L'epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio


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L'epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio

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pleiadi ~ 20 ~ Collana diretta da franco montanari

walter lapini

L’Epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio Note testuali, esegetiche e metodologiche

roma 2015

edizioni di storia e letteratura

© Edizioni di Storia e Letteratura - Roma Prima edizione: settembre 2015

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia, Università degli Studi di Genova

Tutti i diritti riservati Isbn 978-88-6372-827-9 eIsbn 978-88-6372-828-6

edizioni di storia e letteratura 00165 Roma - via delle Fornaci, 24 Tel. 06.39.67.03.07 - Fax 06.39.67.12.50 e-mail: [email protected] www.storiaeletteratura.it

Metafisica, bàten’ka. I dottori me l’hanno proibita. Il mio stomaco non la digerisce. Pasternàk, Il dottor Živago

Indice del volume

premessa avvertenze ringraziamenti

xi xvii xxi

L’Epistola a Erodoto e iL Bios di epicuro in diogene L aerzio sezione i. note sull’Epistola a Erodoto

3

sezione ii. note sul Bios laerziano di epicuro

119

sezione iii. su alcuni idola della critica epicurea

175

bibliografia indice dei nomi moderni

237 269

PREMESSA

fra le opere di epicuro giunte intere fino a noi, la lettera a Erodoto è la più imper via e oscura. checché se ne possa dire, ampie parti di essa restano tuttora indecifrate anche nel loro significato di base. io non cercherò, se non episodicamente, di estendere le nostre conoscenze sotto questo aspetto, ma mi occuperò della sola c o s t i t u z i o n e d e l t e s t o ; la componente esegetica – preannunciata anche nel titolo – non mancherà, ma sarà finalizzata unicamente a tale obiettivo. so bene che un libro di quasi sola textkritik, quale questo è, non può incontrare molta fortuna, né presso i lettori comuni, sempre meno interessati a questioni di dettaglio, né presso i filologi stessi, che tendono a pensare che la ripulitura delle opere antiche, almeno delle più note, sia ormai un fatto compiuto1. ma la prospettiva di scrivere per pochi o pochissimi, come non mi lusinga, così neppure mi sgomenta.

1 «dopo tutto il lavoro svolto sul testo dell’agamennone – diceva broadhead 1959, p. 310 nota 1 – è improbabile che verranno fuori emendazioni assolutamente convincenti». ma pare che avesse sostenuto la stessa cosa già il bentley (notizia in timpanaro 2005, pp. 120-121). in un brillante articolo metodologico, nisbet ha scritto che «non ha senso emendare autori in cui niente deve essere fatto o niente può essere fatto» (1991, p. 67). come che sia, epicuro non è, né sarà ancora per tanto tempo, nel gruppo dei ‘sistemati’. i grandi dotti del passato, diceva arndt, hanno fatto molto per lui, ma «restant ea, quae tamquam in visceribus abdita difficulter cognoscas, difficilius corrigas» (1913, p. 3). ed epicuro «ha dimostrato di essere un uomo difficile da aiutare» (rist 1978, p. 5).

xii

Premessa

Non entrerò nella disputa fra conservatori e innovatori – le cui rispettive ragioni sono state mille volte dette – se non per osservare come anche il conservatorismo di questi ultimi anni abbia fatto i suoi bravi passi all’indietro, recuperando, in aggiunta al «principio santissimo» dell’autorità dei codici tanto schernito dagli Housman e dagli Axelson, una più antica e quasi dimenticata sottomissione al ne varietur di edizioni considerate importanti. Nella raccolta delle reliquie epicuree del 1960 e poi del 1973 – uno dei capolavori della filologia italiana di sempre – Graziano Arrighetti ha scritto che buona parte degli studi che sono stati fatti su Epicuro nel corso del Novecento non in altro è consistita se non nella confutazione degli interventi testuali, pur ingegno­sissimi, proposti da Usener negli Epicurea del 1887 (Arrighetti p. xvi). Nel complesso non si può non essere d’accordo con Arrighetti. E tuttavia a parte il Von der Muehll e l’Arrighetti stesso (gli unici che abbiano effettivamente tentato una de-usenerizzazione di Epi­cu­ro), e a parte i metodi pre-lachmanniani per non dire pre-aristarchei dell’edizione del Bollack, in cui ogni congettura accolta è come l’osso strappato dalla bocca del cane, pare a me che la costante degli studi novecente­schi su Epicuro non sia stata tanto la confutazione stringente degli interventi di Use­ner, quanto semmai la sostituzione di quegli interventi con inter­ven­ti diversi e peg­giori; se il Bignone o il Diano sono potuti passare per critici prudenti o addirit­tu­ra per tutori della verginità della paradosi, la ragione non è che congetturavano di meno, ma che congetturavano senza genio, in modi prevedibili e quindi più ac­cet­t abili2. Certo sarebbe ridicolo sostenere che Usener non cadesse mai negli eccessi e nell’ipercritica, ma non si dimentichi che gli Epicurea appartengono ancora a un’epoca in cui gli editori dovevano aggirarsi fra i testi come chirurghi in un ospedale da campo napoleonico, e che comunque lo Usener mise quasi sempre il bisturi su ferite vere, non fasulle, non inventate: ferite non curabili a forza di possibilismi e di traduzioni evasive. Recensendo un mio libro di qualche anno fa, da lui ritenuto troppo fitto di interventi sul testo, Alex Sens ha ricordato (il tema era la poesia alessandrina, ma il principio è valido in generale) che «many passages that seemed manifestly corrupt to earlier generations of scholars have been shown to be

 Mentre la congettura del genio spariglia, sbigottisce, solleva proteste perché fa saltare il tavolo. «Muta completamente la fisionomia dell’intero contesto», diceva smarrito il Salvatore (1981, p. 50) commentando una brillante emendazione di Helm a un passo del Culex. 2

Premessa

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perfectly sound and comprehensible in the light of a better understanding of (…) intertextual and narrative strategies» (2009). Io parto da una prospettiva diversa. Credo che le earlier generations ci capissero di più e non di meno; che l’idea dell’infinito progresso della scholarship sia sem­pli­cemente una favola3; che le intertextual and narrative strategies, non sempre distinguibili dalla mera chiacchiera, portino spesso a un p e g g i o r e under­standing. E credo infine che il sound e il comprehensible siano cose molto diverse e talvolta opposte. Se si mira al comprehensible, al readable, le «stra­tegie» possono anche bastare; se si mira al sound, occorre mettere nel conto la possibilità e necessità di intervenire, magari spesso e in profondità. I prudenti insistono sui numeri, rammentando che solo lo 0.5, solo lo 0.1 per cento delle congetture si rivela esatto4. Non è che costoro respingano per principio gli interventi sul testo, ma li vorrebbero in dosi pediatriche, e tutti certi, tutti a segno, come i colpi del cecchino. Purtroppo non è così che vanno le cose. Quello zero virgola di verità si ottiene a prezzo di ripetuti errori e tentativi, e solo menti anguste possono condannare il divinatore per il fatto di scavare molta terra e trovare poco oro – senza contare che le percentuali sulle congetture sono esse stesse congetturali. Si consideri poi che altro è quello che si dice, altro quello che si fa. Lo Usener fustigava la temeritas di Gassendi, la sua grassatio in verba Epicuri (p. xvii), eppure le congetture di Gassendi sono presentissime fra le pagine degli Epicurea 5. E quanto a Usener stesso, lo stigma di matta bestialità appiccicato alle sue Texteskonstituierungen non ha impedito che le edizioni epigone ne recepissero le proposte con impensata assiduità. Ancora recentemente, nella prefazione all’Ari­sto­fane oxoniense del 2007, Nigel Wilson ha scritto: «quando sir Hugh Lloyd-Jones

 Lo dice anche P. Kingsley, Empedocles for the New Millennium, «Ancient Philosophy», XXII (2002), pp. 333-413: 400 nota 162. 4  O almeno non lontano – presumibilmente – dalla verità. Sul tema si discute in un mirabile articolo di Alex Garvie (2001). 5  Se si pensa allo scempio che Gassendi ha fatto di certi capitoli della Lettera a Erodoto (ad esempio il 41, il 56, il 57, il 58), non solo riscritti, ma anche malamente riscritti, si potrebbe essere persino più severi di Usener. Ma Gassendi fu anche autore di congetture acutissime e di restauri certi: basti ricordare οὔθ᾿ ὡς per ὡς οὔθ᾿ al c. 69. Sull’opera di Gassendi, e sui suoi meriti e demeriti nell’interpretare ed emendare Epicuro, vi è ormai una ricca letteratura: Gigante 1979, p. 56; Alberti 1988, passim; Algra 1994, pp. 91 sgg.; Bloch 2007, pp. 198 sgg. (quest’ultimo più sbilanciato sul Gassendi filosofo), e ora Taussig 2006 (tutta l’introduzione al vol. I). 3

xiv

Premessa

e io ci accingemmo a editare Sofocle6, la nostra intenzione era quella di offrire una migliore scelta di lezioni in passi difficili. Non ci aspettavamo di fare nuove congetture. Questo era il mio proposito originario anche per Aristofane; nondi­meno il lettore troverà un certo numero di miei interventi, alcuni dei quali inseriti nel testo stesso» (Wilson 2007, I, p. viii)7. Come dire: se anche non cerchi le congetture, le congetture cercano te. Per quanto mi riguarda, accetto serenamente la legge percentualistica: molte o moltissime delle mie proposte – che con il noto lessico verranno dette inutili, normalizzatrici, banalizzanti, ‘umani­stiche’ – andranno tosto ad aggiungersi alle innumere­voli altre che dormono dormono sulla collina. Ma spero e credo che qualcuna di esse passerà prima o poi le porte di corno, posto che sia vero, come dice Aristotele, che se è impossibile a un uomo cogliere tutta la verità, altrettanto è impossibile non coglierla affatto. Preciso che non ho voluto avanzare proposte che mi sembrassero solo equiva­lenti, e non anche migliori, di quelle già disponibili; né proposte esibizionistiche, alle quali il proponente è il primo a non credere, ma che procurano nomea di ingegnoso ed estroso. Non ho invece rinunciato alle ipotesi che, pur non cogliendo (ma chissà) il wie eigentlich gewesen, dessero l’impressione di arrivarci vicine, nella convinzione che un’autocensura troppo severa rischiasse di chiudere la via a soluzioni che potrebbero un giorno, nelle mani di altri, rivelarsi decisive. Compulsando la bibliografia più antica (che dovrebbe essere visionata per prima ma che spesso viene sciaguratamente visionata per ultima) ho scoperto che ben tre mie congetture erano state anticipate da J. G. Schneider, grande critico testuale di opere in prosa fra cui quelle epicuree, ma poco presente nell’apparato di Usener e quindi in quelli successivi (con la solita meritoria eccezione di T. Dorandi). Ovviamente non mi sono attribuito le tre congetture, ma neppure ho voluto tacere di esserci arrivato anche per mio conto, seguendo tragitti affatto diversi da quelli di Schneider.  Si tratta naturalmente del Sofocle OCT del 1990.  Persino F. H. M. Blaydes, che nel 1897 W. Headlam, anche lui forte congetturatore, attaccò di petto in una dura recensione (Blaydes’ Adversaria in Aeschylum, «Classical Review», XI [1897], pp. 56-59, soprattutto p. 57), è stato, centodieci anni dopo, così rivalutato: «come nel Sofocle OCT, [così qui nell’Aristofane OCT] il nome di Blaydes compare sorprendentemente spesso. Anche se ero portato a sottostimarlo, in anni recenti ho dovuto ricredermi; non ho dubbi dentro di me che una modesta percentuale dei suoi suggerimenti siano esatti, e che molti altri meritino considerazione» (Wilson 2007, I, p. viii). 6 7

Premessa

xv

Aggiungo che solo sporadicamente sono intervenuto su passi che qualcuno prima di me – in genere Usener, ma non solo lui – non avesse messo in discussione; e che non mancano i casi in cui ho difeso, e non attaccato, la tradizione manoscritta (e.g. c. 41 ἰσχύοντα; 43 αὐτὸν τὸν παλμόν; 46 γίνεσθαι; 65 ταύτῃ, ecc.). S’intende che non chiedo al lettore condivisioni di idee e di analisi, ma sì un riconoscimento di onestà e lealtà. Spero mi si dia atto di non aver mai nascosto né minimizzato gli elementi e gli indizi che potessero indebolire e mettere in forse le mie tesi. Spero infine, e soprattutto, che non si usi anche con me il metodo di respingere una congettura per il fatto stesso che è congettura, cioè perché è «priva di supporto testuale», vale a dire diversa dalla lezione dei codici. L’argomento, come gli studiosi più avveduti da sempre ripetono (ultimo Bruno Chiesa 2012, pp. 260-262), è illogico, poiché le congetture si fanno proprio per contrastare l’autorità dei codici. Eppure è incredibile l’ostinazione con cui questo fallace argomento continua ad essere messo in campo, non solo da giovani tirunculi, ma anche da filologi preparati e di lungo mestiere8. Ancora una considerazione prima di chiudere questa specie di parabasi. Vedo che da più parti mi si classifica come studioso di filologia filosofica. La colpa è anche mia, che tante volte ho usato l’untersteineriana formula sia nella scrittura corrente sia nella titolatura di libri. Ma tale formula esprime un’ampiezza di competenze e so­prattutto un’equidistanza che non ho. Gli ἄκρα καὶ πρῶτα delle mie ricerche, le co­se περὶ ὧν σπουδάζω, non consistono in altro che nell’applicazione di alcune re­gole della filologia ai testi filosofici. In un’importante pagina, G. Arrighetti ha richiamato l’attenzione su queste ormai famose parole di Usener: «Epicuro ut operam darem, non philosophiae Epicureae me admiratio commovit, sed ut accidit homini grammatico, librorum a Laertio Diogene servatorum obscuritas et difficultas» (pp. xvi-xvii). Prendere alla lettera tale dichiarazione, dice Arrighetti, sarebbe fare un torto alla grandezza di Usener; eppure «è certo che a [Usener] mancò in parte quello stimolo vivo a cercare di intendere Epicuro

 E.g. Hirzel 1877, p. 109; Giusta 1963, p. 139 nota 2; Konstan 1972, p. 272; Clay 1973, p. 258 nota 14; Renna 1983, p. 28; Martin 2001, p. 358 nota 28 (mi limito a opere che trattano di Epicuro e di epicureismo, altrimenti la lista non finirebbe più). Si noterà fra questi il nome di Michelangelo Giusta: anche lui commise quel tipo di errore che il citato B. Chiesa stigmatizza proprio nella miscellanea (Vestigia notitiai) che al Giusta è dedicata. 8

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Premessa

che è stato pregio di altri studiosi di lui tanto meno grandi» (p. xvii). Ma l’argomentazione è reversibile: nessuno può dire che lo strenuo congetturare di Usener derivi più dal non aver inteso abbastanza Epicuro che non dall’averlo inteso più di tutti – a meno che non si pensi, e questo non è certo il caso di Arrighetti, che chi manifesta interesse per le minuzie debba necessaria­men­te essere indifferente a problemi grandi e profondi. Se è indispensabile schierarsi – e quando si studia un testo come la Lettera a Ero­do­to una scelta di campo non si può eludere – il lettore non mi troverà schie­ra­to dalla parte delle «strategie», ma dalla parte di Usener. Come Usener negli Epicu­rea, così anch’io per quanto possibile mi sono accostato a Epicuro da homo gram­ma­ti­cus. Ed è allo schietto e diritto ragionare di Usener, ben evidente pur in quelle sue nude e silenti pagine, che ho cercato nel mio piccolo di ispirarmi. Genova, gennaio 2015

AVVERTENZE

– Il libro consta di tre sezioni. Sezione I: note sulla Lettera a Erodoto, trasmessa da Diogene Laerzio; Sezione II: note sul bios di Epicuro, trasmesso dalla stessa fonte; Sezione III: considerazioni di metodo generale. Per quanto riguarda la Sezione I, è importante precisare che le mie osservazioni riguardano Epicuro e non Diogene Laerzio (se e quanto esse valgano anche per Diogene Laerzio, è cosa da stabilire caso per caso)1. – T. Dorandi, nel suo Diogene Laerzio del 2013, si riferisce al presente libro, allora edendo, con il titolo L’ Epistola a Erodoto di Epicuro. Note testuali ed esegetiche (cfr. p. 868); un titolo che però, procedendo il lavoro, è parso inadeguato al contenuto, e che di conseguenza è stato cambiato, anche su consiglio di Dorandi stesso. – Il testo greco della Lettera è quello di Arrighetti 1973, mentre gli apparati sono presi, qua e là con adattamenti, da Dorandi 2013. Non è schizofrenia: Dorandi ha èdito la Lettera come parte dei Bioi laerziani, Arrighetti come opera epicurea auto­no­ma. E noi di questa parliamo. Per la Sezione II sarebbe stato lo­gi­co passare dal testo di Arrighetti a quello di Dorandi, se­ nonché Arrighetti fornisce una traduzione, Dorandi per ovvie ragioni no. Si è fatta dunque prevalere la comodità del lettore sull’astratta coerenza. – Arrighetti mette gli scolii fra parentesi tonda e adotta il corpo minore per la traduzione italiana. Io estendo il corpo minore anche al greco e sostituisco la tonda con la graffa, come per le ‘normali’ espunzioni. cfr. tosi 1988, p. 52, per la teoria generale, e dorandi 2010 e 2013 per il caso specifico epicuro/diogene. ma quanti equivoci su questo semplice principio (buona ultima la gordon: cfr. 2013, p. 133 nota 1)! 1

xviii

Avvertenze

– Indico le citazioni con data + pagina, il cosiddetto sistema ame­rica­no. Per alcune edizioni, traduzioni e commenti di particolare importanza (Usener, Hicks, Bailey, Arrighetti, ecc.) semplifico ulteriormente, facendo seguire al nome la sola pagina. Cito invece per esteso, senza richiamo nella bibliografia finale, i testi che non riguardino specificamente Epicuro o questioni epicuree. – Oltre alle traduzioni maggiori della Lettera, ho consultato anche quelle divulga­tive, non sempre mere scopiazzature, e comunque utili a farsi un’idea dell’Epicuro Πάνδημος, quello che circola nelle scuole (se ancora vi circola) e presso il grosso pubblico2. – Parlando di un libro specifico, ma con parole che valgono in generale, Martin Ferguson Smith ha scritto: «I should like to have seen more citations of Diogenes [di Enoanda] and (dare one say it?) fewer of modern scholars» (2011, p. 250). Certo esiste un footnotismo inane, infantile, un culto della citazione per la citazione, una disperata volontà di non omettere nessuno. Di qui tanti riferimenti mordi-e-fuggi, che ingombrano e costipano senza nulla aggiungere e nulla chiarire. D’altra parte è sugli autori grandi che si scrive di più, e noi non siamo giornalisti, non possiamo starcene al quia di una letteratura critica retroversa di pochi anni o di poche decine d’anni; né è sempre facile rendicontare una posizione interpretativa notevole attraverso pochi o pochissimi esponenti, o magari uno solo. Infine si danno dei casi in cui una frase incisiva, una sintesi felice, possono ben meritare due righi in più di bibliografia. (La κυρία δόξα di Smith, trascritta sopra, ne è un esempio). – Nonostante quanto ho appena detto, riconosco di aver sfruttato meno del dovuto certe importanti risorse, ad esempio i papiri ercolanesi, con le relative inevitabili avvertenze che «il senso generale è tutt’altro che chiaro», che «il contesto appare assai oscuro», che «tutto è molto problematico», come era di continuo costretto a scrivere Arrighetti nella sua edizione del 1973 (cfr. pp. 563, 626, 662). Si dirà che nel 1973 non esistevano edizioni come quella del libro XXV del Περὶ φύσεως di Simon Laursen («Cronache Ercolanesi», XXV [1995], pp. 5-109 + XXVII [1997], pp. 5-82), o  La prima traduzione italiana (in ordine di tempo) da me utilizzata è quella di Luigi Lechi (1842-1845); ho lasciato perdere invece i fratelli Rossettini di Pralboino (Diogene Laertio. Delle vite e sententie de’ filo­sofi illustri, di nuovo dal greco ridutto nel­la lingua italiana per i [sc. per opera dei] Rossettini da Prat’Alboino, Venezia, Vaugris, 1545), la cui competenza nella lingua greca fu tale quale può illustrare il caso di 3.18: Platone navigò in Sicilia κατὰ θέαν τῆς νήσου καὶ τῶν κρατήρων = «per vedere l’isola e le tazze» (cfr. Lechi 1842, p. xi nota 1). 2

Avvertenze

xix

come quella del libro II recentemente curata da Giuliana Leone (Leone 2012). È vero; ma nonostante ciò quei testi non possono quasi mai essere utilizzati senza approfondimenti e personali prese di posizione; e non era davvero il caso di accrescere ulteriormente la mole di questo libro. Il quale del resto non è e non vuole essere un running commentary 3. – Il lettore scuserà la lunghezza dei lemmi. Date le misure spesso sesquipedali dei periodi epicurei, non c’è quasi problema, per quanto limitato, che non richieda ampie contestualizzazioni. Si è cercato di evitare il pedante riporto letterale delle traduzioni diverse dall’Arrighetti, ma a volte solo il ‘catalogo’ poteva illustrare con efficacia il radicamento di un’opinione e/o il suo inerte transitare da uno studioso a un altro4. – Le segmentazioni alfabetiche dei capitoli della Lettera, dove ci sono, sono mie. Si tratta di Abschnitte e non sempre di Sinnabschnitte: servono solo a sveltire i riferimenti. – Muovendo dall’evidenza che gli scribi tendono a commettere errori simili, ho cercato dove possibile di addurre paralleli psicologici e soprattutto, in quanto più facili da trovare, paleografici5. È noto che tali paralleli non fanno migliore o peggiore una congettura (anche perché il trovarli o no dipende da due cose instabili, memoria e fortuna), però hanno una funzione retorica importante, in quanto si è più disposti a credere alla realtà di un errore se si può documentare che da qualche parte è già stato commesso. Lo studioso deve fare scoperte, non abbellirle: ma contrastare i pre-giudizi fa parte del suo compito. Anche sull’eziologia delle corruttele mi sono più volte soffermato; so che si tratta di un terreno instabile, dove è altissimo il rischio di scivolare senza accorgersene dal ragionamento alla fantasticheria, ma so anche che «l’indagine sulla specifica natura e origine delle corruttele – come ha scritto Giuseppina Magnaldi con la consueta lucidità di penna e di pensiero – può costituire un efficace antidoto alla sfiducia generica e generalizzata, aiutandoci non soltanto a emendare errori ma anche a salvaguardare lezioni genuine» (2014, p. 58). – Le note sui cc. 35-37 della Sezione I e alcune note della Sezione II sono già apparse sulle riviste «Elenchos», «Sileno» ed «Eirene» (cfr. Lapini  Aggiungo che Epicuro è – fra tutti gli autori che ho affrontato – quello che scrive più a modo suo, e che quindi più scarseggia di un certo tipo di similia. 4  La «complete enumeration of the various but often similar translations» (come disapprovandola la chiama Sens 2009) può persino permettere di risparmiare spazio. 5  Naturalmente ho tratto i materiali dagli apparati delle edizioni correnti, senza controlli autoptici. Ciò aumenta le possibilità di errore, ma non si può rifare sempre tutto daccapo. E le edizioni critiche si stampano appunto perché qualcuno le usi. 3

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Avvertenze

2010, 2011a e 2014). La cortesia dei direttori Anna Maria Ioppolo, Michele Catau­del­la, Giovanni Salanitro e Petr Kitzler mi permette di ripubblicare qui (s’intende in forma aggiornata, riveduta o radicalmente ripensata) il materiale già èdito. – Il 15 ottobre 2014 si è spento lo storico della filosofia antica Giovanni Reale. I giudizi che questo libro esprime su di lui e sulla sua scuola non sono lusinghieri, ma cambiare, attenuare, edulcorare questi giudizi sotto l’effetto del triste evento sarebbe stata una mancanza di rispetto imperdonabile verso i lettori e verso il Reale stesso.

RINGRAZIAMENTI

Il primo ringraziamento è per Tiziano Dorandi, che dal 2003 in avanti ha seguìto tutte le mie incursioni laerziane (di cui il presente libro può essere considerato un by-product), dispensandomi preziosi consigli, correggendomi ingenuità ed errori, e infine mettendomi a disposizione in anteprima, e senza risparmio, i materiali della sua edizione critica delle Vite dei filosofi, edizione uscita per i tipi della Cambridge University Press nel maggio 2013, allorché questo libro era ancora in piena gestazione. I lavori laerziani miei e di Dorandi, limitati i primi, monumentali i secondi, si sono incrociati e rincorsi in questi anni. È un onore per me che la mirabile, magistrale edizione cantabrigiense1 menzioni in apparato, e talvolta accolga nel testo, alcune delle proposte che qui presento2. Un grazie a Franco Montanari, per aver accolto questo libro nella collana «Pleiadi» da lui diretta; a Riccardo Chiaradonna e a Stefano Martinelli Tempesta per averne lette, con la consueta intelligenza e acribia, alcune parti; a Simona Basso, Flavia Cecchi, Jürgen Hammerstaedt, Giuliana Leone, Giovanna Menci, Lara Pa­gani, Alessandro Parenti, Martin Ferguson Smith e Adriano Toti, per il loro sup­porto logistico, informa­tico e bibliografico;

 Sulla quale è da poco disponibile la recensione-discussione di S. Marti­nelli Tempesta (2014). Cfr. anche Spinelli 2014. 2  L’edizione di Dorandi ha potuto tenere conto solo di una parte del mio lavoro, sensibilmente cresciuto e mutato dal 2013 in poi. Dico questo per mero obbligo di verità, senza per nulla implicare che la conoscenza di tutto il libro avrebbe comportato da parte dell’amico Dorandi un suo uso più ampio. 1

Walter Lapini, L’Epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio. Note testuali, esegetiche e metodologiche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015 ISBN (stampa) 978-88-6372-827-9 (e-book) 978-88-6372-828-6 – www.storiaeletteratura.it

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Ringraziamenti

a Mauro Tulli e al gruppo epicureo pisano – Isabella Ber­t a­gna, Michele Corradi, Dino De Sanctis, Marghe­rita Erbì, Mario Regali (ma voglio men­ zionare anche Andrea Beghini, Emilia Cucinotta, Giulia D’Alessandro, Mar­co Donato) – per aver seguì­to il mio lavoro con interesse e simpatia. Naturalmente sono io l’unico respon­sabile di ogni pagina, frase o parola. Si tratta di un abusato topos, lo so, ma questa volta è im­por­t ante dirlo, e prego il lettore di prendermi assolutamente alla lettera. Infine un pensiero affettuoso, come sempre, agli amici di una vita: Antonio Mario Battegazzore, Aldo Brancacci, Gabriele Burzacchini, Angelo Casanova, Michele Cataudella, Fernanda Decleva Caizzi, Maria Serena Funghi, Giuseppe Mastro­marco, Franco Montanari, Renzo Tosi, Mauro Tulli. Dedico questo libro a mia moglie Margherita, a qua principium.

L’EPISTOLA a Erodoto e il BIOS di Epicuro in Diogene Laerzio

I Note sull’ EPISTOLA A ERODOTO

35-36 (a) Ἐπίκουρος Ἡροδότῳ χαίρειν. τοῖς μὴ δυναμένοις, ὦ Ἡρόδοτε, ἕκα­στα τῶν πε­ρὶ φύσεως ἀναγεγραμμένων ἡμῖν ἐξακριβοῦν μηδὲ τὰς μείζους τῶν συντεταγ­μέ­νων βίβλους διαθρεῖν, ἐπιτομὴν τῆς ὅλης πραγματείας εἰς τὸ κατασχεῖν τῶν ὁ­λο­σχε­­ ρωτάτων δοξῶν τὴν μνήμην ἱκανῶς αὐτοῖς παρε­σκεύασα, ἵνα παρ᾿ ἑκάστους τῶν καιρῶν ἐν τοῖς κυριωτάτοις βοηθεῖν αὑτοῖς δύνωνται, καθ᾿ ὅσον ἂν ἐφάπ­των­ται τῆς περὶ φύσεως θεωρίας. (b) καὶ τοὺς προ­βε­βηκότας δὲ ἱκανῶς ἐν τῇ τῶν ὅλων ἐπι­ βλέψει τὸν τύπον τῆς ὅλης πραγ­ματείας τὸν κατεστοιχειω­μένον δεῖ μνη­μο­νεύειν· (c) τῆς γὰρ ἀθρόας ἐπι­βο­λῆς πυκνὸν δεόμεθα, τῆς δὲ κατὰ μέρος οὐχ ὁμοίως. [36] (d) βαδιστέον μὲν οὖν καὶ ἐπ᾿ ἐκεῖνα συνεχῶς, (d1) ἐν τῇ μνήμῃ τὸ τοσοῦτο ποιητέον, (e) ἀφ᾿ οὗ ἥ τε κυριωτάτη ἐπιβολὴ ἐπὶ τὰ πράγματα ἔσται καὶ δὴ καὶ τὸ κατὰ μέρος ἀκρίβωμα πᾶν ἐξευρήσεται, τῶν ὁλοσχερωτάτων τύπων εὖ περιειλημ­ μένων καὶ μνημονευομένων· (f) ἐπεὶ καὶ τῷ τετε­λε­σιουρ­γη­μένῳ τοῦτο κυριώ­τατον τοῦ παντὸς ἀκρι­βώ­μα­τος γίνεται, τὸ ταῖς ἐπι­βολαῖς ὀξέως δύνασθαι χρῆσθαι (g) καὶ πρὸς ἁπλᾶ στοιχειώματα καὶ φωνὰς συναγο­μένων. (h) οὐ γὰρ οἷόν τε τὸ πύκνωμα τῆς συνεχοῦς τῶν ὅλων περιοδείας εἶναι μὴ δυναμένου διὰ βραχεῶν φωνῶν ἅπαν ἐμπεριλαβεῖν ἐν αὑτῷ τὸ καὶ κατὰ μέρος ἂν ἐξακριβωθέν. (a) αὐτοῖς παρεσκεύασα BPF: αὐτὸς παρεσκεύασα Brieger: αὐτοὶ παρεσκευάσαμεν Arndt. (d) {καὶ} Crönert | συνεχῶς BPF: καὶ συνεχῶς recc. (con. Arndt) | ἐν τῇ μνήμῃ Von der Muehll: ἐν τῇ μνήμῃ BPF: ἐν τῇ μνήμῃ (Aldobrandinus), Schneider: ἔν τε μνήμῃ Usener | τὸ τοσοῦτο B1P1: τὸ τοσοῦτον B2: τοσοῦτο F: τοσοῦτον P4Z (editio Frobeniana): om. recc.

Walter Lapini, L’Epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio. Note testuali, esegetiche e metodologiche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015 ISBN (stampa) 978-88-6372-827-9 (e-book) 978-88-6372-828-6 – www.storiaeletteratura.it

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L’ Epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio

(f) τῷ τετελεσιουργημένῳ Von der Muehll: τοῦ τετελεσιουργημένου (τοῦ τελεσBF) BPF. (g) καὶ Diano: καὶ BPF: {καὶ} Schneider: ἑκάστων Usener: καὶ Marcovich: καὶ Bignone: καὶ Bailey | συναγομένων BPF: καὶ … συναγομένων post εὖ περιειλημμένων καὶ μνημονευομένων transtulit Aldobrandinus: {καὶ} … συναγομέναις Schneider: συνα­γο­μέ­νοις Von der Muehll: ἀναγομένων Usener. (h) εἶναι BPF: εἰδέναι Meibomius: εἶναι Diano | δυναμένου Thomas apud Usener: δυνάμενον BPF. (a) Epicuro a Erodoto salute. Per coloro che non possono, o Erodoto, dedicarsi allo studio delle opere da me scritte sulla natura, né esaminare almeno le maggiori fra quelle che ho composto, ho preparato un compendio di tutta la dottrina, perché possano ritenere sufficiente­mente nella memoria i principii fondamentali, affinché per ciascuna occasione, nelle questioni più importan­ti1, possano venire in aiuto a se stessi a seconda di quanto posseggono di scienza della natura. (b) E anche coloro che hanno sufficientemente progredito così da sapersi orientare nel complesso delle dottrine devono ritenere nella memoria l’impronta delle proposizioni fondamentali nelle quali si compendia tutta la trattazione. (c) Poiché dell’atto apprensivo dell’insieme abbiamo bisogno spesso, ma non è così per le singole parti. [36] (d) Certo anche al complesso delle dottrine bisogna rifarsi continuamente (d1), e ciò va fatto nella memoria, (e) per la qualcosa, se gli stampi fondamentali saranno ben compresi e ricordati, si avrà l’atto apprensivo principale delle cose, e si potrà poi anche arrivare all’esatta conoscenza delle singole parti. (f) Poiché anche per chi abbia rag­giun­to la perfezione questo è il punto fondamentale di tutta la dottrina: la possibilità di servirsi prontamente2 degli atti apprensivi; (g) e questo è impossibi­le se non si riduce il complesso delle dottrine a semplici formulazioni e definizioni. (h) Non può essere infatti frequente la continua rassegna del complesso delle dottrine se non si è capaci di racchiudere in sé per mezzo di brevi definizioni anche ciò che si è indagato particolarmente (Arrighetti pp. 34-36).

(a) La correzione di αὐτοῖς in αὐτός3 rimuove un anacoluto e quindi è stata particolarmente vituperata, in quanto prodotta da una volontà «norma­lizzatrice».

 Sui molti termini ambigui di questo incipit – ὅλη πραγματεία, ὁλοσχερώταται δόξαι, ecc. – si veda Montarese 2012, pp. 283-284 e note 915-916 e 918. Su τὰς μείζους βίβλους seguo Sedley 1984 = 1998, p. 100: τὰς μείζους = «the more important» (mentre secondo Montarese le μείζους βίβλοι potrebbero essere libri più lunghi di altri, o più dettagliati di altri). 2   È di velocità, di prontezza che si discute qui. Sono dunque da respingersi traduzioni come «scharfsinnig» (Krautz 1980, p. 5) e simili. 3  Proposta da Brieger (si veda l’apparato) e poi da Kochalsky p. 62. 1

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Bignone (p. 71 nota 1) e Bailey (p. 174) indicano una serie di paralleli per questo costrutto, ma l’unico che regge è RS 39, nemmeno questo comun­que abbastanza «clumsy». Un’altra possibilità – finora a quanto so mai presa in considerazione – è che αὐτοῖς vada con ἱκανῶς anziché con παρεσκεύα­σα. Nel qual caso l’anacoluto scompare e il senso diventa «ho scritto per i μὴ δυνάμενοι un’epitome sufficiente per loro». Magari non sufficiente per altri, ma per loro sì. (Poi come è ovvio si scoprirà che essa è utile indistintamente a tutti)4. Per ἱκα­ νῶς + dativo cfr. e.g. Xen. De re eq. 7.18; Plat. Crit. 49a; Phaed. 71d, ecc. (d) Non è chiaro dove finisca la proposizione di βαδιστέον e dove cominci quella di ποιητέον, né che cosa (e se qualcosa) le unisca. Stando al tràdito il confine dovrebbe essere il καί compreso fra οὖν ed ἐπ᾿ ἐκεῖνα, ma così ἐπ᾿ ἐκεῖνα verrebbe a dipendere da un ver­bo (ποιεῖν) che non regge il moto a luogo5. Perciò gli studiosi han­no pro­lungato il βαδιστέον-Satz fino ad ἐπ᾿ ἐκεῖνα (Arndt) o fino a συνεχῶς (Al­dobrandini, Usener, Von der Muehll e da ultimo Marco­v ich)6. L’elemento dirimente qui è ἐκεῖνα, che in teoria potrebbe riferirsi sia a ἕκα­στα τῶν περὶ φύσεως ἀναγεγραμμένων ἡμῖν sia, a senso, all’ ἐπι­τομὴ τῆς ὅλης πραγματείας. Siccome Epicuro ha appena detto che l’ ἐπιτομή è un sussidio

 Le lettere epicuree, specie quelle che contengono sententiae ed elementi di dottrina, possiedono senza ombra di dubbio (come si constaterà anche più avanti) una doppia funzione, relazionale e teorica: cfr. Campos Daroca – López Martínez 2010, pp. 22-24; De Sanctis 2011, specialmente p. 220; Gordon 2013, p. 134 e passim. Come è tornato a sostenere Roskam (2007, p. 43), rifacendosi a ipotesi più antiche, anche il famoso λάθε βιώσας (a cui lo studioso dedica una specifica monografia) poté in origine appartenere a una lettera. 5  La cosa non sgomenta Bollack – Bollack – Wismann (1971, pp. 70-71 e 170), che appunto costruisco­no (implausibilmente, come già osservava Boyancé 1972, p. 72) ἐπ᾿ ἐκεῖνα con ποιητέον. I Bollack non accettano neppure il ritocco προβεβηκότας in luogo di προβε­βλη­κότας, guasto evidente e di vulgatissima tipologia: si vedano ad apertura Plut. Reg. et imp. apophth. 181D ὑπερβεβληκέναι vs. ὑπερβεβηκέναι; Proc. De bello Pers. 2.4.3 (I, 163.8 Haury) ἀποβεβηκόσι vs. ἀποβεβληκόσι; Galen. De usu part. 12.7.26 (200.5-6 Helmreich) περιβεβηκυῖαι vs. περιβεβληκυῖαι; Procl. In Plat. Parm. 761.17 (60.17 Segonds) ἐπιβεβληκότος vs. ἐπιβεβηκότος, ecc. In Diog. Laert. 9.87 lo scambio è fra i sostantivi: σύμβλησιν vs. σύμβασιν. 6  Marcovich p. 734 stampa βαδιστέον μὲν οὖν καὶ ἐπ᾿ ἐκεῖνα καὶ συνεχῶς, ἐν τῇ μνήμῃ κτλ., cioè collega (d) e (d1) asindeticamente. Ma quale lettore antico, in mancanza di virgole, avrebbe capito che (d) termina a ἐπ᾿ ἐκεῖνα e non a συνεχῶς? Allo stesso modo, nel c. 37, Bollack – Bollack – Wismann (1971, p. 37) vorrebbero separare πᾶσι da ᾠκειωμένοις. 4

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alla memoria (c. 35 εἰς τὸ κατασχεῖν τῶν ὁλοσχερωτάτων δοξῶν τὴν μνήμην), la nuova men­zione della μνήμη al c. 36 sembra favorire la seconda ipotesi. In realtà non si vede perché uno dovrebbe indicare con ἐκεῖνα piuttosto che con ταῦτα una cosa che sta scrivendo sul momento: dunque gli ἐκεῖνα saran­ no più probabilmen­te gli ἕκαστα τῶν περὶ φύσεως ἀναγεγραμ­μένων ἡμῖν, cioè le lunghe e minuziose trattazioni del Περὶ φύσεως (o magari, come vuole Bignone p. 72 nota 1, gli ὅλα menzionati a distanza ancor più ravvicinata). L’utilità delle epitomi non implica comunque l’inutilità dei testi estesi: è bene tornare spesso alla lettura di «quelle cose», ma certo non è possibile impararle a memoria; a memoria occor­re invece impa­rare ciò che ci mette in condizione di esercitare «l’ap­plicazione capita­le», così da potersi destreggiare in ogni frangente. Un riscontro decisivo a questa let­tura si trova nel c. 83 ὥστ᾿ ἂν γένοιτο οὗ­τος ὁ λόγος δυνατός, κατασχεθεὶς μετ᾿ ἀκριβείας, οἶμαι, ἐὰν μὴ καὶ πρὸς ἅπαντα βαδίσῃ τις τῶν κατὰ μέρος ἀκρι­βω­μάτων, ἀσύμβλητον αὐ­τὸν πρὸς τοὺς λοιποὺς ἀνθρώπους ἁδρότητα λήψεσθαι7, dove βαδίζειν πρὸς ἅπαντα, evidentemente corrispettivo di βαδι­στέον ἐπ᾿ ἐκεῖνα, è riferito alla dottrina fisica nel complesso, distinta da quella fornita in epitome (οὗτος ὁ λόγος)8. Se così è, il re­stauro migliore sem­bra quello del Von der Muehll9, l’unico che sviluppi un’opposizione fra βαδίζειν ἐπ᾿ ἐκεῖνα e ἐν τῇ μνήμῃ ποιεῖν; op­po­si­ zione per lo più non rilevata10, ma vitale per la comprensione del passo. (g) È evidente il cortocircuito sintattico del tràdito καὶ πρὸς ἁπλᾶ στοιχειώματα καὶ φωνὰς συναγο­μένων, che gli studiosi hanno cercato di sanare con corre-

 Sul difficile c. 83 si tornerà più avanti.  L’anaciclicità dei cc. 35-36 con l’83 è evidente (cfr. e.g. Strozier 1985, pp. 53-54); su di essa si fonda Bredlow 2008, pp. 175-176, per proporre una lettura concettualmente inte­ressante (anche se testualmente inattendibile) delle ulti­mis­sime parole dell’Epi­sto­la. 9   Von der Muehll p. 3. Lo segue fra gli editori laerziani H. S. Long (II, p. 512). 10  Arrighetti (p. 34) e Verde (pp. 32-33) adottano e lo traducono «e» (però c’era «ma» in Arrighetti 1960, p. 34), con il che il «complesso delle dottrine» viene ad essere il contenuto dell’epitome. Così pres­sap­poco anche Gigante p. 413; Russello 1994, p. 69; Jürß pp. 468-469, ecc. Usa l’avversativa la Ramelli (p. 61) nel tradurre il testo di Usener p. 3 (anzi non di Usener, dato che Usener non ha ), ma senza neppure lei cogliere il punto. Bene la Massa Positano: «è necessario pertanto rifarsi di continuo all’intera dottrina, ma la memoria dovrà ritenerne quel tanto» ecc. (p. 29); il testo seguìto è quello del Von der Muehll. La Thyresson (1977, p. 121) osserva che in Epicuro ci sono più δέ continuativi che δέ avversativi. Ma questo credo sia vero per qualunque autore. 7 8

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zioni pesanti o con estese inserzioni di testo11. Una pro­po­sta efficace è quella dell’Al­do­brandini: traslocare (g) dopo (e), aggiungendo a περι­ει­λημμένων καὶ μνημονευο­μένων un terzo genitivo e ottenendo in tal modo una frase interna­ men­te coesa sia dal punto di vista sintattico sia dal punto di vi­sta concet­tua­le. Ma la soluzione giusta secondo me è ancora un’altra: spostare (f) dopo (b): (b) καὶ τοὺς προβεβηκότας δὲ ἱκανῶς ἐν τῇ τῶν ὅλων ἐπιβλέψει τὸν τύπον τῆς ὅλης πραγματείας τὸν κατεστοιχειωμένον δεῖ μνημονεύειν, (f) ἐπεὶ καὶ τοῦ τετε­λε­σιουρ­ γημένου τοῦτο κυριώτατον τοῦ παντὸς ἀκρι­βώματος γίνεται, τὸ ταῖς ἐπιβολαῖς ὀξέως δύνασθαι χρῆσθαι· (c) τῆς γὰρ ἀθρόας ἐπιβολῆς πυκνὸν δεόμεθα, τῆς δὲ κατὰ μέρος οὐχ ὁμοίως.

Tale arrangiamento sembra migliore per almeno due motivi, primo dei quali la funzione del καί preposto a τῷ τετελε­σιουργημένῳ. Questo «anche» ha senso infatti solo se nelle immediate adiacenze si sia parlato di altri e inferiori gradi di preparazione scientifica. E sistemando (f) dopo (b) si otterrebbe appunto la seguente successione di idee: le epitomi sono necessarie prima di tutto agli iniziati semplici, che non hanno la possibilità di dedicarsi a letture estese (a), ma allo stesso modo sono utili ai provectiores, i «grandi iniziati» (προβεβηκό­τες) (b), visto che anche il perfectus (τετε­λε­σιουργημένος) ne trae pro­f itto (f)12. Tutti e tre i possibili livelli di apprendimento sono perciò considerati13. Si noterà inoltre che con lo spostamento da me proposto si

 La possibilità di intendere (f) come una parentesi esplicativa fu discussa già da Roeper 1864, p. 661. Ma le parentesi, se parliamo di autori che non le usano (in quanto non le conoscono), devono essere auto­dia­gno­stiche, cioè presentare un minimo di estra­nei­tà sintattica rispetto al contesto. E non mi pare che sia il caso qui. Bignone 1920, p. 72 nota 2, scrive: «mantengo in tutto la lezione dei codici, solo inserisco , innanzi a πρὸς ἁπλᾶ». In questo «solo inserisco» è evidente il pregiudizio che aggiungere testo che non c’è sia soluzione meno costosa che cambiare, anche lievemente, il testo che c’è. Si veda la Sezione III.1. 12  A differenza di Lembo 1981-1982, p. 34, non credo che la τελεσιουργία pos­ sa riguardare l’ ἀκρίβωμα, anche perché in ἐπεὶ καὶ τοῦ τετε­λ ε­σιουρ­γ η­μένου τοῦτο κυριώ­τατον τοῦ παντὸς ἀκριβώματος γίνεται avrem­mo un articolo di troppo (e infatti Roeper 1864, p. 661, che anticipava la lettura di Lembo, ne estrometteva uno, quello davanti a τετελε­σιουρ­γ ημένου). 13  Sul punto in questione fortunatamente esiste (almeno fra chi intenda maschile il τοῦ τετε­λ ε­σιουρ­γ η­μένου dei codici o il τῷ τετελεσιουργημένῳ di Von der Muehll) una per­fetta unanimità: Kleve 1971, p. 90; Angeli 1985, p. 68 e nota 52; Balaudé pp. 1157-1161; Tulli 2000, p. 110; Verde p. 74. Quanto al participio, la correzione τῷ τετε­λ εσιουργημένῳ del Von der Muehll è quasi certamente da accettarsi, anche perché l’errore che essa viene a sanare si spiega con facilità: le desinenze saranno 11

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instaura un’appropriata continuità fra ταῖς ἐπιβολαῖς di (f) e τῆς ἐπιβολῆς di (c), e che le pericopi (e) ed (f), anche sottraendovi quanto sta in mezzo, si suturano a perfezione, e forse meglio di prima, dato che la traslocazione di ἐπεὶ καὶ (…) δύνασθαι χρῆσθαι avvicina ulteriormente συνεχῶς (d) e συνεχοῦς (h), la cui connessione è palese. Quanto alla causa dell’er­rore, c’entrerà eviden­te­mente qualcosa la ripetizione μνημο­νεύειν/μνημο­νευομέ­νων. Dopo aver illustrato l’integrazione di Diano (1974, p. 297), l’amica G. Leone scrive che «più arditamente Lapini, accogliendo la proposta dell’Aldobrandini, suggerisce lo spostamento dal c. 36 al c. 35, dopo l’infinito μνημονεύειν, della frase che va da ἐπεὶ καὶ τοῦ τετε­λε­σιουρ­γημένου fino a χρῆσθαι» (2011, p. 278). In verità, come si può vedere, io non accoglievo la proposta dell’Aldobrandini. E il mio intervento non è affatto più ardito di quello di Diano. (h) Εἰδέναι per εἶναι è facile corruttela14, ma dubito che εἰδέναι πύκνωμα (Meibomius) sia greco accettabile; quanto a δυναμένου di Thomas, i genitivi assoluti senza soggetto espresso non sono estranei a questa prosa. La soluzione dunque è buona. Ne aggiungo una terza: mantenere εἶναι e correggere δυνάμενον in δυναμένω15 i.e. δυναμένῳ (si ricordi che in genere i codici laerziani omettono lo iota mutum), in modo da ottenere una prosecuzione più stretta del ragionamento precedente impostato su τῷ τετελεσιουργημένῳ. Il senso di (f)-(h) sarebbe: «il perfectus ha accesso a ogni ἀκρίβωμα a patto di saper usare le ἐπιβολαί in modo rapido: infatti (egli) non ha il πύκνωμα se non riesce a» ecc. Giusto dunque l’appositivo μὴ δυναμένῳ, senza articolo.

state attratte dall’ ου interno (gli ου interni sono addirittura due nel più comune τελεσιουργουμένου, che certo interferiva a livello mnemonico). Per altre con­ siderazioni su questo problema di testo si veda anche la nota precedente. Per ω/ου si veda la nota 277 al c. 74. 14  Per Diogene Laerzio segnalo 8.9 εἰδέναι PF: εἶναι B; 8.30 σταγόνας δὲ εἶναι recc.: σταγόνας δὲ εἰδέναι BPF; 9.5 εἰδέναι recc.: εἶναι BPF. Si aggiunga 8.23 εἶναι BPF: εἰδέναι M. Casaubon. I testi filosofici per ovvie ragioni sono particolarmente colpiti (e.g. Plat. Phaed. 101b; Theaet. 188b e 188d; Aristot. Poet. 1448b) da questa piccola ma non certo innocua corruttela. 15  Lo scambio ον/ω è ben attestato nella tradizione delle Vite dei filosofi. In genere la vittima è αὐτός (da αὐτόν ad αὐτῶ(ι) e viceversa: 1.89, 2.81, 3.73, 4.6, 4.22, 5.41, 5.73, 6.26, 6.36, 6.75, 8.41, 9.63, 9.64, 9.111). La prevalenza della componente visiva è raramente dimostrabile in casi come questo; essa mi sembra però certa in 4.42 ἠλέματον, 9.13 καταβέβλησαι λόγον e 10.130 καὶ τὴν αὐτάρκειαν δὲ ἀγαθὸν μέγα νομίζομεν, dove F ha rispettivamente ἠ δὲ μάγω, λόγω e ἀγαθῶ, che danno poco senso o non ne danno affatto.

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37 (a) ὅθεν δὴ πᾶσι χρησίμης οὔσης τοῖς ᾠκειωμένοις φυσιολογίᾳ τῆς τοιαύτης ὁδοῦ, (b) παρεγγυῶν τὸ συνεχὲς ἐνέργημα ἐν φυσιολογίᾳ (c) καὶ τοιούτῳ μά­λι­ στα ἐγγαληνίζον τῷ βίῳ (d) ποιήσασθαι, καὶ τοιαύτην τινὰ ἐπι­τομὴν καὶ στοιχείωσιν τῶν ὅλων δοξῶν. (b) παρεγγυῶν τὸ P1(Q): παρεγγυῶ: τὸ (sic ῶ: in ras.) B2: παρεγγυώντων FP4 | ἐνέργημα F: ἐνάργημα BP. (c) τοιούτῳ (post Hirzel) Usener: τὸ τούτων BPF: τοιοῦτ ὢν Bignone | ἐγγαληνίζον τῶ P1 (ἐνγ-), F2: ἐνταληνίζων τῶ B (-ζον B2): ἐγγαληνιζόντων F1P4. (d) ποιήσασθαι BPF: ἐποίησά σοι Usener: ποιήσασθαι Meibomius | ἐπιτομὴν Diano: ἐπιτομὴν Marcovich | τῶν ὅλων δοξῶν BPF: τῶν ὅλων ἔδοξεν Kuehn. (a) Per cui, essendo questo metodo utile a tutti coloro che hanno dime­sti­chezza con la scienza della natura, (b) io che raccomando una continua attività in questa scienza e di procacciarsi ciò che procura massimamente serenità in tale genere di vita, (d) ho preparato per te anche questa epitome con i sommi principii del complesso delle dottrine (Arrighetti p. 36).

«Discorso alquanto involuto», diceva Giussani (1896, p. 8). La ragione è che manca un verbo reggente. Secondo i più questo verbo sarebbe sem­plicemente caduto, mentre secondo lo Usener sarebbe da ricavare dalla correzione ποιήσασθαι > ἐποίησά σοι; correzione da molti recepita16 ma – stranamente per Usener – poco attenta al contesto, poiché pur essendo l’Epistola rivolta sia a Erodoto sia all’umanità intera, c’è comunque un che di asimmetrico nel dire «l’epitome è utile a tutti» e subito dopo ag­giungere «ho scritto questa epitome per te»17 (mentre il ταῦτά σοι, ὦ Ἡρόδοτε del c. 82 va benissimo, non

 Anche senza avvertire che non si tratta di testo tràdito (e.g. Crönert 1906b, p. 414; Westman 1955, p. 219; Hicks II, p. 566; Isnardi Parente p. 156; Balaudé p. 1266). 17  In Lapini 2010, p. 339 nota 17, avevo scritto: «Arrighetti pp. 36-37 adotta la soluzione di Diano (), ma la traduzione “ho preparato per te” sembra riflettere ἐποίησά σοι di Usener». G. Leone mi fa notare come anche F. Verde sia incorso in questa svista, «in quanto traduce συνέθηκα “ per te”, presupponendo un σοί che nel suo testo non c’è» (2011, p. 278). In realtà, a ben considerare, la svista è mia e della Leone, e non di Arrighetti e Verde, i quali, come rivela la punteggiatura, fanno dipendere ποιήσασθαι da παρεγγυῶν, con συνέθηκα a reggere ἐπιτομήν e στοιχείωσιν. Dunque la constitutio del Diano (si veda oltre) è stata rispettata (e il σοί è stato aggiunto per mere ragioni di chiarezza). L’errore 16

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essendo qui menzionati espressamente altri desti­na­tari). E s’intende che rinun­ciare a σοι renderebbe la con­gettura alquanto più costosa18. (c) I codici hanno καὶ τὸ τούτων μάλιστα ἐγγαληνίζον τῷ βίῳ, ma se a ποιήσασθαι diamo per oggetto τοιαύτην τινὰ ἐπιτομὴν καὶ στοι­χείω­σιν (né pare ci sia alternativa), allora più nulla resta che possa reggere un ἐγγαλη­νίζον accusativo. Non senza motivo dunque si è tanto spesso adottata la lezione di B ἐγγα­ ληνίζων, da coordinare con παρεγγυῶν. Il Diano (1948) non credeva alla compatibilità di παρεγγυῶν19 e di ἐγγαληνίζων: a suo parere l’«offrire uno studio continuo» riguarda solo i destinatari dell’epitome e non anche Epicuro, che è già τέλειος; sono gli allievi che devono imparare, progredire: è a loro che spetta il συνεχὲς ἐνέργημα20. Ma allora «lo studio continuo» (degli altri) e «la vita serena» (di Epicuro) verrebbero ad appartenere a ordini di idee troppo diffe­renti. La soluzione migliore sarebbe dunque stampare il testo manoscritto e far reggere τὸ συνεχὲς ἐνέργημα ἐν φυ­σιολογίᾳ καὶ τὸ τούτων μάλιστα ἐγγα­λη­νίζον τῷ βίῳ da ποιή­σα­σθαι, a sua volta

che non commettono né Arrighetti né Verde, lo commette Krautz (1980, p. 6), che adotta ἐποίησά σοι benché affermi (cfr. p. 127) di prendere come base il testo di Arrighetti. (E non è l’unica infedeltà non dichiarata da Krautz: cfr. cc. 36, 47, 51, 60, 65, 68, 69, 71, ecc.). 18  Roeper (1864, pp. 661-662) accoglieva l’intervento di Kuehn δοξῶν > ἔδοξε e impecettava vari ritocchi e proposte: ὅθεν δὴ (…) τῆς τοιαύτης ὁδοῦ, παρεγγυώντων συνεχὲς ἐνέργημα ἐν φυσιολογίᾳ καὶ τῶν τούτῳ μάλιστα ἐγγαληνιζόντων βίῳ, ποιήσασθαι καὶ τοιαύτην τινὰ ἐπι­τομὴν καὶ στοιχείωσιν τῶν ὅλων ἔδοξεν. Ma se del genitivo assoluto è chiara la struttura, molto meno chiaro è il senso filosofico. Inoltre i rimaneggiamenti sono parecchi, l’ultimo pesante. Sulla linea di Kuehn e di Usener (modifica, non integrazione) si era messo già Gassendi: παρεγγυῶ per παρεγγυῶν. Da Gassendi prendeva spunto García Calvo (1972, p. 76) per proporre (nel quadro di una ricostru­zio­ne del testo anche per altri versi irricevibile) l’imperfetto παρηγγύων, da lui giudicato mi­gliore «per ragioni paleo­gra­f iche» (che io non vedo). 19  Su παρεγγυᾶν nella Lettera a Erodoto si veda specificamente Salvaneschi 1974, p. 34. 20  Personalmente non ho dubbi sulla superiorità di ἐνέργημα su ἐνάργημα (accettato solo da Bollack – Bollack – Wismann 1971, p. 72). La Ramelli scrive: «nel § 36, di controversa lettura, Sedley propone di emendare la lezione ἐνάργημα dei codici laerziani con ἐνήργημα [sic]; si veda oggi l’ed. Marcovich di Diogene, Leipzig 1999, ad l., testo e apparato critico» (p. 63). In verità Sedley (1973, p. 78) si limitava a d i f e n d e r e ἐνέργημα contro ἐνάργημα (preferito da Kleve 1971, pp. 92-95; e preferito a torto, come sostiene, e forse dimostra, Luján Martínez 2006, pp. 544-545): nessuna delle due lezioni è congetturale (si veda l’apparato riportato sopra).

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retto da παρεγγυῶν21. Naturalmente neppu­re in questa ricostruzione è evitabile l’aggiunta di qualcosa come συνέ­θηκα, συντέθεικα o συνέστησα in prossimità degli accusativi τοιαύτην τινὰ ἐπι­το­μὴν καὶ στοιχείωσιν. A favore del tràdito τὸ τούτων μάλιστα ἐγγαληνίζον τῷ βίῳ si è pronunciato qualche anno fa anche Mario Regali, che traduce «ciò che di queste dottrine procura massimamente felicità» (2005, p. 230), e che peraltro osserva come la correzione τοιούτῳ di Hirzel (1877, pp. 155-156) non fosse in origine destinata a modificare τὸ τούτων, bensì l’im­possibile τῷ τούτῳ dell’edizione del Froben, presa come base da Cobet (p. 263) e, via Cobet, da Hirzel stesso. Il dettaglio riportato all’attenzione da Regali ha una sua importanza, poiché dimostra che non si può arruolare lo Hirzel fra coloro che non hanno capito o apprezzato τὸ τούτων22. Ma alla ricostruzione di Diano si può obiettare che l’identità di τούτων è am­bi­gua23, e che la discrasia tra l’offrire e il rasse­re­nare, per quanto lo studioso cer­chi di eliminarla, conti­nua a sussistere, come peraltro dimostra l’impossibilità di raccordare ποιήσασθαι a entrambi gli oggetti: il senso di lucrare può in qualche modo adat­t arsi a τὸ ἐγγαληνίζον, ma che vuol dire τὸ συνεχὲς ἐνέργημα ποιή­σα­σθαι?24 In­f ine, come si è visto, il Diano deve anche lui25 inserire un verbo reggente da qual­che parte. E gli interventi in questo

 Diano 1948, p. 109; così anche Kleve 1971, p. 90, con piccole differenze.  Peraltro, come Regali fa molto opportunamente notare, nelle intenzioni di Hirzel questo τοιού­τῳ era più un suggerimento che una vera e propria correzione. 23  Dire che «τούτων è neutro e si riporta al precedente τὰ ὅλα» (Diano 1948, p. 109) non basta, perché può trattarsi sia delle dottrine estese, di cui l’epitome contiene le principali, sia delle dottrine esposte nell’epitome, fra cui l’allievo dovrà operare ulte­r iori selezioni. 24  Secondo Diano ποιήσασθαι «vale παρασκευάσασθαι» (1948, p. 109); cosa che andrebbe non solo affermata ma anche dimostrata. Gli zeugmi sono violazioni di regole, ma hanno anch’essi delle regole: solo un rapporto limpido tra A e X (ποιήσασθαι + τὸ ἐγγαληνίζον) consente al lettore di comprendere il rap­por­to meno limpido che eventualmente sussista tra A e Y (ποιή­σα­σθαι + τὸ συνε­χὲς ἐνέργημα). 25  I soli a non sentire questa necessità sono i Bollack (Bollack – Bollack – Wismann 1971, pp. 37 e 171-172 nota 1). Anche Zevort 1847, p. 265, si era attenuto al tràdito; ma è un mistero per me come potesse ricavare «je leur recommande – tout en poursuivant sans relâche l’étude de la nature, qui contribue plus qu’aucune autre au calme et au bonheur de la vie –, de faire un résumé, un sommaire de leurs opinions» dal testo che stampa alla nota 1: παρεγγυῶ τὸ συνεχὲς ἐνέργημα ἐν φυσιολογίᾳ, τὸ τούτων μάλιστα ἐγγαληνίζον τῷ βίῳ, ποιήσασθαι, καί … κτλ. Si noti inoltre «leurs opinions», non piccolo errore. Il Lechi accoglie παρεγγυώντων ed ἐγγαληνιζόντων e li traduce come imperativi; e traduce ποιήσασθαι «si procacceranno», senza dire da che cosa sia retto questo infinito (1845, p. 368). 21

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senso – da o dello stes­so Diano a di Kochalsky a di Kle­ve26 a di Von der Muehll a di Marcovich a del Mei­bo­mius a ἐποίη­σά σοι di Usener a ἔδοξεν di Kuehn – non sono legge­rissimi27. Io credo che il periodo si possa aggiustare con due semplici ritocchi: τὸ τούτῳ per τὸ τούτων e παρεγγυᾷ per παρεγγυῶν; nel qual caso παρεγγυᾷ diven­terebbe, senza tanti sconquassi, il verbo reggente che cerchiamo: ὅθεν δὴ πᾶσι χρησίμης οὔσης τοῖς ᾠκειωμένοις φυσιολογίᾳ τῆς τοιαύτης ὁδοῦ, παρεγγυᾷ τὸ συνεχὲς ἐνέργημα ἐν φυσιολογίᾳ καὶ τὸ τούτῳ μάλιστα ἐγγα­λη­νίζον τῷ βίῳ ποιήσασθαι καὶ τοιαύτην τινὰ ἐπιτομὴν καὶ στοιχείω­σιν τῶν ὅλων δοξῶν. Perciò, siccome questo metodo giova a tutti coloro che si occupano di scienza naturale, il (mio) continuo impegno nella scienza naturale e i frutti di serenità che raccolgo soprat­tut­to in questa scelta di vita (mi) esortano (παρεγγυᾷ) a comporre anche una tale epitome e rica­pi­to­la­zio­ne di tutte le mie dottrine.

Stando a questo testo (dove peraltro si mantiene senza forzature il neutro ἐγγαληνίζον, che come sostiene Regali va se possibile salvato), due sa­reb­bero le cose che spingono Epicuro a comporre l’epitome: da una parte la competenza derivante dal diuturno studio della natura, dall’altra il dovere morale di tra­smet­tere anche ad altri il frutto della serenità che un βίος consacrato alla ricerca gli permette di godere. Due motivazioni che si ritrovano, sinteticamente ma fedel­mente espresse, nel noctes vigilare serenas del prologo lucreziano (1.142143). David Sedley, per lettera, rileva come nella frase da me ricostruita non sia visibile alcun nesso personale, tale da giustificare la resa «(mi) esortano»; e aggiunge che l’analettico τούτῳ presupporrebbe una precedente menzione di questo βίος. Men­zio­ne che invece non c’è. Sedley perciò si chiede se non sia

  Kleve 1971, p. 90. La caduta si spiegherebbe più facilmente con dopo ποιή­σα­σθαι anziché dopo τινά. 27  Non proprio aggraziate le modifiche su forme verbali che oltre all’intervento sulla desinenza richiedono aggiunta o ablazione di aumento. In Diogene Laerzio, oltre a quella in discussione, se ne segnalano altre due: 6.20 κιβδηλεύσας (BPF) vs. ἐκιβδήλευσε (Cobet) e 8.14 ὥστε ἔλεγον (BPF) vs. ὥστε λέγειν (Rittershuis), tutte e due opportunamente respinte da Dorandi. Una correzione di questo tipo è stata tentata anche per il c. 83: κατασχεθῆναι (o κατασχεθείς) in luogo di κατεσχέθη. Quanto a δεῖ, il Meibomius lo collocò in una posizione infelice: come nota Arndt (1913, p. 9), nella Lettera a Erodoto i δεῖ precedono l’infinito nella quasi totalità dei casi: cfr. anche Usener GE  pp. 166-167 s.v. δεῖν. È stupefacente apprendere come allo Schneider potesse «piacere eccezionalmente» (1813, p. 47: «mire mihi placet») il mutamento di δοξῶν in ἔδοξε; ma l’alternativa era il δεῖ del Meibomius, studioso per il quale lo Schneider non aveva simpatia. 26

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soluzione migliore quella di accogliere il mio παρεγγυᾷ mantenendo il tràdito τούτων: «la loro continua attività nell’ambito della fisica, e l’attività che più crea tranquillità nella loro vita, incoraggiano a» ecc. Il suggerimento è attraen­te, ma si presta a questa obiezione: che difficilmente τούτων può riferirsi a πᾶσι τοῖς ᾠκειωμένοις φυσιολογίᾳ, dato che l’«impegno continuo» non riguarda che una parte dei destinatari della lettera, cioè i perfecti e i provectiores, ma non i principianti (che d’altronde ne sono i principali fruitori). Quanto al τούτῳ analettico, il riferimento non è esplicito, ma c’è, ed è il συνεχὲς ἐνέργημα (semplificando: «l’impegno continuo e la felicità che ne ricavo»)28. Con la mia proposta il nesso personale si evince inequivocamente (e direi necessariamente) da quanto Epicuro aggiunge di séguito: il καί che sta davanti a τοιαύτην serve appunto a far capire che l’autore dell’ ἐπιτομὴ καὶ στοιχείωσις è lo stesso che ha composto le μείζους βίβλοι menzionate in (a). E non v’è dubbio che questi sia Epicuro. Resta da chiedersi se la correzione παρεγγυᾷ riguardi solo il testo di Epicuro o anche quello di Diogene. L’er­rore sembra di minuscola, senonché, come ha osservato Dorandi (2009, p. 105), non risulta che i guasti di minuscola fossero frequenti nell’ar­che­tipo della tradizione laerziana. Lo scambio α(ι)/ω è ben attestato, ma solo come errore singo­lare29. Unica eccezione significativa è 2.103, dove l’insen­sato μαρίω(ι) di BPFΦ va corretto in Μάγᾳ col Pal­me­rius30. Tuttavia il guasto del c. 36 non deve essere per forza un errore visivo: una volta infatti che da ἐγγαληνίζον τῶ31 fosse nato ἐγγαλη­νι­ζόντων, chi volesse restituire al passo una pur speciosa corret­tez­za sintattica non avrebbe potuto esimersi dal ritoccare anche παρεγγυᾷ τό in παρεγγυώντων, che infatti è at­testa­to; donde il refluo παρεγγυῶν τό.

 Per questi riferimenti a senso cfr. Thuc. 2.49.5 ἥδιστά τε ἂν ἐς ὕδωρ ψυχρὸν σφᾶς αὐτοὺς ῥίπτειν· καὶ πολλοὶ τοῦτο (i.e. τὴν ῥίψιν) τῶν ἠμελημένων ἀνθρώ­πων καὶ ἔδρασαν ἐς φρέατα; Xen. Anab. 3.1.30 σκεύη ἀναθέντας τοιούτῳ (i.e. ὡς σκευοφόρῳ) χρῆσθαι, ecc. Si consideri peraltro che, meno la lingua è alta, più questi fenomeni infittiscono. 29  Alcuni esempi: 1.119 Σύρῳ vs. Σύρᾳ; 4.25 γήρως vs. γῆρας; 7.59 παριστᾶ­σα vs. παριστῶσα, ecc. Per il libro X si vedano e.g. 4 e 6 Λεον­τίῳ vs. Λεοντίᾳ (con tutte le cautele del caso, dato che qui si tratta di nome proprio); 78 ἐνδεχομέ­νως vs. ἐν­δεχομένας; 87 οὐ τά vs. οὕτως; 107 ἀραιό­τ ητα vs. ὡραιότητα; ibid. συμμε­τρίας vs. συμ­ μετρίως; 116 ῥᾳδίως vs. ῥᾳδίας; 147 ματαίῳ vs. ματαίᾳ, ecc. Meno mi fiderei di 8.81 ἱκανῶς BP: ἱκανὰς F (precede ἐπέστειλας, ed F ha la tendenza a uniformare). 30  Non è esempio affidabile 2.27 ἀρίστων (BPF) per ἀριστᾶν nella citazione da Aristoph. Nub. 416 ἀριστᾶν ἐπιθυμεῖς. Qui forse è la memoria di Diogene la causa dell’errore. Giusto dunque, con Dorandi p. 167, mantenere il tràdito (è invece in errore, anche metodologico, Marcovich p. 110, che adegua Diogene ad Aristofane). 31  Sic: torno a rammentare che i codici laerziani omettono per lo più lo iota mutum. 28

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38 εἶτα κατὰ τὰς αἰσθήσεις δεῖ πάντα τηρεῖν καὶ ἁπλῶς τὰς παρούσας ἐπιβολὰς εἴτε διανοίας εἴθ᾿ ὅτου δήποτε τῶν κριτηρίων, ὁμοίως δὲ καὶ τὰ ὑπάρχοντα πάθη, ὅπως ἂν καὶ τὸ προσμένον καὶ τὸ ἄδηλον ἔχωμεν οἷς σημειωσόμεθα. εἶτα Gassendi: εἴτε BPF: ἔτι τε Arndt: ἔπειτα Usener | κατὰ BPF: καὶ Von der Muehll: {καὶ} Heidel | ἔπειτα τὰς αἰσθήσεις πάντα τηρεῖν Brieger | πάντα BP: om. F, del. Heidel: πάντως Von der Muehll: πάντῃ dubitanter Merbach: πάντων Bignone | πάντα τηρεῖν BPF: παρατηρεῖν Diels | καὶ τὰ ὑπάρχοντα BPF: κατὰ τὰ ὑπάρχοντα Giussani: καὶ τὰ ὑπάρχοντα Gassendi. Inoltre è in base alle sensazioni che bisogna tener conto di tutto, e in generale in base agli atti apprensivi immediati, sia della mente sia di qualsiasi altro criterio, ugualmente in base alle affezioni che si producono, per poter avere con che procedere a delle induzioni sia su ciò che attende conferma, sia su ciò che non cade sotto il dominio dei sensi (Arrighetti p. 36).

Una traduzione più aderente sarebbe «dobbiamo considerare tutto affidandoci alle sensazioni e, in particolare, le intuizioni presenti (…), e similmente anche le passioni presenti» (Ramelli p. 65). Ma nessuno consentirà che le passioni e le ἐπιβολαί, qualunque cosa si intenda con questo termine, siano su­bor­dinate alle sensazioni32. E ἁπλῶς non vuol dire «in parti­cola­re»33.

 Bignone 1920, p. 73 nota 3, e soprattutto Bailey p. 178.   È ovviamente πάντα, generico di suo, che obbliga a questa forzatura, già sostenuta (con titubanza, e senza riscontri) da Bailey p. 178: «ἁπλῶς probably means ‘in particular’». Tutto al contrario Delattre 2004, p. 158: «d’une manière générale» (= Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin 2010, p. 15; così all’incirca anche Conche 1987, p. 101; Gigandet 2007a, pp. 77 e 91). L’«überhaupt» di Merlan (1936, col. 910) e di Krautz (1980, p. 7), il «vor allem» della Manuwald, il «simply» di Inwood – Gerson (1994, p. 6) e il «semplicemente» di Adorno (1996, p. 78) non ci aiutano. Nella prima edizione (1960, p. 36) Arrighetti traduceva «cioè». Rapp (2010, p. 46) non traduce l’avverbio, o perché lo stima superfluo o perché se ne dimentica. Credo che meglio di tutti abbia fatto Heidel 1902, p. 187: «in short». S’intende che il senso di ἁπλῶς dipende anche dalle ἐπιβολαὶ τῆς διανοίας, qui definite παροῦσαι. L’ ἐπιβολή è senza paragone il vocabolo epicureo più studiato e discusso. Fra l’immensa bibliografia e per le innumerevoli soluzioni translatorie in lingua moderna segnalo Giussani 1896, pp. 171-182 (sui corrispondenti lucreziani animi iactus e animi iniectus); Bailey pp. 259-274; D’Andrea 1936, pp. 131-133; DeWitt 1943, p. 21; Manuwald 1972, pp. 40 sgg. e 115-120; Sedley 1973, pp. 23-25; Lee 1978, p. 50; Rist 1978, p. 38; Zacher 1982, pp. 195-197; Asmis 1984, p. 164; Annas 1992, p. 165 e 32

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In questo passo abbiamo «cose che» e «cose secondo cui», e fra questi due gruppi dobbiamo distribuire le αἰσθήσεις, i πάντα, le ἐπιβολάς e i πάθη, disponendo i κατά in modo tale che non ne esca, come paventava Bignone, «una inaudita congerie di criteri di verità» (1896, p. 177 nota 1)34. Alle molte e varie soluzioni fin qui proposte – supplire con Gassendi i κατά mancanti (davanti a τὰς παρούσας ἐπιβολάς e a τὰ ὑπάρχοντα πάθη), o sot­tin­tenderli, come in genere si fa da Usener in poi35 – preferisco senz’altro scrivere καὶ τὰς αἰσθήσεις con Von der Muehll (p. 4) e Hammerstaedt (1996, p. 232 nota 50)36, e quindi intervenire su πάντα. Tendo a escludere che su questo πάντα si debba dar ragione a F (e ad Heidel), poiché il testo di F si spiega bene in base a quello di BP ma non viceversa. Quanto ai vari πάντως τηρεῖν, πάντῃ τηρεῖν, ecc., sono tentativi plausibili ma opachi. Il migliore è παρατηρεῖν37, ma più fondato mi parrebbe μάλιστα38 τηρεῖν, con μάλιστα = «al più alto grado». Μάλιστα τηρεῖν anche in Aristot. Pol. 1308b (retto da δεῖ) e Theophr. CP 3.5.2. Uso connesso di μάλιστα + καὶ ἁπλῶς in Theophr. De lap. 69 καίουσι δὲ μάλιστα τοὺς μαρμάρους καὶ ἁπλῶς τοὺς στε­ρεω­τά­τους. 39 (a) παρὰ γὰρ τὸ πᾶν οὐθέν ἐστιν, ὃ ἂν εἰσελθὸν εἰς αὐτὸ τὴν μεταβολὴν ποιήσαιτο (…). (b) σώματα μὲν γὰρ ὡς ἔστιν, αὐτὴ ἡ αἴσθησις ἐπὶ πάντων μαρτυρεῖ, καθ᾿ ἣν ἀναγκαῖον τὸ ἄδηλον τῷ λογισμῷ τεκμαίρεσθαι, ὥσπερ προεῖπον τὸ πρόσθεν.

nota 29; Morel 2000, p. 112; Fowler 2002, pp. 329 sgg.; Hourcade 2007, pp. 170-172; Morel 2007a, pp. 39 sgg.; Asmis 2009, p. 90; Giovacchini 2012, pp. 29 sgg. e 68 sgg. Come si vede, una bella lista – ed è tutt’altro che completa. 34  Per un breve status quaestionis sui καί e sui κατά di questo passo si veda Hammerstaedt 1996, p. 232 nota 50. 35  Usener p. 5; Long II, p. 513; Bollack – Bollack – Wismann 1971, p. 74; Long – Sedley II, p. 92; Balaudé p. 1266, ecc. 36  Grilli sul c. 47: «a chi abbia pratica di codici greci, non pare neanche correzione un κατ(ά) scritto per καί» (1974, p. 102). Vale naturalmente anche il reciproco. 37  Lo propone Diels ap. Arndt 1913, p. 8 («diligenter observare»), e Arndt approva con entusiasmo. Il termine piace a Epicuro (cfr. Epist. Pyth. 115 e GE p. 517 ss.vv. παρατηρεῖν e παρατήρησις), e agli atomisti (Porter 2002, p. 158 e nota 149), e lo scambio παρά/πάντα è ovunque diffusissimo (per Diogene Laerzio si vedano 6.14 πάνθ᾿ ὁντινοῦν vs. παρ᾿ ὁντινοῦν e 7.155 παράλληλοι vs. πάντα ἄλληλοι). 38  Per ΛΙ-Ν cfr. 7.105 ἡμιολίῳ (Kuehn) vs. ἡμιόνῳ; 9.105 μέλι (Fabricius) vs. μέν; e in generale Bast 1811, pp. 723 e 919; Cobet 1858, p. 282. Per Μ-Π e ΣΤ-Τ non servono esempi.

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(a) ποιήσαιτο PFΦ: ποιήσετο B: ποιήσαι Usener: ποιῆσαι το Crönert. (a) Né oltre il tutto vi è nulla che penetrandovi possa produrre mutazione (…). (b) Che i corpi esistano infatti lo attesta di per sé in ogni occasione la sen­ sazione, in base alla quale bisogna, con la ragione, giudicare di ciò che sotto i sensi non cade, come abbiamo detto prima (Arrighetti p. 38).

(a) Μεταβολὴν ποιεῖσθαι (GE p. 552 s.v. ποιεῖν: «mutationem efficere») indica il mutamento che il soggetto subisce o provoca su di sé (cfr. poco più avanti il c. 54 ὃ τὰς μεταβολὰς οὐκ εἰς τὸ μὴ ὂν ποιήσεται), mentre il provocare mutamento in altro si dice μεταβολὴν ποιεῖν. Poiché la distinzione è osservata con un certo puntiglio39, Usener (p. 6) e Crönert (1906b, p. 414) avevano qualche ragione di sospettare del tràdito. Si noti l’opposta filosofia del restauro: lo Usener espelle testo (il -το di ποιήσαιτο), il Crönert ne immette. Una terza via sarebbe ποιήσαιτο > ποιήσειε. Da -ΕΙΕ si sarebbe passati a -ΕΤΟ (e ποιήσετο è infatti la lezione dell’‘arcaico’ B, vera lato­mia di errori di maiuscola)40, e quindi ad -ΑΙΤΟ per Hörfehler e/o per adegua­men­to sintattico. (b) Dando a τῷ λογισμῷ valore strumentale, come tutti gli interpreti indistin­t a­men­te fanno41, evincesi che l’esistenza dei corpi è dimostrata o per mezzo di sensazione + ragionamento o per mezzo del solo ragionamento, a cui la sensazio­ne si aggiun­ge­rebbe come criterio accessorio, dando luogo a un pasticcio sia dot­t ri­nale sia sintattico-stilistico, evidenziato dalla competizione fra καθ᾿ ἥν e τῷ λογισμῷ, complementi di valore affine42. Si aggiunga che qui Epicuro sta spiegando che l’esistenza della materia ovvero degli  I circa seicento casi censiti dal TLG non presentano deroghe significative, non almeno negli autori ‘maggiori’ e meglio confrontabili con Epicuro, e.g. Aristotele, Teofrasto, Plutarco. Anche Lucr. 2.306-307 et omnem | naturam rerum mutare et vertere motus sembra presupporre la forma attiva nel testo dell’Epistola. 40  Cfr. 1.44 ἥκειν ἐς: ἠκεῖνος B; 1.44 κεῖθι: κειοι (sic) B; 2.52 φησὶ δ᾿ ὁ Δείναρχος: φησὶ δολίναρχος B; 3.56 Θράσυλλος: Θρασύλαος B; 6.70 ἄσκησιν: δόκησιν B; 6.83 λεληθυία(ι): δὲ ληθύϊα B; 9.32 κατ᾿ ἐπίψαυσιν: κατεπιψαύειν B; 9.32 αὔξεσθαι: ἅπτεσθαι B, ecc. 41  Senza dubbio anche sulla scorta di Usener GE p. 409 s.v. λογισμός: «τὸ ἄδηλον τῷ λογισμῷ τεκμαίρεσθαι = confirmare animi ratione Lucr. I 45». 42  Che Inwood – Gerson traducono allo stesso modo, con «by»: «and it is by sense-perception that we must infer by reasoning what is non-evident» (1994, p. 6). Altri utilizzano per καθ᾿ ἥν e λογισμῷ preposizioni diverse o ricorrono a giri di frase, magari ben riusciti ma nondimeno infedeli (cfr. Zevort 1847, p. 266; Solovine 1938, p. 55). 39

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atomi è un dato primitivo, forse l’unico che non possa poggiare su alcun λογίζεσθαι43. La materia si vede e si sente, e tanto basta per sapere che c’è. Nessun’altra cosa, neppure il vuoto, si trova in questa condizione di assoluta e indiscutibile evidenza e autosufficienza44. Chi dunque voglia attenersi alle traduzioni correnti è costretto a recidere ogni rapporto fra τὸ ἄδηλον e σώματα, e a dare a καθ᾿ ἣν ἀναγκαῖον valore appositivo anziché restrittivo, magari completando τὸ ἄδηλον con qualcosa come «ciò che non cade s o t t o i n o s t r i s e n s i »45. In verità la vulgata implica che Epicuro, giunto a trattare il valore testimoniale dell’ αἴσθησις, pianti lì il discorso specifico sui σώματα per passare a una considera­zione generale, non richiesta e fuori luogo, sui supporti che l’ αἴσθησις fornisce al λογι­σμός. Io ritengo possibile far dipendere τῷ λογισμῷ da τὸ ἄδηλον: «che i corpi esistano, lo dimostra la stessa sensazione, sulla cui base dobbiamo ricavare ciò che è oscuro al ragionamento». A questa esegesi non contraddice la testimonianza laerziana di 10.32, dove il combinato αἴσθησις + λογισμός è relativo al formarsi delle ἐπίνοιαι, che è tutt’altra questione. Con ὥσπερ προεῖπον Epicuro si richiama al modo di svelare gli ἄδηλα trattato nel c. 38, in cui, come si è visto, i criteri del conoscere vengono fatti consistere nelle αἰσθήσεις, nei πάθη e nelle più dianoe­t i­che ἐπιβολαί; ma non nel λογισμός. Unico il Giussani (1896, pp. 17-19) si era posto il problema ed aveva esaminato il c. 39 in rapporto a Lucr. 1.418 sgg. e in particolare a 422-429:

 Peraltro il λογισμός, più che «la ragione» (Arrighetti p. 38; Everson 1999, p. 549), sarà «il ragionamento» (Konstan 1993, p. 127; Morel 2011, p. 61), la «funzione del ragionare» (Giussani 1896, p. lix). 44  Le ὅλαι φύσεις non sono oggetto di ἐπίνοια, ma nondimeno il κενόν è in qualche modo suscettibile di dimostrazione, la materia no. Anche i moderni interpreti e parafrasti devono prendere atto che le due cose non stanno sullo stesso piano: si veda per esempio Betegh 2006, p. 263: «i corpi e il vuoto sono i soli esistenti per se. La sensazione ci dice che i corpi esistono. L’esistenza del vuoto, d’altra parte, è necessaria, perché se non ci fosse il vuoto…», ecc. 45  Così Diano (1939, p. 144), e dopo di lui quasi tutti gli Italiener: Zannoni 1927, p. 23; Bartoletta 1992, p. 55; Caretta – Samarati 1976, p. 7; Alfano Caranci 1984, p. 31. Aggira abilmente il problema Kochalsky con una traduzione alquanto elastica: «denn daß es Körper gibt, zeigt die Sinneswahrnehmung selbst an allem; aus ihr aber muß, wie ich schon sagte, das Unbekannte gedanklich gefolgert werden» (pp. 13-14). Così anche De Falco 1963, p. 54 (che mescola traduzione e parafrasi: «[la sensazione] deve servirci di fondamento per procedere, ragionando, all’intuizione delle verità che non cadono sotto i sensi») e Adorno 1996, p. 78. 43

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corpus enim per se communis dedicat esse sensus: cui nisi prima fides fundata valebit, haud erit occultis de rebus quo referentes confirmare animi quicquam ratione queamus; tum porro locus ac spatium quod inane vocamus, si nullum foret, haut usquam sita corpora possent esse neque omnino quaquam diversa meare, id quod iam supera tibi paulo ostendimus ante.

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L’esistenza dei σώματα (corpus) si ricava dall’ αἴσθησις (sensus), quella del κενόν (inane) dal movimento atomico (δι᾿ οὗ ἐκινεῖτο in Epicuro, quaquam meare in Lucrezio). In questo quadro di precise corrispondenze sembra inevitabile che con haud erit occultis de rebus (…) ratione queamus Lucrezio non solo traduca καθ᾿ ἣν ἀναγκαῖον τὸ ἄδηλον τῷ λογισμῷ τεκμαίρεσθαι, m a a nche lo intenda a l modo in cu i lo intendono, u na n i m i , i c r i t i c i m o d e r n i . Concettualmente, come rileva Giussani a p. 19, Epicuro cade, e Lucrezio con lui, in «un’incongruenza formale», in un’«inesattezza»46. Ma in questo torno di testo, poche righe prima, c’è un’altra frase che può aver fatto da modello a Lucrezio, ed è ὅπως ἂν καὶ τὸ προσμένον καὶ τὸ ἄδηλον ἔχωμεν οἷς σημειωσόμεθα. L’uso di quo referentes indurrebbe a credere che il testo tradotto sia piuttosto questo. Lucrezio lavora sul c. 39, ma come sempre dispone i materiali a modo suo: basti pensare all’analettico id quod iam supera eqs., che riprende ὥσπερ προεῖπον, ma sta dopo il corpus e l’inane, mentre in Epicuro si interpone fra i σώματα e il κενόν. Naturalmente la mia è solo un’ipotesi, che presento con la più grande prudenza. Per «ἄδηλος al ragiona­mento» cfr. Aristot. Metaph. 1065a ἄδηλος ἀνθρωπίνῳ λογισμῷ; Plut. De gen. Socr. 580F ἐν τοῖς ἀδήλοις καὶ ἀτεκμάρτοις τῷ λογισμῷ; [Plut.] De fato 572A ἄδηλον ἀνθρωπίνῳ λογισμῷ, ecc. Per τὰ ἄδηλα in Epicuro, e nella Lettera a Erodoto in particolare, cfr. Kleve 1963, pp. 28 sgg.

 Anche Detel 1975, autore di un saggio significativamente intitolato Αἴσθησις und λογισμός, pur adeguandosi alla traduzione corrente del passo (cfr. p. 30 e nota 25), sembra tradire qualche imbarazzo. E un poco di imbarazzo vedo anche nella parafrasi di Clay 1973, p. 267: «the senses also constitute the ultimate test for any reasoning concerning ta adela». E non può essere solo amore di frondosità ciò che indusse Hamelin 1910, p. 399, a prenderla così alla larga: «l’existence des corps nous est garantie par-dessus tout, par la sensation, car c’est sur elle que se règlent, comme je l’ai dit, toutes les conjectures que le raisonnement dirige vers les choses cachées». 46

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40 παρὰ δὲ ταῦτα οὐθὲν οὐδ᾿ ἐπινοηθῆναι δύναται οὔτε περιληπτῶς οὔτ᾿ ἀναλόγως τοῖς περιληπτοῖς, ὡς καθ᾿ ὅλας φύσεις λαμβανόμενα καὶ μὴ ὡς τὰ τούτων συμπτώματα ἢ συμβεβηκότα λεγόμενα. οὐδ᾿ Usener: οὔτε B2PF: ὅτε B1 | περιληπτῶς BPF: περιληπτικῶς recc. | ὡς καθ᾿ ὅλας BPF: ὅσα καθ᾿ ὅλας Usener | λαμβανόμενα BPF: λαμβάνομεν Usener | λεγόμενα BPF: λέγομεν Usener. Oltre a queste due realtà, né in base all’esperienza, né in analogia ai dati di essa si può arrivare a concepire alcuna altra cosa nel modo in cui queste appunto vengono colte in tutte le nature, diverso è il caso di ciò che di queste nature chiamiamo qualità accidentali o essenziali (Arrighetti p. 38).

L’indifendibile testo dei codici è stato salvato o con generici appelli alla looseness epicurea (Bailey p. 183) o con sorprendenti argo­menti ad rem come quello del Bignone, il quale concor­dava a senso λαμβανόμενα e λεγόμενα con il precedente οὐθέν, dota­to a suo dire di «valore collettivo»47; ma perché solo questo «niente» avrebbe valore collettivo e non anche il «niente» in genere, di tutte le lingue esistite o esistenti? Ogni «niente» fagocita la pluralità come lo zero fa con gli altri numeri. L’argomento più che linguistico è psico-linguistico o filosoficolinguistico. Caso apparentemente simile nella VII Lettera platonica: 339c εἰ δὲ μή, οὐδέν σοι τῶν περὶ Δίωνα ἕξει πραγμάτων οὔτε περὶ τἆλλα οὔτε περὶ αὐτὸν κατὰ νοῦν γιγνόμενα: «in caso contrario, nulla si farà di quanto tu (i.e. Platone) desideri per i suoi affari (i.e. di Dione) e per lui (i.e. Dione)» (Ciani 2002, p. 105). Anche qui si parte con οὐδέν e si finisce con γιγνόμενα. Lo Ste­pha­nus leggeva γιγνόμενον (seguìto da Souilhé 1977, p. 57), il Wilamowitz espun­ge­va. Ma il fatto è che fra οὐδέν e γιγνόμενα si frappone il soggetto logico τὰ πράγματα. Quindi il passo platonico o pseudoplatonico non è comparabile con l’epicureo. Quanto alla looseness, che riguarda evidentemente l’uso di ὡς, è loose il costrutto di, per esempio, 68-69, dove a quattro ὡς dichiarativi con soggetto «le qualità» ne segue un quinto con soggetto «il corpo»: qui il rapporto logico fra qualità e corpo è identico in tutte e cinque le frasi, cosicché ci si aspetta che identica per tutte sia anche la configurazione; e invece, dopo aver organizzato i primi quattro membri secondo un certo schema, Epicuro

 Bignone 1920, pp. 75-76 nota 1. Bollack – Bollack – Wismann (1971, p. 177 nota 5) riutilizzano l’argomento, presentandolo come proprio. Il Tescari (1907, p. 167) riferiva i λαμβανόμενα a ταῦτα, ad onta del fatto che ταῦτα e ὅλαι φύσεις sono la stessa cosa. 47

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mette il quinto per così dire a testa in giù48. Ma gli ὡς sono costruiti regolarmente, e l a s i n t a s s i è i n o r d i n e . Nel c. 40 invece fra τοῖς περιληπτοῖς e ὡς καθ᾿ ὅλας φύσεις c’è proprio una sgrammaticatura. Dunque sarebbe opportuno che i difensori del tràdito adducessero esempi certi di ana­loghe violazioni. Ma temo che non li troverebbero. Secondo me l’unica cosa su cui vale la pena discutere qui non è se vi sia corruttela o no, bensì se il rimedio di Usener49 sia l’unico possibile o se ne esistano di più economici, fermo restando che il senso generale è per concorde am­missione questo: che corpi e vuoto sono le uniche realtà che si concepiscono co­me ὅλαι φύσεις, nature in sé, autonome50, mentre il resto è συμ­πτώματα ἢ συμ­βε­βηκότα 51. Proporrei due alternative. La prima è ὡς καθ᾿ ὅλας φύσεις λαμβα­νόμενον καὶ μὴ ὡς τὰ τούτων συμπτώματα ἢ συμβεβηκότα λεγόμενα, cioè: οὐθὲν ἐπινοηθῆναι δύναται (ὡς) λαμβα­νόμε­νον ὡς καθ᾿ ὅλας φύσεις καὶ μὴ (ὡς λαμβανόμενον) ὡς τὰ τούτων συμπτώματα ἢ συμ­βε­βη­κότα λεγόμενα: «al di fuori di questi due principii (= i corpi e il vuoto), niente può essere pensato (come) còlto alla maniera delle realtà intere anziché (come còlto) alla maniera delle cose chiamate qualità accidentali o essenziali»52. Brutta traduzione, ma che spero renda l’idea. La seconda alternativa, in cui credo di più, e che anche Dorandi p. 759 accetta, è questa: ὡς καθ᾿ ὅλας φύσεις λαμβανόμενα καὶ μὴ ὡς τὰ τούτων  Per essere più chiari, Epicuro dice: «bisogna ritenere che le qualità (1) né sussistano di per sé (2) né che non esistano (3) né che siano incorporee (4) né che siano parti del corpo, (5) ma che il corpo derivi da esse la sua natura». Più linearmente avrebbe dovuto dire «bisogna ritenere che le qualità (1) né sussistano di per sé (2) né che non esistano (3) né che siano incorporee (4) né che siano parti del corpo, (5) ma che diano al corpo la sua natura». 49  Paleograficamente poco o punto costoso: in qualsivoglia tradizione non si contano gli ὡς che diventano ὅσα e viceversa: Herod. 4.7.2 ὅσα vs. ὡς; Theophr. HP 3.12.9 ὅσαπερ (Dalecampius) vs. ὥσπερ; Ael. fr. 10k Domingo-Forasté ὡς vs. ὅσα; Simpl. In Aristot. De an. 1 (prooem.) Diels ὅσα vs. ὡς; sch. Aristoph. Eccl. 298 Regtuit ὁπόσ᾿ (Dindorf) vs. ὅπως et alia sescenta. Particolarmente numerosi i casi di questo tipo nelle Antiquitates e negli Opuscula di Dionigi di Alicarnasso. 50  Le «uniche due modalità originarie dell’essere», come le ha definite Maso 1990, p. 42 nota 11. 51  Anche i termini συμβεβηκός e σύμπτωμα sono stati, come si può immaginare, oggetti di intenso studio, sia in se stessi sia in rapporto a questo capitolo. Mi limito a ricordare Heinze 1897, pp. 36-37; Boyancé 1972, p. 75; Sedley 2003 (1988), pp. 330 sgg.; Long – Sedley I, p. 36. 52  Su questa strada già Kochalsky p. 63, che proponeva di correggere sia λαμβανόμενα in λαμβανόμενον sia λεγόμενα in λεγόμενον. 48

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συμπτώματα ἢ συμβεβηκότα λεγό­με­να: «al di fuori di questi due principii (= i corpi e il vuoto), niente può essere pensato alla maniera delle realtà intere anziché alla maniera delle cose chiamate qualità accidentali o essenziali». Si avrebbe così un solo intervento invece di due (non tre: λαμβάνομεν e λέγομεν simul stant simul cadunt), e forse anche un risultato migliore, dato che nel testo di Usener l’aggancio fra ὅσα e quanto precede non sarebbe nonostante tutto dei più limpi­di. Vedo – a libro pressoché finito – che il mio ὡς καθ᾿ ὅλας φύσεις era stato anticipato da Schneider (1813, pp. 3 e 55)53. 41 (a) ταῦτα δέ ἐστιν ἄτομα καὶ ἀμετάβλητα, εἴπερ μὴ μέλλει πάντα εἰς τὸ μὴ ὂν φθαρήσεσθαι, ἀλλ᾿ ἰσχύοντα ὑπομενεῖν ἐν ταῖς διαλύσεσι τῶν συγ­κρί­σεων (b) πλήρη τὴν φύσιν ὄντα 54 οὐκ ἔχοντα ὅπῃ ἢ ὅπως διαλυθήσε­ται. (a) ἰσχύοντα BPF: ἰσχύειν τι Usener: ἰσχύοντά Kochalsky: ἰσχῦόν τι Bignone | ὑπομενεῖν Crönert: ὑπομένειν BPF. (b) ὄντα Meibomius: ὅταν BPF: ὄντα Usener: ἅτε Kuehn: ὡσὰν Bignone. (a) Questi sono indivisibili e immutabili dato che tutto non deve distruggersi nel nul­la, ma permanere essi saldi nella dissoluzione degli aggregati, (b) avendo na­tu­ra compatta, né esistendo dove o come possano essere distrutti (Arri­ ghetti p. 38).

(a) Il periodo è stato sezionato in vari modi. Long – Sedley (I, pp. 37-38) uniscono ταῦτα δέ ἐστιν ἄτομα καὶ ἀμετάβλητα con πλήρη τὴν φύσιν κτλ., facendo un inciso di εἴπερ (…) συγκρίσεων. Il Betegh (2006, p. 264 e nota 9) riduce questo inciso a εἴπερ (…) φθαρήσεσθαι e fa dipendere ὑπομένειν da ἰσχύοντα anziché da μέλλει 55. Dovendo scegliere, darei ragione a Long e Sedley: l’indivisibilità (ἄτομα), l’immutabilità (ἀμετάβλητα) e la capacità di resistere (ἰσχύοντα ὑπομένειν) sono proprietà affini: la terza non può essere separata dalle altre con un «ma», come invece accade necessariamente nella

 Ma Schneider congetturava non tanto perché sentisse la debolezza sintattica, quanto per adeguarsi alla versione del Traversari, di cui faceva gran conto: «versio Ambrosii: ut quae per totas naturas accipiuntur. Unde apparet, eum articulum ὡς τά scriptum voluisse, quod feci» (p. 55). 54  Alcuni (Arrighetti p. 39; Betegh 2006, p. 264) stampano καί senza uncinate. 55  Adducendo i precisi paralleli di Diod. 14.27.6 ἰσχύειν τὴν βίαν αὐτῶν ὑπομένειν e Phil. Spec. 4.112.8 ἰσχύσαντας ὑπομένειν. 53

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resa di Betegh: «these latter are uncuttable and unalterable – if indeed all things are not going to be destroyed into not-being – but are strong enough to stand fast» ecc.56. Chi salti l’inciso, o lo legga senza perdere il filo, si rende immediatamente conto che tale arrangiamento non può funzionare. Ora però, se è sbagliato un sezionamento, non ne segue per forza che sia giusto l’altro. Se l’ampiezza di un inciso è disputata, non auto-evidente, non immediatamente certa, questo inciso potrebbe non esistere. Ma se non esiste, allora dobbiamo vedercela con il problema che mosse alla congettura lo Usener, il Kochalsky e il Bignone, i quali giusta­men­te reclamavano come soggetto di ὑπομένειν «alcune cose» e non «tutte le cose». Ma «alcune cose» si ricava senza forzature dalla pericope che precede, in cui il μή, negando μέλλει, nega di fatto anche πάντα. Appreso che non tutte le cose andranno a finire nel μὴ ὄν, il lettore è già pronto a sentirsi dire che alcune di esse resteranno57. Insomma siamo davanti a uno zeugma dei più normali: il testo sta bene come sta. (b) La storia dei tentati restauri è lunga. Il Galesius scriveva ὡσανεὶ οὐκ ἔχοντα, il Meibomius ὄντα καὶ οὐκ ἔχοντα. Il Bignone in un primo tempo (1920, p. 76 nota 2) propose οἷα δὴ οὐκ ἔχοντα (con una spiegazione iperpaleografica dell’errore58 ed erroneamente attribuendo l’anagramma ὅταν/ὄντα 59 a Use­ner invece che al Meibomius), poi preferì ὡσὰν οὐκ ἔχοντα (1920, p. 266 nota 2), ritornando senza saperlo sulle posizioni del Meibomius. Montarese stampa τὴν φύσιν ὄντα, οἷα δὴ καὶ οὐκ ἔχοντα ὅπη ἢ ὅπως διαλυθήσεται (2012, p. 149 nota 401), ibridando, credo senz’altro per mera svista, Bignone e Meibomius.

 Ho come l’impressione, certo sbagliata, che Morel non abbia ben capìto il senso di ὅπῃ, laddove scrive: «ayant une nature pleine et ne pouvant être dissous en aucune ni d’aucune manière» (2003, p. 38). D’altronde da «être dissous» in poi è più parafrasi che traduzione. 57   È dunque iperlogica l’analisi di Crönert 1906b, p. 414: «non est quod cum Usenero scribamus ἀλλ᾿ ἰσχύειν τι ὑπομένειν, non enim ex parte sed integra omnia in diremptione servantur (cfr. 10.39), neque concinna est oratio verbis φθαρήσεσθαι et ἰσχύειν pari ratione appositis. Quare apices solum mutandos censeo: ἀλλ᾿ ἰσχύοντα ὑπομενεῖν». 58  Da ΟΙΑΔΗ a ΟΙΑΔΙ per itacismo, indi ΟΤΑΝ per scambio Ι-Τ e ΔΙ-Ν. 59  Un errore diffuso: cfr. Aristot. Meteor. 2.359a ὄντα ἐπιπλέοι vs. ὅταν ἐπι­πλέοι; [Aristot.] Meteor. 4.379b συνιστάμενα ὅταν γένηται vs. συνιστάμενα ὄντα γένηται; Hephaest. Apotelesm. 1.23.25 Pingree ὅταν vs. ὅνταν (precede ποιητέον). 56

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L’asindeto ὄντα οὐκ ἔχοντα non è tollerabile e quindi bisogna intervenire. Il del Meibomius è semplice e poco costoso; ancor meno costoso sarebbe ὄντα οὐδὲ ἔχοντα 60. 42-43 (a) οὐ γὰρ δυνατὸν γενέσθαι τὰς τοσαύτας διαφορὰς ἐκ τῶν αὐτῶν σχημάτων περιειλημμένων. καὶ καθ᾿ ἑκάστην δὲ σχημάτισιν ἁπλῶς ἄπειροί εἰσιν αἱ ὅμοιαι, ταῖς δὲ διαφοραῖς οὐχ ἁπλῶς ἄπειροι, ἀλλὰ μόνον ἀπερίληπτοι, [43] {(b) οὐδὲ γάρ φησιν ἐνδοτέρω εἰς ἄπειρον τὴν τομὴν τυγχάνειν. (c) λέγει δέ, ἐπειδὴ αἱ ποιότη­τες μεταβάλλονται} (d) εἰ μέλλει τις μὴ καὶ τοῖς μεγέθεσιν ἁπλῶς εἰς ἄπει­ρον αὐτὰς ἐκβάλλειν. (e) κινοῦνταί τε συνεχῶς αἱ ἄτομοι {φησὶ δὲ ἐνδοτέρω καὶ ἰσοταχῶς αὐτὰς κινεῖσθαι τοῦ κενοῦ τὴν εἶξιν ὁμοίαν παρεχομένου καὶ τῇ κουφοτάτῃ καὶ τῇ βαρυτάτῃ} τὸν αἰῶνα, καὶ αἱ μὲν εἰς μακρὰν ἀπ᾿ ἀλλήλων διιστά­με­ναι, (f) αἱ δὲ αὐτοῦ τὸν παλμὸν ἴσχουσαι, (g) ὅταν τύχωσι τῇ περιπλοκῇ κεκλειμέναι (h) ἢ στεγα­ζόμεναι παρὰ τῶν πλεκτικῶν. (c) λέγει BPF: λήγει K. F. Hermann: λήγειν Usener | μεταβάλλονται Bignone. (e) καὶ αἱ μὲν BPF: {καὶ} αἱ μὲν Heidel | post αἰῶνα Usener, post αἱ μὲν Bignone lacunam statuerunt. (f) αὐτοῦ τὸν παλμὸν Brieger: αὐτὸν τὸν παλμὸν BPF: ἀπόπαλμον Schneider: αὖ τὸν παλμὸν Woltjer: αὐτῶν τὸν παλμὸν Apelt | ἴσχουσαι Brieger: ἴσχουσι(ν) BPF. (g) τῇ περιπλοκῇ Usener: τὴν περιπλοκὴν BPF | κεκλειμέναι Brieger: κεκλημέναι B1: κεκλιμέναι B2PF. (h) παρὰ recc.: περὶ BPF (per compendium PF) | πλεκτικῶν BP: πληκτικῶν F. (a) Poiché non è possibile che possano sussistere tante differenze negli aggregati prodotti dalle stesse forme limitate. E per ciascuna forma vi è un numero assolutamente infinito di atomi simili, ma per diversità di forma non sono infiniti, ma solo inconcepi­bili [43] {(b) né, dice più sotto, con la divisione si può procedere all’infinito; (c) e lo dice perché le qualità cambiano} (d) se non si vuole farli infiniti anche nella grandezza. (e) Gli atomi poi hanno moto continuo {più sotto dice che i loro moti sono equiveloci perché il vuoto lascia passare sia i più leggeri che i più pesanti} e eterno e alcuni rimbalzano via lontano gli uni dagli altri, (f) alcuni invece trattengono

 Un altro οὐδέ fra participi al c. 71 οὐκ ἀίδιον παρακολουθοῦντα οὐδ᾿ αὖ φύσεως καθ᾿ ἑαυτὰ τάγμα ἔχοντα. La Thyresson (p. 128) osserva che nella prosa attica «οὐδέ is not used as an adversative». Più correttamente bisognava dire «as a strong adversative». 60

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lì il loro rimbalzo (g) quando siano compresi in un aggregato (h) o impediti da altri atomi intrecciati (Arrighetti p. 40).

