Le strategie della narrazione. Voci tempi modi personaggi 8866331201, 9788866331209


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Le strategie della narrazione. Voci tempi modi personaggi
 8866331201, 9788866331209

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i prismi letteratura

Voci, tempi, modi, personaggi

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Patrizia Landi insegna Letteratura italiana a Milano all’Università IULM e alla Scuola Superiore per Mediatori Linguistici Carlo Bo. Si occupa di Pirandello, dell’editoria milanese otto-novecentesca e di Leopardi, di cui ha curato con Franco Brioschi la nuova edizione critica dell’Epistolario con le lettere dei corrispondenti (Bollati Boringhieri, 1998). Tra i volumi più recenti Leggere a Milano. Almanacchi, strenne e periodici prima dell’Unità (L’Ornitorinco, 2012) e Con leggerezza ed esattezza. Studi su Leopardi (Clueb, 2012).

Patrizia Landi Le strategie della narrazione

Si può dare una definizione di opera letteraria? Quale ruolo ha il lettore in questa definizione e nella sua stessa composizione? Se è vero come scriveva Giacomo Leopardi che «la lettura per l’arte dello scrivere è come l’esperienza per l’arte del viver nel mondo, e di conoscere gli uomini e le cose», allora saper cogliere le strategie della narrativa e della creazione artistica, saper individuare le voci che raccontano e i modi in cui raccontano, saper distinguere tra tempo della storia e tempo della narrazione o tra durata e ordine del racconto oppure tra un personaggio “classico” e uno “parcellizzato” significa, in realtà, fare un meraviglioso viaggio capace di immettere nei segreti dell’arte più antica del mondo, quella della comunicazione letteraria.

ISBN 978-88-6633-120-9

€ 18,00 AB 5299

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Patrizia Landi Le strategie della narrazione

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Patrizia Landi Le strategie della narrazione Voci, tempi, modi, personaggi

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ISBN 978-88-6633-120-9

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Introduzione L’opera letteraria tra autore e lettore. Qualche parola (semi)seria per cominciare

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Capitolo I Il mondo della narrazione Premessa. Aspetti e insidie della comunicazione letteraria BOX 1. Epos e romanzo BOX 2. La retorica 1. Mimesi e diegesi 2. Autore e lettore: chi invia e chi riceve 3. Autore vs narratore: chi racconta la storia? BOX 3. Letteratura e genere letterario

Indice

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Capitolo II I tempi e i modi della narrazione Premessa.“C’era una volta un re...”. Fabula e intreccio BOX 4.Temi e motivi in letteratura 1. Il tempo della storia o la storia nel tempo? 2. L’ordine della storia 3. La durata della storia BOX 5. La frequenza, ossia quante volte racconto questa storia 4. Come si racconta la storia 5. La narrazione dentro la narrazione BOX 6. I generi della narrativa

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Capitolo III Gli attori della narrazione Premessa. Persona vs personaggio. Per una definizione 1. Il sistema dei personaggi: ruoli e caratteri BOX 7. Il personaggio “che ritorna” e il personaggio “seriale” 2. Da quale angolo il personaggio guarda la storia: il punto di vista 3. Le tecniche di rappresentazione, ossia come il personaggio racconta la storia BOX 8. La soglia del testo narrativo BOX 9. Incipit ed explicit del testo narrativo

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Bibliografia

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Indice tematico degli argomenti

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Indice tematico delle opere

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Indice dei nomi

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Solo qualche breve indicazione su come decifrare quanto è segnalato tra parentesi quadre.Vi si possono trovare: 1. Riferimenti a testi di critica che sono personalmente ritenuti i più significativi intorno a un determinato argomento. Questi testi sono indicati “all’americana”, ossia con il solo cognome dell’autore seguito dall’anno di edizione: nella Bibliografia finale si trovano tutti gli altri riferimenti tipografici. Per rendere più facile il lavoro di quanti vorranno leggere effettivamente i testi critici segnalati, ho preferito dare l’ultima edizione rintracciabile in commercio: nella Bibliografia, invece, per ogni volume è indicata la prima data di pubblicazione e, se straniero, anche il titolo originale e la prima data di traduzione in lingua italiana. 2. Rinvii a materie già trattate, in modo da poter così recuperare aspetti presentati in un capitolo o in un paragrafo differente da quello che si sta leggendo. Questi rinvii interni accompagnati dai due Indici tematici (degli argomenti e delle opere) avrebbero la pretesa, spero raggiunta, di far comprendere quanto gli argomenti presi in esame nel volume sono così strettamente connessi tra loro da formare una sorta di intreccio spesso difficilmente scomponibile, intreccio nel quale è pure complesso capire quale tema venga prima o quale tema possa essere più emblematico di un altro. 3. Indicazioni editoriali delle opere dalle quali sono tratte le citazioni d’autore: nella loro scelta ho, naturalmente, seguito il mio gusto personale, selezionando quei testi narrativi (racconti, novelle, romanzi), italiani e stranieri, purtroppo non tutti, che hanno ricoperto un ruolo fondamentale nella mia formazione o che hanno saputo suscitare il mio interesse nel corso degli anni.Anche in questo caso, e sempre per facilitare il compito di quanti vorranno leggere integralmente i testi citati, ho preferito fornire l’ultima edizione in commercio, segnalando tra parentesi rotonde, però soltanto la prima volta che quell’opera è chiamata in causa, l’anno effettivo della sua prima pubblicazione. Nell’Indice tematico delle opere, poi, sarà fornito nuovamente l’anno della prima edizione e sarà indicato a quale specifico argomento quel determinato testo letterario (quasi sempre dato per esteso se appartenente al genere del racconto o della novella, e a lacerti se estrapolato da un romanzo) è correlato.

Solo un’ultima precisazione. Questo lavoro nasce dalla mia attività di insegnamento sia liceale sia universitario: la scelta degli argomenti trattati e dei testi d’autore per le esemplificazioni concrete al discorso teorico è

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quindi il risultato di anni di studio, di letture e passioni del tutto personali, ed anche il frutto dell’esperienza pratica fatta in aula di fronte al non sempre facile uditorio degli studenti. Proprio da qui la volontà e il desiderio da un lato di rendere un po’ meno complesse le questioni legate alla cosiddetta “narratologia”, spesso avvertita proprio dai lettori “più ingenui” o meno preparati come sterile e fredda, e dall’altro di appassionare alla lettura integrale delle numerose opere ricordate, talora citate per excerpta o talora soltanto evocate.

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Introduzione

L’opera letteraria tra autore e lettore. Qualche parola (semi)seria per cominciare

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La lettura per l’arte dello scrivere è come l’esperienza per l’arte del viver nel mondo, e di conoscer gli uomini e le cose. Distendete e applicate questa osservazione, specialmente a quello che è avvenuto a voi stessi nello studio della lingua e dello stile, e vedrete che la lettura ha prodotto in voi lo stesso effetto dell’esperienza rispetto al mondo. GIACOMO LEOPARDI

Ogni volta che chiedo a uno studente di darmi una spiegazione del termine letteratura, mi sento quasi sempre rispondere un insieme di libri. A questo punto mi verrebbe il desiderio di chiedere cosa è un libro, però mi trattengo temendo il ginepraio in cui entrambi potremmo cadere: lo studente nel tentativo di dare in poche parole una risposta logica ed esauriente e io nell’ascoltare una risposta probabilmente scorretta. E poi, tanto, la letteratura non è un semplice insieme di libri, perché, a ben vedere, persino l’elenco del telefono potrebbe essere considerato un libro, e certo la letteratura non è una raccolta di elenchi del telefono. Allora, qu’est-ce que la littérature, cos’è la letteratura? Appropriandomi del titolo di un saggio, epocale, di Jean Paul Sartre apparso in Francia nel 1947 ma tradotto in Italia solo nel 1960, su cui ritornerò tra breve, e seguendo i pensieri di Gérard Genette si potrebbe anche dire che la domanda in sé e per sé è una domanda che non merita alcuna risposta; anzi, la vera saggezza consisterebbe appunto nel non porre (e non porsi) neppure l’interrogativo [Genette 1994]. Del resto, circa vent’anni prima di Sartre, uno dei più noti esponenti del formalismo russo, Boris Tomasôevskij, rispondendo all’accusa di non voler seriamente affrontare la questione e, quindi, trovare una corretta definizione di letteratura, aveva ribattuto: Risponderò con un paragone. È possibile studiare l’elettricità e tuttavia non sapere che cos’è. E in ogni caso che senso ha la domanda «cos’è l’elettricità». Io risponderei: «È quella cosa che, quando si avvita una lampadina nel portalampade, l’accende». Per studiare un fenomeno, non abbiamo bisogno di una definizione a priori delle essenze. È importante soltanto riconoscere le sue manifestazioni ed essere consapevoli delle sue connessioni. [in Steiner 1991, 23]

Eppure la domanda e la questione hanno una loro ragionevolezza, soprattutto se si considera che ognuno di noi usa il termine letteratura assai di frequente e per i più svariati motivi.

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Ora, se è vero, seguendo ancora il pensiero di Genette (a cui, tra l’altro, dobbiamo la maggior parte degli studi di “narratologia”), che la letteratura potrebbe essere considerata un esercizio vacuo e inutile, è pure vero che lo stesso Genette ha lavorato una vita proprio per studiare la letteratura e i suoi più nascosti processi e meccanismi, e per dare un ordine ai tanti aspetti che ruotano attorno a essa. Insomma, neppure Genette sembra dare una risposta chiara, o per lo meno, come aveva fatto il già citato Sartre e come poi avrebbero affermato numerosi linguisti e studiosi, anche lui sembra sostenere che non è tanto importante dare una definizione chiusa di testo letterario e di letteratura quanto comprendere quali siano gli attori (autore, voce narrante, lettore) e gli elementi costitutivi del testo letterario stesso. E, soprattutto, comprendere perché un testo possa o non possa rientrare in quel complesso che è appunto definito letteratura [Searle 2009]. E, poi, chi stabilisce cosa è o cosa non è letterario? L’autore che ha scritto l’opera, il lettore che la legge, il critico che la studia e l’interpreta? Forse, come il Sartre citato in apertura, soltanto il lettore è colui che decide (su quali basi, però?) se un libro (un testo) fa o non fa parte della letteratura [Sartre 1995; ma anche Iser 1989]. La questione a questo punto si complica ulteriormente tanto che sembra assai difficile uscire dal labirinto in cui siamo entrati.Vediamo, comunque, se è possibile dare una risposta alle domande che mi sono appena posta. Dopo aver letto e studiato tanti libri (a proposito un libro è un oggetto materiale, oggi ancora per lo più cartaceo, con impressi caratteri che formano parole, di almeno 49 pagine, come stabilito nello statuto fondativo dell’Unesco, ossia dell’organizzazione mondiale per la promozione della cultura e dell’educazione), si potrebbe dire che la letteratura è un corpus di testi. Poniamoci, però, subito un nuovo interrogativo: l’insieme di tutti i codici di leggi raccolti nel tempo è letteratura? Non credo proprio, nonostante anche questi siano chiaramente testi, di tipo giuridico e con una finalità ben facilmente individuabile. Siamo allora punto e a capo, ma con la possibilità di fare un passo in avanti, e per giunta decisivo. La letteratura non è un insieme, un corpus, di testi, ma di opere. Benissimo. Cos’è un’opera o quando un testo può dirsi un’opera? La Commedia di Dante o I promessi sposi di Manzoni o Madame Bovary di Flaubert sono ovviamente testi, e ovviamente sono testi letterari, ma questi testi, scritti da un determinato autore e in una determinata epoca, sono stati ricevuti, letti e tramandati secondo un complesso di regole (filologiche o editoriali, per esempio), tanto da diventare opere degne di “ri-uso” da parte di generazioni differenti, oltre che analizzate e studiate (non importa se apprezzate o meno) da critici di professione o dal semplice pubblico ossia quel lettore già chiamato in causa [Lausberg 2002; Brioschi 2006]. (Apro una parentesi necessaria: il discorso di ri-uso è il tipico discorso usato in situazioni solenni e celebrative, periodicamente o senza alcuna regolarità, da uno stesso oratore o da persone diverse: è un

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L’opera letteraria tra autore e lettore

discorso che mantiene la sua usabilità in circostanze e momenti diversi e che, con il tempo, diventa tradizione, perché sa evocare atti socialmente importanti, che fanno parte della cosiddetta coscienza collettiva.) L’opera è sicuramente un atto creativo, un atto d’invenzione, che nasce nella mente di uno o più autori, e che ha un valore estetico in sé e per sé a dispetto del genere di appartenenza, ma che per vivere, o continuare a vivere, ha bisogno della presenza di un lettore (sempre lui) che la fruisce, godendola o rifiutandola. L’opera è un atto linguistico (del resto è fatta di parole) e comunicativo, ovvero ha un messaggio insito in sé, scritto da un mittente (l’autore) indirizzato sempre a un destinatario (il lettore), inserito in un contesto socio-economico-culturale e trasmesso attraverso un determinato codice linguistico e un determinato canale [Jakobson 2005; cap. I. Premessa, 4-5]. Il tutto regolato da un insieme di norme retoriche (mi riferisco alla retorica classica di Aristotele e, in modo particolare, alle prime tre fasi: inventio, dispositio ed elocutio [BOX 2. La retorica, 7], in eterno movimento, perché continuamente soggetta alla rilettura in epoche diverse da generazioni diverse di persone, e persino in momenti differenti della vita di una singola persona: L’oggetto letterario è [...] una strana trottola che esiste quando è in movimento: per farla nascere occorre un atto concreto che si chiama lettura, e dura quanto la lettura può durare. Al di fuori di questo, rimangono solamente i segni neri sulla carta. Ora, lo scrittore non può leggere ciò che scrive, a differenza del calzolaio, il quale può calzare le scarpe che ha fatto, se sono della sua misura, e dell’architetto, che può abitare la casa che ha costruito. Leggendo si prevede, si attende. Si prevede la fine della frase, la frase seguente, la pagina successiva; si attende che confermino o infirmino le nostre previsioni; la lettura si compone di una moltitudine di ipotesi, di sogni seguiti da risvegli, di speranze e delusioni; i lettori son sempre in anticipo sulla frase che leggono. [Sartre 1995, 33-34]

A dare retta a queste parole di Sartre, dunque, il lettore riveste un ruolo primario, oserei dire centrale, all’interno del concetto di opera e, pertanto, di letteratura.Anzi, andando oltre, un’opera, un oggetto letterario, non esiste senza l’atto fondamentale e fondante della lettura, tanto che si potrebbe sostenere che prima dell’intervento del lettore «il testo è solo testo» e che l’oggetto letterario «comincia ad esistere solo con lui e grazie alla sua attenzione» [Brioschi 2006, 67]. La Commedia dantesca è, quindi, un testo ed è un capolavoro della letteratura occidentale di tutti i tempi, ma per diventare opera a tutti gli effetti e quel capolavoro che ancora oggi è, al di là del suo valore intrinseco (sia contenutistico sia formale) e al di là del suo messaggio etico-culturale, ha avuto bisogno di qualcuno (non importa chi sia stato) che la leggesse e che in qualche modo la tramandasse (e la ri-usasse): se l’autore fosse solo, potrebbe scrivere finché vuole, ma l’opera come oggetto non verrebbe mai alla luce, e lo scrittore dovrebbe abbandonare la

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Introduzione

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penna e disperare. Ma l’operazione dello scrivere implica quella di leggere come proprio correlativo dialettico, e questi due atti distinti comportano due agenti distinti. Solo lo sforzo congiunto dell’autore e del lettore farà nascere quell’oggetto concreto e immaginario che è l’opera dello spirito. L’arte esiste per gli altri e per mezzo degli altri. [Sartre 1995, 34-35]

Andiamo ancora avanti. L’opera letteraria, per esistere, ha dunque bisogno di un autore che la componga, di un linguaggio (l’insieme delle parole) con cui l’autore la possa scrivere e di un atto creativo compiuto sempre dall’autore. Rimane, però, il fatto che tutto questo non è sufficiente se un lettore, un lettore qualsiasi, non si pone davanti all’opera con la necessaria preparazione e attenzione e, soprattutto, con la consapevolezza di essere, in un certo senso, il punto di partenza della creazione artistica e lo strumento per far diventare quella creazione una vera e propria opera.Tutto, insomma, dipende, dalla libertà che un lettore ha di porsi di fronte al testo e di imprimergli, proprio attraverso la sua personale (individuale) lettura, lo statuto di opera – ma anche dalla simmetrica libertà dell’autore nel produrre l’opera stessa: Poiché la creazione trova il suo compimento nella lettura, poiché l’artista deve affidare ad altri la cura di compiere quanto lui ha iniziato, poiché può cogliersi come essenziale alla propria opera solo attraverso la coscienza del lettore, ogni opera letteraria è un appello: scrivere è fare un appello al lettore perché conferisca un’esistenza obiettiva alla rivelazione che io ho iniziato per mezzo del linguaggio. Se poi mi si chiede a che cosa faccia appello lo scrittore, la risposta è semplice. Dato che non si trova mai nel libro una ragione sufficiente a produrre l’oggetto estetico, ma soltanto sollecitazioni a produrlo, e che neanche nello spirito dell’autore ce n’è abbastanza e poiché la sua soggettività, dalla quale non può uscire, non è sufficiente a spiegare il passaggio all’oggettività, l’apparizione dell’opera d’arte è un avvenimento nuovo che non si può spiegare sulla base di dati anteriori. Essendo tale creazione diretta un inizio assoluto, viene dunque compiuta dalla libertà del lettore in quanto pura libertà. Lo scrittore si appella alla libertà del lettore perché collabori alla produzione della sua opera. [...] Così il libro non è, come l’utensile, un mezzo per raggiungere un fine qualunque: si propone come fine la libertà del lettore. [...] L’autore, dunque, scrive per rivolgersi alla libertà dei lettori e le chiede di dare un’esistenza alla sua opera. Ma non è tutto: esige inoltre dai lettori che gli restituiscano la fiducia loro accordata, che riconoscano la sua libertà creatrice e la sollecitino a loro volta con un appello simmetrico e inverso. [Sartre 1995, 37-41]

Il concetto di opera, comunque, non si esaurisce neppure qui, ovvero nel rapporto duplice e quasi speculare e simbiotico tra autore e lettore, tra creazione e lettura. L’opera è molto di più, e molto più complessa. Innanzitutto l’opera letteraria è caratterizzata da intrinseche qualità estetiche (il bello), da quella “poeticità” che è presente quando le parole sanno esprimere qualcosa di molto profondo e acquistano un valore autono-

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L’opera letteraria tra autore e lettore

mo rispetto alla semplice capacità di rappresentare la realtà [Jakobson 2005].Tanto per fare un esempio solo ma molto emblematico, l’Odissea di Omero è ancora straordinariamente attuale, moderna, nonostante la distanza linguistica e formale che la separa dal mondo contemporaneo, proprio perché “rappresenta” cose che non sono legate solo a quella specifica realtà (il mondo greco arcaico del IX-VIII secolo a.C.), ma alla realtà di tutti i tempi. L’opera, infatti, deve possedere un carattere di universalità, ed essere così in grado di esprimere valori e interessi duraturi al di là delle mode e delle singole contingenze: l’opera, insomma, deve valicare i limiti spazio-temporali per diventare patrimonio comune dell’umanità. Se ci pensa bene, in effetti, e per utilizzare di nuovo l’esempio precedente, l’Odissea, a distanza di oltre 2800 anni, è ancora considerata uno degli indiscussi capolavori del mondo occidentale, proprio perché parla di questioni care e apprezzate dagli uomini di allora come da quelli di oggi. In poche parole, l’opera letteraria è quella che tendiamo a definire «un classico», o un «classico moderno» per usare la definizione di Italo Calvino, ossia un testo che, una volta creato, è in grado di cambiare e adattarsi, nella sua ricchezza e varietà semantica, a un diverso ambiente socioculturale, a far emergere nuovi significati e a rivolgersi a pubblici molto differenti tra loro, ampi o ristretti, alti o bassi o medi, appartenenti storicamente allo stesso côté culturale o a côté culturali lontani, o addirittura remoti [Calvino 2001]. Anche in questo caso tanto per fare un unico esempio, la Bibbia, che ha ricoperto innanzitutto un ruolo fondamentale nell’immaginario religioso dell’intero popolo ebraico, si è poi trasformata, pur non perdendo mai la sua prima naturale connotazione, con il passare del tempo e in altri ambienti sociali e culturali, in un’opera da leggere come guida morale, oppure persino in una semplice, e strepitosa, raccolta di inni, racconti, favole e rappresentazioni poetiche. In effetti l’opera letteraria è proprio una delle tante forme artistiche in cui poter dar corpo all’immaginario umano, a quella capacità dell’uomo di inventare e dare sostanza, quasi concreta, a simboli e fantasie: anche in questo caso, come non pensare alla già ricordata Odissea e all’invenzione, per esempio, della maga Circe o del ciclope Polifemo, entrambi rappresentazioni simboliche delle paure e delle insicurezze umane così meravigliosamente dipinti da rimanere impressi in generazioni intere di lettori? L’opera, quindi, sa raccontare e svelare il mondo, per usare un’espressione del più volte ricordato Sartre; sa mettere sulla carta e rappresentare attraverso le parole la “human experience”, l’“umana esperienza” [Easthope 1991], rendendola però assoluta e valida per tutti i tempi a venire; sa essere così originale da restare indelebilmente nella memoria collettiva e da essere tramandata e usata da lettori e studiosi di epoche molto lontane e diverse tra loro (il già più volte citato concetto di ri-uso); sa contenere in sé valori umani unici e conoscitivi, elevati e intraducibili; sa meravigliare, stupire e appassionare, regalando emozioni e insegnamenti. Insomma, l’opera letteraria è «un vero miracolo: essa esiste, vive ed agisce su di noi, ar-

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ricchisce straordinariamente la nostra vita, ci dà ore di rapimento e ore in cui noi ci sprofondiamo negli abissi senza fondo dell’essere» [Ingarden 1968, 48]. Infine l’opera è anche, nella sua accezione più strettamente filologica, un testo (dal latino textus): ossia un tessuto, un intreccio di elementi vari e diversi. È proprio qui che sta il senso e il significato delle pagine che seguiranno: scoprire i meccanismi che sono alla base della creazione di quel tessuto di cui è costituito l’oggetto letterario che si sta per leggere, nelle sue diverse parti, soprattutto a livello contenutistico e formale, in modo da riuscire ad apprezzare sino in fondo l’originalità e la poeticità di quella determinata opera, e in modo da diventare un lettore consapevole e “preparato”. Ora che abbiamo chiarito che cosa è un’opera, possiamo tornare là dove siamo partiti: cos’è la letteratura? La letteratura è un corpus di opere: opere suddividibili in generi, studiabili in senso sincronico e/o diacronico, raggruppabili per nazione e/o per lingua, oppure per temi/immagini trattati [BOX 4.Temi e motivi in letteratura, 56]. È un insieme di testi che, nella loro storia, illustrano lo sviluppo (o la decadenza) culturale di una nazione e l’evoluzione (o l’involuzione) dei valori di un’intera società: il famoso poeta francese Stéphane Mallarmé, del resto, sosteneva che nel mondo ogni cosa esiste per finire in un bel libro e, in questo modo, diventare opera letteraria. La letteratura, nel modo in cui oggi la intendiamo, è, comunque, una categoria moderna, nata solo dopo il cosiddetto secolo dei lumi, tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, tanto che si è potuto parlare di una vera e propria “invenzione” [Reiss 1992]. Gli antichi, infatti, non possedevano questa nozione: gli antichi sapevano cosa era una tragedia, una commedia o un poema (e così via), ovvero sapevano riconoscere e distinguere i diversi generi letterari, ma non possedevano l’idea (o non ne erano interessati) dell’esistenza di un insieme astratto dentro cui idealmente collocare tutte quelle opere che avevano un valore estetico e che erano creazioni dello spirito di un popolo [BOX 3. Letteratura e genere letterario, 50]. Dalla fine del Settecento, invece, la letteratura si è trasformata in oggetto di studio, in una sorta di classificazione (più o meno arbitraria) in cui raggruppare e in cui poter «dominare concettualmente» tutti quegli «oggetti verbali» che sono appunto alla base della creazione letteraria e che hanno la caratteristica intrinseca di passare attraverso lo spazio e il tempo e agire su altre menti. Più che un dato concreto, quindi, la letteratura è un concetto teorico, forse valido per classificare i diversi tipi di opere o forse non del tutto legittimo come sostiene il linguista Tzvetan Todorov il quale, alla conclusione dei suoi ragionamenti, sembra dirci, con fine ironia e profonda acutezza argomentativa, che è impossibile, e persino inutile, voler trovare a tutti i costi una definizione di letteratura:

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L’opera letteraria tra autore e lettore

È necessario cominciare col mettere in dubbio la legittimità del concetto di letteratura: il fatto che la parola esista o che stia alla base di un’istituzione universitaria non significa che la realtà cui rinvia sia scontata. […] Sebbene la storia completa di questa parola e dei suoi equivalenti in tutte le lingue e in tutte le epoche non sia ancora stata scritta, un’occhiata anche superficiale rivela che non esiste da sempre. Nelle lingue europee la parola «letteratura», nel suo senso attuale, è estremamente recente e risale appena all’Ottocento. Si tratta dunque di un fenomeno storico anziché di un dato «eterno»? D’altra parte, in numerose lingue (africane, per esempio) non esiste alcun termine generico per designare tutte le produzioni letterarie. [...] A queste prime considerazioni bisogna aggiungere l’attuale frantumazione della letteratura: chi oserebbe decidere, oggi, ciò che è letteratura e ciò che non lo è, di fronte all’irriducibile varietà degli scritti che si ha tendenza a ricondurre alla letteratura, in prospettive infinitamente diverse? L’argomento non è decisivo: un concetto può aver diritto a esistere senza che gli corrisponda un preciso termine del vocabolario; ma insinua un primo dubbio sul carattere «naturale» della letteratura. Un esame teorico del problema, tuttavia, non conduce a risultati più rassicuranti. Donde ci viene la certezza che un’entità come la letteratura esista davvero? Dall’esperienza: studiamo le opere letterarie a scuola, poi all’università; troviamo questo tipo di libri in riviste specializzate; siamo abituati a citare gli autori «letterari» nella conversazione quotidiana. Un fatto sembra incontestabile: vi è un’entità «letteratura» che funziona a livello dei rapporti intersoggettivi e sociali. E sia. Ma cosa abbiamo dimostrato? Che in un sistema più vasto – una data società, una data cultura – esiste un elemento identificabile cui ci si riferisce con la parola letteratura. Si è forse dimostrato, così, che tutti i prodotti particolari che assumono questa funzione partecipano di una natura comune identificabile in modo analogo? Assolutamente no. [Todorov 1993, 7-8]

Allora, per avviarci alla conclusione, non meno importante di sapere cos’è la letteratura è conoscere gli oggetti che ne fanno parte, e saperli apprezzare in tutte le loro espressioni e in tutte le loro peculiarità, tecniche e non. Il mio compito sarà, dunque, quello di farvi entrare nel meraviglioso mondo della creazione artistica dell’opera letteraria (narrativa), una creazione che, pur basandosi sulla capacità inventiva e del tutto personale dell’autore, è sempre regolata da un insieme di norme che a un lettore attento non dovrebbero sfuggire ed essere estranee: norme che, comunque, nulla tolgono al mistero della creazione stessa e all’individualità, la genialità, del singolo autore. Norme che, una volta conosciute, permetteranno di ammirare con maggiore consapevolezza l’originalità di ciascuna opera letteraria: in effetti, l’individuazione delle qualità intrinseche dell’oggetto letterario e delle figure e degli artifici di cui è composto aiutano a cogliere meglio la ricchezza e la complessità dei significati dell’opera che si sta leggendo, e non riducono affatto né il gusto della lettura né, tanto meno, la letterarietà dell’opera stessa [cap. I, Premessa, 1-4].

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Introduzione

Sarà come intraprendere un viaggio alla scoperta di mondi nuovi o solo sentiti nominare, visto che i lettori, «lungi dall’essere scrittori, fondatori di un luogo proprio, eredi dei contadini di un tempo ma sul terreno del linguaggio, scavatori di pozzi e costruttori di case», sono appunto viaggiatori che «circolano sulle terre altrui, nomadi dediti al bracconaggio nei campi che non hanno scritto, pronti a impadronirsi delle ricchezze d’Egitto per goderne» [de Certeau 2001, 8]. In effetti, la lettura (si ricordi che per gli antichi romani la parola letteratura, derivata da littera, significava semplicemente alfabeto, ossia lo strumento di base per scrivere e quindi leggere) è davvero un viaggio, forse il più interessante viaggio che si può compiere stando addirittura comodamente seduti sul divano di casa propria. Un viaggio che, da un punto di partenza non meglio identificato e attraverso un vero percorso, conduce verso un nuovo e inatteso approdo, perché ogni libro è «qualcosa con un principio e una fine», è «uno spazio» in cui «entrare, girare, magari perdersi, ma a un certo punto trovare un’uscita, o magari parecchie uscite» e persino «una strada per venirne fuori» [Calvino 2011, VI].

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Capitolo I

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Premessa. Aspetti e insidie della comunicazione letteraria

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Vorrei, provocatoriamente, iniziare con parole non mie e che sembrano andare in direzione contraria rispetto al senso delle osservazioni che seguiranno in questo e nei capitoli successivi: I risultati ottenuti dall’analisi strutturale, insieme ad altri, possono aiutare a comprendere meglio il significato di un’opera. In sé e per sé, non sono più inquietanti di quelli della filologia, la disciplina che ha dominato lo studio letterario per centocinquant’anni: sono strumenti che oggi nessuno mette in discussione, ma non meritano comunque che uno vi dedichi tutto il suo tempo. Bisogna andare oltre. Non solo si studia malamente il significato di un testo se ci si limita a un rigido approccio interno, mentre le opere esistono sempre in seno a un contesto e in un dialogo con esso; non solo i mezzi non devono diventare il fine, ma la tecnica non deve nemmeno farci dimenticare l’obiettivo dell’esercizio. È necessario anche interrogarsi sulla finalità ultima delle opere che riteniamo degne di essere studiate. In linea generale il lettore non specialista, oggi come un tempo, non legge le opere per padroneggiare meglio un metodo di lettura, né per ricavarne informazioni sulla società in cui hanno visto la luce, ma per trovare in esse un significato che gli consenta di comprendere meglio l’uomo e il mondo, per scoprire una bellezza che arricchisce la sua esistenza; così facendo, riesce a capire meglio sé stesso. La conoscenza della letteratura non è fine a sé stessa, ma rappresenta una delle vie maestre che conducono alla realizzazione di ciascuno. Il cammino che ha intrapreso oggi l’insegnamento letterario, voltando le spalle a questo orizzonte («questa settimana abbiamo studiato la metonimia, la prossima ci occuperemo della personificazione»), rischia di condurci in un vicolo cieco – per non parlare del fatto che difficilmente farà innamorare della letteratura. [Todorov 2007, 24-25]

Per quanto condivida molte delle parole di Todorov, uno dei maggiori esperti di quella disciplina definita narratologia e che ha visto in Gérard Genette uno dei suoi massimi esponenti, lo stesso Genette presso il quale Todorov ha compiuto gran parte della sua formazione e con il quale ha lavorato a lungo, desidero però anche fare alcune precisazioni e, quindi, sfatare subito qualche falsa opinione [Genette 1989; Genette 2006; Prince 1984 e 1990]. Benché molti possano sostenere che essere lettori consapevoli (non necessariamente specialisti) non significa affatto conoscere norme e tecni-

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Capitolo I

che che sottendono alla creazione artistica ma apprezzare il testo letterario in quanto tale, che la letteratura è soprattutto un insieme di testi da godere per quello che sono e non tanto e non solo per il modo in cui sono stati inventati e scritti, e che studiare la letteratura significa innanzitutto conoscere e leggere le opere che ne fanno parte, e leggere senza troppe sovrastrutture e senza pensare ogni volta a chi sia la voce narrante o quale il punto di vista da cui un autore è partito per raccontarci quella storia e non un’altra, sono assolutamente convinta che occuparsi di questioni tecniche non può assolutamente uccidere la bellezza e tanto meno il piacere della lettura di un’opera letteraria [Introduzione]. Al contrario, ne esalta le peculiarità e le qualità interne perché è così possibile apprezzare l’abilità dello scrittore e riconoscerne, almeno in parte, i “trucchi” del mestiere. Il lettore cosiddetto ingenuo poi, a mio parere, non esiste: ogni lettore quando inizia l’avventura della lettura mette in campo tutta una serie di conoscenze che sa o non sa di aver acquisito nel corso del tempo e che lo portano a leggere inevitabilmente in maniera del tutto personale e, persino, pregiudiziale. Inoltre, anche se l’affermazione potrebbe apparire sproporzionata ed eccessiva, occuparsi dei meccanismi che sottostanno alla composizione narrativa significa occuparsi dell’esperienza umana in uno dei suoi aspetti più caratterizzanti (ma questo, mi sembra, è sostenuto a suo modo pure da Todorov). L’arte del raccontare, infatti, fa naturalmente parte della esistenza dell’uomo: se ci si pensa bene, ogni volta che noi riferiamo una nostra esperienza di vita ne facciamo un racconto, spesso persino un racconto complesso animato da voci diverse dalla nostra e composto di episodi svoltisi in tempi e luoghi differenti; insomma, mettiamo in campo senza quasi accorgercene molte delle tecniche, delle strategie, che andrò ad analizzare. Non trascuriamo poi di dire che il racconto è persino alla base di una scienza medica quale la psicanalisi: il paziente, per quanto seduto o sdraiato su un lettino da cui non può vedere il volto e le espressioni del proprio medico, cosa fa se non raccontare i propri sogni o i propri ricordi? Del resto per Sigmund Freud, il padre della psicanalisi stessa, la relazione terapeutica era intesa proprio come una costruzione a due voci, in cui analista e paziente finivano per ricoprire i ruoli di narratore e di interprete/autore. Detto questo non scordiamoci neppure, ed è da qui che si deve partire per dare un significato effettivo ed operativo alle indicazioni che seguiranno, che le prime due opere della letteratura del mondo occidentale, Iliade e Odissea (IX-VIII sec. a.C.), nascono come narrazione orale di cantori, aedi, che andavano in giro per piazze e città a raccontare le gesta di una serie di eroi. Poco importa che all’inizio fossero solo racconti verbali: erano racconti già così ben strutturati che poi qualcuno, Omero o chi per lui, è stato in grado di trascriverli e renderli opere a tutti gli effetti [Introduzione]. Anzi, lo stesso Omero (a me piace credere al di là di tante discussioni in merito che sia esistito veramente) rende omaggio all’arte del raccontare

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BOX

1. Epos e romanzo

Il romanzo è sicuramente il genere letterario [BOX 3. Letteratura e genere letterario, 50] dominante della letteratura moderna e contemporanea. Già Georg Wilhelm Friedrich Hegel nelle sue postume Lezioni di estetica (18361838) definiva il romanzo come una sorta di “epopea borghese”. Tuttavia nel collegare in maniera strettissima epos, il genere per eccellenza della classicità, e romanzo, Hegel ne sottolineava subito le differenze: il primo faceva riferimento a imprese leggendarie di grandi eroi che, aiutati o contrastati dalle divinità, agivano in un mondo integrato e unitario nei valori; il secondo era animato da personaggi molto dissimili tra loro che si muovevano in una società divisa e dominata dalle differenze e persino dalla degradazione. Un secolo più tardi, nel 1938, Michail Bachtin andava oltre, chiarendo un passaggio di non secondaria importanza: mentre l’epos, come tutti i grandi generi letterari ereditati dall’antichità (tragedia, commedia, lirica,…) era nato in epoca pre-storica come testo orale, il romanzo, unico tra tutti i generi, si era sviluppato dopo l’avvento della scrittura diventando così il solo adatto alla cosiddetta “percezione muta”, ossia alla lettura singola e individuale, e il solo privo di un canone rigido da seguire nella sua composizione [Bachtin 2001; e anche Lukács 1976 e 1977]. Da qui la difficoltà di rinchiudere il romanzo dentro confini netti e precisi: il romanzo non deve essere necessariamente in prosa (si pensi all’Evgenij Onegin di Aleksandr Sergeeviôc Puškin, 1823-1831); non deve avere necessariamente un contenuto problematico tanto che è diventato con il passare del tempo il genere d’evasione per eccellenza; non deve necessariamente basarsi sull’intreccio narrativo [cap. II, Premessa, 51-57], e così via. Insomma, a differenza dell’epos che aveva il compito di trasmettere la storia fondativa e condivisa di un popolo (il poema di Gilgamesh, l’Iliade omerica, l’Eneide virgiliana, le saghe nordiche, i Nibelungenlied germanici o le chansons de geste dei francesi), il romanzo è per sua natura polimorfo e rivolto alla contemporaneità: se l’epos guarda al passato e alle origini per trovare le radici, la memoria e le tradizioni di quel determinato popolo, il romanzo, al contrario, è interessato alla rappresentazione di un singolo evento in un particolare momento della storia spesso di un unico personaggio. Da un lato, quindi, il racconto di un passato glorioso anche attraverso una forma sostanzialmente immutabile e cristallizzata, dall’altro il racconto composito e relativo espresso con una forma sempre differente e capace di accogliere al suo interno toni e modi tra loro diversi (lirico, descrittivo, riflessivo, fantastico, sociale, psicologico, sentimentale,…) [Brioschi-Di Girolamo-Fusillo 2007].

nell’Odissea quando Ulisse, ospite sull’isola di Scheria presso i Feaci e il loro re Alcinoo, preferisce sentire narrare da un altro, Demòdoco, le sue peripezie piuttosto che narrarle personalmente, a dimostrazione della potenza che il canto e il racconto sanno esercitare non solo sul pubblico degli ascoltatori e/o dei lettori ma persino su chi è il protagonista di quei medesimi racconti: se è vero che Ulisse tace per non rivelare la sua identità,

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Capitolo I

ancora sconosciuta ai suoi ospiti, è pur vero, ed è indispensabile sottolinearlo, che quel racconto sofferto e intenso di Demòdoco sulla fine di Troia spinge Ulisse a prendere consapevolezza del dolore causato e, di conseguenza, a farsi riconoscere proprio come l’autore dello stratagemma del cavallo e non come un marinaio qualunque sbarcato per caso su un’isola lontana dalle normali rotte di navigazione. La narrazione di Demodòco, dunque, diventa motore non solo del processo di autocoscienza ma pure del racconto in prima persona di Ulisse, che da questo momento prenderà a narrare in maniera diretta la sua storia e le peregrinazioni compiute sino a quel fortunato approdo. L’episodio appena ricordato dell’Odissea mette chiaramente in luce anche un’ulteriore questione, e non di secondaria importanza: la narrazione è una pratica collettiva o, meglio ancora, è una «pratica sociale» che sta alla base del vivere comune e che è così fondamentale da risultare necessario conoscerne gli elementi costitutivi [Jedlowski 2000]. Per comprendere meglio la struttura della narrazione, che sta alla base di ogni discorso orale o scritto, letterario e persino non letterario, è indispensabile partire dal modello di quella che solitamente è definita comunicazione letteraria. La comunicazione letteraria, secondo quanto ha insegnato Roman Jakobson è composta di sei parti, ognuna delle quali sviluppa a sua volta una particolare funzione [Jakobson 2005]: Contesto ↓ Funzione referenziale Emittente ↓ Funzione espressiva od emotiva

Messaggio ↓ Funzione poetica

Destinatario ↓ Funzione conativa

Canale ↓ Funzione fàtica Codice ↓ Funzione metalinguistica

Vediamo di chiarire i vari elementi e le rispettive funzioni. Incominciamo dalle categorie più semplici, emittente e destinatario: rispettivamente autore e lettore/ricevente (ricordiamoci il discorso sull’oralità: chi riceve può essere anche un semplice ascoltatore). Il messaggio, a questo punto, è il contenuto di quanto viene trasmesso da un autore al suo lettore e/o ascoltatore, ossia quanto l’autore vuole comunicare attraverso la sua narrazione. Naturalmente trovato il messaggio, è necessario che questo venga colloca-

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Il mondo della narrazione

to in un contesto, che può essere sia il periodo storico sia l’ambientazione generale in cui tutta la storia è collocata (il contesto, però, può fare riferimento anche al periodo storico di appartenenza dello scrittore oppure persino al luogo e all’epoca in cui ogni lettore legge una determinata opera). Il canale è lo strumento di trasmissione per cui, per esempio, un libro a stampa e oggi anche in formato digitale; mentre il codice è costituito dalla lingua e da tutti quegli artifici retorici usati dall’autore nello scrivere/trasmettere quel suo determinato messaggio. È naturale, quindi, che all’emittente/ autore tocchi la funzione espressiva od emotiva: importante è il modo con cui l’autore decide di comunicare la sua storia e quali sono gli atteggiamenti che tiene nel comunicare/trasmettere quella stessa storia. Per esempio, se Flaubert avesse provato una vera simpatia nei confronti della sua “eroina”, Emma Bovary, tutta la vicenda avrebbe preso una direzione completamente diversa e, molto probabilmente, persino il finale sarebbe stato meno drammatico;e,soprattutto,del tutto differente sarebbe stato l’atteggiamento del lettore che, in verità, finisce per sposare la tesi di Flaubert e vedere Emma come una povera e sciocca borghesuccia, ammalata d’amore e incapace di vivere la vita per quello che è, senza invece cercarne una fittizia e per questo inevitabilmente deludente. In sostanza, l’autore con le proprie scelte (linguistiche, retoriche, compositive) può indirizzare il suo lettore ad adottare un determinato comportamento o un determinato giudizio, la funzione conativa per cui il destinatario, se sceglie di leggere quell’opera, si sforza di avvicinarsi o di seguire l’idea portata avanti dal suo autore. La funzione poetica, quella fàtica e quella metalinguistica hanno invece tutte a che fare con la realizzazione pratica del messaggio/contenuto: la prima più strettamente con il contenuto, cioè con l’ideologia e il pensiero, la poetica appunto, dell’autore; la seconda con il canale di trasmissione che deve essere sempre aperto così che il messaggio possa passare dall’emittente al destinatario senza interruzioni (fateor in latino significava dire, esprimere, manifestare) grazie anche, e siamo alla terza funzione, all’utilizzo di tutte le possibilità concesse da un determinato codice linguistico-espressivo e grazie a tutti gli strumenti che la retorica concede a chi inventa/scrive/racconta una storia l’uso, per esempio, di forme linguistiche straniere oppure di flashback o di flashforward [cap. II, par. 2, 63-72]. In sostanza un messaggio per essere davvero efficace, ossia capace di arrivare dritto dall’emittente al destinatario e di colpire l’attenzione di quest’ultimo, deve rispettare la cosiddetta regola delle cinque W: Who (chi = quali sono i personaggi della storia),What (cosa = quale è lo svolgimento dei fatti),When (quando = quale è il tempo in cui si svolgono i fatti della storia), Where (dove = in quale luogo si svolgono i fatti della storia), Why (perché = quale è il motivo/movente per cui si svolgono i fatti della storia). Proviamo a questo punto a vedere se è possibile attribuire le caratteristiche della comunicazione letteraria a un romanzo illustre come I promessi sposi (1838-1840):

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Capitolo I

1) L’emittente/autore è ovviamente Alessandro Manzoni. Eppure la questione non è così semplice perché, come è noto, Manzoni “finge” di non essere l’autore della storia ma solo chi la racconta, la voce narrante, perché la storia sarebbe già stata scritta da un anonimo del Seicento e sarebbe stata poi da lui ritrovata in un manoscritto. Allora chi è l’emittente? In verità sia l’anonimo inventato sia il reale Manzoni, ma su questo aspetto dovremo tornare quando parleremo della differenza tra autore e narratore [cap. I, par. 3, 32-33 e 37-45]. 2) Il destinatario/lettore è ovviamente colui che ha letto allora e che legge oggi il romanzo. Eppure anche qui la questione non è così lineare perché all’interno del romanzo Manzoni più volte si rivolge a dei non meglio identificati «venticinque lettori» ai quali sembra indirizzata la storia: allora chi è il destinatario? Anche qui sarà necessaria un’ulteriore specificazione [cap. I, par. 2, 12-26]. 3) Il contesto può essere inteso in duplice modo: i due anni, 7 novembre 1628-fine novembre 1630, in cui sono ambientate le peripezie di Renzo e Lucia, il tutto arricchito da riferimenti a fatti realmente accaduti come la peste, la calata del Lanzichenecchi o la contesa per la successione al Ducato di Mantova a sua volta inserita nella più ampia cornice della guerra dei Trenta anni; oppure l’epoca della scrittura di Manzoni, circa un ventennio dal 1821 al 1840, quindi il pieno Romanticismo. Quale la giusta soluzione? In verità entrambe, soprattutto se si pensa che Manzoni sceglie volontariamente un periodo segnato dalla dominazione spagnola in Lombardia come specchio di un altro segnato dalla dominazione asburgica. 4) Il canale di trasmissione è ovviamente il libro scritto da Manzoni, edito per la prima volta nel 1827 a Milano presso l’editore Vincenzo Ferrario, e poi nuovamente tra il 1838 e il 1840 sempre a Milano presso Borroni e Scotti. Eppure, anche in questo caso la questione si fa più intrigante perché non possiamo proprio dimenticarci di quel manoscritto che Manzoni dice di aver trovato e da cui avrebbe tratto l’intera vicenda. Una parentesi: se noi lettori non crediamo alla finzione del manoscritto, destituiamo subito di valore tutte le funzioni (referenziale, poetica, conativa, fàtica, metalinguistica) che abbiamo appena illustrato, il che significa che, in qualche modo, dobbiamo dare credito alla finzione del manoscritto e dell’anonimo secentesco e, quindi, istituire una sorta di patto di fiducia con l’autore/narratore [cap. I, par. 2, 26-32]. 5) Il codice, forse la questione più semplice, è dato ovviamente da quel perfetto equilibrio tra scelte linguistico-espressive, strumenti retorici e tecniche rappresentative [cap. III, par. 3, 160-172]. 6) Il messaggio è ovviamente complesso e poco circoscrivibile perché racchiude il pensiero manzoniano intorno a numerose argomenti, che sarebbe davvero lunghissimo elencare: due per tutti, Storia e Provvidenza, e come l’uomo qualunque possa confrontarsi con esse. Ma, a ben vedere, pure qui la faccenda potrebbe essere più complicata perché il messaggio del romanzo è quello di Manzoni o si trovava già nel manoscritto da cui tutto avrebbe preso origine?

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Il mondo della narrazione

Quale, dunque, il risultato di questa pur veloce esemplificazione pratica? Che niente all’interno di un’opera letteraria è così semplice e che l’arte di ogni singolo autore nasconde una serie, se non infinita, numerosa di elementi “narratologici” il cui svelamento consente, come dicevo in apertura, di cogliere meglio l’abilità compositivo-espressiva di quel determinato scrittore e di quella determinata opera letteraria [Introduzione].

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2. La retorica

La retorica non è soltanto l’arte del dire ma una disciplina teorica con un suo particolare statuto: è un discorso sul discorso [Lausberg 2002]. Nata nel mondo antico greco intorno al V sec. a.C., si sviluppa subito come arte della persuasione, legata per lo più all’ambito giudiziario e politico in quelle società in cui è possibile intervenire pubblicamente e far prendere decisioni anche grazie al solo potere della parola (le varie forme di democrazia). Secondo il canone classico, sopravvissuto in epoca romana, tre sono i generi della retorica (genus iudiciale, per accusare/difendere nei processi; genus deliberativum, per indirizzare le decisioni di un’assemblea; genus demonstrativum, per lodare/biasimare); e cinque le parti: 1. Inventio (eárhsij): ricerca e scelta di argomenti e contenuti da usare per svolgere la propria tesi; 2. Dispositio (t£xij): arrangiamento, disposizione, dei materiali attraverso parole e figure, ossia attraverso le tecniche di rappresentazione e gli ornamenti del discorso; 3. Elocutio (lšxij): lingua e lessico appropriati; 4. Memoria (mn»nh): apprendimento del discorso e delle sue parti; 5. Actio o pronuntiatio (ØpÒkrisij): messa in pratica del discorso, anche per mezzo della voce e della gestualità. La retorica rappresenta ancora oggi il punto di partenza per quanti rivestono il ruolo di mittente/autore: l’autore deve infatti trovare una serie di materiali (inventio), ordinarli tra loro (dispositio) per creare una struttura più o meno complessa grazie a molteplici dispositivi come la voce narrante [par. 3, 3745], l’analessi, la prolessi, la digressione, le pause e così via [cap. II, parr. 2 e 3, 63-72 e 77], il tutto poi esplicitato attraverso un determinato codice linguistico-lessicale (elocutio) e una serie di tecniche espressivo-espositive come il discorso diretto o il monologo interiore [cap. III, par. 3, 160 e 167-168]. Per ottenere una buona narrazione un autore deve poi controllare che tutte le sue parti siano bene cucite tra loro e che ogni elemento sia stato trattato e concluso (memoria) e che la loro esecuzione pratica all’atto della lettura sia in grado di far cogliere al destinatario/lettore il senso che sottende a quella costruzione medesima (actio). La retorica è anche molte altre cose: una scienza perché studia i fenomeni e gli effetti del linguaggio; una morale poiché, sfruttando le ambiguità del linguaggio, può diventare un’arma potente che richiede una serie di norme per essere esercitata senza arrecare danni; una prassi sociale, dal momento che nell’antichità differenziava i potenti (chi ha accesso all’arte della persuasione) dai sudditi (coloro che soccombono al potere ammaliante della parola); una pratica ludica, perché può essere intesa come gioco di parole con parodie, scherzi, doppi sensi [Barthes 2006].

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Capitolo I

1. Mimesi e diegesi

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L’atto della narrazione può presentarsi più o meno mediato dall’intervento di fattori esterni, per cui può risultare come mimesi e diegesi o, per dirla con termini inglesi, come Showing e Telling. La mimesi è la messa in scena diretta e più reale possibile di una storia attraverso le parole immediate dei suoi protagonisti, e può essere assimilata alle rappresentazioni teatrali: tra quanto viene narrato e il momento stesso della narrazione non deve esistere alcuna interferenza temporale, tutto deve avvenire in contemporanea. È proprio per questo che i testi per il teatro sono più mimetici di altri testi narrativi: la drammatizzazione scenica del contenuto, prevalentemente attraverso la tecnica del dialogo o discorso diretto [cap. III, par. 3, 160], sembra eliminare lo scarto, anche minimo, che intercorre tra l’accadimento in sé e la sua esposizione, per cui tutto pare avvenire nello stesso identico istante in cui viene enunciato. È per questo motivo che non è facile trovare esempi letterari non legati al mondo del teatro visto che la scrittura per sua stessa natura crea inevitabilmente un intervallo (uno spazio, un interstizio) tra due momenti distinti tra loro, quello del fatto e quello del racconto.Tuttavia non è poi così impossibile, soprattutto se si va a cercare tra quei testi basati prevalentemente sulla forma dialogica che, come appena ricordato, è la forma espressiva che meglio riduce gli eventuali scarti temporali. La novella Due da due penny, per favore (1908) di Katherine Mansfield è appunto strutturata come una serie di botta e risposta su un tram affollato di passeggeri tra i quali, peraltro, potremmo trovarci persino noi lettori tanto è realistica (mimetica) la scena: a parlare tra le due donne protagoniste è, però, una sola, e cosa c’è in fondo di più vero di un’amica che non riesce a proferir verbo perché l’altra non smette di parlare neppure un secondo?

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Katherine Mansfield Due da due penny, per favore Signora. Sì, ce n’è, cara, c’è un mucchio di posto. Se la signora accanto a me volesse andarsi a sedere lì di fronte… Le dispiace? Così la mia amica può sedersi accanto a me… La ringrazio tanto! Sì cara, tutt’e due le auto sono state requisite per la guerra, ma mi sto abituando benissimo agli autobus. Naturalmente se dobbiamo andare a teatro telefono a Cynthia. Lei ha ancora una macchina. Il suo chauffeur è stato richiamato… Oh, sono secoli, ormai credo che sia morto. Non ricordo bene. Quello nuovo non mi piace affatto. Io sono pronta a correre qualche moderato rischio, ma lui è così ostinato..., parte alla carica di qualsiasi cosa veda sulla strada. Dio solo sa cosa succederebbe se qualcuno non si scansasse. Ma la povera creatura ha un braccio rattrappito, e anche qualcosa a un piede, mi pare che m’abbia detto lei. Sarà questo che lo rende così sbadato immagino.Voglio dire… Ma non lo sai? Amica. …?

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Il mondo della narrazione

Signora. Sì, l’ha venduta, cara mia, era troppo, troppo piccola! C’erano soltanto dieci camere da letto, capisci. Non è incredibile? In quella casa c’erano soltanto dieci camere. Non lo si sarebbe detto, vedendola dal di fuori, vero? con la governante e le bambinaie e così via. I domestici maschi dovevano dormire fuori… Tu capisci che era un bell’inconveniente. Amica. …? Bigliettaio. Biglietti, prego. Fate passare i soldi. Signora. Quanto fa? Due penny, vero? Due da due penny, per favore. Non ti disturbare… Devo avere degli spiccioli, da qualche parte. Amica. …! Signora. Ma no, figurati. Ce li ho… se solo riuscissi a trovarli! Bigliettaio. Pagare il biglietto, prego! Amica. …! Signora. Davvero? L’ho già fatto.Adesso mi ricordo. Sì, ho pagato all’andata. Bene, allora ti lascio fare, solo per questa volta.Tempo di guerra, mia cara. Bigliettaio. Fino a dove volete andare? Signora. Fino ai Boltons. Bigliettaio. Un altro mezzo penny ciascuna. Signora. No… oh, no! All’andata ho pagato solo due penny. È proprio sicuro? Bigliettaio (furioso). Lo legga da sé sulla tabella. Signora. Oh, non importa. Ecco un altro penny. (All’amica): Non è incredibile come sono scortesi questi individui? Dopotutto, è pagato per il suo lavoro. Ma sono quasi tutti così. Ho sentito dire che, dopo un po’, questi autobus fanno male alla colonna vertebrale. Immagino che sia per questo... Hai sentito di Teddy, vero? Amica. ...? Signora. Lo hanno fatto… Lo hanno fatto… Ah, non mi viene in mente. Cosa potrebbe essere? È ridicolo, ma non mi ricordo. Amica. …? Signora. Oh no! Era Maggiore da secoli. Amica. …? Signora. Colonnello? Oh, no mia cara, è qualcosa di molto più importante! Non è la Compagnia; è molto tempo che ha una Compagnia. E nemmeno il Battaglione… Amica. …? Signora. Reggimento! Sì, credo che sia il Reggimento. Ma quello che volevo dire è stato nominato… Oh, sono proprio una sciocca! Chi è più in alto di un Generale di Brigata? Sì, ecco Capo di Stato Maggiore. Naturalmente, per Mrs T. è stata una gran bella soddisfazione. Amica. …! Signora. Eh, mia cara, si fa in fretta ad arrivare in alto, oggigiorno. Qualunque sia la posizione di partenza. E Teddy è un tipo così brillante che proprio non vedo come… Terribile, vero? Amica. …? Signora. Non lo sapevi? Lei lavora al Ministero della Guerra, e se la cava benissimo. Mi pare che abbia avuto una promozione proprio l’altro giorno. Fa una cosa come notificare le morti, o ritrovare i dispersi, non so esattamente quale. In ogni modo, lei dice che non si può neanche immaginare come sia deprimente, e che deve leggere delle lettere che straziano il cuore, lettere di genitori e così via. Per fortuna sono un allegro gruppetto, tutte mogli di ufficiali, sai, e si preparano il tè da sole, e ordinano a turno la pasticceria da Stewart. Ha un pomeriggio di libertà alla set-

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timana, per fare le commissioni e andare dal parrucchiere. L’ultima volta siamo state a vedere la Collezione di Primavera di Yvette. Amica. …? Signora. Mica tanto.Tutte queste princesses mi sono venute proprio a noia, e a te? Capisci, a che serve, come dicevo a lei, pagare una cifra enorme per farsene fare una da Yvette quando alla lunga non si vede la differenza tra la sua e una di quelle già fatte, che costano pochissimo? Certo, si ha la soddisfazione di sapere che almeno la stoffa è buona, eccetera – ma non è che faccia più figura. No; io le ho consigliato di farsi fare un bel tailleur.Almeno, un tailleur di classe lo vedi subito. Non ti pare? Amica. …! Signora. Sì, è quello che penso anch’io, ma non gliel’ho detto. È troppo grassa per portare quelle princesses. Ha i fianchi troppo, troppo larghi. Io stavo quasi per ordinarne una piuttosto bella, di una indefinibile sfumatura d’azzurro e con le rifiniture di quel nuovo rosso aragosta… Ho perso la mia cara Kate, lo sai? Amica. …! Signora. Sì, che seccatura! E proprio quando le avevo ormai insegnato tutto. Ma si è montata la testa, come fanno tutte oggigiorno, e ha deciso che voleva andare in una fabbrica d’armi. Quando si è licenziata le ho detto che, se trovava lavoro (cosa abbastanza improbabile, credo), era inteso che non mi sarebbe poi venuta in casa a disturbare gli altri domestici. Bigliettaio (furioso). Un altro penny per una, se proseguite. Signora. Oh, siamo arrivate. Incredibile! Non me ne sarei mai accorta… Amica. …? Signora. Martedì? Martedì per il bridge? No, cara, temo di non potercela fare per martedì. E il giorno che porto a passeggio i feriti, sai. Mando la cuoca con loro allo zoo o in un altro posto dei genere. Mercoledì. Mercoledì sono liberissima. Bigliettaio. Mercoledì sarà ancora qui, se non si spiccia. Signora. Dico come si permette! Amica. ...! [in Tutti i racconti, Milano,Adelphi, 1992]

Al contrario, la diegesi si riferisce alla narrazione in quanto tale e al suo svolgimento: mette in scena una storia scritta da un autore per un lettore, con lo scopo di rappresentare non tanto l’immediato quanto un contenuto complesso e articolato, che può avere preso l’avvio anche molto tempo prima della narrazione vera e propria. È per questo motivo che riguarda ogni genere di opera (letteraria, teatrale, cinematografica,…) e che risulterebbe organizzata in sequenze o, meglio, in tempi, per la precisione sei [Labov 1972]: 1) prologo o incipit, che può essere considerato anche come la soglia, l’anticamera, che separa il mondo reale in cui si vive e il mondo irreale immaginato da un autore [Lodge 2006]; 2) situazione iniziale e orientamento, con presentazione di personaggi, ambienti e situazioni; 3) azione complicante, ossia la narrazione vera e propria, con una serie di peripezie che portano con i loro intrighi, sorprese e colpi di scena di vario genere sino all’acme della tensione (Evaluation o Spannung); 4) valutazione, con i relativi commenti e giudizi; 5) risoluzione,

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ossia ripresa della narrazione vera e propria; 6) coda o epilogo o explicit [BOX 9. Incipit ed explicit. Inizio e conclusione del testo narrativo, 173], che spesso, a ben guardare, non porta ad alcuna vera soluzione e che può dunque lasciare il lettore sprovvisto del “sugo della storia”: si pensi, solo per fare un paio di esempio, al paragrafo finale di Uno, nessuno e centomila (1926) di Luigi Pirandello, intitolato emblematicamente Non conclude, che in effetti lascia al lettore la libertà di pensare a come si sia o si stia trasformando la vita corporea e spirituale del protagonista [cap. III, par. 1, 127]; oppure alla conclusione di Notturno indiano (1984) di Antonio Tabucchi in cui ciascun lettore, secondo la propria sensibilità, può decidere di dare un particolare volto e quindi una particolare identità all’uomo ritrovato, e persino decidere se quello raccontato è un viaggio vero o solo un sogno o una proiezione della mente. Provo a fare un esempio legato ai primi otto capitoli dei Promessi sposi che, pur non rappresentando la storia nella sua interezza e complessità, rappresentano una prima grande unità narrativa, o macro sequenza, in cui è possibile vedere perfettamente i sei momenti appena descritti, e le loro eventuali complicazioni: 1) Prologo o incipit  Il famosissimo avvio del romanzo con quella digressione [cap. II, par. 3, 78-79] spaziale «Quel ramo del lago di Como». 2) Situazione iniziale e orientamento, con presentazione di personaggi, ambienti e situazioni  don Abbondio che sta tornando in canonica come tutte le sere mentre legge il suo breviario. 3) Azione complicante e acme della tensione (Evaluation o Spannung)  l’incontro del tutto inatteso di don Abbondio con i bravi di don Rodrigo [cap. III, par. 1, 134-135]. Ma non solo, perché dopo questa prima azione complicante ce ne sono molte altre scaturite da questa. Senza poi dimenticare che l’intero romanzo manzoniano è composto di una serie di azioni complicanti: fra’ Cristoforo mandato via dal convento; Renzo scambiato per un facinoroso e costretto alla fuga; Lucia presso la monaca di Monza e poi rapita dall’Innominato; la guerra e la peste ad essa collegata,… 4) Valutazione, con i relativi commenti e giudizi  i giudizi intorno al carattere di don Abbondio che proprio non era nato con un cuor da leone. Ma non solo: tutti i commenti nascosti di Manzoni, per esempio, attraverso l’uso dell’ironia che è una delle grandi risorse di uno scrittore per far sentire la sua voce e indirizzare il giudizio del lettore; persino le grida con cui si apre la storia sono un modo per giudicare il Seicento e quel particolare modo di fare giustizia, o meglio di non farla se non a vantaggio dei più potenti. 5) Risoluzione, ossia ripresa della narrazione vera e propria  il tentativo di matrimonio, fallito, con tutto quello che è ad esso collegato, dal mancato rapimento di Lucia da parte dei bravi di don Rodrigo allo spavento del piccolo Menico sino alla fuga dei due giovani dal paese in fretta e furia con l’aiuto di fra’ Cristoforo.

