Les corps en scène. Acteurs et personnages pasoliniens (Grenoble 3, 23-24 aprile 2009) 9788862273923, 9788862273930

Il presente volume raccoglie i saggi presentati in occasione del convegno internazionale organizzato dal centro di ricer

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Italian, French Pages 172 [167] Year 2011

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Table of contents :
SOMMARIO
INTRODUZIONE
UN SPECTRE HANTe LE THéÂTRE – LE SPECTRE DU CORPS. LE CORPS DANS LE THéÂTRE DE PIER PAOLO PASOLINI
Larmes, cris et tremblements
dans le théâtre de Pier Paolo Pasolini
IL CORPO SACRIFICALE NEL CINEMA DI PASOLINI
: L’INCONTRO CON IL LIVING THEATRE
MAMMA ROMA, ETTORE, CARMINE:
UNA TRINITÀ SOTTOPROLETARIA
FRA REALTÀ E POSSIBILE FINZIONE: GLI PSEUDO-PERSONAGGI DI APPUNTI PER UN FILM SULL’INDIA E APPUNTI PER UN’ORESTIADE AFRICANA
IMMAGINI DEL CORPO GROTTESCO IN UCCELLACCI E
UCCELLINI
LE MYSTèRE DE L’INCARNATION: FIGURES ET FIGURATIONS CHRISTIQUES DANS L’éVANGILE SELON SAINT MATTHIEU (1964)
DE PIER PAOLO PASOLINI
LES YEUX TARTARES DE JOCASTE, LES YEUX BARBARES DE LUCIA: LA FONCTION ARCHETYPALE DE SILVANA MANGANO DANS EDIPO RE ET TEOREMA
LE CORPS FIGURE MéTAPHORIQUE
DANS OEDIPE-ROI
MARIA CALLAS, REGINA NON VISTA. MEDEA E LE OMBRE DELLE COSE FUTURE
SALò OU L’ACTEUR ENTRE EXACTITUDE
DU GESTE ET AMBIGUÏTé DU SENS
INDICE DEGLI AUTORI CITATI
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Les corps en scène. Acteurs et personnages pasoliniens (Grenoble 3, 23-24 aprile 2009)
 9788862273923, 9788862273930

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LES C O R PS E N S C è N E Acteurs et personnages pasoliniens un iv e rsité ste n dhal · grenoble 3 2 3-2 4 a p ril e 20 0 9

a cur a di l isa e l g h aoui

b ib l iote ca di « stud i pasoliniani» 2.

PISA · RO M A FABRIZ IO SERRA E D ITO RE 2011

BI BL I O T E CA D I «S T U D I PAS OLIN IAN I» co l la na diretta da g u ido santato

2.

LES C O R PS E N S Cè N E Acteurs et personnages pasoliniens un iv e rsité ste n dha l · grenoble 3 2 3-2 4 a p ril e 20 0 9

a cur a di l isa e l g haoui

PISA · ROM A FABRIZ IO SERRA E D ITO RE 2011

Volume pubblicato con il contributo del Centre d’Études et de Recherches sur la Civilisation Italienne Contemporaine de l’Université Stendhal di Grenoble (cercic). * Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l’adattamento, anche parziale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, compresi la copia fotostatica, il microfilm, la memorizzazione elettronica, ecc., senza la preventiva autorizzazione scritta della Fabrizio Serra editore. Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge. Proprietà riservata · All rights reserved © Copyright 2011 by Fabrizio Serra editore, Pisa · Roma. www.libraweb.net Uffici di Pisa: Via Santa Bibbiana 28, I 56127 Pisa, tel. +39 050 542332, fax +39 050 574888, [email protected] Uffici di Roma: Via Carlo Emanuele I 48, I 00185 Roma, tel. + 39 06 70493456, fax +39 06 70476605, [email protected] Stampato in Italia · Printed in Italy isbn 978-88-6227-392-3 isbn elettronico 978-88-6227-393-0

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SOMMARIO Lisa El Ghaoui, Introduzione Stéphane Hervé, Un spectre hante le théâtre – le spectre du corps. Le corps dans le théâtre de Pier Paolo Pasolini Pierre Katuszewski, Larmes, cris et tremblements dans le théâtre de Pier Paolo Pasolini : pour une poétique de l’acteur Irina Possamai, Il corpo sacrificale nel cinema di Pasolini : l’incontro con il Living theatre Amandine Mélan, Mamma Roma, Ettore, Carmine : una trinità sottoproletaria Giovanni Solinas, Fra realtà e possibile finzione : gli pseudo-personaggi di Appunti per un film sull’India e Appunti per un’Orestiade africana Paula Regina Siega, Immagini del corpo grottesco in Uccellacci e uccellini Jean-Baptiste Chantoiseau, Le mystère de l’incarnation : figures et figurations christiques dans L’Évangile selon Saint Matthieu (1964) de Pier Paolo Pasolini Magali Vogin, Les yeux tartares de Jocaste, les yeux barbares de Lucia : la fonction archetypale de Silvana Mangano dans Edipo re et Teorema Corinne Giordano, Le corps figure métaphorique dans Œdipe-Roi Giona Tuccini, Maria Callas, regina non vista. Medea e le ombre delle cose future Davide Luglio, Salò ou l’acteur entre exactitude du geste et ambiguïté du sens  

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Indice degli autori citati

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INTRODUZIONE Lisa El Ghaoui

I

l presente volume raccoglie i saggi presentati in occasione del convegno internazionale organizzato dal centro di ricerca gerci (Groupes d’Etudes et de Recherche sur la Culture Italienne) dell’Università Stendhal di Grenoble, il 23 e 24 aprile 2009 : Les corps en scène - acteurs et personnages pasoliniens, promosso e coordinato dalla sottoscritta. Un convegno che ha fatto seguito ad altri due convegni incentrati sull’opera di Pasolini (Pasolini : Poète Prophète Provocateur nel 2007 e Pays Paysages Passages. La symbolique de l’espace dans l’œuvre de Pasolini nel 2008) i cui atti sono stati raccolti nel primo volume di questa stessa collana Biblioteca di « Studi pasoliniani » con il titolo : Pier Paolo Pasolini. Due Convegni di studio, Université Stendhal, Grenoble 3, 23-24 maggio 2007 - 3-4 aprile 2008, a cura di Lisa El Ghaoui, Fabrizio Serra editore, Pisa-Roma, 2009. Con la ricorrenza annuale, poi a partire dal 2009, biennale, di queste giornate di studio ed incontri internazionali intorno all’opera di Pasolini, l’Università Stendhal di Grenoble, grazie all’impegno del gerci, è diventata una sede molto importante di dibattiti, scambi, riflessioni e ricerche, aperta a critici, docenti, traduttori, giovani ricercatori, studenti ma anche professionisti del mondo dello spettacolo e personalità che hanno lavorato con Pasolini. La collaborazione con la rivista Studi pasolianiani, diretta dal Professor Guido Santato, offre inoltre la possibilità di dare ai lavori presentati durante queste giornate un’ampia diffusione internazionale. Questo ultimo convegno, oltre ad accogliere ricercatori e studiosi di varie università e paesi (Francia, Italia, Belgio, Brasile) è stato arricchito dalla presenza di Ninetto Davoli che ha condiviso con il pubblico, e con molta generosità, la sua esperienza diretta. Il testimoniare, il raccontare, il ricordare hanno avuto un ruolo centrale in questo convegno che trattava del rapporto tra l’artista e il corpo dei suoi personaggi e attori : un corpo usato come strumento dall’artista ma sempre, sostanzialmente, archivio di emozioni, sentimenti e storie. In questo senso, il materiale messo a disposizione dal Centro Studi - Archivio Pasolini di Bologna (interviste inedite, fotografie) e presentato da Loris Lepri, ha permesso di creare un legame intimo e concreto tra i saggi teorici e la realtà vissuta sul set dagli attori, per mettere in luce il modo del tutto originale e particolare in cui Pasolini sceglieva e dirigeva i propri attori, creando accostamenti insoliti tra attori professionisti, divi internazionali e ragazzi di vita, facendo circolare da un film all’altro gli stessi volti, gli stessi corpi trasformati, travestiti ma carichi della stessa energia vitale. La presenza ricorrente degli stessi attori, degli stes 











10 lisa el ghaoui si corpi nella produzione cinematografica di Pasolini segnala paradossalmente un’assenza : l’assenza di un’identità fissa, determinata, immobile, l’assenza di un corpo univoco, integro, definibile. Ed è proprio nei frangenti di fuga, negli spazi di sovversione e trasgressione in cui il corpo diventa ‘altro’ che viene rivelata la sua essenza, la sua verità. Nel primo gruppo di saggi incentrati sul teatro di Pasolini, è proprio questa dimensione fantasmagorica del corpo in scena che viene studiata dagli autori. Stéphane Hervé per esempio evoca un corpo spettrale, assente, scomparso che aleggia inafferrabile mentre i personaggi parlano costantemente della sua presenza, della sua realtà fatta, come lo sottolinea nel suo saggio Pierre Katuszewski, di lacrime, urla e tremiti. Queste manifestazioni emotive del corpo vengono esibite, descritte, analizzate dagli stessi personaggi creando così una particolare distanziazione tra l’attore che dice l’emozione e il personaggio che la vive, tra il corpo che racconta e il corpo che respira. Se Pierre Katuszewski ritrova nell’uso di questi momenti di espressività primordiale dei riferimenti al teatro greco e romano, Irina Possamai rintraccia invece dei collegamenti tra il teatro di Pasolini e il Living Theatre attraverso le nozioni di sacrificio, ritualità e performance che rimettono ancora una volta al centro del discorso il corpo nella sua sacrale espressività. Gli altri relatori si sono invece interessati alla rappresentazione del corpo nel cinema : ogni fase della produzione cinematografica è stata qui analizzata, partendo dalla disperata vitalità dei corpi sottoproletari dei primi film per arrivare ai corpi mutilati della tragica allegoria che rappresenta Salò. Amandine Mélan rilegge Mamma Roma a partire dalle figure dei tre protagonisti che definisce « trinità sottoproletaria » alludendo già, con la scelta di quest’espressione, alla dimensione mitico-biblica della storia presentata da Pasolini. Giovanni Solinas, nel ripercorrere i documentari pasoliniani e la loro dimensione metafilmica, mette in luce il problema dell’incarnazione dei personaggi attraverso l’operazione di ricerca di volti e corpi che potrebbero diventare potenziali attori, in una potenziale scena, di un potenziale film. La volontà di Pasolini è quella di far sì che gli attori non ‘diventino’ personaggi perché in questo modo perderebbero la loro realtà. La frontiera tra il realismo e il grottesco viene studiata nel saggio di Paula Regina Siega che rintraccia forme di « realismo grottesco » e « abbassamento corporeo » in Uccellacci e Uccellini partendo dall’analisi di corpi che assimilano e deglutiscono, ridono e si accoppiano. Il mistero dell’incarnazione viene invece studiato da Jean-Baptiste Chantoiseau che mostra come la « purificazione estetica », la valorizzazione dell’oralità e le tecniche di montaggio utilizzate da Pasolini nel Vangelo secondo Matteo rivelino la verità del corpo cristico. La figura di Cristo permette di introdurre i tre saggi incentrati sulla rappresentazione del corpo nei film mitologici, dove, non sono più giovani proletari o attori non professionisti ad essere protagonisti bensì attori o personaggi pubblici famosi, come la Callas o Silvana Mangano. Magali Vogin, ripercor 



















introduzione 11 rendo i ruoli interpretati dalla Mangano nel cinema di Pasolini, identifica una funzione archetipale che nasce soprattutto dallo sguardo « tartaro » e « barbaro » dell’attrice. La sua presenza scenica è anche studiata, in parte, da Corinne Giordano che spiega come in Edipo re il corpo degli attori diventa figura metaforica del linguaggio cinematografico. È infine la Callas, con il suo volto insieme ieratico e onirico, contadino e preistorico ad essere la materia centrale del saggio di Giona Tuccini in cui vengono delineati i fili che uniscono visceralmente l’attrice al personaggio. Nell’ultimo saggio del volume, che prende in considerazione, non a caso, l’ultima opera cinematografica di Pasolini, Davide Luglio spiega come il nostro autore proponga, con una tecnica e una direzione degli attori del tutto nuove, una « greve allegoria » dal senso sospeso, molto simile ad un mistero medioevale, ‘illeggibile’. La varietà e la ricchezza delle tematiche trattate in questi saggi ci permettono di capire l’importanza primordiale del corpo nell’opera di Pasolini, inteso non solo come materia artistica ma come luogo sacro, ambiguo e sfuggente in cui si esprimono la crisi identitaria dell’individuo e quel conflitto così tipicamente pasoliniano, tra desiderio e cultura, passione e ideologia, tradizione e modernità.  











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UN SPECTRE HANTe LE THéÂTRE – LE SPECTRE DU CORPS. LE CORPS DANS LE THéÂTRE DE PIER PAOLO PASOLINI Stéphane Hervé

D

ans le programme de salle des représentations de Orgia, Pier Paolo Pasolini constate que le texte de sa pièce possède une « doppia natura ». Il est un « testo […] tutto fondato sulla parola nel suo momento più “espressivo”, quello della “lingua della poesia” », mais cette parole poétique exalte « continuamente il primato dell’azione, come mistero pragmatico attraverso cui la coscienza si esprime con maggiore autenticità anche se in completa irrazionalità ». Le paradoxe suivant résume l’examen de la pièce par Pasolini : « Sicché mai come in questo testo di “teatro della parola” si è così violentemente polemizzato contro la parola ». 1 La formulation brutale de la contradiction à l’œuvre au sein même de la pièce met en évidence l’amphibologie constitutive du théâtre pasolinien : l’affirmation d’un théâtre de la parole, duquel serait absente toute action scénique et qui renoncerait à la part visuelle du théâtre, et, en même temps, la célébration du corps, de l’action et, incidemment de la réalité, 2 comme résistance esthétique et politique à la facticité croissante du monde occidental, à l’inauthenticité essentielle du langage verbal au regard de la présence corporelle. Le paradoxe tient alors à ce que cette célébration dans le drame des puissances du corps ne se fait qu’à travers et par la parole scénique, qui, de ce fait, est contestée, disqualifiée et il peut se décliner de différentes manières : alors qu’il n’est quasiment question que du corps (du mystère de sa présence, de sa naturalité, de sa sacralité) dans la bouche des personnages, ceux-ci semblent souffrir d’un déficit de corps et ne font que parler. Ou encore : quand bien même l’impuissance de la parole à représenter la réalité est énoncée, cette dernière n’en est pas moins saisie, évoquée verbalement.  























1   Pier Paolo Pasolini, Prologo [dal programma di sala], te, p. 319. Orgie est un « texte entièrement fondé sur la parole, dans son moment le plus expressif, celui de “la langue de la poésie” », dans lequel est exaltée « continuellement la primauté de l’action, comme mystère pragmatique à travers lequel la conscience s’exprime avec une plus grande authenticité, bien qu’elle soit d’une totale irrationalité ». Pasolini conclut par ce paradoxe: « Si bien qu’on a jamais autant violemment polémiqué, dans ce texte de “théâtre de la parole”, contre la parole » (Notre traduction). 2   Le théâtre pasolinien témoigne, au même titre que son œuvre poétique ou cinématographique, de sa « passion du réel » (pour reprendre le titre de l’ouvrage de philosophie historique d’Alain Badiou consacré au xx e siècle).  















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stéphane hervé Cette disjonction semble recouper, certes partiellement, l’opposition entre la scène et le drame, en ce sens que la parole règne sur la scène théâtrale, d’où serait absent le corps, alors que le drame annonce continuellement la suprématie du corps sur la parole, et peut trouver des explications dans le discours théorique de l’auteur. Ainsi, Il Manifesto per un nuovo teatro semble réclamer l’absence du corps scénique, puisque la définition du Teatro della parola que donne Pasolini privilégie l’audition sur la vision : 1 la pulsion scopique et visible empêcherait le bon déroulement de ce débat culturel auquel l’auteur aspire. Il est, également, possible de dégager de la lecture des différents articles que l’auteur consacre au théâtre italien dans la deuxième moitié des années 60, une explication linguistique. L’absence du corps serait la conséquence du défaut d’une langue nationale ‘authentique’ en Italie et du recours contraint à une langue artificielle qui ne peut en aucun cas s’originer dans le corps authentique des comédiens. 2 Il faudrait enfin mentionner la méfiance de l’auteur à l’égard des comédiens professionnels et l’impossibilité de faire jouer des acteurs nonprofessionnels, les corps pasoliniens par excellence. 3 Mais au-delà de ces choix et de ces contraintes historiques et politiques, aussi décisifs soit-ils, le paradoxe du théâtre de Pasolini entraîne une reconfiguration du partage du sensible théâtral, de la répartition entre visible et invisible, entre dicible et indicible. Plus précisément, il produit une subversion de deux présupposés qui soutiennent les principes d’une vérité et d’une essence du théâtre dans le discours théorique contemporain : le théâtre est un art de la présence vivante, et le théâtre est un art communautaire (depuis son origine rituelle). Le défaut revendiqué d’actions scéniques et la préséance, au sein des répliques, du commentaire et de l’explication monologiques sur le dialogue et la relation interpersonnelle, sapent les fondations de la présence (du corps) et minent ainsi la consistance du présent dramatique. Dans l’absence de corps, le présent dramatique ne passe pas, il est toujours submergé par le flot des remémorations (du corps passé) et des rêves de futurs hypothétiques (du corps à venir). La révocation du visible et de l’exhibition des corps dans le Teatro della parola va de pair avec une « disjointure dans la présence même du présent » 4 théâtral. Et, en escamotant la présence vivante du corps scénique, le théâtre pasolinien déconstruit le dispositif théâtral en vogue en ces fins des années soixante (Living Theatre, Grotowski, Peter Brook, Odin Teatret…), celui de la renaissance communau 







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  Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, sla ii, p. 2484.   Voir, par exemple, Pier Paolo Pasolini, Gli scrittori e il teatro, « Sipario », anno xx, n°229, maggio 1965, repris in Il mistero della parola, a cura di Gualtera De Santi, Massimo Puliani, Rome, Il Cigno, 1995, p. 96 et Pier Paolo Pasolini, Il teatro in Italia, sla ii, p. 2362. 3   Luca Ronconi tente d’expliquer le soi-disant dédain de Pasolini envers le théâtre par le refus du cinéaste de devoir travailler avec des corps formalisés (voir Un Teatro borghese, Intervista a Luca Ronconi, in te, p. xix). 4   Jacques Derrida, Spectres de Marx, Paris, Galilée, 1993, p. 52. 2





le corps dans le théâtre de pier paolo pasolini 15 taire autour de corps exhibés voire sacrifiés ou sanctifiés. En d’autres termes, le théâtre pasolinien n’a pas pour horizon la communion rituelle des corps. Pourtant, la persistance de ces présupposés au sein même des textes, dans les répliques des personnages (qui n’ont de cesse de désirer la présence absolue du corps et le surgissement d’une communauté) indique qu’il n’est pas possible d’envisager le théâtre pasolinien sous l’angle unique du manque de corps. De fait, le corps se situe dans un lieu interstitiel : il n’est ni totalement présent, ni simplement absent, il n’est ni visible, ni totalement invisible, ni dicible, ni indicible. En d’autres termes, le corps hante le théâtre pasolinien, son régime d’apparition est celui de la spectralité. Si le corps n’a pas de présence effective, actuelle, il ne cesse de hanter la scène du fait même de son inactualité (au deux sens du mot, le corps est anachronique et le corps n’est pas en acte), d’exister en puissance. L’inactualité persistante, spectrale, du corps s’avère alors être une puissance de distorsion du dispositif théâtral. Il s’agit alors de voir comment cette spectralité du corps place le théâtre dans l’ouverture et l’imminence d’un événement toujours à-venir : celui de l’apparition du corps authentique, et partant de la communauté retrouvée. 1  



1. L’impossible présent du corps Dans la réponse dans Vie Nuove qu’il donne à une lectrice qui l’interrogeait sur son idée d’une inexistence de l’italien comme langue nationale, Pasolini entreprend une distinction entre le langage poétique et le langage théâtral d’un point de vue temporel. La langue de la poésie, écrit-il, est toujours diachronique (au sens d’anachronique), alors que celle du théâtre est synchronique (contemporaine). Si la perspective adoptée est ici purement linguistique, il n’en demeure pas moins que l’auteur expose incidemment une définition du théâtre comme art du présent : « il tempo del teatro […] è il presente, e non il presente storico, ma un presente reale… ». 2 Ce présupposé essentiel du théâtre, pourtant, est mis à mal dans son œuvre dramatique. Le présent est malmené par les choix dramaturgiques de l’auteur : l’absence d’action scénique remet en cause la consubstantialité du présent et du théâtre. Si l’on reprend les termes analytiques utilisés dans l’article en question au sujet de la poésie, il est alors possible de dire que le théâtre pasolinien se caractérise par sa « diacronicità », au sens où il est toujours « ritardato o anticipato » 3 par rapport au présent, qu’il est toujours asynchrone avec l’action.  















1

  Les analyses de cet article sont redevables à l’hantologie que Derrida développe dans Spectres de Marx. 2   Pier Paolo Pasolini, L’italiano orale e gli attori, sps, p. 1055. « le temps du théâtre [...] est le présent, et non le présent historique, mais le présent réel » (notre traduction). 3   Ivi, p. 1054. Le théâtre serait toujours « en retard ou en avance » par rapport au présent. Cette transposition des concepts analytiques pasoliniens laisse penser que le théâtre pasolinien est un théâtre poétique d’un point de vue temporel.  







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stéphane hervé En effet, les personnages pasoliniens n’agissent guère : ils sont comme en retrait du monde, de la sphère de la praxis, et en sont réduits à commenter le monde. Ce retrait du monde est d’ailleurs patent dans la distribution spatiale des six tragédies. Leurs protagonistes sont parqués ou se cloîtrent dans des espaces clos ou marginaux (les baraquements de Calderón, la villa d’Orgia, les espaces naturels et désertés de Bestia da Stile, etc.). En d’autres termes, l’action et l’Histoire se déroulent dans un ailleurs de la tragédie, dans un espace social et politique jamais représenté, mais toujours évoqué. Et, même lorsque l’action est appelée à se déployer dans l’espace clos du drame pasolinien, elle est soustraite à la représentation, à la visibilité : le corps parle mais n’agit pas. Bien plus, le corps apparaît comme un objet du discours, comme réduit à l’ordre du dicible. Les premiers épisodes d’Orgia témoignent pleinement de cette soustraction de l’action. En effet, les protagonistes de la tragédie, l’Homme et la Femme, ne cessent de parler du corps et de l’action (et de leur langage) tout au long du premier épisode, dans l’évocation nostalgique de leur jeunesse rurale et dans la formulation programmatique des actes sadomasochistes qu’ils souhaitent exécuter. Ces derniers se produisent à la toute fin de l’épisode, comme l’indiquent les didascalies, « Comincia a colpirla […] La colpisce ancora […] La colpisce più forte », 1 plutôt rares dans l’œuvre. Mais, l’action est prestement suspendue à l’entame du rituel, et l’épisode suivant reprend alors qu’il est achevé. Les quelques coups visibles, infligés par l’Homme à la Femme, ne sont alors qu’un reste de la soustraction, qui sert ici seulement de preuve de la performativité du programme sadomasochiste, L’Homme affirmant alors à son épouse que « tutto quello che ho detto, lo farò,/e questo non è gioco, ma realtà ». 2 Ce reste, d’ailleurs, Pasolini le regrettait (« Conserva tracce di “azione” : quella maledetta “azione” ormai monopolizzata dal cinema, dalla televisione o dal teatro gestuale » 3). Le corps agissant fait donc ici irruption mais de manière bien éphémère. Le corps est ici toujours passé ou futur, mais jamais présent. Or, la non-contemporanéité du corps est, dans la pièce, également perçue comme sa condition historique et politique. La nostalgie, partagée par les deux personnages et perceptible lors de la remémoration élégiaque de leurs années de jeunesse, procède du constat de la disparition contemporaine des corps, et les injonctions du projet sadomasochiste, l’emploi répété, quasi obsessionnel, de verbes d’actions au futur, laisse entendre qu’il faut faire advenir le corps. Le corps serait donc absent du présent. Or, les deux personnages expliquent le  

















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  Pier Paolo Pasolini, Orgia, te, p. 268. « Il commence à la frapper […] Il la frappe encore [...] Il la frappe plus fort » (Pier Paolo Pasolini, Théâtre complet, tr. fr. Danièle Sallenave, Arles, Actes Sud, 2000, pp. 414-415). 2   Ibidem. « tout ce que je t’ai dit, je le ferai, /et ceci n’est pas un jeu, c’est la réalité ». 3   Pier Paolo Pasolini, Prologo, cit., p. 318. La pièce « conserve des traces d’action : cette maudite action désormais monopolisée par le cinéma, par la télévision ou par le théâtre gestuel » (notre traduction).  













le corps dans le théâtre de pier paolo pasolini 17 déficit d’incarnation du présent par la mutation socio-économique et anthropologique qui affecte la société italienne et occidentale en cette fin des années 60. Cette mutation (la fin de la société agraire, des particularités régionales, et l’avènement de la société de consommation) aurait fait disparaître le corps et ses paroles silencieuses au profit d’une parole à la fois omnipotente et factice. Or, les personnages par les vexations qu’ils entendent subir l’un de l’autre, aspirent à conjurer la disparition des corps. L’absence scénique du corps pourrait alors être considérée comme un signe de ce qu’il faudrait nommer l’impuissance historique du théâtre à mettre en scène des corps, plus précisément des corps authentiques. Mais, Orgia déploie le projet singulier d’une résurgence de ce corps disparu, projet résolument politique, même s’il n’est jamais donné comme tel dans le déroulement de la pièce, projet de résistance 1 aux processus contemporains de normalisation, de devenir-factice du corps figuré par les vêtements de prêt-àporter portés par la femme ou par la jeune fille dans l’avant-dernier épisode. Si l’évocation nostalgique d’un passé plus ou moins archaïque constitue dans la fable dramatique le premier lieu d’apparition du corps, le second relèverait d’une scène transgressive. C’est par la transgression de la loi, de la norme, que le personnage se réapproprie son propre corps, qu’il s’incorpore. Et, en effet, l’incarnation, c’est-à-dire le devenir-corps, passe dans les différents pièces pasoliniennes par une série de transgressions sociales, érotiques ou anthropologiques (désirs incestueux non refoulés, zoophilie, sadomasochisme, masturbation…). En cela, le théâtre pasolinien participe d’une radicalité transgressive, pour laquelle « l’authenticité réside dans l’acte de transgression violent ». 2 Or, la transgression inverse le régime de présence du corps : il n’est plus manquant, mais en excès. Le réel du corps reconquis grâce à l’acte transgressif est, tout d’abord, en excès sur la parole. Le corps déborde les possibilités de la parole évocatrice dans la violence de l’acte anormal, monstrueux, c’est-à-dire qu’il échappe à l’ordre représentatif et à l’idée de la signification d’une chose absente. Dans l’acte transgressif, le corps atteint la limite de la représentation, il devient signe de lui-même, il est présence à lui-même. 3 L’ellipse temporelle  





1   Cette idée d’une puissance politique du corps est également présente dans Calderón. L’emprisonnement de Rosaura et Velázquez est dû au fait qu’ils ont un corps (épisodes 5 et 8). L’emploi de l’article indéfini à valeur générique et l’absence de qualification dans les deux occurrences sont troublants : il suggère implicitement que les autres personnages n’ont pas de corps. En fait, « avoir un corps » signifie ici avoir un corps qui sort de la norme. En d’autres termes, le corps n’est pensable qu’en dehors de la norme. 2   Slavoj Žižek, La Marionnette et le nain. Le christianisme entre perversion et subversion, Paris, Éditions du Seuil, 2006 (« La couleur des idées »), p. 89. 3   C’est peut-être là le seul véritable lien entre le Théâtre de la Cruauté d’Artaud et le théâtre de Pasolini (les deux œuvres divergeant par ailleurs de façon radicale) : le désir et la hantise de l’authenticité de la présence intégrale, de la révocation de l’écart constitutif de la représentation occidentale.  











18 stéphane hervé qui dérobe au regard du spectateur les actes sadomasochistes des protagonistes d’Orgia, rend explicite l’impossibilité d’une commune mesure entre la parole et le corps. La parole théâtrale ne se déploie qu’en l’absence du corps, alors que le corps transgressif est silencieux. Le corps transgressif et sa présence absolue sont également en excès sur la Raison, le Logos. Ainsi le personnage Spinoza, dans l’abjuration de son Éthique qu’il énonce dans l’avant-dernier épisode de Porcile, affirme que le corps et son langage d’action, de sang et de mort, défie toute explication rationnelle. 1 De même, le spectre de Sophocle dans Affabulazione conseille au Père de regarder le corps de son fils, de le regarder comme un mystère qu’il s’agit de toucher, de voir, de sentir, et non comme une énigme de la raison qu’il faut résoudre, expliquer. 2 Le corps des personnages qui sortent du monde, à la façon dont Julian est sorti du monde de son père et de son concurrent, est donc, en plus d’être indicible, incompréhensible et impénétrable. Enfin, un troisième aspect de cet excès de présence du corps réside dans la jouissance intégrale qui accompagne l’action, à la fois jouissance sexuelle et jouissance de la présence au monde, proche de l’extase mystique (« raptus mistico » 3) selon le Spinoza de Porcile. Le long monologue de Julian à l’épisode 8 de Porcile expose, dans toute sa force, sa jouissance lorsqu’il se rend à la porcherie : une jouissance « senza mai mezzi termini », « una grazia », « una continua, infinita allegria », qui le plonge dans la « vita pura », la « realtà ». 4 Le triple excès de la transgression, excès politique, érotique et esthétique octroie donc au personnage pasolinien les possibilités et les moyens de son incarnation. Il apparaît alors que le théâtre pourrait offrir à Pasolini les conditions nécessaires à la contestation de la normalisation politique et anthropologique opérant au sein de la société occidentale. De la même façon que la transgression s’accomplit dans un lieu en retrait du monde (l’Homme et la Femme s’enferment dans leur maison, Julian fuit le monde des pères et des contestataires dans la porcherie), la scène théâtrale pourrait être un lieu distinct et à distance du monde. En d’autres termes, la scène théâtrale serait une hétérotopie, c’est-àdire un de ces espaces utopiques, qui possèdent « la curieuse propriété d’être en rapport avec les autres emplacements, mais sur un mode tel qu’ils suspendent, neutralisent ou inversent l’ensemble des rapports qui se trouvent, par eux, désignés, reflétés ou réfléchis », mais qui, à la différence de l’utopie, sont « des lieux réels, des lieux effectifs », des « sortes d’utopies effectivement réalisées ». 5 En  































1







  Cfr. Pier Paolo Pasolini, Porcile, te, p. 636.   Cfr. Pier Paolo Pasolini, Affabulazione, te, pp. 513-522. 3 4   Idem, Porcile, te, p. 635.   Ivi, pp. 622-623. 5   Michel Foucault, Des espaces autres in Idem, Dits et Ecrits ii, Paris, Gallimard, 2001 (coll. « Quarto »), p. 1574. Foucault dit, d’ailleurs, le théâtre, est en lui-même une hétérotopie dans le fait qu’il a la puissance de faire exister plusieurs lieux, fictifs, dans un seul lieu, la scène. La notion d’hétérotopie possède une réelle pertinence pour l’analyse du théâtre pasolinien. L’auteur ne 2





le corps dans le théâtre de pier paolo pasolini 19 montrant le devenir-corps des personnages, la scène pasolinienne pourrait être le site où seraient conjurés les processus sociaux d’effacement progressif des corps. D’ailleurs, les nombreuses remarques métathéâtrales présentes dans les pièces mettent en avant cette puissance hétérotopique du théâtre (montrer des corps et la réalité contre la production des simulacres médiatiques). Le spectre de Sophocle affirme ainsi dans Affabulazione, que « niente meglio del teatro ha mai potuto rappresentarla ». 1 Cette dimension spectaculaire de la transgression est également présente dans Orgia (les deux personnages répètent à plusieurs reprises que le rituel qu’ils sont en train d’exécuter se présente comme le spectacle de leur réalité exprimée, non par des mots, mais par le langage de leur chair), et dans Bestia da Stile ( Jan affirme se donner en spectacle alors qu’il se masturbe sur les rives du fleuve). L’insistance du motif spectaculaire et le rappel récurrent du privilège accordé au regard au sein du dispositif théâtral dévoilent une conception du théâtre opposée aux prescriptions énoncées dans le manifeste. Avant d’être le lieu des mots, de la parole, le théâtre, selon ces remarques métathéâtrales, exhibe des corps et résiste ainsi à leur disparition historique et politique. Il serait le lieu hétérotopique de l’apothéose du visible et de la théâtralité absolue du geste. Or, si la présence d’actes transgressifs dans les pièces pasoliniennes peut sembler constituer, d’un point de vue dramaturgique, une réponse au déficit d’incarnation dans la société, en ce qu’elle permet d’accéder à la présence effective et à son langage qui excède les mots, il reste que, d’un point de vue scénique, le théâtre de Pasolini ne montre jamais ces actes, auxquels pourtant les personnages attribuent une grande théâtralité, si ce n’est, encore une fois, comme reste de la soustraction. Il y a de fait un écart entre ce qui est dit et ce qui est montré, une disjonction du visible et du dicible. La question qui se pose alors est de savoir ce qui se joue et se produit dans cet écart.  



2. L’invisibilité de la transgression Un élément de réponse peut se dégager de la situation dramatique où se trouvent les personnages exaltant la puissance théâtrale de la transgression. En effet, la visibilité absolue du langage de la chair, du corps advient paradoxalement dans l’absence de spectateurs : Jan dans Bestia da Stile donne son spectacle seul, les deux protagonistes d’Orgia accomplissent leur drame à huis-clos et se contentent de supposer la présence d’un spectateur. Dans Porcile, aucun person 

cesse de répéter que le théâtre, du fait des deux présupposés déjà évoqués plus haut, la présence et la communauté, résiste aux modes de production de l’industrie culturelle, et à la dissolution de l’espace commun. 1   Pier Paolo Pasolini, Affabulazione, te, p. 520. « Rien, jamais, n’a pu mieux la représenter [la réalité] que le théâtre » (Pier Paolo Pasolini, Théâtre complet, cit., p. 176. (La traduction d’Affabulazione est de Michèle Fabien et de Tatiana Maselli).  



20 stéphane hervé nage ne verra les actes zoophiles de Julian. Le retrait du monde évoqué auparavant est entier, et la distribution dramatique des espaces semble indiquer que la transgression ne s’accomplit que dans la séparation spatiale d’avec autrui. En quelque sorte, le corps n’apparaît que lorsque le dispositif théâtral est écarté. La transgression semble résister au théâtre en tant qu’il est un art de la communauté. Bien plus : elle ne paraît être effective que par son invisibilité. Le corps et la jouissance zoophile de Julian représentent au début de la pièce une ligne de fuite du fait qu’elle reste non sue, non vue, et qu’elle échappe ainsi au simulacre comique de conflit politique qui oppose le pouvoir des Pères bourgeois aux contestataires étudiants, bourgeois eux aussi. Le dévoilement postérieur du secret de Julian par Herdhitze ne remettra pas du tout en cause l’ordre bourgeois. Au contraire, la négociation qui s’ensuit entre les deux industriels, la promesse réciproque de garder le silence sur la zoophilie du fils et sur la participation au judéocide, nous montrent que le pouvoir peut s’accommoder d’une telle perversion, voire même peut s’accroître (ici par l’événement de la fusion). La transgression physique ne devient donc véritable qu’en dehors de toute espace communautaire et théâtral. La disjonction du visible et du dicible procède par conséquent de cette impuissance du théâtre à être le lieu de la transgression, de l’impossibilité théâtrale du scandale voulu par les personnages. Cette condition paradoxale concerne également l’autre grand motif corporel du théâtre pasolinien, le sacrifice. Le sacrifice s’y présente comme le revers de la transgression. D’ailleurs, le personnage transgressif se décrit fréquemment comme le bouc émissaire ou le martyr d’une communauté. Que ce soit par la mort (dans Orgia) ou l’exil (dans Pilade), la disparition irrévocable du corps du transgressif partage des traits communs avec le sacrifice du bouc émissaire ou avec l’exécution du martyr. Cependant, les motifs du sacrifice et du martyre sont développés en dehors de toute inscription véritable dans l’espace communautaire, alors même qu’ils sont censés participer de la fondation ou de la régénération de l’ordre communautaire. Si Julian confesse une possible vocation au martyre, il est difficile de voir dans sa mort un acte qui importe à la constitution d’une communauté. Certes, les porcs qui le dévorent renvoient assez clairement aux Pères, l’absence de cadavre renvoie explicitement à la barbarie nazie : Julian apparaît donc comme une victime de la barbarie de l’ordre politique dominant. Il n’en demeure pas moins que sa solitude extrême et l’absence de commune mesure qui le lierait aux autres personnages empêchent la réalisation du martyre. Il en va de même pour Jan dans l’épisode 1 de Bestia da stile. Dans son long monologue, il compare la transgression qu’il accomplit – la masturbation – à un sacrifice, et dit rejouer la crucifixion de Jésus. Mais, là encore, le protagoniste est seul, il est le seul témoin des actes extrêmes dont il est l’acteur. La transgression, malgré sa dimension spectaculaire revendiquée, se joue ici dans un au-delà du théâtre, au sens où elle s’oppose à toute idée d’assemblée. Le sacrifice ou  



le corps dans le théâtre de pier paolo pasolini 21 le martyre n’est que simulacre car non inscrit dans l’espace du commun, dans l’espace partagé. L’inconsistance du sacrifice du protagoniste (confirmée par les épisodes suivants), causée par l’absence d’une communauté, est d’autant plus remarquable que Pasolini avait écrit dans les années 40 une pièce, I Turcs tal Friul, dans laquelle on retrouve ce même motif du sacrifice, mais cette fois, réalisé pleinement au sein de la communauté villageoise de Casarsa (qui sert de modèle à Semice dans Bestia da Stile). Le sacrifice de Meni permettait la survie de la communauté, son corps était amené au milieu des villageois qui pleuraient sa mort. Dans Bestia da Stile, les villageois font la fête, indifférents au sacrifice raté de Jan. Le premier épisode de la pièce apparaît donc comme le contrepoint quasi parodique de la liturgie rituelle finale de la pièce de jeunesse. Cette comparaison rend alors manifeste l’impossibilité contemporaine d’une fable communautaire (de refondation ou de rupture) à partir du sacrifice ou de la transgression. Le corps s’exprimant par le langage de sa sexualité se situe dès lors au-delà des possibilités du théâtre. On comprend alors l’invalidation du modèle du sacrifice rituel comme forme du dispositif théâtral, tout comme celui, exprimé dans le Manifesto, du « teatro del Gesto o dell’Urlo ». Pourtant, la définition qu’en donne Pasolini, « il teatro dove la parola è completamente dissacrata, anzi distrutta, in favore della presenza fisica pura », 1 est relativement proche des commentaires du Spectre de Sophocle sur le mystère de la présence physique et théâtrale ou des spectacles physiques scandaleux des deux protagonistes d’Orgia. Il n’en demeure pas moins que cette avant-garde théâtrale est récusée en raison du simulacre de scandale qu’elle provoque chez le spectateur bourgeois, ou de la confirmation des convictions anti-bourgeoises des contestataires. Son erreur, pourrait-on dire, consiste en la croyance d’une possible actualisation scénique du sacrifice ou de la transgression, qui fonderait une communauté soudée par une religiosité faussement archaïque. Le corps transgressif, selon Pasolini, n’y est qu’un simulacre théâtral comme les autres. Il faudrait alors comprendre, puisque le corps véritable se situe toujours au-delà du théâtre, que les personnages pasoliniens ne réalisent pas le « teatro del Gesto o dell’Urlo », mais le disent.  











3. Les puissances du spectre Cette invisibilité contrainte du corps transgressif motive la logique spectrale du régime d’apparition du corps. Le langage du corps, du sexe et de la mort constitue un leitmotiv qui insiste, qui ne cesse de faire retour dans l’œuvre, de la hanter, de lui proposer un horizon jamais atteint. Il n’est pas surprenant 1   Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, sla ii, pp. 24-84. « Le théâtre dans lequel la parole est complètement désacralisée, voire même détruite, au profit de la pure présence physique » (notre traduction).  



22 stéphane hervé alors de remarquer que le discours de l’apologie du visible et de la présence est lui-même pris en charge par une catégorie de personnages au corps ambigu et paradoxal, celle des fantômes et des êtres immatériels : le Spectre de Sophocle, Spinoza, Athéna, le spectre de la Mère de Jan… L’intrusion intempestive des spectres pasoliniens s’accompagne toujours du retour de la question du corps, qu’il s’agisse du corps obscène ou du corps sacrifié. Dans leurs répliques, la consistance de l’univers diégétique est perturbée par le renvoi récurrent à un visible qui excède les limites de la représentation. Monique Borie, dans son ouvrage Le Fantôme ou le théâtre qui doute, a noté que l’apparition du fantôme, en convoquant dans le visible scénique l’invisible, conduisait « au cœur d’un ensemble d’interrogations qui touchent au statut même de la réalité » et introduisait « un réseau de tensions entre […] visible et invisible, matériel et immatériel, incarné et désincarné ». 1 Cependant, dans le théâtre pasolinien, la relation est paradoxalement inversée, ce n’est pas l’invisible qui exige de trouver sa matérialisation dans le visible de la scène, c’est le visible qui fait intrusion dans l’invisible scénique et qui ne cesse de l’interroger. Pour le dire autrement, le visible absolu, celui du corps et de son langage charnel, ne cesse de hanter le théâtre de Pasolini, de faire retour au cœur même de la parole, du dicible, de la même manière que les fantômes du passé historique, philosophique ou esthétique ne cessent de hanter l’œuvre contemporaine pasolinienne. Cette présence spectrale n’est pas seulement thématique, le spectre du corps n’est pas seulement un objet du discours. Sa présence paradoxale n’est pas sans effet, puisque, pourrait-on dire, elle informe la parole théâtrale. En effet, si le langage du corps en action reste invisible, il apparaît ‘à même la parole’ par la distorsion qu’il provoque en elle, par les processus poétiques et affectifs qui l’altèrent par intermittence. Ainsi, la forme excessive du monologue de Jan dans le premier épisode répond aux gestes de la masturbation qu’il exécute. Le corps spectral, dans ce monologue, fait bander et jouir la parole théâtrale : il y a dépense (au sens de Bataille) de la parole comme il y a dépense du sperme dans la masturbation. Le monologue excessif peut être également l’événement langagier qui figure l’érection : de même que l’érection est ce qui gonfle et fait pression sur le tissu des pantalons, le monologue opère une pression sur le tissu de la parole, sur le texte. Dans les deux cas, le monologue apparaît comme une parole traversée, investie par une énergie sexuelle, une parole du corps. Il faut enfin signaler l’utilisation fétichiste de la synecdoque dans la parole théâtrale. Giorgio Agamben dans Stanze met en relation la pulsion sexuelle fétichiste (si importante pour Pasolini dans son rapport à la réalité) et ce trope, en ce qu’elles fonctionnent toutes deux par « référence négative ». 2 Or, le corps, dans ces piè 

















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  Monique Borie, Le fantôme ou Le théâtre qui doute, Arles, Actes Sud, 1997, p. 14.   Giorgio Agamben, Stanze, Parole et fantasme dans la culture occidentale, Paris, Editions Payot & Rivages, 1998 (« Rivages poche/Petite Bibliothèque »), p. 67. 2





le corps dans le théâtre de pier paolo pasolini 23 ces, est souvent évoqué par une partie du corps, par un membre, et surtout par le membre sexuel de l’homme. Ce morcellement synecdotique rend évident à la fois l’absence du corps et la pulsion, la jouissance qui traverse le locuteur dans l’événement même de la réduction à la partie. Ces trois événements langagiers sont l’occasion d’une apparition spectrale du corps à travers la parole. Le corps est donc une présence fantomatique, ambiguë qui hante le théâtre. Il est ce corps authentique ou ce corps martyrisé qui ne finit pas de revenir du passé, mais il est également, et surtout ce corps à venir, ce visible passé et futur qui ne cesse de creuser l’invisible. Or, puisque la distance au passé est irréductible et le retour à un état historique antérieur totalement impossible, comme le disent les protagonistes d’Orgia, l’enjeu de la présence spectrale du corps réside essentiellement dans la promesse d’une incarnation pas encore advenue. Jan explique ainsi que ses actes extrêmes prendront dans un futur imprévisible tout leur sens (« avranno avuto alla fine un loro senso » 1), l’Homme dans Orgia imagine le scandale futur du spectacle de son cadavre, le « fenomeno espressivo indubbiamente nuovo » qui bouleversera, le lendemain, « il gruppetto di gente ». 2 En d’autres termes, le corps et la transgression sont toujours à venir, ils sont toujours imminents. La disjonction entre le visible et l’invisible prend alors un nouveau sens : elle ne résulte pas seulement de l’impossibilité de l’incarnation scénique de la transgression ou du sacrifice, elle permet également que ces actes restent en suspens entre visible et invisible, entre présent et futur, entre incarnation et désincarnation, que ces actes restent en puissance. La présence spectrale du corps signifie donc sa persistance en tant que puissance. L’incarnation, parce qu’elle est suspendue, échappe à l’épuisement de l’actualisation toujours déceptive. Elle permet également de déjouer les assignations du partage du sensible de la société occidentale et de conserver intact le potentiel politique de la transgression. Le personnage de l’hérétique, le héros pasolinien, refuse de se conformer aux assignations du pouvoir et du contre-pouvoir. Il se tient dans le jeu entre présence et absence, entre visible et invisible, dicible et indicible. Et c’est à partir de ce corps impensable, impossible, que peuvent naître et se former les nouvelles communautés encore invisibles, toujours imminentes.  













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  Pier Paolo Pasolini, Bestia da Stile, te, p. 765.   Idem, Orgia, te, p. 312. « Le petit groupe de gens » se trouvera devant « un phénomène indubitablement nouveau » (Pier Paolo Pasolini, Théâtre complet, cit., p. 461). 2









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Larmes, cris et tremblements dans le théâtre de Pier Paolo Pasolini : pour une poétique de l’acteur  

Pierre Katuszewski 1. Constats et perspectives d’analyse

U

n constat s’impose à la lecture du théâtre de Pier Paolo Pasolini : la grande majorité de ses personnages pleurent, crient et tremblent. Ces émotions ne constituent-elles pas autant d’invitations aux metteurs en scène à mettre en jeu le corps et la voix des acteurs et des actrices lors du passage à la scène ? Car, s’il s’agit bien de théâtre – c’est ainsi que sont classés les textes auxquels nous nous intéresserons ici –, s’il s’agit d’œuvres écrites pour la scène, il serait réducteur, croyons-nous, de s’en tenir à une analyse « littéraire » des textes. Un tel décryptage a certes le mérite d’en fournir une sémiologie. L’exégèse littéraire est un exercice auquel nous engage le travail polysémique et complexe d’écrivain, de dramaturge, d’essayiste et de cinéaste de Pasolini. Comme le déclare très justement Flaviano Pisanelli en ouverture d’un article récent paru dans cette même revue : « L’œuvre monumentale et éclectique de Pier Paolo Pasolini, investissant souvent les domaines public et privé, de l’homme et de l’artiste, oblige depuis longtemps la critique à lire et à interpréter ses différents ouvrages en fonction de la vie et des expériences de l’auteur. Cette superposition est d’autant plus flagrante lorsqu’on prend en compte l’activité théâtrale de Pasolini ». 1 Toutefois, ce type d’analyses, aussi passionnantes soient-elles, manquent souvent leur objet : le théâtre, entendu ici comme un espace de performance, comme un lieu de confrontation direct entre les acteurs et les spectateurs, un temps « post-écriture » où l’auteur, même s’il subsiste comme initiateur providentiel de l’acte, s’éclipse devant les praticiens de la scène. Car la textualité des dramaturgies pasoliniennes, si elle est porteuse de significations biographiques, historiques et politiques, n’en reste pas moins radicalement ancrée dans un espace et dans un temps spécifiques. Elle n’est pas moins porteuse d’une théâtralité radicale. Le travail dramaturgique de Pasolini nous engage donc à redé 



















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  Flaviano Pisanelli, Pour une ‘mise en scène’ de la parole : Affabulazione de Pier Paolo Pasolini, dans Pier Paolo Pasolini. Due convegni di studio, Université Stendhal-Grenoble 3, Grenoble, 23-24 maggio 2007, 3-4 aprile 2008, a cura di Lisa El Ghaoui, Pisa-Roma, Serra, 2009 (« Biblioteca di ‘Studi Pasoliniani’ », 1), pp. 51-64 : 51.  







26 pierre katuszewski finir l’analyse textuelle et à revenir au théâtre. Cette littérarité prétendument ‘essentielle’ du théâtre que les exégètes s’emploient à mettre en évidence a été récemment bousculée et cet ébranlement inédit de nos fondamentaux, même s’il en a choqué plus d’un, a ouvert des perspectives stimulantes pour l’analyse des textes de théâtre, et notamment pour ceux écrits par Pasolini. Ouvert par la parution récente d’un ouvrage polémique autour de La Poétique d’Aristote, 1 le débat oppose les partisans du théâtre comme espace de mise en scène d’un texte dans le but de transmettre un ou plusieurs sens aux spectateurs, ou encore en laissant le sens ouvert, et ceux pour qui le théâtre serait un espace où le moyen deviendrait une fin, où la performance et le spectacle créeraient l’événement. C’est d’ailleurs ainsi que, dans l’Antiquité, les Grecs et les Romains pratiquaient le théâtre : lors de concours pour les premiers, lors de jeux scéniques pour les seconds. Et pour les deux, ce que l’on nomme de nos jours « le théâtre » constituait un rituel bien organisé, un rituel codifié pour lequel le texte était tout autant éphémère que la performance des acteurs, des danseurs et des chanteurs. Des pratiques théâtrales, enfin, pour lesquelles l’exhibition du théâtre en train de se faire faisait partie du plaisir du spectacle, du plaisir des spectateurs, le « seul qui vaille en l’occurrence ». 2 Et si, comme le constatait Denis Guénoun dans son ouvrage Le théâtre est-il nécessaire ?, 3 le théâtre subsiste aujourd’hui intensément comme pratique, malgré le déplacement vers le cinéma de notre propension à nous identifier à des entités imaginaires, 4 c’est parce que sa nécessité réside désormais dans le jeu, « le jeu qui, déployé dans sa liberté ou soumis à ses propres contraintes, joue des figures dans son auto-présentation ». 5 De nombreux personnages théâtraux pasoliniens pleurent, crient et tremblent. Ces émotions sont loin d’être uniquement des indications didascaliques à l’usage des acteurs. Le fait de dire l’émotion inscrit dans le jeu de l’acteur une distance avec son personnage. Ces émotions énoncées par l’acteur s’expriment dans un temps, oserait-on dire, du « pur présent », le temps de la performance. C’est dans ce temps que les acteurs jouant le théâtre de Pasolini pleurent, crient et tremblent. En prenant en charge le texte « je pleure », « je tremble » ou « je  





























1

  Florence Dupont, Aristote ou le vampire du théâtre occidental, Paris, Aubier, 2007.   Idem, Les monstres de Sénèque, Paris, Belin, 1995, p. 27. 3   Denis Guénoun, Le théâtre est-il nécessaire ?, Paris, Circé, 1997. 4   Ivi, pp. 144-145 : « C’est désormais au cinéma que l’on se rend si l’on veut voir des personnages (et s’identifier à eux), ou si l’on veut s’éprouver comme sujet-spectateur de la représentation. D’où la faveur in-finie dont le cinéma jouit (…). Le cinéma rassasie, et relance, notre demande d’identification – aux autres, comme figures, et à nous-mêmes, comme sujets. Et le théâtre, alors ? Ici resurgit notre question. S’il trouvait dans ce mode de représentation sa seule nécessité, il devrait disparaître. Ou ne survivre qu’à titre d’attestation d’un passé sans prise, éclipsé de notre actualité. Et s’il insiste, s’impose obstinément comme composante active de notre histoire, si en lui quelque chose de vivant se maintient, ou se développe, c’est alors que sa nécessité s’inscrit, désormais, 5   Ivi, p. 150. ailleurs que dans ce régime de la représentation ». 2











larmes, cris et tremblements 27 crie », en même temps qu’ils font exister ces émotions, les acteurs donnent à voir leur personnage pleurant, tremblant ou criant. Pourquoi Pasolini fait-il dire à ses acteurs, à la vue de tous, les émotions ressenties par leur personnage ? En d’autres termes, pourquoi montre-t-il, exhibe-t-il le théâtre en train de se faire ? Quel lien établit-il ainsi entre les acteurs et les spectateurs ? Si Pasolini destine quelques lignes à l’acteur dans son Manifesto per un nuovo teatro, 1 il n’en reste pas moins que la question demeure ouverte et complexe. Comme le déclare Françoise Decroisette dans un numéro récent de la revue Europe consacré à Pasolini : « L’acteur est au centre du dispositif d’échange avec le public – et donc du théâtre de Parole – non par sa capacité à s’identifier à un personnage ou à exécuter une performance physique et vocale, mais par sa capacité à être le ‘véhicule vivant’ du texte, par son intelligence et sa culture ». 2 Mais comment l’acteur réalise-t-il cet échange avec le public ? Et aussi : qu’y-at’il à échanger avec le public ?  



