(a) Il senso di οὐ γὰρ δυνατὸν (…) περιειλημμένων è che la grande quantità delle forme degli aggregati non può risalire agli σχήμα­τα comprensibili, sempre gli stessi. Gli σχήματα devono essere anche loro in numero enorme, inimmaginabile, m a n o n i n f i ­n i t o 61. La traduzione di Bailey «from the same [atomic] shapes, if they are limited in number» (p. 25) non rende bene l’idea; e anche la spiegazione non è limpidissima: «περιειλημμένων, ‘limited’; so as to become com­prehen­sible in number» (p. 185). Suppergiù sulla stessa linea Bignone p. 77; Apelt II, p. 242; Hicks II, p. 573; Gigante p. 415, ecc. Bene invece Kochalsky p. 15; De Falco 1923, p. 2062; Massa Positano p. 32; Konstan 1982, p. 64; Salem 1993, p. 32; Balaudé p. 1269. Meglio di tutti, a parità di sintesi, Jürß p. 471: «denn unmöglich entsteht eine solche unterschiedliche Vielfalt aus derselben faßbaren For­men­zahl»63. (b)-(c) Οὐ(δέ) φησι costituisce un tutt’uno (nec dicit = et negat). Non avendo presente il peculiare costrutto64, molti studiosi hanno riferito οὐδέ a τὴν τομήν: «neppure la divisione» (così Zannoni 1927, p. 26; Ramelli p. 71 nota 3; Reale p. 1201 e p. 1485 nota 88), con non piccolo danno di senso. Verde (2013a, p. 32) si chiede perché lo scoliasta ha inserito lo scolio proprio qui; ma lo scoliasta ha compilato: a inserire è stato uno scriba che lavorava meccanicamente e ottusamente, dunque non la stessa persona65. Sempre Verde (2013a, p. 32) parafrasa: «l’atomo è un corpo talmente solido e compatto che non ammette alcuna divisibilità all’infinito». Troppo ovvio: gli atomi non possono essere divisi n e p p u r e u n a v o l t a (Morel 2011, p. 135 nota

 Sull’importanza dell’ ἀπεριληψία nel sistema epicureo (e in altri) cfr. Konstan 1987, passim; Gigandet 2007b, p. 61, ecc. 62  Ma si deve notare che il De Falco, erroneamente, attribuisce il concetto allo scoliasta, non ad Epicuro. 63  La traduzione della Ramelli (p. 69) è troppo oscura perché si possa dire se è giusta o sbagliata. 64  Svista frequente: e.g. Reale p. 106 su Diog. Laert. 1.99 Πλάτων δὲ οὔ φησιν: «Platone, invece, non lo dice» (e invece è «lo nega», nega cioè che il Periandro tiranno di Corinto abbia fatto parte dei Sette Sapienti); p. 1173 su Diog. Laert. 10.13 οὔ φησι: «non lo ammette» (invece è «dice di no, lo nega»); Sartori 1999, p. 53 su Plat. Resp. 346c οὐκ ἔφη: «non rispose» (invece è «disse di no»). 65  Anche il Morel parla di «insertion difficilement explicable» (2011, p. 131 nota 17), ma senza darne colpa a scoliasti. 61

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45: «la division ou section [tomê] est impossible par définition dans l’atome ou nature insécable [atomos]»). Sono gli aggregati la cosa di cui si deve escludere l’infinita divisibilità. Quindi il fatto «che il mutamento delle qualità di cui parla lo scoliasta sia riferibile al livello degli aggregati e non a quello atomico» non è cosa «forse plausibile», come lo studioso afferma poco più avanti, bensì obbligata. Ora, se λέγει è una ripresa di φησί, non si vede come la negazione possa mancare66. La cosa non riguarda il bello stile, ma i meccanismi basici della lingua, cosicché l’obiezione che gli scoliasti scrivono male, sono sciatti eccetera, non ha peso qui. Il Bignone (1924a, pp. 383-384) osservava che ἐπειδὴ αἱ ποιότητες μεταβάλλονται non è una buona spiegazione di quanto è stato appena detto sull’inammissibilità del dividere all’infinito; e dopo ἐπειδὴ αἱ ποιό­τη­τες μεταβάλλονται integrava αἱ δὲ ἄτομοι οὐδὲν μεταβάλλονται67. Il modo dell’in­ter­ve­nire – la generosa immissione di testo – mi convince poco, però l’analisi non era sbagliata; e infatti una delle maggiori attrattive del λήγει(ν) di Hermann e di Usener è il recupero di una continuità tematica e sintattica fra (b) e (c)68; il fatto è semmai che «più sotto» (ἐνδοτέρω) non c’è traccia di un legame diretto fra i limiti della divisione e il mutare delle qualità. Perciò credo che lo scolio consista di due pezzi giustapposti69, di cui il secondo da leggere così: λέγει δὲ ὅτι ἀεὶ αἱ ποιότη­τες μεταβάλ­λονται70, riferimento al ποιότης γὰρ πᾶσα μεταβάλλει che è il concetto centrale del successivo (ἐνδο­ τέρω) c. 54. In tal modo il φησί e il λέγει sono semplicemente una variatio, come in e.g. Diog. Laert. 9.36 ὁ δὲ Δημήτριος ὑπὲρ ἑκατὸν τάλαντά φησιν εἶναι αὐτῷ τὸ μέρος, ἃ πάντα καταναλῶσαι. λέγει δὲ ὅτι τοσοῦτον ἦν φιλόπονος κτλ.

 Necessariamente non concordo con Isnardi Parente p. 159 nota 1: «λέγει (…) ripete e rafforza il precedente φησίν». In realtà lo disturba – e c’è infatti chi lo emargina dislocandolo (Zevort 1847, p. 267: «il ajoute plus bas que la divisibilité à l’infini est impossible, car, dit-il, il n’y a…» ecc.), e chi senza tanti complimenti lo elimina (Lechi 1845, p. 370; Solovine 1938, p. 56 nota [c]; Zannoni 1927, p. 26). 67  Su questo scolio si tornerà nella Sezione III.9. 68  La congettura, nella sua semplicità, è magnifica, e giusta­mente Long – Sedley (II, p. 49) ne dicono bene (scegliendo fra λήγειν e λήγει il più economico λήγει). 69  Da riferire, di conseguenza, a due diversi punti della Lettera (i cc. 56 e 54): cfr. Diano 1939, pp. 114-115; Arrighetti p. 495, ecc. 70  L’errore non potrebbe essere più semplice. Per ὅτι/ἐπεί ed ἐπεί/ὅτι cfr. e.g. Herod. 4.117.1; Plut. Amat. 763B = Aesch. fr. 351 R.; Clem. Strom. 1.19.91.1; Ammon. De adf. voc. diff. 140.6 Nickau; sch. Aristoph. Eccl. 10a Regtuit, ecc. Per ἀεί/δή e δή/ ἀεί cfr. e.g. Plat. Crat. 419a; Aristot. Poet. 1459b8; [Aristot.] Rhet. Alex. 1437b; Theophr. HP 6.3.3, ecc. 66

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(d) Ἐκβάλλειν εἰς ἄπειρον è terminologia logico-matematica. Se ne danno numerose occorrenze in Apollonio, Erone, Euclide; ma si vedano anche Diog. Laert. 9.88 τὸν εἰς ἄπειρον ἐκβάλλοντα, e Sext. HP 1.164, 1.168, 1.176, 3.36. La variante con ἐν- (ἐμβάλλειν εἰς ἄπειρον) è usata, a mia conoscenza, solo in Plut. De comm. not. 1078E καὶ μὴν παρὰ τὴν ἔννοιαν μήτ᾿ ἄκρον ἐν τῇ φύσει τῶν σω­μάτων μήτε πρῶτον μήτ᾿ ἔσχατον μηδέν, εἰς ὃ λήγει τὸ μέγεθος τοῦ σώματος, ἀλλ᾿ ἀεί τοῦ ληφθέντος ἐπέκεινα φαινόμενον εἰς ἄπειρον καὶ ἀόριστον ἐμβάλλειν τὸ ὑποκείμενον = SVF II 485 («projette la chose en question dans une infinité indéterminée», Babut 2002, p. 571; integrazioni di Von Ar­nim e di Dübner), e in Sext. HP 1.179 εἰς τὸν διάλληλον ἢ τὸν ἄπειρον ἐμβάλ­λουσι τρόπον. Ma il secondo passo, dove ἐμβάλλειν sembra equivalere a qualcosa come «incappare in» (Bury 1933, p. 103: «one is involved in a process of circular reasoning or in regress ad infinitum»), non supporta il primo. È dunque possibile71 che Plutarco non abbia scritto ἐμβάλλειν ma ἐκβάλλειν. È un facile scambio visivo, nella fattispecie favorito dal fatto che Plutarco usa ἐμβάλλειν con una frequenza almeno doppia rispetto a ἐκβάλλειν. Un caso analogo nel passo sopra citato di Sext. HP 3.36, dove un erroneo ἐμβληθήσεται ha preso il posto di ἐκβλη­θήσεται. La lezione giusta è stata recuperata grazie all’importante traduzione latina (siglata T) che dà eicietur 72. (e) Se il senso di διίστασθαι è «allontanarsi» (Westman 1955, p. 146), allora si può rinun­ciare alla lacuna (come fanno Long – Sedley II, p. 41)73 e scrivere καὶ αἱ μέν εἰσ μακρὰν ἀπ᾿ ἀλλήλων διιστάμεναι, neutra­lizzando così anche il molesto εἰς (cfr. i cc. 46 μακρὰν ἀπέχοντες e 59 μακρὰν ἐκβαλόντες). (f) L’ αὐτοῦ di Brieger ha avuto successo, ma io trovo qualche difficoltà nel pensare l’aggregato come un luogo di cui si possa dire «qui» o «lì». Inoltre αὐτοῦ

 E al possibile mi fermo, perché in una tematica come il regressus ad infinitum (bestia nera della dialettica greca, come dice la Giovacchini 2003, p. 79, in quanto difficile sia da concepire sia da rappresentare) non si possono escludere contaminazioni fra linguaggio emotivo e linguaggio tecnico. 72  Ma già il Nauck ci era arrivato da sé: cfr. Mutschmann 1912, p. 143. 73  Normalmente il καί davanti a μέν + δέ introduce il secondo membro di una struttura dilem­matica ripetuta: cfr. cc. 73 τὰ μὲν θᾶττον τὰ δὲ βραδύτερον, καὶ τὰ μὲν ὑπὸ τῶν τοιῶνδε, τὰ δὲ ὑπὸ τῶν τοιῶνδε πάσχοντα, e 75 ἐν μέν τισι θᾶττον, ἐν δέ τισι βραδύτερον, καὶ ἐν μέν τισι περιόδοις (…), ἐν δέ τισι κτλ. L’ipotesi della lacuna è dunque più che giustificata. Ingiustificata è invece la posizione di Bignone 1920, pp. 78-79 nota 1, secondo cui l’indicazione di lacuna è d i p e r s é preferibile ad altre forme di intervento. Si veda oltre, Sezione III.4. 71

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presup­pone un precedente cenno agli aggregati; cenno che può essersi trovato solo nella lacuna che alcuni postulano o dopo τὸν αἰῶνα o dopo αἱ μέν. Insomma αὐτοῦ e lacuna vanno insieme: non si può accettare l’uno senza l’altra. Io credo tuttavia, lacuna o no, che αὐτὸν τὸν παλμόν sia testo genuino, così come, con dubbi, aveva avvisato lo Usener74. Gli atomi si muovono sempre, tutti – sia quelli liberi, che hanno un moto su ampia scala e grandi distanze, sia quelli in com­po­si­zio­ne, che hanno s e n o n a l t r o il παλμός, il solo παλμός. Come di­re: altri movimenti non ne hanno, ma αὐτὸν τὸν παλμόν, l’ele­mentare παλμόν, quello lo hanno. Non hanno altro, ma quello sì75. (g) Non mi convince τῇ περιπλοκῇ κεκλειμέναι76, introdotto da Usener e quasi universalmente accolto. Leggerei invece τὴν περιπλοκὴν κεκτημέναι, che è più economico77 (si tenga presente la v.l. κεκλη­μέναι del ‘fedele’ B) e che soprattutto è supportato dal fr. 29.1.6 Arr. πε]ριπλοκὴν κτᾶσθαι, dove, se è giusta l’integrazione συγκρί]σεις al r. 8, l’argomento in discussione è, anche in quel caso, la mec­canica degli aggregati. Normale in Epicuro e in

 In apparato: «αὐτὸν: fort. αὖ». In ogni caso αὖ τὸν παλ­μόν non vuol dire «di nuovo l’urto» (come secondo la Isnardi Parente p. 159 nota 3). 75   Ἴσχειν sarà «avere», non «trattenere» o «attenuare»: da respingere dunque «aliae vero agitationem reprimunt» (Leopold 1915, p. 270, che stampa αὐτὸν τὸν παλμόν senza tradurre αὐτόν), «gardant là même leur vibration» (Conche 1987, p. 103; similmente Morel 2011, p. 62), «trattengono sul posto il rimbalzo» (Bartoletta 1992, p. 56) o «questo stesso rimbalzo» (De Falco 1963, p. 57 nota 43); o lo «soffocano [?] sul posto» (Caretta – Samarati 1976, p. 10). Il linguaggio dei traduttori riflette, si dirà, un comportamento troppo antropomorfo da parte degli atomi. Ma la cosa in sé non disturba; il problema è semmai che niente del genere si può cogliere nella parte che va da κινοῦνται a διιστάμεναι. 76  E meno che mai κεκλιμέναι, mantenuto da Heinze (1897, p. 36), da Bailey (pp. 24-25: «checked»), da Zannoni (1927, pp. 27-28) e da Balaudé (p. 1270). Bollack – Bollack – Wismann (1971, pp. 84-85) accolgono tutto: τὴν περιπλοκὴν κεκλιμέναι, «lorsqu’ils sont détournés dans un lacis», con la solita bizzarra spiegazione (pp. 182-183): cfr. Grilli 1974, p. 101. È notevole che lo Usener ancora nel Glossarium adottasse κεκλιμέναι: cfr. p. 386 s.v. κλίνειν: «ὅταν τύχωσι τὴν (vulgo τύχωσιν ἐπὶ τὴν) περιπλοκὴν κεκλιμέναι» (= p. 539 s.v. περιπλοκή). 77  Per κτη/κλη (κτι/κλι) e viceversa cfr. e.g. Plut. De fort. Rom. 323A; QC 742F; Diog. Laert. 1.9; Ael. VH 12.63; Dion. De aucup. 1.14 Garzya; sch. Pind. Ol. 9.15b Drachmann κτῆσιν vs. κλῆσιν. Per τ/λ vedasi anche Jackson 1955, p. 153. Specificamente per κτᾶσθαι/καλεῖσθαι cfr. Herod. 2.174.2 κεκτημένοισι vs. κεκλημένοισι; Clem. Strom. 4.6.31.1 κεκτῆσθαι (Potter) vs. κεκλῆσθαι, ecc.; Diod. 14.110.5 κεκτημένος (Wesseling) vs. ἐκκεκλημένος, ecc. 74

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chiunque l’uso di κτᾶσθαι (e di ἔχειν e λαμβάνειν) in strutture perifrastiche (cfr. GE p. 395 s.v. κτᾶσθαι, e Widmann 1935, pp. 72 e 79-80). (h) Nel senso che comunemente gli si attribuisce, στεγαζόμεναι παρὰ τῶν πλεκτικῶν è più o meno un doppione di (g)78. Inoltre i vari «intrecciati» (Gigante p. 415; Arrighetti p. 40; Querzoli 1993, p. 12), «attorcigliati» (Verde p. 37), «interlaced» (Bailey p. 25), «twisted» (Thyresson p. 31), «umschlossen» (Jürß p. 471), «verflochtenen» (Rapp 2010, p. 48), «enchevêtrés» (Conche 1987, p. 103; Balau­dé p. 1270; Morel 2011, p. 62), «entrelazados» (Bredlow 2010, p. 378), ecc. possono funzionare con πεπλεγ­μένων, ma non con πλεκτικῶν, che saranno semmai, conformemente alla seman­ tica di -ικός, gli atomi «capaci di intrec­cio, conformati in modo da potersi intrecciare», come giusta­mente intendono Lechi (1845, p. 371: «portati ad avvilupparsi»); Solovine (1938, p. 56: «propres à s’entrelacer»), Apelt (II, p. 243: «welche Anlage zur Verflechtung haben»), Hicks (II, p. 573: «shaped for entang­ling»), Krautz (1980, p. 11: «die zu verflechten imstande sind») e, con qualche libertà in più, Kochalsky (p. 15: «die sich zur Ver­f lechtung eignen»)79. Ma tutti gli atomi (quali più quali meno, ed esclusi i casi particolari) sono πλεκτι­κῶν, quindi tanto valeva dire ἀτόμων. Si legga allora στεγαζόμεναι παρὰ τῶν πλησίον. Il tragitto del­l’errore sarà stato πλησι- > πληκτ- > πλεκτ-, con tappa inter­media ancora visibile in πληκτικῶν, lezione di F (qualcosa di simile in [Hermog.] De meth. 31.5 Patillon παραπλη­ σια­ζόντων vs. παραπληκτιαζόντων). Un esempio di attrazione de­sinen­ziale anche più avanti, c. 77 τῶν πλησίον PF: τῶν πλησίων B, e SV 61, dove il codice Vaticano ha ἡ τῶν πλησίων ὄψις, corretto da Wotke in ἡ τῶν πλησίον ὄψις80.

 La traduzione della Isnardi Parente mette perfettamen­te in luce la difficoltà: «quando si trovino racchiusi in un complesso intreccio di atomi oppure protetti dagli atomi di altri intrecci» (p. 159); la studiosa è anche costretta a interpolare «altri» (e come lei De Falco 1963, p. 43; Caretta – Samarati 1976, p. 10; Bartoletta 1992, p. 56), senza il quale il periodo sarebbe illeggibile. Anche la Ramelli (p. 71) cerca di eliminare la ripetizione, ma lo fa in modo più astruso. La ripetizione resta ripetizione anche quando si usa il termine greco per camuffarla un poco: cfr. Giussani 1896, p. 14: «implicazioni onde si formano aggregati, o di atomi essi stessi implicati, o di atomi prigionieri entro περιπλοκαί (στεγαζόμενα)». 79  Così hanno inteso anche Caretta – Samarati 1976: «atomi che tendono ad agglomerarsi»; Maso 1990, p. 45: «atomi intrecciati [= che tendono a intrecciarsi]»; Bartoletta 1992, p. 56: «atomi che tendono ad aggregarsi». 80  Ovviamente il Bollack (1968, p. 231) non accoglie il ritocco, anzi rilancia, instaurando un confronto fra la Sentenza e il c. 77 della Lettera. 78

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L’attrazione è immancabile e inevitabile ogni volta che l’avverbio compaia in prossimità di un genitivo81. 45 (a) ἀλλὰ μὴν καὶ κόσμοι ἄπειροί εἰσιν, οἵ θ᾿ ὅμοιοι τούτῳ καὶ ἀνόμοιοι. αἵ τε γὰρ ἄτομοι ἄπειροι οὖσαι, ὡς ἄρτι ἀπεδείχθη, φέρονται καὶ 82 πορρωτάτω. (b) οὐ γὰρ κατανήλωνται αἱ τοιαῦται ἄτομοι, (b1) ἐξ ὧν ἂν γένοιτο κόσμος (b2) ἢ ὑφ᾿ ὧν ἂν ποιηθείη, (c) οὔτ᾿ εἰς ἕνα οὔτ᾿ εἰς πεπερα­σμένους, οὔθ᾿ ὅσοι τοιοῦτοι οὔθ᾿ ὅσοι διάφοροι τούτοις. ὥστε οὐδὲν τὸ ἐμποδο­στατῆσόν ἐστι πρὸς τὴν ἀπειρίαν τῶν κόσμων. (a) I mondi poi sono infiniti, sia quelli uguali al nostro sia quelli diversi; poiché gli atomi, che sono infiniti come abbiamo or ora dimostrato, percorrono i più grandi spazi. (b) Non vengono esauriti infatti tali atomi, (b1) dai quali ha origine (b2) o viene costituito un mondo, (c) né da un solo né da un numero finito di mondi, né da quanti sono simili né da quanti sono dissimili a questo; di modo che niente si oppone a che i mondi siano infiniti (Arrighetti p. 42).

(b) P.-M. Morel ha studiato a fondo e più volte il c. 45 della Lettera. Lo ha fatto dapprima in un articolo sulla «Revue de Métaphysique et de Morale» del 2003 (= Morel 2003), poi più succintamente nell’Épicure del 2009 (= Morel 2009a) e in un articolo sempre del 2009 nel Cambridge Companion curato da James Warren (= Morel 2009b). Ci è infine tornato sopra, con più cautela mi pare, nell’introduzione alle Lettres, maximes et autres textes del 2011 (= Morel 2011, pp. 13 sgg.; cfr. anche Morel 2013, pp. 166 sgg.). Converrà qui ripercorrere brevemente i punti principali dell’esegesi del Morel, anche perché esemplificano un modo di ragionare che può dirsi tipico. Il Morel sostiene che Epicuro dà molta importanza agli atomi come cause (2003, p. 34), e che quindi tanto per cominciare al c. 44 della Lettera

 Fra le centinaia (proprio così) di esempi cfr. Plut. De laude ipsius 547A τῶν πλησίον vs. τῶν πλησίων; Aristot. Meteor. 3.377a πλησίον ὄντων vs. πλησίων ὄντων; Theophr. HP 3.3.5 τῶν πλησίον τόπων vs. τῶν πλησίων τόπων; 4.3.5 πλησίον ὄντων vs. πλησίων ὄντων; Alciphr. Epist. 1.20.2 τῶν πλησίον vs. τῶν πλησίων. In Diog. Laert. 1.69 si ha τοὺς πλησίον di BPF contro τὸν πλησίον dei recc.: non essendo familiare τοὺς πλησίους, l’attrazione si è sviluppata nel senso opposto a quello solito. 82  La Thyresson (p. 136) prende καί per rafforzativo enfatico come in καὶ μάλα, καὶ σφόδρα, ecc.; non vedo la necessità: direi che si tratta di un normale «anche». 81

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bisogna ripristinare il tràdito aition 83 in luogo di ἀιδίων di Gassendi. Ma una volta recuperate le «cause» bisogna vedere di che cause parliamo. Si sa che Aristotele rimproverava agli Abderiti l’aver concepito gli atomi come mera causa materiale, senza porsi il problema né della forma né del fine né dell’agente. Si sa anche che le critiche di Aristotele furono tenute in conto da Epicuro, come dimostra fra l’altro la dottrina del clinamen, della quale Epicuro non fa parola nella Lettera a Erodoto, ma che le fonti gli attribuiscono compattamente84, e che costituisce un’evidente istanza «de raffinement dans la définition de la causalité atomique» (2003, p. 35). La stessa istanza si potrebbe appunto cogliere nel c. 45. A una prima lettura, ἐξ ὧν ἂν γένοιτο e ὑφ᾿ ὧν ἂν ποιηθείη sembrano due modi per dire la stessa cosa85, ma non è probabile che lo siano, non perché in astratto ὑπό τινος ποιηθῆναι non possa equivalere a ἔκ τινος γενέσθαι, quanto perché Epicuro è uso a ripetere, ma non (cosa ben diversa) a creare doppioni86. La pericope, dice il Morel, andrà invece intesa nel senso che «les atomes ont avec les mondes un rapport qui n’est pas de pure composition. Ils ont aussi, comme le suggère la deuxième partie du passage cité, une véritable

 Mantengo il traslitterato di Morel, che però non fa capire (neanche in 2009b, p. 68 nota 7) se la sua preferenza vada ad αἰτιῶν (accolto ora anche da Dorandi p. 761) o ad αἰτίων, pure attestato. Nella traduzione del 2011 il Morel si adegua alla scelta di Marcovich (ἀιδίων): cfr. 2011, p. 131 nota 20. 84  L’opinione comune (secondo cui non sono reperibili elementi di una dottrina del clinamen nell’Epicuro conservato) è stata dimostrata falsa da Hammerstaedt 2003 (cfr. oltre, nota 221). 85  E di conseguenza mal differenziati, o senz’altro ridotti ad unum, da parte di traduttori e interpreti: cfr. Bailey p. 25: «could be created out of them or made by them» (sull’interpretazione di Bailey, meno liquidatoria della traduzione, si dirà fra poco); Leszl 2009, p. 152; Rapp 2010, p. 49; Isnardi Parente p. 160: «quegli atomi che sono capaci di formare un mondo». Il γενέσθαι è reso quasi sempre con «nascere», mentre col ποιηθῆναι si spazia da «costituire» (Solovine 1938, p. 57) a «fare» (Inwood – Gerson 1994, p. 8) a «produrre» (Zevort 1847, p. 268; Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin 2010, p. 17). 86  Per non ammettere la totale identità delle due frasi, Schneider recuperava (o credeva di recuperare) il presente γίνοιτο dalla traduzione del Traversari: «γίνοιτο (…) mihi sola scriptura placet, ne nimis ieiuna sit distinctio inter ἐξ ὧν et ὑφ᾿ ὧν» (1813, p. 59). (Allo stesso modo ragionavano Lechi 1845, p. 371: «dai quali o possa farsi un mondo o siasi fatto per essi», e Ortiz 1792, p. 327: «de los quales se hizo ó se pudo hacer el mundo»). Lo Usener nell’edizione non sembra sentire nessun disagio; ne sente però nel GE p. 552 s.v. ποιεῖν, dove ὑφ᾿ ὧν è seguito dal punto interrogativo: «ἐξ ὧν ἂν γένοιτο κόσμος ἢ ὑφ᾿ ὧν (?) ἂν ποιηθείη». 83

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fonction cosmogonique, c’est-à-dire une fonction d’agent de la production des mondes». Sensibile ai rilievi aristotelici, Epicuro si sarebbe smarcato dagli Abderiti «modificando il rapporto concettuale degli atomi rispetto ai composti e fornendo una spiegazione differente del processo cosmo­gonico» (traduco da Morel 2003, p. 36). Vediamo più in dettaglio di che si tratta. Nel fr. 117 DK (Diog. Laert. 9.72) Democrito affermava che il caldo e il freddo87 sono secondo convenzione, gli atomi e il vuoto secondo verità: νόμῳ θερμόν, νόμῳ ψυχρόν, ἐτεῇ δὲ ἄτομα καὶ κενόν. Di questa doxa sono attestate molte versioni; ecco le tre principali88: – Plut. Adv. Col. 1110E-F (= A 57 DK = II.F.8.1 Leszl) τὸ γὰρ νόμῳ χροιὴν εἶναι καὶ νόμῳ γλυκὺ καὶ νόμῳ σύγκρισιν τὰς ἀτόμους, ἀντειρημένον φησὶν ὑπὸ Δημοκρίτου ταῖς αἰσθήσεσι, καὶ τὸν ἐμμένοντα τῷ λόγῳ τούτῳ καὶ χρώμενον οὐδ᾿ ἂν αὐτὸν ὡς ἐστιν ἢ ζῇ διανοηθῆναι. – Diog. Laert. 9.44 (= A 1 DK = II.B.4.1 Leszl) ἀρχὰς εἶναι τῶν ὅλων ἀτόμους καὶ κενόν, τὰ δ᾿ ἄλλα πάντα νενομίσθαι. – Diog. Oen. fr. 7 ii 4-8 Smith (= 6 ii 4-8 Chilton = II.F.8.4 Leszl) τὰς ἀτόμους μόνας κατ᾿ ἀλήθειαν εἰπὼν ὑπάρχειν ἐν τοῖς οὖσι, τὰ δὲ λοιπὰ νομιστεὶ ἅπαντα. Nel primo passo la «convenzione» non riguarda solo le qualità, ma anche la σύγκρισις, cioè il composto89; nel secondo90 vengono dette esistere  La Gemelli Marciano introduce un soggetto «etwas» in tutte le versioni del frammento, quella di Sext. AM 7.135 (2010, p. 379), di Galen. De elem. sec. Hipp. 60.8 De Lacy (2010, p. 383) e De exper. med. 114.4 Walzer (2010, p. 385), Diog. Laert. 9.72 (ibid.). 88  Per le altre rimando a Westman (1955, pp. 251-254), Leszl (2009, p. 73 nota 61 e p. 77 nota 79) e Kechagia (2011, p. 181). 89  Sul passo del Contro Colote si veda anche Morel 1998, pp. 160-161, e soprattutto Westman 1955, pp. 252-253: l’integrazione ἐτεῇ δὲ τὸ κενὸν καί, inevitabile, fa di tale passo l’unica versione del νόμῳ-Satz in cui il vuoto venga menzionato prima degli atomi. È anche l’unica versione in cui «atomi» è femminile e non neutro. Infine la novità del νόμῳ σύγκρισιν: è strano che la σύγκρισις, che nel linguaggio degli atomisti è la composizione degli atomi, si trovi «unter den Dingen, die nicht an sich, sondern nur für uns existieren». Ciò spiega perché molti studiosi (ultimo Sandbach 1941, pp. 117-118) hanno azzardato λευκόν o ψυχρόν ο πικρόν al posto di σύγκρισιν. Più plausibilmente Westman propone di togliere καὶ τὰ ἄλλα dalla lacuna e di rimpiazzarlo con ἅπασαν di Wyttenbach (gli spazi grosso modo corrispondono), sulla base del fatto che la σύγκρισις in quanto tale non è νόμῳ, mentre le συγκρίσεις sì (p. 254). Come Westman, anche Kechagia 2011, pp. 180-181 (la quale dedica al passo tutto un capitolo, il 6.2). Si noti che πᾶσαν σύγκρισιν = «ogni σύγκρισις» è anche nel c. 73 della Lettera. Il Morel non avrebbe fatto male a discutere anche lui questo cruciale punto. 90  E anche nel primo, se è giusta l’integrazione καὶ τὰ ἄλλα. Vd. la nota precedente. 87

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per convenzione tutte le cose che non siano atomi o vuoto; nel terzo si parla di atomi e non di vuoto, ma è evidente che quest’ultimo è omesso solo per brevità91. Dalle testimonianze riportate qui sopra il Morel ricava che nella fisica di Democrito gli atomi e le συγκρίσεις «non possono appartenere alla medesima categoria ontologica» (2003, p. 38). Diverso anzi opposto risulterebbe l’approccio di Epicuro, il quale, quando al c. 40 della Lettera comin­cia ad esporre la teoria atomica, menziona prima i composti e poi gli atomi: τῶν σωμάτων τὰ μέν ἐστι συγκρίσεις τὰ δ᾿ ἐξ ὧν αἱ συγκρίσεις πεποίη­ νται. L’idea che la Lettera si sviluppi secondo uno schema inferenziale, cioè secondo determinate priorità concettuali (Sedley 1998 [1996]), troverebbe riscontro nei cc. 39-40, da cui si evince che l’esistenza dei corpi non ha bisogno di dimostrazione in quanto è attestata già dall’ αἴσθησις92. Ma la priorità, sempre a parere di Morel, non sarebbe solo epistemo­lo­gi­ca, b e n s ì a nche ontolog ica: ce sont les corps en général, et pas seulement les atomes, qui existent par soi, parce que ces derniers appartiennent à la même catégorie physique que les composés (…). L’ensemble des corps ne contient donc pas simplement deux types de corps (composés et atomes), mais deux niveaux de constitution des corps: les composés et «ce dont les composés sont faits (τὰ δ᾿ ἐξ ὧν αἱ συγκρίσεις πεποίηνται)». La catégorie fondamentale de la physique épicurienne est celle de corps, avant d’être celle d’atome93 (…). Le rapport de provenance et de composition impliqué par l’expression ἐξ ὧν ne signifie plus, comme chez Démocrite, une déperdition ontologique, mais une continuité dynamique et structurelle (2003, pp. 39-40).

Preziose indicazioni «sulla funzione causale degli atomi epicurei» (2003, p. 42) emergono anche dai cc. 89-90 della Lettera a Pitocle, dove si legge che un kosmos viene ad esistere quando affluiscono i «semi adatti» a formarlo. A differenza che nel sistema abderitano, dove tutto comincia con un vortice

  È giustamente respinto l’intervento del Bignone τὰς ἀτόμους μόνας . La presenza di μόνας, argomenta Smith, «virtually proves that the void was not intended to be mentioned as well, and the omission, though strictly inaccurate, is perfectly natural in a passage in which, despite the discussion of void in col. I, the focus is very much (…) on material elements» (1993, p. 445). Respingono l’integrazione anche Chilton (1971, p. 46) e Casanova (1984, p. 109, apparato). 92  Mentre secondo Democrito il carattere convenzionale delle qualità ci im­pe­ disce di partire dall’esperienza sensibile per arrivare ad affermare l’esistenza degli atomi e del vuoto: si veda Morel 1998. 93  Cfr. Morel 2011, p. 14, dove il concetto è organizzato in formula: «l’atomisme épicurien est certes un ‘atomisme’, mais plus largement un ‘corporalisme’». 91

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caotico, Epicuro fa intervenire f i n d a l l ’ i n i z i o le forme determinate: «dans la cosmologie épicurienne les atomes appropriés ne sont pas seulement des composants, mais aussi les agents premiers et spontanément organisateurs de la production du monde» (Morel 2003, pp. 43-44). Cosicché (b2) non sarebbe un’inerte replica di (b1), bensì un’aggiunta concettualmente densa, mirata a instaurare «la relation causale entre les atomes et les mondes» (2003, p. 45). Donde la traduzione «à partir desquels peut naître un monde ou sous l’effet desquels un monde peut être produit» (2003, pp. 34 e 44 = 2011, pp. 14 e 15). Al lettore non prevenuto non sfuggiranno le debolezze di questo ragiona­men­to e in particolare del suo punto centrale e qualificante: la priorità di (b1) su (b2). Il richia­mo all’inferenzialità sedleyana è fuori luogo, poiché con modello inferenziale Sedley si riferisce a uno sviluppo lineare dell’argomentazione a partire da concetti ampi, di base, fondativi, non certo alla tassonomia di singoli elementi di lessico94. Il fatto è che il Morel volge in filosofia un fatto stilistico-retorico. La questione se i composti abbiano la precedenza sugli atomi o gli atomi sui composti avrebbe senso se tanto gli uni quanto gli altri venissero designati con un vocabolo unico. Siccome invece la nozione di atomo è introdotta per mezzo di una perifrasi, questa deve venire per seconda, in quanto presuppone che i composti siano stati menzionati già. In Lucr. 1.483-484, dove si incontra un’analoga distinzione fra i due possibili sensi di corpora, l’ordine è invertito: prima i corpi/atomi, poi i corpi/composti: corpora sunt porro partim primordia rerum, | partim concilio quae constant principiorum. Lucrezio non è infedele al maestro, ma semplicemente pospone, secondo l’ordine stilisticamente preferibile, il termine perifrastico. Epicuro avrebbe potuto dire τῶν σωμάτων τὰ μέν ἐστιν ἄτομα, τὰ δὲ συγκρίσεις, ma non altrettanto bene τῶν σωμάτων τὰ μέν ἐστιν ἐξ ὧν αἱ συγκρίσεις πεποίηνται, τὰ δὲ συγκρίσεις. Il motivo per cui non è stato usato ἄτομα è che in ogni parola, neologismi a parte, il significato tecnico non si dà ab initio, ma si costruisce per gradi, almeno quando si parla – o si finge di parlare – ai non iniziati. Il c. 40 fa parte della sezione introduttiva dell’epistola, in cui il lettore si suppone inesperto, vergine, tale da dover essere amorevolmente guidato alla verità procedendo dal facile al difficile e dal noto all’ignoto. I composti sono una realtà che tutti vedono, mentre gli atomi sfuggono ai sensi e vanno còlti per mezzo di similitudini, astra-

 Nell’introduzione alle Lettres, maximes et autres textes del 2011 questo richiamo all’inferen­zialità è, se non sbaglio, venuto meno, riducendosi a una più anodina «progressione argomenta­t iva» (p. 13). 94

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zioni, operazioni logico-dialettiche. L’uso di ἄτομα o ἄτο­μοι in questo punto sarebbe stato intempestivo. Oltretutto, quand’anche dietro la sequenza composti/atomi ci fosse un’intenzione, essa non sarebbe necessariamente quella che vuole il Morel, dato che è regola univer­sa­le della retorica mettere per ultimo l’elemento su cui si vuole richiamare l’atten­zio­ne. Anche l’argomento della priorità ontologica dà da pensare. Si parlerà di priorità ontologica laddove si stabilisce che A può esistere senza B mentre B non può esistere senza A. E non c’è dubbio – né per Democrito né per Epicuro – che gli atomi esistono anche senza i composti, i composti senza atomi no. Il Morel scrive che gli atomi sono sì cause dei corpi, «mais le fait que les atomes soient causes ne leur confère pas l’exclusivité en matière d’existence» (2003, p. 40). Difficile capire chi possa aver obiettato su ciò. Senza dubbio il Morel pensa a Democrito e ai due piani ontologici del fr. 117. Ma dicendo che le uniche cose vere sono le ἄτομοι e il κενόν Democrito non voleva dire che la Sicilia o il Peloponneso non esistono nel senso che chi ci va non ci trova nulla, o che il cibo non esiste nel senso che chi va a fare la spesa torna a casa con la borsa vuota. Da questo punto di vista non può esserci diversità fra Epicuro e Democrito: l’unico senso in cui i composti sono priora rispetto agli atomi è che si offrono prima alla nostra conoscenza. Quanto al c. 45, il Morel vorrebbe estrarre da ὑφ᾿ ὧν l’idea di un determinismo temperato, smussato, che permettesse di attribuire agli atomi non dico una volontà, ma una componente attiva, produttiva, creazionistica, motoria. E non è il primo: già Zannoni 1927, p. 30, pensava a qualcosa del genere quando traduceva «atomi dai quali nascerebbe (per sua virtù) un mondo, o dai quali un mondo verrebbe (, per loro virtù,) fatto»95. E ancora prima di Zannoni – molto prima – si era posto su questa linea il settecentesco J. C. Schwartz: per ἄτομα, individua, intellig[i]tur vis illa, quae particulas materiae primum coniunxerit et adhuc continuat. Ecce enim claris verbis dubitationem suam exprimit [sc. Epicurus], utrum ex individuis coortos, an ab atomis factos esse mundos dicat. Alterum materiam, alterum autorem indicat mundorum (1718, p. 34).

Ma se dalla speculazione astratta si passa allo streng grammatisch, le esegesi possibili di ὑφ᾿ ὧν sono tre e non più di tre. Ove si escluda il genitivo di materia, che non è neppure il caso di prendere in considerazione96, restano  Non è lontano da questa logica neppure J. Boulogne laddove scrive che nell’Epistola a Erodoto non manca «un minimum de spontanéité atomique» (2003, p. 97). 96  Dissento dunque da Caretta – Samarati 1976, p. 11: «questi atomi, da cui può nascere un mondo, o di cui un mondo può consistere», e ancora di più da O. Hamelin (che qui invero parafrasa più che propriamente tradurre): «et d’autre 95

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l’agente e la causa efficiente. Ma la causa efficiente, oltre ad essere troppo democritea, farebbe di ὑφ᾿ ὧν ποιηθῆναι un doppione di ἐξ ὧν γενέσθαι – cosa che è stata esclusa ex hypothesi – mentre con il complemento d’agente gli atomi sarebbero ben di più che semplici «organisateurs de la production du monde» (2003, p. 44)97. Perciò il Morel sceglie di tradurre «per effetto di», una resa evasiva, sfuggente, e quasi certamente illecita nella prosa di Epicuro, nella quale il valore agentivo ed efficientivo degli ὑπό è sempre estremamente netto. Si vedano nella Lettera a Erodoto i cc. 53, 64, 73, 75 (ter); nella Lettera a Pitocle i cc. 90, 101 (bis), 102, 104, 107, 110, 113, 114; nella Lettera a Meneceo i cc. 133 e 134. Nessuno di questi casi offre appiglio alla tesi di Morel98, il quale peraltro, e qui pongo fine alla digressione, va molto vicino secondo me a quell’«incautious lapse into teleology», come dice Long (1977, p. 168), a cui può condurre un eccessivo focus sulla «suitability» degli atomi99.

part, toujours en vertu de cette infinité en nombre, la quantité d’atomes propres à servir d’élements, ou, autrement dit, de causes, à un monde, ne peut-être épuisée par la constitution» ecc. (1910, p. 400). 97  Posto che un ruolo del genere esista, esso non deve essere per forza una reazione di Epicuro a Democrito indotta dalle critiche aristoteliche: Sedley (2011, pp. 145-176) ha spiegato, con l’usuale lucidità, che quel tanto di demiurgico, di ‘provvidenziale’ che riscontriamo in certi esiti del pensiero atomistico altro non è che un effetto del ‘potere dell’infinito’, del fatto cioè che in un infinito spazio e in un infinito tempo si daranno tutte le combinazioni, comprese quelle che somigliano a un’organizzazione intelligente. 98  Mi chiedo peraltro perché il «raffinement dans la définition de la causalité atomique» (2003, p. 35) non sia spuntato già al c. 40 ἐξ ὧν αἱ συγκρίσεις πεποίηνται, dove nulla impediva di scrivere ὑφ᾿ ὧν al posto di ἐξ ὧν. (Diverso naturalmente il caso del c. 42 ἐξ ὧν καὶ αἱ συγκρίσεις γίνονται καὶ εἰς ἃ διαλύονται, perché qui ἐξ ὧν indica la composizione-provenienza, e il verbo non è ποιεῖσθαι ma γίνεσθαι). 99  Da studioso accorto, il Morel vede il rischio e se ne protegge: e infatti nell’introduzione alle Lettres, maximes et autres textes mette bene in chiaro che gli atomi non agiscono per «dessein intelligent» o per «intention providentielle», ma per una «puissance naturelle d’engendrement», per un «pouvoir d’engendrement et d’organisation» a loro connaturato (2011, p. 16). Ma c’è poi tutta questa differenza fra le due cose? E c’è tutta questa differenza fra la concezione democritea e quella epicurea? Non sarò io a insegnare qualcosa su Democrito ad un democritista en titre come P.-M. Morel; mi limito a citare una conclusione di M. L. Silvestre Pinto: «la materia di cui consta l’universo democriteo è materia dotata di moto, essa stessa ‘fattrice’ dell’universo senza presunti interventi spirituali o soffi vitali che le provengono dall’esterno» (1981, p. 34), da cui si evince che la ratio della formazione dei mondi deve essere stata grosso modo la stessa in tutti gli atomisti.

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Il Bailey spiegava: «perhaps ἐξ ὧν ἂν γένοιτο refers rather to the original creation of the world, ὑφ’ ὧν ἂν ποιηθείη to its main­tenance» (p. 188)100: i cosmi epicurei non sono sistemi chiusi, ma organismi che nascono, vivono per un certo tempo e poi muoiono. Anche in Lucrezio il motivo della durata è ben presente: 5.95-96 una dies dabit exitio, multosque per annos | sustentata ruet moles et machina mundi; ed Epicuro stesso nel c. 89 dell’Epistola a Pitocle scrive che un mondo si forma grazie all’afflusso di atomi «da complessi adatti fino al compimento e in modo da poter durare (τελειώσεως καὶ διαμονῆς), fino a che cioè le basi sottoposte ammettono l’ag­giunta di materia» (Arrighetti p. 80). Credo perciò che l’ipotesi di Bailey possa funzionare, anche se, come osserva stavolta a ragione il Morel (2003, p. 45 nota 55), essa non trova appoggio nel testo greco. Propongo allora due soluzioni. La prima è ὑφ᾿ ὧν ἂν ποιη­θείη, con περιποιεῖν = «mantenere», servare, tueri. Il senso di περιποιεῖν e περιποιεῖσθαι (usati anche in Epist. Pyth. 116 e RS 7, nonché nei frr. 219 e 485 Us., il primo proveniente da Sesto, il secondo da Porfirio) è quello di «ottenere, fare proprio». Significa però «mantenere» in 31.11.24-12.2 Arr. κ[αὶ] τὴν τῶν ὀνομάτ[ω]ν κ[αὶ π]ραγμάτω[ν ἰ]δι[ότητ’ οὐ]κ ἂ[ν λέγ]ωμ περ[ιποι]ώιης, «e nel parlare non potrai man­te­nere il carattere peculiare delle parole e delle cose» (Arrighetti pp. 302-303), ancorché il frammento si presenti in forma molto diversa nella ricostruzione della Tepedino Guerra (1990, p. 21), che in luogo di περ[ιποι]ώιης stampa περ[ιν]οώιης. Per lo scambio περιποιεῖσθαι/ ποιεῖσθαι si vedano e.g. sch. Pind. Nem. 3.72a Drachmann περιπεποιημένος vs. πεποιημένος; Clem. Strom. 3.5.43.1 πεποιημένοις (Bywater) vs. πεποιημένοις; Artemid. Onir. 2.68 περιποιεῖ vs. ποιεῖ; [Demetr.] Formae epist. 18 (10.1 Weichert) περιποιήσασα vs. ποιήσασα (errore qui propiziato anche da un ἐποίησεν che precede di poco), ecc. Molti i casi in Diodoro: 11.39.2; 12.12.2; 15.29.2; 19.1.2. In Diogene Laerzio è attestato l’errore inverso (non proprio uguale, ma simile) in 8.10 πεποιῆσθαι P: πεποιεῖσθαι B: περιποιεῖσθαι F.

 Il Geer accetta tale esegesi e – unico – traduce di conseguenza: «the atoms suited for the creation and maintenance of a world» ecc. (1964, p. 13). Il Conche (1987, p. 105) traduce utilizzando il solito nascere/costituire, ma il suo commento sembra sulla linea del Bailey: «alors qu’un monde est déjà formé, d’autres éléments entrent, du dehors, dans sa constitution, permettant sa croissance» (p. 131 nota 4). L’inutile inciso «dans sa constitution», con cui si cerca evidentemente di raccordare l’esegesi con la traduzione, mostra che lo stesso Conche sentiva qualche scollamento fra l’una e l’altra. 100

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Una seconda soluzione potrebbe essere ὑφ᾿ ὧν ἂν ποιωθείη: per quae mundus fiat vel ex quibus cuiusdam qualitatis reddatur. Nessuna obiezione di principio su ποιοῦν, verbo già consacrato dalla tradizione filosofica (Aristotele), e che ritroviamo in combinazione con γίγνεσθαι in un passo (simile al nostro anche per la struttura) del De pace III di Gregorio Nazianzeno: εἰ δέ τις ἐν ἕξει καλοῦ τινος γένοιτο, καὶ ἀπ᾿ αὐτοῦ ποιωθείη κτλ. (MPG 35, 1152.28-30). Il Glossarium non attesta forme di ποιοῦν uscite dalla penna di Epicuro, ma adduce l’importante passo di Sext. AM 9.335 ’Επίκουρος ἕτερον ἠξίου τυγχάνειν τὸ μέρος τοῦ ὅλου, καθάπερ τὴν ἄτομον τοῦ συγκρίματος, εἴ γε ἐκείνη μὲν ἄποιός ἐστι, τὸ δὲ σύγκριμα πεποίωται, ἤτοι λευκὸν ἢ μέλαν ἢ κοινῶς κεχρωσμένον καὶ ἤτοι θερμὸν ἢ ψυχρὸν ἢ ἄλλην τινὰ ἔχον ποιότητα (pp. 556 e 617 ss.vv. σύγκριμα e ποιοῦν). Nella realtà effettuale un aggregato acquisisce le sue ποιότητες nel momento stesso in cui prende a formarsi, ma in punta di teoria il ποιωθῆναι viene dopo il γενέσθαι, per la stessa ragione per cui, nel processo inverso (come può essere quello descritto al c. 55), prima scompaiono le qualità, poi gli ὄντα. Utile il confronto con il c. 64, dove di nuovo processi sincroni vengono artificialmente scissi per semplicità espositiva. 46 καὶ μὴν καὶ τύποι ὁμοιοσχήμονες τοῖς στερεμνίοις εἰσί, λεπτότησιν ἀπέχοντες μακρὰν τῶν φαινομένων. (a) οὔτε γὰρ ἀποστάσεις ἀδυνατοῦσιν ἐν τῷ περιέχοντι γίνεσθαι τοιαῦται (b) οὔτ᾿ ἐπιτηδειότητες πρὸς κατεργασίας τῶν κοιλωμάτων καὶ λειοτήτων {γίνεσθαι}, οὔτε ἀπόρροιαι τὴν ἑξῆς θέσιν καὶ βάσιν διατηροῦσαι, ἥνπερ καὶ ἐν τοῖς στερεμνίοις εἶχον. (b) ἐπιτηδειότητες πρὸς κατεργασίας Usener: ἐπιτηδειότητες τοὺς κατεργασίας BP1: ἐπιτηδειότητες τὰς κατεργασίας FP4: ἐπιτηδειότητες τὰς κατεργασίας Casaubon: ἐπιτηδειότη­τες τῆς κατεργασίας Bailey | {γίνεσθαι} Kuehn. Esistono inoltre delle immagini che hanno la stessa forma degli oggetti solidi, ma per sottigliezza sono molto differenti da ciò che si vede. (a) Né è impossibile che nell’ambiente che ci circonda si producano tali efflussi, (b) e che siano adatti a riprodurre le parti cave e quelle piane, o emanazioni tali da conservare la disposizione e l’ordine che avevano anche nei corpi solidi (Arrighetti p. 42).

(b) Che un τάς sia diventato τούς proprio davanti a κατεργασίας è decisamente improbabile. Molto meglio si spiega il percorso inverso, che infatti è attestato dall’intraprendente F. Metterei dunque da parte le soluzioni di Casau­bon e di Bailey.

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Gli studiosi seguono per lo più la brillante e non costosa correzione di Usener τούς > πρός101. Ma ancor meno costerebbe τούς > τοῦ. Avremmo dunque: τοῦ{ς} κατεργασίας τῶν κοιλωμάτων καὶ λεπτοτήτων γίνεσθαι: «né è impossibile che vi siano (οὔτε ἀδυνατοῦσι γίνεσθαι) occasioni idonee al formarsi di riproduzioni di parti cave» ecc.102. Con il che anche il secondo γίνεσθαι, trovandosi su un piano diverso rispetto all’altro, potrebbe essere mantenuto. Non costituisce ovviamente problema la lieve differenza di accezione dei due γίνεσθαι. Per ἐπιτηδειότης con verbo sostantivato (o proposizione sostantivata) cfr. e.g. Alex. Aphr. De an. 12.25 Bruns ἔχων μὲν δύναμιν καὶ ἐπιτηδειότητα τοῦ δέξασθαι αὐτήν; [Didymus Caecus] De trin. 6.6.1.9-10 Seiler αὐτὸ δὲ οὐδαμῶς εὑρίσκεται ἔχον ἐπιτηδειότητα τοῦ ἁγιάζεσθαι ἢ δικαιοῦσθαι ἢ σοφίζεσθαι ὑφ᾿ ἑτέρου, ecc. 47 εἶθ᾿ ὅτι τὰ εἴδωλα ταῖς λεπτότησιν ἀνυπερβλήτοις κέχρηται οὐθὲν ἀντι­μαρ­τ υ­ ρεῖ τῶν φαινομένων· ὅθεν καὶ τάχη ἀνυπέρβλητα ἔχει, πάντα πόρον σύμ­με­τρον ἔχοντα πρὸς τὸ ἀπείροις αὐτῶν μηθὲν ἀντικόπ­τειν ἢ ὀλίγα ἀντικόπτειν †πολλαῖς δὲ καὶ ἀπείροις εὐθὺς ἀντικόπτειν τι†. τὸ ἀπείροις Von der Muehll: τῷ ἀπείρῳ BPF: τῷ ἀπείροις Sedley: τῷ ἀπορρῷ Bailey: τῷ ἀπείρῳ Meibomius: τῷ ἀπείρῳ Tescari, Kochalsky: τῷ ἀραιῷ

 Correzione ancora ignota al Glossarium, in cui la pericope viene citata cinque volte e sempre in maniera diversa: (1) GE p. 291 s.v. ἐπιτηδειότης: «οὔτ᾿ ἐπιτηδειότητες τὰς κατεργασίας τῶν κοιλωμάτων καὶ λεπτοτήτων (sic!) γίνεσθαι (sc. τοιαῦται ἀδυνατοῦσιν)»; (2) GE p. 375 s.v. κατεργασία: «ἐπιτηδειότητες κατὰ τὰς κατεργασίας τῶν κοιλωμάτων καὶ λεπτοτήτων (sic!)»; (3) GE p. 387 s.v. κοίλωμα: «τὰς κατεργασίας τῶν κοιλωμάτων καὶ λεπτοτήτων (scr. λειοτήτων)»; (4) GE pp. 403-404 s.v. λειότης: «τὰς κατεργασίας τῶν κοιλωμάτων καὶ λειοτήτων (λεπτοτήτων libri: sed ut varia natura simulacrorum describeretur, et opus fuit ea memorari quorum superficies levis est, et ea quorum partes aliae prominent aliae recedunt, uno vocabulo κοιλωμάτων indicari satis fuit)»; (5) GE p. 405 s.v. λεπτότης: «τὰς κατεργασίας τῶν κοιλωμάτων καὶ λεπτοτήτων (hoc ferri nequit, scr. λειοτήτων)». L’ordine alfabetico rispecchia quasi certamente l’ordine cronologico: Usener sente di volta in volta sempre più sicura la correzione λεπτοτήτων > λειοτήτων, mentre il contrario avviene con l’aggiunta di κατά, che negli items (3), (4) e (5) viene tenuta fuori dalla citazione, per l’evidente motivo che Usener era incerto sulla posizione da prendere. E infatti non resta nessuna traccia di τὰς κατεργασίας né nel testo né nell’apparato degli Epicurea (Usener p. 9). 102  Sull’ ἐπιτηδειότης nel sistema epicureo si veda Leone 2012, pp. 674-675. 101

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vel τῷ ἀπείρῳ Bignone | αὐτῶν om. F | πολλαῖς et ἀντικόπτειν BPF: πολλὰ et ἀντικόπτει DeWitt. Inoltre nessun fenomeno si oppone a che i simulacri abbiano una sottigliezza inconcepibile; per cui hanno anche una velocità inconcepibile, trovando ogni meato proporzionato (alla loro costituzio­ne rada) affinché niente, o poco, li impedisca quando sono in numero infinito (Arrighetti p. 44)103.

Sottigliezza e velocità fanno tutt’uno: quanto più i simulacri sono sottili, tanto più penetrano attraverso i meati104 e tanto meno sono esposti alle ἀντικοπαί. Non è chiaro tuttavia come si inserisca in tutto ciò la tematica dell’ ἄπειρον, allusa per ben due volte in queste righe. La cor­re­zione ἀπείρῳ > ἀπορρῷ, introdotta da Bailey (p. 192) e accettata da Mar­co­v ich (p. 742), produce un testo artificioso, poiché non c’è ragione che gli atomi impattino contro l’«effuire» dei simulacri (o de­gli atomi che li compon­gono) piuttosto che con i si­mu­lacri direttamente (o con gli atomi che li compongono). Volendo intervenire (ma qui si tratta davvero di tentare i numeri babilonesi), una soluzione potrebbe essere πρὸς τῷ ἀπείρων ὄντων (sc. τῶν εἰδώλων) μηθὲν ἀντικόπ­τειν ἢ ὀλίγα ἀντικόπτειν, πολλαῖς (sc. ταῖς ἀτόμοις οὔσαις) δὲ καὶ ἀπείρων (sc. ὄντων) εὐθὺς ἀντι­κόπτειν τι105: «oltre al fatto che, data la loro infinità, niente o poco li frena («li» = i simulacri); mentre se (gli atomi del simulacro fossero) molti, qualcosa ben presto li frenerebbe, nonostante la loro (sc. dei simulacri) infinità». In tal modo l’ ἄπειρον verrebbe a riguardare non l’infinito numero degli atomi, ma l’infinito numero dei simulacri, di cui ἀπείρων ὄντων descrive­rebbe il continuo, ininterrotto staccarsi dalla superficie degli ogget­ti; quanto a πολλαῖς δὲ καὶ ἀπείρων εὐθὺς ἀντικόπτειν τι, il senso sarebbe che crescendo il numero degli atomi crescerebbe necessariamente anche quello delle ἀντικο­παί. Cosicché, per quanto il flusso dei simula­cri sia senza limite, le im­ma­gini degli og­get­ti giunge­rebbero a noi con più difficoltà. Ma nulla di certo, lo ribadisco, si può ad oggi ricavare dal disperatissimo passo106.

 Arrighetti non traduce la parte fra cruces.   Questo sarà evidentemente il senso di πάντα πόρον σύμμετρον ἔχοντα. Alquanto creativa, diciamo così, è l’interpretazione di Untersteiner 1930, p. 651 (su Untersteiner e il c. 47 della Lettera rimando a Verde 2011, pp. 142-144). 105  Chissà che una struttura simile non si trovasse nel fr. 26.21.1-4 Arr. ἀπαντᾶν ἢ μὴ λ[ή-]|ρους ἀπαντᾶν, ἀπεί-|ρου δὲ μὴ ἀπαν[τᾶν]| λη[..]η ἄν. 106  Interessante per l’ultima pericope la soluzione di DeWitt 1943, p. 22 nota 6 πολλὰ δὲ καὶ ἀπείροις εὐθὺς ἀντικόπτει τι. Ma che fare del καί? 103

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48 (a) πρός τε τούτοις ὅτι ἡ γένεσις τῶν εἰδώλων ἅμα νοήματι συμβαίνει· καὶ γὰρ ῥεῦσις ἀπὸ τῶν σωμάτων τοῦ ἐπιπολῆς συνεχής, οὐκ ἐπίδηλος τῇ μειώσει διὰ τὴν ἀνταναπλήρωσιν, σῴζουσα τὴν ἐπὶ τοῦ στερεμνίου θέσιν καὶ τάξιν τῶν ἀτόμων ἐπὶ πολὺν χρόνον, εἰ καὶ ἐνίοτε συγχεομένη ὑπάρχει, (b) καὶ συ­στάσεις ἐν τῷ περιέχοντι ὀξεῖαι διὰ τὸ μὴ δεῖν κατὰ βάθος τὸ συμπλήρωμα γίνεσθαι, καὶ ἄλλοι δὲ τρόποι τινὲς γεννητικοὶ τῶν τοιούτων φύσεών εἰσιν. (c) οὐθὲν γὰρ τούτων ἀντιμαρτυρεῖ107 ταῖς αἰσθήσεσιν, ἂν βλέπῃ τις108 τίνα τρόπον τὰς ἐναργείας, ίνα καὶ τὰς συμπαθείας ἀπὸ τῶν ἔξωθεν πρὸς ἡμᾶς ἀνοίσει. (a) τῇ μειώσει Usener: σημειώσει BP: ἢ μειώσει FP4mg. (c) ἀντιμαρτυρεῖ Brieger: ἀντιμαρτυρεῖ BP: μαρτυρεῖ F | βλέπῃ BP: βλέπου­σα F | ἐναργείας Gassendi: ἐνεργείας BPF | ίνα καὶ Usener: ἵνα καὶ BPF: {ἵνα} καὶ Von der Muehll: καὶ ίνα Heidel | ἀνοίσει B: ἀνοίση PF. (a) E inoltre [sc. nessun fenomeno si oppone] a che il prodursi dei simulacri avvenga con la rapidità del pensiero. Infatti dalla superficie dei corpi si parte un continuo flusso di simulacri – che non è visibile con la diminuzione del corpo stesso a causa del continuo risarcimento della materia – il quale conserva per molto tempo la posizione e l’ordine degli atomi del corpo da cui proviene, anche se talora avviene che possa subire un certo disordine. (b) Inoltre nell’ambiente che ci circonda si formano rapidamente delle concrezioni, perché non è necessario che si costituisca anche in profondità la pienezza del corpo; e ci sono anche altri modi in cui tali nature possono costituirsi. (c) Nessuna infatti di tutte queste cose è in contrasto con i dati della sensazione se ben si consideri in qual modo si potrà ricondurre dalla realtà che è fuori di noi ai nostri sensi sia la chiara evidenza di essa sia la sua conformità (della realtà percepita) alle sensazioni (Arrighetti p. 44).

(a) Il ritorno di Bollack – Bollack – Wismann (1971) all’indifendibile σημειώσει è approvato da Olivier Bloch (1973, p. 454) in quanto σημείωσις sarebbe un termine frequente in Epicuro e nell’epicureismo. Argomento di nessun rilievo, poiché càpita anche alla parola frequente (anzi specialmente a quella) di presentarsi in punti sbagliati. Dunque nessun dubbio sulla

 Aggiungo le uncinate, omesse da Arrighetti. Barigazzi (1958, p. 263) difende ἀντιμαρτυρεῖ, forse a ragione. 108  Nel Glossarium lo Usener stampa per due volte ἐάν al posto di ἄν e scambia di posto βλέπῃ e τις (GE p. 250 s.v. ἐνάργεια e p. 255 s.v. ἐνέργεια). Ma sono sviste, non correzioni. 107

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bontà del τῇ μειώσει di Usener109, fondato su una meccanica tipicissima (cfr. e.g. Sext. AM 9.404 τὴν μείωσιν vs. σημείωσιν; Plut. De Is. 376F ταῖς μειώσεσι vs. ταῖς σημειώσεσι; Dion. Hal. De comp. verb. 31 UR δέοι μειώσει vs. δέοι σημειώσει, ecc.). (b) Con συστάσεις Epicuro intenderà i simulacri compositi110, e ὀξεῖαι sarà qualcosa di più di «veloci, rapide», come in genere si traduce111. Diversamente dai simulacri normali, nati per via di ῥεῦσις, le συστάσεις possono materializzarsi per così dire dal nulla, inaspettatamente. Tradurrei ὀξεῖαι con «istantanee, im­prov­v ise» (Apelt II, p. 245: «plötzliche»; Bredlow 2010, p. 379: «instantáneas»), in modo da insistere sull’apparizione a parte percipientis, unendo il dato della velocità a quello psicologico dello stupore. La resa di ὀξεῖαι è connessa anche con l’interpretazione di συμπλήρωμα. Bailey scrive che «such idols [sc. le συστάσεις] can be formed quickly because it is only necessary for enough atoms to unite to form the external film, whereas in order to make a normal compound body, it would be necessary for all the interior to be filled up (κατὰ βάθος) as well» (p. 193). Spiegazione che spiega poco, in quanto vale per tutti i corpi e per tutti i simulacri: il Bailey non considera che qui il confronto non è fra i corpi in genere e i simulacri in genere, bensì fra i simulacri unitari, che riproducono realtà effettive come l’uomo e il cavallo, e i simulacri compositi, che raffigurano centauri, scille o chimere (Lucr. 4.739 sgg.)112.  Mera svista l’omissione dell’articolo in GE p. 423 s.v. μείωσις: «οὐκ ἐπίδηλος μειώσει κτλ.». 110  O, specularmente, le composizioni dei simulacri. Il termine non è tecnico, nel senso che non si specializza in un particolare tipo di συνίστασθαι, ma indica il συνίστασθαι in se stesso. Si riferisce reiteratamente agli atomi e.g. nel libro XXV del Περὶ φύσεως: cfr. Laursen 1997, pp. 16-17, 20, ecc. 111  Fuori dal coro Kochalsky p. 17: «Formationen, die scharf umrissen sind». Una resa interessante. Sponte sua, dice Lucrezio (4.131 e 4.736). 112  Conche p. 135 nota 6: «ces simulacres se forment rapidement puisque con­ trai­re­ment aux corps solides (steremnia), ils se réduisent à une mince pellicule creuse n’ayant pas besoin d’être remplie à l’intérieur»: e qui l’errore è proprio evidente. Il Bignone osserva che le συστάσεις, «simili ai simulacri [ma perché simili? Le συστάσεις sono simulacri], sono per esempio le apparenze mostruose delle nubi, vedi Lucr. 4.129 sgg.» (pp. 82-83 nota 5). Ma Lucrezio menziona le nubi mostruose non come esempio o caso di σύστασις, bensì come mera simi­li­tudine (e infatti la nube è strumento di similitudini amatissimo da Lucrezio: si veda ora Leone 2014, pp. 17-18). Bene invece Bignone 1924a, pp. 386-387, che distingue le ἀποστάσεις dalle συστάσεις intendendo queste ultime come unioni di idoli vaganti. 109

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L’ Epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio

Anche Verde sembra sulla linea di Bailey. Egli traduce συμπλή­ρωμα «pienezza» (p. 41) e nel commento a p. 127 attribuisce la pienezza prima alle συστάσεις («conservano la loro pienezza») e poi ai simulacri in genere: «i simulacri, infatti, sono membrane sottilissime che, pur non essendo immateriali, preservano la loro pienezza e compattezza non necessariamente in virtù della profondità» (p. 128). Se capisco bene, Verde intende dire che la textura dei simulacri resta unita ancorché non poggi su atomi sottostanti. Ma perché «non necessariamente»? La terza dimensione o c’è o non c’è. E secondo me non c’è, anzi ritengo che la mancanza della terza dimensione («the idol as a film, one atom deep», dice Geer 1964, p. 79, nota h) sia una caratteristica primaria e costitutiva dei simulacri: un simulacro che avesse profondità non sarebbe tale113. Una possibilità è che il κατὰ βάθος συμπλήρωμα γίνεσθαι si riferisca al flusso atomico in cui si dà continuità fra simulacro e oggetto. Nei casi normali il flusso non finisce mai: il simulacro è continuamente nutrito a tergo dalle pellicole atomiche. Invece le συστάσεις sono mere superfici, che, in quanto vagano lonta­no dai corrispettivi tridimensionali, sono tagliate fuori dai rifornimenti. Prescindendo dalle immagini mentali e riducendo il problema ai suoi termini più semplici, mettiamo che in un paesaggio di fiumi, case, montagne e nuvole mi appaia di colpo un centauro. La differenza è che gli idoli dei fiumi sono alimentati dai fiumi, gli idoli delle case dalle case eccetera. L’idolo del centauro non è invece alimentato da nulla, perché i rispettivi ὑποκείμενα, il mezzo uomo e il mezzo cavallo, sono assenti dal quadro (necessariamente: infatti non esistono in natura)114. Se fossero presenti, dovrebbero esserlo come uomo intero e cavallo intero; ma in quel caso io

 Di opposto parere la Manuwald (1972, pp. 121 sgg.) e la Annas (1992, p. 159 nota 7). Altre interpretazioni di συμπλήρωμα κατὰ βάθος sono «riempimento in profondità» (Conche pp. 105 e 135 nota 6), «füllende Körpermasse in der Tiefenrichtung» (Apelt II, p. 245), «Tiefendimension» (Jürß p. 472), «solid content» (?) (Hicks II, p. 579), «solidity» (?) (Strozier 1965, p. 63), «costituzione piena nel senso della profondità» (Massa Positano p. 34); soluzioni che contravvengono alle dottrine epicuree o (caso più frequente) non dicono nulla. Sul problema bidimensionalità/tridimensionalità rinvio a Philippson 1916, p. 570; Bailey p. 191; Barigazzi 1958, p. 266; Lee 1978, p. 29; Hourcade 2007, p. 160. 114  Lucr. 4.739-742 nam certe ex vivo Centauri non fit imago, | nulla fuit quoniam talis natura animantis, | verum ubi equi atque hominis casu convenit imago, | haerescit facile extemplo. E ancora 4.129 sgg.: lo spazio non è percorso solo dai simulacri che promanano ab rebus, ma anche da quelli che sponte sua gignuntur et ipsa | constituuntur in hoc caelo qui dicitur aer. 113

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non vedrei un centauro, bensì un uomo e un cavallo. Con συστάσεις sembra dunque che Epicuro intenda unioni di simulacri emessi da στερέμνια f u o r i c o r n i c e . Questi simulacri possono presentarsi all’im­provviso in contesti estranei, per il fatto che non hanno bisogno (διὰ τὸ μὴ δεῖν) di essere alimentati. In compenso non durano a lungo. Ne segue che πλήρωμα cor­ri­sponde a πλήρωσις115 usato poco prima nella sezione (a). Cam­biando la situa­zione, cambiano anche i prefissi (ἀντανα-, συμ-), ma il concetto sembra assolu­t a­men­te lo stesso116. (c) In chiusura di capitolo viene ribadito un principio ben noto al sistema epicureo: che la teoria è tanto più attendibile quanto più viene confermata – o non contraddetta – dall’espe­rienza (cfr. cc. 39, 47, 55). Lo Usener mutò ἵνα in τίνα117, e a molti tale ritocco è parso risolutivo118; al punto che la sua mancata ricezione da parte di Bollack – Bollack – Wismann (1971, pp. 94-95 e 194) fu deplorata da A. Grilli come un caso di cecità decisamente eccessiva persino per un’edizione in cui l’idolatria del tràdito raggiungeva livelli di protervia inauditi. Ma non sono pochi gli editori che pur senza preconcette ostilità nei confronti della critica congetturale hanno preferito mantenere il testo dei codici analiz­zando ἵνα καὶ τὰς συμπαθείας come un’espressione ellittica: fra questi Hicks, Bignone, Apelt, Long, Long – Sedley e Balaudé119. Il Von der Muehll propose l’espunzione di ἵνα, ma questa «dubia medela» (come lui  Una delle tante coppie sis/ma: cfr. στοιχείωσις/στοιχείωμα; ῥεῦσις/ῥεῦμα, ecc.  Così Giussani sull’ ἀνταναπλήρωσις: «il succedersi delle imagines fluenti dalla superficie di un oggetto, onde abbiamo la visione continuata dell’oggetto stesso» (1896, p. 231 nota 2). 117  Usener p. 11. Per l’esattezza τίς τινα (…), τίνα καὶ κτλ. Ma è un refuso (presente anche in GE p. 146 s.v. βλέπειν): si legga τις τίνα κτλ. (cfr. Bailey p. 194). Anche in questo caso, come in molti altri, il Glossarium rivela che Usener arrivò alla soluzione definitiva in modo per nulla lineare: in GE p. 624 s.v. συμπάθεια si mostra incerto: «ἵνα (?) καὶ τὰς συμπαθείας ἀπὸ τῶν ἔξωθεν πρὸς ἡμᾶς ἀνοίσει». Invece in GE p. 340 s.v. ἵνα l’incertezza evolve in ipotesi: «adverbium rel. locale: ἵνα … ἀνοίσει». Nessuna traccia di ίνα nel Glossarium. 118  Lo hanno accettato Heidel 1902, pp. 191-192; Marco­v ich p. 743; Verde p. 40. Arrighetti p. 45 accetta anche lui ίνα, ma senza nascondere che il senso della frase gli sfugge (p. 499). 119  Rispettivamente Hicks II, p. 578; Bignone 1920, p. 83 nota 1; Apelt p. 354; Long II, p. 517; Long – Sedley II, p. 76; Balaudé p. 1272. Non chiaro come stiano le cose in Gigante p. 417 e in Massa Positano p. 34. Il Cobet (p. 265) e il Tescari (1907, p. 174) rendono ἵνα ἀνοίσει con la finale «ut referat». Se non altro Rossi 1788, pp. 115 116

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stesso la definì: p. 10) non ha avuto fortuna120. La Thyresson (p. 133) pensò di sostituire ἵνα καί con ἅμα καί, uno stilema che Epicuro usa anche nel c. 81 βουλήσεις ἅμα καὶ πράξεις καὶ αἰτίας; Epist. Pyth. 95 ὑποθέσεις ἅμα καὶ αἰτίας; Epist. Men. 122 νέος ἅμα καὶ παλαιός: at 28.18.4 the expression τὰ ἐν ταῖς αἰσθήσεσιν is used121. This fits very well into a conjecture of 2.48.9 and may be the subject of both ἀντιμαρτυρεῖ and ἀνοίσει. Only τούτων need be changed into τούτοις (referring to τρόποι τινὲς γεννητικοί of the preceding clause) and the sentence will then run as follows: οὐθὲν γὰρ τούτοις ἀντιμαρτυρεῖ τὰ ἐν ταῖς αἰσθήσεσιν, ἂν βλέπῃ τις τίνα τρόπον τὰς ἐναργείας ἅμα καὶ τὰς συμπαθείας ἀπὸ τῶν ἔξωθεν πρὸς ἡμᾶς ἀνοίσει. «For in no way is the sphere of sensations in contrast to these, if one observes in what way it brings clear visions of reality and such qualities alike, as belong to these, from the outside world to us» (p. 165 nota 22).

Pede in uno, e in nota, cioè defilatamente, la Thyresson pratica al testo modifiche pesanti, peraltro evitando di chiudere τὰ ἐν fra uncinate, come dovrebbe. Nel merito, è da osservare che in 28.18.4 Arr. (1960) = 30.18.4-5 Arr. (1973) sembra si parli degli attributi della sensazione, cosicché per far tornare le cose occorrerebbe supporre una corrispondenza precisa fra τὰ ἐν ταῖς αἰσθήσεσι e αἱ αἰσθήσεις122; in caso contrario i verbi dovrebbero essere al plurale. L’impressione è che la Thyresson dia fuoco alla casa per accendersi una sigaretta. Altro tentativo quello di Delattre: ἂν βλέπῃ τις τίνα τρόπον τὰς ἐνεργείας ἰδία καὶ τὰς συμπαθείας ἀπὸ τῶν ἔξωθεν πρὸς ἡμᾶς ἀνοίσει: «si l’on voit bien de quelle manière [ce flux] transportera jusqu’à nous ses effets particuliers, c’est-à-dire les relations de sympathie qui lui viennent des choses extérieures» (2004, p. 155). Tentativo interessante, ma da respingere per tre motivi: l’ingiustificata adozione di ἐνεργείας123, l’evanescenza del soggetto (la lonta264, 271, e Schneider 1813, pp. 8 e 63, stampavano ἀνοίσῃ, salvando le apparenze. Incomprensibile (per me almeno) la parafrasi di Solovine 1938, p. 58. 120  Però la accettano Balmuş (1963, p. 783 nota 166) e Conche (1987, p. 48); e Long – Sedley (II, p. 76) la prendono in considerazione (anche se poi vanno per altra via). Dorandi p. 763 stampa †ἵνα†. 121  La Thyresson cita il frammento nella prima edizione di Arrighetti; nella seconda corrisponde a 30.18.4-5 τῶν ἐν τ[α]ῖς αἰσ[θ]ή- | σ[εσιν]. 122  Corrispondenza che potrebbe anche esserci; solo che l’espressione più attesa sarebbe τὰ κατὰ τὰς αἰσθήσεις. 123   Ἐνεργείας, «las fuerzas eficientes», è la lezione preferita anche da Bredlow (2010, p. 379) e da Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin (2010, pp. 18 e 1086 nota 14). La scelta ἐναργείας/ἐνεργείας era, incredibilmente, l’unico problema del passo che

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nissima ῥεῦσις) e l’inutilità di ἰδίας (essendo la pertinenza di ἐνεργείας già sufficiente­men­te chiarita da τάς). Torniamo dunque al testo dei codici, e diciamo subito che l’ellissi non regge, poiché in tal caso il lettore dovrebbe essere messo in grado vuoi di individuare con certezza il verbo mancante – e invece qui non si capisce se ad ἵνα vada sottinteso βλέπῃ o ἀναφέρῃ, quest’ultimo dedotto da ἀνοίσει – vuoi di iden­ti­f i­ca­re l’ellissi stessa; cosa agevole per coloro che possiedono la punteggiatura, ma non per chi doveva indicare gli incisi e le parentesi per mezzo dei δέ o dei γάρ. È infine da considerare che la difficoltà dell’ ἵνα ellittico andrebbe a sommarsi a quella (si veda oltre) della proposizione sovraordinata, in cui troviamo un ἀνοίσει misteriosamente privo di soggetto. Ma il ίνα di Usener non è necessariamente un’alternativa all’ellissi. Il costo dell’intervento è minimo124, tuttavia il doppio τίνα in asindeto introdurrebbe nel passo un’enfasi sia concettualmente immotivata sia stilisti­ camente estranea all’uso di Epicuro125. Le anafore in Epicuro ci sono, ma nessuna confrontabile con questa126. Scorrendo le principali traduzioni epicuree e laerziane il problema dei due τίνα non si avverte, ma solo perché nella maggior parte dei casi l’asindeto v i e n e e l i m i n a t o : «in what way sensation will bring us the clear visions from external objects, and in what way» ecc. (Bailey p. 27); «se si ponga mente al modo come tali realtà portino a noi dalle cose esterne le conoscenze evidenti e le conformità delle nostre conoscenze alle cose stesse» (Isnardi Parente p. 162); «se solo si guarda al modo in cui esse dal mondo esterno riportano a noi le evidenze, e le corri­spon­denze» (Ra­mel­li p. 77); «providing one considers the clear facts in a certain way; one will also refer to [the senses] the [fact that] harmonious sets [of qualities] come to us from external objects» (Inwood – Gerson 1994, p. 9); «si l’on examine comment rapporter à nous les évidences et les effets de

stesse a cuore a Schneider, al punto da suggerirgli l’intervento τὸν τρόπον τῆς ἐνεργείας (1813, p. 63): esempio lampante di come anche l’individuazione delle priorità (non solo il modo di affrontarle) cambi nei secoli. Nel Glossarium, Usener stampa il tràdito (pur mettendolo in dubbio) sia a p. 250 s.v. ἐνάργεια sia a p. 255 s.v. ἐνέργεια. 124   Volendoli cercare, i casi di analoga corruttela spunterebbero proba­bilmente a decine: segnalo da parte mia, quasi ad apertura, Lys. 34.3 τινὰ ’Αθηναῖον vs. ἵνα ’Αθηναῖον (o ’Αθηναίων) (= Dion. Hal. De Lys. 33 UR); Theophr. De igne 43 ἵνα vs. τινά; Colluth. 9 ἵνα vs. τίνα (Van Lennep). 125  Per questo Heidel proponeva l’inversione καὶ ίνα per ίνα καί (1902, pp. 191-192). 126  I due ἐνδέχεται di Epist. Pyth. 94 ἔτι τε ἐνδέχεται τὴν σελήνην ἐξ ἑαυτῆς ἔχειν τὸ φῶς, ἐνδέχεται δὲ ἀπὸ τοῦ ἡλίου stanno fra loro in tutt’altro rapporto.

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sympathie qui proviennent des choses extérieures» (Morel 2011, p. 48). Ma eliminare l’asindeto quando è l’asindeto il problema non è che nascondere la polvere sotto il tappeto. Le rare traduzioni fedeli – ad esempio quella di Krautz (1980, p. 13 «auf welche Weise die Wahrnehmung die augenscheinlichen Gewißheiten, auch die Reizentsprechungen»), di Jürß (p. 473 «wenn einer nur bedenkt, wie er die evidenten Eindrücke, wie er also die Überein­stimmung von den äußeren Objekten zu uns herüber­leiten kann») e di Verde (p. 41 «qualora si osservi in che modo dagli oggetti esterni saranno riconducibili a noi le evidenze, in che modo inoltre le confor­mità») – mettono in luce anche l’ulteriore difficoltà del καί avverbiale («auch», «also», «inoltre»)127, a causa del quale le συμ­πάθειαι ver­rebbero inspie­gabil­ mente a trovarsi su un piano diverso rispetto alle ἐνάργειαι. Infine ἀνοίσει. Per lo più gli si dà per soggetto «la sensazione» (Bailey p. 194; Ramelli p. 77) o «la natura» (Isnardi Parente p. 162), ricavate ad sensum dai precedenti ταῖς αἰσθήσεσιν e τῶν τοιούτων φύσεων (che però sono plurali: che cosa impediva a Epicuro di scrivere ἀνοίσουσι?), o anche il «flusso» (la ῥεῦσις menzionata all’inizio del capitolo: così Conche p. 105, oltre al già prima ricordato Delattre). Altri danno ad ἀνοίσει il soggetto τις, lo stesso di βλέπῃ (Kochalsky p. 17; Long – Sedley I, p. 73 e II, p. 76). Ma in un ragionamento di carattere generale, quale questo è, non pare logico che un qualcuno «riconduca» a qualcun altro le ἐνάργειαι e le συμπάθειαι senza includere anche se stesso fra i destinatari: Epicuro poteva dire ἂν βλέπῃ τις τίνα τρόπον πρὸς ἑαυτὸν ἀνοίσει oppure ἂν βλέπωμεν τίνα τρόπον πρὸς ἡμᾶς (αὐτοὺς) ἀνοίσομεν, ma non cominciare con «uno» e finire con «noi»; altrimenti l’esemplarità si perde. A mio parere bisogna leggere ἂν βλέπῃ τίς τινα τρόπον τὰς ἐναργείας εἶνα καὶ τὰς συμπαθείας ἀπὸ τῶν ἔξωθεν πρὸς ἡμᾶς ἀνοίσει: «se si considera che in un certo senso le ἐνάργειαι e le συμπάθειαι sono delle riconduzioni da τὰ ἔξωθεν a noi». Adesso non solo la sintassi funziona, ma ne emerge anche un costrutto nominale che istituzionalizza ed eleva a principio l’ ἀναφέρειν, in linea finalmente con lo stile di Epicuro128. E perfetto diventa anche l’incastro del c. 48 con il 49, dove si spiega che le «cose» oggetto dell’ αἰσθάνεσθαι non vengono teletrasmesse attraverso un interpositum, ma ci giungono direttamente, cosicché è impossibile non percepirle proprio nel modo in cui sono. Arrighetti a p. 499

 A volte il καί viene semplicemente omesso (Cobet p. 265).  Per ἀνα- nella Lettera a Erodoto cfr. il c. 38 ἀναγαγόντες; ἀνάξομεν e soprattutto il simillimo c. 53 ἄνευ γὰρ ἀναφερομένης τινὸς ἐκεῖθεν συμπαθείας οὐκ ἂν γένοιτο ἡ τοιαύτη ἐπαίσθησις; inoltre i cc. 63 ἀναφέροντα ἐπὶ τὰς αἰσθήσεις καὶ τὰ πάθη e 68 ἀνάγων τις ἐπὶ τὰ πάθη καὶ τὰς αἰσθήσεις; 72. 127

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esclude il τινά indefinito osservando che la traduzione «in un certo senso» va bene solo con τρόπον τινά, non con τινὰ τρόπον. In realtà i τινὰ τρόπον indefiniti sono ben attestati: non meno di una decina in Platone, quattro nel Corpus Aristotelicum, altri in Teofrasto, Plutarco, Elio Aristide, Proclo, Libanio. C’è un caso anche nell’epicureo fr. 77.6-7 Arr. καί | τινα τρ[όπον] (da Filodemo), che Arrighetti stesso a p. 444 traduce «in un certo senso». Il termine ἄνοισις non ricorre in altre fonti a me note, ma è attestato nella Suda α 2781 A. (dove è glossato ἀνακόμισις)129. Un precedente significativo è l’Augenblicksbildung οἶσις del Cratilo platonico (420b-c)130. Epicuro sa – e di ciò avverte il lettore appunto per mezzo di τινὰ τρόπον – che sta forzando il patrio sermone131; ma non aveva scelta, essendosi il ‘regolare’ ἀναφορά fissato nella lingua in accezioni più astratte132. È noto inoltre il penchant di Epicuro per i nomi in -σις133. Per εἶναι > ἵνα non servono paralleli; si veda comunque [Ael. Arist.] Ars rhet. 1.90 (135.1 Patillon) εἶναι vs. ἵνα.

 Cfr. anche α 2780 A. ἀνοῖσαι: κομίσαι. καὶ ἀνοιστέον, δεῖ κομίζειν. καὶ ἀνοίσω σοι βόας, ἀνενέγκω, φέρω. 130  Ovviamente i copisti sono rimasti sconcertati ed hanno corrotto a più non posso: si veda l’apparato di Duke 1995, p. 243. 131  Un po’ come il quasi lucreziano (cfr. Schiesaro 1990, pp. 50 sgg.), usato per stabilire similitu­dini, ma anche per preparare il lettore all’incontro con un termine improprio. 132  Nel fr. 409 Us. = 201 Arr. si legge: ἀρχὴ καὶ ῥίζα παντὸς ἀγαθοῦ ἡ τῆς γαστρὸς ἡδονή· καὶ τὰ σοφὰ καὶ τὰ περιττὰ ἐπὶ ταύτην ἔχει τὴν ἀναφοράν. Il senso è prossimo a quello richiesto qui, ma non uguale. Lo stesso dicasi per Ath. 46E τῇ ἀπὸ τοῦ μέλιτος ἀναφορᾷ μόνῃ χρώμενον = Democrito A 29 DK = 0.4.3 Leszl, dove l’ ἀναφορά è l’esalazione del miele che raggiunge le nari del morente Democrito. Come emerge anche dallo studio di Giulia D’Alessandro (Lo stile di Odisseo, in via di pubblicazione), l’ ἀναφορά non indica mai lo spostamento fisico, neanche prima di assumere (cosa che comincia ad avvenire in età ellenistica) il senso tecnico-retorico di ripetizione. Per il caso in oggetto vengono perfettamente in taglio le parole di Bailey 1928, p. 316: «in many cases where [Epicurus] found ordinary words ambiguous or had already used them in their ‘first meaning’, he was driven to invent new terms». Si aggiunga poi che la mancata attestazione di un vocabolo in un certo autore non vuol dire che quel vocabolo non appartenga all’universo mentale di quell’autore (cfr. e.g. Paradiso 1998, pp. 214-215). La neoconiazione non si associava necessariamente, per i Greci, a nessuna idea di sperimentalismo e di rottura. Certe parole – Pasquali 1910, p. 128, adduce a confronto l’hapax φιλιδρώς – chiunque poteva usarle per primo «senz’accorgersi di aver tentato una novità». 133  E.g. δόξις, πάλσις, ἐπιλόγισις, κούφισις, ecc.; Brescia 1956, pp. 19 sgg.; Arrighetti 1952, pp. 127 sgg.; Sedley 1973, pp. 32-33 e nota 222. 129

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49 οὕτως ὡς τύπων τινῶν ἐπεισιόντων ἡμῖν ἀπὸ τῶν πραγμάτων ὁμοχρόων τε καὶ ὁμοιομόρφων κατὰ τὸ ἐναρμόττον μέγεθος εἰς τὴν ὄψιν ἢ τὴν διάνοιαν, ὠκέως ταῖς φοραῖς χρωμένων. (…) Così come lo possono per mezzo di immagini che giungano a noi dagli oggetti esterni, con­servandone colore e forma e con grandezza proporzionata alla nostra vista o alla nostra mente, muoventisi con grande velocità (Arrighetti p. 46).

Apelt II, p. 245; Gigante p. 417; Russello 1994, p. 83; Reale p. 1207; Ramelli p. 79; Jürß p. 473; Balaudé p. 1273; Verde p. 41 e lo stesso Arrighetti fanno dipendere εἰς τὴν ὄψιν ἢ τὴν διάνοιαν direttamente da ἐναρμόττον. Non così Cobet p. 265; Hicks II, p. 579 («so well as by the entrance into our eyes or minds, to whichever their size is suitable, of certain films coming from the things themselves»); Bailey p. 29, e più di recente Annas 1992, p. 159 nota 11 e Inwood – Gerson 1994, p. 9. Ἐναρμόττειν (-ζειν) si costruisce con εἰς o πρός + accusativo, ma anche, e più spesso, con il dativo semplice. I due costrutti possono scambiarsi ma non sono equivalenti. Il primo indica per lo più la convenienza, la spettanza, la congruità, il προσήκειν, il secondo l’adattabilità materiale, l’incastro, l’innesto, l’aderenza di una cosa a un’altra (Poll. 1.91 καὶ τὸ μὲν ὑποδεχόμενον τὸν ἱστὸν ληνὸς καλεῖται, τὸ δὲ ἐναρμοζόμενον αὐτῷ πτέρνα; 1.145 τὸ δὲ κενὸν τοῦ τροχοῦ τὸ ἐναρμοζόμενον τῷ ἄξονι σῦριγξ). Alla prima accezione possiamo riferire Plut. De garr. 510C ἐναρμόττει καὶ πρὸς τὸν φλύαρον; Dion. Hal. De Dem. 51 εἰς τὴν πολιτικὴν ἐναρμόττων φράσιν; Polystr. De irr. cont. col. 23b.4 sgg. σαυτῷ λό|γον διδοὺς τὸν εἰς τὸν | βίον καὶ τὰ πάθη ἐν̣α ρ̣ [̣ μ]όττον|τα; Procl. In Plat. Remp. 1.64 Kroll ὡς ἄρα μὴ οὔσης ἐν ταῖς ἁρμονίαις τοιαύτης διαφορᾶς, ἀλλὰ ἁπασῶν εἰς πᾶν ἦθος ἐναρμόζεσθαι δυναμένων, ecc. Ma è soprattutto nell’ambito della seconda accezione, peraltro assai meglio rappresentata, che si incontrano situazioni affini alla nostra: si veda ad esempio il reiterato uso di ἐναρμόττειν τοῖς πόροις nel De sensu di Teofrasto: cc. 9, 12, 20, 22, 35 e 91 τὸ γὰρ σύμμετρα ἔχειν μόρια τῇ ὄψει τῷ τοῖς πόροις ἐναρμόττειν; oppure Plut. Adv. Col. 1109D; QC 625A, 689D, 626B τὰ δὲ λεπτὰ προσπελάζοντα ταῖς ὄψεσιν ἀλύπως καὶ ὁμαλῶς ἐναρμόττει τοῖς πόροις134.

 Spiccatissima la ‘fisicità’ del costrutto anche in Plut. Thes. 2.1 ἐδόκει δ᾿ οὖν ὁ Θησεὺς τῷ Ῥωμύλῳ κατὰ πολλὰς ἐναρμόττειν ὁμοιότητας; Proc. De bellis 8.1.2 γράμμασι γὰρ τοῖς ἐς τὸ πᾶν δεδηλωμένοις οὐκέτι εἶχον τὰ ἐπιγινόμενα ἐναρ­μό­ζε­σθαι. 134

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Epicuro usa regolarmente ἐναρμόττειν con εἰς + accusativo (cfr. GE p. 252 s.v. ἐναρμόττειν), ma pare attestato anche il dativo: cfr. fr. 35.1 Arr. = PHerc. 1420, 1.1.9-10 ε ̣ἰδώ̣λοις κατὰ τὸ […]| ἐναρμόττε[ιν135. Poiché dunque il costrutto più congruo per l’ ἐναρμόττειν del c. 49 sarebbe il dativo, e questo dativo non c’è, converrebbe forse, seguendo Cobet, Hicks, Bailey, Annas e Inwood – Gerson, staccare εἰς τὴν ὄψιν κτλ. da ἐναρμόττον (che verrebbe ad essere usato assolutamente) e farlo dipendere da ἐπεισιόντων. Nel qual caso ἡμῖν εἰς τὴν ὄψιν ἢ τὴν διάνοιαν equivarrebbe a εἰς τὴν ἡμετέραν ὄψιν ἢ τὴν ἡμετέραν διάνοιαν. 50 (a) καὶ ἣν ἂν λάβωμεν φαντασίαν ἐπιβλητικῶς τῇ διανοίᾳ ἢ τοῖς αἰσθητηρίοις εἴτε μορφῆς εἴτε συμβεβηκότων, (b) μορφή ἐστιν αὕτη τοῦ στερεμνίου, (c) γινομένη κατὰ τὸ ἑξῆς πύκνωμα ἢ ἐγκατάλειμμα τοῦ εἰδώλου. (a) E quella percezione che noi cogliamo sia per un atto di attenzione della mente sia dei sensi, sia della forma sia dei caratteri essenziali, (b) è proprio la forma dell’oggetto solido, risultante dall’ordinato, continuo presentarsi di un simulacro o da un’impronta residua lasciata da esso (Arrighetti p. 46).

(a) Gli interpreti cercano di mantenere a ἐπι­βλη­τι­κῶς136 l’accezione-base dell’ ἐπιβολή; ma per farlo devono enfatizzare l’avverbio o modificarlo (e.g. Apelt II, p. 246 «und welche Vor­stellung auch immer wir d u r c h d e n E i n ­d r u c k a u f un­sern Geist oder auf unsere Sinne» ecc.; spa­zia­to mio) e magari staccarlo dal verbo e unirlo a τῇ διανοίᾳ e τοῖς αἰσθητηρίοις. Con il che il problema da stilistico diventa concettuale, perché «applica­zione» o «atten­zione» an­dranno bene per la διάνοια, meno bene per gli αἰσθη­ τήρια137, essendo difficile capire come si possa cogliere una φαντασία con

  Qui il complemento è stato individuato in ψυχαῖς (o ταῖς ψυχαῖς, a seconda dei calcoli di spazio: si veda l’apparato di Arrighetti p. 359). Nella RS 38 (Diog. Laert. 10.153) si legge un ἁρμόττοντα εἰς τὴν πρόληψιν che Usener voleva correggere in αρμόττοντα εἰς τὴν πρόληψιν. Giustamente gli editori (ultimo Dorandi p. 823) respingono. 136  Sul cui valore e significato si discuteva serratamente già nel Settecento, come si ricava da Schneider 1813, pp. 64-65. Di ἐπιβολή si è già parlato sopra, nota 33. 137  La Russello infatti riferisce l’«immediata intuizione» solo alla mente, e non anche ai sensi: «con un’immediata intuizione della mente o con i sensi» (1994, p. 83). È un’esigenza giusta e logica, ma il greco non la permette: se ἐπιβλητικῶς sta 135

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un atto di applicazione, di atten­zione, di focusing da parte del tatto o del gusto (si rammenti che il senso-base di ἐπιβάλλειν è gettarsi sopra, saltare addosso, adgredi). Se si appura che un vocabolo può acquistare un’accezione tecnica, ciò non significa che l’accezione tecnica ci sia sempre138, o che sia sempre pre­valente, o che lo sia allo stesso modo in tutte le categorie mor­ fo­lo­giche139. Nel nostro caso credo che ἐπι­βλη­τι­κῶς vada resti­tuito a λαβεῖν φαντασίαν140 (si veda l’analogo ἐπεὶ τό γε θεωρούμενον πᾶν ἢ κατ᾿ ἐπιβολὴν λαμβανόμενον τῇ διανοίᾳ ἀληθές ἐστιν, dove κατ᾿ ἐπιβολήν = ἐπιβλητικῶς) e inteso come indicazione di un impat­to diretto e irriflesso, il meno passibile di errore secondo Epicuro: «la percezione che si ha immedia­t a­­mente, o con la mente o con i sensi» ecc. Fra i principali traduttori uno dei pochi che abbiano sposato questa linea è Hicks: «and whatever presen­t ation we derive by direct contact, whether it be with the mind or…» ecc. (II, p. 579)141. (c) Occorre riportare per intero la nota ad loc. di Bailey (pp. 196-197), che è probabilmente all’origine di molti fraintendi­men­ti del passo: κατὰ τὸ ἑξῆς πύκνωμα ἢ ἐγκατάλειμμα τοῦ εἰδώλου: a very difficult and widely differently interpreted phrase. (1) Giussani would take it of the succession of images coming to the percipient, «the successive fullness or failure of the images». This is of course impossible with the singular τοῦ εἰδώλου. (2) Bignone takes it «the complete integrity of the image or a remainder of it», and explains that it refers to the image which arrives at the percipient without loss and that which has suffered detrition on the way. But (a) this omits ἑξῆς altogether, (b) it is surely impossible that Epicurus could say that the image produced by the ‘idol’ which has suffered detrition (e.g. that of a rounded tower) is the shape of the object. (Bignone does not, as I do, lay stress on ἐπιβλητικῶς.) (3) It is tempting to translate «according to the successive fullness and hollowness of the con la διάνοια, sta anche con gli αἰσθητήρια. Si noti che al c. 51, quando si ritorna a parlare di ἐπιβολαί, la διάνοια fa coppia con i generici λοιπὰ κριτήρια. Sul problema dell’ ἐπιβολή in rapporto ai sensi si vedano fra gli altri Glidden 1979 (p. 298: ἐπιβολὴ τῆς διανοίας «sixth sense») e Morel 2009a, pp. 124-125 e nota 1. 138  Su ἐπί e composti in Epicuro vedasi Verde 2009, p. 223 nota 4, con esempi e bi­bliografia. Spesso la discussione si è concentrata su (o ha preso spunto da) ἐπιλογισμός: cfr. De Lacy 1958b; Schofield 1996, ed altri. 139  Si veda anche oltre, Sezione III.7. 140  Si noti il nesso φανταστικὴ ἐπιβολή al c. 51, studiato da G. Striker 1974, pp. 60 sgg. 141   Qualcosa di simile, ma non di uguale, in Massa Positano p. 34. Fra i non traduttori si veda Wigodsky 2007, p. 532: «whatever impression we receive with attention by means» ecc.

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idol», i.e. its successive concave and convex parts represent those of the outline of the original – but I think this is an impossible sense for ἐγκατάλειμμα. (4) With some hesitation I believe that the two alternatives here correspond to τοῖς αἰσθητηρίοις and τῇ διανοίᾳ above. The image of sight-perception is produced by the «successive repetitions» (τὸ ἑξῆς πύκνωμα) of the idol: the image in the mind is due to «the impression left by» (ἐγκατάλειμμα) the idol which penetrate to it. Ἑξῆς then goes only with πύκνωμα and not with the whole phrase.

Tre le principali obiezioni a questa linea interpretativa: (1) Il Bailey cade nello stesso errore contestato a Giussani, a meno che con «con­stant repetition» non si intenda (ma sarebbe assurdo) il presentarsi e il ripresen­t ar­si agli αἰσθητήρια di uno stesso simulacro. L’espediente di rendere τοῦ εἰδώλου con «image» anziché con «idol» sortisce l’unico effetto di tautologizzare il periodo. La realtà è che anche l’esegesi del Bailey richiederebbe τῶν εἰδώλων non meno di quella del Giussani142. (2) La «constant repetition» degli εἴδωλα, cioè la loro ininterrotta emissione dallo στερέμνιον verso gli αἰσθητήρια è il f o n d a m e n t o s t e s s o della dottrina epicurea della percezione; cioè è un’idea di base, implicita, la cui enunciazione determina quell’effetto di «trivially true» di cui si dirà qualcosa nella Sezione III; a meno che non abbia ragione Ivars Avotins (1980) nel porre la continuità del flusso dei simulacri come la precondizione del modello della visione ‘a mosaico’ (che parrebbe attestata in Alessandro di Afrodisia e non contraddetta da Lucrezio), in contrapposizione con la ‘teoria della riduzione’. In questo il dato della «constant repetition» non sarebbe così scontato. Ma, nonostante le numerose attrattive della sagace ricostruzione di Avotins, non riesco a credere che κατὰ τὸ ἐναρμόττον μέγεθος del c. 49 non abbia il valore che sembra avere prima facie. Grande è tuttavia la confusione su questo πύκνωμα. Si prenda ad esempio Delattre 2010, p. 19: «et l’image (…) est la forme même du solide, puisqu’elle se constitue en conformité avec la succession con­den­sée du simulacre, ou avec ce qu’il en reste». A p. 1087 nota 16 la «succession condensée du simulacre» viene spiegata come «succession ininterrompue des simulacres». Le discrasie fra traduzione e commen­to non sono trascurabili: penso in particolare all’oscillazione simula­cro/si­mulacri e alla varia inter­pretazione di πύκνωμα (bene «successione ininter­rot­ta»; ma «successione condensata del simulacro» che vorrà dire?). (3) Riferire πύκνωμα agli αἰσθητήρια ed ἐγκατάλειμμα alla διάνοια, come fa il Bailey, produce un’argomentazione poco perspicua (com­plice anche la

 Lo stesso vale per la Massa Positano, la cui traduzione del passo sarà riportata poco oltre. 142

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disposi­zione chiastica), benché non impossibile. Il fatto è semmai che Epicuro dà chiaramente a vedere – se non altro per la presenza dell’ ἤ disgiuntivo – che per lui il πύκνωμα e l’ ἐγκατάλειμμα stanno sullo stesso piano; invece nell’inter­pre­tazione e nella traduzione di Bailey la «constant repetition» evidenzierebbe un dato oggettivo sulla meccanica dei simulacri, mentre l’«impression», cioè la traccia, il segno che il simulacro «lascia lì», dentro di noi, nella διάνοια, descrive­rebbe un effetto totalmente a parte percipientis. Eclettica la posizione di F. Verde, che spiega: in buona sostanza il pyknoma potrebbe indicare la successione integra e com­ patta dei simulacri mentre l’egkataleimma il residuo del si­mu­lacro di un oggetto magari lontano, i cui angoli, attraverso l’a­ria, si sono alterati e smussati (…). Quale che sia la corretta e­se­­gesi, il primo termine dà l’idea di compattezza e consistenza men­­tre il secondo fa pensare a un simulacro non comple­t a­mente integro; come a ragione afferma Conche (1987, p. 141), il pun­­to importante da tenere a mente è che il residuo del si­mu­la­cro non risulta meno vero/esistente di quello integro e compat­to (p. 135).

L’interpretazione di πύκνωμα si può nel complesso condividere, ma su ἐγκατάλειμμα Conche e Verde tornano a commettere lo stesso errore di Bignone (p. 85 nota 1) e di Hicks (II, p. 580 nota a), errore in cui era auspicabile, dopo la confutazione di Bailey, che non si cadesse più. Che «il residuo del simulacro non risult[i] meno vero/esisten­te di quello integro e compatto» è scontato; e l’ar­gomento della verità/esi­stenza143 non c’entra. La questione è invece se e quanto e in quali condizioni un simulacro ripro­duca fedelmente la μορφὴ τοῦ στερεμνίου. E senza dubbio non è questo il caso del simulacro «alterato e smussato». La situazione a cui Epicuro pensa è evidentemente diversa. La descriverei così: i simulacri sono riproduzioni fedeli dello στερέμνιον sia allorché arrivano a noi in scala 1:1 (o poco meno) sia allorché si presentano rimpiccioliti perché hanno perso pezzi per strada. Se guardo da vicino l’Epicuro di Arri­ghetti, l’ ἑξῆς πύκνωμα dei simulacri mi permette di leggervi niti­da­mente il titolo Epicuro opere; se allontano il libro di un metro, la dicitura mi risulta più piccola, ma comunque nitida: anche se nel viaggiare i simulacri hanno perduto atomi, pure il loro ἐγκατάλειμμα continua a dirmi la verità. A ciò erano arrivati già il DeWitt (1939, p. 418) e il Westman (1955, pp. 165-166), giustamente richiamandosi al c. 49, dove si osserva che i simulacri possono penetrare nella nostra ὄψις o nella nostra διάνοια solo se sono di grandezza adatta: κατὰ τὸ ἐναρμόττον

 Notoriamente, peraltro, da distinguere con cura, visto che c’è ambiguità già alla fonte: cfr. e.g. O’Keefe 2010, pp. 99-101; Striker 1977, pp. 125 sgg. 143

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μέγεθος144. L’unica cosa in cui mi distac­cherei da DeWitt e Westman è la resa di πύκνωμα, che secondo me indica la condizione della pellicola integra, in cui gli atomi ci sono ancora tutti indistinta­mente (con ἑξῆς rafforzativo, come quando si accompagna a πᾶς πᾶσα πᾶν), mentre l’ ἐγκατά­λειμμα sarà il simulacro che ha percorso dello spazio – subendo una perdita di atomi, ma non una perdita sfigurante e deformante (come ritengono Hicks II, p. 580 nota a; Bignone p. 85 nota 1; Verde p. 135) provocata da lunghissimi tragitti e dalle relative impon­de­rabili ἀντικοπαί, bensì la perdita fisiologica, equamente distribuita – prima di giungere ai nostri αἰσθη­τή­ρια e alla nostra διάνοια. La traduzione di ἐγκατάλειμμα con «residuo» va benissi­mo, purché considerata in senso descrit­ tivo. S’intende che a stretto rigore un πύκνωμα integro non è ammissibile: il simulacro comincia a lasciare atomi per strada non appena si stacca dall’oggetto, quindi nel momen­to stesso in cui comincia a esistere; cosicché paral­lela­ mente al processo di riduzione si svilupperà anche un processo di alterazione e deformazione. Ma alterazione e deformazione sono eventi variabili, che solo oltre una certa soglia compro­met­tono l’ ὁμοιότης fra il simulacro e l’oggetto, e che perciò possono o addirittura debbono essere taciuti all’in­ter­no di una teoria generale della percezione come quella che viene brevemente delineata nel c. 50. Al c. 48 abbiamo incon­trato una struttura argomentativa analoga: la θέσις e la τάξις della cosa prodotta restano «a lungo» le stesse dell’og­getto, anche se bisogna mettere in conto la σύγχυσις. Il συγχεῖσθαι, molto o poco che sia, è inevitabile, ma Epicuro ne parla come di un evento saltuario (ἐνίοτε). Altro problema del passo, per nulla secondario, è la resa di γινομένη. La forma dell’oggetto solido – la μορφὴ τοῦ στερεμνίου – non si crea, perché esiste già. Il che spiega il fatto che i traduttori si siano orientati in massa verso i «costituirsi» o i «risultare» piuttosto che verso i più precisi «generarsi» o «prodursi». Fanno eccezione il Bailey, il Geer, la Russello e il Verde. Il Bailey riferisce γινομένη a φαντασία («not of course [to] μορφή», p. 196) e traduce: «and every image which we obtain by an act of apprehension on the part of the mind or of the sense-organs, whether of shape or of properties, this image is the shape of the concrete object, and is produced by the constant repetition of the image or the impression it has left» (p. 29). È evidente che lo studioso ha fatto confusione: ha creduto di poter assimilare μορφή ἐστιν αὕτη τοῦ στερεμνίου γινομένη κτλ. al tipo ἐλθὼν εἶδε = ἦλθε καὶ εἶδε, ma non ha tenuto conto che dove il soggetto è accompagnato da un predicato la parte appositiva sta con il predicato (μορφή) e

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 Interpretazione totalmente diversa in Avotins 1980.

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non con il sog­getto (φαντα­σία): cosicché «and is produced» sfiora la falsificazione. Più o meno lo stesso vale per la Russello: «e l’impressione (…) corrisponde esatta­mente alla forma del corpo, perché nasce in base all’integra compattezza del simula­cro o al suo residuo» (1994, p. 83). Tuttavia una volta che si sia scelto, per quanto erroneamente, di ri­fe­ri­re γινομένη a φαντασία, la resa «is produced» è giusta; diventa discutibile laddove il prodursi, il nascere, il gene­rarsi, ven­ga­no riferiti alla μορφή, come accade nella tradu­zione di Verde: «e la rappresentazione che dovremmo essere in grado di afferrare in virtù dell’applicazione tramite il pensiero o tramite gli organi sensoriali, sia della forma sia delle proprietà, è la forma stessa dell’oggetto solido, generatasi in base alla continua successione o residuo del simulacro» (p. 43). Sarebbe infine auspicabile che i traduttori smettessero di confondere αὕτη con αὐτή (buoni ultimi Morel 2009a, p. 122, e Delattre 2010, p. 19, citato sopra). 51 ἥ τε γὰρ ὁμοιότης τῶν φαντασμῶν οἱονεὶ ἐν εἰκόνι λαμβανομένων ἢ καθ᾿ ὕπνους γινομένων ἢ κατ᾿ ἄλλας τινὰς ἐπιβολὰς τῆς διανοίας ἢ τῶν λοιπῶν κριτηρίων οὐκ ἄν ποτε ὑπῆρχε τοῖς οὖσί τε καὶ ἀληθέσι προσαγορευομένοις, εἰ μὴ ἦν τινα καὶ ταῦτα πρὸς ἃ βάλλομεν· τὸ δὲ διημαρτημένον οὐκ ἂν ὑπῆρχεν, εἰ μὴ ἐλαμβάνομεν καὶ ἄλλην τινὰ κίνησιν ἐν ἡμῖν αὐτοῖς συνημ­μένην μὲν κτλ. ταῦτα BPF: τοιαῦτα Gassendi | πρὸς ἃ βάλλομεν Schneider: πρὸς ἃ βάλλομεν F: πρὸς ὃ βάλλομεν BP: προσβαλλόμενα Usener: πρὸς ἃ βάλλομεν Apelt. L’uguaglianza poi con le cose esistenti e così dette reali da parte delle rappre­ sentazioni che noi cogliamo come in una pittura o nel sonno o negli altri atti apprensivi della mente o degli altri criteri, non potrebbe sussistere se non ci fosse ciò che può essere oggetto di tali atti apprensivi. L’errore poi non potreb­ be sorgere se non cogliessimo in noi un certo quale altro moto, connesso ecc. (Arrighetti p. 46).