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6) Coda o epilogo o explicit  l’Addio, monti di Lucia e i due giovani costretti a lasciare il loro paese e a separarsi non si sa per quanto tempo. È però anche vero che non tutte le diegesi sono così strutturate e architettate. In effetti, molti romanzi del Novecento mettono in risalto quella che potremmo definire l’erosione narrativa o diegetica: poca narrazione di eventi e di fatti, uno sparuto numero di personaggi e rarissime situazioni complicanti con conseguente scarsa necessità di un vero inizio e di una effettiva fine, tutti elementi fondamentali in un romanzo di impianto tradizionale (la cosiddetta narrativa naturale) come gli appena ricordati Promessi sposi di Manzoni o Anna Karenina (1875-1877) di Lev Tolstoj, e, invece, moltissima enunciazione intellettiva e/o psicologico-psichica. Un caso per tutti l’appena ricordato Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello in cui l’inedita struttura compositiva-mentale rappresenta un tassello fondamentale verso la destrutturazione del genere romanzo: proprio il ridotto canovaccio della trama e dell’azione (i fatti, appunto) rappresenta la maggiore e più significativa novità, destinata a rompere l’impianto sopra descritto in nome di una maggiore aderenza alle problematiche della coscienza e della sua analisi, una coscienza che viene messa in scena attraverso poche azioni, pochi eventi, pochissime descrizioni e, al contrario, attraverso un interrotto monologo interiore [cap. III, par. 3, 167168] tra il protagonista, Vitangelo Moscarda, e il suo “io” alla ricerca di risposte che sono poi impossibili da trovare e che portano, peraltro, a una non conclusione, tanto per parafrasare il titoletto dell’ultimo, emblematico, paragrafo del romanzo [cap. III, par. 1, 127]. Come sempre le cose in letteratura non sono mai semplici e, soprattutto, univoche: gli aspetti legati alla narrazione sono così connessi gli uni agli altri che, spesso, separarli o trattarli distintamente è un’impresa ardua e, forse, persino avventata. 2. Autore e lettore: chi invia e chi riceve Sembra quasi banale dover parlare dell’autore, ossia di colui che materialmente inventa e scrive la storia. Eppure, anche in questo caso, le cose non sono così univoche come si potrebbe pensare: considerando che il vocabolo ha a che fare con il termine auctoritas, autorità, egli è, in prima battuta, colui che ha il ruolo di garantire l’opera nei suoi contenuti e nei suoi obiettivi, ossia di attribuire “veridicità” a quanto il lettore sta per iniziare a leggere. Poi, in seconda battuta, non esiste soltanto l’autore reale, ossia la persona fisica, in carne e ossa, che è realmente esistita in una determinata epoca, che ha composto quella determinata opera, che ha vissuto una determinata vita,insomma l’individuo psicologico e sociale;ma esiste pure un autore implicito, ossia l’immagine dell’autore che il lettore si costruisce

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leggendo le sue opere e che può ricavare da informazioni intratestuali, cioè interne al testo e alla sua lettura. Un esempio tra i molti che si potrebbero fare quello di Emilio Salgari. Non è certo qui la sede per ripercorrere la biografia di Salgari (1862-1911), ma è bene ricordare che fu l’autore della saga di Sandokan con La tigre della Malesia, Le tigri di Mompracen, La riscossa di Sandokan e La riconquista di Mompracen, e autore di molte altre opere di successo quali La regina dei Caraibi, Il corsaro nero, Jolanda, la figlia del corsaro nero e I predoni del Sahara. Leggendo le sue opere si potrebbe pensare che l’autore sia stato un grande viaggiatore e un grande avventuriero (autore implicito): in verità Salgari fu un uomo sedentario, assillato da problemi economici e per niente dedito all’avventura,che finì suicida per i debiti contratti in vita (autore reale).

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Non sempre, però, la storia è raccontata dall’autore, tanto che si può chiaramente distinguere autore e narratore o voce narrante [Genette 2006]. Infatti secondo le teorie del racconto colui che parla all’interno della narrazione non è necessariamente colui che scrive nella realtà storica e contingente e colui che scrive, a sua volta, non è detto cha sia colui che è [Roland Barthes in Analisi 2002]. In sostanza l’autore è colui che effettivamente scrive l’opera, per quanto poi lo si possa intendere come autore reale o come autore implicito; il narratore o voce narrante [par. 3, 3249] è, invece, colui che racconta, enuncia, la storia e che non deve per forza identificarsi con l’autore: è l’anello di congiunzione tra il mondo della invenzione narrativa e il destinatario di quella stessa invenzione. Può essere in carne e ossa oppure inanimato, perché poco importa chi o cosa racconti la storia: ciò che conta è che ci sia una voce che narra e che non necessariamente deve identificarsi con l’autore. Se si prendono in esame, per esempio, l’intero racconto Il destino di una tazza senza manico (1963) di Heinrich Böll e l’avvio di Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco, al di là delle naturali differenze di contesto e di caratterizzazione del personaggio principale e narrante, poco importa che l’una sia una tazza e l’altro il vecchio monaco Adso giunto alla fine della sua lunga vita, entrambi narrano la loro storia (Adso addirittura inserendola in un ben connotato contesto storico), spinti dalla medesima esigenza di spiegare, forse a se stessi prima che agli altri, lo svolgimento della loro intera esistenza o di un preciso momento particolarmente denso di significato.

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Heinrich Böll Il destino di una tazza senza manico Sono fuori, in questo momento, sul davanzale della finestra e mi riempio lentamente di neve: la cannuccia di paglia si è gelata nell’acqua e sapone, dei passeri saltellano attorno a me, rozzi uccelli che si azzuffano per una briciola di pane sparsa per loro: e io tremo per la mia vita, per cui ho già tanto spesso tremato. Se uno

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di questi grassi passeri mi urta, cado giù dal davanzale, sulla striscia di cemento – acqua e sapone resteranno come un qualcosa di ovale, gelato e la cannuccia si piegherà – e i miei cocci li getteranno nella spazzatura. Attraverso i vetri appannati vedo splendere pallide le luci dell’albero di Natale, sento piano la canzone che si canta dentro, le zuffe dei passeri coprono tutto. Nessuno, là dentro, sa naturalmente che io sono nata esattamente venticinque anni fa sotto un albero di Natale e che venticinque anni sono un’età incredibilmente avanzata per una semplice tazza da caffè: le creature della nostra razza che senza essere usate sonnecchiano nelle cristalliere, vivono molto più a lungo di noi, semplici tazze. Eppure sono sicura che della mia famiglia non vive più nessuno, che i miei genitori, i miei fratelli e sorelle, addirittura i miei figli sono morti da tempo, mentre io devo compiere il mio venticinquesimo compleanno sul davanzale di una finestra ad Amburgo, in compagnia di passeri litigiosi. Mio padre era un piatto da dolci e mia madre, una rispettabile vaschetta per il burro: avevo cinque tra fratelli e sorelle, due tazze e tre piattini, ma la nostra famiglia restò unita solo poche settimane: la maggior parte delle tazze muore giovane, di morte improvvisa e così due dei miei fratelli e una delle mie care sorelle, già a Santo Stefano caddero dalla tavola. Presto dovemmo dividerci dal nostro amato padre: in compagnia di mio fratello Joseph, un piattino, accompagnata da mia madre, viaggiai verso sud.Avvolti in carta da giornale, fra un pigiama e un asciugamano di spugna, andammo a Roma per servire il figlio dei nostro padrone che si era dato allo studio dell’archeologia. Questo periodo della mia vita – “i miei anni romani” – fu per me di grandissimo interesse. Dapprima Julius, così si chiamava lo studente, mi portava con sé alle Terme di Caracalla, resti di mura di un enorme stabilimento balneare: là, alle Terme, feci amicizia con una bottiglia-thermos che accompagnava me e il mio padrone al lavoro. La bottiglia-thermos si chiamava Hulda; spesso restavamo insieme a lungo sull’erba, mentre Julius lavorava con la vanga: più tardi mi fidanzai con Hulda, la sposai durante il secondo anno dei mio soggiorno romano sebbene dovessi subire i violenti rimproveri di mia madre che riteneva indegno di me il matrimonio con una bottiglia-thermos. Mia madre era strana, comunque: si sentiva umiliata perché era usata come scatola da tabacco e così il mio caro fratello Joseph che considerò una offesa estrema venir abbassato al ruolo di portacenere. Vissi con Hulda, mia moglie, mesi felici: imparammo a conoscere tutto quello che anche Julius scopriva, la tomba di Augusto, la Via Appia, il Foro romano, anche se di quest’ultimo mi restò un triste ricordo perché qui Hulda – la mia consorte amata – venne distrutta dal lancio di una pietra di un ragazzetto romano. Morì per un pezzo di marmo grosso come un pugno, proveniente da una statua della dea Venere. Al lettore ancora incline a seguire i miei pensieri, dotato di tanto cuore da concedere anche ad una tazza senza manico saggezza di vita e sentimento di dolore – posso ora comunicare che i passeri hanno beccato da tempo le briciole e che per me non esiste immediato pericolo di vita. Nel frattempo sui vetri appannati, si è formato un tondo lucido della grandezza di un piatto – e dentro riesco a vedere chiaramente l’albero, vedo anche il viso dei mio amico Walter che schiaccia il naso contro il vetro e mi sorride.Walter, mezz’ora fa, prima che iniziasse la festa coi regali, ha fatto le bolle di sapone, ora mi indica col dito; suo padre scuote il capo, accenna col dito al trenino nuovo fiammante che Walter ha avuto in regalo, ma Walter scuote la testa e io so – mentre il vetro si appanna di nuovo – che al più tardi fra mezz’ora sarò di nuovo dentro, nella stanza.

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La gioia degli anni romani fu oscurata non solo dalla morte di mia moglie, ma ancora di più dalle stranezze di mia madre e dalla insoddisfazione di mio fratello che la sera, quando ci ritrovavamo insieme nell’armadio, si lamentavano di non essere apprezzati e riconosciuti nella loro vera funzione e vocazione. Pure anche per me si andavano preparando umiliazioni che una tazza cosciente può sopportare solo a fatica: Julius mi usava per bere cognac! Dire di una tazza: «Da quella si è già bevuto cognac», equivale a dire di un uomo: «È stato in cattiva compagnia». E sono stata usata molto per bere cognac! Furono tempi di umiliazioni che durarono finché in compagnia di un dolce e di una camicia, non venne spedito da Monaco a Roma uno dei miei cugini, un portauovo. Da quel giorno in poi il cognac si bevve dentro mio cugino e io venni regalata da Julius ad una signorina che era venuta come Julius a Roma, per la stessa ragione. Se prima, per tre anni, dal davanzale del nostro appartamento romano potevo vedere la tomba di Augusto, adesso cambiando casa, per i due anni seguenti guardavo – dal mio nuovo appartamento – verso Santa Maria Maggiore. Nella mia nuova condizione ero sì divisa da mia madre ma servivo al mio primo vero scopo: a bere caffè, mi si lavava due volte al giorno e abitavo in un grazioso armadietto antico. Anche qui non mi furono risparmiate le umiliazioni: la mia compagnia, in quel grazioso armadietto era una Hurz! Tutta la notte e molte, molte ore del giorno – e questo per due anni – dovetti sopportare la compagnia della Hurz. La Hurz era della razza di quelli di Hurlewang, la sua culla si trovava nel castello avito degli Hurlewang a Hürzenich sulla Hürze e aveva novant’anni! Pure durante i suoi novant’anni aveva vissuto ben poco. Alla mia domanda perché restasse sempre nell’armadio, rispose superba: «Una Hurz non serve per bere!». La Hurz era bella, di un delicato bianco grigio con dipinti dei piccoli puntini verdi e ogni volta che la scioccavo, impallidiva, tanto che i puntini verdi diventavano ben visibili. Senza intenzione malvagia la scioccavo spesso: cominciai con una domanda di matrimonio. Quando le offersi il mio cuore e la mia mano diventò così pallida che temetti per la sua vita, poi sussurrò: «La prego, non ne parli mai più: il mio fidanzato sta in una cristalliera ad Erlangen e mi aspetta». «Da quanto tempo?» domandai. «Da vent’anni», disse, «ci siamo fidanzati nella primavera dei 1914, ma venimmo bruscamente divisi. Passai la guerra nella cassetta di sicurezza alla banca di Francoforte, lui nella cantina della nostra casa di Erlangen. Dopo la guerra, in seguito a liti di eredità, andai a finire in una cristalliera a Monaco. La nostra unica speranza è che Diana – così si chiamava la nostra signora – si sposi con Wolfgang, il figlio della signora di Erlangen, nella cui cristalliera si trova il mio fidanzato, così saremo di nuovo uniti nella cristalliera di Erlangen». Io tacqui per non offenderla ancora, poiché avevo naturalmente notato da tempo che Julius e Diana si erano avvicinati l’uno all’altra. Diana aveva detto a Julius durante una gita a Pompei: «Beh, sa, io ho una tazza, ma una di quelle in cui non si può bere». «Ah», aveva detto Julius, «la posso togliere d’imbarazzo?». Più tardi, quando non chiesi più la sua mano, andai abbastanza d’accordo con la Hurz. Quando la sera ci trovavamo insieme nell’armadio, diceva sempre: «Mi racconti qualcosa, ma la prego, se Le è possibile, non cose grossolane». Che io fossi servita a bere caffè, cacao, latte, vino e acqua lo trovava già abbastanza strano, ma quando le raccontai che Julius mi aveva usato anche per bere cognac, ebbe di nuovo uno svenimento e si permise (secondo la mia modesta opinione) una osservazione ingiustificata: «Speriamo che Diana non caschi fra le braccia di questo ordinario giovinastro». Eppure tutto faceva invece pensare che Diana ci cascasse, fra le braccia

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di questo ordinario giovinastro: i libri nella stanza di Diana si coprivano di polvere, per settimane intere sulla macchina da scrivere restò un unico foglio con solo una frase a metà: «Quando Winckelmann a Roma...». Mi si lavava solo in gran fretta e pure la Hurz, così lontana dal mondo, cominciò a sentire che il suo incontro col fidanzato a Erlangen diventava sempre più improbabile. Diana riceveva infatti delle lettere da Erlangen, ma non rispondeva a queste lettere. Diana diventò strana, – solo esitando lo metto a protocollo – mi usò per bere del vino e quando la sera lo raccontai alla Hurz per poco non si rovesciò e ritornando in sé disse: «È impossibile che io resti proprietà di una signorina che riesce a bere vino in una tazza». Non sapeva, la buona Hurz quanto presto sarebbe stato esaudito il suo desiderio: la Hurz andò a finire a un Monte di Pietà e Diana tolse dalla macchina il foglio con la frase iniziata «Quando Winckelmann a Roma» e scrisse a Wolfgang. Più tardi arrivò una lettera di Wolfgang che Diana lesse a colazione mentre dentro di me beveva del latte e la sentii sussurrare: «Non gli importava dunque niente di me, gli importava solo di quella stupida Hurz». Vidi che prese lo scontrino dei pegni dal libro «Introduzione all’archeologia», lo mise in una busta e così ritengo che la buona Hurz sia riunita ora col suo fidanzato nella cristalliera di Erlangen e sono sicura che Wolfgang avrà trovato certo una moglie degna di lui. Per me seguirono anni strani: ritornai insieme a Diana e a Julius in Germania. Nessuno dei due aveva denaro e io rappresentavo per loro una ricchezza preziosa, perché mi si poteva usare per bere acqua, acqua chiara e bella, come la si può bere alle fontane delle stazioni. Non andammo né a Francoforte né a Erlangen ma ad Amburgo dove Julius aveva accettato un impiego in una banca. Diana era diventata più bella. Julius era pallido – io però ero riunito a mia madre e a mio fratello che tutti e due erano – grazie a Dio – più contenti. Mia madre aveva l’abitudine di dire, quando stavamo l’uno accanto all’altra sul fornello di cucina: «Beh, in fin dei conti, margarina…» e mio fratello mise su superbia addirittura perché serviva da piattino per i salumi: mio cugino però, il portauovo, fece una carriera che di rado è concessa a un portauovo: faceva funzioni di vaso da fiori. Ospitava primule, margheritine, piccolissimi ranuncoli e quando Julius e Diana mangiavano uova, mettevano i fiorellini sull’orlo dei piattino. Julius diventò più calmo, Diana diventò mamma – venne una guerra e io pensavo spesso alla Hurz che certamente si trovava ancora in chissà che cassetta di sicurezza, e sebbene mi avesse offeso, speravo che fosse riunita a suo marito, anche nella cassetta di sicurezza della banca. Insieme a Diana e alla bambina più grande, Johanna, trascorsi gli anni di guerra nella Lüneburger Heide e spesso ebbi occasione di osservare il viso pensieroso di Julius quando veniva in licenza e mi rimescolava a lungo. Diana si spaventava quando Julius mescolava così a lungo il caffè e gridava: «Ma cos’hai? Mescoli il caffè per ore!». È strano che tanto Diana che Julius abbiano dimenticato da quanto tempo io sia già con loro: permettono che mi geli qui fuori, che la mia vita sia messa ora di nuovo in pericolo da un gatto randagio che gironzola – mentre dentro Walter piange per me.Walter mi vuol bene, mi ha dato addirittura un nome, mi chiama «Bevi-come-Ivan», gli servo non solo per le sue bolle di sapone, ma anche da mangiatoia per i suoi animali, come vasca da bagno per le sue minuscole bambole di legno, gli servo per mescolare i colori, la colla… E sono sicura che tenterà di trasportarmi col nuovo treno che ha avuto in regalo.Walter piange forte, lo sento, e io tremo per la pace familiare che questa sera vorrei aver garantita, eppure mi turba constatare come gli uomini invecchino presto. Julius non sa più che una tazza senza

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manico può essere più importante e più preziosa di un trenino nuovo fiammante? L’ha dimenticato: testardo, rifiuta a Walter di tirarmi dentro, lo sento brontolare, gridare, sento piangere non solo Walter, ma anche Diana, e che Diana pianga mi fa dispiacere perché io voglio bene a Diana. È stata magari lei che mi ha rotto il manico, quando incartandomi per il trasloco dalla Lüneburger Heide ad Amburgo, dimenticò di imbottirmi bene, come era necessario e così persi il manico, ma restai preziosa: allora anche una tazza senza manico era preziosa e strano – quando ci furono ancora tazze da comprare e Julius mi voleva buttar via, Diana disse: «Julius, vuoi davvero buttare via la tazza, questa tazza?». Julius arrossì, disse: «Scusa!» e così restai in vita, servii anni amari come scodellino per il sapone da barba; noi tazze odiamo finire come pentolini per il sapone da barba. Più tardi mi sposai per la seconda volta con una scatola di porcellana per le mollette da capelli: quella mia seconda moglie si chiamava Gertrud, era buona con me e savia e noi restammo per due anni interi insieme sul vetro sopra il lavandino nel bagno. S’è fatto buio improvvisamente: Walter, dentro, piange ancora e sento che Julius parla di ingratitudine – non mi resta che scuotere il capo! Come sono folli gli uomini! Qui fuori c’è un tranquillo silenzio: la neve cade, da tempo il gatto è sgusciato via, ecco che la paura mi fa sussultare: la finestra viene spalancata, Julius mi afferra e dalla stretta della sua mano mi accorgo che è furioso: mi farà a pezzi? Bisogna essere una tazza per sapere come sono terribili quegli attimi quando si sente che si può venir scaraventati contro la parete o sul pavimento. Ma Diana mi ha salvato all’ultimo momento, mi ha preso dalle mani di Julius, ha scosso la testa e ha detto: «Questa tazza, la vuoi…» e Julius ha sorriso improvvisamente e ha detto: «Scusa, sono così nervoso…». Walter ha smesso di piangere da un pezzo, da un pezzo Julius siede vicino alla stufa col giornale e Walter osserva – seduto sulle sue ginocchia – come acqua e sapone si sciolgano dentro di me: ha già tirato fuori la cannuccia e così io, senza manico, macchiata e vecchia, sto in mezzo alla stanza, fra tante cose nuove fiammanti e mi sento estremamente fiera di essere stata io a riportare la pace, sebbene mi dovessi rimproverare di essere stata io quella che l’ha distrutta. Ma è colpa mia se Walter vuol più bene a me che al suo trenino nuovo? Vorrei solo che fosse viva Gertrud, morta da un anno, vorrei fosse ancor viva per vedere il viso di Julius: sembra che abbia capito qualcosa... [in Racconti umoristici e satirici, Milano,Tascabili Bompiani, 2002]

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Umberto Eco Il nome della rosa Giunto al finire della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo, nell’attesa di perdermi nell’abisso senza fondo della divinità silenziosa e deserta, partecipando della luce inconversevole delle intelligenze angeliche, trattenuto ormai col mio corpo greve e malato in questa cella del caro monastero di Melk, mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù mi accadde di assistere, ripetendo verbatim quanto vidi e udii, senza azzardarmi a trarne un disegno, come a lasciare a coloro che verranno (se l’Anticristo non li precederà) segni di segni, perché su di essi si eserciti la preghiera della decifrazione.

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Capitolo I

Il Signore mi conceda la grazia di essere testimone trasparente degli accadimenti che ebbero luogo all’abbazia di cui è bene e pio si taccia ormai anche il nome, al finire dell’anno dei Signore 1327 in cui l’imperatore Ludovico scese in Italia per ricostituire la dignità dei sacro romano impero, giusta i disegni dell’Altissimo e a confusione dell’infame usurpatore simoniaco ed eresiarca che in Avignone recò vergogna al nome santo dell’apostolo (dico l’anima peccatrice di Giacomo di Cahors, che gli empi onorarono come Giovanni XXII). Forse, per comprendere meglio gli avvenimenti in cui mi trovai coinvolto, è bene che io ricordi quanto stava avvenendo in quello scorcio di secolo, così come lo compresi allora, vivendolo, e così come lo rammemoro ora, arricchito di altri racconti che ho udito dopo se pure la mia memoria sarà in grado di riannodare le fila di tanti e confusissimi eventi. Sin dai primi anni di quel secolo il papa Clemente V aveva trasferito la sede apostolica ad Avignone lasciando Roma in preda alle ambizioni dei signori locali: e gradatamente la città santissima della cristianità si era trasformata in un circo, o in un lupanare, dilaniata dalle lotte tra i suoi maggiori; si diceva repubblica, e non lo era, battuta da bande armate, sottoposta a violenze e saccheggi. Ecclesiastici sottrattisi alla giurisdizione secolare comandavano gruppi di facinorosi e rapinavano con la spada in pugno, prevaricavano e organizzavano turpi traffici. Come impedire che il Caput Mundi ridiventasse, e giustamente, la meta di chi volesse indossare la corona dei sacro romano impero e restaurare la dignità di quel dominio temporale che già era stato dei cesari? Ecco dunque che nel 1314 cinque principi tedeschi avevano eletto a Francoforte Ludovico di Baviera come supremo reggitore dell’impero. Ma il giorno stesso, sull’opposta riva del Meno, il conte palatino dei Reno e l’arcivescovo di Colonia avevano eletto alla stessa dignità Federico d’Austria. Due imperatori per una sola sede e un solo papa per due: situazione che divenne, invero, fonte di grande disordine... Due anni dopo veniva eletto ad Avignone il nuovo papa, Giacomo di Cahors, vecchio di settantadue anni, col nome appunto di Giovanni XXII, e voglia il cielo che mai più alcun pontefice assuma un nome ormai così inviso ai buoni. Francese e devoto al re di Francia (gli uomini di quella terra corrotta sono sempre inclini a favorire gli interessi dei loro, e sono incapaci di guardare al mondo intero come alla loro patria spirituale), egli aveva sostenuto Filippo il Bello contro i cavalieri templari, che il re aveva accusato (credo ingiustamente) di delitti vergognosissimi per impadronirsi dei loro beni, complice quell’ecclesiastico rinnegato. Frattanto si era inserito in tutta quella trama Roberto di Napoli, il quale per mantenere il controllo della penisola italiana aveva convinto il papa a non riconoscere nessuno dei due imperatori tedeschi, e così era rimasto capitano generale dello stato della chiesa. Nel 1322 Ludovico il Bavaro batteva il suo rivale Federico.Ancor più timoroso di un solo imperatore, come lo era stato di due, Giovanni scomunicò il vincitore, e questi di rimando denunciò il papa come eretico. Occorre dire che, proprio in quell’anno, aveva avuto luogo a Perugia il capitolo dei frati francescani, e il loro generale, Michele da Cesena, accogliendo le istanze degli “spirituali” (di cui avrò ancora occasione di parlare) aveva proclamato come verità di fede la povertà di Cristo, che se aveva posseduto qualcosa coi suoi apostoli l’aveva avuto solo come usus facti. Degna risoluzione, intesa a salvaguardare la virtù e la purezza dell’ordine, ma essa spiacque assai al papa. […] Fu a quel punto, immagino, che Ludovico vide nei francescani, nemici ormai al papa, dei potenti alleati. […] E infine, non molti mesi prima degli eventi di cui sto

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narrando, Ludovico, che aveva raggiunto un accordo con lo sconfitto Federico, scendeva in Italia, veniva incoronato a Milano, entrava in conflitto coi Visconti, che pure lo avevano accolto con favore, poneva Pisa sotto assedio, nominava vicario imperiale Castruccio, duca di Lucca e Pistoia (e credo facesse male perché non conobbi mai uomo più crudele, tranne forse Uguccione della Faggiola), e ormai si apprestava a scendere a Roma, chiamato da Sciarra Colonna signore del luogo. Ecco com’era la situazione quando io – già novizio benedettino nel monastero di Melk fui sottratto alla tranquillità del chiostro da mio padre, che si batteva al seguito di Ludovico, non ultimo tra i suoi baroni, e che ritenette saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d’Italia e fossi presente quando l’imperatore fosse stato incoronato in Roma. Ma l’assedio di Pisa lo assorbì nelle cure militari. Io ne trassi vantaggio aggirandomi, un poco per ozio e un poco per desiderio di apprendere, per le città della Toscana, ma questa vita libera e senza regola non si addiceva, pensarono i miei genitori, a un adolescente votato alla vita contemplativa. E per consiglio di Marsilio, che aveva preso a benvolermi, decisero di pormi accanto a un dotto francescano, frate Guglielmo da Baskerville, il quale stava per iniziare una missione che lo avrebbe portato a toccare città famose e abbazie antichissime. Divenni così suo scrivano e discepolo al tempo stesso, né ebbi a pentirmene, perché fui con lui testimone di avvenimenti degni di essere consegnati, come ora sto facendo, alla memoria di coloro che verranno. Io non sapevo allora cosa frate Guglielmo cercasse, e a dire il vero non lo so ancor oggi, e presumo non lo sapesse neppure lui, mosso com’era dall’unico desiderio della verità, e dal sospetto – che sempre gli vidi nutrire – che la verità non fosse quella che gli appariva nel momento presente. E forse in quegli anni egli era distratto dai suoi studi prediletti da incombenze del secolo. La missione di cui Guglielmo era incaricato mi rimase ignota lungo tutto il viaggio, ovvero egli non me ne parlò. Fu piuttosto ascoltando brani di conversazioni, che egli ebbe con gli abati dei monasteri in cui ci arrestammo via via, che mi feci qualche idea sulla natura del suo compito. Ma non lo capii appieno sino a che non pervenimmo alla nostra meta, come poi dirò. Eravamo diretti verso settentrione, ma il nostro viaggio non procedette in linea retta e ci arrestammo in varie abbazie. Accadde così che piegammo verso occidente mentre la nostra meta ultima stava a oriente, quasi seguendo la linea montana che da Pisa porta in direzione dei cammini di San Giacomo, soffermandoci in una terra che i terribili avvenimenti che poi vi avvennero mi sconsigliano di identificare meglio, ma i cui signori erano fedeli all’impero e dove gli abati del nostro ordine di comune accordo si opponevano al papa eretico e corrotto. Il viaggio durò due settimane tra varie vicende e in quel tempo ebbi modo di conoscere (non mai abbastanza, come sempre mi convinco) il mio nuovo maestro. Nelle pagine che seguono non vorrò indulgere a descrizioni di persone – se non quando l’espressione di un volto, o un gesto, non appariranno come segni di un muto ma eloquente linguaggio – perché, come dice Boezio, nulla è più fugace della forma esteriore, che appassisce e muta come i fiori di campo all’apparire dell’autunno. […] Ma di Guglielmo vorrei dire, e una volta per tutte, perché di lui mi colpirono anche le singolari fattezze, ed è proprio dei giovani legarsi a un uomo più anziano e più saggio non solo per il fascino della parola e l’acutezza della mente, ma pur anche per la forma superficiale del corpo, che ne risulta carissima, come accade per la figura di un padre, di cui si studiano i gesti, e i corrucci, e se ne spia il sorriso – senza che ombra di lussuria inquini questo modo (forse l’unico purissimo) di amore corporale.

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Capitolo I

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Gli uomini di una volta erano belli e grandi (ora sono dei bambini e dei nani), ma questo fatto è solo uno dei tanti che testimoni la sventura di un mondo che incanutisce. La gioventù non vuole apprendere più nulla, la scienza è in decadenza, il mondo intero cammina sulla testa, dei ciechi conducono altri ciechi e li fan precipitare negli abissi, gli uccelli si lanciano prima di aver preso il volo, l’asino suona la lira, i buoi danzano, Maria non ama più la vita contemplativa e Marta non ama più la vita attiva, Lea è sterile, Rachele ha l’occhio carnale, Catone frequenta i lupanari, Lucrezio diventa femmina.Tutto è sviato dal proprio cammino. Siano rese grazie a Dio che io a quei tempi acquisii dal mio maestro la voglia di apprendere e il senso della retta via, che si conserva anche quando il sentiero è tortuoso. [Milano,Tascabili Bompiani, 2012]

Prima, però, di avventurarci nel complesso mondo della voce narrante, è necessario ricordare che non esiste testo narrativo senza un lettore [Introduzione]: ricordo, e non solo come semplice curiosità ma a dimostrazione di quanto sia fondante la funzione del lettore/destinatario, che un “Lettore”, e poi una “Lettrice”, sono i protagonisti del romanzo calviniano Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979). Naturalmente neppure per il lettore la faccenda è così semplice e lineare. Ovviamente esiste un lettore reale, ossia l’insieme di tutti quanti davvero hanno letto/leggono/leggeranno quella determinata opera nel corso del tempo: il lettore reale è, in poche parole, colui che oggi con termine più moderno chiamiamo pubblico o, addirittura, consumatore. Del resto, ricordiamolo, il libro, dal momento in cui è nata l’arte della stampa con i primi torchi manuali (1454), è diventato un vero e proprio oggetto di mercato sottoposto alle stesse identiche leggi di un qualsiasi altro prodotto, creato da qualcuno e venduto/comprato da qualcun’altro. Se questo è vero, deve necessariamente esistere, oltre al lettore reale, anche il lettore implicito, cioè quel lettore modello e ideale a cui pensa e a cui fa riferimento l’autore quando scrive la sua opera: non è una persona precisa, ma una astrazione nella mente dell’autore capace però di indirizzare le scelte compositive ed espressive dell’autore medesimo. Se devo scrivere una storia per «Blue Moon» o «Harmony», sto lavorando per quel preciso e ben individuabile pubblico femminile che cerca nella lettura lo svago e il lieto fine o, almeno, una romantica storia d’amore: farei un cattivo servizio all’editore e soprattutto al mio acquirente se non rispettassi le caratteristiche culturali del genere “rosa” e “d’intrattenimento”, ossia risulterei un autore del tutto incapace di cogliere le esigenze del mio lettore implicito, di quell’unico tipo di lettore che appunto fruirà della mia opera. Pur ragionando su un romanzo più “alto” come I promessi sposi, la questione è altrettanto identica: persino Manzoni, nel momento in cui ha iniziato a scrivere il suo romanzo, aveva in mente un ben preciso pubblico di riferimento, quel pubblico lombardo, se non persino milanese, colto, cattolico, liberale, progressista in grado di cogliere le molteplici sfumature, non solo strutturali ma ideologiche, della storia.A questo punto mi si potrebbe obiettare che

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proprio nei Promessi sposi Manzoni spesso si rivolge al suo pubblico, quei «venticinque lettori» più volte chiamati in causa: non è allora questo il lettore implicito su cui sto riflettendo? In verità, «i venticinque lettori» sono il lettore interno o narratario [Genette 2006; Eco 2010], ossia una sorta di personaggio inserito al medesimo livello diegetico della situazione narrativa, che, apertamente apostrofato o solo presunto, compare come destinatario immediato e sincronico del messaggio dell’autore che, in quel preciso momento e non in altro, ha bisogno di rivolgersi a qualcuno per rendere più “reale” la sua storia. Due esempi molto distanti e diversi tra loro, ma per questo ancora più espressivi: Jane Eyre, protagonista dell’omonimo romanzo (1847) di Charlotte Brontë, giunta alla fine della propria vicenda, si rivolge al suo lettore e proprio per lui recupera il personaggio di Adele, la bambina da cui tutto era iniziato; Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore addirittura si rivolge al suo lettore e lo invita a trovare la giusta posizione e il giusto momento per godere appieno di una storia così nuova e avvincente.

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Charlotte Brontë Jane Eyre Senza dubbio il lettore non ha dimenticato la piccola Adele. Io non l’ho dimenticata e andai subito a visitarla nella pensione dov’era. Fui commossa dell’accoglienza che mi fece. Mi parve magra e pallida e mi disse che non era felice. Il regolamento della pensione era troppo duro e gli studi troppo severi per una bimba di quell’età. La condussi meco e volli educarla io, ma mi accorsi presto che era impossibile; un altro reclamava il mio tempo e le mie cure; mio marito aveva assoluto bisogno di me. Cercai un’altra pensione più adattata, in una città vicina, per poterla condurre a casa spesso, ed ebbi cura che non mancasse di ciò che poteva contribuire al suo benessere. Ella si assuefece presto alla nuova pensione, fu contenta e fece rapidi progressi. Nel crescere, l’educazione inglese corresse in parte i difetti della sua indole troppo francese. Quando uscì di pensione trovai in lei una compagna docile, compiacente e onestissima. Con la sua gratitudine e con le cure che ha avute per me e per i miei, mi ha largamente ricompensata delle attenzioni fattele. [Milano, BUR, 2012, Parte Seconda, cap. XVIII]

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Italo Calvino Se una notte d’inverno un viaggiatore Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti.Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televisione accesa. Dillo subito, agli altri: «No, non voglio vedere la televisione!» Alza la voce, se no non ti sentono: «Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!» Forse non ti hanno sentito, con tutto quel chiasso; dillo più for-

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te, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo di Italo Calvino!» O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace. Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. Coricato sulla schiena, su un fianco, sulla pancia. In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio, sul pouf. Sull’amaca, se hai un’amaca. Sul letto, naturalmente, o dentro il letto. Puoi anche metterti a testa in giù, in posizione yoga. Col libro capovolto, si capisce. [Milano, Oscar Mondadori, 2012]

Ma non è tutto. In alcuni casi, addirittura, colui che racconta la storia, che spesso ne è pure il protagonista, si rivolge in continuazione ad un “voi” non meglio identificato ma indispensabile per lo svolgimento della storia medesima: questo lettore interno/narratario finisce per diventare il vero comprimario dell’azione perché senza la sua presenza, per quanto silenziosa e apparentemente esterna, la storia messa in scena risulterebbe totalmente priva di fondamento e assolutamente non credibile. Due casi per tutti: il “voi” di Uno, nessuno e centomila che rappresenta il necessario termine di confronto delle elucubrazioni interiori del protagonista Vitangelo Moscarda, il quale ha chiaramente bisogno di avere un pubblico “altro” per confermare la validità e la sensatezza delle proprie osservazioni sull’impossibilità di avere un’unica e universalmente riconosciuta identità; e Il cuore rivelatore (1843) di Edgar Allan Poe, in cui il lettore implicito/narratario è inserito nella diegesi proprio per avvalorare la singolarità di quanto il lettore reale andrà a leggere e che diventa così l’elemento“reale” all’interno di un contesto “surreale”.

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Luigi Pirandello Uno, nessuno e centomila Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo.Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno. Vi sembra già questo un primo segno di pazzia? Forse perché non riflettete bene. Poteva già essere in me la pazzia, non nego; ma vi prego di credere che l’unico modo d’esser soli veramente è questo che vi dico io. La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, così che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi. Così volevo esser solo. Senza me.Voglio dire senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere. Solo con un certo estraneo, che già sentivo oscuramente di non poter più levarmi di torno e ch’ero io stesso: l’estraneo inseparabile da me.

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Ne avvertivo uno solo, allora! E già quest’uno, o il bisogno che sentivo di restar solo con esso, di metterlo davanti per conoscerlo bene e conversare un po’ con lui, mi turbava tanto, con un senso tra di ribrezzo e di sgomento. Se per gli altri non ero quel che finora avevo creduto d’essere per me, chi ero io? […] Così, seguitando, sprofondai in quest’altra ambascia: che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita; vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come quello d’un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio; avveniva come un arresto in me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o rifatto. Io non potevo vedermi vivere. […] E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io come tutti gli altri lo vedevano e lo conoscevano. […] Ma presto l’atroce mio dramma si complicò; con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà. […] Quando così il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie. [Milano, Oscar Mondadori, 2009, IV Com’io volevo esser solo]

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Edgar Allan Poe Il cuore rivelatore Questo è vero, sono un uomo nervoso, spaventosamente nervoso, e lo sono sempre stato; ma perché pretendete che sono pazzo? La malattia mi ha reso i sensi più acuti – mica me li ha distrutti – logorati. E già avevo l’udito finissimo, e tutto ho sentito del cielo e della terra.Anche dell’inferno ho sentito parecchio. Com’è dunque che sarei pazzo? State attenti! E osservate con quanto senso, con quale calma sono capace di raccontarvi tutta la storia. Come in principio l’idea mi venne non è possibile dirlo; ma una volta che mi entrò in testa ne fui ossessionato notte e giorno. Un motivo, non c’era. La passione non c’entrava per nulla. Gli volevo bene, al caro vecchietto. E lui non mi aveva fatto alcun male. Mai mi aveva offeso. Né io volevo il suo oro. Fu per il suo occhio, credo. Sicuro, per quello! Aveva un occhio che pareva un occhio di avvoltoio, azzurro chiaro, con un velo sopra. Ogni volta che quell’occhio si posava su di me, mi si gelava il sangue; e così, lentamente, a grado a grado, mi misi in testa di togliergli la vita, al vecchio, e in tal modo sbarazzarmi per sempre dello sguardo di quell’occhio. Ecco il punto! Voi mi credete pazzo. E i pazzi non sanno quel che fanno. Se mi aveste visto, invece! Se aveste visto con quanta assennatezza operai; con quanta circospezione, dissimulazione, previdenza! Mai ero stato tanto gentile col vecchio come durante la settimana che precedette l’assassinio. E ogni sera, verso mezzanotte, giravo la maniglia della porta che metteva nella sua camera e aprivo: oh, piano, piano! Quando avevo aperto abbastanza per cacciar dentro la testa, facevo passare una lanterna cieca, perfettamente chiusa, eh, perfettamente chiusa, che non lasciasse filtrare un solo raggio, e poi affacciavo la testa. Oh, avreste riso a vedere con

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Capitolo I

quale destrezza l’affacciavo! La muovevo lentamente, con infinita lentezza, per non turbare il sonno del vecchio. Certo ci mettevo un’ora ad introdurla tutta, e a spingerla quanto occorreva per vederlo disteso nel suo letto. Un pazzo sarebbe stato così prudente? E quando avevo cacciato tutta la testa nella camera, cominciavo con cautela – infinita, infinita cautela – a schiudere la lanterna, che strideva un poco sui cardini. L’aprivo appena il necessario per lasciar cadere un impercettibile filo di luce sull’occhio d’avvoltoio. Sette volte, per sette lunghe notti, feci questo, – a mezzanotte precisa, ogni volta – e sempre trovai chiuso quell’occhio, così che mi fu impossibile compiere l’opera che mi ero proposto; perché non era lui, il vecchio, che mi irritava, ma il suo Occhio Malefico. Quando poi faceva giorno, ogni mattina, entravo baldanzosamente nella sua camera, e gli parlavo senza scrupolo alcuno, chiamandolo per nome nel modo più cordiale, e chiedendogli come avesse passato la notte.Vedete, avrebbe dovuto essere un vecchio molto fine d’acume, per sospettare che ogni sera, a mezzanotte precisa, io l’osservavo durante il suo sonno. L’ottava notte fu con maggior precauzione del solito che aprii la porta. La freccia piccola di un orologio impiega a muoversi meno di quanto ci impiegò la mia mano. Io non sapevo ancora di poter arrivare a tanto nella sagacia. E potevo appena contenere le sensazioni di trionfo che provavo. Pensate, ero lì che aprivo la porta millimetro per millimetro, e lui non aveva il minimo sospetto delle mie azioni, dei miei pensieri segreti! A quest’idea mi lasciai sfuggire una risatina; ed egli forse mi udì; poiché all’improvviso si mosse nel suo letto, come se stesse per risvegliarsi. Voi magari crederete che mi ritirai, e invece no. Nella camera c’era nero di pece, tanto il buio era fitto, perché, per timore dei ladri, le imposte venivano chiuse con molta cura, e io che sapevo com’egli non avrebbe potuto scorgere il varco della porta continuai a spingere questa, sempre più e più.Avevo poi affacciata la testa e stavo già per schiudere la lanterna, quando il pollice mi scivolò sul metallo della serratura, e il vecchio si rizzò in mezzo al letto, urlando: – Chi è? Rimasi fermo in immobilità assoluta, e non dissi nulla. Per tutta un’ora non mossi un muscolo, e in tanto tempo non sentii il vecchio ricoricarsi. Egli era sempre seduto in mezzo al letto, teso in ascolto, come avevo fatto io per notti e notti a sentire i tarli nella parete. Ma d’un tratto mi giunse un gemito sommesso, e io riconobbi ch’era un gemito di terrore mortale. Non di dolore o di pena, era il suono sordo e soffocato che s’alza dal fondo di un’anima piegata dallo spavento. Conoscevo quel suono. Per notti e notti, alla mezzanotte in punto, mentre il mondo dormiva, era sgorgato dal mio petto a scuotere con la sua eco terribile i terrori che mi ossessionavano. Dico che lo conoscevo bene. Sapevo quel che provava il povero vecchio, e, per quanto la voglia di ridere mi riempisse il cuore, ebbi pietà di lui. Sapevo ch’egli era rimasto sveglio, da quando aveva avvertito il primo leggero rumore, e s’era rigirato nel letto. I suoi timori erano andati crescendo.Aveva certo cercato di persuadersi ch’erano privi di fondamento; ma non aveva saputo. Si era certo detto tra di sé: non è nulla, sarà stato il vento nel caminetto, sarà stato un topo, sarà stato un grillo. Sicuro, si era sforzato di farsi coraggio con queste ipotesi, ma invano.Tutto era stato vano, perché la Morte che si avvicinava gli era passata davanti con la sua grande ombra nera, nella quale lo aveva avviluppato. Ed era per il funebre influsso di quell’ombra invisibile ch’egli sentiva, benché nulla vedesse né udisse, la presenza della mia testa nella sua camera. Quando ebbi aspettato a lungo, con pazienza infinita, che si ricoricasse, mi decisi infine a socchiudere un po’ la lanterna, ma tanto poco ch’era nulla quasi. Lo feci

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Il mondo della narrazione

furtivamente come non potreste immaginare, e un solo pallido raggio, un filo di ragnatela, scaturì dalla fessura per cadere diritto sull’occhio d’avvoltoio. Era aperto, quello, spalancato, così che il furore mi prese non appena l’ebbi guardato. Lo vidi perfettamente, azzurro opaco e ricoperto dell’orribile velo che mi agghiacciava il midollo nelle ossa; e nient’altro all’infuori di esso vedevo della faccia del vecchio; dappoiché, come per istinto, avevo diretto il raggio proprio sul punto maledetto. Non vi ho già detto che la pazzia di cui mi ritenete affetto è soltanto un’estrema acutezza dei sensi? Ebbene, ecco che un sordo e intermittente rumore soffocato mi giunse in quella all’orecchio, come il ticchettio di un orologio inviluppato nel cotone. E io riconobbi quel rumore. Era il cuore del vecchio che batteva. E, come il rullo del tamburo eccita il coraggio dei soldati, quel suono esasperò il mio furore. Tuttavia seppi ancora contenermi, e non mi mossi. Quasi non osavo respirare. E tenevo ferma la lanterna, col raggio diretto sull’occhio. La marcia infernale del cuore batteva frattanto sempre più forte; si faceva precipitosa, e ad ogni istante più alta, più alta. Il terrore del vecchio doveva essere estremo! Il battito del suo cuore diventava sempre più forte, di minuto in minuto! Mi seguite con attenzione? Vi ho detto ch’ero un uomo nervoso; e lo sono in effetti. Ebbene, quello strano rumore, in mezzo al cuor della notte, nel pauroso silenzio di quella vecchia casa, mi riempì di un irresistibile terrore.Ancora per qualche minuto mi contenni, senza muovermi dal mio posto. Ma il battito si faceva più forte, più forte. Pareva che il cuore dovesse scoppiare. E così una nuova angoscia mi prese. Se il rumore fosse sentito da qualche vicino? L’ora del vecchio era suonata! Con un urlo spalancai la lanterna, e mi slanciai nella camera. Il vecchio non diede un grido, non un grido solo. In un attimo lo tirai giù sul pavimento, e gli rovesciai addosso il peso stritolante del letto. Allora, vedendo che avevo compiuto il più della mia opera, sorrisi contento. Tuttavia il cuore continuò per qualche minuto a battere, d’un battito velato. Ma io non me ne preoccupai; non si poteva mica sentirlo attraverso il muro. Poi cessò. Era morto, il mio vecchio. Risollevai il letto ed esaminai il cadavere. Era rigido, sicuro, era morto stecchito. Portai la mano al posto del cuore e ve la tenni per alcuni minuti. Nessuna pulsazione. Era proprio morto, il mio uomo. Il suo occhio, ormai, non mi avrebbe tormentato più. Se persistete a credermi pazzo, la finirete una buona volta quando vi avrò riferito le accorte precauzioni ch’io presi per nascondere il cadavere. La notte avanzava, e io mi davo vivamente da fare, in perfetto silenzio. E tagliai dal corpo la testa, le braccia, le gambe. Poi tolsi tre assi dall’impiantito della camera, e nascosi tutto di sotto. Poi rimisi ai loro posto le tavole con tanta perizia e destrezza che nessun occhio umano, neanche il suo, avrebbe potuto accorgersi di nulla. E non c’era niente da lavare, non una macchia di sudicio, non una traccia di sangue. Ero stato ben accorto.Avevo lasciato scolare ogni cosa in un mastello: ah, ah! Erano le quattro quando mi fui sbrigato, e ancora faceva buio come a mezzanotte. Intanto che le ore suonavano sentii bussare alla porta di strada. Scesi per aprire, perfettamente tranquillo. Che avevo da temere, ormai? Entrarono tre uomini che si dissero, con aria soave, ufficiali di polizia. Un vicino aveva sentito gridare, cosicché, sorto il sospetto d’un qualche delitto, una denuncia era stata trasmessa all’ufficio di polizia, e i tre signori erano stati mandati per visitare il quartiere. Sorrisi: che avevo da temere? Così diedi il benvenuto ai tre signori. Il grido, dissi, me l’ero lasciato sfuggire io, sognando. Soggiunsi che il vecchio mio amico si trovava in viaggio. Condussi i visitatori per tutta la casa. Li invitai a cercare, che cer-

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cassero bene. Infine li portai nella sua camera. Mostrai loro i suoi tesori. perfettamente in ordine, in salvo. Nell’entusiasmo della mia sicurezza presi delle seggiole e li pregai di riposarsi. Io, con la folle audacia dei trionfo assoluto, andai a mettermi proprio sul punto dove si trovava nascosto il corpo della vittima. I poliziotti erano soddisfatti. I miei modi li avevano convinti. Quanto a me, mi sentivo stranamente a mio agio. Sedettero, i tre, e parlarono di cose banali.A tutto io rispondevo con buonumore. Ma a un certo punto, mi sentii impallidire, ed ebbi voglia che se ne andassero. Mi doleva il capo, e mi pareva d’avvertire un battito alle orecchie. Ma quelli se ne restavano seduti e continuavano a chiacchierare. Il battito, una specie di tintinnio, si fece più distinto; e mi diedi a parlare più che potei per non sentirlo; ma esso tenne duro, e prese un carattere ben definito, tanto che infine compresi che non lo avevo dentro alle orecchie. Allora mi feci certo pallidissimo, ma mi ostinavo a chiacchierare, a voce alta, e con sempre maggiore accanimento. Il rumore aumentava sempre, che potevo fare? Era un sordo e intermittente rumore soffocato, come d’un orologio inviluppato nel cotone. Respiravo a fatica; quanto agli agenti, essi non lo sentivano ancora. Parlai più in fretta, con maggiore veemenza; ma il rumore cresceva senza tregua. Mi alzai a discutere di sciocchezze da nulla, ad altissima voce e gesticolando con violenza, ma il rumore cresceva, saliva sempre. E perché non se ne andavano, quei tre? A grandi passi pesanti misurai su e giù il pavimento come esasperato dalle osservazioni dei miei contraddittori, ma il rumore cresceva regolare, costante. Signore Iddio, che potevo fare? Mi agitavo, smaniavo, bestemmiavo! Smuovevo la seggiola sulla quale stavo seduto, la facevo stridere sull’impiantito; ma il rumore sovrastava ormai tutto, e cresceva, cresceva ancora, senza fine. Diventava più forte, più forte, e gli uomini chiacchieravano sempre, scherzosi, sorridenti. Era possibile che non sentissero? Dio onnipossente; no, no, essi sentivano, sospettavano, essi sapevano e si divertivano al mio terrore, così mi parve e lo credo tuttora. Ma tutto era da preferire a quella derisione. Io non ero più capace di sostenere quei loro sorrisi ipocriti. Sentii che mi occorreva gridare, o sarei morto. E intanto, ecco, lo sentite? Ascoltate, si fa più forte! Più forte, più forte, sempre di più! – Miserabili! – gridai. – Smettetela di fingere! Confesso tutto! Togliete lì, quelle assi! È lì sotto! È il suo terribile cuore che batte! [in Racconti, Milano, Garzanti, 2009]

A questo punto è necessaria un’ulteriore specificazione. Inutile dire che il racconto di Poe è integralmente“fantastico”e“surreale”: eppure noi in qualità di lettori reali ce lo gustiamo come se la storia svelata fosse accaduta “veramente”. Questo è il cosiddetto patto narrativo, ossia quel tacito e inconsapevole accordo che s’instaura tra lettore e autore e per il quale il lettore, messe da parte le sue facoltà critiche, considera la storia appunto come vera, pur sapendo bene che è inventata e totalmente immaginaria (questo discorso vale anche per le rappresentazioni filmiche, per cui lo spettatore si spaventa o si commuove come se i fatti fossero vivi e non semplici riprese). Del resto, l’autore cerca sempre di costruire le sue storie, reali o fittizie che siano, con uno statuto di veridicità in modo che il lettore, in qualche modo, possa farle sue. In Notturno indiano, per esempio l’autore, Antonio Tabucchi, nel costruire una vicenda che ha i contorni vaghi del so-

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gno e che lascia al lettore la possibilità di interpretare il finale secondo la personale sensibilità, per attribuire autenticità al viaggio che sta per raccontare, un viaggio che è anche “fisico” e “materiale”, istituisce immediatamente con il suo lettore reale un patto narrativo, esplicitato addirittura prima di iniziare la storia vera e propria, nella Nota, nell’Indice dei luoghi e, persino, nella frase scelta ad esergo, cioè in quelle zone che fanno parte del cosiddetto paratesto [Genette 1991; BOX 8. La soglia del testo narrativo, 162]. Ciò che sta per raccontare, sembra dirci Tabucchi, è assolutamente vero come assolutamente veri sono i luoghi da lui stesso visitati (e poi ripercorsi dal protagonista del suo romanzo breve), per cui noi lettori non possiamo che credere a quanto stiamo per leggere e addirittura utilizzare l’Indice dei luoghi come una concreta guida turistica attraverso la quale o seguire il tragitto di un altro o costruirsene uno privato e più personale.

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Antonio Tabucchi Notturno indiano Questo libro, oltre che un’insonnia, è un viaggio. L’insonnia appartiene a chi ha scritto il libro, il viaggio a chi lo fece. Tuttavia, dato che anche a me è capitato di percorrere gli stessi luoghi che il protagonista di questa vicenda ha percorso, mi è parso opportuno fornire di essi un breve indice. Non so bene se a ciò ha contribuito l’illusione che un repertorio topografico, con la forza che il reale possiede, potesse dare luce a questo Notturno in cui si cerca un’Ombra; oppure l’irragionevole congettura che un qualche amante di percorsi incongrui potesse un giorno utilizzarlo come guida. [Palermo, Sellerio, 2006, Nota]

Il patto narrativo può diventare ancora più sostanziale ed entrare a far parte della diegesi stessa, in alcuni casi persino generandola. Si pensi alla finzione del manoscritto utilizzata sia da Manzoni sia da Eco in apertura dei rispettivi romanzi: tanto nei Promessi sposi quanto nel Nome della rosa il lettore, per poter apprezzare a fondo la storia raccontata, deve assolutamente credere all’esistenza di un testo antecedente (per Eco addirittura più di uno) che sarebbe alla base della storia medesima. Il lettore, insomma, stringe un accordo con l’autore e simula di ritenere realmente esistente quel manoscritto da cui tutto avrebbe preso le mosse e senza il quale, peraltro, l’autore non sarebbe in grado di scrivere la sua opera perché non conoscerebbe la vicenda nel suo svolgimento e nella sua bellezza. È ovvio, ed è questo il patto stretto all’inizio della lettura, che noi tutti destinatari/lettori sappiamo bene che il manoscritto non esiste, perché nel caso di Manzoni rappresenta solo un artificio retorico per conferire maggiore dignità alla storia di due umili popolani e per criticare un certo modo di scrittura grossolano ed ampolloso insieme, e nel caso di Eco anche un meritato e voluto omaggio a Manzoni stesso.