2. Constat de larmes 2. 1. Lacrime Les personnages du théâtre de Pasolini pleurent donc beaucoup. Si dans une pièce de jeunesse telle que La sua gloria datant de 1938, cette émotion est indiquée par des didascalies, 3 dans la plupart des pièces, le fait de pleurer est énoncé par l’acteur lui-même ou par un groupe quand il s’agit d’un chœur. 4 Et non seulement les pleurs sont dits mais en plus un jeu de répétitions multiplie la présence des larmes et des pleurs sur scène. Dans I Turcs tal Friul (1944), un personnage nommé Méni Colus déclare :  

Jo ? no. I no rìt jo, Pauli, i no rit. Da plansi a sarès. E i plansi ; no jòditu ? Cà, ta la man : na àgrima. Jo i plansi… 5  







Dans I fanciulli e gli elfi (1944-1945), le personnage de l’Orco dit :  

Ecco, vedete ?, piango. Oh che dolcissime, soavissime, unanissime lacrime sono le mie. 6  

1

  Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in Idem, Teatro, Milano, Garzanti, 1999, pp. 713-732. 2   Francoise Decroisette, Le Manifeste pour un nouveau théâtre : les alinéas manquants, « Europe », 947, Paris, mars 2008, pp. 194-203 : 202. 3   Pier Paolo Pasolini, La sua gloria, te, p. 14 : « La Madre (scoppiando in un pianto convulso…) ». (« La mère, éclatant en pleurs convulsifs… »), Idem, Théâtre (1938-1965), traduit de l’italien par Caroline Michel, Hervé Joubert-Laurencin, Luigi Scandella, Besançon, Les Solitaires Intempestifs, 2005, p. 43. 4   Idem, Edipo all’alba, te, p. 34 : « Coro : o grida, o pianti e lagni ». (« Chœur : ô cris, ô gémissements, ô pleurs »), Ivi, p. 56. 5   Idem, I Turcs tal Friul, te, p. 42. (« Moi ? Non. Je ne ris pas moi, Pauli. Je ne ris pas. On devrait plutôt pleurer. Et je pleure. Ne vois-tu pas ? Ici, dans ma main, une larme. Moi, je pleure... »), ivi, p. 104. 6   Idem, Les enfants et les elfes, te, p. 103. (« Voilà, vous voyez ? je pleure. Oh quelles larmes douces, suaves, tellement humaines »), ivi, p. 148.  













































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pierre katuszewski

Ou encore, l’échange entre Julian et Ida dans Porcile (1966) :  

Ti spuntano addirittura le lacrime ? Sì, sì, sì, mi spuntano le lacrime ! 1  



Et l’on pourrait se référer à de nombreux autres exemples. La voix de l’acteur aurait donc pour fonction de décrire l’émotion du personnage et de rendre par là-même cette émotion effective, de l’installer dans l’espace théâtral. Pourquoi l’acteur répète-t-il plusieurs fois ce que ressent son personnage ? Cette insistance n’indique-t-elle pas qu’en l’absence de voix ou de parole, pour employer un terme cher à Pasolini, l’émotion disparaîtrait du plateau de théâtre ? Le silence de la voix signifierait alors un silence du corps. Cette hypothèse correspondrait parfaitement au « souhait » de Pasolini qui en appelait dans son Manifesto per un nuovo teatro à un théâtre de Parole, un théâtre à écouter plutôt qu’à voir, 2 un théâtre où la Parole serait donc au centre du processus théâtral, énonciatrice et annonciatrice ici des émotions des personnages. Les larmes de Méni Colus, d’Ida ou de l’Ogre sont donc énoncées, peut-être jouées également par l’acteur, le choix final en revenant au metteur en scène, dans le but de les faire exister sur la scène. Dans tous les cas, les spectateurs ne sont jamais face à un acteur qui jouerait l’illusion que les larmes de son personnage coïncident avec ses propres larmes. C’est plutôt du côté de la distance que Pasolini semble entraîner les acteurs de ses textes. On s’en doute, une distance non-brechtienne : « I tempi di Brecht sono finiti per sempre », 3 clame-t-il dans son Manifesto. Dans Petit organon pour le théâtre, Brecht écrit : « Pour produire des effets de distanciation, il a fallu que le comédien laisse de côté tout ce qu’il avait appris et qui lui permettait de provoquer l’identification du public avec les personnages qu’il jouait. Comme il ne vise plus à mettre son public en transes, il ne faut plus qu’il se mette lui-même en transes. (…) Il a uniquement à montrer son personnage ; ou, pour mieux dire, il n’a pas uniquement à le vivre ; cela ne signifie pas qu’il doive rester froid en jouant les passionnés. Simplement, ses sentiments propres ne devraient pas être par principe ceux de son personnage, afin que ceux de son public ne s’identifient pas par principe à ceux du personnage. Le public doit en la matière avoir toute liberté ». 4 La distanciation brechtienne était essentiellement une techni 























1   Idem, Porcile, te, p. 586. (« Tu as vraiment les larmes aux yeux ? / Oui, oui, oui, j’ai les larmes aux yeux ! »), ivi, p. 326. 2   Idem, Manifesto per un nuovo teatro, cit., p. 716 : « Venite ad assistere alle rappresentazioni del ‘teatro di parola’ con l’idea più di ascoltare che di vedere ». (« Assister aux représentations du ‘théâtre de parole’ avec l’idée d’écouter plutôt que de voir »), Idem, Manifeste pour un nouveau théâtre, in Idem, Entretiens avec Jean Duflot, Montréal, Editions Gutenberg, 2007, p. 212. 3   Ivi, p. 714. (« Les temps de Brecht sont définitivement révolus »), ivi, p. 210. 4   Bertolt Brecht, Petit organon pour le théâtre, in Idem, Ecrits sur le théâtre, Paris, L’Arche, 2000 (« Bibliothèque de la Pléiade »), pp. 351-390 : 370.  



   





















larmes, cris et tremblements 29 que de jeu empêchant que l’acteur ne s’identifie au personnage afin que le spectateur ne soit pas saisi par l’émotion et ait un regard objectif sur l’histoire. Comment interpréter cette technique de distanciation dans le théâtre de Pasolini, créée par l’acteur exprimant l’émotion de son personnage, si ce n’est pas pour objectiver l’histoire et faire du spectateur un penseur critique ?  

2. 2. Détour romain Un détour par une pratique théâtrale où un processus similaire est constamment utilisé permet de formuler des hypothèses concernant ce procédé consistant à décrire ce qui est en train de se jouer. Le théâtre romain de l’Antiquité et plus précisément la tragédie romaine est un théâtre où les masques, l’équivalent de nos personnages, décrivent constamment leur état. Par exemple, Thésée dit à Phèdre dans la tragédie éponyme :  

Lacrimae nonne te nostrae movent ? 1 (880)  

Plus loin, c’est Thésée qui décrit Phèdre en train de pleurer :  

Quidnam ora maesta avertis et lacrimas genis subito coortas veste praetenta optegis ? 2 (886-887)  

À Rome, les personnages sont des images, sans intériorité, les émotions étant reconnaissables par les spectateurs grâce à « une codification gestuelle, connue de tous, commune à la rhétorique et aux arts plastiques », 3 à cette gestuelle s’ajoute la voix de l’acteur qui énonce la passion du héros. La parole fonctionne comme une légende de l’image construite par le corps de l’acteur. C’est ainsi qu’apparaît ce qu’il est possible de nommer « une distance », diamétralement opposée à celle préconisée par Brecht : 4 l’acteur en énonçant l’émotion que son personnage est en train de vivre est distancié, dissocié du personnage, mais ce procédé n’a aucune vocation pédagogique ou dogmatique. Car le théâtre romain est un théâtre du jeu où ce qui est dit, à savoir les histoires mythologiques grecques, est su de tous avant le spectacle puisque la mythologie grecque  









1   (« Regarde, je pleure / N’es-tu pas attendrie par mes larmes ? »), Sénèque, Théâtre complet, vol. 1, Paris, Imprimerie Nationale, 1995, p. 76. 2   (« Pourquoi ? / Pourquoi ce visage défait ? / Pourquoi détournes-tu la tête ? / Pourquoi ce regard noyé ? / Ces sanglots derrière le voile dont tu as recouvert ton visage ? »), ivi, p. 77. 3   Florence Dupont, Les monstres de Sénèque, Paris-Belin, 1995, p. 96. 4   Il a d’ailleurs lui-même pris acte du fait que les Anciens distanciaient leurs personnages : « Le théâtre antique et le théâtre médiéval distanciaient leurs personnages en leur faisant porter des masques d’hommes ou d’animaux, le théâtre asiatique utilise aujourd’hui encore des effets de distanciation musicaux et pantomimiques. Ces effets de distanciation faisaient certainement obstacle à l’identification, mais cette technique reposait, plutôt plus que moins sur celle visant à l’identification, sur une base de suggestion hypnotique. Les objectifs sociaux de ces effets anciens étaient complètement différents des nôtres », Bertolt Brecht, Petit organon pour le théâtre, cit., p. 368.  

   











   







30 pierre katuszewski constitue un fond culturel commun depuis l’enfance. 1 Ce qui est attendu du public, c’est la performance, la réussite de la performance et le respect du code, cette réussite étant le signe d’une cohésion sociale et de la paix avec les dieux. Et le jeu avec le théâtre, l’exhibition du théâtre en train de se faire font partie de ce pacte théâtral conclu entre les acteurs et les spectateurs. Ainsi, quand un personnage dit qu’il pleure, c’est comme si l’acteur disait : « Ce soir, je joue Phèdre, et là, au moment où je le dis, elle est en train de pleurer ».  





2. 3. Théâtre de parole et théâtre du jeu Si, pour Pasolini, les temps de Brecht sont définitivement révolus, les temps des Romains peut-être pas complètement. Cette disjonction pasolinienne de l’acteur et du personnage exalte donc l’exhibition du jeu. En effet, cette incessante répétition des « je pleure », « nous pleurons » des personnages pasoliniens est le signe d’une rupture avec un théâtre où l’acteur disparaîtrait derrière son personnage et où l’illusion aurait voix au chapitre. L’acteur en désignant l’émotion du personnage fait jouer la double énonciation et dit en quelque sorte aux spectateurs : « Ce soir je joue quelqu’un qui pleure. » En pleurant et en affirmant que ces pleurs sont ceux du personnage, l’acteur crée un lien avec les spectateurs qui n’est plus un lien de subordination dans le sens où le public recevrait passivement, ou dans le meilleur des cas activement, la mise en scène comme une explication du texte, mais un lien de connivence. Le texte, point de départ du spectacle, devient un objet à partager, l’objet d’un jeu commun où, à la limite, acteurs et spectateurs pourraient échanger leur place respective. Ce qui, selon Enzo Cormann par exemple, constitue une des caractéristiques du théâtre contemporain :  















Ce qui fait le théâtre (...), c’est la composition même de l’assemblée qui suscite sa représentation. Spectateurs et acteurs (contrairement au cinéma, par exemple) sont pris dans le même espace-temps. Si vous voulez, le fait que celui-ci plutôt que cet autre soit sur le plateau m’a toujours paru anecdotique dans ce qui constitue la représentation. J’ai toujours perçu ça comme une forme de délégation ludique : “ce soir c’est toi qui t’y colle”. Et de consensus ludique : “on dirait que tu serais celui qui dirait qu’il serait...” 2  



Chez Pasolini, dans ces moments où la parole se substitue en quelque sorte à ce qui aurait pu constituer un ensemble de didascalies, le théâtre de parole devient théâtre du jeu : la parole dit le corps de l’acteur et/ou du personnage. La médiation de la parole sert finalement à quitter l’histoire, ou en tous les cas à la reléguer à un plan secondaire, pour rentrer dans le jeu, à quitter un strict théâtre de la représentation pour pénétrer dans un théâtre où la création d’une communauté éphémère serait primordial dans le processus de création, et l’acteur essentiel dans cette création.  

1

  Florence Dupont, Les monstres de Sénèque, cit., pp. 44-46.   L’assemblée théâtrale, ouvrage collectif, Paris, Les Editions de l’Amandier, 2002, p. 16.

2

larmes, cris et tremblements

31

3. Tremare Les personnages pasoliniens tremblent aussi beaucoup. Dans Orgia particulièrement, où le personnage féminin ne cesse de répéter qu’elle tremble, 1 mais aussi dans I Turcs tal Friul où le prêtre dit :  

E, ades, i sin bòins di trimà, planzi 2

ou encore dans Pilade quand Athéna dit à deux reprises à Oreste :  

Ti vedo tremare come un bambino... 3

Quand l’acteur dit que son personnage pleure, il désigne l’émotion du personnage et quand il s’agit de tremblements, n’est-ce pas le corps qui est impliqué ? Les tremblements engagent le corps encore plus que les pleurs. Le théâtre romain nous permet à nouveau d’envisager ces tremblements autrement qu’en les interprétant de façon littéraire ou psychologique. En effet, à Rome, certains personnages tremblent aussi. Comme Œdipe, par exemple, dans la tragédie éponyme :  



Et ossa et artus gelidus inuasit tremor (659) ; 4  

Florence Dupont remarque :  

Puisque le personnage représentant une passion n’est pas en situation de communication mais plutôt d’exhibition, puisqu’il ne cherche pas à faire savoir qu’il est en colère mais à faire ressentir cette colère en lui donnant une réalité visible, le langage du corps issu de la rhétorique n’est pas un moyen d’extériorisation d’une intériorité. 5

Pour Pasolini, affirmer le corps tremblant du personnage est un moyen d’acter dans le jeu une certaine distanciation, pas du tout brechtienne, qui a pour but de sortir d’une compréhension critique et rationnelle de l’histoire pour rentrer dans le jeu. Le corps de l’acteur exhiberait donc le jeu afin de le renforcer encore plus et de faire vibrer plus encore l’émotion poétique du texte et ainsi 1

  Pier Paolo Pasolini, Orgia, te, p. 249 : « Donna : Comincio a tremare… / Sì, tremo per questo… / Ma io non so dirti altro che tremo ». (« Femme : Je commence à trembler... / Oui c’est pour cela que je tremble / Mais je ne peux rien te dire d’autre que je tremble »), Idem, Orgie, in Idem, Théâtre, traduit de l’italien par Danièle Sallenave, Arles, Actes Sud, 1995, pp. 395-396. Pour une analyse fine et précise de ces tremblements, nous renvoyons à Lisa El Ghaoui, Langages du désir et métamorphoses du corps dans l’œuvre de Pier Paolo Pasolini, thèse de Doctorat, Grenoble, 2006, pp. 411-414. 2   Idem, I Turcs tal Friul, te, p. 62. (« Et maintenant, nous en sommes réduits à trembler, à pleurer »), Idem, Théâtre (1938-1965), cit., p. 121. 3   Idem, Pilade, te, p. 417. (« Je te vois trembler comme un enfant »), ivi, p. 270. 4   (« Comme il fait froid / Tout mon corps grelotte / Et je claque des dents »), Sénèque, Théâtre complet, cit., p. 418. 5   Florence Dupont, Les monstres de Sénèque, cit., p. 96.  

























32 pierre katuszewski se rapprocher de l’émotion du spectateur. Cette distanciation spécifiquement pasolinienne serait, c’est l’hypothèse que nous formulons ici, une technique théâtrale fondée sur l’exacerbation du jeu que Pasolini exploite et qu’il inscrit explicitement dans le texte, afin de produire du spectaculaire. Ce serait un escamotage qui a pour but de saper la construction sémantique et dramaturgique du personnage au profit de la présence de l’acteur sur scène, de son corps et de sa voix. 4. Les cris pasoliniens sont grecs 4. 1. Aaaaaaaaaaaah !  

D’autres moments du théâtre pasolinien, ceux où les personnages crient sont également comparables à ceux existant dans une pratique théâtrale antique : le théâtre tel que les Grecs le pratiquaient au vème siècle avant J. C., à savoir un théâtre codifié construit autour de chœurs rituels destinés à Dionysos. 1 Le théâtre grec est un théâtre où le deuil est constamment présent, il suffit de se souvenir du deuil d’Electre ou du deuil des Perses pour s’en convaincre. Et il existe un cri récurrent de deuil dans le théâtre grec : l’interjection aiaî est le cri de deuil par excellence. Ce cri, Nicole Loraux, spécialiste du théâtre grec, en fait « un indicateur de tragique ». 2 Si Pasolini, dans des pièces évoquant explicitement des sujets empruntés au théâtre grec, mais également dans d’autres pièces aux sujets moins directement inspirés du répertoire grec, si Pasolini, donc, exploite si souvent ce cri de lamentations, n’est-ce pas pour en appeler au théâtre grec ? Nous employons ici sciemment l’expression « théâtre grec » plutôt que « tragédie grecque » car la tragédie grecque est une invention des modernes pour qualifier des textes qui n’étaient pas destinés à être conservés, qui n’étaient écrits que pour que les acteurs puissent les apprendre par cœur. Le théâtre grec était un concours où la réussite de la performance et la beauté du texte comptaient bien plus que le sens de l’histoire racontée. C’est donc à la performance qu’il est nécessaire de faire appel afin de saisir comment Pasolini, par cet emprunt obsessionnel au aiaî, invite les metteurs en scène de ses pièces à se faire « Grecs ». En effet, ce que Nicole Loraux affirme à propos des aiaî grecs s’applique parfaitement aux « Ahi » pasoliniens : « L’intérêt pour aiaî ouvre à un monde où il n’est d’autre sens que le son lui-même ». 3 Comme la répétition des « je pleure » et des « je tremble », les cris des personnages pasoliniens sont un moyen supplémentaire de tisser un lien entre les spectateurs et les acteurs. Dans Calderón, par exemple, Rosaura crie à plusieurs reprises :  









































1

  Cfr. Jean-Charles Moretti, Théâtre et société dans la Grèce antique, Paris, Librairie Générale Française, 2001. 2   Nicole Loraux, La voix endeuillée, essai sur la tragédie grecque, Paris, Gallimard, 1999, p. 62. 3   Ivi, p. 63.

larmes, cris et tremblements

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Perché dovrei calmarmi ? Perché ? Che calcoli ho da fare ? Aaaaaaaaaaaah ! Aaaaaaaaaaaah ! 1 Aaaaaaaaaaaah, aaaaaah ! Ridatemi il mio corpo ! 2  













Pourquoi faire tant crier les personnages si ce n’est pour que le cri de l’acteur ou de l’actrice touche le spectateur, au sens émotionnel du terme ?  

4. 2. Sophocle à la rescousse C’est un personnage présent dans Affabulazione, l’Ombra di Sofocle, qui permet de répondre à cette proposition. À l’épisode 6 de la pièce, Pasolini interrompt la fiction par un dialogue entre ce spectre d’un auteur de théâtre antique et un des principaux protagonistes de l’histoire, un personnage nommé « le père ». A première vue, ce dialogue semble destiné à analyser les épisodes précédents. L’histoire étant comparable à celle d’Œdipe-Roi de Sophocle, il peut paraître logique de faire venir Sophocle afin qu’il donne les clefs de compréhension de la pièce aux spectateurs. Comme le note Arnaud Meunier, metteur en scène qui mit Affabulazione en scène en 2001 : « Pasolini, hanté par le mythe d’Œdipe, dissèque ces pères oubliés par l’Histoire, dont les fils ne ressentent plus le désir de les tuer ». 3 Quant à René de Ceccatty, il déclare :  











L’inceste, thème récurrent, profondément théâtral, puisqu’il s’enracine dans l’origine même de la tragédie, est l’objet de toutes les variations, avec en premier plan, l’affrontement entre le père et le fils, sujet d’Affabulazione. 4

En omettant la dimension métathéâtrale du dialogue entre l’Ombra di Sofocle et il Padre, ces deux commentateurs finissent par oublier aussi l’intention radicalement théâtrale que Pasolini lui-même n’a eu de cesse de revendiquer. En effet, si le spectre commence par comparer l’histoire d’Affabulazione à celle d’Œdipe-Roi, c’est pour s’éloigner bien vite de ce genre d’analyses et se focaliser sur la façon dont le père doit regarder son fils qui, dit-il « è già in un palcoscenico ». Pasolini met en place ici un procédé de mise en abyme en faisant du père le spectateur de son fils et en faisant des spectateurs d’Affabulazione les spectateurs du père, lui-même étant spectateur de son fils. Tout le dialogue 5 consiste, par une critique ouverte de Brecht mais également de Freud et d’Aristote, à rappeler au père que son fils n’est pas une énigme à résoudre mais un mystère, un mystère qu’il est impossible de résoudre et qu’il vaut mieux se contenter de contempler. La fin du dialogue est explicite sur ce point :  





1   Pier Paolo Pasolini, Calderón, te, p. 684. (« Pourquoi devrais-je me calmer ? Pourquoi ? Qu’estce que j’en ai à foutre ? Aaaaaaaaaaaah ! Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaah ! »), Idem, Théâtre, cit., p. 36. 2   Ivi, p. 685. (« Aaaaaaaaaaaah, aaaaaah ! Rendez-moi mon corps ! »), ivi, p. 37. 3   En ligne : www.theatre-contemporain.net/spectacles/affabulazione 4   René de Cecatty, Sur Pier Paolo Pasolini, Lanester, Editions Du Scorff, 1998, p. 115. 5   Correspondant à l’épisode 6 de la pièce et auquel nous renvoyons ici.  











   



   



34

pierre katuszewski Ombra di Sofocle Tuo figlio è già in un palcoscenico (…) Egli si rappresenta a te. Ma tu, anziché contemplarlo, lo insegui per prenderlo. Ah, vecchia, maledetta abitudine al possesso ! (…)  

Padre (…) mio figlio è dunque la realtà ; la realtà che mi sfugge : una realtà concreta però, che non è tale se non si rappresenta in tutta la sua insostenibile violenza… (…) E io non devo risolverla, perché non è un enigma : ma conoscerla – cioè toccarla, vederla e sentirla – perché è un mistero… 1  





En substituant la notion de mystère à celle d’énigme, n’est-ce pas finalement à une suspension du sens qu’en appelle Pasolini ? Cette notion, empruntée à Roland Barthes et qu’Hervé Joubert-Laurencin a parfaitement décryptée dans un article récent, 2 n’est pas à comprendre comme un choix laissé au spectateur par une ouverture d’un champ de sens possibles, mais comme une suspension véritable du sens au profit de la sensibilité. Pasolini définit ici la représentation théâtrale comme un événement concret à appréhender par la sensibilité plutôt que par l’intellect, ce qu’atteste les trois verbes employés toccare, vedere, sentire.  

5. Pasolini et la poétique de l’acteur Corps à toucher, voir et sentir, parole poétique à écouter. Corps et voix, voix qui dit le corps et corps qui appelle la voix à dire, c’est à trois que se joue le théâtre pasolinien : le personnage qui crie, pleure ou tremble, l’acteur dont le corps crie, pleure ou tremble et dont la voix dit ce cri, ces pleurs ou ces tremblements et le spectateur qui écoute, voit et ressent. La parole qui dit le corps initie une double énonciation qui implique indiscutablement le spectateur dans le proces 

1

  Spectre de Sophocle : Ton fils est déjà sur une scène, / (...) / Lui se représente devant toi. / Mais toi, au lieu de le contempler, tu le poursuis pour le saisir. / Ah, cette vieille habitude maudite de la possession ! (…) / père / (...) / Mon fils est donc la réalité, / la réalité qui m’échappe : / une réalité, pourtant concrète, mais qui ne l’est / que si on la représente / dans toute son insoutenable violence... ? / (…) / Et moi, je ne dois pas la résoudre, parce que ce n’est pas une énigme, / mais la connaître – c’est-à-dire la toucher, la voir, la sentir / parce que c’est un mystère... ? 2   Hervé Joubert-Laurencin, Pasolini - Barthes : engagement et suspension du sens, « Studi pasoliniani », 1, 2007, pp. 55-67.  















larmes, cris et tremblements 35 sus théâtral. Adressée aussi bien à l’autre personnage présent en scène qu’au spectateur, la parole véhicule autre chose que du sens, elle induit une poétique de l’acteur qui se situe dans le projet pasolinien du théâtre de parole. Ni théâtre du bavardage qui impliquerait un personnage naturaliste non dissocié, ni théâtre du geste et du cri puisque la parole est construite et articulée, le théâtre de parole peut être qualifié, en conclusion de ce parcours, à la fois de théâtre poétique et de théâtre performatif. Poétique dans le sens où acteurs et spectateurs seraient réunis dans un même espace pour partager un objet textuel dont la poésie serait une matière appréhendable au-delà du sens. Ce que déclare Denis Guénoun dans Le théâtre est-il nécessaire ? à propos de personnages emblématiques du théâtre classique, nous pouvons l’appliquer aux personnages pasoliniens :  



Il est vrai qu’on peut voir une Bérénice, une Phèdre. Mais on les verra d’abord parce qu’on les entend. (...) Les grands textes, même contemporain, même comiques valent d’abord comme poèmes. 1

Un théâtre poétique donc et performatif dans le sens où le public est constitué en tant que tel au moment de l’énonciation du texte. Les larmes, les cris et les tremblements récurrents des personnages pasoliniens nous invitent à repenser l’acte théâtral, particulièrement quand il s’agit de mettre en scène le théâtre de Pasolini. La dualité du corps et de la voix et la « trinité » constituée du personnage, de l’acteur et du spectateur nous invitent à penser au-delà du sens et à faire du théâtre de Pasolini un événement spectaculaire où la relation entre les acteurs et les spectateurs primerait sur le sens. Les larmes, les cris et les tremblements peuvent donc être interprétés autrement que comme des symboles ou comme les signes extérieurs des sentiments des personnages retranscrivant les interrogations philosophiques ou existentielles de l’auteur. Ces manifestations extérieures de la voix et du corps sont des éléments de ce qu’il convient de définir comme une poétique de l’acteur, c’est-à-dire cette fonction poétique du texte pasolinien dont l’acteur est porteur, dont l’acteur est le « véhicule vivant », pour reprendre l’expression de Françoise Decroisette, qui se caractérise en même temps par une suspension de l’histoire et du sens, par une distanciation du personnage et par une mise en relief du jeu de l’acteur. Une poétique de l’acteur qui met l’accent sur la pure présence de l’acteur sur scène, sur son corps et sur sa voix et non pas sur l’information véhiculée par le texte. Une poétique de l’acteur enfin qui fait de la performance théâtrale elle-même un acte poétique.  





1



  Denis Guénoun, Le théâtre est-il nécessaire ?, Paris, Circé, 1995, p. 149.  

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IL CORPO SACRIFICALE NEL CINEMA DI PASOLINI : L’INCONTRO CON IL LIVING THEATRE  

Irina Possamai

P

enso che sia utile ricordare come e dove avviene l’incontro di Pasolini e dell’opera pasoliniana con il Living theatre, in particolare con il suo attore carismatico, Julian Beck. Il punto nodale che consente di confrontarli è la dinamica della vittima sacrificale. Per questa ragione nel film Edipo re Pasolini sceglie di far interpretare il personaggio di Tiresia a Julian Beck. La specularità di Tiresia e Edipo-Pasolini così come la specificità dei loro corpi sacrificali risulta chiara a partire dalle riflessioni di René Girard sul capro espiatorio. 1 In Edipo re, Medea, Teorema e anche nel teatro di Pasolini, 2 convivono lotta e sacrificio rituale. Pasolini scrive almeno tre volte nelle sue opere di riferirsi esplicitamente al Living theatre. In una pagina di Alì dagli occhi azzurri descrive il personaggio di Brahim che sta guardando delle persone « dentro la vetrina di un caffé » come se fossero « su un piccolo palcoscenico colpito dai riflettori in una rappresentazione del Living theatre ». 3 L’accento è posto qui sulla luce e sull’atto del guardare. Nell’Appendice a Porcile, 4 il Living theatre viene considerato un modello di « martirii e carneficine » 5 che tanta parte avranno nell’opera pasoliniana. Il personaggio metateatrale dello Zaum, uno « spirito della parola » latore della poetica teatrale dell’autore, dice che è da preferirsi al teatro di Brecht. Zaum afferma infatti : « È preferibile che ci affidiamo al Living theatre ». 6  





















Tentare una fantasia di « avvicinamento » 7 all’opera pasoliniana nella sua totali 



1

  Cfr. René Girard, Le bouc émissaire, Paris, Grasset & Fasquelle, 1982.   Un recente studio di Stefania Rimini su tutta l’opera pasoliniana analizzata in ordine cronologico avvalora l’ipotesi che avevo formulato nella mia tesi di laurea (cap. 6-8) sostenuta nel 1994 a Venezia : Misteri senza enigmi. La scena del « rito culturale » nel teatro di Pier Paolo Pasolini (cfr. Stefania Rimini, La ferita e l’assenza. Performance del sacrificio nella drammaturgia di Pasolini, Roma, Bonanno, 2006). 3   Pier Paolo Pasolini, Alì dagli occhi azzurri, Milano, Garzanti (1965), 1992, p. 500. 4 5 6   te, pp. 647-658.   Ivi, p. 647.   Ivi, p. 650. 7   Impiego il termine zanzottiano nel senso attribuitogli da Gian Mario Villalta : « perché questa presenza si sottrae a una immediata comprensione. Anzi, in maggiore sintonia con quanto era in discussione, si impone l’uso del plurale “avvicinamenti”, a suggerire un procedere che si inoltra e ritorna al suo punto di partenza, e sottintende il movimento degli Holzwege di Heidegger – sotto diversi aspetti intersecanti certi tracciati dell’opera zanzottiana – ma che da questi differiscono per 2











38 irina possamai tà, significa accettare la compresenza di elementi contrastanti. Sineciosi e ossimoro sono due figure retoriche che abitano l’opera pasoliniana. Vorrei cercare dunque di discutere quell’opinione critica che non prende in considerazione il possibile raffronto del Living theatre con il teatro e il cinema di Pasolini. 1 Nel Manifesto per un nuovo teatro 2 Pasolini contesta il teatro della Chiacchiera, il teatro del Gesto e dell’Urlo facendo riferimento ad Artaud e al Living e parla in nota anche del lavoro teatrale di Carmelo Bene. 3 Negli stessi anni mette in scena i corpi stessi di Julian Beck e di Carmelo Bene nel film Edipo re. Mentre sta scrivendo il suo pamphlet teorico, nella pratica cinematografica include deliberatamente nel cast di Edipo re due uomini di teatro che considerano il corpo sacrificale un elemento centrale anzitutto della vita e di conseguenza del teatro. Dove il teatro fa irruzione prepotentemente nel cinema, cioè nei suoi film più teatrali : Teorema, Edipo e Medea (questi ultimi due ispirati alle tragedie di Sofocle ed Euripide) vengono messi in evidenza i corpi degli attori e la regia tiene conto del tema del sacrificio nelle società arcaiche. In Teorema la serva contadina Emilia viene coperta di terra e sepolta ancora viva, nella barbara Colchide di Medea si assiste al sacrificio umano rituale e in Edipo re all’accecamento autopunitivo di Edipo. La rappresentazione del corpo sacrificato diventa il controcanto della teoria del teatro di parola formulata da Pasolini e la sua contraddizione filmica. Del resto l’autore pensava che la sceneggiatura cinematografica dovesse essere la struttura significante di « un’altra struttura » 4 dove l’attributo ‘altro’ equivale a articolata su un altro piano e non si riferisce all’essenza della struttura in quanto realtà. Pasolini nel testo critico Guerra civile avvalora la nozione di corpo engagé, da gettare nella lotta e si rifà a un canto della resistenza negro-americana. 5 Il  





un costante “spostamento” (“metonimico” ?) del punto di partenza » (Cfr. Gian Mario Villalta, La costanza del vocativo. Lettura della « trilogia » di Andrea Zanzotto : Il Galateo in Bosco, Fosfeni, Idioma, Milano, Guerini, 1992, p. 65). 1   Per esempio il regista Stanislas Nordey, nell’intervista rilasciata a Walter Siti che introduce il volume sul teatro di Pasolini (I Meridiani) afferma : « Assolutamente niente a che fare perché in Pasolini c’è anche qualcosa di trattenuto, non è semplicemente qualcosa di liberato ; è un corpo che si getta nella mischia ma si trattiene ; com’era il corpo di Pasolini del resto, sportivo ma secco, come un cavallo trattenuto per le briglie » (te, p. xli). 2   Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, « Nuovi argomenti », gennaio 1968, poi in Pier Paolo Pasolini, Teatro, Milano, Garzanti, 1988, pp. 713-732. La nuova edizione del teatro di Pasolini (« I Meridiani ») non include il Manifesto per un nuovo teatro. 3   Se nel Manifesto Pasolini scrive che Carmelo Bene disarticola, scompone e dissacra il linguaggio riducendo le parole a semplici suoni (Pier Paolo Pasolini, Teatro, Milano, Garzanti, 1988, p. 724) nell’introduzione a Bestia da stile individua in lui, « autonomo e originale », la sola e apprezzabile eccezione nel panorama teatrale italiano contemporaneo (te, p. 762). 4   Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti (1972) 1991, p. 188 (ora in sla, pp. 1489-1502 e 1594). 5   « Bisogna gettare il proprio corpo nella lotta » (Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti (1972), 1991, pp. 144-150 (ora in sla, pp. 1429-1439). Nello stesso testo Pasolini cita anche  



































l ’ incontro con il living theatre 39 corpo dell’attore è sacrificato in scena per manifestare apertamente il rifiuto della morte e una forma di protesta come nelle performance del Living theatre. Nei film di Pasolini i corpi sembrano volerla esorcizzare proprio per incarnare il significato di un’opera d’arte. 1 Gli attori pasoliniani diventano nei film statue semoventi, scolpite dallo sguardo indagatore della telecamera. L’occhio del teleobiettivo si sofferma spesso sui corpi e pare disegnarli. Il regista è pittore, sceglie una ripresa frontale, bidimensionale, non per nulla interpreta egli stesso il personaggio di Giotto nel film Decameron ma in azione. In Edipo re la scelta di Julian Beck per il personaggio di Tiresia potrebbe essere considerato la chiave per svelare l’enigma biografico dell’autore, forse lo stesso enigma che Edipo ha risolto per poter entrare nella città di Corinto. In un’incursione narrativa di Affabulazione (versione teatrale del mito di Edipo rovesciato 2 scritta negli stessi anni), Pasolini fa raccontare la storia di Edipo dall’Ombra di Sofocle rivolto sia al personaggio del padre sia agli spettatori e comincia a spiegare il significato che il mito acquista nella vicenda esistenziale dell’autore. 3 Era un mattino d’oro, nei dintorni di una piccola città del mio tempo (anzi del tempo dei miei padri) ; mattino d’oro così contrastante con le tragiche circostanze che cospargevano di ossa di morti uno di quei tristi spiazzi dove le città gettano i loro rifiuti, che odorano acidamente al sole. Per liberare questa disgraziata città, c’era, appunto, da risolvere un enigma. Venne un giovane di belle speranze – e lo risolse ! Per questo fu eletto Re. La città riprese così la sua vita e la storia poté continuare. Ma dopo un po’, ecco che si presentò un altro enigma (non ha importanza sapere quale fosse)  



due volte Ernesto De Martino e la sua riflessione sulla « paura di perdere la presenza » delle nuove generazioni di figli. 1   Cfr. Julian Beck, Diari. Una selezione degli scritti autobiografici. 1948-1957, Udine, Campanotto, 2008, p. 45. 2   Cfr. Roger Money-Kyrler, Il significato del sacrificio, Torino, Bollati Boringhieri, 1994, pp. 5067 e 199-222. Lo studioso cerca di verificare i concetti della psicoanalisi confrontandoli con l’antropologia e valorizza così l’inconscio quale con-causa sotterranea delle manifestazioni umane sociali, politiche e storiche più significative. In Affabulazione, dove è tradotto in atto lo schema inconscio del parricidio rovesciato, l’uccisione del figlio vale come sacrificio del Dio-re compiuto da un Padre-bambino. 3   Cfr. Pier Paolo Pasolini, Il padre selvaggio, Torino, Einaudi, 1967.  



40

irina possamai e, questa volta, quel giovane, divenuto uomo e padre, non lo seppe più risolvere... Se ne andò, dopo essersi acciecato, divenuto, da Re, mendicante. Non si può risolvere, infatti, più di un solo enigma nella vita. Del resto, coloro che presero il suo posto al potere, se lo presero senza merito, per astuzia, per inerzia, per caso, per vanità ; la storia, con loro, non andò certamente avanti... Era la normalità. Che se dura a lungo, si decompone, e porta con sé nuovi mostri disgustosi, che pongono poi, nuovi enigmi da risolvere... finché un nuovo giovane di belle speranze non venga a risolverli.  

Siamo di fronte ad un processo di appropriazione del mito, di cui Pasolini è maestro e in tale processo irrompe il mistero del corpo. Continua l’Ombra di Sofocle in Affabulazione :  

Ma perché dico tutto questo a te ? Eh, perché tu cerchi di risolvere l’enigma, per andare avanti con la tua vita, e magari (se tanti sono i figli e i padri come te e tuo figlio) con la vita del mondo. Ma, ahimé, non è un enigma quello che ti viene posto, ti ripeto, non è un enigma ! [...] Egli è un mistero ! 1  





Affabulazione, il testo teatrale di Pasolini scritto all’insegna della valorizzazione della parola nel suo farsi appunto ‘affabulatorio’, si arresta di fronte al mistero del personaggio, racchiuso anzitutto nel ‘detto’ e taciuto del linguaggio non verbale e più oltre nel silenzio del corpo e della parola. Il padre è basito di fronte al mistero del corpo del figlio come lo è Pilade di fronte all’incomprensibile realtà storica incarnata da Oreste, Elettra, Atena e dagli altri personaggi secondari di quella tragedia. Sono questi del resto gli elementi cardine del leggendario spettacolo del Living theatre : Mysteries and smaller pieces messo in scena dalla troupe americana nel 1968 al Festival d’Avignone. Il mistero, il mistero medievale, la lotta politica e il corpo sacrificale a cui viene conferita una sostanza scenica sono i temi affrontati dall’avanguardia americana degli anni Sessanta e Settanta. Celebre per questo è la messa in scena di Antigone del Living theatre dove l’eroina greca viene immolata per testimoniare la sua rivolta contro il re Creonte, emblema atemporale del potere costituito.  

1

  te, pp. 229-331.

l ’ incontro con il living theatre 41 Negli spettacoli del Living viene spesso bruciato simbolicamente in scena un oggetto di grandi dimensioni. Anche in Edipo re i morti a causa della peste vengono bruciati in pire gigantesche che ricordano i riti funerari indiani. La recente pubblicazione dei diari di Julian Beck in Italia lo conferma. 1 A Roma, nell’aprile del 1982, egli scrive un poemetto-manifesto dal titolo significativo : Le théâtre comme sacrifice rituel, che ben definisce il senso e il modo del suo lavoro artistico.  

Le théâtre sacrifice rituel maintenant le sacrifice est l’“Actressor” qui risque tout et représente la mort et sacrifie sa vie pour en commencer une autre pour devenir autre pour connaître le divin pour dépasser la mort “brûlant sur le bûcher” comme le buisson qui ne se consume pas un signal de Dieu – un signe de miraculeux “Plutôt mourir que d’aller en scène” Mourir de trac. 2

Le tematiche del Living theatre incontrano qui il teatro e il cinema di Pasolini e tra gli interpreti di Edipo re compare Julian Beck. Dopo aver incluso l’attore nel cast del film, Pasolini scrive espressamente nei titoli di testa la seguente frase tra parentesi : « per cortese concessione del Living theatre ». Julian Beck con Judith Malina è la guida carismatica di un gruppo, di un ‘collettivo’ caratterizzato da un proprio modo di fare teatro dal quale non si può prescindere e di cui Pasolini intende, più o meno consciamente, tener conto. Con i personaggi di Tiresia e di Creonte interpretati rispettivamente da Julian Beck e da Carmelo Bene, il teatro si mescola al cinema e il mito rivive nel presente. È stato già dimostrato il forte legame tra il film Medea, l’antropologia culturale e la storia delle religioni : Pasolini aveva letto e studiato in particolare le opere di James George Frazer e di Mircea Eliade. 3 La morte è intesa come rinascita ed è riprodotto « il mito dell’eterno ritorno ». 4  









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  Cfr. Julian Beck, Diari (1948-1957), Udine, Campanotto, 2008.   Roma, 5 aprile 1982 ( Julian Beck, Théandrique ou la possibilité de l’utopie. Dernières notes, Paris, L’Harmattan, 1997, p. 27). 3   Ne ha scritto anche Christophe Mileschi nell’introduzione alla sua traduzione francese della sceneggiatura del film (Christophe Mileschi, Médée, Paris, Arléa, 2002, pp. 5-11). 4   Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Roma, Borla (1968), 1999. 2

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irina possamai Alla luce dello studio di René Girard sul mito di Edipo, 1 il film Edipo re di Pasolini si rivela un esempio significativo di tale compresenza di lotta e sacrificio rituale vicino al modello del Living theatre. René Girard enumera le caratteristiche che tendono a polarizzare le folle violente contro coloro che possiedono segni connotanti la vittima. 2 In merito al mito di Edipo René Girard parla di tre stereotipi persecutorii :  

1. La peste ravage Thèbes. 2. Œdipe est responsable parce qu’il a tué son père et épousé sa mère. Pour mettre à fin à l’épidémie, affirme l’oracle, il faut en chasser le criminel abominable. La finalité persécutrice est explicite. Le parricide et l’inceste servent ouvertement d’intermédiaires entre l’individuel et le collectif. 3. Les signes victimaires. Il y a d’abord infirmité : il boite. Il est étranger mais aussi il est le fils du roi et roi luimême. Il cumule la marginalité du dehors et la marginalité du dedans. 3  

Edipo, interpretato da Franco Citti, è una vera e propria mescolanza di tali caratteristiche, un vero e proprio « conglomérat » (conglomerato) (Girard) di segni vittimari che ne fanno una vittima predestinata nonostante la sua ostinata battaglia quotidiana contro il destino che gli si prepara. È un bambino dai piedi gonfi, 4 zoppica, è straniero a Corinto, diventa re e si toglie la vista. In lui si sovrappongono menomazioni fisiche e sociali estreme. L’accumulazione di segni connotanti le vittime fa di lui il capro espiatorio ideale per la comunità decimata dalla peste. Pasolini reitera nel film una lunga serie di incontri-scontri sanguinosi. Più Edipo cerca di sfuggire al vaticinio di Apollo, più esso si compie, ineluttabile, strada facendo. Anche le scene violente e sordide di Accattone erano caratterizzate da momenti di scontro o di lotta accompagnati, per converso, dalle sublimi e sacralizzanti musiche di Bach. Le lotte, gli scontri di Edipo sono invece contrassegnati dal silenzio e dalla luce accecante del sole mediterraneo. Pasolini crea qui un effetto pittorico di campo/contro-campo, di chiaroscuro alla Caravaggio, espressione di una tecnica in fine sacralizzante. Se le lotte dei personaggi nel cinema e nel teatro di Pasolini hanno cause e origini esistenziali, in  

1



  In merito ai segni vittimari, « signes victimaires » o « traits persécuteurs », René Girard afferma che « les minorités ethniques et religieuses tendent à polariser contre elles les majorités. Il y a là un critère de sélection victimaire relatif » (Girard, Le bouc émissaire, cit., pp. 27-28). « À côté des critères culturels et religieux, il y en a de purement ‘physiques’. La maladie, la folie, les difformités génétiques, les mutilations accidentelles et même les infirmités. L’infirmité s’inscrit dans un ensemble indissociable de signes victimaires et dans certains groupes – un internat scolaire, par exemple – tout individu qui éprouve des difficultés d’adaptation, l’étranger, le provincial, l’orphelin, le fils de famille, le fauché, ou, tout simplement, le dernier arrivé, est plus ou moins interchangeable avec l’infirme […] À la limite ce sont toutes les qualités extrêmes qui attirent, de temps à autre, les foudres collectives » (Ivi, pp. 29-30). 2   « d’énumérer les traits qui tendent à polariser les foules violentes contre ceux qui les possè3   Ivi, p. 39. dent » (ivi, p. 31). 4   L’accento è posto su tale caratteristica sin dall’inizio del film.  



















l ’ incontro con il living theatre 43 un secondo momento diventano metafora dell’impegno politico, della battaglia culturale che l’autore con le sue opere continua ad ostinarsi nel voler promuovere. La stessa cosa stava facendo in quegli anni il Living theatre nelle piazze, nelle strade e nei teatri europei. Edipo incontra il vecchio re di Corinto (che nel film ha una lunga barba canuta) accompagnato da una scorta. Offeso dalla sua prepotenza, uccide una dopo l’altra le guardie del re. Come Medea in fuga dalla Colchide con Giasone aveva fatto strazio del fratello Absirto/Apsirto e aveva sparso sulla strada dietro di sé i pezzi del suo corpo smembrato, così i soldati uccisi da Edipo sono disseminati lungo la via come in un atto propiziatorio per il lavoro dei campi. Si è compiuto un sacrificio umano. 1 Al suo arrivo a Corinto, Edipo incontra un ragazzo : Ninetto Davoli, l’anghelos della tragedia greca che lo porterà a conoscere per la prima volta Tiresia. In questo caso Edipo si limita ad osservarlo mentre suona il flauto. Il sacro è tenuto lontano in uno spazio delimitato ed è ammirato con circospezione ; in effetti, il linguaggio verbale, le parole non entrano nella sua sfera di influenza. In molti film e drammi pasoliniani Ninetto Davoli interpreta con leggerezza il ruolo del messaggero che gli è perfettamente congeniale. Ninetto, accompagnatore del cieco Tiresia, guiderà poi Edipo quando sarà divenuto a sua volta cieco alla fine del film. Nel mondo contemporeneo Edipo porta l’eredità di Tiresia che implica allo stesso tempo cecità e preveggenza. Per Pasolini è questo il compito che deve svolgere l’intellettuale dei nostri giorni.  



Edipo, incontrando Tiresia, ha trovato il sacro. 2 Alle porte della città, si imbatte nella Sfinge e riesce ad ucciderla, forse « senza aver risolto l’enigma », scrive Pasolini nella narrazione del mito sopracitata. Il premio per aver sconfitto la temibile Sfinge è il matrimonio con la regina Giocasta. La coppia reale ha dei figli di cui il regista pare non tener conto in questo film. Terribili sventure si abbattono allora su Tebe, in particolare la peste decima il popolo che chiede incessantemente a Edipo di salvarlo come aveva fatto a suo tempo con la Sfinge. Il portavoce del popolo è incarnato dall’autore in carne ed ossa, che implora il re di salvare il suo popolo. Pasolini entra in scena poco prima di Tiresia e Creonte, cioè prima di Julian Beck e Carmelo Bene, sottolineando così la valenza biografica di quest’incontro. Nella prima parte del film aveva rappresentato la sua infanzia in Friuli : la madre amorosa e il padre geloso del figlioletto. L’autore si mostra nell’età adulta ai suoi contemporanei compagni di viaggio del teatro e nell’ultima parte Edipo-Pasolini prenderà definitivamente il posto di Tiresia  





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  Cfr. George Frazer, Le Rameau d’Or, Paris, Laffont, 1983.   La scena del loro primo incontro ricorda quello di Giasone bambino col centauro Chirone nel film Medea. 2

44 irina possamai nel mondo contemporaneo. Ecco che l’interpretazione antropologica si ricongiunge con quella psicoanalitica. Entrano in scena dunque attivamente, argomentando il loro intervento, Tiresia e poi Creonte. Di fronte alle nuove predizioni di Tiresia, che rievocano quelle dell’oracolo di Delfi, Edipo reagisce come ha sempre fatto nelle altre circostanze della sua vita. Lo prende a botte, non volendo vedere la realtà che lo riguarda : mettendo in atto una sorta di proiezione disconoscitiva, rifiuta di riconoscere in se stesso il colpevole che sta cercando. Sebbene da tempo l’oracolo di Delfi abbia avvertito Edipo del suo destino, il re si ostina a non voler sapere. Del resto anche Giocasta si copre il volto con le mani per non vedere. E tutto questo naturalmente non c’è nel testo greco. I segni di Edipo, riconosciuti da René Girard, sono speculari a quelli di Tiresia. Entrambi sono portatori di un handicap fisico evidente : la cecità. In Tiresia essa sembra acuire gli altri sensi e le capacità divinatorie. Tiresia-Beck predice a Edipo la cecità : 1) perché si rifiuta di vedere la realtà, 2) perché deve espiare in qualche modo la colpa del parricidio e dell’incesto, 3) perché ha osato prendersi gioco del divino Tiresia. Chi sa predire il futuro è ‘divino’ e possedere un tale carisma significa essere parte integrante della sfera del sacro. La simmetria tra i due personaggi-vittima, Edipo e Tiresia direbbe certamente Girard, ne fa quasi un Giano bifronte. In tale specularità si gioca anche la metafora della visione (vedere ed essere visti) che è anche la metafora dell’arte cinematografica. L’occhio implacabile della macchina da presa ha bisogno di vittime sacrificali sulla scena e l’obiettivo genera una sorta di catarsi nello spettatore. Entrambi i personaggi sono dunque destinati a diventare ciechi. La loro cecità è la conseguenza della punizione degli dei per una colpa commessa. Anche Tiresia è stato punito a suo tempo per aver dato ragione a Zeus nella famosa disputa con Hera (Giunone) sul piacere sessuale dell’uomo e della donna. Tiresia metamorfizzato aveva vissuto in un corpo di donna per sette anni e aveva affermato che il piacere della donna era più intenso di quello dell’uomo. Come un ermafrodito Tiresia riunisce in sé l’esperienza dei due sessi. È del resto a Julian Beck, in quanto cantore negli anni Settanta della valorizzazione del corpo e della libertà sessuale, che Pasolini attribuisce il ruolo di Tiresia. Su di lui, fa convergere una parte della storia del mito del corpo e del piacere sessuale : il mito rivive, si cala nel mondo contemporaneo e ne interpreta le istanze più sperimentali e avanguardistiche, come aveva fatto il personaggio di Antigone nello spettacolo omonimo. Ma la presenza di Julian Beck in Edipo re è possibile solo per debita concessione della « tribù » del Living. Senza il consenso del clan infatti, Julian non si può allontanare dalla sua comunità di vita e di lavoro. Perché il Living, come tutte le tribù di teatro, tollera malamente il narcisismo dei singoli attori. Anche Carmelo Bene nel suo teatro si batte per il  











l ’ incontro con il living theatre 45 1 disconoscimento dell’Io, unica condizione per lui di libertà di creazione. Quando Pasolini gira Edipo re, sta riflettendo sull’idea di comunità. Sta costruendo la propria comunità di attori, di amici, e di punti di riferimento teatrali, e confida in un pubblico capace di condividere le sue aspirazioni, ha in mente una sorta di comunità ideale per la sua tragedia ‘nuova’. Proprio fra questi amici-attori Pasolini colloca se stesso come attore e come autore. Così facendo, in questo preciso momento, ridefinisce il suo modo di fare teatro attraverso il cinema. Per lui non esiste solo la comunità degli spettatori che assiste alla rappresentazione ma esiste sempre la comunità di amici e di artisti che sono pronti ad interpretare un film al suo fianco e farlo vivere. Lavora già da tempo con Ninetto Davoli, Franco Citti e Laura Betti. Poi ci sono Elsa Morante, Alfonso Gatto, Enzo Siciliano, persino Orson Welles, tanto per citare alcuni nomi di letterati o artisti che Pasolini coinvolse nei suoi film. La cecità di Tiresia si colloca dunque in un dato contesto comunitario reale e ideale di attori e spettatori. Essa è anche un segno caratterizzante la vittima. È il difetto fisico che definisce il capro espiatorio di cui una società, una folla qualsiasi ha bisogno per polarizzare la propria violenza latente. 2 Su Edipo si scaricano le tensioni di un gruppo intero e, prima ancora, Edipo tenta di scaricarle su Tiresia. Infatti il primo incontro col profeta dell’antichità si era svolto all’insegna del silenzio e della musica. Il paesaggio che aveva costituito lo sfondo di tale incontro col sacro era stato il deserto del Marocco. 3 Tiresia sta suonando il flauto, contano solo il suo corpo e il suo canto. Appaiono solo le citazioni del testo greco collocate in un riquadro bianco. Sono frammenti letterari, come se per Pasolini fosse possibile solo contrapporre e non collegare due linguaggi diversi che rimangono comunque « irriducibili l’uno all’altro ». 4 Il linguaggio del corpo e dell’immagine del corpo nel film viene giustapposto alla parola letteraria tradotta e trascritta in italiano che sembra provenire da un altrove sconosciuto, sembra essere il frammento di un’identità sepolta, forse quella del popolo greco. 5  



1

  Cfr. Piergiorgio Giacchè, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina attoriale, Milano, Bompiani, 20072, pp. 46-47. 2   In merito a tale meccanismo, è interessante ricordare una scena raccapricciante di asportazione degli occhi (che ricorda una scena analoga in Salò o le centoventi giornate di Sodoma) tratta dall’Appendice a Porcile. Ad una vittima (la parola « vittima » ritorna almeno quattro volte nel testo), il personaggio « Sigmund Einstein », viene inflitta la tortura dell’accecamento. Le viene imposto il segno vittimario della cecità. La sua risposta è un urlo infinito. Artefici del supplizio di un ebreo sono un gruppo di neri : sia la vittima, sia il carnefice sono latori di segni vittimari in un gioco di scambio reciproco delle parti caro a Pasolini (te, p. 654). 3   Pasolini aveva scelto invece di girare Medea nel paesaggio desertico della Cappadocia. 4   Michel Foucault, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Paris, Gallimard, 1966, p. 25. 5   Ricordiamo che il giovane Pasolini aveva letto con interesse I canti del popolo greco di Niccolò Tommaseo.  









