d’insoddisfazioni che oggi può produrre l’estetica crociana, basterà tener pre­ sente ch’essa si formò in tempi di positivismo trionfante, e rientrava nel più ampio disegno di ristabilire una con­ cezione idealistica della vita. Oggi il pendolo è all’estremo opposto, e nella sazietà ingenerata dall’orgia idealistica (tanto che lo stesso Croce ha cercato di differenziarsene, accentuando il carattere storicistico del proprio pensiero e attribuendogli a un certo punto la qualifica di spirituali­ smo) quasi quasi par di scorgere tra le ceneri delle disfatte posizioni positiviste avanzi che potrebbero essere di qual­ che utilità, istanze che non sentiamo poi interamente estranee e infondate. Le cose stanno a questo punto. A una restaurazione del positivismo non è nemmeno lontanamente da pensare. Ma scendere dal piede di guerra, uscire dalla posizione di antitesi che ieri s’imponeva, andare a razzolare anche in quei campi, come in ogni altro della storia, questo già si comincia a fare, in varia misura, secondo le capacità e le attitudini di ognuno, nei vari campi di studio, con quell’apparente dispersione individualistica che è poi il modo di procedere libero del pensiero filosofico: a coor­ dinarne gli elementi in conveniente organizzazione collet­ tiva provvede la storia. Lasciando che chi è da tanto proceda, in sede conve­

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niente, a quest’opera di parziale ricupero dei resti d’un passato che finora le circostanze storiche avevano impo­ sto di avversare duramente, si può additare nelle que­ stioni riguardanti la tecnica, la sua posizione e la sua fun­ zione nelle arti, uno dei punti dell’estetica crociana che ha destato e continua a destare diffidenze. E non è un caso che le principali resistenze, e anche le più importanti precisazioni, siano venute su questo punto dall’estensione dell’estetica crociana alla critica delle arti figurative e alla critica musicale. In nessuna forma d’arte come nella mu­ sica le norme del linguaggio - in sé prese, indipendente­ mente dalla presenza o meno d’un’intuizione lirica — costituiscono un monumento intellettuale cosi affascinan­ te e augusto, un lascito secolare di acquisizioni accumu­ late, di cui non è possibile sbarazzarsi alla svelta assimi­ landolo all’ufficio di corregger le bozze di stampa dei propri versi: l’armonia e il contrappunto non sono la musica, ma certo sono ben altra cosa che l’abilità di tem­ perarsi la matita, sono una costruzione dell’intelletto umano non meno mirabile che la matematica e la geome­ tria. « Se è vero che l’arte è una sola » - cito da una lettera privata di Matteo Marangoni che mi additava la frazione di verità nascosta in quel vezzo, cosi frequente, di attri­ buire alla musica una posizione privilegiata rispetto alle altre arti - « i linguaggi, non solo sono mille, ma sono suscettibili di evoluzione, e a me pare appunto che il lin­ guaggio musicale sia infinitamente piu evoluto di quello verbale o figurativo, e che poeti e pittori d’oggi sentano questo e tentino di adeguarvisi. (Probabilmente la mu­ sica è nata millenni e millenni prima delle due arti so­ relle - come forse anche la danza - e forse per questo possiede quel miracoloso linguaggio)». La presenza di questo «miracoloso linguaggio» ha un’importanza decisiva nella musica, e il Riemann ha spie­ gato in una pagina magistrale perché quest’arte sia più d’ogni altra aperta al pericolo del cosiddetto tecnicismo. « La linea sonora unilaterale ha dato luogo a un vasto e ricco dominio musicale, dove i concatenamenti e le inter­ sezioni multiple delle voci si realizzano con l’apparenza d’un divenire, d’un libero spostamento in tutte le dire­

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zioni dello spazio. Per poco che si pensi al suono isolato, astratto, d’intonazione determinata, e si facciano i con­ fronti del caso, si comprenderà quanto sia piu ricca e piu vasta la nozione dell’armonia maggiore e minore, o me­ glio ancora quella della tonalità e della modulazione, si­ mile a un immenso teatro in cui si rivelino tutti i moti dell’anima umana!... Possiamo pertanto comprendere co­ me sia possibile al musicista perdersi in un dominio pura­ mente formale, dimenticare del tutto l’elemento attivo, il primum agens d’ogni arte autentica, trascurare ciò che deve andare innanzi tutto: l’espressione spontanea di sen­ timenti naturali. La gioia che l’artista prova ad elaborare gli elementi materiali della sua opera può infatti fargli perdere di vista la creazione propriamente detta... Gioca allora con le forme d’espressione della vita spirituale, e questo gioco può avere al più alto grado l’apparenza della verità. Cosi si spiega il successo di certe opere d’arte di cui è nullo il contenuto spirituale, ma la cui forma per­ fetta fa appello a tutte le risorse tecniche dell’epoca » l.

Proprio grazie alla coscienza di questo « miracoloso lin­ guaggio» hanno potuto venire dalla critica musicale al­ cune delle più importanti chiarificazioni interne prodot­ tesi di recente in seno all’estetica crociana. Per esempio, l’incontro dell’estetica crociana con un vigoroso indirizzo della musica moderna che tendeva alla massima valutazio­ ne degli elementi più specificamente e strettamente musi­ cali (fino al punto di negare paradossalmente alla musica ogni attitudine all’espressione) ha prodotto quell’opera di precisazione del concetto di unità dell’arte, che si è svolta durante un decennio sulle pagine della «Rassegna Mu­ sicale» e che il Parente ha sintetizzato nel suo volume La musica e le arti, risuscitando il motivo di vero che po­ teva esservi nell’errore lessinghiano della distinzione del­ le arti, e ponendo bene in chiaro che unità (o, più propria­ mente, unicità) dell’arte è ben altra cosa che unità delle arti. E da questo primo acquisto, sempre sospinti dal pun1 H.

Riemann,

Elemente der musikalischen Aesthetik, 1900, cap. X.

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to di vista particolare che ai musicisti deriva dalla non comune importanza dei fattori tecnici nella loro arte,, si è proceduti a una soddisfacente definizione del concetto di «espressione», salvando, anche qui, quanto c’era da salvare nella eccessiva ma non interamente infondata bat­ taglia combattuta dallo Hanslick (e prima di lui dal Grillparzer) contro i fraintendimenti della qualità espressiva nella musica. Nessuno di questi successivi aggiustamenti alle neces­ sità che sorgono dal nostro lavoro di critici musicali, pre­ tende d’avere il carattere d’una sovversione o d’una con­ futazione dell’estetica crociana: tutti si svolgono nel suo àmbito, coi mezzi e i criteri ch’essa stessa fornisce. Se poi, a causa di questo lavorio interno, essa dovesse trovarsi un giorno altra da quello che era, nessuno se n’avrà a dolere, salvo forse pochi dei crociani più inveterati e pe­ danti: certamente non se ne dorrà il Croce, il quale sa benissimo che finché la sua estetica muta, vuol dire che è sempre viva. Ci troviamo in presenza di uno sforzo generale, che si va facendo sempre più palese ai nostri giorni, di sostan­ ziare le teorizzazioni dell’estetica con l’esperienza tecnica concreta delle singole arti. L’estetica - e non stiamo a distinguere quale - è stata fondata e svolta prevalente­ mente da filosofi, da professori, da letterati: gente che, quand’anche non erano poeti o narratori, facevano pure in qualche modo professione di scrittori. La parola era il loro mezzo d’espressione ed essi ne conoscevano, chi più chi meno, i segreti. Sicché l’estetica, anche quando ha affermato l’unicità dell’arte, si è venuta formando sopra una tacita predilezione per le forme dell’arte che si ser­ vono della parola: a queste si volgono, in maggioranza, i riferimenti, le prove, i controlli e le dimostrazioni di cui si sono serviti i fondatori dell’estetica moderna. Ora non si compromette affatto l’affermazione dell’u­ nica natura dell’arte, se si riconosce che i cultori delle al­ tre arti, i critici non letterari, hanno avvertito a volte di questo fatto un certo disagio; e da alcuni decenni lavo­ rano ad assestarsi nell’àmbito dell’estetica moderna. Non che si vogliano confutare le verità generali acquisite dai

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maestri avendo l’occhio alla poesia; ma queste stesse ve­ rità occorre riconquistare, movendo dalle esperienze figu­ rative o musicali; bisogna arrivarci, da altri punti di vista e di partenza, seguendo altro cammino. Ecco perché in questi ultimi anni si sono fatti cosi fre­ quenti, ed hanno tanta fortuna, gli studi sulla natura della musica, sulla miglior maniera di ascoltarla e d’intenderla, e sul modo di operare d’ognuno dei suoi elementi. Quasi non v’è musicista, o musicologo e critico musicale, che non abbia sognato di scrivere un giorno un ideale Saper ascoltare*, un libro, cioè, in cui venisse sviscerato il mo­ dus operandi della musica, e i suoi elementi tecnici venis­ sero illustrati nella loro forza espressiva. Una gramma­ tica, insomma, e una sintassi della musica, dove tutte le nozioni che noi possediamo e conserviamo nell’ordine ge­ netico della cronologia storica, venissero provvisoriamen­ te raggruppate secondo un altro ordine, in una probante raccolta di exempla elocutìonum disposti intorno ai sin­ goli elementi dell’armonia, del ritmo, della strumenta­ zione. Proprio come avviene nella grammatica e nella sintassi, dove le opere dei grandi scrittori, momentanea­ mente, non vengono studiate come monumenti del loro mondo poetico e messaggi di valore spirituale, bensì come esempi di consecutio temporum, di impiego del­ l’imperfetto dubitativo, di anacoluti e traslati e via di­ cendo. Naturalmente, studi di questo genere sono sempre esi­ stiti, e prosperavano specialmente ai tempi del positivi­ smo, prendendo le mosse dai dati della psicologia. Ma vegetavano in un artificioso isolamento e facendosi scopo a se stessi davano luogo a « scienze » mirabolanti e arbi­ trarie come le varie teorie dell’armonia. Oggi occorre compiere questi lavori - che respingono momentanea­ mente il criterio storico per un metodo di ordinamento classificatorio simile a quello delle scienze naturali - con­ servando un atteggiamento interiore squisitamente stori­ cistico, onde sfuggire alle tentazioni d’un determinismo espressivo in cui incappò anche il Riemann, quando pre­ tendeva di riconoscere « il valore emotivo determinato di

IL CONTRIBUTO DELL’ESPERIENZA MUSICALE

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ciascuno degli elementi dell’arte » \ quali un accordo, un intervallo, un ritmo, il moto ascendente e discendente, ecc. Questa coscienza storicistica può giungere al punto di minare la nostra convinzione circa la possibilità e la legit­ timità di un Saper ascoltare dove gli elementi del linguag­ gio musicale vengano esaminati uno per uno nella loro efficacia. Può generare il dubbio che questo lavoro so­ gnato sia, in realtà, impossibile e debba necessariamente disciogliersi nell’esercizio della critica e del giudizio este­ tico rivolto a questa o a quella opera nella sua integrità12*. Dubbi che bisogna avere, obiezioni che ci si deve por­ re, e che devono appunto determinare la disposizione con­ sapevole e cauta con cui oggi è bene riprendere quegli studi viziati dall’indirizzo positivistico della loro impo­ stazione, ma non per questo da respingersi in blocco, se è vero che occorre pur studiare una lingua per valutare l’altezza spirituale del messaggio che in essa ci viene ri­ volto. Come dice con compiaciuto paradosso il Wòlfflin, «è proprio necessario aver imparato il giapponese per intendere un disegno giapponese. E cioè, non è necessario conoscere la lingua giapponese, ma avere la comprensione dell’immagine quale l’hanno i giapponesi » s. A chi tenta, munito delle dovute cautele storicistiche, di far luce sulla natura del linguaggio musicale e sul suo modus operand^ non serve obiettare, come è stato fatto da qualche crociano ultraortodosso, che «capire la mu­ sica » non è altro che « capire l’arte », e chiedergli « per­ ché solo la trama del discorso musicale gli suggerisce il quesito e non pure quella del discorso parlato, o di figure, colori, linee »4. Sarebbe come dire che per gustare Omero non occorre capire il greco, basta capire la poesia. E cer­ tamente anche la trama del discorso parlato e quella del discorso figurativo suggeriscono lo stesso quesito — e come 1 H. RIEMANN, Op. cit,, Cflp. IV. 2 Cfr. sopra, p. 27. J H. wòlfflin, Avvicinamento all’opera d’arte, Milano 1948, p. 50. 4 G. pannain, Capire la musica, in «La Rassegna Musicale», aprile 1948, pp. 130-32, con riferimento al saggio Capire la musica che costi­ tuisce il cap. Ili di questo volume.

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no? -, del quale però non può utilmente occuparsi un critico musicale, proprio perché non è vero che « la mu­ sica presenti un suo modo di estrinsecarsi che richiede, per l’intelligenza, un’operazione intellettuale qualitativa­ mente non diversa da quella che richiedono poesia, pit­ tura, architettura e tutte le arti che vogliate». Ma che altro stanno facendo, per le arti figurative, il Wólfilin, il Marangoni e il Venturi, con le loro numerose opere pro­ pedeutiche, tutte fondate e giustificate sull’afferrtiazione basilare del Wòlfflin che «il vedere è qualchecosa che deve essere appreso»?

In questo momento decisivo dell’azione esercitata su­ gli studi estetici dai critici delle arti figurative e della mu­ sica, presenta un particolare interese U concorso di coloro che, provenendo dagli studi di teoria musicale, a fonda­ mento psicologico e scientifico, ne abbiano sentito l’in­ sufficienza e provino il bisogno di staccarli dal loro isola­ mento, chiamandoli alla gran luce diffusa dalla filosofia, in particolare dall’estetica. D’altra parte avviene paralle­ lamente che numerosi studiosi della musica, di formazione prevalentemente filosofica, sentano un crescente fastidio della vacua astrattezza di un’estetica che prescinde dalle esperienze specifiche dell’arte da loro coltivata o studia­ ta; perciò essi si rivolgono magari con rinnovata speranza alle vecchie ricerche positivistiche sulla «natura» e le «leggi» della musica, per vedere cosa di buono se ne possa cavare, onde sostanziare gli schemi vuoti della loro metodologia estetica. Il movimento convergente di que­ ste due categorie di studiosi è in corso e non è ancora dato prevedere quando riuscirà a qualcuno di operare la sin­ tesi delle nozioni elaborate dagli uni e dagli altri. (1949)-

VI.

Fondamenti storici d’una teoria dell’atto musicale

Un artiste n’a pas besoin d’exprimer directement sa pensée dans sonouvrage, pour que celui-ci en reflète la qualité.