Se incontro Socrate, la sua figura è esattamente come mi appare, perché i sensi non ingannano. Ma per poter dire che quella figura è un uomo, e per la precisione quell’uomo, io debbo possedere la precognizione dell’uomo in generale e dell’uomo Socrate in particolare. Con οὐκ ἄν ποτε ὑπῆρχε (…) εἰ μὴ ἦν τινα κτλ. si vorrà appunto dire che per stabilire se le immagini che percepisco corri­spon­dono o non corrispondono a τοῖς οὖσί τε καὶ ἀληθέσι è necessario un termine di confronto.

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Poiché dunque il tema qui discusso è probabilmente quello della prolepsis145, le soluzioni possibili mi sembrano due. La prima è che la prolepsis venga indicata direttamente, per mezzo del verbo tecnico. Nel qual caso, partendo dal testo di BP, si potrebbe ipotizzare qualcosa come προελάβομεν: «se non ci fossero le cose che abbiamo appreso prima», o magari, partendo da F, προλαμβανόμεν. Ma Epicuro avrebbe anche potuto volersi riferire al modo in cui la prolepsis opera, mettendo in primo piano l’idea del confronto (συμβάλλειν) tra l’immagine che giunge dall’esterno e l’immagine che è già in noi. Potremmo allora tentare πρὸς ἃ βάλλομεν (o πρὸς ἃ βάλλομεν come preferiscono Apelt II, p. 246, e Hicks II, p. 581)146. Visto il carattere molto articolato della doxa qui espressa, sarebbe temerario formalizzare una proposta di testo. Ma resto convinto che il verbo vada scelto fra συμβάλλειν (o παραβάλλειν) e προλαμβάνειν; meno com­prendo ἐπιβάλλειν (poiché questo non mi pare il punto adatto per menzionare espres­samente l’ ἐπιβολή), e per nulla προσβάλλειν, quest’ultimo preferito da Use­ner p. 12 e da Bailey p. 29: «to bring into contact with our senses»; con il che il periodo viene a dire un’ovvietà: il contatto diretto è la premessa alla teoria epicurea sulle percezioni, il cui svolgimento è già iniziato (lo stesso c. 51 ne fa parte). Postilla su τοῖς οὖσί τε καὶ ἀληθέσι προσαγορευομένοις: alcuni traduttori (e.g. Lechi 1845, p. 373; Maso 2008, p. 158 nota 20; Verde p. 43) mettono οὖσι e ἀληθέσι su piani diversi. Ma il τε καί lo impedisce: ὄντα καὶ ἀληθῆ vanno insieme, e τοῖς sta con προσαγορευομένοις e non con οὖσι. Infine toglierei l’articolo (che infatti nel greco non c’è) nella resa di κατ᾿ ἄλλας τινὰς ἐπιβολάς147.

 Non mi soffermo su questo principio-cardine del pensiero epicureo (o addirittura «création épicurienne» come scrive Gigandet 2007a, pp. 83 sgg.) perché su di esso esiste vasta e qualificata bibliografia (a cominciare dall’Appendice di Bailey 1928, pp. 557-558). Sorprende che Christoph Helmig in un suo recente pregevole volume abbia potuto dire che al di fuori dello stoicismo la prolepsis «non sembra avere un ruolo importante» (2012, p. 14 nota 16), quando già nella Bibliotheca Graeca di Fabricius si legge che la questione della prolepsis in Epicuro «homines doctos vexavit» (Fabricius – Harles 1793, p. 592). 146  Stesso testo in entrambi, ma lo Apelt lo traduce bene («mit denen wir sie vergleichen»), Hicks male («with which we come in contact»). 147  Giustamente Verde (p. 138) parafrasa «sulla base di alcune altre applicazioni»; meno bene la traduzione a p. 43: «in base alle altre applicazioni» (corsivi miei). 145

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52-53 ἀλλὰ μὴν καὶ τὸ ἀκούειν γίνεται ῥεύμα­τός τινος φερομένου ἀπὸ τοῦ φω­νοῦν­τος ἢ ἠχοῦντος ἢ ψοφοῦντος ἢ ὅπως δήποτε ἀκουστικὸν πάθος παρα­σκευά­ζοντος. τὸ δὲ ῥεῦμα τοῦτο εἰς ὁμοιομερεῖς ὄγκους δια­σπείρεται, ἅμα τινὰ διασῴζοντας συμπάθειαν πρὸς ἀλλήλους καὶ ἑνότητα ἰδιότροπον, διατείνου­σαν πρὸς τὸ ἀπο­ στεῖ­λαν (a) καὶ τὴν ἐπαίσθησιν τὴν ἐπ᾿ ἐκείνου ὡς τὰ πολλὰ ποιοῦσαν, εἰ δὲ μή γε, (b) τὸ ἔξωθεν μόνον ἔνδηλον παρασκευάζουσαν· [53] ἄνευ γὰρ ἀναφερο­ μένης τινὸς ἐκεῖθεν συμπαθείας οὐκ ἂν γένοιτο ἡ τοιαύτη ἐπαί­σθη­σις. (a) ὡς τὰ πολλὰ FP4: ὡς τὸ πολλὰ BP1: ὡς τὸ στόμα correxit et eiecit, «glossema ad τὸ ἀποστεῖλαν» esse arbitratus Usener | ποιοῦσαν BPF: ποιοῦντας Usener. (b) παρασκευάζουσαν BPF: παρασκευά­ζοντας Usener. Anche l’udito proviene da un afflusso che si parte da ciò che emette o voce o suono o rumore o che in qualunque altro modo produce la sensazione uditiva. Questo flusso si diffonde in elementi che hanno uguaglianza di parti e che conservano ad un tempo, nei confronti di ciò che li emette, reciproca corrispondenza di qualità sensibili e una loro particolare unità; e questa (corrispondenza e unità) tende a inviare e in genere a riprodurre (a) la percezione dell’oggetto quale realmente è, o almeno (b) ne manifesta la presenza fuori di noi. [53] Infatti senza questa continuità di proprietà sensibili che si diparte dall’oggetto per giungere fino a noi non potremmo averne la verace percezione (Arrighetti p. 48).

Il senso generale è che se il flusso di atomi emesso dal parlante resta compatto, il percipiente comprende anche le parole (e si ha l’ ἐπαίσθησις)148; altrimenti afferra solo un rumore indistinto (la semplice αἴσθησις). Il che, con le debite differenze, vale naturalmente per tutti i tipi di suono (non solo per la φωνή, su cui l’esempio è modellato)149. Un’osservazione di sfuggita, non gratuita come può sembrare a prima vista. Nel sistema epicureo tutto ciò che non è vuoto è atomo: per questo ho definito senz’altro «flusso di atomi» il fenomeno che sta alla base della percezione uditiva. Ma gli ὄγκοι del c. 52, a differenza che nel c. 56, non

 Dell’ ἐπαίσθησις trattano Bailey 1928, pp. 420 e 440; Long 1971, p. 130 nota 11; Lee 1978, pp. 35 sgg.; Masi 2006, pp. 45-46; Giovacchini 2008, p. 155 (ma con un vincolo sull’unità della «source sonore»: «l’attention à la source sonore identifiée comme une est appelée epaisthesis»). 149  Sui punti singoli di questa dottrina, e in specie su ciò che Arrighetti traduce «reciproca corrispondenza» e «particolare unità», rimando alle spiegazioni di Lee 1978, pp. 33 sgg., non so se giuste, ma certo molto acute. 148

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possono essere intesi direttamente come «atomi». Lo impedisce l’aggettivo ὁμοιομερεῖς. Gli atomi epicurei sono sì costituiti di μέρη (le minimae partes), ma qui un accenno alla struttura interna dell’atomo non avrebbe senso. Dunque il nostro ὄγκους non va tradotto con «atomi», ma con vocaboli meno specifici come «masse», o «elementi». Anche «parti» andrebbe bene, se «parti» non fosse già impegnato da ὁμοιομερεῖς150. (b) Stando ai più, τὸ ἔξωθεν riprende ἐκείνου (i.e. l’ ἀποστεῖλαν); vale a dire: se non capisci articolatamente il suono di «quella cosa», capisci però che essa c’è. I traduttori parlano di presenza o esistenza dell’oggetto che è fuori di noi, o che viene da fuori di noi. Così Apelt II, p. 247; Hicks II, p. 583; Gigante p. 418, fino a Balaudé p. 1274; Reale p. 1209; Verde p. 142; Bredlow 2010, p. 380, e Morel 2011, p. 66151. Ma non si vede quali dubbi po­t reb­bero esservi sul fatto che questo oggetto sia presente, esistente ed esterno. Quand’anche poi Epicuro avesse voluto in­f lig­gerci una tale ovvietà (un caso di trivially true), non si vede perché non lo avrebbe fatto sùbito nella proposizione di ποιοῦσαν anziché in quella di παρα­σκευάζουσαν152. Né ci aiuta, all’atto pratico, la pur penetrante lettura di Glidden, che identifica τὸ ἔξωθεν con l’ ἀκουστικὸν πάθος menzionato poco sopra, cioè «the awareness of hearing and how one is hearing», basandosi sull’idea generale che i πάθη epicurei esprimano non solo l’esperienza, ma anche la consapevolezza dell’esperienza (1979, p. 299).

 Per inciso, credo di non poter concordare con Verde p. 141 sull’interpretazione di ὁμοιομερεῖς ὄγκους come «masse che hanno lo stesso numero di parti». Il senso di ὁμοιομερής sarà piuttosto «i cui μέρη sono ὅμοια». Ancora più preciso Montarese 2012, p. 94: «the ὄγκοι have ὁμοιομέρεια, in the sense that they reproduce the characteristics of their source», da integrare con la nota 268 sempre a p. 94: la ‘riproduzione’ dell’oggetto è meno ovvia quando l’oggetto è un suono, «but Epicurus thinks of the senses as alike, and one can compare Lucr. 4.553-556, especially 556 (vox) servat enim formaturam servatque figuram». 151  I più letterali sono Inwood – Gerson: «it only makes the external object apparent» (1994, p. 10); il più libero Rapp: «dann macht sie (sc. die Ausströmung) lediglich offenbar, daß etwas von außen her einwirkt» (2010, p. 52). 152  Due le proposte di Usener su questo capitolo, una delle quali è mutare le desinenze ai participi: da ποιοῦσαν a ποιοῦντας e da παρασκευάζουσαν a παρασκευάζοντας; proposta che pare inutile, e tale da tutti considerata (nel GE p. 515 s.v. παρασκευάζειν e p. 552 s.v. ποιεῖν il passo è citato con le desinenze femminili, come nei codici). L’altra è la correzione di ὡς τὰ πολλά (o τὸ πολλά) in ὡς τὸ στόμα, che sarebbe una glossa e quindi da espungere. 150

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A differenza di Verde, io credo che la sezione de auditu del libro IV di Lucrezio non avalli la lettura corrente del c. 52 dell’Epistola. Se la distanza fra chi parla e chi ascolta è poca – dice Lucrezio ai vv. 553 sgg. – la voce dell’uno giunge all’altro articulatim, mentre se è molta giunge confusa e conturbata (vv. 555, 558-559). Nel primo caso si com­pren­de sia il sonitus che la sententia (v. 561), nel secondo solo il sonitus. Lo stesso succede quando fra il parlante e il percipiente si frappone un ostacolo, ad esempio un muro (vv. 612-614): anche in questo caso sonitum potius quam verba audire vide­mur. Giustamente Lucrezio non fa alcun cenno al dato dell’esi­sten­za e presenza del­l’og­­getto (come potrebbe l’oggetto non esistere o mancare?), men­t re insiste sull’op­posizione fra suono compren­sibile e suo­no confuso. E comunque, a rigore, questa discus­sione sull’«oggetto esterno» o sulla «forma dell’oggetto esterno» o sulla «costituzione esteriore dell’oggetto»153 o su «qualcosa di esterno»154 o infine sull’«esterno» tout court 155 non avrebbe ragione di essere, dato che il significato di τὸ ἔξωθεν non è «ciò che sta fuori»156, bensì «ciò che viene da fuori»157. Quanto il punto sia delicato è ben compreso da Arrighetti nell’articolo del 1982, dove osserva che «l’avverbio ἔξωθεν “dal di fuori” riveste [per Epicuro] particolare importanza, visti i presupposti sensisti da cui muove il suo sistema» (1982, p. 133). Non a caso il Glossarium commenta ἔξωθεν con particolare cura, come sempre succede quando Usener si imbatte in cose che non gli sono chiare. Orbene il τὸ ἔξωθεν potrebbe tutt’al più essere interpretato come il simulacro acustico emesso da ἐκεῖνο = τὸ ἀποστεῖλαν. Ma se τὸ ἔξωθεν non è l’ ἀποστεῖλαν, allora le traduzioni che abbiamo visto sopra non funzionano più, am­mes­so che

 Così Arrighetti 1960, p. 48.  Così Zevort 1847, p. 271. 155  Zannoni 1927, p. 39: «ci rende soltanto manifesto (per mezzo dell’udito) l’esterno (rispetto a noi)», dove è notevole l’inutilità della seconda parentesi. 156  Come i più intendono: ai traduttori già menzionati sopra si aggiunga Koenen (1999, p. 461, e 2004, p. 706), che segue Long – Sedley I, p. 73: «what is external to us». Si noti l’abile modo con cui Koenen prepara il lettore alla difficoltà: «in most cases a person not only hears that there is something o u t s i d e h i m producing a sound, but that he does have a clear perception (ἐπαίσθησις) of what it is that produces the sound he hears» (2004, pp. 705-706: le parole in spaziatura prefigurano ἔξωθεν). 157  La differenziazione fra suono-da-dentro e suono-da-fuori è familiare alle scuole antiche, come attestano i trattati peripatetici dedicati al tema (e.g. il De sensu di Teofrasto: cc. 9, 21, 40, 41, ecc.; cfr. Longrigg 1975, p. 166), ma è più che evidente che Epicuro non si è posto il problema; non qui almeno. 153

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funzionassero prima158. Se ne deve concludere che, per quanto lessico e sintassi sembrino a posto, il c. 52 contiene un guasto. Io credo che ogni difficoltà scompaia leggendo τὸ ἐξωθέν, «ciò che è stato espulso, spinto fuori». Si tratterebbe del flusso atomico mosso dall’ ἀποστεῖλαν. Epicuro direbbe che, se esso arriva al percipiente nelle stesse condizioni in cui è partito, si ha l’ ἐπαίσθησις; altrimenti viene percepita solo l ’e m i s s i o n e i n s é 159. In GE p. 265 s.v. ἔξωθεν la frase εἰ δὲ μή γε κτλ. è così spiegata: «ver­ba si recte­ traduntur, haec sententia est: sonus ut cohaeret cum eo unde pro­fec­tus est, plerumque sensum audientis movet et intellegentiam efficit aut saltem externum aeris motum ut sentiatur, efficit». Come si vede, si parla di «mo­to», non di «oggetto» o altro simile, e, ancorché la parola «moto» nel greco non ci sia, pare a me che Usener sia andato ancora una volta più vicino di tutti alla verità. Per ἐξωθεῖν, ἔξωσις, ἐξωστικός in Epicuro cfr. Epist. Pyth. 93 ἀντέξωσιν; 102 ἐξωθεῖσθαι; PHerc. 1149, coll. 111.19 (+ PHerc. 1783, col. XVI.17-18) Leone (= 24.42.16 Arr.); 113.21 (+ PHerc. 1783, col. XIX.15), ecc.; approfondita discussione su questi termini, in particolare sull’ ἐξωστικὸς τρόπος, in Arrighetti 1973, pp. 583-584, e Leone 2012, pp. 152 sgg. Per il facilissimo errore (qui peraltro favorito da ἔξωθεν ed ἔξω dei cc. 48 e 49) cfr. e.g. Paus. 1.6.3 ἐξωσθείς vs. ἐξωθείς; Heliod. 7.22.2 ἐξωσθῆναι vs. ἐξωθῆναι; [Aristot.] De mundo 395a (68.11-12 Lorimer) ἐξωσθέν vs. ἔξωθεν (ricavabile dalle traduzioni latine) e 395b (72.33 Lorimer) ἔξωθεν vs. ἔσωθεν vs. ἐξωσθέν. 54 ποιότης γὰρ πᾶσα μεταβάλλει· αἱ δὲ ἄτομοι οὐδὲν μεταβάλλουσιν, ἐπειδή περ δεῖ τι ὑπομένειν ἐν ταῖς διαλύσεσι τῶν συγκρί­σεων στερεὸν καὶ ἀδιάλυτον, ὃ τὰς μεταβολὰς οὐκ εἰς τὸ μὴ ὂν ποιήσεται οὐδ᾿ ἐκ τοῦ μὴ ὄντος, (a) ἀλλὰ κατὰ μεταθέσεις ἐν πολλοῖς, τινῶν δὲ καὶ προσό­δους καὶ ἀφόδους. (a) ἐν πολλοῖς BPF: ἐκ πολλοῦ recc.: ἐν τόμοις Kochalsky: μὲν πολλῶν Gassendi: ἐν πολλοῖς (sc. in multis exemplaribus invenitur)· «τινῶν δὲ καὶ προσόδους

 Il Bailey (p. 31) si smarca dal gruppo, ma solo per postulare un’impossibile identificazione di ἐκείνου con il percipiente: «this unity it is which in most cases produces comprehension i n t h e r e c i p i e n t , or, if not, merely makes manifest the presence of the external object» (spaziato mio). 159  Lucrezio usa più o meno nella stessa accezione il verbo exprimere (4.548). Sul sister-passage che riguarda la vista, al c. 50, Epicuro scrive κατὰ τὸν ἐκεῖθεν σύμμετρον ἐπερεισμόν. 158

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καὶ ἀφόδους» tamquam glossema interpretatus eiecit Usener: {ἐν πολλοῖς} , τινῶν δὲ καὶ προσόδους καὶ ἀφόδους Bignone. Ogni qualità infatti cambia, ma gli atomi non cambiano, dato che bisogna che rimanga qualcosa, nella distruzione degli aggregati, di solido e di indistruttibile, che faccia sì che i mutamenti non avvengano dal nulla né si risolvano nel nulla, (a) ma per trasposizione in molti corpi, e anche per aggiunte e detrazioni di alcuni atomi (Arrighetti p. 50).

(a) Gli studiosi puntellano la periclitante frase postulando correlazioni fra ἐν πολλοῖς e τινῶν δέ; senonché πολλοί (o πολλά) e τινές (o τινά) non possono riferirsi alla stessa cosa, dato che i πολλοῖς sarebbero necessariamente gli oggetti, i σώματα, mentre i τινῶν sarebbero altrettanto necessariamente gli atomi: cfr. Morel 2011, p. 67: «par le moyen de déplacements en de multiples , et aussi par ajouts et retraits ». Secondo Usener invece ἐν πολλοῖς starebbe per ἐν πολλοῖς ἀντιγράφοις e segnalerebbe l’aggiunta τινῶν δὲ καὶ προσόδους καὶ ἀφόδους: una nota di collazione passata dal margine al testo160. Secondo Bignone (p. 89) l’aggiunta è senz’altro da recepire, ma non senza l’ulteriore inserzione di τινῶν davanti a τινῶν δέ (e ovviamente al posto di ἐν πολλοῖς). Ma perché τινῶν? Perché solo «alcuni»?161 Tenterei ἀλλὰ κατὰ μεταθέσεις ἐν παλμοῖς γινομένας καὶ προσόδους καὶ ἀφόδους. Tre le cause di μεταβολή: (1) le μεταθέσεις dovute ai moti oscillatori; (2) le πρόσοδοι di atomi che si aggiungono dall’esterno; (3) le ἄφοδοι di atomi che via via si staccano. Il passo corrisponde a Lucrezio in 1.672 sgg.; i versi quorum abitu aut aditu mutatoque ordine mutant | naturam res et convertunt corpora sese corrispondono perfettamente alle tre cause individuate qui sopra, e in proinde aliquid superare necesse est incolume ollis, | ne tibi res redeant ad nilum funditus omnes si riconoscerà facilmente ἐπειδή περ δεῖ τι ὑπομένειν (…) οὐδ᾿ ἐκ τοῦ μὴ ὄντος.

 Per la precisione Usener scrive: «ἐν πολλοῖς· τινῶν δὲ καὶ προσόδους καὶ ἀφόδους varia lectio» (pp. 14-15), che la Ramelli erroneamente traduce: «lezione alternativa che aggiunge: “in molti casi, e di alcuni anche aggiunte e perdite”» (p. 83 nota 10), facendo di «in molti casi» una parte della «lezione alternativa» (!). È da notare che nel Glossarium lo Usener non aveva ancora espunto nulla: cfr. GE p. 137 s.v. ἄφοδος; p. 432 s.v. μεταβολή; p. 433 s.v. μετάθεσις; pp. 585-586 s.v. πρόσοδος. 161  Bignone (1920, pp. 89-90 e nota 2), pur senza dirlo, sente che la cosa non va, dato che «alcuni» è accu­ratamente evitato sia nella traduzione che nella parafrasi. Non capisco che testo traduca la Querzoli: «qualcosa che faccia sì che i mutamenti non muovano dal nulla né si risolvano nel nulla, ma avvengano per trasposizioni i n a l c u n i c o r p i e per l’aggiunta o la sottrazione di alcuni atomi» (1993, p. 17; spaziato mio). 160

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La somiglianza fra πολλοῖς e παλμοῖς non necessita di commenti; ma non poca è la somiglianza, specie considerando la possibile presenza di compendi, anche fra ΤΙΝΩΝΔΕ e ΓΙΝΟ(ΜΕΝ)ΑΣ. Per lo scambio ΔΕ/ΑΣ cfr. e.g. Plut. De Alex. fort. aut virt. 328A ἔτι δὲ vs. αἰτίας; Alex. Aphr. In Aristot. De sensu 44 (21.4 Wendland), dove nella citazione del passo platonico di Tim. 454b-d si legge ἐκ δὲ τῆς ἡμέρας in luogo di ἑκάστης ἡμέρας. Un altro caso può essere Lys. 31.13, passo complesso, dove Westermann scriveva φυγάς in luogo dell’insensato φὴ δέ. 55 (a) καὶ γὰρ ἐν τοῖς παρ᾿ ἡμῖν μετασχηματιζομένοις162 κατὰ τὴν περιαί­ρε­σιν τὸ σχῆμα ἐνυπάρχον λαμβάνεται, αἱ δὲ ποιότητες οὐκ ἐνυπάρχου­σαι ἐν τῷ μετα­ βάλλοντι, ὥσπερ ἐκεῖνο καταλείπεται, ἀλλ᾿ ἐξ ὅλου τοῦ σώματος ἀπολλύ­με­ναι. (b) ἱκανὰ οὖν τὰ ὑπολειπόμενα ταῦτα τὰς τῶν συγ­κρί­σεων διαφορὰς ποιεῖν, ἐπειδή περ ὑπολείπεσθαί γέ τινα ἀναγ­καῖον καὶ εἰς τὸ μὴ ὂν φθείρεσθαι. (a) ὥσπερ ἐκεῖνο καταλείπεται BPF: ὥσπερ ἐκεῖνο, καταλείπεται Mau: ὥσπερ ἐκεῖνο καταλείπονται Gassendi | ἀπολλύμεναι PF: ἀπολλύμενα B: ἀπόλλυνται Gassendi. (b) καὶ εἰς Aldobrandinus: καὶ εἰς BPF: οὐκ εἰς Usener: καὶ εἰς Kochalsky | ὂν φθείρεσθαι BPF: ὂν φθείρεσθαι Cobet. (a) E infatti nelle cose di nostra esperienza che cambiano per detrazione di materia si vede che la forma rimane, ma le qualità non rimangono in ciò che cambia, come rimane quella, bensì scompaiono da tutto il corpo. (b) Questi corpi che permangono sono capaci dunque di produrre le differenze degli aggregati, poiché è necessario che rimanga qualcosa e non si disperda nel nulla (Arrighetti p. 50).

(a) La modale ha sollevato giuste perplessità. Se (dico se) un mutamento occorre, scri­verei ωσπερ. Nel mondo del visibile e del tangibile le qualità non sono sin­crone alla forma, bensì resistono e durano di meno: la forma è l’ultima a spari­re. (b) In qualche punto fra ἀναγκαῖον e φθείρεσθαι c’è un guasto. Gli in­ter­ venti fin qui proposti (Aldobrandini, Usener) danno luogo a un pola­ri­smo:

 L’accento è scritto sbagliato (μετασχηματιζόμενοις) nell’edizione di Long (II, p. 520) e quindi nel TLG e nei testi che confessatamente o inconfessatamente ne dipendono, ovvero Marcovich (p. 747) e Reale (p. 1210). Segnalo il caso non per baloccarmi con le quisquilie ma a beneficio degli scettici della stemma­t ica. 162

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da una parte il restare, dall’altra il non scomparire nel non-es­se­re. Il che produrrebbe però un’argomen­t azione fiacca e pleonastica, in quanto il «non scomparire nel nulla» è un troppo evidente ed esplicito dop­pio­ne di «restare qualcosa». Neppure è chiaro quale sia la particella negativa adatta al contesto. Lo Usener op­t ava per οὐ (al posto di καί), articolando però un giro di frase inutilmente artificioso: ἱκανὰ οὖν τὰ ὑπολειπόμενα ταῦτα τὰς τῶν συγκρίσεων διαφορὰς ποιεῖν, ἐπειδή περ ὑπολείπεσθαί γέ τινα ἀναγκαῖον, οὐκ εἰς τὸ μὴ ὂν φθείρεσθαι. Ma si osservi che nel GE p. 694 s.v. ὑπολείπειν anche Usener stampa καὶ εἰς τὸ μὴ ὄν come l’Aldobrandini. A me parrebbe più semplice ὑπο­λεί­πεσθαί γέ τινα ἀναγ­καῖον ἢ εἰς τὸ μὴ ὂν φθείρεσθαι. Due alternative: l’una è che qual­cosa resti, l’altra è che tutto vada a finire nel nulla. Di fatto una possibilità sola, perché la διαφθορὰ εἰς τὸ μὴ ὄν è esclusa ex hypothesi. Ma l’argomentazione risul­terebbe retoricamente effica­cis­si­ma163. 56 πρὸς δὲ τούτοις οὐ δεῖ νομίζειν ἐν τῷ ὡρισμένῳ σώματι ἀπεί­ρους ὄγκους εἶναι οὐδ᾿ ὁπηλίκους οὖν. ὥστε οὐ μόνον τὴν εἰς ἄπει­ρον τομὴν ἐπὶ τοὔλαττον ἀναιρετέον, ἵνα μὴ πάντα ἀσθενῆ ποιῶ­μεν (a) κἀν ταῖς πε­ρι­λήψεσι τῶν ἀθρόων εἰς τὸ μὴ ὂν ἀναγκα­ζώ­μεθα τὰ ὄντα θλίβοντες164 κατα­να­λί­σκειν, (b) ἀλλὰ καὶ τὴν μετάβασιν μὴ νομιστέον γίνεσθαι ἐν τοῖς ὡρισμένοις εἰς ἄπειρον μηδ᾿ ἐ τοὔ­λατ­τον. (a) κἀν Usener: καὶ BPF | ἀθρόων B: ἀθροῶν P: ἀτόμων F. (b) μηδ᾿ ἐπὶ Gassendi: μηδὲ BPF. Oltre a ciò non si deve credere che in un corpo limitato ci sia un numero infinito di parti nemmeno di dimensioni comunque piccole; cosicché non solo si deve escludere la divisione all’infinito per non rendere incapaci di permanere (a) e ridurre al nulla tutte le cose nel concepire i complessi corporei, diminuendone progressivamente la grandezza, (b) ma anche il passaggio da una parte all’altra

  È nota (cfr. e.g. Bast 1811, p. 816; West 1966, p. 163; Lapini 2005, pp. 31 sgg.) la frequenza dello scambio ἤ/καί. Casi numerosissimi dovunque, e quindi anche in Diogene Laerzio: 1.1, 2.105, 6.24, 6.77 (cfr. su questo passo la discussione di Dorandi 1984), 7.165, 10.60, 10.81, 10.89; e molte le congetture: 3.13, 6.16, 6.18, 6.32, 7.40, 7.68, 7.146, 9.49, 10.83, 10.101, 10.110. 164  In GE p. 334 s.v. θλίβειν lo Usener proponeva dubitativamente θλιβέντες in alternativa a θλίβοντες. La proposta mi pare abbia poco senso. Non ce n’è più traccia in GE p. 536 s.v. περίληψις, dove la pericope è citata di nuovo. 163

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non si deve credere che possa avvenire all’infinito nei corpi che infiniti di grandezza non sono, né verso parti sempre più piccole (Arri­ghetti pp. 50-52).

(a) Il sintagma καὶ ταῖς περιλήψεσι presenta due difficoltà, una semantica e una sintattica. Cominciamo da quella semantica. Gli studiosi si sono divisi fra un senso concreto e un senso epistemologico. Tra i vecchi commentatori prevaleva il concreto: περίληψις = il comporre, il raccogliere, il mettere insieme, il prendere insieme (Schneider 1813, pp. 68-69; Giussani 1896, p. 52; Bailey 1933, pp. 33 e 206)165. Negli ultimi decenni ci si è invece orientati su «conceptions» (Long – Sedley I, p. 39), «comprehensive grasps» (Inwood – Gerson 1994, p. 11), «Erfassen», «geistigen Erfassung» (Mau 1954, pp. 31-32; Krautz 1980, p. 19 e Rapp 2010, p. 53), ecc. Ma, intanto, perché περιλήψεσι e non περιλήψει? Non può trattarsi di un fatto di stile, dato che qui non siamo nell’epos o nella tragedia. Gli interpreti avvertono oscuramente che qualcosa non va, e traducono il plurale con il singolare (non «concezioni» ma «concezione»), oppure aggiungono un possessivo («nostre concezioni»), o infine adottano l’infinito sostantivato166. Ma si tratta di espedienti. Chi dà a περίληψις valore concreto può invocare la lex distributiva (tanti gli ἀθρόα, tante le περιλήψεις), mentre con il senso epistemologico non si può fare neppure questo, perché il passo non ci mette di fronte a una pluralità di concezioni, ma alle sole concezioni nostre, epicuree, che non possono variare da persona a persona e che quindi non sono tante ma una. Il lieve ritocco καὶ ταῖς περιλήψεσι in κἀν ταῖς περιλήψεσι, di Usener, ha avuto successo167, anche se a stretto rigore esso è indispensabile solo per

 Ad avvalorare l’interpretazione concreta contribuisce anche l’insolita concretezza del contesto: si pensi in particolare a θλίβοντες e alle sue – come le chiama Vlastos – «unmistakably physical connotations (“crushing”)» (1965, p. 123 nota 13). Iperconcreto Zevort 1847, p. 272: «dans une masse composée d’une foule d’éléments»: ma questo è chiedere troppo a περιλήψεις τῶν ἀθρόων. 166  Altre posizioni non mi sono chiare: e.g. Bredlow: «en las determinaciones de los agregados» (2010, p. 381); Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin: «dans notre appréhension globale des agrégats» (2010, p. 21); Morel: «dans notre saisie globale des agrégats» (2011, p. 67): corsivi miei. 167  Il Bailey accetta il ritocco (pur non considerandolo decisivo e scrivendolo ripetutamente male: κἄν invece di κἀν), e così fanno Arrighetti, Marcovich p. 748, Verde p. 46. Di altro avviso Konstan (1993, p. 130 nota 20) e Betegh (2006, p. 271). Giussani (1896, p. 52) e Mau (1954, p. 31 = 2003, p. 290) stampano κἀν come testo tràdito. Bignone (1912, p. 16) e Alberti (1988, pp. 107, 110 e 112) emancipano la preposizione e scrivono καὶ ἐν. Per κἀν (κἄν) vs. καί in Diogene 165

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l’interpre­t azione epistemologica, che per ovvie ragioni non si concilia con un ταῖς περιλήψεσι strumentale o causativo-agentivo. Ma ritocco lieve non vuol dire ritocco sicuro: κἀν significa «e in» negli incipit, oppure quando unisce elementi simmetrici (e.g. ἐν ταῖς αἱρέσεσι κἀν ταῖς φυγαῖς; Ath. 14.635e ἔν τε τοῖς ἐμμέτροις Καρνεονίκαις κἀν τοῖς καταλογάδην); altrimenti significa etiam in, così come nel fr. 31.21.23 Arr. κἀ[ν] τοῖσδε, che per quanto so è l’unico κἀν in Epicuro (a fronte dei moltissimi κἄν). Tirando le somme, non trovo nessun senso soddisfacente né in καὶ ταῖς περιλήψεσι né in κἀν ταῖς περιλήψεσι. Ciò che serve è un sostantivo che indichi le conseguenze esercitate sugli ἀθρόα o dal precedente τέμνειν εἰς ἄπειρον o dal successivo θλίβειν. E questo sostantivo non può essere περίληψις. Non vedo dunque – almeno per il momento – alternative alla crux. (e) L’ ἐπί ripristinato da Gassendi168 non va necessariamente scritto fra uncinate (μηδ᾿ ἐ o μηδ᾿ ): è infatti possibile che il compendio di ἐπί, un Ε sormontato da un piccolo π, sia stato preso per il completamento di μηδ᾿. Nel qual caso la scrittura editorialmente più esatta sarebbe μηδ᾿ ἐπὶ τοὔ­λατ­ τον senza alcun segno diacritico. Qualcosa del genere può essere avvenuto in Plut. De cohib. ira 455D οὐδὲ πᾶσι vs. οὐδ’ ἐπὶ πᾶσι e in De frat. am. 485B μηδ’ ἐπικρύπτῃ vs. μηδὲ κρύπτῃ. 57 (a) οὔτε γὰρ ὅπως, ἐπειδὰν ἅπαξ τις εἴπῃ ὅτι ἄπειροι ὄγκοι ἔν τινι ὑπάρχουσιν ἢ ὁπηλίκοι οὖν, ἔστι νοῆσαι· (b) πῶς τ᾿ ἂν ἔτι τοῦτο πεπερασμένον εἴη τὸ μέγεθος; (c) πηλίκοι γάρ τινες δῆλον ὡς οἱ ἄπειροί εἰσιν ὄγκοι· (d) καὶ οὗτοι ὁπηλίκοι ἄν ποτε ὦσιν, ἄπειρον ἂν ἦν καὶ τὸ μέγεθος. (a) ὅπως BP: om. F: ὅλως Schneider: ἁπλῶς Brieger | ἢ ὁπηλίκοι BPF: οἱ ὁπηλίκοι Usener: ἢ ὁπηλίκοι Kochalsky. (b) πῶς τ᾿ BPF: ὅπως Brieger: πῶς [τ᾿] Furley.

Laerzio cfr. 2.29; molte le proposte congetturali, sia da καί a κἀν (κἄν) sia da κἀν (κἄν) a καί: 1.48, 1.61, 1.81, 2.12, 4.18, 5.51, 8.83, 9.62, 10.79, 10.89, 10.145. Il passo in discussione viene citato due volte nel Glossarium (GE p. 334 s.v. θλίβειν e p. 536 s.v. περίληψις), ma gli omissis nascondono la parola immediatamente precedente a ταῖς περιλήψεσι. 168   È un fatto notevole (ma non isolato) che Gassendi proponesse questa decisiva congettura pur interpretando il contesto in maniera gravemente erronea (cfr. Alberti 1988, pp. 114 sgg.).

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(c) οἱ ἄπειροι BP1: ἄπειροι FP4. (c)-(d) ὄγκοι· καὶ οὗτοι BPF: ὄγκοι {καὶ} οὗτοι (interpunctione post ὄγκοι amota, post οὗτοι posita) Bignone. (d) καὶ οὗτοι ὁπηλίκοι B, Usener: καὶ οὗτοι ἐξ ὧν ὁπηλίκοι PF. (a) Né infatti, una volta detto che in un corpo ci sono infinite parti o di qualsivoglia grandezza è possibile immaginare come ciò avvenga; (b) come infatti potrebbe essere limitata la grandezza del corpo? (c) Poiché è chiaro che queste infinite parti devono avere una grandezza, (d) e comunque piccole siano le dimensioni delle parti la grandezza (del tutto) sarà infinita (Arrighetti p. 52).

(a)-(b) Premesso che con ὄγκοι occorre (nel presente caso)169 intendere «atomi», due cose non vanno in questa sezione. La prima: ἔστι νοῆσαι non ha oggetto – essendo ὅτι ἄπειροι ὄγκοι ἔν τινι ὑπάρχουσιν ἢ ὁπηλίκοι οὖν in dipendenza di ἐπειδὰν εἴπῃ. La seconda: non si comprende la funzione di τ᾿ dopo πῶς; che è un τ᾿ isolato, in quanto il τε con cui l’ οὔτε incipitario fa coppia (come mi sembra che abbia dimostrato Furley 1967, p. 15) è quello di ἄκρον τε ἔχοντος (subito successivo a τὸ μέγεθος)170. Donde gli interventi congetturali rendicontati in apparato qui sopra. Anche l’omissione di ὅπως da parte di F, scriba intraprendente, può non essere accidentale. Leggerei οὔτε γὰρ ὅπως, ἐπειδὰν ἅπαξ τις εἴπῃ, {ὅτι} ἄπειροι ὄγκοι ἔν τινι ὑπάρχουσιν ἢ ὁπηλίκοι οὖν ἔστι νοῆσαι, πῶς τ᾿ ἂν ἔτι τοῦτο πεπερασμένον εἴη τὸ μέγεθος: «infatti, quand’anche uno lo dica171, non è possibile immaginare come atomi infiniti o di qualunque (sia pur minima) grandezza possano trovarsi in un corpo, e come questo corpo possa continuare ad essere limitato»172. La via è quella indicata da F, sopprimere una congiun­zio­ne; ma è ὅτι che deve cadere, non ὅπως, necessario in quanto coordinato con πῶς τ᾿. Per la variatio ὅπως/πῶς e πῶς/ὅπως cfr. Dem. Ex. 9.2 ἐγὼ δὲ νομίζω χρῆναι  Un caso diverso da quello del c. 52, analogo invece a quello del c. 56.  Dunque non è vero quanto osservava Bailey p. 207: che οὔτε «has nothing to correspond to it». Su questo punto mi pare che si confonda anche la Thyresson p. 144, che coordina l’ οὔτε di οὔτε γὰρ ὅπως con il τ(ε) di πῶς τ᾿ ἄν (il che non vedo come sia possibile nel testo che la studiosa adotta, con punto in alto dopo νοῆσαι e punto interrogativo dopo μέγεθος: οὔτε γὰρ ὅπως, ἐπειδάν…, ἔστι νοῆσαι· πῶς τ᾿ ἄν… μέγεθος;). La semplice verità è che nel c. 57 abbiamo due ἔστι = «è possibile» vòlti in negativo, il primo con οὔτε, il secondo con τε… οὐκ: dunque una coordinazione οὔτε-τε con un altro τ(ε) nel mezzo. 171  Cioè: una cosa è il dire, un’altra il dimostrare. 172  Il restauro qui proposto evita che l’idea principale venga espressa nella secondaria e l’idea secondaria nella reggente; che sarebbe uno schema innaturale. 169 170

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τὸν πόλει περὶ πραγμάτων ἐπιχειροῦντα συμβουλεύειν μᾶλλον ὅπως τὰ δόξαντα συνοίσει σκοπεῖν ἢ πῶς οἱ παραχρῆμα λόγοι χάριν ἕξουσι; 17.1 μᾶλλον ὅπως εὖ δόξουσι λέγειν σπουδάζειν ἢ πῶς ἔργον ἐξ ὧν λέγουσί τι συμφέρον πραχθήσεται; Erasistr. fr. 225 Garofalo ἡγεῖται γὰρ ἄχρηστον ὅλως τὸ ἐπίστασθαι ὅπως τὰ σιτία κατὰ τὴν γαστέρα πέττεται καὶ πῶς διὰ πέψεως οἱ χυμοὶ κτλ.; Dem. C. Lept. 43 εἰ φαίνοιτο διδοὺς καὶ μὴ πῶς ἰδίᾳ τὰ ὄντα σώσει προνοού­μενος, ἀλλ᾿ ὅπως τῶν ὑμετέρων μηδὲν ἐνδεῶς ἕξει τὸ καθ᾿ αὑτόν; [Plat.] Eryx. 397d ἠρώτα γὰρ αὐτὸν τὸ μειράκιον, πῶς οἴεται κακὸν εἶναι τὸ πλουτεῖν καὶ ὅπως ἀγαθόν, ecc. (d) Tenterei καὶ οὕτως ἐξ ὧν κτλ.: «e così la grandezza di ciò da cui questi atomi, per quanto piccoli, sono costituiti, sarebbe infinita»; oppure καὶ ἐξ ὧν οὗτοι, di senso analogo173. Pensare a una materia di cui gli atomi sono composti implica, in punta di dottrina, una contraddizione con il principio genetico della fisica epicurea, dove gli atomi sono unità incomposte. Ma la volontà di spiegare bene e a fondo può senz’altro aver in­dotto Epicuro ad accettare – come nella migliore tradizione – generosi compromessi con il lessico comune174. Si osservi inoltre che non è ἄτομος la paro­la qui usata, ma ὄγκος, termine che diventa – e non nasce – specializ­zato175. Ancora: se con πηλίκοι potessimo intendere «piccolissimi, della minima grandezza» e non «di una certa (minima) grandezza», allora per la sezione (d) diventerebbe praticabile anche quest’altra soluzione: καίτοι ἐξ ὧν ὁπηλίκοι ἄν ποτε ὦσιν, ἄπειρον ἂν ἦν καὶ τὸ μέγεθος, «eppure (per quanto gli atomi infiniti possano essere piccoli), a partire da quelle quantità (per quanto piccole) che fanno sì che gli atomi risultino di una certa (pur minima) grandezza, conseguirà che sarà infini­to di grandezza anche il corpo (che li contiene)». Una parafrasi intricata, lo so. Ma la difficoltà in verbis riflette la difficoltà in rebus.

 Usener p. 86 respinge ἐξ ὧν (assente in B) con questa motivazione: «hoc ἐξ ὧν corrector antiquus [ma perché antico?] loco verborum καὶ οὗτοι legi voluit». 174  Nonché con l’etica comune, come avremo modo di vedere nella sezione περὶ σοφοῦ della vita laerziana di Epicuro, di cui esamineremo più avanti qualche passo. 175   Vale la pena notare che Epicuro non usa la parola ἄτομος tutte le volte che ci aspetteremmo (e Democrito, per quanto ne sappiamo, la usa ancora meno: cfr. Morel 2007b, p. 112). Un’altra parola che Epicuro usa rarissimamente – lui campione della ratio – è λόγος (cfr. Long 1997, p. 208). Sui vari sensi di ὄγκος si veda l’Appendice di Bailey 1928, pp. 577 sgg. 173

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58-59 (a) τό τε ἐλάχιστον τὸ ἐν τῇ αἰσθήσει δεῖ κατανοεῖν ὅτι οὔτε τοιοῦτόν ἐστιν οἷον τὸ τὰς μεταβάσεις ἔχον οὔτε πάντῃ πάντως ἀνόμοιον, ἀλλ᾿ ἔχον μέν τινα κοινότητα τῶν μεταβατῶν, διάληψιν δὲ μερῶν οὐκ ἔχον· ἀλλ᾿ ὅταν διὰ τὴν τῆς κοινότητος προσεμφέρειαν οἰηθῶμεν διαλήψεσθαί τι αὐτοῦ, τὸ μὲν ἐπιτάδε, τὸ δὲ ἐπέκεινα, τὸ ἴσον ἡμῖν δεῖ προσπίπτειν. (b) ἑξῆς τε θεωροῦμεν ταῦτα ἀπὸ τοῦ πρώτου καταρχόμενοι καὶ οὐκ ἐν τῷ αὐτῷ, οὐδὲ μέρεσι μερῶν ἁπτόμενα, ἀλλ᾿ ἢ ἐν τῇ ἰδιότητι τῇ ἑαυτῶν τὰ μεγέθη καταμετροῦντα, τὰ πλείω πλεῖον καὶ τὰ ἐλάττω ἔλαττον. [59] (c) ἐπεί περ καὶ ὅτι μέγεθος ἔχει ἡ ἄτομος, κατὰ τὴν ἐνταῦθα ἀναλογίαν κατηγορήσαμεν, μικρόν τι μόνον μακρὰν ἐκβαλόντες. (d) ἔτι τε τὰ ἐλάχιστα καὶ ἀμερῆ πέρατα δεῖ νομίζειν τῶν μηκῶν τὸ καταμέ­τρημα ἐξ αὑτῶν πρῶτον τοῖς μείζοσι καὶ ἐλάττοσι παρασκευάζοντα τῇ διὰ λόγου θεωρίᾳ ἐπὶ τῶν ἀοράτων. (e) ἡ γὰρ κοινότης ἡ ὑπάρχουσα αὐτοῖς πρὸς τὰ ἀμετάβατα ἱκανὴ τὸ μέχρι τούτου συντελέσαι, συμφόρησιν δὲ ἐκ τούτων κίνησιν ἐχόντων οὐχ οἷόν τε γίνεσθαι. (a) μεταβατῶν Schneider: μεταβάντων BPF. (c) μακρὰν ἐκβαλόντες Usener: μακρὸν ἐκβάλλοντες BPF. (d) ἀμερῆ Arnim: ἀμιγῆ BPF | μηκῶν BP1(Q): μακρῶν P4: μικρῶν F | ἐξ αὑτῶν Usener: ἐξ αὐτῶν BPF | πρώτων P: πρῶτον BP | post παρασκευάζοντα Usener lacunam statuit, quam sic explevit Kochalsky , τῇ . (e) ἀμετάβατα Usener: ἀμετάβολα BPF: μετάβατα: Arnim μετάβολα Furley | συμφόρησιν δὲ BP: συμφόρησιν καὶ F | ἐχόντων BPF: ἐχόντων Brieger: τού τῶν κίνησιν ἐχόντων Bignone | γίνεσθαι Schneider: γενέσθαι BPF. (a) Del minimo percepito dai sensi bisogna pensare né che è tale quale a ciò che permette il procedere da parte a parte, né del tutto dissimile, bensì ha qualcosa in comune con ciò che è percorribile, ma non presenta una distinzione delle parti. Quando però per l’analogia di tale somiglianza pensiamo di poter distinguere qualche parte di esso, una di qua una di là, bisogna pensare che allora abbiamo percepito un minimo simile; (b) noi vediamo queste parti una di seguito all’altra cominciando dalla prima, e non coincidenti, né in contatto fra loro per mezzo delle loro parti, ma ognuna nella propria individualità, misuranti le grandezze, le maggiori le grandezze maggiori, le minori le grandezze minori. [59] (c) Poiché anche che l’atomo ha una grandezza abbiamo dichiarato secondo questa analogia, non facendo altro che protrarre lontano un certo grado di piccolezza. (d) Inoltre le grandezze più piccole e senza parti bisogna pensare che costituiscono da se stesse la misura prima delle dimensioni per gli atomi maggiori e minori secondo quel metodo di ragionamento che si applica alle cose invisibili. (e) Quello che c’è in comune fra esse parti minime e ciò che

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non ammette passaggio da parte a parte è sufficiente a render possibile quel che si è detto finora; (f) non può invece accadere che dal loro moto si formi un aggregato (Arrighetti pp. 52-54).

Non ho esitazione a definire i cc. 58-59 i più difficili della Lettera. Fra coloro che se ne sono occupati spiccano i nomi di Mau (1954 [2003]), di Vlastos (1965), di Furley (1967, pp. 17 sgg.), di Salem (1998)176. Le loro teorie sono capolavori di intelligenza e di coerenza177; eppure, a ri-verificarle sul greco, testo e interpre­t azione sembrano parlare linguaggi diversi. È sempre qui che casca l’asino. C’è anche chi ha sostenuto che l’oscurità dei due brani non sia un effetto né delle malefatte dei copisti né della nostra ignoranza e mancanza di informazioni, bensì un dato intrinseco, tanto che su questo punto neppure Lucrezio avrebbe capito fino in fondo il pensiero del maestro178. Il tema generale dei capitoli è il seguente: sopra la soglia del visibile vi sono gli aggregati, sotto quella soglia gli atomi179. Ma gli atomi non sono le grandezze ultime, perché al di sotto esistono gli ἐλάχιστα, le minimae partes. Si può dire che lo schema si replica? Sì, ma solo fino a un certo punto, perché gli ἐλάχιστα non sono separabili e autonomi (se lo fossero, sarebbero atomi). Questo non è, attenzione, ciò che Epicuro spiega, ma ciò che si deduce dalle sue parole dopo una seconda, terza o quarta lettura. Mi rendo conto di aver sintetizzato in maniera rozza e superficiale e ne chiedo scusa ai colleghi philosophes. Gran parte delle oscurità particolari è dovuta al termine μετάβασις e ai suoi de­ri­va­ti. Al c. 58 si parla di τὸ τὰς μεταβάσεις ἔχον, e poco più in là di μεταβατά (il te­sto veramente avrebbe μεταβάντων, ma μεταβατῶν pare correzione sicura). Inol­­tre verso la fine del c. 59, proprio nel punto in cui l’incertezza è massima, ven­go­no menzionati gli ἀμετάβατα (forse anche questa una lezione da correg­gere).

 In particolare il capitolo Temps imperceptibles et perceptions minuscules dans l’atomisme démocritéen, pp. 159 sgg. 177  Naturalmente vi sono anche studiosi che danno la sensazione opposta: di parlare a vanvera, senza capire fino in fondo o persino senza capire affatto. 178  Così Barigazzi 1959, pp. 56-57; Vlastos 1965, pp. 142 nota 104 e pp. 146-147 nota 113; Gottschalk 1996, p. 240, ecc. I cc. 56-59 danno qualche ragione a Hossenfelder 2006, p. 28, secondo cui la Lettera a Erodoto non tratta di fisica e basta, ma di fisica e di logica. 179  Senza dimenticare che anche innumerevoli aggregati di atomi restano sotto la soglia della visibilità. 176

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Μετάβασις indica lo spostamento, l’andare da qui a lì o da su a giù, in senso proprio o traslato. E sulla scelta fra queste alternative le interpretazioni divergono largamente. La μετάβασις dei cc. 58-59 può essere il passaggio da una cosa a un’altra, ad esempio da atomo ad atomo; oppure il passaggio da un modo di essere a un altro, ad esempio da dimensioni più grandi a dimensioni più piccole; oppure il passaggio (nel senso del moto locale) da un punto a un altro180. Quale delle tre accezioni adottare? In tempi recenti ha avuto successo la terza, che ci porta sul familiare terreno dei paradossi di Zenone181. Ma Zenone discute la divisibilità in rapporto alle grandezze lineari, mentre nei capitoli in oggetto, nonostante la menzione di non meglio specificati μήκη (d), il discorso verte sui solidi, dato che sia gli aggregati sia gli atomi sono dei solidi. La divisibilità, finita o infinita, si può predicare di qualunque grandezza, sia lineare che solida, ma che scopo avrebbe avuto Epicuro di mescolare le mele con le pere? Non ho una risposta. L’unica cosa di cui sono certo è che μετάβασις non può indicare l’attraversamento da parte a parte d e l l ’ a t o m o o addirittura d e l m i n i m u m d e l l ’ a t o m o . È un’ipotesi grottesca e fumettistica. Ritenere che Epicuro sentisse una pur remota necessità di escluderla è un fare torto alla sua e nostra intelligenza182. A mio parere l’unica esegesi plausibile di μετάβασις è ancora e sempre quella del Bailey: «mental or ideal process of ‘passing’ in thought to ever smaller and smaller particles» (p. 205). A meno che nei cc. 58-59 lo scopo di Epicuro non fosse diverso da quello che si pensa: non cioè parlare dei minima atomici e delle loro proprietà, bensì spiegare come gli atomi, che pure sono di diversa grandezza, possano costituire delle forme non ulteriormente riducibili. È possibile che le due cose coincidano? I minima sono tutti

 Escludo μετάβασις come «Inferenzlehre» (ἀπὸ τῶν φαινομένων ἐς τὰ ἀφανῆ), che ritroveremo nell’epicureismo più tardo (Bailey 1928, p. 594; Erler 1994, pp. 270-271). Anche se tale senso fosse attivo già in Epicuro (cfr. Arrighetti 1973, pp. 594-595), la cosa non riguarderebbe comunque il nostro passo. La resa «transformation» (così Zevort 1847, p. 273) mi pare da escludere. 181  Cfr. e.g. Konstan 1982, pp. 61-64; Konstan 1993, p. 132; Giovacchini 2010, p. 155. Sul tema anche Purinton 1994, p. 118; Delattre 2004, p. 161; O’Keefe 2010, p. 22. 182  Forse è proprio per non arrivare a questo che il Morel parla di «passaggio » (2011, pp. 68-69 sui cc. 56 e 58) e di «passaggio da una parte alla parte immediata­mente seguente» (p. 135 nota 45) senza mai dire con precisione se con parti si intendono parti di una linea (cioè segmenti) o parti di un pieno. 180

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uguali per il fatto stesso di essere minima (cfr. e.g. Morel 2011, p. 135 nota 45), mentre gli atomi sono più grossi o più piccoli a seconda dei minima che contengono. Quindi la risposta è sì: le due cose possono coincidere. Questa sarebbe una spiegazione logica, e nel complesso non difficile, dei due capitoli. Eppure, se interroghiamo il testo greco, di tutto questo non troviamo quasi nessuna traccia. Confesso infine (e con ciò chiudo le mie considerazioni sul c. 58) che non riesco a dare un senso né ad ἀλλ’ ἤ, in luogo del quale ci si aspetterebbe ἀλλά183, né a μέρεσι μερῶν ἁπτόμενα (a). Veniamo ora al c. 59 e alla pericope μικρόν τι μόνον μακρὰν ἐκβαλόντες (c). Come Platone in Resp. 368d, così qui Epicuro vorrà dire che certe cose, se proiettate su uno sfondo più grande, si vedono meglio (cfr. anche Furley 1967, pp. 22-23). Il μόνον equivale in latino a modo concessivo-restrittivo (modo id, quod est pusillum, in maius spatium proicias)184; un senso che non ritrovo né in Alberti 1988 (p. 151 nota 104 e p. 154: «semplicemente proiettando lontano qualcosa di piccolo»)185 né in Ramelli p. 89 («semplicemente procedendo sempre più sulla scala della piccolez­za») né in Verde p. 47 (= 2013a, p. 58: «proiettando su larga scala solo qualcosa di piccolo»)186. Ultimo ma grave problema è la frase συμφόρησιν δὲ ἐκ τούτων κίνησιν ἐχόντων οὐχ οἷόν τε γίνεσθαι, su cui giova rileggere questa pagina al solito lucidissima – anche se purtroppo limitata essenzialmente alla pars destruens – dell’impareg­giabile Giussani: né si dica, per avventura, che codesti stessi ἀμετάβατα, queste partes minimae, potrebbero, esistenti prima indipendenti e dotate di moto, essersi accozzate a

 La Thyresson pp. 56-60 sostiene che l’equivalenza ἀλλ᾿ ἤ = ἀλλά è già operante in Epicuro, anzi da prima. Non saprei. Lo Usener, sia che capisse sia che non capisse, non è intervenuto, e il suo non intervenire ha segnato questa lezione con il sangue d’agnello: nessuno dopo di lui ha osato toccarla. 184   Vari esempi di questa accezione di μόνον in GE pp. 444-445 s.v. μόνος. 185  Sempre a p. 151 la Alberti parla di un μικρόν τι «proiettato lontano nella sfera degli ἀόρατα». Che vorrà dire? 186  Strana e sospetta anche l’interpretazione di Usener in GE pp. 444-445 s.v. μόνος (voce già citata sopra, nota 184): «μικρόν τι μόνον μακρὰν ἐκβάλλοντες [qui Usener stampa il participio presente così come a p. 17 degli Epicurea e diversamente che a p. xviii, dove ha ἐκβαλόντες] h. e. eam quoque sententiam, qua tantum pusillum aliquid atomus esse fertur, longe reiecimus: atomi etiamsi spatii aliquid sibi poscunt, ea tamen sunt exiguitate ut ne hoc quidem ferri possit, si quis id tantum dicet, esse exiguas». Si tratterebbe quindi di ricusare una frase, respingere un’ipotesi. Poco probabile. 183

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formar gli atomi (…). Come si vede, abbiamo interpretato κίνησιν ἐχόντων come appartenente all’ipotesi combattuta, poiché il moto coessenziale agli atomi è la condizione necessaria perché essi si combinino in concilia e diano luogo a tutti i fatti di natura; così chi trasporti alle partes minimae le funzioni degli atomi deve naturalmente attribuire a queste anche il moto coessenziale. La cosa è per altro così naturale, che pare davvero una aggiunta superflua. Ma non per questo ci pare abbastanza probabile la proposta fatta (Brieger) di leggere κίνησιν οὐκ ἐχόντων, con che sarebbe la mancanza di moto la ragione per cui le partes minimae sarebbero per sé inette alla costruzione delle cose, ma perché, se potessero esistere da sé e isolate, le partes minimae non avrebbero moto? O anzi, come può, di cose che da sé non possono esistere, farsi la questione se, da sé, avrebbero o non avrebbero moto? (Giussani 1896, pp. 71-72).

Né il Giussani né altri dopo di lui hanno accolto la correzione di Brieger187. E però, ovvio essendo che gli ἐλάχιστα non possono avere movimento, si è dato a ἐχόντων il senso di οὐκ ἐχόντων, o in alternativa gli si è attribuita, pur senza l’ausilio di un ἄν o κἄν o altro simile, una fortissima torsione nel senso dell’eventualità – ovviamente negativa. Ecco alcune traduzioni: – Mau 1954 (2003), p. 38: «es kann aber nicht sein, daß aus diesen Atomteilen infolge einer Eigenbewegung eine Zusammenballung enstanden ist»; – Furley 1967, p. 25: «but it is impossible that there should ever be a process of composition out of these minima having motion»; – Inwood – Gerson 1994, p. 12: «but it is not possible for these [minimal parts] to possess motion and so move together [into compounds]»; – Reale 2005, p. 1215: «ma non è possibile che i minimi siano dotati di movimento e che se ne verifichi un raggruppamento»; – Rapp 2010, p. 55: «dass aber aus diesen (den Minima) eine Vereinigung entsteht, weil sie eine eigene Bewegung hätten, ist nicht möglich»; – Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin 2010, p. 22: «mais ils ne sont pas capables d’engendrer un rassemblement à partir d’un mouvement qu’ils posséderaient eux-mêmes»; – Bredlow 2010, p. 382: «pero una agregación de ellos, como estando dotados de movimiento, no hay modo de que se produzca»; – Verde p. 49 (= 2013a, p. 58): «non è possibile invece che da essi, quasi che avessero movimento, si sia costituita un’aggregazione»; – Morel 2011, p. 69: «en revanche, qu’elles [le parti minime] se rassemblent et soient dotées de mouvement, cela ne peut assurément se produire».

 Con l’eccezione di Kochalsky p. 66, che riprese l’idea ma la complicò e la peggiorò: συμφόρησιν δὲ ἐκ τούτων κίνησιν ἐχόντων οὐχ οἷόν τε γενέσθαι. 187

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Ed ecco alcune esegesi: – Mau 1954 (2003), p. 38: «daß diese kleinsten Dinge als ursprünglich getrennte sich zu einem Atom vereinigen, ist auch hier nicht möglich, da ihnen keine Bewegung zukommt»; – Furley 1967, p. 25: «the analogy between invisible things and the changeable things of the perceptible world holds good to this extent, though of course it must not be pressed too far: an atom is not put together out of its minima as a perceptible body may be put together out of its parts»; – Conche 1987, p. 154 nota 10: «les minimae partes, ne pouvant exister isolement, n’ont pas de mouvement propre. Il n’est donc possible que, étant séparées et douées de mouvement (supposition fausse), elles se soient rassemblées pour former les atomes comme les atomes eux-mêmes se réunissent pour former les corps composés»; – Reale p. 1486 nota 106: «infatti le parti degli atomi sono incapaci di movi­ men­to»; – Morel 2009a, p. 45: le minimae partes «sont inséparables du tout qu’elles constituent et, de ce fait, incapables de produire par elles-mêmes des mouvements et des agrégations»; – Morel 2011, p. 136 nota 53: «les minima ont en commun avec les atomes de valoir comme entités premières, mais, à la différence des atomes, ils ne peuvent avoir de mouvement qui leur soit propre»; – Verde 2013a, p. 72: «i minimi atomici, non potendo esistere isolatamente, sono privi di parti e non possono muoversi di per se stessi ma si muovono solo ‘accidentalmente’ con il movimento degli atomi in cui risiedono»; pp. 92-93: «il loro movimento (ammesso che lo possiedano)», «eventuale movimento», «Epi­curo (…) non afferma che i minimi dell’atomo non abbiano peso ma sembra escluderne il loro (eventuale) movimento». Come si vede, le tecniche per rendere candida de nigris et de candentibus atra, come faceva l’Autolico ovidiano, sono almeno tre. Una è quella di passare dall’ipotassi alla paratassi, in modo da far valere l’ οὐχ οἷόν τε sia per il γίνεσθαι188 sia per il κίνησιν ἔχειν. Un’altra è quella di accentuare l’ipotassi, trattando il κίνησιν ἔχειν come una cosa che non si può dare per il fatto stesso che non si dà il γίνεσθαι. La terza è quella di far finta che κίνησιν ἐχόντων non esista. È il caso del pur bravo anzi bravissimo Furley, il quale di ciascun capitolo analizzato offre la traduzione, la parafrasi e il commento – ma κίνησιν ἐχόντων

 O γενέσθαι, che è la lezione tràdita, modificata da Schneider 1813, p. 77, ma conservata, direi a ragione, da Dorandi p. 769. 188

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è presente solo nella traduzione. Quanto all’altrettanto bravo J. Mau, la sua parafrasi è: «keine Bewegung», anche formalmente il contrario del testo greco. Ma Epicuro, se davvero si riferiva ai minimi dell’atomo, non poteva ritenere il suo pubblico così ottuso da non capire quanto assurdo sarebbe il solo supporre che questi minimi, per definizione inseparabili dall’atomo, potessero muoversi e combinarsi allo stesso modo degli atomi. Si consideri inoltre (cosa a cui mi pare che nessuno dia importanza) che nel lessico di Epicuro e degli epicurei189 la συμφόρησις è l’accozzo, l’ammasso eterogeneo, il congestus: cfr. GE p. 631 s.v. συμφορεῖν e il fr. 29.28.8 sgg. Arr. con la definizione del συμπεφορημένος: «confusionario non è colui che congiunga in una scienza unitaria elementi sparsi di una dottrina con altri estranei alla sua, ma chi mette insieme cose che fra loro non sono in accordo, sia che provengano da lui sia da altri» (testo malridotto ma letture plausibili), e ancora 29.31.2-3 Arr., dove συμπεφορῆσθαι fa coppia con σολοικίζειν e significa «comportarsi da confusionario» (Arrighetti 1973, p. 276; Leone 1984, p. 64). L’unica traduzione veramente fedele che io conosca – e, proprio perché fedele, priva di significato – è quella ottocentesca di Luigi Lechi: «l’assembramento poi non può nascere da quelle cose che hanno moto» (1845, p. 377). È arduo credere che l’atomo inteso come insieme dei minima che lo compongono venga detto συμφόρησις e, più in generale, che un Gegner vero o immaginario potesse sostenere quanto negato da οὐχ οἷόν τε. Come Giussani, anch’io non vado al di là della pars destruens. In ogni caso, quale che sia la posizione che assumiamo, si converrà che è un pessimo metodo quello di at­tribuire ad Epicuro follie o stravaganze seguìte dalla loro non petita confutazio­ne. 60 (a) καὶ μὴν καὶ τοῦ ἀπείρου ὡς μὲν ἀνωτάτω ἢ κατωτάτω οὐ δεῖ κατηγορεῖν τὸ ἄνω ἢ κάτω. (b) ἴσμεν μέντοι τὸ ὑπὲρ κεφαλῆς, ὅθεν ἂν στῶμεν, (c) εἰς ἄπει­ ρον ἄγειν ὄν, μηδέποτε φανεῖσθαι τοῦτο ἡμῖν, ἢ τὸ ὑποκάτω τοῦ νοηθέν­τος εἰς ἄπειρον, ἅμα ἄνω τε εἶναι καὶ κάτω πρὸς τὸ αὐτό. (a) ἢ κατωτάτω P: καὶ κατωτάτω BF. (b) ἴσμεν τοι Hicks: εἰς μέντοι P1(Q): ἴσμεν τοι B: μέντοι FP4: ὶς μέντοι Kochalsky: εἰς μέντοι … αὐτό corrupta esse suspicatus est Von der Muehll: (ἴσμεν τοι) … ᾗ Bredlow.

 Ma anche prima di Epicuro e degli epicurei: cfr. e.g. Diels 1887, pp. 9-10; Laks 1983, p. 93. 189

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(c) ἄγειν ὂν F: ἄγειν ὃν BP: corrupta iudicavit Von der Muehll: ἀγόμενον Schneider: τεῖνον Usener: ἄγειν ὸν Giussani: ἄγειν ον Bignone: {ἄγειν ὂν} Kochalsky: ἄγειν ὸν Bailey: ἄγειν καὶ Mau. (a) E inoltre dell’infinito il basso e l’alto non si deve dire che sono l’alto in assoluto e il basso in assoluto. (b) Noi sappiamo infatti che lo spazio sopra la testa, dal punto in cui stiamo, (c) o quello in basso rispetto a un punto pensato, essendo possibile proiettarlo all’infinito, giammai ci potrà apparire che sia contemporaneamente basso e alto rispetto allo stesso punto (Arrighetti p. 54).

Arrighetti segue per (b)-(c) il testo costituito da Hicks (1923, p. 109), il quale (1) legge ἴσμεν μέντοι per ἴσμεν τοι dato da B; (2) intende ἄγειν ὄν «essendo possibile prolungare»; (3) mette ἢ τὸ ὑποκάτω τοῦ νοηθέντος εἰς ἄπειρον tra virgole o trattini; (4) promuove τοῦτο («resumptive» di τὸ ὑπὲρ κεφαλῆς) e ἅμα ἄνω τε εἶναι καὶ κάτω rispettivamente a soggetto e predicato di φανεῖ­σθαι. Con questo risultato: «as to the space overhead, how­ever, if it be possible to draw a line to infinity from the point where we stand, we know that never will this space – or, for that matter, the space below the supposed standpoint if produced to infinity – appear to us to be at the same time ‘up’ and ‘down’ with reference to the same point». La questione dottrinale di fondo ci lascia nel dubbio se si abbia a che fare con un passo molto complesso o molto semplice. Rist spiega che «in senso stretto non si può parlare di alto e basso come se esistessero dei punti più alti e più bassi. ‘Alto’ e ‘basso’ devono essere usati con riferimento ad alcuni punti prefissati e noi, in piedi sulla terra, costituiamo tale punto prefissato» (1978, p. 51). Epicuro sembra interloquire con qualcuno, che potrebbe essere Aristotele, come pensano i più, oppure Stratone, come pensa E. Montanari (1979). Il contributo esegetico più incisivo e preciso, e più largamente accettato, è ancora quello di Mau (1954), di cui trascrivo la parafrasi per la parte che ci interessa: (a) «im unendlichen Raum gibt es kein absolutes Oben und Unten, demnach auch keine Mitte»; (b)-(c) «wohl aber kann man relativ zu einem gegebenen Beobachter eine Bewegung nach oben und eine nach unten annehmen». L’analisi, per quel che capisco, può essere giusta; non così il testo su cui è basata. Il Mau stampa ἴσμεν τοι, trasmesso da B, e corregge ἄγειν ὄν in ἄγειν καί (1954, p. 16), attribuendo l’errore a una mélecture di segno tachigrafico. Probamente lo studioso si pone il problema di ἴσμεν (che non sarebbe adatto a una dimostrazione, ma che qui va bene in quanto deve introdurre una cosa scontata, risaputa), però non quello di τοι, che Epicuro non usa isolatamente. Complesso e pesante, come spesso, anche l’intervento di Kochalsky, che alle stravaganti interpretazioni degli

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«Italiener» (si riferisce a Giussani e Tescari) oppone l’espunzione di ἄγειν ὄν (dittografia di ἄπειρον) e il supplemento ‘a iniezione’ τὸ ἄνω ἢ κάτω ὶς μέντοι κτλ. (p. 67). Il Bredlow ha proposto qualche anno fa di mutare ἢ τὸ ὑποκάτω in ᾗ τὸ ὑποκά­τω, understanding τοῦ νοηθέντος εἰς ἄπειρον (analogous to φορὰν … νοουμένην εἰς ἄπειρον at line 7) as referring to the ideal prolongation to infinity. Sure, the construction of ᾗ with a pure noun phrase is rather uncommon (we might rather expect something like ᾗ τὸ ὑποκάτω … ἐστίν, or perhaps ὄν), but not without parallel, at least in philosophical usage. What actually seems to be unparalleled is the construction with a nominalized prepositional expression like τὸ ὑποκάτω τοῦ νοηθέντος…; but since this kind of expression can usually function syntactically just like any other ordinary noun phrase, this appears to be, though slightly odd style, perfectly sound grammar. So we may translate: «… it will never appear to us, insofar as it is what is below (or: qua what is below) that which is ideally produced to infinity, to be at the same time up and down with respect to the same place». Relativity of space is attacked here on its own terms: for any point in the space above us, we can conceive infinitely many other points even further above, with respect to which the former is «below»; so any given point is certainly «up» and «down» at the same time, but never with respect to the same point of reference (2008, pp. 172-173).

Temo che i paralleli forniti a supporto di «ᾗ with a pure noun phrase», i.e. Aristot. EN 1096b ᾗ γὰρ ἄνθρωπος, οὐδὲν διοίσουσιν, εἰ δ᾿ οὕτως, οὐδ᾿ ᾗ ἀγαθόν; 1157a τὴν τῶν ἀγαθῶν ᾗ ἀγαθοί; Metaph. 1019a ᾗ ἰατρευόμενος, ecc. (p. 172 nota 6), non abbiano una grande utilità, poiché sono casi in cui il relativo avverbiale non introduce proposizioni ma termini isolati. E la presenza di un verbo, non importa se esplicito o implicito, non cambia le cose. Il tutto si qualifica (ed è questa la ragione per cui ho deciso di dedicare spazio alla cosa) come un tentativo, uno dei tanti, di emendare a costo zero; che è cosa notoriamente ardua. Per quanto mi riguarda, leggerei più semplicemente εἰ{ς} μέντοι τὸ ὑπὲρ κεφαλῆς, ὅθεν ἂν στῶμεν, εἰς ἄπειρον ἄγομεν, μηδέποτε φανεῖσθαι κτλ.: «se però prolunghiamo all’infinito» ecc., dove il verbo che regge φανεῖσθαι può facilmente sottintendersi. Ciò che mi sembra poco a suo luogo qui è un accusativo assoluto, specie senza preposizione. Nell’interpretazione di questo capitolo il Bailey (pp. 213-215) non brilla; il che non vuol dire che io condivida le obiezioni che Konstan gli muove relativamente alla scelta del testo (1972, pp. 272-273). Konstan dice che Bailey, «against all the MSS., accepts Usener’s emendation ἀνωτάτῳ and κατωτάτῳ». E aggiunge: «I should like to see another illustration of κατηγορεῖν with the

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dative in this sense». Sull’errore che sta dietro «against all the MSS.» si dirà oltre190. Quanto a κατηγορεῖν, la parafrasi «we must not speak of the ‘up’ and the ‘down’ as though ( m e a s u r e d b y ) the highest or a lowest» (p. 276, spaziato mio) chiarisce che Bailey non pensava affatto a un costrutto di κατηγορεῖν col dativo191. Konstan inoltre fornisce un’interpretazione arbitraria sia di φανεῖσθαι, che intende come forma opinativa, sia infine di μέντοι, a cui nega un valore avversativo di per sé evidente192. 61-62 (a) καὶ μὴν καὶ ἰσοταχεῖς ἀναγκαῖον τὰς ἀτόμους εἶναι, ὅταν διὰ τοῦ κενοῦ εἰσφέρωνται μηθενὸς ἀντικόπτοντος. (b) οὔτε γὰρ τὰ βαρέα θᾶττον οἰσθήσεται τῶν μικρῶν καὶ κούφων, ὅταν γε δὴ μηδὲν ἀπαντᾷ αὐτοῖς· (c) οὔτε τὰ μικρὰ τῶν μεγάλων, πάντα πόρον σύμμετρον ἔχοντα, ὅταν μηθὲν μηδὲ ἐκείνοις ἀντικόπτῃ· (d) οὔθ᾿ ἡ ἄνω οὔθ᾿ ἡ εἰς τὸ πλάγιον διὰ τῶν κρούσεων φορά, οὔθ᾿ ἡ κάτω διὰ τῶν ἰδίων βαρῶν. (e) ἐφ᾿ ὁπόσον γὰρ ἂν κατίσχῃ ἑκάτερον, ἐπὶ τοσοῦτον ἅμα νοήματι τὴν φορὰν σχήσει, (f) ἕως ἀντικόψῃ ἢ ἔξωθεν ἢ ἐκ τοῦ ἰδίου βάρους πρὸς τὴν τοῦ πλήξαντος δύναμιν. [62] (g) ἀλλὰ μὴν καὶ κατὰ τὰς συγκρίσεις θάττων ἑτέρα ἑτέρας ῥηθήσεται, τῶν ἀτόμων ἰσοταχῶν οὐσῶν, (h) τῷ ἐφ᾿ ἕνα τόπον φέρεσθαι τὰς ἐν τοῖς ἀθροίσμασιν ἀτόμους (i) καὶ κατὰ τὸν ἐλάχιστον συνεχῆ χρόνον, (j) εἰ μὴ ἐφ᾿ ἕνα κατὰ τοὺς λόγῳ θεωρητοὺς χρόνους· (k) ἀλλὰ πυκνὸν ἀντικόπτουσιν, ἕως ἂν ὑπὸ τὴν αἴσθησιν τὸ συνεχὲς τῆς φορᾶς γίνηται. (l) τὸ γὰρ προσδο­ξα­ζό­με­νον περὶ τοῦ ἀοράτου, ὡς ἄρα καὶ οἱ διὰ λόγου θεωρητοὶ χρόνοι τὸ συνεχὲς τῆς φορᾶς ἕξουσιν, οὐκ ἀληθές ἐστιν ἐπὶ τῶν τοιούτων. (m) ἐπεὶ τό γε θεω­ρούμενον πᾶν ἢ κατ᾿ ἐπιβολὴν λαμβανόμενον τῇ διανοίᾳ ἀληθές ἐστι. (a) εἰσφέρωνται BPF: φέρωνται Schneider. (b) τὰ βαρέα BPF: τὰ βαρέα Usener | {μικρῶν καὶ} Gassendi. (c) τῶν μεγάλων BPF: τῶν μεγάλων Usener.

 Ma si può intanto notare che «emendation» è linguaggio sovradimensio­na­ to, tanto più che nella tradizione laerziana lo iota mutum è quasi siste­ma­t i­camente omesso. 191  Né a fortiori lo Usener, che peraltro riteneva lacunoso il passo, e che quindi non postulava continuità fra i due dativi e κατηγορεῖν. 192   Konstan 1972, pp. 272-273. Nella Lettera i μέντοι sicuramente attestati, quello del c. 64 e quello del c. 74 (se non fa parte dello scolio, come credo) sono avversativi. Di prosecutivi avremmo solo il nostro μέντοι del c. 60 (Thyresson p. 74), che peraltro è congetturale. 190

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(e) ἑκάτερον Usener: ἑκατέρων BPF: ἑκατέρῶν Bailey. (f) ἀντικόψῃ BPF: ἀντικόψῃ Usener | {πρὸς τὴν τοῦ πλήξαντος δύναμιν} ut glossema ad ἔξωθεν Usener. (g) καὶ BPF: οὐδὲ Huebner: {καὶ} Brieger | θάττων Z3 (editio Frobeniana): θᾶττον BPF: θάττων Usener | ῥηθήσεται BPF: οἰσθήσεται Kuehn: ρηθήσεται Brieger. (h) τῶ BP: καὶ τὸ F: τῷ Heinze. (i) {καὶ} Usener. (j) εἰ μὴ BPF: εἰ μὴ Von der Muehll: ἢ μὴ Usener: εἰ καὶ Heinze | {κατὰ τοὺς λόγῳ θεωρητοὺς χρόνους} ut glossema Usener | ante κατὰ inseruit Arnim. (a) E inoltre bisogna che gli atomi siano equiveloci quando si muovono nel vuoto senza che niente li urti; (b) poiché infatti i corpi più pesanti non si muoveranno più velocemente dei piccoli e leggeri quando almeno niente si opponga al loro moto; (c) né i piccoli più velocemente dei grandi, avendo ogni meato proporzionato, quando nemmeno questi siano urtati da alcuna cosa; (d) né (subirà differenze) il moto in alto o di lato, che avviene per gli urti, né quello in basso per il loro peso; (e) finché infatti rimarrà l’uno o l’altro dei due generi di moto il loro movimento perdurerà veloce come il pensiero (f) fino a che si incontri, o per una causa esterna, o per il proprio peso, contro l’impulso di ciò che l’ha percosso. [62] (g) Per quanto riguarda poi gli aggregati diremo che l’uno è più veloce dell’altro, pur essendo equiveloci (in assoluto) gli atomi, (h) e quelli compresi negli aggregati nel muoversi in una sola direzione (i) sia pure per il minimo di tempo continuo, (j) se non (si muovono) in una sola direzione nei tempi concepibili solo dalla mente, (k) ma si urtano spesso finché ai sensi il moto non appare continuo. (l) Quel che infatti si crede rispetto a ciò che non si vede, e cioè che anche nei tempi concepibili solo mentalmente ci sia una continuità di moto, non è vero in questo caso, (m) poiché è vera ogni cosa che si esamina con la mente o si coglie con un atto apprensivo di intuizione (Arrighetti pp. 54-56).

(a) Su κενοῦ εἰσφέρωνται già Schneider scriveva: «miror, quidni simplex φέρωνται posuerit» (1813, p. 81). E infatti il moto degli atomi è sempre un φέρεσθαι: cfr. c. 42 ἐφέρετο κατὰ τὸ ἄπειρον; 46 ἡ διὰ τοῦ κενοῦ φορά; 62 ἐφ᾿ ἕνα τόπον φέρεσθαι, ecc. (nel GE p. 227 l’occorrenza del c. 61 non è fatta rientrare in nessuno dei significati-base di εἰσφέρειν, che sono «in medium proferre» e «in questionem vocare»). Fra i pochi tentativi di spiegazione, quello di Bailey p. 216: the compound verb is undoubtedly difficult, and both Brieger and Giussani have noticed that one would expect the simple φέρωνται. The mss. however, in spite of variations, all point to the compound, and it should probably be regar-

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ded, with Giussani, as picturesque. Epicurus is thinking of the atoms plunging on into the void before the eyes of an imaginary spectator193. It is consistent with his invariable conception of thought as visualization. It is unnecessary to follow Brieger in reading εἰς φέρωνται.

Una spiegazione debole. Il prefisso andrà in qualche modo rimosso194. Penserei a ὅταν διὰ τοῦ κενοῦ εἶξ φέρωνται: «quan­do (gli atomi) si muovano a causa della cedevolezza del vuoto». Ciò peraltro metterebbe il c. 61 in linea con lo scolio che lo preannunciava: φησὶ δὲ ἐνδοτέρω καὶ ἰσοταχῶς αὐτὰς κινεῖσθαι τοῦ κενοῦ τὴν εἶξιν ὁμοίαν παρεχομένου καὶ τῇ κουφοτάτῃ καὶ τῇ βαρυτάτῃ (c. 43). Praticamente la stessa frase si legge in Sext. AM 10.223 διὰ τὴν εἶξιν φέρεται δι᾿ αὐτοῦ (sc. τοῦ κενοῦ); cfr. anche GE p. 223 s.v. εἶξις. L’errore ricorda il fr. 171 Us. = 102 Arr. = Ath. 8.354b, dove Ateneo trasmette κατὰ μικρὸν εἰς τὴν θεωρουμένην ἐξῆλθεν (la persona di cui si parla è Aristotele), corretto a ragione da Usener in ἕξ ἦλθεν per ἐξῆλθεν195. Il mio εἶξ φέρωνται ha diversi elementi a favore (non ultimo il suo basso costo, se si pensa alla possi­bile abbreviazione desi­nenziale), e ne avrebbe anche di più se εἶξιν fosse preceduto dall’ar­ticolo. Certo non sempre in Epicuro troviamo gli articoli là dove ce li aspettiamo: e.g. c. 60 τοὺς ὑπὲρ κεφαλῆς ἡμῶν τόπους (e non ὑπὲρ τῆς κεφαλῆς)196; 78 ἐν τῇ περὶ μετεώρων γνώσει (e non περὶ τῶν μετεώρων)197; Epist. Pyth. 101 καὶ κατ᾿ ἐμπερίληψιν δὲ

 Più precisamente Giussani 1896, p. 100: «è giusta l’osservazione del Brieger, che qui ci vorrebbe un φέρωνται, perché manca ogni accenno a direzione, a cui riferire εἰς; e forse così è da leggere, e così io ho tradotto [sùbito sopra, stessa pagina: «quando feruntur attraverso il vuoto»]. Ma fors’anche l’ εἰς parla alla fantasia, davanti alla quale sta l’immenso vuoto, dentro il quale si sprofondano gli atomi; come se tu dicessi: ‘cum per vacuum inferuntur’. Ciò aiuterebbe a far intendere che qui appunto si parla degli atomi liberi agitantisi nel vuoto extramondano, non degli atomi moventisi nel vuoto, il che fanno sempre». 194  Altrove (c. 76) il composto viene usato nel senso di introdurre qualcosa di nuovo, in più, in un quadro dato, introdurre come ipotesi, in linea teorica: si veda anche il fr. 361 καίτοι τῶν θεῶν κατ᾿ αὐτόν (…) πᾶσαν κηδεμονίαν ὑπὲρ τῆς σωτηρίας τῶν οἰκείων ἀγαθῶν εἰσφερομένων richiamato da Vander Waerdt 1988, p. 102. Ma naturalmente non è questo il nostro caso. 195  Correzione confermata – come osserva Sedley 1976a, p. 150 nota 14 – da Ael. VH 5.9 παρεισρυεὶς δὲ εἰς τὸν Περίπατον καὶ παρακούων τῶν λόγων, ἀμείνων πεφυκὼς πολλῶν εἶτα ἕξιν περιε­βάλετο, ἣν μετὰ ταῦτα ἐκτήσατο. 196  E sùbito dopo: ἐπὶ τὴν κεφαλήν. Giusto che manchi l’articolo nell’ ὑπὲρ κεφαλῆς precedente (τὸ ὑπὲρ κεφαλῆς, ὅθεν ἂν στῶμεν κτλ.). 197  Come al c. 82 ὑπὲρ μετεώρων; ma non così al c. 80 ὑπὲρ τῶν μετεώρων. 193

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τοῦ ἀπὸ τῶν ἄστρων κατεσπαρμένου φωτός (e non κατὰ τὴν ἐμπερίληψιν); 115 κατὰ συγκύρημα τοῦ καιροῦ (e non κατὰ τὸ συγκύρημα), ecc., ma ricono­sco di non aver trovato un caso perfettamente analogo. Si consideri comunque che da διὰ τὴν τοῦ κενοῦ εἶξιν o non si sareb­be formato εἰσφέρωνται o, una volta formatosi, il τήν sarebbe stato per forza di cose eliminato. (b) Qualcosa non va in θᾶττον. È illogico dire che gli atomi pesanti non si muovono più velocemente dei lievi o v e n o n i n c o n t r i n o o s t a c o l i . Il non incontrare ostacoli non può rallentare i βαρέα. E illogica è, per forza di cose, anche la frase (c), dove πάντα πόρον σύμμετρον ἔχοντα è una causale ed è messa lì come fattore che favorisce – non limita – la velocità. Quindi non sarà θᾶττον che Epicuro ha scritto, ma ἧττον: «i pesanti non si muoveranno meno dei leggeri» ecc. (d) In luogo di οὔθ᾿ ἡ κάτω διὰ τῶν ἰδίων βαρῶν si legga ἢ ἡ κάτω διὰ τῶν ἰδίων βαρῶν198: il movimento verso l’alto e il movimento obliquo non sono meno veloci (φέρονται ἧττον) di quello verso il basso. Solo in questo modo si spiega l’ ἑκάτερον (o ἑκατέρων) di (e). (f) Senza il τι supplito da Usener, ἀντικόψῃ non avrebbe soggetto. E tuttavia lo stesso Usener, non riuscendo a far rientrare πρὸς τὴν τοῦ πλήξαντος δύναμιν nel costrutto, era necessitato a farne una glossa199. Ma come spiegare il resto? Bene l’ ἀντικοπή che viene da fuori (ἔξωθεν), però che ha a che fare l’ ἀντικοπή con il «proprio peso»? Ne dovremmo dedurre che ἀντικόψῃ ha un legame più stretto con ἔξωθεν, più blando con ἐκ τοῦ ἰδίου βάρους. Perché allora due disgiuntive? Scrivendo ἀντικόψῃ ἔξωθεν ἢ ἐκ τοῦ ἰδίου βάρους sarebbe stato assai più facile capire che ἀντικόψῃ non si applica – o si applica impropriamente, per trascina­men­to – anche al secondo membro. Io più semplicemente muterei δύναμιν in δύναμις e leggerei ἕως ἀντικόψῃ ἡ ἔξωθεν ἢ ἐκ τοῦ ἰδίου βάρους πρὸς τὴν τοῦ πλήξαντος δύναμις: «finché la forza (contraria), vuoi proveniente dall’esterno vuoi (dovuta) al proprio peso, non compensi la (forza) di ciò che ha inferto il colpo»200.  Un errore inverso è attestato al c. 69 οὔτε ὅλως BP: ἢ ὅλως F.  La Alfano Caranci (1984, p. 59) può dire che «il termine δύναμις, nel senso (…) di vis, non è attestato né nelle Epistole né nei libri XIV e XV del Περὶ φύσεως» evidentemente perché accoglie l’espunzione di Usener. 200  Non ritengo possibile mantenere δύναμιν sottintendendo δύναμις a ἡ. Non è risparmio quello che si lucra a danno della chiarezza. Riprendo da Usener, ovviamente respingendo . 198

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(g)-(k) Scrive F. Verde che nel c. 62 «Epicuro mette in luce come negli aggregati gli atomi, sebbene siano stretti e coesi, continuino a collidere fra loro, pertanto il loro movimento non risulterà equiveloce ma, a seconda degli urti subiti, un atomo risulterà più o meno veloce dell’altro» (p. 183). In verità gli atomi dovrebbero essere equiveloci anche all’interno degli aggregati (come può «il loro movimento non risult[are] equiveloce» se Epicuro medesimo ha detto chiaro e tondo τῶν ἀτόμων ἰσοταχῶν οὐσῶν?): la differenza fra l’atomofuori e l’atomo-dentro è che quest’ultimo, per via che subisce molti più urti, non percorre le stesse distanze negli stessi tempi. Che è tutt’altro discorso. Propriamente dunque non esiste alcuna «varietà cinetica degli atomi all’interno dell’aggregato» (Verde p. 183). Ciò che varia è la quantità degli urti, sporadici nello spazio libero, continui all’in­ter­no delle συγκρίσεις201. Quanto al resto, rinuncio ad afferrare il senso di ὁ ἐλάχιστος συνεχὴς χρόνος (che chiamerò X) e di οἱ λόγῳ θεωρητοὶ χρόνοι (che chiamerò Y)202, ma credo che l’argomentazione generale sia questa: la φορά dei composti è diversa da caso a caso203 perché gli atomi di cui i composti sono costituiti o (1) vanno tutti nella stessa direzione secondo X, o (2) vanno in direzioni diverse secondo Y 204. In X e Y vedrei dei fattori di compensazione e limitazione. Se gli atomi di un composto andassero tutti ἐφ᾿ ἕνα τόπον, il composto viaggerebbe alla stessa velocità degli atomi solitari. Ma la situazione è corretta da X. Se viceversa gli atomi di un composto andassero tutti μὴ ἐφ᾿ ἕνα τόπον, il composto resterebbe immobile. Ma la situazione è corretta da Y. La struttura dilemmatica mi sembra palese; pertanto occorrerà mutare, con Usener, εἰ μὴ ἐφ᾿ ἕνα in ἢ μὴ ἐφ᾿ ἕνα. Nonostante il buio fitto su X e Y, dò questo ritocco per molto probabile205. (l) Verde p. 51: «ciò che infatti si opina in aggiunta rispetto a quanto non sia visibile, ossia che effettivamente anche i tempi os­servabili con la ragione

 Sul passo si veda anche Verde 2009, pp. 208-209 e passim.   È ovviamente escluso (questa è l’unica certezza che abbiamo) che λόγος possa essere tradotto con «discorso» (così Lechi 1845, p. 378; e cfr. p. 372 sul c. 47). 203  Secondo me ἑτέρα ἑτέρας e ῥηθήσεται si riferiscono alla velocità, non direttamente agli aggregati come ritiene Verde (p. 49: «riguardo agli aggregati, si dirà che gli uni sono più veloci degli altri»), anche se concettual­mente poco cambia. 204  In questo secondo caso le spinte sono più di una, ma una finisce per prevalere e l’aggregato si muove, di un movimento che all’occhio umano appare lineare, e non ‘a scatti’ come è in realtà. 205  Giussani 1896 dice (a p. 109) e ripete (a p. 111) di non intenderlo. L’onestà dello studioso è come al solito ammirevole. 201

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possie­dano la continuità del movi­men­to, non è vero rispetto ad essi; poiché è vero tutto ciò che si os­serva o si comprende sulla base dell’applicazione grazie al pensiero». Ef­fettivamente, molto usato da Verde, qui non va benissimo: ὡς ἄρα introduce un dub­bio, una riserva (Thyresson p. 28). Meglio sarebbe stato forse. Altro rilievo: uno si aspetta che anche i «tempi osservabili con la ragione» abbiano la continuità del movimento. Ma ciò non è vero ἐπὶ τῶν τοιούτων, che identificherei con gli aggregati. (m) Il senso sembra oppositivo. Uno si aspetta, per analogia, che una certa cosa sia vera; ma il vero non è ciò che uno si aspetta: vere sono due cose, o ciò che uno vede o ciò che uno deduce con il ragionamento. Arrighetti va vicino a cogliere il punto, ma bisogna aggiungere «solo» (con questa aggiunta potrebbe andare bene anche la traduzione di Verde). 63 (a) μετὰ δὲ ταῦτα δεῖ συνορᾶν ἀναφέροντα ἐπὶ τὰς αἰσθήσεις καὶ τὰ πάθη – οὕτω γὰρ ἡ βεβαιοτάτη πίστις ἔσται – ὅτι ἡ ψυχὴ σῶμά ἐστι λεπτομερές, παρ᾿ ὅλον τὸ ἄθροισμα παρεσπαρμένον, (b) προσεμφε­ρέ­στα­­τον δὲ πνεύματι, θερμοῦ τινα κρᾶσιν ἔχοντι καὶ πῇ μὲν τούτῳ προ­σεμ­φε­ρές, πῇ δὲ τούτῳ. (c) ἔστι δέ τι μέρος πολλὴν παραλλαγὴν εἰληφὸς τῇ λεπ­τομερείᾳ καὶ αὐτῶν τούτων, (d) συμπαθὲς διὰ τοῦτο μᾶλλον καὶ τῷ λοι­πῷ ἀθροίσματι. (e) τοῦτο δὲ πᾶν αἱ δυνάμεις τῆς ψυχῆς δηλοῦσι καὶ τὰ πάθη καὶ αἱ εὐκινησίαι καὶ αἱ διανοήσεις καὶ ὧν στερόμενοι θνῄσκο­μεν. (c) ἔστι δέ τι μέρος Woltjer: ἔστι δὲ τὸ μέρος BPFΦ: ἐπὶ δὲ τοῦ μέρους Usener: ἔτι δὲ τὸ μέρος Leopold: ἔστι δὲ τὸ μέρος Diels. (d) συμπαθὲς διὰ τοῦτο Arrighetti206: συμπαθὲς δὲ τούτῳ BPF: συμπαθὲς δὲ τοῦτο dubitanter Schneider | καὶ BPF: ἢ Φ (con. K. F. Her­mann). (e) δηλοῦσι (Aldobrandinus), Gassendi: δῆλον BPF: δηλονότι Φ: δῆλον Brieger: ἐδήλουν Leopold. (a) Dopo di ciò, facendo riferimento alle sensazioni e alle affezioni – perché così si avrà la più fondata persuasione – bisogna credere che l’anima è un corpo sottile, sparso per tutto l’organismo, (b) assai simile all’elemento ventoso e avente una certa mescolanza di calore, e in qualche modo somigliante

 Arrighetti stampa la lezione di Schneider (1813, p. 82), o meglio ipotizzata da Schneider («haud scio an τούτῳ sit pro διὰ τοῦτο»), che però non è questa; si veda subito dopo, stesso item. 206

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all’uno, in qualche modo all’altro. (c) C’è poi una parte che per la sottigliezza si differenzia nettamente anche da questi, (d) e per ciò più adatta a subire modificazioni insieme al rimanente dell’organismo. (e) Tutto ciò è provato dalle facoltà dell’anima e dalle affezioni dai moti e dai pensieri e da tutto ciò la cui privazione è causa per noi di morte (Arrighetti p. 56).

(a)-(d) La ψυχολογία epicurea (con ciò intendendo Epicuro e successo­ri) ammette tre tipi di partizione dell’anima. Vediamoli breve­mente. Il primo riguarda il λογικόν e l’ ἄλογον (scolio al c. 66 = 311 Us.; Aet. 4.4.6 = 312 Us.), che coincidono, almeno in certa misura, con la coppia animus/ anima lungamente discussa da Lucrezio nel libro III207. Il secondo tipo riguarda gli elementi. Varie fonti attestano che a parere di Epicuro l’anima è una somma di quattro componenti (Plut. Adv. Col. 1118D = 314 Us.; Aet. 4.3.11 = 315 Us., ecc.), di cui i primi tre confrontabili con pneuma, fuoco e aria (non nel senso che s o n o f a t t i di questi elementi, ma nel senso che ne ricordano le proprietà: Balaudé 2002, pp. 8-9). Il quarto componente, respon­sa­bile dell’ αἴσθησις, è privo di nome in quanto non ha corrispettivo in natura (Annas 1992, p. 139): le fonti greche lo definiscono ἀκατο­νόμαστον, Lucrezio quarta natura (3.241)208. Il terzo tipo di partizione riguarda l’aggregato, l’insieme di corpo e anima – che in realtà è anch’essa un corpo. Tre sono anche le proposte disponibili su ἔστι δὲ τὸ μέρος κτλ. Prima ipotesi, connessa con λογικόν/ἄλογον: possiamo escluderla sùbito, poiché questi paragrafi della Lettera si concentrano totalmente sulle funzioni ‘basse’ della ψυχή, in particolare l’ αἴσθησις. Che τὸ μέρος non abbia a che fare né con il λογικόν né con l’animus, né con la risultante della loro parziale o totale sovrapposizione, dimostra il prosieguo immediato della frase, da cui si apprende che questo μέρος, qualunque cosa sia, è diffuso per tutto l’ ἄθροισμα. Ma solo l’ ἄλογον-anima ha questa caratteristica, mentre il λογικόν-animus è localizzato

 Su λογικόν/animus e ἄλογον/anima cfr. Lathière 1972, pp. 125 sgg., e più recentemente Mehl 1999, pp. 274 sgg., e Konstan 2013, pp. 202-203. Per animus e anima in Lucrezio si vedano in particolare Giussani 1896, pp. 190 sgg.; Boyancé 1958, pp. 32 sgg.; Rist 1978, pp. 75 sgg.; Erler 1994, pp. 147-148; Konstan 2007a, pp. 21 sgg. (soprattutto 26 sgg.); Repici 2008, pp. 384 sgg., e molto in sintesi Gill 2009, pp. 131-132. 208  Sull’identificazione dell’ ἀκατο­νόμα­στον con il λογικόν insediato nel petto si vedano gli opposti pareri di Isnardi Parente (pp. 38-39) e di Gigon (1986, p. 85). Secondo alcuni l’ ἀκατονόμαστον è presente solo nell’animus; secondo altri, che sono i più, è presente nell’intera anima (Giussani 1896, pp. 190-191; Bailey 1928, pp. 580 sgg.; Westman 1955, p. 160). 207

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in una sede determinata (il petto: si veda di nuovo lo scolio al c. 66 = 311 Us.; Aet. 4.4.6 = 312 Us.). Insomma, per quanto la cosa possa sorprendere (Annas 1992, p. 144), non esiste nella Lettera una suddivisione λογικόν/ἄλογον. Seconda ipotesi, fondata sui quattro componenti. Risale per quanto ne so a Ignazio Rossi, che identificò τὸ μέρος con l’ ἀκατο­νόμαστον (1788, p. 303). Quasi un secolo dopo Jan Woltjer accolse questa teoria, ma si rese conto che essa poteva funzionare solo con la correzione τι μέρος (1877, p. 61). Lo studioso sbagliava per difetto, perché, come nel frattempo aveva fatto osservare lo Schneider, il τι al posto del τό non basta: occorre anche un καί209, e possibilmente, aggiungo io, un αὐτῆς (sc. τῆς ψυχῆς). Queste sono le condizioni minime (al netto della looseness epicurea) perché l’ipotesi ‘ele­ mentare’ possa costruir­si su un greco credibile. Ma ecco come gli studiosi traducono e interpretano il delicato nesso (i corsivi sono miei): – Zevort 1847, p. 276: «il existe en elle une partie spéciale»; – Bailey p. 39: «there is also the part»; – Gigante 1962, p. 422: «vi è poi una parte»210; – De Falco 1963, p. 58: «vi è poi quella parte»; – Geer 1964, p. 23: «but there is also a part»; – Massa Positano 1969, p. 39: «vi è poi ancora una parte»; – Isnardi Parente p. 170: «e c’è poi in essa una parte»; – Krautz 1980, p. 25: «es gibt auch noch einen bestimmten Teil»; – James 1989, p. 55: «there is a portion also»; – Jürß p. 478: «es gibt aber noch einen Teil»; – Reale 2005, p. 1219: «e c’è pure una certa parte»; – Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin 2010, p. 23: «il y a aussi une partie»; – Maso 1990, p. 49: «c’è poi una parte [ulteriore]»211;

 Schneider 1813, p. 85: «ἔστι δὲ καί τι μέρος, i.e. est etiam alia pars». Stesso obiettivo per­se­g ui­va Leopold 1951, p. 274: «ἔτι δὲ τὸ μέρος i.e. et partim etiam»; ἔτι e καί aggiungono, ma non allo stesso modo. Qui serve καί. Perché non c’è? Secondo Long e Sedley le ragioni sono anche stilistiche: «the καί before αὐτῶν already carries much of the same force, so that an additional καί would have read oddly» (II, p. 66). La loro traduzione è: «but there is that part which differs greatly also from wind and heat themselves in its fineness of structure» (II, p. 65). 210  Il Gigante accoglie l’integrazione di H. Diels. Così prima di lui Kochalsky p. 69 e dopo di lui Balmuş 1963, pp. 481 e 789 nota 202; Inwood – Gerson 1994, p. 13; Rapp 2010, p. 56. 211  Maso segue Arrighetti. Di suo c’è solo la parola in parentesi. 209

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– Giovacchini 2008, p. 58: «mais il y a cette partie»; – Morel 2011, p. 71: «il y a aussi une partie». Le soluzioni di Bailey, De Falco, Balaudé e Giovacchini potrebbero andare bene se ci fosse (ma non c’è) un articolo anche davanti a εἰληφός (non hanno bisogno di con­frontarsi con gli articoli, per loro fortuna, i traduttori latini, dal Traversari al Tesca­ri: «cui [sc. animae] pars insit», 1907, p. 184). Ciò che è inaccettabile nella gran parte di queste traduzioni è il fatto di utilizzare il τι e il καί senza accoglierli nel testo. Un po’ come abbiamo visto succedere al c. 59 per συμφόρησιν δὲ ἐκ τούτων κτλ. Altro problema dell’ipotesi di Rossi/Woltjer è che gli elementi menzionati da Epicuro sono solo tre, non quattro. Che fine ha fatto l’ ἀήρ? Ed è davvero l’ ἀήρ l’elemento che manca? Io dico che potrebbe essere anche l’ ἀκατονόμαστον; non perché sia il meno importante, ma al contrario proprio per la sua posizione di rilievo (Annas 1992, p. 138), che in qualche modo lo isola. Cosicché più che di quattro Seelenteile dovremmo parlare di tre più uno, come fa anche Lucrezio: 3.237 iam triplex animi est igitur natura reperta; 3.241-242 quarta quoque his igitur quaedam natura necessest | adtribua­tur 212. Terza ipotesi, basata sulla sottodistinzione dell’aggregato. Anche qui si cozza con un problema linguistico: poiché il μέρος è μέρος dell’aggregato e quindi consiste in pratica nell’intero della g i à m e n z i o n a t a ψυχή, ciò che occorre al punto (c) non è τὸ μέρος, ma τοῦτο τὸ μέρος213. E di nuovo ci tro-

 Il problema dell’elemento mancante non ha appassionato i moderni: Bailey p. 226; Jürß p. 562 nota 68; Everson 1999, p. 545 nota 6, ecc.; imprecisa la Masi (2006, p. 64), la quale parla di «fuoco», parola che Epicuro non utilizza, e che non è un sinonimo di calore. Secondo il Diano (1939, pp. 105-106), Epicuro ometteva l’ ἀήρ nella convinzione che il pubblico completasse il quadro da sé. Purtroppo noi lettori lontani restiamo nel dubbio se l’ ἀήρ faccia tutt’uno con il calore (così lo stesso Diano 1939, p. 106) o con lo pneuma (così di solito gli altri commentatori, come Long – Sedley II, pp. 66 e 69, e, fra i non commentatori, Sharples 1980, p. 118). Si ponevano invece il problema gli studiosi dei secoli andati, come Rossi, Schneider, e appunto Woltjer, che scriveva: «vix porro credere possum Epicurum hic tres animi partes tantum enumerare (…). Aeris elementum deest» (1877, p. 63), e su questa base inseriva la menzione dell’ ἀήρ, con modifiche pesanti: «legamus igitur: προσεμφερέστατον δὲ πνεύματι θερμοῦ τινα κρᾶσιν ἔχοντι καὶ ἀέρος πῇ μὲν τούτῳ προσεμφεροῦς πῇ δ᾿ ἐκείνῳ. ἔστι δέ τι μέρος κτλ.». 213   Verde p. 194 osserva che la distinzione introdotta dallo scolio al c. 66 non trova riscontro nella Lettera, a meno che al c. 63 non si legga τι μέρος con Woltjer in luogo del tràdito τὸ μέρος. In realtà, da questo punto di vista, accogliere l’una o l’altra soluzione non fa differenza. La differenza, nel senso voluto da Verde, la farebbe – appunto – solo τοῦτο τὸ μέρος. 212

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viamo di fronte a pronomi o avverbi utilizzati nelle traduzioni ma non accolti nel testo greco. Istruttivo è poi il caso di G. B. Kerferd, che in un articolo del 1971, Epicurus’ doctrine of the soul (Kerferd 2003 [1971]), si schierava – benché con alcuni importanti distinguo – a favore dell’identificazione μέρος/ψυ­χή. Ciò che colpisce, in que­sto pur lucido e intelligente articolo, è che Kerferd co­glie le magagne linguistiche che indeboliscono l’ipotesi-Woltjer (man­ canza di καί) (cfr. Kerferd 1971, p. 94), ma non quelle che inde­bo­liscono la sua (mancanza di τοῦτο). Giunto a proporre una propria traduzione, egli fa in modo di co­min­ciarla dopo (!) τὸ μέρος, con ciò evitando di prendere posizione sull’unico termine decisivo per la tenuta della sua esegesi. Così testualmente: «what we are concerned with is a μέρος – and I now trans­late – “which has acqui­red great mobili­t y…”» ecc. (1971, p. 93 = 2003, p. 276). Con tutto il rispet­to, si tratta di una vera birichinata. D’altronde, seguendo Kerferd e il tràdito, le alternative sono ancora due: o si rinuncia a tradurre, come appunto fa Kerferd, oppure si interpo­la, come fa per esempio Gill: «but [psyche] is the part [of the whole aggregate] which differs greatly also from wind» (2009, p. 126)214. Ci sarebbe, volendo, anche una quarta ipotesi, quella che emerge dalla traduzione di Hamelin: «quant à ses parties, elles l’emportent de beaucoup en subtilité sur le souffle et la chaleur mêmes» (1910, p. 410). Come si vede, Hamelin trasforma μέρος nel plurale «parti» e intende queste «parti» come «atomi». Ecco un ulteriore inquietante esempio (solo in parte perdonabile per il fatto che Hamelin non era un filologo) delle libertà che ci si è potuti prendere con il greco di Epicuro. Tirando le somme, io credo che non ci sia modo di inserire sensatamente il concetto di μέρος all’interno della dottrina psichica per come è trattata nel c. 63 della Lettera. Anche nel resto della letteratura epicurea l’impressione è che la parola μέρος sia usata per individuare una funzione piuttosto che per indicare le articolazioni interne dell’anima215. Lo stesso Lucrezio definisce l’ ἀκατονόμαστον come natura (3.241, 3.273) o come vis (3.279), ma non come pars 216.  E, meno pesantemente, «tale parte a causa della sottigliezza è molto differente» (Verde p. 51). Lo Heinze (1897, pp. 34-35) evidenzia graficamente i dubbi (sia nel testo sia nella traduzione il μέρος-Satz è messo in spaziatura e fatto seguire da punto interrogativo) e poi spiega il passo come se questi dubbi non esistessero. 215  Cfr. il fr. 313 Us. τὸ λογιζόμενον μέρος. Non so, ma non credo, che le cose stiano diversa­mente per Diog. Oen. 37 iii 9-10 Smith τὸ ψυχικὸν (…) μέρος (= 37 iii 9-10 Chilton = 47 iii 9-10 Casanova). 216  Altro discorso per Lucr. 3.94-97, dove l’anima è definita «parte dell’uomo al pari della mano e del piede» non per dire che ha una forma sua, ma per dire che 214

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Di questa situazione si accorse evidentemente anche lo Usener, che stampò ἐπὶ δὲ τοῦ μέρους al posto di ἔστι δὲ τὸ μέρος; una correzione poco o pochissimo chiara217, ma che certo non nac­que – come gli imputò puerilmente il Bailey – dal non aver capìto «the introduction here of the ‘nameless’ element»218. Per quanto mi riguarda, non escluderei un testo così fatto: ἔστι δὲ τοῦ ἀέρος πολλὴν παραλλαγὴν εἰληφός, τῇ λεπ­τομερείᾳ καὶ αὐτῶν τούτων, «l’anima è un corpo sottile (…) ora simile allo pneuma, ora simile al calore. Ed ha proprietà molto superiori a quelle dell’aria, e, quanto a sottigliezza, anche a quelle dei due elementi appena menzionati»219. Su questa linea già Crönert (1906b, p. 415), che a un tempo integra e corregge: πῇ μὲν τούτῳ προσεμφερές, πῇ δὲ τούτῳ, . ἔστι δὲ καὶ τέταρτον μέρος; ma di nuovo siamo alla riscrittura, come nel caso di Woltjer. Nell’immaginario antico (e non solo) l’anima era concepita come aria, e avendo appena parlato di pneuma, Epicuro mostra di accettare la forma-base di questa doxa; ma al contempo ne prende le distanze, affermando che gli

ha natura materiale. Quanto a 3.143 cetera pars animae (passo analizzato da Mehl 1999, pp. 276-277), il nesso serve a indicare la funzione. 217  E non chiarita neppure nel Glossarium, dove oltretutto compare come lezione tràdita e non congetturale (GE p. 405 s.v. λεπτομέρεια e p. 427 s.v. μέρος). 218  Il Giussani respinge l’«arbitrario» ἐπὶ δὲ τοῦ μέρους senza tentarne interpretazioni (1896, pp. 186-187 e 209). La Repici intende: «l’anima è un corpo dalle parti sottili disseminato per tutto l’aggregato, assai somigliante a pneuma avente una mescolanza di calore e somigliante in certo modo a questo, in certo modo a quello, ma in parte ha assunto una grande differenza» ecc.: vale a dire che Epicuro, «dopo aver stabilito i tratti della somiglianza dell’anima con calore e pneuma, procederebbe ora a lumeggiare la parziale differenza che li divide» (2008, p. 389 nota 17). Non saprei ricostruire i ragionamenti di Usener, ma giudico improbabile che fossero questi, e nego senz’altro che ἐπὶ μέρους possa significare «in parte». 219   Παραλλαγή non significa solo «mutamento, variazione», come pro domo sua sostiene Kerferd (1971, p. 93), bensì anche «superiorità» (cfr. e.g. Usener p. 378: «corpore tenuissimo […] vel hanc superante»; Annas 1992, p. 138); e visto che «avere (o prendere) una παραλλαγή» equivale a παραλλάττειν (così giustamente Long – Sedley II, p. 66), che a sua volta equivale a διαφέρειν, «differire in meglio», ciò spiega anche il genitivo di paragone: Plat. Leg. 957b ὅσα παραλλάττει τῶν (…) ἐν ταῖς ἄλλαις πόλεσι δικαίων; Diog. Laert. 8.78 = AP 7.125.1 εἴ τι παραλλάσσει φαέθων μέγας ἅλιος ἄστρων. Quindi non è vero che παραλλαγή richieda sempre πρός + accusativo (Kerferd 1971, p. 93). Panoramica sul termine in De Lacy 2003 (1969), pp. 204-205.