46 irina possamai In questa scena viene evidenziata una presa di distanza di Pasolini rispetto alla scelta di teatro totalmente ritualizzato, da parte del Living theatre. In Pasolini la parola poetica, il frammento del mondo greco, entrano in gioco nel meccanismo della performance scenica o cinematografica tanto quanto il corpo, la voce e la musica. Nel suo teatro prevale comunque la parola, la prefigurazione dell’azione, nel cinema, « lingua scritta della realtà », le altre componenti della rappresentazione. Il cinema e il teatro di Pasolini sono il risultato di una sofisticata arte combinatoria che fa tesoro di diverse esperienze e attinge continuamente a fonti antiche e contemporanee : sono un chiaro esempio del ritorno, non ripetitivo, del tragico nelle società postmoderne. 1 Lo stesso flauto che suonava Tiresia il giorno del loro primo incontro verrà dato da Ninetto a Edipo quando uscirà dalla reggia di Corinto cogli occhi sanguinanti dopo essersi acciecato. Con quest’atto simbolico viene chiarito il legame di Edipo e Tiresia con Pasolini e forse il rapporto tra mondo antico e contemporaneo. Può essere interpretato anche come passaggio di consegne : Tiresia-Beck gli affida la propria esperienza in ambito teatrale e Pasolini saprà farne « buon uso ». 2 Gli archetipi mitici sono destinati a riprodursi identici, 3 e Pasolini non può esimersi dal prendere in considerazione i meccanismi antropologici che li caratterizzano in una prospettiva di continuità. Sul tema centrale, mitico e antropologico della cecità si conclude dunque nel mondo contemporaneo la vicenda di Edipo così come la riscrittura pasoliniana del mito. La comunità moderna, per il proprio bene e per una rinascita collettiva non può esimersi dal sacrificio, dalla necessità di un corpo mutilato, parzialmente sacrificato. Per porre fine alle catastrofi sono necessarie le vittime e l’autore Pasolini sceglie di essere il Tiresia del nostro tempo. Poco prima di morire scriverà nel « Corriere della sera » :  

















Io so. / Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di golpes istituitasi a sistema di protezione del potere). / Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. / Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. 4

Pasolini « profeta e provocatore del nostro tempo », recitava anche il titolo di una giornata di studio pasoliniana del 2007 a Grenoble.  



1

  Cfr. Michel Maffesoli, L’instant éternel. Le retour du tragique dans les sociétés postmodernes, 2   te, p. 312. Paris, La Table ronde, 2003. 3   Cfr. Claude Lévi-strauss, Anthropologie structurale deux, Paris, Plon, 1973. 4   Pier Paolo Pasolini, Cos’è questo golpe ? Io so, « Corriere della sera », 14 novembre 1974, poi pubblicato nella raccolta Scritti Corsari col titolo : Il romanzo delle stragi (ora in sps, p. 362). Il 7 novembre dello stesso anno, Pasolini aveva pubblicato un articolo in « Panorama » dal titolo : Colpo di testa del capro espiatorio (Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, Milano, Garzanti (1975), 1990, pp. 237-238). Se la raccolta dei Meridiani curata da Walter Siti include l’articolo che riguarda la confessione politica di Pasolini, questo non è citato in quella precedente curata da Alfonso Berardinelli. Inversamente Berardinelli include l’articolo apparso su « Panorama » il 7 novembre 1974 e non quello del 14 novembre sul « Corriere della sera ».  





















l ’ incontro con il living theatre

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Per concludere, il corpo sacrificale dell’attore, immolato dal Living nella scena della riscrittura contemporanea del mito, in particolare classico (Antigone) costituisce una vera e propria eredità nel teatro (Affabulazione, Pilade e Calderón) e nel cinema (Teorema, Medea e Edipo re) di Pasolini. Ambedue stanno tentando di ripristinare una comunità istantanea, capace di divenire cassa di risonanza ideale per il loro militantismo culturale. La presenza fisica, in carne ed ossa di Julian Beck nel film Edipo re ne è l’evidente dimostrazione. Incarnando il personaggio di Tiresia, Julian Beck è un potenziale capro espiatorio perché riassume la tradizione mitica di un corpo parzialmente mutilato, portatore di segni connotanti la vittima. Riunendo emblematicamente la diversità dei due sessi, l’indovino è in grado di liberare tutte le possibilità di espressione scenica e cinematografica del corpo umano. Il potenziale di rivolta di cui tale corpo è latore si esprime tanto nel teatro del Living quanto nel cinema di Pasolini. Lotta e sacrificio rituale convivono, si definiscono reciprocamente e prefigurano l’utilizzo metaforico e politico del corpo in Salò o le centoventi giornate di Sodoma e quello che è stato denominato il ritorno del tragico nelle società postmoderne.

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MAMMA ROMA, ETTORE, CARMINE : UNA TRINITÀ SOTTOPROLETARIA  

Amandine Mélan

L

a sceneggiatura di Mamma Roma si apre su una sequenza introduttiva che riproduce figurativamente l’Ultima Cena di Gesù in mezzo ai suoi apostoli e si conclude quasi, in una delle ultime sequenze, sull’immagine del figlio morto su un letto di contenzione che richiama fortemente, sullo schermo, un quadro di Mantegna che rappresenta il Cristo morto. Fra queste due sequenze il lettore o lo spettatore assiste alle disavventure di una Maria (di Magdala o di Nazareth) dei tempi moderni, di suo figlio – agnello mistico che verrà sacrificato su un altare moderno –, di un prosseneta demoniaco e di una giovane Eva tanto sensuale quanto letale, il tutto sotto gli occhi di un sole-dio severo e nell’indifferenza totale dei borghesi. Numerose allusioni sono fatte ai diversi episodi del Vangelo e alla storia biblica in generale : dai borghesi che vengono accostati ai Farisei, alla città di Roma che si confonde con Gerusalemme. Il testo crea una serie di attese che però vengono per lo più sfumate o contraddette. Così, in modo ironico, i riferimenti alla religione, qualche volta, subiscono un rovesciamento o una distruzione che spinge il narratario ad interrogarsi sul senso profondo di ciò che sta leggendo. Studiando la sceneggiatura come un testo letterario indipendente, senza mai riferirsi alle tappe successive del montaggio cinematografico, la nostra riflessione verterà sulla santa trinità costituita dai protagonisti principali di Mamma Roma – una prostituta, il suo sostenitore e suo figlio. Prima di concludere, accenneremo anche al personaggio secondario di Bruna. Mamma Roma è un personaggio ambiguo : benché raccolga la simpatia del lettore della sceneggiatura, i suoi valori, in una prospettiva marxista che è quella in cui si inserisce il pensiero di Pasolini, sono sbagliati : sono quelli del consumismo, della piccola borghesia, dei Farisei. Oltre a venerare dei falsi idoli – il denaro e l’apparenza –, Mamma Roma è un personaggio sbadato, volgare, rozzo e pretenzioso : intende realizzare il suo « folle » e « confuso » « sogno fariseo »1 – quello di fare di Ettore un piccolo-borghese – e non tollera la minima concessione. Attualizza questa strofa di Versi sottili come la pioggia :  





















Frattanto il sottoproletariato, che effettivamente esisteva, 1   pc i, p. 180 : « I suoi occhi, la sua faccia, i suoi capelli : su tutto arde il sogno fariseo, piccoloborghese, folle, confuso ».  







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amandine mélan ha finito col diventare una riserva della piccola borghesia. 1

Disprezza la classe operaia, i comunisti. Cerca di integrare una categoria sociale che giudica ideale perché è quella che viene santificata dalla società di consumo ancora giovane. Questo atteggiamento è in contraddizione con l’ideologia di Pasolini che, nella sua ultima intervista, concessa a Furio Colombo, il 1 novembre 1975, dice : « Ho la nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbattere quel padrone senza diventare quel padrone ». 2 Mamma Roma non è un’eroina sociale del sotto-proletariato. Però, malgrado i suoi difetti, la donna seduce il destinatario e riesce quasi a convincerlo della validità della sua impresa. Il lettore è colpito dal suo amore per il proprio figlio, sentimento che diventa il motore della sua redenzione : Mamma Roma lascia la strada, sceglie una vita onesta e soffre senza lamentarsi affinché Ettore abbia una vita migliore della sua. La sua volontà irremovibile è impressionante, come la sua abnegazione. È anche il senso del sacrificio che orienta la simpatia del lettore verso questo personaggio. Dall’inizio della storia, dopo una sequenza che riproduce l’Ultima Cena, Mamma Roma appare come un Cristo risuscitato, una domenica – giorno del signore –, scappata dall’inferno della prostituzione per ricominciare, vittoriosa, una nuova vita piena di speranza. In diverse repliche e descrizioni nella sceneggiatura, dei parallelismi vengono stabiliti fra lei e il cosiddetto figlio di Dio : la sua vita sarebbe un calvario, 3 si farebbe mettere in croce per suo figlio, 4 ecc. Però, nonostante questi accenni numerosi, più che a Gesù Cristo – e nonostante la sua storia ricordi in parte quella di Maria Maddalena, peccatrice pentita – Mamma Roma somiglia alla Madonna. È prevalentemente una mater dolorosa, una Vergine Maria prostituta il cui amore per il figlio commuove. Il « frutto delle sue viscere » le sarà tolto crudelmente da una morte ingiusta, sacrificato su una specie di altare, le braccia in croce. Si ritrova nella posizione della Madonna lodata da Jacopone da Todi nel suo Stabat mater, 5 ma, a differenza della madre di  













1

  Pier Paolo Pasolini, Versi sottili come la pioggia in Tetro entusiasmo in Idem, Bestemmia. Tutte le poesie, cit., pp. 253-254. 2   Furio Colombo, Giancarlo Ferretti, L’ultima intervista di Pasolini, Roma, Avagliano, 2005, p. 59. 3   pc i, p. 236 : « E comincia la lunga carrellata su quella nuova tappa del suo calvario... Interminabile ». 4   Ivi, p. 213 : « Di’ la verità... Te faresti pure mette in croce, per lui eh ? ». 5   « (...) Quis non posset contristàri, / piam mater contemplàri / dolentem cum Filio ? / Pro peccàtis suae gentis / vidit Jesum in torméntis / et flagéllis subditum. / Vidit suum dolcem natum / moriéntem desolatum, / dum emisit spiritum. (…) » (« Chi non si rattristerebbe / al contemplare la pia madre / dolente accanto al Figlio ? / A causa dei peccati del suo popolo / Ella vide Gesù nei tormenti, / sottoposto ai flagelli. / Vide il suo dolce Figlio / che moriva, abbandonato da tutti, / mentre esalava lo spirito »).  









   













mamma roma, ettore, carmine 51 Cristo, quella di Ettore non accetta il destino doloroso del figlio : la sceneggiatura si conclude sul suo tentativo di darsi la morte, sulla sua rivolta furiosa, sulle sue accuse e quindi su un atteggiamento poco cattolico. 1 Eterodossa è anche l’inversione di importanza conferita ai ruoli assunti da questa madre che raffigura la Madonna e dal figlio che simboleggia il Cristo : il personaggio centrale, quello più attivo nella trama e quello che appare come il più interessante non è il personaggio maschile ma quello femminile, non è Gesù ma sua madre. Oltre alla coppia mistica formata dalla Madonna e dal Cristo suo figlio, il duo Mamma Roma-Ettore rispecchia la relazione che legò Pier Paolo Pasolini alla propria madre. Senza fermarci a lungo sulla vita dell’autore, si può ricordare che ne Il Vangelo secondo Matteo Pasolini scelse sua madre per interpretare il personaggio di Maria, madre di Gesù. L’amore che unì Pier Paolo a Susanna Colussi si intuisce nel poema biografico intitolato Supplica a mia madre :  





[...] Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere : È dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai data. E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame D’amore, dell’amore di corpi senza anima. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu Sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù (...) 2  

In questo poema pubblicato nel 1964 (cioè due anni dopo l’uscita sugli schermi del film Mamma Roma) nella raccolta Poesie in forma di rosa, ritroviamo elementi che caratterizzano il rapporto esistente fra Mamma Roma e suo figlio Ettore. Vanno rilevati il sottofondo mistico suggerito dalla scelta lessicale (in questo brano : « grazia », « dannata », « anima ») e l’assenza di una figura paterna che viene totalmente cancellata dall’amore materno. Più versi ricordano la storia narrata nella sceneggiatura di Mamma Roma e, in essa, il rapporto estremamente stretto e alienante che lega figlio e madre, un rapporto fusionale che precipiterà il ragazzo verso la propria fine quando la madre verrà desacralizzata e svilita dalla rivelazione di una doppia vita vergognosa. Inoltre, benché sia un rapporto di amore disinteressato e incondizionato, è anche mortifero : perché è impossibile per il figlio cambiare madre, la sua vita sarà « dannata alla solitudine » ; l’amore della madre lo rende schiavo. Ettore pagherà con la propria vita le colpe di Mamma Roma. La questione della responsabilità individuale è sollevata dal prete : lei sarebbe al meno in parte responsabile, per colpa dei suoi peccati, della triste vita del figlio. È una constatazione, non un’accusa : come  

























1

  Il suicidio è vietato dalla Chiesa cattolica e i suicidi sono condannati severamente.   Pier Paolo Pasolini, Poesie, Milano, Garzanti, 2001, p. 125.

2

52 amandine mélan suggerisce Mamma Roma stessa 1 il problema della responsabilità individuale è un problema senza soluzione che tende a diventare un circolo vizioso ; agisce male perché, prima di lei, i suoi genitori hanno agito male, come i loro genitori nel passato e tutti i loro antenati. Il responsabile principale, secondo lei, sarebbe la società, che, fra l’altro, costringe il povero a rimanere povero, l’infelice a rimanere infelice, perché il denaro prevale su tutto e chi non ha soldi è costretto a commettere errori che quelli che hanno « i mezzi » 2 possono evitare.  





Ettore, al contrario di sua madre, è un personaggio silenzioso che privilegia lo sguardo e l’osservazione. Il suo occhio viene paragonato a quello di un « animaletto selvatico ». 3 La sua presenza rallenta il ritmo della sceneggiatura. Non essendo ancora integrato alla società, contrasta con gli altri personaggi che sono più rumorosi, spensierati, solidali fra di loro e costituiscono una folla omogenea dalla quale Ettore si distacca. Sembrano tutti presi in un ritmo al quale il ragazzo « distratto, raccolto, scostante » 4 rimane estraneo. La differenza fra il giovane protagonista e gli altri e soprattutto il modo in cui viene descritto ogni volta che compare nel testo fanno sì che il ragazzo può essere interpretato come una specie di Cristo che deambula fra i peccatori. Ettore al mercato somiglia stranamente a Gesù in mezzo ai mercanti del Tempio. Più di una volta il narratore insiste sulla sua purezza e sulla sua innocenza, lo qualifica addirittura di « agnellino tra i dannati » (alludendo in quel modo alla figura evangelica dell’agnello mistico che designa il Cristo). Alla fine della storia, Ettore muore disteso su un letto di contenzione che potrebbe raffigurare un altare e il piccolo cadavere « è come un piccolo crocefisso, con le braccia tese, coi polsi legati : legati sono anche i piedi, e una cinghia gli stringe anche il petto ». 5 Serafino Murri, a proposito del figlio di Mamma Roma, scrive :  



















Ettore, il giovane protagonista del film, è un inconsapevole e un innocente Cristo profano, che porta su di sè le stigmate del peccato originale materno. Il suo miserabile Calvario sono gli “stradoni” della “nuova” periferia romana, così simile nel paesaggio al paesello “burino” da cui è stato strappato a forza da sua madre per essere trapiantato in quell’ambiente estraneo e ostile. 6

Caroline Gaye, nel suo mémoire de licence dedicato al romanzo Ragazzi di vita e al film Accattone, paragona il protagonista omonimo di quel film a Ettore, dichiarando che tutti e due incarnano un’interpretazione specifica dell’immagine di Cristo in quanto sarebbero due personaggi ribelli che denunciano le 1

  pc i, pp. 238-239.   Ivi, p. 239 : « Tutti morti de fame, ecco perché ! Certo se ciavevano i mezzi, erano tutte persone per bene ! (più meditabonda ancora) E allora de chi è la colpa ? La responsabilità ? ». 3 4 5   Ivi, p. 194.   Ibidem.   Ivi, p. 258. 6   Serafino Murri, Pier Paolo Pasolini, Milano, Il Castoro / L’Unità, 1995, p. 32. 2











   

mamma roma, ettore, carmine 53 1 incoerenze e le ingiustizie dell’anima umana. Ettore, secondo noi, non è tanto un ribelle quanto un ragazzo che evolve su una via parallela che gli conferisce un punto di vista diverso, estraneo, ma che forse non sarebbe altro che la via di mezzo fra l’infanzia e l’età adulta, quella che imboccano gli adolescenti prima di integrarsi completamente nella società. Le incoerenze e le ingiustizie che il ragazzo denuncia non sono tanto quelle dell’anima umana quanto quelle della società, della modernità, della [...] stigmatizzazione e della messa a nudo della falsità dell’idea di una possibile integrazione sociale delle classi subalterne, alimentata dall’ideale borghese della “promessa di una felicità ulteriore”, processo mitizzante e fine a se stesso che si conclude con la trasformazione di questi moderni “umili” – nella mentalità, ma non di fatto – in confusi rappresentanti di un’ibrida, impaurita e incosciente classe infimo-borghese. 2

Questa denuncia prende corpo quando Ettore muore, esattamente come il messaggio cristiano che una volta inchiodato sulla croce diede carne alla Parola : l’unica differenza è che mentre il messaggio di Cristo era ottimista, quello di Ettore è pessimista. Lo disse Pasolini stesso in un articolo della rivista Filmcritica sulla problematica della responsabilità in Mamma Roma :  



C’è dentro di me l’idea tragica che contraddice sempre tutto, l’idea della morte. L’unica cosa che dà una vera grandezza all’uomo è il fatto che muoia. (...) Il cattolicesimo è la promessa che al di là di queste macerie c’è un altro mondo e questo invece nei miei film non c’è, non c’è assolutamente. C’è soltanto la morte, ma non l’al di là. 3

Come per Mamma Roma, il personaggio di Ettore è ambiguo. Le attese del lettore sono deluse quando ‘l’agnellino’, in alcune sequenze, appare cattivo, crudele, indifferente nei confronti di una madre che lo adora. Soffre anche lui di una visione sbagliata dei veri valori valorizzando troppo i beni della società consumista. Ettore verrà arrestato dalla polizia dopo un furto e successivamente morirà incrociato (al letto di contenzione). Farà una fine identica a quelli dei due ladri che circondarono Cristo sul Golgota. Ettore, piuttosto che Cristo, rappresenterebbe uno di quei due compagni di Gesù sulla croce. Come lo farà un anno dopo per la Ricotta che vede appunto come protagonista una comparsa che tiene il ruole di uno di quei due ladri, Pasolini relativizza la figura cristica : definitivamente Ettore è Cristo, un ‘povero cristo quattordicenne’ come ce ne sono tanti dai ‘ragazzi di vita’. Infatti, è ancora un ragazzino, quasi un bambino, che sogna gli elefanti e chiama la mamma quando, da solo, sente la morte  

1   Caroline Gaye, Ragazzi di vita e Accattone di Pier Paolo Pasolini : pour une approche de la réécriture cinématographique et une réflexion sur la valeur littéraire du scénario, mémoire de licence sous la direction de Costantino Maeder, Louvain-la-Neuve, ucl, 2003, p. 22. 2   Serafino Murri, op. cit., p. 30. 3   Cfr. Mamma Roma ovvero dalla responsabilità individuale alla responsabilità collettiva, a cura di Nino Ferrero, « Filmcritica », n°125, settembre 1962, Milano, osp, 1962.  





54 amandine mélan arrivare. Eppure è anche un Cristo, giovane, perduto, abbandonato. Questo riassume l’umanità di Pasolini che miticizza la gente semplice. Con un rispetto profondamente cristiano, concede al più umile la sua parte di divinità. Carmine, il terzo componente della nostra trinità sottoproletaria, è un personaggio misterioso e affascinante. Emana da lui una forza ostile e malvagia. È l’antagonista più ovvio al programma narrativo di Mamma Roma che consiste nel trasformare Ettore in piccolo borghese. Si oppone alla felicità della donna e, soprattutto, al suo desiderio di uscire dalla propria condizione di sottoproletaria che deve prostituirsi. Carmine sembra quasi onnipotente nei suoi confronti ; come un dio ingiusto, si arroga il diritto di morte e di vita su di lei. Questo potere straordinario contribuisce a conferire al giovane prosseneta un’aura non divina ma demoniaca. Giovane, bello, seducente con i suoi « baffetti del destino », 1 Carmine è un Mefistofele tentatore o un Lucifero al quale la tradizione romantica attribuì l’immagine di un essere bello e attraente 2 e che dopo la seconda guerra mondiale acquisì un erotismo sulfureo. 3 Carmine somiglia all’angelo caduto che desta la pietà di Eloa nel poema omonimo di Alfred de Vigny :  







[...] Un jour, les habitants de l’immortel empire, Imprudents une fois, s’unissaient pour l’instruire. “Éloa”, disaient-ils, “oh ! veillez bien sur vous : Un Ange peut tomber ; le plus beau de nous tous N’est plus ici : pourtant dans sa vertu première On le nommait celui qui porte la lumière ; Car il portait l’amour et la vie en tout lieu, Aux astres il portait tous les ordres de Dieu ; La terre consacrait sa beauté sans égale, Appelant Lucifer l’étoile matinale, Diamant radieux, que sur son front vermeil, Parmi ses cheveux d’or a posé le soleil. Mais on dit qu’à présent il est sans diadème, Qu’il gémit, qu’il est seul, que personne ne l’aime, Que la noirceur d’un crime appesantit ses yeux,  











1

  pc i, p. 171 : « Carmine la guarda un poco in silenzio, con le labbra tumide sotto i baffetti del destino ». 2   Milton fu il precursore di questa tradizione nel suo poema Paradise Lost. Dopo di lui, Chateaubriand, Vigny, Baudelaire e altri presero la difesa del Diavolo, ormai non più rappresentato come un essere brutto, cornuto e dai piedi biforcuti. Nel 1848, Guillaume Geefs scolpì per la Cattedrale di Liegi un Génie du mal commovente per la sua bellezza. 3   Cfr. Caroline Bonvin, Ange diabolique et diable angélique : entre oppositions et complémentarités, article rédigé dans le cadre d’une recherche menée à la Haute-Ecole de gestion de Lausanne, 2004, http ://www.comanalysis.ch/ComAnalysis/Publication83.htm (consultato per l’ultima volta il 26 gennaio 2010).  









mamma roma, ettore, carmine

55

Qu’il ne sait plus parler le langage des Cieux ; La mort est dans les mots que prononce sa bouche ; Il brûle ce qu’il voit, il flétrit ce qu’il touche ; Il ne peut plus sentir le mal ni les bienfaits ; Il est même sans joie aux malheurs qu’il a faits. Le Ciel qu’il habita se trouble à sa mémoire, Nul ange n’oserait vous conter son histoire, Nul ange n’oserait dire une fois son nom”. […] 1  







Entrambi i personaggi – il prosseneta e il diavolo – portano la morte dove passano : anche Carmine, dalla cui persona emana una « luce omicida », 2 « brûle ce qu’il voit, flétrit ce qu’il touche ». È legittimo chiedersi a proposito di questo personaggio diabolico se si tratta di una figura essenzialmente negativa, un antagonista assoluto, un personaggio destinato a compiere il male senza scopo particolare, o se, invece, Carmine non sia piuttosto una specie di inviato, un angelo vendicatore di Dio che esegue le punizioni divine, come i diavoli della Divina Commedia di Dante. Infatti, nella sua ingiustizia mantiene una certa giustizia : perché una vittoria sociale non si raggiunge nel modo in cui la concepisce Mamma Roma, lei deve essere fermata nella sua impresa e punita per il suo orgoglio. Come scrisse Anne-Cécile Huprelle nel suo saggio sul Diavolo : « Personnage lucide, clé d’une intrigue, il est celui qui pousse à voir le monde tel qu’il est ». 3 L’ambivalenza di Carmine si traduce anche nel fatto che assumerà brevemente la parte di Cristo : nella prima sequenza, appare in mezzo alla tavola dell’Ultima Cena. Carmine, secondo l’iconografia cristiana occupa quindi la posizione di Cristo. Questo parallelismo stabilito all’inizio del racconto crea delle attese particolari dal lettore. Carmine costituisce anche una figura paterna in Mamma Roma. Ad Ettore manca un padre e l’unico personaggio che potrebbe chiudere il triangolo abbozzato dal ragazzo e da sua madre, in questa sceneggiatura, è il prosseneta. La ‘famiglia’ da lui completata è funebre e squallida : il padre è autoritario e senza pietà, si impone nel campo sessuale, ma si intromette anche nella coppia potenzialmente incestuosa formata dalla madre e da suo figlio, sottolineando così la deformazione dello schema tradizionale. In una modalità molto meno concreta, il sole, simbolo della divinità in tante civiltà, 4 potrebbe raffigurare anche lui il padre (o Padre ?). L’astro solare che viene presentato nel testo pure lui  























1

  Alfred De Vigny, Eloa ou la soeur des anges, Paris, Le livre contemporain, 1917.   pc i, p. 170 : « Gli occhi e i baffetti di Carmine hanno una luce omicida : disegnati dal destino, sembrano, con la dolcezza e il distacco delle cose ineluttabili ». 3   Anne-Cécile Huprelle, Le Diable, Paris, Plon, 2007, p. 84. 4   Nell’Egitto antico (Râ, Aton), nella Grecia antica (Helios), nelle civiltà azteca (Huitzilopochtli) e giapponese (Amaterasu). 2









56 amandine mélan come un elemento a volte aggressivo 1 costituisce infatti una figura molto vicina a quella di Carmine : le apparizioni del giovane prosseneta vengono spesso accompagnate da un alone di luce (« omicida » o semplicemente solare). Lucifero è, letteralmente, quello che porta la luce. L’elemento solare e il personaggio demoniaco formano dunque una coppia di antagonisti ambigui che tocca due archetipi complementari : l’archetipo del padre e quello di Dio. Ricordiamo che Freud e Jung vedevano Dio come il risultato della sublimazione del padre. In pratica – e quest’ottica psicoanalitica coincide con il punto di vista marxista sul fenomeno delle religioni – gli uomini impotenti sentono il bisogno di una protezione e una guida per affrontare le difficoltà della vita ; riproducono nell’età adulta un comportamento della loro infanzia che consisteva nel vedere il proprio padre come un protettore. Mentre il padre terrestre viene a poco a poco desacralizzato dal bambino che cresce e diventa un uomo, la sua immagine rimane nell’inconscio e viene proiettata dal credente adulto su un padre celeste onnipotente e detentore della Verità. 2 A proposito del senso profondo di quest’alleanza sacra fra un Sole-dio e un inviato diabolico che applica la punizione divina, diverse ipotesi possono essere formulate. La prima di queste consisterebbe nell’affermare che quel Dio che separa la madre dal figlio, che lascia morire un innocente è ingiusto. È l’ipotesi più evidente ma è anche troppo semplice per esser ritenuta come valida. La seconda ipotesi spinge il ragionamento al suo estremo, l’aggressività e l’indifferenza divine che il lettore intuisce possono esser segno della non-esistenza di Dio, del « dio d’amore » promesso dai testi sacri. I rinvii al religioso nel racconto richiamerebbero Dio solo in apparenza. Ci sarebbero quindi soltanto la natura e gli uomini : una natura indifferente leopardiana – il sole privo del suo valore simbolico, ridotto alla sua natura fisica – e uomini malvaggi – Carmine che nuoce agli altri per il proprio benessere materiale. Pasolini accennerebbe durante lo sviluppo della storia alla presenza di un dio per negarla completamente in un finale pessimista e anticattolico. La terza ipotesi di lettura consiste invece nel sostenere che Dio esiste ed è giusto : Mamma Roma, con i suoi desideri errati, si è avviata su una cattiva strada e merita una punizione divina. Mamma Roma è un’opera aperta e il lettore si trova di fronte a una pluralità di mondi possibili. 3 Conviene forse non ostinarsi a cercare di conoscere assolutamente l’intenzione dell’autore ma accontentarsi di sottolineare l’esistenza di più sensi che orientano sia verso una lettura in chiave ‘mitica’ 4 che insiste su un definito  

















1

  pc i, p. 193 : « Mamma Roma grida spavalda, ma mica tanto come prima. E intorno a lei tutti gridano, nella bolgia orientale del mercato bruciato dal sole. » ; p. 195 : « Ettore è là, di schiena, che corre lungo il mercatino, sotto il sole accecante ». 2   Cfr. Reuben Osborn, Marxisme et psychanalyse, Paris, Petite bibliothèque Payot, 1974, pp. 8384. 3   Cfr. Umberto Eco, Lector in fabula, Milano, Bompiani, 2006. 4   Jean-Jacques Wunenburger, Création artistique et mythique, in Questions de mythocritique. Dic 













mamma roma, ettore, carmine 57 sistema di valori, sia verso una lettura che punta su una realtà priva di senso, di speranza e di via d’uscita. Per concludere, il prosseneta potrebbe anche essere una metafora del male che Mamma Roma ha dentro di sé e che la impedisce di evolvere positivamente ; sarebbe il suo demonio interiore, una metafora del suo inconscio. Questa ipotesi convaliderebbe la questione della responsabilità individuale sollevata dal parroco.  

Bruna è il quarto personaggio che attira la nostra attenzione. Anche se, a prima vista, forse non sembra più rilevante di altri personaggi secondari come la prostituta Biancofiore o il gruppo formato dai giovani compagni di Ettore, al contrario di questi, Bruna orienta la storia in modo decisivo. Inoltre, assume anche lei una dimensione mitico-religiosa forte. L’incontro fra Bruna e Ettore è alla base di una prima rottura fra Mamma Roma e suo figlio. Sarà la ragazza – anticipando le minacce di Carmine – a rivelare ad Ettore il segreto della madre e conseguentemente a precipitare il ragazzo verso la propria fine. Bruna è Eva, la prima donna, che inizia Adamo alla Verità e, facendo questo, precipita tutti e due fuori dall’Eden, condanna l’umanità a vivere nella sofferenza senza via di uscita. Bruna, benché costituisca chiaramente un antagonista al programma narrativo di Mamma Roma, non lo fa a posta, perché non è una ragazza cattiva : è solo semplice, ritardata, passiva. Sembra incapace di decidere da sola ; con gli uomini, si lascia possedere da chi la vuole, senza resistenza. È il prototipo della donna-oggetto. È sfruttata senza tregua da una società maschilista nella quale il sesso è diventato una tappa obbligatoria per essere accettati nella comunità. Ma oltre a questo problema di società che lo preoccupava molto, attravverso il personaggio di Bruna, Pasolini punta il dito anche sulla mitica associazione fra Eros e Thanatos. Bruna è un essere molto sessualizzato ; sarà lei a far scoprire a Ettore il piacere carnale. Bruna è anche il ricettacolo dei primi impulsi sessuali dei ragazzi del quartiere. Il suo erotismo è ingenuo, arcaico, libero e spensierato. La ragazza fa l’amore con chiunque con naturalezza ; il suo Eros freudiano, cioè il suo impulso di vita – che non si riduce alla sessualità ma vi rimane comunque fortemente legato –, benché squallido, è intenso. Nello stesso tempo, non va trascurato Thanatos, il suo impulso di morte : l’atto sessuale che compie in un modo compulsivo si trasforma agli occhi dei ragazzi in uno sfogo ai loro impulsi, in un atto privo di amore, di rispetto e di senso. Ma, soprattutto, l’associazione di Eros e Thanatos nel personaggio di Bruna appare chiara e indiscutibile quando viene studiata a livello dello sviluppo narrativo nella trama di Mamma Roma : Bruna inizia Ettore  











tionnaire, Paris, Imago, 2005, pp. 69-85 : « Dans sa définition la plus extensive, le mythe se présente comme un récit portant sur des actions et des personnages, dont la remémoration, plus ou moins ritualisée, a valeur d’exemplarité, parce que le récit est porteur de vérité et de valeur pour ceux qui en sont les médiateurs. »  





58 amandine mélan all’amore ; il ragazzo si innamora di lei e conseguentemente si allontana dalla madre e rifiuta di collaborare al suo programma narrativo ; Bruna rivela a Ettore il segreto della madre ; Ettore, commosso, si ammala, si avvia alla delinquenza, si fa arrestare dalla polizia e mettere in carcere laddove finirà la sua vita da solo, separato di nuovo dalla madre, per colpa di Bruna. La sessualità, che viene pure vissuta in modo ingenuo da Bruna, provoca sempre una rottura, una sofferenza e, per concludere, provoca addirittura la morte. Desideri di vita e di morte sono quindi intrecciati – anche se lo sono ad un livello inconscio – nel personaggio di Bruna. Pasolini, attraverso questo personaggio sembra attualizzare una citazione tendenziosa del Libro del Siracide o Ecclesiaste : « Dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa sua tutti moriamo ». 1 Bruna non è solo una Eva sottoproletaria dei tempi moderni : essendo anche madre di un bimbo che, ad un certo momento della trama, sta per morire, la coppia che forma con la sua ‘creatura’ rispecchia anch’essa il duo mistico formato dalla Madonna e da suo Figlio Gesù Cristo. A differenza di Mamma Roma e Ettore che rinviano il lettore a Maria vecchia che soffre per Suo figlio morto sulla Croce, Bruna e il bimbo offrono un’immagine biblica tante volte rappresentata dai pittori : quella della « Madonna col bambino », che appunto viene riprodotta sulla medaglia che Ettore offre a Bruna dopo averla comprata con i soldi rubati alla madre. 2  



















Ironia, mise en abyme e mimesi : forse abbiamo qui la trinità stilistica del maestro Pasolini che, sfruttando i Vangeli, la tradizione pittorica e l’inconscio collettivo, rivisita il mito cristiano attualizzandolo e adattandolo alla realtà delle borgate romane dei primi anni sessanta in uno scopo che possiamo qualificare di dialettico. Si serve dei valori cristiani – umiltà, speranza, amore, solidarietà, fede – per denunciare una società consumista moderna che non lascia più nessuno spazio a quei valori. Pasolini sembra voler risituare un discorso cristiano che si è allontanato da quel che fu all’origine affermando che Cristo è da cercare fra i più umili : in una prostituta pentita, nel suo pappone, ma soprattutto nella figura del giovane Ettore, ingenuo, povero, debole, che è vittima di colpe di cui non è l’autore, esattamente come l’agnello mistico che va immolato. Ma il poeta – e questa costituisce la specificità del pensiero pasoliniano di fronte alla religione – rovescia radicalmente l’ottimismo cristiano insinuando il dubbio sull’esistenza o la bontà di Dio e, soprattutto, concludendo il suo racconto con la morte di un innocente, punto finale che contraddice la speranza cristiana in un al di là, in una felicità celeste. Lungo questa sceneggiatura la cui letterarietà è indiscutibile, sono disseminati degli indizi impercettibili sullo schermo che annunciano il finale tragico e sono altrettanti segni della presenza del narratore all’interno del  



1

  Sir 25, 24 in La Bibbia di Gerusalemme, cit., p. 677.

2

  pc i, p. 199.

mamma roma, ettore, carmine 59 racconto. Infine, il testo è imbevuto da un’ambiguità destabilizzante : il confine fra bene e male non è mai chiaro, così come la distinzione fra divino e diabolico. Anche se si inspira ad una storia religiosa che si accosta quasi al mito e se non esita a porre giudizi morali sugli atti e i desideri dei suoi personaggi, Pasolini rifiuta un manicheismo semplificatore.  

La città di Roma sostituisce la città di Gerusalemme e diciannove secoli sono passati da quando un certo Gesù di Nazareth, inchiodato su una croce, urlò ad un Padre invisibile : « Perché mi hai abbandonato ? ». Poche cose sono cambiate : i Farisei ancora ci sono, come le ingiustizie, la sofferenza, la solitudine, la segregazione sociale. Mamma Roma, Ettore, Carmine, Bruna sono i protagonisti principali di un nuovo vangelo apocrifo firmato da un apostolo ateo : un vangelo che a differenza degli altri si conclude con la morte dell’eroe, e non con la sua risurrezione.  











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FRA REALTÀ E POSSIBILE FINZIONE : GLI PSEUDO-PERSONAGGI DI APPUNTI PER UN FILM SULL’INDIA E APPUNTI PER UN’ORESTIADE AFRICANA  

Giovanni Solinas

I

film Appunti per un film sull’India e Appunti per un’Orestiade africana rappresentano due opere sostanzialmente gemelle entro la produzione cinematografica pasoliniana. Essi, infatti, condividono non soltanto il medesimo orizzonte tematico, vale a dire il confronto con la realtà del Terzo Mondo (per riprendere la vecchia espressione utilizzata dallo stesso Pasolini) e le questioni storico-sociale ad esso legate, ma anche la particolarità del loro profilo stilistico, e, conseguentemente, del loro statuto di genere. 1 La voce fuori campo di Pasolini – che, in entrambi i film, accompagna l’intero procedere delle immagini - li definisce come film su un film da farsi. 2 Certo, esistono anche evidenti motivi di differenza. In particolare bisogna tener presente che ne L’odore dell’India è più marcata la componente del reportage e dell’inchiesta giornalistica. Entro il girato finale, infatti, interpretazioni storico-sociologiche generali tratteggiate dalla voce fuori campo dello stesso autore, e accompagnate da dati statistici, si alternano ad interviste, realizzate in strada (a singoli o a gruppi di locali più o meno casualmente radunati) oppure, con maggior piglio d’analisi, pensate come conversazioni d’approfondimento con personaggi particolarmente rappresentativi della società indiana dell’epoca. È vero che nelle sue intenzioni originarie, ed in effetti nella sua ossatura, il film si vuole un sondaggio volto a verificare sul posto la realizzabilità dell’opera che Pasolini aveva in mente, ed in particolare a saggiare la plausibilità della vicenda leggendaria su cui si sarebbe basata la sua sceneggiatura. 3 Nonostante 1

  Secondo Fusillo i due documentari sono particolarmente vicini perché insistono « con la stessa mistione di poeticità e di efficacia documentaria, su temi simili : il passaggio dalla storia alla civiltà industriale e l’errore di considerare l’occidentalizzazione un processo inevitabile », Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, Firenze, La Nuova Italia, 1996, p. 236. 2   Più precisamente, il girato di Appunti per un film sull’India viene presentato, nella parte introduttiva, come : « Io non sono qui per fare un documentario, una cronaca, ma un film su un film sull’India », pc i, p. 1063. Negli appunti africani, similmente, la voce fuori campo dell’autore parla delle immagini che ci mostra nei termini di : « Sono venuto evidentemente a girare, ma a girare che cosa ? Non un documentario, non un film, sono venuto a girare degli appunti per un film », pc i, p. 1176. 3   Si tratta della storia (originariamente raccontata a Pasolini da Elsa Morante) di un principe  



















62 giovanni solinas questo, però, entro il corpo conclusivo del film, l’elemento documentaristico tradizionale prende decisamente il suo spazio ; uno spazio che, alla fine, non risulta così secondario a quello metafilmico. 1 Detto ciò, resta innegabile che il tratto che, comunque, per primo connota entrambe le opere, sia rappresentato dal loro costituirsi non come film in sé conclusi, ma come block-notes per immagini, memoranda che, in quanto tali, rimandano a qualcosa di futuro, qualcosa che non c’è ancora e che si farà. In realtà, come si sa, se da un lato è vero che gli Appunti possono essere davvero considerati tali, e che nelle intenzioni di Pasolini era un progetto molto più ambizioso, poi non realizzato (il famoso Appunti per un film sul terzo mondo, del 1968), dall’altro i due film si presentano oggi come opere compiute, costruite secondo una precisa e consapevole modalità stilistico-espressiva. Una modalità certo non facile da descrivere, data la loro natura ibrida e proteiforme. Se si volesse cercare di abbozzare una definizione si potrebbe forse parlare di una fusione fra testo metafilmico (quello che si mostra è un film su un film) e documentario creativo. Senza andare troppo oltre, comunque, nell’analisi del linguaggio delle due opere, mi limito a proporre due osservazioni contestuali : la prima è che con queste opere siamo – inutile sottolinearlo – nel pieno dello sperimentalismo e del plurilinguismo pasoliniano, in quella che rappresenta forse una delle sue espressioni più estreme : nei due film, infatti, il linguaggio del reportage documentaristico si mescola con quello del cinema d’autore (il montaggio del « cinema di poesia », per usare una categoria pasoliniana), del film di finzione, 2 ma anche della prosa letteraria (il testo letto dalla voce fuori campo di Pasolini), del jazz e dell’espressione teatrale. Allo stesso modo l’Africa e l’India moderna si mescolano a quelle antiche, la tragedia greca al rituale tribale, il dibattito  









indiano, che, per sfamare dei tigrotti, da loro in pasto il proprio corpo. Pasolini racconta in dei suoi appunti la genesi dell’idea ed il suggerimento che il racconto della Morante gli ha fornito, e spiega, appunto : « Così sono andato in India a fare una specie di inchiesta per verificare se questa idea era attendibile o no ». Nelle stesse pagine sottolinea, poi, il proprio interesse per la forma estetica (sorta, inizialmente, in modo non del tutto consapevole) del non finito, del ‘da farsi’ come pura ipotesi filmica : « Ora ne è venuto un film che ha tuttavia questa trama : la trama rimane, la storia rimane, però, appunto, come ‘trama da farsi’. Questa esperienza, fatta senza volerlo in India, vorrei allargarla », pc i, p. 1075. 1   La componente dell’approfondimento documentaristico, naturalmente, è fondamentale anche negli Appunti per un’Orestiade africana, dove, però, si dà in forme meno canoniche, e dove primaria è l’intenzione estetica e più profonda l’elaborazione espressiva. Certo è che la trasposizione africana dell’Orestiade si dà, nelle intenzioni di Pasolini, come metafora delle dinamiche che attraversavano il continente africano, diviso fra tensione verso l’occidentalizzazione, simbolo dello sviluppo e del pensiero razionalista, e radicamento entro una visione magico-mitica dell’esistenza. In realtà, dunque, è forse proprio nell’Orestiade che si dà la vera forma del documentario creativo, dove l’inchiesta antropologica e storica è inscindibile dall’elemento estetico, dal racconto. 2   Si pensi quando, ne L’Orestiade, Pasolini fa delle vere e proprie ‘prove’ di quello che avrebbe dovuto essere il girato futuro, affidate ad attori del luogo.  













fra realtà e possibile finzione 63 intellettuale alla documentazione del mondo contadino e popolare. Si mostra insomma qui, forse al suo massimo grado, quel talento combinatorio indicato da Fortini già negli anni 50 come una delle qualità più feconde e determinanti del linguaggio pasoliniano. 1 La seconda osservazione riguarda, invece, proprio il dato dell’esibita incompletezza dei due testi, cui si è accennato all’inizio. La loro natura costitutivamente inconclusa, in fieri, se si vuole, o comunque non risolta, ed esplicitamente rivolta ad un futuro da farsi, difficilmente può non essere ricondotta alla più generale estetica del non-finito, che alcuni studiosi ritengono abbia improntato tutto l’ultimo decennio della produzione di Pasolini. 2 Secondo tale lettura non avrebbe senso, in riferimento all’ultimo periodo dell’opera pasoliniana, parlare di testi singoli, che si succedono l’uno all’altro nella forma di singole monadi, risolte e complete. Si deve, al contrario, guardare alle opere come ad un tutto, ad un universo testuale in progress, cioè continuamente in via di costruzione e di ridefinizione ; un insieme nel quale le varie « performances autoriali » 3 (testi poetici, critici, narrativi, filmici etc.) si richiamano l’una con l’altra secondo un disegno intertestuale complessivo ; un’opera « mostruosa » ed idealmente infinita, insomma, da considerarsi innanzitutto come « un discorso aperto, in via di definizione mentre ancor viene pronunciato ». 4 Si affermerebbe così, in modo definitivo e indiscutibile, la vocazione di Pasolini per la pluralità, la sua volontà di restituire il reale nella sua caoticità, di riprodurre ed in qualche modo abbracciare l’irriconciliabilità dei suoi principi. Alla base della complessità, dell’ambizione e della natura fortemente progettuale di molta parte della più recente espressione pasoliniana, è insomma posta l’idea che soltanto attraverso un’enorme massa testuale in farsi, mai finita e mai terminabile un autore contemporaneo possa aspirare a riflettere la natura contraddittoria, magmatica, cangiante e mai definitiva o conciliatoria della realtà. Ora, l’idea del non-finito, nei due film di cui si sta parlando, assume i connotati di una forma espressiva che, rivolgendoci al linguaggio della retorica, potremmo definire ‘preterizionale’. Nella preterizione, com’è noto, si introduce un argomento sostenendo, allo stesso tempo, che non se ne vuole parlare.  















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  Fortini individuava un rapporto di complementarietà fra quelli che riteneva i due elementi fondamentali del pensiero e dell’estetica pasoliniana : la contraddizione e la pluralità : « Ebbene Pasolini, nell’esperienza biografico-psicologica dell’antitesi e della contraddizione, scopre le incommensurabili possibilità del pastiche (…). In una parola contaminazioni. Il pluralismo linguistico e la contaminazione stilistica sono gli strumenti espressivi “antiascetici” di Pasolini », Franco Fortini, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, p. 23. 2   Mi riferisco in particolar modo alla lettura proposta in Antonio Tricomi, Sull’opera mancata di Pasolini, Roma, Carocci, 2005. Il collegamento fra estetica della progettualità e i due film per appunti è ribadito (fra gli altri) anche da Fusillo in Massimo Fusillo, L’incipit negato di Petrolio, in Contributi per Pasolini, a cura di Giuseppe Savoca, Firenze, Olschki, 2002, pp. 40-41. 3 4   Antonio Tricomi, op. cit., p. 246.   Ibidem.  