(m. proust, Le cóté de Guermantes, HI, 45)

L’equivoco dell’oggettivismo e il suo senso positivo

La teoria dell’atto musicale che qui si cerca di formu­ lare e il modo d’intendere la musica che in questo libro si propugna - modo consapevole, attivo, fondato su una vigile collaborazione intellettuale dell’ascoltatore storica­ mente preparato - non sono frutto di una particolare vo­ cazione ai teorizzamenti estetici. Nascono invece da esi­ genze incontrate nell’esercizio della critica musicale e del­ la storia della musica, attraverso una maturazione di espe­ rienze successive che si rispecchiano, grosso modo, nei capitoli del libro stesso. Questa teoria dell’atto musicale e questo modo d’in­ tendere la musica occorre quindi riportarli alla congiun­ tura storica da cui sono stati generati, e cioè al bisogno di estendere la validità dell’estetica crociana a tutti i fe­ nomeni dell’arte, compresi quelli dell’arte moderna che il Croce e i più autorevoli dei suoi continuatori coinvol­ gono in un’antistorica condanna. (Fatta eccezione per il Flora, il quale ha svolto nel campo della critica letteraria un’azione analoga a quella esercitata sull’estetica dalla critica delle arti figurative e dalla critica musicale). Occorre ricostruire la situazione in cui si vennero a trovare, tra l’una e l’altra guerra, molti giovani persuasi delle verità fondamentali dell’estetica idealistica, e nello stesso tempo entusiasticamente partecipi degli ideali, del­ le aspirazioni e dei gusti di cui è materiata l’arte del nostro tempo, quell’arte che il Croce e molti crociani condan­ navano in nome del loro concetto dell’arte, guardandola con l’avversione e il dispetto dell’anitra che da una delle

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uova covate veda schiudere un piccolo cigno: per lei, un incomprensibile brutto anatroccolo. Si trattava, da una parte, di salvare quel concetto senza condividere quella condanna; e, dall’altra, di raddrizzare le compromettenti storture teoriche che molti artisti, non contenti di lavorare all’arte loro, enunciavano incauta­ mente, anche per reazione polemica all’incomprensione cui erano fatti segno, fabbricandosi « poetiche » che pare­ vano fatte apposta per confermare come l’arte da loro praticata esorbitasse da quel concetto dell’arte che a noi premeva, sostanzialmente e previ alcuni chiarimenti, di salvare. Il concetto di espressione era al centro di tali polemi­ che. Esso era l’oggetto di quegli aggiustamenti teorici di cui era sentito il bisogno da chi riconosceva nelle migliori manifestazioni dell’arte moderna la stessa qualità dei ca­ polavori del passato e inoltre, grazie a un naturale buon senso storico, si rifiutava di credere che le facoltà artisti­ che e creative fossero misteriosamente venute meno nel­ l’uomo moderno in un’epoca imprecisata della seconda metà dell’ottocento. Nel campo musicale la battaglia si accese nell’intervallo fra le due guerre con l’avvento, sa­ lutato con entusiasmo o con costernazione, secondo i gu­ sti, di una musica detta oggettiva, o pura, o come altri­ menti la si chiamasse: una musica, cioè, che badava a porre l’accento soprattutto sugli aspetti tecnici della co­ struzione, sulla bontà della fattura, prescindendo dai va­ lori dell’espressione e magari proclamandone apertamente l’esclusione. Insomma, la polemica contro il romanti­ cismo. Era l’affermazione di nuovi « sentimenti », diversi da quelli alimentati dal romanticismo, di una nuova menta­ lità, di nuovi valori umani, di una nuova condizione sto­ rica: in una parola, di un uomo nuovo, diverso dall’uomo del romanticismo, che anch’egli chiedeva all’arte la pro­ pria espressione. Ma la battaglia si attuava attraverso un doppio errore: da una parte, il naturale bisogno di sosti­ tuire i sentimenti espressi dall’arte romantica, che l’arti­ sta nuovo si trovava sulla strada sotto forma di una grande tradizione degenerata in uno stanco epigonismo, si atteg-

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giava addirittura in un’imprudente polemica contro la realtà dell’espressione e del sentimento dell’arte. Dall’al­ tra parte, per contro, si resisteva con antistorica ostina­ zione a questa sostituzione naturale, voluta dal moto della storia né più né meno come le tante altre sostituzioni di valori umani che l’arte del passato aveva conosciuto, e si tendeva a paralizzare il concetto deU’arte come espres­ sione in un’arbitraria canonizzazione dell’arte romantica 1 Ciò riesce abbastanza evidente nell’importante saggio di Alfredo Il rinnovamento della storia della musica, uscito nei «Quaderni della Critica » di luglio 1949. Quivi è esplicitamente affermato che « il pro­ blema del romanticismo è un’occasione per mettere a fuoco, attraverso lo spiccato e prevalente carattere di un’epoca, un criterio universale e categoriale d’interpretazione storica, rispondente cioè a quell’insorgere del sentimento che è la condizione stessa dell’arte, e della formazione di ogni personalità e di ogni-opera». Il che vuol dire, se ben si comprende, proporre a paradigma dell’arte la musica dell’Ottocento, «secolo che è ancora nostro e vivo, al di qua 0 al di sotto e nonostante le esperienze che ci viene cumulando su il poco romantico Novecento», e circoscrivere la fioritura vitale della musica in un’epoca compresa all’incirca fra il 1770 e il 1890. Ora non è detto che nel 1949 tutti debbano condividere l’opinione del Parente Sull’Ottocento, «secolo che è ancora nostro e vivo». Siamo in molti che, interrogandoci sinceramente, dobbiamo confessare, senz’ombra di iattanza, e unicamente per abitudine di schiettezza, che non ci sentiamo uomini dell’ottocento. Si badi: è una constatazione, un’umilissima con­ statazione d’un dato di fatto, non una proclamazione polemica. Ora è chiaro che chi si trova nelle nostre condizioni dovrà: o respingere in bloc­ co un’estetica che impone di misurare tutte le manifestazioni dell’arte uni­ versale con il metro dell’arte ottocentesca; 0 considerare se questa cano­ nizzazione dell’Ottocento sia proprio strettamente inerente sfila sostanza stessa del pensiero di questa estetica. Nell’esame, del resto cosi lusinghiero, che il Parente dedica alla mia Breve storia della musica, la sola cosa che gli dispiace è il tentativo d’in­ terpretare tutta la musica, dal piu lontano passato fino ai giorni nostri, secondo il criterio dell’arte intesa come espressione. Il che mi fu possibile grazie all’escogitazione del chiarimento sulla natura involontaria e incon­ sapevole della espressione artistica. Ma il Parente non mi perdona d’aver modificato l’accezione ottocentesca dei termini «espressione» e «senti­ mento», per «tentare il salvataggio dei post e antiromantici». Per i quali, evidentemente, non c’è salvezza di fronte all’ortodossia crociana: arte e romanticismo, poesia e ròmanticismo, bellezza e romanticismo, sono sino­ nimi. Il capitolo della Breve storia della musica in cui ho cercato d’illu­ strare il contenuto dell’arte con temporanea, i nuovi valori umani che ne sono - per usare termini del Parente stesso - « il sottinteso o la preisto­ ria» e che si sostituiscono a quelli che fecero la grandezza dell’Ottocento, tutto ciò sembra al Parente «un fugace smarrimento di fronte al feno­ meno della reazione musicale antiromantica dei tempi nostri». Ed egli mi sfida «a intendere il mio Mozart alla stregua di simili concetti». Ora, ciò ch’egli qui chiama impropriamente «concetti», sono sempli­ cemente esemplificazioni descrittive e storicamente individuate di un con­ cetto, il solito concetto dell’arte-espressione, in cui entrambi crediamo. parente,

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Certo, se si approvasse l’impostazione proposta dai compositori contemporanei e dai loro fautori (il com’ pendio più brillante e acuto di simile posizione resta la Poétique musicale di Strawinsky), se si accettasse incon­ dizionatamente l’uso odierno del termine oggettivismo in relazione alla musica, senza cercare di scoprire quale si­ tuazione storica si nasconde sotto la superficie del signi­ ficato convenzionale delle parole, non ci si potrebbe esi­ mere da una condanna della musica cosiddetta oggettiva, come quella che contravviene alla natura fondamentale dell’arte. Oggettivismo ed espressione sono infatti ter­ mini antitetici. L’espressione non può essere che sogget­ tiva. Espressione oggettiva è un connubio di parole che suona tanto oscuro quanto il titolo di pappataci alle orec­ chie di Mustafà n&'Italiana in Algeri:

Pappataci! che mai sento? La ringrazio, son contento. Ma, di grazia, Pappataci che vuol poi, che vuol poi significar? Chi vuole esprimere qualchecosa (supposto che si possa «esprimere qualchecosa» e non unicamente se stesso) deve, questo qualchecosa, appropriarsene, assimilarlo, farEgli chiama «concetti» il tentativo di descrivere l’anima dell’uomo mo­ derno, quale si manifesta nelle musiche del nostro secolo. Invece io ho interpretato Mozart appunto con lo stesso concetto dell’arte - espressione di sentimento - con cui intendo Strawinsky e Hindemith. Naturalmente non vi ho cercato l’espressione di quello stesso sentimento che trovo in Strawinsky, e nemmeno di quello che trovo in Palestrina o in Verdi. Mu­ tano i termini della sintesi estetica, ma il meccanismo della sintesi è sem­ pre quello. È chiaro che qui si è a un bivio, in cui bisogna decidersi: o inten­ diamo per espressione artistica codesta sintesi di sentimento (storicamente e individualmente variabile) e di forma, oppure esigiamo la presenza nella sintesi di una determinata qualità di sentimento: quella che vigoreggiò e piacque nell’ottocento e che fece la grandezza dell’arte romantica. O in­ tendiamo per «sentimento» qualsiasi manifestazione della qualità dell’uo­ mo, sotto tutti i climi, in tutte le condizioni, storiche e individuali, ben persuasi che nulla di umano l’arte reputi alieno da sé; oppure circoscri­ viamo la portata del termine «sentimento» a un’accezione tutta ottocen­ tesca e, oserei dire, partenopea, grazie alla quale soltanto è possibile giun­ gere ad affermazioni strabilianti, come quella che Vincenzo Bellini sia da considerare «la piu alta e serena cima cui giunga la musica dell’intero Ottocento».

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ne un elemento di sé: cioè si ritorna li, non si «esprime qualchecosa », ma soltanto se stesso, per cui oggettivismo ed espressione sono termini incompatibili. (Va da sé che è lecitissimo parlare di espressione oggettiva, quando l’aggettivo derivi da « oggettività », e non da « oggettivi­ smo» nell’accezione storica qui sopra precisata: quando cioè si voglia designare il necessario predicato di univer­ salità dell’arte, il «carattere di totalità dell’espressione artistica », che è argomento d’un saggio fondamentale del Croce). D’altra parte l’espressione è la nota fondamentale di cui non ci vogliamo privare nella nostra concezione del­ l’arte. E quindi ogni musica la quale possa esser convinta di oggettivismo, dev’esser condannata come una mani­ festazione aberrante: come non condannare, pertanto, la musica che si autoproclama oggettiva? Poiché invece sen­ tiamo nei migliori saggi di questa musica la presenza della stessa « qualità » estetica che riscontriamo nei capolavori del passato, s’impone la necessità di ricercare gli equivoci che si annidano nell’uso convenzionale del termine «espressione », equivoci che hanno reso possibile il sorgere di una definizione tanto compromettente, come è quella di musica, o arte oggettiva. L’espressione, dicevamo, è la nota fondamentale della nostra concezione dell’arte. È quella con cui abbiamo so­ stituito l’antico criterio della bellezza, che non si potrebbe ripristinare senza generare un mare di equivoci. Ma quale espressione? È qui che, a costo di rendermi ridicolo e proverbiale per la ripetizione ostinata d’un medesimo ar­ gomento, devo ribadire per l’ennesima volta quella idea che ormai da anni vengo svolgendo, senza la quale sono convinto che non ci sia possibilità di chiarezza e di reci­ proca intesa nel campo dei nostri studi. È l’idea della natura involontaria, inconsapevole, dell’espressione artistica. L’espressione, in cui diciamo consistere la natura del­ l’arte, non è qualcosa di cercato, non è una « espressione fatta apposta». L’espressione in cui consiste la natura dell’arte non è espressione voluta di qualchecosa, ma è la presenza inevitabile della persona umana, diversamente

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individuata nei singoli artisti, come compendio vivente, e quindi sempre in via di trasformazione, d’un concorso di circostanze storiche. È quel complesso inscindibile di note psicologiche per cui Mozart è Mozart, e non è Haydn, Bach non è Haendel e Debussy non è Ravel. L’espressione artistica è la manifestazione di quell’« ente persona » per cui due o più individui che dicano le stesse cose, le dicono in realtà con diverso tono e calore di voce, con diversi gesti, con diverso atteggiamento, tanto che alla fin fine l’uomo accorto, che vuol sapere qual conto fare del pro­ prio prossimo, bada più a questi segni concomitanti, che non alle parole pronunciate. Infelice Donna Anna, se cre­ derai alla lettera delle parole di Don Giovanni, quando ti s’inchina cavallerescamente: «Comandate... i congiunti, i parenti, questa man, questo ferro, i beni, il sangue spen­ derò per servirvi», e non baderai invece a quel piglio sfrontato, al cupido lampo dello sguardo, a quella volu­ bilità disinvolta che nasconde la doppiezza! Anche il tuo mite e fedele Ottavio ti ha detto su per giù le stesse cose, ti ha espresso lo stesso sentimento di devozione: «io sento in petto e di sposo e d’amico il dover che mi parla » : ma con quale diversità d’accento, che rende le sue parole tanto degne di fiducia quanto poco lo sono quelle di Don Giovanni! E infatti Donna Anna non è insensibile a que­ ste che solo agli orbi posson parere sfumature. Poco ol­ tre, appena Don Giovanni si è congedato galantemente da lei: «Perdonate, bellissima Donna Anna: se servirvi poss’io, in mia casa v’aspetto », ella caccia un gran grido: «Don Ottavio! son morta!» «Cos’è stato?» chiede il duca Ottavio, sempre un po’ tardo a comprendere e ad agire, tanto quanto quell’altro è pronto. È successo che Donna Anna, da quelle parole innocenti e convenzionali, o meglio dal tono con cui sono state pronunciate, dalla lascivia della voce, del gesto, dello sguardo, ha ricono­ sciuto come in un lampo colui che aveva attentato al suo onore ed era stato il carnefice del padre suo: «... gli ul­ timi accenti che l’empio proferì, tutta la voce richiamar nel cor mio di quell’indegno, che nel mio appartamen­ to... » Ecco: Don Giovanni ha espresso la.sua natura di libertino. Certamente non intendeva farlo: era contro