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atomi psichici hanno proprietà molto superiori a quelle della semplice aria. Epicuro parlerebbe così di anima tutta quanta, come vorrebbe Kerferd, ma senza chiamarla μέρος, termine affatto inappropriato in questo contesto e in questa discussione220; menzionerebbe lo πνεῦμα, il calore e l’aria, ma più come punti di riferimento e di confronto che come rigidi elementi di una teoria già formalizzata, tale quale essa emerge dalle testimonianze più tarde. E, infine, nulla direbbe dell’ ἀκατο­νόμαστον, che fu probabilmente, come il clinamen, come la πρόληψις, come l’ ἐπιλογισμός, una conquista successiva del suo pensiero221. Scambi come quello da me supposto sono attestati: cfr. Theophr. De igne 50 ἀέρος vs. μέρους; Herm. In Plat. Phaedr. 3.244 (256.31 Lucarini – Moreschini) ἀέρος (Ast) vs. μέρος222. (e) Nessun dubbio che δῆλον sia ciò che resta di un verbo o di una circonlo­ cu­zio­ne verbale223. Ma δηλοῦσι, ἐδήλουν o δῆλον mi sembrano inter-

  È notevole come anche lo scolio al c. 66 eviti di parlare di μέρη dell’anima quando l’oggetto del discutere è la diversità delle sue funzioni. «La parola ‘parte’, dobbiamo notare, non c’è nel testo greco di questa frase. È una traduzione opportuna, ma è importante ricordare che una traduzione letterale parlerebbe di ‘qualcosa di irrazionale’, e del ‘razionale’. Qui non vi è nulla a sostegno di nessuna idea secondo la quale le due ‘parti’ siano composte di elementi atomici differenti» (Rist 1978, p. 80). In altro modo sembra aver inteso Usener, che in GE p. 652 s.v. σῶμα parafrasa così: τὸ μέν τι ἄλογον αὐτῆς (ψυχῆς μέρος) κτλ. 221  Cfr. Sedley 1973, p. 14; 1976b, pp. 45-46 nota 73. La tesi di Sedley, secondo cui la Lettera è un’opera giovanile, è in genere condivisa; cfr. e.g. Verde p. 65; Verde 2013a, pp. 14, 109, 114 nota 18; Corti 2014, p. 62, ecc. Di opposta opinione Steckel (1968, col. 612) e Arrighetti (1975, p. 45), che datano la lettera a qualche anno dopo l’insediamento di Epicuro ad Atene (secondo Arrighetti si può scendere fino al 295 o 290). Per una rassegna delle possibili motivazioni del silenzio sul clinamen cfr. Duvernoy 2005, p. 66; interessante l’ipotesi di Verde 2013b, p. 142. Ma, se è vero che non si trovano tracce di clinamen nella Lettera, non è vero che non se ne trovano altrove nell’opera epicurea superstite. Hammerstaedt 2003 ha dimostrato – stringentemente a mio parere – che elementi di questa dottrina si ravvisano nel libro XXV del Περὶ φύσεως. 222  Il secondo caso è meno significativo dell’altro non perché non sia sicuro il restauro di Ast (siamo all’interno di una citazione da Plat. Tim. 42e-43a dove solo ἀέρος dà senso), ma perché oltre alla somiglianza grafica va considerata l’influenza di μέρος che segue a breve distanza. 223  Naturalmente Bollack – Bollack – Wismann (1971, p. 125 e p. 219 nota 5), come sempre fedeli al tràdito, non concordano neppure su questo. Ma l’ipotesi che 220

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venti pesanti e sgraziati224. Meno invasiva, ancorché duplice, una correzione come τοῦτο δὲ κἂν αἱ δυνάμεις τῆς ψυχῆς δηλοῖεν καὶ τὰ πάθη κτλ.: «ciò possono provare anche le facoltà dell’ani­ma» ecc. Si tenga presente che «tutto questo» in greco si dice ταῦτα πάντα, non altrettanto bene τὸ πᾶν225 o τοῦτο πᾶν226. (e) Verde p. 190 parafrasa: di ciò abbiamo conferma diretta – si noti l’impiego del verbo «mostrare» (deloo) – dalle «potenze» o facoltà dell’anima (dynameis tes psyches), dalle affezioni (pathe), dai corretti (alla lettera: «buoni») movimenti della mente (eukinesiai) e dai pensieri (dianoeseis), privati dei quali moriamo. Sono quindi le stesse attività dell’anima – del tutto essenziali alla vita dell’individuo – a mostrare direttamente la sua esistenza e la sua diffusione capillare e omogenea.

E ancora, a p. 195: al paragrafo 63, la diffusione dell’anima [viene] mostrata (deloo) sulla base delle affezioni, dei buoni movimenti della mente e dei pensieri.

Non concordo con «buoni movimenti» o «corretti movimenti» (nesso usato anche a p. 51, nella traduzione): direi piuttosto che l’ εὐκινησία indica, in senso prestazionistico e non etico, la facilità e fulmineità con cui l’anima si muove, agisce, risponde agli stimoli. Quanto alla «diffusione capillare e omogenea», essa si potrà predicare dell’anima nell’insieme, ma non per tutte le

il tràdito sia sano non è esclusa neppure dalla Repici. Secondo la studiosa (che fornisce del passo un’analisi grammaticale a dir poco eccentrica), mantenendo δῆλον «la resa di 63, 8-10 diventa: “tutto ciò invero è manifesto le facoltà dell’anima e le affezioni e le facilità dei moti e pensieri e quelle cose privi delle quali moriamo”. In questo caso, le facoltà dell’anima diventano c o m p l e m e n t o o g g e t t o (“tutto ciò” che è stato detto rende manifesta l’esistenza delle facoltà individuate), nel testo corretto invece le facoltà dell’anima sono il soggetto della proposizione» (2008, p. 391 nota 20: spaziato mio). 224  Sul tipo δῆλον/ἐδήλουν cfr. sopra, c. 37 (c). 225   «Il tutto» come formula riassuntiva è normale in poesia (e.g. Aesch. Prom. 456-457 τὸ πᾶν | ἔπρασσον), mentre per la prosa conviene diffidare: cfr. e.g. Plut. QC 658C τῇ δὲ ποσότητι καὶ τῷ μᾶλλον καὶ ἧττον τῆς θερμασίας κρίνειν τὸ σύμπαν οὐ δεῖ, «ma non bisogna giudicare il tutto in base alla quantità e all’intensità del riscaldamento», con il sensato suggerimento di Madvig: τὸ συμβάν, «l’acca­duto» (per un’analoga correzione σύμπασαν > συμβᾶσαν, dovuta agli stessi motivi, cfr. Lapini 1999). 226  Si intenda: quando πᾶν è meramente espletivo, cioè quando potrebbe anche non esserci. Come appunto nel nostro caso.

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sue δυνάμεις: è ovvio che non troveremo διανοήσεις nella schiena o nei piedi. Si noti ancora che, rispetto alla traduzione di p. 51, la parafrasi-traduzione di p. 190 omette il fondamentale καὶ ὧν, senza il quale le assenze di πάθη, di εὐκινησίαι e di διανοήσεις diventano assurdamente cause di morte. 64 τὸ δὲ λοιπὸν ἄθροισμα παρασκευάσαν ἐκείνῃ τὴν αἰτίαν ταύτην μετείληφε καὶ αὐτὸ τοιούτου συμπτώματος παρ᾿ ἐκείνης, οὐ μέντοι πάντων ὧν ἐκείνη κέκτηται· διὸ ἀπαλλαγείσης τῆς ψυχῆς οὐκ ἔχει τὴν αἴσθησιν. οὐ γὰρ αὐτὸ ἐν ἑαυτῷ ταύτην ἐκέκτητο τὴν δύναμιν, ἀλλ᾿ ἑτέρῳ ἅμα συγγεγενημένῳ αὐτῷ παρεσκεύαζεν, ὃ διὰ τῆς συντελεσθείσης περὶ αὐτὸ δυνάμεως κατὰ τὴν κίνη­σιν σύμπτωμα αἰσθητικὸν εὐθὺς ἀποτελοῦν ἑαυτῷ ἀπεδίδου κατὰ τὴν ὁμού­ρησιν καὶ συμπάθειαν καὶ ἐκείνῳ, καθάπερ εἶπον. Non l’avrebbe invero [sc. la sensazione] se non fosse in qualche modo contenuta nel restante organismo; il quale facendo sì che nell’anima risieda questa causa, partecipa poi dal canto suo di tale quantità accidentale grazie all’anima, non però di tutte quelle che di essa sono proprie; per cui separato dall’anima non ha più sensazione, perché non ha tale potere in se stesso, ma lo procura a qualcos’altro con esso generatosi, e questo qualcos’altro, attuatasi nel corpo tale possibilità (di sentire) secondo il moto, produce dapprima il fenomeno della sensazione per sé, la trasmette poi (anche al corpo) per il contatto e il consentimento, così come ho detto prima (Arrighetti pp. 56-58).

Il succo del labirintico discorso è che il corpo permette all’anima di essere causa di sensazione; così facendo, il corpo stesso partecipa – grazie all’anima – della sensazione. Se l’anima se ne va, anche la sensazione cessa. Purtroppo il testo non dice «partecipare dell’ αἴσθησις», ma «partecipare del σύμπτωμα», e siccome altrove Epicuro parla di σύμπτωμα unitamente al συμβε­βηκός, trattando l’uno e l’altro come termini complementari e tecnici, F. Verde si domanda per quale motivo la sensazione sia stata fatta rientrare fra gli accidenti e non fra le proprietà (pp. 190-192; e cfr. p. 197). La domanda, credo, andrebbe riformulata. Nel passo riportato qui sopra è evidente che la scansione diacronica è meramente finalizzata a facilitare l’esposizione: il corpo dà, l’anima restituisce; ma, in questo dare e restituire, il prima e il dopo hanno valore logico e non realmente cronologico. Epicuro afferma che quando l’ ἄθροισμα viene ad ospitare al suo interno la ψυχή, accade che quest’ultima sviluppi la capacità dell’ αἴσθησις. Ciò di cui si parla è dunque un accadimento, un risultato, una cosa che si produce, un effetto, un fenomeno. La questione se la sensazione sia accidente o proprietà è fuori quadro qui; come pure è fuori

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quadro nella parte finale del c. 67, dove il termine σύμπτωμα ricompare, al plurale stavolta, ma sempre in rapporto alle facoltà dell’anima. I συμπτώματα in questo caso sono il ποιεῖν e il πάσχειν. Il principio generale è che una parola che venga usata spesso o spessissimo in coppia con un’altra non perde la possibilità di essere usata in modo autonomo; e che una parola che venga usata spesso o per lo più in senso tecnico non perde la possibilità di essere usata in senso non tecnico. Se non si tiene presente questa semplice norma di buon senso è inevitabile cadere nella forzatura, nell’iperfiloso­f iz­zazione, nella sterile escussione di problemi fasulli. Nella Lettera Epicuro ricorre largamente ai termini tecnici e li tecnicizza lui stesso, ma sfrutta altrettanto largamente la libertà di mescolare un uso con l’altro. Si pensi ai cc. 69-71: qui l’opposizione fra συμβεβηκότα e συμπτώματα ha effettivamente carattere tecnico; eppure nel συμπίπτει del c. 70 e nel συμβαίνοντα del c. 71 Epicuro ci ricorda q u a s i c o n i n t e n z i o n e che il σύμπτωμα e il συμβεβηκός, stringi stringi, altro non sono che «ciò che càpita» e «ciò che va insieme a un’altra cosa». Anche in questo, Usener vedeva giusto: cfr. GE p. 622 s.v. συμβεβηκός: «proprie quod rei ita coniunctum est ut sine eo cogitari nequeat. (…) S e d l a t i u s p a t e t v e r b i u s u s : nam συμβαίνειν etiam συμπτώματα dicuntur ut in Epist. Herod. 1.71 ὅτε δήποτε ἕκαστα (sc. τὰ συμπτώματα) συμβαίνοντα θεωρεῖται» (spaziatura mia). 65 (a) διὸ δὴ καὶ ἐνυπάρχουσα ἡ ψυχὴ οὐδέποτε ἄλλου τινὸς μέρους ἀπηλ­λαγ­μένου ἀναισθητεῖ· (b) ἀλλ᾿ ἃ ἂν καὶ ταύτης ξυναπόληται τοῦ στε­γάζοντος λυθέντος εἴθ᾿ ὅλου εἴτε καὶ μέρους τινός, ἐάν περ διαμένῃ, σῴζει τὴν αἴσθη­σιν. (c) τὸ δὲ λοιπὸν ἄθροισμα διαμένον καὶ ὅλον καὶ κατὰ μέρος οὐκ ἔχει τὴν αἴσθησιν ἐκείνου ἀπηλλαγμένου, ὅσον ποτέ ἐστι τὸ συντεῖνον τῶν ἀτόμων πλῆθος εἰς τὴν τῆς ψυχῆς φύσιν. (b) ἀλλ᾿ ἃ ἂν FP4: ἀλλὰ ἂν BP1: ἀλλ᾿ ἂν Φ | ταύτης Usener: ταύτη BPF: αὕτη Φ (con. Meibo­mius) | ξυναπόληται recc.: ξυναπόλληται PF: ξυναπόλλυται B: ξυνεξαπόληται Φ | ταύτης συναπόληται Sedley | σῴζει Von der Muehll: ὀξὺ BPF: ὀξύνει Φ: ἕξει Usener. (a) Per questo, finché l’anima rimane nel corpo non perde la facoltà di sentire, anche se qualche parte di esso se ne stacca; (b) ma anche se qualche parte di essa vada distrutta insieme al corpo che la contiene, sia in tutto sia in parte, se (il rimanente di essa) perdura conserva la sensazione. (c) Il rimanente corpo invece sia che permanga tutto sia in parte, perde la sensazione se si separa quella quantità, per quanto piccola, di atomi, che serve a costituire la natura dell’anima (Arrighetti p. 58).

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(b) Non c’è ragione di intervenire su ταύτῃ. Si legga ἀλλὰ ἂν καὶ ταύτῃ ξυναπόληται: quamvis hac parte pereat: i.e. la parte in cui τὸ στεγάζον è venuto meno. Per ἄν = ἐάν o ἤν nell’Epistola a Erodoto cfr. i cc. 48, 60, 80 e 82, e Widmann 1935, p. 149. (c) Interessante la soluzione di Krautz συντεῖνον τῶν ἀτόμων κτλ. (1980, p. 26), già prefigurata, ma respinta, dal Bignone (1920, p. 99 nota 2). Krautz traduce «wenn jener Teil fehlt, der – wie klein er auch sei – für die Elementarstruktur der Seele ausreichende Menge an Atomen beisteuert» (p. 27). Ma «ausreichende für» dobbiamo sottintenderlo. (a)-(c) Il c. 65 nell’insieme è un esempio particolarmente chiaro di come la resa delle particelle possa condizionare l’interpretazione. Riporto la traduzione di F. Verde (pp. 51-53): (a) perciò, dunque, l’anima, anche quando risiede (nel complesso atomico), non è mai insensibile, nonostante una qualche altra parte (del complesso atomico) se ne separi; (b) ma, anche se vada distrutto qualcosa di questa, dissolvendosi ciò che la ripara sia totalmente sia in parte, qualora essa permanga, effettivamente conserva la sensazione. (c) Il resto del complesso atomico sia che permanga interamente sia parzialmente non possiede la sensazione se si separi quel quantitativo di atomi, di qualsivoglia grandezza sia, atta a formare la natura dell’anima.

(a) Verde ha preso separatamente διό e δή (ricavan­done un insolito «perciò dunque»), e soprattutto ha tradotto un καί che forse era necessario omettere: l’anima è sensibile non anche se, ma solo se risiede nel complesso atomico. (b) Non si intende da dove sia stato ricavato l’«effettivamente», che peraltro può fuorviare, in quanto suggerisce un’inesistente alternativa fra realtà e apparenza (già prima ho espresso dubbi sull’uso di questo avverbio al c. 62). (c) Il periodo deve ricominciare con «ma» o «invece» (come in Ar­righetti). La particella oppositiva è qui determinan­te. 66 (a) οὐ γὰρ οἷόν τε νοεῖν αὐτὸ αἰσθανόμενον (b) μὴ ἐν τούτῳ τῷ συστήματι καὶ ταῖς κινήσεσι ταύταις χρώμενον, (c) ὅταν τὰ στεγάζοντα καὶ περιέχοντα μὴ τοιαῦτα ᾖ, ἐν οἷς νῦν οὖσα ἔχει ταύτας τὰς κινήσεις. ἀλλὰ μὲν καὶ τόδε {(d) λέγει ἐν ἄλλοις καὶ ἐξ ἀτόμων

αὐτὴν συγκεῖσθαι λειο­τά­των καὶ στρογγυλωτάτων, πολλῷ τινι διαφερουσῶν τῶν τοῦ πυρός·

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καὶ τὸ μέν τι ἄλογον αὐτῆς, ὃ τῷ λοιπῷ παρεσπάρθαι σώματι· τὸ δὲ λογικὸν ἐν τῷ θώρακι, ὡς δῆλον ἔκ τε τῶν φόβων καὶ τῆς χαρᾶς. ὕπνον τε γίνεσθαι τῶν τῆς ψυχῆς μερῶν τῶν παρ᾿ ὅλην τὴν σύγκρισιν παρεσπαρμένων ἐγκα­τεχομένων ἢ διαφορουμένων, (e) εἴτ᾿ ἐκπιπ­τόντων τοῖς ἐπερεισμοῖς. τό τε σπέρμα ἀφ᾿ ὅλων τῶν σωμάτων φέρεσθαι}.

(a) αὐτὸ BPFΦ: τὸ Usener | αὐτὸ αἰσθανόμενον BPF: αὐτὴν αἰσθανομένην Meibomius. (b) μὴ ἐν BPF: μὴ ἐν Usener | καὶ om. FP4 | χρώμε­νον BPF: χρωμένην Meibomius. (e) εἴτ᾿ Arrighetti: εἶτα BPF: ἢ Φ: ἤτε καὶ Gassendi | συμπιπτόντων BPΦ: ἐμπιπτόντων F: ἐκπιπτόντων dubitanter Giussani: συνεκπιπτόντων Diels | τοῖς ἐπερεισμοῖς Usener: τοῖς ποργμοῖς BP1(Q): ‘πορμοῖς (sic) F: σπορίμοις Φ: ἐσπαρμένοις cum γρ. P4mg: τοῖς περιορισμοῖς Kochalsky: τοῖς πορίμοις Apelt: τοῖς πόροις dubitanter Schneider ex Ambrosii versione (poris incidunt). (a) Non si può infatti concepire come senziente (l’anima) (b) se non in questo complesso (di anima e di corpo), né che possa più avere quei moti, (c) quando il corpo che la contiene e la circonda non sia più tale com’è ora, stando nel quale tali moti possiede. E anche questo {(d) dice altrove anche che l’anima è fatta di atomi lisci e rotondi, molto diversi da quelli del fuoco; e c’è una parte di essa irrazionale ed è diffusa per tutto il rimanente orga­nismo. La parte razionale invece è nel petto, come risulta chiaro dai sentimenti di timore e di gioia. Il sonno insorge quando gli elementi che costituiscono l’anima, sparsi in tutto il corpo, si riuniscono in un sol punto, o si sperdono per le membra, (e) o vengono espulsi a causa degli urti. Il seme genitale proviene da tutte le parti dell’or­ga­nismo} (Arrighetti pp. 58-60).

(a) Αὐτὸ αἰσθανόμενον è certamente erroneo, perciò o si segue Usener o si legge (intervento suppergiù equivalente) αὐτὸ αἰσθανόμενον (che vedo suggerito già da Kochalsky p. 69). (b) Stampando μὴ ἐν τούτῳ τῷ συστήματι, con Usener227, i verbi retti da οὐ γὰρ οἷόν τε νοεῖν verrebbero ad essere due. E il nesso fra i due non dovrebbe essere μή + καί bensì μή + μηδέ, come nei cc. 35 e 56 e nel fr. 34.30.1 sgg. Arr. Non è dunque da escludere μὴ {ἐν} τούτῳ τῷ συστήματι καὶ ταῖς κινήσεσι ταύταις χρώμενον. Né dispiace il testo di FP4: «non è possibile pensare che la parte senziente dia luogo a questi movimenti non in (= altrimenti che in, in luogo diverso da) questo aggregato»228. Ma in tal caso ὅταν ᾖ diventerebbe poco più che un’esplica­tiva.

227

 Oppure μὴ ἐν τούτῳ τῷ συστήματι, con Krautz 1980, p. 26.  Così anche Leopold 1915, p. 275 (praeeunte Gassendi).

228

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(d) Per lo più i traduttori non tengono conto che διαφέρειν indica la differenza in meglio. Dunque i λειο­τά­των καὶ στρογ­γ υλωτάτων, πολλῷ τινι διαφε­ ρουσῶν τῶν τοῦ πυρός saranno gli «atomi levi­gatis­simi e roton­dissimi, molto superiori (sc. p e r l e ­v i ­g a ­t e z z a e r o t o n d i t à ) a quelli del fuoco»229. Nel commento (pp. 193-194), Verde ipotizza che l’indicazione dello scolio vada considerata in ‘polemica’ (virgolettato dell’autore) con Democrito A 102 DK = XI.B.101.6 Leszl (Aet. 4.3.5 Δημόκριτος πυρῶδες σύγκριμα ἐκ τῶν λόγῳ θεωρητῶν, σφαιρικὰς μὲν ἐχόντων τὰς ἰδέας, πυρίνην δὲ τὴν δύναμιν, ὅπερ σῶμα εἶναι), in cui l’anima è detta composta di elementi ignei. Ma quand’anche «ignei» della testimonianza democritea non fosse un modo di semplificare, non credo che ad Epicuro sarebbe stato necessario ri-difendere il principio più basilare della sua dottrina: che le qualità dipendono da come sono fatti e disposti gli atomi. Il che – per dirla con Epicuro stesso (c. 68) – è un elemento totalmente ἐμπεριειλημμένον τοῖς τύποις. (e) Non vedo esiti soddisfacenti in nessuna delle soluzioni adottate correntemente per questo punto del lunghis­simo scolio. Arrighetti stampa un problematico ἢ (…) εἴτ(ε), tradotto «o (…) o». Verde lo segue, ora mettendo tutti i termini sullo stesso piano (p. 195: «addensamento, dispersione o espulsione») ora enfatizzando il terzo (p. 53: «si concentrano o si diffondono o ancora vengono espulse»). Commentando lo scolio al c. 66 dell’Epistola, e trovandosi davanti la vox nihili τοῖς ποργμοῖς, P. H. Schrijvers ipotizzava un τοῖς πορίμοις «datif de cause, au sens d’ouvertures praticables» (1976, p. 245). Lo studioso non si na­scon­deva che τοῖς πορίμοις è una lezione piena di difficoltà (cfr. p. 257 nota 73), e che τοῖς πόροις poteva essere una soluzione migliore, ma la sua preferenza an­dò comunque alla correzione «plus proche du texte transmis par les manu­ scrits»230. Da parte mia tenterei εἶτα συμπιπτόντων τοῖς ἐγειρομένοις oppure ἐγηγερμένοις, i.e.: quando uno si addormenta gli atomi si raccolgono nel profondo, oppure si disper­do­no, per tornare poi (εἶτα) a riunirsi (συμπιπτόντων) al momento del risveglio. Così non occorrerebbero altre correzioni: lo scolio indicherebbe (come in Lucr. 4.944 sgg.) due modalità di addormentamento,  Si veda sopra, nota 219. Il più fuori strada di tutti è Zevort 1847, p. 277: «tout à fait différents de ceux du feu». 230  Nessuna delle due lezioni discusse da Schrijvers è nuova: πόροις era stato già proposto dallo Schneider (1813, p. 85), e così pure πορίμοις, accolto da Zevort (1847, p. 277) e poi ‘riscoperto’ dallo Apelt. L’utilità dell’articolo di Schrijvers è soprattutto nella puntuale discussione dei vari ἐγκατέχειν, διαφορεῖν e συμπίπτειν alla luce dei corrispettivi lucreziani: cfr. pp. 243, 244 e 245. 229

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una per sistole231 e una per diastole – la seconda illustrata anche per mezzo del corrispettivo, l’ ἐγείρεσθαι. I dati dello scolio corrispondono alla scansione lucreziana di 4.916 sgg.: prima il sonno e i sogni (vv. 916-1036), poi lo sperma (vv. 1037 sgg.: non è poco significativo per noi il fatto che nella prima sezione vi sia un breve cenno al risveglio: vv. 925-928). Non si spiega come l’ultima frase dello scolio, τό τε σπέρμα ἀφ᾿ ὅλων τῶν σωμάτων φέρεσθαι, che Lucr. 4.1042 traduce decedit corpore toto (i.e. il semen), e che descrive con piana semplicità la dottrina già democritea della pangenesi232, abbia potuto creare difficoltà agli interpreti, e.g. Caretta – Samarati 1976, p. 24: «il seme genitale è prodotto da tutti quanti gli atomi» (?)233; Ramelli 2002, p. 295: «la lezione τῶν ὅλων, lett. ‘degli interi’»; Repici 2008, p. 395: «il seme genitale proviene da tutti i corpi (s’intende, dei genitori)»234. 68-69 (a) ἀλλὰ μὴν καὶ τὰ σχήματα καὶ τὰ χρώματα καὶ τὰ μεγέθη καὶ τὰ βάρη καὶ ὅσα ἄλλα κατηγορεῖται σώματος ὡς ἂν ἀεὶ συμβεβηκότα ἢ πᾶσιν ἢ τοῖς ὁρατοῖς καὶ κατὰ τὴν αἴσθησιν αὐτῶν γνωστοῖς, οὔθ᾿ ὡς καθ᾿ ἑαυτάς εἰσι φύσεις δοξαστέον – οὐ γὰρ δυνατὸν ἐπινοῆσαι τοῦτο – [69] (b) οὔτε ὅλως ὡς οὐκ εἰσίν, οὔθ᾿ ὡς ἕτερ᾿ ἄττα προσυπάρχοντα τούτῳ ἀσώ­ματα, (c) οὔθ᾿ ὡς μόρια τούτου, (c1) ἀλλ᾿ ὡς τὸ ὅλον σῶμα καθόλου ἐκ τούτων πάντων τὴν ἑαυτοῦ φύσιν ἔχον ἀίδιον, (c2) οὐχ οἷον δὲ εἶναι συμπε­φορημένον (c3) – ὥσπερ ὅταν ἐξ αὐτῶν τῶν ὄγκων μεῖζον ἄθροισμα συστῇ ἤτοι τῶν πρώτων ἢ τῶν τοῦ ὅλου μεγεθῶν τοῦδέ τινος235 ἐλατ­τόνων – (d) ἀλλὰ μόνον, ὡς λέγω, ἐκ τούτων ἁπάντων τὴν ἑαυτοῦ φύσιν ἔχον ἀίδιον.

 Un precedente in Alcmeone di Crotone A 18 DK: sonno e risveglio, dovuti rispettivamente all’ ἀναχώρησις e alla διάχυσις del sangue (cfr. Schrijvers 1976, p. 243). Se l’ ἀναχώρησις è totale, sopravviene la morte. 232  Brown 1987, pp. 182 sgg.; Teodorsson 1989, p. 353; Morel 2007b, p. 110; Leszl 2009, pp. 272 sgg. 233  Poco più sopra i due studiosi avevano tradotto ὕπνον τε γίνεσθαι κτλ. con «il sogno ha origine» ecc., confondendo ὕπνος con ἐνύπνιον. 234  Ancora meno avevano capito i vecchi traduttori come Ortiz (1792, p. 338 e nota 35) e Zevort (p. 277 e nota 2), che con σωμάτων intendevano «corpuscoli». 235   Verde p. 26, nella Nota al testo in cui segnala i dissensi dal Marcovich, scrive: «al posto di τοῦδέ τινος leggo τοῦδε τινὸς con Usener». Ma si tratta di convenzione grafica (τοῦδε τινός anche in Giussani 1896, p. 78, e Krautz 1980, p. 28) e non di variante (grande incostanza nel GE, dove si alternano τοῦδέ τινος e τοῦδε τινός, λειτουργοῦντός τινος e λειτουργοῦντος τινός, ecc.). Arrighetti adotta il medesimo criterio a p. 5 per Diog. Laert. 10.2 μέχρι μὲν τινός invece di μέχρι μέν τινος, e a p. 444 per il fr. 77 καὶ | τινὰ τρ[όπον]. 231

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(a) αὐτῶν P4: αὐτοῖς BP1F: αὐτὴν Meibomius: σώματος Usener: ἡμῖν dubitanter Von der Muehll | γνωστοῖς BPF: γνωστὰ Usener. (b) οὔτε ὅλως BP: ἢ ὅλως F | οὔθ᾿ ὡς Gassendi: ὡς οὔθ᾿ BPF | ἕτερ᾿ ἄττα Usener: ἕτερα τὰ BPF. (c) οὔθ᾿ BP: οὐδ᾿ F. (c1) ἐκ τούτων (Aldobrandinus) Gassendi: μὲν τούτων BPF: μὲν τούτων Meibomius. (c2) οἷον δὲ Schneider: οἷόν τ(ε) BPF | συμπεφορημένων BP1(Q): συμπεφορημένον FP4: συμπεφορημένων Bailey. (c3) μεγεθῶν BPF: μερῶν Schneider. (a) E inoltre sia la forma che il colore, la grandezza, il peso e tutto il resto che è predicabile di un corpo in quanto sempre congiunto o a tutti i corpi o a quelli visibili e conoscibili per mezzo della perce­zione sensitiva di queste qualità, non bisogna credere che siano nature esistenti di per sé – non è infatti possibile immaginare una cosa del genere – [69] (b) né che non abbiano alcuna realtà, né siano come altri incorporei che sono inerenti al corporeo, (c) né come parti di esso, (c1) ma come tali che il corpo, nella sua interezza, ha nel loro complesso la sua natura eterna, (c2) non però tale da risultare dall’unione di esse, (c3) – nel modo che un complesso di una certa entità si costituisce dei suoi elementi, siano essi gli elementi primi, siano le grandezze minori di questo qualsivoglia tutto – (d) ma solo, come dico, in quanto nel complesso di queste qualità ha la sua natura eterna (Arrighetti pp. 60-62).

(a) Al posto di αὐτοῖς γνωστοῖς leggerei ἁπλῶς γνωστοῖς: «o a tutti i corpi o a quelli visibili e, in breve, a quelli conoscibili attraverso la sensazione»236. Dopo ὁρατοῖς dovrebbero venire ἀκουστοῖς e ἁπτοῖς, ma Epicuro taglia corto237. (c) Nulla è chiaro qui, tranne il fatto che la correzione οἷον δ(έ) per οἷόν τ(ε), largamente accolta, dà un costrutto inaccettabile in prosa, specie in questa prosa238. D’altronde il ripristino di οἷόν τ(ε) comporta che le frasi (c1)  Per -ως > -οις in analoghe circostanze cfr. c. 81 τούτοις ὅλως > τούτοις ὅλοις F.  La soluzione che si adotta in questi casi – immettere testo – fu proposta da Bignone 1933a, p. 118 κατὰ τὴν αἴσθησιν αὐτοῖς γνωστοῖς». Ma allora ci saremmo aspettati ἑκάστοις, non αὐτοῖς. 238  In pratica si assume un εἶναι consecutivo retto da οἷον: necesse est pute­mus totum corpus suam naturam aeternam ex his omni­bus habere, non autem tale esse ut sit ecc. Ma i traduttori sono in difficoltà e navigano a vista, cosicché non sempre è possibile rendersi conto di come hanno ragionato. Il valore consecutivo dato a εἶναι è abbastanza ben individuabile in Bignone p. 102; Russello 1994, p. 99; Jürß p. 479, meno in altri. Bailey p. 237 scrive: «οὐχ οἷον δ᾿ εἶναι συμπε­φορημένων, “yet not such as to owe its 236 237

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e (c2), prima distinte, diventino una sola, retta appunto da οἷόν τ᾿ εἶναι. La conseguenza è che in (c) e in (d) si verrebbero a dire cose opposte: prima che il corpo non trae, poi che il corpo trae la sua natura eterna dai ταῦτα πάντα, mentre ὡς λέγω di (d) esige identità di contenuto. Una soluzione, che propongo con ogni possibile cautela, ma che mi pare al momento preferibile ad altre, è quella di correggere καθόλου μὲν τούτων πάντων non in καθόλου ἐκ τούτων πάντων o in καθόλου μὲν τούτων πάντων, bensì in καθόλου ἄνευ τούτων πάντων, senza toccare né οἷόν τε né συμπεφορημένον. Avremmo dunque: ἀλλ᾿ ὡς τὸ ὅλον σῶμα καθόλου ἄνευ τούτων πάντων τὴν ἑαυτοῦ φύσιν ἔχον ἀίδιον οὐχ οἷόν τε εἶναι συμπε­φορημένον ὥσπερ ὅταν (…) ἀλλὰ μόνον κτλ.: «ma bisogna pensare che il corpo tutto, in generale, non è possibile che abbia (= non è possibile che sia avente) la sua natura eterna senza queste cose, se accozzato insieme come quando (…), bensì solo da queste cose, come dicevo, (è possi­bile) che abbia la sua natura eterna»239. Separato da εἶναι, συμπεφορημένον si attaccherebbe diretta­mente a ὥσπερ ὅταν κτλ., cosicché avrem­mo una frase molto lunga (uno dei soliti Bandwormsätze epicurei), ma sen­za incisi, i quali nella prosa antica sono in genere rivelati dalla sintassi. La mia ricostruzione del passo mostra qualche analogia con quella di Long – Sedley II, p. 27, nel senso che anche Long e Sedley conservano οὐχ οἷόν τε e fanno di ἀλλ᾿ ὡς τὸ ὅλον (…) συμπε­φορημένων una frase sola. I due studiosi accolgono però μὲν τούτων πάντων del Meibomius, con relativo μέν so­li­ta­rium, e traducono: «nor that they are parts of it; but that the whole body cannot have its own permanent nature consisting entirely of the sum total of them» (I, p. 33). Ma senza gli italics, che il greco antico non aveva, questo peso con­cettuale di καθόλου non si rileva. 70-71 (a) καὶ μὴν καὶ τοῖς σώμασι συμπίπτει πολλάκις καὶ οὐκ ἀίδιον παρα­κο­λουθεῖν οὔτ᾿ ἐν τοῖς ἀοράτοις καὶ οὔτε ἀσώματα, ὥστε δὴ κατὰ τὴν πλείστην φορὰν τούτῳ τῷ ὀνόματι χρώμενοι (b) φανερὰ ποιοῦμεν τὰ συμπτώματα οὔτε τὴν τοῦ ὅλου existence”» ecc., ma nella traduzione di p. 43 il senso è piuttosto esplicativo-modale; stessa cosa in Apelt II, p. 254. 239  Si noti che ἄνευ è usato anche nella continuazione tematica di questo punto al c. 70 ὧν ἄνευ σῶμα οὐ δυνατὸν νοεῖσθαι. E si noti anche che nel mio testo il συμπεφορημένος avrebbe più marcato il senso negativo che tale participio e le sue sister-words assumono in Epicuro e prima di Epicuro. Cfr. Erler 2011, pp. 19-21 e nota 66; e quanto detto sopra, sul c. 59 (e).

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φύσιν ἔχειν, (c) ὃ συλλαβόντες κατὰ τὸ ἀθρόον σῶμα προσ­αγο­ρεύομεν, οὔτε τὴν τῶν ἀίδιον παρακολουθούντων, ὧν ἄνευ σῶμα οὐ δυνατὸν νοεῖσθαι. (d) κατ᾿ ἐπιβολὰς δ᾿ ἄν τινας παρακολουθοῦντος τοῦ ἀθρόου ἕκαστα προσαγορευθείη, [71] ἀλλ᾿ ὅτε δήποτε ἕκαστα συμβαίνοντα θεωρεῖται, οὐκ ἀίδιον τῶν συμπτωμάτων παρακο­λουθούντων. (e) καὶ οὐκ ἐξελατέον ἐκ τοῦ ὄντος ταύτην τὴν ἐνάργειαν, ὅτι οὐκ ἔχει τὴν τοῦ ὅλου φύσιν (f) ᾧ συμ­βαί­νει ὃ δὴ καὶ σῶμα προσαγορεύομεν, οὐδὲ τὴν τῶν ἀίδιον παρακο­λου­θούντων, οὐδ᾿ αὖ καθ᾿ αὑτὰ νομιστέον – οὐδὲ γὰρ τοῦτο διανοητὸν οὔτ᾿ ἐπὶ τούτων οὔτ᾿ ἐπὶ τῶν ἀίδιον συμβε­βηκότων – (g) ἀλλ᾿ ὅπερ καὶ φαίνεται, συμ­πτώ­ματα πάντα τὰ τοιαῦτα νομιστέον. (a) παρακολουθεῖν PF: παρακολουθεῖ B | καὶ οὔτε BPF: ἔσται οὔτε posita lacuna post παρακολουθεῖν Usener: εἶναι οὔτε lacuna item post παρακολουθεῖν posita Bailey. (c) ὃ F: ὃν P: ἣν B2 in lac. | ἀίδιον Meibomius: ἀιδίων BPF. (d) ἀλλ᾿ ὅτε BPF: hiatum ante ἀλλ᾿ ὅτῳ indicavit Usener, sed vide Von der Muehll ad loc. | ἀίδιον Meibomius: ἀιδίων BPF. (f) ὧ F1: ὣ B: ὃ PF2 | {ὃ δὴ καὶ σῶμα προσαγορεύομεν} ut scholium Usener. (g) πάντα τὰ τοιαῦτα Von der Muehll: πάντα τὰ σώματα BPF: πάντὰ τὰ σώματα Bignone: πάντα τὰ σωμάτων Sedley: πάντα σώματος Usener: πάντα ταῦτα σώματος Leopold. (a) I corpi poi hanno spesso (qualità) non eterne (che non appar­tengono) né alla categoria degli invisibili né degli incorporei, per cui, usando questo nome secondo l’accezione più comune della parola, (b) dichiariamo che le qualità accidentali non solo non hanno la natura del tutto (c) che noi chiamiamo corpo cogliendolo nel suo complesso, ma nemmeno quella delle qualità eterne senza le quali è impossibile concepire un corpo. (d) Ciascuna può essere predicata secondo determinate percezioni, in connessione però con il tutto, [71] e quando vediamo presentarsi ciascuna di esse, giacché le qualità accidentali non hanno carattere di eternità. (e) Né bisogna privare la realtà di questo carattere di evidenza, in quanto queste qualità non hanno né la natura del complesso (f) a cui sono legate e che chiamiamo anche corpo, né quella di ciò che ad esso pertiene eterna­mente, né bisogna credere che abbiano esistenza per se stesse, – questo non si può pensare, né di queste né delle qualità eterne – (g) ma, come si vede, bisogna pensare che tutte queste sono qualità accidentali (Arrighetti p. 62).

(a) Καὶ οὔτε è un’evidente sgrammaticatura, ma studiosi ed editori non ne sembrano turbati: in genere ignorano καί240 o danno a οὔτε il senso di οὐ o

 Hicks II, p. 601; Gigante p. 424; Isnardi Parente p. 173; Russello 1994, p. 99; Reale p. 1223; Delattre 2004, p. 164; Verde p. 54. 240

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di οὐδέ241. Ragionevoli gli interventi di Usener p. 23 (καί > ἔσται) e di Bailey p. 42 (καί > εἶναι)242, entrambi con lacuna dopo παρακολουθεῖν243. La lacuna si può evitare stampando παρακολουθεῖ ἃ οὔτ᾿ ἐν τοῖς ἀοράτοις ἔσται οὔτε ἀσώματα con Long – Sedley II, p. 278. Ma perché ἔσται e non ἐστίν? E perché la variatio? Tento con molti dubbi οὔτε τοῖς ἀοράτοις ἴσα οὔτε ἀσώματα: «qualità né simili agli (i.e. dotate della stessa natura degli) invisibili né incorporee». Con il che avremmo il riferimento «alle due categorie epicuree di esistenza reale, gli atomi (ἄδηλα o ἀόρατα) e il vuoto (ἀσώματον)» (Bailey p. 239). Per questo uso di ἴσος si veda più avanti, c. 81, ed Epist. Men. 130. Ma una delle due domande resta: perché questo costrutto sghembo? (b) Dubito che φανερά sia corretto. Si legga φανερόν: «rendiamo chiaro che» ecc. Vedo in extremis di essere stato anticipato da Schneider (1813, p. 18). (d) Il «solo» che spesso si aggiunge ad ἀλλ᾿ ὅτε («ma solo quando») è inopportuno, in quanto non si limita a enfatizzare un elemento della frase, ma cambia la frase interamente244. Una soluzione fra le mille possibili: ἄλλοτε δήποτε ἕκαστα συμβαίνοντα θεωρεῖται, οὐκ ἀίδιον τῶν συμπτωμάτων παρακο­λου­θούντων: «in presenza dell’ ἀθρόον, ciascuna di queste cose può essere nominata secondo certe ἐπιβολαί; in tutti gli altri casi, invece, (ciascuna di queste cose può essere nominata) secondo le circostanze nelle  Bollack – Bollack – Wismann 1971, p. 229: «καί précède la seconde négation (καὶ οὔτε) pour rappeler que l’exclusion valait déjà pour les qualités inséparables». Qualcosa di analogo anche in Ramelli p. 101, la cui traduzione non corrisponde (caso né unico né raro) al testo di Usener. Balaudé p. 1282 non spiega quale testo adotti, né perché; e comunque anche la sua traduzione, rapportata al greco, longe aberrat. 242  Per un’altra correzione (questa però certa) di καί in εἶναι in Diogene Laerzio cfr. 9.42 εἰπεῖν εἶναι (Casaubon) vs. εἰπεῖν καί. 243  Nella prima edizione anche Arrighetti aveva ammesso la lacuna, stampando καὶ μὴν καὶ τοῖς σώμασι συμπίπτει πολλάκις καὶ οὐκ ἀίδιον παρα­κο­λουθεῖν … οὔτ᾿ ἐν τοῖς ἀοράτοις. καὶ οὔτε ἀσώματα, ὥστε δὴ κτλ. (1960, p. 63). Marcovich p. 756 mette a sua volta il segno di lacuna dopo παρα­κο­λουθεῖν, non interpunge dopo ἀοράτοις e non interviene su καὶ οὔτε. Reale p. 1223, che adotta il testo di Marcovich, avverte il lettore (p. 1486 nota 111) che Usener ha indicato una lacuna, ma di tale lacuna non c’è traccia nel testo italiano, non si sa se perché il Reale non la condivide o semplicemente perché se ne dimentica. 244  E ne uscirebbe anche un brutto contrasto fra «solo», che precisa, e δήποτε, che generalizza (come nei cc. 38 ὅτου δήποτε; 49 ὧν δήποτε; 52 ὅπως δήποτε; Epist. Pyth. 88). 241

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quali ciascuna è vista avvenire, dato che i συμπτώματα non sono presenti stabilmente». Κατά con verbum videndi an­che al c. 38 καθ᾿ ἕκαστον φθόγγον βλέπεσθαι. (f) I traduttori per lo più inseriscono – abusivamente – una congiunzione fra ᾧ συμβαίνει e ὃ δὴ καὶ σῶμα προσαγορεύομεν245. Lo Usener capì che il testo tràdito non poteva stare ed espunse ὃ δὴ καὶ σῶμα προσαγορεύομεν, immaginando trattarsi di uno scolio modellato su τὴν τοῦ ὅλου φύσιν ἔχειν, ὃ συλλαβόντες κατὰ τὸ ἀθρόον σῶμα προσαγορεύομεν, di pressoché identico contesto246. Ma scholia non sunt multiplicanda, specie se mancano di autonomia sintattica. E poi – argomento secondario ma non trascurabile – uno scoliasta o lettore non aveva motivo di scrivere ὃ δὴ καὶ σῶμα προσαγορεύομεν piuttosto che ὃ καὶ σῶμα προσαγορεύομεν. Una possibilità è interpungere dopo συμβαίνει, come fanno Long – Sedley II, p. 27, in modo da mettere le due relative su piani diversi: l’una riferita solo a τοῦ ὅλου, l’altra a τοῦ ὅλου ᾧ συμβαίνει. Una relativa appositiva di analoga tipologia potrebbe trovarsi nella col. XXXVIII del libro XIV del Περὶ φύσεως, ll. 9-10 τὰ λοιπὰ ἃ συμπηγνύει, sempreché ἃ συμπηγνύει faccia tutt’uno con τὰ λοιπά (Verde p. 33) piuttosto che con τούτων (Schmid 1936, p. 48). Ma il parallelo calzerebbe fino a un certo punto, poiché nel nostro caso non c’è continuità fra τοῦ ὅλου e ᾧ συμβαίνει. Un’altra soluzione, che preferirei, è ᾧ συμμένει ὃ δὴ καὶ σῶμα προσα­ γο­ρεύομεν: «non hanno la natura del complesso di cui consta ciò che noi chiamiamo corpo»247. Esempi di συμμένειν col dativo in Aristot. EN 1132b τῷ

 Gigante p. 424; Massa Positano pp. 41-42; Isnardi Parente p. 173; Reale p. 1225. Hicks (II, p. 601) e Balaudé (p. 1283) usano i trattini senza congiunzione, Apelt (II, p. 255) le parentesi con congiunzione. Jürß p. 480 articola una tornitura più complessa, ma nella sostanza equivalente: «man darf diese Evidenz nicht aus dem Seinsbereich verbannen, weil es nicht das Wesen des von uns ‘Körper’ genannten Ganzen hat, an dem es geschieht, oder weil». L’omissione di καί davanti a σῶμα è troppo frequen­te (Hicks, Gigante, Isnardi Parente, Reale, Jürß) per non essere sospetta. Che da parte di qualcuno si sia pensato a un’anastrofe ὃ δὴ καὶ σῶμα προσαγορεύομεν = καὶ ὃ δὴ σῶμα προσαγορεύομεν? 246  Lo Usener è stato seguìto da Bailey pp. 44 e 241; Bignone p. 103; Krautz 1980, p. 30, e, per una volta, anche dalla Ramelli (p. 103). 247  Per la confusione συμμένειν/συμβαίνειν cfr. e.g. Plut. Rom. 14.2; Aristot. GC 335a; [Aristot.] Rhet. Alex. 1446b; cfr. inoltre sch. Pind. Pyth. 2.163c Drachmann παραμένει vs. παραβαίνει; Soph. OC 217 βαίνεις vs. μένεις; sch. Aristoph. Nub. 442c.α Holwerda ἐμβαίνειν vs. ἐμμένειν; Theophr. HP 6.8.5 διαμενεῖν vs. διαβαίνειν (altri 245

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ἀντιποιεῖν γὰρ ἀνάλογον συμμένει ἡ πόλις; 1133a τῇ μεταδόσει δὲ συμμένουσιν; Strab. 6.2.4 μόλις γὰρ ἐπὶ τοῦ Ῥοδανοῦ τοῦτο πιστεύομεν, ᾧ συμμένει τὸ ῥεῦμα διὰ λίμνης ἰόν, ὁρατὴν σῷζον τὴν ῥύσιν. Accumulo di relative anche in Diog. Laert. 7.137 ἀνωτάτω μὲν οὖν εἶναι τὸ πῦρ, ὃ δὴ αἰθέρα καλεῖσθαι, ἐν ᾧ πρώτην τὴν τῶν ἀπλανῶν σφαῖραν γεννᾶσθαι. (g) Il tràdito συμπτώματα πάντα τὰ σώματα νομιστέον, che non regge, è stato emendato in vari modi, per lo più artificiosi. Va nella direzione giusta la proposta di Bignone πάντὰ τὰ σώματα (1920, p. 103 nota 3)248, messa a testo da Marcovich (p. 756) e da Dorandi (p. 775)249; ma i casi del c. 67 νῦν δ᾿ ἐναργῶς ἀμφότερα ταῦτα διαλαμβάνεται περὶ τὴν ψυχὴν τὰ συμ­πτώ­ματα e del c. 73 ἴδιόν τι σύμπτωμα περὶ ταῦτα πάλιν αὐτὸ τοῦτο ἐννοοῦν­τες farebbero preferire un costrutto con περί250: forse συμπτώματα περὶ τὰ σώματα νομιστέον, o magari συμπτώματα περὶ αὐτὰ τὰ σώματα νομιστέον251. 74 (a) ἔτι δὲ τοὺς κόσμους οὔτε ἐξ ἀνάγκης δεῖ νομίζειν ἕνα σχηματισμὸν ἔχοντας, (b) ἀλλὰ (b1) {καὶ διαφόρους (b2) αὐτοὺς (b3) ἐν τῇ ιβʹ Περὶ φύσεώς φησιν} (c) οὓς μὲν γὰρ σφαιροειδεῖς, καὶ ᾠοειδεῖς ἄλλους, καὶ ἀλλοιο­σχή­μονας ἑτέρους· (c1) οὐ esempi in Jackson 1955, p. 134). I vari συμβαίνειν di questa parte della Lettera non potevano che favorire la corruttela. Molte anche le tentate correzioni di questo tipo: e.g. Plotin. 1.5 (36) 7 συμβεβηκέναι (Henry – Schwyzer) vs. συμμεμενηκέναι e Diog. Laert. 10.140 συμβαίνει (Bywater) vs. συμμένει. Sicuro, sempre in Diog. Laert. 4.20, il βαίνων di Cobet per il tràdito μέλλων. Il travasarsi di una lezione nell’altra è esemplarmente illustrato da Diog. Laert. 9.32 συμμενόντων PF: συμβενόντων B: συμβαινόντων recc. 248  Già prima del 1920 il Bignone meditava su questo passo, contestando duramente il Pascal, favorevole al tràdito (si veda Milanese 2012, p. 443 e nota 20). 249  Anche la Manuwald esalta la superiorità «paläographisch und inhaltlich» (1972, p. 74 nota 1) della soluzione del Bignone; ma forse sarebbe stata meno convinta del «paläographisch» se avesse letto la congettura nel testo di Krautz 1980, p. 30, e di Marcovich p. 756 (e di Bredlow 2010, p. 508), che stampando πάντα τὰ σώματα e annotando «κατὰ add. Bignone» nasconde l’implicita diagnosi di Bignone sulla ratio corruptelae. Unico rigoroso è Dorandi p. 775. 250  Anche lo scolio al c. 44 usa περί + accusativo per esprimere l’inerenza della qualità: ποιότητά τινα περὶ τὰς ἀτόμους (e subito dopo πᾶν τε μέγεθος μὴ εἶναι περὶ αὐτάς). 251  Nonostante l’apparenza, la seconda soluzione è più leggera, poiché presuppone solo un περί abbreviato, i.e. π(ερὶ) αὐτά.

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μέντοι πᾶν σχῆμα ἔχειν· (d) οὐδὲ ζῷα εἶναι ἀποκριθέντα ἀπὸ τοῦ ἀπείρου. (e) οὐδὲ γὰρ ἂν ἀποδείξειεν οὐδείς, ὡς (e1) μὲν τῷ τοιούτῳ καὶ οὐκ ἂν ἐμπεριελήφθη τὰ τοιαῦτα σπέρματα ἐξ ὧν ζῷά τε καὶ φυτὰ καὶ τὰ λοιπὰ πάντα θεωρούμενα συνίσταται, (e2) ἐν δὲ τῷ τοιούτῳ οὐκ ἂν ἐδυνήθη. (f) ὡσαύτως δὲ καὶ ἐντραφῆναι τὸν αὐτὸν δὲ τρόπον καὶ ἐπὶ γῆς νομιστέον. (a) ἔτι δὲ BP1(Q): ἔτι δὲ καὶ FP4: ἔτι τε Arndt | δεῖ PF: ἀεὶ B | post ἔχοντας lacunam statuit Usener. (b) Περὶ φύσεως K. F. Hermann et Brieger: περὶ αὐτοῦ BP1(Q): περὶ τούτου F, γρ P4: περὶ αὐτός Usener. (c) ἔχειν PF: ἔχεται B. (e1) μὲν τῷ Usener: μὲν τῷ BPF: ἐν τῷ Gassendi | θεωρούμενα Schneider. (a) Inoltre non bisogna credere che i mondi abbiano una sola forma, (b) ma (b1) {e differenti (b2) li (b3) dice nel XII libro dell’opera Sulla natura} (c) alcuni sono sferici, altri di forma ovale e altri di altre forme; (c1) non è però che abbiano qualsiasi forma; (d) né bisogna crederli esseri animati separatisi dall’infinito. (e) Né alcuno potrebbe dimostrare che (e1) in un determinato mondo non sono contenuti quei semi genitali dai quali si formano gli esseri viventi e le piante e tutto il resto che si vede esistere (e2) e che in un altro diverso questo non sia possibile. (f) E così pure riguardo al nutrimento che la terra può dar loro bisogna pensare allo stesso modo (Arrighetti pp. 64-66).

In questo capitolo è penetrato uno scolio252 le cui colonne d’Ercole sono ἕνα σχηματισμὸν ἔχοντας in alto e ἀπὸ τοῦ ἀπείρου in basso. Tutto ciò che sta in mezzo può essere tanto dello scoliasta quanto di Epicuro253. Io parto da due ipotesi: che ἀλλὰ καὶ διαφόρους αὐτούς non si possa dividere254, e che le parole οὓς μέν (…) ἑτέρους siano più probabilmente auten-

 O forse due. Diversi studiosi, ultimo Dorandi p. 777, sottraggono a Epicuro anche la pericope (f). 253  F. Verde a p. 56 espunge solo da ἀλλὰ καὶ διαφόρους a φησίν e da ὡσαύτως a νομιστέον, ma nel commento fa dire allo scoliasta «che non bisogna credere che i mondi possiedano tutte le forme ma solo alcune» (p. 213), che «non bisogna, poi, reputare i mondi esseri animati (zoa) che si sono separati dall’infinito» (p. 213), e «che i mondi siano esseri viventi» (p. 214). Evidentemente il commento è basato sul testo di Usener, che atetizzava da ἀλλὰ καὶ διαφόρους ad ἀπὸ τοῦ ἀπείρου. 254  Anche Russell (1962, p. 143) negò che lo scolio si potesse ridurre al solo καί… φησίν, ma Arrighetti ribadì le sue scelte (1962, p. 100). Invero il problema non è nello scolio, ma in ciò che resta dopo che si è tolto lo scolio: ἀλλὰ οὓς μὲν γάρ. La Thyresson p. 71 fa presente che la combinazione μέν… μέντοι si ritrova al c. 74 della 252

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tiche che spurie, non avendo un chiosatore alcun motivo di preferire la variatio al più normale τοὺς μέν + τοὺς δέ + τοὺς δέ255. Ma la paternità epicurea di οὓς μὲν (…) ἑτέρους, come vedremo, non implica che lo scolio fi­nisse a φησίν. Una terza cosa che si può dare per probabile è che da qualche parte fra σχηματισμόν e l’inizio dello scolio sia da postulare una lacuna, dato che οὔτε ἐξ ἀνάγκης senza un altro οὔτε non può evidentemente stare256. Quanto a ἐν τῇ ιβʹ περὶ αὐτοῦ φησιν, che è il nucleo non ulteriormente riducibile dello scolio, gli studiosi concordano sul fatto che l’indicazione numerica non possa non essere accompagnata dall’esplicita men­zio­ne del titolo dell’opera. Perciò K. F. Hermann al posto di περὶ αὐτοῦ φησιν proponeva Περὶ φύσεώς φη­σιν; proposta poi perfezionata da Usener in Περὶ αὐτός φησιν257. Nel testo di Hermann si può capire una caduta aplo­gra­f ica di φύσεως258; ma chi inserì αὐτοῦ? Nel testo di Usener un αὐτός venuto in contatto con περί fa presto a diventare αὐτοῦ; ma come si produce la cadu­t a di φύσεως? Attribuendo ἀλλὰ καὶ διαφόρους αὐτούς allo scolio, come quasi tutti fanno, sorge il problema di tradurre ἀλλὰ καί. Problema non semplice: gli editori

nostra Epistola e al c. 134 dell’Epistola a Meneceo: in entrambi i casi c’è il sospetto che si tratti di materiale spurio. Questo potrebbe far propendere per l’estensione della parte non epicurea fino (almeno) a πᾶν σχῆμα ἔχειν. 255  L’argomento, come spesso gli argomenti stilistici, ha un valore limitato: la variatio si trova sia nella scrittura alta (e.g. Plat. Epist. VII 344a ὁπόσοι […], ἄλλοι δέ […], οὐδ᾿ ὅσοι), sia, per imitazione, in quella bassa e bassissima. Esempi anche in Diogene Laerzio: 9.34 οἱ δέ (…), τινὲς (…), ἔνιοι; 9.95 τῶν μέν (…), τῶν δέ (…), ἄλλων (…), ἐνίων. Non c’è variatio nell’unico scolio epicureo confrontabile, quello a RS 1 ἐν ἄλλοις δέ φησι τοὺς θεοὺς λόγῳ θεωρητούς, οὓς μὲν κατ᾿ ἀριθμὸν ὑφεστῶτας, οὓς δὲ κατὰ ὁμοείδειαν κτλ. 256  Non considero la possibilità di leggere οὔ μέντοι in (c) o οὔτε ζῷα in (d); o di correggere lo stesso οὔτε ἐξ ἀνάγκης in οὐκ ἐξ ἀνάγκης. 257  O peggiorata secondo taluni. Balaudé p. 1284 nota 4: «dans le texte d’Usener repris par Long, αὐτός ne se justifie pas». Il che è vero se guardiamo al senso e prescindiamo dal greco. Ma, se non ne prescindiamo, che dobbiamo fare del pronome al genitivo che i codici hanno dopo περί? Lo sopprimiamo? O seguiamo la curiosa idea di Zevort, che pensava al dodicesimo libro di un Περὶ κόσμου? (cfr. 1847, p. 280: «il dit en effet, dans le douzième livre sur le Monde, que les mondes…» ecc.). 258  Le forme di φύσις e le voci di φάναι sono simili e talvolta identiche per pronuncia e grafia: [Plut.] Cons. ad Apoll. 106E ᾗ φησιν vs. ἡ φύσις vs. φύσει; Epict. Ench. 29.5 φύσιν vs. φήσιν (sic); Marc. Aur. 5.28 e Simpl. In Aristot. De an. 2.2 (96.32 Hayduck) φησί vs. φύσει; Jo. Philop. In Aristot. Phys. 1.3 (72.14 Vitelli) φησίν vs. φύσιν; Procl. In Plat. Parm. 3.821 Luna – Segonds φησίν vs. φυσίν (sic), ecc.; Theod. Gaza, Cic. liber de sen. 13.44 Salanitro φησί vs. φύσει, ecc.

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tal­volta saltano καί e rendono ἀλλά in modi impropri259, talvolta saltano sia ἀλλά che καί260, talvolta mettono καί davanti a ἐν τῇ ιβʹ invece che davanti a διαφόρους261. La ragione di questi pasticci è che la traduzione «ma anche» – l’unica giusta – renderebbe insensato tutto il periodo. Orbene secondo me è possibile che in origine lo scolio non si riferisse a ἔτι δὲ (…) ἔχοντας, ma a οὓς μὲν (…) ἑτέρους. Il chiosatore vorrebbe dire che nel libro XII del Περὶ φύσεως Epicuro non parlava solo di κόσμοι σφαιροειδεῖς e ᾠοειδεῖς, ma men­zio­­nava espressamente anche altri σχηματισμοί, a forma di cilindro, che so, o di timpano e così via; mentre qui taglia corto con καὶ ἀλλοιοσχήμονας ἑτέρους. Quanto all’altra soluzione, restituire ἀλλὰ καὶ διαφόρους αὐτούς a Epicuro, essa ci dà un costrutto tollerabile, ma non limpido, indipendentemente dal fatto che lo scolio venga fatto finire con ἑτέρους, con ἔχειν o con ἀπείρου. Il senso ci sarebbe: non solo i mondi non hanno un unico σχηματισμός, ma sono anche internamente diversi, ad esempio per fauna, per paesaggio, ecc.; il cenno a questo tipo di diversità potrebbe costituire (come diremo fra breve) la premessa diretta alle paro­le οὐδὲ ζῷα εἶναι κτλ. e fornire un aiuto decisivo per la loro comprensione. Sul piano linguistico, ad ἀλλὰ καὶ διαφόρους αὐτούς mancherebbe ὄντας, e anche questo è un problema da non sottovalutare. Tuttavia noi diamo per certa una lacuna dalle parti di ἔχοντας, e quindi il piccolo non sequitur non ci sor­prende. Tolto ἀλλὰ καὶ διαφόρους αὐτούς, lo scolio si ridurrebbe a ἐν τῇ ιβʹ περὶ αὐτοῦ φησιν (testo di BP) o ἐν τῇ ιβʹ περὶ τούτου φησίν (testo di F). Gli studiosi, giustamente convinti che dopo ιβʹ un’esplicita menzione del Περὶ φύσεως non possa mancare, accolgono in massa la correzione di Hermann262, che però, come abbiamo visto, è una correzione pesante – e anche più pesante è quella di Usener. Ma in questa frase i περί potrebbero essere stati due263.

 Ramelli p. 107: «anzi»; Apelt p. 257: «vielmehr»; Hicks II, p. 602: «on the contrary»; Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin 2010, p. 27 nota (c): «au contraire». Tutte traduzioni lecite, ma non quando segue un καί. 260  Isnardi Parente p. 174. 261  Così Gigante p. 425: «afferma anche nel dodicesimo libro Della natura». Come lui Massa Positano p. 43 nota 14; Jürß p. 563 nota 79; Verde p. 57. 262  Fanno eccezione come sempre Bollack – Bollack – Wismann, che stampano il testo così come lo trovano (1971, p. 146) e ne danno questa misteriosa traduzione: «il s’étend là-dessus dans le douzième livre» (p. 147); si veda Grilli 1974, p. 108. Pasticcia Balaudé p. 1284, che un po’ segue Usener e un po’ i Bollack. 263  Normalissimi i περί ravvicinati quando al titolo dell’opera si accompagna un’indicazione di argomento (più circoscritta); cfr. e.g. Ath. 7.285c = Clearco 81 W. ἐν τοῖς Περὶ παροιμιῶν περὶ τῆς ἀφύης φησί. È da notare la situazione in un certo 259

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A seconda che si parta da αὐτοῦ o da τούτου, potremmo azzardare ἐν τῇ ιβʹ περιλήπτους264 φησίν oppure ἐν τῇ ιβʹ περὶ τούτου φησίν. In quest’ultimo caso il periodo da οὓς μέν fino a ἑτέρους (o fino a ἔχειν) andrebbe inteso come citazione letterale dal libro XII del Περὶ φύσεως e quindi virgolettato. In altre parole avremmo un frammento e non una testimo­nianza. I vantaggi sono due: (1) si spiega in modo plausibile la caduta di Περὶ φύσεως e (2) si instaura una continuità tra ἀλλὰ καὶ διαφόρους αὐτούς e οὐδὲ ζῷα κτλ. senza togliere a Epicuro il pezzo da οὓς μέν a ἔχειν che non pare molto in stile di scoliasta. Vediamo ora perché la continuità διαφόρους αὐτοὺς (…) οὐδὲ ζῷα è così importante. Quasi tutti gli interpreti (a cominciare da Usener GE p. 315 s.v. ζῷον) fanno di ζῷα un predicativo di κόσμους e pensano a una polemica contro la concezione della divinità degli astri sostenuta da Platone nel Timeo (30b; 40b-41e). Ora, attestazioni di ζῷα come «dèi, esseri divini» se ne trovano quante si vuole; il fatto è però che ζῷα ricompare anche due righi dopo, e stavolta nel senso inequivoco di «ani­mali». Se il senso non fosse lo stesso, pas­seremmo dal piano cosmologico a quello biologico senza che Epicuro ce ne avver­tisse: cosa normale solo quando non c’è rischio di ambiguità. In secondo luogo, chi pensa a una polemica contro il Timeo deve dare conto non so­lo di οὐδὲ ζῷα εἶναι, ma anche di ἀπο­κριθέντα ἀπὸ τοῦ ἀπείρου. E qui le co­se non sono più tanto semplici, poiché per quanto so non esiste nessuna doxa platonica che si presti ad essere oppugnata con parole di questo tipo; e meno che mai nel Timeo, dove la finitezza del mondo è uno dei concetti più insistentemente ribaditi (cfr. 32b-33d). Che Epicuro polemizzasse (come poi farà Lucrezio in 5.110-145) contro la concezione platonica della divinità degli astri, è un fatto acclarato265; ma non c’è prova che abbia polemizzato qui, nel c. 74 dell’Epi­stola a Erodoto – e neanche nel punto del

senso complementare che si verifica nello scolio breve del c. 40, dove è presente Περὶ φύσεως ma manca φησί, integrato da Gassendi e da Marcovich p. 737. Effetto di scritture compendiarie? 264  Stringente il paragone con il c. 42 sugli σχήματα atomici, non ἄπειρα ma ἀπερίληπτα. 265  E infatti non è in discussione il rapporto antagonistico (accertatissimo: cfr. e.g. Solmsen 1953, p. 43 e nota 36, e passim; Salem 1993, p. 79; Mansfeld 2010, p. 247; Chiaradonna 2015, pp. 37-38, ecc.) fra la Lettera a Erodoto e il Timeo. Peraltro in Tim. 55c-d Platone attacca proprio gli atomisti, e proprio a proposito dell’infinità dei mondi (solo l’ ἄπειρος può ritenere ἄπειροι i mondi). C’è anche chi ha sostenuto (Zannoni 1927, pp. 5-6) che lo scopo principale della Lettera sarebbe quello di rispondere al Timeo.

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libro XII che lo scoliasta eventualmente uti­lizzò per vergare la sua chiosa. Ammesso e non concesso, naturalmente, che οὐδὲ ζῷα κτλ. siano ancora parole di scoliasta266. In realtà, come vide François Heidsieck267 in un breve articolo del 1976, sia in (d) sia in (e) gli ζῷα sono gli animali (τὰ θηρία, τὰ ἄλογα); ed εἶναι ha valore esistenziale e non copulativo. Epicuro vorrà dire che mentre i κόσμοι si costituiscono ἀπὸ τοῦ ἀπείρου (c. 73), gli animali e le piante sono una formazione secondaria che avviene dentro i κόσμοι268 e non per effetto diretto della pioggia atomica. Altrimenti non solo la terra, ma anche lo spazio risultereb­be popolato di ζῷα e φυτά sfreccianti in ogni direzione. Se però gli ζῷα si formano in un κόσμος, le loro differenze e qualità dipenderanno dai semi presenti in quel κόσμος. In definitiva ἀποκριθέντα ἀπὸ τοῦ ἀπείρου non vorrà dire «sceveratisi dall’infinito» (Bignone p. 106), «qui se sont séparés de l’illimité» (Balaudé p. 1284), «aus dem Unend­lichen abgesonderten» (Jürß p. 481) o altro simile, bensì «forma­tisi dall’infinito», cioè diretta­men­ te dal tutto, dall’universo. Questo concetto è im­pli­cito in διαφόρους αὐτούς, ove a διαφόρους si diano come soggetto non gli σχηματισμοί, ma i κόσμοι stessi, così da inten­dervi un riferi­men­to alla diversità geofisica dei mondi269: una diversità che richiama immediata­men­te l’idea degli animali, e poi delle piante e dei λοιπὰ πάντα θεωρούμενα270. Propongo dunque per (a)-(b) il seguente assetto: ἔτι δὲ τοὺς κόσμους οὔτε ἐξ ἀνάγκης δεῖ νομίζειν ἕνα σχηματισμὸν ἔχοντας, ἀλλὰ καὶ διαφόρους αὐτούς {ἐν τῇ ιβʹ περὶ τούτου φησίν· «οὓς μὲν γὰρ

 Reale p. 1227 traduce «e non sono neppure esseri viventi separati dall’infinito» (corsivo mio). Di οὐδέ traslocati o fraintesi si riparlerà: cfr. Sezione III.8. 267  Lo Heidsieck non è stato seguìto da molti. Fra questi Morel 2011, p. 75 (Morel fa rientrare [d] nello scolio, ma ciò nulla cambia dal punto di vista dell’interpretazione). 268  Forte è l’insistenza di Lucrezio su questo punto: 1.225 sgg.; 2.1105 sgg. e 1152 sgg.; 5.793 sgg. 269  Il mondo, κόσμος, è per gli antichi, atomisti compresi, una sorta di sistema solare, chiuso in sé, in contrapposizione all’apeiron: cfr. Epist. Pyth. 88 κόσμος ἐστὶ περιοχή τις οὐρανοῦ, ἄστρα τε καὶ γῆν καὶ πάντα τὰ φαινόμενα περιέχουσα, ἀποτομὴν ἔχουσα ἀπὸ τοῦ ἀπείρου (e Leszl 1989, p. 57 nota 15); ma qui, se l’ultima pericope del papiro non è opera di scoliasta, κόσμος e γῆ vengono messi sullo stesso piano, come noi faremmo con i pianeti e la terra. 270  E così il γάρ non suonerebbe più così «strano» (Bailey p. 245; Balaudé p. 1284 nota 6; e cfr. p. 1199 nota 5) come nell’altra interpretazione. 266

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σφαιροειδεῖς, καὶ ᾠοειδεῖς ἄλλους, καὶ ἀλλοιο­σχή­μονας ἑτέρους· οὐ μέντοι πᾶν σχῆμα ἔχειν»}· οὐδὲ ζῷα εἶναι κτλ.

(e) Le aggiunte di Usener e di Schneider non bastano: per quanto ci si sforzi di dimostrare il contrario, i segmenti (e1) ed (e2) v o g l i o n o d i r e l a s t e s s a c o s a , in quando escludono, sia l’uno sia l’altro, che in un κόσμος possano mancare i semi adatti a produrre animali e piante. Le acrobazie su questo punto non sono mancate. Valga come esempio di ἀναισχυντία la traduzione dello Zannoni: «nessuno saprebbe infatti dimostrare come in questo tale mondo (…) potessero essere stati compresi questi tali semi da cui hanno avuto origine esseri animati e piante (…), e invece in quel tal’altro (…) non ci avessero potuto nemmeno svilupparsi» (1927, p. 69). Ma il sottinteso di ἐδυνήθη, se sottinteso c’è, non è certo «svilupparsi», semmai «essere inclusi» (ἐμπεριληφθῆναι). E qui il cattivo maestro è stato proprio Usener, che in apparato spiega che il testo sta bene come sta; vi verrebbe professata ignoranza su due cose: che in un mondo certi semi possono essere presenti o assenti, in un altro solo assenti271. Ma è un pensiero inutilmente tortuoso. A me pare che, stando al testo dei codici, il primo dei due membri non contenga due opzioni, ma solo una, quella negativa, proprio come il secondo. L’unica traduzione fedele è pertanto questa: «non è dimostrabile che in un mondo non potrebbero anche esserci semi di animali piante oggetti, mentre in un altro non potrebbero esserci». Ma non se ne cava un senso. Vani escamotages sono quelli di introdurre (e su che base poi?) una correlazione fuori/dentro, come faceva Zevort (1847, p. 280: «il n’est personne qui puisse démontrer que les germes dont sont nés les animaux, les plantes et tous les autres objets que nous contemplons ont été apportés de l’extérieur dans tel monde donné, et que ce même monde n’aurait pas pu les produire lui-même»), o di leggere in modo pregnante la correlazione τοιούτῳ/τοιούτῳ, fino addirittura a parlare, come fa Conche nel commento, di un’opposizione fra un mondo simile al nostro e un mondo diverso dal nostro: «non si può dimostrare che in un mondo simile al nostro, in cui la vita è presente, potrebbe non esserci vita, e che in un mondo diverso dal nostro, è impossibile che ci sia la vita» (1987, p. 176 nota 4)272. Ma simile (semblable) e dissimile (dissemblable) dove sono? La

 Nel Glossarium lo Usener dà troppo peso al καί: cfr. GE p. 352 s.v. καί: «particula vim non numquam sic intendit, ut membrum orationis a scriptore praetermissum legenti simul proponat: ὡς μὲν τῷ τοιούτῳ καὶ οὐκ ἂν ἐμπεριελήφθη τὰ τοιαῦτα σπέρματα h.e. ἐνεδέχετο τὰ τ. σπ. (ὁμοίως) καὶ ἐμπεριληφθῆναι καὶ οὐκ ἐμπεριληφθῆναι». 272  Così anche Inwood – Gerson: «for no one could demonstrate that a cosmos of one sort would not have included the sort of seeds from which (…), or that a 271

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semantica di τοιοῦτος non permette niente del genere273. E ben si spiega, data l’illogicità del passo, il lapsus di Rapp, che si dimentica di tradurre il primo οὐκ: «niemand könnte nämlich beweisen, dass in einer solchen Welt auch die Art von Samen enthalten ist, aus denen sich Lebe­wesen und Pflanzen und alles übrige, was beobachtet werden kann, zusam­men­­setzen, dass diese aber in einer andersartigen Welt nicht enthalten sein können» (2010, p. 61)274. Riterrei possibili tre soluzioni: (1) μὲν τῷ τοιούτῳ {καὶ οὐκ} ἂν ἐμπεριελήφθη; (2) μὲν τῷ τοιούτῳ κόσμῳ ἂν ἐμπεριελήφθη: «nessuno potrebbe dimostrare che in un cosmo ci sono semi atti a formare animali piante oggetti, mentre in un altro no» (soluzione in cui vedo di essere stato preceduto da Schneider 1813, p. 21)275; (3) μὲν τῷ τοιούτῳ ἱκανῶς (o ἱκανά)276 ἂν ἐμπεριελήφθη: «nessuno po­t reb­be dimostrare che in un (cosmo) ci sono abbastanza semi atti a formare ani­ma­li piante oggetti, mentre in un altro no»277. Con ὡσαύτως δὲ καὶ ἐντρα­φῆναι si estenderebbe alla crescita ciò che è stato appena detto della nascita. Quanto a τὸν αὐτὸν δὲ τρόπον κτλ., ritengo si tratti di una similitudine. La γῆ non è il corpo celeste su cui abitiamo, ma il terreno, l’ ἄρουρα: non tutti i semi presenti in essa han­no lo stesso destino. (f) La Thyresson, che segue il testo di Arrighetti 1960, giustamente reclama «a stop after ἐντραφῆναι» (p. 122)278. Quando preparò la seconda edizione (non accessibile alla Thyresson: cfr. p. 154 nota 62), anche Arrighetti si [cosmos of a] different sort could not have [included the same things]» (1994, p. 16: i primi due corsivi sono miei, il terzo è degli autori). 273  Si veda il c. 45, dove i mondi uguali e diversi dal nostro vengono detti τοιοῦτοι e διάφοροι (e poco prima ὅμοιοι e ἀνόμοιοι). 274  Stessa dimenticanza (se dimenticanza è) nel settecentesco Ortiz (1792, p. 342). 275  Nel GE p. 672 s.v. τοιοῦτος lo Usener stampa ὡς μὲν τῷ τοιούτῳ κόσμῳ καὶ οὐκ ἂν ἐμπεριελήφθη τὰ τοιαῦτα σπέρματα (…) ἐν δὲ τῷ τοιούτῳ οὐκ ἂν ἐδυνήθη; ma κόσμῳ non è una correzione, bensì un’aggiunta esplicativa; le parentesi sono state tralasciate per errore. 276   Ἱκανῶς (o ἱκανά) e non κανῶς (o κανά): lo iota può provenire da τοιούτωι, che i codici laerziani scrivono τοιούτω. Ma un tempo lo iota ci sarà stato. 277  Nell’archetipo laerziano deve essere stato usato un omega molto aperto. Se ne ravvisano le tracce negli errori singolari Φαβουρῖνος vs. Φαβωρῖνος (2.11, 2.20, 3.25); ἀξιοῦν vs. ἀξιῶν (4.40); τῶν φίλων ἐφοίτων vs. τῶν φίλων ἐφοίτουν (8.35: a meno che lo scriba – cosa possibile in quanto si tratta del dotto e distratto F – non contaminasse ἐφοίτων con ἐφίλουν), ecc. 278  Arrighetti tradusse la pericope (f) come un periodo solo, e non fu l’unico: prima di lui Lechi (1845, p. 383), Zevort (1847, p. 280) e Zannoni (1927, p. 69),

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accorse della mancanza, ma troppo tardi per potervi rimediare altrimenti che apponendo a mano un punto fermo dopo ἐντραφῆναι. Questo punto fermo, venendo ἐντρα­φῆναι a trovarsi in fine rigo (il r. 11 della p. 67) per via della mutata lineation, si colloca sullo spazio bianco del margine e può essere confuso con uno sbaffo d’inchiostro. Nondimeno è penetrato nel Thesaurus elettronico e nelle edizioni che ne dipendono. Ma, dopo il giusto reclamo per la mancanza di uno «stop after ἐντραφῆναι», la Thyresson si lancia in questa strana analisi: «ὡσαύτως δὲ καὶ ἐντραφῆναι τὸν αὐτὸν δὲ τρόπον καὶ ἐπὶ γῆς νομιστέον. Usener has deleted this clause while Musonius has deleted ὡσαύτως δὲ καὶ ἐντραφῆναι and marked a lacuna after νομιστέον. Von der Mühll follows the suggestion of Musonius» (p. 122). Chi è questo Musonius? Non è nessuno. Non esiste uno studioso con questo nome. La Thyresson ha mal interpretato quel «Mu.» che compare di continuo nell’apparato di Arrighetti, e che sta per Von der Muehll (spassosa­mente promosso, nella circostanza, a seguace di se stesso). 75 ἀλλὰ μὴν ὑποληπτέον καὶ τὴν φύσιν πολλὰ καὶ παντοῖα ὑπὸ αὐτῶν τῶν πραγμάτων διδαχθῆναί τε καὶ ἀναγκασθῆναι, τὸν δὲ λογισμὸν τὰ ὑπὸ ταύτης παρεγγυηθέντα ὕστερον ἐπακριβοῦν καὶ προσεξευρίσκειν ἐν μέν τισι θᾶττον, ἐν δέ τισι βραδύτερον καὶ ἐν μέν τισι περιόδοις καὶ χρόνοις {ἀπὸ τῶν ἀπὸ τοῦ ἀπείρου} …… ἐν δέ τισι κατ᾿ ἐλάττους. περιόδοις καὶ χρόνοις BP: χρόνοις καὶ περιόδοις F | ἀπὸ τῶν ἀπὸ τοῦ ἀπείρου del. Von der Muehll | ἀπὸ τῶν {ἀπὸ τοῦ ἀπείρου} Sedley | ἀπὸ τῶν BPF: ἀποτομὴν Usener (qui ἀποτομὴν ἀπὸ τοῦ ἀπείρου glossema esse arbitratus e textu removit) | ἀπὸ τοῦ om. F | ἀπὸ τῶν ἀπὸ τοῦ ἀπείρου Bignone | ἐν δέ τισι κατ᾿ ἐλάττους BPF: ἐν δέ τισι κατ᾿ ἐλάττους Leopold: ἐν δέ τισι καὶ ἐλάττους Usener. Bisogna anche credere che la natura apprese molte e diverse cose costretta a ciò dalle circostanze, e in seguito poi la ragione perfezionò e aggiunse nuove scoperte a ciò che era indicato dalla natura, in alcuni casi più velocemente, in altri più lentamente, e in certi periodi e tempi (secondo un progresso più rapido), in altri più lento (Arrighetti p. 66).

dopo di lui Conche (1987, p. 120). Vedo ora che ci ritenta Bredlow (2010, p. 509), con operazioni testuali e interpretative a dir poco sorprendenti.

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È comunemente ammesso che ἀπὸ τῶν ἀπὸ τοῦ ἀπείρου è ciò che resta di una glossa e che questa glossa ha prodotto una lacuna279. Poiché il primo punto mi sembra certo, il secondo meno, mi chiedo se non sia possibile tentare – almeno tentare – di ricavare un senso finito da quanto già abbiamo. Il problema del­l’inac­cettabile sintassi è aggravato dalla sinonimia περιό­δοις/χρόνοις, ora tradotti uno per uno: «times and ages» (Geer 1964, p. 29) «Perioden und Zeiten» (Krautz 1980, p. 33); «periodi e lassi di tempo» (Isnardi Parente p. 175); «periodi e tempi» (Arrighetti p. 66; Querzoli 1993, p. 25; Bred­low 2010, p. 386; Verde p. 59); «périodes et moments» (Conche 1987, p. 121); «Epochen und Zeiten» (Rapp 2010, p. 61); «ages and eras» (Sedley 1973, p. 17), ora uniti in en­dia­di: «périodes de temps» (Hamelin 1910, p. 414; Delattre – DelattreBiencourt – Kany-Turpin 2010, p. 27); «periods of time» (Inwood – Gerson 1994, p. 16); «periodi di tem­po» (Bartoletta 1992, p. 86), ora ulterior­mente semplificati: «in alcuni perio­di» (Caretta – Samarati 1976, p. 30), ora infine depotenziati per mezzo di accattivanti ma infedeli parafrasi, e.g. «plus ou moins rapidement selon les cas, et, selon les périodes , plus ou mois importants» (Morel 2011, p. 75). Sia scusato il lungo regesto, ma è sempre interessante vedere in quanti modi e con quante forzature si cerca di far tornare una cosa che proprio non torna280. Proporrei, con tutte le cautele del caso, due soluzioni, la prima con atetesi di ἀπὸ τῶν ἀπὸ τοῦ ἀπείρου e senza lacuna, ma con due cor­re­zioni, la seconda con espunzione e (seguendo il Leopold) lacuna, e una correzione sola: (1) καὶ ἐν μέν τισι περιόδοις καὶ χρονίως {ἀπὸ τῶν ἀπὸ τοῦ ἀπείρου}, ἐν δέ τι­σι κατ᾿ ἐνιαυτούς: «e in certi periodi anche in tempi lunghi, in certi altri nel vol­­gere di anni». Quando Epicuro oppone θᾶττον a βραδύτερον, probabilmente par­la di luoghi, regioni, popoli. Qui aggiun­gerebbe che in certi periodi storici le sco­perte vanno lente, in certe altre invece i progressi si vedono da un anno a un altro.

 Sedley 1973, p. 17, circoscrive la parte insiticia ad ἀπὸ τοῦ ἀπείρου e fa di ἀπὸ τῶν l’inizio di una pericope la cui continuazione sarebbe perita in lacuna: ἀπὸ τῶν , ἐν δὲ κτλ. (accogliendo, come si vede, κατὰ μείζους ἐπιδόσεις di Leopold). 280  Aggiungo a titolo di curiosità la traduzione di Lechi 1845, p. 383, e Zevort 1847, p. 280, che utilizzano ἀπὸ τῶν τοῦ ἀπείρου l’uno per modificare χρόνοις («secondo periodi e tempi maggiori di quelli che si hanno dall’infinito»: ma che vorrà dire?), l’altro per modificare περιόδοις + χρόνοις in endiadi: «tantôt à travers des périodes de temps prises sur l’infini». Come Lechi anche Ortiz 1792, p. 342. 279

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(2) καὶ ἐν μέν τισι περιόδοις καὶ χώροις {ἀπὸ τῶν ἀπὸ τοῦ ἀπείρου} , ἐν δέ τισι κατ᾿ ἐλάττους. Senza escludere che la lezione corrottasi in χρόνοις possa essere καιροῖς. Non dunque «periodi e tempi», ma – più sensatamente – «periodi e luoghi», o «periodi e circostanze». Per gli scambi χῶρος/χρόνος, frequentissimi, cfr. Herod. 1.62.1; 2.154.3; 2.154.5 (più almeno altri quattro casi); Dion. Hal. De Dem. 34 UR; e inoltre Diog. Laert. 9.114 συγχρονεῖν vs. συγχωρεῖν; Galen. De usu part. 9.9 (29.18 Helmreich) προχω­ρῶμεν vs. προχρόνων μέν, ecc. Per καιρός/χρόνος cfr. Aeschin. 2.15; Diod. 3.55.3 e 5.62.8; [Iambl.] Theol. arithm. 20 (24.17 De Falco), Liban. Epist. 693.1 (10.626.3 Foerster), ecc. 77 (a) μήτε αὖ πῦρ ἅμα ὄντα συνεστραμμένον τὴν μακαριότητα κεκτημένα κατὰ βούλησιν τὰς κινήσεις ταύτας λαμβάνειν· (b) ἀλλὰ πᾶν τὸ σέμ­νωμα τηρεῖν κατὰ πάντα ὀνόματα φερόμενα ἐπὶ τὰς τοιαύτας ἐννοίας, (c) ἵνα μηδὲν ὑπεναντίον ἐξ αὐτῶν τῷ σεμνώματι δόξῃ. (c) ἵνα Usener: ἐὰν BPF | μηδὲν Meibomius: μηδ᾿ BPF | ὑπεναντίον Meibo­mius: ὑπεναντίαις BP1: ὑπεναντίαι FP4: ὑπ᾿ ἐναντίαις Bredlow: ὑπεναντίαι Gassendi | δόξῃ Meibomius: δόξαι BPF. (a) Né, essendo un po’ di fuoco conglobato, dotati di beatitudine [sc. i corpi celesti], assumano questi moti per spontaneo atto di volontà. (b) Ma bisogna conservare intera la maestà nei confronti di tutte le parole che si riferiscono a tali concetti, (c) affinché niente in essi appaia in disaccordo con tale maestà (Arrighetti p. 68).

Ho qualche dubbio che la frase (a) sia stata ricostruita correttamente o almeno plausibilmente; ma riconosco che non è facile proporre alternative. Quanto a (c), molti editori sulla scorta di Usener adottano ἵνα, secondo me a torto. Ἵνα è indispensabile se il soggetto di τηρεῖν è «noi», ma la pericope che stiamo analizzando fa parte di un lungo periodo che comincia al c. 76 con νομίζειν δεῖ. Da νομίζειν δεῖ dipendono sia γίνεσθαι, che ha per soggetto φορὰν καὶ τροπὴν καὶ ἔκλειψιν καὶ ἀνατολὴν καὶ δύσιν καὶ τὰ σύ­στοι­χα τούτοις, sia λαμβάνειν (frase [a]), il cui soggetto non è lo stesso di γίνεσθαι, però affine: da φορὰν καὶ τροπὴν κτλ. siamo passati a τὰ μετέωρα, i corpi celesti. Ora a me pare che «corpi celesti» debba essere necessariamente soggetto anche di τη­ρεῖν281,  Al c. 38 si incontra un τηρεῖν con soggetto «noi» (cfr. Epist. Pyth. 88), ma al c. 46 un διατη­ρεῖν ha soggetto inanimato (ἀπόρροιαι). 281

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dato che (b) è diviso da (a) tramite un punto in alto decisa­mente artificioso. E con τηρεῖν va bene ἐάν. Leggerei dunque ἐὰν μηδ᾿ ὑπεναντία ἐξῇ αὐτῶν τῷ σεμνώματι δόξαι: «ma (occorre pensare) che i corpi celesti conservano tutta la loro maestà (…) qualora non sia possi­bile opinare cose nep­pure leggermente incom­patibili con la loro maestà» (da antiaexiau­ton ad antiai­exau­ton per anasillabismo). 78 καὶ μὴν καὶ τὴν ὑπὲρ τῶν κυριωτάτων αἰτίαν ἐξακριβῶσαι φυσιολογίας ἔργον εἶναι δεῖ νομίζειν, καὶ τὸ μακάριον ἐν τῇ περὶ μετεώρων γνώσει ἐνταῦθα πεπτωκέναι καὶ ἐν τῷ τίνες φύσεις αἱ θεωρούμεναι κατὰ τὰ μετέωρα ταυτί, καὶ ὅσα συγγενῆ πρὸς τὴν εἰς τοῦτο ἀκρίβειαν. {ἐν τῇ περὶ μετεώρων γνώσει} tamquam ex glossemate ad ἐνταῦθα pertinente Usener. Bisogna ritenere inoltre che è compito della scienza della natura indagare la causa dei fenomeni fondamentali e che la felicità riguardo alla conoscenza dei fenomeni celesti consiste in questo, e nel sapere quali sono le nature dei fenomeni che si contemplano nei cieli, e quanto a tutto questo è congenere per il raggiungimento della perfetta conoscenza in proposito (Arrighetti p. 68).

Si legga καὶ ἐν τῷ τίνες ecc.: il frutto di felicità che si ricava dalla περὶ μετεώρων γνῶσις sta nello studio dei κυριώτατα, le cause generali, universali (è ai κυριώτατα che ἐνταῦθα si riferisce), e non nell’indagare le φύσεις αἱ θεωρούμεναι, cioè i fenomeni particolari relativi a τὰ μετέωρα ταυτί. L’inserzione di una negativa davanti a ἐν τῷ τίνες è insomma indispensabile per non far dire a Epicuro il contrario di quanto pensa. Una conferma è l’uso di ταυτί, che richiama l’attenzione sui casi singoli (non «questi μετέωρα», ma «ora questi ora quelli»), il cui studio autonomo, coltivato di per sé, è inutile anzi dannoso al conseguimento della felicità. Lo Usener aveva eliminato ἐν τῇ περὶ μετεώρων γνώσει, evidentemente per ovviare alla tautologia: se infatti non c’è vera distinzione fra studiare l’ αἰτία ὑπὲρ τῶν κυριωτάτων e studiare τίνες φύσεις αἱ θεωρούμεναι κτλ., l’ ἐνταῦθα comprende di necessità sia l’una sia le altre; e d’altronde in che mai consisterà la περὶ μετεώρων γνῶσις se non nello studio dei κυριώτατα e insieme delle φύσεις? Ma l’inserzione di οὐκ intro­duce una distinzione forte: da una parte i κυριώτατα, dall’altra le φύσεις particolari. Adesso ἐνταῦθα si riferisce a una sola delle alternative (lo studio dei κυριώτατα) e dunque non è più tautologico. L’intervento di Usener va respinto, ma non si può non ammirarne la profondità.

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La stessa distinzione fra particolare e universale si ritrova più sotto al c. 79 τίνες δ᾿ αἱ φύσεις ἀγνοοῦντας καὶ τίνες αἱ κυριώταται αἰτίαι, il cui senso è «non distinguere tra le nature particolari e le cause universali». Un senso in verità non sempre capìto282. 79-80 (a) διὸ δὴ καὶ πλείους αἰτίας εὑρίσκομεν τροπῶν καὶ δύσεων καὶ ἀνατολῶν καὶ ἐκλείψεων καὶ τῶν τοιουτοτρόπων, ὥσπερ καὶ ἐν τοῖς κατὰ μέρος γινο­μέ­νοις, [80] καὶ283 οὐ δεῖ νομίζειν τὴν ὑπὲρ τούτων χρείαν ἀκρίβειαν μὴ ἀπει­λη­φέναι, ὅση πρὸς τὸ ἀτάραχον καὶ μακάριον ἡμῶν συντείνει. (b) ὥστε παρα­θεωροῦντας ποσαχῶς παρ᾿ ἡμῖν τὸ ὅμοιον γίνεται, (c) αἰτιολογητέον ὑπέρ τε τῶν μετεώρων καὶ παντὸς τοῦ ἀδήλου, (d) καταφρονοῦντας (d1) τῶν οὔτε μοναχῶς ἔχον ἢ γινόμενον γνωριζόντων οὔτε τὸ πλεοναχῶς συμβαῖνον, (e) τὴν ἐκ τῶν ἀποστημάτων φαντασίαν παραδιδόντων, (f) ἔτι τε ἀγ­νοούντων καὶ ἐν ποίοις οὐκ ἔστιν ἀταρακτῆσαι κτλ. (a) καὶ πλείους αἰτίας εὑρίσκομεν BPF: κἂν πλείους αἰτίας εὑρίσκωμεν Usener | γινομένοις καὶ οὐ δεῖ Meibomius: γινομένοις ἢ οὐ δεῖ BPF: γινομένοις ἦν, οὐ δεῖ Usener. (d1) οὔτε Gassendi: οὐδὲ BPF. (e) τὴν Bignone: τὴν BPF: τήν Usener | παραδιδόντων BPF: παριδόντων Usener. (a) Per questo ritroveremo molteplici cause delle rivoluzioni e del tramontare e del sorgere e dell’eclisse e degli altri fenomeni del genere così come in quelli che si verificano singolarmente, [80] e non bisogna credere che in proposito non si sia raggiunta quella conoscenza necessaria per il raggiungimento della tranquillità e della felicità. [b] Per cui, esaminando bene in quante maniere può avvenire un fenomeno simile che si verifica presso di noi, (c) si deve indagare sui fenomeni celesti e comunque su ogni fenomeno che non cade sotto il dominio dei nostri sensi, (d) tenendo in nessun conto (d1) coloro che ignorano (e) a proposito dei fenomeni che a noi si mostrano da distanza sia ciò che ha una sola maniera di essere e di verificarsi, sia ciò che ne ha molteplici, (f) e per di più non sanno in quali casi non è possibile rimanere imperturbati, ecc. (Arrighetti p. 70).

 Altro problema di questo passo è che talvolta non è stata vista (o magari sì, ma non resa a dovere) la continuità fra ὁμοίως e καὶ εἰ μὴ προσῄδεισαν ταῦτα, dove ὁμοίως καί = aeque ac. Si veda oltre, Sezione III.8. 283   Verde p. 60 stampa il καί fra uncinate, ma a torto, perché non si tratta di inserzione, bensì di correzione di Meibomius da ἤ dei codici. 282

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(a) Nel testo di Arrighetti εὑρίσκομεν sta sul piano di οὐ δεῖ, mentre Usener subordinava il primo verbo al secondo scrivendo διὸ δὴ κἄν… εὑρίσκωμεν al c. 79 e γινομένοις ἦν, seguìto da virgola, al c. 80. Si tratta nell’insieme di un intervento brillante e forse decisivo. Con ἦν spunta un riferimento a cose dette in precedenza: «come era anche nei κατὰ μέρος γινομένοις». Arrighetti p. 522 teorizza una distinzione tra i fenomeni abituali e quelli che si danno una volta tanto e singolarmente. Credo che abbia ragione. Rapportando questa distinzione a ἐν τοῖς κατὰ μέρος γινομένοις ἦν ci possiamo chiedere – ben consapevoli che non avremo risposta – se questi γινόμενα κατὰ μέρος non siano da identificare con le più particolareggiate trattazioni fornite nel Περὶ φύσεως284. (b)-(d) La punteggiatura di Usener, Arrighetti e Verde mette καταφρονοῦντας in foreground e παραθεωροῦντας in background. Io dico che è il contrario, perché è senza dubbio παραθεωροῦντας che dà le istruzioni più importanti. Dunque si tolga la virgola dopo γίνεται (lasciando quella dopo τοῦ ἀδήλου) e si intenda: dobbiamo αἰτιολογεῖν partendo dal principio che i fenomeni si verificano in più modi. Chi voglia mantenere l’ordo verborum può scrivere: «è partendo dal presupposto che i fenomeni si verificano in più modi che dobbiamo αἰτιολογεῖν, disprezzando…» ecc. (d1) Non c’è ragione di tradurre γινόμενον con il preterito «si è verificato» (come fa Verde p. 61, senza dare spiegazioni nel commento). (d1)-(e) Lo Usener correggeva παραδιδόντων in παριδόντων e inseriva dopo συμβαῖνον τήν. Arrighetti conserva παραδιδόντων e dopo συμβαῖνον scrive seguendo Bignone, intervento più pesante e non migliore di quello di Usener. L’intervento di Usener peraltro si può alleggerire, in quanto l’aggiunta di non è a rigore necessaria. 82-83 ταῦτά σοι, ὦ Ἡρόδοτε, ἔστι κεφαλαιωδέστατα ὑπὲρ τῆς τῶν ὅλων φύσεως ἐπιτετμημένα. [83] (a) ὥστ᾿ ἂν γένοιτο οὗτος ὁ λόγος δυνατός, κατασχε­θεὶς μετ᾿

 Ciò potrebbe risolvere le perplessità di Hankinson 2013, p. 76 nota 17, il quale giustamente osserva che solo il c. 68 della Lettera imposta un contrasto generale/particolare, ma senza parlare di spiegazioni multiple (del resto ὥσπερ ἐν τοῖς κατὰ μέρος γινομένοις ἦν è testo congetturale, anche se Hankinson a p. 75 non dice nulla in proposito): nulla esclude insomma che il riferimento sia a qualcosa che sta fuori della Lettera. 284

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ἀκριβείας, οἶμαι, ἐὰν μὴ καὶ πρὸς ἅπαντα βαδίσῃ τις τῶν κατὰ μέρος ἀκριβωμάτων, ἀσύμβλητον αὐτὸν πρὸς τοὺς λοιποὺς ἀνθρώπους ἁδρότητα λήψεσθαι (…). (b) τοιαῦτα γάρ ἐστιν, ὥστε καὶ τοὺς κατὰ μέρος ἤδη ἐξακριβοῦντας ἱκανῶς ἢ καὶ τε­λείως, εἰς τὰς τοιαύτας ἀναλύοντας ἐπιβολὰς τὰς πλείστας τῶν περιο­δειῶν ὑπὲρ τῆς ὅλης φύσεως ποιεῖσθαι. (c) ὅσοι δὲ μὴ παντελῶς αὐτῶν τῶν ἀποτελουμένων εἰσίν, ἐκ τούτων καὶ κατὰ τὸν ἄνευ φθόγγων τρόπον τὴν ἅμα νοήματι περίοδον τῶν κυριω­τάτων πρὸς γαληνισμὸν ποιοῦν­ται. (a) ὥστε ἂν γένοιτο BPF: ὥστ᾿ ἐὰν γένηται Usener | δυνατὸς ὁ λόγος οὗτος F | κατασχεθεὶς Gassendi: κατεσχέθη BPF: κατασχεθῇ Kuehn: κατασχεθῆναι Bockenmueller. (c) ὅσοι recc., con. Gassendi: ὅσα PF (deest B) | εἰσίν, ἐκ τούτων Kuehn: ἐκ τούτων εἰσίν PF (deest B) | καὶ κατὰ Brieger: ἢ κατὰ PF (deest B). Eccoti dunque, o Erodoto, condensati i principii fondamentali di tutta la scienza della natura; [83] (a) di modo che questa esposizione può, imparata con esattezza, io penso, far sì che uno, se non procede anche allo studio accurato di tutti i singoli problemi, si procacci, nei rispetti degli altri uomini, un’incomparabile sicurezza e tranquillità (…). (b) Sono tali infatti che, anche coloro che hanno sufficientemente progredito o sono giunti alla perfezione nella soluzione dei singoli problemi, risolvendole in atti apprensivi del genere possono fare un maggior numero di rassegne di tutta la scienza della natura. (c) Coloro invece che non sono giunti a tale grado di perfezione, con esse possono anche solo mentalmente fare una rassegna dei principii più impor­t anti con la rapidità del pensiero per ottenere serenità (Arrighetti p. 72).