64 giovanni solinas La modalità classica, per capirsi, è riassumibile nella forma del petrarchiano : « Cesare taccio che per ogni piaggia / fece l’erbe sanguigne / di lor vene, ove ‘l nostro ferro mise » (Petrarca, Canzoniere, cxviii, 49-51). 1 Ora, è vero che, tecnicamente, l’enunciazione di Pasolini : « questo non è un film, ma un film su un film che si farà » (enunciazione che apre entrambi i film e accompagna poi l’intero svolgersi delle loro immagini), non è esattamente coincidente con la formulazione retorica appena descritta. 2 È altrettanto vero, però, che essa crea nello spettatore un effetto molto simile a quello generato dall’enunciazione preterizionale. Lo spettatore degli Appunti, infatti, è posto di fronte alla visione di qualcosa che, immediatamente e paradossalmente, l’autore sostiene non essere ciò che sta vedendo in quel momento (questo non è un vero film). Questo effetto diviene evidente nel momento in cui – ed in questo modo entriamo finalmente nella questione attoriale – la telecamera di Pasolini fotografa quelli che potrebbero diventare i possibili attori del film. Pasolini ci mostra in primo piano i volti di persone incontrate lungo la strada, che ritiene potrebbero essere adatti a ricoprire i ruoli dei vari personaggi nel suo futuro film. La sua voce fuori campo presenta le possibili scelte, secondo la consueta, duplice modalità : apparentemente, cioè, sotto la forma di nota bene rivolti a se stesso ; negli effetti, però, mostrando allo spettatore dei suoi appunti l’abbinamento personaggio-persona reale. Prendiamo, ad esempio, la serie di primi piani fatti ai bambini cui avrebbe potuto essere affidato il ruolo della figlia del Maharaja. La voce di Pasolini commenta la successione dei volti dei candidati più plausibili, ed il momento in cui, più a lungo, la telecamera si fissa sul viso di colui o colei che paiono rappresentare la scelta definitiva : « Il figlio maggiore potrebbe essere questo, o questo, così dolcemente sorridente, o uno di questi due. No. Eccolo. Questo potrebbe essere il primogenito del Maharaja (…) e quanto alla  



















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  L’esempio è tratto dal manuale di retorica di Bice Mortara Garavelli, che spiega : « La preterizione (gr. Paràlepsis, da paraléipō ‘tralascio, ometto’ ; lat. praeteritio ‘il passare oltre’) consiste nel dichiarare che si tralascerà di parlare di un dato argomento, che intanto viene nominato e brevemente indicato nei tratti essenziali », in Manuale di retorica, Milano, Bompiani, 2002, p. 253. 2   Alla base della pseudo-preterizione pasoliniana non è posta, infatti, l’idea della rinuncia (« non voglio o non posso parlare di »), ma del rimando verso una vera trattazione a venire. Inoltre l’accenno preterizionale, spesso, è giustificato dalla brevità dello spazio disponibile (in questo senso si trova spesso nei testi saggistici), e diviene una sorta di rapidissimo sunto. In questo senso la contraddizione fra il sostenere di non poter dire e il dire è talmente giustificata da non essere neppure percepita. Non è, evidentemente, il caso dei film pasoliniani, nei quali l’attitudine preterizionale è estesa all’intero girato e dove, data la natura fortemente presentativa dell’immagine, la contraddizione fra l’effettività di ciò che lo spettatore guarda e l’affermazione di voler rimandare ad altro, è piuttosto forte. La modalità pasoliniana richiama, semmai, l’uso comune delle espressioni preterizionali, quelle « formule rituali (“non starò a raccontare…”, “meglio non parlare di…”, “per non dire…” ecc.) » che, nel discorso ordinario, « hanno talora una funzione enfatica : accentuano, invece di nascondere », Bice Mortara Garavelli, op. cit., p. 253.  





















fra realtà e possibile finzione 65 bambina potrebbe essere questa, o questa, o sicuramente questa, questo tenero e dolce agnellino ». 1 Lo schema si ripete varie altre volte, per diversi personaggi, sia negli appunti indiani, sia in quelli per l’Orestiade. In questi frames (che ci vengano presentati come gli ultimi di una serie, come nel caso dei figli del Maharaja, o che Pasolini ci mostri direttamente il volto adatto), noi vediamo, incarnato da un individuo reale, il volto del personaggio di un film (i figli di un Maharaja, appunto, il Maharaja stesso, i protagonisti di una vicenda mitologica dell’antica greca etc.) che, però, l’autore dice non essere ancora quel personaggio : esso è soltanto un’ipotesi, una possibilità di personaggio, dal momento che ciò che stiamo guardando non è ancora il vero film. Allo stesso modo nel meccanismo preterizionale si odono declamare degli argomenti che però non sono ciò che l’autore dice di voler pronunciare, ma, anche in questo caso, ipotesi, possibilità (per quanto, qui, negative) di argomenti. Qual è – se ha senso chiederselo – il significato estetico di questo modo di procedere, e quale il riflesso che esso getta sulla visione pasoliniana dell’attore, nonché del rapporto fra attore e personaggio ? Naturalmente la prima cosa che verrebbe da osservare è che, per lo meno in questa prima modalità di presentazione dei possibili personaggi (ce ne saranno altre, come vedremo) non è possibile parlare di attori. Pasolini si limita a riprendere delle persone che incontra nella strada, alle quali non chiede di fare niente di particolare, e che si limitano a sorridergli, o a guardare in camera, come in un casting indiretto, fatto all’insaputa dei candidati. 2 Si può forse parlare, tuttavia, di quasi-attori e, corrispondentemente, di quasipersonaggi. Cosa fa Pasolini, in questi casi ? Proviamo ad andare oltre la categoria che si è introdotto sopra definendo in termini retorici preterizionale la modalità espressiva in causa in queste scene. E cerchiamo di leggere la sua operazione da un altro punto di vista, che chiama in causa direttamente il rapporto tra realtà e dimensione estetica : Pasolini crea una cornice. 3 Certo, si tratta di  









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  pc i, p. 1068.   La fase di preparazione del film, era considerata da Pasolini molto importante ; fondamentali erano, per lui, i sopralluoghi (Gualtiero de Santi ha parlato, e non solo come riferimento specifico a Sopralluoghi in Palestina, di una « estetica del sopralluogo », cit. in Luca Caminati, Orientalismo eretico, Milano, Mondadori, 2007, p. 54) e, soprattutto, la scelta degli attori nell’assegnazione dei ruoli, entro la quale giocava un ruolo ineliminabile l’intuito pasoliniano, il suo « istinto per trovare tipi e personaggi », Antonio Bertini, Teoria e tecnica dei film in Pasolini, Roma, Bulzoni, 1979, p. 37. 3   Il termine cornice è usato qui prevalentemente per motivi di maggior semplificazione espositiva. Più corretto sarebbe riferirsi alla categoria di bordure introdotta dal Gruppoμ (Idem, Sémiotique et rhétorique du cadre, « La part de L’œil », 5, 1989) : il concetto di bordure non si applica esclusivamente alla cornice del quadro, ma è estendibile a tutta una serie di elementi segnalatori o di distinzione, cui è possibile assegnare una funzione simile : il piedistallo di un’opera, la targhetta con il suo stesso titolo, una qualsiasi forma di isolamento espositivo ecc. Per un’interessante esposizione delle teorie della cornice cfr. Antonio Somaini, La cornice ed il problema dei margini della rappresentazione, http ://www.lettere.unimi.it/~sf/leparole/duemila/ascorn.htm 2





















66 giovanni solinas una cornice tratteggiata, non definitiva, eterea, dal momento che si parla solo di un’ipotesi. Rimane però il fatto che semplicemente comunicando la possibilità di far diventare personaggio di un film, cioè di una costruzione finzionale, l’individuo reale che il suo documentario inquadra in quel momento, Pasolini, anche se soltanto per un momento, lo isola, lo estrae dal brulichio della realtà in cui esso si trova. La cornice entro cui l’autore lo inquadra – solo grazie ad una voce fuori campo ed alla fissità (nonché la durata) dell’immagine – lo colloca in una sorta di stato liminare, sospeso fra la propria condizione reale e l’ipotetico mondo illusorio (si direbbe fiabesco, a sentire il soggetto pasoliniano) in cui si troverebbe a vivere il personaggio che egli potrebbe diventare. 1 I giovani del luogo fotografati dalla telecamera di Pasolini si trovano, così, in una sorta di stato d’indeterminatezza : essi mantengono la loro connotazione di realia, di esseri che sono dentro l’esistenza, ma allo stesso tempo, per i pochi secondi in cui sono inquadrati, da tale esistenza vengono alienati, o comunque parzialmente distanziati. Meglio : essi risaltano ; la loro singolarità, anche se in modo forse appena percettibile, si intensifica. 2 Perché ‘attorno’ ad essi, per cercare di spiegare in termini forse troppo intuitivi (ma nessuna categoria fissata di mia conoscenza calza, in questo caso, alla modernità dell’operazione pasoliniana) l’autore ha deposita e lascia intuire l’aura dello spazio estetico. Si badi bene : entro tale spazio quegli individui non entrano; essi non in-carnano, non danno corpo al personaggio. E cioè : non sono loro che danno vita alla finzione, all’illusione estetica, recitando e raccontando così una storia. È l’autore che deposita sulla loro inconsapevole vita reale, in qualche modo circondandola con esso, l’ombra di un universo diegetico, del mondo possibile di un racconto, dunque dell’ordine estetico. Credo che la novità dell’operazione di Pasolini stia in gran parte in questo far rimanere l’attore al di qua di ogni possibile incarnazione del personaggio. Per cercare di spiegare, è forse opportuno  









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  L’operazione di Pasolini, mutatis mutandis, è avvicinabile, per quanto certo non identica, a quella di un artista d’avanguardia, che mette un oggetto reale, così com’è e da solo, all’interno di uno spazio espositivo, o, appunto, all’interno del più classico dei segni di confine fra spazio reale e sfera estetica, vale a dire la cornice. Evidentemente i due procedimenti sono avvicinabili soltanto da un unico punto di vista, quello della costituzione di uno spazio di isolamento e di rilievo per ciò che, invece, normalmente fa parte del normale flusso della realtà ed è confuso in essa. Pasolini non cerca, ad esempio, l’effetto di straniamento e contemporaneamente di dissacrazione che le avanguardie ottenevano esponendo oggetti non estetici entro spazi consacrati alla fruizione estetica. Anzi, come si cercherà di dimostrare, la sua intuizione procede in una direzione sostanzialmente contraria. 2   Andrà osservato come nei casi in cui il possibile attore non ci viene presentato direttamente (« ecco la persona a cui farei recitare Cassandra »), ma in seguito ad una successione di possibili candidati (« il personaggio potrebbe essere questo…, oppure questo…, no, ecco, sarà sicuramente quest’ultimo »), il rilievo è ottenuto, o comunque accentuato, anche grazie a questa dinamica seriale, quasi in climax, che presenta l’associazione definitiva come una sorta di rivelazione, di grado massimo dell’appropriatezza di un individuo al personaggio.  







fra realtà e possibile finzione 67 confrontare altri due passaggi, questa volta tratti da Appunti per un’Orestiade africana. Nel primo, Pasolini chiede ai membri della famiglia di un villaggio (una donna ed i suoi figli) di mostrare, di fronte alla telecamera che li riprende, i rituali che normalmente essi compiono presso la tomba dei loro defunti, al momento della sepoltura o per celebrarne la memoria. I locali acconsentono, e la camera ci mostra una serie di semplici e convenzionali gesti, reali, per quanto non registrati in corrispondenza all’evento (la morte di un parente, o il rituale funebre), ma ri-eseguiti su richiesta del visitatore. In un’Orestiade ambientata in Africa, nessuna migliore maniera per restituire la scena del pianto sulla tomba di un defunto presente nella tragedia, che quella, appunto, di mostrare direttamente le immagini di un vero, popolare rito funebre. Pasolini ci fa vedere, quindi, la prova di una possibile soluzione per la scena del film da farsi. E per rendere più efficace ed elaborato questo saggio, decide di leggere, mentre quelle immagini scorrono, la traduzione del passo delle Coefore (in cui Elettra rivolge una preghiera agli dei sotterranei e al padre) cui esse potrebbero corrispondere. L’effetto è certo suggestivo, ed il passaggio mostra in modo davvero impressionante la capacità pasoliniana di far sprigionare una pluralità di livelli di senso dalla collisione di modalità linguistiche differenti. L’eterogeneità diventa, qui, stratificazione e densità semantica, la pluralità e l’incontro dei linguaggi si fa stimolo e veicolo di una produzione di significato, e direi di un’intensità lirica, non altrimenti (viene il sospetto) attingibile. 1 Nel secondo passaggio l’operazione è più canonica. Siamo nuovamente di fronte ad un saggio del modo in cui potrebbe essere girata la futura scena, ma che si realizza in una forma in definitiva identica a quella del provino cinematografico. Pasolini utilizza, cioè, un giovane attore africano, cui chiede di interpretare, in alcuni frammenti di scena (sostanzialmente primi piani del suo volto, e semplici gesti e spostamenti, che l’autore, poi, narrati vizza attraverso il montaggio, facendoli anche interagire con immagini della’ambiente circostante), il ruolo di Oreste. 2 Ora, è evidente che in questi casi l’operazione si complica. Gli Appunti per 1

  Credo sia giusto il rilievo di Medda, che si sofferma proprio su questa scena : « Si crea così un articolato gioco di sovrapposizione e di arricchimento reciproco fra la dimensione orale del testo teatrale e l’atmosfera magico rituale delle immagini. L’effetto è duplice. Da una parte le parole di Eschilo fungono come una sorta di test, in grado di verificare l’effettiva capacità delle immagini di suscitare emozioni e risonanze comparabili con quelle delle parole antiche ; dall’altra le immagini, con il loro autonomo valore visuale, aggiungono nuovi livelli di senso al testo », Enrico Medda, Rappresentare l’arcaico. Pasolini ed Eschilo negli Appunti per un’Orestiade africana, in Il mito greco nell’opera di Pasolini. Atti del convegno di studi. Udine-Casarsa della Delizia, 24-26 Ottobre 2002, a cura di Elena Fabbro, Udine, Forum Editrice, 2004, p. 113. In relazione alla stessa scena del film, Fusillo parla, non differentemente, di un « contrappunto intenso fra l’oralità del testo teatrale e la visualità dell’azione rituale », Massimo Fusillo, La Grecia secondo Pasolini, cit., p. 240. 2   Pasolini stesso presenta la scena sostenendo di averla girata, appunto « come se fosse la scena reale del mio film », pc i, p. 1188.  















68 giovanni solinas un’Orestiade africana si costituiscono, del resto, come un testo filmico decisamente più elaborato rispetto al film, sull’India. Al suo interno sequenze di diverso tipo potrebbero in effetti apparire come diverse gradazioni di approssimazione alla forma definitiva che le scene del futuro film avrebbero potuto assumere : prima si presentano i possibili personaggi (il ‘da farsi’ assoluto, dunque), poi si va un passo più in la, e si fanno ripetere loro dei gesti, per quanto gesti rituali, tratti dalla loro vita reale, e semplicemente ripetuti di fronte al regista. Infine si fa recitare un personaggio (il pezzo di film compiuto, il definitivo). È necessario, però, ricordare che a questa distinzione fra compiuto e incompiuto, fra testo definitivo e testo che rimanda ad un da farsi, può essere usata solo per ragioni di comodità espositiva. Bisogna tener costantemente presente, infatti, che il non-finito rappresentato dalle immagini dello pseudo-casting, è una delle modalità stilistiche di un film, e va considerato completo e dotato di un’intenzione espressiva precisa e meditata. Il non-finito e le parti recitate (il giovane africano che incarna Oreste e, ad esempio, il canto Jazz) non possono, insomma, essere considerate come gradini successivi di avvicinamento ad un modello perfetto, delle prove prima meno e in seguito più perfezionate di qualcosa che si farà. Esse sono semplicemente modalità espressive diverse – performances linguistiche, per parafrasare il linguaggio di Tricomi – che convivono nel medesimo testo filmico, in uno stato di mescolanza ed ibridazione. Prendiamo per un momento in analisi la prima scena : Pasolini chiede a delle persone del luogo di ripetere semplicemente, di fronte alle telecamere, i gesti legati ai rituali funebri che normalmente esse compiono per onorare i propri morti. Si può parlare di recitazione ? Difficile dare una risposta univoca o definitiva. Certo, non si può non tener conto della concezione pasoliniana della recitazione, e del rapporto fra la figura attoriale ed il personaggio. Com’è noto Pasolini, nei suoi film, lavora con attori presi dalla strada, scelti proprio perché è necessario che essi non ‘rappresentino’ che loro stessi, secondo una precisa scelta programmatica di abolizione pressoché assoluta di ogni tentazione di interpretazione recitativa, vale a dire di mimesi psicologica del personaggio. Ugualmente, si potrebbe arrivare a pensare, nella sequenza del rituale funebre le persone riprese interpretano solo loro stesse ; come gli attori non professionisti degli altri suoi film esse non vengono informate delle intenzioni dell’autore, 1 e come quegli stessi attori non professionisti, comunque, svolgono i gesti che un regista chiede loro di fare. Nonostante ciò credo sia evidente a tutti la distanza sostanziale profonda che separa i due procedimenti. È vero, infatti, che l’attore non professionista dei film pasoliniani non ‘interpreta’ un personaggio nel senso pieno del significato, ma è ancora più vero che egli è comunque consapevole di star recitando, di prendere parte alla lavorazione di un film, di  







1   « Sto sempre attento a non indicare le ‘intenzioni’ perché le ‘intenzioni’ sono la parte più artificiosa della recitazione », Antonio Bertini, op. cit., p. 40.  



fra realtà e possibile finzione 69 drammatizzare una storia, e di incarnare un personaggio, che può essere assolutamente simile a lui, e totalmente reale, ma che rimane il personaggio di una vicenda di finzione. Per quando riguarda la questione dell’interpretazione, poi, va ricordato che, per quanto questa non potesse provenire dall’attore non professionista, privo di tecniche recitative, spesso gli veniva per così dire costruita attorno, esteriormente, da Pasolini stesso, il quale ne dirigeva i gesti e le espressioni con i suoi noti « messaggi di regia ». 1 In questo caso, al contrario, Pasolini si limita a chiedere ai locali di rifare per lui, per la telecamera, ciò che essi hanno fatto in molte altre occasioni. Se si vuole di ‘recitare’ quei gesti, ma certo non secondo la guida delle indicazioni di un autore. Come si può definire, allora, la sequenza degli Appunti ? A mio parere la si può considerare una variante delle inquadrature dei volti (lo pseudo-casting) viste all’inizio. Anche in questo caso, mi sembra, i soggetti inquadrati rimangono al di qua della storia, l’Orestiade, in cui diventerebbero personaggi. Non danno, insomma, corpo a dei personaggi. La modalità dell’operazione di Pasolini, certo, qui varia sensibilmente. Per quanto rimanga la natura ipotetica e soltanto possibile della scena – cioè rimanga intatto l’impianto preterizionale della costruzione : « questa potrebbe essere una delle scene del mio film » – Pasolini, come detto, non si limita ad inquadrarle, ma fa far loro qualcosa, chiede loro di rivivere di fronte a lui una realtà che è loro consueta. Non siamo di fronte soltanto a dei possibili personaggi, ma a possibili personaggi protagonisti di una possibile scena. Ed a rendere il pezzo di documentario la scena di un racconto, in parte è, come nel caso precedente, la sola voce di Pasolini che la definisce una scena, per quanto solo possibile, ipotetica. Ancor più, però, l’ulteriore rinforzo di quella che precedentemente si è definito la cornice ; rinforzo costituito dalla lettura di Pasolini del passo della tragedia cui le sequenze filmate potrebbero corrispondere. Difficile, insomma, non considerarsi qui in tutto e per tutto di fronte alla sequenza di un racconto. Anche in questo caso, però, non sono i corpi e i gesti degli attori ad incarnare dei personaggi, ad attivare il racconto, dunque ad aprire l’ordine dell’estetico. I gesti e i volti inquadrati rimangono spezzoni documentari di realtà attorno alle quali, dall’esterno, come avvolgendole, Pasolini dispone i segni e dispiega l’apparenza dello spazio finzionale. In questo modo in parte solleva quelle realtà dal flusso esistenziale da cui è tratta, ma nello stesso tempo le lascia al di qua della traslazione entro l’illusorietà che appartiene alla sfera della rappresentazione estetica.  













1   Ibidem. E ancora : « Pasolini non gli illustra [all’attore non professionista] nemmeno il personaggio ; la ritiene un’operazione superflua ». Si veda, a conferma, ciò che dichiara Pasolini in un’intervista rilasciata a Film Comment : « Talvolta usavo la sorpresa. D’improvviso gli dicevo : “Adesso guarda me con un’espressione dolce”. E mentre lui lo faceva gli dicevo di colpo : “Adesso arrabbiati !” ».  



















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giovanni solinas Credo che le intenzioni pasoliniane possano essere meglio chiarite dal confronto con quella che si potrebbe classificare come la terza modalità di trattamento dei soggetti inquadrati. Mi riferisco alla scena in cui il film mostra il viaggio di Oreste. Il personaggio Oreste trova qui, finalmente, un corpo ; egli, cioè, arriva ad essere incarnato da un attore locale, secondo la modalità canonica attraverso cui un attore, un individuo reale, incarna, cioè presta la propria materialità fisica, ad un personaggio d’invenzione. Ora, in tale canonica modalità, la normale conseguenza è che, per lo meno nelle intenzioni di chi mette in scena la storia, la dimensione della realtà, dell’esistenza reale, cui il corpo dell’attore appartiene, diviene funzionale alla presentificazione ed all’apparizione dell’universo immaginario del racconto : lo si sa, l’attore è se stesso (un individuo che vive nel nostro modo, dotato di un’identità reale ecc.) ed allo stesso tempo è il personaggio che interpreta. Secondo la visione classica – diciamo, per capirsi, naturalista – egli dovrebbe, idealmente, essere capace di far coincidere queste due dimensioni, il che significa far dimenticare allo spettatore la prima e portarlo ad immergersi totalmente nella seconda (il paradosso dell’attore naturalista : usare il proprio corpo per convincere chi guarda che si appartiene al mondo dell’incorporeo). Qualsiasi elemento – corporeo, gestuale, tecnico – che faccia emergere la realtà, la verità dell’uomo-attore, la sua identità di persona reale, porterebbe ad una dissociazione dissacrante per il pubblico. Anche se solo per brevi attimi, percepire il corpo e la vita biologica dell’attore come tali, cioè come qualcosa di reale ed irripetibile, significa per lo spettatore classico venire rigettato nella realtà (la propria realtà). Le avanguardie e la modernità hanno giocato su questa dinamica di straniamento, sulla rivelazione della messa in scena, dell’artificialità della rappresentazione, sulla negazione delle condizioni stesse della suspension of disbelievement (e dunque dell’immedesimazione del pubblico con il personaggio). 1 Ed anche Pasolini, qui, anche se per altri versi, lo fa : non ci si deve dimenticare che stiamo parlando di ‘film su un film’, cioè di metafilm, di un cinema che parla di se stesso, che mette in scena le sue modalità di rappresentazione o di documentazione, 2  







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  Per una buona ricostruzione delle teorie dell’attore che si sono succedute nel corso degli ultimi due secoli, dalla visione naturalista del teatro dell’800 alla rivolta contro l’idea stessa di personaggio implicita nell’antipsicologismo viscerale di Artaud, ed alla dissociazione assoluta fra personaggio ed attore del teatro di Brecht, si veda Luigi Allegri, L’artificio e l’emozione. L’attore nel teatro del Novecento, Roma-Bari, Laterza, 2009. 2   Di un certo interesse le considerazioni di Caminati sull’incipit di Appunti per un film sull’India. Qui Pasolini, mostrandosi riflesso in una vetrina telecamera alla mano, proprio nella primissima immagine del girato, ricorrerebbe « alla citazione di una tecnica anti-realista di smascheramento del dispositivo cinematografico, il montaggio dialettico ideato e sperimentato da Ejzenštejn » attraverso cui forzerebbe lo spettatore a mettere in dubbio fin da subito il contenuto di verità del testo filmico (Luca Caminati, op. cit., p. 60). Più in generale, poi, Caminati coglie, a ragione, nello stile degli appunti pasoliniani (sia quelli indiani che quelli africani) la volontà di « applicare lo stile di ‘cinema di poesia’ (…) per muoversi verso la strada del documentario creativo » (ivi, p. 44).  







fra realtà e possibile finzione 71 discutendo, al contempo, il concetto stesso di rappresentazione e di documentazione. Nelle prime due tipologie di immagini viste, però, credo si possa ipotizzare qualcosa di diverso. Qualcosa che non soltanto dev’essere riconnesso, evidentemente, alla poetica sottesa ai suoi film, ma che spinge addirittura oltre il suo discorso sulla realtà : a Pasolini interessa che gli attori non ‘diventino’ i personaggi, non per creare un effetto di straniamento e rivelare l’illusorietà ed il carattere artificiale di ogni rappresentazione, ma perché se essi diventassero personaggi farebbero, appunto, dimenticare la propria realtà. Mentre a Pasolini è proprio quella realtà che interessa. Gli individui ripresi non dovranno, dunque, rischiare di andare oltre il loro statuto ontologico di persone esistenti. Al contrario di quanto non si farebbe nella concezione classica del dramma, dunque, anziché usare il corpo dell’attore come veicolo, come mezzo per produrre l’epifania del mondo parallelo ed illusorio del racconto, egli usa quest’ultimo come strumento attraverso il quale produrre l’epifania della realtà stessa, cioè rivelarne la ‘poesia’. Si badi bene, infatti, Pasolini non si imita a riportare in modo diretto, senza alcun intervento di mediazione autoriale la realtà esterna documentaristicamente raccolta. Le immagini del documentario che egli definisce oggettive, cioè reali, conoscono una duplice intervento dell’autore : oltre a quello, per così dire, di secondo livello, rappresentato dal montaggio delle immagini secondo una sceneggiatura che racconta le fasi della ricerca, delle ipotesi e delle prove, accostandole ai momenti di più esplicito reportage, c’è, appunto, ciò che si è definito la creazione della cornice. Una bordure, fatta dell’irrealtà della rappresentazione estetica, che interagisce con il dato reale riportato, e, pur lasciandolo immodificato nella sua materialità, interagisce con esso e lo potenzia. 1 Scriveva, Pasolini, nella Nota per l’ambientazione dell’Orestiade in Africa :  





Basta pensare, per esempio, a che stupenda funzione possono avere i cori in un film africano : basta prendere la gente di qualche villaggio (direi senz’altro dell’Africa cosiddetta “sudanese” le cui istituzioni monarchiche, sotto la veste dell’arabizzazione, conservano elementi della monarchia faraonica egiziana, discesa in tutta l’Africa equatoriale dal Nord, attraverso la Nubia), e dire a questa gente “cantate e ballate”, ed ecco che i cori greci sembreranno rivivere : basterà stampare come didascalia sotto quelle voci “selvagge” che cantano le parole chiarificatrici e evocatrici del coro. 2  



Le scene cui si è fatto riferimento rappresentano, quindi, la traduzione in atto 1

  È stato Jacques Derrida a descrivere la cornice come un margine che anziché limitarsi ad inquadrare, entra in rapporto con ciò che contiene, tanto da rendere indefinibile il confine che la separa da esso (cfr. Jacques Derrida, La vérité en peinture, Paris, Flammarion, 1978). Non è però questo il caso : nelle scene di Pasolini realtà e dimensione della rappresentazione che la circonfonde rimangono distinte, tanto che in certi casi (si pensi alla scena del rito funebre) è proprio l’incontro di due ambiti eterogenei a creare un nuovo spazio di senso. 2   pc i, p. 1200.  

72 giovanni solinas di una idea espressiva ben precisa, per quanto qui soltanto abbozzata. Una modalità che rende la non realtà del universo estetico ‘didascalia’ della realtà e, con il medesimo gesto, fa ricongiungere quest’ultima con quell’innaturalità 1 che è il destino e la necessità del suo essere naturale. Non credo che l’operazione sia così distante da quella che il poeta (e Pasolini, come poeta) fa con la metafora. La metafora non apre al mondo fantastico e possibile cui apre il racconto di un romanzo. Essa ridescrive la realtà, la mostra da un angolazione inedita, ne svela i significati profondi e la fa accedere alla dimensione della qualità. Dunque la celebra nel momento in cui ne scopre la differenza, la poesia. 1

  « Ma essere è naturale ? No, a me non sembra. Anzi, a me sembra che sia portentoso, misterioso e, semmai assolutamente innaturale », Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, sla i, p. 1565.  





IMMAGINI DEL CORPO GROTTESCO IN UCCELLACCI E UCCELLINI Paula Regina Siega

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el 1967, prima che in Italia si diffondesse il pensiero di Michail Bachtin sul riso e sulla carnevalizzazione del linguaggio, 1 Pasolini si oppose all’idea che in Uccellacci e Uccellini ci fossero elementi del grottesco. Secondo lui, c’era dell’ironia, del surrealismo, ma, ripeteva, « assolutamente non il grottesco ». 2 Il nostro intento qui, è quello di contraddirlo. Alla luce della teoria bachtiniana delle forme comiche e del loro profondo legame con le immagini corporee, cercheremo di indicare come sia possibile trovare esattamente in Uccellacci e Uccellini, nel metaforico percorso di Totò, Ninetto e il corvo lungo le periferie romane, le tracce di ciò che il teorico russo ha chiamato « realismo grottesco ». 3 Proprio da una cultura arcaica, questo realismo è sopravvissuto nelle forme tradizionali della comicità popolare, in una particolare concezione estetica che si esprime secondo un principio materiale e corporeo. Diversamente dai canoni dominanti, nelle forme grottesche il corpo – umano, animale o collettivo – non si presenta mai in modo individuale, staccato dal mondo, isolato o perfettamente chiuso, ma viene evidenziato nel suo carattere di universale incompiutezza. Ne risulta l’immagine di un corpo in stato di perenne trasformazione e apertura, dove le frontiere corporali sono continuamente oltrepassate per metterlo in contatto con ciò che lo circonda. Come nelle raffigurazioni pittoriche di Bosch, di Bruegel, o in quelle letterarie di Rabelais, il corpo grottesco si apre a ciò che è fuori di lui, penetrandolo e accogliendolo reciprocamente, in un incessante varcare delle soglie, nell’ambito materiale, tra il corpo e il mondo, in quello topografico, tra l’alto e il basso e, temporalmente, tra il vecchio e il nuovo. Il nucleo simbolico di questo tipo di rappresentazione può essere riassunto come il principio d’inseparabilità tra inizio e fine dell’esistenza, che ritroveremo anche nella parabola descritta in Uccellacci e Uccellini. Nel film, il tentativo dell’autore di arrivare, come il corvo, alla « realtà empirica e assoluta, non sistematica nelle cose » 4 o, in altre parole, alla concreta  











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  La prima traduzione dell’opera di Bachtin arrivò in Italia nel 1968 con la pubblicazione di Dostoevskij - Poetica e stilistica (Einaudi). 2   Razionalità e metafora in Pier Paolo Pasolini, « Filmcritica », n. 174, gennaio-febbraio 1967, in Pier Paolo Pasolini per il cinema, ii, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, Milano, Mondadori, 2001, p. 2913. 3   Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 1979, p. 24. 4   Pier Paolo Pasolini, Le fasi del corvo [1965], pc i, p. 824.  



74 paula regina siega verità degli uomini puri, lo ha portato a condividere certi aspetti della cultura popolare – di cui Totò e Ninetto sono la maschera allegra – finendo per comunicare una presenza vittoriosa del corpo sul mondo. Segno distintivo delle immagini grottesche, questa presenza trova il suo senso originario nel rimando ad un’utopia collettiva (il futuro di prosperità e di abbondanza per tutti), che si traduce nella raffigurazione di corpi sempre in procinto di divenire, uccidendo, smembrando e cibandosi dell’altro per poi perire, decomporsi e fungere alla loro volta di nutrimento, rivelandosi così parte indivisibile del tutto. La nascita, il mangiare, le necessità fisiologiche, la fecondazione, il parto, l’agonia e la morte sono gli atti vitali di un dramma universale, quello corporeo, che si riferisce con insistenza all’idea di un cosmo in metamorfosi, dove morire vuol dire semplicemente rinascere sotto una nuova forma. Ed è questa idea rigeneratrice della morte che sembra trovarsi alla base di Uccellacci e Uccellini, favola filmica che racconta la storia di un sapiente corvo che, dopo aver fatto una camminata insieme a Totò e Ninetto, è da loro ucciso, smembrato e divorato. Il tragicomico destino dell’intellettuale, deciso dalle ineluttabili necessità corporali dei suoi interlocutori, finisce così per rimandare agli antichi riti cannibalistici, dove mangiare l’altro era anche rendergli onore, assimilando, attraverso la sua carne, la sua forza e le sue qualità morali. Digerito dal ventre popolare, il corvo compie dunque il suo ruolo sociale, contribuendo alla concreta formazione di un’umanità che, rappresentata da Totò e Ninetto, continua la propria camminata lungo la Storia, portando con sé ciò che di lui è riuscita ad assorbire. 1 1. Deglutire e assimilare L’assassinio e la deglutizione del corvo, personaggio autobiografico, sono le tappe conclusive di una narrativa con la quale Pasolini aveva voluto rappresentare la « crisi e la necessità di rinnovamento del marxismo ». 2 Un rinnovamento che si dava non a partire dall’abbandono di un’ideologia superata, ma dall’evoluzione di un pensiero che doveva ancora trasformarsi in qualcos’altro. L’augurato cambiamento poteva operarsi seguendo la strada di un marxismo che, come quello dell’autore, riuscisse a rimanere « aperto a tutti i possibili sincretismi, contaminazioni e regressi, restando fermo sui suoi punti più saldi ». 3 La coscienza del tramonto di un’era o, al meno, di una visione del comunismo  







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  « Il corvo “doveva essere mangiato” alla fine. Questa era l’intuizione e il piano inderogabile della mia favola. Doveva essere mangiato perché, da parte sua, aveva finito il suo mandato, concluso il suo compito, era, cioè, come si dice, superato ; e poi perché, da parte dei suoi assassini, doveva esserci l’“assimilazione” di quando di buono – di quel minimo utile – che egli poteva, durante il suo mandato, aver dato all’umanità (Totò e Ninetto) » (ivi, pp. 825-826). 2   Pier Paolo Pasolini, [Risvolto di copertina] [1966], pc i, p. 829. 3   Idem, Le fasi del corvo [1965], pc i, p. 825.  





il corpo grottesco in uccellacci e uccellini 75 che si faceva sempre più difficile da sostenere dopo il 1956, fa di questo film ciò che Lino Micciché ha definito come :  

non soltanto il più bel film italiano del 1966 e uno dei più significativi della filmografia pasoliniana, ma anche uno tra i più sintomatici documenti di quella crisi dell’ideologia (più precisamente di quella crisi dell’ideologia marxista) che il cinema italiano (pur collocandosi genericamente “a sinistra”) vive come dato continuamente rimosso. 1

Una crisi la cui rappresentazione, tuttavia, non avviene in quanto semplice costatazione della fine di un dato momento storico, ma cerca piuttosto di gettare luce sul suo passaggio, sulla necessità di un mutamento attraverso il quale scongiurare il rischio di una fossilizzazione nel dogma. Esattamente come il corpo grottesco, è il pensiero in questo caso a non presentarsi come qualcosa di pronto e di definitivo, ma al contrario, a evidenziare uno stato di apertura e trasformazione che è condizione stessa della sua vitalità. Voce di questo pensiero, di questa ‘ideologia in crisi’, è il corvo. Alle prese con un’incalzante ricerca di verità, questo timido e imbarazzato Socrate si avvale di un metodo dialogico di cui è allo stesso tempo artefice e prigioniero. Creatura tra il cielo e la terra, tra la teoria e la praxis, è nel perseguire il suo fine di conoscenza che lascia intravedere la commovente incapacità di sottrarsi alla propria dialettica, al distacco intellettuale con cui osserva il mondo e che, come ha definito Pasolini, finisce per determinare la sua stessa esclusione. 2 E tuttavia, di quel mondo, di quella realtà che riesce a comprendere soltanto in modo astratto, lui vorrebbe far parte. Pieno di buona volontà, abbandona quindi le altezze alle quali – in quanto uccello e intellettuale di sinistra – è abituato, e discende tra gli uomini comuni per fare un tratto di strada insieme a loro, figure di un popolo ancora legato alla terra, ma già sulla via di diventare il proletariato urbano. La sua ingenuità, sorprendentemente più grande di quella degli Innocenti Totò e Ninetto, si rivelerà fatale. Oggetto di un’effettiva e crudele sintesi, il corvo diviene alimento di quella stessa realtà empirica con cui, attimi prima, aveva nutrito la sua filosofica curiosità. Ma la morte, qui, non è la fine della storia – o della Storia –, bensì l’evento che apre il cammino ad una rinascita, e il tempo dell’uccisione di questo martire « arrostito e ridicolo » 3 è scandito dalla maschera comica di Totò, la cui bocca spalancata ci avverte, simbolicamente, che il viaggio del corvo non  

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  Lino Micciché, Il cinema italiano : gli anni 60 e oltre, Venezia, Marsilio, 2002, p. 195.   « La “voce” giusta, aggiornata, onesta, anche profonda, o al meno profondamente comprensiva, dell’ideologia, è la voce del corvo : egli appartiene e non appartiene alla vita, comprende la vita con un distacco che è anche esclusione : ha esperienza di una vita che in fondo egli non ha, e questo lo mette in una posizione imbarazzante, povero animale parlante, di cui ha coscienza e ciò dà ancora più umanità alle sue parole, alla sua partecipazione, al suo impegno » (Pier Paolo Pasolini, [Soggetto] [1965], pc i, p. 817). 3   « Bisogna deludere. Saltare sempre sulle braci / come martiri arrostiti e ridicoli » (Versi della poesia Progetto di opere future, riportati in Pier Paolo Pasolini, Lettera aperta, [1966], pc i, p. 830). 2















76 paula regina siega è finito : continuando la sua discesa, esso è destinato ad approdare nel tumulo corporeo dei protagonisti, le loro pance, inferi in cui gli sarà dato di entrare in comunione concreta con il popolo, nucleo originario di ogni forma grottesca.  

2. L’orientamento verso il basso Raffigurazione non solo degli strati popolari della società, ma di un’umanità non ancora completamente degradata, Totò e Ninetto sono nel film ciò che, secondo Pasolini, erano nella vita. 1 Personaggi ‘veri’ ed essenza stessa di ciò che rappresentano, sono gli italiani innocenti, non coinvolti nella Storia perché di essa non se ne accorgono. È tramite la loro profonda semplicità, quindi, che l’autore riesce a comunicare un’esistenza genuina che, espressa comicamente, non si fissa mai soltanto sugli aspetti negativi o positivi del comportamento umano. Allo stesso tempo candidi e maliziosi, puri e saggi, angelici e brutali, i personaggi di questo film sono figure ambivalenti che gioiscono con lo stesso mondo che irridono, negandolo e affermandolo contemporaneamente. Uccellacci e Uccellini, infatti, non si presenta come una tradizionale ‘commedia’ che schernisce l’altro ma, piuttosto, come favola serio-comica che recupera determinate forme del riso condiviso e coinvolgente con cui il realismo grottesco percepisce il mondo. Un riso di festa popolare, simultaneamente allegro e beffardo, diretto a tutto ciò che nella visione consueta dell’esistenza ha un ruolo dominante. Contrapponendosi all’espressività corporale della coppia comica, il corvo ha nella parola il suo mezzo espressivo, in un particolare accoppiamento tra corpo e discorso tramite il quale il pensiero stesso diventa qualcosa di concreto. Ne viene fuori un gioco insolito e fantastico che mescola l’umano all’animale, evidenziando la duplice condizione del personaggio, timida bestia raziocinante che cerca di ricongiungersi con la vita avvicinandosi agli uomini veri. 2 Il suo parlare colto contrasta con le voci dialettali dei suoi interlocutori – come il Cristo del Vangelo in rapporto ai suoi discepoli – presentando a tratti le caratteristiche intimidatorie del discorso ‘alto’. Sapendo di parlare a degli uomini ‘semplici’, è nel cercare di informarli sui problemi dell’umanità che, da ogni loro azione fisica 1

  Sulla scelta di Totò e Ninetto, Pasolini ha dichiarato : « io uso attori e non attori ma, praticamente, mi comporto con loro allo stesso modo. Cioè li prendo per quello che sono, non mi interessa la loro abilità, se prendo un attore lo prendo per quello che è. Mettiamo Ninetto Davoli : non era attore quando ha cominciato a recitare con Totò, e l’ho preso per quello che lui era, non ne ho fatto un altro personaggio. La stessa cosa ho fatto per Totò » (Ecco il mio Totò, « Repubblica », 3 agosto 1976, in pc ii, p. 3009). 2   Nella sceneggiatura originale, il corvo dice : « Ebbè, sono qui perché ho nostalgia di questa bella cosa che non ho, la mescolanza con la vita, l’essere vivo e basta. (ridacchia per correggere la serietà delle sue espressioni) Mi attacco a voi, per cercare di distrarmi un po’ dalla tremenda nostalgia che ho per ciò che non ho ! » (Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini [1965-1966], pc i, p. 765). Nel film, le frasi sono state tolte.  









   







il corpo grottesco in uccellacci e uccellini 77 (l’appartarsi in un campo per defecare, le botte che ne susseguono, l’accoppiamento sessuale, l’uso di una pomata antifecondativa come unguento per i calli, ecc.), ne trae una lezione sociologica : la questione della proprietà privata, il sesso nella società contemporanea, le considerazioni di Freud, di Marx, Gandhi, l’opinione dei cattolici, le discussioni interne al partito, la crisi del comunismo, ecc. La serietà delle sue affermazioni e la conoscenza teorica di un mondo che analizza da una posizione elevata, si confrontano con quelle che sono invece le effettive esperienze di vita di Totò e Ninetto, partecipi di una realtà di ‘basso rango’, la cui concreta verità si manifesta liberamente nel riso. Naturale, quindi, che sia proprio nell’atto di ridere – di se stesso e insieme all’altro – che questi personaggi, provenienti da piani così diversi e distanti, riescano ad entrare in comunione, fondendo momentaneamente i loro orizzonti in un’unica e comica prospettiva :  



totò : Ma lei di dov’è, da dove viene… Nun l’ho mai vista da ’ste parti ! corvo : (mascherandosi scherzosamente) Eh io vengo da lontano… Sono straniero… La mia patria si chiama Ideologia (ride scherzosamente), vivo nella capitale, la Città del Futuro, in via Carlo Marx al numero mille e non più mille… (ride di gusto per la sua trovata scherzosa). totò : (stando subito allo scherzo) E noi abbitamo a Borgo Monnezza… ninetto : (pronto, saettante) Via Morti di Fame ! totò : (ridendo) Numero 23 ! ninetto : (ridendo ancora di più) Sotto er Monte de le Marane Chiare ! totò : (ridendo di cuore) Famoso in tutto er monno per il martirio di sant’Analfabeta ! E ridendo, camminano, camminano per la lunga strada. 1  























Così, se il corvo, nel suo approccio filosofico, ironizza la propria situazione di pensatore in crisi con una scherzosa trovata intellettualistica, Totò e Ninetto potenziano la beffa, dando corpo a un pensiero astratto che trapiantano nelle loro concrete condizioni di esistenza. La raffinata ironia del maestro, il suo solitario ridacchiare, cede il posto a un riso aperto e coinvolgente, base di un gioco parodico che, nel negare il senso del discorso originario, lo abbassa e lo rinnova, riaffermandolo sotto una forma diversa : l’italiano ufficiale e rispettoso delle norme grammaticali si riflette perciò in un parlare ‘sbagliato’, franco e dialettale ; l’eterea patria ideologica è trasposta in un sudicio borgo abitato da poveracci ; Carlo Marx è deposto da semplicissimi Morti di Fame e, infine, l’elevata erudizione dell’intellettuale è detronizzata dal martirio di una miserrima ‘sant’Analfabeta’. La parodia, questo allegro travestimento del linguaggio,  





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  Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini, cit., p. 763. Nel film, il « numero mille e non più mille » è stato cambiato in « numero settanta volte sette », riferimento biblico (Matteo 18, 22) che alludeva, probabilmente, all’ibridazione tra il Vangelo e la rivoluzione comunista, di cui parla il corvo.  







78 paula regina siega riesce quindi a familiarizzare la realtà e a relativizzare il consueto ordinamento delle cose e delle idee, avvicinando ciò che è distante e abbassando ciò che è alto. Il risultato è la dissacrazione di un modo ufficiale di vedere la vita – oppresso da rigori e divieti – e la sua temporanea sostituzione per una concezione libera, piena di profanazioni, capovolgimenti, alternanze e, soprattutto, di un contatto diretto con il mondo, le cui alte e irraggiungibili sfere diventano improvvisamente vicine. 1 Il movimento verso il basso è il tratto caratteristico delle forme del riso popolare e consiste nel trasferire tutto ciò che è elevato o ideale sul piano materiale del corpo e della terra. 2 È intorno all’abbassamento corporeo che si organizzano le immagini del realismo grottesco, per il quale l’alto e il basso hanno valori intercambiabili e significati complementari. Nell’aspetto cosmico di questa topografia artistica, l’alto è il cielo e il basso è la terra, che è il « principio dell’assorbimento (la tomba, il ventre) » e allo stesso tempo « quello della nascita e della resurrezione », mentre nell’aspetto corporeo, « l’alto è il volto (la testa), il basso gli organi genitali, il ventre e il deretano ». 3 Abbassare, dunque, è un gesto potente che rinvia ogni forma verso la terra (dove si seppellisce e si semina) e verso le parti basse del corpo, luoghi in cui si svolgono le azioni che danno insieme morte e vita, e dove gli scambi con il mondo sono abbondanti (le deiezioni, la fecondazione, il parto). La concretezza di questa simbologia si manifesta in modo particolare in rapporto alle escrezioni fisiologiche – metafora di una congiunzione tra il corpo e il cosmo – e i riferimenti agli escrementi hanno perciò un ruolo di primo piano : portati alla luce tramite il deretano (l’altra faccia del corpo), essi sono materia buffa per eccellenza, ma mantengono un legame metaforico con la rinascita e il rinnovamento. Connessi alla fecondità, sono a metà strada fra il corpo umano e quello terrestre, e riuniscono in sé contemporaneamente il polo negativo della morte (come i cadaveri, gli escrementi sono riconsegnati alla terra) e quello positivo del divenire (concime e fertilità). 4 L’appartarsi di Totò e Ninetto per trasferire al terreno i propri bisogni, dunque, costituisce non un espediente di ‘volgare’ comicità, ma un ulteriore segno del vigore che li distingue dal corvo : se esso interroga infaticabilmente  















1   Nel film, un altro esempio di questo linguaggio carnevalesco, parodia familiarizzante della vita reale, risiede nei personaggi che danno nome alle vie di un quartiere popolare : Benito La Lacrima, Disoccupato ; Antonio Mangiapasta, Scoppino ; Lillo Strappalenzola, Scappato di casa a 12 anni. 2   « In basso, alla rovescia, all’incontrario : tale è il movimento che caratterizza tutte queste forme, che fanno precipitare tutto verso il basso, capovolgono, mettono a testa all’in giù, trasferiscono l’alto al posto del basso, il didietro al posto del davanti, sia sul piano dello spazio reale, sia che su quello metaforico » (Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., p. 407). 3   Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., p. 26. 4   Si pensi, ad esempio, nella diversità tra la concezione gioiosa degli escrementi in Uccellacci e Uccellini, e quella di Salò e le 120 giornata di Sodoma, in cui l’allegria e la comicità scompaiono sotto l’aspetto puramente degradante e destituito del suo polo rigeneratore.  











il corpo grottesco in uccellacci e uccellini 79 il proprio intelletto, quelli indagano con sapienza le proprie viscere, ed è per dar corso agli eventi naturali dell’esistenza che si riparano dietro a una siepe, linea di demarcazione tra la loro impellente vitalità e l’intangibile filosofia del maestro, che, pudico e riservato, si mantiene in disparte. Nello stesso modo in cui mettono il proprio corpo in comunicazione con la terra, padre e figlio non smettono di comunicare tra di loro e, mentre ‘operano’, guardano il cielo parlando con disinvoltura e trasporto della luna, che li fissa da lontano. Il risultato è una vertiginosa congiunzione fra il basso e l’alto, fra il comico e il poetico, l’immemore e il contemporaneo :  

voce di totò : (a Ninetto, dietro la siepe) A Ninè, come se chiama quello ch’è ito su la luna ? Gagarin ? voce di ninetto : Che ne so ! voce di totò : Guarda, eppure, pare che sta così lontana la luna… pare un sogno… E gira e gira ce vanno eh… La vedi ? A me me pare ’na cosa che vedo solo io… Lassù c’è una di quelle strane allucinate lune che si vedono di giorno tra la nuvolaglia accecante. 1  













Consumato all’aperto, sotto il cielo e in contatto con la terra, il fatto privato è in questo modo restituito alla sua condizione di atto universale ; allo stesso tempo, il suo aspetto dissacrante funge da gioioso funerale di uno spauracchio : il capitalismo. Quando entra nel campo, infatti, la coppia comica infrange le regole esplicitate da due cartelli segnaletici, che avvertono : « Proprietà privata » e « Divieto di scarico ». Varcandone i limiti spaziali sia in senso orizzontale che verticale, Totò e Ninetto oltrepassano anche i limiti simbolici di questa proprietà, in un’allegra profanazione del nucleo materiale e ideologico della società capitalistica. Il ventre e le sue inderogabili attività (nutrirsi, congiungersi, espellere) sono il centro della sfera materiale che circoscrive anche la vita riproduttiva. Ciò spiega perché l’atto della deiezione sia, nella simbologia grottesca, assimilabile a quello del concepimento : nello stesso modo in cui gli organi genitali entrano nel corpo femminile, fecondandolo, le escrezioni fisiologiche penetrano il corpo terrestre, rendendolo fertile. In entrambi i casi, l’appello è rivolto al basso corporeo (il ventre e il fallo), dove, attraverso buchi e sporgenze, il corpo esce dai propri limiti per realizzare una costruzione bi-corporea, in un evento che conserva un vincolo essenziale con la nascita, la crescita e il rinnovamento. In Uccellacci e Uccellini, questi atti sono significativamente associati e si riproducono a vicenda nella sequenza in cui Totò e Ninetto si allontanano per accoppiarsi con un’avvenente prostituta. Ancora una volta, la potenza delle loro esigenze fisiche è il motivo dominante : travestito grottescamente da incontenibile mal di pancia, l’urgente desiderio sessuale viene doppiamente marcato, e la farsa  















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  Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini, cit., pp. 766-767.



80 paula regina siega corporea che padre e figlio mettono in scena per dirigersi nuovamente verso il basso, verso la terra, è il preludio comico che prepara, riassumendolo in un’unica immagine, all’atto fecondativo. Oggetto del loro appetito carnale è l’accogliente e splendida Luna, con la quale vogliono unirsi. Così, se prima la luna era soltanto un’immagine che vegliava sulle loro esistenze, misteriosa e irraggiungibile, adesso si sdoppia, presentandosi simultaneamente in basso e in alto : è sulla terra, puttana dai « seni bianchi e senza pudore » 1 ma, nivea e tonda, è ancora sul cielo, in pieno giorno e allucinantemente visibile. Simbolo antichissimo connesso alla femminilità, ai cicli naturali, alla fertilità e al parto, la sua trionfale ricomparsa in scena si dà tramite un irresistibile corpo di donna, lo stesso con cui, per un attimo, si confonde : « Eh, Luna, Luna, che me fai fa ! », esclama Totò, trascinato dai suoi poderosi influssi. Ed ecco, con un semplicissimo gioco verbale e visivo, il precipitare delle barriere tra il corpo e il mondo : nella pace dei campi intorno a Roma, in mezzo all’erba appena tagliata, c’è la Luna stessa, pronta a farsi fecondare dagli uomini allegri.  









   



3. Il divenire storico nelle immagini delle alternanze corporee Legate alle tradizioni dei riti comici dell’antichità e del carnevale dell’era cristiana, le forme grottesche conservano un rapporto essenziale con il tempo (cosmico, biologico, storico) e giocano ininterrottamente con i poli del divenire, alternandoli : la morte e la nascita, il principio e la fine, l’alto e il basso, il vecchio e il nuovo. Secondo la logica del ‘mondo alla rovescia’, ogni figura si sdoppia nel proprio contrario, di cui è insieme conferma e negazione. È considerandoli alla luce di questo linguaggio, che Totò e Ninetto appaiono come il doppio carnevalesco l’uno dell’altro, sia per similitudine (padre e figlio) che per opposizione (il vecchio e il giovane), in un accoppiamento che ripropone il procedere stesso del tempo e della vita, dove il nuovo è legato al vecchio, di cui è l’inevitabile successione. Questo naturale avvicendamento si palesa, nella coppia comica, nei momenti in cui il figlio rincorre il padre nei suoi atti vitali (bere, defecare, accoppiarsi, mangiare), ma è visibile soprattutto nella contrapposizione tra i loro corpi, cui divario generazionale è rimarcato dalla caratterizzazione scenica. Totò, infatti, si presenta alla ‘vecchia maniera’, e nel suo logorato vestiario sono chiari i riferimenti a Charlot, al quale si rifà anche mimicamente. Il figlio, rampollo tenero e vivace, freme invece di un’irrefrenabile voglia di novità. Dato immediatamente percettibile, il contrasto tra le loro figure umane riproduce, condensandolo, quello del paesaggio stesso sul quale si muovono, dove il nuovo inizia a preponderare sul vecchio. Il dialogo di apertura del film non fa che rinforzare l’immagine della sostituzione in atto : camminando su una strada  



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  Ivi, p. 797.

il corpo grottesco in uccellacci e uccellini 81 ancora in fase di lavorazione, il genitore istruisce il figlio sulla luna, le sue fasi e la sua forza di gravità, conoscenze indispensabili per il contadino, ma superflue per l’operaio che il figlio si prepara ad essere. Realizzata sullo sfondo di un sobborgo stravolto da cantieri edili, la breve scena riassume il senso di una transizione epocale, e il discorso di Totò è assimilabile agli ultimi segnali di vita di una civiltà destinata a scomparire, spazzata via da un futuro che avanza, inesorabile, sotto forma di industrializzazione. Prepotente e irresponsabile, la modernità irrompe in scena insieme a un gruppo di giovincelli che si muovono, sincronizzati, al suono del juke-box di uno sperduto ma internazionalissimo ‘Bar Las Vegas’. Come le figure di padre e figlio, il ritratto di una gioventù burina che balla il ballo « più moderno di tutti i tempi », 1 riassume il cambiamento storico messo in atto e che, documentato dalla cinepresa, è racchiuso simbolicamente nella coesistenza tra il vecchio e il nuovo (Totò e Ninetto), tra il lontano e il vicino (Las Vegas in mezzo alle borgate). Se il senso è quello della transizione, il fine non è certamente la celebrazione del miracolo economico, ‘buona novella’ di quei tempi. Nelle inquadrature delle periferie dove le campagne diventano città, nei primi piani di volti anonimi del popolo, nelle immagini dei relitti sui quali si erige il progresso, è il segno della crisi a incidere, demarcando l’affermarsi di un pensiero sempre più borghese ed escludente. Nel cammino di Totò e Ninetto si fanno quindi evidenti i segnali della sostituzione di valori che accompagna il processo di modernizzazione. Sull’orizzonte gravano le ombre del consumismo, di uno spietato sfruttamento del più debole e, parallelamente, del triste e silenzioso lutto per la morte del leader, Palmiro Togliatti, che chiude definitivamente un’era. Ma gli occhi dell’intellettuale si sforzano comunque di guardare altrove : « Non pensi però, signor Totò, che io pianga sulla fine di quello in cui credo. Sono convinto che qualcun altro verrà e prenderà la mia bandiera per portarla avanti. Io piango solamente su me stesso », 2 dice il corvo, dando la portata di un senso di fallimento individuale che, tuttavia, non lo impedisce di proclamare il proprio credo, riaffermando la sua fede in un avvenire storico che investe di religiosa sacralità. 3 Punto di congiunzione tra utopia e realtà, è intorno al divenire del popolo  









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  « Ninetto va, facendo apposta la camminata strascicata del malandro, nato stanco, verso il banco : ma in quella ecco un’esplosione. È il juke-box. Romba una musica assordante : i Beatles, i Beatles ! Intorno al juke-box, si sono radunati i quattro cinque burinelli, tozzi, coi loro fagotti sotto il braccio. […] Il gruppo dei ragazzetti balla il suo ballo, il più moderno di tutti i tempi » (Ivi, pp. 2   Dal dialogo desunto dal film. 752-755). 3   « Su questa trama di fondo si fondano moltissimi altri motivi : prima di tutto la condanna alla tendenza del pensiero borghese a “negare ogni sacralità, che si tratti del sacro celeste delle religioni trascendentali o del sacro immanente dell’avvenire storico”, per cui “il razionalismo borghese ignora nelle sue espressioni estreme l’esistenza stessa dell’arte” » (Pier Paolo Pasolini, [Risvolto di copertina], cit., p. 829). Sull’implicazione tra religione e storia, vedere anche la sua Lettera aperta, cit, pp. 830-831.  