fondamenti d’una teoria dell’atto MUSICALE

III

ogni suo interesse. Di questa natura involontaria e incon­ sapevole è l’espressione artistica. Se ciò fosse stato riconosciuto e se ne fossero accettate apertamente le conseguenze, soprattutto le esclusioni, molto probabilmente non sarebbe avvenuto che certi ar­ tisti, stufi di sentirsi accusare e di sentirsi porre esigenze inaccettabili, in nome d’un male inteso concetto dell’e­ spressione, inventassero quell’altro mostro logico che è l’arte oggettiva e ne facessero la parola d’ordine d’una polemica destinata a confondere le idee e a determinare in noi una specie di conflitto tra la critica e l’estetica. Come critici, infatti, vedevamo in alcuni dei compositori che si erano fatti paladini dell’oggettivismo musicale, personalità tra le più spiccate e incisive del nostro tempo: proprio come Don Giovanni non poteva fare a meno d’im­ prontare della propria natura dissoluta ogni propria ma­ nifestazione, così Strawinsky e Hindemith, poniamo, la­ sciano di sé una traccia incancellabile e inconfondibile in ogni combinazione di suoni che loro avvenga di produrre con la proustiana «allégresse du fabricateur », cioè con quel gusto dell’artigianato musicale, di cui si è fatto tanto abuso nella critica musicale recente: ma bisogna saper resistere al fastidio dei luoghi comuni di moda, e non perder d’occhio la verità storica che vi si annida. Come seguaci dell’estetica che si fonda sul concetto di espres­ sione, venivamo invece invitati a condannare questi arti­ sti che proclamando il verbo dell’oggettivismo musicale bandivano coerentemente dalla musica la possibilità di espressione. L’equivoco si sana appunto col risoluto riconoscimento della natura inconsapevole e involontaria dell’espressio­ ne artistica, riconoscimento che è possibile avallare con alcune testimonianze non sospette, come quella già ricor­ data di Schumann il quale scriveva: « Si sbaglia di certo, se si crede che i compositori si mettano innanzi penna e calamaio nel misero proposito d’esprimere, descrivere e colorire questa cosa o quella ». Oppure quella di Chopin, che a proposito d’una scultura, un piccolo busto ch’era stato fatto del suo figlioccio, si avvicinava in questo modo al concetto dell’espressione inconsapevole: «La sua fi-

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sionomia è in realtà assai più geniale, ma senza dubbio l’autore del busto è un uomo comune, e ha lasciato, suo malgrado, la sua impronta». O, ancora, la testimonianza di Wagner, particolarmente importante, perché non ca­ suale né metaforica, ma risultato di un colloquio con Ber­ lioz proprio « sopra questioni artistiche approfondite », e precisamente «sul segreto della concezione artistica ». « Intendevo designare con questo nome, - scrive Wagner nella sua Autobiografia l, - l’azione che le impressioni della vita esercitano sull’animo nostro: esse ci tengono a loro modo prigionieri, finché noi ce ne liberiamo com­ pletamente grazie al processo d’elaborazione individuale delle forme interiori dell’anima, forme che non vengono in alcun modo prodotte da quelle impressioni esterne, ma ne sono soltanto eccitate e scosse dal loro profondo sonno, cosicché l’immagine artistica non ci appare in nessun modo come l’effetto delle impressioni che la vita ci fornisce, bensì, al contrario, una liberazione da queste impressioni. A questo punto Berlioz ebbe un sorriso d’in­ telligente condiscendenza, e disse: "Nous appellons cela: digérer” ». Non meno significativa, per la sua insolita provenienza, la testimonianza fornita da una canzone popolaresca ar­ gentina, una samba, di cui mi è stato possibile avere pre­ cisa informazione grazie alla cortesia del maestro Nataletti, del Centro nazionale di studi di musica popolare. In questa samba, dunque, cantata da due voci virili con accompagnamento di chitarra, c’è un innamorato che si lamenta dell’indifferenza della sua bella, coi soliti riferi­ menti ai sospiri del suo corazón. Ma il ritornello della samba se ne esce in questa sorprendente affermazione: « Io canto la samba, non canto la tristezza del mio cuo­ re, anche se può accadere che questa si rispecchi nel mio canto ». Dunque anche questo ignoto canzonettaro della provincia di Tucuman sapeva che il suo compito artistico era di fabbricare una samba come si deve, non di servir­ sene come d’uno sfogo per i propri casi e sentimenti per1 r. wagner, La mia vita (a cura di Massimo Mila), UTET, 1953, P- 643.

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sonali: l’espressione del suo stato d’animo sarebbe, se mai, venuta da sé, e questo è il modo migliore con cui essa può abbandonare la propria natura economica di comunicazione di stati d’animo personali e farsi realmente espressione, acquistare, cioè, natura artistica. La concezione dell’arte come «espressione di senti­ menti » è infatti l’errore da escludere esplicitamente, con Hanslick, quando si riconosce la natura inconsapevole dell’espressione artistica; ed è questo l’errore contro cui è insorta, opponendovi un errore di segno contrario, la polemica per l’arte oggettiva. In realtà, proprio questo è il vero oggettivismo nell’espressione musicale, di chi ma­ terializza quelle oggettivazioni astratte che sono i co­ siddetti sentimenti e impone alla musica il còmpito di esprimerli. Gioia, dolore, speranza, disperazione e via discorrendo, sono classificazioni e tipizzazioni astratte che una scienza naturale, la psicologia, compie per pro­ prio comodo, e non hanno maggior realtà concreta di quanta ne abbiano in natura le generalizzazioni dei bo­ tanici e degli zoologi: la famiglia dei felini, poniamo, in confronto alla realtà storicamente individuata e concreta del mio gatto di casa; il genere delle cariofillacee in con­ fronto alla realtà di quel determinato garofano di cui ammiro il colore e aspiro il profumo. La realtà non è la gioia, il dolore, la disperazione, la speranza, ecc. La realtà è quella di singole creature in preda a stati d’animo che, per necessità pratica e con mol­ ta imprecisione di linguaggio, ci riduciamo a designare con quei termini, ben sapendo però che il dolore di uno è tutt’altra cosa che il dolore di un altro, che la gioia di Rossini nel Barbiere è tutt’altra cosa che la gioia di Bee­ thoven nella Nona Sinfonia. Se cosi non fosse, dovremmo essere coerenti e ricono­ scere i piu grandi compositori d’ogni tempo negli autori di partiture per cinematografo, i quali sanno, veramente come nessun altro, «esprimere» con diabolica abilità quelle oggettivazioni stereotipate che sono i sentimenti dei personaggi rappresentati sullo schermo. Se cosi fosse, se la sostanza dell’espressione artistica stesse nei cosiddetti sentimenti e non nella qualità incon-

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fondibile e individuata della persona umana, allora sa­ rebbe giustificato il procedere, per fortuna sempre più raro, di certi compilatori di programmi radiofonici, i quali mettono insieme la prima parte delle Quattro Stagioni di Vivaldi, Alla primavera di Grieg e il Sacre'du Printemps di Strawinsky e combinano una trasmissione di un’ora intitolata: «musiche della primavera». Oppure con procedimenti analoghi presentano le «musiche del­ l’amore », oppure « il dolore nella musica » e via dicendo. Tutti invece sentiamo il ridicolo di questo modo d’agire che offende le nostre convinzioni più radicate sulla natura dell’arte e dell’espressione musicale; sentiamo che cosi facendo si equivoca appunto sul concetto di espressione e che queste musiche vengono raggruppate arbitrariamen­ te secondo un criterio di analogia estrinseca che non ha nulla a vedere con la loro intima essenza stilistica e con la natura di quell’espressione per cui riconosciamo loro il pregio dell’arte. Si sostituisce all’ordine genetico e na­ turale un ordinamento fittizio e ingiustificato che sfiora la stupidaggine della freddura meramente verbale. Sarà vero - e debbo questo rilievo a un’osservazione verbale del professor Armando Carlini, che ebbe una vol­ ta occasione di sentirmi esporre queste idee ai giovani della Scuola Normale di Pisa - sarà vero che nella con­ cezione crociana dell’arte come intuizione lirica, cioè fon­ data sul sentimento, nulla autorizza a intendere il termine sentimento nell’accezione di astratte oggettivazioni psi­ cologiche (i « sentimenti »: gioia, dolore, ecc.). Sarà vero; sebbene la celebre definizione crociana suoni: « un senti­ mento gagliardo, che si è fatto tutto rappresentazione nitidissima». Tutto sarebbe più chiaro se quell’articolo « un » non ci fosse, e se la definizione non fosse seguita, nel Breviario, da esemplificazioni pericolose, come la ma­ linconia del Petrarca, la saggia esperienza della vita dell’Ariosto, l’eroismo del Foscolo. Ad ogni modo, il Croce non senti la necessità di esclu­ dere esplicitamente quell’accezione spicciola, pluralistica e psicologica, del termine « sentimento » e di mettere in guardia contro questa possibilità di errore. E questo è proprio un bell’esempio del contributo chiarificatore che

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può venire all’estetica dal punto di vista dell’esperienza musicale. A chi, come il Croce, studiando la natura del­ l’arte, si riferiva soprattutto all’opera d’arte poetica e letteraria, non veniva nemmeno in mente che fosse neces­ sario specificare la qualità del sentimento posto a fon­ damento dell’intuizione lirica: sentimento inteso come generale qualità umana, personalità, ethos, secondo la terminologia proposta dall’Ansermet \ e non già le sin­ gole oggettivazioni astratte dei «sentimenti» operate dalla psicologia. Infatti, chi mai potrebbe soddisfarsi di un’idea tanto banale, che intendere il valore artistico d’una poesia sia rendersi conto dei sentimenti che in essa sono espressi? Nella critica delle arti figurative durò invece già al­ quanto piu a lungo l’equivoco che il giudizio estetico di un quadro o di un bassorilievo si esaurisse nell’intenderne la « favola » e nell’individuare i sentimenti in esso espres­ si. Ma l’arte in cui l’equivoco si è annidato con maggior tenacia è la musica. Infatti, mentre è chiaro che non c’è un particolare merito critico a scoprire che il Canto not­ turno di un pastore errante nell’Asia è una poesia « tri­ ste », o che l’Orlando furioso è un poema « sereno », nel­ la musica, proprio per quella sua speciale e tanto vantata natura che prescinde quasi interamente dalle possibilità 1 «Poiché la musica è sentimento, il suo atto fondamentale - un sen­ timento che prende forma - è una penetrazione etica nel sentimento mu­ sicale. Il musicista ci dichiara, negli atteggiamenti del sentimento musicale, i suoi stessi atteggiamenti affettivi; non la “sostanza” della sua affetti­ vità, come credevano i Greci, ma le forme di essa: la sua maniera di essere, di agire affettivamente nel mondo. E per questa via egli si comunica e noi comunichiamo con lui; è questo che noi leggiamo nella sua musica... È attraverso Yetbos, e solo attraverso Vethos, die il musicista s’impegna nel­ la sua arte... In uno scritto recente su Strawinsky leggo che, se la sua opera manifesta sempre la presenza della sua personalità musicale, vi cer­ cheremmo invano le gioie e i dolori personali di Igor Strawinsky. Ma nessuno dei grandi musicisti, neppure fra i romantici, ci ha mai dato, nelle sue opere, le sue gioie e i suoi dolori personali, e, anche se l’avessero voluto, non avrebbero potuto farlo. Solo Berlioz, forse, ne ha avuto l’in­ tenzione, ma si è fatto delle illusioni al riguardo. Ciò che il musicista ci dà nelle sue opere... è Yetbos, non la sostanza del suo essere affettivo, e, su questo punto, tutte le idee che circolano sarebbero da rivedere», ernest ansermet, L’esperienza musicale e il nostro tempo. Conferenza te­ nuta alle «Rencontres Internationales de Genève» il 2 settembre 1948 e pubblicata ne «La Rassegna Musicale», gennaio 1949.

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di pratica comunicazione del linguaggio parlato, può es­ serci, non dico un certo merito, ma una certa difficoltà a individuare il « sentimento » ispiratore. Per dirne una, le classificazioni psicologiche sono affatto impotenti a cata­ logare sotto un’etichetta quell’indefinibile situazione del­ l’anima che è l’allegretto della Settima Sinfonia di Bee­ thoven. E cosi la critica musicale è per lo piu consistita nell’esercizio di scoprire quale « sentimento » (nel senso stretto, classificatorio e naturalistico delle astrazioni psi­ cologiche) fosse «espresso» nelle diverse composizioni. Di conseguenza, è proprio la considerazione dei fenomeni musicali che ogni tanto fornisce alcuni isolati veggenti (il Grillparzer, lo Hanslick), i quali s’avvedono della stortura che è implicita in quel modo pettegolo e classificante d’in­ tendere la natura del « sentimento » su cui sorge l’ispira­ zione artistica, e allora: o si lasciano andare all’estremo polemico di negare la natura di « espressione » e la pre­ senza del « sentimento » nell’arte, oppure cercano di chia­ rire il carattere dell’espressione artistica e del « sentimen­ to » su cui essa sorge, formulando esplicitamente quelle precisazioni di cui i teorici dell’estetica di formazione esclusivamente letteraria non avevano potuto sentire la necessità. Riepilogando, si può quindi compendiare in questo modo la posizione del concetto di espressione nei riguardi del dilemma fittizio soggettivismo-oggettivismo: l’arte è essenzialmente espressione; l’espressione non può essere che soggettiva; le pretese di arte oggettiva o di oggetti­ vismo nell’espressione musicale sono maldestre reazioni polemiche contro un male inteso concetto dell’espres­ sione. Esse non compromettono necessariamente la vali­ dità dei risultati artistici conseguiti dai compositori che hanno bandito questo verbo. In fondo alla loro presa di posizione teorica bisogna riconoscere il desiderio confuso di restaurare un sano concetto dell’espressione artistica, purificato d’ogni materialismo descrittivo, e fondato non già su quelle oggettivazioni astratte e convenzionali che sono i cosiddetti sentimenti, bensì sulla realtà individuata della persona umana, vivente compendio d’una situazio­ ne storica.