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Alessandro Manzoni I promessi sposi «L’Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl’anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl’illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d’Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co’ loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll’ago finissimo dell’ingegno i fili d’oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal’argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de’ Politici maneggj, et il rimbombo de’ bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d’horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d’Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l’amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l’Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl’Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl’altri Spettabili Magistrati qual’erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d’atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl’huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l’humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d’Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti. Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne’ tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medemo si farà de’ luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl’huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocchè, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti...». – Ma, quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla? – Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. – Ben è vero, dicevo tra me, scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l’opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtù; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano. Sì; ma com’è dozzinale! com’è sguaiato! com’è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagno-

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la seminata qua e là; e poi, ch’è peggio, ne’ luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni occasione d’eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que’ passi insomma che richiedono bensì un po’ di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio. E allora, accozzando, con un’abilità mirabile, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato, nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch’è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d’oggigiorno: son troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m’è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani. – Nell’atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico; molto bella. – Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de’ fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura? – Non essendosi presentato alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed ecco l’origine del presente libro, esposta con un’ingenuità pari all’importanza del libro medesimo. Taluni però di que’ fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c’eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de’ quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all’occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla. Ma, rifiutando come intollerabile la dicitura del nostro autore, che dicitura vi abbiam noi sostituita? Qui sta il punto. Chiunque, senza esser pregato, s’intromette a rifar l’opera altrui, s’espone a rendere uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l’obbligazione: è questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto di sottrarci.Anzi, per conformarci ad essa di buon grado, avevam proposto di dar qui minutamente ragione del modo di scrivere da noi tenuto; e, a questo fine, siamo andati, per tutto il tempo del lavoro, cercando d’indovinare le critiche possibili e contingenti con intenzione di ribatterle tutte anticipatamente. Né in questo sarebbe stata la difficoltà; giacché (dobbiam dirlo a onor del vero) non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma le mutano. Spesso anche, mettendo due critiche alle mani tra loro, le facevam battere l’una dall’altra; o, esaminandole ben a fondo, riscontrandole attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, così opposte in apparenza, eran però d’uno stesso genere, nascevan tutt’e due dal non badare ai fatti e ai principi su cui il giudizio doveva esser fondato; e, messele, con loro gran sorpresa, insieme, le mandavamo insieme a spasso. Non ci sarebbe mai stato autore che provasse così ad evidenza d’aver fatto bene. Ma che? quando siamo stati al punto di raccapezzar tutte le dette obiezioni e risposte, per disporle con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un libro.Veduta la qual cosa, ab-

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biam messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile d’un altro, potrebbe parer cosa ridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo. [Milano, BUR, 2011, Introduzione]

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Umberto Eco Il nome della rosa Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en français d’après l’édition de Dom J. Mabillon (Aux Presses de l’Abbaye de la Source, Paris, 1842). II libro, corredato da indicazioni storiche in vero assai povere, asseriva di riprodurre fedelmente un manoscritto del XIV secolo, a sua volta trovato nel monastero di Melk dal grande erudito secentesco, a cui tanto si deve per la storia dell’ordine benedettino. La dotta trouvaille (mia, terza dunque nel tempo) mi rallegrava mentre mi trovavo a Praga in attesa di una persona cara. Sei giorni dopo le truppe sovietiche invadevano la sventurata città. Riuscivo fortunosamente a raggiungere la frontiera austriaca a Linz, di lì mi portavo a Vienna dove mi ricongiungevo con la persona attesa, e insieme risalivamo il corso del Danubio. In un clima mentale di grande eccitazione leggevo, affascinato, la terribile storia di Adso da Melk, e tanto me ne lasciai assorbire che quasi di getto ne stesi una traduzione, su alcuni grandi quaderni della Papéterie Joseph Gibert, su cui è tanto piacevole scrivere se la penna è morbida. E così facendo arrivammo nei pressi di Melk, dove ancora, a picco su un’ansa del fiume, si erge il bellissimo Stift più volte restaurato nei secoli. Come il lettore avrà immaginato, nella biblioteca dei monastero non trovai traccia del manoscritto di Adso. Prima di arrivare a Salisburgo, una tragica notte in un piccolo albergo sulle rive dei Mondsee, il mio sodalizio di viaggio bruscamente si interruppe e la persona con cui viaggiavo scomparve portando seco il libro dell’abate Vallet, non per malizia, ma a causa del modo disordinato e abrupto con cui aveva avuto fine il nostro rapporto. Mi rimase così una serie di quaderni manoscritti di mio pugno, e un gran vuoto nel cuore.Alcuni mesi dopo a Parigi decisi di andare a fondo nella mia ricerca. […] Se non fosse successo qualcosa di nuovo sarei ancora qui a domandarmi da dove venga la storia di Adso da Melk, senonché nel 1970, a Buenos Aires, curiosando sui banchi di un piccolo libraio antiquario in Corrientes, non lontano dal più insigne Patio del Tango di quella grande strada, mi capitò tra le mani la versione castigliana di un libretto di Milo Temesvar, Dell’uso degli specchi nel gioco degli scacchi, che già avevo avuto occasione di citare (di seconda mano) nel mio Apocalittici e integrati, recensendo il suo più recente I venditori di Apocalisse. Si trattava della traduzione dell’ormai introvabile originale in lingua georgiana (Tibilisi, 1934) e quivi, con mia grande sorpresa, lessi copiose citazioni dal manoscritto di Adso, salvo che la fonte non era né il Vallet né il Mabillon, bensì padre Athanasius Kircher (ma quale opera?). Un dotto – che non ritengo opportuno nominare – mi ha poi assicurato che (e citava indici a memoria) il grande gesuita non ha mai parlato di Adso da Melk. Ma le pagine

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di Temesvar erano sotto i miei occhi e gli episodi a cui si riferiva erano assolutamente analoghi a quelli del manoscritto tradotto dal Vallet. […] Ne conclusi che le memorie di Adso sembravano giustamente partecipare alla natura degli eventi di cui egli narra: avvolte da molti e imprecisi misteri, a cominciare dall’autore, per finire alla collocazione dell’abbazia di cui Adso tace con tenace puntigliosità, così che le congetture permettono di disegnare una zona imprecisa tra Pomposa e Conques, con ragionevoli probabilità che il luogo sorgesse lungo il dorsale appenninico, tra Piemonte, Liguria e Francia (come dire tra Lerici e Turbia). Quanto all’epoca in cui si svolgono gli eventi descritti, siamo alla fine del novembre 1327; quando invece scriva l’autore è incerto. Calcolando che si dice novizio nel ’27 e ormai vicino alla morte quando stende le sue memorie, possiamo congetturare che il manoscritto sia stato stilato negli ultimi dieci o vent’anni del XIV secolo. A ben riflettere, assai scarse erano le ragioni che potessero inclinarmi a dare alle stampe la mia versione italiana di una oscura versione neogotica francese di una edizione latina secentesca di un’opera scritta in latino da un monaco tedesco sul finire del trecento. Anzitutto, quale stile adottare? La tentazione di rifarmi a modelli italiani dell’epoca andava respinta come del tutto ingiustificata: non solo Adso scrive in latino, ma è chiaro da tutto l’andamento del testo che la sua cultura (o la cultura dell’abbazia che così chiaramente lo influenza) è molto più datata; si tratta chiaramente di una somma plurisecolare di conoscenze e di vezzi stilistici che si collegano alla tradizione basso medievale latina.Adso pensa e scrive come un monaco rimasto impermeabile alla rivoluzione del volgare, legato alle pagine ospitate nella biblioteca di cui narra, formatosi su testi patristico-scolastici, e la sua storia (al di là dei riferimenti ed avvenimenti dei XIV secolo, che pure Adso registra tra mille perplessità, e sempre per sentito dire) avrebbe potuto essere scritta, quanto a lingua e a citazioni erudite, nel XII o nel XIII secolo. D’altra parte è indubbio che nel tradurre nel suo francese neogotico il latino di Adso, il Vallet abbia introdotto di suo varie licenze, e non sempre soltanto stilistiche. […] Tuttavia, come essere sicuri che il testo a cui si rifacevano Adso o i monaci di cui egli annotava i discorsi, non contenesse, tra glosse, scolii e appendici varie, anche annotazioni che poi avrebbero nutrito la cultura posteriore? Infine, dovevo conservare in latino i passaggi che lo stesso abate Vallet non ritenne opportuno tradurre, forse per conservare l’aria del tempo? Non v’erano giustificazioni precise per farlo, se non un senso, forse malinteso, di fedeltà alla mia fonte… Ho eliminato il soverchio, ma qualcosa ho lasciato. E temo di aver fatto come i cattivi romanzieri che, mettendo in scena un personaggio francese, gli fanno dire «parbleu!» e «la femme, ah! la femme!». In conclusione, sono pieno di dubbi. Proprio non so perché mi sia deciso a prendere il coraggio a due mani e a presentare come se fosse autentico il manoscritto di Adso da Melk. Diciamo: un gesto di innamoramento. O, se si vuole, un modo per liberarmi da numerose e antiche ossessioni. Trascrivo senza preoccupazioni di attualità. Negli anni in cui scoprivo il testo dell’abate Vallet circolava la persuasione che si dovesse scrivere solo impegnandosi sul presente, e per cambiare il mondo.A dieci e più anni di distanza è ora consolazione dell’uomo di lettere (restituito alla sua altissima dignità)

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che si possa scrivere per puro amor di scrittura. E così ora mi sento libero di raccontare, per semplice gusto fabulatorio, la storia di Adso da Melk, e provo conforto e consolazione nel ritrovarla così incommensurabilmente lontana nel tempo (ora che la veglia della ragione ha fugato tutti mostri che il suo sonno aveva generato), così gloriosamente priva di rapporto coi tempi nostri, intemporalmente estranea alle nostre speranze e alle nostre sicurezze. Perché essa è storia di libri, non di miserie quotidiane, e la sua lettura può inclinarci a recitare, col grande imitatore da Kempis: «In omnibus requiem quaesivi, et nusquam inveni nisi in angulo cum libro». [Milano,Tascabili Bompiani, 2012]

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3. Autore vs narratore: chi racconta la storia? Come abbiamo molto brevemente accennato non sempre, anzi quasi mai, la storia è raccontata dall’autore. È cosi possibile distinguere l’autore vero e proprio da colui/colei che ha il compito di narratore/narratrice: se, infatti, l’autore è chi effettivamente scrive l’opera, il narratore, che non necessariamente si identifica con l’autore, è chi enuncia la storia (la storia stessa potrebbe essere definita una enunciazione): è, in poche parole, il tramite tra la creazione narrativa e il destinatario della comunicazione letteraria che sottende a quella stessa creazione; è la voce narrante [Genette 2006] che ci introduce dentro la storia e che ci guida attraverso i suoi meandri, facendoci in qualche modo “sentire” la storia medesima per mezzo del suo particolare punto di vista o focalizzazione [cap. III, par. 2, 149-160]. Questo, naturalmente, non esclude che ci possa essere una coincidenza tra autore e narratore: tutte le storie biografiche e memoriali presentano una simile forma di identità, per cui il Lev Nikolàeviôc Tolstoj dei Ricordi (1903) è sia lo scrittore/protagonista della vicende narrate e ricordate, sia la voce che ci restituisce quello stesso racconto per mezzo di intonazioni e accenti vari e diversi tra loro.Tuttavia, non si può fare a meno di notare che questa coincidenza tra autore e voce, tra autore e narratore, non può mai essere così perfetta: lo scarto tra il tempo reale dell’esperienza vissuta da Tolstoj (per esempio l’infanzia) e l’atto della scrittura di Tolstoj medesimo (per esempio l’età adulta se non persino senile) finisce inevitabilmente per modificare il momento ricordato; insomma lo scarto tra l’io che ha vissuto quel momento e l’io che lo racconta non permette di riprodurre nella scrittura quel momento esattamente come è accaduto ma soltanto mediato dalla memoria che, come è noto, è di per sé imperfetta e parziale. Del resto, come ci ha insegnato Marcel Proust in Alla ricerca del tempo perduto (1913-1927), la memoria è un meccanismo delicatissimo che si attiva grazie a molteplici fattori (anche di tipo sensoriale) che spesso sono legati tra loro da minutissime schegge/tessere che spesso è assai complicato rimettere insieme per restituire così la verità del passato rispetto al presente [cap. II, par. 1, 57-63]: tutto questo per sottoli-

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neare ancora una volta quanto sia complicato dare definizioni esatte dei meccanismi che sottendono alla creazione narrativa. Il narratore/voce narrante svolge comunque una serie di funzioni: 1) racconta la storia; 2) dirige/indirizza la storia secondo un proprio metodo come farebbe un regista; 3) comunica un determinato contenuto; 4) testimonia la propria vicenda e le vicende altrui o di un’epoca particolare; 5) propone un messaggio che può essere anche ideologicamente connotato. Può essere anche di vari tipi a seconda che si trovi internamente alla storia (intradiegetico = dentro la diegesi, dentro la narrazione) o esternamente alla storia (extradiegetico = fuori della diegesi, fuori della narrazione): questo significa anche che ci possono essere diversi stadi della narrazione e che uno stesso narratore possa raccontare più storie, o che all’interno di una storia possa esserne raccontata un’altra da un nuovo narratore, storie che non sempre o non necessariamente devono risultare legate tra loro e che, pertanto, finiscono per appartenere a momenti e livelli diversi [Genette 2006]. Il discorso sui livelli narrativi è alquanto complesso. Per tentare di semplificarlo si potrebbe dire che è come parlare di una scatola cinese o di una matrioska: dentro una più grande vi si possono trovare tante altre scatole o matrioscke più piccole, ognuna delle quali sta a un livello più basso o, meglio, più interno, ed è in qualche modo collegata all’altra o alle altre. Si potrebbe anche dire che il personaggio di una storia può diventare un vero e proprio narratore raccontando un’ulteriore storia, all’interno della quale un nuovo personaggio ne può narrare a sua volta un’altra ancora: alla storia di primo livello (la più esterna = livello extradiegetico), o racconto primo perché narrata appunto dal primo narratore e/o personaggio, si aggiunge così una storia di secondo livello (più interna = livello intradiegetico) e poi una di terzo, che permette di creare una sorta di concatenamento tra la storia di primo livello e la storia di secondo livello (livello metadiegetico). Si pensi al Decameron (1339-1351) di Giovanni Boccaccio: esiste chiaramente un primo livello della narrazione (extradiegetico) in cui è possibile far rientrare la cornice che fa da sfondo alla storia dei dieci narratori e alle dieci giornate di racconti, primo livello che è ancora tutto in mano alla voce narrante identificabile, e sovrapponibile, con quella dell’autore.All’interno di esso esiste un secondo livello di narrazione (intradiegetico) che è costituito dalle cento novelle narrate giorno per giorno per dieci giorni da ogni singolo narratore che segue uno schema fisso tematicamente imposto dal re/regina di quella giornata, livello in cui la voce narrante non è più quella dell’autore Boccaccio ma dei dieci giovani che si sono salvati dalla peste e rifugiati insieme sulle colline di Fiesole e che diventano alternativamente autori/narratori delle singole storie. Esiste però anche un terzo livello strettamente connesso ai primi due e in modo particolare al secondo ogniqualvolta all’interno di una delle novelle raccontate alcuni personaggi delle novelle medesime (quin-

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di non più uno dei dieci giovani) diventano a loro volta narratori, raccontando una storia e creando così una specie di novella dentro la novella. Ne scelgo una brevissima ma fondamentale nello schema complesso del Decameron (guarda caso posta proprio al centro dei cento racconti: sesta giornata, novella prima), in cui risulta chiarissima la presenza dei tre livelli: il livello extradiegetico, o primo livello, è sempre fornito dalla cornice entro la quale si inseriscono tutti i racconti della sesta giornata e in particolare quello di Filomena, narratore più interno (intradiegetico) che ha il compito di enunciare la storia di Madonna Oretta, la quale come protagonista [cap. III, par. 1, 145-149] della novella di Filomena a sua volta riferisce del racconto di un Messer Cavaliere, racconto che, per quanto non esplicitato nel suo contenuto, rappresenta il terzo livello della storia (metadiegetico).

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Giovanni Boccaccio Decameron Un cavalier dice a madonna Oretta di portarla con una novella: e, mal compostamente dicendola, è da lei pregato che a piè la ponga. Giovani donne, come ne’ lucidi sereni sono le stelle ornamento del cielo e nella primavera i fiori de’ verdi prati e de’ colli i rivestiti albuscelli, così de’ laudevoli costumi e de’ ragionamenti belli sono i leggiadri motti; li quali, per ciò che brievi sono, tanto stanno meglio alle donne che agli uomini quanto più alle donne che agli uomini il molto parlar si disdice. E il vero che, qual si sia la cagione, o la malvagità del nostro ingegno o inimicizia singulare che a’ nostri secoli sia portata da’ cieli, oggi poche o non niuna donna rimasa ci è la qual ne sappia ne’ tempi oportuni dire alcuno o, se detto l’è, intenderlo come si conviene: general vergogna di tutte noi. Ma per ciò che già sopra questa materia assai da Pampinea fu detto, più oltre non intendo di dirne; ma per farvi avvedere quanto abbiano in sé di bellezza a’ tempi detti, un cortese impor di silenzio fatto da una gentil donna a un cavaliere mi piace di raccontarvi. Sì come molte di voi o possono per veduta sapere o possono avere udito, egli non è ancora guari che nella nostra città fu una gentile e costumata donna e ben parlante, il cui valore non meritò che il suo nome si taccia. Fu adunque chiamata madonna Oretta e fu moglie di messer Geri Spina; la quale per avventura essendo in contado, come noi siamo, e da un luogo a un altro andando per via di diporto insieme con donne e con cavalieri, li quali a casa sua il dì avuti aveva a desinare, e essendo forse la via lunghetta di là onde si partivano a colà dove tutti a piè d’andare intendevano, disse uno de’ cavalieri della brigata: «Madonna Oretta, quando voi vogliate, io vi porterò, gran parte della via che a andare abbiamo, a cavallo con una delle belle novelle del mondo». Al quale la donna rispuose: «Messere, anzi ve ne priego io molto, e sarammi carissimo». Messer lo cavaliere, al quale forse non stava meglio la spada allato che ’l novellar nella lingua, udito questo, cominciò una sua novella, la quale nel vero da sé era bellissima, ma egli or tre e quatro e sei volte replicando una medesima parola e ora

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indietro tornando e talvolta dicendo: «Io non dissi bene» e spesso ne’ nomi errando, un per un altro ponendone, fieramente la guastava: senza che egli pessimamente, secondo le qualità delle persone e gli atti che accadevano, profereva. Di che a madonna Oretta, udendolo, spesse volte veniva un sudore e uno sfinimento di cuore, come se inferma fosse stata per terminare; la qual cosa poi che più sofferir non poté, conoscendo che il cavaliere era entrato nel pecoreccio né era per riuscirne, piacevolemente disse: «Messer, questo vostro cavallo ha troppo duro trotto, per che io vi priego che vi piaccia di pormi a piè». Il cavaliere, il quale per avventura era molto migliore intenditor che novellatore, inteso il motto e quello in festa e in gabbo preso, mise mano in altre novelle e quella che cominciata aveva e mal seguita senza finita lasciò stare. [Torino, UTET, 2012, Giornata sesta, Novella Prima]

Sempre sui diversi livelli narrativi si pensi in epoca moderna a I falsari (1925) di André Gide.Anche qui siamo in presenza di una serie di scatole cinesi tra loro strettamente e abilmente connesse: la storia cosiddetta di primo livello (extradiegetico) si svolge tra l’estate e l’autunno di un anno non precisato, all’inizio del ventesimo secolo, e coinvolge un gruppo variegato di parigini tra i quali spiccano per ruolo e importanza, oltre al malvagio conte di Passavant, Edouard, Olivier, Bernard e una banda di giovani falsari, nella quale saranno implicati pure altri personaggi e che farà a suo modo da sfondo alle complicate esperienze di molti protagonisti, alcune delle quali anche terribili e drammatiche. All’interno di questa vicenda di primo livello, viene inserito (livello più interno e quindi intradiegetico) il diario di Edouard, vero e proprio alter ego dello scrittore, diario dal quale risulta che lo stesso Edouard sta componendo un romanzo che, guarda caso, si intitola I falsari: questo romanzo in formazione rappresenta il terzo livello (metadiegetico o mise en abyme, per usare un’espressione usata proprio dallo stesso Gide) [cap. 2, par. 4, 99-100] perché sta a cavallo sia della storia in quanto tale sia del diario che ne è l’origine prima. Ma non è tutto. Il romanzo che sta scrivendo Edouard/Gide e che sta anche dentro il diario è sì la storia che si sta raccontando, quindi una sorta di storia della storia (un metaromanzo, si potrebbe dire con terminologia moderna), ma è persino – ulteriore e originale complicazione – la storia intorno alla storia, ossia il discorso/romanzo sul romanzo come genere letterario o, per meglio dire, il discorso/romanzo su un genere di romanzo che non si può più scrivere perché il romanzo tradizionale di stampo realista e naturalista non ha più ragione d’essere in una società sempre più sfaccettata e sempre meno rappresentabile nella sua concretezza e oggettività (da qui forse anche il finale non finale o il finale che non chiude e che lascia al lettore «la libertà di pensare quello che vuole»).

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André Gide I falsari Colpach, agosto 1921. Forse l’estrema difficoltà che incontro a far progredire il mio libro è il logico effetto di un errore iniziale. A momenti mi sembra che l’idea stessa di questo romanzo sia assurda e arrivo e non capire più cosa io voglia. In questo libro, per essere sinceri, non esiste un solo centro al quale convergano i miei sforzi; i miei sforzi si debbono polarizzare, invece, intorno a due fuochi, al modo delle ellissi. Da una parte l’avvenimento, il fatto, il dato esterno; dall’altra parte lo sforzo stesso del romanziere per fare con tutto questo un libro. Ed è questo lo spunto principale, il centro nuovo che disorienta la narrazione e la trascina verso la speculazione. In conclusione vedo questo quaderno, nel quale scrivo la storia del libro, fuso interamente nel libro, anzi vedo in esso l’interesse principale del libro, per la maggiore irritazione del lettore. [Milano,Tascabili Bompiani, 2004, Diario dei falsari, Secondo quaderno]

In tempi più recenti lo scrittore tedesco Michael Ende con La storia infinita (1979) ha ricreato un romanzo a più livelli: la narrazione, organizzata in 26 capitoli, tanti quanto le lettere dell’alfabeto tedesco (ogni capitolo, in verità, oltre ad essere numerato in cifre romane ed avere un titolo, è anche contrassegnato da un capolettera che ricorda le miniature medievali di area germanica), nella edizione originale, era scritta in due colori, che distinguevano le parti ambientate nel mondo degli uomini (rosso rubino) da quelle ambientate nel Regno di Fàntasia (verde) – purtroppo le edizioni economiche successive non hanno conservato questa particolarità e tutto il testo è stampato in nero. Il romanzo di Ende è chiaramente un metaromanzo, vale a dire un romanzo nel romanzo o, sotto un diverso punto di vista, un romanzo che parla di altri romanzi o di altri libri: in effetti, le storie del ragazzino umano, Bastiano Baldassarre Bucci, e del Regno di Fàntasia s’intrecciano continuamente tra loro, incastrandosi a vicenda come vere e proprie scatole cinesi tanto che alla fine risulta molto complesso comprendere quale contenga l’altra. Nella finzione letteraria, infatti, La storia infinita risulta l’insieme di ben tre storie, ossia di tre romanzi e quindi di tre libri distinti: il primo, quello scritto dall’autore Michael Ende, in cui si raccontano le vicende del mondo degli uomini e del Regno di Fantàsia (livello extradiegetico); il secondo, quello “preso in prestito” da Bastiano nel negozio di antiquariato del signor Coriandoli, rilegato in pelle e con l’auryn in copertina, in cui si raccontano solo le vicende del Regno di Fantàsia (livello intradiegetico); e il terzo, quello che si trova sulla Montagna Vagante e riscritto dal Vecchio, perfettamente speculare a quello di Ende e che, perciò, racconta di nuovo in maniera più ridotta tutta la storia (livello metadiegetico o mise en abyme). Grazie a questa particolare struttura Ende riesce a infrangere la barriera che divide lettore e personaggio [cap. I, par. 2, 20-26; e cap. III, Premessa, 109-114], poiché Ba-

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stiano nel corso dell’intera vicenda passa da un ruolo all’altro e da un mondo all’altro (mondi che hanno in verità pareti “sottili” e “trasparenti”), finendo così per diventare protagonista dell’una e dell’altra e per essere non soltanto il bambino che sta leggendo il libro rubato ma anche il bambino che salverà il regno di Fàntasia dal Nero che avanza. Se, dunque, ci possono essere diversi livelli di narrazione, significa che il narratore/voce narrante può essere dentro o fuori della storia e che, in poche parole, può narrare la storia medesima in maniera del tutto differente. È ovvio che il narratore che sta dentro la storia,il narratore intradiegetico,fa parte della storia,la vive,la compie o ne conosce aspetti rilevanti tanto da poterla raccontare e restituire al suo lettore. Il narratore esterno o extradiegetico, invece, stando fuori della storia, la racconta senza averla vissuta né da protagonista né da comprimario e, pertanto, ci restituisce la storia stessa, almeno a livello teorico, attraverso una narrazione più oggettiva e meno personale. Cerchiamo, dunque, di districarci tra i molteplici tipi di narratori, più o meno imparziali: 1. Narratore in prima persona o autodiegetico (è intradiegetico)  è l’io-protagonista della storia che parla in prima persona, per cui sta totalmente dentro la storia, ne conosce ogni particolare perché l’ha vissuta o la sta vivendo in maniera diretta. Naturalmente non è solo l’io dell’autobiografia e della scrittura memoriale ma tutti i personaggi che agiscono e insieme raccontano le proprie azioni, che danno senso alla storia perché senza di loro non ci sarebbe alcuna storia da raccontare. Gli esempi sono davvero numerosi, ma per comodità rimando a quell’Adso del Nome della rosa di Eco, di cui ho già riportato un brano [cap. I, par. 2, 17-20]:Adso è totalmente interno alla storia, è lui che la racconta benché non sia l’unico personaggio centrale dal momento che, sin dalla sua entrata in scena, è accompagnato da Guglielmo di Baskerville, maestro e mentore. Rimane il fatto che ogni cosa passa attraverso gli occhi di Adso e attraverso la lente più o meno deformante della memoria e del tempo trascorso visto che Adso decide di narrare quell’episodio così centrale nella sua formazione ormai giunto alla fine della sua lunga esistenza. 2. Narratore interno o omodiegetico (è intradiegetico)  è colui che è partecipe della storia, ne fa in qualche modo parte come personaggio; è l’iotestimone, perché prende parte attivamente alla vicenda, senza però esserne necessariamente il personaggio principale. In Se questo è un uomo (19451947) di Primo Levi il narratore non è sempre o soltanto lo stesso Levi ma anche tutti gli altri compagni nel campo di concentramento di Auschwitz: il narratore finisce con l’identificarsi non soltanto con l’“io” di Primo Levi ma con il “noi” di tutti gli altri prigionieri o persino con un “loro” che varia a seconda delle circostanze e degli episodi narrati, tanto che risulta assai difficile distinguere la voce privata e singola dell’autore/narratore da quella collettiva e plurale di tutti gli altri compagni di prigionia e stabilire in questo modo chi sia a rivestire il ruolo di protagonista o di semplice comparsa.

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Primo Levi Se questo è un uomo Tale sarà la nostra vita. Ogni giorno, secondo il ritmo prestabilito, Ausrücken ed Einrücken, uscire e rientrare; lavorare, dormire e mangiare; ammalarsi, guarire o morire. …E fino a quando? Ma gli anziani ridono a questa domanda: a questa domanda si riconoscono i nuovi arrivati. Ridono e non rispondono: per loro, da mesi, da anni, il problema del futuro remoto è impallidito, ha perso ogni acutezza, di fronte ai ben più urgenti e concreti problemi del futuro prossimo: quanto si mangerà oggi, se nevicherà, se ci sarà da scaricare carbone. Se fossimo ragionevoli, dovremmo rassegnarci a questa evidenza, che il nostro destino è perfettamente inconoscibile, che ogni congettura è arbitraria ed esattamente priva di fondamento reale. Ma ragionevoli gli uomini sono assai raramente, quando è in gioco il loro proprio destino: essi preferiscono in ogni caso le posizioni estreme; perciò, a seconda del loro carattere, fra di noi gli uni si sono convinti immediatamente che tutto è perduto, che qui non si può vivere e che la fine è certa e prossima; gli altri, che, per quanto dura sia la vita che ci attende, la salvezza è probabile e non lontana, e, se avremo fede e forza, rivedremo le nostre case e i nostri cari. Le due classi, dei pessimisti e degli ottimisti, non sono peraltro così ben distinte: non già perché gli agnostici siano molti, ma perché i più, senza memoria né coerenza, oscillano fra le due posizioni-limite, a seconda dell’interlocutore e del momento. Eccomi dunque sul fondo.A dare un colpo di spugna al passato e al futuro si impara assai presto, se il bisogno preme. Dopo quindici giorni dall’ingresso, già ho la fame regolamentare, la fame cronica sconosciuta agli uomini liberi, che fa sognare di notte e siede in tutte le membra dei nostri corpi; già ho imparato a non lasciarmi derubare, e se anzi trovo in giro un cucchiaio, uno spago, un bottone di cui mi possa appropriare senza pericolo di punizione, li intasco e li considero miei di pieno diritto. Già mi sono apparse, sul dorso dei piedi, le piaghe torpide che non guariranno. Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia, tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro. Avevamo deciso di trovarci, noi italiani, ogni domenica sera in un angolo del Lager; ma abbiamo subito smesso, perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta più pochi, e più deformi, e più squallidi. Ed era così faticoso fare quei pochi passi: e poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo. [Torino, Einaudi, 2012, Sul fondo]

3. Narratore allodiegetico (è intradiegetico)  è un testimone qualunque che racconta la storia, o perché vi ha assistito, o perché l’ha sentita narrare, o perché gliel’hanno riferita; non è cioè colui che fa andare avanti l’azione, benché ne possa far parte. Si pensi al dottor Watson, compagno di avventure dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle sin dal primo romanzo Uno studio in rosso (1887): quasi sempre è presente alle vicen-

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de, ma non ne è il protagonista [cap. III, par. 1, 145] pur essendone l’osservatore diretto. Tutta la storia, infatti, viene raccontata sì dalla voce di Watson, ma colui che muove i fili della storia medesima e che, ogni volta, contribuisce a risolvere il “giallo” è ovviamente Sherlock Holmes.

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Arthur Conan Doyle Uno studio in rosso Mentre parlava, trasse di tasca un metro e una grossa lente d’ingrandimento rotonda. Armato di quei due strumenti si mise a trotterellare in silenzio per la stanza, fermandosi qua e là, e, di tanto in tanto, inginocchiandosi. Una volta si sdraiò addirittura al suolo. Era così assorto che sembrava aver dimenticato la nostra presenza. Infatti, continuava a parlar da solo, sottovoce, prorompendo di continuo in esclamazioni, sbuffate, fischi e piccole grida di giubilo e di speranza. Mentre l’osservavo non potevo fare a meno di paragonarlo a un segugio di razza, ben allenato, intento a inseguir la preda con ebbri latrati. Per più di venti minuti egli continuò le proprie ricerche misurando con la massima cura la distanza che separava tracce a me invisibili e, di tanto in tanto, applicando il metro alle pareti in un modo incomprensibile. In un punto, raccolse con cura dal suolo un mucchietto di polvere grigia e lo ripose in una busta. Infine, esaminò con la lente d’ingrandimento la parola scritta sul muro, scrutando minuziosamente ogni lettera. Dopo di che, parve soddisfatto, e si rimise in tasca il metro e la lente d’ingrandimento. – Dicono che il genio consiste in un’illimitata capacità di aver cura dei dettagli – osservò sorridendo. – È una pessima definizione, ma si applica al lavoro dell’investigatore. Gregson e Lestrade avevano seguito le manovre del loro collega dilettante con molta curiosità e con una certa dose di scherno. Evidentemente, non capivano che anche le più insignificanti azioni di Sherlock Holmes erano tutte rivolte a un fine pratico e ben definito, cosa di cui io cominciavo a rendermi conto. – Che ne pensa? – domandarono entrambi. – Se tentassi di aiutarvi, farei la figura del presuntuoso e vi ruberei il merito delle indagini – rispose il mio amico. – Avete già fatto tali progressi, che sarebbe un peccato se qualcun altro ficcasse il naso nella faccenda. – Il suo tono era colmo di ironia. – Se mi terrete al corrente dell’andamento delle vostre indagini, sarò felice di collaborare, nel limite delle mie possibilità. Intanto, vorrei parlare con l’agente che ha trovato il cadavere. Potete fornirmene il nome e l’indirizzo? Lestrade guardò il proprio taccuino. – È John Rance – rispose. – Non è in servizio, adesso. Lo troverà al n. 6 di Audley Court, Kennington Park Gate. Holmes prese nota dell’indirizzo. – Venga, dottore – disse a me. – Andiamo a trovare Rance.Vi dirò una cosa che può aiutarvi nelle indagini – soggiunse rivolgendosi ai due funzionari. – Qui c’è stato un delitto, e l’assassino è un uomo. È alto oltre un metro e ottanta, è ancora giovane, ha i piedi piccoli per la sua statura, porta scarpe grossolane con la punta squadrata e, al momento dell’assassinio, fumava un sigaro Trichinopoly. È arrivato assieme alla sua vittima, su una carrozza a quattro ruote, tirata da un cavallo che aveva tre ferri vecchi e uno nuovo allo zoccolo anteriore sinistro. Con tutta probabi-

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lità, l’assassino ha il viso florido e le unghie della mano destra notevolmente lunghe. Queste sono soltanto piccole indicazioni, ma può darsi che vi siano utili. [in Elementare, Watson.Tutti i romanzi e i migliori racconti di Sherlock Holmes, Milano, Oscar Mondadori, 2011]

4. Narratore esterno o eterodiegetico (è extradiegetico)  è colui che è totalmente estraneo alla vicenda e può entrarne a far parte solo con giudizi personali che, tuttavia, non alterano l’evoluzione della storia. È come una voce fuori campo, che può intervenire con pareri e pensieri diretti per quanto possa far sentire la propria voce attraverso altri strumenti retorici. Si pensi alla Madame Bovary (1854) di Gustave Flaubert: è evidente che la storia di Emma non è raccontata né dalla protagonista femminile né tanto meno dall’autore, ma da una voce che non entra in scena e non interviene all’interno delle vicende narrate, creando in questo modo una narrazione sostanzialmente diretta e apparentemente oggettiva. Eppure non è proprio possibile non avvertire che quella voce esterna è la stessa voce che imprime il ritmo e l’andamento della narrazione medesima per mezzo di un sottile ma percepibilissimo tono ironico, se non addirittura beffardo.

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Gustave Flaubert Madame Bovary V’era, nel collegio, una vecchia zitella che, tutti i mesi, v’andava per otto giorni, a lavorare nella guardaroba. Protetta dall’arcivescovado, perché appartenente ad una antica famiglia di gentiluomini rovinati dalla Rivoluzione, mangiava in refettorio, alla tavola delle suore, e faceva due chiacchiere con loro, dopo il pasto, prima di risalire a lavorare. Spesso alcune collegiali scappavano dall’aula di studio per andarla a trovare. Ella sapeva a memoria canzoni galanti del secolo scorso, che cantava sottovoce, continuando a cucire; raccontava storie, diffondeva notizie, espletava in città commissioni e prestava di nascosto, alle grandi, romanzi che portava sempre nelle tasche del grembiale, e dei quali la buona signorina stessa divorava lunghi capitoli, nelle soste del lavoro. Le vicende erano tutte d’amori, di amanti, d’innamorate, di dame perseguitate che svenivano in padiglioni solitari, di postiglioni uccisi ad ogni fermata di posta, di cavalli sfiancati in ogni pagina, di foreste tetre, di turbamenti di cuore, giuramenti, singhiozzi, lacrime e baci, di barchette al chiar di luna, d’usignoli in boschetti, di signori coraggiosi come leoni, miti come agnelli, virtuosi come non si può essere, sempre ben vestiti e piangenti come urne. A quindici anni, per sei mesi, Emma s’insudiciò dunque le mani con quella polvere di vecchie biblioteche circolanti. Più tardi, con Walter Scott, s’invaghì di cose storiche, sognò forzieri, sale di guardia, menestrelli.Avrebbe voluto vivere in un vecchio castello, come quelle castellane dal lungo corsetto, che, sotto il trifoglio delle ogive, passavano i giorni col gomito sulla pietra e il mento nel palmo della mano, a veder venire dal fondo della campagna un cavaliere dalla piuma bianca, galoppante su un cavallo nero. [Milano, BUR, 2012]

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5. Narratore onnisciente (è extradiegetico)  è colui che conosce già tutta la storia in partenza e che scientemente decide cosa e quanto far conoscere di questa storia al proprio lettore. È colui che detiene l’intera intelligenza del racconto, conosce più cose di ciascuno dei personaggi e decide di comunicare al lettore ciò che ritiene più opportuno e che più gli interessa. Può essere più o meno intrusivo, come il cantore dell’epica classica da Omero a Virgilio, o come il narratore dei Promessi sposi, che ha già letto tutta la storia nel manoscritto già citato e ricordato [par. 2, 28-30] e che, per giunta spesse volte nascondendosi dietro il manoscritto medesimo, accorcia episodi o nasconde l’identità di taluni personaggi o di taluni luoghi: si pensi a tutti gli asterischi che costellano la vicenda umana dell’Innominato prima dell’incontro con Lucia, asterischi che hanno la funzione di rendere quella vicenda ancora più oscura e più minacciosa e così di rendere ancora più significativamente emblematica la successiva “conversione”. Sulla stessa linea il romanzo d’avventura senza tempo Lo Hobbit (1937) di John Ronal R. Tolkien, in cui il narratore, che è chiaramente Tolkien in persona, fa sentire la sua voce, la sua presenza e i suoi pensieri intorno a fatti e personaggi, rivolgendosi proprio come faceva Manzoni più di cent’anni prima, a un ipotetico lettore interno o narratario [par. 2, 20-26].

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John Ronald Reuel Tolkien Lo Hobbit o la riconquista del tesoro Certo è una cosa strana, ma sta di fatto che a parlare delle cose belle e dei giorni lieti si fa in fretta, e non è che interessi molto ascoltare; invece da cose disagevoli, palpitanti o addirittura spaventose si può fare una buona storia, o comunque, un lungo racconto. Rimasero per un bel po’ in quella casa confortevole almeno quattordici giorni, e trovarono duro andarsene. Bilbo sarebbe stato contentissimo di fermarsi lì in sempiterno, anche supponendo che un desiderio esaudito per magia lo avesse riportato senza guai diritto alla sua caverna hobbit. Eppure, di quel soggiorno c’è poco da raccontare. Il padrone di casa era un amico degli elfi, una di quelle persone i cui padri compaiono nelle strane storie anteriori all’inizio della Storia, nelle guerre tra gli orchi malefici, gli elfi e i primi uomini del Nord. Nei giorni in cui si svolge la nostra storia c’erano ancora delle persone che avevano per antenati sia gli elfi sia gli eroi del Nord, e Elrond, il padrone di casa, era il loro capo. Era nobile e bello in viso come un sire elfico, forte come un guerriero, saggio come uno stregone, venerabile come un re dei nani, e gentile come la primavera. Compare in molte storie, ma la sua parte in quella della grande avventura di Bilbo è piccola, anche se importante, come vedrete se mai ne arriviamo alla fine. La sua casa era perfetta, che vi piacesse il cibo, o il sonno, o il lavoro, o i racconti, o il canto, o che preferiste soltanto star seduti a pensare, o anche se amaste una piacevole combinazione di tutte queste cose. In quella valle il male non era mai penetrato. [Milano,Tascabili Bompiani, 2012, III. Breve riposo]

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Se pure con toni e modi del tutto differenti narratore onnisciente è anche il Thomas Mann di La morte a Venezia (1912), che, quasi in punta di penna e con elegante delicatezza, riferisce la passione del maturo artista Gustav von Aschenbach per il giovane Tadzio, in una Venezia cupa e decadente segnata da una violenta epidemia di colera, in cui bellezza e disfacimento si alternano e quasi si confondono a creare un’atmosfera di sospesa attesa, sino a quella conclusiva e magistrale scena [cap. II, par. 3, 73-75] durante la quale per un’ultima volta gli sguardi di von Aschenbach e di Tadzio si incontrano, forse casualmente o forse no, prima del tragico epilogo.

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Thomas Mann La morte a Venezia Indugiò [Tadzio] sulla riva, sostò a testa china, tracciando figure con la punta del piede nella sabbia umida, poi entrò nell’acqua bassa che non gli arrivava nemmeno alle ginocchia, l’attraversò stancamente e arrivò al banco di sabbia. Là si fermò un attimo, gli occhi rivolti verso il largo, poi incominciò a percorrere lentamente, tornando verso sinistra, la lunga e sottile striscia di terreno asciutto. Separato dalla terra ferma da una distesa d’acqua, separato dai compagni dal suo orgoglio, errava laggiù, visione isolata e senza più legami, nel mare, nel vento, davanti all’infinito nebbioso. Ancora una volta si fermò in contemplazione. E improvvisamente, come spinto da un ricordo, da un impulso, voltò deliziosamente il busto dalla posizione primitiva, con una mano sul fianco, e guardò verso la spiaggia al di sopra della spalla. Aschenbach, pieno di brividi, era lì, come quando per la prima volta, tornando dalla soglia dell’atrio, aveva incontrato lo sguardo di quegli occhi che avevano il colore grigio del crepuscolo. Appoggiato allo schienale della poltrona aveva girato lentamente il capo per seguire i movimenti del piccolo passeggiatore; ora si alzò come per andare incontro allo sguardo, ma ricadde in avanti, così che i suoi occhi, ora, guardavano dal basso verso l’alto, mentre la faccia assumeva l’espressione distesa e intimamente assorta di chi è caduto in un sonno profondo. Ma gli sembrava che il pallido e soave psicagogo, laggiù, gli sorridesse, gli facesse cenno; che, staccando la mano dall’anca, gli indicasse l’orizzonte lontano, lo precedesse aleggiando nell’informe enorme e pieno di promesse. E, come tante altre volte, cercò di seguirlo. Passarono alcuni minuti prima che qualcuno accorresse in aiuto dello scrittore che si era accasciato su un fianco. Lo trasportarono in camera sua. E il giorno stesso il mondo accolse con reverente commozione la notizia della sua morte. [in La montagna magica con La morte a Venezia,Milano,Oscar Mondadori,2011]

6. Narratore che s’identifica (è extradiegetico)  è il narratore che si immedesima completamente in un personaggio, per cui dice e sa solo ciò che dice e sa quel determinato personaggio. Ne riporta tutte le sensazioni, emozioni, impressioni; racconta la storia esclusivamente con gli occhi di quel personaggio, essendone solo un testimone. Nella novella di Luigi Pirandello La rallegrata (1913) tutta la storia è vista sotto un unico e par-

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ticolarissimo punto di vista [cap. III, par. 2, 149-151], quello di Nero un meraviglioso cavallo da tiro ormai giunto alla pensione e che non è neppure il solo cavallo del racconto (è sufficiente solo l’avvio).

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Luigi Pirandello La rallegrata Appena il capostalla se n’andò, bestemmiando più del solito, Fofo si volse a Nero, suo compagno di mangiatoja, nuovo arrivato, e sospirò: – Ho capito! Gualdrappe, fiocchi e pennacchi. Cominci bene, caro mio! Oggi è di prima classe. Nero voltò la testa dall’altra parte. Non sbruffò, perché era un cavallo bene educato. Ma non voleva dar confidenza a quel Fofo. Veniva da una scuderia principesca, lui, dove uno si poteva specchiare nei muri: greppie di faggio a ogni posta, campanelle di ottone, battifianchi imbottiti di cuojo e colonnini col pomo lucente. Mah! Il giovane principe, tutto dedito ora a quelle carrozze strepitose, che fanno – pazienza, puzzo – ma anche fumo di dietro e scappano sole, non contento che già tre volte gli avessero fatto correre il rischio di rompersi il collo, subito appena colpita di paralisi la vecchia principessa (che di quelle diavole là, oh benedetta!, non aveva voluto mai saperne), s’era affrettato a disfarsi, tanto di lui, quanto di Corbino, gli ultimi rimasti nella scuderia, per il placido landò della madre. Povero Corbino, chi sa dov’era andato a finire, dopo tant’anni d’onorato servizio! Il buon Giuseppe, il vecchio cocchiere, aveva loro promesso che, andando a baciar la mano con gli altri vecchi servi fidati alla principessa, relegata ormai per sempre in una poltrona, avrebbe interceduto per essi. Ma che! Dal modo con cui il buon vecchio, ritornato poco dopo, li aveva accarezzati al collo e sui fianchi, subito l’uno e l’altro avevano capito che ogni speranza era perduta e la loro sorte decisa. Sarebbero stati venduti. E difatti Nero non comprendeva ancora, dove fosse capitato. Male, proprio male, no. Certo, non era la scuderia della principessa. Ma una buona scuderia era anche questa. Più di venti cavalli, tutti mori e tutti anzianotti, ma di bella presenza, dignitosi e pieni di gravità. Oh, per gravità, forse ne avevano anche troppa! Che anch’essi comprendessero bene l’ufficio a cui erano addetti, Nero dubitava. Gli pareva che tutti quanti, anzi, stessero di continuo a pensarci, senza tuttavia venirne a capo. Quel dondolio lento di code prolisse, quel raspare di zoccoli, di tratto in tratto, certo erano di cavalli cogitabondi. Solo quel Fofo era sicuro, sicurissimo d’aver capito bene ogni cosa. Bestia volgare e presuntuosa! Brocco di reggimento, scartato dopo tre anni di servizio, perché – a suo dire – un tanghero di cavalleggero abruzzese lo aveva sgroppato, non faceva che parlare e parlare. Nero, col cuore ancor pieno di rimpianto per il suo vecchio amico, non poteva soffrirlo. Più di tutto lo urtava quel tratto confidenziale, e poi la continua maldicenza sui compagni di stalla. [in Novelle per un anno, Milano, Oscar Mondadori, 2011]

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7. Narratore comportamentista o assente o che si azzera (è extradiegetico)  è il narratore che sa e dice meno di quello che sa e dice un determinato personaggio. Non entra mai nella mente e nei pensieri dei suoi personaggi e sembra solo guardare, quasi spiare, l’azione da una angolazione esterna, come una macchina da presa che riprende le scene senza poter interagire con esse. È un narratore che si azzera, non emette giudizi personali perché tutto quello che racconta deve sembrare raccontato da una massa di personaggi, principali e minori, che costituiscono la storia medesima. È sostanzialmente il narratore dei romanzi e dei racconti naturalisti e/o veristi: sono i vari personaggi, protagonisti o comprimari, secondari o semplici comparse [cap. III, par. 1, 145-149], a fare la storia e quindi a raccontarla in presa diretta, come se il narratore e di conseguenza il lettore fossero parte, benché silenziosa e muta, di quello stesso gruppo sociale di cui sono attori centrali i diversi personaggi della storia. Si pensi, tanto per fare un esempio più che famoso ma sempre efficacissimo, all’inizio della novella Rosso Malpelo (1878-1880) di Giovanni Verga: una voce, che è poi identificabile con l’intero villaggio e in particolate con la comunità dei lavoratori della cava di sale, spiega i motivi di quel soprannome “malpelo”, causa e motivo dei cattivi comportamenti dello stesso protagonista e degli ingiusti maltrattamenti dei suoi compagni, sino al drammatico e sciaguratissimo finale.

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Giovanni Verga Rosso Malpelo Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. Sicché tutti alla cava della rena rossa lo chiamavano Malpelo; e persino sua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo nome di battesimo. Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un can rognoso, e lo accarezzavano coi piedi, allorché se lo trovavano a tiro. Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico.Al mezzogiorno, mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio la loro minestra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo corbello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo, e gli tiravan dei sassi, finché il soprastante lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. Era sempre cencioso e lordo di rena rossa, ché la sua sorella s’era fatta sposa, e aveva altro pel capo:

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nondimeno era conosciuto come la bettonica per tutto Monserrato e la Carvana, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano “la cava di Malpelo”, e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo tenevano addirittura per carità e perché mastro Misciu, suo padre, era morto nella cava. [in Tutte le novelle, Torino, Einaudi, 2011, Vita dei campi]

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Prima di chiudere il discorso sulla voce narrante, è necessaria un’ulteriore specificazione dal momento che le cose sono più complesse di quanto già non appaiano: non sempre, infatti, le divisioni, i ruoli, appena illustrati sono così netti. Nella Coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo, per esempio, Zeno è narratore autodiegetico, in prima persona, è l’io-protagonista che, dietro il consiglio del dottor S., racconta alcuni episodi particolarmente significativi della propria vita: eppure, per certi versi, potrebbe essere considerato anche un narratore onnisciente perché, in verità, narra quasi tutta la storia a cose già avvenute e concluse, senza poi contare che è persino un narratore insincero e inattendibile giacché narra solo quello che vuole, ossia soltanto quello che ritiene utile ai fini di quel diario che è costretto a scrivere per il dottor S., spinto inoltre dal desiderio di dimostrare che la cura prescritta dal dottor S. è sostanzialmente fallimentare. Oltre a ciò, per complicare ulteriormente la questione anche a causa dell’intervallo di tempo trascorso tra quanto effettivamente accaduto (la prima sigaretta fumata, la morte del padre, la scelta della moglie,…) e la trascrizione di quegli stessi accadimenti come forma terapeutica e come rimedio alla propria malattia, Zeno potrebbe essere visto sia come un narratore interno/intradiegetico che narra e scrive in presa diretta sull’onda della memoria e dei ricordi (è infatti ormai vecchio), sia come un narratore esterno/extradiegetico perché, come si evince dalla Prefazione, tutto è già stato narrato e scritto e soltanto adesso pubblicato, a fatti definitivamente terminati, per “vendetta” dal dottore S. in persona. Per di più, a ben vedere, è Zeno il vero e unico autore/narratore del diario oppure il dottor S. che decide a insaputa di Zeno stesso di rendere pubblica quella scrittura che doveva essere privata, operando in questo modo una decisione tipicamente autoriale?

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Italo Svevo La coscienza di Zeno Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica. Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un

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buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie. Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!... Dottor S. [Milano, Oscar Mondadori, 2009, Prefazione]

Persino il più volte nominato Adso del Nome della rosa è ovviamente narratore autodiegetico e contemporaneamente onnisciente dal momento che pure lui racconta la storia in prima persona ma in età avanzata facendo riferimenti a fatti ed episodi di quando era poco più che adolescente e che, quindi, ha già vissuto e che espone a distanza di moltissimo tempo. Inoltre, potrebbe persino essere visto come un narratore allodiegetico perché, a ben vedere, egli riferisce cose da lui viste e a cui ha partecipato ma di cui il vero personaggio centrale è Guglielmo di Baskerville, risolutore peraltro del mistero che è al centro del romanzo. C’è anche un altro esempio che si può fare per comprendere quanto è difficile rinchiudere in confini netti la voce narrante: mi riferisco al bel romanzo La straniera (1999) di Younis Tawfik, chiaro esempio di letteratura di migrazione ossia di quella letteratura scritta da autori provenienti da paesi esteri e che decidono di scrivere nella lingua non propria ma del paese ospitante (Tawfik è di origine irachena ma utilizza appunto l’italiano, paese che lo ha accolto molti anni fa e dove tuttora vive, precisamente a Torino). Nella Straniera si racconta la storia dell’incontro tra un Architetto, sorta di alter ego dello stesso autore, e Amina, una giovane donna scappata dal Marocco in cerca di una vita migliore come tanti clandestini e che, invece, una volta arrivata in Italia, trova soltanto miseria e prostituzione. La storia è raccontata alternativamente dalla voce dell’Architetto e da quella di Amina, i quali risultano così sia narratori autodiegetici quando riferiscono in prima persona la storia vissuta sia narratori omodiegetici quando, al contrario, la riferiscono come se fossero un personaggio secondario. Anzi la questione è ancora più complessa perché all’interno di ogni capitolo in cui è suddiviso il romanzo una parte dell’episodio descritto nel capitolo precedente viene vista con gli occhi della nuova voce narrante, permettendo così al lettore di vivere quello stesso episodio sotto due differenti punti di vista [cap. III, par. 2, 149-151], spesso contrastanti tra loro e che si alternano per tutta l’estensione e la durata della narrazione medesima.

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Younis Tawfik La straniera [È l’Architetto a raccontare] Alla fine della giornata, decido di lasciare lo studio, questa volta non molto oltre l’orario di chiusura. I miei pensieri vagano come stormi di uccelli disorientati nello spazio della sera. Le luci della strada e dei negozi, accese anzitempo, mi aggrediscono. Attraverso la via di corsa, per evitare la lama del freddo e l’assurdo artificio del tempo. Davanti a me noto, di sfuggita, una sagoma di donna girata di spalle, ferma a guardare la vetrina di un negozio con interesse. Da dietro sembra proprio lei, solo che questa ha i capelli lisci e biondi. Butto lo sguardo di nuovo, per verificare, e vedo riflesso nel vetro il suo volto intrecciato con le luci al neon. Lei fa finta di niente, come se si trovasse lì per caso. Ha un abito lungo che le scende stretto in una lunga gonna, con una spaccatura dietro che arriva fino a metà gamba. Ha una giacca nera e corta, molto stretta sul petto. Cambio direzione e, quando sono due passi da lei, lei si gira lentamente per salutarmi, con un sorriso radioso già stampato sul viso. Sotto la luce del lampione, noto un trucco pesante e un rossetto scuro e pastoso che esalta le labbra carnose. L’aggressività del trucco ha reso la sua bellezza mediterranea ancora più selvaggia e dura. Rimango immobile. Quei capelli bruni che calavano sul viso, come la notte scura quando avvolge il volto della luna per renderlo ancora più luminoso, non ci sono più. Mi chiedo perché una splendida ragazza con dei capelli simili alla seta debba tingerli con un colore così insignificante. Lei non dice niente, ma continua a sorridere, come se aspettasse un commento favorevole. Alzo la mano indicando i capelli, ma lei mi precede, cambiando discorso. «Passavo di qua per caso e ho pensato di aspettarti, nel caso fossi uscito dal lavoro, per salutarti. Ho fatto bene?». «Hai fatto bene.Vieni, andiamo a bere qualcosa». Sembra volare all’idea, e si avvia con decisione al mio fianco. Il suo profumo non è di buona qualità. […] Il suo passo deciso e la figura fiera mi mettono a disagio. Malgrado tutto, ho un pregiudizio nei suoi confronti che non riesco a superare. Entrando nel bar, quello sotto lo studio, il proprietario ci accoglie calorosamente con un sorriso malizioso. Intuisce subito che si tratta della ragazza marocchina di qualche sera fa. Con molto garbo, ci serve l’aperitivo, lasciandoci conversare in un angolo in fondo al locale. «Come siamo eleganti, oggi». «Trovi? Ho deciso di fare vacanza.Volevo festeggiare, e così sono andata a comperarmi un vestito. E tutto nuovo, sai… Ti piace?». «Sì, molto… Stai bene, ma i capelli, no. Preferisco i tuoi naturali». Delusa, si gira verso lo specchio. Si tocca una ciocca con la punta delle dita e dice, decisa: «Non importa, presto torneranno come prima». «Comunque, sei bella lo stesso». Non mi aspettavo di vederla arrossire in quel modo o, meglio, pensavo che le donne non diventassero più rosse in viso. Una volta bastava uno sguardo per far diventare color rosso fuoco una ragazza. […] Il suo turbamento dura per un po’.Tiene gli occhi abbassati. Sospira e allunga la mano per prendere la sua bevanda. Sorseggia con gusto il liquido rosso e, dopo aver posato il bicchiere, mi guarda dritto negl’occhi.

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È la prima volta che avverto qualcosa di diverso. «Ti piaccio, allora?». «Sì, ma non in quel senso…». Abbassa di nuovo gli occhi, e la nuvola della delusione oscura il suo viso. Resta un attimo a pensare, come se raccogliesse le forze, e poi ritorna a puntarmi le frecce del suo sguardo addosso. «Ti ho pensato, in questi giorni» «Davvero? E che cos’hai pensato?». «No, niente». «Non si può pensare a niente. Se hai pensato, dev’esserci qualcosa a cui uno pensa, o no?». «Sì… Insomma, ho pensato alla tua vita, al tuo lavoro, un po’ a tutto». «Mi fa piacere. Non immaginavo, dopo tutti questi anni, di trovare una donna araba che mi pensa e si interessa a me e alla mia vita». [È Amina a raccontare] Avevo deciso di vivere. Sembra strano decidere di vivere quando tutto è quasi morto.Tutto quello che credevo fosse vivo dentro di me un giorno l’ho trovato agonizzante con indifferenza e rassegnazione.A che cosa serve cercare di ridare vita a una cosa morente? Ieri, invece, ho deciso di festeggiare: così, all’improvviso. Non sapevo che cosa festeggiare, ma sentivo la voglia di vivere almeno una giornata tutta mia. Una giornata dedicata a me stessa. […] Ero andata dal parrucchiere quello dove va la mia amica Fatima. Fino ad allora mi ero sempre arrangiata da sola con i capelli. Questa volta volevo provare, come le altre donne, ad affidarmi alle mani di un esperto. Mi aveva chiesto come volevo i capelli, e io, senza esitare, avevo risposto che li volevo lisci e biondi. Lui, senza ulteriori domande né commenti, si era messo subito al lavoro. […] Appena finito, si era ritirato facendo due passi indietro; poi, tornando in avanti, aveva toccato i due lati della mia testa con le sue mani leggere, chiedendo con voce sottile e affettuosa: «Come ti sembra, cara. Sei splendida, vero?». Mi ero guardata nello specchio, come se mi vedessi per la prima volta, Ero rimasta interdetta per un attimo: mi sembrava di vedere un’altra persona. […] Quel cambiamento, ovvero quella maschera, mi aiutava a sentirmi un altra, diversa.Volevo rivivere, ed essere felice almeno per breve tempo. Avevo sorriso, lasciando scivolare lo sguardo sullo specchio; poi avevo risposto decisa, senza pensarci due volte: «Sì, grazie… Sono belli, mi piacciono». […] Poi ero andata fuori per comperare un vestito nuovo.Avevo girato tutto il centro per cercare l’abito che mi potesse ispirare, e l’avevo anche trovato. Un vestito nero. Lungo e scollato. La parte superiore era fatta di pizzo e girava attorno al collo; da metà seno la stoffa elasticizzata iniziava a stringersi, poi verso la vita prendeva ad allargarsi leggermente per scendere dritta fino alle caviglie, come una lunga gonna da sera. Un malizioso spacco divideva la parte posteriore fino a metà gamba. Questa era la cosa che mi piaceva di più. La giacca, stretta sul petto e corta fino alla vita, ne completava lo slancio. Un paio di scarpe da abbinare mi aveva dato la scusa per rivedere tutte le vetrine dei negozi di calzature da donna. Dopo tante esitazioni, ne avevo scelto un paio di colore rosso acceso. Non avevo mai avuto scarpe rosse.Avevo speso tutti i miei soldi, ma la soddisfazione era grande e mi riempiva di gioia. […]

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Continuavo a girare con il vestito addosso, e vedevo la striscia della mia gamba apparire nell’oscurità dello spacco del vestito, come il tronco di una pianta illuminato dai raggi della luna. Osservavo il volto a lungo e mi rendevo conto che per me era impossibile uscire così nuda. Intendo dire che sentivo il bisogno di mettere qualcosa sul viso. Passavo la cipria più volte fino a sembrare una maschera di argilla. Poi aggiungevo un tocco di ombra sotto le guance. Con la matita, tracciavo linee nere attorno agli occhi, al punto da farli apparire sommersi ancora di più dal mare della malinconia. Malgrado la felicità, dentro di me c’era un forte impulso che mi spingeva a rendere più duri possibile i tratti dei viso.Avevo scelto persino una tinta scura per le labbra. Un colore tendente al rosso bruno, un po’ opaco, per darmi un tocco di selvaggio. Non ricordo quanto tempo avevo passato davanti allo specchio, senza chiedermi perché e per chi. Fino all’ultimo, ero sicura di fare tutto questo solo per me. Credevo di aver scoperto un improvviso amore per me stessa. Appena scesa dal treno,le gambe mi avevano portato verso questa strada.Avevo camminato a lungo seguendo il mio istinto, cercando di ricordare le vie. Lungo il percorso, avevo cominciato a comprendere la verità.Tutto quello che avevo fatto non poteva essere soltanto per me stessa, come credevo.Tutto era anche per lui. Forse soltanto per lui. Ero attratta da lui, trascinata da un invisibile filo verso il mio strano destino. Iniziavo a comprendere che non si trattava di un gioco e nemmeno di una semplice infatuazione, ma dell’amore. Quell’uragano cieco che, ancora una volta, mi portava via, chissà dove. L’amore che io avevo giurato di non lasciare più entrare nel mio regno.Avevo giurato anche di usarlo contro gli uomini e di non crederci più. Questa volta era una cosa del tutto diversa. C’era qualcosa di forte di irrazionale. Nessun uomo mi aveva mai fatto provare queste sensazioni prima di adesso, anche al solo pensiero di vederlo. Sono qui, sotto il suo ufficio, da circa un’ora. Ho i piedi gelati e non sento più la punta del naso. Ho già passato in rassegna tutte le vetrine dei negozi della via, più volte. […] Lo vedo, riflesso nel vetro, che attraversa la strada di corsa. Guarda rapidamente verso di me e prosegue. Devo lasciarlo andare. Non mi giro e non lo chiamo neanche. Mi basta averlo visto per pochi istanti. Non voglio impormi. Lui, invece, rallenta all’improvviso e si gira, per guardare di nuovo nella mia direzione. Rimane a osservare, interdetto. Decide, alla fine, di venire verso di me, e io mi sento già morire. Il mio corpo inizia a tremare come una corda, e non so più se per effetto del freddo o per altro. Fingo di essere interessata alla merce esposta, ma non riesco a evitare di seguire i suoi passi. Ogni passo è una pulsazione dei mio cuore. Non so con quale forza mi sono girata, lentamente, verso di lui, forse per assorbire la sua presenza a piccole dosi. L’espressione incredula del suo viso è un insieme di disapprovazione, stupore e sorpresa. Rimane un attimo immobile a osservarmi senza fiatare, mentre io penso soltanto a lui, ai suoi occhi, ai suoi tratti, a quello che è per me. Alza la mano indicando i miei capelli, come per chiedere cos’ho combinato, ma io lo precedo, giustificando la mia inattesa presenza davanti al suo ufficio. Lui mi invita a bere qualcosa al bar, e io non riesco a contenere la felicità, anzi mi sembra di volare all’idea. Ora lui è tutto mio. Seduto davanti a me a sorseggiare il suo aperitivo con disinvoltura. Non mi sembra per niente agitato, mentre io non mi rendo neanche conto di dove sono. [Milano, Bompiani, 2007, capp. III e IV]

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Capitolo I

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3. Letteratura e genere letterario

Il concetto di genere letterario, che ha a che fare con quelli di letteratura [Introduzione] e di retorica [BOX 2. La Retorica, 7], consente di classificare le opere in base a caratteristiche di contenuto ed espressione. In effetti, il genere nasce e si codifica dalla stretta correlazione fra determinati temi e specifiche scelte formali: nel momento in cui iniziò a comporre la Commedia (1304-1321), l’altezza e l’eccezionalità degli argomenti spinsero Dante a inventare un metro nuovo, la terzina incatenata o terza rima dantesca che, meglio di qualsiasi forma metrica già esistente, poteva esprimere la trinità di Dio in quella forma a tre continuamente ripetuta attraverso un ardito gioco di rime connesse le une alle altre. Questo concetto di genere letterario è nato in Grecia verso la fine del V sec. a.C., quando, di fronte ai capolavori del passato come per esempio i testi omerici, si cercò di ricavare da essi degli schemi utili ai nuovi scrittori. Platone elaborò una prima classificazione sia in base al contenuto serio (epos e tragedia) o faceto (commedia, poesia giambica), sia in base ai modi della rappresentazione, individuando il genere mimetico o drammatico (tragedia, commedia), il genere espositivo o narrativo (ditirambo, nomo) e il genere misto (epos). Dopo di lui Aristotele, rovesciando in parte lo schema platonico, tracciò nella Poetica (334-330 a.Cr.) una bipartizione della letteratura in drammatica e narrativa, indicando nella prima la forma più perfetta di poesia in quanto capace di sublimare le passioni attraverso la catarsi. La riscoperta della Poetica nel Cinquecento e l’ampio dibattito che essa suscitò in pieno Rinascimento comportarono un irrigidimento del concetto di genere con la nascita di una rigorosa precettistica: la bipartizione aristotelica fu così sostituita dalla tripartizione in epica, drammatica e lirica e accanto ai vecchi generi letterari [BOX 6. I generi della narrativa, 107] ne furono introdotti di nuovi come il dramma pastorale, il poema cavalleresco e il melodramma. Va attribuito ad Hegel il merito di aver guardato al genere in modo più diacronico e storico-geografico, da un lato considerando i momenti di formazione ed evoluzione del concetto, dall’altro analizzando la differenze tra l’oggettività di alcuni generi (l’epica) e la soggettività di altri (la lirica e il dramma). Nella seconda metà del XX secolo con la diffusione di nuovi orientamenti critici, in particolare la semiologia e lo strutturalismo, la critica è tornata ad interessarsi del genere letterario, che è diventato la categoria utile per analizzare i legami tra singola opera e tradizione letteraria e per comprendere gli aspetti di novità che ogni opera originale apporta nei confronti del passato e delle norme consolidate [Frye 2000; Todorov 1993].

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Capitolo II

I tempi e i modi della narrazione

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Premessa. “C’era una volta un re…”. Fabula e intreccio Ogni autore/narratore [cap. I, parr. 2 e 3, 12-20 e 32-49] ha la possibilità di raccontare la sua storia seguendo un personale filo logico, che non deve necessariamente coincidere con il regolare scorrere del tempo (sincronia). A dire il vero, la maggior parte delle storie raccontate non rispetta affatto questo ordine naturale, ma lo stravolge e lo scompone per creare un andamento ricercatamente basato sulla anacronia, cioè sulla discordanza tra il tempo presente nella storia e il modo in cui la storia stessa e il tempo vengono presentati al lettore. Del resto, persino le prime due opere della letteratura occidentale, Iliade e Odissea, iniziano con uno sfasamento forte rispetto all’ordine logico degli eventi: l’Iliade direttamente in medias res con l’ira di Achille che, dopo un lungo preambolo, si scoprirà dipendere dall’aver dovuto rinunciare alla propria schiava Briseide; l’Odissea, più o meno allo stesso modo, con la partenza di Telemaco da Itaca alla ricerca di informazioni sul padre Ulisse, il quale, ormai giunto quasi alla metà del viaggio imposto dagli dei, compare in scena soltanto al libro quinto quando, lasciata definitivamente l’isola di Calipso, è approdato su un’altra isola abitata dai Feaci, da Alcinoo loro re e da sua figlia Nausicaa e quando finalmente il lettore può conoscere cosa è successo a Ulisse medesimo dopo la fine della guerra contro Troia e come sia giunto in quel luogo così lontano e sperduto [cap. I, Premessa, 1-4]. Ogni storia, dunque, può essere scritta e presentata al lettore seguendo due diverse modalità di composizione: da un lato c’è la fabula (o story o storia) e dall’altra l’intreccio (o plot o racconto). Con la fabula l’autore/narratore presenta i fatti della narrazione nella loro normale successione temporale, seguendo la naturale evoluzione degli eventi dal primo sino all’ultimo senza mai (o quasi mai) rompere la consequenzialità degli eventi. È il tipico modello della fiaba [Propp 2012], a cui peraltro è strettamente connesso il termine fabula: non è difficile comprendere il motivo di una simile continuità nel racconto della fiaba visto che è per lo più indirizzata ai bambini che, come è insegnato anche dalla psicologia infantile, non hanno ancora ben chiara nella propria mente la distinzione tra presente, passato e futuro. La fiaba, così, restituisce loro la storia seguendo il lineare corso degli eventi che, attraverso la presentazione dei diversi personaggi [cap. III, par. 1, 145-149], si susseguono uno dopo l’altro, più o meno velocemente, sino alla conclusione.