(a) Due i principali problemi: (1) la proposizione retta da ὥστε non ammette la compresenza di ἂν γένοιτο e κατεσχέθη; (2) αὐτὸν λήψεσθαι può essere retto da δυνατός (ad sensum)285 oppure da οἶμαι; nel qual caso avremmo un uso assoluto di δυνατός286. Probabilmente nessuna delle molte ricostruzioni tentate fin qui rag­ giunge un equilibrio accettabile fra costi e benefici. Con l’ ἐὰν γένηται di

  Questa via scelgono Arrighetti p. 72 (non così nella prima edizione, dove si leggeva κατασχεθεὶς μετ᾿ ἀκριβείας [1960, p. 73]); Massa Positano p. 46; Bollack – Bollack – Wismann 1971, p. 246; Isnardi Parente p. 178; Balaudé p. 1290; Verde p. 63. Gioco a incastro quello di Diano 1948, p. 110, che immaginava uno scambio fra un λήψεται πολλά divenuto ποιήσει πολλά e un ἁδρότητα ποιήσειν divenuto ἁδρότητα λήψεσθαι. 286  Così Hicks II, 613: «if this statement (…) take effect»; Bailey p. 257: «if this account becomes effective»; Ramelli p. 117: «questo efficace discorso». 285

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Usener la sintassi va a posto, ma gli ἐάν retti da οἶμαι diventano due; con il κατασχεθῆναι di Bockenmueller δυνατός non è più sospeso in aria, ma il periodo successivo deve ricominciare con οἶμαι senza δέ (così Bailey p. 52 e Marcovich pp. 763-764). Partendo da F si potrebbe proporre, con molti dubbi: ᾧ τε ἂν γένοιτο δυνατὸν οὗτος ὁ λόγος κατεσχέ­θη μετ᾿ ἀκριβείας: «e penso che colui (αὐτόν) dal quale (ᾧ) questo logos sia stato appreso il più possibile con akribeia, otterrà una forza incomparabile» ecc. (ὡς δυνατὸν μετ᾿ ἀκριβείας all’incirca come Thuc. 1.22.2 ὅσον δυνατὸν ἀκριβείᾳ; Polyb. 3.22.3 καθ᾿ ὅσον ἦν δυνατὸν ἀκριβέστατα; Orig. C. Cels. 4.64 = Crisippo SVF II 1174 τοῖς ἀκριβοῦν πάντα κατὰ τὸ δυνατὸν βουλομένοις; Simpl. In Aristot. De caelo 7.710 Heiberg μετὰ τῆς δυνατῆς ἀκριβείας). (b) Non vedo come εἰς τὰς τοιαύτας ἀναλύοντας ἐπιβολάς possa voler dire «in Anlehnung an Betrachtungen dieser Art» (Apelt II, p. 261); «by analysis into such elementary perceptions» (Hicks II, p. 613); «analizzandole alla luce di tali elementari nozioni» (Gigante p. 428)287; «in die entsprechenden Zugriffe auflösen» (Krautz 1980, p. 41); «durch Einordnung in solche Grundkon­zepte» (Jürß p. 485), ecc. Serve invece «riferendosi a queste nozioni» (Bignone 1920, p. 113); «en remontant à des appréhensions de ce genre» (Balaudé p. 1290); «riconducendole a siffatte applicazioni» (Verde p. 63); un senso a cui molti verbi di moto prefissati con ἀνα- potrebbero adattarsi: e.g. ἀνελθόντας o ἀναδοῦν­τας288. (c) A. Bredlow (2008 e 2010, p. 511) ha giustamente definito «surprising» il presente ποιοῦνται289. I traduttori se la cavano usando il futuro (percor­re­ran­ no) o introducendo verbi fraseologici (possono percorrere), o com­binando le due cose (potranno percorrere)290. Unici fedeli Conche (1987, p. 125

 Così all’incirca anche Massa Positano p. 46, Isnardi Parente p. 178 e Ramelli p. 119. 288  Per ἀναδεῖν εἰς «ricon­durre, ricolle­gare» si vedano Herod. 1.143, 2.143; Plut. Eum. 11.7; Luc. Nav. 2, ecc. 289  Il presente ὑποβάλλει del c. 45 non sarebbe un buon parallelo: lì il riferimento non è solo a quanto si dirà, ma anche a quanto si è detto e dice; per cui il presente non disturba; e male faceva il Leopold a proporre ὑποβαλεῖ. 290  O anche ricorrendo ad abili parafrasi, come fa e.g. il Morel (non nuovo a queste cose: si veda sopra al c. 75 su περιόδοις καὶ χρόνοις): «quant à ceux qui n’ont pas complètement mené à bien cette étude, c’est en partant de ces points-là et sans prononcer de mots qu’ils accomplissent, à la vitesse de la pensée, le parcours de ce 287

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«font […] la revue»), Jürß (p. 485 «durcheilt»), e Verde (p. 63 «ripassano»)291. Quanto a Bredlow, egli ripristina ὅσα «in adverbial function», respinge l’inversione di Kuehn (si veda sopra in apparato) e fa di περιοδεῖαι il soggetto implicito di εἰσίν (2008, p. 176). L’unico intervento necessario sarebbe la soppressione di quell’ ἤ che viene dopo εἰσίν. Avremmo dunque: ὅσα δὲ μὴ παντελῶς αὐτῶν τῶν ἀποτελουμένων ἐκ τούτων εἰσίν, [ἢ] κατὰ τὸν ἄνευ φθόγγων τρόπον τὴν ἅμα νοήματι περίοδον τῶν κυριω­τάτων πρὸς γαληνισμὸν ποιοῦν­ται: «and insofar as these (cyclic rehearsals) are not entirely amongst those which are accomplished from these (elements of doctrine), they (sc. the advanced students mentioned before) carry out in silence the rehearsal, at the speed of thought, of the principal points for serenity». Come si vede, però, il ποιοῦνται è rimasto. Nell’edizione del 2010 Bredlow cambia idea e stampa questo testo: ὅσα δὲ μὴ παντελῶς αὐτῶν τῶν ἀποτελουμένων ᾖ συνηκότα, τὸν ἄνευ φθόγγων τρόπον τὴν ἅμα νοήματι περίοδον τῶν κυριω­τάτων πρὸς γαληνισμὸν ποιοῦν­τας. Qui il «surprising ποιοῦνται» è sostituito da ποιοῦντας. Ma siamo certi che περίοδον ποιεῖν sia altrettanto buon greco di περίοδον ποιεῖσθαι? Di norma la differenza fra ποιεῖν e ποιεῖσθαι non è poca: e.g. γάμους ποιεῖσθαι «sposarsi» vs. γάμους ποιεῖν «fare una festa di matrimonio» (si veda anche sopra, Sezione I, c. 39 [a]). Inoltre εἰσὶν ἢ κατά è stato sostituito con ᾖ συνηκότα, forma perifrastica di cui non si vede il motivo e per di più estremamente goffa. Bredlow protesta contro la «proliferation of emendations», ma alla fine anche lui deve intervenire tanto quanto i predecessori. L’unica cosa su cui concordo con Bredlow è la stranezza di ποιοῦνται. Credo senz’altro che si possa tentare ποιοῦν­ται: «si procure­ranno, si renderanno possibile». L’errore è facile292, e per di più propiziato dal quasi ugua-

qui est vraiment fondamental, afin d’atteindre la sérénité» (2011, p. 79). All’altro estremo la brutale correzione del Meibomius ποιήσονται per ποιοῦνται. Isolata, che io sappia, la posizione di Lechi, che riduceva ποιοῦνται a esortativo: «facciano di ravvolgere in mente le [nozioni] principalissime» (1845, p. 387). 291  Ma la solu­zione di Verde è accettabile soprattutto perché «ripassano» è a traino di una prece­den­te consecutiva. Anche Bollack – Bollack – Wismann (1971, p. 165) usano il presente, ma all’interno di un costrutto comple­t a­men­te diverso. 292  Olympiod. In Plat. Phaed. C II παʹ (163.15 Norvin) ἐποιησάμεθα vs. ἐπορισάμεθα; Aps. Ars rhet. 1.92 (22.9 Patillon) ποριεῖται vs. ποιεῖται; [Aristot.] Rhet. Alex. 1431a ποιήσασθαι vs. πορίσασθαι (Fuhrmann, in base ad acquirere delle versioni latine); Dion. Hal. AR 8.8.1 πορίσησθε vs. ποιήσεσθε (Cobet). Similmente Diog. Laert. 7.176 προοδοποιεῖσθαι vs. προοδοιπορεῖσθαι; [Ael. Arist.] Ars rhet. 2.92 (138.14 Patillon) εὐπορεῖτε (Norrmann) vs. εὖ ποιεῖται ed εὐ ποιειτε (sic).

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le περιοδείας ποιεῖσθαι dei righi precedenti. Si noti anche che εὐπόριστος e ἀπόριστος erano parole tematiche dell’epicureismo (cfr. e.g. Hammerstaedt – Smith 2008, p. 16, su Diog. Oen. NF 146 ii 2-3). Evidenti affinità tra il c. 83 e il fr. 339 Us. πρὸς μὲν τἆλλα δυνατὸν ἀσφάλειαν πορίσασθαι.

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2 καὶ μέχρι μέν τινος κατ᾿ ἐπιμιξίαν τοῖς ἄλλοις φιλοσοφεῖν, ἔπειτα ἰδίᾳ ἀπο, τὴν ἀπ᾿ αὐτοῦ κληθεῖσαν αἵρεσιν συστήσαντα. ἀπο τὴν Usener: ἀπο·τὴν B (in mg λείπ(ει) B2): ἀποστὴν P1(Q): πῶς τὴν P4 (πῶς τ in ras.), F: ἀπο τὴν Apelt: ἀπο τὴν Kochalsky: ἀποσ τὴν Marcovich: fortasse ἀπο τὴν Von der Muehll (conl. 8.56 et 10.9) | συστήσασθαι (cum πως) Cobet. E per un certo tempo filosofò insieme ad altri, poi cominciò a insegnare in proprio, avendo fondato la scuola che da lui prese il nome (Arrighetti p. 4).

Se si deve credere alla lacuna segnalata da B 2, l’editore potrà scegliere una qualunque fra le soluzioni riportate qui sopra in apparato1. In caso contrario non è da escludere ἔπειτα ἰδίᾳ ἀποστῆν ἀπ᾿ αὐτοῦ κτλ.: «poi se ne andò per conto suo, avendo fondato una scuola chiamata col suo proprio nome»2. È il testo di Apelt (II, p. 350), senza un τήν di cui per il vero non si sente la mancanza. L’articolo davanti ad ἄλλοις viene spesso tralasciato dai traduttori, ma a torto: nell’ ἐπιμιξία τοῖς ἄλλοις la nozione prevalente non pare comitativa,

 Con qualche riserva su ἀποστραφῆναι di Marcovich. Il verbo indica il voltare le spalle, e non si accompagna bene con ἰδίᾳ. 2  La proposta è già in Lapini 2011a, p. 211. 1

Walter Lapini, L’Epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio. Note testuali, esegetiche e metodologiche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015 ISBN (stampa) 978-88-6372-827-9 (e-book) 978-88-6372-828-6 – www.storiaeletteratura.it

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ma comparativa: per un po’ fece come tutti gli altri, non si distinse dagli altri; poi prese una strada sua (altra interpretazione in Laks 1976, p. 36). 3-4 (a) Διότιμος δ᾿ ὁ Στωϊκὸς δυσμενῶς ἔχων πρὸς αὐτὸν πικρότατα αὐτὸν διαβέβληκεν, ἐπιστολὰς φέρων πεντήκοντα ἀσελγεῖς ὡς Ἐπικούρου· καὶ ὁ τὰ εἰς Χρύσιππον ἀναφερόμενα ἐπιστόλια ὡς Ἐπικούρου συντάξας. [4] ἀλ­λὰ καὶ οἱ περὶ Ποσειδώνιον τὸν Στωϊκὸν καὶ Νικόλαος (b) καὶ Σω­τίων ἐν τῷ δωδεκάτῳ τῶν ἐπιγραφομένων Διοκλείων ἐλέγχων, ἅ ἐστι πρὸς τοῖς εἴκοσι τέσσαρα, καὶ Διονύσιος ὁ Ἁλικαρνασσεύς. (b) ἐν τῷ δωδεκάτῳ Gassendi: ἐν τοῖς (τῆς recc.) δώδεκα BPF: ἐν τῷ κʹ (pro ιβʹ) Crönert | ἅ ἐστι πρὸς τοῖς εἴκοσι τέσσαρα Crönert: ἅ ἐστι πε­ρὶ τοῖς κδʹ BPF: †ἅ ἐστι πε­ρὶ τοῖς κδʹ† Dorandi: ἅ ἐστι πρὸς τὰ κδʹ Marcovich: ἅ ἐστι δʹ πρὸς τοῖς κʹ Bignone: οἵ εἰσι περὶ κδʹ Gassendi: ἅ ἐστι περὶ τοὺς εἰκοσιτέσσαρας Cobet: ἅ ἐστι περὶ τῆς εἰκάδος Huebner: ἅ ἐστι περὶ Εἰκαδεῖς Bignone. (a) Diotimo Stoico, che gli portava odio, lo calunniò acerbamente, mettendo in giro cinquanta lettere vergognose come di Epicuro; e anche colui che raccol­ se sotto il nome di Epicuro quei codicilli attribuiti a Crisippo3; [4] e così pure lo Stoico Posidonio e i suoi scolari, e Nicolao, (b) e Sozione nel dodicesimo libro dell’opera che si intitola Confutazioni dioclee, che è in ventiquattro4 libri, e Dionigi d’Alicarnasso (Arrighetti p. 6).

(b) Nulla osta a che l’opera di Sozione (o di un Sozione: cfr. Aronadio 1990, p. 206 nota 8) constasse di 24 libri, ma non è chiaro perché Diogene Laerzio avrebbe smembrato il numero in addendi («4 oltre i 20») anziché sbrigarsela con un ἅ ἐστι κδʹ5. Molto ingegnoso ἅ ἐστι περὶ τῆς εἰκάδος di Huebner6, ma

 Ortiz (1792, p. 304), Lechi (1845, p. 354) e Zevort (1847, p. 250) omettono l’articolo fra καί e τὰ εἰς Χρύσιππον, cosicché φέρων e συντάξας vengono entrambi a riferirsi a Diotimo. 4  Zevort 1847, p. 250, scrive «vingt-deux», commettendo un classico errore da scriba: un δ preso per δ(ύο) invece che per τέσσαρες. Non è l’unico caso: anche più avanti, al c. 14, lo Zevort (p. 255) fa nascere Epicuro il dì 8 di Gamelione, invece che il 7 (ἑβδόμῃ). 5  Stessa smembratura in 5.5 τρία πρὸς τοῖς δέκα, ma qui è più normale perché si tratta di ἔτη. 6  Bignone p. 195 attribuisce τῆς εἰκάδος a Nietzsche, il quale, fra il prudente e il presago, aveva avvertito: «scribendum est ἅ ἐστι περὶ τῆς εἰκάδος quod homines docti 3

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dodici libri sulla Vigesima7 hanno l’aria di essere troppi8. Mero errore infine, come dimostrato da Festugière, l’ ἅ ἐστι περὶ Εἰκαδεῖς di Bignone9. Per parte mia azzarderei ἅ ἐστι περὶ Στωϊκῶν (τοισκ- quasi anagramma di Στωϊκ-) evitando di molestare ἐν τοῖς δώδεκα: «(addusse lettere compromettenti di Epicuro) anche Sozione nei 12 libri delle Confutazioni dioclee, che trattano degli stoici» (ἅ con τοῖς [i.e. βιβλίοις] o ad sensum con ἐλέγχων, pace Laks 1976, p. 40). Il relativo con ἐστί è usato per indicazioni sia bibliologiche, come in 3.9 ἐν τοῖς πρὸς Ἀμύνταν, ἅ ἐστι τέτταρα, sia contenutistiche, come in 9.47 Κρατυντήρια (ὅπερ ἐστὶν ἐπικριτικὰ τῶν προειρημένων); 10.29 τὴν μὲν οὖν πρώτην ἐπιστολὴν γράφει πρὸς Ἡρόδοτον , ἥτις ἐστὶ περὶ μεταρσίων, ecc. Giustamente in ἅ ἐστι περὶ Στωϊκῶν l’articolo manca poiché si parla di categoria generalissima: cfr. 1.111 περὶ μακροβίων; 8.21 φησὶ δ᾿ Ἀρίστιππος ὁ Κυρηναῖος ἐν τῷ περὶ φυσιολόγων, ecc. Diocle di Magnesia, autore di Βίοι φιλοσόφων (Diog. Laert. 2.54, 2.82) e di una Ἐπιδρομὴ τῶν φιλοσόφων (Diog. Laert. 7.48, 10.11), che forse erano la stessa cosa e forse no10, fu per Diogene Laerzio la fonte principale per la trattazione della logica stoica (lo dichiara lui stesso in 7.48)11, se non di tutta la dottrina stoica12. Come rivela il titolo stesso, i Διόκλειοι ἔλεγχοι erano

qui morum et institutorum Epicureorum probe sunt gnari, lubenter mihi concedent. Ceterum dum haec scribo, non satis mihi constat, num primus hanc emendandi viam ingressus sim» (1868, p. 639 nota 2; corsivo mio). Infatti non era il primo. Equivoca malamente la Ramelli (p. 765), che prende περὶ τῆς εἰκάδος per un’indicazione (approssimata) del numero dei libri: «nel dodicesimo libro di quelle che si intitolano Confutazioni di Diocle – che sono circa una ventina». Poco o nulla aveva capito anche il povero Lechi, che ibridava Gassendi con Huebner e se ne veniva fuori con un «nel decimo secondo Degli argomenti chiamati diocleici [si noti l’ ἐπιγραφομένων fatto rientrare a torto nel titolo], che trattano della XXIV [sic]» (1845, p. 354: una non-spiegazione a p. 420). 7  Della famosa εἰκάς si parla in 10.18, testamento di Epicuro. Si veda e.g. Erler 1994, pp. 64-65. 8  Così Kochalsky p. 60: «sachlich unwahrscheinlich»; Bignone p. 195 nota 3; Laks 1976, p. 40. 9  Festugière 1968, pp. 32-33 nota 2: τοῖς κδʹ sarebbe ciò che resta di una nota marginale. 10  Cfr. Holwerda 1962, p. 169; Mejer 1978, p. 44. 11  Analisi del passo in Barnes 1986, pp. 28 sgg. 12  O persino di tutta l’opera laerziana, come riteneva Nietzsche. Il problema di quanto Diogene si appoggiasse a Diocle è stato spesso discusso (da Freudenthal 1879, pp. 307-310, che respingeva sprezzantemente il pan-dioclismo di Nietzsche, a Celluprica 1989, pp. 58-59, e oltre), ma è ovviamente insolubile allo stato attuale delle conoscenze.

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un’opera contro Diocle. È normale che uno storico dello stoicismo, insieme agli altri stoici illustri che Diogene gli accosta, menzionasse o citasse lettere epicuree infamanti13, e che un anti-diocleo prendesse le difese dell’infamato. Quali fossero le convinzioni filosofiche di Diocle e di Sozione, del resto, poco importa: chiunque può riferire volgarità e bassezze su qualcuno, il nemico per dimostrarle vere, l’amico false. Chi leggesse fuori contesto i materiali epicurei di 10.4-8 penserebbe a Diogene Laerzio come a un detrat­ tore trinariciuto. Invece è tutto il contrario. 4-5 Μιθρῆν τε αἰσχρῶς κολακεύειν τὸν Λυσιμάχου διοικητήν, ἐν ταῖς ἐπιστολαῖς Παιᾶνα καὶ ἄνακτα καλοῦντα. [5] (a) ἀλλὰ καὶ Ἰδομενέα καὶ Ἡρόδοτον καὶ Τιμοκράτην τοὺς ἔκπυστα αὐτοῦ τὰ κρύφια ποιήσαν­τας ἐγκωμιάζειν καὶ κολακεύειν αὐτὸ τοῦτο. (b) ἔν τε ταῖς ἐπι­στο­λαῖς πρὸς μὲν Λεόντιον· «Παιὰν ἄναξ, φίλον Λεον­ τάριον, οἵου κροτοθορύβου ἡμᾶς ἐνέ­πλη­σας ἀναγνόντας σου τὸ ἐπιστό­λιον»· (c) πρὸς δὲ Θεμίσταν τὴν Λεοντέως γυναῖκα· «οἷός τε», φησίν, «εἰμί, ἐὰν μὴ ὑμεῖς πρός με ἀφίκησθε, αὐτὸς τρι­κύ­λι­στος, ὅπου ἂν ὑμεῖς καὶ Θεμίστα παρακαλῆτε ὠθεῖσθαι». (d) πρὸς δὲ Πυθο­κλέα ὡ­ραῖον ὄντα «καθεδοῦμαί», φησι, «προσδοκῶν τὴν ἱμερτὴν καὶ ἰσόθεόν σου εἴσο­δον». (e) καὶ πάλιν πρὸς Θεμίσταν γράφων †νομίζει αὐ­τῇ πα­ραι­νεῖν†, καθά φησι Θεόδωρος ἐν τῷ τετάρτῳ τῶν Πρὸς Ἐπίκου­ρον. (a) αὐτὸ τοῦτο BP: αὐτὸ τοῦτο Marcovich: αὐτῶ τούτω F. (b) φίλον Λεοντάριον PFΦ: φησὶ Λεοντάριον P: φίλον Λεον­τάριον Marcovich. (c) ὅποι Cobet: ὅπου BPF. (e) γράφων BPF: γράφειν Marcovich | νομίζει BPF (νομίζειν recc.) | αὐτῆ πα­ρα­ ινεῖν BPF | ὀνομάζει αὐτὴν ἑταίραν Usener | νομίζειν αὐτὴ παροινεῖν Bignone: νομίζειν αὐτὴ περαι­νεῖν editio Frobeniana (περαίνειν Rossi): νομίζει αὐτῇ παρεῖναι Kuehn: νομίζει αὐτὴ πα­ραι­νεῖν Hicks: νομίζει αὐτῇ πα­ροι­νεῖν Marcovich. [4] Che adulava vergognosamente Mitre, ministro delle finanze di Lisimaco, chiamandolo nelle lettere «Salvatore» e «Signore»; [5] (a) e che anche Idomeneo

 L’opinione di Sedley 1976a, p. 128, ormai universalmente condivisa (Longo Auricchio – Tepedino Guerra 1980, p. 477 nota 48; Capasso 1981, pp. 426-427; Gargiulo 1982, p. 153; Angeli 1988, p. 243; Leone 1996, p. 240 nota 7; Erler 1994, pp. 71 e 283; Warren 2002, p. 134; Corradi 2005, p. 398 nota 3, ecc.), è che all’origine di queste maldicenze non potesse che esservi l’apostata Timocrate. 13

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e Erodoto e Timocrate, che avevano svelato le parti più gelosamente private della sua vita e della sua dottrina, lodava e adulava in tale maniera. (b) E nelle lettere a Leonzio scriveva: «per Apollo Salvatore, o cara piccola Leonzio, di quale esultante plauso mi hai riempito nel leggere la tua cara lettera»; (c) e a Temista, la moglie di Leonteo: «sono ben capace, se voi non venite da me, di spingermi sulle mie tre ruote fin dove voi e Temista mi chiamate»; (d) e a Pitocle che era un bel giovane: «mi accomodo e aspetto il tuo amabile e divino ingresso»; (e) e di nuovo a Temista …, secondo quanto dice Teodoro nel quarto libro dell’opera Contro Epicuro (Arrighetti p. 6).

(a) In antichità le dottrine segrete erano attribuite più o meno a tutti (Boas 1953; Barnes 1992), e saperle attribuite anche ad Epicuro non sorprende – ancorché niente meno della segretezza si addica al ‘messaggio’ epicureo (Laks 1976, pp. 43-44; Balaudé p. 1241 nota 2). Ma τὰ κρύφια potrebbero anche essere segreti qualunque, segreti personali, peraltro più adeguati alla fangosità del capitolo. Ed è questa l’interpretazione a cui mi atterrei: «i suoi (loschi) segreti» (Bignone p. 118; Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin 2010, p. 4), piuttosto che «dottrine esoteriche, occulte» (Hicks II, p. 533; Gigante p. 401; Laks 1976, pp. 9 e 43-44; Reale p. 1165; Périllié 2005, p. 248, ecc.)14. (b) Se Diogene Laerzio fosse stato più filologo (o più sveglio), avrebbe sfruttato l’esclamativo παιὰν ἄναξ che apre l’epistola a Leonzio (b) per dimostrare che anche il Παιᾶνα καὶ Ἄνακτα rivolto a Mitre (c. 4) poteva essere un mal interpretato «impulsiver Ausruf» (Steckel 1968, col. 583) piuttosto che un empito di sbracata adulazione15. (e) Su questo passo neppure Usener ha avuto la mano felice: il suo νομάζει αὐτὴ ἑταίραν (p. 140, fr. 126), basato sull’ipotesi che ἑταίρα, di per sé «nomen honestum», sarebbe stato deliberatamente vòlto «in malam partem» (GE p. 296 s.v. ἑταίρα), risulta a conti fatti più lesivo per Temista che per Epicuro, mentre è Epicuro che si vuole colpire. E aggiungiamo che la distanza dal tràdito non è poca.

 La traduzione di Arrighetti non esclude nessuna delle due cose. Confusa la Ramelli (pp. 59-61, 325 e 767). Non mancano interpretazioni innocentistiche verso i ‘traditori’ Idomeneo, Erodoto e Timocrate (il punto in Erler 1994, p. 75). 15  Lo aveva capito il Lechi (1845) nella nota ad loc. a p. 20; il quale non capisce però di avere a che fare con esclamazioni, non con epiteti: cfr. p. 355: «appellandolo [sc. Mitre] Peana e re», e poco più sotto: «e [scrisse] alla Leonzio: Peana, re, cara Leonzietta, di che rumorosi applausi». 14

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Altri si sono figurati situazioni libertine. Ecco una bella serie: «[scrive] alla Temista (…) avere stabilito di giacersi con lei» (Lechi 1845, p. 355); «il me semble que je jouis de tes embrassements» (Zevort 1847, p. 251); «il lui rappelle les relations intimes qu’il avait avec elle» (Solovine 1938, p. 39); «il reconnaît qu’elle l’excite terriblement» (Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin 2010, p. 4), e persino «la avvisa di aver pollulato sognando di possederla» (Sammartano 1959, p. 97). Non parlava a vuoto A. Laks quando scriveva che «cette phrase a éveillé les imaginations» (1976, p. 45 nota 11). In verità gli estratti forniti in questo capitolo – che paiono unitari, e quindi probabilmente assemblati da una stessa mano – non prendono di mira tanto la vita intima di Epicuro, quanto la sua abietta adorazione nei confronti di amici, allievi e contubernali. Il tràdito παραινεῖν va probabilmente nella direzione giusta, ma è troppo debole e stinto. Servirebbe qualcosa di esaltato, di sviscerato, da mettere sul piano dell’ ἐγκωμιάζειν καὶ κολακεύειν e delle altre indecorose espressioni rivolte a politicanti, giovinastri e puttanelle. Potrebbero funzionare correzioni come παιανιεῖν o παιωνιεῖν16; con il che risulterebbe che Epicuro manifestò a Temista – coerentemente con il ben noto lessico infatuato e ‘teistico’ che contraddistingue le relazioni di Epicuro con il suo ‘cerchio magico’17 – l’intenzione di intonare per lei un peana, come a una creatura superiore. Questo uso di νομίζειν con l’infinito futuro (avere in mente, riproporsi di) si ritrova nella RS 7 οὕτω νομίζοντες περιποιήσεσθαι (Diog. Laert. 10.141). Il peana era, come ben si sa, un canto collettivo (il canto degli eserciti vittoriosi), ma anche un canto singolo (sch. Lycophr. 51 Scheer μὴ μαθὼν δὲ τὴν τελευτὴν τῆς εἰρημένης Ἐριβοίας παιανίζειν ἀρξάμενος μία τῶν δουλίδων προσῆλθεν αὐτῷ καὶ εἶπεν· οὐ δεῖ παιανίζειν ὧδε διὰ τὸ τὴν γυναῖκα τοῦ Ἀδμήτου τεθνάναι) che serviva a esprimere felicità (Xen. Symp. 2.1 ὡς δ’ ἀφῃρέθησαν αἱ τράπεζαι καὶ ἔσπεισάν τε καὶ ἐπαιάνισαν, ἔρχεται αὐτοῖς ἐπὶ κῶμον Συρακόσιός τις ἄνθρωπος κτλ.; Ach. Tat. 7.15.3 ὁ μὲν δὴ Κλεινίας ἀνεκρότησε παιανίσας κτλ.) e a celebrare gli dèi (sch. Aesch. Sept. 268.a Smith καὶ γὰρ μόνῃ τῇ Ἀθηνᾷ, δαίμονι οὔσῃ πολεμικῇ, ὀλολύζουσι, τοῖς δὲ ἄλλοις θεοῖς παιανίζουσιν; Suda π 884 A. παιωνίσας: εὐξάμενος καὶ τοῖς θεοῖς χάριν ὁμολογήσας. παιὼν γὰρ ὕμνος εὐχαριστήριος). Per παιανίζειν + dativo cfr. e.g. Plut. QC 743C τῷ Μουσαγέτῃ [Ἀπόλλωνι] παιανίσαντες. E si ricordi che la parola Παιάν è stata usata già due volte in questo capitolo. A Epicuro doveva piacere. Tuttavia, per quanto attraente ed economico possa essere νομίζει αὐτῇ παιανιεῖν, resta un dubbio. Sarebbe strano infatti se, dopo tre citazioni

 Una correzione παιάνων in luogo di ἐπαίνων fu tentata dal Van Lennep in [Plut.] Cons. ad Apoll. 114D οὐδεὶς γὰρ ἀγαθὸς ἄξιος θρήνων ἀλλ’ ὕμνων καὶ ἐπαίνων. 17  Si veda oltre, nota 164. A cui è da aggiungere Decleva Caizzi 1993, pp. 323 sgg. 16

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letterali, (b), (c), (d), ne arrivasse una che non lo è. Chiunque abbia messo insieme le notizie su Mitre, Idomeneo, Erodoto, Timocrate, Leonzio, Pitocle e Temista, era qualcuno che voleva impiccare Epicuro alle sue stesse parole. Per cui servirebbe anche qui la citazione diretta, e quindi un νόμιζε per νομίζει preceduto dal virgolettato. Per il resto, la decisione più saggia è probabilmente quella di applicare le cruces, come fanno Arrighetti (p. 7) e Dorandi (p. 736). Dunque: καὶ πάλιν πρὸς Θεμίσταν γράφων· «νόμιζε †αὐτῆ πα­ραι­νεῖ톻, καθά φησιν κτλ. (cfr. già Lapini 2011a, pp. 211-212). 7-8 (a) καὶ ἐν ταῖς ἑπτὰ καὶ τριάκοντα βίβλοις ταῖς Περὶ φύσεως {τὰ πλεῖστα} ταὐτὰ λέγειν καὶ ἀντιγράφειν ἐν αὐταῖς ἄλλοις τε καὶ Ναυσιφάνει (a1) τὰ πλεῖστα, καὶ αὐτῇ λέξει φάσκειν οὕτως· (b) «ἀλλ᾿ ἴτωσαν· εἶχε γὰρ ἐκεῖνος ὠδίνων τὴν ἀπὸ τοῦ στόματος καύχησιν τὴν σοφιστικὴν καθά­περ καὶ ἄλλοι πολλοὶ τῶν ἀνδραπόδων». [8] (c) καὶ αὐτὸν Ἐπί­κου­ρον ἐν ταῖς ἐπιστολαῖς περὶ Ναυσιφάνους λέγειν· (d) «ταῦτα ἤγαγεν αὐτὸν εἰς ἔκστασιν τοιαύτην, ὥστε μοι λοιδορεῖσθαι καὶ ἀποκαλεῖν διδά­σκα­λον». (e) πλεύμονά τε αὐτὸν ἐκάλει καὶ ἀγράμ­ματον καὶ ἀπα­τεῶ­να καὶ πόρνην. (a) τὰ πλεῖστα ταῦτα BP1: ταῦτα τὰ πλεῖστα F | τὰ πλεῖστα secl. Diano | ταὐτὰ Kuehn: ταῦτα BPF: ταὐτά Usener. (a1) τὰ πλεῖστα secl. Usener | τὰ πλεῖστα οὕτως F. (b) ἀλλ᾿ ἴτωσαν· εἶχε γὰρ ἐκεῖνος Usener: ἀλλ᾿ εἴτως· ἀλλ᾿ εἶχε γὰρ (γὰρ in ras. B2) κεῖνος BP1(Q): ἀλλ᾿ ἥτω· ἀλλ᾿ εἶχε γὰρ κεῖνος P4: ἀλλ᾿ εἶχε γὰρ κεῖνος F (post ἀλλ᾿ ἥτις erasum): ἀλλ᾿ εἴ τις ἄλλος εἶχε κἀκεῖνος Stephanus | ἐκεῖνος Usener: κεῖνος BPF: κἀκεῖνος recc. | ὠδίνων BPF: ὁ πλεύμων Usener. (c) αὐτὸν BPF: αὐτὸν Diels. (d) μοι B2 (οι in rasura) PΦh: μὴ F | διδάσκαλον BPFΦh: δύσκολον Usener. (a) E nei 37 libri dell’opera Sulla natura dice sempre le stesse cose, e combatte contro altri e (a1) soprattutto contro Nausifane, e dice così, proprio con queste parole: (b) «ma orsù! Era infatti egli tale da partorire quella iattanza sofistica di chiacchiere come molti di quegli schiavi». [8] (c) E sempre Epicuro diceva di Nausifane nelle epistole: (d) «questo lo trasse tanto fuor di senno da ingiuriarmi e da proclamarsi mio maestro»; (e) lo chiamava mollusco e analfabeta e ingannatore e meretrice18 (Arrighetti pp. 458-459).

 Usener fa derivare πόρνην da un maschile πόρνης, equivalente a πόρνος (cfr. GE p. 563 s.v. πόρνης). 18

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(a) I due τὰ πλεῖστα sono sospetti, e forse avevano ragione Usener e Diano a voler eliminare o l’uno o l’altro. Ma può darsi anche che uno di essi (quale non saprei) sia la corruttela di πάμπλειστα19. (b) Sagacissima la ricostruzione di Usener ἀλλ᾿ ἴτωσαν κτλ., ma anche migliore quella di Stephanus ἀλλ᾿ εἴ τις ἄλλος εἶχε κἀκεῖνος, accolta da Marcovich, e che anch’io preferirei. Il nesso tra vanagloria e natura servile è noto (cfr. Diog. Laert. 8.8 οἱ μὲν ἀνδρα­πο­δώδεις, ἔφη, φύονται δόξης καὶ πλεονεξίας θηραταί, οἱ δὲ φιλόσοφοι τῆς ἀλη­θείας), ma nonostante ciò la frase καθάπερ καὶ ἄλλοι πολλοὶ τῶν ἀνδραπόδων è dubbia, non tanto per la difficoltà (superabile) di mettere insieme il maschile ἄλλοι πολλοί con il neutro ἀνδραπόδων, quanto perché non si capisce come mai «sgra­vare dalla bocca la sofi­stica vanaglo­ria» dovrebbe essere propria di m o l t i a l t r i schiavi anziché degli schiavi in genere. Dunque non è da escludere che ἀνδρα­πόδων sia la corruttela di ἀπόδων, «mollu­schi» (cfr. Lapini 2011a, p. 214). A suo modo si era messo su questa strada anche lo Usener, che al posto di ὠδίνων suggeriva ὁ πλεύμων, «polmone di mare», ricavandolo dai sopran­ nomi a un tempo astiosi e lambiccati della sezione (e). Parlando di ὠδίνειν καύχησιν σοφιστικήν Epicuro verrebbe a dire, con la barocca viscerale perfidia che contraddistingue le polemiche fra ex amici, che Nausifane fiottava parole vane al modo in cui certi molluschi (fra i quali il πλεύμων, della famiglia delle meduse) espellono liquido per e nel muoversi. Il Porter richiama l’attenzione, molto opportunamente visto il contesto, sulla ‘marittimità’ del nome Nausifane (2002, pp. 183-184 nota 299). L’ignoranza presuntuosa (già Pla­tone parla del πλεύμων come essere di eletta stupidità: Plat. Phil. 21c ζῆν δὲ οὐκ ἀνθρώπου βίον ἀλλά τινος πλεύμονος ἢ τῶν ὅσα θαλάττια κτλ.) è per natura associata a metafore pneuma­tiche. Essendo il πλεύμων un animale marino, qui si tratterebbe di acqua e non di aria, elementi che anche Aristotele usa come variabili indifferenti allorché nel De incessu animalium fornisce la descrizione scientifica di questa specie di moto ‘a reazio­ne’: 713a οὕτω γὰρ ἂν τάχιστα καὶ ἰσχυρότατα διαστέλλοντα τὰ μὲν τὸν ἀέρα τὰ δὲ τὸ ὑγρὸν ποιοῖτο τὴν κίνησιν20. Il pun-

  Πάμπλειστος è un Lieblingswort laerziano: 1.26, 2.128, 4.4, 5.21, ecc.  Si veda anche HA 621b κινεῖται δι᾿ αὑτοῦ πετόμενος, detto di un mollusco bivalve chiamato κτείς e classificato tra gli ἄποδα. Sulla ‘trasfusione’ dalle metafore acquatiche a quelle pneumatiche, amate dai poeti (si ricordi l’aeris magnum mare di Lucr. 5.276) ma presenti in ogni tipo di linguaggio, rimando a Leone 2013 e Leone 2014, p. 10, con riferimenti. 19

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to debole della proposta di Usener è che ἔχειν τὴν ἀπὸ τοῦ στόματος καύχησιν τὴν σοφι­στι­κήν non può stare sullo stesso piano di ἔχειν νόσον21, non foss’altro per la presenza dell’articolo. (c) Preferirei καὶ αὐτὸν Ἐπίκουρον. Qui stanno bene sia idem che ipse, ma ipse richiede un intervento meno costoso. (d) Bignone traduce: «questo lo trasse così fuor di senno, da farmi ingiuria, e da chiamarmi per dileggio ‘Maestro’»; e annota: le ultime parole ἀποκαλεῖν διδάσκαλον son considerate corrotte da alcuni, l’Usener legge δύσκολον (p. 136, 15) invece di διδάσκαλον, il Kochalsky invece vuol correggere ἀπ. διδάσκαλόν 22, ed il Diels, senza correggere, intende, «sì da chiamarsi mio maestro»23, ciò che parmi difficile, se si conserva il testo dei codici. Credo prudente non mutare la lezione manoscritta dandole il senso che le ho dato nella traduzione (…) poiché λοιδορεῖσθαι indica chiaramente che l’intenzione era ingiuriosa ed ἀποκαλεῖν è per lo più usato in cattivo senso, la parola Maestro prende senso ironico; si comprende infatti come Nausifane, che pretendeva d’essergli stato maestro, chiamasse ironicamente Maestro Epicuro che si dichiarava autodidatta (p. 199 nota 1).

L’analisi è tutta fondata sulla distinzione διδάσκαλος/Διδάσκαλος24, ma, come scriveva Jackson, «not the most accomplished elocutionist can pro Usener dà a questo ἔχειν il senso di «praeditum esse aliqua re (vitio) = laborare aliqua re» (GE p. 308 s.v. ἔχειν; e anche GE p. 736 s.v. ὠδίνειν, con parafrasi di tutta la pericope: «translate: εἶχε γὰρ ἐκεῖνος ὠδίνων τὴν ἀπὸ τοῦ στόματος καύχησιν […]: laborabat ille iactantia oris, ut qui parturiret»). La Ramelli p. 771 traduce: «aveva (…) la millanteria tipica dei sofisti». La familiarità con l’italiano inganna. L’unico modo per avvicinarsi a una lettura del genere sarebbe sostituire ἔχει con ἐκχεῖ. 22   Kochalsky p. 61 nota 6. Il Menagius era arrivato alla stessa conclusione (con la differenza che inseriva il suo ἑαυτόν μου prima di διδάσκαλον). 23  L’interpretazione risale (almeno) a Gassendi, De vita et mor. Epic. 5.1.2 (II, 48 Taussig), che adottava ὥστε μή (non μοι) e traduceva: «haec in eam mentis exturbationem ipsum deduxerunt, ut, ne probris impeteretur, magistrum etiam (se meum fuisse) obtenderet». 24  De Falco scrive: «lo ingiuriava chiamandolo per dileggio maestro» (1963, p. 35), e «l’ironia da parte di Nausifane consisterebbe nel definire Maestro chi era stato suo discepolo» (p. 35 nota 14). Si passa da «maestro» a «Maestro» (così anche Sammartano 1959, pp. 79 e 99), variatio non innocua in un passo come questo. Anche l’uso del virgolettato (e.g. Laks 1976, p. 11: «il m’a appelé ‘profes­seur’»; Ramelli p. 771: «mi chiamò ‘maestro’») è un dubbio espediente. 21

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nounce Δ more reverently that δ» (1955, pp. 77-78). Inoltre non sono le ironie raffinatamente allusive che si addicono a un uomo fuori dai gangheri (ἔκστασις), ma semmai gli insulti pesanti. E διδάσκαλον da solo non lo è25; come non lo è δύσκολον (Usener), che peraltro rimuoverebbe inopportuna­ men­te il motivo della διδασκαλία, dato che Epicuro, prima di diventare filosofo, era stato appunto un γραμματοδιδάσκα­λος, un maestro di scuola (Diog. Laert. 10.2-3), professione come si sa infamante e miserabile26. Proporrei καὶ ἀποκαλεῖν διδάσκαλον. Per il nesso Epicuro/suinità si vedano Cic. In Pis. 37 Epicure noster ex hara producte non ex schola 27; Hor. Epist. 1.4.16 Epicuri de grege porcum 28; Plut. Non posse 1096E κατασυβωτεῖν e 1091C ὥστε μήτε συῶν ἀπολείπεσθαι μήτε προβάτων εὐδαιμονίᾳ; Clem. Protr. 92.4 ὑώδεις τινὲς ἄνθρωποι, e infine Timone di Fliunte fr. 51 DM, citato dallo stesso Diogene Laerzio al c. 3: ὕστατος αὖ φυσικῶν καὶ κύντατος ἐκ Σάμου ἐλθὼν | γραμ­μο­δι­δα­σκα­λίδης, ἀναγωγότατος ζωόντων, dove ὕστατος φυσικῶν significa a un tempo «l’ultimo dei fisici» e «il più porco (ὗς) tra i fisici». Trattandosi del dotto e cerebrale Timone, non si può escludere un richiamo all’ ὑῶν ἐπίουρος applicato due volte a Eumeo nell’Odissea (13.405 e 15.39). Si noti che gli scolii a Il. 21.431a E. ἦλθεν Ἄρῃ ἐπίκουρος attestano la v.l. ἐπίουρος, affine per suono e per significato29. Nessun animale meglio del porco sintetizzava i motivi, classicamente epicurei30, dell’ignoranza31 e del basso edonismo. E non sarà casuale in Timone l’accostamento della suinità

 Né basta il confronto con Diog. Laert. 10.26 σοφιστὰς ἀποκαλοῦσι, addotto da Hirzel (1877, p. 109), per salvare il testo. Ἀποκαλεῖν e διδάσκαλον non configurano lo scherno realmente grave che occorre qui, anche se con Hirzel stesso, e Mutschmann (1915, p. 340 e nota 2), si desse a διδάσκαλον il senso di γραμματοδιδάσκαλον. 26  E si ricordi, per converso, anche il motivo epicureo dell’ αὐτοδιδασκαλία (Erler 2011, pp. 9-10 e 14), che non c’è ragione di non considerare autentico. 27  Cicerone torna anche altrove a insistere (più o meno allusivamente) sul motivo della porcinità epicurea nel suo attacco a Pisone: cfr. De Lacy 1941, soprattutto le pp. 50-51 e 55. 28  Si veda ora Roskam 2007, pp. 166-167, per una discussione con bibliografia del celebre passo. 29  Caso analogo in Ap. Rh. 4.652 ἐπίουροι vs. ἐπίκουροι. In Theocr. 25.1 βοῶν ἐπίουρος ἀροτρεύς è variante di ἐπιβουκόλος ἀνήρ. 30  Gargiulo 1982, p. 153 e passim; Maso 1993; Erler 1994, p. 63; Erler – Schofield 1999, pp. 642-643; Warren 2002, p. 115. 31  Ritroviamo il nesso porco/ignoranza in una quantità di proverbi e di neoconiazioni: da sus Minervam alla ὑομουσία (Aristoph. Eq. 986) alla συηνία (Plut. Bruta an. rat. uti 989F). 25

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alla διδασκαλία32 e alla provenienza samia (De Martino 1986, pp. 139 sgg.). (Viceversa non vedo cogenti affinità tra la «piggishness» degli epicurei e la platonica «città dei porci» [Resp. 372d]33 o con il Gryllus di Plutarco)34. Un gioco di parole sul nome Epicuro è attestato anche in Ath. 7.278f τῆς ἡδονῆς καὶ ἀκρασίας ἐπικούρους καὶ βοηθούς (cfr. Sabato 2006, pp. 602603 e nota 7), e ancora – ma questa volta in senso buono – in Diogene di Enoanda fr. 3 v 7 Smith (= fr. 2 v 7 Chilton) ἐπικουρεῖν: cfr. Smith 1993, p. 439: «ἐπικουρεῖν is probably chosen to emphasize that the aid is to be the philosophy of Ἐπίκουρος» (similmente Erler 1994, p. 46; Clay 2007, p. 5, ecc.). A nessuno piace che si risappiano i nomignoli – fondati o no – che altri ci danno, ed è quindi strano che Epicuro metta in piazza (le parole ταῦτα ἤγαγεν κτλ. stavano scritte in una lettera) le perfidie di Nausifane dirette a lui. Ma con l’aggiunta di ὑῶν l’attacco di Nausifane non riguarderebbe più il solo Epicuro, bensì anche, e forse più, i suoi allievi. Definire Epicuro «maestro di porci» non avrebbe potuto che sollevare la generale indignazione della scuola contro Nausifane. Ed è ragionevole che la cosa a Epicuro non dispiacesse per niente. 9 μεμήνασι δ᾿ οὗτοι· τῷ γὰρ ἀνδρὶ μάρτυρες ἱκανοὶ τῆς ἀνυπερβλήτου πρὸς πάντας εὐγνωμοσύνης ἥ τε πατρὶς χαλκαῖς εἰκόσι τιμήσασα, οἵ τε φίλοι τοσοῦτοι τὸ πλῆθος ὡς μηδ᾿ ἂν πόλεσιν ὅλαις μετρεῖσθαι δύνασθαι, οἵ τε γνώριμοι πάντες ταῖς δογματικαῖς αὐτοῦ σειρῆσι προσκατασχεθέντες, πλὴν Μητροδώρου τοῦ Στρατονικέως πρὸς Καρνεάδην ἀποχωρήσαντος τάχα βαρυνθέντος ταῖς ἀνυπερβλήτοις αὐτοῦ χρηστότησιν· (a) ἥ τε διαδοχή, πασῶν σχεδὸν ἐκλιπουσῶν τῶν ἄλλων, ἐς ἀεὶ διαμένουσα καὶ νηρίθμους ἀρχὰς ἀπολύουσα ἄλλην ἐξ ἄλλης τῶν γνωρίμων.

 Si vedano in proposito Di Marco 1982, pp. 338-339 e passim; Di Marco 1983, pp. 60-61 e 89 (dove si ricorda una problematica commedia antiepicurea di Alessi intitolata Ἀσωτοδιδάσκαλος [si veda ora Tammaro 2014]), e ancora Di Marco 1989, pp. 226-232. Su Epicuro maestro (stavolta di cuochi) cfr. Gallo 1981, pp. 69-140 (c. II: Damosseno e la parodia epicurea sulla scena). 33  Non ce le vede neanche il Long (1986, pp. 182-183). L’accostamento era stato di Philippson (1909, p. 508), seguìto da De Lacy (1958a), da Farrington (1967, pp. 26-27), e certamente da altri. 34  Fu Usener per primo (pp. lxx-lxxi) a leggere l’operetta plutarchea (per lui pseudoplutarchea) come un attacco a Epicuro. Sull’argomento cfr. Maso 1993, p. 148; Warren 2002, p. 141; Jufresa 2007, p. 269 nota 17, nonché Ziegler 1965, pp. 131-132 (che dissente da Usener nel modo più radicale). 32

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(a) ἀπολύουσα BPF: ἀποδιδοῦσα Gassendi: ἀπολαύουσα Apelt. Folli sono però costoro: per un tal uomo sufficiente testimonio della insuperabile bontà d’animo che usò verso tutti è la patria, che lo onorò con statue di bronzo, e gli amici, tanti da non potersi misurare nemmeno a intere città, e i discepoli, tutti avvinti dalle sirene della sua dottrina; all’infuori di Metrodoro di Stratonicea che passò alla scuola di Carneade, forse perché gli pesava la sua insuperabile bontà; (a) e la sua scuola che, mentre quasi tutte le altre sono estinte, rimane sempre e produce innumerevoli scolarchi, uno dopo l’altro, dal numero dei discepoli (Arrighetti p. 8).

(a) Le altre scuole filosofiche, dice Diogene, si sono spente quasi tutte, mentre quella di Epicuro resiste e anzi prospera, rinnovandosi di epoca in epoca, allievo dopo allievo. Il senso di ἀπολύειν deve essere quello di «generare»35, e tale senso è in effetti attestato (Bailey p. 407 segnala esempi dalla letteratura medica); ma l’immagine che questo verbo sottende – sgravare, liberare, espellere – non si adatta a νηρίθμους ἀρχάς, il cui referente metaforico è palese­men­te attinto al mondo vegetale. Scartato ἀποκυοῦσα (che risponde­rebbe in modo più immediato all’accezione richiesta ma che per il resto incorrerebbe nelle stesse obiezio­ni di ἀπολύουσα)36, penserei ad ἀπο­φύου­σα (cfr. Lapini 2011a, p. 214): il tronco genera rami (ἀρχάς) e i rami generano altri rami (ἄλλην ἐξ ἄλλης)37. 10-11 (a) οἳ καὶ πανταχόθεν πρὸς αὐτὸν ἀφικνοῦντο, καὶ συνεβίουν αὐτῷ ἐν τῷ κήπῳ, καθά φησι καὶ Ἀπολλόδωρος {ὃν καὶ ὀγδοήκοντα μνῶν πρίασθαι. [11] Διοκλῆς δὲ ἐν τῇ τρίτῃ τῆς Ἐπιδρομῆς φησιν}, εὐτελέστα­τα καὶ λιτότατα διαιτώμενοι· κοτύλῃ γοῦν, φησίν, οἰνι­δίου ἠρκοῦντο· (b) τὸ δὲ πᾶν ὕδωρ ἦν αὐτοῖς ποτόν.  Oltre ad Arrighetti, cfr. Massa Positano p. 12, Isnardi Parente p. 105: «produce». Ma per lo più si cerca di evitare la traduzione diretta di ἀπολύουσα (Kochalsky p. 4; Hicks II, p. 539; Genaille 1965, II, p. 218; Laks 1976, p. 13; Ramelli p. 49; Delattre – Delattre-Biencourt – J. Kany-Turpin 2010, p. 6, ecc.). 36  Appena una menzione meritano ἀποδιδοῦσα di Gassendi e ἀπο­λαύ­ουσα di Apelt (con ἀπολαύειν = «etwas zur Kräfti­g ung in sich aufnehmen», II, p. 351). 37  Nella letteratura botanica (intendo Theophr. HP e CP), è normale l’uso di ἀρχαί = «ra­mi­f i­ca­zioni», «punti di ramificazione». Il senso-base di ἀρχή non va smarrito, poiché si tratta dell’inizio del ramo. Analoga metafora in Diog. Laert. 8.72 τυραννίδος ἀρχὴν ὑποφύεσθαι (dove ἀρχή è la radice). Per ἀποφύειν cfr. e.g. HP 1.6.6 ἔνια καὶ ἀποφυάδας ἔχει οἷον τὸ σέλινον κτλ. 35

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(a) καὶ Ἀπολλόδωρος BP: Ἀπολλόδωρος F | {ὃν καὶ (…) φησίν} tamquam glossema Usener | Διοκλῆς δὲ BPF: Διοκλῆς {δὲ} Roeper, verba ὃν… φησίν Diocli attribuens | διαιτώμενοι (-όμενοι F) BPF: διαιτωμένους Gassendi et Menagius: διαιτωμένους Marcovich. (a) I quali da ogni parte venivano a lui, e con lui convivevano nel Giardino, secondo che dice anche Apollodoro {che comprò per ottanta mine; [11] lo dice Diocle nel terzo libro del Sommario}, conducendo vita frugalissima e semplicissima; si accontentavano, dice, di un cotilo di vinello; (b) ma in genere la loro bevanda era acqua (Arrighetti p. 8).

(a) Se l’inciso si chiude ad Ἀπολλόδωρος il φησίν del c. 11 va a stare con Διοκλῆς. Il che a sua volta obbliga ad accogliere la pesante correzione διαιτώμενοι > διαιτωμένους – che il Marcovich appesantisce ulteriormente con l’aggiunta di αὐτούς (si veda l’apparato qui sopra). Il Roeper (1846, pp. 660-661) espungeva δέ dopo Διοκλῆς e attribuiva a Diocle tutta la parentetica da ὅν a τῆς Ἐπιδρομῆς φησιν. In effetti, tolta la footnote, i labbri del discorso si saldano a perfezione: συνεβίουν αὐτῷ ἐν τῷ κήπῳ εὐτελέστατα καὶ λιτότατα διαιτώμενοι κτλ.38 Secondo me c’è anche la possibilità che la parentesi abbia l’estensione che le dà il Roeper, ma che le cifre relative al costo del Giardino siano due, una fornita da Apollodoro e una fornita da Diocle, e che la seconda (magari espressa con le litterae numerales) sia andata perduta: καθά φησι καὶ Ἀπολλόδωρος (ὃν καὶ ὀγδοήκοντα μνῶν πρίασθαι, Διοκλῆς δὲ ἐν τῇ τρίτῃ τῆς Ἐπιδρομῆς 39 φησιν) εὐτελέστα­τα καὶ λιτότατα διαι­τώμε­νοι. (b) Questo testo si basa sull’equivalenza, per nulla certa a mio parere, fra τὸ πᾶν ed ἐπὶ τὸ πολύ40. È forte il sospetto che τὸ δὲ πᾶν sia ciò che resta di τὸ δὲ λοιπόν. O di ἐπὶ δὲ πᾶν. O di τὸ δ’ ἐ πᾶν (cfr. Lapini 2011a, p. 214).  Mira a questo obiettivo anche Laks 1976, pp. 12-13, ma con un uso a dir poco stupefacente degli incisi. I quali sarebbero due, uno dentro l’altro: καὶ συνεβίουν αὐτῷ ἐν τῷ κήπῳ, καθά φησι καὶ Ἀπολλόδωρος, – ὃν καὶ ὀγδοήκοντα μνῶν πρίασθαι (Διοκλῆς δὲ ἐν τῇ τρίτῃ τῆς Ἐπιδρομῆς) φησιν – εὐτελέστα­τα καὶ λιτότατα διαιτώμενοι. Da notare quel φησίν che non dovrebbe avere come soggetto Diocle ma Apollodoro, e il Διοκλῆς δέ a cui viene dato il senso di «anche Diocle» o «come Diocle» (p. 15: «comme Dioclès dans le troisième livre de son Parcours»). 39  Naturalmente nulla osta a che l’indicazione si trovasse dopo Διοκλῆς δέ. 40  E c’è infatti chi ha trovato difficoltà nel tradurre queste parole: così, sbagliando, Zevort 1847, p. 254: «et, quant à l’eau, ils se contentaient de la première venue». 38

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16-17 Quello che segue è un brano del testamento di Epicuro41, che riporto sia nella versione trasmessa dai codici (testo I) sia nella versione stampata da Arrighetti (testo II, con apparato). Testo I [16] κατὰ τάδε δίδωμι τὰ ἐμαυτοῦ πάντα Ἀμυνομάχῳ Φιλοκράτους Βατῆθεν καὶ Τιμοκράτει Δημητρίου Ποταμίῳ κατὰ τὴν ἐν τῷ Μητρῴῳ ἀναγεγραμμένην ἑκατέρῳ δόσιν, [17] (a) ἐφ᾿ ᾧ τε τὸν μὲν κῆπον καὶ τὰ προσόντα αὐτῷ παρέξουσιν Ἑρμάρχῳ Ἀγεμόρτου Μυτιληναίῳ καὶ τοῖς συμφιλοσοφοῦσιν αὐτῷ καὶ οἷς ἂν Ἕρμαρχος καταλίπῃ διαδόχοις τῆς φιλοσοφίας, ἐνδιατρίβειν κατὰ φιλοσοφίαν· (b) καὶ ἀεὶ δὲ τοῖς φιλοσοφοῦσιν ἀπὸ ἡμῶν, (c) ὅπως ἂν συνδιασώσωσιν Ἀμυνομάχῳ καὶ Τιμοκράτει κατὰ τὸ δυνατόν, (d) τὴν ἐν τῷ κήπῳ διατριβὴν παρακατατίθεμαι (d1) τοῖς τ᾿ αὐτῶν κληρονόμοις, (e) ἐν ᾧ ἄν ποτε τρόπῳ ἀσφαλέστατον ᾖ, (f) ὅπως ἂν κἀκεῖνοι διατηρῶσιν τὸν κῆπον, (g) καθάπερ καὶ αὐτοὶ οἷς ἂν οἱ ἀπὸ ἡμῶν φιλοσοφοῦντες παραδιδῶσιν. Testo II [16] κατὰ τάδε δίδωμι τὰ ἐμαυτοῦ πάντα Ἀμυνομάχῳ Φιλοκράτους Βατῆθεν καὶ Τιμοκράτει Δημητρίου Ποταμίῳ κατὰ τὴν ἐν τῷ Μητρῴῳ ἀναγεγραμμένην ἑκατέρῳ δόσιν, [17] (a) ἐφ᾿ ᾧ τε τὸν μὲν κῆπον καὶ τὰ προσόντα αὐτῷ παρέξουσιν Ἑρμάρχῳ Ἀγεμόρτου Μυτιληναίῳ καὶ τοῖς συμφιλοσοφοῦσιν αὐτῷ καὶ οἷς ἂν Ἕρμαρχος καταλίπῃ διαδόχοις τῆς φιλοσοφίας, ἐνδιατρίβειν κατὰ φιλοσοφίαν, (c) ὅπως ἂν συνδιασώσωσιν Ἀμυνομάχῳ καὶ Τιμοκράτει κατὰ τὸ δυνατόν. (b) καὶ ἀεὶ δὲ τοῖς φιλοσοφοῦσιν ἀπὸ ἡμῶν (d) τὴν ἐν τῷ κήπῳ διατριβὴν παρακατατίθεμαι (d1) τοῖς τ᾿ αὐτῶν κληρονόμοις, (f) ὅπως ἂν κἀκεῖνοι διατηρῶσι τὸν κῆπον (e) ἐν ᾧ ἄν ποτε τρόπῳ ἀσφαλέστατον ᾖ, (g) καθάπερ καὶ αὐτοὶ οἷς ἂν οἱ ἀπὸ ἡμῶν φιλοσοφοῦντες παραδιδῶσιν.

 Per orientarsi nel labirintico documento è di qualche utilità lo schema tracciato da Dimakis (1987, p. 481) in uno studio per altri versi molto discutibile (cfr. Dorandi 1992). 41

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(c) post (a) transposuit Crönert | ὅπως ἂν FP4: ὅπως BP1 | συνδιασώσωσιν BP: διασώσωσιν F. (d) ἄν ποτε τρόπῳ Usener: ἂν ἀποτρέπω BPF: ἂν τρόπῳ Z3 (editio Frobeniana). (f) post (d) transposuit Crönert | διατηρῶσιν Usener: διατηροῖεν BP: διατηρεῖεν F. [16] Con questo testamento lascio tutti i miei beni a Aminomaco di Filocrate del demo Bate, e a Timocrate di Demetrio del demo Potamo, secondo la donazione fatta ad ambedue scritta nel Metroo, [17] (a) a condizione che il Giardino e le sue dipendenze lo diano a Ermarco di Agemorto mitilenese, e a quelli che si occuperanno con lui di filosofia, e a quegli scolarchi ai quali Ermarco lo lascerà, perché ivi si dedichino alla filosofia, (c) e affinché diano opera a conservarlo insieme a Aminomaco e a Timocrate, per quanto sarà loro possibile. (b) E via via a coloro che filosoferanno nella mia scuola (d) affido la dimora del Giardino, e ai loro eredi, (f) perché anch’essi mantengano il Giardino (e) nella maniera che parrà più sicura, (g) così come coloro ai quali l’affideranno i miei discepoli (Arrighetti p. 12).

I problemi del tràdito sono almeno quattro. Il primo è la corruttela ἂν ἀποτρέπω della pericope (e) (plausibile e in genere accolto il restauro ἄν ποτε τρόπῳ di Usener, anticipato dalla Frobeniana); il secondo è l’erroneo ottativo della pericope (f) (di cui diremo sotto). Il terzo è il senso da dare a τοῖς κληρονόμοις (d). Il quarto sono i due ὅπως di (c) e di (f). I primi tre sono problemi circoscritti, il quarto invece è strutturale. Cercò di risolverlo il Crönert (1906b, p. 425), il quale, partendo dalla distinzione fra tradere e conservare, spostava all’indietro entrambi gli ὅπως-Sätze, in modo da sistemare (c) dopo (a) ed (f) dopo (d). Questi spostamenti costituiscono il testo II stampato sopra ed hanno avuto buona accoglienza. Nel 1992 T. Dorandi ha ridiscusso, rifacendosi a Laks 1976 ma con più incisivi argomenti, le modifiche di Crönert. In particolare Dorandi osserva: τοῖς τ᾿ αὐτῶν κληρονόμοις non può essere complemento di παρακατατίθεμαι perché sarebbe impossibile che gli usufruttuari, non proprietari, potessero designare i loro eredi legali; né tantomeno avrebbe senso intendere κληρονόμοι in senso figurato, «i filosofi», perché, in tal caso, l’espressione risulterebbe inutile. Riferire αὐτῶν a Ἀμυνομάχῳ καὶ Τιμοκράτει crea invece una forzatura grammaticale (Dorandi 1992, pp. 59-60).

Dorandi ha ragione su tutto: intanto non deve sfuggire la netta differenza fra il δίδωμι e il παρακατατίθεμαι, e quindi fra gli eredi veri e propri e gli usufruttuari. In secondo luogo deve essere chiaro che i κληρονόμοι non sono gli eredi in filosofia, in quanto la metafora introdurrebbe un’ambiguità impensabile in un linguaggio notarile come questo. Oltretutto,

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se συνδιασώσωσιν si riferisse solo ad Aminomaco e a Timocrate42, e non anche ai loro eredi, con chi potrebbero collaborare i φιλοσοφοῦντες ἀπὸ ἡμῶν e i loro successori una volta deceduti Aminomaco e Timocrate? Che τοῖς κληρονόμοις vada insieme ad Ἀμυνομάχῳ καὶ Τιμοκράτει è cosa di cui in verità nessuno dubita. I dubbi riguardano ciò che sta in mezzo: nel testo II, Aminomaco e Timocrate e i loro κληρονόμοι sono separati da (b) e da (d), nel testo I dal solo (d); quindi in astratto il testo I parrebbe preferibile. E però, appurato che (d1) appartiene alla subordinata, la principale (P) e la subordinata (S) verrebbero a costituire uno schema siffatto: P καὶ ἀεὶ δὲ τοῖς φιλοσοφοῦσιν ἀπὸ ἡμῶν S ὅπως ἂν συνδιασώσωσιν Ἀμυνομάχῳ καὶ Τιμοκράτει κατὰ τὸ δυνατὸν P τὴν ἐν τῷ κήπῳ διατριβὴν παρακατατίθεμαι S τοῖς τ᾿ αὐτῶν κληρονόμοις È possibile tale disposizione? Possibile sì, ma ambigua; e, come detto, il testo di cui ci stiamo occupando non è uno di quelli che tollerino le ambiguità. Io credo che tutto andrebbe a posto con la traslocazione di (d) dopo (e) (una traslocazione sola, non due come voleva il Crönert): (b) καὶ ἀεὶ δὲ τοῖς φιλοσοφοῦσιν ἀπὸ ἡμῶν, (c) ὅπως ἂν συνδιασώσωσιν Ἀμυνομάχῳ καὶ Τιμοκράτει κατὰ τὸ δυνατὸν (d1) τοῖς τ᾿ αὐτῶν κληρονόμοις (e) ἐν ᾧ ἄν ποτε τρόπῳ ἀσφαλέστατον ᾖ, (d) τὴν ἐν τῷ κήπῳ διατριβὴν παρακατατίθεμαι, (f) ὅπως ἂν κἀκεῖνοι διατηρῶσιν τὸν κῆπον, (g) καθάπερ καὶ αὐτοὶ οἷς ἂν οἱ ἀπὸ ἡμῶν φιλοσοφοῦντες παραδιδῶσιν. L’unica difficoltà che vedo è la dipendenza da un solo verbo (παρακα­ τατίθεμαι) di due proposizioni della stessa natura (gli ὅπως-Sätze di [c] e di [f]). Ma lo stesso capita, benché con i verbi in forma implicita, al c. 80 ὥστε παραθεωροῦντας ποσαχῶς παρ᾿ ἡμῖν τὸ ὅμοιον γίνεται, αἰτιολογητέον ὑπέρ τε τῶν μετεώρων καὶ παντὸς τοῦ ἀδήλου, καταφρονοῦντας τῶν οὔτε κτλ. Resta inoltre da vedere se il secondo ὅπως-Satz è testo genuino. I codici fanno dipendere da ὅπως ἄν un inaspettato διατηροῖεν, corretto da Usener in διατηρῶσιν. L’intervento non è di quelli che ispirino fiducia. Se è vero,

 Contro l’identificazione del Timocrate menzionato nel testamento con il Timocrate traditore proposta da Dimakis (1987, pp. 481-482) si vedano i decisivi argomenti di Dorandi 1992, pp. 56-57. 42

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come credo, che qualcosa va mutato43, preferirei mantenere διατηροῖεν e leggere οὕτως in luogo di ὅπως. Dunque: (b) καὶ ἀεὶ δὲ τοῖς φιλοσοφοῦσιν ἀπὸ ἡμῶν, (c) ὅπως ἂν συνδιασώσωσιν Ἀμυνομάχῳ καὶ Τιμοκράτει κατὰ τὸ δυνατὸν (d1) τοῖς τ᾿ αὐτῶν κληρονόμοις (e) ἐν ᾧ ἄν ποτε τρόπῳ ἀσφαλέστατον ᾖ, (d) τὴν ἐν τῷ κήπῳ διατριβὴν παρακατατίθεμαι. (f) οὕτως ἂν κἀκεῖνοι διατηροῖεν τὸν κῆπον, (g) καθάπερ καὶ αὐτοὶ οἷς ἂν οἱ ἀπὸ ἡμῶν φιλοσοφοῦντες παραδιδῶσιν. (b) E via via a coloro che filosoferanno nella mia scuola, (c) affinché per quanto possono la tengano in piedi, insieme ad Aminomaco e a Timocrate (d1) e ai loro eredi, (e) nel modo più sicuro, (d) affido la dimora del Giardino. (f) In tal modo anch’essi manterranno il Giardino, (g) così come coloro ai quali l’affideranno i miei discepoli. Inutile dire che le corruttele οὕτως/ὅπως (e viceversa) sono legione44. Nel nostro caso una responsabilità nell’errore l’avrà avuta anche l’altro ὅπωςSatz che precede di poco. 22 (a) μαθητὰς δὲ ἔσχε πολλοὺς μέν, σφόδρα δὲ ἐλλογίμους Μητρόδωρον Ἀθηναίου ἢ Τιμοκράτους καὶ Σάνδης, Λαμψακηνόν· (b) ὃς ἀφ᾿ οὗ τὸν ἄνδρα ἔγνω, οὐκ ἀπέστη ἀπ᾿ αὐτοῦ κτλ. (a) Ἀθηναίου Duening: Ἀθηναῖον BPF | ἢ BPF: καὶ recc. | Τιμοκράτους Usener: Τιμοκράτ PF (de B non constat): Τιμοκράτην recc. | Σάνδης Usener: Σάνδην B, ut videtur, PF: Κασσάνδρας Gomperz: {Ἀθηναῖον… Σάνδην} Gassendi: Μητρόδωρον Ἀθηναῖον καὶ Τιμοκράτην καὶ Σάνδην Λαμψακηνούς Marcovich.

  Pace Laks, che difende ὅπως + ottativo con esempi presi dal KG (1976, p. 83).  Plat. Theaet. 183b; [Aristot.] Rhet. ad Alex. 1242a11 οὕτω vs. ὅπως; Galen. De usu part. 7.7 (386.12 Helmreich); Liban. Or. 35.5, 224.8, 368.3; Lys. 34.3 ὅπως (Stephanus) vs. οὕτως; Dion. Hal. De Lys. 33 (50.8 UR) ὅπως vs. οὕτως. Si veda anche POxy. 2404 (Aeschin. In Ctes. 51-53) col. II, r. 54: la prima mano scrive ὅπως, che il correttore trasforma in οὕτως espungendo π con doppia quadra e soprascri­vendo υτ. Su ὅπως/οὕτως cfr. anche Jackson 1955, p. 109. 43

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(a) Ebbe molti scolari, famoso soprattutto Metrodoro figlio di Ateneo o di Timocrate, e di Sande, lampsaceno; (b) il quale, dal giorno che conobbe Epicuro non si allontanò mai da lui ecc. (Arrighetti p. 16).

(a) Passo corrottissimo, da mutare in uno, due, forse tre punti45. Stando al testo di Usener, che interviene sulle desinenze46 senza toccare le congiunzioni, l’unico allievo qui menzionato sarebbe Metrodoro, figlio di un Ateneo o di un Timocrate47 e di una donna di nome Sande. Senonché a quanto pare (cfr. Laks 1976, p. 93; Bredlow 2008, p. 147 nota 6) l’onomastica greca attesta un Σάνδης maschile ma non un Σάνδη femminile. All’opposto di Usener, il Marcovich risparmia le desinenze e rimaneggia le congiunzioni, introducendo un καί dopo Μη­τρόδωρον48 e sostituendo καὶ Τιμο­κράτην a ἢ Τιμοκράτην49. Ora i μαθηταὶ ἐλλόγιμοι salgono da uno a quattro: Metrodoro, Ateneo50, Timocrate e Sandes. A parte l’invasività dell’inter­vento (che richiede peraltro anche il passaggio da Λαμψακη­νόν a Λαμψακη­νούς), in questo gruppo l’unico vero ἐλλόγιμος è Metrodoro (Timocrate era un allievo traditore; un Ἀθήναιος è attestato debolmente51; un Σάνδης è ignoto affatto). Il Bredlow propone ora Μητρόδωρον Ἀθηναῖον ὴ (vel ὴ) Τιμο­ κράτης ἐκάλεσε ἀντὶ Λαμψακηνόν (vel Λαμψακηνοῦ): «Metrodorus, whom Timocrates somewhere called Athenian instead of Lampsacene» (2008, p. 147). Al proponente pare di aver mutato poco, ma in realtà ha mutato più di Marcovich, e con una lutulenza e un’impacciosità che in Marcovich non c’era. Ἐκάλεσε è orbato del ny efelcistico; δή è una zeppa; πή ha un accen Chi conserva tale e quale il testo manoscritto non può che approdare a traduzioni insensate. Ecco quella di Robert Muller: «Métrodore (ou Timocrate) d’Athènes, connu sous le nom de Sandès à Lampsaque» (2010, p. 123). Irricevibile καὶ Σάνδην Λαμψακηνόν = «conosciuto come Sande a Lampsaco». 46  I.e. Τιμοκράτους e Σάνδης. La correzione Ἀθηναίου risale invece a Duening (1870, p. 8). Τιμοκρατείας ἢ Κασσάνδρας (Gomperz 1871, p. 387) è un salto nel buio. 47  Avremmo così un padre e un figlio entrambi di nome Timocrate. Cosa per nulla strana. Tanto per restare in ipsa secta, anche il fratello maggiore di Epicuro si chiamava Neocle, come il padre. E Polieno ebbe un figlio di nome Polieno (cfr. fr. 115 Us.). 48   «Καὶ addidi», scrive il Marcovich in apparato a p. 724; e così ripete Reale p. 1483 nota 53. Ma l’aggiunta risale a I. Casaubon: cfr. Meibomius 1692, II, p. 613. 49  Il Marcovich non ha «espunto» ἤ, come pensa Reale p. 1483 nota 54, ma lo ha corretto (in καί). 50  Da scrivere però Ἀθήναιον (non Ἀθηναῖον come fa il Marcovich p. 724 e di conseguenza il Reale p. 1180). 51  Come destinatario di una lettera di Epicuro: fr. 115 Us. 45

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to di troppo52 e solo in certi contesti vuole dire «somewhere»53. Con tutto ciò, in qualcosa il Bredlow può aver visto giusto. Se B abbia il nominativo Τιμοκράτης non possiamo dire a causa del cattivo stato di conservazione del codice in questo punto54, però è una possibilità. Ed è una possibilità anche che Timocrate venga utilizzato a guisa di fonte, come già nei cc. 4 e 6-8. Penserei allora a Μητρόδωρον Ἀθηναῖον ἤ, Τιμοκράτης καὶ Σάνδη, Λαμψακηνόν: «Metrodoro di Atene o – come [attestano] Timocrate e Sandes – di Lampsaco». A parte la maggiore econo­mi­cità, c’è anche più logica nel far dire a Timocrate che la vera patria del fratello Metrodoro non era la grande Atene, ma la piccola Lampsaco (nel testo di Bredlow sarebbe l’inverso). Anche sulla cittadinanza di Epicuro si malignava: lo attesta il c. 4 μὴ εἶναί τε (sc. Ἐπίκουρον) γνησίως ἀστόν, ὡς Τιμοκράτης φησὶ καὶ Ἡρόδοτος55, dove di nuovo Diogene adduce due fonti, u n a d e l l e q u a l i T i m o c r a t e . Identici anche per altri dettagli i bioi di Epicuro e di Metrodoro: il primo visse sempre in Grecia, a parte due o tre viaggi in Ionia per andare a trovare gli amici (c. 10 δὶς ἢ τρὶς τοὺς περὶ τὴν Ἰωνίαν τόπους πρὸς τοὺς φίλους διαδραμόντα), e il secondo non si staccò da Atene e da Epicuro se non per un viaggio di sei mesi nella madrepatria (c. 22). In entrambi i casi avremmo che Timocrate smentisce – ora nel maestro ora nel principale allievo – un’ateniesità profonda­mente sentita e senza dubbio esibita. E Sandes? L’ignoto Sandes è il punto debole di tutte le interpretazioni, sia della mia sia delle altrui. Ma l’impalpabilità del personaggio è condizione più compatibile con l’essere una fonte erudita che non con quella di far parte – e come membro ἐλλόγιμος! – di una scuola di cui si stanno rievocando le glorie.

  Πή non esiste, se non con enclitica al seguito. Lo stesso dicasi di πῄ.  In margine alla correzione ἐκάλεσε ἀντί, Bredlow scrive che i numerosi itacismi presenti nel Borbonico denotano che questo manoscritto «or its archetypus» [avrà voluto dire antigrafo?] fu scritto sotto dettatura (2008, p. 147). Non vedo un rapporto fra dettatura e frequenza degli itacismi, e comunque, oltre che da itacismi, B è affetto anche da errori visivi, numerosi e del tipo più grossolano. 54  E qui un ennesimo grazie a Tiziano Dorandi per aver ricontrollato per me su microfilm (comunicazione del 19.10.2013) il r. 1 del f. 219v. Bredlow (2008, p. 146), basandosi sull’apparato di Marcovich (p. 724), dà per sicura in B la lezione Τιμοκράτης, che sicura però non è. Nei manoscritti laerziani sono abbreviati soprattutto i nomi propri e i titoli: cfr. 1.12 ἀρχιλόχ P; 2.2 πολυκράτ P1QW; 5.59 περὶ βασιλ φιλο F; 5.81 ἐκκλησία ἔνορκος α Z3 (editio Frobeniana) ἐκκληʹ ἔνορχος F: ἐκκληένορχα B: ἐκκληένορχʹ α P1: ἐκκλησία ἔνορχος P4; 9.47 περὶ εἰδώλων Cobet: περὶ εἰδώλου BP: περὶ εἰδώλ F. 55  E cfr. il fr. 107 Us. Ἐπίκουρος τρόπον τινὰ Λαμψακηνὸς ὑπῆρξε; Erler 1994, pp. 64-65; Corti 2014, p. 61. 52

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Ἢ ὡς con virgola in mezzo, a introdurre versioni alternative, è comunissimo nei bioi laerziani: 1.42 ἤ, ὡς Ἀριστόξενος (= 8.1); 1.38 ἤ, ὡς Σωσικράτης φησίν; 4.28 Ἀρκεσίλαος Σεύθου (ἢ Σκύθου, ὡς Ἀπολλόδωρος ἐν τρίτῳ Χρονικῶν) κτλ.; 7.58 ἤ, ὥς τινες; 7.60 ἤ, ὡς ὁ Χρύσιππος; 7.138 ἤ, ὥς φησι Ποσειδώνιος; 7.152 ἤ, ὡς Ποσειδώνιός φησιν; 8.53 ἤ, ὡς Ἡρακλείδης; 9.1 ἤ, ὥς τινες (ὅς B); 9.18 ἤ, ὡς Ἀπολλόδωρος; 9.18 ἤ, ὥς τινες; 9.34 ἤ, ὡς ἔνιοι; 9.50 ἤ, ὡς Ἀπολλόδωρος καὶ Δίνων; 9.54 ἤ, ὥς τινες. E le cadute di ὡς, specie negli incisi di questo tipo, non si contano: cfr. 3.57 φησι Φαβωρῖνος; 3.66 ἅπερ (Ἀντίγονός φησιν ὁ Καρύστιος ἐν τῷ Περὶ Ζήνωνος) νεωστὶ ἐκδοθέντα εἴ τις ἤθελε διαναγνῶναι, μισθὸν ἐτέλει τοῖς κεκτημένοις (dove il Cobet inseriva ὡς dopo ἅπερ), ecc.; 6.32 ὥς φησιν Ἑκάτων recc.: φησὶν Ἑκάτων BPF; 7.53 ὁ Τιτυὸς καὶ Κύκλωψ; 7.135 ὥς φησιν Ἀπολλόδωρος F: φησὶν Ἀπολλόδωρος BP56; 7.139 ὡς ἕξις κεχώρηκεν Fx s.l.: ἕξις κεχώρηκεν BPF. Caso complesso quello di 8.72, giudizio di Timeo sull’inaffida­bilità di Eraclide: τοιαῦτά τινα εἰπὼν ὁ Τίμαιος ἐπιφέρει· «ἀλλὰ διὰ παντός ἐστιν Ἡρακλείδης τοιοῦτος παραδοξολόγος, καὶ ἐκ τῆς σελήνης πεπτωκέναι ἄνθρω­ πον λέγων», dove l’ultima frase è così rifatta da Marcovich p. 618: καὶ ἐκ τῆς σελήνης πεπτωκέναι ἄνθρωπον λέγειν. Dorandi (p. 641) giustamente rifiuta il duplice intervento; però si potrebbe tentare καὶ ἐκ τῆς σελήνης πεπτωκέναι ἄνθρωπον λέγων. 29 (a) θήσομεν δὲ καὶ τὰς Κυρίας αὐτοῦ δόξας καὶ εἴ τι ἔδοξεν ἐκλογῆς ἀξίως ἀνεφθέγχθαι, ὥστε σὲ πανταχόθεν καταμαθεῖν τὸν ἄνδρα (b) χἆμα κρίνειν εἰδέναι. (b) χἆμα Arrighetti (ex κἆμα Bignone): κἀμὲ BPF: κἂν Usener: καὶ Marcovich | εἰδέναι F (κρίνειν exp. P4): εἰδέναι κρίνειν BP1. (a) Riferirò anche le sue Massime capitali e una scelta di ciò che pare più degno di essere citato, (b) cosicché tu sappia riconoscerlo interamente e nello stesso tempo giudicarlo (Arrighetti p. 20).

Diogene Laerzio dichiara a un ignoto «tu»57 di voler citare alla lettera alcuni testi di Epicuro – cosa che farà a partire dal c. 35: si tratta come sappiamo  Caso molto incerto: Dorandi (p. 552) segue BP.  Che non può essere genericamente «tu lettore», come suppongono Solovine (1938, p. 48: «cher lecteur»), la Massa Positano (p. 20: «cosicché il lettore…») e altri. Sarà invece un dedicatario preciso, anzi una dedicataria, probabilmente la stessa a 56 57

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delle tre epistole filosofiche e delle Κύριαι δόξαι – allo scopo di far conoscere «da ogni punto di vista» (πανταχόθεν)58 la grandezza di questo filosofo. Il para­grafo è im­portante perché contiene, caso raro nell’opera laer­ziana, qual­cosa che potrem­mo definire un giudizio personale59. Ma purtroppo in queste righe c’è una corruttela, forse più d’una60. Che nel tràdito ὥστε σὲ πανταχόθεν καταμαθεῖν τὸν ἄνδρα κἀμὲ κρίνειν εἰδέναι κρίνειν la sintassi non tornasse si era già accorto l’attento copista di F, il quale per ripristinare non dico il senso, ma la leggibilità, dovette sacrificare uno dei due κρίνειν – e sacrificò ovviamente il secondo, essendo la posizione explicitaria sem­pre un siège périlleux. Se accettiamo il testo di F, occorre intendere: l’accesso diretto agli scritti epicurei ti permetterà da una parte di conoscere Epicuro, dall’altra di saper giudicare me, dove «giudicare me» vorrebbe dire «giudicare la mia lealtà a Epicuro» oppure «la mia cono­scenza del pensiero di Epicuro»61; in entrambi i casi saremmo di fronte a una dichiarazione di simpatia o addirittura di adesione dello scrivente alla scuola epicurea62; il che farebbe il paio con la strenua polemica dei cc. 9-12 contro i detrattori di Epicuro. Secondo un’ipotesi ottocentesca (F. Nietzsche 1868, p. 642), ripresa da J. Barnes qualche decennio fa (1986, p. 27), l’io parlante (ἐμέ) non sarebbe Diogene, ma la sua fonte; una fonte ricopiata pari pari, senza adattamenti. cui Diogene si rivolge in 3.47; questa l’opinione dei più: Gigante p. 572 nota 60; Balaudé p. 1259 nota 5; Bredlow 2010, p. 500; Morel 2011, p. 127 nota 2, ecc.; anche il Reale (p. 5) sembra pensare a un dedicatario preciso, però diverso da quello di 3.47. 58  Meno bene «interamente» (Bignone 1920, p. 207; De Falco 1963, p. 39, ecc.) e «completamente» (Isnardi Parente p. 112). 59  Il Mejer (1978, pp. 2-3) rileva qualcosa del genere anche in 3.47, 4.1, 5.21 e 8.1, ma mi paiono casi diversi. Si vedano Hope 1930, pp. 217-218; Giannantoni 1986, p. 200; Aronadio 1990, p. 225. 60  Laks accetta il tràdito (con κἀμέ) e lo traduce: «afin que tu puisses de tous côtés connaître l’homme, et juger que je sais moi-même juger» (1976, pp. 26-27). Non si spiega però il senso e lo scopo di questo gioco di parole (nessun chiarimento neppure alla nota 3 di p. 101, dove vengono svolte solo considerazioni destruentes). Forse giudicare i testi da presentare al lettore? (Così del resto aveva inteso Lechi 1845, p. 365: «affinché tu conosca l’uomo da ogni parte, e me saper scerre»). 61  Non però «meine Darstellung» (Jürß p. 558 nota 21). Non si vede chi possa dire «io» invece che «presentazione che io faccio di Epicuro e del suo pensie­ro». 62  Così Apelt II, p. 236; Schmid 1984, p. 133; Bénatouïl – Laurand – Macé 2003, p. 12; Delattre-Biencourt – Morel 2003, p. 1084 nota 32. Non si poneva il problema Cobet p. 261, nella cui edizione il κρίνειν è omesso (il Cobet come si sa si basava su F) e κἀμέ non è tradotto.

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Personalmente dubito che a Diogene si possa imputare un tale atto di ottusità63; e comunque la questione del chi sia questo ἐμέ è in fondo secondaria. Il problema vero è che non si vede una logica nel fatto che qualcuno – non importa se Diogene o il suo auctor – pensi di poter dimostrare la propria ortodossia sem­pli­ce­mente rico­piando dei testi; né si spiega perché Diogene o chi per lui avrebbe dovuto sentirsi obbligato a fornire prove di questa sua ortodossia quasi che altri gliene chie­desse conto. Per non dire dello strano uso di κρίνειν in luogo di δοκιμάζειν, e di εἰδέναι in luogo di δύνα­σθαι. Probabilmente dunque non solo il testo di BP, ma anche quello di F è erroneo; e infatti lo Usener (p. 370) e il Bignone (1933b, p. 438), ol­t re a eliminare κρίνειν, interveniva­no su κἀμέ, correggendolo rispet­tivamente in κἄν e in χἆμα 64 (o καὶ ἅμα); soluzione inutile la prima65, dannosa la seconda, in quanto creerebbe un innaturale legame fra l’aoristo καταμαθεῖν e il presente/perfetto εἰδέναι66. Se ἐμέ disturba – e non c’è dubbio su ciò – allora tanto

 Non è questa la sede per discutere la secolare irrisolvibile questione del quoziente intellettivo di Diogene, l’asinus germanus, l’âne savant capace di qualunque sciocchezza, il cui libro «sfugg[ì] al pizzicagnolo solamente perché perirono le opere da cui fu tratto» (così Lechi 1842, p. vii nota 2, parafrasando ingenerosamente l’ingeneroso G. Stolle, Einleitung zur Historie der Gelahrheit, Jena, Meyer, 1736, p. 365 nota [b]: «hätten wir die Schriften in Händen (…), man würde sein Werk längst zu Fidibus gemacht haben»); un’immagine che «la critica disasinizzatrice di Diogene Laerzio», come l’ha chiamata M. Gigante (1984, p. 137), non ha ribaltato, e forse neppure scalfito; tuttavia per quanto ci riguarda basti dire che la circostanza ipotizzata da Nietzsche sarebbe, stando a ciò che si sa, un caso unico nelle Vite. 64  In realtà «ΚΑΜΑ, sia per l’abbreviatura κ = καί, sia per la crasi κἆμα, con psilosi, come spesso in questi codici e in generale nei manoscritti antichi» (Bignone 1933b, p. 438). Anche Arrighetti 1960, p. 21, aveva adottato κἆμα. Russell 1962, p. 143, obiettò che la grafia esatta è χἄμα e Arrighetti si corresse: 1962, p. 98 (nell’edizione del 1973 però fu adottato χἆμα). Il Bignone (1920, p. 207) traduce: «perché tu possa interamente conoscerlo ed all’uopo giudicarlo». 65  Così giustamente Laks 1976, p. 101 nota 3. I traduttori che accettano ἄν si comportano (né potrebbero diversamente) come se questo ἄν neanche ci fosse: e.g. Hicks II, p. 559: «that you may be in a position to study the philo­so­pher on all sides and know how to judge him» (nessuna segnalazione che κἂν κρίνειν εἰδέναι non è testo tràdito); Ramelli pp. 59 e 785: «in modo che tu possa imparare a conoscere quest’uo­mo sotto tutti gli aspetti, e lo sappia giudi­ca­re», ecc. 66  Le traduzioni letterali dimostrano quanto sia di impiccio questo ἅμα: Massa Positano p. 20: «una conoscenza complessiva dell’uomo, e al tempo stesso gli elementi per valutarlo»; Isnardi Parente p. 112: «conoscere l’uomo e anche darne un giudizio»; Reale p. 1189: «imparare a conoscere quest’uomo (…) e lo sappia anche 63

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varrebbe rinunciare alle zeppe e stampare senza tante storie καί al posto di κἀμέ, come fa il Marcovich. Si osservi infine che nessuna delle correnti ricostruzioni del passo presenta una sintassi limpida, poiché in ὥστε σὲ (…) κρίνειν εἰδέναι non si può stabilire se da ὥστε dipendano καταμαθεῖν ed εἰδέναι oppu­re il solo εἰδέναι, che a sua volta reggerebbe καταμαθεῖν e κρί­νειν67. Per quanto mi riguarda, interverrei come segue: ὥστε σὲ πανταχόθεν κατα­ μαθεῖν τὸν ἄνδρα καὶ μὴ πρὶν εἰδέναι κρίνειν: «cosicché tu possa comprendere Epi­cu­ro sotto ogni suo aspetto e non giudicarlo prima di cono­scerlo». È la preoccupazione di Lucrezio nel proemio del De rerum natura: che si rigetti la dottrina epicurea a priori, senza averla studiata, prestando fede a coloro che la dicono empia68. Ma Epicuro – questa la risposta di Diogene – ti si rivelerà tutt’altro che empio, se avrai la pazienza di leggere le Κύριαι δόξαι e gli altri suoi detti notevoli (καὶ εἴ τι ἔδοξεν ἐκλογῆς ἀξίως ἀνεφθέγχ­θαι). Palese­mente (e comprensibil­mente, vista la legione di detrattori con cui Diogene Laerzio ha strenuamente pugnato ai cc. 3-8) si insiste sul profilo etico d e l l a p e r s o n a di Epicuro: la frase da ὥστε σέ a εἰδέναι κρίνεν non deve giusti­f i­care il riporto integrale delle sole epistole, due scientifiche (A Erodoto, A Pitocle) e una etica (A Meneceo), bensì proprio delle Sentenze, dove Diogene o chi per lui ritiene che la rettitudine di Epicuro si riveli in modo particolarmente limpido. Infine con la correzione di κἀμὲ κρίνειν in καὶ μὴ πρίν la frase acqui­ sterebbe – progresso non da poco per questo genere di scrittura – linearità e semplicità; e anche l’alternanza aoristo/presente risulterebbe motivata, visto che κατα­μαθεῖν e κρίνειν verrebbero ora a stare su piani diversi. Il timore, il divieto o anche l’auspicio di fare, dire o giudicare qualcosa «prima di sapere» sono motivi ricorrenti: cfr. e.g. Soph. Tr. 630-632 δέδοικα γὰρ | μὴ πρῲ λέγοις ἂν τὸν πόθον τὸν ἐξ ἐμοῦ | πρὶν εἰδέναι τἀκεῖθεν εἰ ποθούμεθα; Xen. Cyr. 2.2.10 πιθανοὶ δ᾿ οὕτως εἰσί τινες ὥστε πρὶν εἰδέναι τὸ

giudicare» (dichiara di tradurre il testo di Marcovich 1999, ma traduce quello di Arrighetti 1973; la traduzione di Reale è identica a quella di Ramelli p. 785, citata sopra, tranne che per l’aggiunta di «anche») (corsivi miei). In tutti questi casi vengono artificiosamente distinte (per trovare un posto ad ἅμα) due azioni pressoché identiche, o comunque consequenziali: chi conosce, ipso facto valuta: non c’è motivo di sottolineare la contemporaneità. 67  La seconda soluzione viene di solito preferita: cfr. Gigante p. 410: «sì che tu sappia apprendere tutti gli aspetti della personalità del filosofo e insieme giudi­ carlo» (= Gigante 1992, p. 4304); Arrighetti p. 20, ecc. 68  Lucr. 1.80-83, e soprattutto 1.52-53 ne mea dona tibi studio disposta fideli | intellecta prius quam sint, contempta relinquas.

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προσταττόμενον πρότερον πείθονται; 4.2.39 τούτων δόξομεν οὕτως ἀμελεῖν ὥστε καὶ πρὶν εἰδέναι πῶς πράττουσιν ἠριστηκότες φαίνεσθαι; Dem. Ex. 5.3 ἡ μὲν οὖν ἀρχὴ τοῦ δοκιμάζειν ὀρθῶς ἅπαντ᾿ ἐστὶν μηδὲν οἴεσθαι πρότερον γιγνώσκειν πρὶν μαθεῖν; 10.1 ἃ γὰρ αὐτοὶ πρὶν ἀκοῦσαι δο­κι­μά­ζετε συμφέρειν κτλ.; Favorin. De ex. 14.4 πρὶν̣ καὶ εἰδέναι (…) ἀγριαίνειν; Olymp. In Plat. Alc. 134.16-17 Westerink ἐπειδὴ γὰρ (…) οἴει εἰδέναι τὰ δίκαια πρὶν μαθεῖν κτλ.; si veda infine Isocr. De pace 40, passo particolarmente simile al nostro: τοὺς δὲ λόγους ἀποδοκιμάζειν πρὶν εἰδέναι σαφῶς. Dal punto di vista della ratio corruptelae non c’è molto da dire: lo scambio π/κ è comune in maiuscola69, e in un contesto come il nostro un mal letto πρίν non poteva che com­ple­t arsi in κρίνειν, vuoi per antici­pazione del κρίνειν che segue a breve, vuoi per dittografia (πρινΕΙΔεναι). Gli scambi Δ/Ν sono numerosi anche nella tradizione laerziana: si vedano 1.20 δόγμασιν vs. νοήμασιν; 2.135 λέγων vs. λέγω δέ vs. λέγων δέ; 2.85 ἔχει δ᾿ οὕτως (Lapini) vs. ἔχειν70; 3.4 εἰσὶ(ν) δ᾿ vs. εἰσίν; 5.57 εἰσίν vs. εἰσὶ δ᾿; 6.55 (ἐ)μάστιξε δ᾿ vs. ἐμάστιξεν; 5.69 πάντα δίδωμι vs. πάντα διαδίδωμι (dittografia παΝΤΑ ΔΙΑδιδωμι?); 7.15 πάντων ἱμείρουσιν vs. πάντων δὲ ἱμεί­ρου­σιν (dittografia?); 7.138 τὸν δὲ κόσμον διοικεῖσθαι vs. τὸν δὲ κόσμον οἰκεῖ­σθαι (aplo­grafia κοσμοΝ ΔΙοικεισθαι?); 8.70 θέλοντα βεβαιῶ­σαι vs. θέλων διαβε­βαιῶ­σαι (θελοΝΤΑ β. > θελων ΔΙΑβ.?); 8.89 Ἐρίνεω vs. ἐρίδεων, ecc.71. 29-30 διαιρεῖται τοίνυν εἰς τρία, τό τε κανονικόν, καὶ φυσικόν, καὶ ἠθικόν. [30] τὸ μὲν οὖν κανονικὸν ἐφόδους ἐπὶ τὴν πραγματείαν ἔχει, καὶ ἔστιν ἐν ἑνὶ τῷ ἐπιγραφομένῳ Κανών· (a) τὸ δὲ φυσικὸν τὴν περὶ φύσεως θεωρίαν πᾶσαν, καὶ ἔστιν ἐν ταῖς Περὶ φύσεως βίβλοις λζʹ καὶ ταῖς ἐπιστολαῖς κατὰ στοι­χεῖον. τὸ δὲ ἠθικὸν κτλ. (a) τὴν περὶ φύσεως θεωρίαν F: τῆς περὶ φύσεως θεωρίας BP1(Q): τὰ περὶ φύσεως θεωρίας P4 | πᾶσαν BP: πάντα Von der Muehll: om. F | κατὰ στοιχεῖον BPF: fortasse κατεστοιχειωμένον Usener.

 Si veda e.g. Jackson 1955, p. 152. Per Diogene Laerzio segnalo 7.82 συναπτικός vs. συνακτικός. 70  La mia correzione, ora accolta da Dorandi (2013, p. 202), è un ritocco di ἔχειν οὕτως di Casaubon; cfr. Lapini 2009b, pp. 233-234. 71  Alcuni di questi casi sono stati già addotti e commentati in Lapini 2013a, pp. 193-194 e note 49 e 51-52, a esemplificazione della correzione ivi proposta su 6.73 καὶ τῷ δὲ ὀρθῷ λόγῳ (…) λέγων in καὶ τῶν ὀρθῷ λόγῳ (…) λεγόντων. Cfr. anche Lapini 2013c, pp. 236-237. 69

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Si divide dunque in tre parti: la canonica, la fisica, l’etica. [30] La canonica costituisce come l’introduzione a tutto il complesso della dottrina, ed è contenuta solo nell’opera che si intitola Canone. (a) La fisica riguarda tutta la scienza della natura, ed è esposta nei trentasette libri dell’opera Sulla natura e in forma di compendio nelle lettere. L’etica concerne ecc. (Arrighetti p. 20).

(a) BP hanno τῆς περὶ φύσεως θεωρίας πᾶσαν, lezione priva di senso72. Se mettiamo da parte F, che anche qui dà l’impressione di correggere alla meglio un testo che non capisce, le alternative sono due: o cambiare τῆς θεωρίας in τὴν θεωρίαν e mantenere πᾶσαν, oppure lasciare τῆς θεωρίας così com’è e cambiare πᾶσαν in πάντα, come fa il Von der Muehll. Aggiungo come terza possibilità τῆς περὶ φύσεως θεωρίας τὰ ὅλα, con τὰ ὅλα a far coppia con κατὰ στοιχεῖον. Lo Usener considerava la possibilità di correggere κατὰ στοιχεῖον in κατε­ στοι­χειωμένον, ma a torto73. È chiara infatti – e da tutti ammessa tranne che da Laks74 – la volontà di contrapporre il Περὶ φύσεως alle Lettere: da una parte la trattazione globale, generale, dall’altra lo svolgimento «den Grundzügen nach» (Apelt II, p. 236), la «summary form» (Hicks II, p. 559), gli «éléments fondamentaux» (Balaudé pp. 1259-1260). Κατὰ στοιχεῖον equivarrebbe a στοιχειωδῶς, usato da Diogene Laerzio in 10.34 dopo la cursoria esposizione delle dottrine epicuree intorno alla διαίρεσις e al κριτήριον. E in questo genere di contrapposizioni l’espressione giusta è τὰ ὅλα, non πάντα o τὰ πάντα75. Aggiungo che il passo in discussione non sembra modellato su fonti esterne, ma semplicemente e banalmente sull’incipit (cc. 35-37) e sull’explicit (cc. 82-83) della Lettera, dove ritroviamo pari pari sia la περὶ φύσεως θεωρία sia lo στοιχειοῦν sia l’alternativa fra tipi di esposizione: – c. 35 τῆς ὅλης πραγματείας (…) τῆς περὶ φύσεως θεωρίας (…) ἐν τῇ τῶν ὅλων ἐπι­βλέψει (…) τὸν τύπον τῆς ὅλης πραγ­ματείας τὸν κατεστοιχειω­μένον;

 Non mi pare possibile sottintendere τὴν πραγματείαν, come pensano Laks (p. 102 nota 8) e Balaudé (p. 1259 nota 6). 73  Anche Crönert dissente (1906a, p. 175). Ma Usener, che premette un «for­ tas­se», è meno assertivo di come lo fa apparire il Crönert, che esagerando scrive: «10.30 schlägt Usener für κατὰ στοιχεῖον: κατεστοιχειωμένον vor». 74  A meno che non ci fuorvii il troppo servile ordo verborum: cfr. Laks p. 29: «et elle est exposée dans les trente-sept livres De la nature et dans les lettres, décomposée en ses éléments». 75  La differenza si coglie netta nel passo laerziano 9.8, sulla doxa eraclitea γίνεσθαί τε πάντα κατ᾿ ἐναντιότητα καὶ ῥεῖν τὰ ὅλα ποταμοῦ δίκην (A 1 DK). Nette distinzioni fra ὅλον e πᾶν già in Plat. Theaet. 204a sgg. e Parm. 157e. Cfr. anche GE p. 465 s.v. ὅλος. 72

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c. 36 τῶν ὁλοσχερωτάτων τύπων (…) τῆς συνεχοῦς τῶν ὅλων περιοδείας; c. 37 στοιχείωσιν τῶν ὅλων δοξῶν; c. 82 μνήμην ἔχειν τῶν ὅλων καὶ κυριωτάτων; c. 82 ταῦτά σοι, ὦ Ἡρόδοτε, ἔστι κεφαλαιωδέστατα ὑπὲρ τῆς τῶν ὅλων φύσεως ἐπιτετμημένα; – c. 83 πολλὰ τῶν κατὰ μέρος ἐξακριβουμένων κατὰ τὴν ὅλην πραγματείαν ἡμῖν; – c. 83 τὰς πλείστας τῶν περιοδειῶν ὑπὲρ τῆς ὅλης φύσεως ποιεῖσθαι. – – – –

Si veda anche il c. 47 χρήσιμον δὴ καὶ τοῦτο κατασχεῖν τὸ στοιχεῖον, dove στοιχεῖον vorrà dire «elemento di dottrina» ed equivarrà presumibilmente a δόξα (frase simile all’inizio del c. 52 καὶ ταύτην οὖν σφόδρα γε δεῖ τὴν δόξαν κατέχειν)76. La ben nota tesi di Epicuro è che il discente, appropriandosi gli στοιχειώματα esposti nella lettera-epitome, acquisirà con ciò stesso anche quanto gli serve della dottrina generale. E quest’ultima è appunto definita insistentemente per mezzo di τὰ ὅλα, la stessa espressione che io credo che Diogene Laerzio abbia usato nel c. 3077. Per τὰ ὅλα col genitivo cfr. Plat. Hipp. Ma. 301b τὰ μὲν ὅλα τῶν πραγμάτων οὐ σκοπεῖς; Iambl. De myst. 3.6 Des Places τὰ ὅλα τῆς θείας ἐπιπνοίας ἐν ἀφανεῖ κεκρυμμένα ἀγνοοῦντες; Sop. Sch. ad Herm. Artem rhet. 5.24 Walz ἔστι ταῦτα ὅλα τῆς λογικῆς ἐπιστήμης. Espressione simile anche nel frammento epicureo 30.26.1 Arr. τὸ ὅλον τῆς δό[ξ]ης. Quanto alla ratio corruptelae, è quasi superfluo ricordare che in una scrittura maiusco­la poteva non esserci grande differenza fra ΠΑΣΑΝ e ΤΑΟΛΑ. Certo le corrispondenze così ad unguem – proprio come i sistemi filosofici troppo coerenti – sanno di artefatto, e i manuali di critica del testo spiegano come sia sbagliato «pretendere o aspettarsi sempre un’esatta corrispondenza lettera-per-lettera fra la lezione corrotta e il testo restaurato» (Renehan 1969, p. 97). I guasti meramente paleografici non sono così rari come a volte si è creduto (cfr. Timpanaro 2002, p. 10). Tali guasti esistono, e possono coinvolgere sia lettere singole sia gruppi di tre o quattro lettere alla volta, co-

 Si tenga presente che Epicuro, come ci ricorda anche lo scolio al c. 44, scrisse un’opera intitolata ιβʹ στοιχειώσεις, espressione mal intesa dalla Ramelli (p. 273, che invece di «dodici elementi» traduce «dodici libri di Dottrine degli elementi»; nell’errore era caduto anche Lechi 1845, p. 371); e prima ancora Ortiz (1792, p. 326, che peraltro riduce i libri da dodici a dieci). 77  Su στοιχεῖον, στοιχείωμα e στοιχείωσις si vedano Steckel 1968, col. 617; Clay 1973, p. 262; Montarese 2012, p. 254. Lo στοιχεῖον è l’elemento, lo στοιχείωμα è la sua formalizzazione (con l’uscita -μα che tanto piace a Epicuro: cfr. GE p. 759 s.v. nomina), la στοιχείωσις è l’operazione che permette di ricavare στοιχειώματα. 76

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sì da mutare totalmente la fisionomia della lezione tràdita. Ecco alcuni casi notevoli: Archiloco 127 W.2 ἡ δύη (Wilamowitz) vs. ἄτη78; Lys. 30.17 στηλῶν (Taylor) vs. εὔπλων; Plut. De aud. poet. 32E ἐκ λόγου (Krebs) vs. ἑκάστου; QC 696F θρῖον (Amyot, Kaltwasser) vs. ἔργον; Aristot. Meteor. 3.377a ἤδη τελείως vs. παντελῶς; Diog. Laert. 9.29 πάντων vs. ὑδάτων, ecc.79. 117 βλάβας ἐξ ἀνθρώπων ἢ διὰ μῖσος ἢ διὰ φθόνον ἢ διὰ καταφρόνησιν γίνεσθαι, ὧν τὸν σοφὸν λογισμῷ περιγίνεσθαι. (a) ἀλλὰ καὶ τὸν ἅπαξ γενόμενον σοφὸν μηκέτι τὴν ἐναντίαν λαμβάνειν διάθεσιν (a1) μηδὲ πλάτ­τειν ἑκόντα· (b) πάθεσί μᾶλλον συσχεθήσεσθαι· (c) οὐκ ἂν ἐμποδίσαι πρὸς τὴν σοφίαν. (a1) πλάττειν BPF: πράττειν M. Casaubon: πλάττειν Marcovich. (b) πάθεσί μᾶλλον Bignone: πάθεσι μᾶλλον BPF: πάθεσι μὴν dubitanter Usener: πάθεσι μ ἄλλον dubitanter Kochalsky: πάθεσι μαλοῖς Giusta80: πάθεσί τισι μᾶλλον Marco­v ich. (c) οὐκ ἂν BPF: ante οὐκ ἂν lacunam statuit Usener, ita e.g. explendam: οὐκ ἂν dubitanter Kochalsky | ἐμποδίσαι BPF: ἐμποδίσαι Giusta. I danni che provengono dagli uomini sono causati o da odio o da invidia o da disprezzo, cose cui il sapiente, in virtù di ragionamento, è superiore. (a) Ma colui che una volta è divenuto saggio, non potrà più assumere disposizione contraria, (a1) né fingerla di proposito. (b) A certe passioni sarà maggiormente soggetto, (c) il che però non gli possa essere d’impedimento alla saggezza (Arrighetti pp. 24-26).

(a) Non è chiaro come a colui che abbia raggiunto la condizione del sophos possa venire in mente di simulare la διάθεσις opposta. Ci aspetteremmo semmai: «al sophos non può accadere n e p p u r e p e r c a s o di comportarsi da non-sophos». Il πράττειν di M. Casaubon sposta il discorso sull’agire e

 Una correzione famosa, che Wilamowitz operò partendo dal caso analogo di Semonide 7.58 W.2, dove al corretto δύην della citazione di Stobeo (4.22.193) si oppone l’erroneo ἄτην della citazione di Eliano (HA 16.24). 79  E aggiungerei fiduciosamente Theophr. De od. 1 ἅτε (Lapini 2011b) vs. διό; Aesch. Ag. 1200 στόμα (Lapini 2013b) vs. πόλιν, nonché (contributo di prossima pubblicazione) [Plat.] Epist. 2.314c Σωκράτους ἐστὶν καλοῦ κἀγαθοῦ γεγονότος (Lapini) vs. Σωκράτους ἐστὶν καλοῦ καὶ νέου γεγονότος. 80  Il Giusta scrive πάθεσι, ma sarà πάθεσιν. 78

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paleograficamente ha un costo esiguo, ma non può sostenersi senza sottintesi (ἐναντίως, κατὰ τὴν ἐναντίαν διάθεσιν, ecc.)81. Gli interpreti hanno spesso evo­cato Socrate e il suo celebre understatement, quel suo fingersi ignorante e incom­petente di tutto82. Ma qui non si tratta di sapere o non sapere, bensì di essere sophoi o no, che è altra cosa, dato che il sophos è tale per i suoi comportamenti, e non tanto per quello che sa83. Secondo Giusta, πλάττειν è stato usato assoluta­mente84: il saggio non simula, non si infinge. Ma ἑκόντα? «Con l’ag­giunta ἑκόντα – spiega lo studioso – si ammette che [il sophos] possa simu­lare ἄκων, cioè costretto dalle circostanze». Come altre volte nei capitoli περὶ σοφοῦ, avrem­mo il combinato regola/eccezione. Solo che un atto non è meno volontario per il fatto che colui che lo compie cede alle circostanze. Dunque questa esegesi di ἑκόντα non può funzionare. Né funzionano gli accostamenti indicati da Giusta 1963, p. 125, sulla base della συστοιχία fra il sophos epicureo e il sophos stoico del libro VII. In 7.118 Diogene riferisce che gli σπουδαῖοι stoici sono ἄπλαστοι nel senso che περιαιροῦσιν ἐν τῇ φωνῇ τὸ πλάσμα καὶ τῷ εἴδει. Ma qui si tratta di affettazione, che non può essere involontaria. Se anche πλάττειν di 10.117 avesse questo senso, non si vedrebbe il ruolo di ἑκόντα. Del resto lo stesso Giusta intende πλάττειν = «simulare» (1963, p. 125), come già Usener: cfr. GE p. 546 s.v. πλάττειν: «μὴ πλάττειν ἑκόντα, de simulatione»; e la simulazione è cosa diversa (e più grave) dell’affettazione85.