Inconsapevolezza e controllo nell’espressione artistica

Nell’ultimo atto della Bohème Marcello e Rodolfo nel­ la comune soffitta - la stessa che nel primo atto ospitava la loro allegra povertà — si sforzano di lavorare, l’uno a un quadro e l’altro al solito capolavoro poetico eterna­ mente incompiuto. Marcello ha piantato Musetta, o ne è stato piantato, a conclusione d’una delle loro continue litigate; Rodolfo ha lasciato che Mimi se ne andasse col suo Visconte, non avendo il coraggio di imporle un in­ verno di miseria e di privazioni nella gelida soffitta. Tutti e due hanno fatto male: non hanno ascoltato la voce schietta del sentimento, bensì hanno agito secondo puntigli o calcoli magari generosi, ma insinceri. E ora si sforzano tutti e due di persuadersi che hanno fatto benis­ simo e cercano di mostrarsi unicamente intenti al loro lavoro artistico, senz’alcun pensiero delle due ragazze che hanno scioccamente abbandonate. C’è un gelo nell’aria che non è soltanto quello dell’inverno di Parigi in una soffitta con la stufa spenta: c’è l’imbarazzo di due amici che sanno di non essere sinceri con se stessi, che hanno commesso un errore e non vorrebbero ammetterlo: e la musica comunica mirabilmente quest’impressione di am­ biguità interdetta. Ad un tratto Marcello non ne può più, e buttando a terra il pennello prorompe: Io non so come sia Che il mio pennello lavori E impasti colori Contro voglia mia. Se pingere mi piace o cieli o terre

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O inverni o primavere, Egli mi traccia due pupille nere E una bocca procace. E n’esce di Musetta il viso ancor...

Non sono grandi versi, d’accordo, però è una bella tro­ vata dei due librettisti, Illica e Giacosa, i quali hanno cosi condensato in un breve scatto d’un personaggio, as­ sai opportuno per essere musicato, una situazione che nel romanzo di Murger occupava parecchie pagine e si con­ cludeva platealmente, con Marcello che rimproverava a Rodolfo: «Non valeva la pena di lasciare Mimi, se devi sempre vivere con la sua ombra », e poi aggiungeva a se stesso: «È vero che invece di predicare agli altri farei meglio a predicare a me stesso, poiché ho ancora il cuore pieno di Musetta». Cioè, le cose spiattellate banalmente e circostanziatamente per bocca di uno dei personaggi il quale si rende conto di tutto quello che in lui avviene, usurpando le prerogative dello scrittore; mentre invece nel libretto tutta la situazione è tradotta plasticamente in uno scatto d’insofferenza: un personaggio realmente drammatico, che vive sulla scena, e non un analizzatore di se stesso il quale approfitta dell’onniscienza propria del romanziere. Una scena efficace, dunque, che Puccini non si è la­ sciato sfuggire. Ma a noi interessa per tutt’altro motivo, lontanissimo, certo, dalle intenzioni dei due librettisti. Il fatto è che, sintetizzando in quei versi la situazione dei due personaggi, i quali cercavano di stordirsi nel loro la­ voro artistico e di dimenticare cosi il cocente pensiero delle amichette che li avevano lasciati, Illica e Giacosa offrivano senza volerlo una perfetta metafora di quella che è l’autentica natura dell’espressione artistica. Espres­ sione involontaria e inconsapevole, non cercata dalla vo­ lontà (la quale può cercare invece tutt’altro, di «pingere o cieli o terre, o inverni o primavere »), e nella quale tut­ tavia si fa strada una passione potentissima che occupa tutta l’anima di colui che dipinge, o scrive o compone, ed emerge, rappresentata attraverso quei segni, quelle pa­ role, quelle note, proprio come quelle pupille nere, e quella bocca procace, e quel viso lusinghiero di Musetta

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che il pennello di Marcello componeva quasi per virtù propria. Non sarebbe difficile elencare casi celebri di opere poetiche, pittoriche o musicali, in cui la reale espressione artistica va completamente al di là, o meglio da tutt’altra parte di quelle che erano le intenzioni dell’artista (poemi o quadri edificanti che conseguono valore artistico nella rappresentazione voluttuosa del peccato, opere buffe in­ gentilite e rese pensose da una pietosa comprensione della natura umana): tali casi manifestano in modo particolar­ mente vistoso il carattere di « usurpazione » con cui l’e­ spressione autentica, cioè quella involontaria, spesso si sostituisce, nel fenomeno dell’arte, all’espressione consa­ pevole che l’artista poteva essersi proposta. Questo è il cosiddetto miracolo dell’ispirazione arti­ stica, quell’elemento di irrazionale che sfugge al control­ lo dell’intelletto, sempre avvertito da tutti coloro che hanno riflettuto sulla natura della creazione artistica (« la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa », dice Dante raccontando come gli nacque nella mente una delle canzoni della Vita nuova}. Laddove invece il lavoro che potremmo chiamare tecnico - la scelta e disposizione del­ le parole, delle rime, dei metri e degli accenti per il poeta; la combinazione delle armonie e dei timbri per il musici­ sta; il rapporto dei colori, il taglio della composizione per il pittore - tutto ciò avviene non già in un raptus irre­ sponsabile, bensì sotto il controllo vigile e attivissimo del­ l’intelligenza con cui l’artista sorveglia il proprio lavoro, esattamente come un operaio sorveglia la macchina che gli è affidata, o un artigiano gli strumenti del proprio mestiere. Nessun orologiaio, ch’io mi sappia, mette in­ sieme le rotelle e i minuscoli meccanismi d’un orologio in uno stato mistico di esaltazione, nel quale le sue dita lavo­ rino li attorno senza ch’egli si renda conto esattamente di quello che sta facendo. E nessun musicista che si rispetti - credetemi - compone una sinfonia o un’aria d’opera abbandonandosi passivamente all’estro e aspettando che le note gli piovano dal cielo come il cacio sui maccheroni. È proprio per questo che l’arte è tanto difficile, e richiede tanta applicazione e tanto studio, e un controllo perfetto dei mezzi ch’essa adopera.

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L’elemento irresponsabile dell’ispirazione, quello che al musicista, al pittore o al poeta si stampa nella sua opera senza ch’egli stesso se ne renda conto, è quell’altro, quello della espressione: la quale non è altro che il traboccare d’una personalità irresistibilmente incisiva, che imprime le proprie passioni robustissime sopra quella trama di parole, o di colori o di note musicali, senza magari che l’artista se lo fosse nemmeno proposto. Proprio il con­ trario di quel che credono i dilettanti d’arte e gli orec­ chianti d’estetica, secondo i quali l’artista si propone di esprimere qualche cosa - per esempio il proprio amore per una ragazza dagli occhi neri e la bocca procace, come Musetta - dopo di che i segni si dispongono da sé, magi­ camente, sulla tavolozza al pittore, le parole e le rime nascono per incanto nella mente del poeta, e le melodie, le armonie e i contrappunti si combinano infallibilmente sui pentagrammi del musicista. Sicché qualunque asino, purché sia innamorato cotto, dovrebbe essere in grado, se si propone di farlo, di scrivere una bella canzone d’a­ more o dipingere un bel ritratto della sua ragazza. È straordinario come, a sostenere queste cose ovvie, oggi si passi per dei « negatori della natura espressiva del­ l’arte», per dei cerebrali i quali vogliono ridurre l’arte unicamente ad un esercizio intellettuale di tecnica. Lad­ dove è chiaro che questa è l’unica maniera in cui è possi­ bile affermare ed intendere la natura di quel fenomeno che è l’espressione artistica: fenomeno che non ha nulla da vedere con la illustrazione o la comunicazione pratica dei propri sentimenti. (1950)-

VII.

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Soltanto in Italia, dove, indipendentemente dall’azione dell’egemonia crociana negli studi estetici, c’è sempre sta­ ta una tradizione di tenerezza per l’« ispirazione », per la « musica dove parla il cuore », soltanto in Italia può forse avere sapore d’eresia una teoria dell’atto musicale la quale, in realtà, non nega affatto la natura espressiva della musica, ma affermandone il carattere di possibile incon­ sapevolezza cerca di render giustizia anche ad altri valori della musica che troppo sbrigativamente vengono condan­ nati con la taccia di «cerebralismo», « tecnicismo» e via dicendo. Meglio ancora, non si tratta tanto di affermare altri valori, ma piuttosto di opporsi a un’arbitraria cano­ nizzazione di determinati « sentimenti » e atteggiamenti spirituali dell’uomo, generalmente di origine romantica e ottocentesca, ai quali soltanto si riconosce il diritto di cittadinanza nel dominio dell’espressione musicale; men­ tre altre situazioni interiori, altri aspetti della qualità umana che artisti hanno assunto sotto l’azione di altre circostanze storiche, diverse da quelle ottocentesche, ven­ gono impazientemente respinti come artifici intellettua­ listici, privi di sincerità. Altrove, questa protesta, che è alimentata da irresisti­ bili forze realmente attive nella musica contemporanea, ha dato luogo a formulazioni teoriche spesso ben piu ra­ dicali, che per il fatto di non essere sempre fondate sopra una sana metodologia estetica ppssono magari arrischiare più d’un passo falso, ma svolgono un’utile opera pungolatrice, e sospingendo alacremente il pensiero estetico su tutte le tracce dell’esperienza artistica, anche la piu re­

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cente, gli impediscono d’insabbiarsi in un divorzio ostile alla realtà dei fatti musicali del presente e del più lontano passato.

i. Ispirazione cosciente ed espressione inconsapevole.

Proprio a causa della maggiore preparazione metodolo­ gica di cui si valgono generalmente gli studiosi italianij il concetto di espressione è quello intorno a cui si è svolta, tra noi, e continua a svolgersi la polemica tra coloro che lasciano fuori del loro concetto dell’arte la musica con­ temporanea e coloro che rifiutandosi a quest’amputazione sono disposti piuttosto a operare nel loro concetto del­ l’arte qualche ritocco, per metterlo in grado di accogliere quelle che a loro paiono realtà artistiche indubbie. Altrove, per esempio in Germania e in Inghilterra, le medesime posizioni si affrontano su un altro terreno, cer­ tamente assai più equivoco, e cioè intorno alla nozione di «ispirazione». Nozione impropria, praticamente scom­ parsa dagli studi estetici italiani, dove non costituirebbe che un doppione, una denominazione poco precisa del fenomeno intuizione-espressione, chiarito con ben altro rigore di pensiero. In Germania la polemica sull’ispirazione ha una storia lunga e interessante: l’eterno antagonista di tutti coloro che là hanno cercato di rinnovare il concetto di ispira­ zione in conformità ai caratteri assunti dalla musica nei tempi più recenti, è Hans Pfitzner, rispettabile figura di musicista, dignitoso epigone del romanticismo brahmsiano, salito ai massimi onori nella Germania nazista, quan­ do Schonberg, Hindemith, Kurt Weill e Schrecker furono costretti a emigrare. Pfitzner è un mistico dell’ispirazione romanticamente intesa, come qualcosa che nell’uomo di genio piove dal­ l’esterno (einfàllt), senza sua partecipazione cosciente: miracolo, mistero inesplicabile all’intelletto umano. Per Pfitzner, perfino la necessità di notare per iscritto le idee che al musicista piovono nella fantasia, è un doloroso im­ paccio, una doccia fredda sul fuoco vulcanico della ispira­

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zione. E nel suo libretto Uber musikalische Inspiration (Berlino, 1940), egli celebra con candore senile l’eccel­ lenza dell’improvvisazione pianistica - nell’amica solitu­ dine delle ore notturne, quando i pensieri si affollano tumultuosi e le dita scorrono velocemente sulla tastiera - sopra ogni altra forma di composizione musicale; e fa­ cendosi forte dei nomi di Beethoven e di Schumann, ne esalta i sublimi capolavori che nessuno potrà mai cono­ scere. Patetici, ma ingiustificati rimpianti: si può star pacificamente sicuri che tutto il meglio delle improvvisa­ zioni pianistiche di Beethoven e di Schumann è passato nelle loro opere scritte; ciò che ne è andato irrimediabil­ mente perduto sarà scartato da loro a ragion veduta. Al Pfitzner si deve consigliare la meditazione d’una lettera di Weber - autorità a lui molto accetta - dov’è spiegato con crudele esattezza come nell’improvvisazione pianisti­ ca l’abitudine meccanica delle dita di ritrovare le posi­ zioni familiari e consuete conduca generalmente a infilare collane di luoghi comuni. Dopo un artista geniale come Ferruccio Busoni e un accorto storico della musica come Paul Bekker, il più recente avversario che si sia levato a combattere la con­ cezione romantica dell’ispirazione musicale patrocinata da Hans Pfitzner, è uno psicologo, Julius Bahle, dedito da lungo tempo agli studi sulla creazione artistica. Nel suo libro Eingebung und Tat ini niusikalischen Schaffen (qual­ cosa come: Passività e attività nella creazione musicale, Lipsia, 1939) egli ha riunito i risultati di dodici anni di ricerche secondo quei criteri positivistici e sperimentali che sono retaggio della psicologia. A trentadue composi­ tori contemporanei egli ha inoltrato un questionario, com­ prendente tra l’altro otto poesie, una delle quali i compo­ sitori erano invitati a musicare. Sui risultati di questo referendum e sull’indagine del solito materiale biografico, epistolare, cronistico circa i grandi del passato, il Bahle ha costruito con apparente obiettività scientifica la sua teoria, che è tutta una coraggiosa battaglia contro la con­ cezione romantica dell’ispirazione: idee musicali che pio­ vono dall’alto, o che zampillano dall’interno, nella piena passività del musicista, ridotto a mero strumento incon­

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sapevole nella funzione di asinus portans mìsteria. Egli afferma invece che la creazione artistica è «un’attività consapevole, rivolta a un fine, condizionata dall’esperien­ za umana, nella quale cooperano la volontà, il sentimento, il pensiero ». Anche in Germania, dunque, la polemica tira in ballo il criterio della consapevolezza o meno, ma con segni ro­ vesciati rispetto a quanto avviene in Italia, dove il sog­ getto della polemica è il concetto di espressione, mentre in Germania è quello di ispirazione. Quella stessa po­ sizione che noi difendiamo proponendo il concetto di «espressione inconsapevole», in Germania si manifesta attraverso l’affermazione del carattere « cosciente » del­ l’ispirazione, che non dev’essere intesa come passività, come mistico abbandono alla voce che detta dentro, ecc. « L’inspiration c’est travailler tous les jours », avrebbe potuto citare il Bahle, se Baudelaire e Flaubert fossero nel numero dei suoi autori. E meglio ancora, per lo meno come manifestazione incontrollata e quasi faziosa di pre­ dilezione e di gusto, Valéry nella Lettre sur Mallarmé : «Si je devais écrire, j’aimerais infiniment mieux écrire en toute conscience et dans une entière lucidité quelque chose de faible, que d’enfanter à la fàveur d’une transe et hors de moi-méme un chef d’cevre d’entre les plus beaux... » Neanche il Bahle, del resto, nega il valore espressivo della musica, sebbene ne metta in dubbio la capacità d’e­ sprimere sentimenti. Ma ciò che egli intende per senti­ menti, sono gli affetti, le passioni, classificati, isolati e schematizzati, ridotti a un irreale stato di natura; inacco­ stabili dalla musica non meno d’un oggetto o d’una figura geometrica. Altrimenti egli è ben persuaso che alla base di qualunque creazione artistica sta VErlebnis*. l’espe­ rienza umana, ciò che Ansermet suol sintetizzare col nome di ethos. E si affanna molto a studiare il misterioso pro­ cesso della Gestaltubertragung (trasposizione formale), per cui questi elementi «extramusicali» si convertireb­ bero in valori musicali. La Erlebnis, cioè la personalità umana del compositore, è quanto il Bahle è disposto a concedere all’inconscio nella creazione artistica: essa sa-

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rebbe il fondamento inconsapevole su cui si edificano vo­ lontariamente i prodotti artistici secondo determinate leg­ gi causali che il Bahle, da buon naturalista, presume si possano meticolosamente formulare. In realtà, queste fa­ mose leggi non sono che la descrizione, in nuovi termini, dei fenomeni dai quali si pretenderebbe di trarle. Veris­ simo che le vie dell’ispirazione artistica non sono misticamente imperscrutabili e misteriose; ma sono infinite: ognuna fa testo per sé, e basta.