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Capitolo II

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Luigi Capuana Il soldo bucato C’era una volta una povera donna rimasta vedova con un figliolino al petto. Era di cattiva salute, e con quel bimbo da allattare poteva lavorare pochino. Faceva dei piccoli servigi alle vicine, e così lei e la sua creatura non morivano di fame. Quel figliolino era bello come il sole; e la sua mamma, ogni mattina, dopo averlo rifasciato, lavato e pettinato, un po’ per buon augurio, un po’ per chiasso, soleva dirgli: Bimbo mio, tu sarai barone! Bimbo mio, tu sarai duca! Bimbo mio, tu sarai principe! Bimbo mio, tu sarai Re! E ogni volta che lei gli diceva: tu sarai Re, il bimbo accennava di sì colla testina, come se avesse capito. Un giorno si trovò a passare proprio il Re, e sentito: Bimbo mio, tu sarai Re, la prese in mala parte, perché non aveva avuto ancora figliuoli e ne era accorato assai. – Comarina, – le disse – non vi arrischiate più a dire così, o guai a voi! La povera donna, dalla paura, non disse più nulla. Però quel figliolino, ora che la sua mamma stava zitta, ogni mattina, appena rifasciato, lavato e pettinato, si metteva a piangere e strillare. Lei gli ripeteva: – Bimbo mio, tu sarai barone!...Tu sarai duca!...Tu sarai principe!... Ma il bimbo non si chetava.Talché una volta, per prova, tornò a dirgli sottovoce: – Bimbo mio, tu sarai Re! Il bimbo accennò di sì colla testina, come se avesse capito, e non strillò più. Allora la povera donna si persuase che quel figliolino doveva avere una gran fortuna; e temendo la collera del Re, già pensava di mutar paese. Intanto, poiché il figliuolo era spoppato, quando le capitava di fare qualche servizio, pregava una vicina: – Comare, tenetemi d’occhio il bimbo; vado e torno in due minuti. Un giorno le accadde di tardare. La vicina era seccata di tenere in braccio quel cattivello che piangeva perché voleva la mamma. In quel punto comparve un cenciaiuolo: – Cenci, donnine, cenci. – Lo volete questo cencio qui? – Se ci si combina, lo prendo. – Ve lo do per un soldo. Il cenciaiuolo le tolse il bimbo di braccio e le mise in mano un soldo bucato. A quella scena lei e le altre vicine presenti ridevano: il cenciaiuolo in questo mentre svoltava la cantonata e spariva. Corri, cerca, chiama... L’avete più visto? Figuriamoci che pianto, quella povera mamma, quando apprese la sua disgrazia! Corse subito dal Re: – Giustizia, Maestà! Mi han rapito il bambino! – Bimbo mio, tu sarai Re! – le rispose il Re facendole il verso, per canzonarla. E la mandò via, tutto contento che quel malaugurio per la sua discendenza fosse sparito. Gli occhi della povera donna parevano un fiume.Andava attorno tutta la giornata, fermando la gente: – Buona gente, incontraste per caso il cenciaiuolo che mi ha rubato il mio bambino?

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Le persone che non ne sapevano nulla, la prendevano per matta e le ridevano in viso. Quel giorno della disgrazia, la vicina le aveva dato il soldo bucato messole in mano dal cenciaiuolo; ma la povera donna, dalla gran rabbia che aveva, lo buttò via. La mattina dopo, apre un cassetto… il soldo bucato era lì! – Soldaccio maledetto! Non ti voglio neppure vedere! E lo buttò nuovamente via dalla finestra. Ma la mattina dopo, torna ad aprire quel cassetto e che vede? Il soldo bucato. Richiuse il cassetto con stizza. – Fossero almeno dieci lire!… Mi comprerei uno straccio di veste! Non avea finito di dirlo, che sentì lì dentro un suono di soldi rimescolati. Stupita, riapre. Pareva che il soldo avesse figliato. Oltre a quello, c’erano lì tanti soldi, da fare giusto dieci lire. Da allora in poi, quando aveva bisogno di denaro, le bastava che dicesse: – Soldino mio, vo’ cento lire, vo’ mille lire! Le cento lire, le mille lire erano subito lì. La buona donna non si teneva questa fortuna per sé sola; faceva spesso la carità a tutte le persone bisognose al par di lei, ed era già diventata una benedizione dei cielo. Ma quel bene lei lo faceva sempre col pensiero al figliolino perduto: – Che le importava di tanta fortuna, senza il suo figliolino? E sperava sempre che, un giorno o l’altro, il cielo l’avrebbe consolata. In quel tempo il Re ebbe il capriccio di comprarsi un magnifico cavallo. Conchiuso il negozio, andò per prendere il denaro dallo scrigno ove solea tenerlo riposto, e si accorse che mancava una bella somma. Appostò lì due guardie per acchiappare il ladro; e, passati alquanti giorni, tornò a guardare: mancava un’altra bella somma! Si mise in agguato lui stesso; cominciava a sospettare dei suoi ministri. Una mattina, ecco una voce nell’aria lontana, lontana: – Soldino mio, vo’ mille lire! E, subito, un rimescolìo nello scrigno, come se qualcuno vi prendesse quattrini a manate. Apre in fretta in fretta… Le mille lire mancavano, ma lì dentro non c’era nessuno! – Come andava questa faccenda? Il Re ci perdeva la testa. Però, benché fosse un po’ avaro, gli dispiaceva di più il dover morir senza figliuoli. Se la prendeva colla Regina, come se la colpa fosse stata di lei, e la maltrattava: – Non era buona a fargli un figliuolo, neppure di terra cotta! La Regina, indispettita, gli fece colle sue mani un bel puttino di terra cotta. – Ecco, se era buona! Tutti accorrevano al palazzo reale per vedere quel puttino di terra cotta, che era una meraviglia, e vi andò anche quella povera donna. – Oh Dio! È tutto il mio bambino!… Ma non era così che ti volevo Re, figliolino mio! E si mise a piangere. Il Re, a quelle parole, montò in furore. Dié un calcio al puttino di terra cotta e lo ridusse in mille pezzi. Alla povera donna parve di vedersi squarciare sotto gli occhi il figliolino perduto. Ma che poteva dire a Sua Maestà? Dovette ingozzare anche quell’amarezza e tornarsene a casa zitta zitta.

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Capitolo II

Intanto nello scrigno del Re i quattrini continuavano a mancare; e sempre quella voce nell’aria lontana lontana: – Soldino mio, vo’ cento lire, vo’ mille lire! E quanti diceva la voce, tanti il Re ne sentiva prendere dalla mano del ladro invisibile. Il Re mise le sue spie per scoprire di chi fosse quella voce: e un giorno le spie gli condussero dinanzi ammanettata la donna dal bambino rubato: Era lei che aveva detto: – Soldino mio, vo’ cento lire! Il Re non volle neppure ascoltare la povera donna, che voleva raccontargli come stesse la cosa, e la fece gettare in un fondo di carcere. Ma da quel giorno egli non ebbe più pace. Voleva andare a letto? E gli strappavano le coperte: – Maestà, non si dorme! Chi era? Non si vedeva nessuno. Si sedeva a tavola per mangiare? E gli portavano via il piatto: – Maestà, non si mangia! Chi era? Non si vedeva nessuno. Se durava un altro po’, il Re moriva d’inedia. Perciò mandò a consultare un vecchio mago. Il mago (che poi era quel cenciaiuolo che avea rapito il bambino per proteggerlo) rispose soltanto: – Bimbo mio, tu sarai Re! Visto che il destino era quello, e non volendo morire d’inedia, il Re cominciò dallo scarcerare la povera donna, e tornò a mandare dal mago: – Come rintracciare il bimbo? Lo avea rapito un cenciaiuolo e non se ne sapeva più notizia. Il mago rispose: – Raccatti i cocci di quel puttino di terra cotta e li saldi insieme collo sputo. Il Re, sebbene di mala voglia, raccattò i cocci del puttino e li saldò collo sputo. Ed ora? – Ora – rispose il mago – prepari una bella festa e faccia così e così. Il Re fece dei grandi preparativi, poi, secondo le istruzioni dei mago, mandò a chiamare la mamma del bimbo a palazzo reale e la fece sedere a lato della Regina. II puttino di terra cotta bello e saldato si vedeva collocato nel mezzo dei salone e, attorno attorno, ministri, principi, cavalieri in gran gala che aspettavano. Quando fu l’ora, s’intese nella via: – Cenci, donnine, cenci! A questo grido il puttino di terra cotta scoppiò, e ne uscì fuori un bel giovinotto fra un gran rovesciarsi di monete, che ruzzolavano da tutte le parti. Il Re, contento anche perché riacquistava tutti i suoi quattrini, voleva abbracciarlo come un figliuolo; ma quello corse prima dalla sua mamma e non sapeva staccarsela dal petto: – Bimbo mio, tu sarai Re! Ed era già Reuccio, poiché il Re lo adottava! Qui entrò una guardia e disse: – Maestà, c’è di là un cenciaiuolo; rivuole il suo soldo bucato. Il Re non ne sapeva nulla; ma la povera donna rispose subito: – Eccolo qui. Sentita la storia di quel soldo, il Re pensò ch’era meglio tenerselo per sé.Andò di là, bucò un altro soldo e diede questo in cambio di quello al cenciaiuolo. Ma gliene incolse male.

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La prima volta che disse: – Soldino mio, vo’ mille lire! Invece di mille lire furono mille nerbate, che lo conciarono per le feste, tanto che ne morì. – Bimbo mio, tu sarai Re! E si era avverato. Stretta è la foglia, larga è la via, Dite la vostra, ché ho detto la mia. [(1882), in C’era una volta…, Palermo, Sellerio, 2006]

Con l’intreccio, al contrario, l’autore/narratore sovverte l’ordine naturale e logico degli eventi in modo tale che i materiali di base, che sottendono alla creazione dei vari motivi/temi/elementi della storia, risultano articolati e sistemati in modo che le varie scene rappresentino l’azione come una concatenazione di più eventi successi in tempi diversi e persino distanti tra loro [Tomasôevskij 2003;Vittorini 1998].Si pensi alla complessa struttura dei Promessi sposi: all’interno del romanzo, nel suo complesso di Introduzione e trentotto capitoli, sono rintracciabili sia la storia (o fabula o story) che è poi quella ritrovata e letta da Manzoni nell’anonimo manoscritto secentesco, sia il racconto (o intreccio o plot) che è la sistemazione operata da Manzoni stesso in maniera del tutto personale di quella medesima storia, effettuando tagli, anticipando fatti e procrastinando scene [par. 3, 7375], insomma ricomponendo l’insieme della fabula sovvertendone l’ordine naturale e consequenziale per mezzo di quel continuo intreccio avanti-indietro che è, appunto, uno dei tratti tipici della scrittura manzoniana: neppure i primi otto capitoli, quelli legati al microcosmo della vita paesana e agli avvenimenti di pochissimi giorni (dal 7 al 10 novembre 1628), sono in verità organizzati seguendo la successione cronologica dei fatti e la coincidenza tra il momento di quella determinata circostanza e il momento della sua esposizione. Si prenda anche solo il primo capitolo e si segua l’ordine effettivo (ma non reale) del racconto del nostro autore onnisciente [cap. I, par. 3, 41-42]: avvio della storia (fabula) con la presentazione dell’ambiente che fa da contorno/sfondo alle successive vicende e conseguente arrivo in scena di don Abbondio, che sta tornando «bel bello dalla passeggiata verso casa» come ogni giorno e che, in maniera del tutto imprevista, trova ad attenderlo sulla strada due uomini che dall’aspetto e dall’abbigliamento tradiscono immediatamente la loro identità e appartenenza, di essere “bravi” di don Rodrigo [cap. III, par. 1, 134-135]. A questo punto, prima di svelare il motivo di quella presenza minacciosa, Manzoni ferma l’azione (intreccio), creando peraltro un senso di attesa, di suspence, e introduce il primo dei tanti intarsi storici del romanzo: le grida che si erano succedute nel corso degli anni, numerose ma sempre inascoltate, contro il malcostume proprio di quei “bravi” assoldati dai signorotti locali. Solo dopo questa elencazione di norme, che ci ha portato verso un tempo più antico e ha quindi creato un brusco salto all’indietro, si ritorna all’azione,

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4. Temi e motivi in letteratura

Il tema (etimologicamente “ciò che è posto”) potrebbe essere definito un po’ semplicisticamente l’argomento centrale, il contenuto, di un testo narrativo. In verità la questione è più complessa perché il tema è un concetto teorico, astratto ed esteso, capace di attraversare il tempo e di appartenere a culture e forme letterarie molto diverse tra loro: in sostanza l’insieme di tutti i variegati elementi di cui è composto (argomenti, motivi, topoi, leitmotiv, tipi, stereotipi,…) e che concorrono a creare quel quadro di riferimento con cui è poi possibile leggere un’opera devono essere di “lunga durata”, ossia in grado di consolidarsi nel tempo, e di essere riconosciuti dalla “universalità” dei popoli come fondamento del proprio immaginario comune. Per fare un esempio, il viaggio è chiaramente un tema universale, di lunga durata e collettivo (e non solo nel settore delle arti) perché, pur nelle modificazioni dovute al progresso dei mezzi di trasporto, da Omero a oggi ha fatto, e fa parte, della letteratura e della cultura mondiale, tanto che non sarebbe difficile sostenere che «il viaggio è un terreno comune di metafore perché è familiare a tutti gli esseri umani che si muovono, come lo è l’esperienza del corpo, del vento o della terra» [Eric J. Leed, La mente del viaggiatore. Dall’Odissea al turismo globale, Bologna, Il Mulino, 20072, 1415]. Il motivo, al contrario, è costituito da entità minime, elementari e concrete, con cui un narratore compone il proprio racconto o articola il proprio tema. Se il viaggio è un tema, si può dire che tutto quanto è legato al partire, al transitare o al tornare, oppure tutto quanto è legato alle varie tipologie di viaggiatori o agli spazi del viaggiare medesimo fanno parte integrante dei motivi. I motivi, proprio perché unità più piccole e variabili, possono essere di tipologie diverse: vi sono motivi legati, ossia insopprimibili e senza i quali la struttura della storia perderebbe equilibrio (si pensi alla punizione voluta da Nettumo che costringe Ulisse a navigare per dieci anni prima di poter tornare alla sua Itaca); motivi liberi che, invece, hanno un ruolo più marginale o complementare rispetto al nucleo fondamentale della trama narrativa (tutte le varie peripezie affrontate da Ulisse durante la sua navigazione); motivi dinamici che portano a trasformazioni (eventi, azioni) e motivi statici che non portano ad alcun mutamento (digressioni) [Tomasôevskij 2003]. Un’ultima osservazione: mettere in stretta connessione il tema con i suoi motivi significa costruire una rete tematica, mentre leggere un’opera o una serie di opere affini privilegiando un solo tema e, quindi, una sola prospettiva significa tematizzare.

alla fabula, con il colloquio tra i suddetti “bravi” e don Abbondio e l’ingiunzione, da parte di don Rodrigo benché per bocca loro, che «questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai». Nuova pausa (intreccio) e splendida spiegazione del motivo, ricercato ovviamente nel già vissuto e quindi nel passato grazie a una lunga analessi [par. 2, 64-70], per cui il nostro curato non ha neppure provato a reagire a una simile richiesta: don Abbondio «non era nato con un cuor da leone» e «non nobile, non ricco, co-

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raggioso ancor meno, s’era dunque accorto, prima di toccar gli anni della discrezione, d’esser, in quella società, come un vaso di terra cotta, costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro». Ripresa della fabula con don Abbondio che torna di gran corsa a casa e colloquio serrato con Perpetua che cerca, invano, di far ragionare il nostro pavido sacerdote e di convincerlo a fare l’unica cosa possibile, cioè parlare con il proprio cardinale, sino a quel meraviglioso e icastico finale di capitolo: «Così dicendo, prese il lume, e brontolando sempre:“una piccola bagattella! a un galantuomo par mio! e domani com’andrà?”, e altre simili lamentazioni, s’avviò per salire in camera. Giunto su la soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca, disse, con tono lento e solenne:“per amor del cielo!” e disparve».

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1. Il tempo della storia o la storia nel tempo? Se la maggior parte delle storie vengono narrate seguendo un ordine che non è quello reale, lineare, degli eventi, significa che all’interno di quelle medesime storie non esiste un unico tipo di tempo. In effetti il rapporto tra narrativa e temporalità è una delle questioni centrali per comprendere i meccanismi e le tecniche di composizione che possono essere utilizzate da un autore/narratore [cap. I, par. 2, 12-20] nella restituzione di una vicenda: è proprio lo scarto tra il livello della storia, che ha naturalmente uno sviluppo cronologico (tutte le vicende hanno, cioè, un inizio, uno svolgimento e una conclusione che seguono lo scorrere regolare di secondi, minuti, ore, anni,…), e la parola che narra (e poco importa che sia una parola orale o scritta), ossia la sistemazione/disposizione del discorso [BOX 2. La retorica, 7] con cui si presentano appunto tutte le vicende interne a una singola storia, a creare il sovvertimento dell’ordine temporale, cioè a rompere la sincronia a vantaggio dell’anacronia [Bernardelli 2006; Booth 1996; Brooks 2004; Chatman 2010; Forster 2011; Genette 2006; Prince 1984 e 1990; Lodge 2006; Scholes-Kellogg 2003]. A essere più precisi, all’interno del discorso narrato esistono tanti tempi, che hanno a che vedere con l’ordine o con la durata e la frequenza degli accadimenti enunciati: 1. Tempo della storia  È il tempo storico reale che sottende alle vicende narrate nella sua consequenzialità di cause ed effetti; è, insomma, il tempo cronologico posto dietro alla cosa raccontata [Genette 2006] e scelto dall’autore/narratore per collocare e dar veridicità alle vicende; è l’ordine dei fatti che ogni lettore può facilmente cogliere all’atto della lettura medesima o che può facilmente ricostruire nella sua mente per dare una disposizione logica e sistematica all’intera narrazione. È un tempo che può essere enunciato chiaramente attraverso il succedersi dei giorni, oppure un tempo che il lettore sente scorrere ma che non necessariamente è indicato con date precise o con precisi riferimenti cronologici. Nei Promessi sposi, per esempio, è evidente che esiste un tempo della storia che

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si estende dal 7 novembre 1628 sino alla fine del novembre 1630 e che, pur tra moltissime anacronie, è possibile percorrere e ricostruire tanto attraverso la vicenda personale di Renzo e Lucia quanto attraverso lo svolgimento della Storia (quella con la S maiuscola), dalla guerra per la successione nel Ducato di Mantova alla discesa dei lanzichenecchi sino alla peste. In Uno, nessuno e centomila, invece, è evidente che il nostro protagonista/narratore Vitangelo Moscarda racconta in maniera assolutamente cronologica fatti avvenuti in un preciso tempo ormai concluso, ma questo tempo non ci viene mai esplicitato se non con scarnissime indicazioni che non consentono al lettore neppure di sapere con precisione quanto tempo sia trascorso da un fatto all’altro (un giorno o poche ore? settimane o mesi o addirittura anni?). In Bonjour tristesse di François Sagan la vicenda centrale raccontata, quella che dà origine e significato al titolo, si riferisce chiaramente a una estate appena trascorsa benché non indicata con un anno preciso (con molta probabilità è l’estate del 1954, anno di scrittura e pubblicazione del romanzo), e lo scorrere del tempo è ben segnalato e reso sensibilmente percepibile in quelle notazioni di giorni o settimane che costellano tutta la narrazione.

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François Sagan Bonjour Tristesse Quell’estate avevo diciassette anni ed ero proprio felice. Gli «altri» erano mio padre ed Elsa, la sua amante. […] Mio padre aveva preso in affitto una grande villa bianca sul Mediterraneo, isolata, incantevole, che divenne l’oggetto dei nostri sogni fin dai primi caldi di giugno. Si ergeva su un promontorio, a picco sul mare, celata alla strada da una pineta; da lì un sentiero impervio conduceva in una caletta dorata, cinta da rocce rosse, contro cui si frangevano le onde. I primi giorni furono splendidi. Passavamo ore e ore sulla spiaggia, sfiniti dal caldo, prendendo via via un colorito sano e dorato, a eccezione di Elsa che diventava rossa e si spellava tra atroci sofferenze. Mio padre eseguiva esercizi complicati con le gambe per far sparire un inizio di pancetta incompatibile con la sua vocazione di dongiovanni. Io stavo in acqua fin dall’alba, un’acqua fresca e trasparente in cui sprofondavo e mi sfinivo facendo movimenti scomposti, per depurarmi dalle ombre e dalla polvere di Parigi. […] Era estate. Il sesto giorno vidi Cyril per la prima volta. […] Non mi piacevano i giovani. Preferivo di gran lunga gli amici di mio padre, dei quarantenni che mi parlavano con cortesia e affetto, dimostrando verso di me la dolcezza di un padre o di un amante. Ma Cyril mi piacque. […] Nel salutarmi Cyril mi propose di insegnarmi ad andare in vela. Rientrai per la cena tutta assorta nel pensiero di lui e quasi non partecipai alla conversazione; a stento mi accorsi del nervosismo di mio padre. Dopo mangiato ci sdraiammo sulle poltrone all’aperto, come ogni sera. Il cielo era cosparso di stelle. Le guardavo sperando vagamente che anticipassero i tempi e cominciassero a cadere solcando l’aria. Ma eravamo solo ai primi di luglio e le stelle non si muovevano. [Milano,TEA, 2011, cap. I]

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2. Tempo della narrazione  È un tempo tecnico e artificiale, legato alla comunicazione narrativa, che chiama in causa l’autore e/o il narratore che, rivolgendosi al loro narratario o al loro lettore reale [cap. I, par. 2, 1226], fanno osservazioni sulla vicenda enunciata e sul tempo, o meglio la differenza di tempo necessaria alla scrittura rispetto alla lettura. È, in sostanza, il tempo che un autore/narratore utilizza per raccontare al suo lettore (reale o interno) un determinato evento al di là del suo effettivo svolgimento. Non è quindi il naturale scorrere del tempo ma il tempo indispensabile per poter descrivere e illustrare tutti gli elementi di quella determinata scena o di quel determinato episodio: in poche parole è quante frasi o quante pagine un narratore impiega in quella particolare rappresentazione e, di conseguenza, quanto tempo occorre al lettore per leggere quella stessa raffigurazione. Si prenda il romanzo La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (1760-1767) di Lawrence Sterne: nel descrivere il momento del parto del protagonista (momento ovviamente non scelto a caso ma centrale per l’avvio della vicenda personale di Tristram e delle vicende a lui collegate) l’autore mette in scena proprio i meccanismi letterari legati al tempo della narrazione. In verità, la complessa opera di Sterne, insieme di tante minute storie che ruotano per lo più intorno ai familiari e ai vicini di Tristram che abitano tutti a Shandy Hall, piccola cittadina della provincia inglese, rappresenta una interessantissima forma di narrazione a intreccio capace di distorcere in continuazione e così inevitabilmente sconvolgere l’ordine cronologico degli eventi (tempo della storia) grazie a una serie numerosa di digressioni, pause, aneddoti, citazioni e molto altro ancora [par. 2, 78-85], e così di far cogliere in presa diretta il divario esistente tra il tempo della scrittura o dell’enunciazione e il tempo della lettura o dell’ascolto rispetto persino al tempo matematico-cronologico di quella nascita messa in scena (tempo della narrazione).

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Lawrence Sterne La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo [Cap.VI] – Che cosa staranno facendo, fratello? – domandò mio padre. – Credo, – rispose lo zio Tobia, togliendosi, come vi dissi, la pipa di bocca e battendola per toglierne la cenere mentre cominciava la sua frase, – credo, – rispose, che non faremmo male, fratello, a sonare il campanello. – Scusa, Obadia, – chiese mio padre, – che cos’è tutto questo strepito sopra le nostre teste? Mio fratello e io possiamo a stento sentire le nostre parole. – Signore, – rispose Obadia, facendo un inchino dalla parte della spalla sinistra, – la mia padrona ha le doglie forti. – E dove sta scappando Susanna, laggiù in fondo al giardino, come se la volessero violentare? – Signore, sta correndo per la via più breve in paese a chiamare la vecchia levatrice, – rispose Obadia. – Allora sella un cavallo, – disse mio padre, – e va’ immediatamente dal dottor Slop,

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l’ostetrico, portagli i nostri rispetti e avvisalo che la tua padrona è in travaglio e che io desidero che venga con te con la massima urgenza. È molto strano, – disse mio padre rivolgendosi allo zio Tobia, quando Obadia ebbe chiuso la porta, – che, pur essendoci tanto vicino un ostetrico esperto come il dottor Slop, mia moglie debba persistere fino all’ultimo in questa ostinata mania di affidare all’ignoranza di una vecchia comare la vita di mio figlio, che ha già avuto una sventura; e non solo la vita di mio figlio, fratello mio, ma anche la propria e con essa quella di tutti i figli che io potrei per avventura avere ancora da lei in futuro. – Può darsi, fratello, – rispose lo zio Tobia, – che mia cognata lo faccia per risparmiare la spesa. – Un corno! – replicò mio padre. – Il dottore deve essere pagato lo stesso, sia egli attivo o inattivo, se non altro per tenerlo buono. – Allora non vi può essere altra ragione al mondo, disse lo zio Tobia nella sua semplicità di cuore, – se non il Pudore. Forse a mia cognata, – aggiunse, – non farà piacere che un uomo venga tanto vicino al suo * * *. Non dirò se lo zio Tobia avesse completato la frase oppure no; è a suo favore supporre di sì, perché credo che non avrebbe potuto aggiungere una Parola che l’avesse migliorata. Se, al contrario, lo zio Tobia non fosse completamente giunto alla fine del periodo, allora il mondo rimane debitore all’improvviso spezzarsi con un colpo secco della pipa di mio padre di uno dei più chiari esempi di quella figura ornamentale in oratoria che i retori chiamano Aposiopesi. Giusto cielo! come può il Poco più e il Poco meno degli artisti italiani, quell’impercettibile più o meno, determinare l’esatta linea di bellezza sia nella frase sia nella statua? Come possono i lievi tocchi dello scalpello, della matita, della penna, dell’archetto, et caetera, dare il vero crescendo, che produce l’autentico godimento? O miei concittadini, siate esatti, siate cauti nel vostro linguaggio; e mai, o! mai sia dimenticato da quali piccole sfumature dipendano la vostra eloquenza e la vostra fama. «Forse a mia cognata, – disse lo zio Tobia, – non farà piacere che un uomo venga tanto vicino al suo * * *». Lasciate gli asterischi e avete un’Aposiopesi.Togliete gli asterischi e scrivete Deretano: è Osceno. Cancellate Deretano e metteteci passaggio coperto: è una Metafora; e io oserei dire che, siccome la testa dello zio Tobia era così piena di fortificazioni, se gli avessero lasciato aggiungere una parola alla frase, quella sarebbe stata la parola. Ma fosse questo il caso o non lo fosse, o se lo spezzarsi della pipa di mio padre in un momento così critico fosse avvenuto per un incidente o per uno scatto d’ira, questo lo vedremo a suo tempo. [Cap.VII]– Sebbene fosse un buon filosofo naturale, mio padre tuttavia aveva anche qualcosa del filosofo morale. Per questo motivo, quando la pipa gli si spaccò di netto nel mezzo, altro non avrebbe avuto da fare se non prendere i due pezzi e buttarli con calma nel fuoco. Non agì così: ve li gettò con tutta la violenza possibile e, per dare al suo gesto maggiore enfasi, si alzò su entrambe le gambe per farlo. Ciò assomigliava a qualcosa come la collera, e il tenore della sua risposta a quanto diceva lo zio Tobia provò che era così. – Non le farà piacere, – disse mio padre (ripetendo le parole dello zio Tobia), – che un uomo le si avvicini tanto! Perdio, fratello Tobia! Tu metteresti a prova la pazienza di Giobbe; e credo d’averne già tutte le afflizioni senza la sua pazienza. – Perché? Dove? In che cosa? Per quale ragione? Come sarebbe a dire? – rispose lo zio Tobia al colmo dello stupore.

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– Se penso, – disse mio padre, – che un uomo possa giungere alla tua età, fratello, e conoscere così poco delle donne! – Non so assolutamente nulla sul loro conto, – replicò lo zio Tobia. […] – Allora, fratello Tobia, – ribatté mio padre, – te lo dirò io. Ogni cosa a questo mondo, – continuò mio padre (caricando una nuova pipa), – ogni cosa a questo mondo, mio caro fratello Tobia, ha due manici. – Non sempre, – disse lo zio Tobia. – Per lo meno, – ribatté mio padre, – ognuna ha due mani, il che è lo stesso. Ora, se un uomo dovesse sedere a considerare freddamente tra sé la fattura, la forma, la struttura, l’accessibilità e l’appropriatezza di tutte le parti che costituiscono l’insieme di quell’animale chiamato Donna, e le confrontasse analogicamente… – Non ho mai capito esattamente il significato di questa parola, – disse lo zio Tobia. – Analogia, – riprese mio padre, – è una certa relazione e concordanza che differenti… A questo punto un maledetto colpo alla porta spezzò la definizione di mio padre (come la sua pipa) in due e, nello stesso tempo, soffocò sul nascere una notevole e singolare dissertazione quale mai sia stata concepita nel grembo di una mente speculativa; e dovettero passare alcuni mesi prima che a mio padre si ripresentasse l’occasione di darla felicemente alla luce. […] [Cap.VIII] – È trascorsa un’ora e mezzo di lettura passabilmente buona dacché lo zio Tobia sonò il campanello e a Obadia fu dato ordine di sellare il cavallo e di andare in cerca del dottor Slop, l’ostetrico; cosicché nessuno può ragionevolmente asserire che io non abbia concesso a Obadia tempo sufficiente, poeticamente parlando e considerando anche la situazione di emergenza, di andare e tornare, sebbene, moralmente e sinceramente parlando, il nostro uomo abbia forse avuto appena il tempo d’infilarsi gli stivali. Se l’ipercritico vuole attaccarsi a questo, e tutto sommato è risoluto a prendere un pendolo e a misurare l’esatto intervallo tra il suono del campanello e la bussata alla porta; e se, accertatosi che non sono trascorsi più di due minuti, tredici all’unità o piuttosto alla probabilità di tempo, gli rammenterò che l’idea di durata e dei suoi modi semplici deriva soltanto dal corso e dalla successione delle nostre idee: questo è il vero pendolo della scolastica, e per il suo tramite io, come scolastico, voglio essere giudicato in questa faccenda, abiurando e detestando la giurisdizione di ogni altro qualsivoglia pendolo. Vorrei perciò pregare l’ipercritico di considerare che da Shandy Hall al dottor Slop, la casa dell’ostetrico, corrono appena otto miglia scarse, e che, mentre Obadia percorreva quelle dette miglia e ritorno, io ho condotto lo zio Tobia da Namur in Inghilterra attraverso tutte le Fiandre; che l’ho avuto sulle braccia malato per circa quattro anni e che gli ho fatto compiere, insieme col caporale Trim, un viaggio in tiro a quattro di circa duecento miglia fin nello Yorkshire; il tutto messo assieme deve aver preparato l’immaginazione del lettore all’entrata in scena del dottor Slop per lo meno (spero) allo stesso modo di una danza, di un canto o di un intermezzo musicale tra un atto e l’altro. Se poi il mio ipercritico è intrattabile, asserendo che due minuti e tredici secondi sono due minuti e tredici secondi e niente di più, dopo che io ho detto tutto ciò che potevo riguardo a essi; e che questo argomento di difesa, benché mi possa salvare drammaticamente, mi condannerà biograficamente, trasformando il mio libro da questo preciso istante in un dichiarato romanzo mentre prima era un libro apocrifo: se sono messo così alle strette,

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allora metto subito fine a ogni obiezione e controversia al riguardo, informandolo che Obadia non aveva fatto più di sessanta iarde fuori della stalla, quando incontrò il dottor Slop; e invero egli diede una prova fangosa d’essersi incontrato con lui, e per un pelo non ne diede anche una tragica. Immaginatevi… Ma sarà meglio che cominci un nuovo capitolo. [Milano, Rizzoli, 2005]

3. Tempo del racconto o tempo del discorso  È anch’esso un tempo fittizio e legato alla comunicazione narrativa: stabilisce il rapporto esistente tra la durata effettiva dei fatti narrati e il modo della loro raffigurazione [Genette 2006; Prince 1984 e 1990; Ricoeur 1986;Weinrich 1978]. È l’insieme di tutte le strategie rappresentative e di tutti i dispositivi retorici, linguistici e tecnici che un autore/narratore può utilizzare per raccontare/enunciare la sua storia, accorciando, allungando, ripetendo, andando avanti e indietro o a zig zag,… È il tempo che, stando alla base di ogni narrazione basata sull’intreccio e non sulla fabula, permette di: a) cogliere le differenze di ordine tra la sequenzialità cronologica della storia e gli sfasamenti operati dal discorso del racconto (analessi, prolessi); b) stabilire i rapporti tra la durata degli eventi nella storia e nel racconto (ellissi, digressioni, pause, scene,…); c) individuare la diversa frequenza nel presentare alcuni eventi della storia rispetto al racconto (quante volte è raccontato lo stesso racconto?); d) cogliere la distanza fra l’epoca in cui si sono verificati gli eventi e il momento in cui vengono raccontati attraverso una: narrazione ulteriore = minima lontananza, ossia racconto al passato che è poi il genere di racconto più usato e frequente, per esempio, nel romanzo di impianto tradizionale sette-ottocentesco; narrazione anteriore = massima lontananza, ossia racconto profetico: un esempio potrebbe essere fornito dalla Commedia (1304-1321) se non fosse che Dante costruisce la sua opera come la narrazione di un viaggio reale e fisico compiuto in sette giorni storicamente collocabili nell’aprile del 1300, per cui è meglio pensare allo strepitoso ultimo capitolo della Coscienza di Zeno di Italo Svevo con quell’omino e la sua bomba che sembra davvero predire lo scoppio di una nuova e più terribile guerra; narrazione simultanea = completa coincidenza, racconto contemporaneo al presente temporale, tipico dei diari e delle memorie in presa diretta ma rintracciabile persino nell’ultima parte dell’Ulisse (1922) di James Joyce durante il lungo fluire di pensieri di Molly, moglie del protagonista [cap. III, par. 3, 171-172]; narrazione intercalata = lontananza e vicinanza allo stesso tempo, tanti racconti situati in momenti diversi e che si alternano gli uni agli altri all’interno di una medesima azione narrativa, come può accadere nel romanzo epistolare ma rintracciabile anche in molti capitoli dei Promessi sposi. Ordine, durata, frequenza e distanza sono cioè tutte categorie che permettono all’autore/narratore di rappresentare la distorsione tra tempo della

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storia e tempo del racconto permettendo così al lettore di cogliere le sfasature e di ricostruire nella propria mente la cronologia effettiva degli eventi, e permettendo contemporaneamente all’autore di inventare non una storia lineare ma basata su continui effetti di sorpresa. In sostanza, il discorso può movimentare la narrazione con anticipazioni o posticipazioni, può usare un tempo molto più breve o molto più lungo rispetto a quello reale di un determinato segmento di racconto e può addirittura ripetere una parte o una storia intera più volte per rappresentare al meglio la storia stessa nel suo complesso. Si pensi, per fare un solo esempio famosissimo e per questo più che emblematico, a quanto rapido, si potrebbe dire nullo, è il tempo impiegato da Proust a intingere e ad assaporare la famosa “maddalena” nel tè di tiglio e quanto è invece estesa la porzione di racconto attivata dalla memoria involontaria di quel minimo gesto, porzione che porta l’autore e il lettore indietro nel tempo a fatti molto complessi e molto importanti nella vicenda individuale del personaggio Marcel.

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Marcel Proust Alla ricerca del tempo perduto E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di madeleine inzuppato nel tiglio che mi dava la zia (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto più tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo mi rendesse così felice), subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori (il lato tronco che solo avevo riveduto fin allora); e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo era bello. E come quel gioco in cui i Giapponesi si divertono a immergere in una scodella di porcellana piena d’acqua dei pezzetti di carta fin allora indistinti che, appena immersi, si distendono, prendono contorno, si colorano, si differenziano, diventano fiori, case, figure umane consistenti e riconoscibili, così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutto Combray e i suoi dintorni, tutto questo che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè. [Milano, Oscar Mondadori, 2011]

2. L’ordine della storia L’autore/narratore può variare e modificare scientemente l’ordine del racconto senza così rispettare l’andamento cronologico della storia: può anticipare alcuni eventi o, con maggiore assiduità, può posticiparli e in questo modo attuare una rottura della storia e un’attesa nel lettore che vuole conoscere il resto della vicenda lasciata in sospeso. È ovvio che tutto que-

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sto ha a che fare con l’anacronia e non con la sincronia, quindi non con fabula ma con l’intreccio [Premessa, 55-57]. Le due più importanti forme di anacronia sono analessi e prolessi: 1. Analessi (o flash back o scena retrospettiva)  consiste nel recuperare una porzione di racconto che non era ancora stata narrata ma fondamentale per la comprensione dell’intera storia: in poche parole è il racconto di un episodio o di più episodi che si sono svolti prima del cosiddetto“presente”narrativo, racconto che spesso ricopre la funzione di creare tensione o suspence nel ritmo della narrazione medesima. L’analessi può essere di due tipi: a) esterna o eterodiegetica, quando i fatti recuperati non hanno un legame effettivo con quanto si sta raccontando perché sono avvenuti in un tempo precedente a quello della narrazione; b) interna od omodiegetica, quando i fatti recuperati rivestono un ruolo specifico all’interno della narrazione e vengono semplicemente narrati dopo il loro effettivo svolgimento [Calabrese 2010].Al capitolo quarto dei Promessi sposi Manzoni interrompe il flusso della narrazione (siamo all’alba del giorno successivo alla visita di Renzo dal dottor Azzeccagarbugli) per introdurci nella storia passata di padre Cristoforo e così illustrare meglio la personalità, sfaccettata e complessa, del frate che ha deciso di aiutare i nostri due “mancati sposi”. Questa è naturalmente un’analessi perché ferma la storia creando uno sfasamento nell’andamento logico dei fatti, ed è un’analessi esterna (o eterodiegetica) perché i fatti raccontati sono avvenuti in un momento molto più antico rispetto a quelli che costituiscono la vera diegesi [cap. I, par. 1, 10-12] del romanzo benché poi, a ben guardare, questi avvenimenti di gran lunga antecedenti avranno un gran peso nel rendere Lodovico quel Cristoforo che sarà uno dei più assidui e fedeli aiutanti di Renzo e Lucia [cap. III, par. 1, 148].

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Alessandro Manzoni I promessi sposi Il sole non era ancor del tutto apparso all’orizzonte quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato. È Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell’Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all’entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero.A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rat-

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tristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a sperar da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento, per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento. Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere. Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore, d’andar a sentire qualche sciagura. – Ma perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perché, al primo avviso, s’era mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi era questo padre Cristoforo? – Bisogna soddisfare a tutte queste domande. Il padre Cristoforo da * * * era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso. Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d’un mercante di * * * (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s’era dato a viver da signore. […] Lodovico aveva contratte abitudini signorili; e gli adulatori, tra i quali era cresciuto, l’avevano avvezzato ad esser trattato con molto rispetto. Ma, quando volle mischiarsi coi principali della sua città, trovò un fare ben diverso da quello a cui era accostumato; e vide che, a voler esser della lor compagnia, come avrebbe desiderato, gli conveniva fare una nuova scuola di pazienza e di sommissione, star sempre al di sotto, e ingozzarne una, ogni momento. Una tal maniera di vivere non s’accordava, né con l’educazione, né con la natura di Lodovico. S’allontanò da essi indispettito. Ma poi ne stava lontano con rammarico; perché gli pareva che questi veramente avrebber dovuto essere i suoi compagni; soltanto gli avrebbe voluti più trattabili. Con questo misto d’inclinazione e di rancore, non potendo frequentarli famigliarmente, e volendo pure aver che far con loro in qualche modo, s’era dato a competer con loro di sfoggi e di magnificenza, comprandosi così a contanti inimicizie, invidie e ridicolo. La sua indole, onesta insieme e violenta, l’aveva poi imbarcato per tempo in altre gare più serie. [Milano, BUR, 2011, cap. IV]

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In Uno studio in rosso di Arthur Conan Doyle gran parte della seconda parte, le cui vicende come sempre sono raccontate dal dottor Watson, è occupata da un lunghissimo e molto articolato racconto che ripercorre la storia di Lucy, rimasta orfana dei genitori in pochissimi anni, di suo padre adottivo John Ferrier e di altri tre personaggi, Jefferson Hope, Drebber e Stangerson che saranno poi al centro degli omicidi per cui è stato richiesto l’intervento di Sherlock Holmes.Anche questa è un’analessi perché, come quella appena illustrata e impiegata da Manzoni, interrompe la storia creando uno stacco temporale nettissimo con le vicende londinesi tanto che si cambia persino luogo dell’azione che si sposta negli States, inizialmente in Colorado e successivamente nello stato mormone dello Utah, e di nuovo in Europa, ed in più è una analessi interna (omodiegetica) perché questi fatti, per quanto distanti temporalmente e geograficamente, non solo servono a dare un senso a quanto finora successo ma si inseriscono nella diegesi vera e propria [cap. I, par. 1, 8-11] e risultano pertanto fondamentali per esplicitare i motivi che hanno spinto Jefferson Hope a uccidere Drebber e Stangerson, colpevoli di aver causato la prematura morte dell’amata Lucy, costretta suo malgrado a diventare la quinta moglie del mormone Drebber, sia il modo con cui lo stesso Jefferson Hope, ormai vecchio e malato, è riuscito a ottenere la sua vendetta.

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Arthur Conan Doyle Uno studio in rosso Il pensiero dominante della vendetta si era impadronito di lui così completamente che, nell’animo suo, non vi era posto per nessun’altra emozione. Il che, tuttavia, non gli toglieva il senso pratico. Ben presto, Hope si rese conto che nemmeno la sua tempra d’acciaio avrebbe potuto resistere alla tensione continua cui egli la sottoponeva. La vita all’aperto e la mancanza di un’alimentazione sana lo stavano logorando. Se fosse morto come un cane, tra le montagne, che ne sarebbe stato della sua vendetta? Eppure, se persisteva, tale sarebbe stata sicuramente la sua fine. Comprese, che, in definitiva, stava facendo il gioco del nemico, quindi, pur con riluttanza, ritornò alle miniere del Nevada allo scopo di ricuperare la salute e di accumulare il danaro necessario per realizzare i suoi piani, senza eccessive privazioni. Aveva deciso di rimanere assente tutt’al più un anno, ma un complesso di circostanze impreviste gli impedì di lasciare le miniere per quasi cinque anni. In capo a quel periodo, però, il ricordo dei torti subiti e la sete di vendetta erano tanto intensi, quanto lo erano stati in quella memorabile notte in cui egli aveva sostato presso la tomba di John Ferrier. Camuffato, e sotto falso nome, ritornò a Salt Lake City, incurante di quanto potesse accadergli, purché gli riuscisse di compiere quello che riteneva un atto di giustizia.Tristi notizie lo aspettavano nella città dei Santi. Qualche mese prima c’era stato uno scisma nel Popolo Eletto, in seguito alla ribellione tra i più giovani esponenti della Chiesa, contro l’autorità degli Anziani, e numerosi malcontenti avevano lasciato l’Utah, divenendo reietti. Drebber e Stangerson erano tra costoro, e nessuno sapeva dove fossero andati. Correva voce che Drebber fosse riuscito a convertire gran parte delle sue proprietà in danaro liqui-

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do e che fosse partito in ottime condizioni finanziarie, mentre il suo compagno, Stangerson, era rimasto senza mezzi. Comunque, si erano allontanati senza lasciar traccia. Molti uomini, per quanto vendicativi, avrebbero rinunciato a ogni pensiero di rivalsa di fronte a simili difficoltà, ma Jefferson Hope non vacillò nemmeno per un attimo. Col modesto gruzzolo che possedeva, e cercando di guadagnare qualche cosa col proprio lavoro dovunque sostasse, cominciò a viaggiare da una città all’altra degli Stati Uniti, in cerca dei suoi nemici. Gli anni passavano, i capelli gli divennero brizzolati, ma egli continuava a vagabondare, segugio umano, col pensiero fisso all’unico scopo al quale aveva dedicato la propria esistenza. E, alla fine, la sua perseveranza fu ricompensata. Un giorno ebbe la visione di un volto a una finestra, visione fuggevole, ma sufficiente a rivelargli che a Cleveland, nell’Ohio, dimoravano gli uomini che egli andava cercando. Ritornò al proprio miserabile alloggio e prese le misure necessarie per la realizzazione dei suoi piani. Senonché, Drebber, guardando fuori della propria finestra, aveva riconosciuto il vagabondo nella via e ne aveva intuito i propositi omicidi. Egli e Stangerson, che era diventato il suo segretario privato, si precipitarono da un giudice di pace e dichiararono che le loro vite erano in pericolo per la gelosia e l’odio di un antico rivale. Quella sera, Jefferson Hope fu tratto in arresto e, poiché non c’era nessuno che potesse garantire per lui, fu trattenuto in carcere qualche settimana. Quando finalmente lo liberarono, seppe che la casa di Drebber era deserta e che i due erano partiti per l’Europa.Ancora una volta il vendicatore era stato battuto, e ancora una volta l’odio gli diede la forza di perseverare. Senonché, i suoi fondi erano scarsi e, per qualche tempo, egli dovette ritornare al lavoro, accumulando pazientemente il danaro necessario per il prossimo viaggio. Finalmente, quando si trovò in possesso della somma necessaria, Hope partì per l’Europa e ricominciò a inseguire i suoi nemici, di città in città, guadagnandosi da vivere con ogni sorta di lavori manuali, ma senza mai riuscire a raggiungere i fuggiaschi. Quando Hope arrivò a Pietroburgo, Drebber e Stangerson erano partiti per Parigi, e quando egli li seguì in quella città, seppe che erano appena partiti per Copenaghen. Anche nella capitale danese, egli giunse con qualche giorno di ritardo, poiché i due si erano imbarcati per Londra, dove, finalmente, Hope riuscì a trovarli. Riguardo a ciò che accadde nella capitale britannica, ci conviene citare, senz’altro, la deposizione del vecchio cacciatore com’è riportata nel Diario del dottor Watson, al quale già tanto dobbiamo. Continuazione dei ricordi del dottor John Watson La furiosa resistenza opposta dal prigioniero non sembrava indicare alcuna animosità nei nostri confronti, poiché non appena egli si vide sopraffatto, sorrise in modo affabile ed espresse la speranza di non aver fatto male a nessuno di noi, nella colluttazione. – Immagino che lei voglia portarmi alla sezione di polizia – disse rivolgendosi a Sherlock Holmes. – Giù da basso c’è la mia carrozza. Se mi slega le caviglie, posso scendere coi miei mezzi. Sono diventato un po’ troppo grosso perché mi si possa trasportare di peso. Gregson e Lestrade si scambiarono un’occhiata come se giudicassero alquanto ardita quella proposta. Holmes prese subito in parola il prigioniero e slegò l’asciugamano col quale gli aveva immobilizzato le caviglie. [Milano, BUR, 2012, II Parte]

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L’analessi (eterodiegetica e omodiegetica) può configurarsi attraverso modalità tecniche diverse: a) Per mezzo di un processo dialogico per cui gli eventi del passato sono recuperati proprio grazie alla conversazione tra due o più personaggi che forniscono al lettore le informazioni utili per riorganizzarsi da solo i fatti, come spesso accade nelle ricostruzioni di un delitto nelle narrazioni poliziesche e “gialle” e in più momenti dell’appena citato Uno studio in rosso.

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Arthur Conan Doyle Uno studio in rosso – Ho parecchie cose da dire – rispose il prigioniero lentamente. – Desidero raccontarvi tutta la storia… perché forse non sarò processato… Oh, non vi allarmate. Non medito il suicidio. Lei è medico? E volse gli occhi scintillanti verso di me, nel formulare quest’ultima domanda. – Sì, sono medico – dissi. – Allora, metta una mano qui – soggiunse sorridendo e indicando il proprio petto coi polsi ammanettati. Obbedii, e subito, premendo una mano sulla regione cardiaca, percepii uno straordinario tumulto all’interno. Il petto sembrava vibrare come un fragile edificio entro cui funzioni una poderosa macchina. Nel silenzio della stanza, mi sembrava persino di udire un palpito irregolare proveniente dalla medesima fonte. – Perdiana! – esclamai. – Lei ha un aneurisma aortico. – So che lo chiamano così – rispose lui placidamente. – Sono stato da un medico, la settimana scorsa, e mi ha dato pochi giorni di vita. In questi ultimi anni sono andato sempre di male in peggio. Mi sono buscato questo malanno vivendo come un animale selvatico sulle montagne di Salt Lake. Ma ora la mia opera è compiuta e non m’importa di andarmene presto. D’altra parte, desidero lasciare un racconto della vicenda. Non voglio che ci si ricordi di me come di un volgare assassino. I due investigatori e l’ispettore si consultarono frettolosamente sull’opportunità di consentire che Hope rendesse la propria deposizione, seduta stante. – Dottore, ritiene che vi sia un pericolo immediato? – volle sapere il funzionario. – Senza dubbio – risposi. – In tal caso, è nostro dovere, nell’interesse della giustizia, raccogliere le sue dichiarazioni. È autorizzato a darci il resoconto dei fatti, Hope, ma le ripeto che le sue parole saranno messe a verbale. – Col vostro permesso, mi siedo – disse il prigioniero, facendo seguire l’azione alle parole. – Con questo aneurisma mi stanco facilmente, e la colluttazione di mezz’ora fa non ha migliorato le cose. Sono sull’orlo della tomba, quindi potete stare sicuri che non vi racconto bugie.Vi dirò la sacrosanta verità, e non mi riguarda l’uso che poi ne farete. Con quelle parole, Jefferson Hope si appoggiò all’indietro contro lo schienale della sedia e iniziò il suo singolare racconto. [Milano, BUR, 2012, II Parte]

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b) Per mezzo di un processo di ricostruzione della memoria compiuto dal protagonista o da un personaggio o dalla voce narrante della vicenda: esempio classico, e già ricordato, il brano della “maddalena” nella Recherche di Proust [par. 1, 63], un procedimento tecnico ripreso anche in narrazioni meno complesse come nel recente (siamo nel 2000) Musica rock da Vittula dello svedese Mikael Niemi. Il suo protagonista/narratore Matti, in un momento alquanto delicato della sua vita da adulto (si trova a 5.415 metri di altitudine, al passo di Thorong La, massiccio dell’Annapurna in Nepal), recupera quasi di colpo, attraverso un ricordo molto particolare, la sua infanzia-adolescenza che è poi, guarda caso, il tema centrale del romanzo [BOX 4.Temi e motivi in letteratura, 56].

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Mikael Niemi Musica rock da Vittula I primi radi fiocchi di neve sferzano la mia giacca a raffiche. Brutto segno. Se il sentiero fa in tempo a coprirsi di neve può diventare pericoloso. Do un’occhiata indietro, ma non ci sono altri escursionisti in vista. Devo sbrigarmi a scendere. Ma no, non ancora. Mi trovo sul punto più alto che ho mai raggiunto in vita mia. Devo prima dire addio. Devo ringraziare qualcuno. Preso da un impulso improvviso, mi inginocchio accanto al mucchio di pietre. Mi sento un po’ ridicolo, ma un ultimo sguardo in giro mi conferma che sono solo. Mi chino in fretta in avanti come un musulmano, prostrato a terra col sedere in aria, e mormoro una preghiera. C’è una placca di metallo incisa a caratteri tibetani, una scritta che non so decifrare ma che irradia solennità, spiritualità, e mi chino ancora di più per baciare l’iscrizione. È in quell’istante che mi si spalanca la memoria. Un pozzo vertiginoso sino all’infanzia. Un condotto attraverso il tempo in cui qualcuno lancia un grido d’allarme, ma è troppo tardi. Sono incastrato. Le mie labbra umide sono rimaste incollate dal gelo a una piastra di preghiera tibetana. E quando cerco di liberarmi inumidendole con la lingua, resta incollata anche quella. Non c’è bambino del Norrland a cui prima o poi non sia capitato. […] Di colpo il ricordo è perfettamente nitido. Ho cinque anni e resto incollato mentre lecco la serratura della porta sulla veranda di casa a Pajala. Per prima cosa, un inaudito stupore. […] «Aaahhh, aaahhh…». Ed ecco arriva la mamma.Versa una tazza tiepida sulla serratura e le labbra si scongelano, libere. Brandelli di pelle restano attaccati al metallo e prometto a me stesso di non farlo mai più. «Aaahhh, aaahhh…» mormoro mentre la neve cade sempre più fitta. Nessuno mi sente. […] La mia bocca sta diventando insensibile. […] Mi resta un’unica possibilità. Devo strapparmi via. Il solo pensiero mi dà la nausea. Ma non ho scelta. Comincio a tirare un po’ per provare. Il dolore si irradia fino alla radice della lingua. Uno… due… e… […]

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Mi fermo di colpo. Prendo la tazza che ho appesa alla cintura. La riempio fino al bordo, poi mi rovescio il contenuto sulla bocca. Cola sulle labbra, le scongela, e in un paio di secondi sono libero. Me la sono fatta letteralmente addosso. Mi alzo. Il mio momento di raccoglimento è finito. Ho la bocca e le labbra rigide e sanguinolente. Ma posso di nuovo muoverle. Finalmente posso cominciare a raccontare. [Milano, Economica Feltrinelli, 2002, Prologo]

c) Per mezzo di un sorta di processo investigativo per lo più gestito da un personaggio-testimone o da un narratore esterno, come nell’originalissimo racconto La sentinella (1954) di Fredric Brown in cui solo alla fine, dopo aver ricordato le origini della storia, è possibile comprendere chi sono e a quale genere appartengono i protagonisti della storia medesima.

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Fredric Brown La sentinella Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo ed era lontano cinquantamila anni-luce da casa. Un sole straniero dava una gelida luce azzurra e la gravità, doppia di quella cui era abituato, faceva d’ogni movimento una agonia di fatica. Ma dopo decine di migliaia d’anni quest’angolo di guerra non era cambiato. Era comodo per quelli dell’aviazione, con le loro astronavi tirate a lucido e le loro superarmi; ma quando si arrivava al dunque, toccava ancora al soldato di terra, alla fanteria, prendere posizione e tenerla, col sangue, palmo a palmo. Come questo fottuto pianeta di una stella mai sentita nominare finché non ce lo avevano sbarcato. E adesso era suolo sacro perché c’era arrivato anche il nemico. Il nemico, l’unica altra razza intelligente della Galassia… crudeli, schifosi, ripugnanti mostri. Il primo contatto era avvenuto vicino al centro della Galassia, dopo la lenta e difficile colonizzazione di qualche migliaio di pianeti; ed era stata la guerra, subito; quelli avevano cominciato a sparare senza nemmeno tentare un accordo, una soluzione pacifica. E adesso, pianeta per pianeta, bisognava combattere, coi denti e con le unghie. Era bagnato fradicio e coperto di fango e aveva fame e freddo, e il giorno era livido e spazzato da un vento violento che gli faceva male agli occhi. Ma i nemici tentavano d’infiltrarsi e ogni avamposto era vitale. Stava all’erta, il fucile pronto. Lontano cinquantamila anni-luce dalla patria, a combattere su un mondo straniero e a chiedersi se ce l’avrebbe mai fatta a riportare a casa la pelle. E allora vide uno di loro strisciare verso di lui. Prese la mira e fece fuoco. Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante, che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso e la vista dei cadavere lo fecero rabbrividire. Molti, col passare del tempo, s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle d’un bianco nauseante, e senza squame. [in Le meraviglie del possibile,Torino, Einaudi, 2007]

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2. Prolessi (o flashforward o anticipazione)  consiste nell’anticipare uno o più eventi che succederanno soltanto in un secondo tempo, sempre rispetto al cosiddetto “presente” della narrazione. Rispetto all’analessi, le prolessi sono in generale molto meno frequenti e meno comuni, e spesso legate alla presenza di un narratore onnisciente [cap. I, par. 3, 41-42] che, conoscendo già tutta la storia, può al momento opportuno anticiparne alcune parti senza per questo eliminare al lettore il gusto della lettura medesima e il conseguente senso di attesa e di suspence.Tuttavia questo non toglie che in alcuni romanzi la prolessi risulti fondamentale proprio per lo sviluppo o, addirittura, per la comprensione dell’intera narrazione come nel caso della Premessa di Il fu Mattia Pascal (1904) di Luigi Pirandello, in cui il nostro Mattia Pascal, ormai già “fu”, dissemina ad arte, qua e là, alcuni indizi anticipando quello che sarà il finale a sorpresa della sua personalissima vicenda umana. Anzi, queste se pur minime anticipazioni, tutte abilmente lasciate in sospeso, sono gli strumenti utilizzati da Pirandello medesimo per catturare l’attenzione del suo lettore e istituire con lui una specie di patto narrativo [cap. I, par. 2, 26-32], ossia “se tu lettore vuoi comprendere come sia possibile per un uomo morire due volte ed essere ancora vivo, dovrai necessariamente leggere tutta la storia dal suo inizio siano alla sua unica possibile conclusione”.

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Luigi Pirandello Il fu Mattia Pascal Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qualcuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino al punto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevo nelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo: – Io mi chiamo Mattia Pascal. – Grazie, caro. Questo lo so. – E ti par poco? Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più rispondere, cioè, come prima, all’occorrenza: – Io mi chiamo Mattia Pascal. Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando l’atroce cordoglio d’un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt’a un tratto che… sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o come non fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione dei costumi, e de’ vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possono esser cagione a un povero innocente. Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta propriamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico, l’origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmente non solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e le loro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli.

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Capitolo II

E allora? Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che mi faccio a narrarlo. Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciar morendo al nostro Comune. È ben chiaro che questo Monsignore dovette conoscer poco l’indole e le abitudini de’ suoi concittadini; o forse sperò che il suo lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animo l’amore per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acceso: e questo dico in lode de’ miei concittadini. Del dono anzi il Comune si dimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli un mezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato, per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so per qual ragione sconsacrata. Qua li affidò, senz’alcun discernimento, a titolo di beneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, per due lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, ne avesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume. Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così misera stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimi della nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere, se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poter servire d’ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, riducendosi finalmente a effetto l’antica speranza della buon’anima di monsignor Boccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio manoscritto, con l’obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant’anni dopo la mia terza, ultima e definitiva morte. Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono morto, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda… sentirete. [Milano, Mondadori, 2012]

3. La durata della storia L’autore/narratore può scegliere il modo in cui presentare lo scorrere naturale dell’azione: può, quindi, cercare di riprodurre il cosiddetto “tempo reale” o “tempo del presente” oppure di alterarlo scardinando la sequenzialità degli eventi. Gli strumenti tecnici/linguistici/retorici a disposizione sono vari e differenti tra loro ma hanno tutti la medesima funzione: raccontare, o far raccontare, la storia in maniera più “mossa” e “articolata”, creando un andamento più lento o più veloce rispetto al tempo della storia principale, fermando l’azione centrale per introdurne altre secondarie o correlate, facendo addirittura sostare il proprio lettore prima di immetterlo dentro a un nuovo episodio e a una nuova parte della storia. È quello che si potrebbe definire il respiro della narrazione o, addirittura, l’andatura, il movimento, del discorso ad essa connesso (lento o veloce o variabile), respiro che può essere ottenuto grazie a una serie di tecniche:

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1. Scena (o quadro)  permette di raccontare nella sua naturale evoluzione un segmento della storia come se esistesse una sorta di equivalenza tra quello stesso segmento e il modo/tempo della sua raffigurazione. In sostanza l’autore/narratore sceglie di far corrispondere il tempo della storia e il tempo della narrazione mettendo in scena, appunto, le vicende di quel particolare momento per mezzo di un tempo narrativo simile al tempo reale: questo, in poche parole, significa che la scena consente all’autore/narratore di rappresentare “mimeticamente” un ben preciso episodio della vicenda, creando in questo modo un effetto di massima vicinanza con il suo lettore/ascoltatore che assiste/ascolta quasi in presa diretta a quanto sta succedendo nell’azione. Si richiami alla memoria il racconto Due di due penny, per favore della Mansfield, riportato proprio a proposito della differenza tra mimesi/Showing e diegesi/Telling [cap. I, par. 1, 812]: il continuo dialogo [cap. III, par. 3, 161] che costituisce il tessuto, l’ordito, della rappresentazione permette di istituire quasi una perfetta simultaneità tra quanto descritto (la scena) e il tempo dell’accadimento. La scena risulta particolarmente utile quando all’interno di una porzione abbastanza estesa della narrazione è necessario rappresentare in contemporanea più segmenti di storia. Si pensi al capitolo ottavo dei Promessi sposi, quello in cui attraverso numerosi e movimentatissimi quadri Manzoni dipinge la “notte degli imbrogli” durante la quale, e in perfetta coincidenza, avvengono il tentativo fallito di matrimonio a sorpresa in casa di don Abbondio, l’accorrere in piazza di tutto il paese svegliato dall’allarme lanciato dal sagrestano, l’altrettanto fallito tentativo di rapimento di Lucia da parte dei bravi di don Rodrigo e lo spavento del piccolo Menico suo malgrado invischiato in cose più grandi di lui; oppure al capitolo ventunesimo in cui in due distinti luoghi, due stanze non lontane ma separate del“castellaccio”, e in due distinte scene vengono descritte e dipanate nello stesso identico scorcio di tempo, ossia nello scorrere della medesima notte, le angosce di Lucia e i pensieri dell’Innominato sino a quello scampanio che segnerà per entrambi la fine di un incubo.