 Non comprendo l’aggiunta ἔχειν di Marcovich (p. 786), la quale, per bene che vada, aggrava la tautologia, come rivela in tutta evidenza la traduzione di Reale (p. 1269): «una volta che il sapiente sia divenuto tale, non potrà più assumere l’atteggiamento opposto, e neppure far finta, delibera­t a­men­te, di averlo». Konstan respinge «fingere» di Bailey e traduce «immaginare» (2007a, p. 162 e nota 13); ma anche «immaginare» si combina male con «volontariamente». 82  Atteggiamento che ad Epicuro, teste Cicerone, non piaceva: cfr. Brut. 85.292 Epicuro, qui id reprehendit eqs. (= fr. 231 Us.; cfr. anche Corti 2014, p. 125 e nota 298). 83  Così anche Bollack 1975, pp. 34-35 nota 3: diversi sono la saggezza e il sapere (e di altrettanto differiscono i loro contrari). 84  Giusta 1963, p. 126 nota 1. Il Giusta indica come suoi precursori Apelt II, p. 277; Genaille 1965, II, p. 257, e Gigon 1949, p. 82. Lechi 1845, p. 401, e Zevort 1847, p. 295, univano μηδὲ πλάττειν ἑκόντα all’item seguente: «ni (…) se remettre volontairement sous l’empire des passions» (1847, p. 295). 85  Il Genaille, restando fedele al principio di bypassare i punti difficili, omette ἑκόντα (1965, II, p. 257), mentre il Morel lo estende a λαμβάνειν e in tal modo lo diluisce: «il n’est pas enclin à adopter la disposition contraire ni à la simuler» (2011, p. 94). 81

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Non chiaro neanche il ragionamento svolto nella sezione (b). Adottando il testo stampato sopra si dovrebbe intendere che il sophos sarà vittima più di altri di certe passioni, ma che queste non gli impediranno di essere sophos. Il Giusta pensava ai πάθη che non agitano, non sconvolgono, e che vengono sentiti dal sophos più intensamente che dagli uomini comuni – senza che ciò inibisca la sophia 86. Tuttavia per ottenere questo risultato non basta cambiare μᾶλλον in ὁμαλοῖς ed ἐμποδίσαι in ἐμποδίσασι, ma occorre anche un τοῖς, onde precisare che è quel tipo di πάθη, e quello solo, che non nuoce al sophos (e che anzi gli fa onore, in quanto ne attesta il senso di umanità). Altrimenti ἐμποδίσασι risulte­reb­be riferito a tutti i πάθεσι. L’impressione è quella di trovarsi davanti a qualcosa di poco epicureo, ottenuto peraltro a suon di congetture. Il μᾶλλον presuppone un confronto esplicito o implicito con qualcosa che è stato detto prima. Qui invece, stando alle ricostruzioni correnti, i concetti espressi in (a) e (b) non avrebbero a che fare l’uno con l’altro: il che spiega l’acca­ni­men­to con cui gli studiosi hanno cercato di neutralizzare l’avverbio87. Il senso che si vorrebbe ottenere da πλάττειν, ma che πλάττειν non possiede, ce lo dà παραλλάττειν (con παρα- in compendio?)88. Con tutto ciò, ho più fiducia in un’altra correzione, ovvero μηδὲ βλάπ­τειν ἑκόντα. πάθεσι μᾶλλον συσχεθήσεσθαι. ὃ κἂν ἐμπο­δίσαι πρὸς τὴν σοφίαν: «il sapiente non fa del male volontariamente. (In caso contrario) sarà più esposto ai πάθη; e ciò nuocerebbe alla sophia». I πάθη sareb­bero i turbamenti, le ire, le fatiche, le

 Giusta 1963, p. 131. Così anche Long – Sedley (II, p. 142), che intendono «feelings», «human feelings», e leggono il passo come un’implicita critica al rigorismo stoico. Al contrario del sophos stoico, l’epicureo «is perfectly compatible with susceptibility to many ordinary human feelings» (ad esempio l’amicizia, il dolore per gli amici morti, ecc.: Bignone 1920, p. 210 nota 3); cfr. Diog. Laert. 7.117 φασὶ δὲ (sc. οἱ Στωϊκοί) καὶ ἀπαθῆ εἶναι τὸν σοφόν. La Annas (1989, p. 158 nota 26) condivide il τισί del Bignone (1920, p. 210). 87  Solovine 1938, p. 160: «certes, lui aussi sera possédé de passions, mais cela» ecc.; il μᾶλλον è sparito. Ma il premio della goffaggine spetta al Kochalsky, il cui supplemento ‘a iniezione’ (p. 74) viene giustamente escluso dall’apparato di Dorandi (p. 800). 88  Per παραλλάττειν e affini in relazione ai concetti di disposizione, carattere, modo di stare, di essere, ecc., cfr. e.g. Porph. De abst. 3.7 πολλὴν τὴν παραλλαγὴν τῆς ἕξεως; Strabo 1.1.8 πάντη γοῦν ὁ αὐτὸς τρόπος τῶν τε μεταβολῶν ὑπάρχει καὶ τῶν αὐξήσεων καὶ μειώσεων, ἢ οὐ πολὺ παραλλάττων, nonché Diog. Laert. 9.82 παρὰ τὰς διαθέσεις καὶ κοινῶς παραλλαγάς. Il verbo è attestato in Epist. Pyth. 98 μήκη νυκτῶν καὶ ἡμερῶν παραλλάττοντα. 86

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passioni, le gioie, ostacoli alla μακαριότης89; e avremmo una versione aggiornata del vecchio principio utilitaristico socratico-platonico90 per cui l’ ἀδικία non è un buon affare in quanto nuoce più all’ ἀδικήσας che all’ ἀδικηθείς. Questa la perfetta sintesi di Vander Waerdt (1987, p. 406): contrary to the claim of Epicurus’ critics, the wise man will not commit injustice, secretly or openly, because injustice is contrary to his self-interest. This conclusion follows from pain, seeks to gratify only the natural desires conducive to ataraxia and to avoid all unnatural or unnecessary pleasures which would detract from his self-sufficiency, security and ataraxia. In particular, he has no interest in the acquisition of wealth, because wealth and external goods generally bring pains or unnecessary pleasures which would compromise his ataraxia. Consequently, since no pleasure obtainable by injustice could compensate the wise man for his loss of ataraxia, he will not commit injustice91.

Con le correzioni di πλάττειν in βλάπτειν e di οὐκ ἄν in ὃ κἄν risultano ben spiegati sia ἑκόντα sia μᾶλλον. E, soprattutto, i πάθη si riappropriano del loro senso-base negativo, probabilmente l’unico ammissibile in un ‘indice’ di doxai schematico come questo. L’alternanza presente/futuro non ostacola la riduzione ad unum di (a1) e (b), anzi la favorisce, essendo μᾶλλον συσχεθήσεσθαι una conseguenza del μὴ βλάπτειν. 117-118 (a) οὐδὲ μὴν ἐκ πάσης σώματος ἕξεως σοφὸν γενέσθαι ἂν οὐδ᾿ ἐν παντὶ ἔθνει. [118] (b) κἂν στρεβλωθῇ δ᾿ ὁ σοφὸς εἶναι αὐτὸν εὐδαίμονα. (c) μόνον τε χάριν ἕξειν τὸν σοφόν, καὶ ἐπὶ φίλοις καὶ παροῦσι καὶ ἀποῦσιν ὁμοίως (c1) διά τε ὅλου

 La RS 1 (Diog. Laert. 10.139) = SV 1 è chiara su questo punto: ciò che è beato e incorruttibile – modello del sapiente – οὔτε ὀργαῖς οὔτε χάρισι συνέχεται. E le ὀργαί e le χάριτες sono πάθη. 90  Non risulta che Epicuro guardasse a Socrate con grande simpatia: sul tema cfr. Riley 1980, pp. 55 sgg.; Kleve 1983, passim, in particolare p. 230; Long 1988, passim; Vander Waerdt 1989, pp. 253 sgg.; Erler 1994, pp. 129-130, ecc. (ma certi punti di contatto fra epicureismo e socratismo non si possono obiettivamente negare: Mitsis 1987, pp. 145-146; Corti 2014, pp. 123 sgg.). 91  E cfr. p. 409, dove lo studioso ricorda il detto ὁ δίκαιος ἀταρακτότατος, ὁ δ᾿ ἄδικος πλείστης ταραχῆς γέμων (RS 17, cfr. SV 70). Ancora più sintetico Rist: «will the wise man act injustly? No, because it does not pay» (1980, p. 129). Il concetto dell’ ἀδικία a senso unico è implicito nel fr. 530 Us. οἱ νόμοι χάριν τῶν σοφῶν κεῖνται, οὐχ ὅπως μὴ ἀδικῶσιν ἀλλ᾿ ὅπως μὴ ἀδικῶνται. 89

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χ …… (d) ὅτε μέντοι στρεβλοῦται, ἔνθα καὶ μύζει καὶ οἰμώζει. (e) γυναικί τε οὐ μιγήσεσθαι τὸν σοφὸν ᾗ οἱ νόμοι ἀπαγορεύουσιν. (c) ἕξειν BPpc: ἔχειν F | καὶ ἐπὶ BP1F: del. Px (om. Q): ἐπὶ Φ | διά τε ὅλου χ …… ὅτε Arrighetti: διά τε ὁδοῦχοτε B1: διά τε ὁδ᾿ οὐχ ὅτε B2: διά τε ὁδοῦ*ὅτε Px: διά τε ὁδοῦ χ᾿ ὅτε P1(Q): διά τε ὁδοῦ ὅτι F: διά τε ὁδοῦ ὅτε Z (editio Frobeniana): διά τε λόγου Usener: διατε εὐλογοῦντα Kochalsky: διά τε λόγου Diano: διά τε ὅλου (Apelt) χ Bignone: διάξ εοδοῦν Giusta: διατε Marcovich, suspicatus ita continuandum, e.g. ὃ δ᾿ οὐχ . (d) ὅτε … οἰμώζει post (b) εὐδαίμονα transposuit Marcovich (vv.ll. μύξει et οἰμώξει adhibitis). (a) Non da ogni costituzione fisica, né in ogni popolo può nascere il sapiente. [118] (b) Anche nella tortura il sapiente è felice. (c) Solo il saggio saprà essere veramente riconoscente, e anche nei confronti degli amici, sia presenti che assenti (c1), e del tutto …… (d) Quando però è torturato, allora geme e si lamenta. (e) Il saggio non si unirà con quella donna con cui le leggi vietano di unirsi (Arrighetti p. 26).

(a) Ἔθνος è stato inteso come «popolo», natio, ma il senso potrebbe essere più circoscritto92. Sia come sia, non ci aspetteremmo discriminazioni né di questo né di altro genere da parte di Epicuro e degli epicurei. Il fr. 226 Us. attesta che secondo Epicuro solo i Greci erano capaci di φιλοσοφῆσαι, ma essere φιλόσοφοι è una cosa, essere σοφοί un’altra. (b)-(d) Si procede a zigzag: felicità del sophos sotto tortura, poi tema della gratitudine, poi l’amicizia, poi di nuovo la tortura. Il Marcovich sposta (d) dopo (b) per ripristinare la continuità. Lo Usener e il Giusta espungono (d) perché contraddittorio rispetto a (b)93. Per (c1) ha avuto successo διατελεῖν εὐλογοῦντα

 Il Lechi intendeva, non a torto forse, «in ogni classe di persone» (1845, p. 401). Per ἔθνος = «classe sociale» cfr. e.g. Plat. Resp. 421c, 428e, ecc. Per «categoria di persone» cfr. Resp. 351c ἢ λῃστὰς ἢ κλέπτας ἢ ἄλλο τι ἔθνος; Soph. 242c τὸ δὲ παρ᾿ ἡμῶν Ἐλεατικὸν ἔθνος. 93  Lo Usener (p. xxxv) precisava che il tema della debolezza del sophos di fronte alla sofferenza non è estraneo all’etica epicurea. Tuttavia la frase, che deve essere stata in origine una continuazione di ὅτε μέντοι στρεβλοῦται κτλ., ne è il palese rovesciamento. Essa fu dunque opera, secondo Usener, di un lector adversarius, mosso dalla volontà di dimostrare che gli epicurei si contraddicono. 92

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del Kochalsky 94. Ma il dato sulla continuità sembra superfluo se riferito alle amicizie del sophos, che saranno, va da sé, indissolubili. Dorandi ha fat­to bene a non spostare nulla e a non accogliere né tentare interventi per l’irre­co­strui­ bile (c1)95. L’unico mutamento che eventualmente opererei è στρε­βλοῦται per στρεβλοῦται (soggetto οἱ φίλοι). Ciò eliminerebbe la contrad­di­zione fra (b) e (d)96 e ridarebbe un po’ di ordine al tutto: il sophos è felice anche sotto tortura, ma quando sotto tortura sono i philoi, allora sì lo vedrai gemere e disperarsi97. La sezione (c) ribadirebbe (purtroppo διατεοδουχ ci impedisce di capire in che modo) il noto culto epicureo per l’amicizia, «the brightest spot in Epicurean life», per dirla con Bailey (1928, p. 518). (e) Non è chiaro se siamo di fronte a un divieto di adulterio (Stearns 1936, p. 345) e di corruzione di donne oneste (Hammerstaedt 2012, p. 133) oppure a un divieto di esercitare certe pratiche sessuali (Inwood – Gerson 1994, p. 43: il saggio non avrà rapporti con una donna «in a manner forbidden by the laws»; similmente Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin 2010, p. 43, e Morel 2011, p. 94). Il giro di frase si ritrova nel fr. 18 Us. trasmesso da Plut. Adv. Col. 1127D εἰ πράξει τινὰ ὁ σοφὸς ὧν οἱ νόμοι ἀπαγορεύουσιν, senonché qui il genitivo è partitivo e segue il costrutto di πράξει τινά. Ma c’è una terza possibilità. Nel libro VII, in un punto della corrispondente sezione stoica περὶ σοφοῦ, Diogene Laerzio riferisce: ἀρέσκει δ’ αὐτοῖς (sc. Zenone e gli altri stoici) καὶ κοινὰς εἶναι τὰς γυναῖκας δεῖν παρὰ τοῖς σοφοῖς, ὥστε τὸν ἐντυχόντα τῇ ἐντυχούσῃ χρῆσθαι (c. 131). Posto che fra i comportamenti del saggio stoico e quelli del saggio epicureo sussista una più o meno stretta συστοιχία, le parole γυναικί τε οὐ μιγήσεσθαι τὸν σοφὸν ᾗ οἱ νόμοι

 Giusta (1963, p. 134) obietta che ad ἕξειν dovrebbe seguire un futuro e non il presente διατελεῖν. Ma διατελεῖν è sia presente che futuro. 95  Tutta la sezione περὶ σοφοῦ (al cui proposito Erler – Schofield 1999, p. 669, parlano di «hotch-potch of evidence» e di «disorganized scissors-and-paste compilation») è caratterizzata dall’incastro a pettine (il nesso eros/thanatos che viene a configurarsi al c. 118 e che è in apparenza così «intriguing», come dice Brown 1987, p. 112, sarà anch’esso l’effetto di questo stato di cose). La critica traspositoria e la ricerca di coerenza a tutti i costi non sono scelte vincenti in casi come questi. 96  Evitandoci di seguire sia lo Usener, che attribuiva (d) a un lettore malevolo (si veda qui sopra, nota 93), sia il Bollack, che con le solite contorsioni spiegava in questo modo la serie tortura-gratitudine-tortura: il sapiente è felice; non è che non soffra, però il rapporto con gli amici fa sì che la sua eudaimonia non venga scalfita. 97  Il μύζειν manifesta più un dolore fisico che spirituale, ma il σοφός si immedesima nella sorte dell’amico. 94

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ἀπαγορεύουσιν possono voler dire che gli epicurei non useranno sessualmente della prima venuta, cioè non praticheranno la promiscuità sessuale. 118-119 (a) ἐρασθήσεσθαι τὸν σοφὸν οὐ δοκεῖ αὐτοῖς. (b) οὐδὲ ταφῆς φροντιεῖν. (c) οὐδὲ θεόπεμπτον εἶναι τὸν ἔρωτα, ὡς ὁ 98 Διογένης ἐν τῷ …… (d) οὐδὲ ῥητορεύσειν καλῶς. (e) συνουσίη δέ, φασίν, ὤνησε μὲν οὐδέποτε, ἀγαπητὸν δὲ εἰ μὴ καὶ ἔβλαψε. [119] (f) καὶ μὴν καὶ γαμήσειν καὶ τεκνοποιήσειν τὸν σοφόν, ὡς Ἐπίκουρος ἐν ταῖς Διαπορίαις καὶ ἐν ταῖς Περὶ φύσεως, (g) κατὰ περίστασιν δέ ποτε βίου γαμήσειν. (h) καὶ διατραπήσεσθαί τινας. (i) οὐδὲ μὴν ληρήσειν ἐν μέθῃ φησὶν ὁ Ἐπίκουρος ἐν τῷ Συμποσίῳ. (c) ἐν τῶ BP (./. λεί(πει) in margine B2). (c)-(d) ὡς… καλῶς om. F. (d) ῥητορεύσειν P4 supra lineam: ῥητορεύειν BP1(Q). (e) συνουσίη δὲ FP4: συνουσίην δὲ B: συνοῦσιν ἥδε P1(Q): συνουσία δὲ Menagius | ἀγαπητὸν δὲ PF: ἀγαπητὸν B | εἰ μὴ BP1: εἰ μὴ καὶ FP4. (f) καὶ μὴν καὶ BPFΦ: καὶ μηδὲ Galesius et Casaubon: καὶ μηδὲ καὶ Hicks: οὐδὲ vel οὐδὲ μὴν Chilton: καὶ μὴν μὴ Marcovich. (g) {γαμήσειν} Giusta. (h) διατραπήσεσθαι BPF: δία τραφήσεσθαι Brennan: δία διατραφήσε­ σθαι Marco­v ich. (i) ληρήσειν K. F. Hermann: τηρήσειν BPxF: τήρησιν P1: τήρησειν Diano. (a) Gli epicurei non credono che il saggio debba innamorarsi; (b) né che debba preoccuparsi della sepoltura. (c) E nemmeno che l’amore sia qualcosa di origine divina, come dice Diogene nel …… (d) né farà dei bei discorsi. (e) L’amplesso non giova mai, dicono; bisogna accontentarsi che non fa male. [119] (f) Si sposerà e avrà figli il saggio, come dice Epicuro nei Casi dubbi e nei libri Sulla natura; (g) ma riguardo allo sposarsi terrà presenti le circostanze della vita, (h) e potrà distoglierne alcuni. Né, dice Epicuro nel Simposio, il saggio dovrà ciarlare sconsideratamente nell’ebrezza (Arrighetti p. 26).

(e) Il celebre detto costituisce il fr. 62 Us., che trascrivo qui di séguito mantenendo la mise en page e l’apparato di Usener (p. 118) e aggiungendo la traduzione italiana della Ramelli (2002, p. 281). Le indicazioni [T 1], [T 2], [T 1a], [T 2a], ecc., sono mie.

 Aggiungo ὁ che Arrighetti per distrazione tralascia, ma che è concorde­mente attestato. 98

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[T 1] «συνουσίη ὤνησε μὲν οὐδέποτε, ἀγαπητὸν δ᾿ εἰ μὴ ἔβλαψε». [T 2] Laertius Diog. X 118 «συνουσίη» δὲ φασίν «ὤνησε … ἔβλαψε». [T 3] Clemens A lexandr. paedag. II 10 p. 84, 41 εὖ γοῦν τις εἰρηκέναι φέρεται· συνουσία ὤνησε μὲν οὐδένα, ἀγαπητὸν δὲ εἰ μὴ ἔβλαψεν. [T 4] Porphy rius de abstin. I 52 τῶν γὰρ αὐτῶν ἦν καὶ τὰς ἀπολαύσεις οἴεσθαι ὑγείας εἶναι τηρητικὰς καὶ τὰ ἀφροδίσια ὀνῆσαι μὲν οὐδένα τινά, ἀγαπητὸν δὲ εἰ μὴ ἔβλαψεν99. [T 5] Galenus art. med. c. 24 t. I p. 371 K. ἀφροδισίων δὲ κατὰ μὲν Ἐπίκουρον οὐδεμία χρῆσις ὑγιεινή (cfr. t. V p. 911). [T 6] Id. in Hippocr. epidem. III comm. I 4 t. XVII, 1 p. 521 τίς γὰρ ἦν ἀνάγκη γράφειν … εἰρηκέναι … Ἐπίκουρον, μηδέποτε μὲν ὠφε- λεῖν ἀφροδισίων χρῆσιν, ἀγαπητὸν δ᾿ εἰ μὴ βλάψειεν;

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19 ex Symposio petita, cfr. fr. 61 p. 117, 19 | συνουσίην B συνουσίη ceteri. Democriteam sententiam esse probabiliter coniecit H. Ritter hist. philos. III2 p. 467, qua credas Epicurum in convivio100 usum esse | 25 ὀνῆσαι] ὧν ὤνησε libri | 31 χρῆσιν Gassendus: κρίσιν edunt. [T 1a + T 2a] Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, X 118: Il rapporto intimo, dicono gli Epicurei, non giova mai, e bisogna essere contenti se, almeno, non danneggia. [T 3a] Clemente Alessandrino, Pedagogo, II 10, p. 84, 41: È una buona cosa quella che si tramanda che un tale abbia affermato: «Il rapporto intimo non giova a nessuno, e bisogna essere contenti se, almeno, non danneggia». [T 4a] Porfirio, Sull’astinenza, I 52: Proprio di loro era, anche, il ritenere che i go­dimenti sani siano quelli finalizzati alla conservazione e che i piaceri d’amore non giovino a nessuno, e che si debba essere contenti se, almeno, non danneg­giano. [T 5a] Galeno, C.M.G. I p. 371 K.: Nessun commercio carnale, secondo Epicuro, è salutare. [Cfr. ibid. V p. 911.] [T 6a] Galeno, Commento alle ‘Epidemie’ di Ippocrate III, I 4, C.M.G. XVII, 1, p. 521: Che bisogno c’è di scrivere… che Epicuro ha affermato… che il commercio carnale non giova mai, e che bisogna essere contenti se, almeno, non danneggia?

A queste attestazioni va aggiunta la Sentenza Vaticana 51, di cui Usener non po­té tenere conto, in quanto lo Gnomologio di cui faceva parte fu pub-

 Lo Usener ritornò sul passo porfiriano nei corrigenda per aggiungere δεῖν fra ὑγείας ed εἶναι (p. lxxviii). 100  Si osservi che nel giro di pochi righi, pur riferendosi alla stessa opera, lo Usener passa senza apparente motivo (ma forse il motivo c’è: si veda più avanti nel testo) da «Symposium» (titolo) a «convivium» (nome comune). 99

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blicato (da Wotke, ma con l’attivo contributo di Usener stesso) nel 1888, un anno dopo gli Epicurea101: [T 7] πυνθάνομαί σου τὴν κατὰ σάρκα κίνησιν ἀφθονωτέραν διακεῖσθαι πρὸς τὴν ἀφροδισίων ἔντευξιν. σὺ δὲ ὅταν μήτε τοὺς νόμους καταλύῃς μήτε τὰ καλῶς ἔθη κείμενα κινῇς μήτε τῶν πλησίον τινὰ λυπῇς μήτε τὴν σάρκα καταξαίνῃς μήτε τὰ ἀναγκαῖα καταναλίσκῃς, χρῶ ὡς βούλει τῇ σεαυτοῦ προαιρέσει. ἀμήχανον μέντοι γε τὸ μὴ οὐχ ἑνί γέ τινι τούτων συνέχεσθαι· ἀφροδίσια γὰρ οὐδέποτε ὤνησεν, ἀγαπητὸν δὲ εἰ μὴ ἔβλαψεν.

Il testo è di Von der Muehll (1922, pp. 65-66) ed è ripreso senza modifiche da Marcovich p. 822 (diverso in più punti è invece quello di Long – Sedley 1987, II, p. 120). Una versione della SV 51 fu scoperta nel PBerol. inv. 16369 (pubblicato da Vogliano 1936, p. 269), dove πυνθάνομαι è preceduto da Μητρόδωρος Πυθοκλεῖ χαίρειν. Si trattava dunque di una lettera di Metrodoro (fr. 48 Körte = 104 Muller) a Pitocle102. Barigazzi intende: «nella Sent. Vat. 51 ad un giovane tormentato da brame carnali si consiglia, pur con l’avvertenza che ci sono molti pericoli e danni e che è difficile sfuggire a tutti, d i s e g u i r e l ’ i n c l i n a z i o n e s e n z a s c r u p o l i » (1988, p. 92; spaziato mio). Il Barigazzi non tiene conto che i pericoli e i danni raffigurati al giovane (che grazie al PBerol. inv. 16369 sappiamo ora doversi identificare con Pitocle) sono tali e tanti che l’«inclinazione» non potrà essere soddisfatta pressoché mai103. Quanto alla paternità del dictum antisinusiastico, poco importa se essa spetti a Epicuro o a Metrodoro, al quale capitò più di una volta di usare come proprie le parole del maestro104. Non c’è dunque bisogno di virgolettare il dictum, come fa Blanchard 1991, p. 406. L’ultima testimonianza sul fr. 62 è il passo ciceroniano di Tusc. 5.94 (fr. 440 Us.):

 Usener – Wotke 1888. La SV 51 è a p. 195.  E non di Metrodoro a Ermarco, come crede Warren (2007, p. 137), e neanche di Epicuro a un giovane ignoto, come continua a credere la Nussbaum (1995, p. 287). 103  L’errore di Barigazzi si ritrova in Santese 2007, p. 185 nota 33, che usa pressoché le stesse parole di Barigazzi. Distanti toto caelo Bailey e Stearns (1936, p. 344), che ravvisano nella lettera una componente umoristica. 104  Cfr. Körte 1890, p. 540; Clay 1973, p. 278; Clay 1983, pp. 258 e 262; Cerasuolo 1995, p. 151, e più recentemente Brown 2007, p. 78 (sulla SV 23); Dorandi 2004, p. 275, e Dorandi 2015 (in pre­pa­razione): non per nulla Metrodoro era l’alter Epicurus (Cic. De fin. 2.28 = Metrod. fr. 33 Körte = 41 Mul­ler). 101

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[T 8] hoc loco multa ab Epicureis disputantur eaeque voluptates singillatim extenuantur: quarum genera [non] contemnunt, quaerunt tamen copiam. Nam et obscoenas voluptates, de quibus multa ab illis habetur oratio, faciles, communes, in medio sitas esse ducunt, easque si natura requirat, non genere aut loco aut ordine, sed forma, aetate, figura metiendas putant, ab iisque abstinere minime esse difficile, si aut valetudo aut officium aut fama postulet, o m n i n o q u e g e n u s h o c v o l u p t a t u m o p t a b i l e e s s e , s i n o n o b s i t , p r o d e s s e n u m q u a m . Totumque hoc de voluptate eqs.

Questi i dati. E ora qualche precisazione: [T 4] «Usener n’a pas inclus ces lignes de Porphyre [sc. τὰ ἀφροδίσια… ἔβλαψεν] dans ses fragments». Così Bouffartigue 1977, p. 22 nota 3, ma erronea­mente: in Usener «ces lignes» ci sono, e non si capisce come il Bouffartigue non le abbia viste105. [T 6] «Dans ce passage, comme également dans l’Art médical et chez Diogène Laërce (10.118), on lit ἀφροδισίων χρῆσις à la place de συνουσίη»: così Boudon 2000, p. 427 nota 3; ma non è vero: Diogene Laerzio ha συνουσίη e non ἀφροδισίων χρῆσις106. [T 5a], [T 6a] La Ramelli cita Galeno secondo il Kühn (1821, p. 371), ma con l’aggiunta «C.M.G.»107. In [T 6a] «K.» (= Kühn) è soppresso, in [T 5a] convive con «C.M.G.» (il che fa di Carl Gottlob Kühn, morto nel 1840, il collaboratore di un corpus fondato ses­san­t asette anni dopo). In [T 6a] il titolo dell’opera è dato per esteso, in [T 5a] è omes­so. [T 3] La Nussbaum scrive: «this saying [i.e. συνουσίη κτλ.], quoted by Diogenes (10.118) and Clement as a general Epicurean saying, is firmly ascribed to Epicurus’ Symposium by Plutarch (Qu. Conviv. 3.6 = Us. 62)» (1994, p. 150 = 1998, p. 161). In verità solo Diogene presenta il detto come «a general Epicurean saying», mentre Clemente non fa nomi108. Quanto al passo plutarcheo di QC 3.6 (= 653B), un detto vi compare in effetti, e sullo

 Il dato stava anche in Nauck 1886, p. 126 (apparato: «Epicuri sententia, fr. 62 Usener»). 106  Anche nel commento alle Epidemie, a stretto rigore, il tràdito non è χρῆσιν (correzione di Gassendi), ma l’insensato κρίσιν, che Kühn (1828, p. 521) mantiene, pur traducendo «usum». 107  Stessa cosa in Cerasuolo 1995, p. 151 nota 37, che prende le indicazioni da Kühn, ma le attribuisce a «W.» (= Wenkebach). 108  Forse perché non conosceva l’origine epicurea del detto, o forse perché non riteneva opportuno menzionare l’empio gaudente nel bel mezzo di due rispettabili citazioni scritturali (prima da San Paolo, Ef. 5.3, e poi da Sir. 26.22): si veda Dessì 1982, p. 421. 105

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stesso tema, ma diverso nella forma, anche se non nella sostanza109. Perciò non è da escludere che quella discrasia a cui abbiamo accennato sopra (nota 100) sia volontaria: il pensiero di Usener può essere che nel Symposium (titolo) Epicuro avrebbe citato conversando (in convivio, nome comune) le parole συνουσίη ὤνησε κτλ. [T 3] In luogo di εἰρηκέναι φέρεται si legga εἰρηκέναι φαίνεται. Nell’edizione del Pedagogo utilizzata da Usener, quella del Sylburg (cfr. Usener p. 426 s.v. Clemens), il verbo è φαίνεται (Sylburg 1592, p. 84), che è anche l’unica lezione attestata dalle edizioni successive (Potter 1715, p. 228; Dindorf 1869, p. 297; Marrou – Mondésert 1965, p. 186; Stählin – Treu 1972, p. 216; Marcovich – Van Winden 2002, p. 127). Dunque questo φέρεται è svista di Usener110. [T 1], [T 2] I codici laerziani hanno συνουσίη anziché l’atteso συνουσία. Il Menagius pensava a un errore di tradizione111; nel qual caso si potrebbe immaginare un passaggio da Α a Ν e da Ν ad Η112. Nell’apparato di Dorandi

 Cfr. Vogliano 1936, p. 277: «l’affermazione contenuta nella Sentenza (ἀφροδίσια γὰρ οὐδέποτε ὤνησεν, ἀγαπητὸν δὲ εἰ μὴ ἔβλαψεν) è molto meno recisa di quella dell’inciso plutarcheo [i.e. ὡς ἀεὶ μὲν ἐπισφαλοῦς εἰς βλάβην τοῦ πράγματος ὄντος]. Qui il commercio sessuale è considerato sempre dannoso; nella Sentenza invece, pur negandosi il vantaggio, l’utile, si ammette la possibilità dell’assenza del danno». Siccome la ‘lezione sul sesso’ tenuta da Zopiro nelle Questioni Convivali (e per la quale rimando a Casanova 2011a, pp. 317-320, e 2011b, pp. 20-27) sviluppa senza dubbio argomenti già presenti nel Simposio epicureo, questo differente grado di severità potrebbe implicare che ἀφροδίσια γὰρ οὐδέποτε ὤνησεν κτλ. (o συνουσίη γὰρ οὐδέποτε ὤνησεν κτλ.) non appartenne a quell’opera. La questione non è risolvibile, e forse nemmeno importante. Personalmente non vedo – come non vedono Teodorsson (1989, p. 351) e Cerasuolo (1995, p. 152), e alla fin fine neppure Vogliano stesso – significative differenze fra «il sesso è sempre suscettibile di provocare danno» e «il sesso non giova mai ed è già tanto se non danneggia»; ma fatto sta che le Questioni Convivali di Plutarco non attestano il detto che costituisce il fr. 62 Us. Pertanto dobbiamo limitarci a dire che l’appartenenza del fr. 62 al Simposio è una possibilità (come vuole Clay 1983, p. 262) e non una certezza (come pensano i più, da Potter 1715, p. 228, a Bailey pp. 122 e 390, alla stessa Nussbaum 1998, p. 161). Usener non include il plutarcheo ὡς ἀεὶ μὲν ἐπισφαλοῦς κτλ. fra le testimonianze relative al fr. 62, ma ne fa un frammento a parte, il nr. 61. 110  Una svista da amanuense: lo scambio φαίνειν/φέρειν è in assoluto uno dei più attestati nella tradizione dei testi greci: cfr. e.g. Hall 1913, p. 184. 111  Menagius 1664 ap. Huebner 1830, p. 561: «συνουσία, non συνουσίη, legendum in Laertio». Anche Cobet (p. 280) si fida più di συνουσία. 112  Entrambe le mélectures non sono prive di raffronti nella tradizione laerziana, più certi e chiari per la seconda (1.180 εὐρείη vs. εὑρεῖν; 1.113 πλάττειν vs. πλατείη; 8.50 αἰθερολογίη vs. αἰθερολογεῖν, ecc.), meno chiari e più incerti per la prima (9.25 109

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si legge: «συνουσίη δὲ FP4: συνουσίην δὲ B: συνοῦσιν ἥδε P1(Q)» (p. 801). La terza lezione può essere la corruttela ulteriore della seconda (da ΗΝ a ΝΗ), ma anche la tappa intermedia di συνουσία > συνοῦσιν > συνουσίη. (Stessa serie in Herod. 1.180.2 αἱμασιή vs. αἱμασιά vs. αἱμασίν). Secondo Heinrich Ritter113 invece la forma ionica è quanto resta di una citazione da Democrito e dunque non va toccata114. (Né va confusa con gli altri ionismi, diversamente motivati, messi insieme da Arrighetti 1973, p. 558). Lo Usener negli Epicurea editò i cc. 117-122 e 135-138 del libro X delle Vite laerziane sia sotto forma di frammenti (circa 55, dispersi da un capo e l’altro della raccolta) sia sotto forma di testo continuo (alle pp. xxvii-xxxii della Prae­fa­tio). Abbiamo così, di fatto, un’edizione ‘epicurea’ e un’edizione ‘laerziana’ dello stesso materiale (le indicheremo con EE ed EL)115. Gli apparati non presentano grandi differenze, se non che quello dei frammenti è più sobrio, l’altro più det­t a­gliato. I testi invece, benché per lo più identici, possono talvolta variare116, anche inaspettatamente. Ecco tre casi notevoli: – fr. 2: EE ἡ μὲν γὰρ ἀταραξία καὶ ἀπονία vs. EL (Diog. Laert. 10.136, p. xxxi) ἡ μὲν γὰρ ἀταραξία καὶ ἀπονία. – fr. 594: EE οὐδὲ κολάσειν τοὺς οἰκέτας vs. EL (Diog. Laert. 10.118, p. xxviii) οὐδὲ κολάσειν οἰκέτας117. – fr. 568: EE ποιήματα δέ vs. EL (Diog. Laert. 10.121, p. xxx) ποιήματά τε118.

πάντων [Casaubon] vs. Πλάτων; 10.121b ἐνεργείᾳ [Usener] vs. ἐνεργεῖν: oppure ἐνεργῶς, come stampa ora Dorandi p. 803, seguendo Sider). 113  Ritter 1837, p. 467 nota 2; Ritter e non Usener, come Grilli (1971, p. 56 nota 13) e Verde (2013a, p. 268) hanno scritto: Usener condivise ma non fu il primus inventor. 114  Usener p. 118 (si veda sopra, apparato a [T 1]); così anche Lechi 1845, p. 434; Giusta (1963, p. 139) e Brown (1987, p. 110). Qualcosa mi sfugge nell’analisi di Verde 2013a, p. 268: «Usener (1887, p. 118, in apparato) riteneva che questa seconda parte, d e r i v a n d o da Democrito, fosse attribuibile al Simposio di Epicuro» (spaziato mio). 115  E si aggiunga il Glossarium, dove spesso i testi citati non sono né identici agli Epicurea né identici fra loro. Arrighetti (1982, pp. 129 sgg.) sembra dare per probabile che il Glossarium fosse nell’insieme un’opera successiva agli Epicurea. 116  Le differenze sono limitate agli apices, cioè alla punteggiatura, alle maiuscole e agli ac­centi (fr. 591 = Diog. Laert. 10.119: EE καὶ διατραπήσεσθαι τινάς [p. 335] vs. EL καὶ διατραπήσεσθαί τινας [p. xxviii]). 117  Donde il τούς di EE? L’apparato ‘laerziano’ avverte che i codici hanno οὔτε, e che da qui era partito il Casaubon per proporre τούς τε οἰκέτας κολάσειν. Ma la paternità di non è indicata. Probabile distrazione di Usener. 118  Lo Usener non accenna ad alcuna v.l. τε/δέ né nell’apparato EL (p. xxx) né nell’apparato EE (p. 331). Il Kochalsky, che tenne presente EL e non EE, riconget-

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Ora, il fr. 62 è appunto uno dei casi di mancata corrispondenza fra un testo e l’altro. EL è stampato così: συνουσίην δέ φασιν ὀνῆσαι μὲν οὐδέποτε, ἀγαπητὸν δὲ εἰ μὴ καὶ ἔβλαψε di contro al tràdito συνουσίη δέ, φασίν, ὤνησε μὲν οὐδέποτε, ἀγαπητὸν δὲ εἰ μὴ (καὶ) ἔβλαψε. Non si capisce lo scopo dell’intervento (che è stato infatti duramente criticato)119. Forse a Usener spiaceva un costrutto all’indicativo in una sezione in cui si usa prevalentemente l’infinito? Ma allora avrebbe dovuto regolarsi allo stesso modo anche in altri casi. Cosa che non fa. Ad esempio al c. 119 preferisce πολιτεύσεται a πολιτεύσεσθαι sia in EL (p. xxix) sia in EE (fr. 8, p. 94); e lo stesso dicasi, sempre al c. 119, per la congettura καταξιοῖ (indicativo)120. Ma veniamo ad EE, ovvero al combinato [T 1] + [T 2]. Il frammento vero e proprio è [T 1], mentre [T 2] è la testimonianza. Usener mette [T 1] tra virgolette, cioè ne fa una citazione (da Democrito, secondo l’ipotesi di Ritter)121, mentre EL potrebbe esserne una versione accomodata, fedele ma non per forza letterale122. Come è chiaro di per sé, e come ha ribadito più volte T. Dorandi123, nulla vieta che un medesimo testo, nella fattispecie un testo di Diogene Laerzio che riporta materiale di Epicuro, sia stampato in modo diverso dall’editore laerziano e dall’editore epicureo, di cui appunto sono diverse le finalità. E tuttavia, una volta stabilito che il nominativo συνουσίη e l’indicativo ὤνησε sono errori degli scribi laerziani, logica vuole che questi errori vengano emendati anche in [T 2]. Invece lo Usener non solo stampa [T 2] nella forma tràdita, ma addirittura ne isola visivamente la parte epicurea ‘originale’ per mezzo di virgolettati e spaziature. E que-

turò ποιήματα δέ: «ποιήματά τε codd. Us. Man hat wohl ποιήματα δέ zu schreiben» (p. 75), e taluno (Marcovich p. 790) ha attribuito a lui questa lezione; che invece era di Usener. 119  Cfr. Bailey p. 418: «this is surely uncritical»; anche Giusta respinge la congettura, ma con il fallace argomento che «ὤνησε è concordemente attestato dai manoscritti» (1963, p. 193 nota 2). A p. xxviii Usener dice in apparato «ὤνησε libri solita neglegentia». Ma perché solita? In questa parte i codici non si segnalano affatto per l’alterazione di infiniti in indicativi: cambiano spesso il tempo (da futuro ad aoristo) ma non il modo. 120  E ancora, al c. 121b, considera la possibilità di scrivere ἀναγνώσεται (con οὐχ ἑκών) al posto di ἀναγνώσεσθαι (con οὐχ ἑκόντα). 121  Si veda sopra. 122  Un caso analogo nel fr. 578, dove Diogene Laerzio trasmette il concetto (10.118 οὐδὲ ταφῆς φροντιεῖν), ma non le parole precise (che sono εἰ σοφὸς ἀνὴρ ταφῆς φροντιεῖ e che vengono ricavate da altra fonte). 123  Dorandi 2010, passim, e Dorandi 2013, soprattutto p. 201.

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sta parte evidenziata riproduce [T 1]. Insomma un medesimo testo, Diog. Laert. 10.118, da una parte verrebbe ad i n q u i n a r e , dall’altra a g a r a n t i r e gli ipsa verba di Epicuro. Ciò che è successo è evidente: pubblicando due volte il passo laerziano, lo Usener ha fatto scelte diverse e non le ha riconfrontate (proprio come nel caso dei frr. 2, 568 e 594 esaminati sopra). Lo confermano anche altre tre difformità, insignificanti le prime due ([T 2] δὲ φασίν vs. EL δέ φασιν; [T 1] (+ T 2) δ᾿ εἰ vs. EL δὲ εἰ), di un certo peso – come vedremo – la terza ([T 1] (+ T 2) εἰ μή vs. EL εἰ μὴ καί). Nel grande capolavoro che sono gli Epicurea, non sono molte le inesattezze ecdotiche. Questa è una124. Ma si ricordi che Usener sapeva (e se ne doleva) di aver dato ai torchi un’opera non perfettamente rifinita. Entriamo ancora più addentro al fr. 62. Dire che la συνουσία non fa mai bene, e che c’è anzi da essere contenti125 se non fa male, non costituisce a rigore un divieto assoluto di avere rapporti intimi126, anche se non li inco­ rag­gia. L’ostilità verso il sesso trova nel pensiero epicureo diversi paralleli127. Nelle Questioni Convivali di Plutarco si legge che un me­dico di nome Zopiro, molto vicino agli epicurei, attribuiva a questi ultimi il parere che l’am­plesso è sempre rischioso: Plut. QC 653B = fr. 61 Us. ὡς ἀεὶ μὲν ἐπισφαλοῦς εἰς βλάβην τοῦ πράγματος (i.e. τῆς συνουσίας) ὄντος. E l’addendum al fr. 62 trasmesso dallo Gno­mologium Mona­cense 194 (Meineke 1857, p. 282 = add. 62a Us., p. 344) racconta che Epicuro, richiesto di indicare il momento giusto per unirsi  Come si vede dall’apparato sopra riportato al fr. 62, r. 25, lo Usener emendò in eundo anche il passo porfiriano del De abstinentia, proponendo ὀνῆσαι in luogo dell’insensato ὧν ὤνησε (Porph. De abst. 1.52.3). È una congettura inferiore a ἃ ὤνησε di Nauck, ma non indegna di menzione. Invece ne tacciono sia l’apparato di Bouffartigue (p. 84) sia – meno spiegabilmente – l’apparato di Nauck (1886, p. 126), il quale pure non manca mai di ricordare i contributi testuali ed esegetici di Usener, che di quella edizione porfiriana fu il dedicatario. Forse lo Usener ci pensò dopo? 125   Questa la resa standard di ἀγαπητόν (ἐστιν), da ἀγαπᾶν «accontentarsi di». Il Brennan dà come alternative «it is surprising» e «it is marvellous» (1996, p. 346 e 347); che sono fuorvianti in quanto fanno pensare ad ἄγασθαι. 126  Il συνουσιάζειν come il πολιτεύεσθαι: il vero epicureo non cura gli honores, ma, se proprio non può farne a meno, se ciò è proprio indispensabile per il suo equilibrio interiore, ha il permesso di dedicarvisi (si veda il fr. 555 Us., e le discussioni di Roskam 2007, pp. 52-53; Fish 2011, pp. 72-73, 93 e nota 83). Il principio vale, dove più dove meno, per tutta la sezione περὶ σοφοῦ (cfr. e.g. Erbì 2011, pp. 189 sgg.; Torre 2000, pp. 146-147; Duvernoy 2005, pp. 64-65: «l’épicurisme comporte un mélange assez bizarre de limitations arbitraires au sein même de l’axiomatique initiale»). 127  Sul tema si vedano i saggi specifici di Cerasuolo 1995 e 1996. 124

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con una donna, rispose: «quando vuoi diventare più debole di prima» (ὅταν σαυτοῦ ἀσθενέστερος θέλῃς γενέσθαι). Ma vi sono anche testimonianze in senso opposto: risulta per esempio che Epicu­ro includeva gli aphrodisia fra gli elementi costitutivi dell’ ἀγαθόν (Diog. Laert. 10.6 = fr. 67 Us. = 22.1 Arr. οὐ γὰρ ἔγωγε ἔχω τί νοήσω τἀγαθόν, ἀφαιρῶν μὲν τὰς διὰ χυλῶν ἡδονάς, ἀφαιρῶν δὲ τὰς δι᾿ ἀφροδισίων καὶ τὰς δι᾿ ἀκροαμάτων καὶ τὰς διὰ μορφῆς); risulta che Lucrezio nel libro IV disapprovava il sentimento amoroso ma non l’amples­ so128; né sembra averlo disapprovato Diogene di Enoanda, pur ricordando agli amanti che nell’atto sessuale non conta la differenza fra un partner bello e un partner brutto129. Ma anche l’ ἀπαγορεύειν di poco sopra, quale che sia il significato generale del passo, implica comunque che frequentare donne non è vietato al sophos. Il Giardino stesso era una Lebensgemeinschaft con forte presenza femminile di mogli ed etere (Campos Daroca – López Martínez 2010, pp. 26-27), e i cui membri si univano, prolificavano e intrec­ cia­vano le più varie liaisons (Diog. Laert. 10.7). Giustamente Stearns si chiedeva: «quale effetto avrebbe fatto sugli instancabili calunniatori di Epicuro il fatto che i suoi precetti erano opposti al matrimonio mentre la sua vita non lo era?» (1936, p. 346). In un articolo del 1993, Jeffrey Purinton cercò di interpretare il fr. 62 in maniera meno ascetica. «È vero – scrive – che [secondo Epicuro] non c’è uno stretto biso­gno di variare il piacere catastematico con un piacere cinetico come quello che deriva dal commercio sessuale, ma ciò non significa che non si abbia motivo di praticare il sesso (…), e, se la pratica del sesso non provocherà né dolore né scontentezza, essa è desiderabile. Gli epicurei “sostengono che avere rapporti sessuali non giova mai, però è cosa desiderabile, a patto che non faccia danni”»130. La seconda parte del fr. 62,

 Cfr. Arkins 1984, p. 141; Barigazzi 1988, p. 91; Salem 1998, pp. 119 sgg., e più ampiamente Brown 1987, pp. 65 sgg.; così Lucrezio sinte­t izza il concetto in 4.1073 nec Veneris fructu caret is qui vitat amorem. 129  Diog. Oen. NF 157, interessantissima sentenza rinvenuta nel 2008 (Hammerstaedt – Smith 2008, p. 28), e criticamente costituita nel 2009 (Hammerstaedt – Smith 2009, p. 19 = Hammerstaedt – Smith 2014, p. 89); sulla prima parte di questo testo (1-7), Hammerstaedt e Smith hanno dato interpretazioni diverse (Hammerstaedt – Smith 2009, pp. 20-22 = Hammerstaedt – Smith 2014, pp. 90-92; Hammerstaedt 2012, pp. 129 sgg.); invece sulla seconda parte (7-11), che è quella che più interessa a noi, non sussistono dubbi. 130  Purinton 1993, p. 310 e nota 55. Il Purinton non parte da EE, ma da EL, che stampa così: συνουσίαν δὲ φασιν [sic] ὀνῆσαι μὲν οὐδέποτε, ἀγαπητὸν δὲ κτλ., eliminando tacitamente lo ionismo. 128

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continua Purinton, è usualmente tradotta «si deve essere contenti se il sesso non danneggia», ma Cicerone reports the Epicureans think genus hoc voluptatum optabile esse, si non obsit, prodesse numquam (TD 5.94), i.e., as J. E. King translates in the Loeb edition, «this kind of pleasures is desirable, should there be no obstacle, but is never of benefit». And the μέν-δέ construction (also preserved in the three other versions of this saying cited at U[sener] 62) likewise suggests that Epicurus’ point is not that one is lucky if having sex does one no harm, but that the desire of sexual intercourse is, «on the one hand», not a necessary desire, but is, «on the other», a natural one, since having sex is «desirable» (Purinton 1993, p. 310 nota 55).

Seguendo Cicerone, e quindi intendendo ἀγαπητόν come predicato di συνουσίη, il fr. 62 non implicherebbe più una condanna del sesso, ma quasi u n i n v i t o a p r a t i c a r l o (purché ovviamente con cautela). Qualche anno dopo (era il 1996), Tad Brennan ribadì contro Purinton l’interpre­t azione tradizionale: il fr. 62, dice, «non significa “il sesso è desiderabile”; la sintassi non consente di unire le due parole [i.e. συνουσίη e ἀγαπητόν]131. Quanto alla traduzione di Cicerone, con rilut­t an­za concludo che anche lui, come il Purinton, semplice­men­te si è sbagliato» (Brennan 1996, p. 348)132. L’idea di riferire ἀγαπητόν a συνουσίη viene presentata come una trouvaille di Purinton, ma forse questa idea era già in Kühn 1828, p. 51, traduzione del passo galeniano del commento a Epidemie III 1.4: «Epicurum vero veneris usum nunquam prodesse, jucundum tamen si non laeserit». Il «tamen», correctio fortissima, sembra non lasciare scelta; il senso non quadrerebbe molto col contesto, ma nel Kühn questo non è certo un caso raro. Comunque tutta la frase «jucundum tamen si non laeserit» è ambigua, se non sbagliata, e W. Leszl, che evidentemente non traduce dal greco di Galeno ma dal latino dell’edizione di Kühn, se ne fa fuorviare: «Epicuro [aveva detto che] i rap-

 S’intende in questo caso specifico, non in generale: cfr. fr. 213 Us. ἡδὺ ἡ φίλου μνήμη τεθνηκότος; fr. 476 Us. πλουσιώτατον αὐτάρκεια πάντων; Plat. Leg. 937d δίκη ἐν ἀνθρώποις πῶς οὐ καλόν; Verg. Buc. 3.80 triste lupus stabulis, ecc. 132  Come si è visto sopra, e come risulta dall’apparato di Dorandi: «εἰ μὴ ἔβλαψε 1 BP : εἰ μὴ καὶ ἔβλαψε FP4» (p. 801), le ultime parole del dictum non sono tràdite univocamente. Inutile dire che la lezione εἰ μὴ καί, da molti preferita (Cobet p. 280; King 1927, p. 521 nota 3; Chilton 1960, p. 72; Giusta 1963, p. 141; Long II, p. 549; Grilli 1971, p. 56; Cerasuolo 1995, p. 151; Marcovich p. 788), rende ancora più difficile l’interpretazione del Purinton (in una vera condizionale, che ruolo avrebbe il καί?). 131

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porti sessuali non sono mai di giovamento, ma sono desiderabili solo se non fanno danno» (2009, p. 274). Fra le traduzioni sbagliate del dictum epicureo bisogna mettere anche quella di Hervetus a Clem. Paed. 2.10.3: «recte ergo videtur dixisse quispiam: nulli quidem profuit coitus, recte autem cum eo agitur quem non laeserit» (1551, p. 71). La traduzione di Gentian Hervet fu ristampata per secoli, benché fosse palesemente inaffidabile e «ab auctoris mente aliena» (così Potter 1715, p. v, che fu comunque costretto a utilizzarla anche lui). La resa di ἀγαπητὸν δὲ εἰ μὴ ἔβλαψεν con «recte autem cum eo agitur quem non laeserit» è sorprendente. Non avendo idea di chi fosse questo «quispiam», ma non aspettandosi (giustamente) che Clemente condividesse una condanna totale e incondizionata della συνουσία, il traduttore forse diede un colpo al cerchio e uno alla botte: il coito non giova, però lo si può praticare a condizione che il partner non ne ricavi danno. Un vero e proprio falso è la traduzione di Genaille: «le mariage n’est jamais avantageux; bienheureux même celui à qui il ne nuit pas» (1965, II, p. 257), poiché il matrimonio non è la συνουσία, anche se (in genere) la implica. Quanto alle traduzioni e ai commenti del pas­so delle Tusculane (Cic. Tusc. 5.94), ecco qualche esempio133: – Peabody 1886, p. 306: «on the whole this kind of pleasure may be desirable, but can never be of any use»; – Yonge 1888, p. 198: «pleasures of this kind may be desirable, where they are attended with no incon­ve­nience, but can never be of any use»; – Nutting 1909, p. 279 (commento): «si non obsit: i.e. in case it brings non corresponding disadvantage. Prodesse: adversative asyndeton»; – King 1927, p. 521: «and in general this kind of pleasures is desirable, should there be no obstacle, but is never of benefit»134; – Dougan – Henry 1934, p. 282 (commento): «optabile esse… nunquam: a mistranslation of the Epicurean sentiment quoted in Diog. Laert. 10.118 συνουσίη δέ, φασίν, ὤνησε μὲν οὐδέποτε· ἀγαπητὸν δέ, εἰ μὴ ἔβλαψεν. The latter clause means “one might consider oneself fortunate, if it did not actually do one harm”. Cicero takes it to mean “desirable, unless it did harm”»;

 Per una campionatura più ampia rimando a Lapini 2014, pp. 121 sgg.  Alla nota 3 il King cita Diog. Laert. 10.118 adottando συνουσία e non συνουσίη; e non è il solo: quasi tutti gli editori delle Tusculane, quando citano il passo, eliminano lo ionismo. L’edizione Marcovich – Van Winden del Pedagogo di Clemente registra come variante di Dio­ge­ne Laerzio il solo οὐδέποτε in luogo di οὐδένα, ma non accenna allo ionismo συνουσίη (2002, p. 128). 133

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– Humbert 1960, p. 152: «et, d’une façon générale, les plaisirs de cette catégorie sont désirables, à condition qu’ils ne puissent faire du tort, mais ils ne sont jamais utiles»; – Marinone 1976, p. 845: «in generale questa specie di piaceri è desiderabile, se non è dannosa, ma non è mai vantaggiosa»; p. 844 nota 3 (commento): «cfr. Epicuro, fr. 62 Usener “il rapporto sessuale non ha mai giovato; si deve essere contenti se non fa danno”, che Cicerone ha interpretato diversamente, a meno che si legga genus hoc voluptatum (optabile esse si non obsit) prodesse numquam o spostando l’inciso»135; – Giusta 1984, p. 322 (commento in apparato): «verba ἀγαπητόν… εἰ μὴ καὶ ἔβλαψε videlicet Cic(ero) false interpretatus est» (così già Giusta 1963, p. 141 nota 2); – Inwood – Gerson 1994, p. 62: «and in general, that this type of pleasure is to be chosen, if it does not do any harm, but that it never actually benefits anyone»; – Cerasuolo 1995, p. 152: «senza dubbio, questo genere di piaceri, desiderabile se non nuoce, non giova mai»; – Zuccoli Clerici 1996, p. 531: «in ogni caso questa categoria di piaceri è desiderabile, nel caso non sia dannosa, ma non è mai vantaggiosa»; – Ramelli p. 621: «infine questo genere di piaceri, per quanto desiderabile a patto che non rechi danno, comunque non giova mai»; – Gigon 2003, pp. 197-198: «sei durchhaus nicht schwierig und überhaupt sei diese Art der Lüste zwar wünschbar, wenn sie nicht geradezu schade, nützlich freilich niemals».

Vorrei far notare che queste traduzioni e questi commenti sono sbagliati, poiché optabile non è il predicato di genus, bensì una forma impersonale (come ἀγαπητόν). Il costrutto è dunque: optabile esse si genus hoc voluptatum non obsit, cioè: «è già una bella cosa se questo genere di piaceri non nuoce»136. Il che esprime, come del resto deve, lo stesso preciso concetto del fr. 62; Cicerone ha tradotto correttamente e – come spesso fa con i testi epicurei – letteralmente137. È singolare che il facile passo delle Tusculane sia stato tra-

 Mere fantasie: nessun autore latino avrebbe scritto in una prosa del genere, e men che meno Cicerone. 136   Optabile fu scelto anche dal Traversari per la traduzione di Diog. Laert. 10.118: cfr. Meibomius 1692, p. 653: «concubitus, inquiunt, nihil quidem unquam profuit, optabile vero si non nocuerit», dove «optabile» presenta la stessa ambiguità del testo ciceroniano. Nell’edizione del Cobet la frase viene modificata e chiarita: «concubitus, aiunt, nihil quidem unquam profuit, satisque habendum si non noceat» (p. 280). 137   «Notevole il fatto che nei non rari casi in cui Cicerone inserisce nelle sue opere, con citazioni testuali, brani di Epicuro da lui tradotti, la sua versione è sempre (…) letterale, mai letteraria», Traglia 1971, p. 329 (cfr. anche Lambardi 1982, 135

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visato per almeno due secoli138. Solo Otto Heine, in un commento scolastico del 1864, si era reso conto di come stavano le cose: «optabile esse – numquam “mann müsse zufrieden sein, wenn sie nicht scha­den”» (Heine 1864, p. 147). Ma la breve nota passò inosser­va­t a. Certo una formulazione come e.g. om­ni­no­que huius generis volup­ta­tes optabile esse si non obsint, eas tamen prodesse numquam sa­reb­be sta­t a più chiara, ma Cicerone non era Cornelio Nepote, né scriveva versioni di latino per le scuole del Due­mila. Insomma la radicata idea che Cicerone non abbia capito la frase συνουσίη (-ία) ὤνησε μέν, ἀγαπητὸν δ᾿ εἰ μὴ (καὶ) ἔβλαψε non ha fondamento. È auspicabile che il prossimo traduttore delle Tusculane tenga conto di quanto detto qui e ponga fine all’annoso e non proprio trascurabile errore139. (f)-(g) La sententia è divisa in una parte precettiva (f) e in una parte correttiva (g), secondo il solito schema regola/eccezione che caratterizza questi paragrafi περὶ σοφοῦ140. Essendo ben attestata l’ostilità di Epicuro verso il γάμος e la τεκνοποιία141, due sono le letture ritenute possibili per (g) + (f):

pp. 22 sgg.; Erler 1994, p. 370; Di Matteo 1999, pp. 175 sgg. Nel nostro caso l’unica differenza è nell’ordine dei concetti, che Cicerone inverte: «c’è da essere contenti se non danneggia; del bene non ne fa mai»; mentre Epicuro e/o gli epicurei avevano detto «del bene non ne fa mai; c’è da essere contenti se non danneggia». 138   È possibile a mio parere che il travisamento sia presente anche nelle edizioni non tradotte e non commentate nelle quali (e non sono poche) il si non obsit viene trattato parenteticamente, con interpunzione prima e interpunzione dopo, quasi si trattasse di una vera proposizione condizionale, e non di una completiva come in realtà è. Naturalmente si può sbagliare esegesi anche omettendo la virgola fra optabile esse e si non obsit, come dimostrano i casi di Dougan – Henry 1934, p. 282, e Giusta 1984, p. 322. 139  Nella nota finale del suo articolo, dopo aver menzionato con simpatia Jeffrey Purinton, suo compagno di studi, e David Furley, comune maestro, il Brennan dichiara che per lui è un piacere essere in disaccordo con «Jeffrey», perché «in questo modo è garantito che un allievo di David Furley sarà nel giusto» (1996, p. 352 nota 19). La battuta è spiritosa, ma purtroppo il Purinton e il Brennan hanno torto tutti e due, facendo l’uno passare per corretta una traduzione erronea, l’altro per erronea una traduzione corretta (a conferma di quanto avesse ragione Ennio Flaiano nel dire che il contrario dell’errore spesso non è la verità ma un altro errore). 140  Già prima (nota 126) abbiamo citato l’esempio più noto: che il vero epicureo non fa politica, e che tuttavia, se non può farne a meno, se gli honores gli sono tanto indispensabili che mancandone ne soffrirebbe, segua pure il suo genio: Plut. De tranq. an. 465F = fr. 555 Us., su cui cfr. Grilli 1996. 141  Arr. Epict. diss. 1.23.3, 3.7.19; Seneca fr. 45 Haase (= 23 Vottero); Clem. Strom. 2.23.138.2, ecc.: fr. 526 Us. Correva voce in antichità che Epicuro addirittura non

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(1) il sophos non potrà né sposarsi né avere figli (g), ma in qualche circostanza sì (f); (2) il sophos potrà sposarsi e avere figli (g), ma solo in qualche circostanza (f). Nel primo caso occorre che l’incipitario καὶ μὴν καί venga corretto in (o sostituito con) un’espressione negativa. Scelgono questa strada il Galesius, il Casaubon, il Chilton, il Gigante e il Marcovich. Ma sono soluzioni costose, sia sul piano metodologico (non si può costringere un testo a dire bianco invece che nero i n a s s e n z a d i c o n d i z i o ­ n a ­m e n ­t i i n t e r n i )142 sia sul piano meramente tecnico (la limpidezza del nesso καὶ μὴν καί offre una naturale resistenza alla goffaggine dei vari καὶ μηδέ, οὐδέ e οὐδὲ μήν)143. La seconda lettura permette di mantenere il testo così com’è, o di modificarlo in modo meno vistoso, ma anche in questo caso il costo è alto, perché obbliga il traduttore a interpolare vocaboli che nel greco non ci sono, e/o a sovraccaricarne altri di una pregnanza teorica, virtuale e (quel che più conta) non intuitiva. Prendiamo il Grilli. Il Grilli trova nel KG che καὶ μὴν καί può costituire una «Bekräftigung einer solchen Aussage, die in einem Gegensatz zu dem Vorhergehenden steht» (II.2, 502, 2, pp. 125-126), avrebbe considerato naturale l’amore dei genitori per i figli. Ma si tratta di un’opinione che Epicuro non ebbe mai in questi termini: si vedano ora Holmes 2013, p. 185 e nota 79, e soprattutto il solido e informato articolo di Francesca Alesse (2011). 142  Dissento dunque radicalmente da Barigazzi 1988, p. 101 nota 41: «il rifiuto del matrimonio da parte di Epicuro è incontestabilmente affermato in più fonti (…); perciò siamo autorizzati a correggere in conformità il passo di Diogene Laerzio» (corsivo mio). 143  L’unico emendatore che prescinde dalla somiglianza di lettere è Chilton: «perhaps the simplest way out is to regard these three words [sc. καὶ μὴν καί] as a plain mistake, the scribe of the archetype having carelessly written one phrase instead of another, and to reject them, reading instead οὐδέ or οὐδὲ μήν» (1960, p. 73). Dunque non una corruttela di lettere in altre lettere, ma la sostituzione di una pericope a un’altra; cosicché non serve andare in cerca di somiglianze di ductus, come fa Grilli 1971, p. 54, dimostrando con ciò di non aver seguìto o accettato il ragionamento. Sottolineo che le modifiche proposte in alternativa da Chilton non sono καὶ οὐδὲ καὶ γαμήσειν (come pensa Grilli 1971, p. 54) e οὐδὲ μὴν καὶ γαμήσειν (come pensa Brennan 1996, p. 349), bensì οὐδὲ γαμήσειν e οὐδὲ μὴν γαμήσειν. Corretta l’osservazione di Grilli 1971, pp. 54-55, che nella sezione περὶ σοφοῦ la normale negazione è οὐ e non μή. Il che metterebbe fuori gioco le correzioni di Galesius, Hicks e Marcovich.

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e detto fatto applica questa accezione anche al nostro passo: «συνουσίη δέ, φασίν, ὤνησε μὲν οὐδέποτε, ἀγαπητὸν δὲ εἰ μὴ καὶ ἔβλαψε. καὶ μὴν καὶ γαμήσειν καὶ τεκνοποιήσειν τὸν σοφόν, ὡς Ἐπίκουρος ἐν ταῖς Διαπορίαις καὶ ἐν τοῖς Περὶ φύσεως, κατὰ περίστασιν δέ ποτε βίου γαμήσειν. “L’amplesso – dicono – mai giova, è anzi gran cosa se non è anche di danno: epperò il saggio si sposerà e avrà figli, come asserisce Epicuro nelle Diaporie e nei libri Sulla natura, ma per qualche rara situazione critica della vita si sposerà”». «Γαμήσειν – prosegue Grilli – è ripreso alla fine della frase per una logica necessità di rilievo e di chiarezza, perché la limitazione κατὰ περίστασιν βίου vale solo per il matrimonio, ma non per l’altra questione – cioè la figliolanza (…). Diogene (o la sua fonte), nel dare la causa della limitazione, si sente in dovere di precisare che essa vale per uno solo dei due termini in discussione» (Grilli 1971, p. 56)144. Il Grilli salva il tràdito, ma non spiega perché è stata usata una doppia correctio (piano col sesso, ma ci si può sposare, ma solo in certi casi), né perché è stato scelto καὶ μήν e non ἀλλὰ μήν, né perché περίστασις abbia il valore di «situazione critica»145, né perché il ποτέ debba indicarne la rarità146. Prima di procedere sarà il caso di segnalare la sesquipedale confusione che regna fra i Bompianisti relativa­mente a questa parte di testo. Il Reale traduce «il sapiente non si sposerà» (p. 1271) ma stampa καὶ μὴν καὶ γαμήσειν, che vuol dire il contrario. La spiegazione è che il testo greco, stando a quanto si legge nella Nota editoriale a p. cxxxix, dovrebbe essere quello di Marcovich, mentre in realtà è il testo di Long, estratto dal TLG elettronico e malamente adattato: l’adattatore si è dimen­ticato di sostituire καὶ μὴν καί (Long) con καὶ μὴν μή (Marcovich), cosicché il testo greco dice una cosa e il testo

 Anche il Giusta, circa un decennio prima (1962, pp. 143-144), aveva fatto il ragionamento di Grilli. Unica ma non piccola differenza è che il Giusta aveva espunto come glossa quel secondo γαμήσειν che al Grilli appare invece una «logica necessità». 145  Così anche Bollack 1975, p. 40, con il quale per una volta sono d’accordo. In 7.121, dove è scritto che κατὰ περίστασιν il sapiente stoico diventerà anche cannibale, è il contesto a indirizzarci sul significato più appropriato. 146  Parimenti Rist 1980, p. 123: «he (i.e. Epicuro) admits that on rare occasions the wise man should marry». Ciò va bene per il fr. 45 Haase (23 Vottero) di Seneca (raro dicit sapienti ineunda coniugia), ma non per Diog. Laert. 10.119. Contrariamente a quanto pensano la Torre (2000, p. 426) e, sulla scorta di Grilli, il Bellandi (2004, p. 177 nota 6), non è lecito intendere raro come una «specificazione in negativo» del ποτέ laerziano. «Raramente» non è «talvolta». 144

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italiano un’altra. Lo stesso càpita negli Epicurea della Ramelli, dove il καὶ μὴν καὶ κτλ. di Usener (fr. 19, p. 238) viene sostituito con «il sapiente si sposerà» (pp. 239-241)147. E ancora, poco più avanti, il Reale traduce «si sposerà e alleverà figli» (p. 1271), a cui però corrisponde nel testo greco un insensato γαμήσειν καὶ διατρα­πή­σε­σθαι (non διατραφήσεσθαι). Colui che ha adattato il Long al Marcovich si è accorto del vistoso παιδία, ma non del piccolo phi. Altro pasticcio della Ramelli a p. 715, dove si torna a occuparsi di Diog. Laert. 10.119 (qui fr. 591 Us. καὶ διατραπήσεσθαι τινάς)148; la traduzione è: «e cercherà di stornare alcuni» (Ramelli p. 715); ma alla nota 3 si legge: «diverso il testo di Diogene oggi nell’ed. Marcovich: “alcuni si sposeranno”». Non è vero: Marcovich p. 788, come si è visto, stampa καὶ διατραφήσεσθαί τινας, i.e.: «alcuni alleveranno figli». Checché ne dicano le fonti tarde (i già ricordati Seneca, Arriano, Clemente, ecc.), occorre prendere serenamente atto che nel passo di cui ci stiamo occupando non vi sono divieti contro il γάμος e la τεκνοποιία. L’opinione comune è che agisca anche in questo caso il principio della tolleranza149. L’ideale sarebbe non sposarsi e non fare figli, ma se uno proprio non ce la fa a vivere senza una famiglia, se la crei pure: cfr. Grilli 1971, p. 53; Barigazzi 1988, p. 101; Wigodsky 1995, p. 61, e Arkins 1984, p. 141150, che così parafrasa tutto il passo: «although sexual intercourse is unlikely to be other than harmful, nevertheless the wise man should marry, but only if he cannot achieve ataraxia other than by living with a woman». Il ragionamento ha un senso, ma niente si trova in κατὰ περίστασιν δέ ποτε βίου γαμήσειν che abbia la forza di «but only» o di «nur» (Apelt II, p. 278). Ciò aveva visto bene il Bollack (1975, p. 40), che però analizza γαμήσειν e gli altri infiniti futuri di questa sezione come espressioni eventuali: «il pourra se marier». Wigodsky traduce: «the wise man will even marry and father children, … but only sometimes» (1995, p. 60). E però che cosa autorizza l’aggiunta di «even»

 A p. 98 lo Usener stampa «καὶ μὴν καὶ γαμήσειν (…) ἐν ταῖς Περὶ φύσεως. Id. ibid. κατὰ περίστασιν δέ ποτε βίου γαμήσειν», spiegando in apparato che secondo lui κατὰ (…) γαμήσειν appartiene a un «alius auctor», un auctor che non è uno scoliasta (altrimenti Usener avrebbe espunto), ma, evidentemente, un epicureo più tardo. La Ramelli, non separando καὶ μὴν (…) φύσεως da κατὰ (…) γαμήσειν, si comporta come se traducesse Diogene Laerzio, non l’Epicuro di Usener. 148  L’accentazione, come abbiamo visto sopra, è proprio questa. 149  Ne abbiamo parlato sopra più volte: cfr. note 126 e 140. 150  Inevitabile il richiamo a San Paolo, 1 Cor. 7.8-9. 147

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(oltreché di «only»)? Più onesto sarebbe in­ter­venire su καὶ μὴν καί seguendo Galesius, Casaubon, Hicks, Chilton e Marco­v ich. Se si legge il passo in maniera impregiudicata, se ne conclude che esso non si limita a permettere il matrimonio151, ma addirittura lo prescrive. È un fatto a cui, allo stato attuale delle conoscenze, dobbiamo semplicemente rassegnarci. E adesso lasciamo per un momento da parte la sezione (g) e interroghiamoci su (h) καὶ διατραπήσεσθαί τινας. Le opzioni sono tre: (1) (h) sta con (f)(g); (2) (h) sta con (i); (3) (h) sta da solo. A seconda della soluzione prescelta, il valore di διατραπήσεσθαι (ma anche di τινάς) cambia radicalmente. Usener staccava (h) da (f)-(g) e ne faceva un frammento a sé (il 591), tematica­mente indipendente dalla questione sesso/matrimonio. Non ne dava però un’interpretazione sua, se non indiretta e confusa152. Secondo il Bignone il senso è «provare vergogna di qualcuno» (1920, p. 211)153 e Arrighetti nell’edizione del 1960 (p. 26) lo seguì, per poi passare, in quella del 1973, a «distogliere», i.e. distogliere altri dal matrimonio154. Come riconobbe la Isnardi Parente (1974, pp. 334-335), nella nuova traduzione la frase

 Di «permesso» parlano tutti: Rist 1980, p. 123; Barigazzi 1988, p. 101; Jufresa 1994, p. 300 e nota 8, ecc. 152  Nella nota d’apparato al r. 8, Usener (p. 335) avverte che la chiave per capire καὶ διατραπήσεσθαί τινας si trova ai frr. 210-211 = Sen. Epist. 11.8 e 25.5. I passi senecani contengono l’esortazione a facere omnia tamquam spectet Epicurus. L’interpretazione di Usener sembra essere dunque questa: «alcuni (τινάς soggetto) arrossiranno (διατραπήσεσθαι) davanti a lui (sc. τὸν σοφόν)». Anche gli esempi raccolti in GE p. 188 s.v. διατρέπειν rinviano all’idea di pudor. Non è però presente καὶ διατραπήσεσθαί τινας in quanto Usener non lo considerava frase genuinamente epicurea. Ma il rapporto con i passi senecani è discutibile e comunque labile. Come si è detto sopra nel testo, Usener separa κατὰ περίστασιν δέ ποτε βίου γαμήσειν, fr. 19, da καὶ διατραπήσεσθαί τινας, fr. 591. Quest’ultimo è così tradotto dalla Ramelli: «e cercherà di stornare (sc. il sapiente secondo Epicuro)», e corredato da questa inquietante nota (la nr. 3 a p. 715): «n. d. cur.: diverso il testo di Diogene oggi nell’ed. Marcovich: “alcuni si sposeranno”»; una nota evidentemente da riferire al fr. 19, precedente di circa 240 pagine. 153  Si tratta dell’onesta vergogna «che si deve avere alla presenza di persona insigne»; ma sono le persone comuni che dovrebbero sentire sacro rispetto di fronte al sophos. Anche Apelt coglie in διατρέπεσθαι l’idea di vergogna, che però sarebbe (mah) la vergogna di venire meno al principio di non sposarsi. Questa la traduzione: «nur unter besonderen Lebensumständen würde der eine oder andere heiraten, nicht ohne ein gewisse Schamgefühl» (Apelt II, p. 278). 154  Così già Ortiz 1792, p. 366, e Lechi 1845, p. 402. 151

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riacquistava un contesto, anche se il senso di διατραπήσεσθαι non poteva dirsi chiarito. Altri hanno cercato di unire (h) con (i), ma con pessimi risultati. Penso in particolare a N. DeWitt, che mantiene τηρήσειν e offre di (h)-(i) questa parafrasi: «he will put a certain kind of people to confusion and most assuredly will not watch men in their cups» (1954, p. 300). Ci sono poi le congetture. Gassendi sostituiva διατραπήσεσθαι con τεκνο­ ποιήσειν, ritenendo che in (g)-(h) si dovessero ritrovare gli stessi elementi di (f), γάμος e τεκνοποιία. Anche Gigante (1962, p. 381) pensava a una struttura simme­t rica, però centrata sulle περιστάσεις, e interveniva così: καὶ μηδὲ καὶ γαμήσειν καὶ τεκνοποιήσειν τὸν σοφόν, ὡς Ἐπίκουρος ἐν ταῖς Διαπορίαις καὶ ἐν τοῖς Περὶ φύσεως· κατὰ περίστασιν δέ ποτε βίου γαμήσειν καὶ διατραπήσεσθαι τινας . οὐδὲ μὴν ληρήσειν κτλ.: «Epicuro (…) afferma che il saggio né si sposerà né genererà figli. Contrarrà matrimonio solo per particolari circostanze della sua vita, ma altre circostanze potranno farlo desistere dal suo proposito» (1962, p. 381)155. Il Brennan ha suggerito καὶ δία τραφήσεσθαί τινας: «but sometimes, in exceptional circumstances, certain sages will marry and rear children» (1996, p. 351), che Marcovich p. 788 ha perfezionato in καὶ διατραφήσεσθαί τινας156. Nessuno di questi interventi funziona. Il Gigante fa ripetere ad (h) quanto già detto in (f) (dove è accolto καὶ μηδὲ καί), peraltro inconcinnamente congiun­gen­do un κατὰ περίστασιν singolare e senza pronome con un κατά τινας περι­στάσεις plurale e con pronome. Quanto a Brennan e a Marcovich, il τινάς è di troppo, poiché la condizione di eccezionalità e di deroga è già presente in κατὰ περίστασιν δέ ποτε βίου157.

 Per quanto so, solo il Vottero (1998, p. 139 nota 1) accetta il testo stabilito da Gigante e la relativa traduzione. Ma le scelte del Gigante non dispiacciono neppure a Bellandi (2004, p. 177 nota 6). 156   Questa la nota di apparato: « διατραφήσεσθαι scripsi post T. Brennan conl. Epicteti Diss. 3.22.68-69 καὶ τὰ παιδία οὕτως ἀνατραφήσεται», ma l’utilità del parallelo mi sfugge. Se lo scopo era attestare l’uso transitivo, Marcovich ha equivocato, perché nel passo di Epitteto ἀνατραφήσεται è passivo. 157  Inoltre non esistono, e il Brennan lo riconosce (1996, p. 351), esempi di διατραφήσεσθαι con valore medio; egli pensa a un τινά, «alcuni figli saranno allevati» o addirittura a un τινός (p. 352), «i figli di qualcuno saranno allevati» (perché la razza umana non si estingua). In tal modo avremmo un διατραφήσεσθαι regolarmente passivo, ma gli interventi diverrebbero tre, di cui il terzo, si noti, direttamente provocato dal secondo. Cobet p. 280 traduce «a proposito aberraturos aliquos»; lo seguono Hicks II, p. 645; Inwood – Gerson 1994, p. 43, e altri; il Genaille rende 155

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Più appropriato riterrei καὶ διατραπήσεσθαι εὐνάς, che darebbe senso non solo ad (h), ma a tutto il blocco (f)-(g)-(h): la prima opzione è quella di sposarsi e fare figli; la seconda è quella di sposarsi senza fare figli, evitando i rapporti con la moglie; il che potrà o dovrà accadere se per esempio uno si sposerà da vecchio, o per convenienza, o per senso di responsabilità (con una giovane orfana, con una stretta congiunta, con la vedova di una persona cara, ecc.), o se interpreterà in senso restrittivo il mònito sulla συνουσία, o per mille altri motivi158. E quanto ragionevole è il senso che ne esce, tanto è semplice la ratio corruptelae: un epsilon assorbito da -αι e un hypsilon letto tau. 120a-121b (a) καὶ κτήσεως προνοήσεσθαι καὶ τοῦ μέλλοντος, φιλαγρήσειν, (b) τύχῃ δὲ ἀντιτάξεσθαι, †φίλον τε οὐδὲν κτήσεσθαι,† (c) εὐδοξίας ἐπὶ τοσοῦτον προνοήσεσθαι ἐφ᾿ ὅσον μὴ καταφρονήσεσθαι. (d) μᾶλλόν τε εὐφρανθήσεσθαι τῶν ἄλλων ἐν ταῖς θεωρίαις. [121b] (e) εἰκόνας τε ἀναθήσειν· (f) εἰ ἔχοι, ἀδιαφόρως ἂν σχοίη. (g) μόνον τε τὸν σοφὸν ὀρθῶς ἂν περί τε μουσικῆς καὶ ποιητικῆς διαλέξασθαι· (h) ποιήματά τε ἐνεργείᾳ οὐκ ἂν ποιῆσαι. (i) οὐ κινεῖσθαί τε ἕτερον ἑτέρου σοφώτερον. (b) φίλον BPΦ: φίλων F: φίλην Usener | τε BPF: γὰρ Usener | οὐδὲν κτήσεσθαι FΦ: οὐδένα κτήσεσθαι BP: οὐδένα προήσεσθαι Bignone: οὐδὲν κτήσεσθαι Giusta: φίλον τε οὐδένα κτήσεσθαι Kochalsky. (f) ante εἰ ἔχοι supplendum aliquid velut πλοῦτον, τέκνα, δόξαν censuit Usener: εἰ ἔχοι Hicks | ἔχοι BP: ἔχη F | σχοίη Kuehn: σχοίης BPF. (g) διαλέξασθαι F: διαλέξεσθαι BP. (h) τε BPF: δὲ Usener, Kochalsky | ἐνεργείᾳ Usener: ἐνεργεῖν BPF: ἐνεργῶς Sider. (h)-(i) οὐκ ἂν … ἕτερον om. F1: ἑτέρου σοφωτέροις del. et εὖ κινεῖται τὸ ἕτερον ἑτέρου σοφώτερον add. in marg. F2. (i) οὐκ εἶναί τε ἕτερον (Aldobrandinus) Sambucus: οὐκ᾿ειναιτετε ἕτερον B (ras. supra ι1-2): οὐ κινεῖταί τε ἕτερον P: εὖ κινεῖται τὸ ἕτερον F2: οὐ κινεῖσθαί τε (for-

più esplicito il propositum: «se détourneront de la sagesse» (1965, II, p. 257). Ma chi avrebbe capito che l’oggetto di διατραπήσεσθαι è la σοφία? Fuori strada è anche il Bollack 1975, p. 29: «et certains seront dans l’embarras» (e cfr. p. 41: διατρέπεσθαι = «être perplexe»). Rinuncio a capire come καὶ διατραπήσεσθαί τινας abbia potuto dare luogo alla traduzione «et il assurera avec sollicitude l’entretien d’un certain nombre de personnes» (Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin 2010, p. 44). 158  Per la scontata metonimia εὐνή «rapporto sessuale» cfr. e.g. Eur. Med. 265; Hippocr. De mul. aff. I-III, 177.4 Littré; [Luc.] Amores 22.10, ecc.

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tasse δὲ) ἕτερον Usener: καὶ εἶναί τε ἕτερον Gassendi: καὶ εἶναι ἕτερον Kuehn | σοφώτερον BPF2: σοφωτέροις F1. (a) Si prenderà cura delle sostanze e dell’avvenire. Amerà la campagna. (b) Si saprà opporre alla fortuna …… (c) Avrà cura della buona fama fino al punto da non cadere in dispregio agli altri. (d) Più degli altri saprà godere degli spettacoli. [121b] (e) Porrà statue159, (f) ma riterrà indifferente che vengano inalzate a lui. (g) Solo il saggio saprà rettamente disputare di musica e di poesia, (h) ma in pratica può anche non scrivere poesie. (i) Non160 sosterrà che vi sono gradi diversi di saggezza (Arrighetti pp. 26-28).

(b) Il più lucido e completo status quaestionis sul difficile passo è ancora quello di Arrighetti, pp. 490-491161: delle parole φίλον … κτήσεσθαι non è stata finora proposta una correzione soddisfacente. La tradizione oscilla fra φίλον BP e φίλων F, οὐδένα BP e οὐδέν P1F. Us(ener) (584) leggeva φίλην γὰρ οὐδένα κτήσεσθαι e a chiarire la sua interpretazione rimandava a [5] xxxix, cioè intendeva questo pensiero come strettamente collegato a quello immediatamente precedente (e tale da completarlo) per cui il tutto esprimerebbe l’idea che il sapiente deve opporsi alla sorte e non deve cercare di farsela amica (?). Bi(gnone) Epicuro 212 diede un testo che ha avuto una certa fortuna, fino all’edizione del Long: φίλον τε οὐδένα προήσεσθαι. Ma così il testo contiene un’affermazione banale che non fa che ripetere, sbiadito, il concetto espresso in 121b 9-10 [immo 11-12 καὶ ὑπὲρ φίλου ποτὲ τεθνήξεσθαι], e non si capisce per di più la presenza di οὐδένα. Diano scrive φίλον τε οὐδὲν κτήσεσθαι e senza interpungere fra questa e la frase precedente le intende evidentemente come strettamente collegate, ma oltre all’indicazione nell’Index verborum che qui φίλον è aggettivo non dà altro ragguaglio della sua interpretazione del passo, per cui si ricava l’impressione che essa si accosti a quella di Usener. Forse non è impossibile vedere qui un accenno a quell’atteggiamento più o meno chiaramente, ma ripetutamente espresso da E(picuro), sull’opportunità di sapersi bene scegliere gli amici ([1] 120b 5 sgg.; [5] xxxix) alla sua polemica contro la πολυφιλία ([6] 23) e rivelante un certo disprezzo contro le folle (cfr. [1] 119 6); un atteggiamento a proposito del quale Plutarco pensava di aver colto E(picuro) in contraddizione con se stesso: cfr. [111]. Neanche in

 Statue «agli amici», secondo Brescia 1955, p. 320.  Ignora la negazione il Genaille: «il y a des sages plus sages que d’autres» (1965, II, p. 250). 161  L’analisi che qui riportiamo non è diversa da quella della prima edizione, dove però, più fiduciosamente, si metteva a testo φίλον τε οὐδὲν κτήσεσθαι traducendo «non cercherà di acquistarsi amici» (cosa che non convinceva la Isnardi Parente 1974, p. 334). 159

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tal caso però il testo potrebbe essere mantenuto così com’è: meglio sarebbe correggere φίλον in φίλους e tutta la frase avrebbe il significato: «il sapiente si saprà opporre alla fortuna e non andrà alla ricerca di amici»; naturalmente questa ricerca di amici avrebbe l’unico scopo di opporsi meglio ad essa.

Tutto giusto tranne la critica a Usener. La parafrasi «il sapiente deve opporsi alla sorte e non deve cercare di farsela amica» andrebbe bene per φίλην τε οὐδένα κτήσεσθαι; Usener però stampava γάρ, non τε; cioè non pensava a due iussive appaiate (ἀντιτάξεσθαι e κτήσεσθαι), ma a una iussiva (ἀντιτάξεσθαι) e a un’esplicativa (κτήσεσθαι). Il che se ben vedo sarebbe da intendere: «il sapiente deve opporsi alla sorte: nessuno infatti la (sc. la sorte) avrà amica»162. Non a torto Marcovich (p. 189) e Dorandi (p. 802) preferiscono fra tutte la soluzione di Kochalsky φίλον τε οὐδένα κτήσε­σθαι163, che tornerebbe ad attingere il motivo – già presente in questa sezione, e che ricomparirà anche più avanti – della φιλία epicurea, uno dei più importanti e caratterizzanti della scuola164. Per parte mia, sempre restando nel solco di Kochalsky e di Bignone, e partendo dal testo di F, non escluderei qualcosa come φίλων τε οὐδὲν ἡττήσεσθαι165: il sapiente non sarà da meno degli amici, i.e. in fatto di εὖ

 Nell’edizione ‘epicurea’ (fr. 584, p. 333), Usener mette il punto in alto dopo ἀντιτάξεσθαι, in quella ‘laerziana’ la virgola. Ma la sostanza non cambia. 163  Il Reale dimentica di mettere ἀπο- fra uncinate (p. 1270), adattando male il testo del Thesaurus elettronico (Long) al testo di Marcovich. Anche Long (1986, p. 191) assume ἀποκτήσεσθαι come lezione tràdita (così almeno si evince dalla parafrasi del passo). Il Morel, che traduce il testo di Marcovich, prende οὐδένα per neutro: «il ne se dépossédera pas de ce qui lui est cher» (2011, p. 95). 164  Come rilevano gli studiosi, tre sono le peculiarità della philia epicurea: la base non egoistica, il semi-misti­cismo, l’esaltazione reciproca maestro/allievo. Si vedano, fra i tanti, Bignone 1924b, pp. 170-173; Tuilier 1968, pp. 321-322; Fraisse 1974, pp. 287 sgg.; Long 1986, pp. 189 sgg. e 199 sgg.; O’Connor 1989, pp. 177 sgg.; Erler 1994, p. 166; Périllié 2005, pp. 232 sgg.; Armstrong 2011, p. 105 e nota 3; De Sanctis 2012, pp. 96-98; Erbì 2013. Si aggiunga Duvernoy 2005, pp. 127 sgg. e 141 sgg. sul carattere innovativo, inedito dell’amicizia epicurea. Segnalo infine il poco originale – ma utilissimo perché molto sistematico – articolo di Gemelli 1978. 165  Per il Fehlertyp cfr. e.g. Plut. Mul. virt. 256D ἡττᾶσθαι vs. κτᾶσθαι; Dion. Hal. De Dem. 30 (194.4 UR) ἡττώμεθα vs. κτώμεθα; sch. Aristoph. Eccl. 473a Regtuit ἡττηθέντα vs. κτηθέντα, ecc. Si tenga anche presente κτήσεως del rigo sopra, e la naturale associazione di idee «farsi amici», «conquistarsi amici»: cfr. RS 27 = SV 13 ἡ τῆς φιλίας κτῆσις. 162

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ποιεῖν166. Anche nell’etica epicurea, come nell’etica antica in genere, vige l’idea che beneficare è più bello che essere beneficati: si vedano il fr. 544 Us. e la SV 56 (si soffre più per la sofferenza di un amico che per la propria), nonché la SV 23 sull’amicizia per se appetenda167. (d) Hicks traduce «he will take more delight than other men» (II, p. 647), e molti lo seguono: cfr. Asmis 1995, p. 19; Morrison 2013, p. 230, ecc.; ma il testo dice τῶν ἄλλων, non ἄλλων e basta. Anche Plutarco attesta questa doxa in Non posse 1095C = 593 Us. χαίροντα παρ᾿ ὁντινοῦν ἕτερον ἀκροάμασι καὶ θεάμασι Διονυσιακοῖς, e di nuovo la Asmis traduce male: «enjoys hearing and seeing Dionysiac performances as much as anyone» (1995, pp. 19 e 20; corsivo mio). Παρ᾿ ὁντινοῦν è un superlativo e vuol dire «più di chiunque». (e)-(f) Questo andirivieni fra precetti alti e bassi, fra σεμνότης e μικρολογία, non deve stupire168. Precettistica ‘bassa’ è anche quella che riguarda l’amore per la campagna e la passione per le θεωρίαι169. La differenza è che εἰκόνας ἀναθήσειν non fa parte né dei precetti né dei comportamenti abituali. Sembra piuttosto un caso-limite, un atto che il sophos compirà solo quando non potrà tirarsene indietro. Niente altro di analogo sembra esistere nei cc. 117-121. Mi chiedo se non sia opportuno leggere εἰκόνος τε ἀνάθεσιν εἰ ἔχοι, ἀδιαφόρως ἂν σχοίη: «e se gli sarà dedicata un’immagine, non vi darà importanza»170. (i) La lezione che qui serve, ripristinata da Dorandi, è εἶναί τε. Non capisco bene invece il κινεῖται di Usener, né concordo con la separazione di (e) da (d). Secondo me le due pericopi stanno in continuità tematica, ed ἕτερον

 Di norma il campo relazionale dell’ ἡττᾶσθαι è specificato: cfr. e.g. Xen. Anab. 2.6.17 μὴ ἡττᾶσθαι εὐεργετῶν; Cyr. 8.2.14 μηδενὶ ἂν οὕτως αἰσχυνθεὶς ἡττώμενος ὡς φίλων θεραπείᾳ; Isocr. Ad Demon. I 26 τῶν φίλων ἡττᾶσθαι ταῖς εὐεργε­σίαις. Qui però il contesto basta a chiarire (quindi non servirebbe un pur possibile οὐδενὶ ἡττήσεσθαι). 167   Πᾶσα φιλία δι᾿ ἑαυτὴν αἱρετή· ἀρχὴν δὲ εἴληφεν ἀπὸ τῆς ὠφελείας. Il codice Vaticano ha ἀρετή, da molti difeso. Io dò per certissimo l’ αἱρετή di Usener. 168  Si veda su questo aspetto Erler 1994, p. 162. 169  A meno che le θεωρίαι non siano le indagini scientifiche, come taluno (ultimo Morel 2011, p. 95) intende. Ma contro questa interpretazione giustamente Bignone osservava che, «trattandosi del saggio, sarebbe proprio una verità troppo evidente» (1920, p. 212 nota 8). 170  Espressione simile nello scolio alla RS 29 στεφάνους καὶ ἀνδριάντων ἀναθέσεις. 166

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ed ἑτέρου sono neutri: il sophos potrebbe discutere di arte meglio di tutti ma non lo fa; e parimenti potrebbe poetare meglio di tutti ma non lo fa: una cosa (ἕτερον) non è più assennata dell’altra (ἑτέρου). Sia fare il critico letterario sia scrivere poesia sono due cose stupide.

III Su alcuni IDOLA della critica epicurea

1.  Usener Nell’introduzione al suo Epicuro Arrighetti parla della «proverbiale (…) libertà, pari del resto alla genialità, con cui Usener trattava il testo delle tre Epistole e delle Massime Capitali» (p. xvi)1. E aggiunge che «non poca parte del lavoro di molti critici che hanno esercitato la loro attività sul testo dell’Epicuro di Diogene Laerzio posteriormente all’Usener non in altro è consistita che nel dimostrare l’inutilità di molti dei suoi mutamenti»2. Un esempio non vistoso ma istruttivo di come Usener si lasciasse prendere la mano può essere il c. 71. Qui Usener non solo segna lacuna dopo προσαγο­ρευ­θείη, ma stampa anche ἀλλ᾿ ὅτῳ al posto di ἀλλ᾿ ὅτε. Perché questo intervento? Le due frasi κατ᾿ ἐπιβολὰς δ᾿ ἄν τινας παρακολουθοῦντος τοῦ ἀθρόου ἕκαστα προσαγορευθείη e ἀλλ᾿ ὅτε δήποτε ἕκαστα συμβαί­νοντα θεωρεῖται, οὐκ ἀίδιον τῶν συμπτωμάτων παρακο­λουθούν­των sono oscure se prese insieme, ma staccate diventano chiaris­sime. Se c’è una ragione di violare la lex Youtie, come la chia­mano, essa non può che doversi cercare dentro la lacuna, ossia in un testo che non esiste e su cui Usener non fa ipotesi. E siccome la correzione non rende la frase né più bella né più fluida, se ne cava che ἀλλ᾿ ὅτῳ è molto semplicemente l’espres­sione che Usener avrebbe scelto se a scrivere la Lettera a Erodoto fosse stato lui.  Sul combinato genialità/audacia insiste anche M. Gigante (articoli del 1976 e del 1978, e infine 1979, loro summa). Non so come il Momigliano (1982, pp. 14-15) potesse parlare di Usener come di un congetturatore «insicuro». 2  Di questo giudizio di Arrighetti si è parlato anche nella Premessa. 1

Walter Lapini, L’Epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio. Note testuali, esegetiche e metodologiche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015 ISBN (stampa) 978-88-6372-827-9 (e-book) 978-88-6372-828-6 – www.storiaeletteratura.it

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Al c. 60, Usener ritocca ἀνωτάτω e κατωτάτω in ἀνωτάτῳ e κατωτάτῳ davanti a una lacuna d a l u i s t e s s o i n t r o ­d o t t a . I codici laerziani omettono quasi sistematicamente lo iota mutum, e quindi -τω non ha più autorità di -τῳ; nondimeno è illecito condannare fuori contesto (la lacuna decontestualizza) lezioni di per sé non insensate. Altro esempio al c. 75. Secondo Usener ἀπὸ τῶν ἀπὸ τοῦ ἀπείρου è glossa3, e dopo la glossa viene una lacuna, in cui deve trovarsi ciò che manca di un ragiona­mento sopravvissuto solo nella parte finale: ἐν δέ τισι καὶ ἐλάττους. Lo Usener propone (in apparato) di riempire la lacuna con μείζους λαμβάνειν ἐπιδόσεις, e di conseguenza muta (nel testo) κατ᾿ ἐλάττους in καὶ ἐλάττους. E siamo al caso di prima. Nessun dubbio sulla lightness di καί/κατ(ά), ma una congettura si fa quando è necessaria, non quando è facile a farsi. Nel fr. 125 = 51 Arr. (Diog. Laert. 10.5) lo Usener stampa ὅποι per ὅπου, applicando una regola scolastica più moderna che antica. E non è il primo (l’intervento risale a Cobet), né il solo. Al c. 81 lo Usener cambia τούτοις in τούτῳ, ma τούτοις va benissimo, poiché si riferisce all’essere μακάριον e all’essere ἄφθαρτον, ed è un sottinteso normale, non un caso-limite4. Per incredibile che sia, può darsi che il senso di τούτοις qui non sia stato capito5. Queste comunque sono eccezioni, perché in genere, quando Usener cambia il testo, può avere torto nella terapia, ma raramente nella diagnosi. Perciò

 Una glossa corrotta, la cui forma originale sarebbe stata ἀποτομὴν ἀπὸ τοῦ ἀπείρου (cfr. Usener p. 27). 4  Il che non vuol dire che τούτοις non sia inaspettato, tanto è vero che ha tratto in inganno anche altri, e.g. Verde p. 63, che traduce: «il principale turbamento sorge per le anime degli uomini nel credere che queste realtà beate e incorruttibili e possiedano volontà e allo stesso tempo azioni e causalità a loro contrarie». Il lettore non può che riferire «a loro» o alle anime degli uomini o alle realtà beate e incorruttibili. Inoltre «allo stesso tempo», nonostante la posizione che ha nel greco, vorrà collegare «siano» con «possiedano» e non «volontà» con «azioni e causalità». 5  L’idea che Usener non capisse certi punti o riferimenti del testo si affaccia più volte nel commento di Bailey. Si veda per esempio la nota al c. 63, o quella al c. 35, dove la congettura ἄν τις κατασκαυάσαι per αὐτοῖς κατεσκεύασα viene ricondotta all’ipotesi che Usener «did not realize that Epicurus is referring to the Greater Epitome». Talvolta si va vicini alla lesa maestà: è il caso di B. Gemelli (1978, p. 67 nota 28), secondo cui Usener avrebbe corretto la SV 52 (ἡλίου σφαῖρα al posto di ἡ φιλία) per il fatto di non comprendere di che si parlava. 3

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al posto di Arrighetti non avrei usato la parola «dimo­strare». Quando per esempio (un esempio fra mille, come il lettore capisce) al v. 36 del Δεῖπνον Ἀττικόν di Matrone E. Degani proponeva Λίμνης in luogo di λίμνης (1975, p. 172), egli faceva entrare in gioco un elemento a cui nessuno prima aveva pensato. In questo caso «dimostrazione» è la parola giusta. Ma di situazioni analoghe negli studi epicurei post-Usener onestamente non ne vedo. Facile è semmai imbat­ter­si in considerazioni del tipo: l’Usener (p. xviii) crede sia caduto qui [sc. nel c. 41 della Lettera a Erodoto] un membro del ragionamento, che ricostituisce così: (…). Forse però qui, come altrove, Epicuro, nel riprodurre in forma compendiosa l’argo­men­t azione, omise un membro del ragionamento che poteva facilmente sot­t in­tendersi (Bignone 1920, p. 76 nota 3).

Ma analisi come queste non dimostrano nulla, a meno di non ammettere che a Usener la possibilità del sottinteso non fosse (credat Iudaeus Apella) venuta in mente. E non scomoderei nemmeno la grande questione anomalismo/analogismo, che spesso è più di parole che di sostanza. Fra l’altro non è neanche vero che l’anomalismo abbia rapporti più equilibrati e ‘normali’ con l’universo delle regole. Probabil­mente anzi le cose stanno proprio all’opposto. In certe sue forme triviali l’anoma­lismo cessa di essere strumento di analisi e diventa pura onomaturgia: nominativi pendenti, infiniti dativali, genitivi di connes­sio­ ne e tutto il vario psittacistico saccheggio delle grammatiche del ginna­sio6. Ma i magic words della retorica, per quanto scintillanti e accattivanti, non hanno il potere di produrre senso là dove non ce n’è (cfr. A. M. Dale 1967, p. 78, su Eur. Hel. 175). E lo stesso vale per la «tendency to use evocative and obscu­re paragraph and chapter headings, to move directly from a careful and scholarly discussion of the evidence to general interpretations (…) expressed very much in some of today’s idioms, and not clearly or certainly related to anything actually expressed in the ancient texts», come ha scritto Kerferd (1967, p. 148) sull’Empedocle di J. Bollack. Non si contano le volte in cui nelle tesi di laurea abbiamo visto stroncare con formule saputelle i capo­la­vo­ri d’ingegno di un Reiske o di un Bekker o di un Wilamowitz a colpi di nomina­li­smo e di citazioni dal Kühner.

 Si pensi a Untersteiner 1930, p. 651, sul c. 47, che trova accettabile πρὸς τῷ ἀπείρῳ αὐτῶν μηθὲν ἀντικόπτειν ἢ ὀλίγα ἀντικόπτειν purché ἀντικόπτειν sia infinito finale-consecutivo: «in modo che nessuna o ben poche resistenze si attuano». Ma «finale-consecutivo» è una formula e nulla più. La questione vera è: chi mai, allievo o non allievo di Epicuro, avrebbe capito? 6

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Vale inoltre la pena ricordare che anche fra gli studiosi di Epicuro non è mancato chi mostrasse di respingere le corre­zioni non perché inutili o sbagliate, ma proprio in quanto correzioni, cioè lezioni diverse da quelle manoscritte7. Nel commentare il c. 48, Salem si dichiara in disaccordo con ἐναργείας di Gassendi in quanto «le texte porte bel et bien ἐνεργείας» (1993, p. 45). Il Mejer – non uno qualunque, ma l’autore di un libro sulle fonti laerziane – ha parlato dei pericoli della «hypothetical alteration of a unanimous text tradition» (1978, p. 43; corsivo mio). Il Bignone, nemmeno lui uno studioso qualunque, denuncia che sul c. 54 si sono fatte e accolte, a torto, correzioni «contro l’autorità dei codici che hanno ἐν πολλοῖς; (…) ἐν πολλοῖς è il lemma di una varia lectio e non una correzione di μὲν πολλῶν; se poi questa varia lectio è genuina non è però necessario, accogliendola, alterare il testo contro la realtà del sistema epicureo. Piuttosto credo debba correggersi κατὰ μεταθέσεις , τινῶν δὲ καί» (1912, pp. 20-21 nota 2) (ma allora dove va a finire l’autorità dei codici?)8. A volte, fra il martello della Methode e l’incudine della fedeltà al tràdito, si arriva al sublime di disapprovare e approvare una congettura a l l o s t e s s o t e m p o . Ecco la freccia del Parto di Bignone sulla questione λέγει/λήγει/λήγειν del c. 42: «più opportunamente, sebbene senza necessità, l’Usener stampò λήγειν» (1912, p. 14). Si lancia il sasso e si nasconde la mano, si vuole e si disvuole, si dice di sì ma anche di no. Ed ecco come M. Untersteiner discuteva un punto controverso del c. 47: «accolgo in luogo di κατὰ τὸ φερόμενον dei mss., l’emendamento αὐτὸ τὸ φερόμενον dal Von der Muehll, accettato pure da R. D. Hicks nella sua ediz. di Diogene Laerzio (London, W. Heinemann, 1925, vol. II, pag. 576), emendamento che è – per il senso – il migliore di tutti quelli proposti. Ma non riesco a liberarmi dalla ferma convinzione che la lez. ms. si potrebbe lasciare» (1930, p. 10 nota 11: corsivi miei)9. Segue la dimostrazione che il testo si regge anche senza

 Si veda ancora quanto detto nella Premessa. Chi voglia farsi un’idea del radicamento di questo antifilologismo, di cui al di sotto delle Alpi non ci si è mai veramente liberati, non ha che da leggersi il mirabile articolo (mirabile anche per sintesi) di Timpanaro 1963. 8  Ancora Bignone 1933b, p. 432, sulla RS 9: «né è buon criterio togliere il καί innanzi a χρόνῳ, come fa l’Arndt, perché è un fare violenza alla tradizione manoscritta, non vedendosi perché quel καί, che reca difficoltà, possa essere stato inserito in tutti i codici, i quali pure, per il resto, variano fra loro, se nel testo originario non c’era». Perché «in tutti i codici»? Ne basta uno, l’archetipo. 9   «Mss.», «lez.», «ediz.»: queste forme di Abkürzungenkult mal figurano in un articolo di critica. Il filologo insicuro si illude di essere tanto più serio e scientifico 7

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congettura (con­get­tura che Untersteiner, si ricordi, dichiarava di accogliere, non di respinge­re!)10. Altra miscela singolare è quella che unisce (anche in una sola frase) circo­spe­ zione e spavalderia. In Diog. Laert. 10.14 il Bignone muta οἱ in ὁ Π e respinge Ἀντίγονος per ἄριστον p e r c h é t r o p p o a u d a c e (1920, p. 202 nota 6). Notare che il primo intervento è suo, il secondo di Usener. Parlando dello stesso testo (la Lettera a Erodoto) il Bignone nel 1912 opinava che «il supporre una lacuna è sempre l’ultimo rimedio a cui si debba ricorrere per correggere o spiegare un testo» (1912, p. 15), e otto anni dopo che «il supporre una lacuna [è] il rimedio più prudente» (1920, pp. 78-79 nota 1: si veda oltre). Tornando a Usener, il punto è che egli adottava criteri di lettura severi, mentre altri ne hanno adottati di più accomo­danti. Al c. 52 τὴν ἐπαίσθησιν τὴν ἐπ᾿ ἐκείνου ὡς τὰ πολλὰ ποιοῦσαν lo Usener leggeva ὡς τὸ στόμα al posto di ὡς τὰ πολλά, e siccome ὡς τὸ στόμα non ha senso qui, ne faceva una glossa. Detta così, sembra una trovata da scienziato pazzo. Ma bisogna ricordare che i codici B e P (e non – significativamente – F, vergato da un thinking copyist e non da un pedis­se­quo) hanno τὸ πολλά, singolare con plurale: errore lieve, ma di insolita tipologia; talmente insolita11 che non è fuori luogo chiedersi se sia real­men­te più economico pensare a un’altera­zione di τά in τό da­vanti a πολλά piuttosto che a un’alterazione di στ in π e di μ in λλ12. Lo Usener avrebbe fatto meglio a proporre il suo ὡς τὸ στόμα in apparato e con un fortasse 13, invece che passare alle vie di fatto. Ma porsi il problema era giusto.

quanto più utilizza troncamenti e abbreviazioni. Ciò vale anche per gli apparati, in cui l’adstrictio è permessa e necessaria, ma non dovrebbe passare certi limiti. 10  Un preclaro esempio di sì-ma-anche-no nella nota 2 a p. 282 dei Presocratici La­terza: «conservo nella traduzione l’inserzione del Diels, avvertendo però che essa vuole eliminare un errore che con ogni probabilità era effettivamente nel testo». 11  Per quanto ovviamente non inattestata. In Diogene Laerzio se ne danno altri due o tre casi. In genere è l’ottuso B che pa­sticcia con le concordanze: cfr. 6.39 εἰς τὸν ὄσφρησιν; 8.40 τοῖς τε λοιπούς; 10.46 τοὺς κατεργασίας. 12  Errori facilissimi, come si sa: per στ/π in Diogene Laerzio si vedano 6.71 παράπαν FP2: παραστάν BP1; 9.73 ἔστιν ἅ Richards: ἔπειτα BPF (e cfr. Lapini 2009a, pp. 344-346 e nota 24). Per λλ/μ il caso tipico è ἅμα/ἀλλά. Segnalo in Diod. 3.32.3 un πόμα vs. πόλλα (sic): cfr. Bommelaer 1989, p. lvi. 13  E lo stesso in altri casi, e.g. ποιοῦντας e παρασκευάζοντας al c. 52.