2. Ispirazione e autocritica.

L’affermazione del carattere di consapevolezza dell’i­ spirazione, o di inconsapevolezza dell’espressione, che fa lo stesso, risponde dunque a una sana esigenza e a un retto intendimento della natura dell’arte. E tuttavia può, incautamente formulata, trovarsi anch’essa dalla parte del torto. L’equivoco che la insidia è quello segnalato dal Croce nel terzo capitolo del saggio La poesia e la lettera­ tura (nel volume La Poesia): nel desiderio di asserire il carattere ideale e formale della poesia, il suo teoretico travaglio, contro il selvaggio sfogo passionale e la disper­ sione del sentimentalismo e sensualismo, si afferma che dentro la poesia deve lavorare e lavora la critica. Giusto, ma si stia attenti che qui si fa uso d’una metafora: non si attribuisca all’artista l’esercizio d’una critica vera e pro­ pria, di quella critica, cioè, che, giudicando, ossia distin­ guendo il reale dall’irreale, scolora e paralizza la fantasia. L’asserita critica che interviene nell’atto creativo dell’ar­ tista è la poesia stessa che non compie l’opera sua senza autogoverno, senza interno freno, sibi imperiosa, senza accogliere e respingere, senza provare e riprovare, simile in ciò a ogni fare dell’uomo, che sempre ha in sé il senso di quel che giova e di quel che nuoce. Secondo il classico esempio crociano, la «la critica» ovvero la consapevo­ lezza dell’artista è paragonabile alla critica della parto­ riente, la quale, nei suoi spasimi, indubbiamente giudica e sceglie i movimenti e i gesti che le sembrano più oppor­

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tuni a conseguire il risultato verso cui è tesa, e scarta quelli che a tale scopo non si confanno. In questo equivoco è caduto recentemente uno scrit­ tore di grande ingegno come René Leibowitz, l’apostolo francese della dodecafonia, scagliandosi contro un modo di dire assai diffuso (chi non se l’è mai lasciato sfuggire dalla penna scagli la prima pietra!), che consiste nel fare di Arnold Schonberg un teorico più che un artista, e di Alban Berg un vero artista, che ha magari approfittato delle teorie del maestro, ma le ha trascese in una reale attuazione lirica \ È veramente uno sciocco luogo comu­ ne, che la sofferta bellezza del Pierrot lunaire smentisce assai meglio di quanto non facciano le impetuose argo­ mentazioni del Leibowitz. Giustamente egli s’indispettisce del sottinteso impli­ cito in quegli elogi di Berg, che mirano in realtà assai più a demolire il maestro che a esaltare l’allievo. Ma egli svol­ ge cosi il proprio pensiero: « Lodare Berg in questo modo singolare implica che Berg fosse un imbecille... Un grande compositore è un uomo che è cosciente di ciò che fa ». Ed ecco che le perentorie affermazioni del Leibowitz sulla « assoluta lucidità » dell’artista hanno il potere di met­ terci in guardia contro i pericoli d’una posizione di pen­ siero alla quale pure ci sentiamo irresistibilmente attratti quando ascoltiamo, dai vari Pfitzner forestieri e nostrani, le difese della posizione opposta. Come tutti gli ingegni che non sono pervenuti a comprendere il meccanismo dia­ lettico della sintesi, il Leibowitz prova il bisogno di esa­ sperare i termini d’ogni antitesi, buttandosi a parteggiare appassionatamente per uno di essi e cercando in tutti i modi di annientare l’altro. Ed è sorprendente la sicurezza con cui un uomo così avvertito può esserne indotto a travisare o addirittura calpestare indifferentemente la realtà dei dati di fatto. «... Appunto per il fatto che era un grande compositore, Berg sapeva ciò che faceva e non ha fatto questo o quello malgré soi-méme ». Ma se la storia di tutte le arti è piena 1 r. leibowitz, À propos d'une certaine demagogie autour d'Alban Berg, nella rivista «L’Arche», n. 26 (aprile 1947).

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di Cristofori Colombi che hanno scoperto l’America dopo essersi messi a «buscar el Levante por el Poniente»! Esemplare il caso di Delacroix, che si affannava a rifinire i suoi quadroni storici con dubbio esito artistico, e negli schizzi e nei bozzetti coi quali li preparava gli avvenne d’inventare nientemeno che l’impressionismo! Nessuno sostiene che questi schizzi e bozzetti Delacroix li creasse in stato di trance irresponsabile: sapeva tanto bene quel che faceva, come quando curava i quadroni storici. Ma è un fatto che la storia dei rapporti tra la poesia e la poetica dei grandi artisti è ancora da scrivere, e non concluderà certo all’affermazione della loro necessaria coincidenza. « Se un compositore è un grande teorico, - afferma an­ cora il Leibowitz, - deve essere anzitutto un grande com­ positore ». Quando si ha la disgrazia di essere incapaci a ragionare se non per assiomi, bisognerebbe sempre andar cauti prima di avanzare le proprie sentenze categoriche. Necessariamente «grandi compositori» tutti i composi­ tori che siano grandi teorici? Già: Zarlino, Fuchs e Char­ les Koechlin sono li per provarlo. La consapevolezza dell’atto di creazione artistica è una verità che non esclude affatto e non distrugge la necessità dell’altro termine dell’antitesi, la cosiddetta ispirazione, ossia il carattere lirico e intuitivo dell’arte. Ma è prefe­ ribile indirizzare il pensiero estetico sulla pista del carat­ tere di inconsapevolezza dell’espressione, che non su quel­ la concomitante del carattere consapevole dell’ispirazione, pista più aperta alla possibilità di equivoci ’. 1 In Inghilterra venne indetto un referendum in seguito a una defini­ zione dell’ispirazione data da frank howes nel suo libro Borderland of Music and Psychology. Ma le risposte disparate di diverse personalità musicali non consentono conclusioni, sebbene le due domande proposte fossero pertinenti e acute: «Come si mantiene l’ispirazione musicale du­ rante un lungo lavoro? Che cosa il compositore ha particolarmente di mira durante il processo creativo: l’idea o l’emozione che tenta di esprimere, oppure la soluzione degli impliciti problemi puramente musicali?» Tra i «puristi» dell’estrema sinistra i piu espliciti sono Franz Schrecker e Al­ bert Roussel. Per il primo «una sinfonia, un quartetto, una.sonata, de­ vono certo derivare da fonti puramente musicali ed essere conformate da considerazioni architettoniche». E Roussel afferma che «se si tratta di un’opera sinfonica priva di programma... non c’è da descrivere nessun sentimento generale; l’autore non si preoccupa che del gioco delle com­ binazioni sonore». Charles Koechlin è il più accanito sostenitore della

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3. Un libro sull’estetica e la creazione musicale.

Per una tradizione secolare di diffidente cautela verso gli incontrollati trasporti dionisiaci e verso i raptus ro­ mantici dell’idealismo tedesco, la Francia è la patria di quelli che Valéry chiama « les héros et les martyrs de la resistance au facile ». E dalla Francia, infatti, sono venuti anche recentemente contributi di raro interesse a questo indirizzo del pensiero estetico, come la Esthétique et crea­ tion musicale di Gisèle Brelet (Presses Universitaires de France, Parigi 1947). Occorre procedere anzitutto a una precisazione di lin­ guaggio, per comprendere bene questo piccolo libro, den­ so d’idee e stimolatore. L’autrice usa la parola « estetica » per lo più nel senso che noi attribuiamo al termine « poe­ tica»: per designare, cioè, una determinata concezione dei fatti sonori della quale si vale un compositore nel suo processo creativo. Qualche volta, invece, la parola « este­ tica» ricorre nel suo significato consueto, per indicare quel settore della filosofia che studia i fenomeni del bello e dell’arte; da questa ambiguità hanno origine - o piut­ tosto in essa si manifestano - talune improprietà nelle quali incorre talvolta il pensiero della scrittrice. Del resto, per seguirla nella rigorosa concatenazione dei suoi argomenti, occorre pure, per noi italiani, spo­ gliarci del bagaglio di cognizioni e d’abitudini mentali indotte dall’estetica idealistica. La signora’Brelet provie­ ne da altra cultura filosofica, in sostanza da quella bergsoniana (anche se al bergsonismo ella reagisce e si oppone, come avviene da noi, che molti oggi si oppongano al cro­ cianesimo, anche se a esso devono sostanzialmente la necessità di un contenuto umano e sentimentale nella musica. Casella si barcamena con un colpo al cerchio e uno alla botte: dopo aver lasciato trasparire la sua fiducia verso una musica astraente dai sentimenti, s’af­ fretta però a dichiarare che «mai musica pura potrà significare musica inumana». Infine confessa che, per conto suo, durante la composizione è «piu preoccupato di risolvere problemi musicali che di descrivere que­ sto o quel sentimento personale». E forse nella sua titubanza è il segreto dell’artista che nell’espressione inconscia del seritimento che lo domina vede solamente la posizione di problemi musicali.

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propria formazione). Il che implica, nei confronti delle nostre abitudini, scarsa mentalità storicistica, e invece un interesse assai più aperto ai problemi proposti dalla psi­ cologia, un ricorso fiducioso ai metodi delle scienze na­ turali. Superata questa difficoltà che proviene dal fatto di usare lingue diverse, o più propriamente, diversi modi di pensare, e di partire da diverse concezioni del mondo, si ha poi a poco a poco il piacere eccitante di scoprire, sotto queste differenze di metodo, accordi sostanziali; e là dove accordo non c’è, si può avere la rivelazione di punti di vista nuovi, utili talvolta ad allargare le nostre vedute e a sbloccare situazioni ideologiche ormai cristal­ lizzate in schemi logici apparentemente privi di via d’u­ scita. La domanda introduttiva che l’autrice si pone — se l’estetica possa o non possa guidare utilmente la creazione artistica - è appunto uno dei casi in cui gioca l’equivoco della doppia accezione del termine « estetica ». Evidente­ mente l’estetica filosoficamente intesa non ha nessuna uti­ lità normativa: come afferma Schonberg, essa non può che constatare ciò che è, senza poter prescrivere ciò che abbia a essere. Ma in realtà non è questa l’estetica di cui si occupa la signora Brelet: ciò che la interessa è la « poe­ tica » dei diversi compositori, cioè la molteplice fenome­ nologia dei procedimenti artistici per cui essi pervengono alla creazione: fenomenologia che la scrittrice si sforza di penetrare e soprattutto di classificare e ordinare in alcuni raggruppamenti fondamentali. Per tutta la prima parte del libro - estetica della forma sonora - la signora Brelet prescinde radicalmente, stoica­ mente, da tutto ciò che noi chiameremmo - che so io - la portata espressiva della musica, il suo contenuto umano, e ch’ella chiama invece, con un certo disprezzo, il suo aspetto « psicologico ». Pur descrivendo il fenomeno della creazione musicale come un continuo « dialogo di materia e forma », ella intende per materia (in questa prima parte del libro) unicamente il materiale sonoro, determinato secondo le leggi dell’armonia, di cui il compositore dispo­ ne. E ravvisa due concezioni opposte e fondamentali del­ l’arte musicale - empirismo e formalismo - a seconda che

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il musicista subordini la forma al primigenio fatto sonoro, oppure che anche quest’ultimo venga determinato dalla forma. Il primo caso viene esemplificato con l’esame della poetica di Hindemith, quale è esposta nella Unterweisung im Satz-. « Si potrebbe definire l’estetica di Hindemith come un tentativo per eliminare dal pensiero musicale le forme a priori per mezzo delle quali lo spirito pretende imporre ai suoni un ordine che non emana da loro stessi ». Al contrario il sistema armonico proposto da Schonberg allarga l’armonia classica, « svincolandola dai fatti sonori dai quali era nata». Ma soprattutto Strawinsky si pre­ senta come il massimo esponente di quel formalismo puro verso il quale vanno evidentemente le pur caute simpa­ tie dell’autrice, in quanto ella ritiene che siano limitate, e perciò passibili di esaurimento più o meno prossimo, le risorse della materia sonora, e infinite invece quelle della forma, la quale può anche riscattare e rivalutare le armo­ nie più fruste, in genere tutte quelle sensazioni primarie il cui dominio non sembra possa essere allargato. Entro questo rigido schema ideologico numerosi punti vivi della musica moderna vengono toccati dalla scrit­ trice: per esempio un’abile giustificazione dell’arcaismo, tanto diffuso nella moderna pratica compositiva, e in ge­ nere della possibilità della musica di trarre alimento e ispirazione da se stessa. Fenomeno tipico d’uno stile di decadenza, indipendentemente dal pregio artistico delle singole opere, e che quindi noi siamo abituati a conside­ rare con maggiore severità, forse non aliena da una vena di moralismo. Esso è forse l’unico denominatore comune che sia possibile ravvisare nel disperso individualismo delle esperienze con temporanee di linguaggio musicale: nella sua relazione al congresso di musica del maggio 1948 a Firenze \ Fedele D’Amico ha illustrato con mirabile analisi quel modo caratteristico del musicista contempo­ raneo di sfruttare il «dislivello storico» che corre fra l’atto, moderno, del ripensamento di uno stile antico, e l’oggetto di questo ripensamento. Lo stesso fenomeno è 1 Cfr. fedele d’amico, Il compositore moderno e il linguaggio musi­ cale, in Atti del quinto congresso di musica (Firenze 1948), pp. n sgg,

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stato pure individuato, e considerato con uguale severità, da Ernest Ansermet, quando scrive che « le nostre espe­ rienze musicali, in tutti i campi, sono uscite dalla auten­ ticità », e se Monteverdi poteva pubblicare la sua seconda raccolta di madrigali sotto il titolo profetico di Seconda epoca della musica ovvero perfezione della musica, « oggi bisognerebbe dire: Terza epoca della musica ovvero imi­ tazione della musica». Ché è tutto «un ordine di cose ch’è radicalmente cambiato nel mondo della creazione do­ po la generazione Strauss-Mahler-Reger-Debussy-Puccini», da quando, cioè, «l’azione creatrice ha perduto la sua necessità»', mentre un tempo «il musicista non pen­ sava certo alla storia », ora invece egli « si dedica meno a un’opera da fare che a una nuova maniera di fare, a una nuova tecnica », proponendosi l’imitazione come scopo in « una immensa aspirazione alla musica, una ricerca dispe­ rata del tempo perduto » l. Meno toccata da sollecitudini storiche per le sorti del­ l’umanità contemporanea, la signora Brelet si mantiene su un terreno strettamente estetico per affermare che « l’archaisme n’est pas nécessairement condamnable ». El­ la si accontenta di constatare, nell’innegabile esperienza della vita musicale contemporanea: «Il semble que repenser le passé puisse done étre pour le compositeur une source d’inspiration ». E del resto, tanto D’Amico quanto Ansermet, che hanno cosi acutamente rilevato il carattere decadente di quel ripiegamento stilistico sul passato, di cui si compiace la musica d’oggi, dovrebbero poi risol­ vere la contraddizione interna per cui essi sono entrambi sfegatati ammiratori di Strawinsky: autentici innamorati e « tifosi » di questo musicista che il ripiegamento su stili antichi, e il conseguente effetto di «dislivello storico», ha addirittura eretto a sistema. Certo, non è facile difendersi dall’impressione di un eccessivo intellettualismo, e perfino di un certo impla­ cabile determinismo stilistico, quando la signora Brelet, trascurando interamente quella che è l’originalità umana 1 ernest ansermet, L'esperienza musicale e il nostro tempo, «La Ras­ segna Musicale», gennaio 1949.