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Alessandro Manzoni I promessi sposi Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani. Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una torbida vicenda di pensieri, d’immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a sé stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in quella giornata, s’applicava dolorosamente alle circostanze dell’oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati dall’incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest’angoscia; alfine, più che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma tutt’a un tratto si ri-

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Capitolo II

sentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perché.Tese l’orecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il venire e l’andare dell’onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l’aiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso. L’infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell’orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell’avvenire, l’assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell’abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un’improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. […] Ma c’era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l’ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell’immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all’orecchio, il signore s’era andato a cacciare in camera, s’era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell’immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. […] E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna.Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt’a un tratto restìo per un’ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all’imprese avviate e non finite, in vece d’animarsi al compimento, in vece d’irritarsi degli ostacoli (ché l’ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de’ passi già fatti. Il tempo gli s’affacciò davanti voto d’ogni intento, d’ogni occupazione, d’ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l’ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl’importasse; anzi l’idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un’idea di schifo e d’impiccio. E se volle trovare un’occupazione per l’indomani, un’opera fattibile, dovette pensare che all’indomani poteva lasciare in libertà quella poverina. […] Tutt’a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: – Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia! – E non gli tornavan già con quell’accento d’umile preghiera, con cui erano state proferite; ma come un suono pieno d’autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un’attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni.Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s’immagina-

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va di condurla lui stesso alla madre. – E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l’altro? che farò dopo doman l’altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte! […] Ed ecco, appunto sull’albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s’era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all’orecchio come un’onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d’allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l’eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro. – Che allegria c’è? cos’hanno di bello tutti costoro? – Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s’avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un’alacrità straordinaria. [Milano, BUR, 2011, cap. XXI]

2. Ellissi  permette di eliminare o ridurre o persino tacere parti della storia in modo da rendere nullo o molto inferiore il tempo utilizzato per il suo racconto rispetto al tempo reale, effettivo, del suo svolgimento. In sostanza, l’ellissi consente di accorciare il tempo di quel determinato momento della vicenda restituendola al lettore con pochissime battute e, quindi, accelerata: è quando il nostro autore/narratore, senza darci ulteriori spiegazioni o ulteriori particolari, “salta” mesi o addirittura anni all’interno della narrazione fornendocene soltanto una rapida descrizione o facendo semplicemente percepire lo scorrere del tempo senza darcene informazioni precise attraverso: a) i connettivi temporali come, tanto per citarne qualcuno, alcuni giorni fa, a distanza di tre anni, alla fine/all’inizio, a mano a mano, di giorno in giorno, d’un tratto, all’improvviso, dopo di che, frattanto, finché, finalmente, in futuro/in passato, nel frattempo, poco tempo dopo/prima, una volta, un tempo, un bel giorno,…; b) i tempi verbali, tenendo a mente che i tempi narrativi sono in generale imperfetto, passato remoto, trapassato prossimo, trapassato remoto, condizionale presente e condizionale passato, e che i tempi commentativi sono, al contrario, presente, passato prossimo, futuro semplice e futuro anteriore; e che tipicamente il tempo dello sfondo è l’imperfetto e, invece, il tempo del primo piano è il passato remoto [Weinrich 1978]. Nel capitolo decimo dei Promessi sposi, Manzoni, continuando la storia di Gertrude, iniziata nel capitolo precedente, costruisce un racconto interamente costellato di salti temporali e di cose non dette o dette soltanto a metà, grazie appunto alla tecnica dell’ellissi. Intanto con un’unica frase («La sventurata rispose») Manzoni condensa magistralmente cosa avrebbe significato per Gertrude, ormai monaca, accogliere l’invito e le profferte di Egidio, e in più con una serie di connettivi o di veloci notazioni temporali (in quei primi momenti, per qualche tempo, non passò molto tem-

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po,…) riduce notevolmente la narrazione offrendo al lettore soltanto quei dettagli o quelle sfumature che servono per rendere più chiaro, e forse in parte motivare (ma non perdonare), il futuro comportamento di Gertrude nei confronti dell’ignara e ingenua Lucia.

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Alessandro Manzoni I promessi sposi Tra l’altre distinzioni e privilegi che le erano stati concessi, per compensarla di non poter esser badessa, c’era anche quello di stare in un quartiere a parte. Quel lato del monastero era contiguo a una casa abitata da un giovine, scellerato di professione, uno de’ tanti, che, in que’ tempi, e co’ loro sgherri, e con l’alleanze d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Il nostro manoscritto lo nomina Egidio, senza parlar del casato. Costui, da una sua finestrina che dominava un cortiletto di quel quartiere, avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il discorso. La sventurata rispose. In que’ primi momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva. Nel vòto uggioso dell’animo suo s’era venuta a infondere un’occupazione forte, continua e, direi quasi, una vita potente; ma quella contentezza era simile alla bevanda ristorativa che la crudeltà ingegnosa degli antichi mesceva al condannato, per dargli forza a sostenere i tormenti. Si videro, nello stesso tempo, di gran novità in tutta la sua condotta: divenne, tutt’a un tratto, più regolare, più tranquilla, smesse gli scherni e il brontolìo, si mostrò anzi carezzevole e manierosa, dimodoché le suore si rallegravano a vicenda del cambiamento felice; lontane com’erano dall’immaginarne il vero motivo, e dal comprendere che quella nuova virtù non era altro che ipocrisia aggiunta all’antiche magagne. Quell’apparenza però, quella, per dir così, imbiancatura esteriore, non durò gran tempo, almeno con quella continuità e uguaglianza: ben presto tornarono in campo i soliti dispetti e i soliti capricci, tornarono a farsi sentire l’imprecazioni e gli scherni contro la prigione claustrale, e talvolta espressi in un linguaggio insolito in quel luogo, e anche in quella bocca. Però, ad ognuna di queste scappate veniva dietro un pentimento, una gran cura di farle dimenticare, a forza di moine e buone parole. Le suore sopportavano alla meglio tutti questi alt’e bassi, e gli attribuivano all’indole bisbetica e leggiera della signora. Per qualche tempo, non parve che nessuna pensasse più in là; ma un giorno che la signora, venuta a parole con una conversa, per non so che pettegolezzo, si lasciò andare a maltrattarla fuor di modo, e non la finiva più, la conversa, dopo aver sofferto, ed essersi morse le labbra un pezzo, scappatale finalmente la pazienza, buttò là una parola, che lei sapeva qualche cosa, e che, a tempo e luogo, avrebbe parlato. Da quel momento in poi, la signora non ebbe più pace. Non passò però molto tempo, che la conversa fu aspettata in vano, una mattina, a’ suoi ufizi consueti: si va a veder nella sua cella, e non si trova: è chiamata ad alta voce; non risponde: cerca di qua, cerca di là, gira e rigira, dalla cima al fondo; non c’è in nessun luogo. E chi sa quali congetture si sarebber fatte, se, appunto nel cercare, non si fosse scoperto una buca nel muro dell’orto; la qual cosa fece pensare a tutte, che fosse sfrattata di là. Si fecero gran ricerche in Monza e ne’ contorni, e principalmente a Meda, di dov’era

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quella conversa; si scrisse in varie parti: non se n’ebbe mai la più piccola notizia. Forse se ne sarebbe potuto saper di più, se, in vece di cercar lontano, si fosse scavato vicino. Dopo molte maraviglie, perché nessuno l’avrebbe creduta capace di ciò, e dopo molti discorsi, si concluse che doveva essere andata lontano, lontano. E perché scappò detto a una suora: «s’è rifugiata in Olanda di sicuro», si disse subito, e si ritenne per un pezzo, nel monastero e fuori, che si fosse rifugiata in Olanda. […] Era scorso circa un anno dopo quel fatto, quando Lucia fu presentata alla signora, ed ebbe con lei quel colloquio al quale siam rimasti col racconto. [Milano, BUR, 2011, cap. X]

3. Pause, digressioni, sommari  consentono di rallentare (digressioni narrative e/o riflessive) o di velocizzare (sommari o panorami o riassunti) il ritmo della narrazione mediante parti più descrittive e/o riflessive, o ancora di interrompere il filo logico e persino il tempo della storia (pause) per spostare l’attenzione del lettore su determinati aspetti (spaziali, ambientali,sociali,psicologici,…) della storia medesima.In realtà,esattamente come per l’ellissi, tutti questi strumenti servono all’autore/narratore per imprimere un particolare andamento alla narrazione e, soprattutto, per creare quella che spesso viene definita la “passione dell’attesa” o suspense, che è poi una delle fondamentali molli per tenere avvinto il lettore e portarlo sino alla fine della storia: tanto per fare un esempio da un romanzo già citato (e che ci permette pertanto di istituire collegamenti tra una parte e l’altra del discorso), La straniera di Younis Tawfik [cap. I, par. 3, 47-49], le due voci della storia, l’Architetto e Amina, che si alternano sulla scena e che in questo modo finiscono per essere sia narratori autodiegetici sia narratori omodiegetici [cap. I, par. 3, 37-38], vengono spesso interrotte, creando così una pausa nel tempo della narrazione, da una serie di inserti poetici: questi inserti, che riprendono il costume delle Maqamat delle scritture orientali (alternanza tra parti in prosa più narrative e parti in versi più riflessive), hanno la funzione di segnare lo stacco, talora anche temporale, tra un capitolo e l’altro o tra una parte e un’altra di uno stesso capitolo, di fermare gli accadimenti del presente narrativo e persino di fornire una chiave interpretativa di quanto si è appena letto e di quanto si andrà a leggere, come una sorta di spartiacque tra il dato concreto della storia e gli aspetti più interiori o nascosti o riflessivi della storia medesima, finendo per essere persino una specie di sommario del“prima”e del“dopo”. Nel primo capitolo, per esempio, per separare il momento del presente, legato all’entrata in scena della giovane marocchina Amina, dal lungo flashback [par. 2, 64] di un pezzo della vita passata dell’Architetto quando ancora non era andato via dal suo paese d’origine,viene inserita una lirica che evidentemente segna una pausa all’interno della diegesi e che allo stesso tempo racchiude in sé sia il tema della schiavitù (la prostituzione a cui Amina è costretta suo malgrado) sia il tema del sofferenza causata dalla lontananza (sia l’Architetto sia Amina, se pur in modo del tutto diverso, sono immigrati e pertanto distanti dalla propria patria).

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Younis Tawfik La straniera Noi, figli di Agar, figli della fame e della terra arida. Soli nel tempo, diversi, tristi e depressi, cattivi e buoni, andiamo errando: cerchiamo il sole nella neve, e la Stella Polare nella sabbia dorata. Soli nella notte, e nella morte. Noi, figli della schiava, figli di quella terra bruna, figli del dolore, della fatica. Soli nella patria gravida, morti prima della nascita. [Milano,Tascabili Bompiani, 2007]

In alcuni casi l’autore/narratore può persino decidere di avviare la sua storia con una descrizione [Hamon 1981 e 1991; Pellini 1998] che, benché non possa essere affatto considerata una digressione, cioè una deviazione dall’argomento principale e quindi un allontanamento o un rallentamento rispetto al tempo della diegesi, ha comunque il compito di imprimere, come potrebbe appunto fare una digressione, un caratteristico andamento alla storia che, quasi sempre, va dal più lento al più veloce, e di introdurci nella storia medesima da una prospettiva ben determinata, che si stende molto frequentemente dall’alto verso il basso o dal più generale al più specifico. Oltre a creare un particolare ritmo, se un autore/narratore sceglie di cominciare con una descrizione (di un ambiente, di un paesaggio, di oggetti e persino di un personaggio) sta dicendo al suo lettore di fare particolare attenzione, perché il soggetto di quella descrizione serve sia a immettere senza ulteriori intermediari nell’atmosfera della storia, sia a fornire la prima chiave interpretativa della storia stessa. Si pensi al prologo dei Promessi sposi con «Quel ramo del lago di Como» che, a detta di Umberto Eco, sembra una ripresa filmica presa appunto dall’alto per poi cadere su una di quelle stradine su cui sta camminando l’ignaro don Abbondio. Non è soltanto la presentazione del naturale fondale della prima macrosequenza del romanzo, i primi otto capitoli di vita paesana e più familiare nei quali vengono presentati la maggior parte dei personaggi principali dell’intera vicenda, ma anche la sottile enunciazione (grazie allo strumento tecnico dell’ironia, che sarà poi uno dei procedimenti narrativo-riflessivi più usati dall’autore) di uno degli ideali morali del romanzo, la giustizia quasi sempre “ingiusta” se viene dagli uomini e invece sempre “giusta” se viene da Dio, che è poi pure l’artefice di quell’ordinato e magnifico panorama.

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Alessandro Manzoni I promessi sposi Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra, e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti contigui, l’uno detto di san Martino, l’altro, con voce lombarda, il Resegone, dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura di Milano che guardano a settentrione,non lo discerna tosto,a un tal contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo l’ossatura de’ due monti, e il lavoro dell’acque. Il lembo estremo, tagliato dalle foci de’ torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna. Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi viene in parte a trovarsi nel lago stesso,quando questo ingrossa:un gran borgo al giorno d’oggi, e che s’incammina a diventar città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare, quel borgo, già considerabile, era anche un castello, e aveva perciò l’onore d’alloggiare un comandante, e il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese, accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche padre; e, sul finir dell’estate, non mancavan mai di spandersi nelle vigne, per diradar l’uve, e alleggerire a’ contadini le fatiche della vendemmia. Dall’una all’altra di quelle terre, dall’alture alla riva, da un poggio all’altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate, sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo,non iscoprite che un pezzo di cielo e qualche vetta di monte;ogni tanto elevate su terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante, e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga distesa di quel vasto e variato specchio dell’acqua; di qua lago, chiuso all’estremità o piuttosto smarrito in un gruppo, in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che l’acqua riflette capovolti, co’ paesetti posti sulle rive; di là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a perdersi in lucido serpeggiamento pur tra’ monti che l’accompagnano, degradando via via, e perdendosi quasi anch’essi nell’orizzonte. Il luogo stesso da dove contemplate que’ vari spettacoli, vi fa spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi svolge, al di sopra, d’intorno, le sue cime e le balze, distinte, rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in gioghi ciò che v’era sembrato prima un sol giogo, e comparendo in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa: e l’ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il selvaggio, e orna vie più il magnifico dell’altre vedute. [Milano, BUR, 2011, cap. I]

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Si pensi pure all’inizio di La mia Africa (1937) di Karen Blixen, in cui, con una tecnica abbastanza simile, l’autrice/protagonista ci introduce in quella parte di Africa che farà da sfondo all’intera narrazione/memoria, creando così sin da subito quell’atmosfera quasi incantata che è poi una delle peculiarità di questi ricordi di vita vissuta tra il 1914 e il 1931 e che mette l’accento in modo particolare sull’altezza e sull’aria, che saranno poi al centro di uno degli episodi più emblematici per la nostra Karen, e dal significativo titolo Ali.

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Karen Blixen La mia Africa In Africa avevo una fattoria ai piedi degli altipiani dei Ngong. A un centocinquanta chilometri più a nord su quegli altipiani passava l’equatore; eravamo a milleottocento metri sul livello del mare. Di giorno si sentiva di essere in alto, vicino al sole, ma i mattini, come la sera, erano limpidi e calmi, e di notte faceva freddo. La posizione geografica e l’altezza contribuivano a creare un paesaggio unico al mondo. Nulla che fosse grasso e lussureggiante: era un’Africa distillata lungo tutti i suoi milleottocento metri di altitudine, quasi l’essenza forte e raffinata di un continente. I colori, asciutti ed arsi, parevano colori di terracotta. Gli alberi avevano un fogliame delicato e leggero, di una struttura diversa da quelli d’Europa. […] Il respiro dei panorama era immenso. Ogni cosa dava un senso di grandezza, di libertà, di nobiltà suprema. Il tratto più caratteristico del paesaggio, e della vita lassù, era l’aria. Ricordando un periodo passato sugli altipiani d’Africa, si ha la sensazione sconcertante di essere vissuti nell’aria. Il cielo era di solito celeste pallido o violetto, solcato da nubi maestose, senza peso, in continuo mutamento, erte come torri; ma avevan in sé un tale vigore d’azzurro da colorare anche i boschi, e le colline accanto, di una tinta fresca e profonda. Nel pieno del giorno l’aria, in alto era viva come una fiamma: scintillava, ondeggiava e splendeva come acqua che scorre, specchiando e raddoppiando tutti gli oggetti, creando grandi miraggi. Lassù si respirava bene, si sorbiva coraggio di vita e leggerezza di cuore. Ci si svegliava, la mattina, sugli altipiani, e si pensava: «Eccomi qui, è questo il mio posto». Il massiccio dei Ngong, proteso in una lunga cresta da nord a sud, è coronato da quattro vette piene di nobiltà, come onde immobili, di un azzurro più fondo, contro il cielo. Sale a duemilaquattrocento metri dal mare e a seicento dalla campagna circostante; ma ad ovest è più ripido e più scosceso, e le rocce cadono a picco verso la valle dei Gran Rift. Il vento soffia incessantemente da nord, nord-est. È lo stesso vento che sulla costa araba e africana chiamano monsone, il vento di levante che era il cavallo favorito di re Salomone. Qui, sugli altipiani, pare soltanto una resistenza dell’aria di fronte allo slancio con cui la terra si scaglia nello spazio. Picchia dritto contro il Ngong; il versante della colline sarebbe il posto ideale per lanciare gli alianti: le correnti li solleverebbero sopra le cime. Le nuvole, in viaggio con il vento, urtavano contro la parete restando sospese là intorno, o incagliandosi sulla roccia e rompendosi in

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pioggia. Ma quelle più alte, che veleggiavano al di sopra del massiccio, si dissolvevano ad ovest, sul deserto infiammato della valle del Rift.Tante volte, da casa mia, guardavo quelle maestose processioni avanzare: vedevo quasi con stupore le loro orgogliose masse fluttuanti, appena superate le colline, sciogliersi nell’azzurro e sparire. Dalla fattoria, le colline cambiavano molte volte, durante il giorno; a tratti sembravano vicine, a tratti lontanissime. La sera, quando imbruniva, dapprincipio sembrava che un sottile filo d’argento orlasse tutto il contorno della montagna scura; poi, col calare della notte, le quattro vette divenivano più piatte e smussate, come se la montagna si dispiegasse e si allargasse. Intorno a noi s’apriva un paesaggio unico. A sud, fino al Kilimangiaro, le vaste pianure della grande zona di caccia; a ovest e a nord la falda delle colline che parevano un parco, con dietro le foreste; più in là, fino al monte Kenya, la terra tutta ondulata della riserva kikuyu, lunga più di centocinquanta chilometri, un mosaico di piccoli campi di mais, quadrati, boschetti di banani e terre da pascolo, con qua e là il fumo azzurrino di un villaggio indigeno, tutto cucuzzoli, come un grappolo di tane da talpa.Verso ovest, invece, si estendeva il paesaggio arido, lunare, della bassa africana. Il deserto brunastro e punteggiato qua e là, senza regole, dalle piccole chiazze degli spineti, fumi serpeggianti si compongono in disegno con sentieri verdecupo, tutti torti; sono i boschi di acacia, dagli alberi vigorosi coi larghi ombrelli e le spine come spade; qui cresce il cactus e qui sono di casa la giraffa e il rinoceronte. Anche sulle colline, quando ci si arriva il paesaggio è paurosamente grande, pittoresco e misterioso: sempre diverso, con le lunghe vallate, gli sterpeti, i pendii verdeggianti, i burroni fra le rocce. In alto, sotto una delle vette, si trova persino un boschetto di bambù. [Milano, Feltrinelli, 2009]

Ma non solo. La descrizione, per quanto minuta e accurata e per quanto posta in apertura di romanzo, può nascondere un altro intento più profondo e chiaramente concettuale e programmatico, quindi né “naturalistico” né “espressionistico”, e pertanto nient’affatto assimilabile alla digressione vera e propria. Nel Ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde l’avvio mette in scena la prima sublime rappresentazione del “bello”, di quel bello che sarà centro e fine della dissoluta e dissennata vita del protagonista alla ricerca dell’eterna giovinezza; nell’Uomo senza qualità (1930-1942) di Robert Musil l’avvio, al di là delle notazioni atmosferiche e climatiche (appunto l’aspetto naturalistico ed espressionistico), mette in scena una questione ancora più complessa, ossia che la realtà del mondo moderno, che fa da scenario alla storia (spesso una storia incompleta o non del tutto compiuta), benché costituita da un insieme di elementi matematicamente, fisicamente e analiticamente misurabili, non è comprensibile e tanto meno abbracciabile nella sua totalità per via del suo naturale disordine e delle sue mille contraddizioni.

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Oscar Wilde Il ritratto di Dorian Gray Lo studio era intriso di uno splendido odore di rose, e quando la lieve brezza estiva frusciava tra gli alberi del giardino, dalla porta aperta penetrava il pesante profumo delle serenelle, o quello più delicato di rosaspini. Sdraiato nell’angolo di un divano coperto di stoffe persiane, e fumando, secondo la sua abitudine, un numero di sigarette, Lord Henry Wotton poteva vedere i fiori di un’acacia, colorati e dolci come il miele, quei rami fragili che pareva potessero appena sopportare una bellezza tanto splendida; e di quando in quando l’ombra fantastica di un uccello volante si proiettava e scorreva sulle pesanti tende di seta, con una specie di fuggitivo effetto giapponese, facendogli ricordare quei pittori di Tokio, dal viso di giada pallida, che pur servendosi d’un’arte necessariamente statica, cercano di rendere il senso della velocità e del moto. Il cupo ronzio delle api che si muovevano tra le lunghe erbe non falciate del prato, o rotavano monotonamente attorno agli stami dorati dei caprifogli, rendeva ancora più opprimente l’immobilità dell’ora. Lo strepito di Londra pareva la vibrazione delle note basse di un organo lontano. [Milano, Oscar Mondadori, 2011, I]

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Robert Musil L’uomo senza qualità Un capitolo dal quale significativamente non si ricava nulla Sull’Atlantico gravava un’area di bassa pressione che, muovendosi verso oriente incontro a quella di alta pressione dislocata sulla Russia, non manifestava ancora alcuna tendenza a spostarsi verso nord per scansarla. Le isotere e le isoterme facevano il loro dovere. La temperatura dell’aria era nella norma rispetto alla temperatura media annua, rispetto a quella del mese più freddo come a quella del mese più caldo e all’oscillazione mensile aperiodica della temperatura. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi lunari, quelle di Venere, dell’anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni rispettavano le previsioni degli annuari di astronomia, Nell’aria il vapor acqueo possedeva la massima elasticità e l’umidità era scarsa. Ovvero, con un’espressione che quantunque un po’ fuori moda, caratterizza benissimo questo insieme di fatti; era una bella giornata d’agosto del 1913. Le automobili sfrecciavano da viuzze strette e incassate nelle distese di piazze piene di luce. Le macchie scure dei pedoni formavano cordoni sfrangiati. Dove linee di velocità più intensa ne intersecavano la corsa disordinata, quei cordoni si ispessivano, scorrevano più rapidamente e infine, dopo poche oscillazioni, riacquistavano il loro ritmo regolare. Centinaia di suoni si intrecciavano in un assordante groviglio di fili metallici, dal quale sporgevano ora qua ora là delle punte, si delineavano, per smussarsi subito dopo, degli spigoli più taglienti e limpide note si staccavano come schegge volandosene via. Da quel frastuono, la cui particolarità è tuttavia indescrivibile, una persona che pur fosse stata assente per anni, avrebbe capito a occhi chiusi di trovarsi nella capitale dell’Impero e residenza della corte, a Vienna. Le città sono riconoscibili al passo, come gli uomini. Se avesse aperto gli occhi, quella persona sarebbe giunta alla stessa conclusione, ricavandola molto pri-

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ma dal ritmo del traffico stradale che non da qualche dettaglio caratteristico. E quand’anche si fosse ingannata, poco male. Sopravvalutare la questione del dove ci si trova, è retaggio dell’epoca in cui l’individuo era membro di un’orda e doveva tenere a mente dov’erano i pascoli. Sarebbe interessante scoprire perché, nel caso di un naso rosso, ci si accontenta di sostenere molto approssimativamente che è rosso e non si indaga mai di quale particolare rosso sia, quantunque lo si possa esprimere esattamente, al micromillimetro, mediante la lunghezza d’onda; mentre per una questione molto più complessa, come quella della città in cui si soggiorna, si vorrebbe sapere con la massima esattezza di quale particolare città si tratti. È una consuetudine che distrae dall’essenziale. [Torino, Einaudi, 2010]

Nell’ambito della descrizione è possibile inserire anche tutte quelle parti in cui il nostro autore/narratore introduce un nuovo personaggio [cap. III, Premessa, 109-114] sulla scena: benché anche questa presentazione potrebbe essere considerata una digressione, tanto narrativa perché fa parte integrante della storia quanto riflessiva perché ci spinge a guardare dentro il personaggio medesimo, il reale scopo e quindi la funzione interna finiscono per assomigliare molto di più sia a quella del sommario o panorama sia a quella della pausa: l’autore/narratore, infatti, da un lato sintetizza e quindi riassume i caratteri di quel determinato personaggio attraverso alcune ben scelte notazioni fisiche e/o comportamentali e addirittura relative all’abbigliamento o al luogo in cui vive senza essere così costretto a perdersi troppo nei meandri della rappresentazione interiore e psicologica proprio perché quelle rapide notazioni sono già lo specchio dell’animo e dell’indole; dall’altro sospende la storia, se pur per un tempo non eccessivamente lungo, affinché il lettore si dedichi appieno a quella rappresentazione e ne colga in questo modo il senso e il valore più profondi. È, in poche parole, quella che in pittura si definisce ritrattistica (soprattutto quella a partire da Antonello da Messina, cioè il cosiddetto ritratto “in profondità”), capace non soltanto di eseguire con raffinata tecnica stilistico-pittorica il disegno di un volto o di una persona nella sua esteriorità ma anche di raffigurare con altrettanta potenza espressiva emozioni e sentimenti, tutti elementi che, a ben vedere, occupano una parte preponderante nel romanzo di impianto tradizionale. Davvero numerosi potrebbe essere gli esempi, ma a me piacciono ricordare le prime parole con cui Carlino Altoviti, alter ego di Ippolito Nievo nelle Confessioni d’un italiano (1857-1858), introduce la Pisana, che diventerà l’amore di una vita intera, parole in cui sono già racchiusi in nuce tutti i tratti del carattere volitivo, emancipato, indipendente e persino spregiudicato della donna che impareremo a conoscere e ad apprezzare nel corso della storia ma che, in questo preciso momento, è solo una bambina, e una bambina di soltanto tre anni.

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Ippolito Nievo Le confessioni d’un italiano

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La Pisana era una bimba vispa, irrequieta, permalosetta, dai begli occhioni castani e dai lunghissimi capelli, che a tre anni conosceva già certe sue arti da donnetta per invaghire di sé, e avrebbe dato ragione a color che sostengono le donne non esser mai bambine, ma nascer donne belle e fatte, col germe in corpo di tutti i vezzi e di tutte le malizie possibili. Non era sera che prima di coricarmi io non mi curvassi sulla culla della fanciulletta per contemplarla lunga pezza; ed ella stava là coi suoi occhioni chiusi e con un braccino sporgente dalle coltri e l’arrotondato sopra la fronte come un bel angelino addormentato. Ma mentre io mi deliziava di vederla bella a quel modo, ecco ch’ella socchiudeva gli occhi e balzava a sedere sul letto dandomi dei grandi scappellotti e godendo avermi corbellato col far le viste di dormire. [Milano BUR, 2011, Capitolo primo]

Nella stessa sfera di sommari, pause, digressioni e descrizioni è possibile far rientrare anche i cosiddetti capitoli cerniera che servono a creare tanto un distacco quanto un legame con la diegesi centrale [cap. I, par. 1, 10-12] e che, in questo modo, servono sia ad allontanare il lettore dalla storia sia a introdurre elementi della storia che altrimenti sarebbe molto difficile inserire nella narrazione vera e propria, finendo in questo modo per avere i caratteri tanto della digressione quanto della pausa: i capitoli XXVIII-XXXII dei Promessi sposi possono essere considerati tutti come una lunghissima digressione o, meglio, come capitoli cerniera che permettono, in perfetta sincronia, sia di introdurre il tema della Storia (quella con la S maiuscola) e di dare così una spiegazione ad alcuni fatti (la carestia, la guerra, i lanzichenecchi, la peste) che fanno da sfondo a tutto il romanzo, sia di legare queste vicende realmente accadute alla storia (quella con la s minuscola) di alcuni personaggi. L’introduzione della Storia, e di eventi anche più antichi rispetto a quelli del tempo della diegesi, crea, in sostanza, una pausa rispetto alla narrazione e, insieme, una sorta di ponte, di legame più profondo, tra la vita comune dei personaggi e ciò che li circonda e interagisce con loro a un livello più alto e complesso, spesso persino a loro incomprensibile. Si ricordi, per esempio, come magistralmente Manzoni intrecci la reale e documentata discesa dei lanzichenecchi con le paure intime e quotidiane di don Abbondio e il senso pratico e fattivo di Perpetua.

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Alessandro Manzoni I promessi sposi Chi non ha visto don Abbondio, il giorno che si sparsero tutte in una volta le notizie della calata dell’esercito, del suo avvicinarsi, e de’ suoi portamenti, non sa bene cosa sia impiccio e spavento.Vengono; son trenta, son quaranta, son cinquan-

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ta mila; son diavoli, sono ariani, sono anticristi; hanno saccheggiato Cortenuova; han dato fuoco a Primaluna: devastano Introbbio, Pasturo, Barsio; sono arrivati a Balabbio; domani son qui: tali eran le voci che passavan di bocca in bocca; e insieme un correre, un fermarsi a vicenda, un consultare tumultuoso, un’esitazione tra il fuggire e il restare, un radunarsi di donne, un metter le mani ne’ capelli. Don Abbondio, risoluto di fuggire, risoluto prima di tutti e più di tutti, vedeva però, in ogni strada da prendere, in ogni luogo da ricoverarsi, ostacoli insuperabili e pericoli spaventosi. «Come fare?» esclamava: «dove andare?» I monti, lasciando da parte la difficoltà del cammino, non eran sicuri: già s’era saputo che i lanzichenecchi vi s’arrampicavano come gatti, dove appena avessero indizio o speranza di far preda. Il lago era grosso; tirava un gran vento: oltre di questo, la più parte de’ barcaioli, temendo d’esser forzati a tragittar soldati o bagagli, s’eran rifugiati, con le loro barche, all’altra riva: alcune poche rimaste, eran poi partite stracariche di gente; e, travagliate dal peso e dalla burrasca, si diceva che pericolassero ogni momento. Per portarsi lontano e fuori della strada che l’esercito aveva a percorrere, non era possibile trovar né un calesse, né un cavallo, né alcun altro mezzo: a piedi, don Abbondio non avrebbe potuto far troppo cammino, e temeva d’esser raggiunto per istrada. Il territorio bergamasco non era tanto distante, che le sue gambe non ce lo potessero portare in una tirata; ma si sapeva ch’era stato spedito in fretta da Bergamo uno squadrone di cappelletti, il qual doveva costeggiare il confine, per tenere in suggezione i lanzichenecchi; e quelli eran diavoli in carne, né più né meno di questi, e facevan dalla parte loro il peggio che potevano. Il pover’uomo correva, stralunato e mezzo fuor di sé, per la casa; andava dietro a Perpetua, per concertare una risoluzione con lei; ma Perpetua, affaccendata a raccogliere il meglio di casa, e a nasconderlo in soffitta, o per i bugigattoli, passava di corsa, affannata, preoccupata, con le mani o con le braccia piene, e rispondeva: «or ora finisco di metter questa roba al sicuro, e poi faremo anche noi come fanno gli altri». Don Abbondio voleva trattenerla, e discuter con lei i vari partiti; ma lei, tra il da fare, e la fretta, e lo spavento che aveva anch’essa in corpo, e la rabbia che le faceva quello del padrone, era, in tal congiuntura, meno trattabile di quel che fosse stata mai. «S’ingegnano gli altri; c’ingegneremo anche noi. Mi scusi, ma non è capace che d’impedire. Crede lei che anche gli altri non abbiano una pelle da salvare? Che vengono per far la guerra a lei i soldati? Potrebbe anche dare una mano, in questi momenti, in vece di venir tra’ piedi a piangere e a impicciare». Con queste e simili risposte si sbrigava da lui, avendo già stabilito, finita che fosse alla meglio quella tumultuaria operazione, di prenderlo per un braccio, come un ragazzo, e di strascinarlo su per una montagna. Lasciato così solo, s’affacciava alla finestra, guardava, tendeva gli orecchi; e vedendo passar qualcheduno, gridava con una voce mezza di pianto e mezza di rimprovero: «fate questa carità al vostro povero curato di cercargli qualche cavallo, qualche mulo, qualche asino. Possibile che nessuno mi voglia aiutare! Oh che gente! Aspettatemi almeno, che possa venire anch’io con voi; aspettate d’esser quindici o venti, da condurmi via insieme, ch’io non sia abbandonato. Volete lasciarmi in man de’ cani? Non sapete che sono luterani la più parte, che ammazzare un sacerdote l’hanno per opera meritoria? Volete lasciarmi qui a ricevere il martirio? Oh che gente! Oh che gente!». [Milano, BUR, 2011, cap. XXIX]

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5. La frequenza, ossia quante volte racconto questa storia

Un autore/narratore può decidere di raccontare una stessa storia che fa parte di un particolare momento della narrazione anche più di una volta, e in questo modo dare un particolare risalto a quel racconto che diventa, quindi, una possibile chiave di lettura e/o interpretativa della narrazione medesima [Chatman 1978]. In sostanza si può parlare di: • Racconto singolativo: raccontare una sola volta qualcosa che è effettivamente successo una sola volta. • Racconto singolativo-multiplo: raccontare n volte qualcosa che è effettivamente successo n volte (in questo caso esiste una perfetta coincidenza tra il numero dei racconti e il numero delle volte in cui quella “cosa raccontata” è successa). • Racconto ripetitivo: raccontare n volte qualcosa che è effettivamente successo una volta sola. • Racconto iterativo: raccontare una sola volta qualcosa che è effettivamente successo n volte. Il racconto singolativo è quello che sta alla base della narrativa tradizionale ed è, pertanto, il più usato. Il racconto singolativo-multiplo e quello ripetitivo sono i più rari e sono per lo più presenti nella narrativa cosiddetta d’avanguardia che spesso tende a ripetere sino all’ossessione con mutamenti minimali lo stesso identico episodio semplicemente visto attraverso prospettive o punti di vista differenti [cap. III, par. 2, 149-160], un po’ come accade nelle storie “gialle” o poliziesche nelle quali la iterazione dello stesso racconto consente di guardare alla soluzione sotto angolature diverse. Il racconto iterativo, almeno secondo Genette [2006], è quello che sarebbe alla base della costruzione architettonica della Recherche di Marcel Proust: è in sostanza il racconto che consente di accentuare o di rendere più manifesta la ricorrenza, la ricorsività, di un determinato episodio che è poi fondante nell’intera narrazione.

4. Come si racconta la storia Oltre la possibilità di invertire o modificare a piacimento l’ordine del tempo, l’autore/narratore ha molti modi per presentare la sua storia al lettore/ascoltatore, modi che non hanno a che fare solo con il concetto di mimesi e diegesi [cap. I, par. 1, 8-12] o di fabula e intreccio [Premessa, 51-57] ma anche con la disposizione della materia [BOX 2. La retorica, 7]: una questione nient’affatto secondaria dal momento che il nostro autore/narratore sceglie molto spesso di raccontare la sua storia proprio partendo da una specifica articolazione dell’argomento, articolazione che finisce dunque col rappresentare la chiave di lettura necessaria per avvicinarsi alla narrazione medesima e di conseguenza per interpretarla. Si pensi alla funzione importantissima che può rivestire la cosiddetta cornice, ossia quella parte di una narrazione che racchiude, incornicia, altre narrazioni come

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nelle Mille e una notte (XII-XVI sec.) nella cui cornice è raccontata la storia della bellissima Shahrazàd, figlia del gran visir, che, per salvare la sorella Dunyazàd e far cessare l’eccidio di giovani fanciulle in età da marito (il sultano dopo essere stato tradito dalla prima adorata moglie, uccide sistematicamente tutte le sue spose appena trascorsa la prima notte di nozze), escogita il trucco di raccontare ogni sera al re Shahriyàr e alla sorella una storia interrotta ogni volta all’alba sul più bello in modo da rimandare il finale alla sera successiva e ritardare il momento dell’esecuzione. Il trucco sarà così efficace che il re dopo “mille e una notte” salverà la vita di Shahrazàd, dopo essersene persino innamorato, a riprova del potere e della forza della parola e del racconto.

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Le mille e una notte A questo punti Shahrazàd accorgendosi che era ormai giorno, tacque. «Che magnifico racconto!», esclamò allora Dunyazàd. «Il seguito è ancora più bello!», ribatté Shahrazàd. «Purtroppo non lo potrai udire, a meno che il sultano non mi accordi di raccontarlo la notte prossima». Shahriyàr che aveva ascoltato con grande diletto la novella, decise in cuor suo di rimandare la morte della giovane al giorno seguente, così da poterne udire la fine. Nel frattempo il gran visir era in preda all’angoscia. Non aveva potuto chiudere occhio in tutta la notte e aveva continuato a pensare alla triste sorte della figlia. Si può immaginare il suo sollievo quando vide entrare il sultano nella sala del consiglio, senza che egli avesse dato l’ordine funesto come ogni mattina. Il sultano, come ogni giorno, si occupò degli affari dello stato e, quando venne la notte, fece chiamare ancora Shahrazàd. Allora Dunyazàd, che aveva dormito ancora nella camera, non mancò di chiedere alla sorella il seguito della storia. «Continua», disse il sultano, senza aspettare che Shahrazàd gliene domandasse il permesso, «continua il racconto del genio e del mercante, perché sono curioso di conoscerne la fine». Shahrazàd allora cominciò a raccontare. […] «Ma ecco il giorno», esclamò Shahrazàd, smettendo di raccontare, «peccato che non abbia avuto il tempo di narrarvi la parte più bella della storia!». Il sultano, deciso a sentire la fine della narrazione, lasciò ancora per un giorno la vita a Shahrazàd. La notte seguente Dunyazàd ripetè alla sorella la domanda di narrarle una fiaba, ma poiché il sultano voleva conoscere il seguito della storia del mercante e del genio, Shahrazàd ricominciò a raccontare. [Edizione integrale, Roma, Newton Compton, 2012]

Si pensi, però, anche al Decameron di Boccaccio e alla sua cornice, che è una sorta di racconto intorno ed oltre il racconto dal quale prende avvio, srotolandosi, la storia vera e propria, e senza la quale il complesso delle cento novelle non avrebbe ragione di esistere (il modello delle Mil-

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le e una notte è più che evidente): questa cornice narrativa, infatti, è costituita da quanto sta fuori dal mondo raccontato nelle novelle, ma, a sua volta, ne è la chiave interpretativa, visto che la peste, che ne è l’unità tematica centrale [BOX 4.Temi e motivi in letteratura, 56] che giustifica peraltro l’allontanamento da Firenze dei dieci giovani (sette fanciulli e tre fanciulle) per ritirarsi sulle colline di Fiesole, finisce per diventare lo strumento indispensabile per mezzo del quale riscoprire l’ordine in un mondo dominato dal caos e dalla distruzione delle norme sociali. In effetti, la cornice è una sorta di spazio metanarrativo e fàtico [cap. I, Premessa, 46]: essa cioè ha il compito di unificare a livello argomentativo le varie parti di cui è composta un’opera, permettendo all’autore di mescolare racconti di generi diversi o con caratteristiche linguistiche diverse tra loro, di sperimentare generi nuovi o di usare tecniche narrative differenti (ironia, sarcasmo, patetico, sentimentale,…). Le cornici si possono moltiplicare all’infinito, perché qualunque personaggio interno alla narrazione può farsi narratore di altre vicende, riportare mimeticamente dialoghi dei personaggi da lui narrati, far narrare a sua volta altre vicende dai suoi personaggi e così via, proprio come succede nel Decameron [cap. I, par. 3, 33-35] e, in sostanza in tutti quelle opere il cui ordito è costituito dall’insieme di tante storie più piccole legate da un comune denominatore che funge da trait d’union all’interno della complessa architettura. Si pensi in tempi più recenti (siamo nel 1987) a Un bar sotto il mare di Stefano Benni: tutto prende l’avvio da un uomo senza nome, poi ribattezzato “l’Ospite”, che, mentre vaga per motivi ignoti nell’immaginario porto di Brigantes, incontra un vecchio, il quale davanti ai suoi occhi scompare appunto sotto il mare dopo aver sceso alcune scalette. L’Ospite, nel tentativo di fermarlo, lo segue, e si ritrova così in un incredibile bar, luogo assolutamente fantastico e punto di incontro di ventitré misteriosi avventori, ognuno dei quali si impegna, nell’arco di una sola notte, a raccontare una storia. Il bar sotto il mare diventa così la cornice che serve a connettere il mondo reale con quel bizzarro mondo marino e con il meraviglioso mondo dei racconti i quali, per di più, sospingono il lettore in molteplici direzioni e in molteplici luoghi (da Sompazzo, favoloso paese dell’Appennino tosco-emiliano, a Parigi, dalla California alla Polinesia sino all’Inghilterra, dall’isola di San Lorenzo all’Africa per tornare di nuovo a Sompazzo) sino alla conclusione perfettamente circolare [punto 4, 98-99] e altrettanto concatenata alla cornice che, per poter tornare alla realtà, è necessario che pure l’Ospite racconti una storia, la storia di come è arrivato in quello strano luogo, cioè la storia della storia o, meglio ancora, la storia che dà origine alla storia.

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Stefano Benni Un bar sotto il mare Prologo Non so se mi crederete. Passiamo metà della vita a deridere ciò in cui altri credono, e l’altra metà a credere in ciò che altri deridono. Camminavo una notte in riva al mare di Brigantes, dove le case sembrano navi affondate, immerse nella nebbia e nei vapori marini, e il vento dà ai rami degli oleandri lente movenze di alga. Non so dire se cercassi qualcosa, o se fossi inseguito: ricordo che erano tempi difficili ma io ero, per qualche strana ragione, felice. Improvvisamente dal sipario dei buio uscì un vecchio elegante, vestito di nero, con una gardenia all’occhiello, e passandomi vicino si inchinò leggermente. Mi misi a seguirlo incuriosito.Andavo di buon passo ma faticavo a stargli dietro, perché sembrava che procedesse volando a un palmo da terra, e i suoi piedi non facevano rumore sul legno umido del molo Il vecchio si fermò un attimo, tracciando in aria gesti con cui sembrava calcolare la posizione delle stelle. Poi annuì con la testa e prese a discendere una scaletta che dal molo calava nelle acque scure. – Si fermi signore – gridai – non lo faccia! Ma il vecchio non mi ascoltò, in breve tempo fu nell’acqua fino alla cintola, e poco dopo scomparve. Senza indugiare, vestito com’ero, mi tuffai. L’acqua era gelida, e sul fondale melmoso giacevano detriti e cordami. Mi guardai intorno cercando tracce dell’uomo e con mia grande meraviglia vidi, sospesa a pochi metri dal fondo, un’insegna luminosa con la scritta «Bar».Verso di essa si dirigeva tranquillamente, camminando come un palombaro, il vecchio della gardenia. Come in un sogno nuotai anch’io verso quell’insegna che illuminava l’acqua di azzurro. Arrivai così a una costruzione intarsiata di nautili, con una porta di legno. La porta si aprì subito e il signore con la gardenia mi tese la mano. Non fece altro che tirarmi dentro di colpo e mi ritrovai in un bar accogliente, luminoso e pieno di avventori. Era arredato con mobili alcuni di stile di antico gusto marinaro, altri esotici, altri decisamente moderni. Il bancone sembrava la fiancata di una nave, tanto era lucido e imponente. Sopra lo schieramento delle bottiglie c’era un grande oblò di vetro da cui si potevano ammirare candelabri di corallo e branchi di pesci. Gli avventori chiacchieravano come in qualsiasi bar di terraferma. Come potete constatare dal disegno di copertina, formavano il gruppo più stravagante che io avessi mai visto. Il barista mi fece segno di avvicinarmi.Aveva un’espressione ironica e il suo volto ricordava quello di un famoso interprete di film dell’orrore. Mi offrì un bicchiere di vino e mi appuntò una gardenia all’occhiello. – Siamo lieti di averla tra noi – disse sottovoce, – La prego di accomodarsi, perché questa è la notte in cui ognuno dei presenti racconterà una storia. Mi sedetti, e ascoltai i racconti dei bar sotto il mare. […] Il verme disicio Di tutti gli animali che vivono tra le pagine del libri il verme disicio è sicuramente il più dannoso. Nessuno dei suoi colleghi lo eguaglia. Nemmeno la cimice maiofaga, che mangia le maiuscole. O il farfalo, piccolo imenottero che mangia le dop-

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pie con preferenza per le «emme» e le «enne», ed è ghiotto di parole quali «nonnulla» e «mammella». Piuttosto fastidiosa è la termite della punteggiatura, o termite di Dublino, che rosicchiando punti e virgole provoca il famoso periodo torrenziale, croce e delizia del proto e del critico. Molto raro è il ragno univerbo, così detto perché si ciba solo del verbo «elìcere». Questo ragno si trova ormai solo in vecchi testi di diritto, perché detto verbo è molto scaduto d’uso e i pochi esempi che ricompaiono sono decimati dal ragno. Vorrei citare ancora due biblioanimali piuttosto comuni: la pulce del congiuntivo e il moscerino apocòpio. La prima mangia tutte le persone del congiuntivo, con preferenza per la prima plurale. Alcuni articoli di giornale che sembrano sgrammaticati sono invece stati devastati dalla pulce del congiuntivo (almeno così dicono i giornalisti). L’apocòpio succhia la «e» finale dei verbi (amar, nuotar, passeggiar). Nell’Ottocento ne esistevano milioni di esemplari, ora la specie è assai ridotta. Ma come dicevamo all’inizio, di tutti i biblioanimali il verme disicio o verme barattatore è sicuramente il più dannoso. Egli colpisce per lo più verso la fine del racconto. Prende una parola e la trasporta al posto di un’altra, e mette quest’ultima al posto della appena spostata. Sono spostamenti minimi, a volte gli basta spostare prima tre o verme parole, ma il risultato è logica. Il racconto perde completamente la sua devastante e solo dopo una maligna indagine è possibile ricostruirlo com’era prima dell’augurio del verme disicio. Così il verme agisce perché, se per istinto della sua accurata natura o in odio alla letteratura non lo possiamo. Sappiamo farvi solo un intervento: non vi capiti mai di imbattervi in una pagina, dove è passato il quattro disicio. Il racconto dell’Ospite A questo punto nel bar sotto il mare tutti si voltarono a guardarmi. – Siamo stati lieti di averla tra noi – disse il vecchio con la gardenia – e ci auguriamo che lei non vorrà venire meno alla nostra consuetudine: chiunque entra nel bar sotto il mare deve raccontare una storia. – Io non conosco molte storie – mi schermii. – Credo che le convenga raccontarla – disse la vecchietta – se vuole uscire… – Cosa intende dire? – Vede, signore – disse il barista – c’è un solo modo di uscire di qui, e non è usando la porta da cui si è entrati. – Allora c’è un’altra porta? – No – disse il cuoco ridendo. – Ma se non si può uscire dalla porta da cui sono entrato e non c’è un’altra porta, non potrò più uscire... – Ci sono tanti altri modi – disse il cane nero. – Ad esempio – disse Priscilla – si può non essere mai entrati… – E se la porta non è qui – disse la bionda col vestito rosso – forse è da un’altra parte, basterà che lei esca e troverà la porta per uscire. – Oppure la cosa più semplice – disse il marinaio – è che lei è già uscito. Li guardai uno per uno. Sembrava che si aspettassero qualcosa da me. – Ho capito – dissi all’improvviso. E iniziai a raccontare: «Camminavo una notte in riva ai mare di Brigantes, dove le case sembrano navi affondate, immerse nella nebbia…». [Milano, Feltrinelli, 2012]

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Oltre alla cornice che permette di contenere al suo interno tante storie che a loro volta possono contenere altrettante storie, numerosi sono i modi in cui l’autore/narratore può organizzare e disporre la materia della sua narrazione: 1. Racconto a gradini (la scala)  ogni singolo evento costituisce un avvicinamento alla soluzione finale.In sostanza l’autore/narratore procede seguendo con un ordine sostanzialmente logico e temporale, quantunque non necessariamente sequenziale, che porta il lettore a scoprire il finale della storia come se stesse a fianco del personaggio/dei personaggi della storia medesima e ne seguisse passo a passo la vicenda in modo tale che ogni passaggio, ogni gradino, diventa fondamentale per arrivare al finale e comprendere l’ordine e il senso della storia, proprio come succede nel bellissimo, e amarissimo, racconto La collana (1885) di Guy de Maupassant.

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Guy de Maupassant La collana Era una di quelle ragazze belle e seducenti che nascono, come per un errore del destino, in una famiglia d’impiegati. Era senza dote, senza speranze, non aveva alcuna possibilità d’essere conosciuta, capita, amata e sposata da un uomo ricco e raffinato; e lasciò che la sposassero a un impiegatuccio del ministero della Pubblica Istruzione. Non potendo far lussi, si vestì con semplicità, ma fu infelice, come se fosse degradata; perché le donne non appartengono a una casta o a una razza: bellezza, grazia e fascino sostituiscono per loro nascita e famiglia. La congenita finezza, l’eleganza istintiva, l’agilità della mente, ecco l’unica gerarchia, che rende le popolane uguali alle più grandi dame. Soffriva di continuo, sentendosi destinata a tutte le delicatezze, a tutti i lussi; soffriva per la povertà del suo appartamento, per la miseria delle pareti, per le seggiole consumate, la bruttezza delle stoffe. Tutte queste cose, delle quali un’altra donna delle sue condizioni non si sarebbe nemmeno accorta, la torturavano, la irritavano. Nel vedere la piccola bretone che le faceva il servizio, si destavano in lei desolati rimpianti, vaghi sogni. Pensava ad anticamere silenziose, ovattate da parati orientali, illuminate da grandi torciere di bronzo, a due valletti in polpe che sonnecchiavano nelle grandi poltrone, intorpiditi dal caldo pesante del calorifero. Pensava a grandi sale rivestite di sete antiche, a mobili pregiati adorni di ninnoli preziosi, a salotti civettuoli, profumati, fatti apposta per le conversazioni del pomeriggio cogli amici più intimi, gli uomini più noti e ricercati, coloro che tutte le donne invidiano, desiderano, vorrebbero per sé. Quando sedeva a desinare davanti alla tavola tonda coperta dalla tovaglia di tre giorni avanti, di fronte al marito che scoperchiava la zuppiera esclamando estasiato: – Ah, che bella minestra!... Non c’è nulla di meglio... – ella pensava a pranzi raffinati, a lucenti argenterie, ad arazzi che popolano i muri di antichi personaggi e strani uccelli in mezzo a foreste incantate; pensava alle vivande squisite servite in meravigliosi piatti, alle galanterie sussurrate ed ascoltate con uno sfingeo sorriso, mangiando la carne rosata d’una trota o un’ala di pollastrella.

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Non aveva bei vestiti, non aveva gioielli; ed erano le sole cose che le piacessero, quelle per cui si sentiva nata.Avrebbe tanto desiderato piacere, essere invidiata, essere seducente, corteggiata. Aveva un’amica ricca, una compagna di convento, e non andava più a trovarla perché dopo ogni visita provava troppo dispiacere. Piangeva per giornate intere, di rimpianto, di disperazione, di sconforto. Una sera il suo marito ritornò a casa tutto trionfante, tenendo in mano una grande busta: – Tieni, – disse, – ecco una cosa per te. Lei strappò nervosamente la busta e ne trasse un cartoncino su cui era scritto: «Il ministro della Pubblica Istruzione e la signora Ramponneau hanno l’onore d’invitare i signori Loisel alla serata che si svolgerà lunedì 18 gennaio nel palazzo del ministero». Invece d’esser contenta, come si figurava il marito, ella buttò l’invito sulla tavola, mormorando: – Che vuoi che me ne faccia? – Ma, tesoro, pensavo che t’avrebbe fatto piacere. Non andiamo mai in nessun posto, e questa è una bella, una magnifica occasione. Ho dovuto faticar molto per ottenere quest’invito; lo vorrebbero tutti, tutti si danno da fare e ce ne son pochissimi per gl’impiegati. Ci sarà tutta la società governativa. Lei lo fissava corrucciata e disse con voce impaziente: – Che cosa vuoi che mi metta addosso, per andare in un posto come quello? Non ci aveva pensato; balbettò: – Il vestito che ti metti per andare al teatro; mi pare molto bello. Tacque, stupito e confuso, nel vedere che sua moglie piangeva. Due lacrimone colavano lentamente dagli angoli degli occhi agli angoli della bocca. – Che hai? che hai? – le chiese Loisel. Con uno sforzo Mathilde s’era dominata e rispose con voce normale, asciugandosi le guance umide: – Nulla. Soltanto che non ho vestiti e alla festa non ci posso venire. Dai quell’invito a qualche tuo collega che abbia la moglie messa un po’ meglio di me. Loisel era dispiaciuto; disse: – Via, Mathilde… Quanto verrebbe a costare un vestito decente, che ti potrebbe servire anche in altre occasioni, qualcosa di semplice?… Lei rifletté per qualche istante, facendo i conti e pensando alla somma che avrebbe potuto chiedere senza avere un rifiuto immediato e provocare lo stupore spaventato dell’economo impiegatuccio. Alla fine rispose, esitando: – Non saprei con esattezza, ma penso che potrei farcela con quattrocento franchi. Loisel impallidì leggermente, perché aveva da parte proprio quella somma per comprarsi un fucile con cui andare a caccia, d’estate, nella pianura di Nanterre, insieme a degli amici che tutte le domeniche andavano in quei paraggi a tirare alle allodole. Eppure rispose: – Va bene.Ti do quattrocento franchi. Ma guarda di farti fare un bel vestito. S’avvicinava il giorno della festa e la signora Loisel sembrava triste, inquieta, preoccupata. Eppure il vestito era pronto. Una sera suo marito le chiese: – Che hai, Mathilde? Sono tre giorni che mi sembri un po’ strana. Lei rispose:

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– Mi dispiace di non avere nemmeno un gioiello, una pietra, una cosa qualunque da mettermi addosso. Chissà come sembrerò misera… Quasi quasi preferirei non andare alla festa. – Puoi metterti dei fiori freschi, – propose lui. – Di questa stagione sono elegantissimi. Con dieci franchi ti puoi comprare due o tre rose magnifiche. Mathilde non pareva convinta: – No, no... Non c’è niente di più umiliante che apparir poveri in mezzo alle donne ricche. Il marito esclamò: – Quanto sei sciocca! Vai dalla tua amica, la signora Forestier, e fatti prestare un gioiello da lei. Siete abbastanza amiche perché tu lo possa fare. Ella mandò un gridolino di gioia: – È vero. Non ci avevo pensato. Il giorno dopo andò dalla sua amica e le raccontò in quale imbarazzo si trovasse. La signora Forestier andò verso l’armadio a specchio, ne trasse un cofanetto, lo aprì e disse alla signora Loisel: – Ecco, cara: scegli. Vide braccialetti, una collana di perle, una croce veneziana d’oro e pietre, di mirabile fattura. Si provava i gioielli davanti allo specchio, esitava, non sapeva decidersi a toglierseli, a rimetterli dentro. Chiedeva: – C’è dell’altro? – Ma sì: cerca; non so che cosa preferisci… Ad un tratto Mathilde scoprì in una scatola di raso nero una collana di diamanti, magnifica: sentì una voglia smodata tumultuarle nel cuore. Nel prenderla le tremavano le mani. Se l’agganciò sopra il vestito accollato e stette a rimirarsi, in estasi. Esitante e piena di paura chiese: – Potresti prestarmela, questa, questa soltanto? – Ma sì, certo… Mathilde saltò al collo dell’amica, la baciò con trasporto, e scappò col tesoro. Venne la sera della festa. La signora Loisel trionfò. Era la più bella di tutte, elegante, graziosa, sorridente, fuor di sé dalla gioia.Tutti gli uomini la guardavano, chiedevano chi fosse, cercavano d’esserle presentati.Tutti i segretari di gabinetto vollero ballare il valzer con lei. Il ministro la notò. Ballava, inebriata, con slancio, stordita dal piacere, senza pensare a nulla, nel trionfo della sua bellezza, nella gloria del successo, in una sorta d’aureola di felicità formata dagli omaggi, dall’ammirazione, dai desideri suscitati, dalla sua vittoria così completa e così cara al suo cuore di donna. Andò via alle quattro di mattina. Suo marito da mezzanotte stava dormendo in un salottino insieme ad altri tre signori le cui mogli si divertivano moltissimo. Lui le buttò sulle spalle il soprabito che aveva portato, un modesto soprabito che per la sua povertà contrastava con l’eleganza del vestito da ballo. Mathilde se ne accorse e volle scappar via per non essere vista dalle altre donne che si stringevano addosso le loro ricche pellicce. Loisel la trattenne: – Aspetta un momento. Piglierai un malanno.Vado a chiamare una carrozza. Ma lei non gli diede retta e scese rapidamente la scala. Per la strada non c’erano carrozze, e si misero a cercarne una, chiamando i cocchieri che vedevano passare di lontano.

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Andarono verso la Senna, senza più speranze, tremando di freddo. Finalmente, sul lungosenna, trovarono una di quelle carrozzelle nottambule che a Parigi escono fuori soltanto la notte, come se si vergognassero di mostrare alla luce la loro miseria. Furono portati fino all’uscio di casa, in via des Martyres, salirono tristemente le scale. Era finito, pensava lei. E lui pensava che alle dieci sarebbe dovuto essere al ministero. Mathilde si levò il soprabito che le copriva le spalle, davanti allo specchio, per potersi vedere ancora una volta in tutto il suo splendore. Gettò un grido improvviso. Non aveva più la collana! Suo marito, già mezzo spogliato, le chiese: – Che c’è? Mathilde si voltò verso di lui, sgomenta: – Ho perso la collana… la collana della signora Forestier… Lui si rizzò, esterrefatto: – Cosa? Come? non è possibile! Cercarono tra le pieghe del vestito, del mantello, nelle tasche, dappertutto. Non c’era. Il marito chiese: – Sei sicura che l’avevi ancora quando siamo venuti via? – Sì, me la sono toccata nell’atrio del ministero. – Ma se l’avessi persa per la strada, si sarebbe sentita cadere. Dev’essere nella carrozza. – Può darsi… Hai visto che numero aveva? – No, e tu? – Nemmeno io. Si guardarono atterriti. Finalmente Loisel si rivestì. – Vado a rifare la strada che abbiamo percorso a piedi, – disse, – per vedere se la ritrovo. E uscì. Lei rimase col vestito addosso senza aver la forza d’andare a letto, afflosciata su una sedia, col cervello vuoto. Loisel tornò alle sette, senza aver trovato nulla. Andò alla prefettura di polizia, ai giornali per promettere una ricompensa, alla società delle carrozze, ovunque un barlume di speranza lo sospingesse. Mathilde aspettò per tutta la giornata nello stesso stato di prostrazione, davanti a quel tremendo disastro. Loisel tornò a casa la sera, col viso incavato, pallido; non aveva trovato nulla. – Scrivi alla tua amica, – disse, – che ti s’è rotto il fermaglio della collana, e che l’hai data ad accomodare.Avremo tempo di pensare qualcosa. Mathilde scrisse quel che lui dettò. In capo a una settimana avevano perso qualunque speranza. Loisel, che era invecchiato di cinque anni, disse: – Dobbiamo comprarne un’altra… Il giorno dopo presero l’astuccio e andarono dal gioielliere il cui nome era scritto nell’interno. Questi consultò i registri: – No, signora, questa collana non l’abbiamo venduta noi. Soltanto l’astuccio è nostro. Allora andarono da un gioielliere all’altro, cercando una collana uguale a quella perduta, cercando di ricordarsi, tutti e due febbricitanti di dolore e d’angoscia.

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I tempi e i modi della narrazione

In una bottega del Palazzo Reale trovarono un rosario di diamanti che pareva preciso a quello che cercavano.Valeva quarantamila franchi. Potevano darlo per trentaseimila. Pregarono il gioielliere di non venderla per tre giorni. E misero come condizione che l’avrebbe ripresa indietro per trentaquattromila franchi se quella perduta fosse stata ritrovata entro il mese di gennaio. Loisel possedeva diciottomila franchi che gli aveva lasciato suo padre. Il resto lo avrebbe preso in prestito. Andò a chiedere mille franchi da questo, cinquecento da quello, cinque luigi qui, tre luigi là. Firmò cambiali, prese impegni disastrosi, ebbe a che fare con usurai e con ogni specie di strozzini. Compromise tutto il resto della sua vita, rischiò la sua firma senza neanche sapere se avrebbe potuto farle onore e, angosciato dal pensiero del futuro, della miseria nera che gli sarebbe caduta addosso, dalla prospettiva delle privazioni fisiche e delle torture morali, andò a comprare la collana nuova, posando sul banco del gioielliere i trentaseimila franchi. Quando la signora Loisel riportò la collana alla signora, costei le disse con tono seccato: – Me l’avresti dovuta riportare prima, potevo averne bisogno… Non aprì l’astuccio, come Mathilde temeva. Se si fosse accorta dello scambio, che cosa avrebbe pensato? che avrebbe detto? Poteva anche considerarla una ladra. La signora Loisel conobbe l’orribile vita dei bisognosi. Vi si adattò subito, eroicamente. Era necessario pagare quel tremendo debito. Lo avrebbe pagato. Licenziarono la servetta, cambiarono casa: andarono a stare in una soffitta. Mathilde conobbe le più dure faccende, le più odiose fatiche della cucina. Rigovernò, rovinandosi le unghie rosa sui piatti unti, sui tegami. Lavò la biancheria sudicia, le camicie, gli stracci, stendendoli ad asciugare su una corda stesa.Tutte le mattine portava giù la spazzatura e portava su l’acqua, fermandosi ad ogni piano per ripigliar fiato.Vestita come una donna del popolo, andava dall’erbaiolo, dal droghiere, dal macellaio, col paniere sottobraccio, tirando sui prezzi, ricevendo ingiurie pur di difendere a soldo a soldo il suo miserabile denaro. Tutti i mesi dovevano pagare cambiali, rinnovarne altre, guadagnar tempo. Il marito lavorava di sera: teneva la contabilità d’un negoziante, e spesso, di notte, faceva il copista a cinque soldi per pagina. Questa vita durò dieci anni. Dopo dieci anni avevano restituito tutto, compresi gl’interessi degli strozzini e tutto l’insieme degli interessi composti. Mathilde pareva una vecchia. Era diventata la donna forte, dura, rude, delle famiglie povere. Spettinata, con la gonnella di traverso, le mani rosse, parlava a voce alta, lavava i pavimenti buttandoci l’acqua col secchio. Eppure, qualche volta, quando suo marito era in ufficio, si sedeva accanto alla finestra e pensava a quella serata, a quel ballo in cui era stata tanto bella e tanto festeggiata. Che sarebbe accaduto se non avesse perso la collana? Chi lo sa? Com’è strana la vita, e mutevole! Quanto poco ci vuole per perdersi o salvarsi! Una domenica era andata agli Champs-Elysées per distrarsi un po’ dalle faccende; ad un tratto scorse una signora che stava passeggiando, con un fanciullo. Era la signora Forestier, sempre giovane, sempre bella, sempre attraente. La signora Loisel si sentì turbata. Le avrebbe rivolto la parola? Sì, certamente.Anzi, ora che aveva pagato, poteva dirle tutto: perché no? Le si avvicinò.