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Se c’è stata in Usener della leggerezza nel congetturare, non minore è stata la leggerezza di coloro dai quali certe sue decisive intuizioni sono state respinte sen­za un motivo. Si pensi al c. 39 ἀλλὰ μὴν καὶ (…) τὸ πᾶν ἐστι · σώματα μὲν γὰρ ὡς ἔστιν, αὐτὴ ἡ αἴσθησις ἐπὶ πάντων μαρτυρεῖ, καθ᾿ ἣν ἀναγκαῖον τὸ ἄδηλον τῷ λογισμῷ τεκμαίρε­σθαι, ὥσπερ προεῖπον τὸ πρόσθεν. εἰ μὴ ἦν ὃ κενὸν καὶ χώραν καὶ ἀναφῆ φύσιν ὀνομά­ζομεν, οὐκ ἂν εἶχε τὰ σώματα ὅπου ἦν οὐδὲ δι᾿ οὗ ἐκινεῖτο. Qui Usener leggeva τόπος δέ al posto di τὸ πρόσθεν, dando alla frase iniziale del c. 40 un’altra fisionomia14 (ridondanza a parte: «dire prima» è già in προεῖπον; ma cfr. Polyb. 5.78.2 τότε σημειωσάμενοι τὸ γεγονὸς οὐκ ἂν ἔφασαν ἔτι προελθεῖν εἰς τὸ πρόσθεν; Plat. Epist. VII 325e ἡλικίας εἰς τὸ πρόσθε προὔβαινον). Questa frase nei codici si presenta così: εἰ μὴ ἦν ὃν κενὸν καὶ χώραν κτλ.: l’assenza di un δέ fra εἰ e μή è una conferma del τόπος δέ di Usener; accade cioè che questo τόπος δέ non risolva solo il problema per il quale è stato pensato, ma ne risolva anche altri. E la congettura buona si riconosce appunto dal fatto che «risolve più di un problema alla volta» (Finglass 2006, p. 119). Coloro che respingono τόπος δέ, cioè quasi tutti, non valutano quale sorprendente coincidenza costituisca il fatto che ben tre apo­rie vadano a posto con una sola sem­pli­ce modifica15. Si noti anche (Mar­co­vich ne tace ma Dorandi no [p. 758]) che P1 ha τὸ πρόσθε, ancora più vici­no a τό­πος δέ. Chi come il Bicknell scrive un articolo sull’ ἰσοτάχεια atomica dovrebbe pren­dere posizione sull’inaudito εἰσφέρωνται del c. 61 invece che passarci sopra come su cosa indegna di attenzione (1983, p. 57). Chi conserva ποιήσαιτο al c. 39 dovrebbe spiegare perché Epicuro avrebbe usato il medio invece dell’attivo, pur sapendo che il medio creava un equivoco, se non un errore. Qui non è questione di hapax o di nessi rari, sempre difendibili sulla base di ciò che avremmo potuto trovare in qualche altro testo perito nel Grande Naufragio; qui esempi ne abbiamo quanto basta per dire che fra μεταβολὴν ποιεῖσθαι e μεταβολὴν ποιεῖν una differenza c’è ed è netta. Se Usener correggeva il medio in attivo lo avrà fatto non perché ossesso dalla li  Τόπος δέ per τὸ πρόσθεν comporta la menzione di τόπος anche dentro la lacuna di poco precedente, da integrarsi dunque σώματα καὶ τόπος e non σώ­ματα καὶ κενόν. Dottrinalmente cambia poco o nulla (ma si tenga conto e.g. di Sedley 1998 [1996], p. 144); però se il κενόν era già menzionato nel c. 39, non ci si aspetta di trovarlo, nella frase iniziale del c. 40, messo sullo stesso piano di χώρα e di ἀναφὴς φύσις. Più spiegabile è il livellamento di κενόν, χώρα e ἀναφὴς φύσις se tutti e tre sono sinonimi di qualcos’altro (di τόπος). 15   Quando si respingono congetture di questo genere, diceva H. T. Wallinga fra il beffardo e l’amaro, gli editori dovrebbero scrivere in apparato: «retinui utilitatis, non veritatis causa» (1959, p. 223). 14

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bido coniectandi, ma perché era in grado di soppesare la differenza fra le due espressioni (e il Crönert, anche lui grande grecista, gli dette ragione)16. A parte gli eccessi, che ci sono sempre e si ridimensionano da soli, l’edificio di Usener è ancora in piedi17: quanto ai critici novecenteschi presi nel complesso, credo che non abbiano affatto dimostrato l’inutilità dei mutamenti di Usener, ma che semplicemente abbiano abbassato gli standard di lettura. E sarà poi vero che dopo Usener si è divinato di meno? Basta scorrere un qualunque apparato – e in particolare l’ultimo, aggiornato e completissimo, di Tiziano Dorandi – per rendersi conto che dove troviamo congetture di Usener, regolarmente ne troviamo anche di altri venuti dopo, con la differenza che gli epigoni, come si accennava nella Premessa, hanno congetturato peggio, e talvolta, si direbbe, per sola picca di competizione. Al c. 65 i codici trasmettono un insensato ὀξύ. L’ ἕξει di Usener è la correzione che ci vuole, ma il Von der Muehll non se ne sta, e propone σῴζει. Con tutto il rispetto per il grande studioso, questo era forse un intervento da non fare. L’ ἰσχύειν τι di Usener per ἰσχύοντα del c. 41 è inutile e pedante. Ma anche Kochalsky e Bignone sono intervenuti, non hanno resistito alla tentazione. Il problema testuale posto da τηρήσειν in Diog. Laert. 10.119 fu risolto da K. F. Hermann con la correzione ληρήσειν, limpida e risolutiva, eppure spesso respinta18 in favore di ἐπηρεάσειν, τήρησειν, τήρησειν e persino di un inesistente ῥήσειν19. Nella RS 28 (Diog. Laert. 10.148) il κατεῖδε del Madvig, basato non solo sul ductus litterarum e sui volgarismi di pronuncia (il tràdito è κατεῖναι), ma anche sulla traduzione

 Mentre l’ingegnoso ma giovane Arndt non capì: «Usenerus qua ratione commotus ποιήσαιτο traditum in ποιήσαι mutaverit, frustra quaesivi. Nam memineris, tota Graecitate ποιεῖσθαι, non ποιεῖν adhiberi, cum pro uno verbo verbum faciendi cum substantivo coniunctum ponatur (…). Qua ratiocinatione etiam Croenerti, quae eodem vitio quo Useneri laborat, coniectura cadit» (1913, pp. 10-11). 17  E chi ha creduto di poterne prescindere ha creato mostri: basti come esempio la traduzione (nel complesso incomprensibile e inutilizzabile in primis agli uomini di scuola a cui era rivolta) di Zannoni 1927, che a p. 110 dichiarava di non aver tenuto in considerazione, in blocco, «le modificazioni apportate dall’Usener perché troppo arbitrarie». 18  Purtroppo anche da Usener, che si tiene τηρήσειν alle pp. xxviii e 119 degli Epicurea (fr. 63) e in GE p. 666 s.v. τηρεῖν: «servare, speculari, ut facere solent infensi aut invidi». 19  Cfr. Zevort 1847, p. 296 nota 1: οὐδὲ μέντοι ῥήσειν per οὐδὲ μὴν τηρήσειν. Il ληρήσειν di K. F. Hermann è precedente di diversi anni (1834, p. 111), ma Zevort non sembra conoscerlo. 16

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ciceroniana (Cic. De fin. 1.68 perspexit), è di nuovo un intervento indiscutibile; eppure il Bollack lo contrasta, e non, come potremmo aspettarci, con qualche stravagante difesa del tràdito, bensì azzardando – lui allergico alle congetture, ma evidentemente solo alle altrui – un irricevibile κατειδέναι (Bollack 1968, p. 229). E al c. 40 il Kochalsky (p. 63) accetta la ricostruzione di Usener, ma poi sciupa tutto aggiungendo un futile καί davanti a κενόν; un’aggiunta che di norma gli apparati critici laerziani ed epicurei neppure riportano, ma che illustra in modo esemplare un meccanismo psicologico insidioso: quando si imbatte in un’emendazione decisiva operata da altri, spesso il critico non resiste alla tentazione di lievemente perfezionarla e/o lievemente contraddirla, così da mostrare anche la propria bravura. Ma ben maggiore è la bravura di chi sa accettare immodificate le conquiste certe dell’ingegno altrui. 2.  Epicuro scrive male 20 Nella premessa a questo libro ho evitato di proposito di entrare (anche se poi ci sono entrato lo stesso) nella disputa teorica tra congetturatori e conservatori, che è sempre una questione di Zeitgeist e di sensibilità personale. Il pendolo oscilla da un estremo all’altro e tende a un punto medio; ma appena ne giunge in prossimità, il moto riprende. Poiché dunque il punto medio non è per natura raggiungibile, la disputa è vana. Lo Usener, oltre che filologo geniale, era un editore coraggioso (c’è chi direbbe un temerario, o un falsario), poiché le sue proposte non le segnalava nell’apparato, ma le schiaffava direttamente nel testo. Chi prenda in mano i suoi Epicurea resta impressionato dalla quantità e densità degli interventi, e pensa subito che siano troppi. Non troppi per quel testo, ma troppi in assoluto. E qui è l’errore, la caduta dalla scienza allo psicologismo. Le grandi quantità, viste tutte insieme, provocano rigetto21. Fu evidentemente

 Traggo la frase da Giussani 1896, p. xxxi: «‘Epicuro scrive male’ si diceva da antichi e si ripete da moderni»; «sciatta prosa», dice Traglia (1971, p. 339); «rugged Greek», dice la Annas (1992, p. 148); «unusual Greek», dice Brown (2007, p. 77); cfr. anche Podolak 2010, p. 44. Di Epicuro «grande scrittore» parla invece E. Spinelli (2010, p. 10; 2012, p. 25). Dunque i giudizi positivi non mancano, anche se i negativi prevalgono (cfr. Erbì 2011, p. 211). 21  Nella recensione a A. H. R. E. Paap, De Herodoti reliquiis in papyris et membranis Aegyptiis servatis, Lugduni Batavorum, Brill, 1948, giunto a discutere la correzione di Richards e Legrand ὁρᾶν πάρεστιν αὐτοῖσι τοῖσι ἀπικνεομένοισι per ὁρᾶν παρ᾿ ἑωυτοῖσι τοὺς ἀπικνεομένους in Herod. 1.105.4, Untersteiner scriveva: «si tratta di 20

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questo che ispirò al Pasquali il famoso giudizio sulle riviste anglosassoni «botti piene stipate di congetture» (1963, p. 81). Eppure è in quelle botti che fra l’Ottocento e il Novecento fermentarono gli straordinari contributi degli inglesi alla costituzione – per dirne una – del testo dei tragici. Di lì nacquero quei capolavori di intelligenza e di equilibrio che sono i Persiani di Broadhead, l’Ippolito di Barrett, l’Eschilo OCT di Page e cento altre cose, a cui la prevalentemente anticongetturale filologia italiana del dopoguerra può al più contrapporre l’edizione eschilea – da me a torto difesa in anni lontani – di Mario Untersteiner22, studioso insigne, ma che lottava con i testi con metodologie arcaiche, impigliato nei guasti, che non sapeva riconoscere, come un Laocoonte fra i draghi. Facendo il confronto, meglio le botti piene di congetture che le botti piene di ‘bilanci’ e di inutile bibliografia, senza l’ombra di un’idea, di una novità, di una prospettiva. Tornando alla Lettera a Erodoto, ho già fatto più volte notare nella prima parte di questo lavoro che molte difese del tràdito fanno leva sulla mera tollerabilità. Nel c. 38, se davvero Epicuro avesse messo gli accusativi τὰς παρούσας ἐπιβολάς e τὰ ὑπάρχοντα πάθη sul piano di πάντα e avesse preteso che il lettore li intendesse retti da κατά al pari di τὰς αἰσθήσεις, vi sarebbe stata – se vogliamo chiamare le cose col loro nome – una volontà deliberata di depistare e con­fondere23. Su frasi del genere giustamente Grilli scriveva che «viene fatto di pensare a che gente in gamba erano gli allievi di Epicuro, se riuscivano a capire il loro maestro che s’esprimeva in un greco di quel genere» (1974, p. 98)24. Il critico ‘prudente’ risponderà che il testo, per

correzione che investe troppe parole e perciò non mi persuade» (1948, p. 230). Lecito il giudizio, illecito il «perciò». Per evitare di citare gli esempi del solito Maas (pp. 38-39 della Critica del testo), indicherò un passo della Fisiognomica dello PseudoPolemone, dove Richard Foerster (Zur Physiognomonik des Polemon, «Hermes», X [1876], pp. 465-468) propose sei correzioni, per lo più pesanti, in meno cinque righe. E nessuna di queste può essere rifiutata. 22  Mi riferisco a W. Lapini, La filologia di Mario Untersteiner, in L’ etica della ragione: ricordo di Mario Un­ter­steiner, a cura di A. M. Battegazzore – F. Decleva Caizzi, Milano, Cisalpino, 1989, pp. 77-96. Ma rileggendo mi avvedo che in realtà più che l’opera difendevo l’uomo, lui sì inarrivabile e inimitabile. 23  Il che sarebbe tanto più sorprendente in quanto il c. 38 è proprio quello in cui Epicuro afferma la necessità (disattesa, dice Clay 2009, p. 21, ma nondimeno apertamente teorizzata) di esprimersi in un linguaggio non si presti a equivoci. 24  Cfr. anche Montanari 1979, p. 132, sulla «bizzarra malignità» che certe ipotesi interpretative presuppongono in Epicuro. Di «shocking phraseology» parla Long 1986, p. 188. Come G. Leone (2011, p. 274), così anch’io dubito assai che si possa

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quanto male in arnese, è traducibile, quindi tollerabile, e che la declaratoria di J. Willis, che il Textkritiker è tenuto a individuare «the flat, the dull and the inartistic, not merely the ungrammatical and the nonsensical» (1972, p. 8), non vale per un autore che si rivolge a una complice cerchia di devotissimi. E senza dubbio vi saranno stati dei casi in cui Epicuro dava certe cose per scontate. Penso al c. 48, dove, se è giusta la lettura che abbiamo proposto sopra, il «risarcimento» degli idoli viene espresso con due vocaboli diversi a distanza di pochi righi, ἀνταναπλήρωσις e συμπλήρωμα. Da ἀντί a σύν: infatti il ricambio degli atomi non coinvolge gli idoli ‘fuori campo’, e quindi è opportuno eliminare l’ ἀντί. In compenso il mancato ricambio atomico non riguarda più un idolo solo, ma tutti gli idoli che prendono parte alla σύστασις, ad esempio quello del mezzo uomo e quello del mezzo cavallo. Donde il σύν inclusivo-comitativo. Probabilmente, mentre a noi servono lunghi e spossanti ragionamenti per sbrogliare le cose, l’allievo di allora capiva al volo. E la questio­ne del rapporto fra i συμβεβηκότα e i συμπτώματα (c. 40), questione tuttora oscura per noi25, non era necessariamente tale per un membro della scuola. Quando si dice che Epicuro «dava per scontato», è a circostanze come queste che dobbiamo pensare, non a quelle in cui la sintassi è sbagliata o fa acqua. Ora gli emendatori di testi – chiamiamoli così, benché ovviamente non costitui­scano una corporazione – vengono spesso invitati a rendere conto del loro modo di rappresentarsi il lavoro degli scribi. E questo è giusto. Bisognerebbe però anche spiegare qual è il modo in cui certi critici conservatori immaginano che gli autori lavorassero. Al c. 40, come si è visto, fra παρὰ δὲ ταῦτα (…) περιληπτοῖς e ὡς καθ᾿ ὅλας (…) λεγόμενα c’è un salto sintattico, spiegato dal Bignone con l’ipotesi di un costrutto ad sensum. Ma in genere i costrutti ad sensum sono voluti ed han­no uno scopo, mentre qui è come se lo scrivente lasciasse la frase a metà, andasse a prendere una birra nel frigo e quindi riattaccasse distrattamente, con altri pensieri in te­sta. E poi la rilettura. La rilettura, non importa se mentale o a voce alta26, esisteva an­che ai tempi di Epicuro, e non si comprende come un così evidente non sequitur sa­rebbe passato inosservato. Non esistendo la stam­pa, che oggi parlare – e meno che mai per la Lettera a Erodoto – di uno stile «fruibile, chiaro e immediato» (Verde p. 70). 25  Lo dimostra tutto il discutere che se ne fa: e.g. Long – Sedley I, p. 36; Sedley 2003 (1988), pp. 330 sgg.; Betegh 2006, p. 263; Morel 2009a, pp. 57 sgg., specialmente p. 60; Morel 2009b, pp. 77-78. 26  Sulla lettura silenziosa, che certamente esistette anche in antichità, si veda ora Geymonat 2008, p. 39 e nota 25, con riferimenti.

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discrimina nettamente il pubblicato dal non pubblicato, gli scritti antichi permanevano a lungo (o anche per sempre) nello stato di Wartetexten, ed erano perciò mediamente più fedeli di quelli moderni alle ultime volontà dell’autore27, il quale poteva lavo­rar­v i fino alla mor­te, rivedendoli di continuo insieme ad amici e allievi28. (Che poi la tradizione me­dievale abbia originato dalla versione A, o C, o M, anziché Z, è un altro discor­so). Non si possono far rientrare nella categoria della looseness fenomeni troppo diversi fra loro. Al c. 41 per esempio abbiamo un πάντα che va bene con μέλλει φθαρήσεσθαι, ma non con ἰσχύοντα ὑπομενεῖν; però il lettore non resta sorpreso, e inse­rire un τινά, come pure si è fatto (Kochalsky p. 63), è la cura a un male che non c’è. Al c. 66, altro esempio, il Meibomius proponeva αὐτὴν αἰσθανομένην (…) χρωμένην in luogo di αὐτὸ αἰσθανόμενον (…) χρώμενον per evitare il brusco passaggio femminile-neutro, non piaciuto neanche a Cobet, a Kochalsky e a Leopold. Qui si comprende e si tocca con mano ciò che vogliono dire normalizzazione e banalizzazione. È questo il genere di interventi che va evi­t ato e contrastato. Chi dice che Epicuro non aveva il ‘dono’, cioè che scriveva male, ha ragione e torto allo stesso tempo. Indubbiamente la sua prosa non è un’arca di cupidini, ma altro è lo stile, altro la grammatica. E infatti la chiarezza del periodare epicureo, dico la chiarezza sintattica, raramente è in discussione29: è semmai il lessico, con i suoi neologismi, con i suoi vocaboli sesquipedali, che ci riesce ostico e criptico – ma questo è un problema molto diverso.  Dico «più fedeli» perché la fedeltà assoluta – il mitico originale – non esiste («il concetto di testo definitivo – ha scritto Borges – appartiene unicamente alla religione o alla stanchezza»). E dico «mediamente» per le ragioni esposte da V. Citti 2002, pp. 303 sgg. 28  A volte abbiamo testimonianze esplicite di ciò: ecco quella di Dionigi di Alicarnasso su Platone: ὁ δὲ Πλάτων τοὺς ἑαυτοῦ (sc. διαλόγους) κτενίζων καὶ βοστρυχίζων καὶ πάντα τρόπον ἀναπλέκων οὐ διέλειπεν ὀγδοήκοντα γεγονὼς ἔτη (De comp. verb. 25.32). Per un autore antico «ἔκδοσις was little more than a gesture», come ha detto appropriatamente Sean A. Gurd (2011, p. 170). 29  E della chiarezza Epicuro ben conosceva il valore: Diog. Laert. 10.13 (= 54 Us.) riferisce che σαφὴς δ᾿ ἦν οὕτως ὡς καὶ ἐν τῷ Περὶ ῥητορικῆς ἀξιοῖ μηδὲν ἄλλο ἢ σαφήνειαν ἀπαιτεῖν (illuminante su questo passo l’analisi di Milanese 1989, pp. 34 sgg. e soprattutto 38-41: σαφήνεια non come politezza, armonia, ma come strumento per comunicare il pensiero). Anche dopo Epicuro, la lingua fu sempre oggetto di attenzione: l’epicureismo fu una filosofia del libro, o andò vicina ad esserlo: cfr. Erler 2003 (1996), pp. 225 sgg.; Leone 2003, pp. 162-163. In ogni caso io non vedo nell’Epicuro laerziano (l’Epicuro ercolanese è un’altra cosa e lo lascio stare) quella involutezza di sintassi di cui parla Clay 1973, pp. 253-254. 27

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Parimenti è ingenuo difendere i testi con la presunzione di un loro carattere infor­male, o con l’idea che nei momenti in cui parla dal sacro tripode il filosofo non abbia né voglia né modo di stare dietro allo stile30. Non credo che le epistole filosofiche di Epicuro fossero ‘informali’, e il fatto che i precetti lì contenuti risul­t as­sero noti in anticipo ai loro fruitori non può aver costituito un motivo per tirare via. A certi livelli – come spiega E. V. Maltese riflettendo sui Ricordi di Marco Aurelio – l’informalità non esiste neppure nella scrittura riservata alla sola frui­zio­ne personale: in linea di principio, occorrerebbe rassegnarsi al fatto che le nostre categorie e i nostri strumenti di analisi hanno validità molto limitata di fronte a un testo congenitamente riservato a una personalissima funzione autoanalitica e quindi sottratto allo statuto compositivo e comunicativo di un’opera destinata alla circolazione. Se tale inadeguatezza non costringe il lettore dell’A se stesso a una resa totale, all’impossibilità, cioè, di individuare almeno in parte le matrici profonde del testo e di coglierne la rispondenza alle motivazioni intime dell’io scrivente, è solo perché in una persona di elevata cultura anche la scrittura ‘per se stesso’ tende comunque a rispettare canoni retorico-formali (Maltese 1993, p. 1112).

Del resto, anche ammessa una destinazione scolastica della Lettera, occorre ricordare che Epicuro si rivolge a tutti, sia specialisti che profani31. Anche la ‘sciat­tezza’ epicurea non è dovunque la stessa: gli studiosi da sempre sanno e ribadiscono che Epicuro adotta lo stile che ritiene via via più consono ai destina­tari32. Questa sciattezza insomma è semplice­mente un luogo comune,

  Qualcuno ancora lo pensa: «mos philosophorum est, ut in acriore meditatione contra stylum peccent». Sembrano parole di due secoli fa e invece sono del 2001 (Pozdnev 2001, p. 92 e nota 13). 31  Si veda la Sezione I, sul c. 35 (a), nota 4. 32  L’accordo su ciò è universale: Usener p. xlii; Giussani 1896, pp. xxxi-xxxiii; Bailey 1928, p. 228 (che parla espressamente di stile esoterico ed essoterico); Bignone 1936, p. 140; Clay 1973, pp. 252-253; Schmid 1984, p. 51; Romaschko 1996, p. 262; Gigante 1999, p. 38; Fusaro 2006, pp. 177-178; Arrighetti 2010, ecc. È anche possibile che nella pratica e nella teoria linguistica di Epicuro siano da distinguere due fasi, la prima più innovativa e aperta ai tecnicismi, la seconda meno: cfr. Leone 1996, p. 251 nota 69, con riferimenti (in particolare Long 1971 e Sedley 1973). Che il modo di esprimersi cambi con il cambiare dei luoghi in cui si vive e delle persone che si frequentano è anche questo un fatto ovvio (Di Marco 1983, p. 75; Schmid 1984, p. 50), benché si debba sempre stare attenti a non cadere nelle semplificazioni e nei biografismi spiccioli. Sarà vero quanto diceva Bignone su PHerc. 1232, r. 7 γελανῶς, forma «eolica e dorica» che Epicuro avrebbe usata dopo la permanenza «nell’eolica Mitilene e indirizzata ai suoi eolici condiscepoli, a cui quel vocabolo era familiare»? 30

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che ci permette di sdoganare, in cambio del cosiddetto rispetto dei codici, cose che non tollereremmo nel più trucido papiro documentario33. È il «pregiudizio estetico – come ha scritto Enzo Passa – per cui un testo filosofico è importante per ciò che dice e non per come è scritto» (2005, p. 46). Qualche anno fa, discutendo se nella SV 23 si debba stampare πᾶσα φιλία δι᾿ ἑαυτὴν ἀρετή, con il codice Vaticano, oppure ritoccare ἀρετή in αἱρετή, con Usener34, il bravo Eric Brown ha dichiarato: «so long as I am faced with a choice between an unnaturally constructed sentence that makes a good philoso­phical point and an emended, natural sentence that creates a serious philoso­phical inconsistency, I will prefer to believe that Epicurus wrote the for­mer» (2007, p. 78). Le premesse sono due: che il greco di Epicuro è «notoria­mente inusuale» (p. 77), e che con αἱρετή al posto di ἀρετή si crea un contrasto fra la prima e la seconda parte del dictum. Il contrasto a me pare non ci sia affatto, e, quanto all’«inusualità», essa non può essere un ombrello che dà riparo a tutte le teste. Per dire che l’amicizia è virtù, uno scriven­te greco non ha bisogno di πᾶσα. Ne ha bisogno invece se si pone una scelta, poiché non è ovvio che ogni forma di φιλία sia cosa da ammettere piuttosto che da respingere. Concetti generali come quello di «inusualità» possono non avere alcun valore nel caso singo­lo35. Concludo osservando (e mi si scusi la banalità) che un testo filosofico dice o non dice proprio a seconda di come è scritto, a seconda che un verbo abbia questa reggenza e non quella, che un articolo si trovi qui e non lì. Non si può ammettere il democratico fifty-fifty fra il senso generale studiato dal filosofo e i sensi particolari dati in trastullo al grammaticus. Nel caso, mettiamo, di ἐξ ὧν ἂν (…) ποιηθείη (si veda sopra, Sezione I, c. 45), la base del discutere consiste nell’am­mis­sione che abbiamo a che fare

(così Bignone 1936, p. 565; cfr. Tepedino Guerra 1986, pp. 227-228; Erler 1994, p. 52). E sarà vero che Epicuro usò lo ionico κυθρίδιον (fr. 182 = Diog. Laert. 10.11: cfr. GE p. 396 s.v. κυθρίδιος) perché si rivolgeva «ad Iones amicos»? E sarà giusto quell’ ἀντιλογίη che Arrighetti (1973, p. 645) mette a testo nel fr. 36.14.5-6 del Περὶ φύσεως? 33  E non si dimentichi oltretutto che già gli antichi sapevano che i testi epicurei pullulavano di errori di scriba. Tutti i testi ne pullulavano, certo, ma nel caso di Epicuro questa coscienza diede luogo, come è ben noto, a una specifica filologia, oggi studiatissima: cfr. e.g. Puglia 1988; Ferrario 2000, passim. 34  Cfr. Sezione II, sui cc. 120a-121b, nota 167. 35  Lo stesso discorso si può fare per Avotins 1980, p. 453, che nel soppesare due interpretazioni scrive: «although this second interpretation seems to do better justice to the Greek, the first must be preferred on grounds of content». Io per me sono certo che le cose stanno proprio al contrario.

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con un greco improbabile. Πολλοί – dicono gli scholia Vaticana a Dionisio Trace – δίχα γραμματικῆς ἐφιλοσόφησαν, e così facendo ottennero meno di quel che avrebbero potuto. Se un valentis­simo storico della filosofia come P.-M. Morel ha potuto scrivere decine di pagine sul c. 45 senza mai porsi il problema della tenuta sintattico-stilistica del testo, vuol dire che filosofia e filologia stanno già uscendo dal reciproco orizzonte degli eventi. 3.  Argomentazioni I passi difficili di Epicuro non possono essere chiariti con spiegazioni troppo epicuree. Il principio viene adombrato da Edward Lee nella discussione sugli ὄγκοι del c. 52 τὸ δὲ ῥεῦμα τοῦτο εἰς ὁμοιομερεῖς ὄγκους δια­σπείρεται. Cosa sono questi ὄγκοι? Evidentemente gli atomi, si risponde. Ma il Lee a ragione osserva che «the idea that any physical phenomenon is ultimately redu­cible to atoms is so trivially true within Epicurus’ physics that that point seems scarcely worth making here» (1978, p. 31)36. Lo stesso si potrebbe dire per il c. 43, dove, come abbiamo visto, πλεκτικῶν è inteso «atomi che si uniscono, che si intrec­ciano ad altri». Ma non è forse vero che tutti gli atomi, quali più quali meno, hanno questa caratteristica? Ancora: al c. 50 si afferma che il simulacro non inganna, ma rappresenta lo στερέμνιον così com’è. Nelle interpretazioni correnti τὸ ἑξῆς πύκνωμα è fatto equivalere al flusso continuo dei simulacri. Che è cosa ovvia: senza questa continuità anche la nostra percezione delle cose sarebbe intermittente. Commentando Diog. Laert. 10.120a μᾶλλόν τε εὐφρανθή­σε­σθαι τῶν ἄλλων ἐν ταῖς θεωρίαις: «[il saggio epicureo] più degli altri godrà degli spettacoli», il Bignone contestava l’interpretazione ἐν θεωρίαις = «an wissenschaftlicher Betrach­tung» di Kochal­sky ed altri (e.g. Apelt II, p. 278; Solovine 1938, p. 161; Zimmermann 2006, p. 15; Morel 2011, p. 95) con l’argo­mento che, «trattandosi del saggio, sarebbe proprio una verità troppo evi­den­te»37. Commentando il c. 74 e lo scolio ad loc. (= fr. 82 Us.), J. Mansfeld sostiene che la principale ragione che muove Epicuro a supporre κόσμοι di tante forme «is to argue against the divinity of the heavens which Plato and Aristotle inter alia based upon their spherical shape and movement» (2010, p. 247). Ma è un argomento a debilioribus, visto che tutto in Epicuro esclude la divinità dei cieli: sarebbe come dire che la Chimera non esiste non perché è un Fabelwesen, ma perché il cibo che va bene al leone non va bene

 Si vedano anche le nostre osservazioni ad loc.  Bignone 1920, p. 212 nota 8; si veda anche la Sezione II, cc. 120a-121b (e)-(f).

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alla capra. Altro comodo argomento è quello del Gegner. Lo spiega bene J. Mau, che nel ribattere da una parte a Giussani, dall’al­t ra a Hicks, elabora due osservazioni ad rem che hanno anche valore gene­rale: «mir ist jedenfalls kein Philosoph bekannt, der das Gegenteil behauptet hätte und den Epikur hier bekämpfen könnte», e subito dopo: «er [i.e. Giussani] denkt dabei an Gegner, die dies wirklich behauptet haben sollen, ohne allerdings diese Gegner identifizieren zu können» (Mau 1954, p. 18). La tecnica è quella di giustificare le banalità di A inventandosi un B che dice cose assurde. E ciò vale a maggior ragione per i punti difficili; il meccanismo è: Epicuro si esprime tortuosamente perché altrettanto e più tortuoso è il Gegner 38. È come con i papiri in cui la parte superstite è poca e quella che manca molta, e perciò aperta a infinite soluzioni. Lo studioso che sa lavorare di Thesaurus e mettere insieme due parole di greco centonario ci va a nozze, ma le sue chances di giungere alla verità non sono molto superiori allo zero. (Forse è per questo che ho sempre considerato più vera divinatio quella che si esercita sui testi interi). Il Lee scrive anche: «I am anxious to keep my suggested readings as simple-minded and as phenomenologically accessi­ble as possible» (1978, p. 55 nota 13). Chi aderirà a questo giusto principio non potrà che diffidare dei ragionamenti che si ordiscono per la difesa del c. 48. Con rammarico bisogna dire che i ‘nuovi’ interpreti non solo non sentono la tautologia come un ostacolo, ma spesso se ne servono come di uno strumento, addirittura come del più efficace degli strumenti. In questo gli interpreti ‘vecchi’ erano più cauti. Nell’analisi del c. 56 il Bailey rifiu­t ava l’esegesi epistemologica di ταῖς περιλήψεσι perché convinto che «Epicu­rus is speaking here of actual things and not of our conceptions of them» (p. 206). E aveva ragione, poiché è troppo ovvio che l’epicureo esponga il suo modo di vedere secondo il suo modo di vedere. Di qui un altro malcostume molto insidioso che va pren­dendo piede: spiegare un testo riproponendolo in parafrasi tale e quale, con la sola aggiunta di qualche sinonimo. Già nel 1979 Elio Montanari, riferendosi al c. 60 della Lettera a Erodoto – e ovviamente non solo a quella – denunciava «so Un monumento a questo metodo è il libro di E. Puglia sul PHerc. 1012 di Demetrio Lacone (Puglia 1988). Sugli eccessi del «metodo del Gegner» si rileggano le sagge parole di Arrighetti 1973, p. 620 (commento al fr. 31.15.11 Arr.). Ma non è molto diverso il metodo di fare ipotesi in serie, irrealistiche, per poi smontarsele da soli. Segnalo a questo proposito l’articolo Atomic independence and indivisibility di I. M. Bodnár (1998), dove lo schema «si potrebbe pensare…, ma non va bene perché…» si ripete più volte. Troppe volte. 38

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luzioni interpretative che o non rispettano il dettato epicureo o si limitano a parafrasi che non spiegano nulla e, quel che è peggio, sono sovente prive di senso» (1979, p. 126)39. Anche il Bailey, benché di solito più attento alla sostanza che alla facciata, era caduto in tentazione, ad esempio allorché nel commento alle parole conclusive del c. 60 (ἡ γὰρ ὅλη φορά) si esprimeva così: «for in any case, whether you call them up and down or not, the two notions are diametrically opposed to one another» (p. 215). Ma se «su» e «giù» esprimono convenzional­mente opposti movimenti, il senso si riduce a «movimenti opposti sono opposti l’uno all’altro»40. Illustra perfettamente il punto in discussione un recente articolo sulle Ratae Sententiae, in cui una giovane studiosa spiega che nella RS 3 ὅρος τοῦ μεγέθους κτλ. «l’uso della particella modale ἄν indica la situazione che eventualmente si può verificare», che «il complemento di tempo καθ᾿ ὃν χρόνον indica un’estensione temporale indefinita», che in ὅπου δ᾿ ἂν (…) ἐνῇ, καθ᾿ ὃν ἂν χρόνον ᾖ «il verbo nel primo caso è un composto di εἰμί, nel secondo caso è il semplice verbo ‘essere’» (pp. 78-79); oppure che nella RS 37 τὸ μὲν ἐπιμαρτυρούμενον κτλ. «l’aggettivo δίκαιος [è] ripetuto due volte: una volta come nome del predicato riferito a τὰ νομισθέντα e una volta sostantivato all’interno dell’infinitiva soggettiva retta da δεῖ»; che in ἐὰν δὲ κτλ. «il periodo si apre con la protasi (…); la protasi continua il precedente ragionamento e la connessione è evidenziata dalla presenza di δέ dopo la congiunzione ἐάν»; che «l’apodosi afferma che cosa consegue se si verifica [una certa] even­tua­lità»; che «la durata temporale [ma esiste una durata che non sia temporale?] è esplicitat[a] dal complemento di tempo continuato ἐκεῖνον τὸν χρόνον», e infine che «la completiva è funzionale a completa­re» (pp. 82-84)41. E via così per quasi venti pagine42; venti pagine di vuoto tautologismo, che fanno rimpiangere

 Tocca il sublime l’articolo di Drozdek 2010, piatta elementare riproposizione (con inizio ex abrupto e finale ex abrupto) di tutto il pensiero epicureo, e non solo del Problem of the immortality of the soul, come recita il titolo. Peraltro nell’articolo non vedo discusso nessun «problem». 40  Non sono il primo a muovere questa critica; lo ha fatto già Konstan 1972, p. 276, che ho ripreso alla lettera. 41  Non ci viene invece spiegato perché ὁ τὰ πέρατα τοῦ βίου κατειδώς della RS 21 sarebbe un iperbato (p. 80) (i veri iperbati sono ben altra cosa: cfr. e.g. il fr. 141 Us. πάσης τῆς εἰθισμένης ἐπιλήψεως γίνεσθαι), né perché questo iperbato metterebbe fortemente in rilievo «l’aspetto della razionalità» (p. 80 nota 31). 42  Si noti che l’articolo viene presentato come uno studio sull’Epicuro breve. Quale ossimoro! 39

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– ed è tutto dire – la critica dei «bello quel pius Aeneas!» e dei «senti in quel nobili il rigorismo etico dell’artista». 4.  Lacune A parità di risultati, o anche no, molti preferiscono emendare un testo con traspo­si­zioni, aggiunte e sottrazioni piuttosto che con mutamenti di lettere. Sui testi epicurei, come diremo, questa prelazione dell’ ἀφελεῖν e del προσθεῖναι (soprat­tutto del προσθεῖναι) è stata applicata fuori di ogni misura, specie da parte di studiosi italiani. «Ancorché – diceva il Bignone – io sia quanto mai disposto a conservare intatti i testi manoscritti, credo tuttavia che le pro­ba­bilità di una lacuna in questo passo [sta parlando del c. 43 della Lettera], siano parecchie (…). Il supporre una lacuna [è] il rimedio più prudente, purché la si sappia colmare in modo che non esiga altra correzione» (1920, pp. 78-79 nota 1)43. Purché non esiga altra correzione. E perché mai? Quando cade una parte di testo e la sintassi si guasta, è normale che qualcuno tenti di rabberciare (ciò che è «unmeaning – scriveva Jebb sul v. 40 dell’Antigone – would have been likely to cure itself» [1900, p. 17]). E la lacuna sarà identificabile se la rabberciatura è fatta male, introvabile se fatta bene. Sarebbe bello se le lacune si rivelassero da sé; ma non succede spesso44. Che cosa rende preferibile l’intervento quantitativo? Probabilmente il fatto che es­so soddisfa contemporaneamente a due desideri: innovare ma anche conservare. Pren­diamo il c. 37, in cui la sintassi non torna e quindi l’errore è certo. Benché la solu­zio­ne di Usener ἐποίησά σοι per ποιήσασθαι abbia avuto largo séguito, i più han­no preferito aggiungere δεῖ o συνέθηκα o altro, mantenendo ποιήσασθαι. Il ra­gionamento è: se stampo ἐποίησά σοι, il mio ποιήσα­σθαι non c’è più, è diven­ta­to un’altra cosa; se invece aggiungo συνέθηκα, le parole trasmesse dai codici so­no tutte salve, e ciò dà l’impressione di prevaricare di me­no. Pressappoco lo stes­so si può dire delle traslocazio Il passo è stato ricordato anche sopra, Sezione III.1, dove si era fatta notare la contraddizione con ciò che lo stesso Bignone aveva scritto pochi anni prima (1912, p. 15). 44  Il medesimo vale per le interpolazioni: «it is sometimes said – ha osservato Haslam 1979, p. 92 – that interpolations tend to betray themselves – a doctrine which only shows how far man’s capacity for faith surpasses his capacity for reason. It would be better said that interpolations that betray themselves betray themselves; any that don’t, don’t». Ma si può dire di più: che il medesimo vale per le corruttele in genere: cfr. e.g. Garvie 2001, p. 2. 43

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ni: il Giussani smontò e rimontò tutta la Lettera a Erodoto (1896, pp. 12-17), e come non incontrò approvazione45, così non sollevò né sdegno né anate­mi. La frase del Bignone citata sopra è una specie di primitivo adattamento della lex Youtie ai testi continui. Essa predica, o auspica, una reciproca esclusione fra intervento quantitativo e qualitativo46. Dopo i tanti casi in cui lo Usener aveva sommato la correzione alla lacuna, la volontà di introdurre deterrenti è compren­sibile. Ma l’aut-aut fra lacuna e correzione può portare a pessime conseguenze. Nel c. 70 della Lettera, καὶ μὴν καὶ τοῖς σώμασι συμπίπτει πολλάκις καὶ οὐκ ἀίδιον παρα­κο­λουθεῖν οὔτ᾿ ἐν τοῖς ἀοράτοις καὶ οὔτε ἀσώματα, di cui abbia­mo trattato a suo luogo, lo Usener non solo indicava lacuna dopo παρακολουθεῖν, ma correggeva anche καὶ οὔτε ἀσώματα in ἔσται οὔτε ἀσώματα. La terapia era pesante, ma aveva una logica. Di altri inter­ venti non si può dire lo stesso. Il Mar­covich (p. 756) indica anche lui una lacuna dopo παρακολουθεῖν, ma senza toccare καὶ οὔτε, che è nesso tanto inammissibile in greco47 quanto «e né» lo sarebbe nell’italiano48. Difficile sottrarsi alla sensazione che la lacuna dopo παρα­κο­λου­θεῖν sia stata la causa diretta della rinuncia a intervenire su καὶ οὔτε. Certi nodi verrebbero immediatamente al pettine se l’editore fornisse di tanto in tanto qualche breve parafrasi o chiosa orientativa; ma pochi lo fanno, perché un apparato sembra tanto più scientifico quanto più è asciutto ed ermetico, avaro di punteggiatura, fitto di sigle, di compendi, di troncamenti, di formule iniziatiche le più repugnanti al senso comune: un culto dell’adstrictio che, oltre a produrre qual­che effetto grottesco49, fa sì

 L’inanità di questi tentativi è risultata tanto più chiara quanto più si è accresciuto il numero dei riscontri che i papiri ercolanesi ci permettono di instaurare con il Περὶ φύσεως: cfr. Arrighetti 1971, pp. 47 sgg. e 1973, pp. 717 sgg., e più di recente Leone 2004, in particolare pp. 45-46. Sono del tutto sorpassati giudizi come quelli di Steckel sul fatto che la lettera sarebbe un insieme di «schlecht disponierten Abschnitte» e di «Nachträge» (1968, col. 613; giudizi anche più forti alle coll. 612-614). 46  Così vorrebbe anche Jackson 1955, p. 210: «golden rule – that any supplement proposed in an ancient text should be sufficient per se and entail no further changes». La regola è aurea nel mondo di utopia, appena argentea nel mondo di qui. 47  E sorprende che tanti valenti studiosi abbiano accolto καὶ οὔτε senza proteste. Lo stesso dicasi per ἀλλὰ οὓς μὲν γάρ del c. 74. 48  Ovviamente ciò non vale per i costrutti ripetuti, e.g. οὔτε x οὔτε y καὶ οὔτε z οὔτε w. Ma non può certo essere questo il nostro caso, altrimenti di lacune dovremmo segnarne due, una dopo ἀοράτοις e una dopo ἀσώματα. 49  Si pensi (caso fra tanti) all’apparato del recente Procopio di Gaza Belles Lettres: p. 42: «ex litt. vest. dub. suppl. Am.», oppure «hiat. vit. causa corr. prop. Lu. 45

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che le edizioni critiche presentino un testo media­men­te molto più borderline che non le edizioni con traduzione a fronte, le quali devono pur prendersi qualche responsabilità davanti al lettore. Ecco un altro esempio di idee confuse: Bailey p. 214, commentando le varie pro­po­ste testuali sul c. 60, respinge ἄγειν ον del Bignone perché «the insertion is too large». Obiezione di scarso valore, poiché si basa sul falso assunto che la lacuna breve sia a priori più probabile della lunga. Ciò che disturba è semmai il tipo di supplemento ‘a iniezione’ del tipo ἐτῶν εἴκοσιν ὤν > ἐτῶν εἴκοσιν ων (Mansfeld 1979, p. 41 su Diog. Laert. 2.7); ἑκατέρων > ἑκατέρῶν (Bailey su Diog. Laert. 10.61), un uso fattosi oggi leggermente più raro, ma un tempo praticato in manie­ra massiccia 50. È un uso molto comodo: se io apro una lacuna, la varietà di lezio­ni disponibili non ha limite, mentre se individuo il guasto in una sillaba o in un gruppo di sillabe, in una parola o in un gruppo di parole, il numero delle solu­zioni potrà essere inconcepibile – per dirla con Epicuro – ma non infinito. Non che i supplementi di questo tipo siano da respingere in sé. Ad esempio in Diod. 16.19.2 τῶν δὲ Συρακοσίων διὰ τὸ παράδοξον, l’apparato di Fischer 1906, p. 32, segnala: «συράδοξον X (suprascr. 2. m. ρακοσίων διὰ τὸ πα)». Come si vede, l’insensato συράδοξον esigeva un intervento ‘a iniezione’. Ce lo dimostrano i suprascripta della seconda mano51. Questo per dire, se pure occorre, che tale tipologia di omissione esiste, e quindi anche il relativo tipo di supplemento deve esistere. Il problema, al solito, è quello di evitare l’abuso. L’esperienza (almeno la mia) dice che quando ci si imbatte in un restauro qualitativo certo, si scopre che i temptamina di tipo quanti­tativo non erano

sed non necessario vide adn.»; p. 44: «ὡ. δ’ ὅτε ταῦρος ἰὼν μετελήλυθε β. ἕ.» (ma che cosa si risparmia con ὡ. al posto di ὡς?); p. 49: «ἐπ’ ἐμαυτοῦ dub. Boiss. quem sec. Lu. comm. tamen postea pos. vide adn.»; p. 404: «ὁ Γάμος, quae per haplogr. omiss. post ἀγόμενος suppl. Am. commate ante ὡς δὲ posito, ante μετήρχετο trsp. prop. Lu. ἀέρ’ in ἀέρα sic ut ὡς δὲ in ὥστε mutatis nec non ἀγόμενος deleto vide adn.» (Procope de Gaza. Discours et fragments, texte établi, introduit et commenté par E. Amato, avec la collaboration de A. Corcella et G. Ventrella, traduit par P. Maréchaux, Paris, Les Belles Lettres, 2014). 50  Per quanto riguarda i testi epicurei il primato spetta senza alcun dubbio ad A. Kochalsky con i suoi τὸ ἄνω ἢ κάτω ὶς μέντοι κτλ. (p. 67, c. 60); κατὰ τὸν ἐλάχιστον συνεχῆ χρόνον, ει μὴ ἐφ᾿ ἕνα κτλ. (p. 68, c. 62); πάθεσι μ ἄλλον (p. 74, c. 117), ecc. 51  Ho scelto l’esempio di Diodoro perché gli scribi diodorei hanno la tendenza a questo tipo di omissione: cfr. 13.56.2 ἐχρόνιζον νομίζοντες vs. ἐχρονίζοντες; 16.14.4 πραγμάτων ἱστορίαν vs. πραγματίαν, ecc.

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man­cati mai52; e che viceversa, quando su uno stesso passo si varca la soglia psi­ co­lo­gica delle cinque o sei congetture, è pressoché inevitabile che qualcuno se ne venga fuori con l’«ovvio» rimedio della lacuna. Così e.g. Green 2006, p. 194 nota 56, sul rompicapo Diod. 12.10.7 ὑπὸ δὲ τούτων (PMF: τούτων δέ P2S) τῶν στενωπῶν πεπληρωμένων τὰς οἰκίας: «no one to my knowledge has hitherto suggested the obvious solution: that what we have is a lacuna»53. Nutrire avversioni di principio verso le lacune sarebbe aberrante54, e tuttavia occorre insistere sul fatto, solo apparentemente scontato, che il requisito scientifico di ogni dispositivo consiste nelle condizioni di applicabilità. E per queste non esistono regole universali: ciascuno si deve trovare le sue. In Aesch. Pers. 732 perché non scrivere Βακτρίων πανώλης δῆμος οὐδέ τις γέρων invece che accanirsi su οὐδέ, su τις e soprattutto su γέρων?55 Così non dovremmo nemmeno temere obiezioni di lingua, stile, metro e probabilità trascrizionale. E lo stesso dicasi per tutte le ‘storiche’ cruces dei testi antichi: da Parmenide B 1.3 DK a Soph. Ant. 2-4 a Lucr. 2.43 e via enumerando. In questa provincia della Text­kritik non abbiamo regole né scritte né non scritte. Solo ratio et res ipsa. 5.  Il costo zero Abbiamo visto come l’edizione di Arrighetti rappresenti il più serio e più riuscito freno all’interventismo di Usener. E tuttavia qualcuno ha creduto di poter fare di più. Si tratta di due studiosi importanti, Jean Bollack e Daniel Delattre. Co­min­ce­re­mo da quest’ultimo. Il Delattre ritiene che la Lettera a Erodoto fosse organizzata «en strates d’écriture bien différenciées». Per ogni item dottrinale Epicuro avrebbe dapprima

 La correzione di L. Canfora, Sulla scrittura dell’autografo tucidideo, «Rhei­ni­ sches Museum», CXVII (1974), pp. 219-220, a Thuc. 5.1, διεγένοντο per διελέλυντο, che metterei nella top ten delle correzioni più belle di tutti i tempi (anche se una nota del giovane Andrea Beghini, in via di pubblicazione, ha ultimamente un po’ scosso in me questa certezza) era stata preceduta da non meno di quattro autorevoli proposte di integrazione (Müller-Strübing, Gertz, Wilamowitz, Steup). 53  Mi sono occupato specificamente del problema in Lapini 2013a, pp. 142-143. 54  Ciò non toglie che qualcuno possa averle nutrite per davvero: lo Heimsoeth, diceva Bruhn 1886, pp. 273-274, «quasi odio quodam persequebatur lacunas iisque vel audacissimas mutationes praeferebat», e rimediava a tutto supponendo scambi lem­ma/glos­sa. 55  West (1990, p. 29) fa esattamente questo in Aesch. Pers. 484: scinde δίψῃ πονοῦντες, οἱ δ᾿ ὑπ᾿ ἄσθματος κενοί in due: δίψῃ πονοῦντες, οἳ δὲ ὑπ᾿ ἄσθματος κενοῦ. Con Diggle, muta κενοί in κενοῦ; dunque lacuna più correzione. 52

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vergato la sintetica enunciazione generale, l’«apoph­teg­me», e poi, separata da paragraphoi, avrebbe fatto seguire la spiegazione estesa, che il discepolo era libero di leggere o saltare. Ignorando la funzione della delicata architettura, scribi distratti avrebbero poi copiato tutte di seguito le parti lemmatiche e le parti esegetiche, senza tenere conto dei livelli grafici e della spe­cia­le funzione dell’apparato semeiografico. E questa sarebbe, conclude il De­lat­tre, la ragione principale per cui la Lettera a Erodoto ci risulta tanto oscura56. La mise en page che il Delattre immagina per «le papyrus original», cioè per l’autografo epicureo della Lettera, ricorda non poco gli odierni libri scolastici, con protrusioni e rientri, neretti e corsivi, titoletti e riquadri. Piacerebbe ci fossero altri esempi antichi di questo genere di scrittura filosofica immaginato dal Delattre, ma non ce ne sono, o almeno io non ne conosco. Tuttavia non è tanto la mancanza dei sacri paralleli che mi rende scettico, quanto la constatazione che nell’Epistola non si ravvisa alcun segno di quel vasto disordine che il collasso delle strutture complesse necessariamente provoca: niente frasi fuse insieme, o incastrate a pettine, o mutilate e tronche, o errabonde come torsi empedoclei. Al contrario l’Epistola ci pone di fronte a problemi affatto ordinari: scambi di lettere, salti da uguale a uguale, note marginali penetrate nel testo e così via. L’insolita difficoltà di certi punti è nell’ordine delle cose, se si pensa che il tema dello scritto non è la ritirata di un esercito o un flirt tra pastorelli, ma l’esposizione volutamente concisa di uno dei sistemi fisici più sofisticati che mente di filosofo abbia partorito. L’ipotesi che alla base della tradizione della Lettera vi sia la disarticolazione di una specie di antico powerpoint non determina nessun vantaggio pratico. È dunque un’ipotesi inutile. Come era logico, le idee di Delattre sono più antiche di Delattre, anche se è lui a ridurle a sistema. Già il Bruns (1884, p. 31) aveva sostenuto che ogni sezione dell’Epistola si articola in sententia e probatio, secca la prima, prolissa e didascalica la seconda. E ancora Arndt 1913, p. 22: «moris autem est epistulae Herodoteae tamquam thema primis singularum particularum verbis dicere». L’idea dei due livelli fu sfruttata anche da Philipp Merlan, che in un articolo del 1936 dal (pretenzioso) titolo Überflüssige Textände­rungen protestava contro le troppe correzioni al c. 38 dell’Epistola. A Merlan ne bastava una, εἶτα per εἴτε; il resto si poteva accomodare chiudendo il discorso a περὶ τῶν ἀδήλων e poi andando a capo e riaprendo con πρῶτον μέν, ὅτι οὐδὲν γίνεται ἐκ

 La teoria è sviluppata dal Delattre in un saggio del 2004 e soprattutto in un altro del 2009, quest’ultimo a quattro mani con Joëlle Delattre (in bibliografia: Delattre – Delattre 2009); le citazioni qui sopra sono prese da 2009, p. 366. 56

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τοῦ μὴ ὄντος: «Erstens: Aus Nichts wird Nichts» (Merlan 1936, coll. 910-911). Come tanti filosofi prestati alla filologia, il Merlan tende a segmentare i testi antichi secondo le caratteristiche delle lingue moderne (coglie bene il punto Boyancé 1972, p. 71). Chi sa di greco, anche solo un poco, capisce che una partizione come quella da lui proposta non è ammis­sibile. Ben più concreta e feconda è la via indicata da Mauro Tulli in un recentissimo contributo (2014b), impostato sulla Lettera a Pitocle, ma ugualmente valido, benché in modi meno vistosi, anche per la Lettera a Erodoto. Appropriatamente Tulli parla di un «codice dell’epitome», un impianto non privo di rapporti con la produzione ipomnematica, ma – distinguo importante – orientato sullo stile e da esso in ultima analisi determinato. Un codice quindi non meccanico, non riducibile a diagrammi, non così esteriore come quello immaginato dal Delattre, bensì mentale e mnemonico al pari di quella stessa condensazione di materia filosofica che per suo mezzo si vuole trasmettere, e da una parte sorretto dalla strumentazione diacritica allora in uso, dall’altra gestito e dosato dall’autore secondo necessità e occasione, e sostanziato da una complicità maestro-allievo data ab initio. Come detto, Tulli testa il modello soprattutto sulla Lettera a Pitocle, facendo emergere dall’apparente disordine una consequenzialità tematica e speculativa sorprendentemente coesa. Io credo che solo seguendo questa via, cioè applicando il «codice dell’epitome» con mano leggera, senza aspirazioni a creare un ‘sistema’, senza violenze alla punteggiatura, senza l’illusione di trovarsi di fronte quasi a un nuovo genus scribendi, si potranno ottenere risultati convincenti e durevoli anche per la Lettera a Erodoto. Veniamo ora al Bollack. Il Bollack riconosce di fatto un unico tipo di errore, quello morfologico, e solo raramente quello sintattico. Errori di altro tipo – ad esempio quelli che producono assurdità dottrinali o stilistiche – per lui semplice­mente non esistono. Dunque il copista bollackiano può scrivere ἐνταληνίζων per ἐγγαληνίζων o ποιήσετο per ποιήσαιτο, può scrivere ἰδίουρα o θοσολή o θαθοάς, ma per il resto non sbaglia mai. Inutile dire che questo feticismo nei con­fronti della lezione tràdita si alimenta di spiegazioni incompara­bilmente più antieco­nomiche delle congetture che si vorrebbero contrastare. Come ha scritto Sed­ley, le analisi di Bollack non mancano di profondità, «but much too often sub­tle­ties are wrung out of the text only by gross insensitivity to its surface mea­ning». E ancora: «rightly observing that to treat Usener’s or Bailey’s emended text as ‘established’ is to risk perpetuating misinterpretations, he [= Jean Bollack] ensnares himself in the even greater hazard of treating the undoctored readings of the manuscripts of D(iogenes) L(aertius), particularly the Parisinus, as well nigh incorrigible» (Sedley 1979, pp. 82-83). Credo che la formula perfetta

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per qualificare il metodo del Bollack sia stata coniata da Boyancé 1972, pp. 70-71: «conservatisme révolutionnaire». Come il lettore immagina e anzi già sa, perché ne abbiamo parlato anche in precedenza, i lavori del Bollack e della sua scuola andarono incontro a fiere stroncature, come quella di P. Boyancé (1972)57, di O.-R. Bloch (1973), di A. Grilli (1974), di G. Arrighetti (1979). Ma non mancarono, specie da parte di studiosi francesi, reazioni di cauta simpatia («si può non condividere, però…»), ancora visibili, per esempio, nelle note di Balaudé al Diogene Laerzio parigino del 199958. E non mancarono neppure gli aperti sostenitori, come Aldo Monti e Carla Marcella Tenti Monti, che in una serie di saggi vergati fra il 1982 e il 1995 aderirono in toto alla linea del Bollack, non si capisce se per manie erostratiche o per sincera condivisione59. I due studiosi usano spesso le parole codici, congetture, tradizione manoscritta, ma senza sapere di che cosa parlano. Mutare il testo, stampare una cosa quando i testimoni ne hanno un’altra, appare loro un atto incomprensibile, una sfida al senso comune. La constatazione che «negli ultimi settant’anni la traduzione del testo [di Epicuro] è stata fatta sulla base di interpretazioni filologiche tutte intenzio-

 A cui il Bollack replicò con un breve libello (meno di 40 pagine) intitolato Lettre à un Président (Bollack 1972) (il Président, cioè presidente dell’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, era ovviamente il Boyancé), una specie di sprezzante lettera aperta che nel complesso mena il can per l’aia piuttosto che ribattere e controproporre. L’unica osservazione propriamente filologica è alle pp. 18-19: «plus un texte est difficile à comprendre, moins il est sujet à être alteré par les habitudes des copistes». Cosa che però è vera solo quando è vera. La polemica Bollack/Boyancé finì anche su Le Monde (cfr. Boyancé 1973). 58  Anche altre imprese editoriali di Bollack, per esempio l’illeggibile Empedocle, sono state trattate come ‘frutto di un metodo’ (un critico «estremamente conservatore, che privilegia le lezioni originali dei manoscritti ben al di là degli standard abituali», dice di lui Trépanier 2004, p. 134, palesemente battendo e cerchio e bótte) invece che respinte come aberrazioni. 59  Si comincia con un articolo uscito nel 1982 fra le Note e discussioni del nr. 87 di «Nuova Corrente» (cfr. bibliografia s.v. Monti – Monti Tenti 1982); articolo poi ristampato con diverso titolo e alcune aggiunte (cfr. bibliografia s.v. Monti – TentiMonti 1985) nella traduzione italiana (Bollack 1985) di La pensée du plaisir (Bollack 1975). Infine nel 1995 esce un libello di traduzioni epicuree curato e prefato dai medesimi, ma con i nomi in ordine inverso (cfr. bibliografia s.v. Tenti Monti – Monti 1995). Curiose le varianti onomastiche dell’autrice: il saggio del 1982 è firmato «Monti Tenti», la ristampa del 1985 «Tenti-Monti» con trattino, il libretto del 1995 «Tenti Monti» senza trattino (in copertina e nella terza pagina non numerata) e «Tenti-Monti» con trattino (nella quarta pagina non numerata). 57

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nate a emendare e correggere (si ricordi che Usener, per la Lettera a Erodoto pone ben 171 correzioni!)» (1995, p. 43) li riempie di scandalizzato stupore. Che fare allora con l’oscurità di Epicuro, quella appunto che mosse lo Usener a correggere 171 volte? L’oscurità – rispondono i due – è un effetto della chiarezza (sic): «la chiarezza [di Epicuro] spesso è risultata oscurità, perché, nel momento in cui alla semplicità dell’affer­ma­zione fa seguito l’esplici­ta­zione razionale dei contenuti, il senso si complica irrimediabilmente e quindi cor­re il rischio di oscurarsi» (1995, pp. 43-44). Partendo da questa delfica ambage, il discorso prosegue con «la polisemia e la disseminazione delle multiple ermeneie» (1985, p. x); con «l’emiplegica e in-differente puntualità storicistica del ‘risultato’» (1985, p. x); con «la pienezza dell’incercata utilità» (1995, p. 9); con «la condizione costituente quella evidenza continua in/di cui il sé insaziato trasfi­gu­ra» (1995, p. 12); con «l’intrascendibile gravità dell’ordine seriale dei tradita» (1985, p. viii); con «il movimento enarghe­ma­tico vita morte, sé altro, parola cosa, il βίος come potenza senza-fine e il legame presente nella dispersione» (p. 380); e via così per pagine e pagine, in un wagneriano crescendo: i manoscritti sui quali riposa la ricostruzione del testo [di Epicuro] vengono assunti dalla filologia bollackiana quale congettura, e consegnati a quella rinnovata complessità testuale da cui emerge il suggerimento speculativo. Ma, appunto, questo è l’itinerario di una filologia che ha infranto il suo coordinamento con il linguaggio esplicativo e dell’identità subordinante il testo ai modi di una congetturalità che non più riferita al documento, ma corrispondente ai più diversi criteri del preordinamento del senso, ha finito per esaurire e cancellare l’inaudita necessità di quella traccia. Ope coniecturae il testo è dileguato nella traditio costruita da quella forsennata pratica emendativa che si ostina a rintracciare criteri univoci di coerenza anche in ciò che contro tali criteri è disposto, che legge e edifica possenti architetture e composte eucosmie laddove, al contrario, come in Epicuro, la scrittura dice il movimento di una sempre inaugurale complessità affermante oltre il pensiero della totalità e della cultura dell’Ellade, i modi di una necessità e di una pienezza lungamente dimenticate nelle pieghe che configurano il percorso dell’egemonica razionalità teleologica (1985, p. xi)60.

Sembra di trovarsi di fronte al Critico d’arte di Dino Buzzati, o a una satira da Commedia di Mezzo contro gli intellettuali imbroglioni; e invece queste frasi sono state scritte in piena serietà. E non vale la rituale obiezione che si tratta di segmenti maliziosamente escissi dal contesto, perché il vaniloquio è sistematico. Cosicché viene da domandarsi, come in una celebre scena di

 Il brano non figura in Monti – Monti Tenti 1982: è una delle aggiunte successive (due in tutto, una breve, questa, e una lunga). 60

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Caro diario, se coloro che scrivono roba del genere non sentano dentro di sé, magari la sera, prima di addormentarsi, almeno un briciolo di rimorso. Domanda che andrebbe rivolta anche agli editori che stamparono e distribuirono queste patetiche parodie da giornaletto liceale, spacciando per filologia un grottesco assemblaggio di insulsaggini, e con ciò armando la mano ai Joe Sixpack dei nostri giorni, ansiosi di irrompere nelle facoltà umanistiche impugnando la torcia di Strepsiade. Gli encheiridia filologici antichi e moderni (da Robortello a Renehan a Delz, ecc.)61 raccomandano di controllare la tenuta della διαίρεσις prima di procedere a interventi sul testo. Con διαίρεσις intendo sia la segmentazione della scriptio continua, cioè la delimitazione delle singole parole, sia la segmentazione delle frasi, cioè la punteggiatura. Con l’una e l’altra cosa si possono fare miracoli: talvolta basta una lieve repunctuation perché un passo tormentato riacquisti improvvisamente un senso limpido62. Il successo di questi piccoli interventi, gli unici che siano davvero a costo zero63, ha provocato esagerazioni e abusi, diffon­dendo in molti l’idea che il miracolo possa ripetersi tutte le volte che si vuole. Uno di questi molti è appunto il già menzionato Delattre, secondo cui «l’origine principale, sinon première» delle difficoltà dell’Epistola a Erodoto è da ricercarsi nella punteggiatura (2004, p. 153). Ma il Delattre non è il primo a manipolare velleitariamente la punteggiatura della Lettera. Si pensi, per dire, all’analisi di Hicks (1923) sul c. 60 μηδέποτε φανεῖσθαι κτλ.64 La direzione del νοεῖσθαι εἰς ἄπειρον, in mancanza di indicazioni ulteriori, dovrebbe essere quella già nota, sopra la nostra

 F. Robortello, De arte sive ratione corrigendi 8.6 = Pompella 1975, p. 46; Renehan 1969, p. 76; Delz 2003, pp. 91-92. 62  Cfr. e.g. Pasquali 1949, p. 48, su Sen. Apocol. 2.1; Macleod 1982 su Soph. OR 1404-1405, ecc. Io stesso credo di aver risolto più di un caso delicato per questa via: cfr. Lapini 1998 su Plaut. Amph. 26-29; Lapini 2001, p. 141, su Hell. Ox. A III, 10; Lapini 2009, p. 228, su Diog. Laert. 3.102; Lapini 2013a, pp. 23 sgg., su Diog. Laert. 9.13. 63  O quasi. Non è che in antico l’interpunzione non avesse peso (come è noto, già Aristotele in Rhet. 1407b si poneva il problema di come interpungere il biblion di Eraclito), o che non avesse una presenza significativa nel lavorìo degli interpreti e una sua stabilità (si veda su ciò la recente messa a punto di Geymonat 2008, pp. 28-29 e 39-49, con riferimenti; Geymonat è breve ma tocca i punti essenziali). Il problema è però quello di stabilire un ponte fra interpunzione e autorialità. È qui che manchiamo disperatamente di dati. 64  Anche Mau 1954, pp. 15-16 e 19, gioca al gioco della repunctuation, aggiungendo virgole artificiose a brutte correzioni. 61

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testa; ma allora l’ ὑποκάτω del νοηθέν verrà a identificarsi con τὸ ὑπὲρ κεφαλῆς, che è a sua volta, anche a parere di Hicks, la stessa cosa di τοῦτο. Poiché questa lettura non funziona, anzi è assurda, resta la possibilità che con νοηθὲν εἰς ἄπειρον si voglia parlare dell’altra semiretta, quella che va dai nostri piedi all’infinito. E così infatti pensa Hicks. Ma in tal modo τοῦτο e τὸ ὑποκάτω vengono a stare sullo stesso piano, l’uno dietro l’altro, e non è certo l’isolato ἡμῖν che possa spezzare la continuità. Uno si chiede perciò a che cosa servano i trat­tini (nella traduzione) o le virgole (nel testo greco) poste da Hicks prima di ἢ τὸ ὑποκάτω e dopo εἰς ἄπειρον. Probabilmente servono a evitare che il lettore riferisca ἅμα ἄνω τε εἶναι καὶ κάτω πρὸς τὸ αὐτό all’insieme τοῦτο + τὸ ὑποκάτω, poiché in tal caso l’ ἀδύνατον si indebolisce o scompare, mentre diventa bello chiaro se si fa dire al testo che una singola cosa appare sia in un modo che nel modo opposto. Anche se non lo dichiara a lettere di croco, o non se ne rende conto, Hicks con la sua punteggiatura ottiene appunto questo: che ἅμα ἄνω τε εἶναι καὶ κάτω πρὸς τὸ αὐτό venga predicato due volte separata­mente, di τοῦτο prima, di τὸ ὑποκάτω poi65. Da quanto detto si cava una regola: che le διαιρέσεις alternative danno buoni ri­sul­t ati solo quando il διαιρέτης, come l’esperto macellaio del Fedro platonico, sia capace di διατέμνειν τὰ ἄρθρα ᾗ πέφυκεν, ovvero, fuor di metafora, di assecondare le naturali partizioni del senso66. La punteggiatura mo­der­na fa a tutti gli effetti parte della sintassi, mentre quella antica, dove esistita, restò sempre un fatto extratestuale. Oggi chi scrive sa che il tipografo non darà alle virgole o alle spaziature meno importanza che alle lettere e agli accenti; ma un tempo questa protezione non c’era. Polibio o Cicerone avranno certamente usato qua e là – o fatto usare ai loro schiavi e segretari – dei segni

 Su questo ὑποκάτω la discussione sarebbe lunga. Se il νοηθὲν εἰς ἄπειρον è la linea che va in giù, essa mi apparirà ὑποκάτω solo girandomi, mettendo la testa dove ora ho i piedi e i piedi dove ora ho la testa. Ma in tal caso sia l’ ἄγειν εἰς ἄπειρον sia il νοεῖν εἰς ἄπειρον sarebbero prolungamenti di semirette dalla testa in su, e cambierebbe il punto di riferimento; che però, ex hypothesi, non può cambiare. Viene il sospetto che gli studiosi intendano τὸ ὑποκάτω τοῦ νοηθέντος εἰς ἄπειρον come se fosse τὸ τοῦ ὑποκάτω νοηθέντος εἰς ἄπειρον, «la lunghezza della linea (immaginaria) prolungata all’infinito verso il basso». Le cose ora sarebbero più semplici: la semiretta sopra di noi (τοῦτο) o quella sotto di noi (τὸ τοῦ ὑποκάτω κτλ.) non possono apparirci a un tempo ἄνω e κάτω. 66  Dion. Hal. De comp. verb. 22.17: «per cola intendo qui, sappi bene, non quelli con cui Aristofane o qualche altro metricologo ha riassettato le odi, ma quelli in cui la natura (φύσις) ritiene giusto dividere il discorso» (traduzione e commento in Donadi – Marchiori 2013, pp. 329 e 342 nota 23). 65

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di disambiguazione, ma nella stragrande maggioranza dei casi le pause di senso erano affidate al discernimento del lettore; il che presuppone che scrivente e lettore avessero un’idea condivisa su dove esse potessero stare o non stare. Si pensi dunque quale probabilità di cogliere nel segno possano mai avere interpunzioni come εἰς τὸ κατασχεῖν τῶν, ὁλοσχερωτάτων δέ, δοξῶν τὴν μνήμην (c. 36), oppure ὑπολείπεσθαί γέ τινα ἀναγκαῖον καί, εἰς τὸ μὴ ὄν, φθείρεσθαι (c. 55) o infine ἀλλὰ μόνον ὡς, λέγω, ἐκ τούτων ἁπάντων κτλ. (c. 69); il proponente, inutile dirlo, è J. Bollack. Come si è detto a suo luogo, πάντα τηρεῖν del c. 38 dell’Epistola è stato fatto oggetto di molte correzioni; inutile sforzo secondo Merlan (1936, coll. 910-911), il quale ritiene che basti intendere πάντα come accusativo di relazione («in allem») affinché il quadro diventi immediatamente chiaro. Ma come poté una soluzione così ovvia sfuggire a filologi del calibro di Cobet, di Usener, di Von der Muehll? Non è che costoro la sapessero meno lunga del Merlan, ma semplicemente ritennero, e non a torto, che in un tale ingorgo di accusativi non fosse logico che l’autore collocasse a ridosso di τηρεῖν proprio quello che ne dipendeva nel modo meno diretto. Per non dire che il «τηρεῖν in allem», cioè in tutte le circostanze, in tutte le occasioni, è già implicito proprio in quegli accusativi che il Merlan fa reggere direttamente da τηρεῖν, dato che nessun momento del nostro vivere è scisso dalle αἰσθήσεις, dalle ἐπιβολαί e dai πάθη. In questa ricerca della Konstituierung che non muti nulla, della correzione-non-correzione, del restauro-a-costo-zero, si abusa pe­ricolosamente di parentesi, incisi, apostrofi, crasi e quant’altro, senza considerare che non è vera economia quella che sortisce effetti innaturali e ar­tificiosi o che ripristina una leggibilità solo esteriore. Abbiamo visto che nel c. 29 del bios epicureo il tràdito κἀμέ non dà senso, ma poiché si vogliono evitare i cosiddetti interventi pesanti, si adotta χἆμα (χἄμα) del Bignone, la cui inappropriatezza è palese, dato che in Diogene non esistono crasi che comportino alterazione organica di consonanti. In Diog. Laert. 7.150 = SVF II 482 i codici si dividono fra κἀκεῖνος e κἀκείνως. Il passo è guasto, molte le proposte. Fra queste un sorprendente κἀκεῖν ὡς messo direttamente a testo dal Von Arnim. Lasciando stare le obiezioni teoriche al sup­plemento ‘a iniezione’ (di cui si è parlato già prima), ritengo che uno studioso del­la levatura del Von Arnim non avrebbe dovuto ignorare che κἀκεῖνος è una for­ma delle più comuni, mentre κἀκολουθεῖν potremmo trovarlo semmai in poe­sia. Al c. 43 della Lettera, εἰ μέλλει τις μὴ καὶ τοῖς μεγέθεσιν ἁπλῶς εἰς ἄπει­ρον αὐτὰς ἐκβάλλειν, il Bignone voleva leggere κεἰ al posto di εἰ (1924a, p. 383); ma negli Epicurea del libro X non vi sono altri κεἰ, e neanche nel resto delle

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Vite, se si eccettua la citazione (poetica però) di 4.55. Oltretutto la forma più normale di «anche se» è εἰ καί, non καὶ εἰ, e questa sì è attestata, vuoi nel materiale epicureo del libro X (cfr. e.g. c. 48 εἰ καὶ ἐνίοτε κτλ.) vuoi negli altri nove libri. Se al Bignone fosse stata più a cuore l’integrità dell’espressione che le ragioni di un’astratta economia, l’intervento più opportuno sarebbe stato εἰ μέλ­λει τις κτλ. (cfr. Von der Muehll al c. 62: εἰ μή). Sempre in tema di crasi, ma cambiando autore, ecco il caso emblematico di Theophr. De igne 48, dove i codici hanno ὡς ἐπὶ τὸ πολὺ δ᾿ οἱ τοιοῦτοι καπνοί, soggetto τόποι. Al posto di καπνοί serve ἄπνοι, e così infatti stampavano Schneider (1818, I, p. 722) e Wimmer (1866, p. 359). Invece il Coutant (1971, p. 33) preferisce κἄπνοι (= καὶ ἄπνοι), riprendendo un suggerimento del Furlanus (1605, p. 143)67. È una scelta più economica questa di Coutant? Io dico di no. Non è logico che Teofrasto riducesse al solo kappa il suo peraltro inutile καί con la quasi totale certezza di farsi fraintendere (cosa infatti accaduta, visto che la tradizione ha καπνοί). 6.  Loci paralleli Così Sebastiano Timpanaro ha scritto di coloro che fanno troppo gli schizzinosi con i loci similes: «ci sono passi paralleli a sostegno di una lezione; “ma questo non vale perché…” (e qui una motivazione sofistica), “quell’altro neppure…”, e così, a poco a poco, si fa apparire un certo uso linguistico come un ἅπαξ… e lo si elimina» (lettera del 3.2.1999). Come dargli torto? Ma si osserva anche – e direi più spesso – l’atteggiamento contrario: il confrontazionismo, il locosimilismo, il tutto con tutto, la logica del capitano Fluellen: FLUELLEN: Se osservate bene la vita di Alessandro, quella di Harry di Monmouth risulta abbastanza simile, perché ci sono corrispondenze in tutte le cose. Alessandro, lo sa Dio e lo sapete voi, nelle sue rabbie, e nelle sue furie, nelle sue ire, e nelle sue collere, e nei suoi malumori, e nelle sue irritazioni, e nelle sue indignazioni, e anche avendo il cervello un po’ annebbiato dall’alcool, tra le sue birre e le sue ire, uccise, badate bene, il suo migliore amico, Clito. GOWER: In questo il nostro Re non è come lui: non ha mai ucciso nessuno dei suoi amici. FLUELLEN: Non va, badate bene, prendermi il racconto dalla bocca prima che sia completamente finito. Io parlo solo di corrispondenze e affinità. Come

 Suggerimento fra l’altro molto indiretto, verosimilmente dedotto dalla traduzione «ab omni silentes aura» (p. 143). 67

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Alessandro uccise il suo amico Clito, tra le birre e i bicchieri, così Harry di Monmouth, col cervello a posto e il giudizio sano, cacciò via il cavaliere grasso col giubbotto gonfiato68.

Al c. 60 della Lettera, di contro alle varie e non proprio risolutive correzioni via via proposte, molti mantengono il tràdito ἄγειν ὄν con il senso di «essendo possibile condurre». Così fa Hicks 1923, p. 109, ricordando i numerosi usi di ἔστι = licet nella Lettera a Erodoto: c. 56 ἔστιν ἐπινοῆσαι; 57 ἔστι νοῆσαι (…) οὐκ ἔστι μὴ οὐ καὶ τὸ ἑξῆς τούτου τοιοῦτον νοεῖν; 67 οὐκ ἔστι νοῆσαι; 78 καταλαβεῖν ἔστιν; 80 ἔστιν ἀταρακτῆσαι (un’occorrenza anche nello stesso c. 60 ἔστι λαβεῖν). Secondo Hicks (e Mau 1954, p. 17), questo uso di ἔστι = licet avvalora ὄν e rende inutili i congetturali ἐξόν ed ἐνόν. Bisogna stare attenti a questi ragionamenti69, che possono rivelarsi fallaci allorché ci si trovi di fronte a grandi spro­porzioni di frequenza, o a casi troppo particolari. Il fatto che un autore usi μετέχειν e μέθεξις non implica che debba usare anche μεθεκτόν (è il caso di Platone, che ha un μεθεκτέον ma nessun μεθεκτόν). Il fatto che in un testo compaia spesso la parola ferre non implica che vi possano comparire anche latu o latum iri. A me càpita di scrivere dicesi ed evincesi, ma non ho mai scritto puossi. Dico che un libro o un articolo sono trasandati, ma non dico «trasandare un dovere». Come tutti, uso spesso la parola massimo, ma non ho mai usato massimamente o massimità. Del resto gli antichi, proprio perché antichi, stanno a monte delle odierne sistematizzazioni (avrà saputo Sofocle il paradigma di λέγω?), cosicché non sempre i nostri repertori consentono di stabilire quali forme lessicali e sintattiche un autore si concedesse o si vietasse. I vari ἔστι della Lettera non sono dun­que buoni paralleli per ὄν, anzi non servono a niente. Per chi pensa ad ὄν l’unico parallelo buono è ὄν. La stessa cautela è necessaria quando confrontiamo un autore con un altro, ad esempio Epicuro con Aristotele. C’è stato fino a qualche decennio fa un certo disaccordo fra coloro che ridimensionavano la presenza di Aristotele in Epicuro (Bigno­ne, in parte Gigante), e coloro che la accentuavano. Alla fine sembra che questi ultimi l’abbia­no spuntata70. Furley

 Shakespeare, Enrico V, IV.7. Traduzione di A. Lombardo (William Shakespeare. Tutto il teatro, Roma, Newton Compton, 2009, p. 1124). 69  Sui quali è fondata da cima a fondo l’edizione Bollack – Bollack – Wismann 1971. 70  Cfr. Verde 2013a, pp. 3 sgg., e p. 114 nota 9. Status quaestionis sugli influssi aristotelici in Epicuro in Morel 2009a, p. 38 e nota 3; 2009b, pp. 69-70; Verde 2009, p. 210 nota 14; Martin 2001, p. 357 e nota 23. Non mi addentro nel­l’argomento, di 68

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pensava (cosa che oggi pensano tutti) che il problema dei minimi atomici studiato ai cc. 56-62 dipendesse in modo essenziale dalle critiche mosse da Aristotele agli Abderiti (1967, p. 121)71; parimenti Konstan vedeva una risposta ad Aristotele nella trattazione del basso e dell’alto nell’infinito al c. 60 (1972, pp. 274-275). Tutto questo va benissimo, perché il confronto fra autori, passi, parole è il motore stesso della storiografia filosofica. Ma non si devono varcare certi limiti. Sempre a proposito del c. 60, Konstan vede in μυριάκις e κάτω φερόμενον una ripresa d i r e t t a e i r o n i c a di Aristot. EN 1103a (1972, p. 273). Ma κάτω φέρεσθαι è lessico standard per descrivere la discesa di un grave, e μυριάκις non è che un πολλάκις più enfatico. Ancora Konstan a p. 274 afferma che l’epicureo ἀντικειμένη «perhaps deliberately recalls Aristotle’s often repeated principle that motions must be εἰς ἀντικείμενα (cfr. De caelo 1.8 [277a 22, 26, etc.])». Prendiamo atto del «perhaps», ma forse l’ipotesi non andava fatta proprio, a meno di non dimo­ strare che il concetto si poteva esprimere altrettanto bene con un verbo diverso da ἀντικεῖσθαι. Per il c. 35 vengono addotti (da Bailey p. 174, ma soprattutto da Bignone 1920, p. 71 nota 1) diversi casi epicurei e non epicurei per giustificare il costrutto anaco­lu­t ico τοῖς μὴ δυναμένοις (…) αὐτοῖς παρεσκεύασα. Fra i non epicurei il Bignone segnala Thuc. 3.13.5 ᾧ γὰρ δοκεῖ μακρὰν ἀπεῖναι ἡ Λέσβος, τὴν ὠφελίαν αὐτῷ ἐγγύθεν παρέξει, e Lys. 16.11 τῶν νεωτέρων ὅσοι περὶ κύβους ἢ πότους ἢ τὰς τοιαύτας ἀκολασίας τυγχάνουσι τὰς διατριβὰς ποιοῦντες, πάντας αὐτοὺς ὄψεσθέ μοι διαφόρους ὄντας, due esempi che mi pare abbiano poco a che vedere con il nostro. Fra i passi tratti da Epicuro, uno solo può presentare qualche attinenza: RS 39 = Diog. Laert. 10.154 ὁ τὸ μὴ θαρροῦν ἀπὸ τῶν ἔξωθεν ἄριστα συ­στη­σάμενος οὗτος τὰ μὲν δυνατὰ ὁμόφυλα κατεσκευά­σατο κτλ.; ma qui οὗτος ha una sua funzione: «colui che… proprio lui, lui sì che…», mentre nel c. 35 i μὴ δυνάμενοι ἐξακριβοῦν κτλ. non devono essere iper-identificati, in quanto l’epistola è scritta anche per loro, non per loro e basta (e la lunghezza del periodo non è un problema in Epicuro). cui non so abbastanza, ma l’impressione è che abbia ragione Sedley 1976a, p. 127, nel dire che Epicuro è interessato ad attaccare l’ari­sto­te­lismo come sistema piuttosto che le singole dottrine. La rarità degli espliciti riferi­menti ad Aristo­tele (e a Platone) è d’altronde un fatto noto. In un libro dedicato a questo, il Gigante (1999) non riuscì a individuare pressoché nulla di veramente stringen­te. 71  Ma in un articolo del 1988 A. Laks ha sostenuto che l’impronta aristotelica nella trattazione dei minima, pur essendovi evidentemente stata, non è stata determinante.

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7.  Philosophisierung Nel c. 51 εἰ μὴ ἐλαμβάνομεν καὶ ἄλλην τινὰ κίνησιν, il senso di λαμβάνειν è acqui­si­re, assumere. È un uso normale nel greco e ben presente anche in Epicuro: cfr. c. 46 ὁμοίωμα λαμβάνει, 63 παραλλαγὴν εἰληφός; Epist. Pyth. 107 πῆξιν λαμβάνοντος; 108 πῆξιν εἰληφότων, ecc. Ma alcuni interpreti rendono λαμβάνειν κίνησιν con «cogliere, percepire»72. Eppure l’avere in sé una certa cosa (in questo caso la κίνησις) non implica il percepirla, quindi a seconda di come si intende il λαμβάνειν la situazione cambia – e il caso è delicato in quanto il tema del c. 51 è appunto quello del percepire e del conoscere. Discutendo il c. 63, Verde p. 187 parla del «particolare uso epicureo» del termine πίστις e suggerisce un raffronto con Plat. Resp. 510a5-10 e 511e. Non sono d’accordo: in οὕτω γὰρ ἡ βεβαιοτάτη πίστις ἔσται il valore di πίστις è quello della lingua comune. Quindi mi pare di non ravvisare nessun «particolare uso epicureo» e nessun rapporto con Platone. Clemente Alessandrino riferisce che Democrito ed Epicuro non avevano in simpatia il matrimonio e la procreazione διὰ τὰς ἐξ αὐτῶν ἀηδίας τε καὶ ἀφολκὰς ἀπὸ τῶν ἀναγκαιοτέρων (Strom. 2.23.3-4 = fr. 526 Us.). Grilli commenta: Clemente non attinge direttamente né a fonte epicurea, né a testi democritei, come dimostra l’uso di ἀναγκαιότερα: perché per Democrito ἀναγκαῖον è ciò che è ἀπὸ φύσιος, cioè strettamente legato alla natura, mentre per Epicuro e la sua scuola ἀναγκαῖα ha un preciso valore tecnico indicando quella parte dei φυσικά senza cui non si raggiunge il piacere catastematico (vedi per esempio la dottrina dei desideri). È probabile che la fonte sia, come in altri casi, un testo dipendente dalla tarda Accademia, in cui Antioco da Ascalona aveva sviluppato una vivace polemica antiedonistica: per quest’ultimo in campo etico con ἀναγκαῖα s’intende tutto ciò che è condizionante in quanto estraneo alla nostra volontà, come ciò che, per esempio, è legato alla conservazione della vita (Grilli 1971, p. 52).

In realtà Clemente vuole dire un’altra e molto più semplice cosa, e cioè che moglie e figli comportano seccature e distolgono (ἀφέλκειν = distrahere, avertere) da attività più importanti. Ἀναγκαῖον è usato in senso corrente, e questo schizzo di Quellenforschung del Grilli è una discus­sio­ne sul nulla. Esegesi come quella appena esaminata nascono dal desiderio di estorcere un sovrappiù di significato, di densità e pregnanza da singoli nessi, parole o persino particelle, quasi che il filo­sofo dovesse sempre esprimersi filosoficamente, il retore reto­rica­mente, lo storico storicamente e così via.

72

 Come Hicks II, p. 581; Ramelli p. 81 e Verde p. 43.

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Tendiamo a pensare agli antichi come a gente che non apriva bocca se non per dire μῆνιν ἄειδε o quousque tandem 73. Quando Gorgia parlava del σῶμα della parola, era metafora, ma c’è chi ha pensato a corpo materiale (Mazzara 1983, p. 132). Quando Eraclito scrisse ἐν Πριήνῃ Βίας ἐγένετο ὁ Τευτάμεω, οὗ πλείων λόγος ἢ τῶν ἄλλων (B 39 DK = Diog. Laert. 1.88), con λόγος intendeva fama, ma c’è chi ha pensato al senno, all’intelletto74 (nonostante che già il citatore Diogene Laerzio prendesse partito per la lettura minimale). E quando consigliò agli Efesini di ἡβηδὸν ἀποθανεῖν πᾶσι καὶ τοῖς ἀνήβοις τὴν πόλιν καταλιπεῖν (B 121 DK)75, con ἡβηδόν intendeva πανδημεί, ἑξῆς, ovvero «tutti quanti uno per uno», non «tutti gli adulti» come ha preteso una buona metà degli interpreti76, sedotti dal­l’antifrasi ἡβηδόν/ ἀνή­βοις e – probabilmente – dalla volontà di non ‘spre­care’ un avverbio77. E quando Senofane scrive che la parte bassa della terra ἐς ἄπειρον ἱκνεῖται (B 28.2 DK), egli non vorrà dire, alla lettera, che la terra è profonda senza limite, bensì che è molto profonda, esattamente come Omero parla della terra infinita, Oppiano del mare smisurato (Hal. 1.85 sgg.), ecc. Fa bene la Annas a ricordare, parlando del c. 63 della Lettera, che πνεῦμα può anche conservare il suo «commonsense meaning of ‘breath’» invece che assumere il «dramatic theoretical deve­lop­ment» che troviamo in Aristotele (1992, p. 138). Fa bene Sedley a precisare che ἐν ἀπερινοήτῳ χρόνῳ del c. 46 potrebbe essere «a mere turn of phrase rather than a doctrinal point, since (…) even the shortest unit of time is ‘imaginable in thought’» (1973, p. 26). Fa bene il Morel a mettere in conto che ἅμα νοήματι del c. 48 possa essere «simplement (…) une metaphore» oltre che indizio del fatto che «en même temps que les simulacres se forment et nous atteignent, la chose qu’ils représentent devient chose pensée» (2011, p. 132 nota 25)78. Fortunatamente non mancano

 Rubo la battuta a E. Fraenkel: Dalle esercitazioni di Eduard Fraenkel sull’Eunuco (Bari 1969), a cura di R. Roncali, «Belfagor», XXV (1970), pp. 673-689: 673. 74  Battegazzore 1979, p. 76: «Biante di Priene, il cui logos era superiore a quello degli altri»; Calabi 1985-1986, p. 8: «il sapere che Eraclito attribuisce a se stesso e, forse, a pochi altri sapienti come Biante». 75  Così Diog. Laert. 9.2. Ma esistono altre versioni e riusi del detto: Strab. 14.1.25; Luc. Vit. auct. 14 e Tim. 37; Iambl. VP 172. 76  Cobet p. 227; Yonge 1853, p. 376; Hicks II, p. 376; Giannantoni 1969, I, p. 220; Jürß p. 408; Brunschwig 1999, p. 1048; Robinson 1987, p. 69, ecc. 77  Si aggiunga il silenzio di alcuni dei maggiori dizionari (Bailly, Demetrakos e soprattutto LSJ) su ἡβηδόν = ἑξῆς, turmatim. 78  La stessa possibilità andava messa in conto – cosa che il Morel non fa – anche per l’ ἅμα νοήματι del c. 61 (cfr. p. 137 nota 57). 73

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gli studiosi capaci di distinguere, di non correre dietro al primo straccio rosso che vedono79. Gli autori frammentari sono le prede più indifese della Philosophisierung. A loro non si concede di dire proprio nulla in modo normale. Ma nemmeno autori continui e dallo stile più diluito sono al riparo da questo genere di letture, talvolta del resto apertamente rivendicate. Si pensi a Plat. Polit. 285e ὅταν αὐτῶν τις βουληθῇ τῷ λόγον αἰτοῦντι περί του μὴ μετὰ πραγμάτων ἀλλὰ χωρὶς λόγου ῥᾳδίως ἐνδείξασθαι, così tradotto da M. Migliori: «non è affatto difficile mostrarlo quando, a chi chieda una spiegazione, si voglia dargliene una facile dimostrazione s e n z a u t i l i z z a r e o g g e t t i c o n c r e t i » (1996, p. 155: spaziato mio). Così Migliori: «tutti i traduttori intendono μὴ μετὰ πραγ­μάτων come ‘diffi­col­t à’80. In Platone, però, πράγματα indica quasi sempre realtà concrete, so­prat­tut­to in opposizione a λόγος (co­me in questo caso) e ὄνομα (cfr. Cratilo, 390e1; Protagora, 394b3-4; Simposio, 198e1; Sofista, 218c4; 244d3; 262e13)» (Migliori 1996, p. 250 nota 63). Tutti conoscono la mia stima per Maurizio Migliori, ma qui è evidente l’in­ genuità, dovuta a quella che Axelson definiva «die an der Hand eines Index zu konstatierende stattliche Frequenz irgendeines banalen Wortes» (1967, p. 90). Certo l’opposizione cose/parole è familiare a Platone (e a tutti), ma non c’entra affatto con la formula ἄνευ πραγμάτων o – in litote – μὴ μετὰ πραγμάτων, che insin­da­ca­bilmente significa «senza difficoltà». Un testo più ricco, più saturo, più concet­toso, come quello che Migliori vorrebbe ottenere, non è per forza un testo più vero. A parte entelechia o noumeno, non vi sono parole che uno stesso autore non possa usare in senso tecnico e non tecnico non solo nella stessa opera, ma persino nella stessa frase81. Il fatto è che la trasformazione del

 Cfr. anche le considerazioni sviluppate sopra, sul c. 64, in merito a σύμπτωμα e συμβεβηκός. E si pensi al diverso uso di ὄγκοι al c. 52 («masse») e ai cc. 56-57 («atomi»). 80  Leggi «senza difficoltà». 81   «È facile e del tutto naturale che un parlante greco (…), proprio per aver poco prima impiegato [un] verbo, un poco meccanicamente ne faccia uso ancora» (così Donini 2008, p. cxvi). Un esempio che vale più di molte spiegazioni in Plat. Epist. VII 343b καὶ μὴν περὶ λόγου γε ὁ αὐτὸς λόγος, dove una stessa parola è usata ora per indicare argomento, trattazione, ora per indicare il secondo dei quattro elementi della conoscenza, insieme all’ ὄνομα, all’ εἴδωλον e all’ ἐπιστήμη. Occupandosi di problemi molto diversi da questi, ma accomunati da ciò che potremmo chiamare uso forte e uso debole della lingua filosofica, D. O’Brien ha recentemente parlato di un «increasingly low level of literacy tolerated today in the study of ancient philosophical texts» (2013, p. 275). 79

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non tecnico in tecnico apre possibilità, schiude orizzonti. Posidippo menziona Zenone e Cleante in un epigramma conviviale: tanto basta alla Prauscello (2006) per attribuirgli un endorsement filosofico. Lo Pseudo-Senofonte dichiara che la democrazia ateniese è un sistema immutabile: tanto basta a Vegetti per attribuirgli salda cognizione del pensiero eleatico (1977, pp. 47 sgg.). In 3.108.2 Erodoto osserva che gli dèi hanno voluto poco prolifici i carnivori, molto prolifici gli erbivori: tanto basta a Nestle (1940, p. 510) e a Morrison (1941, p. 16) per postulare archetipi protagorei (Plat. Prot. 321b). Al che il giudizioso Càssola non senza un velo di irritazione ribatteva che questo meccanismo compensativo «è un fatto universalmente noto, e la sua spiegazione con la provvidenza divina non è un pensiero tanto profondo da poter nascere solo nella mente di un filosofo» (1984, pp. 44-45). Il motivo della memoria come deltos è comune a tutti e tre i grandi tragici del quinto secolo e a molti autori successivi. Esso però, come dice giustamente Sansone (1975, p. 60), non richiede chissà quale genio poetico o potenza di astrazione. Inutile dunque mettersi alla ricerca di un primus inventor perché chiunque può aver creato questa immagine. O’Keefe scrive che «the Epicureans accept Parmenides’ contention that nothing comes into being from nothing»82. Il nesso eleati/atomisti è noto, ma il «nulla da nulla» è una «loi très ancienne et très générale» (Morel 2009a, p. 54), ben presente anche a Empedocle, Anassagora, Platone, insomma a tutti (Leszl 2009, pp. 92 sgg.). L’idea del nil ex nilo sta alla base della filosofia occidentale, ma è anche (e le due cose non sono necessa­ria­mente in contraddizione) alla portata dell’ultimo analfabeta83. L’intelletto umano è avido di simmetrie, di continuità, di sche­mi, di cose che tornano; invece la realtà ne è avara: nella letteratura e nella storia vi è molta meno razionalità che nei libri di letteratura e nei libri di storia. Eschilo avrebbe dovuto scrivere e rappresentare i Persiani all’indomani della battaglia di Salamina, invece li scrisse (o almeno li rappresentò) otto anni dopo. Platone avrebbe dovuto scrivere l’Apologia subito dopo la morte di Socrate, ma forse la scrisse più tardi, magari alquanto più tardi. I decreti di Morichide e di Siracosio contro l’ ὀνομαστὶ κωμῳδεῖν si inserirebbero benissimo nella situazione ateniese post 404, invece sono entrambi precedenti, uno di anni, l’altro di decenni. Lucrezio visse a due passi da un circolo epicureo, ma forse non ebbe con esso alcun rapporto. L’Epistola a Erodoto d o v r e b b e parlare del clinamen, e invece non ne parla,

 O’Keefe 2010, p. 43. Parole diverse ma stesso concetto in Verde pp. 86-87 e Verde 2013a, p. 90. 83  Gli studiosi più con i piedi per terra lo riconoscono: cfr. e.g. Hankinson 2013, p. 71 nota 7. 82

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e neppure vi allude. Il Bignone, non ammettendo il silenzio su una dottrina di tale rilevanza, ve la ficcò a viva forza, integrando al c. 4384. (Casi come questi dimostrano peraltro che si tende a dare un valore sproporzionato a ciò che ci giunge intero. La Lettera a Erodoto ci appare il totum del pensiero fisico di Epicuro, esercitando lo stesso effetto fagocitante delle Lettere di Seneca, che non sono – ma ci appaiono – il totum dello stoicismo romano [Inwood 2007, p. 140])85. Se il Bignone non fosse il Bignone, un tale arbitrio avrebbe destato scandalo. Invece ha persino incontrato consensi86. Nella prima parte di questo libro ci è capitato più volte di menzionare una traduzione annotata della Lettera uscita nel 1927 a cura di Giuseppe Zannoni. Al c. 43 lo Zannoni – un bollackiano ante litteram, contrario per principio a qualunque intervento sul testo – accoglie κεκλιμέναι e gli dà il senso di «essere incline a», «simpatizzare con» (?), «amare» (?!). E spiega: le cagioni di questo essere inclinati alla composizione sono ben chiarite dall’argomento seguente, e dovevano essere esposte più ampiamente nell’opera Dell’amore che nell’elenco di Diogene Laerzio viene appunto immediatamente dopo quella Degli atomi e del vuoto e precede il Compendio degli argomenti contro i fisici. Non doveva dunque trattare dell’amore volgarmente inteso, ma di una particolare inclinazione degli atomi determinata dal vuoto, a cambiare direzione e a imbattersi quindi in altri atomi (1927, pp. 27-28).

Lo Zannoni non è l’Olivares dei commentatori, ma è attraverso gli Zannoni, i Bartoletta, i Sammartano, ecc., ben più che attraverso gli Usener, i Bailey, gli Arrighetti e i Sedley che si formano le vulgate, le opinioni standard, che circolano al di fuori del pomerio specialistico e che qualche volta pure vi entrano, portandovi l’eredità dell’antico imprinting. Nel caso proposto qui sopra, Bignone opera da filologo e Zannoni, diciamo, da interprete,  Per la prima parte dell’integrazione il Bignone si era regolato sul Kochalsky: . Sulla ‘fissazione’ di Bignone per il clinamen cfr. Isnardi Parente 1996, pp. 506 e 509, e Milanese 2012, p. 448. 85  Ed hanno ovviamente ragione quanti si battono per affermare anche nel concreto (in astratto sono tutti d’accordo) l’idea che il pensiero epicureo si possa comprendere adeguatamente senza l’aiuto continuo dei papiri ercolanesi e dell’iscrizione di Enoanda: cfr. su ciò e.g. Leone 2011, p. 275; Smith 2011, p. 316 (commentando Leone 2011), ecc. (Se in questo libro io ho usato poco sia i papiri ercolanesi sia Diogene di Enoanda, il motivo va cercato nei miei limiti, non in una riserva mentale). 86  Cfr. De Falco 1963, p. 57 (che non si disturba neppure a usare le parentesi uncinate, anzi dà per acquisito, alla nota 11, che il testo parli del «famoso clinamen»), e Krautz 1980, p. 10. Anche Boulogne 2003, pp. 95-97, non sembra ostile all’ipotesi. 84

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ma l’obiet­tivo è lo stesso: introdurre nel testo un filosofema, materia­lizzare a viva forza qualcosa che non c’è. (E non dimentichiamo i tanti casi in cui il Bignone sta allo Usener come lo Zannoni al Bignone). 8.  Particelle I nuclei tematici della Lettera a Erodoto sono scanditi da una fitta serie di καὶ μήν e ἀλλὰ μήν. Ingrid Thyresson, nel suo libro intitolato Particles in Epicurus – libro non proprio recente, ma serio e scrupoloso nonostante qualche caduta – li analizza così: when Epicurus writes καὶ μήν in certain instances and ἀλλὰ μήν in others, it implies a way of indicating a certain difference as to the content and the form. After καὶ μήν something new and important is said. The expression is not at all as monotonous and indifferent as it might seem to be at first sight. Καὶ μήν does indeed mark a new and important stage in the presentation, written in an extremely concise way (…). Καὶ μήν comes as a memento to mark important doctrines which introduce larger sections; ἀλλὰ μήν introduces subdivisions. The particles are not interchangeable (Thyresson 1977, p. 68).

Il più recente editore della Lettera a Erodoto, il già tante volte menzionato F. Verde, rende tutti i καὶ μὴν καί con «e certamente»87 e tutti gli ἀλλὰ μὴν καί con «in realtà»88. In astratto la coerenza è senz’altro preferibile al casuale avvicendarsi dei vari «e cer­to», «e poi», «ecco allora che», «è chiaro che», «quanto a», «inoltre» e così via89. Se­non­ché le soluzioni sempre uguali, e quindi rigide, costringono il lettore ad avan­zare in una zona grigia in cui non è mai chiaro quando un paragrafo sviluppa il precedente e quando invece lo corregge o lo limita. E può anche succedere che i certamente e i senz’altro, non che aiutare, depistino: – c. 52 ἀλλὰ μὴν καὶ τὸ ἀκούειν γίνεται κτλ. = «in realtà l’udito si genera» ecc.; in realtà dà la falsa impressione che una dottrina erronea sull’udito venga corretta con una dottrina migliore e più attendibile. Invece dell’udito si parla qui per la prima volta.