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dell’individuo creatore, ci mostra il compositore costretto a « inserire la propria personalità creatrice in quella curva storica in cui l’arte musicale è impegnata ». E per quanto disposti a condividere la sua concezione della creazione musicale come atto cosciente dello spirito anziché raptus incontrollato dell’ispirazione (ella si richiama a questo proposito agli studi di Julius Bahle), non ci sentiremmo di seguirla nella sua definizione della musica come « arte di pensare per mezzo di suoni ». Ma il sospetto di aridità e di intellettualismo dilegua quando si passa alla seconda parte, l’estetica della for­ ma temporale. Con intuizione profondamente suggestiva, ch’ella deriva in parte da alcuni scritti di Pierre Souvtchinsky, e in ultima istanza dalla concezione bergsoniana del tempo come durata interiore, tutti gli elementi psico­ logici, contenutistici, umani ed espressivi ch’ella sinte­ tizza sotto il nome di vécu (quasi traduzione del tedesco Erle.bnis)) la Brelet li collega con l’esperienza del tempo, e mentre in questo modo si allontana definitivamente dal­ la concezione dell’espressione musicale come espressione di determinati sentimenti nella loro oggettivazione psico­ logica, schiude invece uno spiraglio sopra un’interpreta­ zione veramente appassionante di quello che è il processo della creazione musicale e la natura ultima della musica. La musica - ella si decide ad ammettere, e quasi a ma­ lincuore - è espressione. Ma espressione inconsapevole che consiste nella coincidenza della vita interiore dello spirito con la forma musicale attraverso l’elemento co­ mune del tempo. La forma non può raggiungere la sua perfezione se non venga a confondersi, nell’atto della creazione, con la durata interiore del creatore. Le leggi generali della composizione, da sole, non varrebbero mai a tener luogo di quella « esperienza del tempo vissuto » che noi chiameremmo la sostanza umana dell’opera d’ar­ te, e che sola fa si che certi sviluppi d’un tema musicale non siano artificiosi, ma naturali prodotti d’una sorta d’inesauribile fecondità interiore del tema stesso: sola fa si che certe melodie non siano una mera giustapposizione di suoni, ma racchiudano in sé un divenire che nasce e si conchiude con naturalezza. « Il creatore non può far

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sorgere dal tema uno sviluppo agevole e armonioso, se non prestandogli la realtà della propria durata interiore, e la forma musicale ch’egli crea deve diventare la forma stessa della sua coscienza ». Tutto ciò può avvenire benis­ simo a insaputa del compositore, onde la possibilità d’un « divorzio profondo tra l’idea che egli si fa dell’atto della creazione e la realtà di quest’atto». In altri termini, la necessità tante volte ribadita in questo libro di giudicare Strawinsky e compagni dalle loro opere, e non dalle loro dichiarazioni teoriche e dalle loro « poetiche ». Il che non toglie - aggiunge giustamente la signora Brelet - che da una chiara coscienza di quel che sia il processo creativo, l’artista non possa essere che avvantaggiato. Il meccanismo della tonalità, con la sua legge fonda­ mentale di coesistenza della persistenza e del mutamento, e in genere la dialettica dello sviluppo musicale tra i poli di tema e variazione, sembra alla scrittrice francese incar­ nare il dinamismo profondo della coscienza (noi diremmo, della vita dello spirito). Lo sviluppo « esprime, nel mondo immaginario dei suoni, i passi stessi attraverso cui la co­ scienza organizza la propria vita temporale interiore ». Il rapporto di tema a variazione non è che l’espressione d’una legge temporale che regge il divenire stesso della coscienza. « La dialettica del tema e della variazione tra­ duce quella dialettica della fedeltà e dell’innovazione con cui la coscienza si costituisce ». Nell’àmbito di questa «forma temporale», in cui si manifesta l’indissolubilità di pensiero formale e di vita affettiva, estrinsecati entrambi nell’elemento tempo, la scrittrice individua due tendenze fondamentali, all’empi­ rismo o al formalismo, a seconda che l’esperienza degli atti psichici sia la molla determinante della creazione mu­ sicale, e a questa materia empirica la forma sonora cerchi di adattarsi a posteriori con una specie di compromesso, oppure ci sia veramente una coincidenza perfetta tra la forma musicale pura, sentita come elemento primigenio, e l’atto con cui la coscienza costruisce il pròprio divenire interiore. (In termini nostri: secondo che l’espressione sia consapevolmente cercata, oppure sia inconscia e in­ volontaria). Alla luce di questi concetti l’autrice rivede

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le nozioni tradizionali di classicismo e romanticismo, pro­ prio come noi pure siamo stati a volte tentati (cfr. p. 90) di scorgere la definizione più comprensiva e soddisfacen­ te del romanticismo nella formula di un’arte in cui l’e­ spressione venga deliberatamente e consapevolmente cer­ cata. Classica, o meglio classicistica, o neo-classica, pare dun­ que alla signora Brelet l’arte dove la forma tende a co­ struirsi al di fuori dell’esperienza temporale interiore, onde un certo schematismo di simmetrie precostituite, una certa rigidità derivante dal rifiuto latente della du­ rata e del divenire, dalla tendenza del tema a bloccare le possibilità di sviluppo della variazione. Il romantici­ smo, invece, le appare insidiato dal pericolo opposto, di consentire passivamente alla durata psicologica nell’insta­ bilità del suo divenire e nella sua grezza naturalità, inca­ pace di produrre da sé una forma: l’opera allora non pro­ gredisce verso una fine che segni la sua conclusione, ma si dissipa in una durata amorfa e si confonde con il tempo banale della durata psicologica. Mentre la musica vera ha il potere di stabilirci, non già nel tempo, bensì nella du­ rata, che è ciò che contiene il tempo e lo vince. Nella musica « gli istanti si aggiungono gli uni agli altri, in luogo di distruggersi, e compongono con la loro somma una durata che sfugge alla consumazione del tempo e raggiun­ ge in certo modo l’eternità».

4. Doppia insidia monistica: formalismo e contenutismo. Tesi suggestiva, questa identificazione della « durata » musicale con quella onde si costruisce interiormente la coscienza nel processo della vita spirituale, ma neppur essa esente da pericoli, talché sarei tentato di girare alla signora Brelet il rilievo che a me è stato rivolto, a pro­ posito del saggio che forma il cap. Ili di questo libro, quasi un’accusa di attualismo gentiliano a rovescio « Sul1 Francesco di piazza, Ascoltare la musica, in «Studium», maggio 1949, PP- 244-49.

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la linea dell’esigenza unitaria c’è da chiedersi... sino a che punto questa qualità umana e la musica siano una cosa sola. C’è infatti il pericolo che a volere troppo accentuare Yuna sola, non potendo certamente negare il fatto imme­ diato della realtà musicale, ci resti nelle mani la sola (astratta) forma sonora, che non si capisce come faccia a essere una sola per un solo istante se non è stata una sola per sempre. E se questa realtà musicale è stata solitaria per sempre, dove è andata a finire la qualità umana che con essa dovrebbe essere... una cosa sola? » Il Di Piazza, che del resto accetta in gran parte le pre­ messe del mio modo di «capire la musica», mi rimpro­ vera un peccato che, oserei affermare, è il piu alieno dalle mie abitudini di pensiero: mi accusa cioè di non aver fatto sufficientemente valere il momento della distinzione nella considerazione dell’unità e di avere rischiato, accen­ tuando troppo un’esigenza monistica, di annientare pra­ ticamente quella « qualità umana » che pure è anche per me il terreno su cui germoglia la creazione musicale. Questa non è mai stata la mia intenzione, tant’è vero che - come lo stesso Di Piazza riconosce - parlo continuamente di «osmosi tra l’esperienza vissuta dalla singola coscienza umana e la trama sonora di un discorso musi­ cale », e osmosi non può avvenire che tra due mezzi ben distinti. Ma può darsi davvero che il mio pensiero sia stato tradito da alcune espressioni verbali (per esempio a pp. 6^-68),. troppo direttamente determinate dalle sug­ gestive prospettive aperte dalla signora Brelet con la sua tesi circa l’identità di esperienza umana e di vita della musica nel segno comune del tempo, inteso come « dura­ ta» bergsoniana. Tesi a cui è forse prudente attribuire un valore essenzialmente metaforico e auspicativo, come di un « limite », in senso geometrico, a cui tende costantemente la natura della musica, senza raggiungerlo mai. Non dimentichiamo, tuttavia, che antichissima è l’intuizione oscura che nell’uomo ci sia qualcosa come una musica interna e che di natura musicale sia la norma che governa la vita della coscienza. Boezio non faceva che raccoglierne lo spunto da scrittori piu antichi, quando immaginava la sua ripartizione della musica in tre generi: mondana,

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umana e strumentale, e della seconda scriveva che « cia­ scuno che discenda in se stesso la intende », poiché null’altro che musica è ciò che « congiunge fra loro le parti della stessa anima... e mischia gli elementi del corpo o contiene in sé le parti con stabile colleganza ». Né, affer­ mava, può esserci dubbio che « la condizione della nostra anima e del corpo è soggetta in certo modo alle stesse proporzioni, con le quali una ulteriore disquisizione mo­ strerà congiungersi e intrecciarsi le modulazioni armo­ niche » \ Vorrei invece fare osservare al mio cortese contraddit­ tore che non è da escludere con tanta sicurezza com’egli fa (« non potendo certamente negare il fatto immediato della realtà musicale») l’altro pericolo, di segno opposto, a cui andrebbe incontro un tentativo monistico di unifi­ care materialmente la dualità (che è corrispondenza e coincidenza) di vita spirituale e forma musicale. Ci sono davvero i Don Ferranti che negano tranquillamente il fatto immediato della realtà musicale, e sacrificando la forma sonora restano con la «sola» (materiale) qualità umana, da loro variamente battezzata: chi la chiama « sen­ timento», chi «espressione», chi «dramma». General­ mente sono studiosi di formazione prevalentemente let­ teraria e filosofica, privi di confidenza con la tecnica musi­ cale e senz’amore per la materia sonora della musica. Ma anche un’autorità venerabile negli studi di teoria musi­ cale come Charles Koechlin, polemizzando di recente con René Maublanc e facendo valere, com’è giusto, l’esigenza espressiva contro il vuoto formalismo astratto della mu­ sica di Saint-Saèns 12, è cascato in questo tranello: «Je vois, dans votre conclusion, que vous faites intervenir la moindre valeur de l’homme, pour en déduire la moindre valeur de Partiste. Un tei procédé n’est pas pour me déplaire. M’est avis qu’on séparé trop volontiers Partiste de l’homme; et d’ailleurs il resterait inexplicable qu’un vilain individu pùt avoir de belles idées musicales ». Ora, 1 Cito da BOEzio, Pensieri sulla musica, traduzione con testo a fronte a cura di Adelmo Damerini, Firenze 1949. 2 Charles koechlin, A propos de Camille Saint-Saens, ne «La Pen­ sée», n. 24, maggio-giugno 1949, PP. 27-34.

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inesplicabile o no, sembra difficile negare che un « vilain individu » come Wagner (per non risalire a Lulli e a Ge­ sualdo da Venosa) abbia avuto alcune belle idee musicali, e con « un tei procédé » come quello che piace a Charles Koechlin, si dovrebbe anteporre alla musica di Schubert, uomo dalla mentalità di modesto maestro di scuola ele­ mentare, la musica di Boito, il quale era uno spirito nobile e colto, pieno di slanci faustiani. Tanto reale è questo pericolo, di dedurre il valore della musica dal valore dell’uomo, che a me stesso è avvenuto di sfiorarlo, in una fase della formulazione che stavo cer­ cando del concetto di involontarietà e inconsapevolezza dell’espressione artistica. Ciò traspare, per esempio, da un passo dello scrittore In margine a un congresso, qui accolto come 20 paragrafo del cap. IV, là dove si contrap­ pone (p. 90) la gigantesca personalità di Giovanni Seba­ stiano Bach alla mediocre misura « umana » dei suoi figli Filippo Emanuele e Giovanni Cristiano. E non sarà forse inutile a questo proposito svelare un segreto di bottega : in una prima versione di quello scritto, là dove si afferma (p. 88) che l’espressione si insinua a insaputa dell’artista e contro la sua volontà « in quelle combinazioni astratte di suoni o di linee, nelle quali egli dà, anche senza volerlo, la misura della propria personalità », ecco come si prose­ guiva incautamente, o per lo meno ambiguamente: «E quando questa è una personalità grande, prepotente, pro­ fondamente marcata, essa si manifesta tale anche nelle composizioni di coloro che non si propongono affatto di esprimerla e credono di lavorare esclusivamente su com­ binazioni astratte d’armonie, di timbri, di ritmi e di vo­ lumi di suoni. Quando la personalità del compositore è - ahimè! - quella d’un povero omino limitato e meschino, allora nient’altro che questo può venir fuori dalla sua musica, anche se essa si proponga di esprimere le più no­ bili e grandiose intenzioni ».