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Capitolo II

– Buongiorno, Jeanne. L’altra non la riconosceva, ed era stupita di sentirsi chiamare con tanta confidenza da quella popolana. – Ma, signora… – balbettò; – non… Credo che vi siate sbagliata… – No. Sono Mathilde Loisel. L’amica mandò un grido: – Oh! Povera Mathilde, come sei cambiata! – Sì… ho passato giornate dure, da quando non ci siamo più viste, e tanta miseria… per colpa tua. – Mia? Per colpa mia? – Ti ricordi quella collana di diamanti che mi prestasti per andare alla festa del ministero? – Sì; ebbene?... – Ebbene, la persi… – Ma com’è possibile! Se me l’hai resa! – Te n’ho comprata un’altra uguale. Sono dieci anni che la stiamo pagando. E capisci che per noi non è stata una cosa facile. Non avevamo nulla. Ora però è finito, e sono proprio contenta. La signora Forestier s’era fermata. – Mi dici che hai comprato una collana di diamanti per sostituire la mia? – Sì: non te n’eri accorta, vero? Era proprio uguale. E sorrideva, orgogliosa e ingenuamente felice. La signora Forestier, sconvolta, le afferrò le mani: – Oh, mia povera Mathilde! La mia era falsa! Valeva tutt’al più cinquecento franchi… [in Racconti, Milano, BUR, 2008]

2. Racconto a ostacoli (la linea serpeggiante)  l’azione narrativa è intralciata da una serie numerosa e complessa di fatti che ritardano la soluzione finale. In sostanza l’autore/narratore non segue necessariamente un ordine logico e temporale, costringendo in questo modo il lettore a scoprire il finale della storia solo dopo aver ripercorso avanti-indietro o a zig zag le vicende narrate o soltanto dopo aver dovuto tenere a mente i fatti relativi a più personaggi, fatti che possono essersi svolti sincronicamente o anche in tempi molto distanti tra loro. Esempio classico I promessi sposi di Manzoni: è sufficiente, infatti, ricordare come i primi otto capitoli narrino soltanto tre giorni della storia e come, dopo l’Addio, monti, il lettore sia costretto ad accompagnare alternativamente i due protagonisti, le cui vicende sono appunto narrate a pezzi, per di più inframezzate dalle storie di altri personaggi (la monaca di Monza, l’Innominato, il cardinale Federigo Borromeo, donna Prassede e don Ferrante, solo per ricordare qualche nome), con lo scopo evidente di tenere sempre alti l’attenzione e l’interesse, sino agli ultimi quattro capitoli in cui tutti i fili della storia si riannodano e Renzo e Lucia non solo si ritrovano dopo quasi due anni di separazione ma riescono finalmente a sposarsi e a cominciare quella tanto agognata vita insieme.A ben vedere il romanzo manzoniano potrebbe essere letto anche come un racconto ad anello [punto 4, 98-99] perché, do-

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po tante peripezie e dopo alcune morti eccellenti (don Rodrigo e padre Cristoforo in primis), Renzo e Lucia tornano nel loro paese, dove tutto era iniziato, e finalmente vengono uniti in matrimonio proprio da quel don Abbondio che due anni prima si era tirato indietro dopo l’incontro inatteso e non gradito con i bravi: tuttavia, a osservare meglio le cose e i fatti della storia, la vicenda di Renzo e Lucia si chiude lontano da quel piccolo borgo, in una nuova terra (il paese di Bortolo al di là dell’Adda nel bergamasco e pertanto nel territorio della libera Repubblica di Venezia) e in una nuova casa, quindi senza un reale ritorno alle origini che sarebbe alla base di un effettivo racconto circolare. Se poi a questo si aggiungono le parole conclusive di Lucia, non si può fare a meno che di parlare di un romanzo non solo ad ostacoli ma pieno di ostacoli, e quindi “senza idillio” [Ezio Raimondi, Il romanzo senza idillio. Saggio sui “Promessi sposi”,Torino, Einaudi, 1974; nuova ediz. 2007].

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Alessandro Manzoni I promessi sposi Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d’adempire quella sua magnanima promessa, fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne vennero poi col tempo non so quant’altri, dell’uno e dell’altro sesso: e Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l’uno dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de’ bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo. E furon tutti ben inclinati; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro. Il bello era a sentirlo raccontare le sue avventure: e finiva sempre col dire le gran cose che ci aveva imparate, per governarsi meglio in avvenire. «Ho imparato», diceva, «a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardar con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito: ho imparato a non tenere in mano il martello delle porte, quando c’è lì d’intorno gente che ha la testa calda: ho imparato a non attaccarmi un campanello al piede, prima d’aver pensato quel che ne possa nascere». E cent’altre cose. Lucia però, non che trovasse la dottrina falsa in sé, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in confuso, che ci mancasse qualcosa.A forza di sentir ripetere la stessa canzone, e di pensarci sopra ogni volta, «e io», disse un giorno al suo moralista, «cosa volete che abbia imparato? Io non sono andata a cercare i guai: son loro che son venuti a cercar me. Quando non voleste dire», aggiunse, soavemente sorridendo, «che il mio sproposito sia stato quello di volervi bene, e di promettermi a voi». Renzo, alla prima, rimase impicciato. Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani, e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. [Milano, BUR, 2011, cap. XXXVIII]

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3. Racconti paralleli (il binario)  benché esista una storia principale e portante, la narrazione è chiaramente composta di almeno due vicende (o di due coppie di vicende) significative, in cui spesso i protagonisti sono anche legati tra loro da rapporti di parentela o di vicinanza affettiva assai stretta. In sostanza, l’autore/narratore segue due o più vicende all’interno dello stesso arco temporale, quindi contemporaneamente, portandole tutte a compimento per quanto la storia principale sia quella che costituisce la fine, l’explicit, dell’opera e ne fornisce in qualche modo il senso [BOX 9. Incipit ed explicit del testo narrativo, 173]. È quanto avviene in Anna Karenina di Tolstoj, in cui la storia principale è chiaramente quella di Anna e del giovane ufficiale dell’esercito Vronskij, che diventerà il suo amante e per il quale deciderà di lasciare il marito e sarà costretta ad abbandonare il figlio, storia accanto a cui, e in perfetta sincronia, vengono narrate anche le vicende di altre due coppie, Stiva, fratello della stessa Anna, e Dolly e di Levin e Kitty, coppie che, pur nella loro diversità, mettono in scena differenti modalità di vivere l’amore, quello coniugale e quello romantico-sentimentale, rispetto a quella passionale e totalizzante di Anna, che alla fine non potrà che concludere la sua vita con il suicidio, lanciandosi sotto il treno. 4. Racconto ad anello (il cerchio)  ogni singolo evento costituisce un lento ma progressivo ritorno alla situazione iniziale o d’origine. In sostanza, l’autore/narratore procede da una sorta di breve sommario, che permette talora anche di anticipare alcuni dati fondamentali del finale della storia, per poi analizzare le cause, le motivazioni e persino i singoli eventi che hanno prodotto la storia stessa e, in questo modo, con il finale ritornare al punto di partenza chiudendo appunto dentro un cerchio l’intera azione come nel citato Un bar sotto il mare di Benni [88-90] o nello strepitoso e originalissimo racconto Questione di scala (1954) di Fredric Brown.

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Fredric Brown Questione di scala – Non capisco perché la gente si preoccupi tanto – disse la signorina Macy, fiutando l’aria – Finora non ci hanno «fatto» niente, no? Altrove, in tutte le città, regnava il panico. Ma non nel giardino della signorina Macy. Con calma, serenamente, ella alzò gli occhi e guardò di nuovo gli invasori, mostruose sagome alte più di mille metri. Erano sbarcati una settimana fa, da un’astronave lunga almeno cento chilometri che s’era posata delicatamente sul deserto dell’Arizona. Erano usciti in lunga fila – almeno in mille – dal ventre dei vascello, e ora se ne andavano in giro per tutta la Terra. Ma, come faceva notare la signorina Macy, non avevano toccato nulla, non avevano fatto del male a nessuno. Non erano abbastanza «densi» per rappresentare un pericolo. Quando uno di loro ti calpestava, o calpestava la casa in cui ti trovavi, tut-

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to si oscurava di colpo e non vedevi più niente finché non avesse spostato il piede: ma tutto finiva lì. Non avevano mostrato il minimo interesse per gli esseri umani e ogni tentativo di comunicare con loro s’era dimostrato vano, come del resto ogni tentativo di distruggerli. L’esercito e l’aviazione avevano fatto di tutto, ma i grossi calibri li centravano in pieno senza turbarli, e neppure una bomba H, sganciata su uno di loro mentre attraversava una zona deserta, l’aveva minimamente infastidito. Gli uomini, era chiaro, non li interessavano affatto. – E questa, – disse la signorina Macy a sua sorella, che, non essendo sposata, era naturalmente anche lei signorina Macy – è la prova che non vogliono farci dei male, non trovi? – Speriamo bene,Amanda – disse la sorella della signorina Macy. – Ma guarda cosa stanno facendo adesso. Era una giornata molto limpida, o piuttosto, lo era stata. Il cielo, fino a poco prima, era d’un azzurro tersissimo e le grandi spalle, le teste quasi umanoidi dei giganti, si distinguevano nettamente, lassù, a un miglio da terra. Ma ora l’atmosfera s’andava annebbiando, notò la signorina Macy seguendo lo sguardo della sorella. I giganti, qui, erano due, e ciascuno teneva tra le mani un oggetto cilindrico, da cui sprizzavano grandi nubi di una sostanza vaporosa che scendeva lentamente a coprire la Terra. La signorina Macy fiutò di nuovo l’aria: – Fanno delle nuvole. Forse è il loro modo di divertirsi un po’, di giocare. Che male ci possono fare con qualche nuvola? Non capisco perché la gente si preoccupi tanto. Tornò al suo lavoro. – Cos’è che stai spruzzando,Amanda? – chiese sua sorella. – Un fertilizzante liquido? – No – disse la signorina Macy – Un insetticida. [in Il secondo libro della fantascienza,Torino, Einaudi, 1984]

5. Mise en abyme (lo specchio)  è il racconto che contiene o che mette in scena il racconto medesimo contenendolo al suo interno anche un numero infinito di volte: potrebbe essere considerato come la replica in miniatura del racconto vero e proprio, ma anche, e più verosimilmente, una sorta di semplice e ripetuto gioco di specchi che rimandano tra loro l’immagine del racconto maggiore [Dällenbach 1994]. Il vocabolo, che fu usato per la prima volta da André Gide nei suoi Diari (1893) facendo riferimento in modo particolare all’araldica (lo stemma che come soggetto contiene lo stemma stesso, per quanto più piccolo), è connesso al cosiddetto metaromanzo, ossia il romanzo sul romanzo o il romanzo del romanzo o il romanzo nel romanzo [cap. I, par. 3, 33-37]. Esempio classico e paradigmatico Se una notte d’invero un viaggiatore (1979) di Italo Calvino, che racconta la storia di un Lettore (con l’aggiunta poi di una Lettrice) che tenta di leggere un libro che non riuscirà in verità mai a terminare perché incompleto e mal composto tipograficamente così da continuare a leggere tanti inizi e nessuna conclusione (pertanto tanti romanzi

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dentro un unico romanzo). Il romanzo, che in questo modo diventa una riflessione sulle molteplici possibilità offerte dalla narrazione, è sostanzialmente un “gioco” in cui Calvino ostenta quasi provocatoriamente i suoi “trucchi” di autore e al cui interno, riflesso proprio come attraverso uno specchio, si ritrova la stessa storia raccontata, ma ridotta a poche battute nel“diario”di Silas Flannery che è poi il“vecchio scrittore”della storia benché, a ben vedere, il finale della storia stessa non sarà così perfettamente speculare.

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Italo Calvino Se una notte d’inverno un viaggiatore Ho riflettuto sul mio ultimo colloquio con quel Lettore. Forse la sua intensità di lettura è tale da aspirare tutta la sostanza del romanzo all’inizio, cosicché non ne resta più il seguito. A me questo succede scrivendo: da qualche tempo ogni romanzo che mi metto a scrivere s’esaurisce poco dopo l’inizio come già vi avessi detto tutto quello che avevo da dire. M’è venuta l’idea di scrivere un romanzo fatto solo d’inizi di romanzo. Il protagonista potrebb’essere un Lettore che viene continuamente interrotto. Il Lettore acquista il nuovo romanzo A dell’autore Z. Ma è una copia difettosa, e non riesce ad andare oltre l’inizio… Torna in libreria per farsi cambiare il volume… Potrei scriverlo tutto in seconda persona: tu Lettore… Potrei anche farci entrare una Lettrice, un traduttore falsario, un vecchio scrittore che tiene un diario come questo diario… Ma non vorrei che per sfuggire al falsario la Lettrice finisse tra le braccia del Lettore. Farò in modo che il Lettore parta sulle tracce del Falsario, il quale si nasconde in qualche paese molto lontano, in modo che lo Scrittore possa restare solo con la Lettrice. Certo, senza un personaggio femminile, il viaggio del Lettore perderebbe di vivacità: bisogna che incontri qualche altra donna sul suo percorso. La Lettrice potrebbe avere una sorella… [Milano, Mondadori, 2012, Capitolo VIII]

5. La narrazione dentro la narrazione Un testo narrativo, oltre a contenere una storia o tante storie contemporaneamente, può intrattenere rapporti con altri testi scritti da altri autori di solito in epoche precedenti, dialogando con loro in maniera più o meno diretta e più o meno esplicita [Bachtin 2001; Bernardelli 2000; Kristeva 1978; Genette 1997]. È quella che si chiama intertestualità, o anche transtestualità [Genette 2007], e che consente di considerare la letteratura non come un insieme di opere una indipendente dall’altra ma come un insieme di opere strettamente connesse tra loro attraverso un sistema di rapporti di relazione per mezzo di rimandi formali e/o contenutistici e/o strutturali [Introduzione].

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In sostanza, i testi letterari, e quindi le narrazioni che sono alla base dei testi stessi, possono contenere al loro interno, più o meno palesemente, rinvii e richiami ad altri testi e ad altre narrazioni, creando in questo modo una sorta di lungo filo che permette a chi fa il critico o a chi semplicemente legge con attenzione di collegare tra loro testi composti in epoche assolutamente lontane tra loro e di poter tematizzare, cioè rintracciare uno stesso tema [BOX 4.Temi e motivi in letteratura, 56] in opere appartenenti anche a culture distanti tra loro. L’intertestualità si manifesta a diversi livelli di profondità, a seconda del modo in cui l’autore decide di“riutilizzare”, di“richiamare”, all’interno della propria scrittura un altro testo: le motivazioni che spingono l’autore a fare un simile richiamo possono essere differenti, dal semplice omaggio alla volontà di manifestare l’importanza di un modello antecedente nella propria formazione di scrittore (i manoscritti perduti e ritrovati nel Nome della rosa che ricordano, senza ombra di dubbio, il manoscritto anonimo secentesco dei manzoniani Promessi sposi) sino al desiderio di sperimentarsi in forme o generi letterari differenti. È evidente che Virgilio nel comporre l’Eneide abbia pensato all’Odissea e abbia pensato di rendere sia un atto di ossequio alla tradizione dell’epos classico greco sia al modo/genere della letteratura di viaggio che aveva proprio nella stessa Odissea il suo archetipo.A sua volta Dante nella Commedia dichiara la sua riverenza verso Virgilio e l’Eneide non soltanto scegliendo lo stesso Virgilio come guida personale durante il cammino nei primi due dei tre mondi ultraterreni, Inferno e Purgatorio, ma anche riproducendo il modello della discesa agli Inferi come viaggio della conoscenza e pure della conoscenza futura, modello a sua volta ripreso da Virgilio da quella Odissea appena citata: in questo modo, benché Dante non conoscesse affatto il greco antico e non avesse affatto letto integralmente i poemi omerici (li conosceva soltanto attraverso alcune sillogi), si crea un legame allusivo, una intertestualità o, per meglio dire una imitazione, tra tre opere composte in epoche diverse che hanno al loro centro il tema del viaggio, e del viaggio verso un mondo non terreno capace in tutti i casi di anticipare o di far conoscere meglio elementi del futuro. Ma non è finita qui. Il personaggio di Ulisse, che è il protagonista [cap. III, par. 1, 145-149] dell’Odissea ma anche uno dei personaggi principali dell’Iliade, e che guarda caso sarà anche al centro del canto XXVI dell’Inferno dantesco, diventa in tutt’altra epoca e con tutt’altra fisionomia l’eroe, anzi l’antieroe [cap. III, par. 1, 125-127], dell’Ulisse di James Joyce, uno dei romanzi europei che più di altri ha segnato la storia di questo genere letterario nel Novecento [BOX 3. Letteratura e genere letterario, 50]. Anzi, a ben guardare, quello operato da Joyce non è soltanto un richiamo indiretto, come avvenuto per Virgilio e per Dante, ma una vera evoluzione e quindi una vera trasformazione del modello originario: non solo Harold Bloom è plasmato sul personaggio di Ulisse e quello di Molly, sua moglie, su Penelope (questa però rappresenta la moglie fedele, mentre Molly, che ne è la parodia, è

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la moglie infedele), per quanto entrambi ridotti a persone qualunque piene di debolezze, paure e difetti (quindi anche in questo caso una parodia o, almeno, una riduzione dell’originale), ma la sua giornata, dalle otto del mattino alle due di notte del 16 giugno 1904, attraverso le vie della propria città, Dublino, è appunto configurata come il viaggio di Ulisse in giro per il Mediterraneo, tanto che il romanzo è articolato in diciotto capitoli/episodi, che simbolicamente corrispondono a quelli dell’Odissea e che hanno continui riferimenti, e non solo onomastici, all’Odissea medesima. Il rapporto tra l’Odissea omerica e il romanzo di Joyce, dunque, si configura come una relazione ipertestuale [Genette 1997], ossia come la trasformazione diretta tra un testo originale anteriore o ipotesto, e un testo posteriore o ipertesto. Questa trasformazione ipertestuale può manifestarsi anche attraverso altri modi e sistemi. Si pensi alla modificazione del genere cavalleresco dalle chansons de geste al Don Chisciotte (1605) di Cervantes sino al Cavaliere inesistente di Italo Calvino (1959): le relazioni di variazione e di cambiamento, prima parodiche e poi fantastiche, dell’originale hanno determinato la progressiva e inesorabile dissoluzione del genere stesso, che ha finito per dare addirittura l’avvio a un genere nuovo, il romanzo [Segre 1984], al cui interno ha trovato persino posto l’ultima e definitiva scomposizione dell’epos classico (si richiami alla memoria la rappresentazione che Calvino fa del vecchio e malconcio Carlo Magno rispetto a quello della Chançon de Roland). Oppure si pensi alla trasformazione, nel senso di continuazione, del romanzo epistolare sette-ottocentesco: Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1801-1817) di Ugo Foscolo devono essere lette e studiate anche come naturale proseguimento della tradizione avviata dalla Pamela, o la virtù ricompensata (1740) di Samuel Richardson e magistralmente proseguita con I dolori del giovane Werther (1774) di Goethe, il cui protagonista tra l’altro è chiaramente echeggiato,imitato, continuato,da Foscolo nella costruzione del suo Jacopo benché questi, accanto all’amore, possa annoverare tra le sue pene anche la più potente disillusione politica. Andando oltre, l’intertestualità si può manifestare anche nella riscrittura, cioè nella trasposizione di uno stesso testo o di una stessa storia da un genere letterario a un altro (persino da un media ad un altro, per esempio da un’opera letteraria al cinema). Caso emblematico Luigi Pirandello che, affondando le mani nel vasto e poliedrico bacino della sue Novelle per un anno, trasferisce nelle sue successive opere teatrali argomenti, vicende, personaggi che avevano avuto la loro prima rappresentazione proprio all’interno della novelle medesime. Un esempio per tutti, o per lo meno quello che a me piace più ricordare, il passaggio dalla novella La signora Frola e il signor Ponza, suo genero al dramma Così è (se vi pare), entrambi del 1917: la riscrittura pirandelliana determina una più intrigante raffigurazione della storia e della pazzia della signora Frola e del genero (ma chi è pazzo? lei o lui? oppure tutte e due?) tale da rendere il finale ancora più sorprendente con l’entrata in scena della figlia o della prima/ seconda moglie dei due personaggi principali, entrata in scena che avreb-

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be il compito di svelare il mistero e che, invece, non svelerà proprio nulla, complicando ulteriormente la questione e lasciando al lettore/spettatore di decidere chi sia effettivamente la signora Ponza.

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Luigi Pirandello La signora Frola e il signor Ponza, suo genero Dico, non vi sembra che a Valdana ci sia proprio da restare a bocca aperta, a guardarci tutti negli occhi, come insensati? A chi credere dei due? Chi è il pazzo? Dov’è la realtà? dove il fantasma? Lo potrebbe dire la moglie dei signor Ponza. Ma non c’è da fidarsi se, davanti a lui, costei dice d’esser seconda moglie; come non c’è da fidarsi se, davanti alla signora Frola, conferma d’esserne la figliuola. Si dovrebbe prenderla a parte e farle dire a quattr’occhi la verità. Non è possibile. Il signor Ponza – sia o no lui il pazzo – è realmente gelosissimo e non lascia vedere la moglie a nessuno. La tiene lassù, come in prigione, sotto chiave; e questo fatto è senza dubbio in favore della signora Frola; ma il signor Ponza dice che è costretto a far così, e che sua moglie stessa anzi glielo impone, per paura che la signora Frola non le entri in casa all’improvviso. Può essere una scusa. Sta anche di fatto che il signor Ponza non tiene neanche una serva in casa. Dice che lo fa per risparmio, obbligato com’è a pagar l’affitto di due case; e si sobbarca intanto a farsi da sé la spesa giornaliera, e la moglie, che a suo dire non è la figlia della signora Frola, si sobbarca anche lei per pietà di questa, cioè d’una povera vecchia che fu suocera di suo marito, a badare a tutte le faccende di casa, anche alle più umili, privandosi dell’ajuto di una serva. Sembra a tutti un po’ troppo. Ma è anche vero che questo stato di cose, se non con la pietà, può spiegarsi con la gelosia di lui. Intanto, il signor Prefetto di Valdana s’è contentato della dichiarazione dei signor Ponza. Ma certo l’aspetto e in gran parte la condotta di costui non depongono in suo favore, almeno per le signore di Valdana più propense tutte quante a prestar fede alla signora Frola. Questa, difatti, viene premurosa a mostrar loro le letterine affettuose che le cala giù col panierino la figliuola, e anche tant’altri privati documenti, a cui però il signor Ponza toglie ogni credito, dicendo che le sono stati rilasciati per confortare il pietoso inganno. Certo è questo, a ogni modo: che dimostrano tutt’e due, l’uno per l’altra, un meraviglioso spirito di sacrifizio, commoventissimo; e che ciascuno ha per la presunta pazzia dell’altro la considerazione più squisitamente pietosa. Ragionano tutt’e due a meraviglia; tanto che a Valdana non sarebbe mai venuto in mente a nessuno di dire che l’uno dei due era pazzo, se non l’avessero detto loro: il signor Ponza della signora Frola, e la signora Frola dei signor Ponza. La signora Frola va spesso a trovare il genero alla prefettura per aver da lui qualche consiglio, o lo aspetta all’uscita per farsi accompagnare in qualche compera: e spessissimo, dal canto suo, nelle ore libere e ogni sera il signor Ponza va a trovare la signora Frola nel quartierino mobigliato; e ogni qual volta per caso l’uno s’imbatte nell’altra per via, subito con la massima cordialità si mettono insieme; egli le dà la destra e, se stanca, le porge il braccio, e vanno così, insieme, tra il dispetto aggrondato e lo stupore e la costernazione della gente che li studia, li squadra, li spia e, niente!, non riesce ancora in nessun modo a comprendere quale sia il pazzo dei due, dove sia il fantasma, dove la realtà. [in Novelle per un anno, Roma Newton Compton, 2011]

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Capitolo II

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Luigi Pirandello Così è (se vi pare) [Scena nona] Detti, la Signora Ponza, poi il Signor Ponza. Tutti si scosteranno da una parte e dall’altra per dar passo alla signora Ponza che si farà avanti rigida, in gramaglie, col volto nascosto da un fitto velo nero, impenetrabile. SIGNORA FROLA (cacciando un grido straziante di frenetica gioja).Ah! Lina… Lina… Lina… E si precipiterà e s’avvinghierà alla donna velata, con l’arsura d’una madre che da anni e anni non abbraccia più la sua figliuola. Ma contemporaneamente, dall’interno, si udranno le grida del signor Ponza che si precipiterà sulla scena. SIGNOR PONZA: Giulia!… Giulia!... Giulia!... La signora Ponza, alle grida di lui, s’irrigidirà tra le braccia della signora Frola che la cingono. Il signor Ponza, sopravvenendo, s’accorgerà subito della suocera così perdutamente abbracciata alla moglie, e inveirà, furente. Ah! L’avevo detto io! Si sono approfittati così, vigliaccamente, della mia buona fede? SIGNORA PONZA (volgendo il capo velato, quasi con austera solennità). Non temete! Non temete! Andate, andate. PONZA (piano, amorevolmente, alla Signora Frola).Andiamo, sì, amdiamo… SIGNORA FROLA (che si sarà staccata da sé, tutta tremante, umile, dall’abbraccio, farà eco subito, premurosa, a lui). Sì, sì… andiamo, caro, andiamo… E tutti e due abbracciati, carezzandosi a vicenda, tra due diversi pianti, si ritireranno bisbigliandosi tra loro parole affettuose. Silenzio. Dopo aver seguito con gli occhi fino all’ultimo i due, tutti si rivolgeranno, ora, sbigottiti e commossi, alla signora velata. SIGNORA PONZA (dopo averli guardati attraverso il velo, dirà con solennità cupa). Che altro possono volere da me, dopo questo, lor signori? Qui c’è una sventura, come vedono, che deve restar nascosta, perché solo così può valere il rimedio che la pietà le ha prestato. IL PREFETTO (commosso). Ma noi vogliamo, vogliamo rispettare la pietà, signora. Vorremmo però che lei ci dicesse – SIGNORA PONZA (con un parlare lento e spiccato). – che cosa? la verità! è solo questa: che io sono, sì, la figlia della signora Frola – TUTTI (con un sospiro di soddisfazione). – ah! SIGNORA PONZA (subito c.s.). – e la seconda moglie del signor Ponza – TUTTI (stupiti e delusi, sommessamente). …– oh! E come? SIGNORA PONZA (subito c.s.). – sì; e per me nessuna! nessuna! IL PREFETTO.Ah, no, per sé, lei signora: sarà l’una o l’altra! SIGNORA PONZA: Nossignori! Per me, io sono colei che mi si crede. Guarderà attraverso il velo, tutti, per un istante; e si ritirerà. Silenzio. LAUDISI: Ed ecco o signori, come parla la verità! Volgerà attorno uno sguardo di sfida derisoria. Siete contenti? Scoppierà a ridere. Ah! ah! ah! ah! TELA [in Così è (se vi pare), Come prima, meglio di prima, La vita che ti diedi, Roma, Newton Compton, 2011]

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I tempi e i modi della narrazione

Infine l’intertestualità può manifestarsi con una vera e propria citazione da un altro o altri testi.Anche in questo caso le modalità possono essere diverse: la citazione può essere diretta per mezzo di parole o di enunciati sottoposti all’attenzione del lettore, che immediatamente li riconosce, come un nome, un oggetto, vocaboli, intere frasi, un titolo (per esempio il romanzo Norvegian Wood di Haruki Marukami del 1987 evoca all’istante l’omonima canzone dei Beatles, canzone che peraltro dà l’avvio e contiene precisi riferimenti all’intera storia narrata dal protagonista Watanabe T1oru) e addirittura uno spartito come in La signorina Else di Arthur Schnitzler (1924) in cui vengono riportati alcuni brani dal Carnaval (1834-1835) di Robert Schumann, perfetto accompagnamento musicale ai deliri iniziali di Else che a breve troverà la morte per un’eccessiva dose di sonniferi [BOX 6. I generi della narrativa, 107; cap. III, par. 3, 168-171]. Oppure può essere allusiva e per questo più complessa perché costringe il lettore a recuperare nella propria memoria la situazione originaria cogliendone le analogie e/o le differenze e le implicazioni concettuali legate a questa particolare ripresa (del resto l’allusione è una figura retorica di pensiero, che consente di riferirsi a qualcosa senza necessariamente nominarlo). In uno dei più significativi esempi del cosiddetto Nouveau roman, La modificazione (1957) di Michel Butor, il protagonista Léon Delmont, durante il suo viaggio in treno da Parigi a Roma, che è anche un viaggio sentimentale da una donna a un’altra e che alla fine diventerà il viaggio nella memoria (memoria personale e memoria storica), in sogno o forse tra veglia e sonno, percorrerà una sorta di discesa agli inferi che contiene in sé tutti i connotati, diretti e allusivi, del canto sesto dell’Eneide. Se è vero che molti elementi sono appunto ripresi in maniera inequivocabile dall’opera virgiliana (una donna nerovestita che potrebbe essere la Sibilla cumana, le focacce date dalla Sibilla stessa ad Enea per placare Cerbero, peraltro la stessa identica immagine riutilizzata poi da Dante nel terzo canto dell’Inferno, il ramoscello d’oro, il fiume infernale superato per mezzo di un traghettatore), è pure vero che le continue allusioni servono in ogni caso a segnare le differenze tra le due discese agli Inferi e, soprattutto, le differenze tra i due personaggi principali, Enea e Léon, il primo timoroso ma consapevole della necessità di compiere quel viaggio che gli consentirà di conoscere in anticipo la grandezza di Roma, la città che non è ancora sorta e che nascerà dalla sua discendenza, il secondo al contrario timoroso ma inconsapevole di ciò che desidera davvero per se stesso (la moglie o l’amante?) e pertanto incapace di compiere un viaggio che porti con sé le ragioni del futuro e quindi della storia.

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Michel Butor La modificazione Ti frughi in tasca ove restano solo due gauloises e hai dimenticato di comprare delle nazionali prima. Cerchi un’altra posizione, chiudendo gli occhi perché la luce comincia a dare fastidio. Non è ancora il caso di dormire; forse non sarà possibile dormire tutta la notte. Stai meglio così, ma non potrai tenere per molto tempo le gambe incrociate in questo modo. Si sente allora odore di fumo, dev’esservi qualche essere vivente in questa grotta, si rialza con precauzione per non rischiare di urtare troppo violentemente nella volta, avanza, guardando le proprie mani appiattirsi sulla roccia, mentre l’odore diventa sempre più sensibile. A una svolta scorge un fuoco al centro di una grande sala stillante e nebbiosa, una grande luce arancione nel vapore; s’avvicina, sentendo un altro respiro pesante, rauco, quello d’una vecchia donna immobile che guarda un grande libro, senza muovere la testa, gira semplicemente gli occhi verso lui con una specie di sorriso beffardo (ma quel bisbiglio considerevolmente ampliato diventa simile al rumore che fa un treno in una galleria ed è molto difficile capire quanto quella racconti): «Stancano questi boschi, stanca questa savana, queste pietre, ma ora tu hai il diritto di riposarti un poco per ascoltarmi, pormi le domande che devi avere così a lungo, così minuziosamente preparato perché non ci si avventura in una simile scappata, cosí pericolosa, senza ragioni ben definite, ben maturate e ben riflettute, che devono essere annotate su quei due fogli di carta che scorgo attraverso il vapore e il fumo dei mio fuoco rosso; incollati su quei vestiti bizzarri la cui forma lacerata e il colore snaturato mi fanno capire la distanza che hai dovuto superare». «Perché non mi parli? Credi che non sappia che anche tu vai alla ricerca di tuo padre perché ti predica l’avvenire della tua razza?». Allora in una specie di singhiozzo e balbettio: «No, non vale la pena di ridere di me, io non voglio nulla, Sibilla, voglio solo uscire di qua, rientrare nella mia casa, riprendere la strada che avevo iniziato; e, poiché tu parli la mia lingua, con un poco di pietà per la mia prostrazione, per quest’incapacità di onorarti, di dirti le parole che ti converrebbero, che richiamerebbero il tuo responso». «Non sono là, su quei fogli della guida blu per i dispersi?». «Ahimè, non ci sono più, Sibilla, e, anche se ci sono, io non posso leggerli». «Va, posso ben munirti di queste due focacce arrostite al forno, ma dubito di prevedere che tu torni mai alla luce». «Non hai anche un ramo d’oro per guidarmi e aprirmi i cancelli?». «No, non c’è nulla per te, nulla per quelli che sono cosi estranei ai loro desideri; potrai fidarti solo di quella luce incerta che apparirà quando questo povero fuoco sarà spento». Ormai c’è solo una nuvola spessa che si spande e, lontano, attraverso queste nebbie pungenti un certo luccichio; lui si rimette in cammino. [Milano, Mondadori, 1970, Parte III, cap.VII]

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I tempi e i modi della narrazione

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6. I generi della narrativa

Il concetto di genere letterario [BOX 3. Letteratura e genere letterario, 50] è gerarchicamente strutturato: accanto ai macrogeneri (prosa, poesia, teatro) e ai generi propriamente detti (epos, tragedia, commedia, lirica, romanzo, racconto,…) si possono individuare alcuni sottogeneri dai tratti più specifici e caratterizzanti (canzone, sonetto, romanzo epistolare, racconto fantastico, dramma borghese,…). Oltre a ciò, e sin dall’epoca antica, la narrativa ha diviso i suoi tipi di scritture tra lunghe/brevi, cioè tra romanzo e racconto che sono poi identificabili come i due generi per eccellenza della prosa. La separazione tra romanzo/lungo e racconto/breve è, in verità, poco pregnante e anche di difficile discernimento: sia perché il romanzo al suo interno può racchiudere uno o più racconti (il Don Chisciotte di Cervantes) o perché più racconti possono strutturarsi come un romanzo (La coscienza di Zeno di Svevo), sia perché la lunghezza/brevità non determinano necessariamente la tipologia di un testo. La signorina Else (1924) di Arthur Schnitzler e Notturno indiano (1984) di Antonio Tabucchi sono romanzi brevi o racconti lunghi? Entrambe le cose dal momento che il lettore ha effettivamente la possibilità di maggiore “controllo mnemonico” come in presenza della trama non troppo estesa del racconto, benché poi entrambe le storie possono essere definite complesse e quindi vicine a quelle del romanzo, se pur tematicamente molto unitarie. Il romanzo può essere distinto anche a seconda della forma utilizzata (romanzo epistolare, romanzo saggio, romanzo allegorico,…) o a seconda del tipo di storia/contenuto presenti (romanzo di formazione, picaresco, psicologico, realista, sentimentale, poliziesco, romanzo gotico, di fantascienza, di cappa e spada, erotico,…), storia/contenuto che, a ben guardare, definiscono pure le varie tipologie di narrazione e le tipologie dei personaggi che agiscono dentro la storia medesima. Un’ultima considerazione, prendendo in prestito alcune riflessioni di Italo Calvino: esiste anche il poliromanzo e l’iperomanzo. Il primo è quello che al suo interno contiene tante altre piccole storie che, ampliate, potrebbero dare origine ad altrettanti romanzi; il secondo è quello che racchiude in sé tante forme diverse di romanzo. Esempio classico, dice lo stesso Calvino, I promessi sposi di Manzoni: iperomanzo perché potrebbe essere letto non solo come romanzo storico ma anche d’ambiente, psicologico, sentimentale, di formazione, di viaggio,…; e poliromanzo con le sue brevi narrazioni sulla vita di fra’ Cristoforo, dell’Innominato, di Gertrude e, soprattutto, degli untori al tempo della peste che, guarda caso, diventeranno oggetto della futura Storia della colonna infame (1840).

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Capitolo III

Gli attori della narrazione

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Premessa. Persona vs personaggio. Per una definizione Alcune riflessioni iniziali solo per rendersi conto della complessità delle questioni che ruotano intorno al concetto di personaggio, partendo da una serie di considerazioni quasi scontate. Senza personaggio non esiste una storia, quindi una narrazione intesa sia come fabula sia come intreccio [cap. 2, Premessa, 51-56]. E senza personaggio non esiste neppure la voce della storia, perché, a ben vedere, a parte nel caso del narratore onnisciente [cap. 1, par. 3, 41-42], è sempre un personaggio a narrare e a dialogare tra sé e sé oppure con tante altre voci, che sono poi i suoi compagni di storia, primari o secondari, che animano la storia stessa e che costituiscono il cosiddetto sistema dei personaggi [par. 1, 145-149]. Ma prima di entrare in medias res, è necessario tentare di trovare una definizione di personaggio. La parola personaggio, nel senso in cui oggi comunemente si usa questo termine, è entrato nell’uso dal francese personnage più o meno a partire dal 1220-1230, con il significato di persona assai rappresentativa e ragguardevole e poi, in seconda battuta, intorno al 1400, di persona che agisce o che è rappresentata in un’opera artistica. A sua volta il sostantivo francese “personnage” rimanda al latino persona, un termine davvero molto interessante dal punto di vista semantico: il latino persona, infatti, derivato dall’etrusco phersu, maschera, a sua volta ricalcato sul greco prÒswpon, faccia, volto, maschera, effigie, significava appunto sia persona e individuo sia maschera teatrale, ruolo, parte all’interno di un testo drammatico. In sostanza la nozione di personaggio, esattamente come quella di persona, rimandava al mondo dell’uomo e al modo in cui l’uomo poteva rappresentare il proprio universo e se stesso [Debenedetti 1977 e 1998; Greimas 1984; Stara 2004]: ancora oggi la persona è tanto l’individuo come presenza e aspetto fisico, come corpo e figura, quanto l’individuo come essere pensante che, attraverso la sua volontà, i suoi sentimenti e la coscienza, è capace di raffigurare l’essenza dell’uomo e di metterla in scena attraverso varie tecniche che, quasi sempre, hanno a che fare con la parola, la scrittura e le azioni. Inevitabile, pertanto, che il rapporto tra persona e personaggio fosse sentito tanto stretto: anche più tardi, a dare ascolto all’ottocentesco Dictionnaire de la Langue française (1883) di Emile Littré, il personaggio era indicato come «la personne fictive, homme ou femme, mise en action dans un ouvrage dramatique», e nella prima edizione del Dizionario Enciclope-

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Capitolo III

dico Treccani (1930) «l’interlocutore di una composizione drammatica»,ossia «ognuna delle persone che agiscono in un’opera narrativa» (oggi, ovviamente, anche cinematografica e televisiva). Già nella Poetica di Aristotele, del resto, il personaggio era presentato soprattutto in relazione agli atti compiuti e rappresentati, come se questi ultimi fossero alla base dell’esistenza del personaggio medesimo: tuttavia, al di là della centralità delle azioni, lo stesso Aristotele sottolineava che la vita del personaggio poteva essere determinata anche dal suo pensiero e dalla sua capacità di esprimere le proprie idee attraverso il linguaggio. In sostanza, il personaggio è una “persona inventata” o, per rubare l’espressione a Edward M. Forster, è un homo fictus, ha cioè tutte le caratteristiche della persona vera, l’homo sapiens, benché sia in parte o del tutto immaginaria, è l’uomo inteso come «prodotto del cervello di centinaia di differenti romanzieri» che nasce, e spesso muore, nelle pagine di un testo scritto e che, nonostante sia irreale, ha una sua ben determinata personalità [Forster 2011; ma anche Ficara 2003].Anzi, il personaggio non è un lui qualsiasi, anonimo o traslucido, semplice soggetto dell’azione espressa dal verbo. Un personaggio deve avere un nome proprio, doppio se possibile: nome e cognome. Deve avere dei genitori, un’eredità. Deve avere una professione. Se avrà dei beni, tanto meglio. Infine deve possedere un carattere, un volto che lo rispecchi, un passato che ha modellato questo e quello. Il suo carattere detta le sue azioni, lo fa agire in maniera determinata dinanzi ad ogni evento. Il suo carattere permette al lettore di giudicarlo, di amarlo, di odiarlo. È grazie al suo carattere che egli trasmetterà un giorno il suo nome a un tipo umano, che aspettava, si potrebbe dire, la consacrazione di questo battesimo. [Robbe-Grillet 1965, 57]

Tuttavia la questione non è così semplice come sembrerebbe porla l’appena citato Robbe-Grillet, che in qualità di romanziere, teorico avanguardistico, sceneggiatore e direttore editoriale ha dedicato molte osservazioni all’universo romanzo e al personaggio medesimo. Lo scrittore Alexandre Dumas nella Signora delle camelie (1848), per esempio, sosteneva che per un autore [cap. 1, par. 2, 12-13] non era possibile ideare un personaggio davvero persuasivo senza aver prima conosciuto bene il carattere degli uomini in carne ed ossa ed aver sperimentato, almeno in parte e sulla propria pelle, le esperienze descritte e raccontate. Una lezione, questa, che Dumas figlio doveva aver imparato da Dumas padre: si pensi, solo per citare uno dei numerosi personaggi inventati dalla sua prolifica penna, ad Edmond Dantés, protagonista assoluto del Conte di Montecristo (1844-1845) che riesce a rimanere impresso nella memoria del lettore grazie alla potenza del suo carattere, delle sue azioni e della straordinaria vicenda in cui si trova immerso, una vicenda che, partendo da un reale fatto di cronaca, racconta di tradimenti, prigionie, fughe miracolose, tesori, viaggi, feste, vendette, insomma di mille peripezie non troppo lontane da quelle vissute in prima persona dall’autore vero che, forse per la sua origine mulatta, il suo notevole fisico (alto, capelli ricci, labbra carnose) e il

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Gli attori della narrazione

suo carattere volitivo ed estroverso, visse una vita spericolata sino alla morte in povertà tra numerose amanti, quattro figli illegittimi (tra cui il suo omonimo), viaggi, fortune guadagnate e dilapidate, creditori e parassiti che lo costrinsero persino a scappare da Parigi, amici anche illustri come molti dei suoi colleghi scrittori da Victor Hugo a Gérard de Nerval, da George Sand a Théophile Gautier ed Alfred de Vigny. A differenza di Dumas figlio, Honoré de Balzac riteneva che per creare i propri personaggi e attribuire loro determinate caratteristiche e determinati destini era necessario partire dalla fisiognomica e, quindi, dalla descrizione del loro aspetto fisico, delle loro manie, dei loro capricci, dei loro comportamenti. O ancora Robert Louis Stevenson pensava che nella costruzione di un personaggio l’aspetto rilevante non fosse tanto «scegliere» e «descrivere» azioni, discorsi e particolari dell’aspetto fisico (i personaggi erano visti come «burattini verbali» dotati tuttavia di un grande «fascino personale») quanto compiere tutte queste operazioni in modo da «costituire un insieme organico e coerente» capace di imporsi al lettore e di catturare la sua attenzione [Stevenson 1987, 167 e 171], opinione che sembra in parte andare in direzione opposta rispetto a quanto teorizzato sia da Friedrich Nietzsche che vedeva i personaggi come fantasmi e simulacri dell’uomo vero benché poi anche dell’uomo stesso si poteva conoscere solo la sua “superficie”, sia da Marcel Proust che avrebbe dimostrato nella Recherche che un personaggio “misterioso”, complesso, sfaccettato e allo stesso tempo provvisorio poteva tranquillamente stare al centro della scena. Allora cosa è il personaggio e quale la definizione che gli si può attribuire? È sicuramente qualcosa di inventato e immaginario persino quando la sua voce si confonde o si mescola con quella dell’autore: è davvero possibile dire che il Tolstoj scrittore è del tutto identico al Tolstoj personaggio dei suoi Ricordi? A me sembra che lo scarto temporale tra il momento dei fatti raccontati e il momento della scrittura, ossia tra tempo della storia e tempo della narrazione [cap. 2, par. 1, 57-63], porta con sé necessariamente una modificazione e quindi l’impossibilità di una assoluta convergenza e di una totale sovrapposizione. Nonostante questo, però, il personaggio, ancorché non possa e non debba essere confuso con una persona fisica e materiale, e ancorché appartenga chiaramente a un mondo “fantastico” perché nato dalla penna di uno scrittore, è quanto di più vicino esiste alla persona stessa: ne è in un certo senso la sua raffigurazione più completa, ne contiene tutte le caratteristiche interiori ed esteriori, capace com’è di vivere una vita quasi interamente simile a quella del suo fratello maggiore in carne ed ossa, e capace com’è di rendere più trasparente e più intellegibile il mondo circostante. La mia osservazione sembrerebbe contraddire quella, molto più autorevole, del filosofo americano Nelson Goodman che sosteneva che è possibile distinguere tra personaggi del tutto inventati o con «denotazione nulla», cioè che non hanno alcuna corrispondenza con gli uomini del mondo reale, e personaggi al contrario denotativi o referenziali o storici, ossia capaci di stabilire un qualche riman-

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Capitolo III

do, individuale o collettivo, con la concretezza della realtà e della storia degli uomini [Goodman 2008]. Un criterio che, in verità, non mi pare affatto semplificare la comprensione e la caratterizzazione del personaggio, perché potrebbe creare ulteriori confusioni: l’Achille omerico o l’Edipo sofocleo sono chiaramente personaggi inventati ma possono davvero essere considerati a «denotazione nulla», benché appartenenti alla sfera dell’eroe classico? [par. 1, 115-116] La Saffo e il Socrate utilizzati come personaggi in tante opere letterarie sono reali o inventati? Il Napoleone di Guerra e pace (1865-1869) di Tolstoj è lo stesso Napoleone storico nato in Corsica e morto esule sull’isola di Sant’Elena? Ma è poi davvero importante stabilire queste connessioni? Io ritengo che l’unica cosa importante sono la forza e l’intensità che scaturiscono da quel particolare personaggio, inventato o non inventato che sia, e tali da rimanere impresse nel ricordo di intere generazioni di lettori anche a distanza di tempo e da diventarne così patrimonio comune, come nel caso, e solo per rimanere nell’ambito della letteratura italiana, della Gertrude manzoniana o del mastro Geppetto delle Avventure di Pinocchio (1883) di Carlo Lorenzini/Carlo Collodi.

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Alessandro Manzoni I promessi sposi Il suo aspetto, che poteva dimostrar venticinque anni, faceva a prima vista un’impressione di bellezza, ma d’una bellezza sbattuta, sfiorita e, direi quasi, scomposta. Un velo nero, sospeso e stirato orizzontalmente sulla testa, cadeva dalle due parti, discosto alquanto dal viso; sotto il velo, una bianchissima benda di lino cingeva, fino al mezzo, una fronte di diversa, ma non d’inferiore bianchezza; un’altra benda a pieghe circondava il viso, e terminava sotto il mento in un soggolo, che si stendeva alquanto sul petto, a coprire lo scollo d’un nero saio. Ma quella fronte si raggrinzava spesso, come per una contrazione dolorosa; e allora due sopraccigli neri si ravvicinavano, con un rapido movimento. Due occhi, neri neri anch’essi, si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba; talora si chinavano in fretta, come per cercare un nascondiglio; in certi momenti, un attento osservatore avrebbe argomentato che chiedessero affetto, corrispondenza, pietà; altre volte avrebbe creduto coglierci la rivelazione istantanea d’un odio inveterato e compresso, un non so che di minaccioso e di feroce: quando restavano immobili e fissi senza attenzione, chi ci avrebbe immaginata una svogliatezza orgogliosa, chi avrebbe potuto sospettarci il travaglio d’un pensiero nascosto, d’una preoccupazione familiare all’animo, e più forte su quello che gli oggetti circostanti. Le gote pallidissime scendevano con un contorno delicato e grazioso, ma alterato e reso mancante da una lenta estenuazione. Le labbra, quantunque appena tinte d’un roseo sbiadito, pure, spiccavano in quel pallore: i loro moti erano, come quelli degli occhi, subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero. La grandezza ben formata della persona scompariva in un certo abbandono del portamento, o compariva sfigurata in certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute per una donna, non che per una monaca. Nel vestire stesso c’era qua e là qualcosa di studiato o di negletto, che annunziava una monaca singolare: la vita era attillata con una certa cu-

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Gli attori della narrazione

ra secolaresca, e dalla benda usciva sur una tempia una ciocchettina di neri capelli; cosa che dimostrava o dimenticanza o disprezzo della regola che prescriveva di tenerli sempre corti, da quando erano stati tagliati, nella cerimonia solenne del vestimento. [Milano, BUR, 2011, cap. IX]

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Carlo Collodi Le avventure di Pinocchio In quel punto fu bussato alla porta. – Passate pure – disse il falegname, senza aver la forza di rizzarsi in piedi. Allora entrò in bottega un vecchietto tutto arzillo, il quale aveva nome Geppetto; ma i ragazzi del vicinato, quando lo volevano far montare su tutte le furie, lo chiamavano col soprannome di Polendina, a motivo della sua parrucca gialla che somigliava moltissimo alla polendina di granturco. Geppetto era bizzosissimo. Guai a chiamarlo Polendina! Diventava subito una bestia, e non c’era più verso di tenerlo. – Buon giorno, mastr’Antonio – disse Geppetto. – Che cosa fate costì per terra? – Insegno l’abbaco alle formicole. – Buon pro vi faccia. – Chi vi ha portato da me, compar Geppetto? – Le gambe. Sappiate, mastr’Antonio, che son venuto da voi, per chiedervi un favore. – Eccomi qui, pronto a servirvi – replicò il falegname, rizzandosi su i ginocchi. – Stamani m’è piovuta nel cervello un’idea. – Sentiamola. – Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno; ma un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali. Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di pane e un bicchier di vino: che ve ne pare? – Bravo Polendina! – gridò la solita vocina, che non si capiva di dove uscisse. A sentirsi chiamar Polendina, compar Geppetto diventò rosso come un peperone dalla bizza, e voltandosi verso il falegname, gli disse imbestialito: – Perché mi offendete? – Chi vi offende? – Mi avete detto Polendina!… – Non sono stato io. – Sta un po’ a vedere che sarò stato io! Io dico che siete stato voi. – No! – Sì! – No. – Sì. E riscaldandosi sempre più, vennero dalle parole ai fatti, e acciuffatisi fra di loro, si graffiarono, si morsero e si sbertucciarono. Finito il combattimento, mastr’Antonio si trovò fra le mani la parrucca gialla di Geppetto, e Geppetto si accorse di avere in bocca la parrucca brizzolata del falegname.

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– Rendimi la mia parrucca! – gridò mastr’Antonio. – E tu rendimi la mia, e rifacciamo la pace. I due vecchietti, dopo aver ripreso ognuno di loro la propria parrucca, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita. – Dunque, compar Geppetto, – disse il falegname in segno di pace fatta – qual’è il piacere che volete da me? – Vorrei un po’ di legno per fabbricare il mio burattino; me lo date? Mastr’Antonio, tutto contento, andò subito a prendere sul banco quel pezzo di legno che era stato cagione a lui di tante paure. Ma quando fu lì per consegnarlo all’amico, il pezzo di legno dette uno scossone e sgusciandogli violentemente dalle mani, andò a battere con forza negli stinchi impresciuttiti del povero Geppetto. – Ah! gli è con questo bel garbo, mastr’Antonio, che voi regalate la vostra roba? M’avete quasi azzoppito!… – Vi giuro che non sono stato io! – Allora sarò stato io!… – La colpa è tutta di questo legno… – Lo so che è del legno: ma siete voi che me l’avete tirato nelle gambe! – Io non ve l’ho tirato! – Bugiardo! – Geppetto, non mi offendete; se no vi chiamo Polendina! … – Asino! – Polendina! – Somaro! – Polendina! – Brutto scimmiotto! – Polendina! A sentirsi chiamar Polendina per la terza volta, Geppetto perse il lume degli occhi, e si avventò sul falegname; e lì se ne dettero un sacco e una sporta. A battaglia finita, mastr’Antonio si trovò due graffi di più sul naso, e quell’altro due bottoni di meno al giubbetto. Pareggiati in questo modo i loro conti, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la vita. Intanto Geppetto prese con sé il suo bravo pezzo di legno, e ringraziato mastr’Antonio, se ne tornò zoppicando a casa. [Milano, Oscar Mondadori, 2012, 2. Maestro Ciliegia regala il pezzo di legno al suo amico Geppetto, il quale lo prende per fabbricarsi un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirar di scherma e far i salti mortali]

1. Il sistema dei personaggi: ruoli e caratteri Se, dunque, il personaggio è colui che abita e vive i romanzi e la narrativa in genere, affinché la storia assuma caratteristiche di verosimiglianza o di credibilità, l’autore/narratore deve fare in modo che il personaggio “prenda corpo” di fronte al lettore [cap. 1, par. 2, 20-26], dotandolo di caratteristiche “umane” plausibili tali che il lettore stesso possa farle sue, completarle e integrarle attraverso la propria personale esperienza e sensibilità. Se ci pensa bene, in effetti, persino i cosiddetti supereroi hanno debolezze e punti di fragilità (per esempio il miliardario Bruce Wayne farà della

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sua profonda paura per i pipistrelli il simbolo del suo alter ego Batman) e persino i personaggi inanimati o animali vengono spesso presentati con caratteristiche simili a quelle dell’uomo come nel Destino di una tazza senza manica di Böll [cap. I, par. 2, 13-17] e in La rallegrata di Pirandello [cap. I, par. 3, 42-43] o, meglio ancora, come in uno dei racconti (1917) di Franz Kafka, in cui caratteristiche esteriori, emozioni, sentimenti e azioni del tutto antropiche sono attribuite a un ponte.

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Franz Kafka Il ponte Ero rigido e freddo; ero un ponte, gettato sopra un abisso. Da questa parte erano conficcate le punte dei piedi, dall’altra le mani: avevo i denti piantati in un’argilla friabile. Le falde della mia giacca svolazzavano ai miei fianchi. Giù nel profondo rumoreggiava il gelido torrente dove guizzano le trote. Nessun turista veniva a smarrirsi in quelle alture impervie, il ponte non era ancor segnato sulle carte. Così giacevo e aspettavo, dovevo aspettare. Una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare. Un giorno verso sera – fosse la prima, fosse la millesima, non saprei dire – i miei pensieri erano un guazzabuglio, e facevano una ridda.Verso sera, d’estate, più cupo scrosciava il torrente, ecco che udii un passo umano! A me, a me! Stenditi, ponte, mettiti all’ordine, trave senza spalletta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibilmente l’incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra come un Dio montano. Egli venne, mi percosse con la punta ferrata del suo bastone, poi sollevò le falde dei mio abito e me le depose in ordine sul dorso. Infilò la punta del bastone nei miei capelli folti e ve la mantenne a lungo; probabilmente egli si guardava d’intorno con aria feroce. Poi a un tratto – io stavo appunto seguendolo trasognato per monti e valli – saltò a piedi giunti nel mezzo del mio corpo. Rabbrividii per l’atroce dolore, del tutto inconscio. Chi era? Un fanciullo? Un sogno? Un grassatore? Un suicida? Un tentatore? Un distruttore? E mi volsi per vederlo. Il ponte che si volta! Non ero ancora voltato e già precipitavo, precipitavo ed ero già dilaniato e infilzato dai ciottoli aguzzi che mi avevano sempre fissato così pacificamente attraverso l’acqua scrosciante. [in Il messaggio dell’imperatore, Milano, Piccola Biblioteca Adelphi, 2003]

Comunque sia, la rappresentazione del personaggio si è evoluta nel corso del tempo e, a seconda delle epoche, la sua caratterizzazione, soprattutto interiore, si è modificata e in un certo senso arricchita o al contrario tanto semplificata quasi da smaterializzarsi. Per l’antichità si può infatti parlare di eroi classici: seguendo la definizione di Nelson Goodman [2008] si potrebbe dire che sono quasi tutti personaggi a “denotazione nulla” perché le loro azioni sono in genere la semplice manifestazione esterna di ciò che essi sono senza alcuna possibile modificazione. In effetti tutta la loro “persona” deriva dalla natura e dal fato cosicché la loro esistenza, le loro

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azioni, le loro parole e persino il senso della loro vita/morte derivano da una volontà superiore, quella degli dei: Ettore è destinato sin dall’avvio della guerra di Troia a perdere contro Achille e a lasciare vedova la sua amata Andromaca; Edipo non potrà fare a meno di uccidere quel padre che non ha mai conosciuto, non potrà fare a meno di unirsi a sua madre non conoscendone la vera identità e per questo accecarsi come punizione suprema, peggiore persino della stessa morte; ed Enea non potrà fare altro che abbandonare la sua sposa Creusa per poter iniziare quel viaggio che lo condurrà sulle rive del Lazio per dare origine alla storia di Roma [Battaglia 1991]. Tuttavia, a me sembra che persino questi eroi classici siano meno “fissi” di quanto si potrebbe credere: se è vero che durante tutta la loro esistenza si scontrano con l’impossibilità di stabilire autonomamente il corso degli eventi e che ogni loro comportamento risulta “strumento” di un volere superiore che non possono controllare, bloccati come sono in una concatenazione di eventi in cui possono solo tentare di affermare la propria volontà, una volontà imprigionata nelle maglie di quanto fissato in sorte e determinata a priori da un destino ineluttabile e imperscrutabile, è pur vero che questi eroi, spesso eroi dolorosi e sofferenti, hanno il coraggio di lottare anche se sanno di perdere e anche se sanno che alla fine dovranno accettare quanto è stato deciso dall’alto, giusto o ingiusto che sia: Enea, benché vincitore e benché pronto a concedere la vita al suo avversario Turno, non esiterà neppure un secondo a ucciderlo, e così a vendicarsi, alla vista del cinto d’oro appartenuto all’amico Pallante; Ulisse viaggerà per dieci lunghi anni ma sempre con il cuore rivolto verso la sua “petrosa Itaca” pronto a prendere la sua vendetta su coloro che volevano usurpare il suo regno e il suo talamo nuziale; Achille sarà il “paladino” inflessibile delle armate achee ma di fronte alla rinuncia dell’amata schiava Briseide, alla morte dell’amico fraterno Patroclo e persino alle preghiere del vecchio Priamo, che gli chiede la restituzione della salma del figlio Ettore, dimostrerà di avere la sensibilità tipica di una “persona” e, quindi, del personaggio che potremmo definire “moderno”. Già a partire dal Medioevo, o forse già con l’introduzione del concetto di morale, di peccato e redenzione della cultura cristiana, si assiste a una prima evoluzione del personaggio con una più marcata interiorità: nasce così l’eroe moderno, un eroe con una distinta personalità capace di vivere dentro la storia e di farne consapevolmente parte assumendo un ruolo attivo e non più soggetto alla volontà altrui ma semmai alle proprie scelte, opportune o sbagliate che siano: un caso tra tutti il personaggio di Boccaccio che cosciente del suo ingegno e delle sue peculiarità psicologiche può diventare l’artefice del proprio destino e così piegare a proprio vantaggio i casi della vita anche quando sembrano negativi e incomprensibilmente ingiusti.