 Cfr. i cc. 39, 40, 41, 46 (bis), 53, 54, 60, 61, 63, 65, 70, 72, 78. Al c. 68 aggiunge un anche («e certamente anche»), ma è un di più. 88  Cfr. i cc. 39, 41, 45, 52, 62, 66-67, 68. Poco diverse le traduzioni di οὐ μὴν οὐδέ del c. 47 («senza dubbio non»); di ἀλλὰ μὴν οὐδέ del c. 55 («certamente però non»); di οὐ μήν del c. 64 («senz’altro»); di ἀλλὰ μήν del c. 75 («senz’altro però»); e di καὶ μήν del c. 76 («e […] senz’altro»). 89  Un esempio di questo metodo in Caretta – Samarati 1976, pp. 6, 7, 8, 11, ecc. 87

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– c. 62 ἀλλὰ μὴν καὶ κατὰ τὰς συγκρίσεις κτλ. = «in realtà, riguardo agli aggregati» ecc. Siccome il c. 61 spiega che gli atomi viaggiano sempre alla stessa velocità, il profano può aspettarsi che gli aggregati del c. 62, in quanto costituiti di atomi, facciano altrettanto. L’ ἀλλὰ μὴν καί deve togliere dalla testa di chiunque una simile idea. Il c. 62 sta in forte contrasto con il 61. La locuzione in realtà non funziona: ciò che serve è invece. – c. 68 ἀλλὰ μὴν καὶ τὰ σχήματα καὶ τὰ χρώματα κτλ. = «in realtà le forme, i colori, le grandezze» ecc.: anche qui l’impressione è che Epicuro voglia correggere e rettificare; invece approfondisce le cose dette più sopra, prima di ταῦτα οὖν πάντα κτλ. – c. 70 καὶ μὴν καί = «e certamente». Ma così sfuma l’opposizione fra il c. 69, sulle proprietà stabili, e il 70, su quelle instabili. Di nuovo ciò che serve è invece, viceversa. – c. 75 ἀλλὰ μήν = «senz’altro, però». Ma il c. 75 è un approfondimento, un arricchimento del 74. Ciò che serve è anzi. – c. 76 καὶ μὴν ἐν τοῖς μετεώροις (…) νομίζειν δεῖ κτλ. = «e si deve senz’altro ritenere, riguardo ai corpi celesti» ecc.; Epicuro è passato dalla trattazione del linguaggio (c. 75) a quella dei corpi celesti: forse il cambio-pagina più brusco di tutta l’Epistola. Non è il caso di iniziare con «e». Invero i καὶ μήν e gli ἀλλὰ μήν, se dovessimo applicare con rigore la linea della Thyresson, andrebbero eliminati, oppure sostituiti con una sobria segnaletica del tipo «punto primo», «punto secondo», «nota bene», «altro punto», ecc. Cosa che alcuni editori e traduttori hanno in effetti cercato di mettere in pratica, per quanto embrionalmente e sporadicamente (Mau 1954; Krautz 1980, ecc.). Ci sono poi i rischi generici: per esempio conferire a una particella un senso che non ha, o che non ha in quel contesto; non vedere le correlazioni; non capire che in certi casi occorre aggiungere de penu proprio qualcosa che nel greco non c’è ma che le lingue moderne richiedono indispensabilmente. – c. 38 εἶτα κατὰ τὰς αἰσθήσεις δεῖ πάντα τηρεῖν καὶ ἁπλῶς τὰς παρούσας ἐπιβολὰς εἴτε διανοίας εἴθ᾿ ὅτου δήποτε τῶν κριτηρίων = «applicazioni presenti sia del pensiero sia, talvolta, di qualunque altro criterio». Il δήποτε è stato scisso in δή + ποτέ e da ποτέ è stato ricavato talvolta, che inappropriatamente suggerisce che ciò che vale per le ἐπιβολαὶ τῆς διανοίας non vale sempre anche per le ἐπιβολαί degli altri κριτήρια. Si tratta invece di un δήποτε generalizzante, che esclude eccezioni e fa tutt’uno con ὅτου: c. 49 ὧν δήποτε; 52 ὅπως δήποτε; 71 ὅτε δήποτε; 47 ὅθεν δήποθεν (δήποτε FP4). – c. 51 τοῖς οὖσί τε καὶ ἀληθέσι προσαγορευομένοις = «rispetto a ciò che esiste e che noi designiamo come vero». Conformemente all’uso di τε καί (c. 49 ἡμῶν τε κἀκείνων; 49 ὁμοχρόων τε καὶ ὁμοιομόρφων; 74 ζῷά τε καὶ φυτά; 75

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διδαχθῆναί τε καὶ ἀναγκα­σθῆ­ναι)90, al c. 51 occorrerà «rispetto a ciò che noi designiamo come esistente e vero» (si veda la Sezione I, ad loc.). c. 52 ἀλλὰ μὴν καὶ τὸ ἀκούειν γίνεται ῥεύμα­τός τινος φερομένου ἀπὸ τοῦ φωνοῦντος ἢ ἠχοῦντος ἢ ψοφοῦντος ἢ ὅπως δήποτε ἀκουστικὸν πάθος παρασκευάζοντος = «o in qualunque altro modo da ciò che produce un’affezione acustica» (p. 43). Non è così: «in qualun­que altro modo» deve stare fra «da ciò che» e «produce». c. 56 ἀλλὰ καὶ τὴν μετάβασιν μὴ νομιστέον γίνεσθαι ἐν τοῖς ὡρισμένοις εἰς ἄπειρον μηδ᾿ ἐ τοὔλαττον = «ma non bisogna ritenere che in ciò che è delimitato si generi anche un passaggio all’infinito né ciò che è più piccolo» (p. 47). La traduzione analitica disorienta: non c’è motivo di preferire non anche a neppure 91. c. 57 ἔτι = «inoltre». Ma la traduzione giusta è ancora; con il che il concetto cambia vistosamente. c. 60 μέντοι: è senza dubbio avversativo – e non progressivo, come a torto lo intende Konstan 1972 (si veda la Sezione I, ad loc.), mettendosi anche lui sotto la protezione del padre Denniston92. c. 61 ὅταν γε δὴ μηδὲν ἀπαντᾷ αὐτοῖς (…) ὅταν μηθὲν μηδὲ ἐκείνοις ἀν­τικόπτῃ = «almeno quando proprio nulla si opponga loro (…) qualora proprio nien­te li urti» (p. 49). I due proprio confondono, dando l’idea che se questo «nul­la» e questo «niente» non fossero assoluti, il feno­me­no non avverrebbe allo stesso modo. Il che non è vero. È vero invece che Epi­curo, con la solita pignoleria, vuole escludere il rallentamento a causa degli urti anche per gli atomi piccoli, benché esso sia in certo modo già presupposto a for­tiori. Ciò che occorre è «qualora neanche loro (cfr. Thyresson p. 129: «not either») vengano urtati», come ὅταν μηδὲ ἐκείνοις del resto esige. Resta la curiosità di capire l’origine dei proprio; il primo sarà la traduzione di δή93, ma il secondo?94

 Nesso ben tradotto a p. 59: «istruita e costretta», ma non altrettanto ben parafrasato nel commento a p. 215, dove il primo verbo viene fatto dipendere dal secondo: «costretta (anag­ka­sthenai) a imparare (didachthenai)». Sembra si sia cercata l’endiadi, ma le idee sono realmente due: che la natura ha imparato motu proprio e che ha imparato per ἀνάγκη (la costrizione che nasce dalla mancanza di alternative). 91   Qualche dubbio anche su si generi in luogo di esista o possa esistere. 92  Su μέντοι si veda anche Slings 1997, p. 114 (il saggio di Slings è su Erodoto, ma premesse e conclusioni sono valide per qualunque autore greco). 93  Nel qual caso, a torto: γε δή è un’unica espressione limitativa: cfr. Thyresson p. 47. 94  Molti hanno trovato strane difficoltà a intendere questo capitolo, obiettivamente non dei più ardui: e.g. Caretta – Samarati 1976, pp. 20-21: οὔτε γὰρ τὰ βαρέα 90

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– c. 63 τοῦτο δὲ πᾶν αἱ δυνάμεις τῆς ψυχῆς δηλοῦσι καὶ τὰ πάθη καὶ αἱ εὐκι­νη­σίαι καὶ αἱ διανοήσεις καὶ ὧν στερόμενοι θνῄσκομεν = «tutto ciò lo rivelano le facoltà dell’anima, le affezioni, i corretti movimenti della mente e i pensieri e ciò di cui, se privati, moriamo» (p. 51)95. Una ri-traduzione o parafrasi del passo a p. 190: «di ciò abbiamo conferma diretta (…) dalle ‘potenze’ o facoltà dell’anima, dalle affezioni, dai corretti movimenti della mente e dai pensieri, privati dei quali moriamo» (p. 190). Mancanza di affezioni, di attività mentale e di pensieri non provocano la morte, altrimenti il mondo si sarebbe già spopolato. – c. 65 διὸ δὴ καὶ ἐνυπάρχουσα ἡ ψυχὴ οὐδέποτε ἄλλου τινὸς μέρους ἀπηλ­λαγ­μένου ἀναισθητεῖ = «perciò, dunque, anche quando risiede (nel com­ples­so ato­mico), non è mai insensibile, nonostante una qualche altra parte (del complesso atomico) se ne separi; ma, anche se vada distrutto qualcosa di questa, dissolvendosi ciò che la ripara sia totalmente sia in parte, qualora essa permanga, effettivamente conserva la sensazione» (p. 51). Le tre particelle iniziali sono state tradotte una ad una, con l’aggiunta di effettivamente. Sia l’anche sia l’effetti­ va­mente fuorviano. Il primo può far credere che l’ αἰσθάνεσθαι dell’anima dentro il complesso atomico non sia una condizione normale; il secondo sortisce un inopportuno effetto correttivo, poiché non è una sorpresa o una stranezza che l’anima mantenga la sensibilità finché διαμένει. (Enfatizzare ciò che è atteso equivale a farlo passare per inatteso). – cc. 66-67 ἀλλὰ μὴν καὶ τόδε γε δεῖ προσκατανοεῖν = «in realtà si deve tenere bene a mente questo» (p. 53); e poco più avanti, c. 72 καὶ μὴν καὶ τόδε γε δεῖ προσκατανοῆσαι σφοδρῶς = «e certamente si deve in aggiunta riflettere forte­men­te anche su ciò» (p. 57). Il καί e il προσ- sono stati entrambi cassati nel primo passo, entrambi tradotti nel secondo. Bisognava fare uno e uno. La seconda traduzione è bruttina, la prima discutibile, perché il καί è necessario. – c. 69 καὶ ἐπιβολὰς μὲν ἔχοντα ἰδίας πάντα ταῦτά ἐστι καὶ διαλήψεις, συμ­ παρα­κολουθοῦντος δὲ τοῦ ἀθρόου καὶ οὐθαμῇ ἀποσχιζομένου, ἀλλὰ κατὰ τὴν κτλ.: «difatti gli atomi pesanti non si sposteranno più velocemente di quelli piccoli e leggeri, almeno quando nulla loro si opponga; e così nemmeno i piccoli più velocemente dei grandi, purché essi trovino proporzionato ogni passaggio, quando nulla si aggiunga a loro, e nemmeno più veloce sarà lo spostamento verso l’alto o di lato a motivo degli urti, né quello verso il basso a motivo del peso». Qui l’errore è nell’«aggiungersi», come se Epicuro volesse dire che gli atomi piccoli passano attraverso qualunque pur minima apertura purché, come è ovvio, non diventino doppi o tripli ecc. per l’aggregarsi a loro di altri atomi. Un fraintendimento notevole. 95  Su δηλοῦσι si veda la Sezione I, ad loc.; su εὐκινησίαι si veda sopra, Sezione III.

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ἀθρόαν ἔννοιαν τοῦ σώματος κατηγορίαν εἰληφότος = «e tutte queste proprietà sono tali da avere applicazioni proprie e distinzioni proprie, dal momento che il corpo compatto a esse si accompagna e giammai se ne separa, essendo il corpo predicabile in base alla nozione complessiva» (p. 55). Da questa resa sembra emer­gere che il συμπαρακολουθεῖν del corpo ai suoi συμβεβηκότα sia la causa del fatto che i συμβεβηκότα sono oggetto di specifiche ἐπιβολαί e di specifiche διαλήψεις. Ma non è così: Epicuro intende dire che i συμβεβηκότα ammettono di essere studiati a sé, non però fino al punto di isolarli dal corpo di cui sono συμβεβηκότα. Sì allo studio specifico, ma senza indi­pen­denza dall’ ἀθρόον. È chiaro allora che se non si dà importanza a μέν/δέ, se δέ non viene espresso in un’avversativa, bensì eliminato, il concetto non è più quello. cc. 70-71 κατ᾿ ἐπιβολὰς δ᾿ ἄν τινας παρακολουθοῦντος τοῦ ἀθρόου ἕκαστα προσαγορευθείη, ἀλλ᾿ ὅτε δήποτε ἕκαστα συμβαίνοντα = «ogni accidente, accompagnandolo il corpo nella sua complessità, potrebbe essere designato sulla base di certe applicazioni, ma nel momento in cui ciascun accidente lo osserviamo presentarsi, poiché agli accidenti non si accompagnano caratteri eterni» (p. 55). «Nel momento in cui» non basta: occorre «solo nel momento in cui». Che non è – nel caso in oggetto – una differenza da poco. c. 72 καὶ γὰρ τοῦτο ποιοῦσί τινες = «e infatti alcuni fanno anche questo» (pp. 57 e 207). Nella frase non c’è nessun anche, né deve esserci96. c. 74 ἀλλὰ καὶ διαφόρους αὐτοὺς κτλ. = «ma anche nel libro XII» (p. 57). Il καί è stato immotivatamente dislocato. c. 79 μηθὲν ἔτι πρὸς τὸ μακάριον τῆς γνώσεως συντείνειν, ἀλλ᾿ ὁμοίως τοὺς φόβους ἔχειν τοὺς ταῦτα κατειδότας, τίνες δ᾿ αἱ φύσεις ἀγνοοῦντας καὶ τίνες αἱ κυριώταται αἰτίαι, καὶ εἰ μὴ προσῄδεισαν ταῦτα· τάχα δὲ καὶ πλείους, ὅταν τὸ θάμβος ἐκ τῆς τούτων προσκατανοήσεως μὴ δύνηται τὴν λύσιν λαμβάνειν κατὰ τὴν περὶ τῶν κυριωτάτων οἰκονομίαν = «(si deve ritenere) che non con­t ri­bui­sca ulteriormente in alcun modo alla beatitudine che deriva dalla conoscenza, e che coloro che sono esperti di queste cose siano presi ugualmente dalle paure dal mo­mento che ignorano quali ne siano le nature e quali le cause capitali, quasi non ne avessero nessuna conoscenza; e che probabilmente sono in preda a paure anco­ra maggiori, allorché lo stupore proveniente dalla conoscenza appropriata di queste cose

 La doppia traduzione (καί = «e» + «anche») si ritrova un’altra volta nello scolio al c. 40: τοῦτο καὶ ἐν τῇ πρώτῃ Περὶ φύσεως καὶ τῇ ιδʹ καὶ ιεʹ καὶ τῇ Μεγάλῃ ἐπιτομῇ = «e (dice) questo anche nel…» ecc. 96

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non sia in grado di apportare la liberazione (dai timori) in virtù dell’or­ ganizzazione dei principi capitali» (p. 61). Due obiezioni: (1) non pare sia stato identificato il costrutto ὁμοίως καὶ εἰ = aeque ac si; (2) non è stato dato rilievo a un δέ (τίνες δ᾿ αἱ φύσεις) dal forte valore avversativo. A ciò si aggiunge un προσ- ripetutamente mal compreso: in καὶ εἰ μὴ προσῄδεισαν ταῦτα e in προσκα­τα­νοή­σεως il prefisso è epitetico, non intensivo. Dunque προσειδέναι e προσκα­τα­νόησις non sono la conoscenza appropriata, ma il sapere di più, l’avere più nozioni. Gli scienziati sanno più cose di noi persone comuni, tuttavia questo loro superiore sapere, a meno che non sia supportato dalla conoscenza delle cause, non dissolve le loro paure, bensì le accresce: chi ha mezzi più efficaci per risolvere un problema, e nonostante ciò non lo risolve, è logico che si spaventi di più, perché da ciò nasce un sentimento di inadeguatezza ed impotenza. È un ragionamento dei più intelligenti e sottili che si trovino nella Lettera, ed è un peccato rovinarlo o sbiadirlo con tra­du­zio­ni approssimative. – c. 80 τὴν ἐκ τῶν ἀποστημάτων φαντασίαν παριδόντων = «vedendo la rappre­ sentazione di ciò che è lontano». Ma παρορᾶν non è vedere bensì travedere, equivocare: praticamente l’opposto. – c. 83 καὶ γὰρ καὶ καθαρὰ ἀφ᾿ ἑαυτοῦ ποιήσει πολλὰ τῶν κατὰ μέρος ἐξα­κρι­ βου­μένων κατὰ τὴν ὅλην πραγματείαν ἡμῖν = «e infatti da sé renderà anche chiare molte soluzioni fra quelle da noi dettagliatamente esposte con cura riguardo all’intera dottrina» (p. 63). Il secondo κατά indica la sede della trattazione, non l’argomento. Bene Arrighetti p. 72: «nella trattazione completa della dottrina». Come al c. 35, la ὅλη πραγματεία è la «grande opera» sulla natura, cioè il Περὶ φύσεως. Quando Epicuro si ripete intenzionalmente, adottare la variatio è premessa certa di errore. Del resto è proprio Epicuro a dirci che a medesimi concetti devono corrispondere medesimi vocaboli, e nei limiti del possibile il metodo va seguito anche dagli interpreti. – c. 69 συμπαρακολουθοῦντος τοῦ ἀθρόου = «il corpo compatto»; c. 71 παρακολουθοῦντος τοῦ ἀθρόου = «il corpo nella sua complessi­t à». Perché? – c. 75 ὅθεν καὶ τὰ ὀνόματα ἐξ ἀρχῆς μὴ θέσει γενέσθαι, ἀλλ᾿ αὐτὰς τὰς φύσεις τῶν ἀνθρώπων καθ᾿ ἕκαστα ἔθνη ἴδια πασχούσας πάθη καὶ ἴδια λαμβανούσας φαντάσματα ἰδίως τὸν ἀέρα ἐκπέμπειν = «ragion per cui (si deve supporre) che anche i nomi non si siano formati da principio per convenzione, ma che le stesse nature degli uomini, subendo affezioni proprie e ricevendo particolari rappresen­tazioni, facevano uscire in modo appropriato l’aria» (p. 59). Tre ἴδιος, tre traduzioni differenti, l’ultima delle quali discutibile. Qui infatti non interessa se e quanto fosse appro­pria­to l’ ἐκπέμπειν τὸν ἀέρα

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dei primitivi; interessa invece sotto­li­neare che era un ἐκπέμπειν, diverso da ἔθνος a ἔθνος97. L’incostante resa degli ἴδιος prosegue al c. 76, dove κοινῶς τὰ ἴδια τεθῆναι è reso «in modo comune si fissarono i nomi particolari» (p. 59) e spiegato «in modo comune vennero ‘codificate’ espres­sio­ni appropriate». – c. 83 τὴν ἅμα νοήματι περίοδον = «ripassa[re] alla velocità del pensiero» (p. 63). Ma a p. 229: «ripassare mentalmente». Due cose ben diverse, benché possano implicarsi. Vediamo ora alcuni casi in cui sarebbe stata necessaria una più decisa disam­bigua­zione. – c. 46 καὶ μὴν καὶ ἡ διὰ τοῦ κενοῦ φορὰ κατὰ μηδεμίαν ἀπάντησιν τῶν ἀντικοψόντων γινομένη πᾶν μῆκος περιληπτὸν ἐν ἀπερινοήτῳ χρόνῳ συντελεῖ = «e certamente il movimento attraverso il vuoto, dal momento che avviene senza alcun incontro di corpi che si urtano, copre ogni lunghezza comprensibile in un tempo inconcepibile». Ma γινομένη è condizionale, non causale: il corpo in movimento attraversa il vuoto alla massima velocità se (o quando se si preferisce) non incontra ostacoli. La resa «dal momento che» muta il concetto e compromette il prosieguo, in cui si spiega che lentezza e velocità sono date rispettiva­mente dalla presenza e assenza di ἀντικοπή. – c. 79 μηθὲν ἔτι (…) οἰκονομίαν. Abbiamo già prima espresso due dubbi sulla traduzione di queste righe. Qui ne esprimiamo un terzo, relativo al rapporto fra κατειδότας e ἀγνοοῦντας. Molti traduttori (Arrighetti, Russello, Verde; non la Ramelli) intendono ἀγνοοῦντας in senso causale. Inopportu­namente, perché in questo modo si viene a instaurare una sorta di reciproca implicazione fra l’essere κατειδότες, cioè conoscere bene i fenomeni, e l’ignorarne le cause. Più sempli­ce­mente – e più logicamente – Epicuro avrà invece detto che coloro che conoscono bene i fenomeni, ma ne ignorano le cause (δ᾿ forte avversativa, come si è detto sopra), hanno paura come gli altri e anche di più. Non dunque «dal momento che ignorano», bensì «se ignorano»98. Le cose non vanno meglio con un altro importante strumento di cui gli studiosi epicurei da qualche tempo dispongono, ovvero la già più volte men-

 Anche nel commento a p. 216 si insiste sulla variatio: «affezioni differenti (…) diverse rappresentazioni». E nel prosieguo le «diverse rappresentazioni» si allontanano ulteriormente dall’idea che ἴδιος vorrebbe trasmettere. 98  Anche nel commento a p. 224 («chi infatti si occupa di individuare le cause dei fenomeni celesti come le rivoluzioni o le eclissi è colto dal timore perché non riesce a identificarne le cause fondamentali») serve se e non perché. 97

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zionata traduzione con note degli Epicurea di Usener curata da Ilaria Ramelli. Se un hodieque viene tradotto «anche oggi», come càpita a p. 39 nota 48 e a p. 46, pazienza. Ma quando, come a p. lxiv, l’oggetto in discussione è il valore di Plutarco come fonte epicurea, la resa erronea di un quidem cambia faccia a tutto il discorso. Plutarco, dice Usener, evoca Epicuro di continuo, anzi ha addirittura scritto opere specifiche contro di lui: s’immagini dunque quanti materiali se ne ricavano! Ma se il traduttore rende quidem con eppure (come fa la Ramelli), il senso generale diventa che Plutarco è un teste utile nonostante le sue opere antiepi­curee. A p. 105 nota 18 la Ramelli traduce così lo scolio al c. 74 della Lettera: «è chiaro, dunque, che egli dice i mondi non suscettibili di corruzione, mentre le loro parti si trasformano. E anche in altri passi dice che la terra si appoggia sull’aria». Due rilievi: il primo su φθαρτούς, che è stato preso per ἀφθάρτους (con la conseguente ambigua resa di μεταβαλλόντων τῶν μερῶν)99; il secon­do su καί, reso con «anche». Ma non è anche: altrimenti si dovrebbe pensare che Epicuro abbia parlato del τὴν γῆν τῷ ἀέρι ἐποχεῖσθαι non solo in altri luoghi di altre opere (ἐν ἄλλοις), m a a n c h e q u i nel c. 74. Il che non è vero. E come gli e diventano anche 100, così gli e non diventano neppure. Due esempi notevoli in Ramelli p. 707 = Diog. Laert. 10.118 οὐδὲ θεόπεμπτον εἶναι τὸν ἔρωτα: «la passione d’amore non è, a loro avviso, neppure mandata dagli dei» (fr. 574 Us.), e p. 709 = Diog. Laert. 10.118 οὐδὲ ταφῆς φροντιεῖν: «non si preoccuperà nemme­no della propria tomba» (fr. 578 Us.). Con le particelle, specie quelle dei testi filosofici, si oscilla fra accanimento e incuria: da una parte un ostinato mot à mot da traslatori biblici (e il conseguente fastidioso popcorn di perciò e di quindi); dall’altra un allegro omettere o dislocare, con ricadute per lo più stilistiche ma talvolta, se si è sfortunati, anche concettuali; cosicché viene da chiedersi se la questione delle particelle non rientri in quel genere di cose su cui Quintiliano non sapeva se preferire la sollicitudo o la neglegentia. Purtroppo gli studiosi entrano nelle Greek Particles del Denniston come nel bosco a far legna: prendono

 Oppure si tratta di un errore di distrazione in italiano e da «che egli dice che i mondi sono suscettibili» si è passati a «che egli dice i mondi non suscettibili»? 100  In controtendenza Ramelli p. 259, dove è tradotto e un καί che vuol dire anche. A p. 449 ἀρχὰς (…) ἃς καὶ ἀτόμους καὶ ἀδιαιρέτους ἐνόμιζον (fr. 284 Us.): «principii (…) che essi ritenevano anche indivisibili e indivisibili [sic]», la coordinazione καί… καί non è stata rico­no­sciuta. 99

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il necessario e ne escono subito101. Ma in certi autori, e fra questi Epicuro, le particelle non sono solo un fatto di stile. Oltre che sulle ἐπιβολαί o sui συμπτώματα o sulle προλήψεις, gli interpreti dovrebbero concentrarsi anche sui καί e sugli οὐδέ, perché spesso è lì la chiave di tutto. 9.  Scolii Come si è visto sopra più volte, nelle Epistole e nelle Sentenze trasmesse da Diogene nel libro X sono penetrati materiali non epicurei: scolii e glosse. In certi casi gli scolii iniziano con λέγει o φησί e quindi si identificano da soli102 (anche se non sempre è facile delimitarli). Quanto alle glosse, le uniche certe sono quelle che vengono a scombinare la coerenza logica o sintattica di una frase. Dico subito che le pagine che seguono sono profondamente indebitate con gli studi di Tiziano Dorandi, che al problema del materiale insiticio in Diogene Laerzio ha dedicato più di un intervento (ultimo quello del 2013: cfr. Dorandi 2013, in particolare pp. 200 sgg.). In passato si è creduto che l’autore degli scolii potesse essere lo stesso Diogene Laerzio103. Ma si tratta di scolii dotti, informati, il cui estensore aveva a dispo­si­zione testi epicurei che all’epoca di Diogene, grosso modo il terzo secolo d.C., erano senza dubbio scomparsi. Il problema storico degli scolii si chiude dunque facilmente: questi scolii sono pre-diogeniani104. Spinoso è invece il problema ecdotico. L’editore laerziano dovrà considerare queste tre possibilità: (1) gli scolii erano presenti già a monte dell’originale, cioè nel­l’e­semplare che Diogene usò come ‘antigrafo’; (2) furono inseriti nell’ori­gi­na­le; (3) furono inseriti a valle dell’originale, cioè nell’archetipo o in uno degli (even­tuali) esemplari intermedi fra originale e archetipo. Nel terzo caso, e solo in questo, gli scolii dovrebbero essere

  «‘Fast food’ use of Denniston», ha efficacemente scritto Rijskbaron 1997, p. 2.  Immotivata la prudenza di Gill sullo scolio al c. 66: «the comment seems to be a later addition to Epicurus’ letter» (2009, p. 131 nota 21). Ma il greco ha λέγει ἐν ἄλλοις: perché quindi «seems»? 103  L’idea era comune fino al Settecento e nell’Ottocento, come attestano Ortiz 1792, p. 324 nota 20; Schneider 1813, pp. 54, 55, ecc.; Zevort 1847, p. 280 nota 1, e altri; e non è mai completamente caduta in desuetudine: Zannoni 1927, p. 23; Tenti Monti – Monti 1995, p. 43. Cfr. anche Konstan 2007b, p. 103, sullo scolio al c. 66. 104  Anche Montarese (2012, p. 61 nota 200) ritiene che gli scolii siano più antichi di Diogene. Ma quanto più antichi? Secondo Gottschalk (1996, p. 233), già Lucrezio potrebbe aver utilizzato testi epicurei con annotazioni simili a quelle che troviamo infiltrate nelle Lettere. 101

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pubblicati a parte, così come si fa con gli scolii omerici, gli scolii pindarici ecc.; nei casi (1) e (2), invece, scolii e testo debbono convivere. Ma convivere in che modo? Qui vanno presupposte due fasi: dapprima qualcuno vergò gli scolii in margine alla sua copia; in seguito qualcun altro (uno scriba sciocco evidentemente) li introdusse nel testo105. Pertanto occorrerebbe stabilire qual è il primo esemplare in cui scolii e testo si trovarono a fare tutt’uno. Io non credo che questo primo esemplare sia stato l’originale, non credo cioè che Diogene, per asino che fosse – ma chissà poi se lo era e quanto lo era –, abbia lui stesso mescolato le parole di Epicuro – del ‘suo’ Epicuro – con le note su Epicuro. Egli poté sì vergare questi scolii sul suo autografo, ma vergarli sul margine, non certo nel testo. Se così è, l’editore laerziano deve pubblicare e testo e scolii, ma isolandoli gli uni dagli altri. Può darsi infine – così Schwartz 1903, col. 745 – che Diogene riproducesse identico un cocktail scolii-testo già presente nell’antigrafo. Il che non è indice più di asineria che di impotenza, considerate le difficoltà che ancor oggi incontriamo nel separare un tipo di materiale dall’altro. L’ipotesi di Schwartz è fra tutte quella che più si attaglia alla prassi dei correnti editori, i quali, se volessero essere rigorosi, dovrebbero anch’essi rinunciare a qualunque distinzione grafica fra le due qualità di testo. Per fortuna dei lettori, nessuno ha applicato le regole in maniera così fanatica. Le soluzioni di H. S. Long, che ha stampato gli scolii in corpo minore, e di T. Dorandi, che ha usato il corsivo e la parentesi tonda, sono le più corrette, anzi le uniche corrette. Discutibile è invece la scelta di Marcovich, che abbina il corpo minore alla parentesi quadra – cioè in definitiva espunge. Per l’editore epicureo la questione è più semplice. Il materiale scoliastico e glossematico, non potendo per ovvie ragioni appartenere a Epicuro, va semplice­men­te eliminato. Ma non tutti lo hanno eliminato allo stesso modo. Lo Usener trascrive il materiale insiticio a piè di pagina, con le diciture «scholion», «glossema» o «additamentum». Come lui hanno fatto Bailey 1926; Conche 1987; Inwood – Gerson 1994; Rapp 2010106. L’Arrighetti inve La Thyresson p. 10 scrive: «it is known that as early as in the second century B. C. there existed good as well as defective manuscripts containing writings of Epicurus. In the bad ones, interlinear and marginal scholia had been intruded into the text». Perché «in the bad ones»? L’intrusione nel testo di materiale marginale non implica che quel testo sia cattivo, anzi semmai che è buono, perché le annotazioni, le citazioni, i dati, tradiscono la presenza di qualcuno che legge, si interessa, confronta, svolge attività critica. 106  E anche Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin 2010, ma a torto, perché ciò che stampano non è il testo di Epicuro, bensì di Diogene Laerzio. 105

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ce, seguendo il Von der Muehll107, mantiene il testo non epicureo fianco a fianco con quello autentico, indicando con le parentesi tonde gli scolii e con le quadre le ‘normali’ espunzioni. Sono due sistemi chiari e funzionali. Per non sbagliare, agli editori successivi sarebbe bastato seguire diligentemente uno qualunque dei due. Ma molti hanno voluto innovare, perfezionare, mettere del proprio, con tutte le ingenuità e tutti i pasticci che ne derivano. F. Verde si conforma al sistema-Arrighetti, ma sostituisce le tonde con le quadre108 e le quadre con le graffe. Senonché il combinato quadra/graffa, a differenza di tonda/quadra, non esprime nessuna distinzione di livelli. Sia le quadre che le graffe servono per espungere, e una parola non risulta meno espunta o più espunta a seconda che si usino le une o le altre. E poi è alto il rischio di confusioni. Al c. 50, per esempio, Arrighetti usa la quadra e quindi Verde dovrebbe usare la graffa; invece usa la quadra anche lui109, mentre usa la graffa poco più avanti al c. 51 per atetizzare τὴν συνημμένην τῇ φανταστικῇ ἐπιβολῇ, διάληψιν δὲ ἔχουσαν. Sugli scolii e sulle atetesi in Epicuro le distrazioni sono state singolarmente numerose. Il De Falco, per esempio, attribuiva allo scoliasta le parole οὐ γὰρ δυνατὸν γενέ­σθαι τὰς τοσαύτας διαφορὰς ἐκ τῶν αὐτῶν σχημάτων περιει­λημ­μένων (c. 42), che invece sono di Epicuro (1923, p. 20); lo Zan­noni assurdamente prolungava fino a πλεκτικῶν (c. 43) uno scolio che si ferma a βαρυτάτῃ (1927, pp. 27-28); la Giovacchini cita i cc. 73-74 senza distinzione fra testo e scolii (eppure qui gli scolii sono almeno tre, forse quattro) (2008, p. 117). Verde chiude il secondo scolio del c. 74 a Πε­ρὶ φύσεώς φησιν, ma poi nel commento lo fa continuare (se­guen­do Usener) fino ad ἀπὸ τοῦ ἀπείρου (pp. 213-214). La separazione fisica adottata da Usener ha dunque questo vantaggio: che costringe l’editore a prendere decisioni chiare su dove uno scolio comincia e finisce. Ma possono verificarsi guai di altro genere. Il Krautz ha seguito il sistema-Usener, ma radicalizzandolo, cioè escindendo il materiale spurio non solo dal testo, ma anche dal fondopagina, e dunque eliminandolo materialmente, sottraendolo alla vista del lettore. È una condotta lecita?

 Saggiamente, dice Arrighetti a p. xxx, il Von der Muehll non ha «relega[to] fuori della continuità del testo questi brani, così che l’aspetto esteriore sotto il quale la tradizione si presenta non viene eccessivamente falsato». 108  E adotta il corpo minore, come Marcovich 1999. Anche l’Arrighetti usa il corpo minore, ma limitatamente alla traduzione italiana. 109  Naturalmente non fa differenza ai fini del nostro discorso che l’espun­zio­ne di Arrighetti sia più ampia di quella di Verde. 107

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Senza dubbio sì, se l’edi­to­re sta attento a quello che fa. Ma non sempre il Krautz è stato attento. Pren­dia­mo ad esempio il c. 80 dell’Epistola: ἔτι τε ἀγνοούντων110 καὶ ἐν ποίοις οὐκ ἔστιν ἀταρακτῆσαι . ἂν οὖν οἰώμεθα καὶ ὡδί πως ἐνδεχόμενον αὐτὸ γίνεσθαι, αὐτὸ τὸ ὅτι πλεοναχῶς γίνεται γνωρίζοντες, ὥσπερ κἂν ὅτι ὡδί πως γίνεται εἰδῶμεν, ἀταρακτήσομεν (Krautz 1980, p. 38).

Che cosa pensa il lettore di ? Evidentemente che si tratti di una congettura ex novo. Ma se si fa un confronto con Arrighetti p. 71, ἔτι τε ἀγνοούντων καὶ ἐν ποίοις οὐκ ἔστιν ἀταρακτῆσαι . ἂν οὖν οἰώμεθα καὶ ὡδί πως ἐνδεχόμενον αὐτὸ γίνεσθαι [καὶ ἐν ποίοις ὁμοίως ἀταρακτῆσαι], αὐτὸ τὸ ὅτι πλεοναχῶς γίνεται γνωρίζοντες, ὥσπερ κἂν ὅτι ὡδί πως γίνεται εἰδῶμεν, ἀταρακτήσομεν,

si scopre che il testo fra uncinate è semplicemente una trasposizione. Una nota come « huc traiecit Arr., Von der Muehll secutus» avrebbe chiarito tutto, ma il Krautz non si è scomodato, o forse è rimasto vittima lui stesso della sua pretesa di servire due padroni, da una parte Arrighetti per la constitutio textus, dall’altra Usener per l’arrangiamento delle parti spurie111. C’è comunque chi ha fatto di peggio. Rimettiamoci per un momento nel ruolo dell’editore laerziano ed esaminiamo il libro X del Diogene Laerzio del Reale. Nelle parti epicuree di questo libro gli spuria vengono stampati fra quadre nel testo greco, fra quadre e in corsivo nella traduzione italiana. Il metodo seguìto sembra dunque – a parte lo scambio tonde/quadre – quello di Arrighetti. Ma talvolta gli spuria, presenti in greco, mancano nell’italiano, e nessuna nota ci spiega il perché di questa assenza: il fatto avviene due volte nell’Epistola a Erodoto (c. 51 τὴν συνημμένην τῇ φανταστικῇ ἐπιβολῇ, διάληψιν δὲ ἔχουσαν; c. 75 ἀπὸ τῶν ἀπὸ τοῦ ἀπείρου) e tre nell’Epistola a Pitocle

 In verità qui Krautz ha il refuso ἀγνοντων; e refuso ha Arrighetti: ἀγνοοῦντων. Correggo, ma non tacitamente come altre volte, poiché il piccolo slip dimostra la materiale dipendenza: Krautz voleva cancellare il circonflesso e invece ha cancellato una lettera. 111  Altro caso di incoerenza di Krautz ai cc. 42-43, dove non solo manca lo scolio οὐδὲ γάρ φασιν (…) μεταβάλλονται, come dovrebbe se il testo seguìto fosse – secondo quanto Krautz dichiara – quello di Arrighetti, ma manca anche la frase successiva εἰ μέλλει τις (…) ἐκβάλλειν, che secondo lo Usener – non però secondo Arrighetti – costituiva parte dello scolio. 110

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(c. 88 καὶ οὗ λυομένου πάντα τὰ ἐν αὐτῷ σύγχυσιν; c. 90 ὅσα γε δὴ σῴζει; ibid. ὁμοίως δὲ καὶ γῆ καὶ θάλαττα). A volte lo spurium viene tradotto due volte, sia nel testo a fronte che in nota. Perché? E perché le due traduzioni non sono mai perfettamente uguali e anzi talvolta anche vistosamente diverse? Prendiamo lo scolio al c. 43 e da questo discamus omnia: οὐδὲ γάρ φησιν ἐνδοτέρω εἰς ἄπειρον τὴν τομὴν τυγχάνειν. λέγει δέ, ἐπειδὴ αἱ ποιότη­τες μεταβάλλονται. A p. 1201 la traduzione è: «e neppure la divisibilità degli atomi, come afferma più avanti, può procedere all’infinito. E sostiene questo perché le qualità mutano». Invece la nota 88 a p. 1485 ha: «dice infatti più avanti che non si trova a procedere all’infinito neppure la divisione. E, siccome le qualità cambiano, aggiunge…». I puntini di sospensione non sono miei, ma dell’annotatore. Essi si ritrovano anche nella traduzione di Delattre – Delattre-Biencourt – Kany-Turpin (2010, p. 16), di Rapp (2010, p. 81) e di Morel (2011, p. 62)112, che giudicano incompleto il pensiero, come già Bignone (1924a, pp. 383-384), che ad αἱ ποιότητες μεταβάλλονται aggiungeva αἱ δὲ ἄτομοι οὐδὲν μεταβάλλονται113. Ma nel nostro caso i puntini della nota 88 potrebbero essere nati non da una diagnosi di incompletezza del testo, bensì da un riciclaggio dagli Epicurea della Ramelli, di cui riporto il testo dello scolio, in calce, e la traduzione italiana, sempre in calce: οὐδὲ γάρ φησιν ἐνδοτέρω εἰς ἄπειρον τὴν τομὴν τυγχάνειν. λήγειν δέ, ἐπειδὴ αἱ ποιότη­τες μεταβάλλονται, εἰ μέλλει τις μὴ καὶ τοῖς μεγέθεσιν ἁπλῶς εἰς ἄπει­ρον αὐτὰς ἐκβάλλειν = «dice, infatti, più avanti che non si trova a procedere all’infinito neppure la divisione, siccome le qualità cambiano, se non si vuole farli procedere assolutamente all’infinito anche nelle grandezze, esorbitando» (Ramelli p. 71 nota 3). Lasciando stare «neppure», «esorbitando» e altre cose di minor momento, il punto importante qui è che la nota 88 del Diogene Bompiani è attinta alla nota 3 degli Epicurea Ramelli. Solo che negli Epicurea lo scolio è più lungo, in quanto lo Usener lo fa durare fino a ἐκβάλλειν. Ciò deve aver confuso l’annotatore bompianista, che ha copiato la nota 3 fino a che essa si sovrapponeva allo scolio del Diogene, dopodiché, non sapendo che pesci pigliare, ha chiuso con i tre ambigui puntini. Si osservi anche che quando la nota relativa allo spurium fornisce una seconda traduzione, questa viene introdotta con frasi del tipo: «a questo

 Per essere esatti, il Morel segnala l’incompletezza dello scolio con i due punti e non con i tre puntini; ma sempre di incompletezza si tratta (in ciò il Morel si distacca, senza dirlo, dal Marcovich, di cui adotta il testo). 113  Cfr. Sezione I, cc. 42-43 (b)-(c). 112

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punto nei ma­no­scritti si inserisce la seguente glossa: “dice, infatti…”» (p. 1485 nota 88, su Epist. Herod. 43); «a questo punto nei manoscritti si inserisce la seguente glossa: “di­ce, inoltre…”» (p. 1485 nota 89, su Epist. Herod. 43, secondo spurium); «si ag­giun­ge qui la glossa: “secondo un certo movimento…”» (p. 1486 nota 98b, su Epist. Herod. 50). A volte invece le note non riportano una seconda traduzione, bensì (quattro casi) questa singolarissima avvertenza: «la frase da “e dice più avanti” a “è stato percepito dalla nostra vista” è una glossa che va espunta: e c c e z i o n a l m e n t e l a l a s c i o n e l t e s t o perché aiuta la comprensione» (p. 1485 nota 91, su Epist. Herod. 44); «r i p o r t o n e l t e s t o q u e s t a g l o s s a perché aiuta la comprensione» (p. 1486 nota 116, su Epist. Herod. 74); «il passo è stato espunto in quanto scolio; l o r i p o r t o c o m u n q u e n e l t e s t o perché aiuta la comprensione con un parallelo dall’opera Sulla natura» (p. 1487 nota 127, su Epist. Pyth. 91); «l a s c i o n e l t e s t o q u e s t a g l o s s a perché aiuta la comprensione» (p. 1490 nota 194, su RS I, c. 139) (gli spaziati sono miei). Ora, avvertire che solo alcuni scolii sono presenti quando in realtà sono presenti tutti rivela senza possibilità di errore che i curatori del Diogene Bompiani adottarono un sistema e lo cambiarono in corsa. È plausibile che, essendo già disponibili gli Epicurea della Ramelli (del 2002, mentre il Diogene è del 2005), le traduzioni delle Lettere e delle Sentenze non fossero rifatte di pianta, ma riprese e adattate. Le traduzioni della Ramelli man­ ca­vano degli spuria perché questi nel testo di Usener si trovavano a piè di pagina. Siccome però la strategia edi­to­riale del nuovo Diogene era quella di ormeggiare il Marcovich – il quale da editore laerziano e non epicureo non poteva scor­po­ra­re o eliminare né scolii né glosse – fu necessario reinserire nella tradu­zio­ne italiana sia questi che quelle; e purtroppo il reinserimento fu fatto alla carlona come tutto il resto. Nel greco le parti scoliastiche e glossematiche ci sono tutte (e di questo bisogna senz’altro ringraziare il Thesaurus elettronico), mentre nell’italiano qualcuna manca. Le note che giustificavano l’inserzione solo di alcuni scolii erano in contrasto con la nuova situazione, ma non furono tolte (!). La riprova che nel Diogene Bompiani le versioni italiane del materiale insiticio siano state immesse in un secondo tempo la fornisce inequivocabilmente lo scolio a Epist. Herod. 40 τοῦτο καὶ ἐν τῇ πρώτῃ Περὶ φύσεώς καὶ τῇ ιδʹ καὶ ιεʹ καὶ τῇ Μεγάλῃ ἐπιτομῇ. La traduzione di questo scolio non si trova a fronte, a p. 1199, dove dovrebbe, bensì a p. 1201, dentro il c. 42. La ragione è un banale saut. Lo scolio tradotto doveva essere inserito in mezzo a «inoltre anche tra i corpi» (p. 1199), e invece è andato a finire in mezzo a «inoltre quei corpi» (p. 1201). E non di ἀτύχημα si tratta, ma di ἀδίκημα, perché se si fosse fatto riferimento al greco, invece che all’italiano, forse non ci

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sarebbe stato nessun saut, ben minore essendo la somiglianza fra il c. 40 καὶ μὴν καὶ τῶν σωμάτων e il c. 42 πρός τε τούτοις τὰ ἄτομα τῶν σωμάτων. Una postilla. Si è visto come alcune traduzioni degli Epicurea 2002 siano state riprodotte tali e quali nel Diogene del 2005. Non è un caso unico, anzi è un metodo assiduamente coltivato più o meno in tutti i prodotti della scuola del Reale. Il numero degli esempi sarebbe soverchiante, quindi mi limito a uno. Nel commento ad Aristot. Phys. 196b, Simplicio riferisce che secondo Democrito nulla è dovuto alla τύχη, ma tutto ha una causa: τοῦ δὲ καταγῆναι τοῦ φαλακροῦ τὸ κρανίον τὸν ἀετὸν ῥίψαντα τὴν χελώνην, ὅπως τὸ χελώνιον ῥαγῇ. Il senso è: «il motivo per cui la testa del calvo si rompe è il fatto che l’aquila lascia cadere giù la tartaruga, affinché il carapace si spacchi (e la preda possa essere divorata)» (Simpl. In Aristot. Phys. 330.14 sgg. Diels = Democrito A 68 DK = VIII.B.71.3 Leszl). Ma ecco la traduzione di Matteo Andolfo negli Atomisti Rusconi del 1999: «del prodursi della frattura cranica nella tartaruga è causa l’aquila che la fa precipitare proprio al fine di spezzarne la corazza» (p. 177). Frattura cranica della tartaruga!? A parte l’amenità della cosa, il traduttore non conosce (né evidentemente si cura di cercare sul vocabolario) il significato di φαλακρός, e per di più nulla sa della fiabesca morte di Eschilo, a cui palesemente il testo allude. Ma il motivo per cui ci siamo soffermati sul passo simpliciano non è fare le bucce ad Andolfo, bensì constatare come questa traduzione sia pressoché la stessa che si ritrova – m a a f i r m a D i e g o F u s a r o – nel frammento corrispondente dei Presocratici Bompiani 2006: «del prodursi della frattura cranica nella tartaruga è causa l’aquila che la lascia precipitare, proprio allo scopo di romperne il guscio» (Reale 2006, p. 1241). Non saranno le tre o quattro parole cambiate (e da me segnalate in corsivo) a nascondere l’evidenza del riciclaggio; evidenza che, quand’anche il lessico fosse affatto diverso, prorompebbe dagli errori stessi, in forza del principio maasiano – e tolstoiano – secondo cui tutte le lezioni giuste sono uguali, mentre ogni lezione sbagliata è sbagliata a modo suo114. 10.  Strumenti L’informatica avrebbe dovuto darci libri più belli, e ce ne dà di più brutti; più corretti, e ce ne dà di più sciatti, con sciattezza intendendo ovviamen-

 Segnalo – posto che abbiano senso le segnalazioni singole quando siamo di fronte a un sistema – il caso analogo di una traduzione empedoclea passata da Tonelli a Ramelli/Tonelli (i dati in Lapini 2013a, p. 104). 114

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te non l’errore sporadico – che è umano e fa simpatia – ma bensì l’errore invasivo, protervo, ubiquo. Un tempo era il proto a prendersi le colpe115, ma oggi il proto, questa figura calunniata più dell’upupa, non esiste più: nessuno ricompone i nostri testi, nessuno dà più che un’occhiata alle nostre bozze. Di fatto siamo tutti editori di noi stessi, e quindi per lo più diretti responsabili di ciò che facciamo e di come lo facciamo. L’autrice (far nomi non importa) di uno studio sull’ ἐλάχιστον in Epicuro scrive sistematicamente ἐλαχίστον; l’autore di uno studio sull’etica democritea scrive Δημοκρίτος e Ἀβδηρῖτης; l’autore di un glossario epicureo presenta nei lemmi (nei lemmi!) le erronee accentazioni τυχή e θανατός. La traduttrice di un’opera di Gassendi su Epicuro scambia εἰκόσι con εἴκοσι116. Articoli e libri specificamente dedicati a termini tecnici dell’epicureismo sono tutti un ribollire di συστάσις, αἴσθεσις, αὔξεσις, ἄριθμος, ὑπομνήστικον, ἀκαραῖον, διαλυμένον, γεννετικά, θεωρετά, χρώμετα, ἀγατοῖς, καίρον, λεξέων. Nondi­rado ἄτομος è preso per maschile; nondirado gli Epicurea di Usener sono datati al 1881 anziché al 1887117. I nomi di Bailey, di De Lacy, di Jacoby, di Szlezák, di Laks e della Isnardi Parente sono storpiati in Bayley, De Lacey, Jakoby, Slezák, Láks e M. I. Parenti (sic). Vecchi articoli di precisissima ortografia vengono ripubblicati e riempiti di sbagli: penso in particolare a un volume miscellaneo del 2003 e ai suoi ἀξιώμα, πιθανολούμενον, περιλῆψεσι, υτῇ τὴς φύσεως ατεχνίᾳ (sic), εἴν τὸ μέγεθος ̀ πηλίκοι (sic), ecc.118. Coloro che inconfessatamente guardano alla critica del testo come a una  Sullo scaricabarile che da sempre vige nell’editoria ha scritto un mirabile articolo A. Grafton 1998. 116  Il passo è Diog. Laert. 10.9 χαλκαῖς εἰκόσι τιμήσασα, «la patria onorò Epicuro con statue di bronzo», e diventa (l’autrice è francese) «sa patrie l’a honoré de vingt statues». 117  Ho contato dieci casi, fra cui, inaspettatamente, Marcovich (1988, p. 16 nota 30), il futuro editore di Diogene Laerzio e quindi, volente o nolente, epicureista anche lui. L’origine dell’errore è chiara: lo Usener già nel 1881 dava per finita, anzi per stampata (cfr. Arrighetti 1982, p. 120) la sua raccolta, e infatti la dedica al Bücheler porta come data il 1881. Qualcuno che ha sfogliato distrattamente l’avantesto ha creduto che l’anno della dedica fosse anche quello della pubblicazione. Indi l’errore si è diffuso secondo le leggi della stemmatica. Geer scrive che le Sentenze Vaticane furono pubblicate su «Wiener Studien» 1888 da Usener e Hartel» (e Wotke che fine ha fatto?), e che negli Epicurea di Usener le tre epistole filosofiche, le Ratae Sententiae e i frammenti erano affiancati da una traduzione tedesca (cfr. rispettivamente Geer 1964, pp. 89 e xxxix). 118  Anche argini un tempo robusti hanno ceduto: i frammenti di epistole epicuree Ad familiares pubblicati alle pp. 37-50 del vol. LXXVI dei Papiri di Ossirinco 115

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fola, a una montatura, non hanno che da sfogliare questo libro (i cui curatori non mancano di premettere che la «précision du travail sur les textes» deve stare alla base dell’«inter­pré­t a­t ion philosophique») per capire come i circa 170 interventi di Usener alle Lettere epicuree potrebbero essere persino pochi. Ma le questioni più delicate riguardano i cosiddetti strumenti. Come dobbiamo valutarli? Qual è la loro utilità? Nella Sezione precedente abbiamo già un po’ parlato della scuola di G. Reale. In breve giro di anni questa scuola ha creato, come le grandi maisons, una linea di prodotti completa per lo storiografo della filosofia antica. La procedura è per lo più quella di riprodurre anasta­ti­ca­mente – dotandoli di traduzione italiana, bibliografia e note – libri ormai spariti dal commercio ma tuttora indispensabili. Da questa officina sono usciti gli Atomi­sti DK (Andolfo 1999), gli Stoici dello Arnim (Radice 2002), gli Epicurea di Usener (Ramelli 2002), un Diogene Laerzio (Reale 2005), i Presocratici DK (Reale 2006), il Democrito del Luria (Fusaro 2007) e molto altro. Si tratta di libri robustamente rilegati, a basso costo, e molto user-friendly con le loro sagge ripartizioni, la loro mise en page pulita e razionale, i loro ben scelti titoletti119. Solo che se uno li sfoglia non semplicemente per guardarli, ma per usarli, studiarli, lo spettacolo che gli si apre davanti ha dell’inverosimile: bibliografie di seconda mano, traduzioni impudentemente sbagliate, scrittura sciatta, dati approssimativi, prefazioni fra lo spot pubblicitario e il newtonismo spiegato alle dame. Fra gli strumenti citati sopra, quelli che più interessano lo studioso di Epicuro sono il Diogene Laerzio e gli Epicurea. Su queste due opere – almeno su queste – qualche considerazione è necessaria. I curatori del Diogene Laerzio dichiarano di aver assunto come base la Teubneriana del Marcovich, staccandosene solo raramente e sempre avver­ tendo il lettore dei mutamenti effettuati. In realtà si può facilmente dimo­ strare che il testo greco è stato scaricato dal TLG e che è quindi, di base, quello di H. S. Long. Gli adattatori hanno adeguato una versione all’altra presentano Πραγματεῖα, πασαῖς, διορκητής, σχήμα e τετράγονον nel giro di quattro pagine (dalla 46 alla 50). 119  Nel Tutto Platone tradotto per Rusconi, il Reale scriveva: «il lavoro più faticoso è stato quello dei titoletti (…), rifatti e riveduti più volte» (1991, p. viii). Lo studioso aveva ragione nell’insistere su questo aspetto: ove ben scelti, i titoletti chiariscono idee e concetti meglio di qualunque commento; altra cosa è quando vengono usati come giaculatorie a effetto, per coprire vuoto e pochezza di idee, come vedo accadere anche in uno dei più recenti prodotti della casa: un lungo articolo sull’arithmos nell’Epinomide.

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solo quando le differenze saltavano all’occhio, e avvisato il lettore solo quando se ne sono ricordati. D’altronde le modifiche si individuano facilmente, perché non ce n’è quasi nessuna che non abbia lasciato uno sfregio: ora un accento sparito, ora uno spirito sovrapposto, ora uno scambio di omikron con omega e così via. Causa ed effetto di tutto ciò è l’illimitata possibilità del downloading: quando uno può scaricare con un clic tutto il greco che vuole, non ha più motivo di scriverlo lui, e col tempo ne diventa incapace. Enzo Degani, che non era un misoneista, chiamava il Thesaurus elettronico «il mostro di Irvine». Dubito che Thamus avrebbe ammesso nel suo regno un εὕρημα come questo. Volendo censire le nefandezze compiute dal traduttore e dall’annotatore del Diogene Bompiani non si finirebbe più, quindi mi limiterò a qualche esempio ad apertura di pagina. A p. 1341 nota 236 un mutuare imperativo è stato preso per infinito. In 8.29 il verbo εἴρειν «legare insieme, unire» è stato preso per ἐρεῖν «dire». In 1.61 un γεγωνῇ «gridi» è stato preso per γεγόνῃ «provenga». In 1.84 un τίνων participio è stato preso per τινῶν pronome (supera ogni immaginazione la nota 214 a p. 1320: «ἢν τύχῃς τίνων “se ti capitano alcuni” significa probabilmente “se ti capita di essere accusato”»). In 2.140 la frase ἃ πάντα φησὶν ὁ Λυκόφρων ἐν τοῖς πεποιημένοις σατύροις αὐτῷ, οὓς «Μενέδημος» ἐπέγραψεν è diventata «Licofrone, poeta autore de I “Satiri” scritti da Me­ne­de­mo» (sic: p. 1635 s.v. «Licofrone»). A p. 1370 nota 177 l’indicazione «Plut. De an. procr. 1023B», presa pari pari dal Testimonialapparat del Marco­v ich, è diven­t a­t a «Plutarco, Sulla procreazione degli animali 1023B» (mentre si tratta ovvia­men­ te del De animae procreatione in Timaeo)120. In 1.42 Diogene Laerzio riferisce che i candidati al club dei Sapienti erano diciassette, e li nomina tutti. A contarli però risultano diciotto, perché Λᾶσον Ἑρμιονέα è stato scisso in «Laso» ed «Er­mione»121. E qui mi fermo. Ma lo strumento che ci interessa di più è per ovvie ragioni la raccolta degli Epicurea di Usener, una raccolta invecchiata quanto si vuole, epperò, per comune ammissione, tuttora indispensabile allo studioso di Epicuro. E poiché Usener si rivolgeva ai filologi, e non agli storici della filosofia, una

 Su un errore uguale e contrario richiama l’attenzione A. M. Mesturini 1993, pp. 119-121: un aristotelico De partibus animalium che diventa un De anima (questi presumibilmente i passaggi: da De partibus animae a De part. an. e poi a De an.); solo che qui gli autori dell’errore sono V. Propp e U. Eco, e non filologi classici. 121  Che in italiano è nome di donna peraltro; anche a non sapere di mito, bastava la Pioggia nel pineto. 120

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ristampa con traduzione a fronte sarebbe stata un’occasione magnifica per attenuare la «rigidezza filologica» (Algra 1994, p. 101) di quest’opera così strenuamente elitaria. Pur­t rop­po l’occasione non è stata còlta. Ora vedremo perché. Nella Sezione II di questo studio si è detto che alcuni capitoli del libro X di Diogene sono stati èditi due volte da Usener. Abbiamo parlato di una ‘edi­zione laerziana’ = EL e di una ‘edizione epicurea’ = EE. Abbiamo infine osser­vato che le due edizioni presentano diversità, sia relative alla punteggiatura (frr. 14 [Usener pp. xxix e 96], 584 [Usener pp. xxix e 333], 540 [Usener pp. xxix e 324], ecc.) sia di carattere più sostanziale122: – il fr. 587 è preceduto da lacuna in EE (Usener p. 334), ma non in EL (Usener p. xxviii); – il fr. 594 ha τοὺς οἰκέτας in EE (Usener p. 335), solo οἰκέτας in EL (Usener p. xxviii); – del fr. 62 (Usener pp. xxviii e 118) si è già parlato a lungo (Sezione II, cc. 118-119), e non ripeteremo il già detto; – il fr. 568 ha δέ in EL (Usener p. xxx) e τε in EE (Usener p. 331); – il fr. 1 ha φίλους in EL (Usener p. xxxi) e φιλοσόφους (congettura di Gassendi) in EE (Usener p. 91). L’unico frammento vero qui è il 62, perché unico che contenga, o abbia probabilità di contenere, parole testuali di Epicuro e/o di epicurei. Gli altri, anche se li chiamiamo frammenti, sono testimonianze. Non c’è ragione di stampare in EE un testo differente da EL, e viceversa; perciò le discrasie di 587, 594, 568 e 1 van­no imputate a distrazione: talvolta anche lo Usener dormita­bat 123. Ma passiamo alla Ramelli. Quando il testo di EL e di EE sono uguali, la Ramelli a volte li traduce uguali (frr. 596 [Ramelli pp. 18 e 715], 583 [Ramelli pp. 18 e 711], 574 [Ramelli pp. 18 e 707], ecc.), come dovrebbe essere sempre; a volte invece cambia (frr. 536 [Ramelli pp. 18 e 691], 222a [Ramelli pp. 18 e 383], 226 [Ramelli pp. 18 e 385], ecc.). Ciò vale anche per i titoli delle opere: il Περὶ βίων del fr. 8 è tradotto Sui generi di vita a p. 18 e  Fermo restando che anche la punteggiatura può diventare un fatto di sostanza, come ad esem­pio nel fr. 222a (Usener pp. xxvii e 169). 123  Nel fr. 1 la dormitatio emerge anche dal confronto degli apparati. In EL la congettura φιλοσόφους di Gassendi è respinta ma menzionata, mentre in EE è accolta senza indicazioni di paternità. Solo nell’indice sembra che Usener si avveda – prendendone semplicemente atto – della discrasia: p. 413 s.v. Μυτιλήνη: «celeberrima fuit Epicuri πρὸς τοὺς ἐν Μυτιλήνῃ φιλοσόφους (φίλους libri fr. 1) epistula». 122

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Sui tipi di vita a p. 233124. Il Περὶ αἱρέσεως καὶ φυγῆς del fr. 1 è tradotto Sugli atti di scegliere e di evitare a p. 19 e Sulla scelta e la repulsa a p. 227. Gli Ἐπίλεκτα del fr. 597 sono tradotti Selezioni a p. 18 e Lezioni scelte a p. 715. Non sempre la differenza è di forma: il λόγου del fr. 589 = Diog. Laert. 10.118 è tradotto «ragione» a p. 18 e «parole» a p. 715. Nel fr. 594 = Diog. Laert. 10.118 è mal tradotto τινί (di nuovo pp. 18 e 715); nel fr. 574 = Diog. Laert. 10.118 è mal tradotto οὐδέ (pp. 18 e 707), e così pure nel fr. 578 = Diog. Laert. 10.118 (pp. 18 e 778). Il fr. 19 = Diog. Laert. 10.119 è stampato uguale da Usener a p. xxviii e a pp. 97-98 (come appunto fr. 19) e ancora – terza volta – a p. 130 (come fr. 94), con la differenza che nell’edizione ‘epicurea’ di p. 98 il κατὰ περίστασιν δέ ποτε βίου γαμήσειν è detto «ex alio auctore adsumptum». Quanto alla Ramelli, a p. 18 e a p. 305 traduce effetti­va­men­te il testo di Usener, mentre alle pp. 239-241 passa senza dirlo a quello di Marcovich. Il fr. 591 = Diog. Laert. 10.119 è stampato uguale da Usener a p. xxviii e a p. 335 (a parte una differenza di accento), ma la Ramelli traduce «cercherà di convertire alcuni» a p. 18 e «cercherà di stornare alcuni» a p. 715. La seconda traduzione è accompagnata da questa nota (la nr. 3): «n. d. cur.: diverso il testo di Diogene oggi nell’ed. Marcovich: “alcuni si sposeranno”». Confusione macroscopica: il passo laerziano sul matrimonio è riprodotto da Usener sia come fr. 19 sia come fr. 94. Usener accoglie il tràdito καὶ μὴν καὶ γαμήσειν, mentre è Marcovich che innova: καὶ μὴν μὴ γαμήσειν. La Ramelli fa dire a entrambi il contrario: il fr. 19 è tradotto «il sapiente si sposerà» (p. 239), senza che alcuna nota avverta che il «non» è di Marcovich e non di Usener. Nel fr. 94, stesso testo del 19, il Marcovich è dimenticato, e καὶ μὴν καὶ γαμήσειν è tradotto, come deve, «il sapiente si sposerà» (p. 305). Va da sé, comunque, che lo sposarsi o il non sposarsi del sapiente non hanno nulla a che vedere con καὶ διατραφήσεσθαί τινας: insomma la nota 3 di p. 715 doveva stare a p. 239. Il fr. 63 = Diog. Laert. 10.119 è stampato uguale da Usener alle pp. xxviii-xxix e a p. 119: οὐδὲ μὴν τηρήσειν ἐν μέθῃ φησὶν ὁ Ἐπίκουρος ἐν τῷ Συμποσίῳ. La Ramelli traduce a p. 18 «e neppure agirà in maniera sconsiderata, nell’ubria­chezza, dice Epicuro nel Simposio», e a p. 283 «dice Epicuro nel Simposio che il saggio non parlerà in stato di ubriachezza né agirà in maniera sconsiderata». Anche qui il testo tradotto è diverso da quello che si dichiara di tradurre: «agire in maniera sconsiderata nell’ubriachezza»

 Stessa cosa per il fr. 14: cfr. Ramelli pp. 18 e 237.

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e «parlare in stato di ubriachezza» possono corrispondere al con­getturale ληρήσειν, ma non al tràdito τηρήσειν, che Usener conserva. Il fr. 584 = Diog. Laert. 10.120 è stampato uguale (a parte la punteggiatura) da Usener a p. xxix e a p. 333. La Ramelli traduce φίλην γὰρ οὐδένα κτήσε­σθαι in due modi: a p. 18 «non l’avrà, infatti, come amica in nessun ca­ so», a p. 711 «nessuno, infatti, l’avrà cara». La se­con­da versione non rende il senso, la prima sì (ma la lezione tacitamente accolta è οὐδέν, non οὐδένα). Il fr. 573 = Diog. Laert. 10.120 εὐδοξίας ἐπὶ τοσοῦτον προ­νοή­σε­σθαι, ἐφ᾿ ὅσον μὴ καταφρονήσεσθαι è stampato uguale da Usener a p. xxix e a p. 331. Anche la Ramelli traduce allo stesso modo – ma sbagliato – a p. 18 e a p. 707: «della buona repu­t a­zio­ne (il sa­piente) si preoccuperà tanto quanto di non essere disprezzato». Il senso è invece: si preoccuperà della buona reputazione solo quel tanto che basta a non scadere nel disprezzo. Il fr. 561 = Diog. Laert. 10.121 viene stampato uguale da Usener a p. xxx e a p. 330: οὐ κινεῖσθαί τε ἕτερον ἑτέρου σοφώτερον. La Ramelli traduce «e non si darà un sapiente più sapiente dell’altro» (p. 18) e «e non ci sarà un sapiente più sapiente dell’altro». Il senso è identico, solo che il testo tradotto è di Marcovich e non di Usener. Anche l’importante, fondativa prefazione di Usener esce irriconoscibile dalla traduzione della Ramelli, che vi sparge a pieno θύλακος errori grossolani di lessico, di sintassi e di senso gene­rale. Ecco alcuni esempi, scelti non fra i più gravi, ma fra i più svelti a spiegare. – p. 9 = Usener pp. vii-viii: lo stato in luogo Berolini viene preso per genitivo e riferito a codicem, cosicché salta fuori un mai esistito codice laerziano di Berlino125. – p. 10 = Usener p. xi: novi viene preso per aggettivo e concordato con duos codices referendos (accusativi!); invece deriva da novisse. – p. 10 = Usener p. xii: un latere infinito viene preso per ablativo di latus. Stesso errore a p. 757. – p. 11 = Usener p. xiii: codex bombycinus = «codice di seta». No comment. – p. 12 nota 15 = Usener p. xvi nota 1: «adde Graeco ex v. c. ἀποτηκομένων» = «si aggiunga al greco, per esempio, ἀποτηκομένων». Ma «ex v. c.» non vuol dire «per esempio» (né si vede come potrebbe) bensì «ex vetere codice»126.  Che poi si direbbe codex Berolinensis, non codex Berolini.  Anche se la cosa fosse stata difficile da capire, non occorreva sforzarsi: Usener spiega l’abbreviazione proprio nella nota precedente. 125 126

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– p. 12 nota 16 = Usener p. xvi nota 2: viris (ablativo di vir) = «forze». Anche qui no comment. – p. 17 = Usener p. xxvii: charta = «carta»; invece è il papiro (χάρτης). Stesso errore a p. 20. – p. 25 = Usener p. xl: ponemus = «poniamo, orsù». Errore inverso a p. 649: Hor. Epist. 1.2.46 quod satis est cui contingit, nihil amplius optet = «chi ha in sorte ciò che basta non desidera altro». – p. 32 = Usener p. l: ἐνίο[υς μ]ῦθοι παραδεδώκασιν = «hanno tramandato alcuni miti» (ἐνίους concordato con μ]ῦθοι). – p. 34 = Usener p. liii: «qui etiam operarum erroribus corrigendis curam sollertem adhibuit» = «il quale ha prodigato una solerte cura anche alla correzione degli errori delle opere». Non riconosciuto operae = «operai, operatori, tipografi». Lo stesso càpita alle pp. 16 (= Usener p. xxvi «operae praeposuerunt») e 42 (= Usener p. lxiv «in epistularum fragmentis operae occupabantur»)127. – p. 34 nota 41 = Usener p. liii nota 2: «profitendum mihi erat» = «avrei dovuto trarne profitto» (confusione profiteri/proficere). – p. 36 = Usener p. lvi, citazione da Sen. Epist. 14.17 nunc ad cotidianam stipem manum porrigis. Aurea te stipe implebo. Si parla scherzosamente dell’obolo che Lucilio pretende in chiusura di lettera, cioè, fuor di metafora, una frase senten­ziosa e istruttiva. Ma la Ramelli ha confuso il femminile stips (obolo) con il maschile stipes (bastone). Cosicché ne è venuto fuori «ora porgi la mano per ricevere il bastone quotidiano. Te la riempirò di un bastone d’oro»128. – p. 40 = Usener p. lxi: «oblocuti ei sunt O. Benhardtius Wachsmuthius Gildemeisterus». Nei cola trimembri lo Usener è solito usare l’asindeto (e.g. p. xxii «Demetrium Dioclem Favorinum»; p. xvii «Lachmanni Madvigi aliorum», ecc.), ma la Ramelli non se ne accorge e riduce i tre nomi a due, inventandosi un mai esistito signor O. Bernhardt Wachsmuth. – p. 41 = Usener p. lxiii: «sic qui Perictionae nomen mentitur apud Stob. Flor. LXXXV 19 mulieris victum Epicuri modo ad fines naturae (πρὸς μέτρα φύσιος) revocat (cfr. p. 393)» = «così, colui che finge il nome femminile di Perittione, presso Stobeo, Antologia, LXXV 19, fa rientrare ora il vitto di Epicuro entro i confini della natura (πρὸς μέτρα φύσιος)». Il nome femmi-

 Arrighetti (1982, p. 122) dà almeno una plausibilità al passo.  Facile capire come è andata: non avendo voglia di sfogliare una traduzione di Seneca, e non sapendo il significato di stipem, la traduttrice ha cercato sul vocabolario e trovando stipes si è fermata a quello, senza continuare fino a stips. 127

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nile!? Il vitto di Epicuro!? Ma mulieris sta con victum, e modo è l’ablativo che regge Epicuri129. L’excerptum stobeano citato da Usener si intitola Περικτιόνης Πυθαγορείας ἐκ τοῦ Περὶ γυναικὸς ἁρμονίας e contiene appunto una serie di prescrizioni sul modo di vivere che si conviene alla donna (cfr. rr. 19-20 σκῆνος δὲ ἄγειν χρὴ [sc. τὴν γυναῖκα] πρὸς μέτρα φύσιος τροφῆς τε πέρι κτλ.). Lo Usener insomma voleva dire: «così quell’autore ignoto che presso Stobeo si cela dietro il fittizio nome di Perittione riconduce, secondo principii epicurei, il modo di vivere della donna entro i debiti limiti naturali». – p. 42 = Usener p. lxv: «nego Ciceronem eum fuisse qui philosophum Graecum veritatem spinosa arte exputantem et in viscera rerum penetrantem sequi aut vellet aut posset» = «sostengo che Cicerone non fosse tale da volere o da potere meditare la verità dei Greci con arte spinosa e penetrare nelle viscere della realtà per andare alla sua ricerca». Philosophum è stato soppresso; Graecum è stato preso per genitivo plurale. Tutto il costrutto è stato equivocato (ma il sommo dell’insensatezza è forse «la verità dei Greci»). – p. 46 = Usener p. lxx: il titolo del plutarcheo Περὶ ζῴων ἀλόγων ποιητικός è tradotto «Sul fattore produttivo dei viventi irrazionali». Si tratta dell’opera registrata nel catalogo di Lampria con il nr. 127. Secondo Ziegler è un titolo alternativo del Bruta animalia ratione uti, e «poetico» potrebbe voler dire creativo, fantastico (Ziegler 1965, pp. 82 e 133). Comunque sia, «fattore produttivo» è una traduzione sconcertante. Non minori sfregi nei frammenti e nelle testimonianze epicuree. Pochi esempi: – p. 223 = Usener p. 89: Cic. De nat. deor. 2.17.46 hic quam volet Epicurus iocetur, homo non aptissimus ad iocandum minimeque resipiens patriam = «qui si scherzi quanto vuole Epicuro, uomo non molto adatto a scherzare e che non pensava minimamente alla patria». Il senso vero è: «Epicuro scherzi pure finché vorrà, lui uomo che allo scherzo è negato, e di cui non si direbbe mai che è di stirpe greca». – p. 229 = Usener p. 92: Plut. Adv. Col. 1126A εἰ γὰρ πρὸς Ἀντίδωρον ἢ Βίωνα τὸν σοφιστὴν γράφων ἐμνήσθη νόμων καὶ πολιτείας καὶ διατάξεως, ὡς οὐκ ἄν τις εἶπεν αὐτῷ «“μέν᾿ ὦ ταλαίπωρ᾿ ἀτρέμα σοῖς ἐν δεμνίοις” περιστέλλων τὸ σαρκίδιον κτλ.» = «se nello scrivere ad An­ti­doro o al sofista Bione, Colote avesse fatto menzione di leggi, co­stituzione e ordinamento, non gli avrebbe detto qual­cuno: “ri­mani, o sciagurato, senza tremare nel tuo giaciglio”

  «LXXV» per «LXXXV» è – questa sì – una semplice svista.

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[Euripide, Oreste, 258], mandando in giro la misera carne». Mandando in giro la carne! p. 309 = Usener p. 132 (la nota di apparato) «his epitomis apparet scriptores gnomologos usos esse, conicias etiam Senecam» = «nel caso di queste epitomi, risulta chiaro che gli autori si avvalsero di gnomologi: si confronti anche Seneca». Uti è stato costruito con l’accusativo; conicere è stato preso per conferre. p. 369 = Usener p. 162: Sen. Epist. 26.8 interim commodabit Epicurus, qui ait meditare mortem vel, si commodius sit, transire ad divos. Hic patet sensus: egregia res est mortem condiscere (…). «Meditare mortem» qui hoc dicit, meditari libertatem iubet = «intanto tornerà comodo Epicuro, il quale dice di meditare sulla morte, o, se va meglio, passare agli dei. Il senso, qui, è chiaro: è una cosa eccellente imparare la morte (…). “Meditare la morte”: chi dice questo, impone di meditare la libertà». L’imperativo meditare è stato preso due volte per infinito, anche per attrazione di transire ad divos. Ma transire ad divos è l’eufemismo di mortem. Senso: «“pensa alla morte”; o, se la parola “morte” non piace, parliamo pure di “migrare fra gli dèi”». p. 509 nota 1 = Usener p. 232, nota di apparato al r. 10, i.e. su Cic. De nat. deor. 1.16.43 = fr. 352 Us.: «Tulliana quamvis non sint de fonte excepta, tamen (…) deesse nolui» = «benché non siano informazioni tratte dalla fonte di Cicerone, tuttavia (…) non ho voluto che mancassero». Grave ed esteso equivoco (in parte provocato dall’errore di genere: fons è maschile). Usener voleva dire: anche se le parole ciceroniane del passo del De natura deorum non dipendono da una fonte greca, cioè Epicuro o qualche epicureo, ho deciso di inserirle lo stesso. p. 661 = Usener p. 308 = Lact. Div. inst. 3.17.38 = fr. 491 Us.: «carpendi Epicuri caussa» = «per cogliere il pensiero di Epicuro». Ma carpere vuol dire cri­t icare, attaccare, sferzare130. Un altro carpere viene mal interpretato a p. 797 (nel sussidio esegetico, Usener p. 376). Equivocato a p. 809 anche un perstrin­g i­tur (Usener p. 382). p. 667 = Usener p. 311: κολούουσι = «precludere» e (stessa pagina) «impedire»: confusione κολούειν/κωλύειν. p. 671 = Usener p. 313: Sen. De vita beata 9.4-5 hominis bonum quaero, non ventris qui pecudibus ac beluis laxior est (…). Ego enim nego quemquam posse iucunde vivere, nisi simul et honeste vivit. Quod non potest mutis contingere animalibus nec bonum suum cibum metientibus = «io vado ricercando il bene

 La frase finale della citazione da Lattanzio, hoc ille etiamsi non dicit verbo, re tamen ipsa docet, è tratta fuori dal virgolettato e attribuita a Usener! 130

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dell’essere umano, non del ventre, che è più insaziabile di quello degli animali domestici o selvaggi (…). Il che non può capitare agli animali, privi del dono della parola, che non misurano il proprio bene in base al cibo». E da che cosa gli animali dovrebbero misurare il bene? Si intenda: «agli animali e a coloro che misurano» ecc.; sbagliata è anche la resa di qui pecudibus ac beluis laxior est, il cui vero significato è: «che negli animali è più grande (sc. il ventre)». – p. 677 = Usener p. 316 (nota di Usener in apparato al r. 31) ἐπεὶ δὲ ἡ φρόνησις οὐχ ἕτερόν ἐστι τῆς εὐδαιμονίας κατ᾿ αὐτὸν ἀλλ᾿ εὐδαιμονία κτλ. (da Plut. De Stoic. rep. 1046E) = «poiché la saggezza non è qualcos’altro rispetto alla felicità, di per sé, bensì la felicità stessa». Κατ᾿ αὐτόν («a suo parere») è stato confuso con καθ᾿ αὑτήν («di per sé»). – p. 701 = Usener p. 328 (il fr. 552 Us.) «comicus Sotionis ap. Athen. VIII p. 336F (Com. t. III p. 395) ἀρχαὶ δὲ πρεσβεῖαί τε» = «Sozione comico, ap. Ateneo, Deipnosofisti, VIII»: comicus è stato concordato con Sotionis. L’impreparazione e la fretta non bastano a spiegare questi disastri. Altrettanto ha pesato, io credo, l’indifferenza nei confronti del lettore. Forse si è pensato che importasse poco tradurre bene o male un frammento o una frase purché ne venisse fuori una parvenza di senso; il che però non sempre succede (anzi spesso non succede neanche quando la traduzione è formalmente esatta). Quanto alla Praefatio e alle annotazioni di Usener, è possibile che non si sia neanche presa in considerazione l’eventualità che qualcuno le leggesse davvero. Le stesse osservazioni che abbiamo fatto sul Diogene Laerzio e sugli Epicurea si potrebbero ripetere pari pari per tutti gli altri prodotti della scuola del Reale: gli Stoici di Radice, i Presocratici, il Democrito (anzi i Democriti) ecc., anch’essi pieni di sciattezze, fraintendimenti, errori gravissimi. Certi aspetti di questa scuola – l’iperattivismo, i pochi scrupoli, l’autopromozione – ricordano il famigerato «Centre» di J. Bollack; con la differenza che i bollackiani rifiuta­vano la Methode, ma non davano l’impressione di ignorarla, mentre i Bompianisti dei nostri giorni, s’intende con le dovute eccezioni, sembrano semplicemente impari al compito. Per rimediare a questa situazione – una delle tante in cui si rispecchia la generale decadenza degli studi antichi – non serve scrivere l’ennesimo pamphlet sull’attua­lità e utilità dei classici; serve invece ritornare al basic, al grammatisch, smettendo di con­si­derare difetto più grave una falla bibliografica che un errore di lingua. Ma urge so­prattutto, come ripeto, una riflessione sul problema degli strumenti. Gli stru­menti sono un settore strategico e occorre riappro­priar­sene, contendendo il terreno metro per metro

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ai dilettanti e agli improvvisatori. Qualche segno di reazione, almeno per quanto riguarda l’autore di cui ci stiamo qui occupando, si comincia a vedere. T. Dorandi ha da po­co pub­bli­cato un Diogene Laerzio che farà scuola, ed è negli auspici di tutti, oltre che nella logica delle cose, che questo studioso voglia un giorno rieditare, in un’ottica epicurea e non più laerziana, le tre Epistole filosofiche e le Sentenze. Epicureisti e/o enoandisti di sempre come D. Sedley, M. Erler, M. F. Smith e J. Hammerstaedt continuano instancabili ad ero­ga­re alla co­mu­ni­t à scientifica contributi di immenso valore; uno studioso di scetticismo del ca­li­bro di E. Spinelli è ormai diventato, a tutti gli effetti, anche uno studioso epi­cu­reo, e con lui il suo giovane allievo F. Verde (da cui ho spesso dissentito in queste pagine, ma di cui onoro la bravura e la laboriosità). La tenace scuola napole­t ana porta avanti di generazione in generazione le sue preziose ricerche sul materiale ercolanese. E molto ci si aspetta dal gruppo dei giovani epicureisti pisani guidati da Mauro Tulli e dall’epicureista prin­cipe del Novecento, maestro e donno di tutti noi, Graziano Arri­ghetti. Nel cui nome, come questo libro è co­minciato, così mi piace che fini­sca.

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1

 Le date si riferiscono alle edizioni effettivamente utilizzate.

Walter Lapini, L’Epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio. Note testuali, esegetiche e metodologiche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015 ISBN (stampa) 978-88-6372-827-9 (e-book) 978-88-6372-828-6 – www.storiaeletteratura.it

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Indice dei nomi moderni

Adler A., 47 e n, 124 Adorno F., 14n, 17n Alberti A., xiiin, 63n, 64n, 70 e n Alesse F., 164n Alfano Caranci L., 17n, 79n Algra K. A., xiiin, 228 Amato E., 193n Amyot J., 145 Andolfo M., 224, 226 Angeli A., 7n, 122n Annas J., 14n, 42n, 48, 49, 82-84, 86n, 147n, 182n, 206 Apelt O., 23, 24, 28, 41-43, 48, 49, 54, 55 e n, 57, 92, 93n, 96n, 99n, 103n, 115, 119, 130 e n, 139n, 143, 146n, 149, 166, 167n, 188 Arkins B., 159n, 166 Armstrong D., 171n Arndt W., xin, 3, 5, 12n, 14, 15n, 101, 178n, 181n, 195 Arnim vedi Von Arnim Aronadio F., 120, 139n Arrighetti G., xii, xv-xix, 4, 6n, 9 e n, 10n, 14 e n, 16, 17n, 19, 21 e n, 24, 25n, 28, 29, 36, 37, 39 e n, 40 e n, 43n, 44 e n, 46-49, 52, 54, 56 e n, 58-61, 63-65, 68, 69n, 73, 74,

77, 78, 81-83, 87n, 89-95, 97, 98n, 101 e n, 107-114, 119, 120, 123 e n, 125, 130-133, 136, 138, 140n, 141n, 143, 145, 149, 151 e n, 156 e n, 159, 167, 170, 175-177, 186n, 187n, 189n, 192n, 194, 197, 209, 215, 216, 219-221, 225n, 231n, 235 Asmis E., 14n, 15n, 172 Ast F., 87 e n Avotins I., 51, 53n, 187n Axelson B., xii, 207 Babut D., 26 Bailey C., xviii, 4, 5, 14n, 19, 24, 27n, 28, 30n, 36-39, 41-43, 45, 46, 48-53, 55 e n, 56n, 59n, 63 e n, 65n, 66n, 69 e n, 74-77, 82-84, 86, 95 e n, 97-99, 105n, 114n, 115, 130, 146n, 150, 153n, 155n, 157n, 176n, 186n, 189, 190, 193, 196, 204, 209, 219, 225 Balaudé J.-F., 7n, 9n, 15n, 24, 27n, 28, 43 e n, 47n, 48, 57, 82, 84, 98n, 99n, 102n, 103n, 105 e n, 114n, 115, 123, 139n, 143 e n, 197 Balmuş C. I., 44n, 83n

Walter Lapini, L’Epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio. Note testuali, esegetiche e metodologiche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015 ISBN (stampa) 978-88-6372-827-9 (e-book) 978-88-6372-828-6 – www.storiaeletteratura.it

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Barigazzi A., 40n, 42n, 68n, 153 e n, 159n, 164n, 166, 167n Barnes J., 121n, 123, 139 Barrett W. S., 183 Bartoletta F., 17n, 27n, 28n, 109, 209 Basso S., xxi Bast F. J., 15n, 62n Battegazzore A. M., xxii, 206n Beghini A., xxii, 194n Bekker I., 177 Bellandi F., 165n, 168n Bénatouïl T., 139n Bentley R., xin Bernhardt O., 231 Bertagna I., xxii Betegh G., 17n, 21 e n, 22, 63n, 184n Bicknell P. J., 180 Bignone E., xii, 4-7, 9, 14 e n, 15, 19 e n, 21-26, 32n, 39, 41n, 43 e n, 50, 52, 53, 60 e n, 63n, 65, 67, 74, 91, 95n, 97, 99n, 100 e n, 105, 108, 112, 113, 115, 120-123, 127, 138140, 145, 147n, 149, 167, 169-172, 177-179, 181, 184, 186-188, 191-193, 201-204, 209 e n, 210, 222 Blanchard A., 153 Blaydes F. H. M., xiv n Bloch O., xiiin, 40, 197 Boas G., 123 Bockenmueller F., 114, 115 Bodnár I. M., 189 Bollack J., xii, 5n, 10n, 11n, 15n, 19n, 27n, 28n, 40, 43, 87n, 98n, 103n, 114n, 116n, 146n, 150n, 165n, 166, 169n, 177, 182, 194, 196, 197 e n, 201, 203n, 234 Bollack M., 5n, 10n, 11n, 15n, 19n, 27n, 40, 43, 87n, 98n, 103n, 114n, 116n, 203n Bommelaer B., 179n Borges J. L., 185n Boudon V., 154 Bouffartigue J., 154, 158n Boulogne J., 34n, 209n

Indice dei nomi moderni

Boyancé P., 5n, 20n, 82n, 196, 197 e n Brancacci A., xxii Bredlow L. A., 6n, 28, 41, 44n, 57, 63n, 71, 73, 75, 100n, 108-110, 115, 116, 136, 137 e n, 139n Brennan T., 151, 158n, 160, 163n, 164n, 168 e n Brescia C., 47n, 170n Brieger A., 3, 4n, 14, 23, 26, 40, 64, 67, 71, 77, 78 e n, 81, 101, 114 Broadhead H. D., xin, 183 Brown E., 153n, 182n, 187 Brown R. D., 94n, 150n, 156n, 159n Bruhn E., 194n Bruns I., 38, 195 Brunschwig J., 206n Bücheler F., 225n Bury R. G., 26 Burzacchini G., xxii Buzzati D., 198 Bywater I., 36, 100n Calabi F., 206n Campos Daroca F. J., 5n, 159 Canfora L., 194n Capasso M., 122n Caretta A., 17n, 27n, 28n, 34n, 94, 109, 210, 212n Casanova A., xxii, 32n, 85n, 155n Casaubon I., 37, 98n, 136n, 142n, 151, 156n, 164, 167 Casaubon M., 8n, 145 Càssola F., 208 Cataudella M., xx, xxii Cecchi F., xxi Celluprica V., 121n Cerasuolo S., 153-155, 158n, 160n, 162 Chiaradonna R., xxi, 104n Chiesa B., xv e n Chilton C. W., 31, 32n, 85n, 129, 151, 160n, 164 e n, 167 Ciani M. G., 19 Citti V., 185n

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Indice dei nomi moderni

Clay D., xv n, 18n, 129, 144n, 153n, 155n, 183n, 185n, 186n Cobet C. G., 11, 12n, 15n, 43n, 46n, 48, 49, 61, 100n, 116n, 119, 120, 122, 137-139, 155n, 160n, 162n, 168n, 176, 185, 201, 206n Conche M., 14n, 27n, 28, 36n, 41n, 42n, 44n, 46, 52, 72, 106, 108n, 109, 115, 219 Corcella A., 193n Corradi M., xxii, 122n Corti A., 87n, 137n, 146n, 148n Coutant V., 202 Crönert W., 3, 9n, 16, 21, 22n, 86, 120, 133, 134, 143n, 181 e n Cucinotta E., xxii Dale A. M., 177 D’Alessandro G., xxii, 47n D’Andrea A., 14n Decleva Caizzi F., xxii, 124n De Falco E., 17n, 27n, 28n, 83, 84, 127n, 139n, 209n De Falco V., 24 e n, 110, 220 Degani E., 177, 227 De Lacy P., 31n, 50n, 86n, 128n, 129n, 225 Delattre D., 14n, 30n, 44 e n, 46, 51, 54, 63n, 69n, 71, 83, 97n, 103n, 109, 123, 124, 130n, 150, 169n, 194196, 199, 219n, 222 Delattre-Biencourt J., 14n, 30n, 44n, 63n, 71, 83, 103n, 109, 123, 124, 130n, 139n, 150, 169n, 195n, 219n, 222 Delz J., 199 e n De Martino F., 129 Denniston J. D., 212, 217, 218n De Sanctis D., xxii, 5n, 171n Des Places E., 144 Dessì A., 154n Detel W., 18n DeWitt N. W., 14n, 39 e n, 52, 53, 168 Diano C., xii, 4, 8-12, 17n, 25n, 84n, 114n, 125, 126, 149, 151, 170

Diels H., 14, 15n, 20n, 31, 47n, 73n, 81, 83n, 92-94, 125, 127, 143n, 179n, 194, 206, 224, 226 Diggle J., 194n Dimakis P. D., 132n, 134n Di Marco M., 128, 129n, 186n Di Matteo T., 163n Dindorf W., 20n, 155 Domingo-Forasté D., 20n Donadi F., 200n Donato M., xxii Donini P., 207n Dorandi T., xiv, xvii e n, xxi e n, 12n, 13 e n, 20, 30n, 44n, 49n, 62n, 72n, 100 e n, 101n, 120, 125, 132-134, 137n, 138 e n, 142n, 147n, 150, 153n, 155-157, 160n, 171, 172, 180, 181, 218, 219, 235 Dougan T. W., 161, 163n Drachmann A. B., 27n, 36, 99n Drozdek A., 190n Dübner F., 26 Duening H. H. A., 135, 136n Duke E. A., 47n Duvernoy J.-F., 87n, 158n, 171n Eco U., 227n Erbì M., xxii, 158n, 171n, 182n Erbse H., 128 Erler M., 69n, 82n, 96n, 121-123, 128n, 129, 137n, 148n, 150n, 163n, 171n, 172n, 185n, 187n, 235 Everson S., 17n, 84n Fabricius I. A., 55n Farrington B., 129n Ferrario M., 187n Festugière A.-J., 121 e n Finglass P. G., 180 Fischer C. T., 193 Fish J., 158n Flaiano E., 163n Foerster R., 110, 183n Fowler P. G., 15n

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Fraenkel E., 206n Fraisse J.-C., 171n Freudenthal J., 121n Fuhrmann M., 116n Funghi M. S., xxii Furlanus D., 202 Furley D., 64, 65, 67, 68, 70-72, 163n, 203 Fusaro D., 186n, 224, 226 Gallo I., 129n García Calvo A., 10n Gargiulo T., 122n, 128n Garofalo I., 66 Garvie A., xiiin, 191n Garzya A., 27n Gassendi P., xiii e n, 10n, 14, 15, 30, 40, 54, 59, 61, 62, 64 e n, 76, 81, 92 e n, 95, 101, 104n, 110, 112, 114, 120, 121n, 127n, 130 e n, 131, 135, 152, 154n, 168, 170, 178, 225, 228 en Geer R. M., 36n, 42, 53, 83, 109, 225n Gemelli B., 171n, 176n Gemelli Marciano M. L., 31n Genaille R., 130n, 146n, 161, 168n, 170n Gerson L. P., 14n, 16n, 30n, 45, 48, 49, 57n, 63, 71, 83n, 106n, 109, 150, 162, 168n, 219 Gerth B., 135n, 164 Gertz M. C., 194n Geymonat M., 184n, 199n Giannantoni G., 139n, 206n Gigandet A., 14n, 24n, 55n Gigante M., xiiin, 6n, 24, 28, 43n, 48, 57, 83 e n, 97n, 99n, 103n, 115, 123, 139n, 140n, 141n, 164, 168 e n, 175n, 186n, 203, 204n Gigon O., 82n, 146n, 162 Gildemeister J., 231 Gill C., 82n, 85, 218n Giovacchini J., 15n, 26n, 56n, 69n, 84, 220

Indice dei nomi moderni

Giussani C., 9, 14 e n, 17 e n, 18, 28n, 43n, 50, 51, 63 e n, 70, 71, 73-75, 77, 78 e n, 80n, 82n, 86n, 92, 94n, 182n, 186n, 189, 192 Giusta M., xv n, 145-147, 149-151, 156n, 157n, 160n, 162, 163n, 165n, 169 Glidden D. K., 50n, 57 Gomperz T., 135, 136n Gordon P., xviin, 5n Gottschalk H. B., 68n, 218n Grafton A., 225n Green P., 194 Grilli A., 15n, 27n, 43, 103n, 156n, 160n, 163-166, 183, 197, 205 Gurd S. A., 185n Haase F., 163n, 165n Hall F. W., 155n Hamelin O., 18n, 34n, 85, 109 Hammerstaedt J., xxi, 15 e n, 30n, 87n, 117, 150, 159n, 235 Hankinson R. J., 113n, 208n Harles G. C., 55n Haslam M., 191n Haury J., 5n Hayduck M., 102n Headlam W., xiv n Heiberg J. L., 115 Heidel W. A., 14 e n, 15, 23, 40, 43n, 45n Heidsieck F., 105 e n Heimsoeth F., 194n Heine O., 163 Heinze R., 20n, 27n, 77, 85n Helm R., xiin Helmig C., 55n Helmreich G., 5n, 110, 135n Henry P., 100n Henry R. M., 161, 163n Hermann K. F., 23, 25, 81, 101-103, 151, 181 e n Hervet G., 161 Hicks R. D., xviii, 9n, 24, 28, 42n, 43 e n, 48-50, 52, 53, 55 e n, 57, 73, 74, 97n,

Indice dei nomi moderni

99n, 103n, 114n, 115, 122, 123, 130n, 140n, 143, 151, 164n, 167-169, 172, 178, 189, 199, 200, 203, 205n, 206n Hirzel R., xv n, 9, 11 e n, 128n Holmes B., 164n Holwerda D., 99n, 121n Hope R., 130n Hossenfelder M., 68n Hourcade A., 15n, 42n Housman A. E., xii Huebner H. G., 77, 120, 121n, 155n Humbert J., 162 Inwood B., 14n, 16n, 30n, 45, 48, 49, 57n, 63, 71, 83n, 106n, 109, 150, 162, 168n, 209, 219 Ioppolo A. M., xx Isnardi Parente M., 9n, 25n, 27n, 28n, 30n, 45, 46, 82n, 83, 97n, 99n, 103n, 109, 114n, 115n, 130n, 139n, 140n, 167, 170n, 209n, 225 Jackson J., 27n, 100n, 127, 135n, 142n, 192n Jacoby F., 225 James H., 83 Jebb R., 191 Jufresa M., 129n, 167n Jürß F., 6n, 24, 28, 42n, 46, 48, 83, 84, 95n, 99n, 103n, 105, 115, 116, 139n, 206n Kaltwasser J. F., 145 Kany-Turpin J., 14n, 30n, 44n, 63n, 71, 83, 103n, 109, 123, 124, 130n, 150, 169n, 219n, 222 Kechagia E., 31n Kerferd G. B., 85-87, 177 King J. E., 160 e n, 161 e n Kingsley P., xiiin Kitzler P., xx Kleve K., 7n, 10-12, 18, 148n Kochalsky A., 4n, 12, 17n, 20-22, 24, 28, 38, 41n, 46, 59, 61, 64, 67, 71n,

273

73, 74, 83n, 92, 119, 121n, 127 e n, 130n, 145, 147n, 149, 150, 156n, 169, 171, 181, 182, 185, 188, 193n, 209n Koenen M. H., 58n Konstan D., xv n, 17n, 24 e n, 63n, 69n, 75, 76 e n, 82n, 146n, 190n, 204, 212, 218n Körte A., 153 e n Kranz W., 31, 47n, 93, 94n, 143n, 194, 206, 224, 226 Krautz H.-W., 4n, 10n, 14n, 28, 46, 63, 83, 91, 92n, 94n, 99n, 100n, 109, 115, 209n, 211, 220, 221 e n Krebs J. T., 145 Kroll W., 48 Kuehn J., 9, 10n, 12, 15n, 21, 37, 77, 114, 116, 122, 125, 169, 170 Kühn C. G., 152, 154 e n, 160 Kühner R., 135n, 164, 177 Lachmann K., 231 Laks A., 73n, 120, 121 e n, 123, 124, 127n, 130n, 131n, 133, 135n, 136, 139n, 140n, 143 e n, 204n, 225 Lambardi N., 162n Lapini W., xix, 8, 9n, 62n, 88n, 119n, 125, 126, 130, 131, 142, 145n, 161n, 179n, 183n, 194n, 199n, 224n Lathière A.-M., 82n Laurand V., 139n Laursen S., xviii, 41n Lechi L., xviiin, 11n, 25n, 28, 30n, 55, 73, 80, 107n, 109n, 116n, 120n, 121n, 123n, 124, 139, 140n, 144n, 146n, 149n, 156n, 167n Lee E. N., 14n, 42n, 56n, 188, 189 Legrand E., 182n Lembo D., 7n Leone G., xix, xxi, 8, 9n, 38n, 41n, 59, 73, 122n, 126n, 183n, 185n, 186n, 192n, 209n Leopold I. H., 27n, 81, 83n, 92n, 97, 108, 109 e n, 115n, 185

274

Leszl W., 30n, 31 e n, 47n, 93, 94n, 105n, 160, 208, 224 Littré É., 169n Lloyd-Jones H., xiii Lombardo A., 203n Long A. A., 15n, 20n, 21, 25n, 26, 35, 43 e n, 44n, 46, 56n, 58n, 63, 66n, 83n, 84n, 86n, 96, 98, 99, 129n, 147n, 148n, 153, 171n, 183n, 184n, 186n, 226 Long H. S., 6n, 15n, 43 e n, 61n, 102n, 160n, 165, 166, 170, 171n, 219 Longo Auricchio F., 122n Longrigg J., 58n López Martínez M., 5n, 159 Lorimer W. L., 59 Lucarini C. M., 87 Luján Martínez E. R., 10n Luna C., 102n Luria S., 226 Maas P., 183n Macé A., 139n Macleod C. W., 199n Madvig J. N., 88n, 181, 231 Magnaldi G., xix Maltese E. V., 186 Mansfeld J., 104n, 188, 193 Manuwald A., 14n, 42n, 100n Marchiori A., 200n Marcovich M., 4, 5 e n, 9, 10n, 12, 13n, 30n, 39, 43n, 61n, 63n, 94n, 98n, 100 e n, 104n, 115, 119 e n, 120, 122, 126, 131, 135-138, 141 e n, 145, 146n, 149, 151, 153, 155, 157n, 160n, 161n, 164-168, 171 e n, 180, 192, 219, 220n, 222n, 223, 225-227, 229, 230 Maréchaux P., 193n Marinone N., 162 Marrou H.-I., 155 Martin T. W., xv n, 203n Martinelli Tempesta S., xxi e n Masi F. G., 56n, 84n

Indice dei nomi moderni

Maso S., 20n, 28n, 55, 83 e n, 128n, 129n Massa Positano L., 6n, 24, 42n, 43n, 50n, 51n, 83, 99n, 103n, 114n, 115n, 130n, 138n, 140n Mastromarco G., xxii Mau J., 61, 63 e n, 68, 71-74, 189, 199n, 203, 211 Mazzara G., 206 Mehl D., 82n, 86n Meibomius M., 4, 8, 9, 12 e n, 21-23, 38, 90, 92, 95-97, 110, 112 e n, 116n, 135, 136n, 162n, 185 Meineke A., 158 Mejer J., 121n, 139n, 178 Menagius Ae., 127n, 131, 151, 155 e n Menci G., xxi Merbach F., 14 Merlan P., 14n, 195, 196, 201 Mesturini A. M., 227n Milanese G., 100n, 185n, 209n Mitsis P., 148n Momigliano A., 175n Mondésert C., 155 Montanari E., 74, 183n, 189 Montanari F., xxi, xxii Montarese F., 4n, 22n, 57n, 144n, 218n Monti A., 197 e n, 198n, 218n Monti Tenti vedi Tenti Monti Morel P.-M., 15n, 17n, 22n, 24 e n, 2736, 46, 50n, 54, 57, 60, 63, 66n, 6972, 84, 94n, 105n, 109, 115n, 139n, 146n, 150, 171n, 172n, 184n, 188, 203n, 206 e n, 208, 222 e n Moreschini C., 87 Morrison A. D., 172 Morrison J. S., 208 Muller R., 136n, 153 e n Müller-Strübing H., 194n Mutschmann H., 26n, 128n Nauck A., 26n, 154n, 158n Nestle W., 208

Indice dei nomi moderni

Nickau K., 25n Nietzsche F., 120n, 121n, 139, 140n Nisbet R. G. M., xin Norrmann L., 116n Norvin W., 116n Nussbaum M., 153-155 Nutting H. C., 161 O’Brien D., 207n O’Connor D., 171n O’Keefe T., 52n, 69n, 208 e n Ortiz J., 30n, 94n, 107n, 109n, 120n, 144n, 167n, 218 Paap A. H. R. E., 182n Pagani L., xxi Page D., 183 Paradiso A., 47n Parenti A., xxi Pascal C., 100n Pasquali G., 47n, 183, 199n Passa E., 187 Patillon M., 28, 47, 116n Peabody A. P., 161 Périllié J.-L., 123, 171n Philippson R., 42n, 129n Pingree D., 22n Podolak P., 182n Pompella G., 199n Porter J., 15n, 126 Potter J., 27n, 155 e n, 161 Pozdnev M. M., 186n Prauscello L., 208 Propp V., 227n Puglia E., 187n, 189n Purinton J., 69n, 159 e n, 160 e n, 163n Querzoli A., 28, 60n, 109 Radermacher L., 45n, 110, 135n, 171n Radice R., 226, 234 Radt S., 25n Ramelli I., 6n, 10n, 14, 24 e n, 28n, 45, 46, 48, 60n, 70, 94, 98n, 99n, 103n,

275

114n, 115n, 121n, 123n, 127n, 130n, 140n, 141n, 144n, 151, 154, 162, 166 e n, 167n, 205n, 216, 217 e n, 222-224, 226, 228-231 Rapp C., 14n, 28, 30n, 57n, 63, 71, 83n, 107, 109, 219, 222 Reale G., xx, 24 e n, 48, 57, 61n, 71, 72, 83, 97-99, 105n, 123, 136n, 139-141, 146n, 165, 166, 171n, 221, 224, 226 e n, 234 Regali M., xxii, 11 e n, 12 Regtuit R. F., 20n, 25n, 171n Reiske J. J., 177 Renehan R., 144, 199 e n Renna E., xv n Repici L., 82n, 86n, 88n, 94 Richards H., 179n, 182n Rijksbaron A., 218n Riley M. T., 148n Rist J. M., xin, 14n, 74, 82n, 87n, 148n, 165n, 167n Ritter H., 152, 156 e n, 157 Robinson T. M., 206n Robortello F., 199 e n Roeper G., 7n, 10n, 131 Romaschko S. A., 186n Roncali R., 206n Roskam G., 5n, 128n, 158n Rossi I., 43n, 83, 84 e n, 122 Russell D. A., 101n, 140n Russello N., 6n, 48, 49, 53, 54, 95n, 97n Sabato F., 129 Salanitro G., xx, 102n Salem J., 24, 68, 104n, 159n, 178 Salvaneschi E., 10n Salvatore A., xiin Samarati L., 17n, 27n, 28n, 34n, 94, 109, 210, 212n Sammartano R., 124, 127n, 209 Sandbach F. H., 31n Sansone D., 208 Santese G., 153n

276

Sartori F., 24n Scheer E., 124 Schiesaro A., 47n Schmid W., 99, 139n, 186n Schneider J. G., xiv, 3, 4, 12n, 21 e n, 23, 30n, 44n, 49n, 54, 63, 64, 67, 72n, 74, 76, 77, 81 e n, 83 e n, 84n, 92, 93n, 95, 98, 101, 106, 107, 202, 218n Schofield M., 50n, 128n, 150n Schrijvers P. H., 93 e n, 94n Schwartz E., 219 Schwartz J. C., 34 Schwyzer H.-R., 100n Sedley D. N., 4n, 10n, 12, 14n, 15n, 20n, 21, 25n, 26, 32, 33, 35n, 38, 43 e n, 44n, 46, 47n, 58n, 63, 78n, 83n, 84n, 86n, 87n, 90, 96-99, 108, 109 e n, 122n, 147n, 153, 180n, 184n, 186n, 196, 204n, 206, 209, 235 Segonds A., 5n, 102n Seiler I., 38 Sens A., xii, xixn Shakespeare W., 203n Sharples R., 84n Sider D., 156n, 169 Silvestre Pinto M. L., 35n Slings S. R., 212n Smith M. F., xviii, xxi, 31, 32n, 85n, 117, 129, 159n, 209n, 235 Smith O. L., 124 Solmsen F., 104n Solovine M., 16n, 25n, 28, 30n, 44n, 124, 138n, 147n, 188 Souilhé J., 19 Spinelli E., xxin, 182n, 235 Stählin O., 155 Stearns J. B., 150, 153n, 159 Steckel H., 87n, 123, 144n, 192n Steup J., 194n Stolle G., 140n Striker G., 50n, 52n Strozier R. M., 6n, 42n

Indice dei nomi moderni

Sylburg F., 155 Szlezák T., 225 Tammaro V., 129n Taussig S., xiiin, 127n Taylor J., 145 Tenti-Monti vedi Tenti Monti Tenti Monti C. M., 197 e n, 198n, 218n Teodorsson S.-T., 94n, 155n Tepedino Guerra A., 36, 122n, 187n Tescari O., 19n, 38, 43n, 75, 84 Thomas E., 4, 8 Thyresson I. L., 6n, 23n, 28, 29n, 44 e n, 65n, 70n, 76n, 81, 101n, 107, 108, 210-212, 219n Timpanaro S., xin, 144, 178n, 202 Tonelli A., 224n Torre C., 158n, 165n Tosi R., xviin, xxii Toti A., xxi Traglia A., 162n, 182n Trépanier S., 197n Treu U., 155 Tuilier A., 171n Tulli M., xxii, 7n, 196, 235 Untersteiner M., 39n, 177-179, 182n, 183n Usener H., xii-xvi, xviii, 3-6, 9 e n, 10n, 12 e n, 14-16, 19-23, 25, 27 e n, 30n, 36-38, 40 e n, 41, 43 e n, 45 e n, 47n, 49n, 54-67, 70n, 74-83, 85-87, 90, 92, 94n, 95, 97-99, 101-104, 106-108, 110-115, 117, 119, 122, 123, 125-129, 131, 133-138, 140, 142, 143 e n, 145, 146n, 148-160, 162, 163n, 166 e n, 167 e n, 169-172, 175-182, 186-188, 191, 192, 194, 196, 198, 201, 205, 209, 210, 217 e n, 219-223, 225-234 Vander Waerdt P. A., 78n, 148 e n Van Lennep J. D., 45n Van Winden J. C. M., 155, 161n

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Indice dei nomi moderni

Vegetti M., 208 Ventrella G., 193n Verde F., 6n, 7n, 9n, 10n, 24, 28, 39n, 42, 43n, 46, 48, 50n, 52-55, 57 e n, 58, 63n, 70-72, 80 e n, 81, 84n, 85n, 8789, 91, 93, 94n, 97n, 99, 101n, 103n, 109, 112-116, 156n, 176n, 184n, 203n, 205 e n, 208n, 210, 216, 220, 235 Vitelli G., 102n Vlastos G., 63n, 68 e n Vogliano A., 153, 155n Von Arnim H., 26, 67, 77, 201, 226 Von der Muehll P., xii, 3-7, 12, 14, 15, 38, 40, 43, 73, 74, 77, 90, 95, 97, 108, 119, 142, 143, 153, 178, 181, 201, 202, 220 e n, 221 Vottero D., 163n, 165n, 168n Wachsmuth C., 231 Wallinga H. T., 180n Walz C., 144 Walzer R., 31n Warren J., 29, 122n, 128n, 129n, 153n Wehrli F., 103n Weichert V., 36 Wendland P., 61 Wenkebach E., 154n Wesseling P., 27n West M. L., 62n, 145 e n, 194n Westerink L. G., 142

Westermann A., 61 Westman R., 9n, 26, 31n, 52, 53, 82n Widmann H., 28, 91 Wigodsky M., 50n, 166 Wilamowitz-Moellendorff U., 19, 145 e n, 177, 194n Willis J., 184 Wilson N., xiii, xiv e n Wimmer F., 202 Wismann H., 5n, 10n, 11n, 15n, 19n, 27n, 40, 43, 87n, 98n, 103n, 114n, 116n, 203n Woltjer J., 23, 81, 83-86 Wotke K., 28, 153 e n Wyttenbach D., 31n Yonge C. D., 161, 206n Youtie H. C., 175, 192 Zacher K.-D., 14n Zannoni G., 17n, 24, 25n, 27n, 34, 58n, 104n, 106, 107n, 181n, 209, 210, 218n, 220 Zevort C., 11n, 16n, 25n, 30n, 58n, 63n, 69n, 83, 93n, 94n, 102n, 106, 107n, 109n, 120n, 124, 131n, 146n, 181n, 218n Ziegler K., 129n, 232 Zimmermann B., 188 Zuccoli Clerici L., 162

pleiadi

1. Davide Muratore, Le Epistole di Falaride. Catalogo dei manoscritti, 2001. 2. Cratete di Mallo, I Frammenti, edizione, in­­tro­­duzione e note a cura di Maria Brog­gia­to, 2001. 3. Fausto Montana - M. Lorenza Muzzolon - Serena Perrone, Interpretazioni antiche di Aristofane, a cura di Fausto Montana, 2005. 4. Demetrio, Lo stile, introduzione, traduzione e commento di Nicoletta Marini, 2007. 5.1 Scholia graeca in Platonem, edidit Domenico Cufalo, I. Scholia ad dialogos tetralogiarum I-VII continens, 2007. ­ ar­ ia Pontani, I. Scholia ad libros α-β, 6.1 Scholia graeca in Odysseam, edidit Filipp­ om 2007. ­ ar­ ia Pontani, II. Scholia ad libros γ-δ, 6.2 Scholia graeca in Odysseam, edidit Filipp­ om 2010. 7. Asclepiade di Mirlea, I frammenti degli scritti omerici, introduzione, edizione e commento di Lara Pagani, 2007. ­ an ­ i, Eroi nell’Iliade. Personaggi e strutture 8. Chiara Aceti - Daniela Leuzzi - Lara Pag narrative, a cura di Lara Pagani, prefazione di Franco Monta ­­ n ­ ar­ i, 2008. 9. Francesca Maltomini, Tradizione antologica del­­­l’epigramma greco. Le Sillogi Minori di età bi­zantina e umanistica, 2008. 10. Luigi Ferreri, La Questione omerica dal Cin­que­cento al Settecento, 2007. ­­­­­ n ­ ar­ i, con la collaborazione di 11. Omero tremila anni dopo, a cura di Franco Monta Paola Ascher­ i, 2002 (rist. 2009). 12. Giulio Colesanti, Questioni teognidee. La ge­ne­si simposiale di un corpus di elegie, 2011. ­ ar­ ia Pontani, Sguardi su Ulisse. La tra­dizione esegetica greca all’Odissea, 13. Filipp­ om 2005 (rist. 2011). 14. Francesco Aronadio, I fondamenti della ri­fles­sione di Platone sul linguaggio: il Cratilo, 2011. Walter Lapini, L’Epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio. Note testuali, esegetiche e metodologiche, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2015 ISBN (stampa) 978-88-6372-827-9 (e-book) 978-88-6372-828-6 – www.storiaeletteratura.it

15. Walter Lapini, Testi frammentari e critica del testo. Problemi di filologia filosofica greca, 2013. 16. Chiara Meccariello, Le hypotheseis narrative dei drammi euripidei. Testo, contesto, fortuna, 2014. 17. L’indovino Poliido. Eschilo, Le Cretesi. Sofocle, Manteis. Euripide, Poliido, edizione a cura di Laura Carrara, 2014. 18. Alessia Ferreccio, Commento al libro II dei Posthomerica di Quinto Smirneo, 2014. 20. Walter Lapini, L’ Epistola a Erodoto e il Bios di Epicuro in Diogene Laerzio. Note testuali, esegetiche e metodologiche, 2015.