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5. L’espressione artistica come «specchio». Contro questo errore di un contenutismo sempre in agguato, che è l’attribuzione di dignità artistica a valori materialmente umani e psicologici, e contro tutte le sfu­ mature in cui esso si può presentare, sconfinando nel moralismo e nelTasservimento dell’arte a propagande ideologiche, occorre concentrare il fuoco della riflessione sopra quel fenomeno che il Bahle chiama, come abbiam visto, della Gestaltuhertragung) cioè di trasposizione for­ male o vera e propria transubstanziazione, in cui si com­ pendia il segreto operativo dell’arte. Non per le vie faticose del ragionamento, ma con l’im­ maginosa evidenza e lucidità di linguaggio e corpulenza fantastica che è concessa soltanto alle intuizioni dei poeti, questo segreto si squaderna nella definizione proustiana del personaggio di Bergotte (4 l’omhre des jeunes filles en fleur, I, pp. 117-18);

Mais le genie, méme le grand talent, vient moins d’éléments intellectuels et d’affinement social supérieurs à ceux d’autrui que de la faculté de les transformer, de les trans­ poses Pour faire chauffer un liquide avec une lampe électrique, il ne s’agit pas d’avoir la plus forte lampe possible, mais une dont le courant puisse cesser d’éclairer, ette dérivé et donner au lieu de lumière, de la chaleur. Pour se promener dans les airs, il n’est pas nécessaire d’avoir l’automobile la plus puissante, mais une automobile qui ne continuant de courir à terre et coupant d’une verticale la ligne qu’elle suivait soit capable de convertir en force ascensionnelle sa vitesse horizontale. De méme ceux qui produisent des ceuvres géniales ne sont pas ceux qui ont la conversation la plus bril­ lante, la culture la plus étendue, mais ceux qui ont eu le pouvoir, cessant brusquement de vivre pour eux-mémes, de rendre leur personnalité pareille à un miroir, de sorte que leur vie, si. mediocre d’aifleurs qu’elle pouvait étre mondainement et méme, dans un certain sens, intellectuellement parlant, s’y reflète, le genie corisistant dans le pouvoir réfléchissant et non dans la qualité intrinsèque du spectacle reflété. Le jour où le jeune Bergotte put montrer au monde de ses lecteurs le salon de mauvais goùt où il avait passe son enfance

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et les causeries pas très dróles qu’il y tenait avec ses frères, ce jours-là il monta plus haut que les amis de sa famille, plus spirituels et plus distingués: ceux-ci dans leurs belles « RollsRoyce» pourraient rentrer chez eux en témoignant un peu de mépris pour la vulgarité des Bergotte, mais lui, de son modeste appareil qui venait enfin de « décoller », il les survolait. Non ho scoperto io questa mirabile citazione, bensì la traggo da un libro di quella « sinistra estetica » di pensa­ tori e critici francesi, la cui rigorosa e spietata sterilizza­ zione dell’opera d’arte da ogni riferimento umano non va respinta a priori in nome delle eterne ragioni del cuore, del sentimento, dell’espressione, ma si può forse cercare di utilizzare come antidoto all’errore sempre risorgente del contenutismo. S’è già avuto più volte occasione in queste pagine di richiamarsi alle idee di Boris De Schloezer, alla sua bat­ taglia perché la musica venga intesa nella purezza asso­ luta della sua natura essenziale, e non come una specie di afrodisiaco intellettuale, capace di ridestare nell’ascol­ tatore gratuite e gradevoli fantasticherie, né come uno strumento narrativo o descrittivo. Il suo articolo Com­ prendere la musica, pubblicato nel 1931 da « La Rassegna Musicale», è stato un punto di partenza fondamentale per la revisione di alcuni essenziali concetti estetici se­ condo le esigenze avanzate dall’esperienza musicale. Questi pensieri egli ha sviluppato in un libro 1 nato da una singolare avventura intellettuale, e tale che testi­ monia della probità dello scrittore: egli s’era accinto a uno studio dell’arte di G. S. Bach, ma man mano che pro­ cedeva nel suo lavoro cominciò ad accorgersi dell’impre­ cisione e incertezza della maggior parte dei termini di cui si serviva. «Potevo abbandonarmi a dotte disserta­ zioni sulla musica di Bach, quando ignoravo che cosa sia propriamente un’opera musicale, come sia costituita, che cosa significhi esattamente ascoltarla, comprenderla, se essa sia capace o no di espressione (e del resto, che cosa è 1 Boris de schloezer, Introduction à }. S, Bach (Essai d’esthétique musicale) t Paris J947.

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l’espressione?), che cosa siano la sua forma, la sua mate­ ria, il suo contenuto (se ha un contenuto), e qual sia il rapporto tra il ritmo, l’armonia, la melodia? » Abbiamo già detto in che larga misura ci professiamo noi stessi debitori verso le idee introdotte dallo Schloe­ zer nell’estetica e nella critica musicale. Il suo smantella­ mento di tutte le posizioni edonistiche nei riguardi della musica, la sua vigorosa affermazione di una attiva colla­ borazione intellettuale da parte dell’ascoltatore, che la musica non è un comodo nirvana da lasciarsi piovere ad­ dosso passivamente, e soprattutto la sua mirabile indi­ viduazione della natura « fenomenica » - non semantica del linguaggio musicale, il quale non è un segno di qual­ cosa che stia al di là e che si debba raggiungere passando oltre e attraverso il linguaggio stesso, ma è contenuto e forma, significante e significato: tutto ciò è entrato da tempo nel patrimonio del nostro pensiero, e ci è stato di grande utilità nella elaborazione del.nostro modo d’inten­ dere la musica. E tuttavia chi si sentirebbe di seguire lo Schloezer fino al fondo delle vertiginose conclusioni a cui egli arriva in questo suo originale volume? Non già che sia possibile avvertire nel suo ragionamento una sconcordanza, una deviazione qualsiasi dalla rigorosa correttezza del ragio­ namento. Ma le premesse culturali da cui egli muove non sono le nostre, l’ambiente e il costume del suo fenomenologismo husserliano si valgono d’un metodo di lucido in­ tellettualismo che nella sua formidabile potenza di astra­ zione ignora completamente la realtà dei valori storici. In fondo, era fatale ed è simbolico che proprio allo Schloezer toccasse quest’avventura intellettuale di muo­ versi per studiare l’opera determinata e concreta d’un musicista storicamente individuato - Bach - e di finire invece col dissertare in astratto dell’opera d’arte musicale. Poiché nella sua fiera diffidenza d’ogni empiria e d’ogni «psicologismo», egli recide tutti i legami che congiun­ gono l’opera d’arte al suo creatore, e la proietta in uno spazio vuoto e astratto, come il frutto di qualche sibillina fecondazione artificiale, rigorosamente chiusa in sé e sola competente a rispondere di se stessa. Che un’opera musi­

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cale sia nata nel Seicento o nell’ottocento, in Germania o in Italia, che l’abbia scritta l’intelligentissimo Strawin­ sky o l’appassionato Bellini, tutto ciò non serve a com­ prenderla: è materiale esterno, aneddotico, psicologico. « Études des structures » viene definita l’estetica a p. 159. A p. 212 se ne esclude nientemeno che «l’acte créateur de Partiste, dont l’étude relève de la psychologic plutót que de l’esthétique ». E a un altro punto (p. 243) lo Schloezer dichiara: «... l’auteur ne m’intéresse pas pour l’instant»: e c’è da chiedersi quando mai gli interesserà, dato che per lui le opere d’arte sono queste miracolose orfane, sulle quali bisogna centrare tutto il fuoco dell’at­ tenzione, senza concedersi di gettare neanche un raggio di luce sopra le circostanze della loro produzione, su ciò che lo Schloezer assimila al « terrain » di una pianta. Ma si, a p. 276 (il libro ne conta 307), avviene final­ mente la sensazionale ammissione che a certe domande non si può rispondere «tant que l’on considère l’ceuvre en elle-méme » e che « à partir de ce moment il nous faut changer de point de vue; et nous sommes nécessairement amenés à rétablir l’ceuvre à sa place dans la sèrie des événements de notre univers, à remonter jusqu’à ses origines, à rechercher les facteurs ayant contribué à sa naissance, pour trouver sa raison dernière en son créateur. Ainsi toute théorie esthétique est-elle finalement obligee d’aborder le problème des rapports entre l’ceuvre et Par­ tiste ». In realtà, tanto ripugna allo scrittore questo accosta­ mento alla concretezza carnale dei valori storici, che nel­ l’ultimo capitolo del libro, quello che dovrebbe appunto essere destinato ai rapporti tra l’opera e l’artista, egli in­ venta la finzione di un «io mitico», al quale si deve la paternità delle opere d’arte, e che non ha niente da ve­ dere - per carità! - con l’accidentale esistenza empirica di quelle persone cosi e cosi individuate nel tempo e nello spazio, che si chiamano Bach, Beethoven e Schubert. Il che è veramente sequestrarsi dalla realtà per timore delle sue accidentali imperfezioni empiriche, e condan­ narsi a vivere in un cosmo perfetto e indubbiamente ti­ rato a linea d’arte, ma che ha il piccolo difetto di non

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esistere, d’essere una comoda finzione cartesiana, non piu reale di quanto sia reale, poniamo, la geometria. Qui ve­ ramente giganteggia il pericolo segnalato dal Di Piazza, che a forza di concentrare monisticamente l’attenzione soltanto sull’apparenza musicale, si finisca per restare con un pugno di mosche sull’altro piatto della bilancia, e si annienti praticamente quella realtà dei valori espressivi e umani che in teoria perfino lo Schloezer è costretto, a denti stretti, a concedere. Noi crediamo invece che sia possibile salvare la purezza d’una concezione estetica della musica, non inquinata da psicologismi, senza rinunciare alla realtà e alla concre­ tezza dei valori storici. Il nostro modo d’intendere la musica muove in non piccola parte proprio dalle idee fondamentali enunciate dallo Schloezer nel suo vecchio articolo di cui già s’è fatto cenno; e poi ne diverge con quello scarto per cui divergono le idee di una persona cre­ sciuta nell’indirizzo dell’intellettualismo cartesiano dalle idee d’una persona cresciuta nell’indirizzo dello storici­ smo vichiano. Non è possibile un accordo totale? Non è possibile che da due cammini differenti si possa pervenire al possesso della stessa virtù? Occorre approfondire il concetto di «espressione», soprattutto adottando la nozione di «espressione inconsapevole», che in questo libro si è cer­ cato di fondare: espressione, cioè, come una specie di osmosi spirituale, per cui tutta la carica di personalità umana d’un artista passa, magari senza ch’egli se lo pro­ ponga e manco se n’accorga, nell’opera d’arte alla quale egli sta lavorando, tutto impegnato unicamente in pro­ blemi di struttura. Perché la struttura da sola non basta a produrre l’opera d’arte. Ne conosciamo tutti di opere musicali la cui struttura è perfetta, in cui tutti i rapporti sono soddisfacenti, e manca soltanto quel piccolo parti­ colare che è la bellezza, cioè la vivida impronta d’una personalità umana concretamente individuata. E il ponte sul quale, io credo, lo Schloezer e gli studiosi italiani d’e­ stetica potrebbero incontrarsi a mezza strada, è appunto la meravigliosa citazione proustiana ch’egli fa nell’ultimo capitolo, dov’è descritta quella qualità del genio che con­

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siste nelFattitudine a stampare la propria personalità quale ch’essa sia, alta o bassa, mediocre o sublime — nella propria opera. Questo « pouvoir réfléchissant » \ questo fenomeno di Gestaltubertragung, è ciò che noi chiamiamo « espressione », in un senso ben piu ricco e articolato che non il pratico bisogno di manifestare e sfogare i propri sentimenti, e ne rivendichiamo la definizione e lo studio ai compiti dell’estetica. 1 È da ricordare a questo proposito l’articolo di Hans mersmann, La musica come «specchio» («La Rassegna Musicale», settembre-ottobre 1939, PP* 369-79), nel quale si cercava di raccogliere sotto il concetto generale di «specchio» o «riflesso» (Spiegelung) tutti i contenuti extra­ musicali che pure dell’opera d’arte musicale sono la premessa e l’occasio­ ne, siano essi prodotti dell’esperienza intima dell’artista come del tempo in cui egli visse e operò. «Specchio», insomma, è per il Mersmann «la somma di tutti i rapporti che legano il fatto musicale alle sorgenti dina­ miche extramusicali» e «immagine di tutte le possibilità che la musica ha di accogliere in sé contenuti tangibili o intangibili, oggettivi o soggetti­ vi». Anche questa immaginosa concezione della natura «speculare» e ri­ flettente dell’espressione musicale (noi diremmo, in genere, dell’espres­ sione artistica) mirava in sostanza ad affermare il carattere di possibile involontarietà e inconsapevolezza: «La musica, - scrive il Mersmann, - è sempre e totalitariamente uno specchio, intenda o no il compositore di renderla tale».

Vili.

Aspetti e applicazioni del concetto di espressione involontaria

Supposto che la grafologia sia una cosa seria, se ne può cavare una utile similitudine per descrivere, ancora una volta, il carattere involontario e inconsapevole dell’e­ spressione artistica. Più d’una volta grafologi hanno esa­ minato i manoscritti di Beethoven per trarne induzioni sugli elementi del- suo carattere e della sua personalità \ Cosi facendo, si sono accostati tanto ai manoscritti delle lettere più confidenziali ed accese di roventi confessioni romantiche, quanto ai manoscritti delle note per la lavan­ daia che il « Gran Sordo » scombiccherava frettolosamen­ te nei suoi taccuini. Ora un grafologo che veramente sap­ pia il fatto suo avrà dovuto leggere le stesse indicazioni tanto negli uni che negli altri documenti: la scrittura con cui la mano trepidante di Beethoven vergò, il 6 ottobre 1802, nel sobborgo viennese di Heiligenstadt, la confes­ sione della sua sordità e descrisse il proprio dramma in­ teriore e l’eroica risoluzione di ribellarsi al destino av­ verso, deve rivelare al grafologo le stesse informazioni che il foglietto del questionario domestico da lui propo­ sto, il 24 dicembre 1817, alla pietosa amica Nanette Streicher: 1) Che cosa si dà da mangiare, a pranzo e a cena, a due persone di servizio? Per qualità e per quantità? 2) Quante volte la settimana bisogna dar loro l’arrosto? 3) L’arrosto si dà a pranzo o a cena? 4) La servitù mangia lo stesso che i padroni, o si fa dei cibi diversi? 1 Cfr.» p. es.: ludwig klages, Dìe Handschrift Beethovens, in «Universitas», Stuttgart 1949, n. 3, pp. 291-97.