82 paula regina siega che ruota il sistema di immagini del realismo grottesco, di cui le botte sono una parte rilevante. Partecipando alla simbologia dei rinnovamenti e delle alternanze fisiche e temporali, le battaglie carnevalesche sono la detronizzazione burlesca dei poteri dominanti, esprimendo in modo sensibile il carattere provvisorio di qualsiasi verità o ordinamento egemonico. Nel gesto di bastonare, rovesciare, gettare a terra, calpestare o seppellire, ogni colpo carnevalesco trionfa sul timore (della guerra, la carestia, la malattia, la vecchiaia o la morte) determinandone l’agonia e ribadendo la vittoria del riso sulla paura, della festa sulla vita quotidiana. In Uccellacci e Uccellini, le busse carnevalesche compaiono sotto forma di allegre battaglie a colpi di frusta, scopa, fucile, cocomeri, torte in faccia e ombrellate in testa, rifacendosi ai ritmi agitati, alle gag e inseguimenti tipici del cinema muto. Attraverso il linguaggio ‘innocente’ delle comiche, vengono sdrammatizzati i conflitti, ricordando l’aspetto transitorio di ogni esperienza storica e del potere che ne regola i contorni. Il moto principale è quello della ruota, del capovolgimento e dell’alternanza tra alto e basso, come nella sequenza in cui Totò è colto in flagrante dai proprietari del terreno dove si è recato per fare i suoi bisogni. Arrabbiati, i padroni del campo pretendono l’immediata rimozione della cacca che lui, indignato, si rifiuta fermamente di portare via. I toni si accendono e la discussione degenera in rissa quando Totò, impavido e vendicatore, si scaraventa sul gruppo. Dopo averli lanciati a terra adoperando come arma il suo ombrello (parodia del bastone di Charlot), prende una frusta e li percuote vigorosamente. Ridicolizzate da chi le malmena, le vittime si riducono a poveri corpi stesi sul suolo, tra contorcimenti e urla strazianti. Ma ecco che arrivano i rinforzi : gli spari che sopraggiungo dall’alto rovesciano la situazione, e colui che aveva dato le botte finisce per riceverle. Improvvisamente in svantaggio, padre e figlio si danno alla fuga a gambe levate : corrono per il campo, agitano le braccia, saltano, si buttano giù, gridano e strisciano sul proprio ventre per nascondersi tra le sporgenze del terreno, entrando e uscendo dai suoi buchi. La pantomima attinge l’apice nel momento in cui scavalcano i corpi accovacciati di quattro contadine, in un gioco infantile e gratuito che sottolinea il carattere farsesco della baruffa, la cui comicità è ampliata dalle infiammate grida del corvo, fuggiasco promotore della pace universale. Significativa è anche la scena in cui Totò, nelle vesti di Frate Ciccillo, si lancia contro il popolo che lo ha trasformato in un santo da baraccone. Il frate si alza :  





e qui succedono scene che solo san Matteo e Charlot hanno saputo descrivere. A una a una sradica tutte le baracche, mandando a gambe all’aria i proprietari. Poi prende una ricotta e dà una ricottata in faccia alla Grifagna. Prende un cocomero e lo infilza sulla testa alla Gramigna. Prende una scopa e dà una scopata in testa alla Micragna.

il corpo grottesco in uccellacci e uccellini

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Poi si volta verso i pagliacci, e li prende a calci nel sedere, e i pagliacci, gambe in spalla, e via, via, di corsa urlando e saltando… 1

Intinta di un umorismo immediato e semplice, quest’azione parodica del Vangelo di Matteo (21, 12) è riconducibile alla farsa delle incoranazioni-scoronazioni, antico rito carnevalesco che consisteva nell’elezione e successiva deposizione di re, vescovi o papi da burla. Il senso comunicato è sempre quello dei mutamenti e delle sostituzioni temporali, espresso tramite il gesto dell’abbassamento e del travestimento parodico. 2 In ogni ascesa s’intravvede l’imminente caduta, e nell’incoronazione è già contenuta l’idea della vicina scoronazione : al buffone travestito da sovrano vengono inevitabilmente tolti vestiti e simboli regali per poi schernirlo e riempirlo di bastonate. Il film segue una struttura similare, e alla ‘santificazione’ di Frate Ciccillo – involontario re della buffonata messa in atto dai fedeli – seguono la detronazione e le botte. In questo caso, tuttavia, è il frate stesso a rovesciare l’ordine stabilito, comunicando un mutamento delle sorti tipico delle botte carnevalesche che, poco prima, erano state anticipate dal lazzo messo in scena da due pagliacci :  



pagliaccio povero : (inginocchiandosi) Vi prego, signora fortuna, toccatemi con la vostra bacchetta magica ! pagliaccio-fortuna : Proprio lo vuoi ? pagliaccio povero : Sì ! pagliaccio-fortuna : Proprio proprio lo vuoi ? pagliaccio povero : Sìne ! Tutti i ragazzini ridono, ridono : tra essi, a ridere a ridere – agli sberleffi dei pagliacci – c’è anche Ninetto. pagliaccio-fortuna : Ecco ! Tira fuori da dietro la schiena un bastone e dà una bastonata in testa al pagliaccio che si mette a strillare come un’oca spennata, contorcendosi tutto. 3  

























Tutta la sequenza che vede Frate Ciccillo nelle vesti di santo è una messa in scena collettiva che riproduce, in chiave gioiosa, la vita della piazza e delle fiere medioevali, alle quali sono storicamente legati gli spettacoli di strada. Come quella del pagliaccio, tradizionale è la figura del ciarlatano, maschera comica che fonde in un unico personaggio il commediante e il venditore di unguenti miracolosi, frutto dello stretto legame stabilito allora tra medicina e arte popolari. 4 Instituendo un filo diretto con questa tradizione, in Uccellacci e Uccellini è il saltimbanco Annibale a svolgere il ruolo dell’imbonitore nel vendere, ad un 1

  Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini, cit., p. 738.   Michail Bachtin, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino, Einaudi, 2002, p. 162. 3   Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini, cit., p. 737. 4   Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., p. 173. 2

84 paula regina siega sofferente Totò, la sua favolosa medicina contro i calli. Sarà il corvo a svelare l’imbroglio, rivelando a Totò che la pomata che spalma, fiducioso, sul proprio piede, altro non è che una crema antifecondativa. Il rimedio si giustifica pienamente nella simbologia grottesca, dove ogni protuberanza ha il significato di un nascituro o di un germoglio, investendosi perciò di un significato di fertilità. Nella topografia corporea, il callo ha una connotazione fallica e, come tale, funge da testimonianza della prolifica condizione del personaggio, padre di ben diciotto rampolli, come confida allo sconcertato corvo. Equiparabile alle escrescenze corporee, il ventre turgido, pieno di cibo o gravido di una nuova vita è un’immagine caratteristica del corpo grottesco. La presenza tra i personaggi di « Urganda la Sconosciuta, donna senza patria e con il pancione spudoratamente gonfio di gravidanza » 1 partecipa alla tendenza del linguaggio grottesco di esibire due corpi in un unico, dove il primo, agonizzante, dà la vita e scompare, mentre l’altro è concepito, lanciato nel mondo. Niente più appropriato, dunque, che la rappresentazione buffonesca messa in scena dalla troupe di Annibale, si concluda con un atto fondamentale del dramma corporeo, il parto, grande spettacolo della vita. Nei panni di una martire cristiana che sta per essere divorata viva, Urganda lancia un teatrale grido di morte che presto si converte in urla per le doglie incombenti. L’agonia si tramuta quindi in travaglio : in preda al dolore, lei cade, la sua bocca e i suoi occhi si spalancano, 2 le gambe si aprono, ed ecco che dalle profondità del suo corpo di donna spunta, all’istante, il corpo di una bambina agli inizi della vita : « È caduta direttamente dalla pancia della madre alla polvere della madre terra. Ed è lì che agita le zampette tutta allegra e inquieta, piena di voglia di esserci ». 3 L’inquadratura della bambina che si muove al suolo, incorniciata dalle gambe della madre, è l’immagine della forza produttiva del corpo che, vincitore, cresce ed è gettato a terra per dare continuità alla vita, rinnovandola e perpetuandola ininterrottamente. All’atto si segue, naturalmente, la festa carnevalesca, e la troupe celebra il nuovo arrivo con lo sguardo rivolto all’avvenire, ad un futuro prospero e rigoglioso che viene salutato calorosamente : « Nessuno la voleva, nessuno se l’aspettava, è voluta venire, Benvenuta, e Benvenuta sia ! », 4 esclama il saltimbanco Ciro Lo Coco nel decidere, ispirato, il nome della neonata. Come il parto, anche l’atto di morire è un passaggio obbligatorio ad una nuova vita, e questa è la conclusione alla quale ci porta il percorso escatologico di Totò e Ninetto, inscritto dentro la struttura del mito della morte e della ri 















   

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  Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini, cit., p. 773.   Nel realismo grottesco « la bocca spalancata ha un ruolo importantissimo. Essa è legata al “basso corporeo” in senso topografico : la bocca è la porta aperta verso il basso, verso l’inferno corporeo. L’immagine dell’ingerimento e della deglutizione, immagine ambivalente antichissima della morte e della distruzione, è legata alla bocca spalancata » (Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, cit., pp. 355-356). 3 4   Ivi, p. 778.   Ibidem. 2







il corpo grottesco in uccellacci e uccellini 85 nascita. Arrostita su un piccolo rogo, la vittima sacrificale scompare dentro le viscere della ‘misteriosa base’, e del suo corpo squartato avanzano soltanto le parti indigeribili : « Sulla polvere della strada bianca, si vedono i resti del corvo : un po’ di penne, le zampette, il becco… Più in là un po’ di fuoco che si sta spegnendo : cenere e ossicini ». 2 Nel pasto consumato, sono leggibili le tracce delle immagini del banchetto, tradizionalmente legate al tema del corpo smembrato, e dove le raffigurazioni delle battaglie vittoriose – i corpi squartati dei nemici e il fuoco in cui bruciano i loro resti – si mescolano a quelle della cucina – la macellazione del bestiame, l’arrostimento e la consumazione della carne. L’immagine del corpo del martire divorato dai suoi discepoli si rivela, in questo modo, l’ultima inversione carnevalesca del film : non si tratta unicamente di ‘elevare’ intellettualmente le masse, ma anche di ‘abbassare’ l’intellettuale, di farlo entrare nella ‘pancia del popolo’, metafora di una ripresa di contatto con la realtà, via concreta per l’uscita della crisi. Un ritorno alle origini (ai punti saldi dell’ideologia) che si dà anche formalmente, con l’esplicita citazione di Tempi moderni : « Dopo averlo mangiato, riprendono la loro strada, e vanno, vanno, vanno, di spalle, per la strada bianca, verso il loro destino come nei film di Charlot ». 3 Oltre a impregnare il film di un’aura ottimistica che è intrinseca alla sequenza originale, la citazione richiama la grande capacità di comunicazione del cinema muto e, specificamente, di Charles Chaplin, accostata in precedenza a quella di San Matteo. Ma evocare il linguaggio delle origini è, in questo caso, evocare anche « le silence du mythe », ha osservato Magali Vogin. 4 Un silenzio la cui evocazione è, tuttavia, costatazione stessa di un’impossibilità, come rivela il rumore assordante dell’aereo che si alza in volo all’ultimo minuto, disturbando l’udito e lo sguardo per ricordare il tempo effettivo in cui si inserisce il racconto filmico. Per essere vitale, dunque, il passato non può ritornare uguale a se stesso, ma deve essere oggetto di una trasformazione che riporti al presente soltanto ciò che può ancora avere un senso. Ed il senso è indicato dalla strada, dal camminare in avanti, è il senso della Storia. Cosciente dell’inagibilità di un progetto rivoluzionario che non aderisca al reale, è la prospettiva storica a condurre l’umanità verso il futuro, conservando dei suoi miti – Cristo, Marx, Pasolini, Chaplin, Totò o il popolo – soltanto ciò che possa servire, ciò di cui si possa nutrire. 1























1   Su quest’argomento, Gian Piero Brunetta scrive : « Anche l’idea della morte del corvo e la sua reincarnazione in Totò e Ninetto, nel finale di Uccellacci e uccellini, fa parte dell’idea strutturale del mito della morte e della rinascita dell’eroe, dello schema che prevede la reincarnazione ciclica dello stesso individuo » (Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano. Dal miracolo economico agli anni novanta, Roma, Riuniti, 2001, p. 212). 2   Pier Paolo Pasolini, Uccellacci e Uccellini, cit., p. 805. 3   Idem, [Soggetto], cit., p. 823. 4   Magali Vogin, L’espace dans Uccellacci e Uccellini, in Pier Paolo Pasolini. Due Convegni di studio, a cura di Lisa El Ghaoui, Pisa-Roma, Serra, 2009, p. 123.  





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LE MYSTèRE DE L’INCARNATION : FIGURES ET FIGURATIONS CHRISTIQUES DANS L’éVANGILE SELON SAINT MATTHIEU (1964) DE PIER PAOLO PASOLINI  

Jean-Baptiste Chantoiseau

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ans Histoires de peintures, Daniel Arasse souligne combien « (i)l n’y a que deux mystères dans la religion chrétienne : l’Incarnation et la Résurrection ». 1 En risquer une figuration constitue un défi suprême tant de tels phénomènes échappent, par définition, à la vision : l’Esprit Saint, dont la venue est annoncée par l’Ange Gabriel, reste invisible tandis que le corps du Christ, qui ressuscite dans le Royaume des cieux, disparaît purement et simplement. Nombreux, cependant, sont les peintres des siècles passés qui ont affronté de telles thématiques, déployant de multiples stratégies plastiques afin de rendre visibles ou lisibles ces manifestations divines. Avec L’Évangile selon saint Matthieu, film réalisé et sorti en 1964, Pier Paolo Pasolini s’attaque de même à ces deux énigmes qui reposent sur la foi et non sur ce qu’elles offrent au regard. D’où l’audace extrême que constitue leur représentation cinématographique opérée, qui plus est, par un cinéaste non croyant. Pasolini, comme il le dira en 1973 dans Thétis, s’attelle résolument et effrontément à l’édification d’un « espace à l’intérieur duquel [il] puisse exercer l’effort nécessaire à l’accroissement de ce qu’on peut représenter » ; 2 Dieu, en personne, n’échappant pas à une telle volonté. Comment toutefois réussir un tel pari ? En effet, face à l’Incarnation et à la Résurrection, « on n’y voit rien ». 3 Au moment même de l’Annonciation, la Vierge, mystérieusement investie par l’Esprit Saint, accueille dans ses entrailles le fils de Dieu : de manière imperceptible, avec la naissance du Christ, le divin s’incarne soudain dans une chair d’apparence semblable à tout autre. L’impensable se produit alors : « l’infini vient dans le fini, l’incommensurable dans la mesure, comme le disait le prédicateur franciscain saint Bernardin de Sienne ». 4 Comment faire comprendre à un œil incrédule que cet homme est le fils de Dieu ? Un acte d’amour, sinon de foi, semble désormais nécessaire. De manière symptomatique d’ailleurs, avec l’Incarnation, « on  































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  Daniel Arasse, Histoires de peintures (2004), Paris, Gallimard, 2006, p. 100.   Pier Paolo Pasolini, Thétis (1973), trad. de l’italien par Dominique Noguez in Pasolini, « Revue d’Esthétique », Paris, Jean-Michel Place, 1992, p. 6. 3   Daniel Arasse, On n’y voit rien. Descriptions (2000), Paris, Gallimard, 2005. 4   Idem, Histoires de peintures, cit., p. 100. 2





88 jean-baptiste chantoiseau passe de l’ère de la Loi, qui est celle de Moïse avec l’Ancien Testament, à l’ère de la Grâce, qui est celle de Jésus dont la mort permettra de racheter la Loi, qui avait enregistré le Péché et les Commandements. La loi demeure valide, mais la Grâce vient s’y superposer ». 1 Séduction, sortie hors des chemins battus, enchantement : cette Grâce christique dont parle Daniel Arasse ne cesse d’investir l’œuvre de Pasolini qui, par une esthétique épurée et envoûtante, exacerbe le charme de Jésus au point, pour d’aucuns, de donner dans le sacrilège. 2 La Résurrection implique, pour sa part, la contemplation d’une béance imparable, au fond de laquelle l’œil en vient à se perdre : celle du tombeau vide. D’où un vertige absolu et un paradoxe – celui qui consiste à fonder une foi inébranlable sur une absence radicale ; paradoxe que Georges Didi-Huberman a remarquablement mis en évidence dans Ce que nous voyons, Ce qui nous regarde : « C’est lorsque le disciple arrive devant le tombeau, constate la pierre déplacée et regarde à l’intérieur… « Il vit, et il crut » (et vidit, et credidit), note lapidairement saint Jean : il a cru parce qu’il a vu […] Mais […] qu’est-ce qu’il a vu ? Rien, justement. Et c’est ce rien – ou ce trois fois rien : quelques linges blancs dans la pénombre d’une cavité de pierre –, c’est ce vide de corps qui aura enclenché pour toujours toute la dialectique de la croyance. Une apparition de rien, une apparition minimale : quelques indices d’une disparition. Rien à voir, pour croire en tout ». 3 De l’Annonciation, sur laquelle il s’ouvre (2’51-6’17), à la Résurrection, qui en signe la fin (2’08’43-2’10’52), L’Évangile selon saint Matthieu, s’efforce donc de mettre en image des mystères peu spectaculaires qu’il représente, paradoxalement, à l’aide de moyens audiovisuels supposés engager fortement, voire exciter, le regard et l’audition. Deux questions croisées se posent dès lors : comment Pasolini est-il parvenu à matérialiser, à rendre sensible, à même l’image, une présence venue de l’au-delà ? Ce faisant, quels moyens a-t-il mis en œuvre afin de ne pas faire perdre au fils de Dieu, par son passage devant la caméra, son aura et son éclat ? En résumé, comment représenter le divin à l’écran sans le séculariser, le rendre familier voire vulgaire – à l’instar de ce qu’on fait certains cinéastes que Pasolini éxècre – mais tout au contraire en respectant et révélant son essence ? L’esthétique imaginée par le cinéaste dans cette œuvre filmique semble offrir une réponse originale et convaincante à ce problème ô combien délicat qui préoccupait d’ailleurs fortement Pasolini. Dans un court essai de 1966, Contre la télévision, il s’en prend au film de Li 

































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  Ibidem.   Certains, à l’instar de Michel Cournot, rangent ainsi le film dans ce qu’ils dénomment la catégorie « art pédé ». Plus généralement, la sensualité inhérente aux images choquera plus d’un catholique. Cfr. Hervé Joubert-Laurencin in Pier Paolo Pasolini, Contre la télévision et autres textes sur la politique et la société, trad. de l’italien par Caroline Michel et Hervé Joubert-Laurencin, Paris, Les Solitaires Intempestifs, 2004, pp. 8-9. 3   Georges Didi-Huberman, Ce que nous voyons, Ce qui nous regarde, Paris, Les Éditions de Minuit, 1992, p. 22. 2





le mystère de l ’ incarnation 89 liana Cavani consacré à Saint François d’Assise, reprochant à celle-ci de « ne pas avoir le sens du sacré ». 1 Pasolini pouvait d’autant plus se permettre une telle évaluation critique qu’il avait, dans les années soixante, bien exploré ce terrain avec des films comme L’Évangile selon saint Matthieu, La Ricotta et Uccellacci e uccellini. 2 Il déplore tout ce qu’il dénomme les « éléments petits-bourgeois » 3 de ce long-métrage, à savoir, tout particulièrement, « les visages choisis par Cavani » : Cavani, selon lui, a pris « ses personnages dans son entourage professionnel et familier, il semble qu’elle n’en connaisse pas d’autres. « Les visages » sont tous ceux d’employés, de professionnels du cinéma, d’étudiants embourgeoisés, etc. ». 4 De tels propos témoignent de l’importance du corps et du choix des acteurs pour Pasolini, en particulier pour une fiction dont les personnages présentent un caractère divin. Pour lui, le Saint, comme le Christ, se doit d’être radicalement autre ; il ne faut surtout pas que le spectateur ait le sentiment que le cinéaste lui dise : Saint François « était comme toi, il avait un père petit-bourgeois avec un revenu familial élevé et une petite industrie qui marchait bien, etc. ». 5 Mais avec quelle mise en scène des corps et quels montages plastiques Pasolini parvient-il à obtenir ce caractère sacré et sublime que toute figure de la religion chrétienne doit selon lui revêtir ? Une analyse esthétique de L’Évangile selon saint Matthieu, qui retrace la vie et la mort du Christ, s’avère la plus heuristique et la plus exhaustive qui soit pour éclairer cette question. Tout se passe en effet comme si, avec ce film, le cinéma de Pasolini avait atteint son plus haut degré de sublimation du corps ; Salò ou les 120 journées de Sodome constituant, onze ans plus tard, un terrible retour du refoulé à travers la consommation effrénée des chairs qui y est orchestrée. Afin de mieux comprendre le traitement des corps que Pasolini réserve aux acteurs de son film et en particulier au Christ, il semble judicieux, dans un premier temps, de présenter la purification esthétique à laquelle il se livre pour révéler la figure divine, avant de voir quels dispositifs plastiques il met en place pour préserver, malgré le recours au médium cinématographique, l’aura christique.  

































1. Une paradoxale poétique de l’incarnation par épuration ou la figure divine « Vous aurez beau entendre, vous ne comprendrez pas. Vous aurez beau voir, vous n’apercevrez pas. L’esprit de ce peuple s’est épaissi. Ils ont bouché les oreilles, ils ont fermé les yeux de peur que leurs yeux ne voient et que leurs oreilles n’entendent » (2’04’31-2’04’52) : telles sont les paroles que le Christ pro 



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  Pier Paolo Pasolini, Contre la télévision et autres textes sur la politique et la société, cit., p. 27.   Ivi, voir la note 1 de la page 25. 3 4 5   Ivi, p. 43.   Ivi, p. 25.   Ivi, p. 43. 2

90 jean-baptiste chantoiseau nonce alors que sa mise en croix vient d’avoir lieu, sous le regard désespéré de ses disciples et de Marie (incarnée par la propre mère du réalisateur, Susanna Pasolini), que Pasolini montre au bord de l’évanouissement. Il opère alors un fondu puis laisse l’écran noir pendant une vingtaine de secondes afin de figurer, parallèlement au propos du Christ, l’aveuglement de l’humanité. Oui, l’esprit du peuple « s’est épaissi » : c’est pourquoi l’esthétique pasolinienne redouble de légèreté, de fluidité tout au long d’un film où règne cette poétique « de l’air et des songes » tant célébrée par Bachelard. 1 « La valeur d’une image se mesure à l’étendue de son auréole imaginaire » 2 assure le philosophe : c’est dire la richesse, paradoxale, de cette œuvre où l’immatériel, l’insaisissable, le renoncement heureux aux fausses illusions vibrent au fil de plans qui ne cessent de figurer un lâcher prise permanent. La libération que prône un Christ lui-même pauvre et désinvesti des orgueils futiles du bas monde fait l’objet d’un chant permanent, que les chœurs de la bande sonore font résonner. Certes « l’air n’apporte rien. [...] Mais ne rien donner n’est-il pas le plus grand des dons [ ?] Le grand donateur aux mains vides nous débarrasse des désirs de la main tendue ». 3 De même que le fils de Dieu, délesté de toute propriété, ne donne rien et tout à la fois pour quiconque croit en lui, l’élément aérien, qui n’est a priori d’aucun poids, ne cesse de hanter la plastique de cet Évangile selon saint Matthieu, jouant un rôle d’importance primordiale en harmonie avec les différents morceaux de musique qui reviennent telles des ritournelles. D’un point de vue visuel et sonore, le vent souffle souvent, faisant vibrer les rares brindilles des terres sèches ou le voile noir du Christ. Le cinéaste aime aussi à s’attarder sur la fumée du désert, sur celle des routes ou encore des bâtisses qui s’effondrent au moment où Jésus rend l’âme. Le montage se fait parfois aérien, notamment lors de la séquence de la tentative de séduction du Christ par le diable où l’on passe, comme par magie, d’un lieu à l’autre à l’aide de doux panoramiques agissant comme des vagues. L’idée de circulation fluide se voit redoublée par la présence très marquée des liquides : eau des larmes du Christ ou de ses apôtres ; sueur faisant briller les fronts ; fleuve dans lequel Jésus est baptisé à l’occasion d’une séquence mémorable où un zoom-arrière saisissant laisse découvrir un paysage aquatique débordant de toutes parts ; mer aussi, sur laquelle le fils de Dieu en vient à marcher. Face à l’épaisseur d’une bêtise aveugle, tout se passe comme s’il s’agissait, en permanence, d’apporter de la fluidité, de l’apesanteur : à la Loi de Moïse succède la Grâce Christique ; Grâce que Pasolini parvient à instaurer en construisant, par l’esthétique de l’image, un univers évanescent. Une telle matière, saisie inlassablement par la caméra, n’est pas anodine. Pour Murielle Gagnebin, « la cause matérielle de l’œuvre », son  





































1   Gaston Bachelard, L’air et les songes. Essai sur l’imagination du mouvement (1943), Paris, Librairie José Corti, 1996. 2 3   Ivi, p. 5.   Ivi, p. 175.

le mystère de l ’ incarnation 91 terreau « labile et ramifié », est constitué de « pulsions partielles (orales, anales, scopiques, d’agrippement, de respir etc.) » 1 dont l’observation est toujours la source d’enseignements multiples. Un tel règne de l’oralité est d’autant moins étonnant que la parole – celle du Christ bien évidemment – constitue le cœur même des Évangiles ; surtout celui de saint Matthieu dont la particularité est d’être « centré sur la figure du Christ et sur les devoirs de celui qui choisit d’être son disciple ». 2 Dans l’iconographie chrétienne, l’attribut de l’évangéliste saint Jean est un aigle, celui de saint Luc un bœuf ailé ; saint Marc étant accompagné d’un lion ailé. En revanche, c’est un ange qui accompagne – et qui inspire – saint Matthieu. Pasolini, dans son adaptation de L’Évangile de saint Matthieu, respecte non seulement la lettre mais l’esprit qui anime ce texte, par la Grâce céleste qu’il parvient à instaurer, quasi enfantine. L’enfance est d’ailleurs omniprésente dans ce film, du visage poupin de l’ange Gabriel aux pas du jeune Jésus que surveille de près le bienveillant Joseph, qui le prend avec affection dans ses bras (21’14-21’47), en passant par ces nuées d’enfants pauvres, courant sur un sol sec et poussiéreux, dont la présence rappelle l’amour de Pasolini pour les bambins des faubourgs des grandes cités italiennes. « Il est des heures dans l’enfance où tout enfant est l’être étonnant, l’être qui réalise l’étonnement d’être » : 3 Pasolini sait mettre en lumière cette fraîcheur et cette espérance propres aux commencements de l’existence, comme en témoigne avec force l’image de jeunes courant porter la bonne parole sur laquelle se clôt le film. L’enfance a toute sa place dans cette œuvre humaniste qui constitue un appel à une lutte pour des lendemains meilleurs. Simplicité, innocence, épuration : tel est le triptyque qui a guidé la recherche formelle du cinéaste, qui, notamment, a choisi le noir et blanc afin d’accentuer les contrastes et d’offrir à l’œil des repères simples et tranchés. Il ménage aussi, entre deux envolées musicales, de longues plages de silence. À l’instar d’une gamme chromatique réduite à sa plus simple expression, Pasolini a sélectionné des extraits musicaux très forts mais en nombre limité, afin de rythmer et de ponctuer son film. Leur récurrence, tels des refrains entêtants, vient appuyer la parole christique, qui se doit d’être mémorisée et diffusée par les disciples du seigneur. Une telle économie de moyens s’avère efficace et se trouve, aussi, en parfaite adéquation avec la vie et la parole du Christ ; ce dernier ayant vécu dans la pauvreté et appelé à la plus grande des modesties. Un tel travail se retrouve également dans le traitement réservé au corps. Pasolini privilégie, tout au long du film, des plans qui cadrent au plus proche les visages, dont l’expressivité s’avère exacerbée, comme c’est le cas, dès le tout  

























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  Murielle Gagnebin, Du divan à l’écran, Montages cinématographiques, montages interprétatifs, Paris, puf, 1999, p. 22 et 32. 2   Rosa Giori, Les Saints. Repères iconographiques, Paris, Hazan, 2003, p. 269. 3   Gaston Bachelard, La poétique de la rêverie (1960), Paris, puf, 1989, p. 100.

92 jean-baptiste chantoiseau début du film, avec l’Annonciation. Dans un silence religieux, à peine ponctué par quelques bruits de la nature, le visage de Marie, immense et triste, investit l’écran. Sur ses lèvres, une moue triste révèle son état d’esprit. L’arc en ogive, qui vient redoubler la forme de sa tête entourée d’un voile, figure son emprisonnement. Elle baisse les yeux. Joseph, face à elle, la regarde de manière inflexible avant de quitter le domaine de la maisonnée pour rejoindre un chemin (2’51-4’19). Mais, après la révélation de l’ange à Joseph, le plan suivant laisse à découvrir la face radieuse de Marie, qui se met à sourire tandis que Joseph la regarde, d’un œil pétillant, en signe d’acceptation (6’03-6’17). La parole, ici, n’est pas nécessaire pour comprendre le changement intervenu dans l’esprit de Joseph, plutôt enclin à première vue à répudier Marie, tombée enceinte avant qu’il ne l’épouse. À ce propos, le philosophe et spécialiste de théologie JeanLuc Marion affirme : « Parler n’équivaut pas nécessairement à faire usage de la parole physique et des sons qu’elle émet la parole se joue d’abord dans l’écoute et dans le silence du sens. Ainsi le visage parle-t-il en silence ». 1 Pour lui, le visage apparaît « selon la phénoménalité du phénomène saturé », 2 phénomène qu’il définit par un « excès de l’intuition sur la signification ». 3 En un mot, un phénomène saturé donne à pressentir un « toujours plus à voir », à l’image de l’invu qui, en phénoménologie, s’accroît « à la mesure même de la constitution des phénomènes vus ». 4 Il s’agit donc d’un type de phénomène que l’on ne peut pas saisir pleinement tant sa signification « déborde » de toutes parts et représente une sorte d’appel vers un au-delà. L’intuition, donc le sensible, a pris le dessus sur le raisonnement, l’intellect. Or, le corps du Christ correspond à la quintessence même du phénomène saturé. Il reste à jamais inaccessible, inclassable et n’est que le signe de l’existence d’un autre monde, qui dépasse l’homme. Il est envoyé sur terre à titre de preuve vivante, charnelle de l’existence du royaume des cieux. C’est bien de croyance, et non de science, dont il est question. Afin de préserver cette puissance d’évocation et d’inspiration propre à Jésus, l’artiste doit s’efforcer de le représenter dans son absolue virginité. Telle une toile blanche laissant de la place à l’imagination, le corps du Christ est une source simple et universelle d’inspiration. L’esthétique de Pasolini cherche à rendre cette pureté, cette simplicité et cette richesse sensitive particulières au phénomène saturé, notamment à l’occasion d’une séquence où se succèdent des plans minimalistes et puissants sur le visage du Christ, qui délivre sa parole au beau milieu d’un décor épuré dans un même flux ininterrompu où on le voit de jour, en soirée, de nuit puis à nouveau de jour (40’22-45’24). Au vent, succède un ciel nuageux puis un orage violent dont les flashs irradient le visage du seigneur, démultipliant la fascination qu’il inspire. Cette suite continue de portraits, grâce au fondu enchaîné, constitue une  























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  Jean-luc Marion, De surcroît, Études sur les phénomènes saturés, Paris, puf, 2001, p. 139. 3 4   Ivi, p. 84.   Ivi, p. 143.   Ivi, p. 131.

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le mystère de l ’ incarnation 93 vague gracieuse qui rend la parole christique douce et délicate, à l’image de ses traits subtils. Outre la sacralité, Pasolini met l’accent sur la sensualité du Christ. L’érotisme, paradoxalement peu présent dans sa cinématographie, joue à plein dans ce long-métrage où on l’attendrait peut-être le moins. Comme l’explique Esther Carla de Miro :  

Dans ses films, en effet, malgré le rôle fondamental qu’il assigne à la sexualité, l’érotisme est presque toujours absent pour n’apparaître que dans les rares moments où le corps masculin lui-même est comme « féminisé » par l’œil de la caméra. 1  



Un tel instant, rare et particulier, survient ici : le spectateur, séduit, « boit » les paroles du fils de Dieu. Dans Pasolini l’enragé, film documentaire de Jean-André Fieschi, 2 le cinéaste revient sur son goût pour ce type d’image. Il explique ainsi qu’il ne recourt pas au plan séquence, cher au néo-réalisme italien, et n’aime pas davantage les plans d’ensemble ou de demi-ensemble : le gros plan frontal, synonyme pour lui d’apparition sacrale, a sa préférence. Au beau milieu d’un paysage, ajoute-t-il, l’homme est noyé, l’espoir disparaît ; à l’inverse, le visage plein de vie d’un être filmé de très près, suscite l’espérance et la foi en l’amour. Une telle grille de lecture explique la très forte récurrence des gros plans dans l’adaptation par Pasolini de cet Évangile débordant d’humanité et de compassion. Il a travaillé tel un sculpteur acharné la figure de Jésus, restant concentré sur ce personnage d’exception qu’il n’a de cesse de vouloir modeler tel un artiste édifiant, à titre d’hommage, une statue monumentale inspirée par un jeune des faubourgs, pour reprendre l’exemple qu’il cite. D’ailleurs, dans L’Évangile selon saint Matthieu, Pasolini, au détour de plus d’un plan, métamorphose le Christ en une sculpture en ronde-bosse qu’il aime à montrer sous différents angles. C’est le cas notamment lorsque le Christ, qui vient d’accomplir un miracle, se voit encerclé par la caméra de Pasolini, apparaissant de face (37’55), coupé au niveau du buste (38’03), puis, en contre-plongée, de face à nouveau et de profil (38’06-38’14). La figure christique, de la sorte, n’a de cesse d’être mise en avant, dans sa nudité la plus radicale. Aucune fioriture, aucun expressionnisme ne saurait être toléré. Tout doit se jouer dans la transparence et dans la limpidité. D’où la difficulté très grande, que Pasolini a rencontrée, à trouver un acteur qui, dans son apparaître, soit à même d’incarner le Christ sans avoir à l’interpréter. Le corps christique, en effet, est à lui seul un signe, vibrant, sensible, qui ne ment pas, qui ne joue pas. Dans un film de cette nature, il est tout à fait nécessaire que le « ça 











1

  Ester Carla de miro, L’érotisme selon Pasolini : libération ou mystification, trad. de l’italien par Dominique Noguez, in « Revue d’Esthétique », cit., p. 62. 2   Pasolini l’enragé (1966), documentaire de Jean-André Fieschi (noir et blanc, 65 min.), reproduit dans le coffret Pier Paolo Pasolini. Les années 60, édité chez Carlotta en 2003.  





94 jean-baptiste chantoiseau a-été » de l’acteur soit, de façon naturelle, en totale adéquation avec celui de son rôle, pour reprendre la double dimension identitaire du corps dans le cinéma fictionnel décelée par Roland Barthes. 1 Dès lors, le pouvoir de suggestivité de l’acteur ayant pour mission d’interpréter Jésus à l’écran ne peut qu’être d’une intensité exceptionnelle. Pasolini dut d’ailleurs patienter un long moment avant de trouver une personnalité capable d’incarner Jésus dans toute sa dimension spirituelle. Ce désir de trouver un acteur qui puisse être naturellement le Christ sans avoir à le jouer confirme l’amour de Pasolini pour la réalité. Dans L’expérience hérétique. Langue et cinéma, il estime que le septième art « représente la réalité à travers la réalité » 2 et va jusqu’à affirmer : « je fais du cinéma pour vivre selon ma philosophie, c’est-à-dire l’envie de vivre physiquement toujours au niveau de la réalité, sans l’interruption magico-symbolique du système de signes linguistique ». 3 Toutefois, cet amour inconditionnel pour le réel ne risque-t-il pas d’accoucher d’un Christ « trop proche » d’un simple humain et de trahir son essence hors norme ? Le naturel ne risque-t-il pas de tuer le divin ? Or, s’il vénère le réel, le vivant, Pasolini ne déteste pas moins le naturalisme et distingue « le cinéma » – qui dans l’absolu renvoie pour lui à un long plan-séquence ininterrompu de la vie – « des films » qui le constituent concrètement et à l’intérieur desquels un travail « synthétique » et artistique s’opère, notamment, comme il le souligne, « par l’intervention du montage ». 4 De fait, Pasolini met en place un ensemble de stratégies plastiques, de processus de figuration qui permettent de sauvegarder l’aura propre au divin.  



































2. Quand cinéma rime avec « aura » (Walter Benjamin). Montages plastiques et figurations christiques  



Le risque du ridicule, en voulant représenter le divin à l’écran, s’avère particulièrement élevé. On connaît à ce sujet les vives flèches lancées par le cinéaste contre le Saint François de Liliana Cavani, jugé trop vulgaire. Du point de vue non plus du contenu des représentations mais du statut même des créations artistiques, Walter Benjamin dès 1935, dans « L’œuvre d’art à l’ère de sa reproductibilité technique », 5 décrit la perte d’« aura » que connaissent, selon lui, les représentations picturales à l’époque contemporaine. L’apparition de  







1   Roland Barthes, La Chambre claire (1980) in Œuvres complètes v, Livres, textes, entretiens, 19771980, nouvelle édition revue, corrigée et présentée par Éric Marty, Paris, Éditions du Seuil, 2002, p. 853. 2   Pier Paolo Pasolini, L’expérience hérétique. Langue et cinéma, préface de Maria-Antonietta Macciocchi, trad. de l’italien par Anna Rocchi Pullberg, Paris, Payot, 1976, p. 199. 3 4   Ivi, p. 207.   Ivi, p. 202. 5   Walter Benjamin, L’Œuvre d’art à l’époque de sa reproductibilité technique (1935 et 1939) in Œuvres iii , trad. de Maurice de Gandillac, Rainer Rochlitz et Pierre Rusch, Paris, Gallimard, 2000, version de 1935 : pp. 67-113, version de 1939 : pp. 269-316.  



le mystère de l ’ incarnation 95 nouveaux procédés techniques, en permettant, de façon massive, la reproduction et la circulation des images – donc également des icônes – aurait amené un affaiblissement, voire une disparition de l’« aura » de ces dernières. Pire, ces nouvelles images, celles de la photographie puis du cinématographe, seraient dépourvues d’« aura », cette « singulière trame d’espace et de temps » propre, notamment, aux peintures qui, selon lui, mettent le spectateur face à l’« unique apparition d’un lointain, si proche soit-il ». 1 Or, le Christ, par définition, incarne l’apparition d’un « lointain », même si la caméra, comme on l’a déjà bien vu, le montre de très près. Comment remédier à un tel problème et préserver, même au cinéma, ce sacré auquel tient tant Pasolini, qui parle du « fol et sublime caractère aristocratique de la religion » ? 2 Avec L’Évangile selon saint Matthieu, Pasolini souhaite retracer la vie du fils du Dieu non pas à travers son regard à lui – qui n’adhérait pas à la religion chrétienne – mais avec les « yeux d’un simple croyant du peuple italien » pour reprendre ses termes. D’où, selon lui, un « mélange dans la structure idéale de l’œuvre ». 3 Une telle dichotomie entre l’auteur et sa narration – qui n’existait pas pour un film comme Accattone – entraîne une dialectique esthétique ; une tension entre fiction sacrale – à l’occasion des gros plans et des plans fixes qui ne cessent de hanter le film – et les mouvements qui l’animent, l’irriguent voire le déstabilisent. En effet, après bien des hésitations, le cinéaste, qui peinait en début du tournage, choisit, après avoir tenté de recourir à des recettes passées, d’introduire, au cœur d’un découpage classique par bien des aspects, une esthétique du vertige permanent. Il utilise pour cela de façon récurrente et très marquée, sans chercher à le dissimuler, le zoom. Comme le remarque, non sans ironie, Michel Chion, le zoom a mauvaise presse : il reste « un procédé visuel toujours cloué au pilori, aussi bien dans les manuels que dans l’enseignement » et semble « considéré comme un truc pour vidéastes amateurs un peu demeurés, ou une facilité pour film d’action de troisième zone ». 4 Le zoom ne cesse, quoi qu’il en soit, de hanter L’Évangile selon saint Matthieu. On pourrait multiplier les exemples à l’envi, tant ils sont légion : au retour de Joseph auprès de Marie, après la révélation de l’Ange, un zoom saisissant, accompagné d’un sursaut musical, nous rapproche de la demeure de la Vierge ; ce même procédé – zoom et musique – clôt également le film au moment où la pierre qui protégeait le tombeau glisse miraculeusement pour révéler un intérieur vide, le regard étant happé vers le linceul déserté, signe de la résurrection du Christ (2’08’43-2’10’52) ; la séquence du baptême du Christ par Jean-Baptiste s’ouvre sur un zoom saisissant(22’00) ; l’apparition du fils  





















































1

2   Ivi, p. 75.   Pier Paolo Pasolini, Contre la télévision, cit., p. 45.   Pasolini l’enragé (1966), documentaire cit. (cfr. note 2, p. 93). 4   Michel Chion, Technique et création au cinéma. Le livre des images et des sons, Paris, esec Éditions, 2002, p. 37. 3

96 jean-baptiste chantoiseau de Dieu, puis l’état de grâce qu’il connaît après avoir reçu le sacrement, sont ponctués de zooms avant et arrière ; le cinéaste se permettant toutes les audaces en la matière (25’16-27’22). De même, la stupeur des disciples devant Jésus marchant au beau milieu des eaux, comme sorti de nulle part, est matérialisée par des zooms très expressifs (52’00). L’usage du procédé est maintenu même dans le cas où il entraîne un brouillage de l’image, ce qui arrive, par exemple, lorsque le Christ avance vers la caméra tandis que l’objectif de celle-ci, pour sa part, vient également à sa rencontre à l’aide du zoom (1’31’40). Une tension, dès lors, anime le film dans son ensemble. Ces oscillations de zooms avant et arrière permettent de figurer le ‘vertige’ que provoque, pour l’œil humain, l’apparition soudaine du divin, qui demeure d’une essence radicalement autre. Le Christ, même s’il est proche de ses disciples comme du spectateur, doit, en un sens, sembler ‘lointain’, comme relevant d’un autre monde. Ce jeu avec le regard est d’ailleurs clairement exhibé par Pasolini dans une séquence située vers la fin du film (1’57’46-1’59’01), qui inspirera la fin de Salò ou les 120 journées de Sodome. Jésus, arrêté, subit un procès sommaire devant Pilate, qui fait appel à la vindicte populaire. L’un de ses jeunes disciples, Jean, dans la foule, voudrait mieux le voir… Mais il ne peut rien faire face à la distance qui le sépare de son maître. Des plans, en caméra subjective, mettent le spectateur à la place même qu’occupe ce jeune homme privé de la contemplation du corps du Christ. Il essaye désespérément de voir celui-ci, au-dessus des têtes ; mouvement rendu par un porté de caméra entretenant la frustration. La pleine possibilité d’admirer le Christ ne sera de nouveau réellement possible qu’après la Résurrection, dans le dernier plan qui conclut le long-métrage. Le cinéaste propose aussi, entre ces images où le Christ échappe à la vue, de très gros plans sur les yeux bleus du jeune apôtre, très récurrents et rapprochés dans le temps (1’58’16 ;1’58’33 ; 1’58’38 ; 1’59’35 ; 1’59’44). Ces images figurant un regard ardent servent à démontrer combien c’est le désir de s’approcher au plus près du Christ, de le contempler et de le toucher qui donne au film son mouvement, son souffle. Une telle impulsion n’est-elle pas entretenue, dès le début de la séquence, par le dispositif plastique qui invite celui qui regarde le film à s’identifier avec le jeune apôtre ? Cette mise en abyme prouve combien Pasolini a voulu recréer, par le montage et la composition de l’image, cette fascination pour le divin propre à l’art chrétien depuis ses origines et dont il tente de se faire, avec les moyens propres à son art, le digne héritier. Pasolini amène de la sorte le spectateur à ressentir une faim exacerbée pour le corps christique, à le dévorer, à le « fruiter », du regard ; terme, comme le rappelle Murielle Gagnebin,  



















utilisé par les esthéticiens français d’après un usage italien. Se sentir ‘fruitant’ une œuvre, c’est y ‘mordre’ comme on savoure un fruit bien mûr. Le ‘fruiteur’ d’une œuvre

le mystère de l ’ incarnation

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‘reçoit’ le tableau telle la pulpe d’un fruit juteux et se confond avec lui, le temps de la gourmandise.1

L’époque du « Prenez et mangez, ceci est votre corps », 2 que Frank Vande Veire identifie avec Salò ou les 120 jours de Sodome (1973) n’est pas encore advenue : le désir épanouissant d’autrui, tout comme le caractère sacré de la chair, sont encore intacts dans ce long-métrage de 1964. La mise en regard des deux films est particulièrement heuristique pour comprendre l’évolution du rapport au corps dans la cinématographie de Pasolini. De même, une analyse comparée de La Ricotta et de L’Évangile selon saint Matthieu aide à mettre à nu les différents processus artistiques… et digestifs à l’œuvre ! Dans le moyen-métrage La Ricotta (1963, 35 min), le cinéaste s’amuse à reproduire, à l’aide de figurants en nombre, deux peintures de la Passion, l’une de Pontormo et l’autre du Rosso Fiorentino. Entre ces scènes aux couleurs exacerbées, baignant dans une atmosphère grivoise, Pasolini dévoile au spectateur le tournage de ces tableaux-vivants dans des séquences en noir et blanc qui montrent les acteurs et l’équipe technique s’affairer sous le regard d’un réalisateur omnipotent incarné par Orson Welles. La fiction s’intéresse plus particulièrement au destin d’un personnage, Stracci (littéralement « haillons »), un crève-la-faim qui interprète l’un des martyrs devant mourir sur la croix. Après avoir laissé son panier-repas aux siens, il parviendra, après quelques péripéties, à avaler en vitesse de la nourriture avant de retourner sur le plateau… où il meurt d’indigestion, sous l’œil de la caméra, alors même qu’il est sur la croix.  











Que celui qui devrait mourir de faim pour faire un bon martyr périsse de s’être gavé veut peut-être signifier que Stracci, comme Pasolini lui-même, et son œuvre, ne sont jamais entrés dans l’ordre du sacrifice et de la martyrologie chrétienne. Ils seraient néanmoins restés absolument exposés à la mort sociale réelle, autrement dit sacrés au sens le plus originel. En quoi Pasolini fut le plus politique des catholiques romains, et le moins catholique des politiques italiens, et Stracci cloué-décloué la plus belle figuration moderne de l’homo sacer et le plus sacré des autoportraits de Pasolini 3

affirme Hervé Joubert-Laurencin. De même son Évangile, par bien des aspects, fait rimer politique et catholique par une pirouette esthétique pour le moins hérétique. À l’inverse de La Ricotta, il filme « un Évangile non-maniériste en noir et  

1

  Murielle Gagnebin, L’œuvre, maître du spectateur : sombres équivoques in Les Images honteuses, sous la dir. de Murielle Gagnebin et de Julien Milly, Seyssel, Champ Vallon, 2006, p. 283 (collection « L’Or d’Atalante »). 2   Frank Vande Veire, Prenez et mangez, ceci est votre corps. Salò ou les 120 jours de Sodome, trad. du néerlandais par Daniel Cunin, Bruxelles, La lettre volée, 2007 (collection « Essais »). 3   Hervé Joubert-laurencin, Le sacré et le manger dans La Ricotta (1997), in Idem, Le dernier poète expressionniste. Écrits sur Pasolini, Paris, Les Solitaires Intempestifs, 2005, pp. 141-142.  









98 jean-baptiste chantoiseau 1 blanc » : après le festin de Stracci, l’heure est au jeûne du Christ qui offre son sang et sa chair dont il est déjà en partie libéré comme le signifient les images épurées de Pasolini. Stracci, pour sa part, se repaît jusqu’à imploser sur place : en parfaite harmonie avec l’action, les couleurs de cette Ricotta (précisément la « re-cuite ») s’avèrent criardes, sanglantes. De tels choix esthétiques, pour un film comme pour l’autre, ne sont nullement les fruits du hasard : « La circulation de la peinture à la nourriture et, plus généralement, d’un type de corps à l’autre, est reprise par tout le processus du film » 2 note ce même critique à propos de La Ricotta. Suivant une même logique, qui aboutit à une esthétique inversée, L’Évangile offre des images allégées, qui élèvent l’imagination de chacun. Selon Pasolini, Roberto Longhi, qui fut son maître en histoire de l’art à l’université, aurait déclaré à la sortie du film : « Le Christ, à sa première sortie, ressemblait à un peintre qui, pour la première fois dans l’histoire de la peinture, va peindre au plein air ». 3 Ce peintre « au plein air », n’est-ce pas aussi Pasolini qui, à l’aide d’une caméra prise dans les aléas d’une joyeuse légèreté, montre choses et paysages en toute simplicité, à leur juste place. S’il est vrai que Stracci est « l’autoportrait le plus sacré de Pasolini », 4 le Christ en est assurément un autre, celui d’un Pasolini en cinéaste heureux de montrer les réalités de ce monde tout en appelant au changement et à la révolution.  





























3. Une esthétique de la donation libérant l’imagination Le film retrace l’histoire d’une Incarnation et d’une donation, celle du fils du Dieu, venu sur terre pour être la preuve vivante de l’existence d’un au-delà. Cette apparition d’un ‘lointain’ en la personne d’un être ‘proche’ des hommes, le Christ, s’avère troublante et même insupportable ; d’où la mort de celui qui affirmait être envoyé par Dieu et avoir une chair divine. Pourtant cette donation, qui a suscité peur et incrédulité, a aussi constitué une source intarissable d’inspiration pour les artistes tout au long des siècles. En cela, les propos du Seigneur sur lesquels le film s’achève – « Voici que je suis avec vous jusqu’à la fin des siècles » – ont un caractère authentiquement prophétique. Pasolini, avec L’Évangile selon saint Matthieu, est parvenu à mettre en scène ce corps divin avec une authenticité radicale : tout se passe comme si, à la donation corporelle opérée par le Christ, répondait une donation artistique en parfaite osmose avec le sujet traité. Tant par l’esthétique que par le scénario, Pasolini a opté pour la générosité et la largesse ; 5 d’où une œuvre à l’humanisme puissant et enivrant.  









1

  Ivi, p. 161 (in Portrait sans femme ni chien. Notes sur les images de Pasolini, 2000).   Ivi, p. 139 (in Le sacré et le manger dans La Ricotta, cit.). 3   Ivi, p. 180 [in Fulgurations figuratives (La présence brève des arts dans les écrits de Pasolini pour le cinéma et le théâtre), 2002]. 4   Ivi, p. 142 (in Le sacré et le manger dans La Ricotta, cit.). 5   Jean Starobinski, Largesse, Paris, Gallimard, 2007. 2

le mystère de l ’ incarnation 99 Le cinéaste a comme libéré la figure christique, qui irradie tout au long de son œuvre, dans le moindre plan. Georges Didi-Huberman assure de « l’homme de croyance » qu’il « préfère vider les tombeaux de leurs chairs pourrissantes, désespérément informes, pour les remplir d’images corporelles sublimes, épurées, faites pour conforter et informer – c’est-à-dire fixer – nos mémoires, nos craintes et nos désirs ». 1 Pasolini se serait ainsi révélé ‘croyant’, à sa façon : après L’Évangile selon saint Matthieu, difficile, en effet, de ne pas être convaincu de la divinité du corps, à jamais paré d’une pléiade d’images enchanteresses 2 propres à nourrir l’imaginaire et les rêves des pauvres mortels.  