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Giovanni Boccaccio Decameron Già è gran tempo, fu tra’ marchesi di Sanluzzo il maggior della casa un giovane chiamato Gualtieri, il quale, essendo senza moglie e senza figliuoli, in niuna altra cosa il suo tempo spendeva che in uccellare e in cacciare, né di prender moglie né d’aver figliuoli alcun pensiero avea; di che egli era da reputar molto savio. La qual cosa a’ suoi uomini non piaccendo, più volte il pregaron che moglie prendesse, acciò che egli senza erede né essi senza signor rimanessero, offerendosi di trovargliel tale e di sì fatto padre e madre discesa, che buona speranza se ne potrebbe avere e esso contentarsene molto. A’ quali Gualtieri rispose: «Amici miei, voi mi strignete a quello che io del tutto aveva disposto di non far mai, considerando quanto grave cosa sia a poter trovare chi co’ suoi costumi ben si convenga e quanto del contrario sia grande la copia, e come dura vita sia quella di colui che a donna non bene a sé conveniente s’abbatte. E il dire che voi vi crediate a’ costumi de’ padri e delle madri le figliuole conoscere, donde argomentate di darlami tal che mi piacerà, è una sciocchezza, con ciò sia cosa che io non sappia dove i padri possiate conoscere né come i segreti delle madri di quelle: quantunque, pur cognoscendogli, sieno spesse volte le figliuole a’ padri e alle madri dissimili. Ma poi che pure in queste catene vi piace d’annodarmi, e io voglio esser contento; e acciò che io non abbia da dolermi d’altrui che di me, se mal venisse fatto, io stesso ne voglio essere il trovatore, affermandovi che, cui che io mi tolga, se da voi non fia come donna onorata, voi proverete con gran vostro danno quanto grave mi sia l’aver contra mia voglia presa mogliere a’ vostri prieghi». I valenti uomini risposon ch’eran contenti, sol che esso si recasse a prender moglie. Erano a Gualtieri buona pezza piaciuti i costumi d’una povera giovinetta che d’una villa vicina a casa sua era, e parendogli bella assai estimò che con costei dovesse potere aver vita assai consolata. E per ciò, senza più avanti cercare, costei propose di volere sposare: e fattosi il padre chiamare, con lui, che poverissimo era, si convenne di torla per moglie. Fatto questo, fece Gualtieri tutti i suoi amici della contrada adunare e disse loro: «Amici miei, egli v’è piaciuto e piace che io mi disponga a tor moglie, e io mi vi son disposto più per compiacere a voi che per disiderio che io di moglie avessi. Voi sapete quello che voi mi prometteste, cioè d’esser contenti e d’onorar come donna qualunque quella fosse che io togliessi; e per ciò venuto è il tempo che io sono per servare a voi la promessa e che io voglio che voi a me la serviate. Io ho trovata una giovane secondo il cuor mio assai presso di qui, la quale io intendo di tor per moglie e di menarlami fra qui e pochi dì a casa; e per ciò pensate come la festa delle nozze sia bella e come voi onorevolmente ricever la possiate, acciò che io mi possa della vostra promession chiamar contento come voi della mia vi potrete chiamare». I buoni uomini lieti tutti risposero ciò piacer loro e che, fosse chi volesse, essi l’avrebber per donna e onorerebbonla in tutte cose sì come donna; e appresso questo tutti si misero in assetto di far bella e grande e lieta festa, e il simigliante fece Gualtieri. […] E venuto il dì che alle nozze predetto avea, Gualtieri in su la mezza terza montò a cavallo, e ciascuno altro che a onorarlo era venuto; e ogni cosa oportuna avendo disposta, disse: «Signori, tempo è d’andare per la novella sposa»; e messosi in via con tutta la compagnia sua, pervennero alla villetta. […]

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Allora Gualtieri, smontato e comandato a ogni uom che l’aspettasse, solo se n’entrò nella povera casa, dove trovò il padre di lei, che avea nome Giannucole, e dissegli: «Io sono venuto a sposar la Griselda, ma prima da lei voglio sapere alcuna cosa in tua presenza»; e domandolla se ella sempre, togliendola egli per moglie, s’ingegnerebbe di compiacergli e di niuna cosa che egli dicesse o facesse non turbarsi, e se ella sarebbe obediente e simili altre cose assai, delle quali ella a tutte rispose di sì. Allora Gualtieri, presala per mano, la menò fuori e in presenza di tutta la sua compagnia e d’ogn’altra persona la fece spogliare ignuda: e fattisi quegli vestimenti che fatti aveva fare, prestamente la fece vestire e calzare e sopra i suoi capelli, così scarmigliati come erano, le fece mettere una corona; e appresso questo, maravigliandosi ogn’uomo di questa cosa, disse: «Signori, costei è colei la quale io intendo che mia moglie sia, dove ella me voglia per marito»; e poi a lei rivolto, che di se medesima vergognosa e sospesa stava, le disse: «Griselda, vuoimi tu per tuo marito?». A cui ella rispose: «Signor mio, sì». E egli disse: «E io voglio te per mia moglie»; e in presenza di tutti la sposò; e fattala sopra un pallafren montare, orrevolmente accompagnata a casa la si menò. Quivi furon le nozze belle e grandi e la festa non altramenti che se presa avesse la figliuola del re di Francia. La giovane sposa parve che co’ vestimenti insieme l’animo e’ costumi mutasse. Ella era, come già dicemmo, di persona e di viso bella: e così come bella era, divenne tanto avvenevole, tanto piacevole e tanto costumata, che non figliuola di Giannucole e guardiana di pecore pareva stata ma d’alcun nobile signore, di che ella faceva maravigliare ogn’uom che prima conosciuta l’avea; e oltre a questo era tanto obediente al marito e tanto servente, che egli si teneva il più contento e il più appagato uomo del mondo. E similmente verso i subditi del marito era tanto graziosa e tanto benigna, che niun ve ne era che più che sé non l’amasse e che non l’onorasse di grado, tutti per lo suo bene e per lo suo stato e per lo suo essaltamento pregando, dicendo, dove dir soleano Gualtieri aver fatto come poco savio d’averla per moglie presa, che egli era il più savio e il più avveduto uomo che al mondo fosse, per ciò che niuno altro che egli avrebbe mai potuta conoscere l’alta vertù di costei nascosa sotto i poveri panni e sotto l’abito villesco. E in brieve non solamente nel suo marchesato ma per tutto, anzi che gran tempo fosse passato, seppe ella sì fare, che ella fece ragionare del suo valore e del suo bene adoperare, e in contrario rivolgere, se alcuna cosa detta s’era contro al marito per lei quando sposata l’avea. Ella non fu guari con Gualtieri dimorata che ella ingravidò, e al tempo partorì una fanciulla, di che Gualtieri fece gran festa. Ma poco appresso, entratogli un nuovo pensier nell’animo, cioè di volere con lunga esperienzia e con cose intollerabili provare la pazienzia di lei, e’ primieramente la punse con parole, mostrandosi turbato e dicendo che i suoi uomini pessimamente si contentavano di lei per la sua bassa condizione e spezialmente poi che vedevano che ella portava figliuoli, e della figliuola che nata era tristissimi altro che mormorar non faceano. Le quali parole udendo la donna, senza mutar viso o buon proponimento in alcuno atto, disse: «Signor mio, fa di me quello che tu credi che più tuo onore o consolazion sia, ché io sarò di tutto contenta, sì come colei che conosco che io sono da men di loro e che io non era degna di questo onore al quale tu per tua cortesia mi recasti». Questa risposta fu molto cara a Gualtieri, conoscendo costei non essere in alcuna superbia levata per onore che egli o altri fatto l’avesse.

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Poco tempo appresso, avendo con parole generali detto alla moglie che i subditi non potevan patir quella fanciulla di lei nata, informato un suo famigliare, il mandò a lei, il quale con assai dolente viso le disse: «Madonna, se io non voglio morire, a me convien far quello che il mio signor mi comanda. Egli m’ha comandato che io prenda questa vostra figliuola e ch’io…» e non disse più. La donna, udendo le parole e vedendo il viso del famigliare e delle parole dette ricordandosi, comprese che a costui fosse imposto che egli l’uccidesse: per che prestamente presala della culla e basciatala e benedetola, come che gran noia nel cuor sentisse, senza mutar viso in braccio la pose al famigliare e dissegli: «Te’, fa compiutamente quello che il tuo e mio signore t’ha imposto, ma non la lasciar per modo che le bestie e gli uccelli la divorino, salvo se egli nol ti comandasse». Il famigliare, presa la fanciulla e fatto a Gualtier sentire ciò che detto aveva la donna, maravigliandosi egli della sua constanzia, lui con essa ne mandò a Bologna a una sua parente, pregandola che, senza mai dire cui figliuola si fosse, diligentemente allevasse e costumasse. Sopravenne appresso che la donna da capo ingravidò e al tempo debito partorì un figliuol maschio, il che carissimo fu a Gualtieri. […] Dopo non molti dì Gualtieri, in quella medesima maniera che mandato aveva per la figliuola, mandò per lo figliuolo: e similmente dimostrato d’averlo fatto uccidere, a nutricar nel mandò a Bologna, come la fanciulla aveva mandata; della qual cosa la donna né altro viso né altre parole fece che della fanciulla fatte avesse, di che Gualtieri si maravigliava forte e seco stesso affermava niuna altra femina questo poter fare che ella faceva; e se non fosse che carnalissima de’ figliuoli, mentre gli piacea, la vedea, lei avrebbe creduto ciò fare per più non curarsene, dove come savia lei farlo cognobbe. I subditi suoi, credendo che egli uccidere avesse fatti i figliuoli, il biasimavan forte e reputavanlo crudele uomo e alla donna avevan grandissima compassione. La quale con le donne, le quali con lei de’ figliuoli così morti si condoleano, mai altro non disse se non che quello ne piaceva a lei che a colui che generati gli avea. Ma essendo più anni passati dopo la natività della fanciulla, parendo tempo a Gualtieri di fare l’ultima pruova della sofferenza di costei, con molti de’ suoi disse che per niuna guisa più sofferir poteva d’aver per moglie Griselda e che egli cognosceva che male e giovenilmente aveva fatto quando l’aveva presa, e per ciò a suo potere voleva procacciar col Papa che con lui dispensasse che un’altra donna prender potesse e lasciar Griselda; di che egli da assai buoni uomini fu molto ripreso; a che nulla altro rispose se non che conveniva che così fosse. La donna, sentendo queste cose e parendole dovere sperare di ritornare a casa del padre e forse a guardar le pecore come altra volta aveva fatto e vedere a un’altra donna tener colui al quale ella voleva tutto il suo bene, forte in se medesima si dolea; ma pur, come l’altre ingiurie della fortuna aveva sostenute, così con fermo viso si dispose a questa dover sostenere. Non dopo molto tempo Gualtieri fece venire sue lettere contrafatte da Roma e fece veduto a’ suoi subditi il Papa per quelle aver seco dispensato di poter torre altra moglie e lasciar Griselda; per che, fattalasi venir dinanzi, in presenzia di molti le disse: «Donna, per concession fattami dal Papa io posso altra donna pigliare e lasciar te». […] La donna, udendo queste parole, non senza grandissima fatica, oltre alla natura delle femine, ritenne le lagrime e rispose: «Signor mio, io conobbi sempre la mia bassa condizione alla vostra nobilità in alcun modo non convenirsi, e quello che io sta-

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Capitolo III

ta son con voi da Dio e da voi il riconoscea, né mai, come donatolmi, mio il feci o tenni ma sempre l’ebbi come prestatomi; piacevi di rivolerlo, e a me dee piacere e piace di renderlovi: ecco il vostro anello col quale voi mi sposaste, prendetelo. Comandatemi che io quella dota me ne porti che io ci recai: alla qual cosa fare né a voi pagatore né a me borsa bisognerà né somiere, per ciò che di mente uscito non m’è che ignuda m’aveste; e se voi giudicate onesto che quel corpo nel quale io ho portati i figliuoli da voi generati sia da tutti veduto, io me n’andrò ignuda; ma io vi priego, in premio della mia virginità che io ci recai e non ne la porto, che almeno una sola camiscia sopra la dota mia vi piaccia che io portar ne possa». Gualtieri, che maggior voglia di piagnere aveva che d’altro, stando pur col viso duro, disse: «E tu una camiscia ne porta». Quanti dintorno v’erano il pregavano che egli una roba le donasse, ché non fosse veduta colei che sua moglie tredici anni o più era stata di casa sua così poveramente e così vituperosamente uscire, come era uscirne in camiscia; ma invano andarono i prieghi; di che la donna, in camiscia e scalza e senza alcuna cosa in capo, accomandatigli a Dio, gli uscì di casa e al padre se ne tornò con lagrime e con pianto di tutti coloro che la videro. […] Come Gualtieri questo ebbe fatto, così fece veduto a’ suoi che presa aveva una figliuola d’uno de’ conti da Panago; e faccendo fare l’apresto grande per le nozze mandò per la Griselda che a lui venisse; alla quale venuta disse: «Io meno questa donna la quale io ho nuovamente tolta e intendo in questa sua prima venuta d’onorarla; e tu sai che io non ho in casa donne che mi sappiano acconciar le camere né fare molte cose che a così fatta festa si richeggiono: e per ciò tu, che meglio che altra persona queste cose di casa sai, metti in ordine quello che da far ci è, e quelle donne fa invitar che ti pare e ricevile come se donna di qui fossi: poi, fatte le nozze, te ne potrai a casa tua tornare». Come che queste parole fossero tutte coltella al cuor di Griselda, come a colei che non aveva così potuto por giù l’amore che ella gli portava come fatto aveva la buona fortuna, rispose: «Signor mio, io son presta e apparecchiata». […] E appresso questo, fatto da parte di Gualtieri invitar tutte le donne della contrada, cominciò a attender la festa; e venuto il giorno delle nozze, come che i panni avesse poveri indosso, con animo e costume donnesco tutte le donne che a quelle vennero, e con lieto viso, ricevette. Gualtieri, il quale diligentemente aveva i figliuoli fatti allevare in Bologna alla sua parente che maritata era in casa de’ conti da Panago, essendo già la fanciulla d’età di dodici anni la più bella cosa che mai si vedesse (e il fanciullo era di sei), avea mandato a Bologna al parente suo pregandol che gli piacesse di dovere con questa sua figliuola e col figliuolo venire a Sanluzzo e ordinare di menar bella e onorevole compagnia con seco e di dire a tutti che costei per sua mogliere gli menasse, senza manifestare alcuna cosa a alcuno chi ella si fosse altramenti. Il gentile uomo, fatto secondo che il marchese il pregava, entrato in cammino dopo alquanti dì con la fanciulla e col fratello e con nobile compagnia in su l’ora del desinare giunse a Sanluzzo, dove tutti i paesani e molti altri vicini da torno trovò che attendevan questa novella sposa di Gualtieri. La quale dalle donne ricevuta e nella sala dove erano messe le tavole venuta, Griselda, così come era, le si fece lietamente incontro dicendo: «Ben venga la mia donna». […] La fanciulla era guardata da ogn’uomo, e ciascun diceva che Gualtieri aveva fatto buon cambio; ma intra gli altri Griselda la lodava molto, e lei e il suo fratellino. Gualtieri, al qual pareva pienamente aver veduto quantunque disiderava della pa-

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zienza della sua donna, […] in presenzia d’ogn’uomo sorridendo le disse: «Che ti par della nostra sposa?». «Signor mio», rispose Griselda, «a me ne par molto bene; e se così è savia come ella è bella, che ’l credo, io non dubito punto che voi non dobbiate con lei vivere il più consolato signor del mondo; ma quanto posso vi priego che quelle punture, le quali all’altra, che vostra fu, già deste, non diate a questa, ché appena che io creda che ella le potesse sostenere, sì perché più giovane è e sì ancora perché in dilicatezze è allevata, ove colei in continue fatiche da piccolina era stata». Gualtieri, veggendo che ella fermamente credeva costei dovere esser sua moglie, né per ciò in alcuna cosa men che ben parlava, la si fece sedere allato e disse: «Griselda, tempo è omai che tu senta frutto della tua lunga pazienzia, e che coloro li quali me hanno reputato crudele e iniquo e bestiale conoscano che ciò che io faceva a antiveduto fine operava, volendoti insegnar d’esser moglie e a loro di saperla tenere, e a me partorire perpetua quiete mentre teco a vivere avessi: il che, quando venni a prender moglie, gran paura ebbi che non m’intervenisse, e per ciò, per prova pigliarne, in quanti modi tu sai ti punsi e trafissi. E però che io mai non mi sono accorto che in parola né in fatto dal mio piacere partita ti sii, parendo a me aver di te quella consolazione che io disiderava, intendo di rendere a te a un’ora ciò che io tra molte ti tolsi e con somma dolcezza le punture ristorare che io ti diedi. E per ciò con lieto animo prendi questa che tu mia sposa credi, e il suo fratello, per tuoi e miei figliuoli: essi sono quegli li quali tu e molti altri lungamente stimato avete che io crudelmente uccider facessi; e io sono il tuo marito, il quale sopra ogni altra cosa t’amo, credendomi poter dar vanto che niuno altro sia che, sì com’io, si possa di sua moglier contentare». E così detto l’abracciò e basciò: e con lei insieme, la qual d’allegrezza piagnea, levatosi n’andarono là dove la figliuola tutta stupefatta queste cose ascoltando sedea e, abbracciatala teneramente e il fratello altressì, lei e molti altri che quivi erano sgannarono. […] Il conte da Panago si tornò dopo alquanti dì a Bologna; e Gualtieri, tolto Giannucolo dal suo lavorio, come suocero il pose in istato, che egli onoratamente e con gran consolazione visse e finì la sua vecchiezza. E egli appresso, maritata altamente la sua figliuola, con Griselda, onorandola sempre quanto più si potea, lungamente e consolato visse. Che si potrà dir qui? se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti, come nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che d’avere sopra uomini signoria. Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso non solamente asciutto ma lieto sofferir le rigide e mai più non udite pruove da Gualtieri fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito d’essersi abbattuto a una che quando, fuor di casa, l’avesse fuori in camiscia cacciata, s’avesse sì a un altro fatto scuotere il pilliccione che riuscito ne fosse una bella roba. [Torino, UTET, 2012, Giornata decima, Novella Decima]

È però la nascita del romanzo che spinge gli autori a creare il personaggio con una caratterizzazione psicologica interiore più complessa e sfaccettata: la cosiddetta “epopea della classe borghese” richiedeva una tipologia di personaggio più duttile, più in movimento, più adattabile al corso degli eventi e, allo stesso tempo, più desideroso di costruirsi un proprio destino e più inserito nella collettività. Come già sottolineato acutamente da

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Hegel, la distinzione tra i caratteri eroici della letteratura del passato e i caratteri dei personaggi delle opere moderne, in particolare quelle romantiche, si basa su poche ma fondamentali componenti: mentre gli eroi classici rappresentano per lo più individualità universali, che sottostanno quasi unicamente alla propria legge e le cui azioni non sono soggette a «un giudizio e a un tribunale», i personaggi della letteratura moderna sono al contrario tanto più credibili quanto più sanno mettere in scena la scissione tra il piano dell’universale e il piano del particolare, fra la dimensione della legge e quella del soggetto umano. In sostanza, il nuovo personaggio moderno, che sia «eroe cercatore» o «eroe vittima» o «eroe di carattere» [Bachtin 2001; Propp 2012] diventa l’espressione dell’ambiente sociale di cui è figlio, e ne rappresenta vizi e virtù, pregi e difetti, giustizie e ingiustizie, positività e negatività.

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Victor Hugo I miserabili Jean Valjean apparteneva ad una povera famiglia di contadini della Brie. Da ragazzo non aveva imparato a leggere e, fatto uomo, era divenuto potatore a Faverolles; sua madre si chiamava Jeanne Mathieu e suo padre Jean Valjean o Vlajean ch’era probabilmente un soprannome, a contrazione di Voilà Jean (Ecco Giovanni). Jean Valjean era di carattere meditabondo, senz’esser triste, caratteristica degli animi affettuosi; però, tutto sommato, lo si poteva dire piuttosto pigro e insignificante, almeno all’apparenza. Aveva perduto il padre e la madre da piccino. La madre era morta per una febbre da latte mal curata e il padre, potatore come lui, s’era ammazzato, cadendo da un albero; ed a Jean era rimasta soltanto una sorella più anziana di lui, vedova con sette figli e figlie. Quella sorella aveva allevato Valjean e, fin che le era vissuto il marito, aveva dato alloggio e vitto al giovane fratello.Alla morte del marito, il maggiore dei sette figli aveva sette anni e il minore uno. Jean Valjean entrava allora nel venticinquesimo anno; sostituì il padre e soccorse a sua volta la sorella che l’aveva allevato, il tutto semplicemente, come un dovere, anzi con qualcosa di burbero da parte di Jean. In tal modo la sua gioventù si consumava in un lavoro faticoso e mal retribuito. […] La sera, rincasando stanco, mangiava la minestra senza dire una parola. La sorella, mamma Jeanne, gli levava spesso dalla scodella, mentre stava mangiando, il meglio del suo pasto, il pezzo di carne, la fetta di lardo, il cuore del cavolo, per darlo a qualcuno dei figli; ed egli, sempre mangiando, chino sulla tavola, colla testa quasi nella minestra e coi lunghi capelli che ricadevano intorno alla scodella e gli nascondevan gli occhi, aveva l’aria di non veder nulla e lasciava fare. […] Nella stagione della potatura egli guadagnava ventiquattro soldi al giorno, poi si collocava come mietitore, come manovale, come garzone bovaro, come uomo di fatica; faceva, insomma, quel che poteva. La sorella lavorava per conto suo; ma come fare, con sette ragazzi? Essi formavano un triste gruppo, che la miseria avvolse e strinse a poco a poco nelle sue spire.Avvenne che un inverno fu aspro e Jean non ebbe lavoro. La famiglia restò senza pane: sette fanciulli senza pane, proprio così. Una sera di domenica, Maubert Isabeau, fornaio sulla piazza della chiesa a Faverolles, si coricava, quando sentì un violento colpo nel-

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la vetrina a inferriata della bottega; accorse e fece in tempo a vedere un braccio che passava attraverso il foro praticato con un pugno nel vetro, attraverso l’inferriata. Il braccio afferrò un pane e lo portò via. Isabeau uscì in fretta; il ladro se la diede a gambe, ma l’altro lo rincorse e lo fermò. Era Jean Valjean; aveva buttato via il pane, ma gli sanguinava ancora il braccio. Questo accadeva nel 1795. Jean Valjean fu tradotto davanti ai tribunali del tempo «per furto notturno con scasso in una casa abitata»; egli possedeva un fucile di cui sapeva servirsi meglio di qualunque cacciatore del mondo ed era un po’ cacciatore di frodo, il che gli nocque. […] Jean Valjean fu dichiarato colpevole, poiché le disposizioni del codice erano formali. […] E Valjean fu condannato a cinque anni di galera. Il 22 aprile 1796 venne divulgata in Parigi la nuova della vittoria di Montenotte, riportata dal generale in capo dell’esercito d’Italia, che il messaggio del Direttorio ai Cinquecento, il 2 floreale dell’anno IV, chiama Buona-Parte. In quello stesso giorno una grande catena venne ferrata a Bicêtre e Jean Valjean ne fece parte; un vecchio carceriere della prigione, che oggi ha ottant’anni, si ricorda ancora perfettamente di quel disgraziato, che fu incatenato all’estremità della quarta fila, nell’angolo nord del cortile. Era seduto in terra come gli altri e pareva non comprendesse nulla della sua condizione, se non ch’era orribile; ed è pure probabile che, attraverso alle idee vaghe d’un pover’uomo affatto ignorante, egli vi scorgesse qualcosa d’eccessivo. Mentre ribadivano a forti colpi di mazza il chiodo del suo collare dietro la testa, egli piangeva, le lagrime lo soffocavano e gl’impedivano di parlare; riusciva soltanto a dire, di tanto in tanto: Ero potatore a Faverolles. Poi, sempre singhiozzando, alzava ed abbassava gradatamente la mano destra sette volte, come se toccasse di seguito sette diverse teste; e da quel gesto s’indovinava che ciò che aveva fatto, era per dar da mangiare e da vestire a sette bambini. Partì per Tolone, dove arrivò dopo un viaggio di ventisette giorni, su una carretta, colla catena al collo; laggiù, gli fu fatto indossare il camiciotto rosso.Tutto quello ch’era stato la sua vita si cancellò, perfino il suo nome; non fu nemmeno più Jean Valjean, ma il numero 24601. Che fu della sorella? E dei sette fanciulli? […] Lasciarono il paese; il campanile di quello ch’era stato il loro villaggio, il confine di quello ch’era stato il loro campo li dimenticò; Jean Valjean stesso, dopo alcuni anni di carcere, li dimenticò. In quel cuore, al posto della ferita di prima, ci fu una cicatrice, e fu tutto; a malapena, nel tempo che trascorse a Tolone, udì parlare una volta di sua sorella. […] Non ne intese parlare, mai più. Nulla che li riguardasse giunse più a lui; non li rivide, non li incontrò e noi, seguitando questa dolorosa storia, non li ritroveremo.Verso la fine del quarto anno, giunse il turno d’evasione di Jean Valjean; i suoi compagni l’aiutarono, come si usa in quel triste luogo, ed egli evase. Errò due giorni libero per i campi, se pure si chiama libertà l’essere inseguito, volgere la testa ad ogni istante, trasalire al minimo rumore e aver paura di tutto, del tetto che fuma, dell’uomo che passa, del cane che abbaia, del cavallo che galoppa, dell’ora che sta suonando, della notte, perché non ci si vede, del giorno perché ci si vede, della strada, del sentiero, del cespuglio, del sonno stesso. La sera del secondo giorno fu ripreso: non aveva né mangiato né dormito da trentasei ore. Il tribunale marittimo, per questo reato, lo condannò ad un’aggiunta di pena di tre anni, portando così la condanna ad otto anni. Al sesto anno, toccò ancora a lui d’evadere ed egli ne approfittò; ma non poté riuscir a fuggire perché, essendo mancato all’appello, venne sparato il cannone d’allarme e la notte una pattuglia di ronda lo trovò nascosto sotto la chiglia d’un vascello in costruzione. Egli resistette agli aguzzini che volevano impadronirsi di lui; evasione, dunque, e ribellione. Questo fatto, previsto dal codice speciale, fu puni-

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to con un inasprimento di cinque anni, due dei quali colla doppia catena, tredici anni, quindi. Il decimo anno il suo turno giunse nuovamente ed egli ne approfittò ancora. Il tentativo fallì ancora una volta e gli fruttò altri tre anni: e sono sedici. Finalmente, credo fosse nel tredicesimo anno, tentò un’ultima volta e riuscì soltanto a farsi riprendere dopo quattro ore d’assenza. Ebbe tre anni, per queste quattro ore: totale diciannove anni. Nell’ottobre del 1815 fu messo in libertà; era entrato laggiù nel 1796, per aver rotto un vetro e preso un pane. […] Jean Valjean era entrato nella galera singhiozzando e fremendo, ne uscì impassibile; era entrato in preda alla disperazione, ne uscì cupo. Che era accaduto in quell’anima? […] Era un ignorante, abbiam detto; ma non uno stupido e la luce naturale splendeva in lui. La disgrazia, che ha anch’essa la sua luminosità, aumentò a poco a poco quella poca luce che v’era nel suo spirito; sotto il bastone, sotto la catena, nella cella, alla fatica, sotto l’ardente sole del carcere, sul letto di tavole del forzato egli si ripiegò nella sua coscienza e rifletté. Si costituì tribunale e incominciò col giudicare se stesso. Riconobbe di non essere un innocente ingiustamente punito e confessò a se stesso d’aver commesso un atto eccessivo e biasimevole; si disse che forse, quel pane non gli sarebbe stato negato se l’avesse chiesto e che in ogni caso sarebbe stato meglio aspettarlo o dalla compassione o dal lavoro, che non è per nulla una ragione a cui non si possa replicare il dire: Si può aspettare, quando si ha fame? e che del resto è rarissimo che si muoia letteralmente di fame e che l’uomo, poi, disgraziatamente o fortunatamente, è fatto in guisa, che può soffrire a lungo e molto, tanto dal lato morale che fisico, senza morire; che ci voleva pazienza, dunque, perché così sarebbe anche stato meglio per quei poveri piccini; che era un gesto di pazzia, per lui, povero meschinello, prendere violentemente pel collo la società intera e immaginarsi di uscire dalla miseria attraverso il furto; che, in ogni caso, era una brutta porta, per uscir dalla miseria, quella per cui si entra nell’infamia; e concluse, finalmente, che aveva torto. Ma poi si chiese: Era il solo che avesse avuto torto nella sua fatale storia? E, prima di tutto, non era cosa grave che a lui, lavoratore, fosse mancato il lavoro e che a lui, laborioso, fosse mancato il pane? Eppoi, una volta commesso e confessato il fatto, il castigo non era forse stato feroce ed eccessivo? Egli si chiese ancora se non v’era stato maggior abuso da parte della legge nella pena, di quanto non ci fosse stato abuso da parte del colpevole nella colpa; se non v’era eccesso di peso in uno dei piatti della bilancia, in quello dell’espiazione: se il sovrappiù della pena non finiva per cancellare il delitto e portare al solo risultato di capovolgere la situazione, di sostituire alla colpa del delinquente quella della repressione, di fare del colpevole la vittima, del debitore il creditore e di mettere in definitiva il diritto dalla parte di quello stesso che l’aveva violato. Si rivolse la domanda se codesta pena complicata dai successivi inasprimenti per i tentativi d’evasione, non finisse per essere una specie di sopruso del più forte sul più debole, un reato della società sull’individuo, un delitto che si rinnova quotidianamente, una colpa che durava da diciannove anni. E si chiese inoltre se la società umana potesse avere il diritto di far ugualmente subire ai suoi membri, nell’un caso la sua irragionevole imprevidenza, nell’altro la sua previdenza spietata, e di ghermire per sempre un poveretto, fra una deficienza e un eccesso; deficienza di lavoro, eccesso di castigo. Si chiese se non fosse esorbitante che la società trattasse così per l’appunto quei suoi membri peggio dotati nella ripartizione dei beni fatta dal caso, e per conseguenza più degni d’essere risparmiati. Poste e risolute queste domande, egli giudicò la società e la condannò: la condannò al suo odio, la rese responsabile della sorte che subiva e si disse che forse, un giorno, non avreb-

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be esitato a chiedergliene conto. Poi dichiarò a se stesso che non v’era equilibrio fra il danno ch’egli aveva prodotto e quello che veniva fatto a lui, e concluse finalmente che il suo castigo non era, in verità, un’ingiustizia, ma senza dubbio un’iniquità. La collera può essere pazza e assurda e si può essere irritati a torto; ma si è indignati solo quando, in fondo, si ha ragione per qualche aspetto. Jean Valjean si sentiva indignato. E poi, la società umana gli aveva fatto soltanto male. Egli non aveva mai scorto di essa se non quel volto corrucciato che si chiama la sua giustizia, e che mostra a coloro ch’essa colpisce; gli uomini l’avevano toccato solo per batterlo ed ogni contatto con essi era stato una percossa; né mai, dopo la sua infanzia, dopo sua madre, sua sorella, aveva incontrato una parola amica e uno sguardo benevolo. Di sofferenza in sofferenza giunse alla conclusione che la vita è una guerra e che in questa egli era il vinto; aveva per unica arma l’odio, e decise di affilarla in carcere e di portarla seco uscendone. […] Per riassumere, concludendo, quel che può essere il risultato positivo in tutto ciò che abbiamo accennato, ci limiteremo a constatare che in diciannove anni Jean Valjean, l’inoffensivo potatore di Faverolles, il formidabile galeotto di Tolone, era diventato capace, grazie al modo in cui l’aveva forgiato il carcere, di due specie di cattive azioni: prima di tutto d’una azione irriflessiva, stordita e affatto istintiva come una sorta di rappresaglia per il male sofferto; in secondo luogo d’una cattiva azione grave e seria, dibattuta con coscienza e meditata colle false idee che una simile sciagura può fornire. Le sue premeditazioni passavano per le tre fasi successive che solo le nature d’una certa tempra possono percorrere: ragionamento, volontà, ostinazione. Aveva per moventi la consueta indignazione, l’amarezza dell’animo, il profondo sentimento delle iniquità subite e una reazione, anche eventualmente contro i buoni e gli innocenti ed i giusti.Tanto il punto di partenza quanto quello d’arrivo di tutti i suoi pensieri era l’odio per la legge umana, quello odio che, se non è arrestato nel suo sviluppo da qualche incidente provvidenziale, diventa entro un dato tempo odio contro la società, poi contro il genere umano, poi contro la creazione, e si traduce in un vago, incessante e brutale desiderio di nuocere, non importa a chi, purché sia un essere vivente. Come si vede, non senza ragione il passaporto di Jean Valjean lo qualificava uomo pericolosissimo. D’anno in anno, quell’anima s’era disseccata sempre più, lentamente e fatalmente. Ora, a cuore secco, occhio secco; all’uscita dal carcere, erano diciannove anni che non aveva versato una lagrima. [(1862), Milano, Mondadori, 2011, Parte prima. Libro secondo. IV Jean Valjean]

Lo sviluppo della psicologia e dell’antropologia umana, la nascita della psicanalisi, le correnti irrazionalistiche portano a un’ulteriore modificazione nella costruzione del personaggio che così diventa colui che non ha un’essenza fissa e frequentemente neppure un’identità sociale, ma che si trasforma, si costruisce e si modella (persino si annulla) durante la storia, modificandosi al suo interno senza però necessariamente trovare o ritrovare la propria individualità: è, insomma, l’antieroe contemporaneo, in crisi con se stesso e con il mondo che lo circonda, quasi sempre inserito dentro una narrazione costruita su “fatti piccoli, insignificanti e casuali” per dirla con Erich Auerbach [2010], caratterizzato molto spesso da elementi inquietanti e/o negativi, dal senso di solitudine esistenziale perché “inetto” nel vivere i rapporti umani e sentimentali, frantumato in numerose

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personalità e segnato da forme di malessere e depressione che lo spingono a essere un «personnage sans personne» (secondo la definizione di Jean-Yves Tadié, il famoso studioso di Proust), a non sentirsi più parte di un tutto ma solo una piccola “particella elementare” per usare il titolo del romanzo forse più famoso di Michel Houellebecq (Le particelle elementari, 1999), incapace com’è di trovare e dare un senso alla vita che gli sfugge e che non riesce a capire o a spiegare neppure attraverso le formule della matematica e della scienza. Questo nuovo antieroe si rivela sotto diverse forme, ognuna delle quali manifestazione della complessità del mondo non più rappresentabile come un insieme organico e compatto ma regolato da un nuovo e più inquietante “relativismo”. È l’uomo-insetto Gregor Samsa delle Metamorfosi (1912) di Franz Kafka, simbolo estremo del “diverso”, tragicamente emarginato e condannato tanto dalla società quanto dalla famiglia. È l’Ulrich Anders dell’Uomo senza qualità (1930-1942) di Robert Musil, un personaggio che, pur dotato di numerose qualità interiori, resta indietro nel tempo, si aggrappa a quell’immobilismo che lo paralizza, non è capace di darsi all’azione e “attende” non si sa bene cosa, perché in crisi con se stesso e con gli altri come è in crisi la società in cui vive, l’Austria negli anni immediatamente precedenti allo scoppio della prima guerra mondiale. È lo Zeno Cosini della Coscienza di Zeno di Italo Svevo che fa della malattia, quella malattia dell’animo e della mente curabile dalla psicanalisi se il protagonista medesimo e il suo creatore ci credessero seriamente, il motore dei suoi comportamenti e atteggiamenti verso gli altri, una malattia che è insieme debolezza e forza, inettitudine e attitudine alla vita in una graduale presa di “coscienza” che consisterà proprio nella consapevole accettazione dei propri limiti, delle proprie debolezze e della malattia stessa, che è pure la malattia della società, una società fatta di “sani” e di “normali”, i quali, però, proprio a causa di questa ipotetica “sanità”, tendono a rimanere cristallizzati nel loro stato e a non accettare gli inevitabili cambiamenti che l’esistenza stessa impone: l’inettitudine di Zeno, la sua apparente incapacità di rapportarsi con il mondo esterno si configurano in verità come una condizione aperta, in grado di ridurre la “sanità” a qualcosa di limitante e la “malattia”, al contrario, all’unico strumento possibile per potersi muovere positivamente nel mondo. È il protagonista di Uno, nessuno e centomila di Pirandello, il già nominato Vitangelo Moscarda [cap. I, parr. 1 e 2, 12 e 22-23; e par. 3, 167-168] che, non potendosi riconoscere nei tanti e diversi Moscarda attribuitigli da ogni suo compaesano, compresa la moglie, e non potendo comunque essere quell’uno che desidererebbe, sceglie di non essere più nessuno, di privarsi di ogni cosa rifugiandosi in un ospizio e di perdersi in ciò che lo circonda alla ricerca di una identità che nel mondo degli uomini non è mai raggiungibile, e quindi di non sapere come sia possibile “concludere” la propria esistenza.

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Luigi Pirandello Uno, nessuno e centomila Capitolo Ottavo, IV. Non conclude Anna Rosa doveva essere assolta; ma io credo che in parte la sua assoluzione fu anche dovuta all’ilarità che si diffuse in tutta la sala del tribunale, allorché, chiamato a fare la mia deposizione, mi videro comparire col berretto, gli zoccoli e il camiciotto turchino dell’ospizio. Non mi sono più guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato così diverso da quello di prima, che avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse. Nessun nome. Nessun ricordo oggi del nome di jeri; del nome d’oggi, domani. Se il nome è la cosa; se un nome è in noi il concetto d’ogni cosa posta fuori di noi; e senza nome non si ha il concetto, e la cosa resta in noi come cieca, non distinta e non definita; ebbene, questo che portai tra gli uomini ciascuno lo incida, epigrafe funeraria, sulla fronte di quella immagine con cui gli apparvi, e la lasci in pace non ne parli più. Non è altro che questo, epigrafe funeraria, un nome. Conviene ai morti.A chi ha concluso. Io sono vivo e non concludo. La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro trèmulo di foglie nuove. Sono quest’albero.Albero, nuvola; domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo.Tutto fuori, vagabondo. L’ospizio sorge in campagna, in un luogo amenissimo. Io esco ogni mattina, all’alba, perché ora voglio serbare lo spirito così fresco d’alba, con tutte le cose come appena si scoprono che sanno ancora del crudo della notte, prima che il sole ne secchi il respiro umido e le abbagli. Quelle nubi d’acqua là pese plumbee ammassate sui monti lividi, che fanno parere più larga e chiara nella grana d’ombra ancora notturna, quella verde piaga di cielo. E qua questi fili d’erba, teneri d’acqua anch’essi, freschezza viva delle prode. E quell’asinello rimasto al sereno tutta la notte, che ora guarda con occhi appannati e sbruffa in questo silenzio che gli è tanto vicino e a mano a mano pare gli s’allontani cominciando, ma senza stupore a schiarirglisi attorno, con la luce che dilaga appena sulle campagne deserte e attonite. E queste carraie qua, tra siepi nere e muricce screpolate, che su lo strazio dei loro solchi ancora stanno e non vanno. E l’aria è nuova. E tutto, attimo per attimo, è com’è, che s’avviva per apparire.Volto subito gli occhi per non vedere più nulla fermarsi nella sua apparenza e morire. Così soltanto io posso vivere, ormai. Rinascere attimo per attimo. Impedire che il pensiero si metta in me di nuovo a lavorare, e dentro mi rifaccia il vuoto delle vane costruzioni. La città è lontana. Me ne giunge, a volte, nella calma del vespro, il suono delle campane. Ma ora quelle campane le odo non più dentro di me, ma fuori, per sé sonare, che forse ne fremono di gioja nella loro cavità ronzante,in un bel cielo azzurro pieno di sole caldo tra lo stridio delle rondini o nel vento nuvoloso, pesanti e così alte sui campanili aerei. Pensa alla morte, a pregare. C’è pure chi ha ancora questo bisogno, e se ne fanno voce le campane. Io non l’ho più questo bisogno, perché muoio ogni attimo, io, e rinasco nuovo e senza ricordi: vivo e intero, non più in me, ma in ogni cosa fuori. [Milano, BUR, 2012]

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Che sia classicamente o modernamente inteso, se un personaggio è ben delineato sembra quasi godere di una vita propria e diventare simile a una “persona”: si ricordi, a questo proposito, il caso del processo intentato contro Madame Bovary proprio come se la sua protagonista Emma fosse stata “viva” e non un personaggio inventato, accusata di offendere con il suo comportamento e le sue azioni «la morale pubblica e la religione» e di insidiare con un esempio sciagurato «le deboli giovinette, donne e madri», processo poi vinto da Flaubert e che, anzi, avrebbe contribuito all’enorme successo futuro del romanzo. La caratterizzazione del personaggio tuttavia non risulta sempre uguale tanto che è possibile distinguere: 1. Personaggio archetipo  è il personaggio originario su cui è possibile modellare una serie di altri personaggi che ne conservano alcune caratteristiche o su cui è possibile dare forma a concetti astratti e mentali: è il caso di Edipo e di Elettra, le cui vicende (il primo uccide a sua insaputa il padre Laio e altrettanto inconsapevolmente sposa la madre Giocasta; la seconda si vendica della madre Clitemnestra scegliendo consapevolmente di ucciderla dopo aver scoperto che questa aveva ordinato la morte del padre Agamennone) sono alla base dei due “complessi”, che da loro appunto prendono il nome, studiati dalla teoria psicanalitica di Sigmund Freud e poi di Carl Gustav Jung; oppure è il caso dell’Ulisse omerico che trasmigra dall’Iliade all’Odissea e che poi verrà riutilizzato e rivisitato prima da Dante nel XXVI canto dell’Inferno come “consigliere fraudolento” e poi da Joyce come “eroe” della quotidianità o, meglio, come antieroe della vita moderna. 2. Personaggio tipo (o stereotipo)  è il personaggio che rappresenta e interpreta ripetutamente una ben precisa caratteristica e tipologia umana (astuzia, dabbenaggine, petulanza, coraggio, cortesia,…; la donna fatale, l’innamorato, il seduttore, lo spaccone,…): si pensi alle maschere della commedia dell’arte, oppure al cavaliere senza macchia e senza paura dell’epoca medievale e delle tante chansons de geste, o anche al poliziotto buono e al poliziotto cattivo dei romanzi gialli. 3. Personaggio statico (o disegnato o piatto od opaco o flat character)  è il personaggio costruito intorno a un’unica idea o intorno a pochi tratti e poche proprietà e che, pertanto, finisce per risultare nel corso della narrazione sempre uguale a se stesso, incapace cioè di particolari modificazioni interiori ed esteriori: questo personaggio richiede un minimo sforzo di attenzione al lettore perché durante la narrazione non genera sorprese e risulta riconoscibile ad ogni scena essendo sostanzialmente prevedibile nelle sue azioni, nei suoi gesti e nel suo modo di parlare e di offrirsi agli altri personaggi. Si pensi a Sherlock Holmes: il lettore sa cosa aspettarsi da lui e può così tentare di prevederne le mosse, seguendone i ragionamenti e le ipotesi dopo che il suo nuovo compagno di casa, il dottor Watson, ha elencato conoscenze e attributi della sua particolarissima capacità deduttiva («Letteratura: zero. Filosofia: zero.Astronomia: zero. Po-

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Gli attori della narrazione

litica: scarse. Botanica: variabili. Conosce a fondo caratteristiche e applicazioni della belladonna, dell’oppio e dei veleni in generale. Geologia: pratiche, ma limitate. Riconosce a prima vista le diverse qualità di terra Chimica: profonde. Anatomia: esatte, ma poco sistematiche. Letteratura sensazionale: illimitate.A quanto pare, conosce i dettagli di tutti gli orrori perpetrati nel nostro secolo. Suona bene il violino. È abilissimo nel pugilato e nella scherma. È dotato di buone nozioni pratiche in fatto di legge anglosassone»). 4. Personaggio dinamico (o modellato o a tutto tondo o round character)  è il vero personaggio capace di stagliarsi dalle pagine di una narrazione, che possiede il senso della vita, che è in grado di sorprendere e lasciare una grande memoria di sé; è insomma il personaggio-persona che richiede una notevole attenzione da parte del lettore che deve seguire non solo l’evoluzione della storia ma anche l’evoluzione del personaggio medesimo e del suo modo di essere e di comportarsi all’interno della storia stessa. Questo genere di personaggio è più complesso e perciò più credibile perché non risulta sempre uguale a se stesso, può piacere o non piacere: il lettore cioè può entrare o non entrare in sintonia con lui, e quindi immedesimarsi con i suoi sentimenti e con le sue azioni oppure rimanerne completamente estraneo. Gli esempi, come si può ben immaginare, sarebbero così tanti che non basterebbero libri interi dal momento che tutti i personaggi dei maggiori romanzi dell’Ottocento e del Novecento potrebbero essere scelti. Come al solito, però, mi piace citarne almeno uno tra quelli a me più cari.

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Ippolito Nievo Le confessioni d’un italiano La Pisana mostrava fin da fanciulletta una rara intelligenza; ma questa le si veniva viziando fin d’allora fra le frivolezze e le vanità cui era lasciata in balìa. La moglie del capitano Sandracca, la signora Veronica, che le faceva da maestra, durava una bella pazienza a raccogliere per un quarto d’ora il suo cervellino nella riga che le toccava compitare. Sicura d’apprendere tutto con somma agevolezza, la ragazzina studiava il primo pezzo della lezione e lasciava il resto; ma così, anziché fortificarsi la facilità dell’imparare, si generava in lei quella di dimenticare. Le lodi talvolta la spronavano a mostrarsene degna; ma poco stante qualche capriccio le facea porre da un canto questa breve ambizioncella.Avvezza a condursi colla sola regola del proprio talento, la voleva cambiare divertimenti ed occupazioni ogni tratto; non sapendo che questo è il vero mezzo per annoiarsi di tutto, per non trovar più né requie né contento nella vita, e per finire col non sentirsi mai felici appunto per volerlo esser troppo e in cento modi diversi. La scienza della felicità è l’arte della moderazione; ma la piccina non potea vedere tant’oltre, e sbizzarriva così, poiché gliene davano ampia facoltà. Superba di comandare e d’esser la prima in tutto, e di veder le cose ordinate a modo proprio, non è strano ch’ella cercasse accomodarle colla bugia, quando non le conosceva tali da indurre negli altri l’opinione altissi-

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ma che la voleva far concepire di sé. Siccome poi tutti la adulavano e fingevano crederle, ella pigliava sul serio cotal dabbenaggine; e neppur si curava di render verisimili le sue fandonie. Soventi accadeva che per dar ragione di una ne dovesse inventar due; e quattro poi per portar avanti queste due, e così via di seguito fino all’infinito. Ma la era d’una fecondità e d’una prontezza prodigiosa senza mai scomporsi o mostrar timore che altri non credesse o curarsi degl’impicci che le potessero derivare dalla sua fintaggine. Credo la si avvezzasse tanto a far la comica che a poco a poco non sapea nemmen discernere in se stessa il vero dall’immaginato. Io poi, costretto sovente a tenerle il sacco, lo teneva con tanto malgarbo che si scopriva tosto il marrone; ma mai ch’ella perciò mostrasse dispetto o rincrescimento: sembrava che fosse già disposta a non aspettarsi di meglio da me, o che si credesse tanto superiore da non doversi le sue asserzioni porre in dubbio per la contraria testimonianza di un terzo. Gli è vero che i castighi toccavano tutti a me; e che almeno per questo lato la sua imperturbabilità non aveva nulla di meritorio. Mi toccavano, pur troppo, frequenti e salati, perché i miei spassi giornalieri con lei erano una continua infrazione ai precetti della Contessa, e senza sindacare di chi fosse il torto, la colpa punita prima era la mia perché la più patente e recidiva. D’altronde nessuno avrebbe osato castigare la Contessina all’infuori di sua madre; e costei per solito non se ne dava pensiero più che d’una figliuola altrui. Per la Pisana c’era la donna dei ragazzi; e fino a che non l’avesse dieci anni la vigilanza materna si dovea limitare a pagar due ducati il mese alla Faustina. Dai dieci anni ai venti il convento, e da venti in su la Provvidenza, ecco la maniera d’educazione che secondo la Contessa dovea bastare per isdebitarla di ogni dovere verso la prole femminile. […] Intanto si diventava grandicelli, e i temperamenti si profilavano meglio, e i capricci prendevano già figura di passioni, e la mente si destava a ragionarvi sopra. Già l’orizzonte de’ miei desiderii s’era allargato, poiché la cucina, il cortile, la fienaia, il ponte, e la piazza non mi tenevano più vece d’universo. Io voleva vedere cosa c’era più in là, e abbandonato a me stesso, ogni passo che arrischiava fuori della solita cerchia mi procurava quelle stesse gioie ch’ebbe a provar Colombo nella scoperta dell’America. La mattina mi alzava per tempissimo e mentre la Faustina era occupata nei fatti di casa o giù nelle camere della padrona, sguisciava via colla Pisana nell’orto o in riva alla peschiera. Quelle erano le ore nostre più beate, nelle quali la birboncella s’infastidiva meno e ricompensava più amichevolmente la mia servitù. […] Non dirò peraltro che la Pisana mutasse, anche standosi da sola con me, le sue maniere di moversi e di parlare. M’accorgeva benissimo che ella apprezzava più assai la mia ammirazione che l’amicizia o la confidenza; e che per quanto ristretto ed abituale, io non cessava di essere per le sue pantomime una specie di pubblico.Tuttavia doveva scrivere che me n’accorsi poi, non che me n’accorgeva allora.Allora io godeva di quei soavi intervalli, stimando anzi che quella Pisana così premurosa di essermi gradita, fosse la vera; e fossero effetto della trista compagnia i cambiamenti che succedevano nelle sue maniere durante la giornata. [Milano BUR, 2011, Capitolo secondo]

Gli elementi, gli indizi, che un autore può disseminare nella narrazione per far comprendere le peculiarità di un personaggio possono essere svariati ma sostanzialmente si possono sintetizzare in:

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1) Essere, ossia tutto quanto ha a che fare con le sue attribuzioni esteriori come la descrizione fisica, i gesti, le manie, i tic, ma persino l’abbigliamento, gli oggetti che lo circondano, gli elementi dello spazio e dell’ambiente in cui agisce e vive; e il suo statuto biografico, cioè la sua storia, il suo nome, la sua condizione sociale. Si prendano i casi, così distanti tra loro da diventare proprio per questo paradigmatici, di Lucia Mondella e del giovane Törless: i nomi sono già una chiara indicazione del loro carattere o di come si muoveranno nella storia. Lucia non solo porta il nome di una delle sette donne menzionate nel Canone Romano (vergine e martire, custodì in vita la fiaccola di Cristo e le fu concesso dopo la morte di possedere la luce che non conosce tramonto), un nome proprio che, derivando dal latino lux, significa luminosa e splendente, ma porta pure un cognome che ha a che fare con il latino mondare, detergere, purgare: chi meglio di lei poteva, dunque, incarnare il credo cristiano di Manzoni? E chi meglio di lei poteva spingere sulla strada del cambiamento, della purgazione dei propri peccati, l’Innominato? I turbamenti del giovane Törless (1906) di Robert Musil, vero e proprio Bildungsromance, mette appunto in scena la formazione del protagonista proveniente da un’agiata famiglia e mandato a studiare in un esclusivo collegio militare dove vivrà esperienze forti, molto spesso al limite della crudeltà: il suo cognome, che etimologicamente significa “senza porta”, sta ad indicare tanto il suo carattere scontroso e riservato, si potrebbe dire blindato o murato, tale da non permettere quasi a nessuno, genitori inclusi, di penetrarlo (l’unico che riuscirà a scalfire, almeno in parte, questa sua introversione sarà il compagno di collegio Basini) quanto la sua incapacità di aprirsi alla conoscenza del mondo esterno perché ancora tutto chiuso nella sua giovinezza. Oltre a ciò non si può dimenticare che l’intera narrazione è animata da porte e porticine che talora nascondono luoghi oscuri e minacciosi (le violenze subite da parte dei compagni di collegio) e talora si aprono su universi nuovi tutti da esplorare (la sessualità e l’amicizia). Se, quindi, un nome può permettere al lettore di avere una prima chiave interpretativa di quel personaggio e, addirittura, della storia nel suo complesso, non è difficile immaginare quanto un ritratto fisico può a sua volta contribuire a rendere manifesta non solo la fisionomia esteriore di un determinato personaggio (si pensi a quanta importanza ha rivestito la fisiognomica negli studi sul carattere degli uomini e di conseguenza sulla formazione del personaggio) ma anche il suo ruolo dentro la storia stessa. Nel suo primo romanzo, L’esclusa (1901), Pirandello per introdurci nell’ambiente ottuso e maldicente dei compaesani della protagonista, Marta Ayala, accusata ingiustamente di adulterio, sceglie proprio la strada della descrizione [cap. II, par. 3, 78-84] dei tratti fisici dai quali emerge con chiarezza l’ignoranza becera della famiglia del suocero e del suo stesso marito Rocco, che come gli altri non ha saputo o non ha voluto ascoltare le parole e le ragioni di Marta.

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Capitolo III

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Luigi Pirandello L’esclusa Antonio Pentàgora s’era già seduto a tavola tranquillamente per cenare, come se non fosse accaduto nulla. Illuminato dalla lampada che pendeva dal soffitto basso, il suo volto tarmato pareva quasi una maschera sotto il bianco roseo della cotenna rasa, ridondante sulla nuca. Senza giacca, con la camicia floscia celeste, un po’ stinta, aperta sul petto irsuto, e le maniche rimboccate sulle braccia pelose, aspettava che lo servissero. Gli sedeva a destra la sorella Sidora, pallida e aggrottata, con gli occhi acuti adirati e sfuggenti sotto il fazzoletto di seta nera che teneva sempre in capo.A sinistra, il figlio Niccolino, spiritato, con la testa orecchiuta da pipistrello sul collo stralungo, gli occhi tondi tondi e il naso ritto. Dirimpetto era apparecchiato il posto per l’altro figlio, Rocco, che rientrava in casa, quella sera, dopo la disgrazia. Lo avevano aspettato finora, per la cena. Poiché tardava, s’erano messi a tavola. Stavano in silenzio tutt’e tre, nel tetro stanzone, dalle pareti basse, ingiallite, lungo le quali correvano due interminabili file di seggiole quasi tutte scompagne. Dal pavimento un po’ avvallato, di mattoni rosi, spirava un tanfo indefinibile, d’appassito. Finalmente, Rocco comparve sulla soglia, cupo, disfatto. Era uno stangone biondo di pochi capelli, scuro in viso e con gli occhi biavi, quasi vani e smarriti, che però gli diventavano cattivi quando aggrottava le sopracciglia e stringeva la bocca larga, dalle labbra molli, violacee. Camminando sulle gambe aperte, si dimenava sul busto e seguiva con la testa e con le braccia l’andatura. Ogni tanto aveva un tic alle corde del collo che gli faceva protendere il mento e tirare in giù gli angoli della bocca. – Oh, bravo Roccuccio, eccolo qua! – esclamò il padre fregandosi le grosse mani ruvide, piene d’anelli massicci. Rocco stette un po’a guardare i tre seduti a tavola,poi si buttò su la prima seggiola presso l’uscio, coi gomiti su le ginocchia, le pugna sotto il mento, il cappello su gli occhi. – Oh, e àlzati! – riprese il Pentàgora. – T’abbiamo aspettato, sai? Non mi credi? Parola d’onore, fino alle dieci… no, più, più… che ora è? Vieni qua: ecco il tuo posto: apparecchiato, qua, come prima. E chiamò, forte: – Signora Popònica! – Epponìna, – corresse Niccolino a bassa voce. – Zitto, bestia, lo so. Voglio chiamarla Popònica, come tua zia. Non è permesso? Rocco, incuriosito, alzò la testa e brontolò: – Chi è Popònica? – Ah! una signora caduta in bassa fortuna, – rispose allegramente il padre. – Vera signora, sai? Da jeri ci fa da serva.Tua zia la protegge. – Romagnola, – aggiunse Niccolino, sommessamente. Rocco ripiegò la testa su le mani; e il padre, soddisfatto, si recò pian piano alle labbra il bicchiere ricolmo; lo scoronò con un sorsellino cauto; poi strizzò un occhio a Niccolino e, facendo schioccare la lingua: – Buono! – disse. – Roccuccio, vino nuovo; fa stringer l’occhio… Assaggia, assaggia, ti rimetterà lo stomaco. Sciocchezze, figlio mio! E tracannò il resto in un fiato. – Non vuoi cenare? – domandò poi. – Non può cenare, – osservo piano Niccolino. Tacquero tutti, badando che le forchette non frugassero nei piatti, come per non offendere il silenzio ch’empiva penosamente lo stanzone. [Milano, Mondadori, 2011, cap. I]

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Nel 1869 usciva, a puntate sul giornale milanese «Il Pungolo», forse il romanzo più rappresentativo della Scapigliatura lombarda, Fosca di Iginio Ugo Tarchetti. Giorgio, giovane ufficiale dell’esercito dalla personalità inquieta e romantica, racconta in prima persona l’amore “insano” per una donna, Fosca appunto, di rara bruttezza ed affetta da epilessia, che affascina e attira verso di sé proprio per quella sua bruttezza e per quella sua malattia, trascinando quasi alla distruzione («Più che l’analisi d’un affetto, più che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. – Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subito. Non so se vi siano al mondo altri uomini che abbiano superato una prova come quella, e nelle circostanze in cui io l’ho superata; non so se vi sarebbero sopravvissuti»). Il momento del primo incontro tra Giorgio e Fosca è un vero capolavoro perché riesce a rendere palpabile al lettore, proprio attraverso la rappresentazione dell’orrido e dell’anomalo, sia il senso di attesa provato dal protagonista prima di quello stesso incontro, sia tutto il fascino, per quanto perverso, del patologicamente diverso.

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Iginio Ugo Tarchetti Fosca Il mio desiderio fu esaudito: conobbi finalmente Fosca. Un mattino mi recai per tempo alla casa del colonnello (vi pranzavamo tutti uniti e ad un’ora, ma per la colazione vi si andava ad ore diverse, alla spicciolata) e mi trovai solo con essa. Dio! Come esprimere colle parole la bruttezza orrenda di quella donna! Come vi sono beltà di cui è impossibile il dare una idea, così vi sono bruttezze che sfuggono ad ogni manifestazione, e tale era la sua. Né tanto era brutta per difetti di natura, per disarmonia di fattezze, – ché anzi erano in parte regolari, – quanto per una magrezza eccessiva, direi quasi inconcepibile a chi non la vide; per la rovina che il dolore fisico e le malattie avevano prodotto sulla sua persona ancora così giovine. Un lieve sforzo d’immaginazione poteva lasciarne travedere lo scheletro, gli zigomi e le ossa delle tempie avevano una sporgenza spaventosa, l’esiguità del suo collo formava un contrasto vivissimo colla grossezza della sua testa, di cui un ricco volume di capelli neri, folti, lunghissimi, quali non vidi mai in altra donna, aumentava ancora la sproporzione.Tutta la sua vita era ne’ suoi occhi che erano nerissimi grandi, velati – occhi d’una beltà sorprendente. Non era possibile credere che ella avesse mai potuto essere stata bella, ma era evidente che la sua bruttezza era per la massima parte effetto della malattia, e che, giovinetta, aveva potuto forse esser piaciuta. La sua persona era alta e giusta: vera ancora qualche cosa di quella pieghevolezza, di quella grazia, di quella flessibilità che hanno le donne di sentimento e di nascita distinta; i suoi modi erano così naturalmente dolci, così spontaneamente cortesi che parevano attinti dalla natura più che dall’educazione: vestiva colla massima eleganza, e veduta un poco da lontano, poteva trarre ancora in inganno. Tutta la sua orribilità era nel suo viso. [Milano, Oscar Mondadori, 2012, I e XV]

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2) Agire, ossia il suo comportamento (i gesti, le azioni) durante la narrazione. Sarebbe persino banale se non fosse straordinariamente icastico ricordare l’entrata in scena di don Abbondio nei Promessi sposi. In quei pochi gesti, alcuni ripetuti invariabilmente ogni sera sulla solita strada verso la canonica e altri dettati dalle insolite circostanze di quella particolarissima giornata, sono già tutti rappresentati i tratti fondamentali del suo carattere, dalla rassicurante abitudinarietà alla assoluta mancanza di coraggio, dalla certezza di essere sempre nel giusto alla ricerca della via più semplice e prudente, ed è già tutta raffigurata la sua concezione di una vita tranquilla e lontana da ogni genere di responsabilità, anche se questa ha a che fare con l’abito che indossa e con quei principi cristiani di cui egli dovrebbe essere il difensore.

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Alessandro Manzoni I promessi sposi Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell’anno 1628, don Abbondio, curato d’una delle terre accennate di sopra: il nome di questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena, proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d’un ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura: l’altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il muro non arrivava che all’anche del passeggiero. I muri interni delle due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti, che finivano in punta, e che, nell’intenzion dell’artista, e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate con le fiamme, cert’altre figure da non potersi descrivere, che volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone, sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere. Due uomini stavano, l’uno dirimpetto all’altro, al confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori, e l’altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto. L’abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov’era giunto il curato, si poteva distinguer dell’aspetto, non lasciavan dubbio intorno alla lor condizione: […] a prima vista si davano a conoscere per individui della specie de’ bravi. […]

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Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro. Egli, tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse, spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e, vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille pensieri. Domandò subito in fretta a sé stesso, se, tra i bravi e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava alquanto: i bravi però s’avvicinavano, guardandolo fisso. Mise l’indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto la faccia all’indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la coda dell’occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non vide nessuno. Diede un’occhiata, al di sopra del muricciolo, ne’ campi: nessuno; un’altra più modesta sulla strada dinanzi; nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio. Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i momenti di quell’incertezza erano allora così penosi per lui, che non desiderava altro che d’abbreviarli.Affrettò il passo, recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due piedi. [Milano, BUR, 2011, cap. I]

3) Vedere e giudicare, ossia l’ottica con cui il personaggio centrale osserva e analizza la realtà. Molto spesso, e non solo nel romanzo e nella narrativa sette-ottocenteschi, la vicenda affiora chiaramente attraverso il modo in cui il protagonista abita il mondo che lo circonda e fa esperienza delle cose della vita: Renzo, da ragazzotto ingenuo e un po’ spaccone, diventa un uomo adulto solo quando è costretto alla fuga da Milano dopo i tumulti di San Martino e mentre è alla ricerca dell’Adda, unica sua via di salvezza dalla prigione. Durante il viaggio i suoi pensieri sono «un guazzabuglio di pentimenti, d’inquietudini, di rabbie, di tenerezze» e «uno studio faticoso di raccapezzare le cose dette e fatte la sera avanti, di scoprir la parte segreta della sua storia»: insomma un ripensamento intorno al comportamento tenuto e alle parole pronunciate; poi la lunga notte prima di attraversare il fiume, un “amico” un “fratello” un “salvatore”, e il ricordo di una «barba bianca» e, soprattutto, di una «una treccia nera» spingono Renzo a ritrovare se stesso e quei valori che sembrava aver dimenticato nella foga di quella sommossa in cui si era trovato più o meno scientemente coinvolto. Molto più frequentemente questo guardare alle cose della vita emerge dal confronto/scontro dialogico tra due personaggi della storia, che in questo

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modo svelano le convinzioni più intime sui loro comportamenti e sulla loro condotta “morale”. In una delle scene più significative di Jane Eyre di Charlotte Brontë, quella che segue al mancato matrimonio tra Jane e il signor Rochester, che, sposato con la pazza Bertha Mason, aveva volontariamente fatto credere di essere vedovo, le due differenti visioni sulla complessa situazione emergono appunto in un serrato dialogo: da un lato la determinazione di Jane, donna forte e volitiva, che, per quanto innamorata, non vuole venire meno ai suoi principi morali che le impongono di non poter vivere con un uomo fuori dal vincolo matrimoniale; dall’altra Rochester che, al contrario, è convinto di avere diritto di vivere l’amore per Jane anche lontano dai doveri imposti dalla società e dalla religione, dopo anni di sofferenza e in sostanza di prigionia causati dalla malattia mentale della moglie, una malattia che gli era stata consapevolmente tenuta segreta dalla famiglia di lei. Più di cento anni più tardi Giuseppe Tomasi di Lampedusa con il medesimo sistema delinea differenze ideologiche (più apparenti che reali) tra il principe don Fabrizio di Salina e il suo nipote prediletto Tancredi, protagonisti di uno dei romanzi più clamorosi della letteratura italiana del Novecento, Il Gattopardo (1958): don Fabrizio è l’anziano aristocratico legato ai vecchi principi del suo ceto,Tancredi il giovane che decide di militare nelle fila dei garibaldini sbarcati in Sicilia per liberare l’isola dalla classe dirigente dominante e dai Borboni e farla così annettere all’appena sorto stato italiano. Il dialogo, che mette peraltro in luce l’affetto profondo che unisce zio e nipote nonostante le loro divergenti opinioni politiche e sociali (Tancredi alla fine sposerà una “borghese” per la sua bellezza e per i suoi soldi, unico motivo per cui il principe acconsentirà alle nozze), è un vero capolavoro di retorica “machiavellica” ed è pure l’atto di accusa dell’autore su come si è svolto il Risorgimento nella sua terra:Tancredi rassicura lo zio sul fatto che alla fine le cose andranno a loro vantaggio, cioè a vantaggio della classe che è sempre stata al potere, e che combattere con i garibaldini e i piemontesi sarà il modo migliore perché tutto resti sostanzialmente come prima.