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La natura dell’espressione artistica è simile a quella per cui - se sono validi i fondamenti della grafologia - la personalità di Beethoven si sarà manifestata tanto nella scrittura del Testamento di Heiligenstadt quanto in quel­ la del questionario domestico: una emanazione indipen­ dente dalla volontà di espressione, un’impronta digitale dello spirito lasciata su quella materia plastica che sono, per il compositore, le note, i ritmi, gli accordi, i timbri, le melodie. E come si squalificherebbe un grafologo il quale cavasse le sue deduzioni sulla personalità di Bee­ thoven dal contenuto del Testamento di Heiligenstadt, anziché dal modo di tracciare i segni dell’alfabeto in que­ sto scritto quanto nelle note della lavandaia, cosi si squa­ lifica il musicologo che le sue conclusioni sull’arte di Bee­ thoven tragga, appunto, dalle lettere e dalle testimonianze psicologiche, anziché dai suoni delle Sinfonie, dei Quar­ tetti e delle Sonate, anche se, per avventura, tali conclu­ sioni abbiano a coincidere.

i. Espressione implicita ed espressione esplicita. A questo punto non si può ulteriormente eludere una domanda che forse si sarà già affacciata molte volte alla mente del lettore. E cioè: l’inconsapevolezza dell’espres­ sione è una condizione sine qua non dell’opera d’arte? Soltanto l’espressione implicita, e non l’espressione espli­ cita ha merito artistico? L’eventuale presenza d’una di­ chiarata volontà espressiva è motivo sufficiente per un giudizio estetico negativo? Basta porre queste domande, perché alla mente del co­ noscitore si affacci immediatamente l’enorme messe di capolavori musicali i quali cadrebbero fuori d’una defini­ zione dell’arte da cui si volesse escludere, come una circo­ stanza negativa e incompatibile, la volontà d’espressione. Non sono soltanto i tre secoli e mezzo di opera lirica che, ipso facto, verrebbero squalificati, e la massima parte di quella musica che, associata alla parola, cerca di interpre­ tare nel canto i valori espressivi d’un testo poetico, ma anche molti capolavori della stessa musica strumentale

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- da Beethoven a Strauss, a Debussy - nei quali è inne­ gabile la presenza d’una esplicita, e talvolta apertamente dichiarata volontà d’espressione. D’altra parte stanno pure presenti alla mente del cono­ scitore le numerose opere musicali che non potrebbero in alcun modo rientrare nella categoria dell’arte, quando se ne postulasse la esplicita volontà espressiva come at­ tributo imprescindibile: non solo gran parte della produ­ zione di artisti contemporanei - Hindemith, Strawinsky, Casella, Ravel, Roussel - i quali escludono apertamente e polemicamente ogni intento espressivo, ma anche molti capolavori indiscutibili del passato, in particolare della musica strumentale preottocentesca. Non è possibile rico­ noscere in buona fede una qualsiasi intenzione espressiva nei Concerti brandeburghesi di Bach, nelle Invenzioni a due e a tre voci, nell’/lr/e della fuga e neWOfferta mu­ sicale, È quindi sotto la guida costante della realtà storica del­ l’arte, a cui occorre dar piena soddisfazione, e non per un preconcetto teorizzamento sistematico, che si perviene alla determinazione del sottile rapporto che intercorre tra la natura inconsapevole dell’espressione artistica e la possibile presenza d’una cosciente volontà espressiva. Il rapporto non è di esclusione e incompatibilità, su un pia­ no d’equivalenza che permetta di stabilire un aut aut\ è invece un rapporto tra essenziale ed accessorio. La vo­ lontà espressiva è un elemento facoltativo, una circostanza storica come tante altre che può entrare nella produzione dell’opera d’arte e conferirle alcuni determinati aspetti (abbiamo visto che la presenza della volontà espressiva può probabilmente assumersi come utile indice di defini­ zione, dall’interno, dell’arte che si suol chiamare roman­ tica); ma non modifica per nulla la natura sostanzialmente inconsapevole dell’espressione artistica. Questa consiste in quella Gestaltubertragung, in quel proustiano pouvoir réfléchissant per cui le qualità della persona si sublimano in valori artistici, indipendentemente dalla volontà o me­ no di espressione. Là dove si riscontra questa espressione implicita, là riconosciamo la qualità dell’arte: la conco­ mitanza di una deliberata ed esplicita volontà d’espres­

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sione non è necessaria — ma non è nemmeno necessariamente un impedimento — alla realizzazione dell’opera d’arte; è, come s’è detto, una circostanza accessoria e con­ tingente, di cui indubbiamente il critico ha da tener con­ to, come d’ogni altra che contribuisca alla individuazione e caratterizzazione storica delle singole opere d’arte. Ritornando per un momento alla metafora grafologica: c’è il testamento di Heiligenstadt e c’è la nota della la­ vandaia, entrambi scritti di pugno da Beethoven. Nell’uno e nell’altra personalità di Beethoven si manifesta, si « tra­ disce » - sempre che la grafologia non sia un mito - nel modo di tracciare le lettere dell’alfabeto, nel segno la­ sciato sulla carta. Il fatto che tali segni vengano usati nel Testamento di Heiligenstadt per manifestare idee, senti­ menti, propositi che confermano quella tale immagine psicologica di Beethoven rivelata dalla grafia, è una circo­ stanza collaterale che non modifica, né pro né contro, il valore «grafologico» del documento. Analogo è il rap­ porto che si riscontra nell’opera d’arte tra l’indispensabile espressione inconsapevole e la possibile presenza d’una volontà espressiva. La sola espressione implicita basta alla realizzazione dell’arte; la sola espressione esplicita non basta (ancorché l’intervento d’una deliberata volontà espressiva, in aggiunta alla presenza dell’inconsapevole espressione implicita, non sia necessariamente un osta­ colo).

2. Il commento musicale del cinematografo. La volontà d’espressione da sola, scompagnata da quel fenomeno di emanazione involontaria in cui consiste l’e­ spressione artistica, serve soltanto alla produzione di mu­ siche illustrative a carattere utilitario, come, ad esempio, le partiture cinematografiche, nelle quali la musica viene abitualmente impiegata non per il suo valore artistico, bensì per il suo valore semantico, per le sue possibilità come linguaggio di pratica comunicazione. Possibilità che, sebbene siano certamente inferiori a quelle possedute dal­ la parola e anche dalla raffigurazione visiva, non sono poi

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cosi scarse come potrebbero far credere i luoghi comuni spesso ripetuti sulla condizione di straordinaria purezza che sarebbe propria della musica in confronto alle altre arti. Ne è una prova l'esistenza, e il continuo impiego nella vita quotidiana, di «segnali acustici», altrettanto efficaci quanto i segnali figurativi che sono tanto familiari, poniamo, a ogni guidatore d’automezzi e che indicano, con la stessa precisione del linguaggio e con piu imme­ diata evidenza, «svolta pericolosa», «passaggio a livel­ lo », « incrocio stradale », « cunetta » e simili. Allo stesso modo la vita dei soldati in una caserma è tutta regolata da certe suonatine di tromba che non hanno evidentemente alcun valore artistico, ma ne hanno uno semantico irre­ sistibile, se una basta a farli scendere tutti in cortile con la gavetta, un’altra a mandarli a letto, un’altra a farli scat­ tare sull’attenti perché si alza la bandiera o perché il si­ gnor colonnello entra nella camerata. Allo stesso modo i suoni delle campane parlano un linguaggio che è ancora chiaramente intelligibile alla semplice gente delle cam­ pagne. Allo stesso modo durante la guerra un determinato suono di sirena aveva il potere di far piombare tutti i cittadini, allarmatissimi, negli ipogei dei rifugi antiaerei e un altro, diverso suono valeva a farneli emergere trepidi e rasserenati, mormorando: - Anche questa è passata liscia. Le possibilità semantiche della musica hanno questo particolare, che minimamente impegnano le facoltà men­ tali dell’uomo, ma agiscono invece quasi esclusivamente attraverso vie istintive, lasciando in riposo, o libera per altri scopi, l’intelligenza. Su questo fatto si fonda l’ine­ stimabile utilità dell’accompagnamento musicale cinema­ tografico: perché, mentre l’intelligenza, il raziocinio dello spettatore segue attentamente le immagini dello schermo e i loro discorsi, frattanto il musicista, se sa il fatto suo, può potenziare al massimo, con un’accorta scelta dei tim­ bri, dei ritmi e delle modulazioni armoniche, gli atteggia­ menti affettivi sprigionati dalla vicenda dello schermo, o magari suggerirgliene altri, pressoché a sua insaputa, in modo da orientarlo insensibilmente ad intendere l’azione dei personaggi nel modo voluto dall’autore o dal regista

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del film. C’è tutto un vocabolario di locuzioni musicali, la cui efficacia espressiva non ha niente da vedere con l’e­ spressione in cui diciamo consistere la natura dell’arte, e solo per povertà di vocabolario si continua a parlare di « espressione » in entrambi i casi: sarebbe bene, almeno, introdurre nell’uso le determinazioni di « espressione im­ plicita », per indicare il fenomeno estetico della rappre­ sentazione artistica, e di « espressione esplicita » per indi­ care il fenomeno pratico della comunicazione semantica: quello per cui, ad esempio, sentimenti marziali e batta­ glieri vengono eccitati dal timbro delle trombe, e una disposizione al devoto raccoglimento dell’animo viene naturalmente sollecitata dal timbro dell’organo; quello per cui il movimento rapido delle note ha un diverso effetto psicologico che il movimento lento, un ritmo inci­ sivo e marcato agisce diversamente sull’ascoltatore che non un ritmo piano e uniforme, un’improvvisa modula­ zione in minore può produrre un’impressione di oscura­ mento e di malinconia, ecc. Tutti effetti reali della musica, ma di una musica che resta, per così dire, al di qua degli interessi dell’estetica, poiché la sola capacità di produrre tali effetti non la eleva ancora alla dignità d’arte. Effetti che ogni musicista il quale sappia il suo mestiere può produrre a piacere, con una sorta di cinismo espressi­ vo, nel quale opera al massimo la volontà d’espressione, ma dal quale esula completamente quella inconsapevole espressione di sé che è la sostanza stessa dell’arte.

3. Sulla funzione sociale dettarle. Questo modo di definire l’espressione artistica, come un fenomeno involontario di emanazione spirituale che si comunica allo stile dell’opera d’arte prodotta, conduce naturalmente alla sana impostazione e alla soluzione di un problema fra i più dibattuti nel nostro tempo: quello dell’arte, come si suol dire, «impegnata». È chiaro che un’ideologia politica o sociale potrà ottenere, su commis­ sione, dai musicisti e in genere dagli artisti opere di pro­ paganda, nelle quali la consapevole volontà di espressione

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venga rivolta a determinati scopi. Ma la sola volontà d’e­ spressione non basta alla produzione di opere d’arte; per­ ché un’opera d’arte sia ispirata da un’ideologia qualsiasi (cosa possibilissima), non serve questa scorciatoia, ma soltanto serve la via lunga, quella che non si comanda con nessun decreto legge e con nessuna deliberazione di auto­ rità civili e religiose. Occorre che artisti sorgano i quali di questa ideologia si siano letteralmente permeati e sa­ turati, ne abbiano fatto lo scopo e la sostanza della loro vita, il midollo della loro personalità: e allora, senza nean­ che proporselo, qualunque armonia di suoni, o di colori o di parole essi imprendano a comporre, sarà una testimo­ nianza di quella ideologia, sarà una manifestazione di quella concezione della vita e del mondo ch’essi hanno fatto propria con totale dedizione. A questo modo l’arte, non già entra al servizio di una ideologia, ma se ne nutre, cosi come può alimentarsi di qualsiasi altro contenuto umano. C’è in questa smania che gli artisti si mettano a com­ battere delle nobili battaglie, e debbano essi - proprio come scrittori, come pittori, come musicisti, e non sem­ plicemente come uomini e come buoni cittadini - scuo­ tere il giogo del capitale, « disarmare la belva » e costruire la nuova società, c’è in tutta questa smania un doppio equivoco: su quella che è la vera natura dell’arte (e in particolare dell’espressione), e su quello che è, per lo scrittore e per l’artista, il modo di partecipare alla vita politica e sociale del suo tempo e derivarne alla propria opera quel particolare tono di dignità civile e di virile robustezza che distingue un Parini da un Frugoni, un Alfieri da un Metastasi©, un Verdi da un Ponchielli. Cul­ tura e arte, in quanto tali, non hanno che un modo di contribuire all’incremento della civiltà e al benessere del­ l’uomo: ed è di essere buona cultura e buona arte. L’ar­ tista non partecipa alla vita e alla lotta politica in quanto tale, ma vi partecipa come uomo: come tutti gli altri si appassiona e si impegna nei destini del suo paese, della sua classe, senza obblighi particolari e senza diritti parti­ colari per il fatto d’essere artista, scrittore o uomo di cul­ tura. Da questa partecipazione sentita e sofferta ai gene-

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rail doveri politici del suo tempo, partecipazione che lo fa uomo tra gli uomini e allontana da lui il pericolo del­ l’appartamento estetistico, gli deriva quell’arricchimento della sostanza umana che si rifletterà poi nell’opera sua, anche s’egli non si preoccupi di mettere la propria arte al servizio di un ideale politico, ma le mantenga la piò assoluta indipendenza. Non è questione di fini da propor­ si, ma è questione di accento, di qualità umana che verrà involontariamente espressa nell’opera d’arte. Se cosi non fosse, Vincenzo Monti fornirebbe l’esempio piu illustre di littérature engagée di tutti i tempi e di tutti i paesi; invece non è che un puro letterato astratto, e c’è più par­ tecipazione e coscienza del divenire d’Europa durante l’età napoleonica in un solo verso dei Sepolcri, o magari delle Grazie, che non in tutti i poemetti storico-politiciincensativi di quel cinico versificatore. -E in qualsiasi so­ netto amoroso, apparentemente petrarchésco, di Miche­ langelo c’è maggior dignità d’uomo e di cittadino che non neWItalia, Italia, o tu cui feo la sorte di Vincenzo da Filicaia. Per innaffiare una pianta non occorre fare un buco per terra e farvi passare un canale che porti l’acqua direttamente alle radici: basta gettare l’acqua per terra intorno al tronco, poi ci pensa lei a trovare le vie segrete per giun­ gere alle radici. L’essenziale è che sia acqua pura; non intossicata.

Appendice L’interpretazione musicale

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