1

  Georges Didi-Huberman, op. cit., p. 25.   Jean Starobinski, Les Enchanteresses, Paris, Seuil, 2005.

2



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LES YEUX TARTARES DE JOCASTE, LES YEUX BARBARES DE LUCIA : LA FONCTION ARCHETYPALE DE SILVANA MANGANO DANS EDIPO RE ET TEOREMA  

Magali Vogin

À

p artir d’Edipo re, Pasolini commence à s’intéresser de plus près aux acteurs professionnels, pour interpréter les personnages qu’il met en scène dans ses films. Certes, Anna Magnani est déjà une actrice de renom lorsqu’elle tourne Mamma Roma, et la présence de Totò aux côtés d’acteurs non-professionnels dans Uccellacci e uccellini peut sembler surprenante, mais avec Edipo re, pour la première fois, les interprètes de métier occupent une place importante à l’écran : il suffit de penser à Silvana Mangano, Alida Valli et Julian Beck. Dans Teorema, le casting n’est pas moins prestigieux, avec la présence de Laura Betti, qui obtient la « Coppa Volpi » pour la meilleure interprétation féminine au xxixème Festival de Venise, de Massimo Girotti, d’Anne Wiazemski, de Silvana Mangano (à nouveau), ainsi que de Terence Stamp. Le choix de ces acteurs à la notoriété internationale coïncide avec la volonté de Pasolini de s’adresser désormais à un public bourgeois, qu’il veut scandaliser. Dans une lettre à Guido Aristarco, publiée dans la revue Cinema nuovo en 1969, l’auteur explique sa volonté de faire un cinéma inconsommable, indigeste, en réaction à la ‘culture de masse’ :  







Come opporsi al cinema come medium della cultura di massa ? Facendo del cinema aristocratico : inconsumabile. [...] Uccellacci e uccellini, Teorema e Porcile hanno voluto essere inconsumabili. I riduttivi feroci mi diranno : “Non è vero, Teorema è stato molto consumato, ha avuto successo. E pare anche Porcile”. Sono stati o vengono consumati, rispondo, per una serie di ragioni contraddittorie. Ma sono almeno ‘indigesti’ o addirittura ‘indigeribili’ : i consumatori li mettono in bocca ma poi li sputano, o passano la notte col mal di pancia. 1  







1

  Pier Paolo Pasolini, La parola orale meravigliosa possibilità del cinema, « Cinema nuovo », xviii, 201, 1969, p. 364. « Comment s’opposer au cinéma comme média de la culture de masse ? En faisant du cinéma aristocratique : inconsommable. [...] Uccellacci e uccellini, Teorema et Porcile ont voulu être inconsommables. Les féroces bornés me diront : “Ce n’est pas vrai, Teorema a été très consommé. Et apparemment Porcile aussi.” Je réponds qu’ils ont été ou sont consommés, pour une série de raisons contradictoires. Mais du moins ils sont ‘indigestes’, voire même ‘indigérables’ : les consommateurs les mettent à la bouche mais après ils les crachent, ou passent la nuit avec le mal au ventre. ».  















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magali vogin

Les deux premiers films de la période dite ‘mythique’ du cinéma de Pasolini, à savoir Edipo re et Teorema, illustrent respectivement une problématique sur l’introspection et sur la communication : dans Edipo re, l’auteur décrit les rouages psychanalytiques du complexe œdipien, tandis que Teorema apparaît, aux yeux de la critique, comme un film exemplaire sur la communication, renvoyant aux spectateurs « les mécanismes mêmes de l’émission et de la réception ». 1 Outre le message scandaleux dont l’hôte de la famille bourgeoise se fait le porte-parole, à savoir la puissance sacrée de l’énergie sexuelle, le scandale consiste à utiliser des acteurs de métier en guise d’icone et à ne pas les faire jouer.  





Prenons l’exemple de Silvana Mangano : l’actrice de renommée internationale semble avoir suscité chez Pasolini non pas le désir de la diriger dans un rôle de composition mais, au contraire, celui de faire apparaître à l’écran sa capacité à représenter une image primordiale, un archétype de la femme. L’actrice italienne interprète, dans Edipo re et dans Teorema, trois figures maternelles emblématiques du cinéma de poésie pasolinien : Susanna Pasolini – la propre mère de l’auteur –, Jocaste et Lucia. Les adjectifs qui qualifient son regard, ‘tartares’ et ‘barbares’, respectivement dans le scénario d’Edipo re et dans le roman Teorema, confirment la prédominance de la présence physique de l’actrice, dont la voix n’est perceptible que très rarement. Entre novembre 1966 et avril 1967, quelques mois après la première projection d’Uccellacci e uccellini, Pasolini tourne deux fables poétiques sous forme de courts-métrages, toujours avec Totò et Ninetto Davoli, intitulées La terra vista dalla luna, et Che cosa sono le nuvole ?. Ces deux courts-métrages sont l’occasion pour Pasolini d’expérimenter la couleur, après une première tentative dans les tableaux vivants de La Ricotta, et marquent aussi une étape dans l’utilisation des acteurs, avant le tournage d’Edipo re. Dans La terra vista dalla Luna, Silvana Mangano joue le rôle d’une épouse et mère sourde et muette. Elle s’appelle Assurdina, un prénom qui non seulement met en évidence le handicap symbolique de son inadéquation au monde des acteurs non-professionnels – que Pasolini choisit de diriger pour peupler ses tableaux mythiques du sous-prolétariat romain –, mais un prénom qui fait aussi résonner le mot ‘absurde’, comme pour qualifier le panaché absolument hétérogène d’acteurs qui jouent dans cette fable, et comme pour souligner la présence (absurde) de Silvana Mangano, dans un environnement qui lui est tout à fait étranger. Chez Pasolini, les personnages maternels souffrent également d’une sorte de handicap : Susanna Pasolini, Jocaste et Lucia sont des figures essentiellement immobiles, statiques. C’est le cadrage qui les découpe, le montage qui les anime. Cette communication examinera la dimension iconique de Silvana Mangano afin de mettre en lumière sa valence symbolique.  







1

  Serge Daney, Le désert rose, « Cahiers du cinéma », 212, 1969, pp. 61-62.  



la fonction de silvana mangano dans edipo re et teorema 103 1. Susanna Pasolini En 1967, après avoir écrit quelques textes qui puisent leurs racines dans le théâtre tragique grec (Calderòn, Affabulazione, Pilade, Porcile, Orgia et Bestia da stile), Pasolini met en scène son interprétation originale d’une crise vécue au sein de la société contemporaine, après la retombée des idéologies et des utopies messianiques du second après-guerre et des années cinquante. 1 Œuvre autobiographique par excellence, Edipo re s’inscrit en nette rupture avec Uccellacci e uccellini, non seulement grâce à l’emploi de la couleur, mais aussi parce que l’auteur semble désormais rechercher dans le mythe les réponses qu’il n’a pas trouvées dans le christianisme et l’idéologie marxiste. L’Edipo re pasolinien apparaît comme le fruit d’une introspection, d’une fuite personnelle du monde extérieur, à travers la reconstitution d’un mythe universel et d’une tentative de rechercher ses racines les plus profondes. Il est possible de distinguer quatre parties dans la structure du film. 2 La première partie constitue le prologue, à savoir la petite enfance d’un garçon dans un village de campagne de la basse Lombardie, Sant’Angelo Lodigiano, dont la place avec le monument aux morts évoque Casarsa, le lieu maternel où se trouvent les racines poétiques de Pasolini, dans les années vingt. Ce prologue constitue un épisode autobiographique, dans lequel la présence de sa mère, interprétée par Silvana Mangano, possède toutes les qualités de ce que Maurizio Grande a défini « l’icone cinématographique », 3 à savoir non pas l’image matérielle projetée à l’écran, mais ce qui fait de cette image un signe iconique particulier. Il s’agit d’un substitut du réel à haut potentiel de similarité. Ainsi le statut sémiotique de l’icone cinématographique consiste principalement en la ‘reproduction’ du réel. Pour le spectateur qui connaît la biographie de Pasolini, cela ne fait aucun doute, Silvana Mangano est Susanna Pasolini : mais non pas parce qu’elle lui ressemble. C’est avant tout le cadre dans lequel se déroule le prologue qui induit le spectateur à penser qu’il s’agit d’une séquence autobiographique. Ainsi, le visage de Silvana Mangano, cadré en plan rapproché, lorsqu’elle donne le sein à son enfant dans le pré, ne prétend pas ressembler ‘matériellement’ à la mère de Pasolini. L’analogie suggérée par l’auteur porte surtout sur le décor qui l’entoure et sur l’enfant qu’elle nourrit (Pasolini). Or, dans ses essais sur le cinéma, Maurizio Grande précise que l’icône cinématographique a un double statut sémiotique, c’est-à-dire que c’est à la fois une  





1   Gualtiero De Santi, Mito e tragico in Pasolini, in Il mito greco nell’opera di Pasolini, a cura di Elena Fabbro, Udine, Forum, 2004, p. 13. 2   Hervé Joubert-Laurencin, Pasolini. Portrait du poète en cinéaste, Paris, Cahiers du cinéma, 1995, p. 222. 3   Maurizio Grande, Il cinema in profondità di campo, a cura di Roberto De Gaetano, Roma, Bulzoni, 2003, p. 46.

104 magali vogin reproduction du réel, par similarité, et un signe. L’iconicité se manifeste donc comme un phénomène mixte : c’est un phénomène esthétique, une vision, qui suggère une interprétation, mais aussi un phénomène cognitif-symbolique, soit une traduction, une attribution de sens de la part du spectateur-récepteur. Ici, le visage de Silvana Mangano, bercé un long moment par la caméra, semble plutôt entrer dans la catégorie du phénomène cognitif-symbolique. Pour Charles Sanders Peirce, l’icône est un signe à travers lequel sont reproduites par analogie certaines propriétés ou qualités physico-perceptives de l’objet matériel. Le visage à l’écran offre un véritable texte visuel à interpréter et à traduire :  



Il ritratto di una persona che non abbiamo mai visto diciamo che è convincente e possiamo dire che è un’Icona nella misura in cui, semplicemente sulla base di ciò che vediamo nel ritratto, siamo portati a formarci un’idea precisa della persona che esso rappresenta. Ma, in effetti, non si tratta di una pura Icona, poiché sono influenzato in alto grado dalla conoscenza che esso è un ‘effetto’, attraverso l’artista, prodotto dall’apparenza dell’originale. 1

En quoi consiste l’analogie entre Silvana Mangano et Susanna Pasolini ? Au delà du lieu dans lequel sont immergés les personnages, l’époque, mais aussi la classe sociale, que l’on devine à travers les costumes, rappellent le spectateur à la période d’entre-deux-guerres. Même si la ressemblance physique fait défaut, cela ne fait aucun doute pour le spectateur que Silvana Mangano est Susanna Pasolini. On peut alors se demander si dans ce cas il s’agit véritablement d’un icone. En effet, si l’on tient compte de l’acception selon laquelle l’icone est un signe qui ressemble à ce qu’il désigne, à son référent, il serait inexact de parler de valeur iconique de l’image. En revanche, l’image est aussi un indice, qui fonctionne sur un rapport de contiguïté, et non sur un rapport de similarité : si l’icône est le substitut visuel du réel, l’indice expose le réel. Le doux visage de Silvana Mangano a ici une fonction indicielle, c’est une image qu’il ne faut pas oublier, semble nous dire Pasolini, parce qu’elle se déduit de quelque chose, et prend une valeur symbolique par l’ajout de la musique, insistante, ainsi que par la mise en scène de l’auteur : un cadrage frontal sacralisant, long et fixe, qui scrute le regard de cette jeune mère, dont le portrait apparaît singulièrement pourvu d’une dimension tragique. Silvana Mangano devient alors un symbole, dès lors que la caméra est porteuse d’un sens qui n’est ni causal – nous ne savons alors pas pourquoi l’auteur s’attarde si longuement sur ce visage, si ce  





1

  Charles Sanders Peirce, Semiotica, Torino, Einaudi, 1980, p. 103. « Nous considérons le portrait d’une personne que nous n’avons jamais vue comme ‘convaincant’, et nous pouvons dire que c’est un Icone dans la mesure où, simplement sur la base de ce que nous voyons dans le portrait, nous sommes amenés à nous faire une idée précise de la personne qu’il représente. Mais, en effet, il ne s’agit pas d’un Icone pur, puisque je suis influencé à un haut degré par la conscience que ce portrait est un ‘effet’, à travers l’artiste, produit par son apparence avec l’original ». Traduction par mes soins.  



la fonction de silvana mangano dans edipo re et teorema 105 n’est pour la gravité qui semble s’y dessiner –, ni analogique – puisque Silvana Mangano ne ressemble pas à Susanna Pasolini –, mais un sens qui est issu d’une convention tout à fait arbitraire, à savoir le choix de l’auteur, de placer sa caméra de cette manière plutôt que d’une autre, en utilisant un certain type de lumière plutôt qu’un autre, et ainsi de suite. En fond de plan, l’herbe verte du pré, dans lequel se trouvent la mère et son enfant, signifie, dans la poétique de Pasolini, le sexe, l’énergie universelle, la fertilité de la terre. 1 L’insert du chapeau blanc déposé dans l’herbe, à côté de l’enfant, évoque, malgré l’absence du visage que cet accessoire est censé protéger du soleil, le doux visage de la mère, et surtout, par métaphore, sa lumière. Ainsi, le visage de Silvana Mangano devient un symbole, voire un symbole-mythe, qui s’inscrit dans un discours mythique, celui du destin ‘exemplaire’ d’Œdipe, tout en symbolisant le mythe personnel de l’auteur. 2. La reine Jocaste La deuxième partie – de l’abandon d’Œdipe enfant dans le désert jusqu’à la mort du Sphinx, annoncée par le messager Ange –, ainsi que la troisième partie, qui se déroule depuis l’arrivée d’Œdipe à Thèbes jusqu’au moment où il s’éloigne de cette ville après s’être crevé les yeux, présentent une Grèce archaïque immergée dans un ‘temps perdu’, que Pasolini considère comme un long rêve, sans pour autant donner un éclairage onirique à son film. Le long moment onirique entre les deux parties contemporaines évoque la survie d’une dimension mythique qui coexiste avec le temps historique linéaire. Le film témoigne d’un éloignement décisif de la réalité politique et sociale italienne, mais pour Pasolini, la réalité sociale est porteuse de l’idée du mythe, il ne s’agit donc pas d’un refus de la réalité, mais d’un refus des conventions de la représentation figurative et cinématographique. C’est dans la césure entre les deux parties centrales qu’entre en scène Jocaste, après que le Sphinx a été tué par Œdipe. Elle apparaît filmée en gros plan à deux reprises : grâce à l’effet produit par le cadrage, le spectateur ne peut être que frappé par la blancheur de ses vêtements et de son teint, d’autant plus éclatant que son regard est sombre. Coiffée d’un chapeau blanc, qui évoque par métonymie la figure de la mère dans le prologue, Jocaste apparaît non pas sous la forme d’un corps, ni d’un visage, mais comme la matérialisation d’un regard. Dans le scénario, l’identification entre Susanna Pasolini, dans le prologue, et la reine Jocaste, est évidente à travers la comparaison de leurs descriptions physiques respectives. La mère du prologue est décrite ainsi : « una donna bella come una regina, dagli occhi obliqui e lunghi, tartarici, e pieni di una dolcezza cru 



1



  Hervé Joubert-Laurencin, Pasolini. Portrait du poète en cinéaste, cit., p. 227.

106 magali vogin 1 dele » ; tandis que Jocaste apparaît avec « il suo viso dolce e crudele dall’occhio tartarico ». 2 La prédominance du regard, commune aux deux descriptions, ainsi que la répétition de l’oxymore ‘doux / cruel’, et de l’adjectif ‘tartare’, qui accentue l’oxymore, en faisant résonner le mot ‘barbare’, confirment l’identification entre ces deux personnages. Si, dans le scénario, les deux descriptions semblent se rapporter à un seul et même personnage, dans le film l’identification entre la mère et Jocaste est immédiate car les deux rôles sont interprétés par la même actrice. Dans le film, le regard tartare de Jocaste est mis en valeur par l’absence de sourcils dessinés sur son visage, et son silence, remarquable tout au long du film, domine comme pour permettre au spectateur de ne pas détourner son attention de sa présence physique. Jusqu’à la fin de la troisième partie du film, Œdipe ignore qu’il est coupable de parricide et d’inceste. Lorsqu’il s’adresse aux prêtres devant le palais royal, il cherche à plusieurs reprises le regard noir de Jocaste, en direction de la fenêtre du palais derrière laquelle elle se trouve. Elle y apparaît à plusieurs reprises en gros plan, mais le montage ne permet pas de dire avec certitude si elle voit et entend tout de la discussion qui se tient, mais le laisse cependant supposer. Sa coiffure, identique à celle de Susanna Pasolini dans le prologue, est un signe qui insiste sur l’analogie entre ces deux femmes, et qui implique la conclusion qu’Œdipe n’est qu’une représentation de Pasolini lui-même. Le visage de Jocaste donne à lire au spectateur une expression énigmatique entre le sourire et le plus grand sérieux, de même que lorsque la mère donne le sein dans le prologue : jamais on ne sait, dans tout le film, ce que savent ou ne savent pas Susanna Pasolini et son homologue mythique, Jocaste. Le montage et le cadrage s’obstinent à emprisonner leur regard, qui évoque par métonymie leur visage, constituant ainsi une mise en abyme de leur présence à l’écran. C’est encore vers le haut qu’Œdipe dirige son regard lorsque, dans le jardin, il appuie sa tête sur les genoux de Jocaste, qui lui raconte la prophétie faite jadis à Laïos. Le montage est explicite : Jocaste ne peut être que la mère d’Œdipe, car l’alternance des plans Œdipe filmé en plongée / la mère en contre-plongée correspond au montage du prologue, lorsque le nouveau-né regarde intensément le visage de sa mère. 3 De plus, dans cette séquence, Pasolini utilise la même musique que lorsqu’il filme le doux visage de la mère qui allaite son enfant dans le pré (dans le prologue), à savoir l’Introduction du premier temps du Quartet en do majeur k.465 de Mozart (1785). Ainsi, tandis que Jocaste met Œdipe sur la voie de l’insoutenable vérité, le visage de Susanna Pasolini vient se superposer à celui de Jocaste. Cette musique est réemployée lors de la première apparition  











1   Pier Paolo Pasolini, Edipo Re, in Il Vangelo secondo Matteo. Edipo Re. Medea, Milano, Garzanti, 2006 (« Gli elefanti »), p. 354. « une femme belle comme une reine, aux yeux obliques et longs, tartares, et pleins d’une douceur cruelle ». 2   Ivi, p. 400. « son visage doux et cruel aux yeux tartares ». 3   Hervé Joubert-Laurencin, Pasolini. Portrait du poète en cinéaste, cit., p. 224.  











la fonction de silvana mangano dans edipo re et teorema 107 de Tirésias qui joue de la flûte (dans la deuxième partie), puis dans l’épilogue, lorsqu’Œdipe devenu aveugle retourne sur le pré maternel, accompagné par Ange. L’Introduction du premier temps du Quartet en do majeur k.465 de Mozart est mise en image de manière différente du prologue : au violon se substitue la flûte, dont le son se superpose au thème de la mère. La bande son passe d’un degré externe (son ‘off ’) à un degré interne (son ‘in’) du récit : elle devient porteuse d’instances expressives très fortes et assume ainsi une fonction symbolique. En effet, Tirésias, grâce à sa flûte, révèle à Œdipe son destin incestueux, et présage la future rencontre avec sa mère. La fonction de la musique consiste ici à mettre en lumière les liens intimes et tragiques tissés entre Pasolini et sa mère, entre Œdipe et Jocaste. 1 Le visage de Jocaste apparaît donc comme une image cinématographique à haute valence iconique et symbolique : faisant écho à celui de la mère dans le prologue, son expression et ses caractéristiques reflètent ce que représente le monde antique pour Pasolini. La lumière et le silence émergent comme les caractéristiques principales de ce personnage féminin. Si l’on se réfère à la distinction de Gombrich entre substitut iconique fonctionnel – à savoir le signe iconique, l’image de la connaissance, ce que Gombrich appelle la ‘mappa’ [mappemonde] –, et substitut iconique symbolique – le symbole iconique, reflet des apparences ou ‘specchio’ [miroir] –, la dimension symbolique prévaut dans le personnage de Jocaste. 2 La nature de son image dans le film est essentiellement esthétique. On peut parler dans ce cas de ‘mythe condensé’, car il s’agit d’une image qui expose une histoire personnelle, intime, consolidée en une image exemplaire. 3 Silvana Mangano représente, d’un point de vue iconographique, Jocaste, et d’un point de vue iconologique, la mère de Pasolini. Le symbole du regard de Jocaste, ‘image’ de l’image de Silvana Mangano, devient le signifiant d’une image-discours sur le mythe : ce regard émerge comme un icone cinématographique qui permet la transformation du symbole en mythe. Il s’agit là d’une figure de style typiquement pasolinienne, qui s’inscrit dans son ‘cinéma de poésie’.  







3. Lucia Lucia est la troisième mère interprétée par Silvana Mangano dans l’œuvre cinématographique de Pasolini. L’intérêt de Pasolini pour le cinéma semble être devenu prédominant, dans la mesure où le cinéma constitue un moyen d’expression révolutionnaire :  

1   Pier Paolo Pasolini, Edipo Re, in Il Vangelo secondo Matteo, Edipo Re. Medea, cit., p. 400. Dans le scénario, la première description physique du personnage de Jocaste évoque son caractère énigmatique, souligné dans le film grâce à l’emploi de la musique : « Essa è una rapida apparizione. Il suo viso dolce e crudele dall’occhio tartarico, e il suo seno gonfio e bianco sotto le vesti bianche ». 2   Cfr. Ernest Gombrich, Lo specchio e la mappa : teorie della rappresentazione figurativa, in Mauri3   Ivi, p. 82. zio Grande, Il cinema in profondità di campo, cit., p. 79.  







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magali vogin

Per Pasolini il cinema è la rappresentazione linguistica più rivoluzionaria della realtà perché riesce a rappresentare con la fisicità delle immagini ciò che a livello letterario rischia sempre di apparire didascalico, sociologico e pedante. 1

Comme la poésie, le cinéma est ambigu par nature : il contient en soi un irréductible contraste entre le sens et le son. D’après Paul Valéry, la poésie est une « hésitation prolongée entre le sens et le son ». 2 Chaque mot poétique est un choix inaccompli entre sa valeur phonique et sa valeur sémantique. Par ailleurs, Jakobson voit, dans le renversement des rapports entre contiguïté et similarité, la multiplication démesurée de la polysémie d’un mot poétique. Le phénomène de dilatation sémantique, provoquée par le son, et exacerbée chez les poètes symbolistes, « déroute, déforme et propage le sens vers d’autres chemins ». 3 Au cinéma, la musique détruit le son du mot et le remplace par un autre qui provoque à son tour une dilatation sémantique. L’ambiguïté du langage cinématographique peut s’expliquer par la théorie de la ‘double articulation’ du langage d’André Martinet, adoptée, entre autres, par Umberto Eco, à propos de la sémiotique de l’image. 4 Teorema et Porcile semblent alors faire la synthèse du cinéma muet, créant le mythe de l’image pure, et du cinéma ‘de parole’. L’histoire de Teorema est celle d’une famille appartenant à la riche bourgeoisie milanaise, au sein de laquelle vient séjourner un jeune invité mystérieux. Celui-ci a des rapports sexuels avec tous les membres de la famille : Emilia, la domestique, Pietro (le fils), Odetta (la fille), Lucia et Paolo (le père). Après son départ, chacun des membres de la famille sombre dans une angoissante crise existentielle. Paolo, Lucia, Pietro et Odetta représentent quatre stéréotypes d’une classe bourgeoise blasée et insatisfaite. Seule Emilia vit une expérience mystique réelle : de retour à son village natal, elle se met à accomplir des miracles, jusqu’à l’aube du jour où elle décide d’être enterrée vivante. Le seul témoin de cette scène est une paysanne, interprétée par la mère de l’auteur, Susanna Pasolini. De manière plus évidente que dans Edipo re, Silvana Mangano n’apparaît quasiment jamais filmée intégralement dans Teorema : si le spectateur la voit filmée dans quelques plans moyens dans les rôles de la mère de Pasolini et de Jocaste, en revanche, sous les traits de Lucia, l’actrice est complètement découpée et  















1   Piero Spila, Pier Paolo Pasolini, Roma, Gremese, 1999, p. 11. « Pour Pasolini, le cinéma est la représentation linguistique de la réalité la plus révolutionnaire, car elle réussit à représenter par le caractère physique des images, ce qui sur le plan littéraire risque toujours d’apparaître didascalique, sociologique et pédant ». 2   Pier Paolo Pasolini, La parola orale meravigliosa possibilità del cinema, cit., p. 365. 3   Ivi, p. 366. 4   Gian Piero Brunetta, Entretien avec P. P. Pasolini, « Cahiers du cinéma », 212, 1969, p. 15. « La sémiologie, élargissant l’idée de la langue, s’impose maintenant comme fondement scientifique pour l’étude de la langue du cinéma ».  











la fonction de silvana mangano dans edipo re et teorema 109 recomposée par le cadrage, à la manière de Dionysos dans le théâtre antique, grâce au montage. Dans le roman, Pasolini décrit les yeux barbares de Lucia, qui font écho aux yeux tartares de Jocaste et de la mère de Pasolini. L’auteur ne cache pas la fascination qu’exerce sur lui le mot ‘barbarie’, fascination qu’il décrit de manière provocatrice :  

La parola ‘barbarie’ – lo confesso – è la parola al mondo che amo di più [...]. È semplicemente l’espressione di un rifiuto, dell’angoscia davanti all’autentica decadenza generata dal binomio Ragione – Pragma, divinità bifronte della borghesia. 1

Lucia est une bourgeoise oisive et insatisfaite. Si son visage est épargné de découpage par le cadrage, et ce grâce à l’importance accordée par Pasolini à son regard, son corps apparaît totalement mutilé à l’écran, à l’image de la mutilation psychologique à laquelle elle est en proie. On voit tantôt sa nuque, tantôt ses mains, tantôt ses jambes. Son regard est souligné, en revanche, par l’emploi de nombreuses prises de vue « subjectives indirectes libres » – un procédé théorisé par Pasolini lors du Premier Festival du Nouveau Cinéma à Pesaro 2 – lorsque la caméra parcourt sans interruption les variations d’un paysage, à l’image de la psychologique du personnage qui les contemple. Après le départ de l’hôte, le milieu dans lequel évolue Lucia n’est autre que l’écran sur lequel se projettent son angoisse et sa solitude : « Il ne reste plus que le cadre [...] présence désincarnée qui angoisse et qui assaille ». 3 À l’écran, ce sont ces mêmes sentiments qu’exprime le regard de Lucia. À l’exception de son monologue – dans la séquence correspondant à l’« Appendice à la première partie », qui illustre une séquence de cinéma de parole (de même que les séquences tournées en intérieur dans Porcile) –, Lucia demeure muette. Ce sont le cadrage, la lumière et l’expression de ses yeux qui traduisent ses pensées. Quasiment toujours filmé en gros plan, le visage de Lucia se prête à une analyse sémiotique. La place occupée par son image parmi les segments filmés semble démontrer que le gros plan de Lucia a une fonction de commentaire, créant une tension forte dans le tissu filmique, car il rappelle sans cesse son regard. Le spectateur voit ce qu’elle voit : son regard se porte souvent sur des vêtements, qui ne sont pas portés, comme par exemple, ceux de l’étudiant épars sur le sol, dans la séquence où il joue avec le chien dans le jardin. Pour Lucia, c’est un désir fétichiste que suscite cette vision ; pour le spectateur, ces vêtements revêtent une dimension sacrée. La prise de vue subjective indirecte  

















1

  Idem, Il sogno del Centauro, Roma, Editori Riuniti, 1993, pp. 83-84. « Le mot ‘barbarie’ – je l’avoue – est le mot que j’aime le plus au monde [...]. C’est simplement l’expression d’un refus, de l’angoisse face à l’authentique décadence générée par le binôme Raison / Pragmatisme, la divinité aux deux visages de la bourgeoisie ». 2   En juin 1965, Pasolini a présenté une conférence sur le ‘cinéma de poésie’, en présence d’Umberto Eco, Roland Barthes et Christian Metz. 3   Idem, Théorème, traduction de José Guidi, Paris, Gallimard, 1984 (« Folio »), p. 141.  







110 magali vogin libre sur des vêtements dépourvus de corps est récurrente dans le cinéma de Pasolini : si dans Mamma Roma, c’est dans un plan fixe et court qui a pour fonction de représenter le regard d’Anna Magnani sur les habits d’Ettore, en revanche dans Il Vangelo secondo Matteo c’est le regard panoramique de Judas qui se pose sur les habits de Jésus au petit matin. La distance entre l’image du visage de Silvana Mangano et le spectateur reste intacte jusqu’à ce que fasse irruption la parole dans une scène brève et condensée. L’exposition de son visage devant la caméra s’inscrit dans la durée, contrairement à l’accoutumée. Les contrastes lumineux accentuent les légères grimaces du bas de son visage. Dans la dernière séquence où elle apparaît, Lucia semble même vouloir fuir la caméra pour se cacher derrière son pare-brise. Elle est l’objet de tous les regards, celui du spectateur, ceux des jeunes hommes qu’elle drague en ville, et ses profils sont très souvent suggestifs. Pasolini semble vouloir insinuer au spectateur que Lucia n’est plus capable de regarder en face l’œil de la caméra qui devient progressivement son ennemie. Les arbres que l’on voit se dessiner sur le pare-brise derrière lequel elle est filmée en gros plan évoquent ceux du pré maternel d’Œdipe, mais cette fois le paysage n’est qu’un reflet sur un écran, qui renvoie le personnage à sa fonction iconique symbolique : l’écran du pare-brise, ce pourrait être aussi celui sur lequel est projeté le film, au cinéma. La lumière s’assombrit à mesure que la détresse psychologique de Lucia s’accroît. Le dernier gros plan est totalement à contre-jour, lorsque Lucia entre dans l’église : l’image devient complètement sombre, presque noire, la dernière forme visible à l’écran étant les branches d’un arbre en fond de plan, comme pour rappeler Lucia à sa fonction archétypale, son rôle de mère, dont le destin est, une fois de plus dans l’œuvre cinématographique de l’auteur, tragique. Quelques années plus tard, Pasolini fait ressusciter le visage de Silvana Mangano dans Il Decameron, où l’actrice est sacralisée sous les traits de la Madone, dans une série onirique de plans de plus en plus rapprochés, rêvés par ses deux auteurs, le peintre et le poète.  





LE CORPS FIGURE MéTAPHORIQUE DANS ŒDIPE-ROI Corinne Giordano

Œ

dipe-Roi révèle une écriture spécifique où le corps, matière palpable et sensible, devient une figure métaphorique du langage cinématographique. Dans ce processus de transformation filmique, le corps semble s’imposer comme un palimpseste de la poïétique pasolinienne. La mise en scène d’ŒdipeRoi réalise un voyage symbolique autour et par le corps. Cette esthétique du corporel s’inscrit dans l’approche amorcée par le cinéma des années ’60 et plus particulièrement chez Pasolini. Le corps est en effet au centre du propre questionnement du cinéaste qui en fait une arme, « gettare il proprio corpo nella lotta ». 1 Ainsi, le corps contribue à l’originalité de l’écriture filmique pasolinienne. Plus qu’une célébration dans Œdipe-Roi le cinéaste montre comment il entend le corps, expression sensuelle ou mystique, et au-delà comme un signe. 2 Nous allons voir comment le traitement cinématographique de la représentation du corps met en place des réseaux analogiques et symboliques, et quelle place il occupe dans l’espace filmique.  



1. Le corps dynamique de l’espace filmique 1. 1. Le corps et le verbe Chez Pasolini, le corps, dans le déroulement de la narration, participe à l’organisation et l’évolution de l’espace filmique. 3 Dans cette construction, la relation du corps au verbe, 4 insérée dans le rythme du phrasé, 5 constitue une dynamique de la mise en scène où le corps est au 1

  Formule empruntée à un chant des Noirs américains et citée in Empirismo eretico in sla i.   René Schérer, Pasolini, sensualité et mystique, séminaire février 2006. 3   L’espace filmique désigne l’espace de la narration filmique qui s’articule en champ et contrechamp. C’est un espace en mouvement puisqu’il obéit à des tensions en devenir entre les deux champs visuels. 4   Cette perception cinématographique du corps et du verbal est définie par la conception esthétique pasolinienne du langage corporel. 5   Je donne à la notion de phrasé une acception spécifiquement cinématographique elle résulte d’une combinaison complexe établie à partir du rapport verbe-image. Elle implique à la fois le rythme de parole et de l’image, c’est-à-dire l’art de la prononciation au sein de l’image, mais également du sens produit, la sémantique issue des mots et du choc que ces mots induisent au sein de l’image ; Comique et Humour chez Gérard Oury, in « Revue Humoresques » n°28, novembre 2008, p. 181. 2







112 corinne giordano centre de différentes tensions. Ces dernières dans le récit d’Œdipe-Roi contribuent à la mise en route du Destin. La mise en scène filmique s’appuie sur une dissociation entre ce qui est donné à entendre et ce qui est donné à voir, notamment entre le verbe et le corps. Le recours à la voix off induit un décalage entre ce qui est montré au spectateur et ce que l’on entend. Dans la scène de l’assassinat de Laïus, sa mort est signifiée par un râle en off tandis que le visage d’Œdipe en surexposition s’impose à l’écran. La contreplongée souligne dans ce plan la monstruosité qui s’empare d’Œdipe.

L’ellipse de l’acte meurtrier naît du décalage entre le geste, que l’on devrait voir, et son accomplissement, ce que l’on entend : la mort de Laïus est donnée à entendre, puis elle est révélée au spectateur par un gros plan sur le visage de la victime.  

Dans ce laps de temps, le geste meurtrier d’Œdipe provoque la mort hors champ. La continuité de ce geste est suspendue afin que l’ouïe se substitue au visuel. L’inacceptable prend toute sa dimension tragique de cette confrontation décalée entre la bande-son et l’image : le râle symbolise la mise à mort de la parole. De même, l’accomplissement de l’inceste est donné à entendre dans un murmure « mon amour » tandis que les corps d’Œdipe et Jocaste disparaissent dans le  





le corps dans œdipe-roi 113 lit par un plan en contre-plongée. L’ellipse du corps à corps voile l’acte d’union corporelle interdite. Une nouvelle fois, la rencontre des corps se dérobe au regard du spectateur, signifiant l’impossibilité de la rencontre. Dans la mise en scène d’Œdipe-Roi, le parlé joue un rôle de contrepoint par rapport au visuel. 1 La déclamation du parlé qui agit simultanément et indépendamment se juxtapose à l’image comme un accompagnement sur le donné à voir. L’effroyable révélation qu’Œdipe énonce à Jocaste dans leur lit s’accompagne d’un « tais-toi ! Je ne veux plus entendre ! ». Dans le plan qui suit, Jocaste joint le geste à sa parole en couvrant de sa main les lèvres et le nez d’Œdipe. Le souffle est interdit désormais à ce dernier.  



   

Dans la mesure où la vue n’a pas permis de re-connaître le corps, l’oreille ne peut qu’être dans le déni. L’insertion de la voix off au montage crée un effet de distance entre le corps et le verbe ; dans cette construction le rythme du phrasé qui s’ajuste par la prononciation au corporel au sein de l’image, vient heurter le rythme corporel. L’ajustement de la prononciation à la gestuelle du corps est intéressant dans la scène de l’échange entre Œdipe et Polybe où il permet d’exposer la joute verbale entre les deux hommes. Leur rivalité est ainsi mise à jour. Le verbe exerce ainsi une tension sur le corps et vise à en prendre possession. Le rire prolonge cette expression de la possession, qu’il s’agisse du rire de Jocaste écoutant la révélation de Polybe ou celui d’Œdipe face à Laïus. Il signifie la négation du donné à entendre. L’éclat de rire intervient simultanément à l’énoncé fatal « qu’il est marié avec la femme ayant appartenu à son propre père ».  





1

  Corinne Giordano, La transposition filmique du texte théâtral comme palimpseste de la théâtralité, Lille, anrt, 2005, p. 112.

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corinne giordano

Le corps agit sous son impulsion. Cette construction prend un sens allégorique originel, on peut la rapprocher du Verbe aux origines de la corporéité : au commencement était le verbe. 1 L’idée biblique que le corps, matière palpable est l’œuvre du verbe, « et le verbe s’est fait chair » 2 est ici sous-jacente. D’ailleurs, la scène de la naissance plongée dans le silence renvoie le spectateur à la perception le nouveau-né. Le corps fait son apparition au monde dans le dénuement du verbe.  





Tout au long du film la distribution entre le verbe et le corps place celui-ci au centre de la perception du tragique. La gestuelle corporelle est ainsi mise en exergue que le corps soit statique ou en mouvement. La parole enracinée dans le corps se trouve, en quelque sorte, dans son prolongement. 3 En outre, l’effet de distanciation entre le verbe et le corps est renforcé par la prise du son. Cette technique d’enregistrement du sonore plonge le spectateur dans une perception néoréaliste de l’environnement : on entend les grillons, les crapauds tandis que la caméra dévoile une scène narrative au spectateur. À un plan large des amants qui s’enlacent, succède un plan du pré plongé dans la nuit.  

1

2   St Jn 1.1s, dans Bible de Jérusalem.   St Jn 1.14, ibidem.   Cfr. René Schérer, Pasolini sensualité et mystique, cit.

3

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Le son du crapaud remplit une double fonction en se substituant à un murmure suggéré par la scène précédente, il le couvre. Les corps disparaissent dans l’envahissement sonore de l’écran. Au fondu au noir cinématographique, Pasolini préfère le fondu sonore. Le souffle humain est associé au bruit des bêtes de la nuit ou encore au feu d’artifice. Le cinéaste réalise une réification sonore du corporel. Dans la mise en scène pasolinienne, le son prend souvent possession du corps pour le transformer. Dans une autre séquence, le nouveau-né en gros plan dans le pré, perçoit des voix off féminines où il peut identifier celle de sa mère. L’identification sonore se substitue à la re-connaissance corporelle. Ce montage sonore installe le corps dans un environnement réel où il « fait corps ». De plus, le corps est soumis à sa perception auditive.  



1. 2. Le corps en mouvement Chez Pasolini, le corps en mouvement participe à une vision particulière de la Tragédie. Il se substitue au langage verbal pour exprimer l’inéluctable du Fatum. La mise en scène est un itinéraire du corps d’Œdipe vers le corps des origines, la mère, Jocaste ou la Terre. Cet itinéraire filmique du corps relate la quête de soi : il est en attente de quelque chose : la réalisation du Destin. Le trouble de la vision assure la mise en route de l’Oracle. Cet accomplissement intervient dans un mouvement du corps sur lui-même. Cette rotation place le récit des événements à venir dans une temporalité cyclique : fruit de la mère, Œdipe y retourne.  





116 corinne giordano Une déclaration du cinéaste encore jeune homme éclaire cette séquence : « un continuo turbamento senza immagini e senza parole batte alle mie tempie e mi oscura ». 1 Toutefois, ce corps n’est pas en quête de la connaissance de l’Autre. En effet, le corps d’Œdipe ne va jamais vers les corps même s’ils sont présents autour ou à côté de lui.  





L’errance d’Œdipe ne consiste pas à la rencontre d’autrui mais à une quête qui dépasse le langage humain. Cette mise en marche est écrite dans le corporel qui ne peut se soustraire à l’émoi.

Au centre de la vision du tragique, le corps est l’auteur du geste fatal, l’assassinat de Laïus, mais il est aussi l’auteur de l’inceste par l’acte charnel. Cet accomplissement du tragique est saisi par le traitement du mouvement du corps. Que doit-on entendre par mouvement ? 2 On doit ici distinguer les déplacements du corps au sein du champ des mouvements de la caméra autour et vers le corps. Dans la scène de l’affrontement entre Œdipe et les soldats de Laïus, le corps  

1

  « Un constant malaise sans images et sans paroles qui bat mes tempes et m’aveugle ».   Il s’agit aussi bien du déplacement du corps au sein du champ que les mouvements de la caméra. 2





le corps dans œdipe-roi 117 d’Œdipe s’inscrit dans le prolongement de la terre nue et aride. Il semble en émerger comme une protubérance dans un espace d’aridité. Ce corps s’impose comme le seul élément de vie dans cette perception de l’aridité. Il devient ainsi une dynamique de l’espace filmique : l’espace se construit autour de lui et par lui. L’espace filmique qui obéit à la course effrénée de ce corps possédé, se dévoile au regard du spectateur en une ligne de fuite.  

Cependant, cette ligne de fuite se suspend à chaque corps à corps entre Œdipe et un soldat de Laïus. À cet instant, le corps d’Œdipe crée une pause qui intervient dans un brouillage spatio-temporel par une surexposition.

La progression du personnage peut s’interrompre lorsque le dernier soldat est abattu ; le point de fuite est atteint. Désormais, la ligne de fuite s’inverse 1 et va conduire Œdipe à l’accomplissement de l’acte fatal : l’assassinat de Laïus.  



1   Cette réversibilité s’inscrit dans une perception cyclique de la temporalité. Le mouvement rotatif du corps est à l’origine de cette réversibilité.

118 corinne giordano La mort de Laïus vient donc interrompre la mobilité du corps. Celui-ci est exposé aux vautours ou encore, il est offert à la Terre. Cette immobilité suspend le mouvement de la vie et marque par ce temps de pause une tache sur le sol de la cité. Le corps devient parole silencieuse d’un mal qui s’impose au regard de la cité. La place du corporel au sein de l’espace filmique obéit, comme pour la relation au verbe, au principe de la possession ; le visage envahit souvent le champ par le recours au gros plan, voire le très gros plan. Le face à face père-fils se traduit par une alternance de très gros plans sur chacun des personnages.  

Lors de l’assassinat de Laïus, ce sont les deux visages en alternance de la victime et de l’assassin qui apparaissent à l’écran. La monstruosité est ainsi suggérée par la possession de l’espace filmique. Dans la scène de l’oracle, Œdipe progressant vers l’oracle, la vision de sa silhouette à contre courant de la foule illustre la marche inéluctable vers le Destin.

Ce déplacement du corps au sein de l’espace filmique est traité par l’ellipse

le corps dans œdipe-roi 119 temporelle. Elle inscrit le corps dans l’écoulement du temps au sein du même espace, par un jeu d’ombre. La solitude induite par les paroles de l’oracle « tu tueras ton père et tu coucheras avec ta mère », s’exprime à l’écran par un trouble de la vision d’Œdipe : la foule lui apparaît comme une masse de corps indistincts, puis dans un second plan, le même espace des fidèles est perçu vide, désertique par le jeune homme.  





La silhouette d’Œdipe progresse dans ce désert. Le plan d’ensemble, écrase le corps par la perspective d’une immensité de sable. L’espace filmique se transforme en un espace métaphorique, l’expression de la Tragédie dont le vecteur est le corps d’Œdipe. D’ailleurs, la foule qui s’écarte à son passage, préfigure le bannissement de l’homme de la communauté, du corps oedipien de la communauté des corps. 1 Parce que le corps est un vecteur de l’espace filmique, le traitement du mouvement soulève la question de la structure narrative. Il apparaît que le mouvement corporel détermine le déroulement du récit ou plus exactement le corps pasolinien devient le lieu de l’itinéraire narratif. Cet itinéraire narratif est créateur du mythe et assure sa transmission. Son enchâssement s’ouvrant sur un récit moderne situé dans l’Italie fasciste et enchaînant sur les origines de la tragédie, traduit cette mise en marche du corps : le mouvement allégorique du châtiment, du fatum dont il porte la trace – les pieds gonflés, d’où le nom Œdipe – dépasse la simple corporéité. L’insert en gros plan du geste d’agression sur l’enfant par le père enchaîne sur la scène du bannissement ou condamnation d’un bébé transporté en sacrifice2 sur des monts désertiques.  

1

  Cette mise en scène pasolinienne est une symbolique de la figure christique.   La scène n’est pas sans rappeler le sacrifice d’Isaac par Abraham.

2

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Le corps condamné, banni et nié constitue le fil conducteur de la trame du récit pasolinien. La corporéité porte en elle les marques du tragique : des pieds gonflés jusqu’à l’aveuglement. Le corps est porteur de sens.  

2. Les figures métaphoriques du corps ou des corps Œdipe-Roi donne à l’emploi du corps une fonction poïétique : il est créateur d’un sens caché que le spectateur doit saisir. En quoi le corps devient-il une figure cinématographique et exprime-t-il la plastique du corps chez Pasolini ? De quelle manière révèle-t-il une approche picturale de la mise en scène, exprimant les tensions du subconscient ?  





2. 1. Corps et incarnation, l’acteur de cinéma L’acteur est une incarnation du corps du personnage de telle sorte qu’il apparaît comme la clef de ce langage puisqu’il incarne le personnage, « cet être de papier en attente de chair et d’image ». 1 René Schérer explique que le corps pasolinien s’entend soit comme individualité de chair, soit comme composante de l’expression. 2 Cette individualité de chair n’est autre que l’acteur donnant vie à un personnage de papier. Celuici revêt une corporéité en prenant le corps et le visage d’une célébrité ou d’un inconnu. 3 Ils – personnage et acteur – constituent un couple signifiant-signifié qui tend vers une sorte de plénitude. L’acteur lui donne le langage de son corps, de sa physionomie. Ainsi l’acteur peut devenir un obstacle dans la mesure où il emprisonne le personnage dans sa corporéité mais également de toutes les représentations antérieures. L’acteur est une figure c’est-à-dire qu’il est porteur de traits caractéristiques socioculturels. Le non-professionnel est plus façonnable dans les mains du réalisateur.  



1   Philippe Hamon, cité par Jacqueline Nacache in L’acteur de Cinéma, Paris, Nathan, 2003, p. 2   Cfr. René Schérer, Pasolini sensualité et mystique, cit. 86. 3   Pasolini recourt à des acteurs non professionnels.

le corps dans œdipe-roi 121 Le casting d’Œdipe-Roi nous dévoile à travers les choix retenus par le cinéaste toute sa conception de l’esthétique du corps et par conséquent de ses personnages. L’individualité de chair dont nous parle René Schérer est indissociable de l’expression. Le choix d’Anna Magnani vient conforter l’image de la mère éternelle tandis que l’adolescence prend le visage pubère de Franco Citti. L’acteur est fondamental dans la mis en scène pasolinienne. Pasolini met en place un casting sur un équilibre entre professionnels et non professionnels. Ce dernier vierge de toute écriture est sensé plus proche de l’émotion. Il apparaît comme « l’acteur idéal » 1 parce qu’il se contente « d’être là », d’être ce qu’il [est], y compris lorsqu’il endosse un rôle fictif ». 2  









L’expressivité de la plastique de Ninetto Davoli répond à l’attente de Pasolini. 3 Le couple Œdipe-Jocaste construit un équilibre entre le non-acteur et l’acteur ‘vrai’, entre la représentation de la Mère et la figure du jeune homme. Le réalisateur élabore un langage corporel où la beauté affronte l’écran dans une gestuelle dégagée de toute marque théâtrale, et empreinte de néoréalisme. Le lyrisme d’Anna Magnani et la force émotionnelle du regard de Citti s’établissent dans une juste complémentarité dramatique. En effet, Franco Citti est une sorte d’argile dans les mains du réalisateur : son jeu ne porte pas les marques du théâtral mais donne à voir la réalité du ressenti. Pour le cinéaste, le non-professionnel n’est pas un obstacle aux expressions qu’il voudrait faire surgir.  

1

  Jacqueline Nacache, L’acteur de cinéma, cit., p. 13.   Pierre Beylot, L’Esthétique de Pasolini, Lille, anrt, 1991. 3   Ninetto Davoli deviendra son acteur fétiche. 2

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L’acteur qui joue le rôle d’Œdipe ne l’incarne pas. Le personnage d’Œdipe ne prend pas vie seulement par une physionomie, Franco Citti montre l’Œdipe, il ne le conditionne pas en fonction de l’attente du public. Toutefois, l’acteur de cinéma n’est pas un obstacle à l’émergence du personnage. Anna Magnani n’emprisonne pas pour autant la figure de la mère, elle est la figure maternelle. Cette douceur symbolisant la maternité s’identifie également chez la reine de Corinthe, incarnée par Alida Valli.

Il est intéressant de noter le double rôle qu’occupe Franco Citti : le père dans le récit moderne et le fils dans la narration mythologique. Cette double fonction participe au mythe œdipien inscrit dans une temporalité cyclique : Le père est en effet lui-même le fils d’une mère et d’un père. Ainsi cette incarnation de la rivalité n’en est que plus forte. Elle s’illustre par l’insert de la parole silencieuse lors du face à face père-fils dans le récit moderne : « tu es venu au monde pour me prendre ma place, me jeter dans le néant ». Par ailleurs, le vêtement qui est aussi une expression de la corporéité, permet au corps d’assumer des fonctions et des rôles par le déguisement. Tout au long  









le corps dans œdipe-roi 123 de ce récit mythique, Œdipe se transforme pour remplir différentes fonctions : de l’enfant nu, figure de l’innocence, à l’amant de Jocaste, corps incestueux, au Maudit de Thèbes, corps exilé. Le vêtement participe à ces métamorphoses de l’être et révèle ou voile le sens porté par le personnage. Œdipe jeune homme et futur Roi de Corinthe se débarrasse de son vêtement, statut social, pour entrer dans la peau du pèlerin. Après avoir éliminer le Sphinx, Œdipe endossera les oripeaux du Roi de Thèbes.  

Le masque s’inscrit dans cette même approche de la plastique corporelle ou plus exactement, d’une partie de ce corps, le visage. Le masque du sphinx contribue au mystère du personnage, il visualise l’énigme. La corporéité de l’acteur est entièrement dissimulée par le masque, seule sa fonction narrative et au-delà mythologique a une importance : il voile un message dont le Sphinx est porteur. Jocaste porte le masque à la façon antique : il révèle ses états d’âme et en accentue tous les mouvements. Le maquillage outrancier, qui n’est pas sans rappeler celui du théâtre Nô, masque moins les expressions du visage qu’il ne les met en relief.  



Le vêtement remplit une fonction sociale et politique ; il devient un costume puisqu’il contribue à la composition du personnage : le costume n’a pas pour seul but de revêtir un corps, il lui donne une identité socioculturelle et politique. Le roi de Corinthe porte un costume, un ornement socioculturel et politique. 1  



1   Pasolini a choisi l’identité vestimentaire berbère et nord africaine pour placer ses protagonistes dans une continuité originelle.

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Il ôte ce costume pour devenir père. Dès lors l’humanité du corps réapparaît. L’enfant n’est plus effrayé.

La référence socio-politique du vêtement éloigne l’individu de ses semblables. On peut observer le même phénomène avec Œdipe portant les attributs vestimentaires de sa fonction de Roi. 2. 2. Les représentations du corps Les représentations du corps sont multiples et variées dans l’œuvre pasolinienne. 1 Elles manifestent les « intensités » de désirs accumulés par le corps. Chacune d’elles traduit tout le potentiel émotionnel que Pasolini saisit dans la trame diégétique et elles participent à l’esthétique du corps. Pasolini met ainsi en place une poïétique de la représentation du corps comme figure métaphorique. La perception du corps que nous offre Pasolini abolit l’unité corporelle afin de  



1   Nous avons pu apercevoir certaines d’entres elles à travers la question de l’incarnation du corps.

le corps dans œdipe-roi 125 révéler un individu partagé entre le moi conscient et l’instance de l’inconscient ; celle-ci est dirigée par le destin. Le corps est relativement peu montré dans son intégralité mais il apparaît la plupart du temps, fragmenté. Perception fragmentaire de l’existence que la conscience cherche à reconstituer. Le trajet spatio-temporel d’Œdipe figure cette quête : le jeune homme se déplace vers ses origines pour accomplir l’inéluctable. La Figure de la Mère terre nourricière est permanente dans l’itinéraire d’Œdipe : de l’enfant au sein de sa mère à la terre désertique.  





Les formes terrestres renvoient à la corporéité féminine. Le plan d’ensemble suggère l’érotisme de ces formes. L’aridité du sol dévoile toute la symbolique de l’abandon maternel, ou l’insensibilité de celle-ci dans l’affrontement père-fils. Elle se montre frivole dans le récit moderne tandis que se met en place la Tragédie. Par des procédés cinématographiques, Pasolini fait de l’image du corps ou des corps un symbole, dégageant une réalité cachée que révèle la figure ou « phore ». Il en résulte une représentation cinématographique disloquée, fragmentée, déformée et défigurée du corps. La mise en scène du corps élabore différents états ou situations. On constate en parallèle de cette mise en scène statique du corps, l’effacement de la parole et l’émergence de la musicalité comme prolongement de la gestuelle. Le corps amoureux devient objet du désir dans la captation de cette corporéité. L’emploi de la caméra subjective permet non seulement de faire découvrir le corps de la femme, mais de l’envelopper, d’en prendre possession.  



126 corinne giordano Le glissement de la caméra suggère toute la sensualité du corps donné au regard, situé hors champ. L’esthétique pasolinienne fait du corps une offrande, une parole silencieuse. Dans Œdipe-Roi, l’image de la souffrance est traitée par une distanciation de la caméra. Les corps malades sont mis en scène. Cependant, la caméra n’hésite pas à montrer la souffrance d’Œdipe.

La souffrance est associée à la violence qui revêt diverses formes, celle du corps sur lui-même : Œdipe choisit de se punir en se crevant les yeux. Du corps entravé à l’étreinte des époux, la violence est latente même dans la gestuelle la plus sensuelle. Cette corporéité de la violence ne peut s’exprimer par le silence, or le corps est un langage silencieux. Dans l’agression de Laïus, subitement le destin s’empare du corps et le transforme. C’est ici une métaphore corporelle violente. C’est dans l’environnement visuel qu’apparaissent des évocations du corps ou des corps à corps. La mort est désacralisée dans la représentation du corps : celui-ci se fond sur la matière environnementale ‘faisant corps’, on trouve ici un retour à la matière. 1  



L’exposition de ces corps ou d’une partie du corps n’est pas sans rappeler l’Art figuratif : il se dégage dans la mise en scène du macabre, un style artistique de la mise en scène où le corps est déformé pour transmettre un message. Ces représentations visent à montrer le caractère impalpable du corps, en le subli 

1

  Cfr. Sg 15 8-11 « Né de la terre, il y retournera ».  



le corps dans œdipe-roi 127 mant. Dans sa nudité, il est maquillé de la terre à laquelle il appartient ; cette couleur est le masque de la mort. Non seulement le corps réalise la boucle du cycle temporel mais aussi l’itinéraire de la re-connaissance de soi. En outre, le cadavre figure le corps du pécheur, né poussière, qui revient à la terre. 1 La redondance du corps comme partie de l’environnement apparaît dans la vision des cadavres qui jonchent le sol de Thèbes et qui se fondent dans la terre : leurs corps sont des miroirs de la couleur terreuse du sol et leur nudité ne frappe plus le regard du spectateur. La vision en plan serré de cadavres accentue l’impression de réification du corps, l’abandon de l’humanité. Le corps devient une métaphore de ce désert qu’est devenue la cité, il est un palimpseste pasolinien.  



La mort exposée

Le vêtement noir du pendu en voilant le corps en exhorte la métaphore mortuaire par la couleur et le dissimulé. La suggestion est d’autant plus forte que l’abolition de la parole accentue le désarroi et le transforme en tragique. Le vêtement prend en charge l’émotion du corps : le dénuement du pèlerin révèle le malaise indicible et sans images qui le pousse à l’errance. Le vêtement assure la prise en charge du corps chez Pasolini jusqu’à lui donner une fonction sociale ou politique : la tenue militaire du père discipline ce corps paternel d’esthète.  



« Le corps, pour Pasolini, est sans doute, une forme, une apparence sensible […] et une belle apparence esthétique ». 2 Dans Œdipe-Roi, Pasolini nous montre comment se produit « simultanément au niveau du corps la plus intime communication et la plus intime incommunicabilité ». 3 Sensualité et corporéité deviennent un enjeu d’écriture dans Œdipe-Roi. L’œuvre filmique fait du corps l’itinéraire spatio-temporel du mythe oedipien en l’inscrivant dans la temporalité cyclique de l’antiquité. Toute la plastique du corps porte l’esthétique pasolinienne : la beauté voile l’interrogation, les désirs et les angoisses de l’intériorité du corps. La dimension sacrale et mystique participe à la palimpsestisation du corps et l’affirme comme figure métaphorique pasolinienne.  









1

  Cfr. Ma 2-63.

2

  René Schérer, op. cit., p. 4.

3

  Ibidem.

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MARIA CALLAS, REGINA NON VISTA. MEDEA E LE OMBRE DELLE COSE FUTURE Giona Tuccini Il sacro è sempre pericoloso, si sa, per chi entra nei suoi recinti senza preparazione. P. P. Pasolini, Preghiera su commissione, marzo 1969

1. A scuola di immortalità

N

ata come rappresentazione del malessere epocale di un intellettuale, la tragedia euripidea rivisitata da Pasolini, con i suoi interrogativi circa la provenienza del ‘male storico’ e il rapporto tra colpa umana e sofferenza, dipende dall’infrazione della primigenia grandezza da parte dell’uomo contemporaneo e dal concetto di responsabilità personale. Rimontando di misfatto in misfatto, di punizione in punizione, di vendetta in vendetta nelle catene fatali del mito, con questa Medea del 1969 – ma proiettata soltanto l’anno successivo – risaliamo un fiume di dolore, le cui sorgenti sgorgano in seno alla società di quasi quarant’anni fa. Già con Edipo Re e gli Appunti per un’Orestiade africana Pasolini si era attestato nella cinematografia italiana come myth-teller ; e questo si spiega perché, negli anni dell’abiura dal ‘ridicolo decennio’ (quello dell’ideologia comunista degli anni 1945-1955), ciò che gli interessa maggiormente è la concretezza e la contemporaneità espositiva del mito. Ritiene che il mito si identifichi con la realtà, che la ragione svuoti il mito e, conseguentemente, distrugga la realtà e annulli la divinità : « Solo chi è mitico è realistico, e solo chi è realistico è mitico » assicura il Centauro, nella Scena 15 del film. 1 Il regista abbandona definitivamente il fertile terreno dell’azione storica, per arretrare nella preistoria dell’uomo. Il dettato mitologico assume in Medea i caratteri del cinema antropologico : Frazer, Lévy-Bruhl e Mircea Eliade svolgono un ruolo ben più importante di quello di Euripide, da cui Pasolini si è limitato a trarre qualche citazione. Eppure, all’uscita del film – e successivamente – non furono pochi i critici rinomati a non comprenderlo ; 2 commentatori che ebbero parole ingrate, talora di una mediocrità allarmante. Gian Maria Guglielmino, ad esem 











1   Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo ; Edipo re ; Medea, introduzione di Morando Morandini, Milano, Garzanti, 1994, p. 545. 2   Cfr. Luigi Torraca, Il vento di Medea, in Pasolini e l’antico. I doni della ragione, a cura di Umberto Todini, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1995, p. 84 ; e Massimo Fusillo, “Niente è più possibile ormai” : Medea secondo Pasolini, in Pasolini e l’antico, cit., p. 95.  







130 giona tuccini pio, scrisse che la Medea pasoliniana era una fregatura, roba da egocentrici e da snob. Con profonda ostilità, il giornalista avrebbe voluto infilare il poeta in uno sgabuzzino e rinchiudercelo a sette mandate :  

Se Pier Paolo Pasolini si fosse limitato a ricostruire, o anche a reinventare a suo modo, per lo schermo, proprio la tragedia di Euripide, tutto sarebbe stato più facile. Ma Pasolini, invece, ha voluto risalire nell’intrico della mitologia sino alle origini del “ciclo” che nei gesti ultimi e terribili di Medea trova il suo fatale suggello. [...] Perché, in questa dilatazione del racconto, in questo risalire con le immagini il fiume tortuoso della mitologia, e quel lungo “antefatto” che nella tragedia di Euripide viene sintetizzato nel “prologo”, da una sola voce, si deve indicare la “difficoltà” obiettiva del film, la sua mancanza sostanziale di chiarezza e quindi la sua presumibilmente scarsa “presa” nei confronti di un pubblico medio ? Perché Pasolini, nel suo racconto, procede in modo talmente ellittico, e talmente disdegnoso di stabilire nessi e rapporti fra i diversi momenti del “mito”, da sembrare dedicare il suo film soltanto agli esperti di letteratura classica e negarlo sicuramente, di conseguenza, alla ragionevole comprensione di chiunque non abbia più o meno stretta confidenza, oltreché con Euripide, con i citati Apollonio Rodio e Valerio Flacco. Il che, mi sembra, è un altezzoso atteggiamento di “aristocrazia intellettuale” che mal si concilia, oltre tutto, con quel sia pur scarso spirito marxista che s’intravede ancora in Pasolini, oltre a una sempre più marcata componente freudiana e soprattutto a una sempre più marcata attenzione nei confronti dello strutturalismo etnico e sociologico alla Levi-Strauss. 1  

Guglielmino non aveva considerato che se uno è intelligente, sottile, elevato e profondo, deve parlare in modo intelligente, sottile, elevato e profondo ; se un intellettuale è raffinato, il suo pensiero deve essere raffinato, perché la superiorità esiste e, se esiste, non è certo per abbassarsi. Nell’arte non c’è compito più significativo dell’esprimere se stessi. Ma nell’esprimersi, l’intellettuale deve pur badare che il suo modo di parlare (e di sentire) sia conforme alla sua effettiva posizione nel mondo. Pasolini ne è consapevole e in margine ad una sua rappresentazione grafica del 1968 – data dedotta dall’uso della matita grassa, dalla piegatura del foglio e da altri indizi formali, sebbene il disegno sia stato ritrovato in una cartellina del 1965 – aggiunge il titolo Il mondo non mi vuole più e non lo sa. Per meglio esprimere le sue intuizioni nel cinema e in letteratura, incurante di quanto faticosa potesse risultare l’opera a cui stava lavorando, non tardò a sottomettere alle sue esigenze teoriche quei padri ispiratori che Guglielmino, nell’esame accomodatizio qui sopra riportato, ha trattato semplicisticamente. Pur essendosi servito di Lévy-Bruhl per ricostruire i rituali arcaici di Medea, il cineasta contestava all’antropologo francese le dottrine sulla mentalità primitiva, in quanto esse attribuivano ai popoli primitivi una forma di pensiero ‘prelogica’, presupponendo, quindi, una superiorità del logos delle civiltà evolute sul ‘prelogismo’ primitivo :  



1   Gian Maria Guglielmino, La “Medea” di Pasolini scende dal mito, « La Nuova Gazzetta del Popolo », a. 123, n. 23, 24 gennaio 1970, p. 7.  



maria callas, regina non vista

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[…] e Lévy-Bruhl fondava il razionalismo delle società… superiori (e lo faceva a ragione) su “tempo, spazio e sostanza”, terna di cui mancano (e avevano dunque ragione… le società inferiori) i due primi dati ! 1  

Pasolini si è trovato ad affrontare un compito straordinariamente difficile, quasi micidiale : combinare due poli dinamitardi – passato e presente, antico e moderno, realtà e leggenda, logos e silentium – in modo da trattare, in forma di cinema, un problema antropologico stringente. Nel fare ciò, aveva intuito che il mito, massicciamente ideologizzato, per quanto ostico e sofisticato, lo liberava da migliaia di deformazioni culturali (quelle adducibili ai falsi eruditi e ai ragionieri della cultura). L’uso della mitologia che il critico de La Gazzetta del Popolo auspicava nella sua esposizione è quantomeno scoraggiante perché, secondo lui, l’artista dovrebbe creare come se fabbricasse, raccontare il mito con la competenza di un bravo scolaro o, al massimo, di un maestrino perbene. Praticamente, dovrebbe parlare di mito su ordinazione, in modo preconfezionato, secondo le richieste di un pubblico medio, consumatore avido. Pasolini l’ha capito e con una lirica del 19 agosto 1969, consegna emblematicamente la sua risposta alla società civile ; il poeta è entrato nella fase finale della sua storia, quella in cui vive ancora, certo, ma ormai solo di cose morte (« Potete gettarmi via come un abito usato ; questo corpo poetico / è destinato ad adorabili topi di biblioteca »). 2 Per molti editorialisti, l’intellettuale friulano è stato un protagonista scomodo, seduttivo, assetato di superiorità, impossibile da domare ma facile da definire ; uno spiritello astruso e sprezzante che avrebbero voluto far cadere sotto la ferula delle loro regole, affinché esegua con docilità ed efficienza le funzioni prescritte dalla cultura di massa. I più rispettati ricercatori della verità e i fautori della sincerità assoluta, fingono di essere più colti di quanto non siano : circa l’affermazione in riguardo all’« atteggiamento di “aristocrazia intellettuale” che mal si concilia, oltre tutto, con quel sia pur scarso spirito marxista che s’intravede ancora in Pasolini », 3 Guglielmino non si era accorto che, negli anni dell’abiura, era la mitologia a garantire il messaggio di un poeta che il marxismo non era più in grado di ispirare ; e questo perché quei residui vitali del mondo rurale e sottoproletario, affrescati nelle Poesie a Casarsa e in Accattone, non esistono più, oscurati come sono dal funesto grigiore della società dei consumi. Ad ogni  



















1   Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo ; Edipo re ; Medea, cit., p. 585 (poesia Callas). Le informazioni generali e i dati sulle civiltà di interesse etnologico e di quelle culture cosiddette ‘superiori’, che furono fornite a Pasolini per il lavoro preparatorio, sono catalogati alle pp. 4-25 della copia della sceneggiatura per la segreteria di produzione, oggi custodita presso il Fondo Pier Paolo 2   Ivi, p. 593 (poesia Puer). Pasolini di Bologna. 3   Gian Maria Guglielmino, La “Medea” di Pasolini scende dal mito, cit., p. 7.  



132 giona tuccini buon conto, la complessità della materia mitologica, da cui Pasolini trae motivi e figure, era già stata da lui penetrata in un discorso in difesa della ‘storicità’ dei film ispirati dal mito. 1 Rappresentare il mito significa, anzitutto, rivendicare la sua attualità. È stato detto tante volte. Esso è attuale perché sopravvive alla processione dei secoli e all’evolversi degli eventi. Nella geografia del mito, passato e presente sprofondano nello stesso abisso e condividono i grandi temi universali, racchiusi nell’umanità classica ; quella di Aristotele che, nella Metaphysica, dichiarava tra l’altro : « Chi ama il mito, ama la conoscenza » (oJ filovmuqo~ filovsofov~ pwv~ ejstin). 2 Come sappiamo, a proposito di Medea, lo scontro tra l’ellenismo razionalizzatore con il patrimonio orientale di valori ‘barbari’ celebrato nel 431 a.C da Euripide, si ricompone nell’opera pasoliniana, in direzione di un conflitto tra il terzo mondo sottoproletario (morente) e la civiltà industriale (nascente), per subire un’accelerazione inedita. Sfondo della vicenda è la Colchide, il paese che Pasolini vide finitimo alla contrada di Dio e, per questo, luogo di ogni estremo, regno per eccellenza della sconfinatezza. Come nelle migliori opere dell’Ottocento, il paesaggio compie un salto di categoria, acquisisce una propria personalità e diventa, a sua volta, personaggio : sono le vallette amene e i poetici appezzamenti descritti nei versi di The e mele, 3 il panorama anatolico, colmo di istinti aurorali, che rapisce presentandosi così teneramente ocra, soavemente rosa, sottratto alla contingenza dello spazio e del tempo (le componenti di quel famigerato cronotopo che Michail Bachtin vedeva dilagare nel romanzo, da Achille Tazio a Gogol’, per ogni dove). Le sue complesse architetture, irregolari e inverosimili come se fossero state appena vomitate dalle viscere della terra, sono un capolavoro della natura che da solo sembra esplicitare le oscure e misteriose norme che la governano ; niente di più diverso dalle radiose geometrie del camposanto pisano che il cineasta utilizza per rappresentare, al contrario, la gelida razionalità che ha, nella città di Corinto, il suo teatro e, in Giasone, il personaggio protagonista. Nell’intervista a Jean Duflot, Il sogno del centauro, è lo stesso Pasolini a ripercorrere sinteticamente i contenuti della sua Medea. Il poeta dello scandalo che, di fronte alla ‘discesa dei barbari’ e del ‘carnefice conservatore’ sembra mostrare segni di afflizione, se non di sconfitta, non si dà per vinto e decide di risalire, più agguerrito che mai, alle sorgive dell’inconscio reperendole, oltre che nell’universo preculturale e tutto rituale che precede i miti arcaici dell’Edipo Re e di Medea, nel mondo onirico di Calderón de la Barca e di Shakespeare (mi riferisco alla pièce teatrale Calderón e al film Che cosa sono le nuvole ? anch’essi realizzati sul limitare degli anni Sessanta). Sì, perché come sappiamo, l’idea principale del film del ’70 era di tradurre in immagini le Visioni di  













1

  Si veda la risposta di Pasolini a Carlo Lizzani, in « Cinema Nuovo », 1970, p. 173.   Aristotele, Met. i 982b 18-19. 3   Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo ; Edipo re ; Medea, cit., p. 582.  



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maria callas, regina non vista 133 1 Medea (questo era il titolo provvisorio della pellicola), che poi erano le risultanze della lacerazione della protagonista di fronte al rapporto irrisolto tra passato e presente, individuo e società ; lo stesso dolore che, pochi anni prima, aveva tragicamente alienato Odetta (in Porcile) e Rosaura (in Calderón). Nell’opera pasoliniana, soprattutto Rosaura e Medea – successivamente sarà Carlo Valletti di Petrolio – sperimentano la vita come assidua trasformazione della realtà in sogno (e viceversa). A tale proposito, noteremo come la rappresentazione del sogno, che ha la funzione di leggere la mente del personaggio nel suo rapporto con la realtà (storica) in cui vive, si esplicita formalmente in virtù di una scansione tutta rituale che era già contenuta nelle battute di Rosaura. Mi spiegherò meglio : in Calderón, nei tre momenti del risveglio della donna, si ripete la stessa struttura, la stessa situazione, lo stesso dialogo tra la risvegliata e la sorella. Espressioni di smarrimento quali « Dio mio, dove sono ? », « Aiuto, aiuto ! Per carità, aiuto, che cosa mi succede, portatemi via di qua, portatemi via... », « ... mi fai paura, sei uno spettro » sono interiezioni ripetute ad ogni ritorno al reale, annunciandolo drammaticamente sia sul piano della situazione che su quello del linguaggio. 2 In Medea, tale evento cruciale, che segna il crinale tra il sogno e la realtà, viene scandito con il verso « o Dio, o Giustizia cara a Dio, o luce del Sole » ripetuto tre volte da Medea stessa, e poi intonato dalle donne come una litania, in una sorta di rito corale. È la scena che dà avvio al sogno della protagonista, introdotto dall’apparizione del sole, antenato della regina. La logica del sogno informa il desiderio del personaggio e lo colloca fuori dal tempo, in uno spazio assoluto, sciolto dai legami contestuali. Il sogno è il sostegno della mente a cui Rosaura e Medea si abbandonano, per sottrarsi al sistema asfissiante della vita reale a cui sono vincolate : quella della borghesia della fine degli anni Sessanta per Rosaura, e quella della sempre più incalzante civiltà industriale per Medea. Ma, se nel primo caso è il sogno ad essere vanificato e la realtà borghese ad essere confermata, la regina colchica preferisce dileguarsi tra le fiamme, ‘piena di un sapere non suo’, lasciando il finale della tragedia pressoché aperto. In tutto questo, Maria Callas sapeva che a Pasolini non interessava tanto il problema dell’eroe e della sua funzione nell’ambito della tragedia greca ; la mitologia andava messa a servizio della rappresentazione dei problemi antropologici contemporanei (il neocapitalismo, la fine della cultura contadina a favore di una di massa, e via dicendo). L’attrice non doveva, quindi, interpretare un racconto e un personaggio mitico, nello specifico contesto storico che l’aveva  



























1

  Per gli approfondimenti del caso, cfr. Roberto Chiesi, Medea e il ritorno del Sole. Dalle pagine di “Visioni della Medea” al film, « Studi Pasoliniani », a. 2008, n. 2, pp. 87-101. 2   Del sogno come malessere esistenziale in Calderón, cfr. Giona Tuccini, Calderón de la Barca e il teatro di parola di Pier Paolo Pasolini, negli Atti del Convegno Lo sguardo sull’altro (Firenze 4-6 aprile 2002), a cura di Maria Grazia Profeti, Firenze, Alinea, 2003, pp. 67-93 ; poi in Idem, Il vespasiano e l’abito da sposa. Fisionomie e compiti della poesia nell’opera di Pier Paolo Pasolini, Pasian di Prato, Campanotto, 2003¹, pp. 177-197.  





134 giona tuccini partorito ed utilizzato, ma era chiamata a tradurre col corpo e con lo sguardo una vicenda che risultasse emblematicamente valida, al fine di rappresentare un conflitto attuale complesso. Da un punto di vista tecnico, notiamo subito come il retaggio mitologico operi nel film Medea (e nei rushes) sul piano del linguaggio non verbale, ossia privilegiando la componente visiva. Lo spazio della parola è ridotto all’osso ; specialmente per tutto il primo tempo della pellicola, dominano i suoni inarticolati (il vento), gli sguardi, le azioni e gli oggetti (compresi, tra questi, i volti e i corpi umani). Non è stato ancora rilevato come il girato, relativamente alle inquadrature del volto della protagonista, viene svolto secondo l’alternanza di almeno due modalità prospettiche, corrispondenti a due tipi di inquadrature distinte : il primo piano di profilo, adottato nei momenti più propriamente ieratici, sovrannaturali, quando la regalità e lo spirito arcaico di Medea si palesano soprattutto nei lineamenti ; e il primo piano frontale, impiegato in quelle porzioni di film strettamente attinenti alla ripresa di una regina rimossa, rassegnata, umanissima, colta nei momenti dello sconforto o del dialogo (vedi la conversazione di Medea con Creonte, il padre di Glauce). Abbiamo ragione di ritenere, dunque, che nel film, per quanto riguarda le riprese di Maria Callas, il primo piano di profilo e quello frontale si alternano tendenzialmente quali ‘occhi prospettici’ atti a ritrarre il côté sacro, intimo ed onirico del personaggio, e della sua dimensione umana, borghese e pubblica. Già con Norma, erano rivissuti nella celebre artista gli elementi naturali, secondo la spiritualità dei Druidi, elementi che tendevano essi stessi a relegare il personaggio nella dimensione del selvaggio. La sapienza pre-culturale di Medea e di Norma, operatrici di riti, è quella che, nel v secolo, aveva l’accezione di intelligenza pratica : 1 « Dà vita al seme, e rinasce il seme » (Medea, sequenza iniziale del sacrificio, Scena 20).  











2. Superba fortezza, amica austera Quando non resta più niente cui attaccarsi, Pasolini può ancora attaccarsi agli amici, come Ninetto Davoli e Maria Callas. Grazie alla loro presenza, a stretto contatto con l’abisso, l’opera del friulano diventa ancora più vitale. Maria è un Ermete asservito alla creazione di un poeta ; lo ha raggiunto in Cappadocia e procede verso la sua arte come verso un lago dove annegare. Come è noto, il 19 ottobre del 1968, Rossellini, produttore di questo film del ’70, andò dalla celebre cantante per offrirle di interpretare il ruolo da protagonista nel progetto di Pasolini. Quando la Callas conobbe il regista friulano, lo ritenne subito un poeta, un uomo ingenuo, vagamente adolescenziale, sincero e perfino indifeso ; non  



1   In merito cfr. Thesaurus Grecæ Linguæ, ab Henrico Stephano constructus, Graz, Akademische Druck Verlagsanstalt, 1954, vol. vii (p-r), col. 521-523 ; 533-535 (rist. anast. dell’ediz. parigina Firmin Didot).  

maria callas, regina non vista 135 uno di quegli intellettuali troppo difficili che « portano via la verità alle cose ». Pasolini aveva lavorato anni e anni con attori di teatro, con attori di cinema, con ballerini e cantanti ; alla fine delle riprese di Medea, confessò che Maria Callas era stata l’elemento più disciplinato che gli fosse mai capitato di trattare ; si era dimostrata un’interprete ricettiva, tenera e amante, una grande artista che non aveva avuto paura di mettersi in discussione, per meglio avvicinarsi alle intuizioni del cineasta. L’attrice, che mai prima di allora aveva prestato la sua arte al cinema, aveva eseguito la propria opera con il suo proverbiale puntiglio, il senso del sacrificio ed una tenacia luterana. Era arrivata sul set come un’interprete celeberrima che, in precedenza, in numerose occasioni, aveva operato ‘magicamente’ (non solo con Norma, il lavoro di Bellini dagli espliciti legami con Medea, ma anche con l’Alceste di Gluck di euripidiana memoria) ed ‘eroicamente’ (soprattutto con Tosca e Andrea Chénier). In una intervista, confluita nel volume della sceneggiatura, afferma la diva : « Credo che la nostra collaborazione abbia portato qualche vantaggio a lui e a me. Con Pasolini parliamo molto, lui ha una maniera molto ingenua di esprimersi, che poi è molto poetica ». Da questa e da altre interviste rilasciate, emerge bene il sentimento di tenerezza e di devozione che la Callas provava per Pier Paolo. Il modello è il legame fraterno, non quello amicale : attrice e regista sono una continuità affettiva, un dispositivo sulla cui influenza fondano e completano la propria arte. L’ammirazione che la cantante aveva per Pasolini ritorna, sul piano privato, anche nelle missive che la Callas gli scrisse in quel periodo ; lettere non d’amore, come qualcuno le ha ritenute calcando un po’ la mano (Renzo Allegri in primis), ma sfiorate dall’ala di un sentimento destinato a scivolare dietro un muro di passioni e irritazioni :  



















Cerca di stare bene [...]. Sai, caro amico, di veri amici pochi ne ho trovati, per non dire nessuno. Tu pensi di sì, ma il tempo ce lo dimostrerà. Ci tengo alla tua verità e sincerità. Siamo assai legati psichicamente, come si dice capiti di rado nella vita. È raro, sai, ed è bello. Però bisogna che duri. E che cosa dura ? 1 Ciò che è certo è che non ci si stufa due minuti insieme, non è vero ? Spero di divertirmi. Mi scriverai tante cose ? [...] Se ho qualcosa di interessante, ti scriverò. Certo, non aspettarti dei capolavori da me. Non sono Pasolini ! 2  







Una prova che questo sentimento fosse ricambiato da Pasolini, in un modo o nell’altro, ci è data dai suoi disegni realizzati in sequenza tra il 1969 e il 1970, con 1

  Da una lettera senza data, scritta su fogli dell’Olympic Airways, durante un volo per New York, custodita presso l’Archivio del Gabinetto Scientifico Letterario G. P. Vieusseux, ora riprodotta nel catalogo della mostra Maria Callas, Une femme, une voix, un mythe, Salle Saint-Jean, Hôtel de Ville de Paris (Association pour la Promotion des Arts), 27 mars-28 juin 1998 (stampato a Gent, Inschoot, 1998, pagine non numerate). 2   Altra lettera senza data, scritta su fogli dell’Olympic Airways, durante un ennesimo volo per New York, contenuta nel catalogo della mostra Maria Callas, Une femme, une voix, un mythe, cit.

136 giona tuccini 1 tecnica mista su carta. Qui la Callas è una creatura spaziosa che si espande sul foglio con la possanza e l’austerità di un albero secolare. Nello scorrere questi disegni, si ha la sensazione di raggiungere fisicamente la cantante post mortem, altresì è come se ripercorressimo le tappe frammentarie del sogno di Medea, quello che determina lo sviluppo della pellicola. Lavorando con Pier Paolo, Maria aveva scoperto in lui un compagno. Come artista, l’attrice stava fino al collo nella materia stessa dell’opera, nel suo gioco e nelle sue combinazioni interne ; come amica non di rado assunse un atteggiamento paternalistico, da sorella coetanea, forse un tantino gelosa e persuasa della fragilità del fratello (quella che confessò di aver notato subito al primo incontro). E Pier Paolo dovette accusarla di essersi attaccata a lui come se fosse stato suo padre, o lei sua madre. Per alcuni aspetti, il rapporto tra i due somigliava già a quello incandescente, chimerico e fatalmente sensuale che da lì a breve avrebbe legato, in Petrolio, il Valletti ai membri della sua famiglia :  



Caro amico, sono infelice che non posso esserti vicina in questi momenti difficili per te, come tu lo sei stato spesso con me. Tu sai bene, in fondo, che sarebbe andata così. Ti ricordi a Grado in macchina, quando si parlava con Ninetto dell’amore e [...] lui diceva che non si sarebbe mai innamorato. Sapevo che era troppo giovane per capire. Ma tu, uomo tanto intelligente, dovevi saperlo. Invece ti sei attaccato, anche tu, ad un sogno che ti eri fatto da solo. È così, anche se so di addolorarti con questa piccola predicaccia. Ciò che devi affrontare è la realtà, ma non puoi perché non vuoi. Ci riuscirai, come ci sono riuscita io che sono una donna con tanta sensibilità. Eppure ho capito che possiamo basarci solo su noi stessi. Sì, ahimé, non prendermi in giro. È triste dirlo, anche e soprattutto per me. Non ci si può fidare degli altri a lungo. È la legge della natura. Dobbiamo trovare la forza dentro di noi, almeno in apparenza. Non ti faccio da madre, caro, e non ti considero mio padre, Pier Paolo [...]. Ma quand’è che crescerai, Pier Paolo ? Non è forse giunta l’ora di essere più maturo, anche se fanciulli lo si è sempre, grazie a Dio ! So che mi odierai per quel che ti scrivo. Ma ti ho sempre detto la verità, e ti chiedo scusa se, invece di coccolarti, ti dico queste stupide parole. Te le avevo già dette e ti chiedo perdono. Sono qui [in Grecia], peccato che non vieni ; chissà perché poi... Gli amici ci sono per i momenti difficili, te l’ho sempre detto. 2  





Questi sono i ragionamenti di una Callas che si firmava ‘La fanciullona’, per insediarsi meglio nel cuore di un amico fraterno che amava apostrofare di essere troppo bambino. Se leggiamo attentamente le sue lettere, oggi, ci rendiamo conto di quanto fosse grave la solitudine della diva che, per tutta la vita era stata un animale sociale, borghese, da palcoscenico come si dice, e ora – lontana 1   Sono le rappresentazioni nn. 160, 161, 169, 170, 173, 174, 175, 176, 177, 180, 182 del catalogo Pier Paolo Pasolini. I disegni 1941/1975, a cura di Giuseppe Zigaina, prefazione di Giulio Carlo Argan, saggio introduttivo di Mario De Micheli e una poesia inedita di Andrea Zanzotto, Milano, Edizioni Scheiwiller, 1978. 2   Lettera datata 21 luglio 1971, nel catalogo della mostra Maria Callas, Une femme, une voix, un mythe, cit. (i corsivi corrispondono alle parole sottolineate nel manoscritto).

maria callas, regina non vista 137 dalle luci della ribalta – avrebbe voluto appartenere, di buon grado, alla specie dei solitari e di certi inquisitori, apparentemente diffidenti e disingannati, che seguono strade tutte loro. Ma quella solitudine, nelle lettere scritte al poeta, assumeva suo malgrado le note dolorose di un flauto spezzato. Il tono non era quello della leggerezza :  

Carissimo P. P. P., ho ricevuto la tua cara lettera qui a New York. Sono venuta via dal mare e da Parigi perché, quest’anno, mi sono ripresa prima del solito e Parigi offre poche possibilità di lavorare con la mia musica che poi, in fondo, è l’unica che non mi tradisce. La pace che pensi che io abbia, ce l’ho davvero. Me la impongo. Ti ho detto, mio carissimo amico, che credo in noi, creature umane. Ed io da sola mi sono comportata come mi spettava di fare nella società, con rispetto. Certo, sono come tu dici, sana, è vero, ma so anche che l’orgoglio mi salva da tante cose. Tu sai che è la strada più dura da percorrere ma, alla lunga, è l’unica. Non mi aspetto nulla da nessuno, magari l’amicizia che è già tanto, ma so anche stare tanto sola, sto bene con me. Rare volte mi tradisco. Dirai ancora che faccio le prediche. No P. P. P., non te le faccio, anzi sono addolorata dal fatto che tu soffra. Dipendevi tanto da Ninetto, e non era giusto. Ninetto ha il diritto di vivere la sua vita. Lascialo stare. Guarda di essere forte. Lo devi essere, come tutti noi che ci siamo già passati, in un modo o nell’altro. So che è un dolore immenso, più delusione che altro forse. Cento parole non valgono a nulla per consolarti, lo so. Avrei voluto che tu avessi sentito il piacere di venire da me a passare quei cinque minuti duri, sì perché sono solo un cinque-dieci minuti di dolore atroce, poi diventa un po’ meno ; ma non hai sentito il bisogno della mia amicizia, e ora sono addolorata per questo. Ma capisco anche la tua reazione. Amico mio, vorrei avere tue notizie. La nostra amicizia merita questo almeno, non credi ? [...] Sfogati con me, come mi sono sfogata con te tante volte. Ti abbraccio forte con tanto affetto, e sono sempre, credimi, la tua migliore amica (presunzione forse). 1  



La pace interiore e l’umana compassione non possono essere che appannaggio di una persona spiritualmente libera ; ma le parole che abbiamo appena lette sono di un’asceta malcontenta e di una realizzatrice nichilista che si cerca accanitamente (« Caro, ti scrivo dalle nuvole che mi sembrano un bel tappeto, così soffice che ci si potrebbe camminare sopra. Ma per dove, mah ! ? » annotava a bordo dell’aereo per New York). In mancanza di meglio, si commenta da sola. Diventa il critico, il glossatore, il giudice e la regista di se stessa, sottraendo agli altri, ma non all’amico Pier Paolo, il potere di decretare sentenze. Spronata dall’istinto di una bestia malata ad uscire dal branco – per vivere per conto proprio – la dedizione di sé ha, nella Callas quasi cinquantenne, la volontà di essere incommensurabile. Rarus natans in gurgite vasto, direbbe di lei Virgilio. Le parole che scrive a Pasolini, perché le confessi i suoi travagli amorosi, sono lo sfogo di un’esistenza e di un destino obbligatoriamente a parte.  



   



1   Ivi, Lettera datata 5 novembre 1971 (i corsivi corrispondono alle parole sottolineate nel manoscritto).

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giona tuccini 3. Idillio contadino e terrore preistorico

Abbiamo detto che Pasolini si è limitato a trarre, dalla Medea di riferimento, soltanto qualche citazione. Ma ad una particolarità dell’eroina non ha proprio potuto rinunciare ; anzi ne ha reso il centro attorno al quale si dipana l’intera tragedia. Si tratta della diversità di Medea, quella arieggiata nel verso di Euripide hv pollav polloi?iv eivmi diavforo~ brotwvn (Certo, in molte cose sono diversa da molti mortali) ; 1 una differenza che è dovuta alla sua origine etnica. È la sua stirpe, infatti, a farne una straniera, una presenza subita dagli altri con fastidio e sospetto, 2 per giunta proveniente da una terra che, come tutte quelle collocate ad Oriente, rientrava per i Greci in uno spazio connotato, nei modi più svariati, quale assurdo ribaltamento del kósmos. 3 Un altro motivo di distinzione della sacerdotessa di Ecate, rispetto agli altri, è la sophía, la sapienza simboleggiata dal Vello d’Oro, genericamente contrapposta all’ignoranza (che, in Pasolini ovviamente, non è quella contadina, ma l’ignoranza culturale e ingenita dei borghesi). Tanto povera e banale è la razionalità di Giasone, quanto lucida e solenne è la follia di Medea. E non ci sorprende affatto che Pasolini abbia ribadito questa diversità inconciliabile, a partire dalla scelta dei due interpreti : il corpo concreto, atletico di Giuseppe Gentile, medaglia di bronzo per il salto triplo alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, contrapposto al profilo ieratico e inafferrabile della cantante più importante del Novecento. Il cineasta riconosce nei tratti sacerdotali e nello scavo psicologico della Callas, la personalità che meglio di tutte era in grado di interpretare i coevi dilemmi umani ; era capace, cioè, di drammatizzare gli eventi della storia sociale di quell’ultimo decennio e i suoi risvolti antropologici. La ‘voce del secolo’ veniva chiamata ad interpretare, con la sola potenza del volto e del corpo, una guardiana dei morti, il tramite fra le generazioni passate e quelle future ; doveva amministrare la morte e la vita – attraverso i rituali solari, lunari e agrari di fertilità, su cui Pasolini si era documentato piuttosto bene, facendosi aiutare da alcuni specialisti – acciocché potesse realizzarsi la legge fondamentale dell’ordine sacro, secondo la quale i vivi sono governati dall’eterno. Una donna nata incantatrice in un tempo remoto, privo di memoria. A lei, regina, tutto è rivelato : conosce il linguaggio degli alberi, degli uccelli, degli animali e delle fiamme. Riesce a vedere oltre la stella più piccola. Nondimeno, alla Callas, spetta dare vita ad un’eroina utilizzata come antimodello ; una Medea che, come un reperto metastorico, residua in un mondo che sta per esaurirsi. Un personaggio sacro catapultato in una realtà irreligiosa che non può contenerla. In proposito, si veda quando l’Argonauta, giunto di nuovo  













1

2   Euripide, Medea, v. 579.   Ivi, vv. 214-224 ; 252-258.   Giulia Piccaluga, La mitizzazione del Vicino Oriente nelle religioni del mondo classico, in Hans Jorg Nissen, Johannes Renger (a cura di), Mesopotamien und seine Nachbarn (xxv Rencontre Assyriologique Internazionale, Berlin 1978), Berlin, Reimer, 1982, vol. ii, pp. 573-612. 3



maria callas, regina non vista 139 a Jolco con il vello, rivendica il trono di Pelia che non mantiene la promessa. Le parole di questo Ulisse ottuso e arrogante sono : « L’impresa che ho fatto mi è servita a capire che il mondo è più grande del tuo regno… e poi, se vuoi che ti dica la verità, questa pelle di caprone, lontana dal suo paese non ha più alcun significato ». 1 Da questo discorso, trapela un’etica meschina, ingenerosa, in cui il cinismo si ammanta di riferimenti al buon senso, ai buoni sentimenti, a certo agnosticismo che oggi non tarderemmo a definire ‘americanesimo’ : pragmaticità benpensante che fa piazza pulita di ogni valore sacrale. Ripieno di orgogliosa sicurezza nelle risorse della tecnica, Giasone è il borghese colonialista per il quale l’esplorazione dell’universo non è più, come accadeva all’Ulisse di Omero, un’avventura nel mistero ebbra e disperata, ma arida volontà di dominio. L’impresa del furto del Vello d’Oro, nella pellicola del ’70, agisce da sinopia tematica, ossia da prodromo di un progetto futuro, l’ultima opera (incompiuta) di Pasolini : la contrapposizione del mondo di Medea e quello di Giasone apre una ferita insanabile, destinata a irrorare di nuovo sangue il dilemma Polis-Tetis, nel corpo dolente di Petrolio. Le ombre delle cose future, annunciate nel titolo di questo intervento, sono quelle presentite dalla ‘barbara proletaria’ ; presagi che, nel romanzo-testamento pasoliniano, acquistano un peso più sicuro sotto forma di ‘nuvole mitiche’, spingendo il protagonista allo sdoppiamento. 2 Di fronte alla pressione del potere, Carlo Valletti si scinde allo stesso modo del Centauro. Subisce « l’epifania del doppione che è in noi (compresente) di ciò che fu (sacro) e ciò che è (sconsacrato) ». Questa epifania, in verità, è assolutamente patologica, perché si esprime attraverso una pluralità di voci (quelle di Polis e di Tetis, di Eros e di Thanatos, di Carmelo e del Merda) che non corrispondono più a opzioni ideologiche stabili e familiari. La compresenza del sacro e dello sconsacrato – lamentata nella citazione qui sopra – porta l’individuo alla follia, perché lo costringe ad accettare l’incoerenza, ovvero la contraddizione che deforma fino alla dissoluzione. Nello sdoppiarsi, Carlo Valletti e il Centauro, dispongono le loro sensazioni su due piani alternativi : uno pubblico, l’altro intimo. Il piano pubblico è quello che Pasolini ha cristallizzato nella figura di Carlo di Polis ed è, potremmo dire, lo stesso della televisione, della radio, della stampa, dell’uomomassa, della scuola e delle riunioni politiche (quello ad extra, insomma) ; il piano privato è quello che nell’Orestiade africana appartiene alle Erinni, il mondo degli istinti, del sub-cosciente, della sessualità polarizzato nella figura di Carlo di Tetis. Nel ’49, questo sdoppiamento, diffuso nella società totalitaria, era stato indicato da George Orwell con il nome di doublethink e interpretava anticipatamente la tragica condizione di vita che il neocapitalismo impone all’individuo contemporaneo. A questo punto sarà anche chiaro come, in Medea, sia possibile  



















1   Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo ; Edipo re ; Medea, cit., p. 549 (Dialoghi, scena 59). 2   Idem, Petrolio, Torino, Einaudi, 1992, p. 16 (Appunto 3°, Prefazione posticipata).  



140 giona tuccini captare un filo di luce che ci permetta di intravedere i contorni dell’ultima fatica di Pasolini. Il mito problematico attuale, raccontato nel film e riproposto nel romanzo, è la contrapposizione tra due mentalità : quella illuministica, laica e mondana di Giasone (e poi, più tardi, del cattolico progressista Carlo di Polis, in Petrolio), e quella religiosa, abituata a riconoscere la sacralità – in ogni manifestazione della natura ed ogni momento dell’esistenza – di Medea (più tardi di Carlo di Tetis). Nel film, l’Argonauta comincia a « razionalizzare e a profanare tutto ciò che aveva dato prima come ontologico e sacro » ; 1 razionalizzazione e demitizzazione continuata, in Petrolio, da Carlo di Polis che, come un nuovo Giasone, compie un viaggio in Oriente alla ricerca del Vello d’oro (il petrolio, la scienza, la ricchezza dell’Eni).2 Nell’ultimo romanzo di Pasolini, si assiste infatti ad una risoluzione del Vello d’oro, con la scomparsa di ogni differenza tra saggezza culturale e ricchezza economica. Ma restiamo al film. La nota cantante, prima di allora, aveva interpretato le vicende della Regina infanticida molte volte ma, ora, con la riscrittura pasoliniana, quello stesso ruolo viene reso irriconoscibile da una massiccia ideologizzazione del personaggio. Dunque, una Medea piuttosto diversa da quella concepita da Euripide e ripresa da Cherubini (che musicò il dramma di François Benoit Hoffmann, contrassegnato dal motivo dell’incendio, già presente nella versione di Seneca). Nel film pasoliniano, la sacerdotessa di Ecate è fondamentalmente madre. L’istinto materno, in lei, preesiste ed è basilare : in Colchide la sua maternità è un sentimento metafisico, sacrale, che fa della maga la dispensatrice della vita naturale, attraverso i sacrifici (« Dà vita al seme e rinasci con il seme ») ; a Corinto, invece, ha giustappunto partorito i figli di Giasone, e la sua maternità si riduce prevalentemente all’aspetto biologico ed emotivo. Senza dubbio, nella maternità di Medea, la Callas doveva ritrovare – per rinsaldarli – i valori mitopoietici, già tutti rituali, celebrati dal Pasolini friulano ; quello che in Poesie a Casarsa, cantava :  



















Sera imbarlumida, tal fossàl a cres l’aga, na fèmina plena a ciamina pal ciamp. Jo ti recuardi, Narcìs, ti vèvis il colòur da la sera, quand li ciampanis a sùnin di muàrt. 3

Nell’interpretare questa madre, la Callas ha prestato i suoi sentimenti ad una 1

  Idem, Il Vangelo secondo Matteo ; Edipo re ; Medea, cit., p. 483 (Trattamento, scena 11).   Cfr. Idem, Petrolio, cit., pp. 139-157 (Appunti 36-40 : Gli Argonauti) 3   Idem, Il nini muàrt, in Bestemmia. Tutte le poesie, a cura di Graziella Chiarcossi e Walter Siti, Prefazione di Giovanni Giudici, Milano, Garzanti, 1993, vol. i, p. 14. (Trad. « Sera luminosa, nel fosso / cresce l’acqua, una donna / incinta cammina per il campo. // Io ti ricordo, Narciso, avevi il colore / della sera, quando le campane / suonavano a morto »). 2











maria callas, regina non vista 141 Medea che risultasse la meno sanguinaria possibile ; un’eroina non esclusivamente tragica e assassina – mater cruenta – ma anche visionaria, metà barbara e metà greca, contesa dal sogno e dal reale. L’intensità che l’attrice voleva accreditare al personaggio, doveva affiorare da movimenti essenziali, gesti medianici che avevano la funzione di radiografare il mondo ultraterreno della sacerdotessa e, insieme, la sua ricca interiorità. Pasolini sa che, affidando questo importante ruolo alla Callas, la sua Medea primitiva, rurale e primamente friulana, si sarebbe ammantata di umanità e di dolcezza. La cantante amava i personaggi ‘nobili’, nobili di sentimenti, non di classe ; in loro aveva sempre cercato di mettere una maturità affettiva altamente qualificante. Il personaggio euripideo ha una caratteristica, nel temperamento, che la Callas diceva di non avere : l’aggressività. Particolarità perlopiù assente anche nel campione pasoliniano, come appunta lo stesso cineasta :  







Espressa, da capo a piedi, eretta, con la paura che una donna deve avere e le giuste speranze ; titubante e certa, calcolatrice e scoperta fino ai precordi uccellino con potente voce di aquila e aquila tremante – alleata di quel cielo – parte di un cosmo unico – da te si diparte la Donna che scende all’inferno e in un giorno di pioggia con la luna nuova – canta in voce con una giovinetta assetata d’incruente stragi – vada, vada quella Donna in quei Regni ; ciò non ti riguarda Vi troverò l’altra Donna, s’è possibile ancora più adulta, fattucchiera maledetta, dragone abitatore di cliniche, e ne proverà giusta paura e giusta rabbia ; ma ritorni poi alla terra, e portando teco quell’odor d’oltretomba, canti e arie composte da Verdi e divenute rosse del sangue la cui esperienza (che non ne pronuncia la parola) insegna la dolcezza, la vera dolcezza. 1  





Ecco come Pasolini riconosceva in Maria Callas i connotati di una barbara gentile. Pensiamo al momento dell’infanticidio (Scena 95) : essa lava i figli con dolcezza di mamma e il gesto dell’uccisione – azione che doveva rivelare il carattere selvaggio della Medea euripidea – acquista qui una soavità purgatoriale (la stessa  

1   Idem, Le regole di un’illusione. I film, il cinema, a cura di Laura Betti e Michele Gulinucci, Roma, Associazione ‘Fondo Pier Paolo Pasolini’, 1991, p. 238.

142 giona tuccini che troviamo nel monologo di Julian, in Porcile, quando pensa al suo amore porcino). A questo punto, osserveremo come nella terza parte del film, nel corpo della Callas prenda forma la pazienza, una certa destrezza e il senso della misura di una regina che deve la sua obbedienza sempre meno al mondo rivelato ed estetico dell’avventuriero di Jolco, e sempre più alle leggi naturali (dalla scena 72, infatti, il sacro torna ad irrompere nella vita della sacerdotessa). Giasone – non lo sa e neanche lo sospetta – sta operando nella donna un tentativo di omologazione, di occidentalizzazione, come se in lei si dovessero disinnescare le velleità dell’indipendenza e gli interessi che la radicano nel sovrannaturale, internamente ed esternamente. Una Grande Madre, Medea, che la società decadente, egoista, tutta pragmatica e priva di ali tenta di trasformare da altare in banale lavoratrice, da donna di religione in donna irrimediabilmente subordinata, ragioniera della casa e non del creato. Essa dovrebbe imparare a coltivare solo abitudini utili al marito e alla polis, a rinunciare ai suoi istinti di libertà e di autonomia anche quando viene abbandonata, in favore del calcolo. La sorte la vuole vittima di un sistema di pensiero, essenzialmente aristotelico : la polis esiste in vista del ben vivere (eu zèn) ; il suo fine è un’esistenza pienamente realizzata e indipendente ; 1 essa rappresenta, rispetto alla famiglia (oikos) e al villaggio (kômè), un cambiamento di ordine : cronologicamente ultima, la città è logicamente prima, e perciò essa è anteriore agli individui, come il tutto lo è in rapporto alle parti. 2  







4. Delenda est Corinthus Era stato il rapporto fusionale con Giasone – divorante a tal punto da spingere l’esperta di arti occulte a rubare il Vello d’Oro per amore dell’Argonauta – a comportare la fine, la sordità, la rottura dell’eroina con il mondo degli istinti. La figlia del re della Colchide, fino a quel momento totalmente partecipe della dimensione religiosa della sua terra, fuggendo con Giasone perde il suo Onphalos, quella forma di contatto intuitivo capace di realizzare l’uomo nel suo essere e non nel suo apparire. Durante il viaggio per mare, Medea « è perfettamente immobile : gli occhi stanno ostinatamente fissi in un punto ; ed è indecifrabile ». 3 Approdata in Occidente, le ancelle di Jolco la vestono con i colori della nuova civiltà ; la barbara cerca disperatamente un nuovo Centro – l’axis mundi – intorno al quale raccogliere gli istinti e rifondare il suo cosmo (quello arcaico da cui proviene). Tutto ciò che costituiva la scienza della sacerdotessa, il suo permanere nel sacro – in ciò che ‘separa’ (dal lat. sacer) – ora è smarrito, e Medea è « una bestia strappata al suo pascolo, che non si orizzonta più ». 4 La sua natura di  













1   Aristotele, Politica ; Trattato sull’economia, in Idem, Opere, 11 voll., traduzione di Renato Laurenti, Bari, Laterza, 1983, tomo ix, p. 88 (Politica, iii, 9, 1280b, 38-40). 2   Ivi, p. 7 (Politica, i, 2, 1253a, 18-26). 3   Pier Paolo Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo ; Edipo re ; Medea, cit., p. 502 (scena 55). 4   Ivi, p. 504 e ss (Trattamento, scena 57) ; p. 548 (Dialoghi, scena 57).  







maria callas, regina non vista 143 maga è precipitata in una sorta di ibernazione. È una femme en crise, mentalmente labile e costituzionalmente semiviva. Non sente più la voce del sole e della terra e, mentre gli argonauti cantano lontano, lei avverte i gravi sommovimenti del destino, annuncianti la catastrofe :  

Medea : Aaah ! Parlami, terra, fammi sentire la tua voce ! Non ricordo più la tua voce Parlami sole ! Dov’è il punto dove posso ascoltare la vostra voce ? Parlami, terra, parlami, sole. Forse vi state perdendo per non tornare più ? Non sento più quello che dite ! Tu erba, parlami ! Tu pietra, parlami ! Dov’è il tuo senso, terra ? Dove ti ritrovo ? Dov’è il legame che ti legava al sole ? Tocco la terra coi piedi e non la riconosco ! Guardo il sole con gli occhi, e non lo riconosco ! 1  



























Per poco tempo, l’amore per Giasone è un surrogato di questa sacralità perduta. Un amore fatale, all’insegna del quale la regina della Colchide subisce una mutazione antropologica, « una conversione alla rovescia ». 2 Maria Callas si dispone a interpretare questo ruolo tragico, carica di una sofferenza esistenziale derivante dalla sensazione di inadeguatezza, dovuta ad un periodo trascorso, ormai già da qualche anno, lontana dalla mondanità ; una diva non più padrona di una voce unica e temuta, e quindi a suo modo smarrita, alle prese con la dimenticanza forzata. A tale proposito, si rifletta, un poco, sul suo rifiuto di intonare, nel film, quel canto che Pasolini aveva previsto ; una melodia in cui l’Io della cantante, privato di ogni indizio terrestre e spogliato anche dei toni della tragedia, doveva divenire solo diafano lamento, prolungata eco dell’Ade. Questo canto avrebbe dovuto segnare uno dei momenti centrali della pellicola. Ma nulla di fatto. Alla voce sovrumana di Medea, negata come un antico prezioso rimasto sotto le macerie di un terremoto, non poteva che subentrare il silenzio, quell’azzeramento della componente audio che dilaga nel primo episodio di Porcile. Ciò si spiega perché, in queste due pellicole, il silenzio è la voce del trascendente che rende sacro tutto ciò che inonda. Allo slittamento del mondo, Medea non può opporre che il suo proprio movimento. Maria Callas è quindi chiamata a interpretare l’unica presenza viva nel film, l’unico personaggio in grado di compiere, a Corinto, un’azione contemporaneamente interiore e pubblica. Quando l’ancella le consiglia di non rassegnarsi al rifiuto di Giasone, e di tornare a fare incantamenti, le risponde : « Forse hai ragione. Sono restata quella che ero. Un vaso pieno di un sapere non mio ». 3 Vas era il primo titolo che Pasolini aveva pensato di dare a Petrolio, nella  













1

  Ivi, p. 549 (Dialoghi, Scena 57).   Ivi, p. 514 (Trattamento, scena 69) ; p. 550 e ss (Dialoghi, scena 69). 3   Ivi, p. 552 (Dialoghi, scena 62d). 2



144 giona tuccini triplice accezione di trogolo, di vas electionis e di recipiente-contenitore dell’alchimista. Il fascino del sole, padre e dio, la riporta indietro nello spazio e nel tempo, quando era donna e divinità allo stesso modo. Come altrimenti spiegare la sua maniera di rapportarsi alla vita, se non con le parole dette dal Centauro a Giasone bambino ?  

Centauro : Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura, ragazzo mio, tienilo bene in mente. Quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito. 1  

La natura fine a se stessa è innaturale. Solo quando si presta all’irruzione del divino, diventando tutt’una con esso, acquista senso : ed allora non è più natura, ma il corpo gravido di un mondo ultraterreno, immagine materiale del sacro. A Jolco e a Corinto, terre sconsacrate e spiritualmente sterili, il monito incipitario del Centauro è inconcepibile ; è incoerente come la personalità atavica di Medea, il suo palpitare di passioni indotte dagli dei e l’inoppugnabilità delle sue facoltà medianiche ; certi doni importano solo nella società tribale e totemica in cui sono stati generati. La sapienza della sacerdotessa di Ecate, agli occhi dei Corinzi, è inconsistente e lascia spazio ad una emotività triviale, ma non sempre priva di intelligenza (i presentimenti, le visioni). La regina vulnerata piange, appare emotiva, una borghese soccorrevole che, davanti a Giasone fedifrago, scende a miti consigli e chiede ai figli di portare in dono, a Glauce, gli abiti da indossare per le nozze (il peplo e la corona d’oro). Da questo gesto nasce il senso di colpa della figlia di Creonte. Il senso di colpa, si sa, è una grande malattia dello spirito dell’uomo occidentale. E Creonte caccia Medea da Corinto, insieme ai suoi figli, non perché è straniera, altrui surhumain, altrui absolut, ma perché ha paura che faccia del male a Glauce, psicologicamente. Anche in questo, Medea è una ‘regina non vista’ ; tanto meno compresa, lei che, essendo dominata dal thymós (l’istinto), con la psicologia non ha niente a che fare. Creonte non si sofferma neanche sulla sua diversità di barbara arrivata a Corinto, coi segni di un’altra razza. Il celebre verso euripideo « Certo, in molte cose sono diversa da molti mortali » nel cervello di Creonte è del tutto irrilevante. La figlia del sole ha rischiato di divenire una borghese corinzia, una donna civile, ma non lo è diventata. Nel momento di massima decadenza e umiliazione, essa ritrova l’unità perduta, il thymós, connesso al codice eroico di comportamento e diametralmente opposto ai bouleúmata, i progetti e le risoluzioni logiche dell’Argonauta che tentano di oggettivizzare le pulsioni dell’Io istintuale di Medea. L’urto tra thymós e bouleúma si ripresenta, per risolversi, nella scena finale dell’incendio, dove il primo si esplicita sotto forma di impulso rabbioso di vendetta ed è più forte del secondo. La subordinazione dei bouleúmata al thymós presuppone un rapporto di forza in cui la componente emozionale è preminente su quella de 











1

  Ivi, p. 544 (Dialoghi, scena 7).

maria callas, regina non vista 145 liberativa. È in questa scena che Maria Callas è chiamata a dare voce e corpo all’accavallarsi degli stati d’animo più estremi. In piazza, la donna scatena la sua ferocia : la privazione del sacro l’ha resa furiosa di distruzione, intimandole di recuperare ciò che Giasone e la sua società aveva azzerato. Medea, uccisi i figli, ristabilisce il nesso umanità-religione, riscattando il suo ventre di madre arcaica. Quella che prima era, nel bene e nel male, una donna rassegnata e innocua, resa commovente e poetica dalla debolezza e dalla sofferenza, alla fine diviene una dea inarrivabile ed efferata :  



Medea : Perché cerchi di entrare attraverso il fuoco ? Non potrai farlo. È un inutile tentativo, che fai. Se vuoi parlarmi, puoi farlo, ma senza avermi vicino né potermi toccare [...]. Niente è più possibile, ormai. 1  



Appiccando il fuoco, offre l’incendio di sé come rogo da subire alla fine di un lungo viaggio involutivo. Medea brucia con tutto il campo intorno, brucia per ripristinare la sua sacralità, per mantenersi separata. Si separa dagli altri, scomparendo tra le vampe, per tornare all’immortalità. Anche per questo, le sue ultime parole hanno le cadenze della magia. E Maria Callas le pronuncia come un esorcismo. 1

  Ivi, pp. 559-560 (Dialoghi, scena 97).

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SALò OU L’ACTEUR ENTRE EXACTITUDE DU GESTE ET AMBIGUÏTé DU SENS Davide Luglio

P

asolini a placé toute son activité artistique sous le signe de ce qu’il a appelé sa philosophie ou sa façon de vivre, à savoir « un allucinato, infantile e pragmatico amore per la realtà ». 1 Le cinéma est le moyen d’expression qui correspond le mieux à cette philosophie : « io amo il cinema – écrit-il en 1967 – perché con il cinema resto sempre al livello della realtà. È una specie di ideologia personale, di vitalismo, di amore del vivere dentro le cose, nella vita, nella realtà ». 2 Rester au niveau de la réalité ne signifie cependant pas faire œuvre de ‘réalisme’. On sait combien l’artiste répugnait à toute forme d’expression naturaliste ; un rejet qui influençait aussi le choix des acteurs :  













Io preferisco lavorare con attori scelti nella vita, a caso, vale a dire scelti per quanto mi sembrano esprimere a loro insaputa : con non professionisti. L’attore professionista ha fin troppo l’ossessione del naturale e del ghirigoro. Ora, io odio il naturale (che del resto viene per lo più esagerato dall’attore per paura di non rendere le sfumature), detesto, in arte, tutto ciò che attiene al naturalismo. 3  

La préférence accordée par Pasolini à des acteurs non professionnels est l’un des traits distinctifs de son cinéma. Dans une récente étude consacrée à cette question, Pierre Beylot rappelle les propos du réalisateur qui justifiait ses réticences à employer des acteurs professionnels par le fait que ceux-ci opposaient à sa conscience leur propre conscience, c’est-à-dire leur volonté artistique :  

Io dovevo per forza essere autore dei miei film, non potevo essere un coautore, o un regista nel senso professionale di colui che mette in scena qualcosa, dovevo essere autore, in qualsiasi momento della mia opera. Ora evidentemente un attore professionista porta una propria coscienza, una propria idea del personaggio che interpreta. 4

Est-ce à dire pour autant, comme le pense Beylot, que si Pasolini privilégie les non professionnels c’est moins pour leur authenticité que pour leur malléabilité, leur capacité à se plier à la volonté du metteur en scène ? On peut en douter. Il est bien vrai que Pasolini avoue sa préférence  

1

  Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico. Appendice. Battute sul cinema, sla i, p. 1544.   Idem, Razionalità e metafora, pc ii, p. 2915. 3   Idem, Il sogno del Centauro, sps, p. 1516. 4   Idem, Interviste e dibattiti sul cinema, pc ii, p. 2857. 2

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davide luglio

quasi ideologica, estetica per attori non professionisti in quanto che essi sono brandelli di realtà così come brandello di realtà è un paesaggio, un cielo, un sole un asino che passa per la strada. Sono elementi di una realtà che io manipolo e ne faccio quello che voglio. 1

Mais cette manipulation porte moins sur l’acteur au moment du tournage que sur la réalité filmée au moment du montage. L’acteur, qu’il soit professionnel ou pas, d’ailleurs, intéresse Pasolini en tant que « brandello di realtà » et c’est bien cette réalité qu’il vise à saisir et à isoler. C’est ce qu’il explique très bien dans Battute sul cinema : d’un côté nous avons la conception du cinéma comme « langue écrite de la réalité », c’est-à-dire comme reproduction « ininterrotta e fluente come la realtà, della realtà ». 2 C’est là ce qu’on pourrait appeler le ‘concept’ pasolinien de cinéma, un concept dans lequel s’exprime sa philosophie, dans lequel : « Il mio amore per la realtà abbraccia in astratto tutta la realtà, da cima a fondo, da capo a piedi : è una dichiarazione d’amore come atto di fede, imperterrita e teorica ». 3 Mais de l’autre côté, si nous passons du cinéma au film, de la ‘langue’ à la ‘parole’ pour utiliser la terminologie saussurienne que Pasolini reprend à son compte, et donc à la poétique, au style, nous constatons que cette reproduction ininterrompue et fluide de la réalité qu’est la langue cinématographique est rigoureusement absente :  























[...] lo stesso inconsulto amore della realtà, tradotto in termini linguistici, mi fa vedere il cinema come una riproduzione fluente della realtà mentre, tradotto in termini espressivi, mi fissa davanti ai vari aspetti della realtà (un viso, un paesaggio, un gesto, un oggetto), quasi fossero fermi e isolati nel fluire del tempo. Nel mio cinema perciò il piano-sequenza è completamente sostituito dal montaggio. La continuità e l’infinità lineare di quel piano-sequenza ideale che è il cinema come lingua scritta dell’azione, si fa continuità e infinità lineare “sintetica” per l’intervento del montaggio. 4

Nous touchons là à un trait caractéristique de presque tout le cinéma pasolinien, l’attention extrême portée aux choses, l’état de fascination dans lequel le réalisateur avoue se trouver face à un objet, à un regard, à un visage « come se si trattasse di un congegno in cui stesse per esplodere il sacro ». 5 C’est ainsi qu’en général sa manière de filmer consiste plutôt à recueillir de la matière filmique : « quando io giro, in realtà, non faccio che raccogliere materiale ». 6 Ou encore :  











prendo un ragazzo che non ha mai recitato, lo metto davanti alla macchina da presa e lo tengo lì a lungo, raccogliendo materiale. Questo significa che poi devo fare un lungo lavoro in montaggio per togliere tutto quello che è inutile e cogliere invece quel 1

2   Ivi, p. 2858.   Idem, Battute sul cinema, cit., p. 1546. 4   Ibidem.   Ivi, pp. 1546-1547. 5   Pier Paolo Pasolini, Il sogno del centauro, cit., p. 1494. 6   Idem, Interviste e dibattiti sul cinema, cit., p. 3016. 3

salò ou l ’ acteur entre geste et sens

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momento di verità che può essere, ecco, lampeggiato nel suo sguardo, nel suo sorriso mentre giravo. 1

C’est aussi la seule manière, sans doute, de saisir une certaine essence du réel qui se situe en deçà ou au-delà de toute convention. Car, et nous touchons là au sens politique de la démarche du cinéaste, il s’agit ainsi de far passare dinanzi allo schermo qualcosa di “reale” a cui lo spettatore è ormai disabituato […] Il modello umano televisivo è, sempre più, il piccolo-borghese, l’ipocrita, il conformista. La mia ambizione nel fare film è fare film che siano politici in quanto profondamente “reali” nelle loro intenzioni, nella scelta dei personaggi, in quello che dicono e in quello che fanno. 2

Si l’on peut considérer que cette intention traverse de part en part le cinéma pasolinien, force est de constater que la manière de saisir cette réalité change dans la dernière période d’activité du réalisateur. Avec Salò, en effet, Pasolini avoue avoir complètement changé sa manière de filmer. Dans les entretiens qu’il accorde au moment du tournage, il insiste sur le changement radical opéré dans sa manière de tourner au point que ce qui était vrai de l’ensemble de sa production filmique n’est plus valable pour Salò. Sur des points aussi essentiels que le montage ou le jeu des acteurs, les choses changent. Ainsi, à propos du long travail de montage auquel il a toujours soumis la matière filmée il déclare :  

In questo film invece questo non succede perché non è un film di raccolta di materiale elaborata poi in montaggio. È un film già girato, già montato mentre lo giro e allora ho bisogno di un maggior professionismo da parte degli attori. 3

Si, auparavant, Pasolini procédait par accumulation de matériel et ensuite par élimination au moment du montage, avec Salò c’est tout le contraire, ce qui influence lourdement la direction des acteurs :  

In genere […] faccio poche prove perché preferisco cogliere la realtà così com’è, nella sua ingenuità, nel suo candore, nella sua imprevedibilità […]. In questo film invece no. Parlo prima con gli attori, faccio imparare bene le battute, devono dire esattamente quello che devono dire [...] questa volta, agli attori professionisti chiedo il massimo professionismo e pretendo il professionismo dagli attori non professionisti. 4

C’est sur le sens de ce retournement, car à l’évidence ça en est un, que nous voudrions nous interroger. Comment concilier l’exigence poétique de saisir la réalité telle qu’elle est, dans sa candeur, dans sa naïveté, dans son imprévisibilité avec cette nouvelle volonté de maîtrise rigoureuse du tournage et du jeu des acteurs ? Sommes-nous face à l’une de ces contradictions apparentes dont parle souvent Pasolini ou Salò témoigne-t-il véritablement d’un tournant dans la poétique pasolinienne ? Nous pensons que c’est bien à un tournant que  



1

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  Ibidem.   Ivi, p. 2016.

  Ivi, p. 2994.   Ivi, p. 3016 et p. 3023.

150 davide luglio nous sommes confrontés, mais que celui-ci n’implique pas l’abandon du parti pris philosophique du poète, loin de là. Comme nous essaierons de le montrer, l’exigence de se maintenir au niveau de la réalité demeure, mais c’est la réalité même avec laquelle se mesure l’artiste qui est nouvelle et cette nouveauté entraîne, impose même, un véritable renversement des modalités expressives dont témoigne au premier chef le rapport avec les acteurs ainsi que la direction à laquelle ils sont soumis pendant le tournage. Un nuovo registro Dans un entretien accordé à « Filmcritica » du mois d’août 1975, à la question de savoir comment situer Salò par rapport à l’ensemble de sa production filmique, Pasolini déclarait :  





come un nuovo registro, in cui affronto il mondo moderno : in realtà è la prima volta che lo faccio veramente, l’ho fatto sì, in parte in Teorema, ma in questo momento lo affronto in tutto il suo orrore, e, ci sarà un periodo in cui farò i film più o meno così ; quello che è certo è che non potrò farlo realisticamente, non potrei, non reggerei fisicamente nel rappresentare questo potere che sto subendo, lo potrei fare come faccio sempre con l’uso della metafora. 1  



Pasolini appelle ici métaphore ce qu’il définit ailleurs comme une allégorie ou une grande métaphore, celle du sexe, comme rapport entre le pouvoir et celui qui est soumis au pouvoir. Or, c’est précisément cette nature allégorique qui entraîne les changements de réalisation que nous évoquions précédemment car, explique-t-il, Quando un film è una metafora deve esser per forza fatto in altro modo, perché ogni immagine che giri è significativa di qualcos’altro, e quindi deve essere per forza quella e non un’altra. Non puoi aggiungere dei dettagli, per esempio, se non sono significativi e necessari ! 2  

La nature métaphorique de l’œuvre fonctionnalise, si l’on peut dire, chaque image dont le sens littéral doit systématiquement ouvrir sur un sens allégorique ou du moins participer à celui-ci. Pour cette raison, chaque image doit être parfaite, exacte come un cristal, 3 car on conçoit tout à fait qu’en l’absence de cette perfection du signifiant on ne puisse atteindre précisément le ou les sens qu’il suggère. Ainsi, l’un des résultats à première vue paradoxaux de l’exigence allégorique est-il une extrême attention au signifiant, à la lettre qui en constitue 1

2   Ivi, p. 3025.   Ivi, p. 3026.   C’est l’expression que Pasolini utilise à propos du film : « è un film già montato mentre lo giro, voglio perciò che sia perfetto, esatto come un cristallo » (ivi, p. 3023). L’exactitude renvoyant, à travers l’image du cristal, à la structure à la fois complexe et géométrisée du film, cfr. sur ce point Hervé Joubert Laurencin, Pasolini, portrait du poète en cinéaste, Paris, Cahiers du cinéma, 1995, pp. 272-275. 3







salò ou l ’ acteur entre geste et sens 151 la clé, l’entrée. Mais cette attention n’a plus rien à voir avec celle qui caractérisait autrefois la manière toute pasolinienne de filmer la réalité. En 1969, après l’expérience de Teorema e Porcile, deux films qui anticipent à différents titres Salò, Pasolini déclarait :  

Prima usavo la tecnica per afferrare la realtà, divorarla, rappresentarla in modo più corporeo, più greve, io cercavo con la mia macchina da presa di essere fedele a questa realtà che apparteneva agli altri, al popolo ; adesso no, uso la macchina da presa per creare una specie di mosaico razionalistico che renda accettabili, chiare ed assolute, storie aberranti. Quello che una volta era una specie di sacralità tecnica [...] oggi ha spostato la sua funzione e anziché essere in funzione di far uscire dagli oggetti la loro sacralità interna, in modo pesante, è usata come essenzialità, stilizzazione e riduzione degli elementi. 1  

C’est donc dans la même logique que quelques années plus tard, à propos de Salò, Pasolini insiste sur le soin extrême porté aux détails :  

Per Salò deve essere tutto molto curato nei particolari e perciò se uno deve cader morto, lo faccio ripetere molte volte finchè non sembri davvero un corpo che cade morto, e la scena non la spezzetto, dev’essere un tutt’uno formale che mi serve per chiudere come in una specie di involucro le cose terribili di De Sade e del fascismo. 2

Bref, si l’exigence formelle est si forte que la perfection l’emporte sur le réalisme et si le jeu des acteurs doit être parfaitement maîtrisé et réglé d’avance, c’est bien parce que la perfection formelle doit en quelque sorte rendre acceptable l’horreur qui est représentée en fonctionnalisant la représentation qui, précisément, ne s’épuise pas en elle-même, dans la lettre, mais fait signe vers un sens allégorique. L’emploi du mot involucro est à cet égard particulièrement éloquent, car c’est justement l’un des mots par lesquels le Moyen Âge désigne la lettre qui cache le sens allégorique : « enigma est sententiarum obscuritas quodam verborum involucro occultata », 3 écrit Matthieu de Vendôme au xiie siècle.  





L’ouverture analogique Toutefois, compte tenu des nouvelles exigences sur le plan technique et sur celui du jeu des acteurs dont Pasolini fait état à propos de Salò, on est en droit de se demander pourquoi il n’a pas eu recours uniquement à des acteurs professionnels. Si véritablement l’exigence formelle prime à ce point sur tout autre critère, pourquoi utiliser des acteurs non professionnels quitte à exiger d’eux un professionnalisme dont on peut supposer qu’il n’était jamais à la hauteur de celui qu’auraient pu garantir des acteurs de métier. Cette interrogation en rejoint 1

2   Pier Paolo Pasolini, Interviste e dibattiti sul cinema, cit., p. 2951.   Ivi, p. 3024.   Matthaeus Vindocinensis, Ars versificatoria, 3, 44, in Idem, Opera, iii, Ars versificatoria, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1988. 3

152 davide luglio une autre qui la complète, si l’on peut dire, et qui a trait à la forme particulière de réalisme qui caractérise Salò, lié d’un côté à l’authenticité que dégagent la plupart des acteurs et au décalage entre celle-ci et le décor dans lequel ils évoluent. Car d’un côté le film est incontestablement très soigné sur le plan formel, qu’il s’agisse des détails du décor et des costumes ou de la recherche esthétique, une fois de plus pétrie de citations picturales, qui caractérise la disposition et les poses des acteurs dans la grande salle des récits, ou encore de la véritable obsession formelle des symétries. Mais tous ceux qui ont vu Salò savent aussi à quel point la réalité est présente avec justesse à l’écran. À commencer par le visage des acteurs et en particulier des victimes – qui précisément sont choisies parmi des acteurs non professionnels. Dans l’un des entretiens accordés lors du tournage du film, Pasolini explique que, pour lui, le moment le plus enthousiasmant de la réalisation est celui où il choisit les visages des acteurs. Le visage, insiste-t-il, est l’endroit même où se fixe, se construit en quelque sorte le film : « queste facce che trovo e che molte volte sono così autentiche da suggerirmi cose nuove, utili per il film ». 1 Bref, l’exigence de perfection formelle n’exclut en aucun cas la recherche d’authenticité. La réalité saisie dans son moment de vérité demeure un souci constant du réalisateur qui, dans le même entretien, explique filmer d’emblée les acteurs non professionnels dès leur premier essai dans une réplique « perché non si può mai sapere prima quale sarà il momento più felice, più vero ». 2 Cette évidence de la réalité saisie dans son moment d’authenticité se conjugue avec une forme de réalisme qu’on pourrait dire descriptif et que Roland Barthes définit comme une fidélité à la lettre des scènes sadiennes. Dans l’article qu’il consacre en juin 1976 à Salò, Barthes, qui est visiblement loin d’être enthousiaste du film, observe :  











Dans le film de Pasolini (ceci, je crois, lui appartenait en propre) il n’y a aucun symbolisme : d’un côté une grossière analogie (le fascisme, le sadisme), de l’autre la lettre, minutieuse, insistante, étalée, léchée comme une peinture de primitif ; l’allégorie et la lettre, mais jamais le symbole, la métaphore, l’interprétation […] 3  



L’analyse de Barthes a de quoi surprendre en ce sens qu’il semble prendre au pied de la lettre la littéralité de Salò. Mais elle a au moins le mérite de mettre le doigt sur le caractère très particulier de l’allégorie pasolinienne. Tient-elle, en effet, seulement dans cette « grossière analogie » entre le fascisme et le sadisme que relève Barthes ? Se limite-t-elle à cette suggestion initiale pour ensuite étaler de manière insistante la lettre dans toute sa minutie ? Cette lecture est sans doute possible mais elle suppose que l’on fasse entièrement abstraction des déclarations de Pasolini et surtout de ses écrits théoriques sur la littérature et le cinéma à partir de la seconde moitié des années soixante. Une éventualité d’autant plus  







1

2   Pier Paolo Pasolini, Interviste e dibattiti sul cinema, cit., p. 3030.   Ivi, p. 3028.   Roland Barthes, Sade-Pasolini, in Idem, Œuvres complètes, t. iv, Paris, Seuil, 2002, p. 944.

3

salò ou l ’ acteur entre geste et sens 153 étonnante dans le cas de Barthes que le critique français connaissait et estimait Pasolini avec qui il entretenait une sorte de dialogue à distance. 1 Pour bien comprendre le sens de la démarche allégorique de Pasolini et bien saisir le sens de la place essentielle que le réalisateur accorde, dans ce cadre, à une certaine évidence de la réalité qui passe aussi par le recours aux acteurs non professionnels, il faut donc se tourner vers les textes théoriques publiés entre 1966 et 1975. À partir de ce corpus nous procéderons à deux séries de remarques. La première a trait au statut très particulier de la lettre dans le film de Pasolini, un statut qu’ignore ou méconnait Roland Barthes. Nous avons déjà évoqué la célèbre identification pasolinienne entre cinéma et réalité. Cette identification, comme on sait, repose sur l’idée que la réalité est langage. Mais si la réalité est un langage et si la langue du cinéma est la même que celle de la réalité, qu’estce que la langue de l’art ? Qu’advient-il dans le passage du niveau sémiologique au niveau esthétique ? Eh bien, nous dit Pasolini, nous assistons à une transsubstantiation sémantique du signe, laquelle consiste « in una sua infinitamente maggiore disposizione alla polisemia ». 2 En d’autres termes, explique-t-il :  









Se la sua decifrazione sul piano puramente linguistico è analoga a quella della sua decifrazione sul piano della realtà (il codice è lo stesso), la sua interpretabilità sul piano estetico, è invece un monstrum, e gode delle stesse garanzie di inattendibilità e di felice suspense che nei linguaggi simbolici (che, non si dimentichi, sono sempre evocativi, ed evocano per ciascuno la realtà che egli conosce). 3

Ainsi, si dans les films nous reconnaissons la réalité, si incontestablement le personnage d’un film nous parle tout comme dans la réalité à travers les signes ou, comme le dit Pasolini, les « syntagmes vivants de son action », 4 du fait même de leur transsubstantiation sémantique ces signes, ces syntagmes vivants, ont une portée polysémique bien plus importante que celle qu’ils possèdent naturellement. Bref, dans un film nous nous trouvons face à un langage qui, sur le plan dénotatif, est le même que celui de la réalité mais qui, sur le plan connotatif, est infiniment plus ambigu et, pour ainsi dire, indécidable. Or, la conséquence majeure de tout cela, est que la lettre, stricto sensu, ne se donne jamais dans un film. Aucune littéralité n’est possible dans une œuvre cinématographique et elle l’est d’autant moins que le « syntagme vivant » est arraché et isolé du flux naturel des choses tel qu’il se présente dans la réalité vécue. L’allégorisation de chaque syntagme est directement proportionnelle à son abstraction du cadre spatial  







1   Pour un intéressant éclairage sur la nature des relations entre les deux écrivains cfr. Hervé Joubert Laurencin, Pasolini-Barthes : engagement et suspension de sens, « Studi Pasoliniani », i, 2007, pp. 55-67. Cfr. aussi, Antonio Tricomi, Pasolini : gesto e maniera, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005, pp. 109-118. 2   Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, sla i, p. 1588. 3 4   Ivi, p. 1590.   Ivi, p. 1562.  







154 davide luglio et temporel naturaliste. Et c’est justement ce que fait, avec le plus grand soin, Pasolini dans Salò. C’est là tout le sens de sa nouvelle recherche technique qui vise, comme nous l’évoquions précédemment, à « l’essenzialità, stilizzazione e riduzione degli elementi ». Force est de constater que Barthes avait donc tort : dans Salò rien n’est littéral et tout est métaphorique, symbolique ou pour employer une expression que Pasolini applique à Petrolio, « greve allegoria ». 1 La deuxième série de remarques porte sur ce que nous pourrions appeler l’illusion nécessaire de la lettre ou la permanence-malgré-tout de la lettre. Car, si nous avons pu établir qu’aucun signifiant n’est réductible à un seul et même signe, il nous reste encore à comprendre pourquoi la littéralité est si lourdement soulignée par la recherche constante d’authenticité dans l’évocation de la réalité. Bref, pourquoi garder cette attache forte au réel dont le recours aux acteurs non professionnels est une marque essentielle ? Il y a deux raisons, nous semble-t-il, à cela. La première est d’ordre technique ou rhétorique. On suggère d’autant mieux l’éclatement de ce qui fait l’univocité du signe, on parvient d’autant mieux à le ramener au statut de signifiant que ce signe est lourdement, puissamment inscrit dans la réalité. Ce que Barthes lit comme une grossière analogie – le rapport institué entre fascisme et sadisme – n’est en fait qu’un indicateur de l’allégorisation de l’ensemble et de chaque signe en particulier. Le plan sur Salò et le lac de Garde par lequel s’ouvre le film, ne fait, en ce sens, que planter le décor allégorique. À partir de là, le spectateur sait que la grille de lecture est nécessairement analogique et la portée énigmatique de chaque signe sera d’autant plus prégnante que l’attache au réel de celui-ci sera forte. Ainsi, ce n’est pas un hasard si parmi les rares auto-exégèses allégoriques que propose le réalisateur de Salò, la plus explicite concerne les excréments. 2 Les excréments ne sont-ils pas l’exemple même d’un signe tout aussi authentique qu’il est facilement polysémique, allégorique ? La deuxième raison est d’ordre idéologique et relève de l’ambition affichée par Pasolini de « fare film che siano politici in quanto profondamente “reali” nelle loro intenzioni, nella scelta dei personaggi, in quello che dicono e in quello che fanno ». 3 Nous l’avons vu, le réalisateur pense que Salò est le premier film par lequel il s’attaque véritablement au monde moderne. Or, le monde moderne a ceci de particulier qu’il ne peut être abordé que par la « suspension du sens », par un discours qu’on peut appeler allégorique en ce sens qu’il ne saurait être enfermé dans une ou même  





















1

  Pier Paolo Pasolini, Petrolio, rr ii, p. 1215.   C’est ainsi qu’à la question de Gideon Bachmann « pensavo che per Freud il prodotto digestivo ha sempre avuto dei significati molto ampi : non è che tu hai pensato a questo ? » Pasolini répond : « C’è anche questo : sai, in un mistero tutto si condensa. Ma c’è soprattutto il pensiero che in realtà i produttori costringono i consumatori a mangiare merda : il brodo Knorr, oppure i biscotti Saiwa, sono merda. Questo nel fim non risulterà perché è un mistero. Ma è chiaro che io mentre lo giro lo penso ; non so se poi verrà fuori o no » (Pier Paolo Pasolini, Interviste e dibattiti sul cinema, cit., 3   Idem, Interviste e dibattiti sul cinema, cit., p. 2994. p. 3021). 2







   











salò ou l ’ acteur entre geste et sens 155 plusieurs significations. Réagissant à des propos de Roland Barthes sur la littérature et le cinéma, dans lesquels le critique appelait de ses vœux une forme d’art problématique qui s’appuierait sur ce qu’il appelait « la technique du sens suspendu », 1 Pasolini déclarait :  





“Sospendere il senso” : ecco una stupenda epigrafe per quella che potrebbe essere una nuova descrizione dell’impegno, del mandato dello scrittore. [...] mi sembra che se noi osserviamo quel “qualcosa” che sta accadendo nel mondo borghese, questo rovesciarsi nella quotidianità di valori negativi e ideali, violenti e non violenti : questo ripresentarsi della « povera e nuda problematicità », forse cominceremo ad avere qualche confusa risposta. Mi sembra insomma che non manchi una realtà da evocare [...] E anzi che è colpevole il non farlo. E poiché quella realtà ci parla col suo linguaggio ogni giorno, trascendendo – in un senso ancora indefinito (è certo solo che è disperazione e contestazione furente) i nostri significati – è bene, mi pare, piegare a questo i significati ! Se non altro per porre, appunto, delle domande in opere anfibologiche, ambigue, a canone « sospeso » [...] ma nient’affatto in questo, disimpegnate, anzi ! 2  















Comme le rappelait récemment Hervé Joubert-Laurencin, il s’agit là d’un texte célèbre dans les études pasoliniennes où se nouent engagement et suspension du sens, où Pasolini développe l’idée d’une troisième voie de l’engagement politique de l’art qui pourrait dépasser à la fois la tradition de l’œuvre “militante” engagée et la nouveauté récente (les propos de Barthes datent justement de 1963…) du dégagement “avant-gardiste”. 3

Or, ne faut-il pas voir dans ce texte la clé de l’allégorie ‘ouverte’ que compose Salò ? À travers le monde profondément réel qu’il met en scène par, comme le dit Pasolini lui-même, les personnages qu’il choisit, ce qu’ils disent ou ce qu’ils font, Salò ne célèbre-t-il pas allégoriquement l’irréductibilité de notre réalité à un sens qui, pour l’heure, transcende nos significations ?  



Le réalisme de l’ambigüité On sait combien la réflexion de Pasolini, sur la poésie, sur le roman, sur l’art en général est traversée par la question de la réalité et du rapport qui lie l’expression artistique au réel. Dans cette réflexion le cinéma joue un rôle éminent en tant que « semiologia in natura della realtà ». 4 « Mi ci è voluto il cinema », écrivait-il en 1966, « per capire una cosa enormemente semplice ma che nessun letterato sa. Che la realtà si esprime da sola ; e che la letteratura non è altro che un mezzo per mettere in condizione la realtà di esprimersi da sola quando non è fisicamente presente ». 5  











1

  Roland Barthes, Sur le cinema, in Idem, Œuvres complètes, t. ii, cit., p. 263.   Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, cit., pp. 1424-1425. 3   Hervé Joubert Laurencin, art. cit., p. 60. 4 5   Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, cit., p. 1420.   Ivi, p. 1421. 2



156 davide luglio Ce qu’on sait moins, en revanche, c’est que le corollaire de cette interrogation sur le réel est, notamment à partir du milieu des années soixante, une réflexion sur l’ambigüité, dont le commentaire à Barthes précédemment cité constitue sans doute le coup d’envoi théorique. Mais, peut-on se demander, ce commentaire, écrit au milieu des années soixante, est-il encore pertinent en 1975 ? Quand on sait combien les choses ont changé aux yeux de Pasolini au début des années soixante-dix, lorsque le triomphe de « l’irrealtà della sottocultura dei “mass media” e quindi della comunicazione di massa » 1 est désormais si évident qu’il oblige le réalisateur à sa fameuse « abiura », on peut se poser la question. Le retournement auquel on assiste avec Salò, dont témoigne la nouvelle manière de tourner et de diriger les acteurs, n’est-il pas, au fond, le signe d’un changement profond qui investirait même la notion d’ambiguïté, de « canone sospeso » ? C’est, en tous cas, l’hypothèse récemment avancée par Hervé Joubert Laurencin qui, dans Salò, verrait une reformulation de la « suspension du sens » élaborée, cette fois-ci, avec le langage de la représentation classique. Suivant une fois de plus Roland Barthes, mais le Barthes de S/Z proposant une victoire provisoire du texte classique, Pasolini aurait basculé avec Salò du côté du texte « lisible ». Aussi, Salò serait-il « la représentation effective » – bien que métaphorique – « de l’horreur du monde qu’il [Pasolini] vit ». 2 Il ne faut pas aller plus loin, « c’est en effet de cette manière, la plus simple, que l’on peut résumer le projet de Salò. Il faut en faire une métaphore complète, et c’est ainsi que l’on pourra finalement comprendre l’incompréhension totale de Barthes envers le film ». 3 Barthes, en effet, faisait de Sade « le héros indépassable de la littéralité et de la littérarité de l’écriture, l’inventeur d’un monde abstrait incompatible avec la vie (c’est-à-dire moderne par avance, quasiment « scriptible » […] » alors que Pasolini tirerait Sade vers le réel, vers la représentation effective de l’horreur de la réalité dans laquelle il vit. L’hypothèse est séduisante et Joubert Laurencin en veut pour preuve deux textes de 1975 dans lesquels Pasolini invoque une plus grande « lisibilité ». Le premier est tiré des Lettere Luterane et on peut y lire :  

















































Una tremenda volgarità fa pensare e accogliere tale trattato come una chiacchierata del tutto e perfettamente “leggibile”. Va bene : vuol dire che invece di dedicarlo all’ombra mostruosa di Rousseau, lo dedicheremo all’ombra sdegnosa di De Sade. 4  

Le deuxième est extrait de Abiura dalla Trilogia della vita, un texte écrit deux mois plus tard :  

Insomma, è ora di affrontare il problema : a cosa mi conduce l’abiura dalla Trilogia ? Mi conduce all’adattamento [...] L’Italia […] è nel suo insieme ormai un paese spoliticizzato, un corpo morto i cui riflessi non sono che meccanici. L’Italia cioè non sta vivendo  

1

  Idem, Abiura dalla Trilogia della vita, sps, pp. 599-600. 3   Hervé Joubert Laurencin, art. cit., p. 65.   Ibidem. 4   Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, sps, p. 566. 2



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157

altro che un processo di adattamento alla propria degradazione, da cui cerca di liberarsi solo nominalmente [...] Tutti si sono adattati o attraverso il non voler accorgersi di niente o attraverso la più inerte sdrammatizzazione. Ma devo ammettere che anche l’essersi accorti o l’aver drammatizzato non preserva affatto dall’adattamento o dall’accettazione. Dunque io mi sto adattando alla degradazione e sto accettando l’inaccettabile. Manovro per risistemare la mia vita. Sto dimenticando com’erano prima le cose. Le amate facce di ieri cominciano a ingiallire. Mi è davanti – pian piano senza più alternative – il presente. Riadatto il mio impegno ad una maggiore leggibilità (Salò ?). 1  

« Que faut-il comprendre ? » se demande Hervé Joubert Laurencin et il ajoute : « il ne s’agit pas d’un brusque amour de Pasolini pour Sade, qu’il détestait en tant qu’écrivain […] mais plutôt de la décision politique de se réadapter au monde cynique de 1975 ». 2 Que Pasolini essaie d’adapter son engagement aux changements de la réalité est incontestable, mais que cette adaptation soit fondée sur le choix esthétique d’une plus grande « lisibilité » c’est ce dont on peut douter à partir, précisément, des deux extraits que nous venons de citer. Car, dans le premier, il ne fait aucun doute que loin de revendiquer une plus grande « lisibilité », Pasolini en fait, bien au contraire, la prétention de ceux dont la pensée est terriblement vulgaire, à savoir « le monde de la soi-disant culture ». 3 Quant au deuxième extrait, certes plus abscons dans sa conclusion, s’il faut le mettre en relation avec le premier, comme le suggère Hervé Joubert Laurencin, alors il est clair que là aussi, la « lisibilité » est plutôt du côté du monde qui s’adapte à la dégradation et qui l’accepte sans réagir. C’est à cette « lisibilité » là que Pasolini adapte son engagement, à moins que « lisible » ne fasse ici référence au présent qui incombe de toute son évidence et sans alternatives. Dans un cas comme dans l’autre, ce que semble refuser de toutes ses forces Pasolini c’est bien la « lisibilité » et, avec elle, la simplicité et partant la clarté de cette « métaphore complète » que serait Salò. Pour en avoir une preuve on pourrait, bien sûr, évoquer la volonté affichée dans Petrolio d’écrire une œuvre « illisible ». 4 Mais on peut aussi, – et de manière plus intéressante, car cela témoigne également de l’avancée de la réflexion pasolinienne sur l’ambiguïté –, se référer à un texte écrit en 1974 et intitulé, lors de sa première parution dans « Filmcritica », L’ambiguità. Dans ce texte, Pasolini prend ses distances, à mots à peine voilés, de Barthes qu’il accuse précisément  



















































1

  Idem, Abiura dalla Trilogia della vita, cit., p. 603.   Hervé Joubert Laurencin, art. cit., p. 65. 3   « Certo, non mi sembra che ci sia nessuno – almeno nel mio mondo, cioè nel mondo della cosiddetta cultura – che sappia minimamente apprezzare l’idea di compilare un trattato pedagogico per un ragazzo. Una tremenda volgarità fa pensare e accogliere tale trattato come una chiacchiarata del tutto e perfettamente “leggibile”. » (Pier Paolo Pasolini, Lettere luterane, cit., p. 566). 4   Comme l’écrit fort justement Hervé Joubert Laurencin lui-même : « Pétrole est l’équivalent littéraire souvent exact de Salò, par décalque ou par opposition » (Pasolini portrait du poète en cinéaste, cit., p. 269), « l’opposition » faisant ici référence, bien entendu, à la reprise spéculaire de certains thèmes. 2















158 davide luglio de ne pas se départir suffisamment d’une conception idéaliste de l’art qui tend, au bout du compte, à toujours rechercher une « unité de l’œuvre » :  





Ogni opera è ambigua. Ma lo dico non in difesa della sua unità ; bensì in polemica con la sua unità. Ogni unità è infatti idealistica. [...] L’ambiguità dell’arte non è dunque, malgrado le apparenze, un dato negativo in quanto irrazionalistico, e quindi decadentistico e borghese. L’ambiguità dell’arte è un dato positivo, in quanto presuppone nell’opera due momenti diversi, che la lacerano, e ne distruggono l’unità, essa sì irrazionalistica, e quindi, se vogliamo, decadentistica e borghese. [...] È vero che sia i formalisti che gli strutturalisti non si dimenticano mai di parlare anche di ambiguità o, per dirla tecnicamente meglio, di « senso sospeso » : ma tale ambiguità o canone della sospensione non è che un elemento formale o strutturale : uno dei tanti elementi che compongono l’unità idealistica dell’arte. L’ambiguità non viene opposta all’unità, come un modo totalmente altro di concepire l’arte. 1  









Barthes, comme tant d’autres, entendrait donc réduire l’art à un objet unitaire, c’est-à-dire rationalisé, alors même que cette volonté de concevoir l’art dans les ‘simples’ limites de la raison est en elle-même une attitude irrationnelle. Toute conception unitaire, c’est-à-dire tout refus de voir que dans l’art s’opposent des forces contraires irréductibles les unes aux autres, méconnaît la nature de l’art. L’ambiguïté n’est pas un fait stylistique, elle est irréductible aux figures rhétoriques qu’on ne peut lui appliquer que par commodité :  

Il problema mai affrontato è appunto quello di dissacrare l’innocenza idealistica dell’arte, istituendovi un dualismo lacerante, come quello sociale della lotta di classe, con cui Marx ha sfatato l’innocenza del borghese (falsa idea di sé fondata su una presunta unità dell’uomo), o come quello psicologico dello scontro fra conscio e inconscio, con cui Freud ha sfatato l’innocenza dell’uomo individuale (falsa idea di sé fondata su una presunta unità della psicologia). 2

Une manière de contrer la tendance à méconnaître les forces contraires qui s’opposent dans l’art – la tendance à le considérer comme unité et non pas comme totalité – est précisément de mettre en avant son ambiguïté et de la souligner de manière irréductible y compris aux figures rhétoriques qui la décrivent car, une fois de plus, elle n’a rien à voir avec un effet de style. Considéré sous cet angle, Salò, il faut bien l’avouer, correspond en tous points à l’objectivation de l’ambiguïté de l’art. Tout y est dualisme de forces qui s’opposent tout en étant toujours ambivalentes, précisément comme s’opposent, dans le drame intérieur, conscient et inconscient. C’est d’ailleurs pour cette raison que la dimension allégorique de Salò ne peut pas être restreinte dans les limites d’une signification métaphorique, fut-elle :  

la représentation effective de l’horreur du monde qu’il vit (1975) à travers la médiation 1   Le texte conjointement à deux autres a été republié en 1975 dans La Biennale di Venezia. Annua2   Ibidem. rio 1975, sous le titre Tre riflessioni sul cinema, sla ii, pp. 2702-2703.

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involontaire d’un écrivain qu’il méprise en tant que tel (Sade 1975) en le comparant, par métaphore, à un moment historique qu’il a vécu dans l’angoisse (1945 : la république nazi-fasciste). 1  

Cette métaphore existe, bien entendu, mais outre le fait que d’autres lectures métaphoriques sont possibles, c’est l’intention même d’enfermer le film dans une métaphore qui semble contredire le sens du recours pasolinien à l’ambiguïté. Car si l’art est ambigu c’est que la réalité elle-même est ambiguë – la comparaison avec l’univers social et l’univers intérieur ne laisse guère de doute à ce propos. L’ancrage dans le réel et donc l’engagement de l’artiste, ne peut faire l’économie de cette ambiguïté. Or, le texte « lisible », le texte classique, s’il met en scène l’ambiguïté, s’il peut signifier, comme Sarrasine dans l’analyse de Barthes, « qu’il n’est plus possible de représenter », c’est pour affirmer « qu’il est mortel […] de lever le trait séparateur, la barre paradigmatique qui permet au sens de fonctionner […] à la vie de se reproduire […] aux biens de se protéger ». 2 De même, si le texte « lisible », le texte classique – toujours suivant Barthes – réalise in fine une suspension, il n’en demeure pas moins « plein de sens » et la suspension équivaut seulement à « garder en réserve un dernier sens ». 3 La suspension que réalise le « lisible » est un trop-plein de sens, elle est bien loin de pointer vers la crise du sens ou le questionnement de cette crise. Or, c’est bien à cette crise que regarde Pasolini. Mon film, explique-t-il dans un entretien accordé lors du tournage de Salò, « è un mistero ; è quello che si chiama mistery, il mistero medioevale : una sacra rappresentazione, e quindi è molto enigmatica. Non deve essere capita ». 4 Loin de toute « lisibilité », Pasolini a, entre 1966 et 1975, radicalisé son discours sur la suspension du sens. La manière de tourner et de diriger les acteurs en témoigne. La présence d’acteurs non professionnels – qui plus est dans le rôle de victimes qui leur est attribué – dirigés, pour la première fois, comme s’ils étaient des professionnels, est l’un des gages de la présence, à l’écran, des forces contradictoires qui fondent l’ambiguïté du réel et donc de l’œuvre d’art qui veut en être l’évocation.  



































1





  Hervé Joubert Laurencin, art. cit., p. 65. 3   Roland Barthes, S/Z, in Idem, Œuvres complètes, t. iii, cit., p. 299.   Ivi, p. 300. 4   Pier Paolo Pasolini, Interviste e dibattiti sul cinema, cit., p. 3020. Nous soulignons. 2

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INDICE DEGLI AUTORI CITATI

A

gamben Giorgio 22 Allegri Luigi 70 Allegri Renzo 135 Arasse Daniel 87 Argan Guilio Carlo 136 Aristarco Guido 101 Aristotele 26, 33, 132, 142 Artaud Antonin 17, 38, 70

B

achelard Gaston 90, 91 Bachmann Gideon 154 Bachtin Michail 73, 78, 83, 84, 132 Badiou Alain 13 Barthes Roland 34, 94, 109, 152, 153, 155, 156, 157, 159 Beck Julian 38, 39, 43, 44, 101 Bene Carmelo 38, 43, 44 Benjamin Walter 94 Berardinelli Alfonso 46 Bertini Antonio 65, 68 Betti Laura 45, 101, 141 Beylot Pierre 121, 147 Borie Monique 22 Brecht Bertold 28, 29, 30, 31, 33, 37, 70 Brook Peter 14 Brunetta Gian Piero 85, 108

C

aminati Luca 65, 70 Carla de Mira Esther 93 Cavani Liliana 89 Chantoiseau Jean-Baptiste 10 Chaplin Charlie 85 Chiarcossi Graziella 140 Chiesi Roberto 133 Chion Michel 95 Colombo Furio 50 Cormann Enzo 30 Cournot Michel 88

D

aney Serge 102 De Cecatty René 33

De Gaetano Roberto 103 De Gandillac Maurice 94 De Laude Silvia 161 De Martino Ernesto 39 De Micheli Mario 136 De Santi Gualtiero 103 De Santi Gualtiero 65 De Vigny Alfred 55 Decroisette Françoise 27, 35 Derrida Jacques 14, 15, 71 Didi-Huberman Georges 88, 99 Dupont Florence 26, 29, 30, 31

Eco Umberto 56, 108

El Ghaoui Lisa 9, 25, 31, 85, 165 Eliade Mircea 41, 129 Euripide 130, 140

Fabbro Elena 67

Fabien Michèle 19 Ferrero Nino 54 Ferretti Gian Carlo 50 Fieschi Jean-André 93 Flacco Valerio 130 Fortini Franco 63 Foucault Michel 18, 45 Frazer James George 43, 129 Freud 33, 56, 57, 130, 154, 158 Fusillo Massimo 61, 63, 67, 129

Gagnebin Murielle 91, 96, 97 Gatto Alfonso 45 Gaye Caroline 53, 54 Giacchè Pier Giorgio 45 Giordano Corinne 11, 113 Giori Rosa 91 Girard René 37, 42, 44 Gombrich Ernest 107 Grande Maurizio 103, 105 Grotowski 14 Guénoun Denis 26, 35

162

indice degli autori citati

Guglielmino Gian Maria 129, 130 Guidi José 109 Guidici Giovanni 140 Gulinucci Michele 141

Hamom Philippe 120

Heidegger 37 Hervé Stéphane 10 Huprelle Anne-Cécile 55

Joubert-Laurencin Hervé 27, 34, 88, 97, 103, 105, 106, 150, 153, 155, 156, 157, 159

Katuszewski Pierre 10 Laurenti Renato 142

Levi-Strauss Claude 46, 130 Lévy-Bruhl Lucien 129, 130, 131 Lizzani Carlo 132 Longhi Roberto 98 Loraux Nicole 32 Luglio Davide 11

Macciocchi Maria Antonietta 94

Maffesoli Michel 46 Marion Jean-Luc 92 Marx 14, 15, 49, 56, 74, 75, 77, 85, 103, 130, 131, 158 Maselli Tatiana 19 Medda Enrico 67 Mélan Amandine 10 Metz Christian 109 Micciché Lino 75 Michel Caroline 27, 87 Milly Julien 97 Money-Kyrler Roger 39 Morandini Morando 129 Morante Elsa 45, 61 Moretti Jean-Charles 32 Mortara Garavelli Bice 64 Murri Serafino 52, 54

Nacache Jacqueline 120, 121 Nissen Hans Jorg 138 Noguez Dominique 87 Nordey Stanislas 38

Osborno Reuben 56 Petrarca 64

Piccaluga Giulia 138 Pisanelli Flaviano 25 Possamai Irina 10 Profeti Maria Grazia 133

R

enger Johannes 138 Rimini Stefania 37 Rocchi Anna 94 Rochlitz Rainer 94 Rodio Apollonio 130 Ronconi Luca 14 Rusch Pierre 94

Sade 151, 152, 156, 157, 159

Sanders Peirce Charles 104 Santato Guido 9, 165 Savoca Giuseppe 63 Scandella Luigi 27 Schérer René 111, 114, 120, 121, 127 Sénèque 29, 31 Siciliano Enzo 45 Siega Paula Regina 10 Siti Walter 38, 73, 140, 161 Solinas Giovanni 10 Somaini Antonio 65 Sofocle 33 Spila Piero 108 Starobinsky Jean 98, 99

T

ommaseo Nicolò 45 Torraca Luigi 129 Tricomi Antonio 63, 153 Tuccini Giona 11, 133

V

ande Veire Franck 97 Velásquez 17 Villalta Gian Mario 37, 38 Vindocinensis Matthaeus 151 Vogin Magali 10, 85

W

elles Orson 45 Wunenburger Jean-Jacques 56

indice degli autori citati

Zabagli Franco 73, 161

Zanzotto Andrea 38, 136

Zigaina Giuseppe 136 Žižek Slavoj 17

163

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ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE Le abbreviazioni bibliografiche sono tratte dall’edizione di Tutte le opere di Pier Paolo Pasolini di­retta da Walter Siti, pubblicata da Mondadori, Milano, nella collana « I Meridiani », 10 volumi, 1998-2003.  



rr Romanzi e racconti, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, 2 volumi, Milano, Mondadori, 1998. sla Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, 2 tomi, Milano, Mondadori, 1999. sps Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999. pc Per il cinema, a cura di Walter Siti e Franco Zabagli, 2 tomi, Milano, Mondadori, 2001. te Teatro, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 2001. tp Tutte le poesie, a cura e con uno scritto di Walter Siti, 2 tomi, Milano, Mondadori, 2003.

co m p o sto in ca r atte re da n t e monotype dalla fa b rizio se rr a e ditore, pisa · roma. sta m pato e ril e gato nella t i p o g r a fia di ag na n o, ag nano pisano (pisa). * Ottobre 2011 (c z 2 · f g 1 3 )

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BI BL I O T E CA D I «S T U D I PAS OLIN IAN I» co l la na diretta da g u ido santato 1. Pier Paolo Pasolini. Due convegni di studio, Université Stendhal, Grenoble 3, 2324 maggio 2007 - 3-4 aprile 2008, a cura di Lisa El Ghaoui, 2009, pp. 200. 2. Les corps en scène. Acteurs et personnages pasoliniens, Université Stendhal, Grenoble 3, 23-24 aprile 2009, a cura di Lisa El Ghaoui, 2011, pp. 172.