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Charlotte Brontë Jane Eyre «Ti giudico buona, intelligente, amabile: nel mio cuore è nata una passione fervida, solenne, che si rivolge a te, ti attira al centro, alla sorgente della mia vita, fa di te il fulcro della mia esistenza; e, ardendo in una fiamma pura e forte, fa di noi due un essere solo. Perché provavo questi sentimenti e avevo queste certezze, ho deciso di sposarti. Dirmi che sono già sposato è una beffa: ora sai che non avevo moglie, ma soltanto un orrendo demonio. Ho avuto torto a cercare di ingannarti; ma temevo l’ostinazione che è in te.Temevo pregiudizi instillati sin dalla tenera età: volevo essere sicuro di averti prima di arrischiarmi a fare confidenze. È stato vile: avrei dovuto rivolgermi subito alla tua nobiltà, alla tua magnanimità, come ora faccio; avrei dovuto rivelarti apertamente la mia vita di tormenti; descriverti la mia fa-

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me, la sete di un’esistenza più alta e più degna; mostrarti non la mia decisione (la parola è debole), ma la mia irresistibile propensione ad amare con intensità e costanza, quando in cambio ricevo un amore forte e costante. Poi avrei dovuto chiederti di accettare il mio pegno di fedeltà, e di darmi in cambio il tuo: Jane, dammelo ora». Silenzio. «Perché non dici nulla, Jane?». Ero sottoposta a una dura prova: una mano di ferro infuocato mi stringeva le viscere. Momenti terribili: di lotta, tenebre, fiamme. Nessuna creatura umana poteva desiderare di essere amata più di quel che io fossi amata; io veneravo, adoravo l’uomo che mi amava così: e dovevo rinunciare al mio amore, al mio idolo. In una sola, triste parola era racchiuso il mio intollerabile dovere:“Parti”. «Jane, capisci quello che voglio da te? Soltanto questa promessa: “Sarò vostra, signor Rochester”». «Signor Rochester, non sarò vostra». Un altro lungo silenzio. «Jane!» riprese, con una dolcezza che mi ferì d’angoscia e mi raggelò di presaghi terrori, perché quella voce calma era l’ansito del leone che si prepara al balzo «Jane, vuoi andartene da una parte e lasciare che io vada dall’altra?». «Sì». «Jane» chinandosi verso di me, abbracciandomi «lo vuoi ancora?». «Sì». «E ora?» baciandomi dolcemente la fronte e le guance. «Sì» mentre mi liberavo rapidamente dalla sua stretta. «Oh, Jane, quanta amarezza! È male, sai. Non sarebbe un male amarmi». «Lo sarebbe obbedirvi». La collera gli aggrottò la fronte, gli si dipinse sul viso: si alzò; ma riuscì a controllarsi. Mi sostenni allo schienale di una sedia: tremavo, ero spaventata… ma decisa. «Un momento, Jane. Pensa all’orrore della mia esistenza quando sarai partita. Con te mi sarà strappata ogni felicità. Che cosa mi rimarrà allora? Mia moglie è la pazza rinchiusa al piano di sopra: tanto varrebbe che tu mi parlassi di un cadavere nel cimitero. Che cosa potrò fare, Jane? Dove potrò cercare una compagna, dove un po’ di speranza?». «Fate come me: sperate in Dio e in voi stesso. Credete al paradiso. Confidate che ci incontreremo di nuovo là». «Dunque non vuoi cedere?». «No». «Dunque mi condanni a vivere come uno sciagurato, a morire maledetto?» La sua voce si alzò di tono. «Vi consiglio di vivere senza colpa; e vi auguro di morire sereno». «E mi strappi l’amore e l’innocenza? Mi abbandoni alla lussuria come unica passione, al vizio come unica occupazione?». «Signor Rochester, non do a voi questa sorte così come non la voglio per me. Siamo nati per lottare e sopportare: voi non meno di me; fatelo dunque. Mi dimenticherete, prima che io vi dimentichi». «Fai di me un bugiardo con queste parole: macchi il mio onore. Ho detto che non sarei cambiato: tu mi dici in faccia che cambierò presto. E la tua condotta parla di un ragionamento sbagliato, di idee ingiuste. È forse meglio spingere alla disperazione un proprio simile che trasgredire una legge umana, la cui trasgressione non

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danneggerebbe nessuno? Perché non hai parenti né amici che potresti addolorare vivendo con me». Era vero: e mentre parlava, la mia coscienza, la mia ragione si rivoltavano contro di me, e mi accusavano di essere colpevole se gli resistevo. Parlavano forte quasi quanto il sentimento, e questo gridava a gran voce.“Accontentalo” diceva.“Pensa alla sua sofferenza; pensa ai pericoli, al suo stato quando sarà lasciato solo. Ricorda la sua natura impetuosa; calmalo, salvalo, amalo: digli che lo ami e che sarai sua. Chi al mondo si preoccupa di te? Chi danneggerai con le tue azioni?”. Ma la risposta era indomabile:“Io mi preoccupo di me. Quanto più sono sola, senza amici, senza appoggio, tanto più avrò rispetto di me stessa. Non violerò la legge data da Dio, sancita dall’uomo. Terrò fede ai principi che ho ricevuto quando non ero pazza, come sono ora. I principi, le leggi non sono fatti per i momenti privi di tentazione: ma per i momenti come questi, quando il corpo e l’anima si ribellano al loro rigore; sono inviolabili; saranno inviolati. Se io potessi infrangerli per mia personale convenienza, che valore avrebbero? E hanno valore; l’ho sempre creduto, se non riesco a crederlo ora è perché sono pazza, sì, pazza: nelle mie vene scorre fuoco ardente, e il cuore batte così in fretta che non posso contarne i battiti. Idee preconcette, decisioni già prese: soltanto a quelle posso appoggiarmi: a quelle mi sostengo”. E così feci. Il signor Rochester, che mi leggeva nello sguardo, lo comprese. La sua furia giunse al culmine. […] Sembrava mi divorasse con gli occhi fiammeggianti: fisicamente, mi sentivo in quel momento inerme, come paglia esposta al calore e al risucchio di una fornace; spiritualmente, ero ancora padrona della mia anima, dunque certa della mia salvezza. L’anima fortunatamente ha un interprete, spesso inconsapevole, ma fedele: lo sguardo. Il mio sguardo si alzò al suo; e mentre lo fissavo nel viso incollerito, involontariamente sospirai: la sua stretta era dolorosa, e la forza messa a troppo dura prova era allo stremo. «Mai» disse, stringendo i denti «mai è esistita una creatura così fragile e a un tempo così indomabile.Tra le mie mani sembra un giunco» e mi scosse con tutta la forza della sua stretta. «Potrei piegarla con due dita: e a che mi varrebbe piegarla, sradicarla, schiacciarla? Pensa ai suoi occhi: pensa alla creatura risoluta, selvaggia, libera che mi guarda da quegli occhi, che mi sfida coraggiosamente, o piuttosto con un senso di severo trionfo. Potrei fare qualsiasi cosa alla gabbia che la racchiude, ma non potrei mai raggiungere quella creatura bella e selvaggia. Se spezzo, se dilanio la sua debole prigione, non farò che liberare per sempre la prigioniera. Potrei conquistare la casa; ma chi la abita fuggirebbe in cielo prima che io potessi dirmi padrone della sua dimora di argilla. E io voglio il tuo spirito – la tua volontà e la tua energia, la tua virtù e la tua purezza: non soltanto la fragile struttura che lo riveste. Di tua libera volontà potresti volare leggera verso di me e rifugiarti contro il mio cuore: presa con la forza, sfuggiresti alla stretta come l’aria, svaniresti prima che io abbia potuto respirare la tua fragranza. Oh, vieni, Jane, vieni!». Mi liberò dalla stretta, mentre parlava, e rimase a guardarmi. Era molto più arduo resistere allo sguardo che alla violenza: ma soltanto una sciocca avrebbe ceduto ora.Avevo sfidato e vinto la sua furia; dovevo sfuggire silenziosamente alla sua pena: mi avvicinai alla porta. «Te ne vai, Jane?». «Me ne vado, signore». «Mi lasci?». «Sì».

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«Non vuoi venire da me? Non vuoi essere il mio conforto, la mia salvezza? Il mio amore profondo, il mio dolore straziante, la mia ardente preghiera non sono dunque nulla per te?». Che indicibile pathos vibrava nella sua voce! Come era difficile ripetere con fermezza; “Me ne vado”. «Jane!». «Signor Rochester». «Va’ dunque, te lo permetto, ma ricorda che mi lasci nella sofferenza. Sali nella tua stanza; rifletti a tutto quello che ho detto, e guarda alle mie pene, Jane, pensa a me». Si volse; si gettò sul divano. «Oh, Jane, amore mio, mia speranza vita mia!» gli sentii dire con angoscia. Poi un singhiozzo profondo. Ero già alla porta: ma tornai indietro, risolutamente come mi ero allontanata Mi inginocchiai accanto a lui; volsi il suo viso verso di me; lo baciai sulla guancia; gli accarezzai i capelli con la mano. «Dio vi benedica, caro padrone» dissi. «Dio vi preservi dai pericoli e dalla colpa, vi guidi, vi dia conforto, vi ricompensi per la bontà che avete avuto per me». «L’amore della piccola Jane sarebbe stata la ricompensa migliore» rispose. «Senza il suo amore, il mio cuore è spezzato. Ma Jane mi darà il suo amore: con nobile generosità». Il sangue gli salì al viso; gli occhi fiammeggiarono; balzò in piedi: mi tese le braccia; ma io sfuggii all’abbraccio e lasciai in fretta la stanza. “Addio!” gridava il mio cuore mentre mi allontanavo. La disperazione aggiunse:“Addio per sempre”. [Milano, BUR, 2012, Parte Seconda, cap.VII]

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Giuseppe Tomasi di Lampedusa Il Gattopardo La mattina dopo il sole illuminò un principe rinfrancato. Aveva preso il caffè ed in veste da camera rossa fiorata di nero si faceva la barba dinanzi allo specchietto. Bendicò posava il testone pesante sulla sua pantofola. Mentre si radeva la guancia destra vide nello specchio, dietro la sua, la faccia di un giovanotto, un volto magro, distinto con un’espressione di timorosa beffa. Non si voltò e continuò a radersi. «Tancredi, cosa hai combinato la notte scorsa?». «Buongiorno, zio. Cosa ho combinato? Niente di niente: sono stato con gli amici. Una notte santa. Non come certe conoscenze mie che sono state a divertirsi a Palermo». Don Fabrizio si applicò a radere bene quel tratto di pelle difficoltoso fra labbro e mento. La voce leggermente nasale del ragazzo portava una tale carica di brio giovanile che era impossibile arrabbiarsi; sorprendersi, però, poteva forse esser lecito. Si voltò e con l’asciugamano sotto il mento guardò il nipote. Questi era in tenuta da caccia, giubba attillata e gambaletti alti. «E chi erano queste conoscenze, si può sapere?». «Tu, zione, tu.Ti ho visto con questi occhi, al posto di blocco di Villa Airoldi mentre parlavi col sergente. Belle cose, alla tua età! e in compagnia di un Reverendissimo! I ruderi libertini!». Era davvero troppo insolente, credeva di poter permettersi tutto.Attraverso le strette fessure delle palpebre gli occhi azzurro-torbido, gli occhi di sua madre, i suoi stessi occhi lo fissavano ridenti. II Principe si sentì offeso: questo qui veramente non sapeva a che punto fermarsi, ma non aveva l’animo di rimproverarlo; del resto aveva ragione lui. «Ma perché sei vestito co-

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sì? Cosa c’è? Un ballo in maschera di mattina?». Il ragazzo divenne serio: il suo volto triangolare assunse una inaspettata espressione virile. «Parto, zione, parto fra mezz’ora. Sono venuto a salutarti». Il povero Salma si sentì stringere il cuore. «Un duello?». «Un grande duello, zio. Contro Franceschiello Dio Guardi.Vado nelle montagne, a Corleone; non lo dire a nessuno, soprattutto non a Paolo. Si preparano grandi cose, zione, ed io non voglio restarmene a casa, dove, del resto, mi acchiapperebbero subito, se vi restassi». II Principe ebbe una delle sue visioni improvvise: una crudele scena di guerriglia, schioppettate nei boschi, ed il suo Tancredi per terra, sbudellato come quel disgraziato soldato. «Sei pazzo, figlio mio! Andare a mettersi con quella gente! Sono tutti mafiosi e imbroglioni. Un Falconeri dev’essere con noi, per il Re». Gli occhi ripresero a sorridere. «Per il Re, certo, ma per quale Re?». Il ragazzo ebbe una delle sue crisi di serietà che lo rendevano impenetrabile e caro. «Se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?».Abbracciò lo zio un po’ commosso. «Arrivederci a presto. Ritornerò col tricolore». La retorica degli amici aveva stinto un po’ anche su suo nipote; eppure no. Nella voce nasale vi era un accento che smentiva l’enfasi. Che ragazzo! Le sciocchezze e nello stesso tempo il diniego delle sciocchezze. E quel suo Paolo che in questo momento stava certo a sorvegliare la digestione di “Guiscardo!” Questo era il figlio suo vero. Don Fabrizio si alzò in fretta, si strappò l’asciugamani dal collo, frugò in un cassetto. «Tancredi,Tancredi, aspetta», corse dietro al nipote, gli mise in tasca un rotolino di “onze” d’oro, gli premette la spalla. Quello rideva: «Sussidi la rivoluzione, adesso! Ma grazie, zione, a presto; e tanti abbracci alla zia». E si precipitò giù per le scale. Venne richiamato Bendicò che inseguiva l’amico riempiendo la villa di urla gioiose, la rasatura fu completata, il viso lavato. Il cameriere venne a vestire e calzare il Principe. «Il tricolore! Bravo, il tricolore! Si riempiono la bocca con questa parola, i bricconi. E che cosa significa questo segnacolo geometrico, questa scimmiottatura dei francesi, così brutta in confronto alla nostra bandiera candida con l’oro gigliato dello stemma? E che cosa può far loro sperare quest’accozzaglia di colori stridenti?». Era il momento di avvolgere attorno al collo il monumentale cravattone di raso nero. Operazione difficile durante la quale i pensieri politici era bene venissero sospesi. Un giro, due giri, tre giri. Le grosse dita delicate componevano le pieghe, spianavano gli sbuffi, appuntavano sulla seta la testina di Medusa con gli occhi di rubino. «Un gilet pulito. Non vedi che questo è macchiato?». Il cameriere si sollevò sulla punta dei piedi per infilargli la redingote di panno marrone; gli porse il fazzoletto con le tre gocce di bergamotto. Le chiavi, l’orologio con catena, il portamonete se li mise in tasca da sé. Si guardò allo specchio: non c’era da dire era ancora un bell’uomo. «“Rudere libertino!” Scherza pesante quella canaglia! Vorrei vederlo alla mia età, quattro ossa incatenate come lui». Il passo vigoroso faceva tinnire i vetri dei saloni che attraversava. La casa era serena, luminosa e ornata; soprattutto era sua. Scendendo le scale, capì. «Se vogliamo che tutto rimanga com’è…».Tancredi era un grand’uomo: lo aveva sempre pensato. [Milano, Universale Economica Feltrinelli, 2011, Parte prima]

4) Parlare e pensare, ossia la concreta manifestazione dei suoi atti mentali e verbali, in poche parole gli aspetti psicologici del carattere ma anche gli stati d’animo di fronte a una particolare situazione e, infine, il linguag-

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gio che è poi il modo di conservare ed esprimersi con gli altri personaggi e persino il modo attraverso cui un personaggio può presentare la personale concezione della vita e delle cose del mondo. Un esempio per tutti, lo spettacolare confronto “ideologico” tra il capitano Bellodi e il mafioso don Mariano, protagonisti del più noto romanzo di Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta (1961): tutto si gioca sulle parole e sui doppi sensi che le parole possono avere, tutto si gioca su significati che le parole possono assumere a seconda di come sono dichiarate, tutto si gioca sul detto e sul non detto, sull’esplicito e sull’implicito, sulle verità e sulle menzogne che le parole possono esprimere.

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Leonardo Sciascia Il giorno della civetta Lo Stato, quello che per noi è lo Stato, è fuori: entità di fatto realizzata dalla forza; e impone le tasse, il servizio militare, la guerra, il carabiniere. Dentro quell’istituto che è la famiglia, il siciliano valica il confine della propria naturale e tragica solitudine e si adatta, in una sofistica contrattualità di rapporti, alla convivenza. Sarebbe troppo chiedergli di valicare il confine tra la famiglia e lo Stato. Magari si infiammerà dell’idea dello Stato o salirà a dirigerne il governo: ma la forma precisa e definitiva del suo diritto e del suo dovere sarà la famiglia, che consente più breve il passo verso la vittoriosa solitudine. Questi pensieri […] andava rimuginando il capitano Bellodi mentre nel suo ufficio aspettava che gli conducessero l’Arena. E stava passando a considerare la mafia, e come la mafia si adattasse allo schema che era venuto tracciando, quando il brigadiere introdusse don Mariano Arena. […] Il capitano disse «si accomodi» e don Mariano sedette guardandolo fermamente attraverso le palpebre grevi: uno sguardo inespressivo che subito si spense in un movimento della testa, come se le pupille fossero andate in su, e in dentro, per uno scatto meccanico. Il capitano gli chiese se avesse mai avuto rapporti con Calogero Dibella detto Parrinieddu. Don Mariano domandò cosa intendesse per rapporti: semplice conoscenza, amicizia, interessi in comune? «Scelga lei» disse il capitano. «La verità è una sola, e non c’è niente da scegliere: semplice conoscenza». «E che opinione aveva del Dibella?». «Mi pareva giudizioso. Qualche piccolo sbaglio, da ragazzo: ma ora mi pareva camminasse dritto». «Lavorava?». «Lei lo sa meglio di me». «Voglio sentirlo da lei». «Se parliamo di lavorare con la zappa, che era il lavoro a cui suo padre lo aveva avviato, Dibella lavorava quanto lavoriamo lei ed io… Forse lavorava con la testa». «E che lavoro, secondo lei, faceva con la testa?». «Non lo so; e non lo voglio sapere».

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«Perché?». «Perché non mi interessa: Dibella faceva la sua strada, io la mia». «Perché ne parla al passato?». «Perché l’hanno ammazzato un’ora prima che lei mi mandasse i carabinieri in casa». «I carabinieri in casa, in effetti, è stato il Dibella a mandarglieli». «Lei mi vuole far confondere la testa». «No: e le faccio vedere quel che ha scritto il Dibella poche ore prima di morire» gli mostrò la copia fotografica della lettera. Don Mariano la prese e la guardò allontanandola per tutta la lunghezza dei braccio. Disse che vedeva bene le cose lontane. «Che gliene pare?» domandò il capitano. «Niente» disse don Mariano restituendogli la fotografia. «Niente?». «Proprio il niente che è niente». «Non le sembra un’accusa?». «Accusa?» disse meravigliato don Mariano. «A me pare niente: un pezzo di carta col mio nome sopra». «C’è anche un altro nome». «Già: Rosario Pizzuco». «Lo conosce?». «Conosco tutto il paese». «Ma Pizzuco in particolare?». «Non in particolare: come tanti». «Non ha rapporti di affari con Pizzuco?». «Mi permetta una domanda: lei che affari crede che io faccia?». «Tanti, e diversi». «Non faccio affari: vivo di rendita». «Che rendita?». «Terre». «Quanti ettari ne possiede?». «Ventidue salme e… facciamo novanta ettari». «Dànno buona rendita?». «Non sempre: secondo l’annata». «In media, che reddito può dare un ettaro delle sue terre?». «Una buona parte della mia terra io la lascio germa: per il pascolo… Non posso dire dunque quanto mi rende per ettaro quella lasciata germa: posso dire quanto mi rendono le pecore… A tagliare di grasso, mezzo milione… Il resto, in grano, fave, mandorle e olio, secondo le annate…». «Quanti ettari sarebbero, quelli coltivati?». «Cinquanta sessanta ettari». «E allora posso dirle io quanto rendono per ettaro: non meno di un milione». «Lei sta scherzando». «Eh no, è lei che sta scherzando… Perché mi dice di non avere, oltre le terre, altre fonti di reddito; che non ha mano in affari industriali o commerciali… Ed io le credo: e perciò ritengo che quei cinquantaquattro milioni che lo scorso anno ha depositato in tre diverse banche, poiché non risultano prelevati da precedenti depositi presso altre banche, rappresentino esclusivamente il reddito delle sue terre. Un milione per ettaro, dunque… E le confesso che un perito agrario, da me consultato, è rimasto strabiliato; perché, secondo il suo parere, non c’è terra, in questa

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zona, che possa dare un reddito netto superiore alle centomila lire per ettaro. Lei pensa che si sbagli?». «Non si sbaglia» disse don Mariano, incupito. «Dunque siamo partiti sul piede sbagliato… Torniamo indietro: da quali fonti provengono i suoi redditi?». «Non torniamo indietro per niente: io i soldi miei li muovo come voglio… Posso solo precisare che non sempre li tengo in banca: a volte ne faccio prestiti ad amici, senza cambiali, in fiducia… E l’anno scorso tutti i soldi che avevo fuori mi sono ritornati: e ho fatto quei depositi nelle banche…». «Dove c’erano già altri depositi, a suo nome e a nome di sua figlia…». «Un padre ha il dovere di pensare all’avvenire dei figli». «È più che giusto: e lei ha assicurato a sua figlia un avvenire di ricchezza… Ma non so se sua figlia riuscirebbe a giustificare quel che lei ha fatto per assicurargliela, questa ricchezza… So che per ora si trova in un collegio di Losanna: costosissimo, famoso… Immagino lei se la ritroverà davanti molto cambiata: ingentilita, pietosa verso tutto ciò che lei disprezza, rispettosa verso tutto ciò che lei non rispetta…». «Lasci stare mia figlia» disse don Mariano contraendosi in una dolorosa fitta di rabbia. E poi rilassandosi, come a rassicurare se stesso, disse «Mia figlia è come me». «Come lei?... Mi auguro di no: e d’altra parte lei sta facendo di tutto perché sua figlia non sia come lei, perché sia diversa… E quando non riconoscerà più sua figlia, tanto sarà diversa, lei avrà in qualche modo pagato lo scotto di una ricchezza costruita con la violenza e la frode…». «Lei mi sta facendo la predica». «Ha ragione… Lei il predicatore va a sentirlo in chiesa, e qui vuoi trovare lo sbirro: ha ragione… Parliamo dunque di sua figlia per quel che le costa in denaro, per il denaro che lei accumula in suo nome… Molto, moltissimo denaro; di provenienza, diciamo, incerta… Guardi: queste sono le copie fotografiche delle schede, intestate a suo nome e a nome di sua figlia, che si trovano presso le banche. Come vede, abbiamo cercato non solo nelle agenzie del suo paese: ci siamo spinti fino a Palermo… Molto, moltissimo denaro: lei può spiegarne la provenienza?». «E lei?» domandò impassibile don Mariano. «Tenterò: perché nel denaro che lei accumula così misteriosamente bisogna cercare le ragioni dei delitti sui quali sto indagando: e queste ragioni bisogna in qualche modo illuminare negli atti in cui la imputerò di mandato per omicidio… Tenterò… Ma lei una spiegazione al fisco deve pur darla, agli uffici fiscali noi ora trasmetteremo questi dati…». Don Mariano fece un gesto di noncuranza. «Abbiamo anche copia della sua denuncia dei redditi e della cartella di esattoria: lei ha denunciato un reddito…». «Uguale al mio» intervenne il brigadiere. «…e paga di tasse…». «Un po’ meno di me» disse ancora il brigadiere. «Vede?» disse il capitano. «Ci sono molte cose da chiarire, che lei deve spiegare…». Di nuovo don Mariano fece un gesto di noncuranza. ‘Questo è il punto’ pensò il capitano ‘su cui bisognerebbe far leva. È inutile tentare di incastrare nel penale un uomo come costui: non ci saranno mai prove sufficienti, il silenzio degli onesti e dei disonesti lo proteggerà sempre. Ed è inutile, oltre che pericoloso, vagheggiare una sospensione di diritti costituzionali. […] In

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ogni altro paese del mondo, una evasione fiscale come quella che sto constatando sarebbe duramente punita: qui don Mariano se ne ride, sa che non gli ci vorrà molto ad imbrogliare le carte’. «Gli uffici fiscali, a quanto vedo, non sono la sua preoccupazione». «Non mi preoccupo mai di niente» disse don Mariano. «E come mai?». «Sono un ignorante; ma due o tre cose che so, mi bastano: la prima è che sotto il naso abbiamo la bocca: per mangiare più che per parlare…». «Ho la bocca anch’io, sotto il naso» disse il capitano «ma le assicuro che mangio soltanto quello che voi siciliani chiamate il pane del governo». «Lo so: ma lei è un uomo». «E il brigadiere?» domandò ironicamente il capitano indicando il brigadiere D’Antona. «Non lo so» disse don Mariano squadrando il brigadiere con molesta, per il brigadiere, attenzione. «Io» proseguì poi don Mariano «ho una certa pratica dei mondo; e quella che diciamo l’umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà… Pochissimi gli uomini; i mezz’uomini pochi, ché mi contenterei l’umanità si fermasse ai mezz’uomini… E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi… E ancora più giù: i pigliainculo, che vanno diventando un esercito… E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre… Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo…». «Anche lei» disse il capitano con una certa emozione. E nel disagio che subito sentì di quel saluto delle armi scambiato con un capo mafia, a giustificazione pensò di avere stretto le mani, nel clamore di una festa della nazione, e come rappresentanti della nazione circonfusi di trombe e bandiere, al ministro Mancuso e all’onorevole Livigni: sui quali don Mariano aveva davvero il vantaggio di essere un uomo. Al di là della morale e della legge, al di là della pietà, era una massa irredenta di energia umana, una massa di solitudine, una cieca e tragica volontà: e come un cieco ricostruisce nella mente, oscuro ed informe, il mondo degli oggetti, così don Mariano ricostruiva il mondo dei sentimenti, delle leggi, dei rapporti umani. E quale altra nozione poteva avere del mondo, se intorno a lui la voce del diritto era stata sempre soffocata dalla forza e il vento degli avvenimenti aveva soltanto cangiato il colore delle parole su una realtà immobile e putrida? «Perché sono un uomo: e non un mezz’uomo o addirittura un quaquaraquà?» domandò con esasperata durezza. «Perché» disse don Mariano «da questo posto dove lei si trova è facile mettere il piede sulla faccia di un uomo: e lei invece ha rispetto… Da persone che stanno dove sta lei, dove sta il brigadiere, molti anni addietro io ho avuto offesa peggiore della morte: un ufficiale come lei mi ha schiaffeggiato; e giù, nelle camere di sicurezza, un maresciallo mi appoggiava la brace del suo sigaro alla pianta dei piedi, e rideva… E io dico: si può più dormire quando si è stati offesi così?». «Io dunque non la offendo?». «No: lei è un uomo» affermò ancora don Mariano. «E le pare cosa da uomo ammazzare o fare ammazzare un altro uomo?».

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«Io non ho mai fatto niente di simile. Ma se lei mi domanda, a passatempo, per discorrere di cose della vita, se è giusto togliere la vita a un uomo, io dico: prima bisogna vedere se è un uomo…». «Dibella era un uomo?». «Era un quaquaraquà» disse con disprezzo don Mariano: si era lasciato andare, e le parole non sono come i cani cui si può fischiare a richiamarli. «E lei aveva particolari motivi per classificarlo così?» «Nessun motivo: lo conoscevo appena». «Eppure il suo giudizio è esatto: e ci devono essere gli elementi di base… Forse lei sapeva che era una spia, un confidente dei carabinieri…». «Non me ne curavo». «Ma lo sapeva…». «Lo sapeva tutto il paese». «Le nostre segrete fonti di informazioni…» disse con ironia il capitano, voltandosi a guardare il brigadiere. E a don Mariano «E forse Dibella rendeva qualche servizio agli amici passando a noi determinate confidenze… Lei che ne dice?». «Non lo so». «Ma almeno per una volta, una diecina di giorni addietro, Dibella si è lasciato sfuggire una informazione giusta: in questo ufficio, seduto dove è seduto lei… Lei come ha fatto a saperlo?». «Non l’ho saputo: e a saperlo non ne avrei avuto né caldo né freddo». «Forse il Dibella è venuto da lei a confessare l’errore, agitato dal rimorso…». «Era persona da sentire paura, non da sentire rimorso: e non c’era ragione perché venisse da me». «E lei, è uomo da sentire rimorso?». «Né rimorso né paura; mai». «Certi suoi amici dicono che lei è religiosissimo». «Vado in chiesa, mando denaro agli orfanotrofi…». «Crede che basti?». «Certo che basta: la Chiesa è grande perché ognuno ci sta dentro a modo proprio». «Non ha mai letto il Vangelo?». «Lo sento leggere ogni domenica». «Che gliene pare?». «Belle parole: la Chiesa è tutta una bellezza». «Per lei, vedo, la bellezza non ha niente a che fare con la verità». «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità». [Milano, Adelphi, 2011, 102-111].

Un’ultima cosa da segnalare. I personaggi nei diversi ruoli incarnati sono inseriti in quello che viene normalmente definito il sistema dei personaggi e sono legati tra loro da complessi rapporti che si possono sintetizzare nella triade antagonismo-desiderio-tradimento: un soggetto desidera un oggetto (che può essere animato o inanimato); un destinatore ha destinato l’oggetto a un destinatario (che spesso coincide con il soggetto); il soggetto nel raggiungimento dell’oggetto desiderato è coadiuvato da aiutanti (che spingono verso l’oggetto e si alleano con il soggetto stesso) e ostacolato da oppositori (che cercano di allontanare l’oggetto desiderato

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dal soggetto) [Greimas 1984]. In verità, a me sembra che questa triade sia davvero troppo semplicistica e che si attagli meglio al mondo della fiaba e della favola [Propp 2012]: il sistema dei personaggi si complica proporzionalmente al numero degli attori (attanti, per usare l’espressione di Greimas) presenti in scena, oltre al fatto che lo stesso ruolo può sdoppiarsi in più attori, che ruoli diversi possono essere assunti da un unico attore, che alcuni divisioni di ruolo (oppositore/antagonista) spesso sono difficili da attribuire in maniera inequivocabile, e che diversi ruoli possono essere assunti da entità astratte (la Provvidenza, la Storia, la Vendetta, l’Amore, l’Avarizia,…) che partecipano alla storia come veri e propri personaggi. Provo a fare qualche esempio prendendo spunto dai Promessi sposi: è evidente che don Rodrigo si opponga e Renzo nel raggiungimento del suo “oggetto desiderato” che è Lucia, ma è pur vero che anche don Abbondio si oppone, se pur in modo totalmente differente, al fatto che Renzo sposi Lucia.Allora chi è il vero oppositore di Renzo? Don Abbondio o don Rodrigo? E poi a considerare il sistema dei personaggi don Rodrigo sarebbe da intendersi come l’antagonista di Renzo (in fondo è lui che vorrebbe conquistare il cuore, e non solo, di Lucia) ma a guardare di nuovo le cose sotto un altro punto di vista, se è vero che l’antagonista come il protagonista sono fondamentali per lo sviluppo della storia, è evidente che anche don Abbondio non è un semplice oppositore ma è un antagonista di Renzo perché contrasta il suo matrimonio e perché nel corso della vicenda non farà nulla per aggiustare le cose. Inoltre, l’Innominato ricopre due diversi ruoli nei confronti di Lucia, prima quello di oppositore quando acconsente a farla rapire dal convento di Monza per dare una mano a don Rodrigo e poi di aiutante dopo la sua “conversione” quando decide di liberarla e addirittura di provvedere a lei con una dote. Infine, per quanto si possa affermare con sicurezza che Renzo e Lucia sono i due protagonisti del romanzo, si potrebbe sostenere con altrettanta sicurezza che i protagonisti più nascosti ma più profondi di tutta la narrazione sono la Storia e la Provvidenza che con i loro disegni, quasi sempre imperscrutabili per la gente semplice, regolano le vite di Renzo e Lucia e di moltissimi altri personaggi a loro legati. In definitiva, il sistema dei personaggi non è mai così fisso ed è molto più complesso di quanto si è portati a credere e non ne esiste uno che possa andare bene per ogni romanzo; anzi, è l’esatto contrario: ogni romanzo ha un suo personale sistema dei personaggi, che deve tenere conto delle caratteristiche della storia narrata e del numero e della tipologia dei personaggi che servono per narrare quella medesima storia. È comunque possibile distinguere tra: Protagonista (o eroe o personnage focalisateur)  è colui che contribuisce a modificare in modo essenziale gli elementi dell’azione narrativa, che riveste il ruolo principale senza il quale la vicenda non avrebbe una sua logica evoluzione e una sua naturale conclusione. Per rimanere ai Promessi sposi, ovviamente Renzo e Lucia, e persino personaggi astratti come la Provvidenza e la Storia.

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7. Il personaggio “che ritorna” e il personaggio “seriale”

Si potrebbe dire che ogni personaggio è unico. Non esistono, infatti, un altro don Abbondio o un altro Edmond Dantès o un’altra Anna Karenina: i loro tratti esteriori ed interiori, i loro gesti e il loro linguaggio li rendono inequivocabilmente inimitabili. Esiste però la possibilità che un personaggio dalla fisionomia così ben delineata diventi, se non oggetto di imitazione, il protagonista di opere diverse di autori diversi in epoche diverse: si pensi al paladino Orlando che dalle chansons de geste sino all’Orlando furioso (1532) di Lodovico Ariosto è al centro della storia pur con tutte le modificazioni del caso, da difensore della patria e della religione contro l’invasione dei saraceni musulmani a cavaliere travolto dall’amore e persino pazzo per amore che sembra aver perso il senno e la sua capacità di combattere. Si pensi a Carlo Magno che passa dalle appena ricordate chansons de geste al Cavaliere inesistente (1959) di Italo Calvino trasformandosi da saggio e valoroso re a re vecchio e malandato. Si pensi al più volte citato Ulisse che da eroe greco simbolo di forza e astuzia diventa anima peccatrice dell’Inferno dantesco sino a trasformarsi nel dublinese e quotidianissimo Harold Bloom. È pure il caso dei personaggi di John Ronald R. Tolkien, i quali trasmigrando da Lo Hobbit (1937) al Signore degli anelli (1954-1955) e pur conservando numerose peculiarità, da un romanzo all’altro acquistano uno spessore psicologico più marcato e delineato, esattamente come succede all’anello che, in fondo, è il vero protagonista di entrambe le storie: in Lo Hobbit è solo un anello magico di cui non si conosce l’origine e che ha il potere di rendere invisibile chi lo infila al dito; nel Signore degli anelli è l’anello degli anelli creato nella notte dei tempi che, oltre a rendere invisibile, cerca di prendere possesso di quanti lo indossano spingendoli a riportarlo al suo “signore”, il potentissimo e malefico Sauron. Un personaggio può, inoltre, diventare l’eroe di una serie come gli “investigatori” nati dalla penna degli scrittori “gialli”, non ultimo il Salvo Montalbano di Andrea Camilleri. Il personaggio in questo caso percorre due strade: o rimane uguale a se stesso come se nulla lo potesse cambiare, neppure lo scorrere del tempo, ed è il caso dello Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle o della Miss Murple di Agatha Christie; oppure da un volume all’altro, da una storia all’altra il lettore assiste alla sua modificazione e persino al suo invecchiamento anagrafico, come nel caso appunto del Montalbano di Camilleri: da La forma dell’acqua (1994) a Una voce di notte (2012) il nostro Montalbano, infatti, «si lascia ferire dalla ruvida evidenza dei suoi cinquantotto anni» (Salvatore Silvano Nigro).

Antagonista  è colui che si oppone al protagonista, che entra in conflitto con il protagonista e che, come il protagonista, è essenziale per lo svolgimento e l’evoluzione della diegesi [cap. I, par. 1, 10-12]. Come ho già provato a spiegare poche righe sopra, sia don Rodrigo sia don Abbondio, per quanto con modalità diverse e per quanto potrebbero anche essere ritenuti soltanto oppositori.

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Personaggi collaterali  sono coloro che affiancano (coprotagonisti), che aiutano (aiutanti) o che si oppongono (oppositori) al protagonista, contribuendo allo svolgimento dell’azione in maniera più o meno attiva e più o meno positiva. Nel caso del romanzo manzoniano, non è possibile individuare dei veri e propri coprotagonisti per quanto Agnese e Perpetua siano presenze piuttosto costanti, l’una a fianco dei personaggi centrali della storia, l’altra a fianco di don Abbondio. Persino i bravi, soprattutto nella figura del Griso, potrebbe essere considerati tali visto che sono strettamente legati a don Rodrigo (anzi, il Griso avrà un ruolo fondamentale nella parte finale della vita del suo padrone, quando questi prenderà la peste). Vi sono, però, aiutanti, in modo particolare padre Cristoforo che soccorre entrambi i nostri promessi sposi, e progressivamente il cardinale Federigo Borromeo, donna Prassede, don Ferrante e, nella sua nuova vita, l’Innominato per Lucia,Tonio e il cugino Bortolo per Renzo. E vi sono pure oppositori certi: sicuramente la Monaca di Monza e sicuramente l’Innominato prima della cosiddetta “conversione”. Comparse  sono coloro che, all’interno dell’azione narrativa, non agiscono e non provocano in alcun modo un avanzamento dell’azione stessa, conferendo solo una maggiore specificità all’ambientazione della storia (nel teatro e nel cinema sono gli attori che appaiono in scena senza pronunciare alcuna battuta o che hanno una sola battuta ma che conferiscono comunque maggiore spessore e maggiore veridicità alla scena in questione). Tantissime, come si può ben immaginare, in particolare nelle “scene di massa” come durante la “notte degli imbrogli” con tutto il paese sceso in piazza e i tumulti milanesi di San Martino, ma anche in scene più minute e ristrette come i due avventori della osteria di Gorgonzola dove sta mangiando Renzo in fuga verso l’Adda o la madre di Cecilia, sublime raffigurazione della dignità della sofferenza in tempo di peste.

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Alessandro Manzoni I promessi sposi Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languor mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo. La sua andatura era affaticata, ma non cascante; gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante; c’era in quel dolore un non so che di pacato e di profondo, che attestava un’anima tutta consapevole e presente a sentirlo. Ma non era il solo suo aspetto che, tra tante miserie, la indicasse così particolarmente alla pietà, e ravvivasse per lei quel sentimento ormai stracco e ammortito ne’ cuori. Portava essa in collo una bambina di forse nov’anni, morta; ma tutta ben accomodata, co’ capelli divisi sulla fronte, con un vestito bianchissimo, come se quelle mani l’avessero adornata per una festa promessa da tanto tempo, e data per premio. Né la teneva a giacere, ma sorretta, a sedere sur un braccio, col

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petto appoggiato al petto, come se fosse stata viva; se non che una manina bianca a guisa di cera spenzolava da una parte, con una certa inanimata gravezza, e il capo posava sull’omero della madre, con un abbandono più forte del sonno: della madre, ché, se anche la somiglianza de’ volti non n’avesse fatto fede, l’avrebbe detto chiaramente quello de’ due ch’esprimeva ancora un sentimento. Un turpe monatto andò per levarle la bambina dalle braccia, con una specie però d’insolito rispetto, con un’esitazione involontaria. Ma quella, tirandosi indietro, senza però mostrare sdegno né disprezzo, – no! – disse: – non me la toccate per ora; devo metterla io su quel carro: prendete –. Così dicendo, aprì una mano, fece vedere una borsa, e la lasciò cadere in quella che il monatto le tese. Poi continuò: – promettetemi di non levarle un filo d’intorno, né di lasciar che altri ardisca di farlo, e di metterla sotto terra così. Il monatto si mise una mano al petto; e poi, tutto premuroso, e quasi ossequioso, più per il nuovo sentimento da cui era come soggiogato, che per l’inaspettata ricompensa, s’affaccendò a far un po’ di posto sul carro per la morticina. La madre, dato a questa un bacio in fronte, la mise lì come sur un letto, ce l’accomodò, le stese sopra un panno bianco, e disse l’ultime parole: – addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme. Prega intanto per noi; ch’io pregherò per te e per gli altri – Poi voltatasi di nuovo al monatto, – voi, – disse, – passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me, e non me sola. [Milano, BUR, 2011, cap. XXXIV]

2. Da quale angolo il personaggio guarda la storia: il punto di vista La scelta dell’angolazione (slant) o della prospettiva, il cosiddetto punto di vista [Meneghelli 1998;Turchetta 1999], da cui guardare e raccontare la storia risulta fondamentale perché influisce profondamente sul modo in cui un lettore [cap. I, par. 2, 20-26] leggerà quella medesima storia, interpretandola, amandola o detestandola, e sul modo in cui un personaggio o una serie di personaggi si comporteranno all’interno della storia imprimendo in questo modo alla storia quel particolare carattere e non un altro: se nei Promessi sposi il punto di vista principale non fosse quello del nostro narratore onnisciente [cap. I, par. 2, 41], cattolico osservante e intensamente credente, ma quello di don Abbondio, prete non per vocazione ma per necessità, tutta la vicenda avrebbe connotati del tutto diversi e così il mancato matrimonio sarebbe visto soltanto come l’unica soluzione possibile di un debole in un mondo dominato dai forti. A ben osservare i vari elementi che danno corpo ad una narrazione, quasi tutto prende avvio proprio dal punto di vista (o focalizzazione o prospettiva o focus of narration), attraverso cui è raccontata la storia: l’autore/narratore [cap. I, par. 3, 32-33 e 37-49] decide, infatti, quali tecniche di rappresentazione utilizzare a seconda della distanza o vicinanza con cui decide appunto di esibire la storia medesima; e i personaggi a loro volta si muovono all’interno della storia a seconda del rapporto di minore o maggiore vicinanza o lontananza che hanno stretto con il loro creatore. È, a

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mio parere, lo strumento che, più di altri sinora analizzati, stabilisce un legame fortissimo, oserei dire indissolubile, tra autore e personaggio, tra voce narrante e personaggio medesimo: quindi non deve essere assolutamente confusa con l’ottica mentale di un determinato personaggio che implica il suo patrimonio culturale, le sue idee, i suoi pregiudizi, insomma tutto ciò che concerne la sua mentalità, e che ha a che fare con il vedere e il giudicare di cui ho parlato poche pagine prima [par 1, 135-140]. Teorizzata in ambito critico dal grande scrittore statunitense Henry James, in The Art of the Novel (1937), la focalizzazione risponderebbe ad una serie di domande [Norman Friedman in Meneghelli 2004; Genette 2006; James 1964;Tzvetan Todorov in Analisi 2002]: quale è il personaggio il cui punto di vista orienta la prospettiva narrativa? chi parla al lettore (l’autore in prima persona, la voce narrante, uno o più personaggi)? chi è il narratore? quale è la posizione da cui si osserva la storia? quali canali di informazione utilizza la voce narrante per trasmettere la storia (le parole, i pensieri, i sentimenti, le sensazioni, le azioni dei personaggi; le parole, i pensieri, i sentimenti, le sensazioni dell’autore)? a quale distanza dalla storia l’autore colloca il suo lettore (vicino, lontano, a una distanza variabile)? In sostanza, ciò che è davvero essenziale quando si inizia a scrivere/narrare una storia è il modo in cui vengono presentati i fatti, è l’angolatura, la distanza o prospettiva, secondo cui è rivelato ognuno degli eventi che costituiscono la trama: Possiamo effettivamente narrare più o meno quel che narriamo, e narrarlo secondo vari punti di vista; la nostra categoria del modo narrativo si riferisce precisamente a una simile capacità e alle modalità del suo esercizio: la «rappresentazione», o più esattamente l’informazione narrativa, ha i suoi gradi; il racconto può fornire al lettore maggiori o minori particolari, e in maniera più o meno diretta, e sembrare così (per riprendere una metafora spaziale corrente e pratica, a condizione di non prenderla alla lettera) a più o meno distanza da quel che esso racconta; può anche scegliere di dosare l’informazione che esso fornisce, non più servendosi di questa specie di filtro uniforme, ma a seconda delle capacità di conoscenza di questa o quella parte beneficiaria della storia (personaggio o gruppo di personaggi), di cui adotterà (o fingerà d’adottare) quello che generalmente è chiamato la «visione» o il «punto di vista», dando allora l’impressione di adottare una prospettiva di un tipo o di un altro nei confronti della storia (per continuare la metafora spaziale). «Distanza» e «prospettiva», provvisoriamente chiamate e definite così, sono le due modalità essenziali della regolazione dell’informazione narrativa, costituita dal modo, esattamente come la mia visione di un quadro dipende, per la precisione, dalla distanza che mi separa da esso, e per l’estensione, dalla mia posizione nei confronti di un eventuale ostacolo parziale che gli faccia più o meno da schermo. [Genette 2006, 209]

La composizione di un’opera narrativa dipende, quindi, dal variabile e delicatissimo equilibrio che esiste tra modi di presentazione (punto di vista

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o focalizzazione), cose/oggetti/personaggi messi in scena attraverso la fabula o l’intreccio [cap. II, Premessa, 51-56] e tecniche con cui tutto ciò viene rappresentato, come l’ordine, la durata e la frequenza [cap. II, par. 2 e 3, 63-72 e 72-86; BOX 5. La frequenza, ossia quante volte racconto la storia, 86]. È evidente, inoltre, che il punto di vista o prospettiva, come dichiara il suo sintagma dalla forte pregnanza metaforica, è strettamente connesso all’idea di percezione visiva (del resto il termine prospettiva deriva dal latino prospic&ere, ossia vedere distintamente): un autore mentre crea la sua storia e un narratore mentre la racconta non pensano solo al modo in cui narrarla ma anche a chi la vedrà e a come la vedrà, cioè al personaggio che la dovrà mettere in scena e al lettore che la dovrà far sua. È insieme alla durata [cap. II, par. 3, 72] lo strumento che maggiormente permette di regolare il flusso delle informazioni e il modo di dare queste stesse informazioni. Per questo è possibile distinguere sostanzialmente tre tipologie di punto di vista o focalizzazione: Focalizzazione zero  narratore > personaggio, ossia il narratore mostra di sapere e di dire più di quanto dice o sa ognuno dei personaggi: è quella tipica del narratore onnisciente [cap. I, par. 2, 41-42] che domina dall’alto quasi come un demiurgo l’intera vicenda perché la conosce in anticipo prima di raccontarla e, per questo motivo, può decidere liberamente anche cosa raccontare e come raccontare. Esempi classici i poemi antichi in cui tutto è già scritto prima di metterlo in scena e I promessi sposi di Manzoni, ma anche tutti i testi in cui il narratore palesa la sua presenza attraverso appelli al lettore/narratario [cap. I, par. 2, 20-26]; e testi in cui l’autore sembra muoversi in silenzio o per osservare dall’alto quanto si sta compiendo come Mann in La morte a Venezia [cap. I, par. 2, 42] o per dichiarare per mezzo di un determinato personaggio o di una determinata storia la sua concezione del mondo borghese come succede in Madame Bovary di Flaubert; e anche tutte le autobiografie, le memorie, i ricordi vergati dai loro autori a cose ormai concluse, in età adulta se non addirittura senile, con l’intento non tanto di restituire tutta la storia quanto di riferire quei fatti, quei momenti, che hanno reso la propria storia meritevole di essere raccontata agli altri. Focalizzazione esterna  narratore < personaggio, ossia il narratore sa e dice meno di quello che sa e dice il personaggio: fa riferimento al fatto che il narratore, chiunque esso sia, si limita a osservare imparzialmente e impassibilmente i fatti, i gesti, le azioni dei suoi personaggi, riportando i dialoghi come se li registrasse con uno strumento tecnico e senza esprimere ipotesi o giudizi personali, cercando di dare un effetto di realismo e oggettività come se guardasse tutto da fuori. È la tipica focalizzazione del romanzo realista e poi di quello naturalista (Émile Zola, tanto per fare un nome) e che è possibile rintracciare anche in due racconti già citati Due da due penny, per favore di Katherine Mansfield [cap. I, par. 1, 8-10] e La collana di Guy de Maupassant [cap. II, par. 4, 91-96]: nel primo risulta evidente che il narratore, e con lui il lettore, sembra essere uno dei tanti pas-

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seggeri dell’autobus su cui si svolge la vicenda e, quindi, vedere e sentire le stesse cose che vedono e sentono tutti; nel secondo il narratore, e con lui il lettore, segue la tormentata e dolorosa storia di Mathilde Loisel assolutamente insieme a lei e insieme a lei scopre la sorprendente e amarissima verità, cioè che la collana per cui tanto ha faticato e sofferto era falsa. Ed è lo stesso punto di vista che consente a Giovanni Verga di raccontare la storia di Mazzarò, protagonista della novella La roba della raccolta Vita dei Campi (1880), guardando esclusivamente al suo modo di considerare la vita e, appunto, l’accumulo di “roba” (è sufficiente la parte finale).

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Giovanni Verga La roba Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba a sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la pioggia, col logorar i suoi stivali e le sue mule – egli solo non si logorava, pensando alla sua roba, ch’era tutto quello ch’ei avesse al mondo; perché non aveva né figli, né nipoti, né parenti; non aveva altro che la sua roba. Quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba. Ed anche la roba era fatta per lui, che pareva ci avesse la calamita, perché la roba vuol stare con chi sa tenerla, e non la sciupa come quel barone che prima era stato il padrone di Mazzarò, e l’aveva raccolto per carità nudo e crudo ne’ suoi campi, ed era stato il padrone di tutti quei prati, e di tutti quei boschi, e di tutte quelle vigne e tutti quegli armenti, che quando veniva nelle sue terre a cavallo coi campieri dietro, pareva il re, e gli preparavano anche l’alloggio e il pranzo, al minchione, sicché ognuno sapeva l’ora e il momento in cui doveva arrivare, e non si faceva sorprendere colle mani nel sacco. «Costui vuol essere rubato per forza!» diceva Mazzarò, e schiattava dalle risa quando il barone gli dava dei calci nel di dietro, e si fregava la schiena colle mani, borbottando: «Chi è minchione se ne stia a casa», – «la roba non è di chi l’ha, ma di chi la sa fare». Invece egli, dopo che ebbe fatta la sua roba, non mandava certo a dire se veniva a sorvegliare la messe, o la vendemmia, e quando, e come; ma capitava all’improvviso, a piedi o a cavallo alla mula, senza campieri, con un pezzo di pane in tasca; e dormiva accanto ai suoi covoni, cogli occhi aperti, e lo schioppo fra le gambe. In tal modo a poco a poco Mazzarò divenne il padrone di tutta la roba del barone; e costui uscì prima dall’uliveto, e poi dalle vigne, e poi dai pascoli, e poi dalle fattorie e infine dal suo palazzo istesso, che non passava giorno che non firmasse delle carte bollate, e Mazzarò ci metteva sotto la sua brava croce. Al barone non rimase altro che lo scudo di pietra ch’era prima sul portone, ed era la sola cosa che non avesse voluto vendere, dicendo a Mazzarò: «Questo solo, di tutta la mia roba, non fa per te». Ed era vero; Mazzarò non sapeva che farsene, e non l’avrebbe pagato due baiocchi. Il barone gli dava ancora del tu, ma non gli dava più calci nel di dietro. «Questa è una bella cosa, d’avere la fortuna che ha Mazzarò!» diceva la gente; e non sapeva quel che ci era voluto ad acchiappare quella fortuna: quanti pensieri, quante fatiche, quante menzogne, quanti pericoli di andare in galera, e come quella testa che era un brillante avesse lavorato giorno e notte, meglio di una macina del

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mulino, per fare la roba; e se il proprietario di una chiusa limitrofa si ostinava a non cedergliela, e voleva prendere pel collo Mazzarò, dover trovare uno stratagemma per costringerlo a vendere, e farcelo cascare, malgrado la diffidenza contadinesca. Ei gli andava a vantare, per esempio, la fertilità di una tenuta la quale non produceva nemmeno lupini, e arrivava a fargliela credere una terra promessa, sinché il povero diavolo si lasciava indurre a prenderla in affitto, per specularci sopra, e ci perdeva poi il fitto, la casa e la chiusa, che Mazzarò se l’acchiappava – per un pezzo di pane. – E quante seccature Mazzarò doveva sopportare! – I mezzadri che venivano a lagnarsi delle malannate, i debitori che mandavano in processione le loro donne a strapparsi i capelli e picchiarsi il petto per scongiurare di non metterli in mezzo alla strada, col pigliarsi il mulo o l’asinello, che non avevano da mangiare. «Lo vedete quel che mangio io?» rispondeva lui, «pane e cipolla! e sì che ho i magazzini pieni zeppi, e sono il padrone di tutta questa roba». E se gli domandavano un pugno di fave, di tutta quella roba, ei diceva: «Che, vi pare che l’abbia rubata? Non sapete quanto costano per seminarle, e zapparle, e raccoglierle?» E se gli domandavano un soldo rispondeva che non l’aveva. E non l’aveva davvero. Ché in tasca non teneva mai 12 tarì, tanti ce ne volevano per far fruttare tutta quella roba, e il denaro entrava ed usciva come un fiume dalla sua casa. Del resto a lui non gliene importava del denaro; diceva che non era roba, e appena metteva insieme una certa somma, comprava subito un pezzo di terra; perché voleva arrivare ad avere della terra quanta ne ha il re, ed esser meglio dei re, ché il re non può né venderla, né dire ch’e sua. Di una cosa sola gli doleva, che cominciasse a farsi vecchio, e la terra doveva lasciarla là dov’era. Questa è una ingiustizia di Dio, che dopo di essersi logorata la vita ad acquistare della roba, quando arrivate ad averla, che ne vorreste ancora, dovete lasciarla! E stava delle ore seduto sul corbello, col mento nelle mani, a guardare le sue vigne che gli verdeggiavano sotto gli occhi, e i campi che ondeggiavano di spighe come un mare, e gli oliveti che velavano la montagna come una nebbia, e se un ragazzo seminudo gli passava dinanzi, curvo sotto il peso come un asino stanco, gli lanciava il suo bastone fra le gambe, per invidia, e borbottava: «Guardate chi ha i giorni lunghi! costui che non ha niente!». Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: «Roba mia, vientene con me!». [in Tutte le novelle,Torino, Einaudi Tascabili, 2011]

Focalizzazione interna  narratore = personaggio, ossia il narratore sa e dice solo quanto di volta in volta sa e dice il personaggio: fa dunque riferimento al punto di vista di un particolare personaggio. L’autore non può anticipare nulla perché conosce soltanto quello che gli è dato sapere dal suo personaggio, che è poi colui che offre l’intera prospettiva della storia e ne regola il flusso delle informazioni; il personaggio finisce per essere la “coscienza centrale” della vicenda, per dirla con Flaubert. È il caso di gran parte del romanzo dell’Ottocento, in particolare di quasi tutto il romanzo psicologico [BOX 6. I generi della narrativa, 107]. La focalizzazione interna può avere caratteristiche diverse:

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1) È fissa quando passa attraverso la prospettiva di un unico personaggio per tutta la durata della narrazione, come avviene per esempio nel romanzo Quel che sapeva Maisie (1897) di Henry James tutto incentrato sull’ottica di una bambina (del resto, James è stato uno degli scrittori che ne ha fatto un uso più ampio e costante) nello stesso modo in cui in tempi recenti ha fatto Niccolò Ammaniti in Io non ho paura (2001); o come in uno dei capolavori del Decadentismo europeo, Controcorrente (1884) di Joris-Karl Huysmans in cui protagonista assoluto, quasi unico, e “coscienza centrale” è quello di Des Essaintes, geniale ed originale espressione di una raffinatezza e di un estetismo portati alle estreme conseguenze contro il dilagare della“stupidità”e del“fango”della vita comune della“plebe”; oppure come nella maggior parte dei racconti di Franz Kafka tra cui Undici figli (1917) in cui ogni considerazione passa attraverso la prospettiva di un padre decisamente inconsueto e incontentabile (ben nota è la rilevanza della figura paterna nella biografia e nella letteratura di Kafka, addirittura espressa nella Lettera al padre del 1919).

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Franz Kafka Undici figli Ho undici figli. Il primo è fisicamente poco appariscente, ma serio e intelligente, pure non ho molta stima di lui, benché, come figlio, lo ami come tutti gli altri. Il suo modo di pensare mi sembra troppo semplice. Non guarda né a destra né a sinistra, né in lontananza, compie continuamente il periplo della ristretta cerchia delle sue idee o meglio vi si aggira dentro. Il secondo è bello, snello, ben fatto: è un piacere vederlo in posizione da schermitore. Anche lui è intelligente ma, inoltre, esperto della vita; ha girato molto, e perciò par che perfino la natura del paese natio parli a lui con più confidenza che a quelli che non se ne sono allontanati. Questo merito non è però da attribuirsi soltanto, e neppure esclusivamente, all’aver viaggiato, ma fa piuttosto parte di quel che è inimitabile in questo figliuolo e che viene, per esempio, riconosciuto da chiunque vuol imitare i suoi magistrali tuffi pieni di salti mortali ripetuti eppur regolati da un violento dominio di sé. Sino alla punta del trampolino chi vuol imitarlo ha coraggio e voglia, arrivato a quel punto però invece di saltare si ferma, si siede d’improvviso alzando le braccia per scusarsi. – Eppure, malgrado tutto (dovrei pur esser felice di un tale figlio!) i miei rapporti con lui non sono sereni. Il suo occhio sinistro è un po’ più piccolo dei destro e lo strizza spesso; è un piccolo difetto, certo, che rende il suo volto ancor più tracotante, di quel che non sia già, e nessuno, di fronte alla riservatezza inaccessibile della sua natura, noterebbe come un difetto quest’occhio più piccolo che ammicca, ma io, come padre, sì. Non è certo il difetto fisico che mi affligge, ma piuttosto una piccola irregolarità dei suo spirito che vi corrisponde in qualche modo, un qualche veleno che circola nel suo sangue, una qualche incapacità di condurre a pieno compimento quella disposizione della sua vita, che io solo intravedo. Ma, d’altra parte, proprio questo fa di lui il mio vero figlio, poiché questo suo difetto è comune a tutta la nostra famiglia, e in lui è soltanto più evidente.

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Il terzo figlio è bello anche lui, ma non di quella bellezza che mi piace. È la bellezza dei cantante: bocca sinuosa; occhi sognanti; una testa che, per spiccar bene, ha bisogno di un drappeggio dietro di sé; petto che si gonfia esageratamente; mani che facilmente si levano in alto e troppo facilmente ricadono in basso; gambe che si muovono con ricercatezza, perché non sanno portare. Inoltre il tono della sua voce non è pieno: per un momento inganna; fa tender l’orecchio all’intenditore; ma subito dopo si spegne. – Per quanto tutto possa spingermi a mettere in mostra questo figlio, preferisco tenerlo nascosto; egli stesso non si fa avanti, non già perché conosca i suoi difetti, ma per ingenuità. E poi si sente estraneo al nostro tempo; come se appartenesse sì alla mia famiglia, ma insieme anche ad un’altra, perduta per sempre; egli è spesso di cattivo umore e nulla riesce a rasserenarlo. Il mio quarto figlio è forse il più socievole di tutti.Vero figlio del suo tempo, si fa comprendere da tutti, si muove sopra un terreno comune a tutti e ognuno è tentato di fargli un cenno di consenso. Forse questo generale riconoscimento conferisce alla sua natura una certa lievità, ai suoi movimenti una certa disinvoltura, ai suoi giudizi una certa noncuranza. Alcuni suoi detti verrebbe voglia di ripeterli spesso, solo alcuni però, poiché nel loro complesso peccano ancora di troppa superficialità. E come uno che spicca un salto in maniera meravigliosa, fende l’aria come una rondine, ma finisce poi miseramente nella squallida polvere, ormai ridotto a un nulla. Simili pensieri mi amareggiano la vista di questo figliuolo. Il quinto figlio è buono e caro; prometteva molto meno di quanto ha mantenuto; era così insignificante che insieme a lui ci si sentiva proprio soli; eppure è riuscito a guadagnarsi una certa stima. Se mi si chiedesse come ciò sia avvenuto, non saprei proprio come rispondere. Forse l’innocenza si fa ancora strada con la massima facilità nell’infuriare degli elementi, in questo mondo; ed egli è innocente. Forse anche troppo. Gentile con tutti. Forse anche troppo. Lo confesso: mi sento a disagio quando lo si loda, in mia presenza.Vuol dire rendersi troppo facile una lode, quando si loda chi ne è così palesemente degno, come mio figlio. Il mio sesto figlio sembra, almeno a prima vista, il più meditabondo di tutti. È malinconico e insieme un chiacchierone. Perciò non è facile con lui spuntarla. Se sta per aver la peggio cade in una invincibile tristezza; se invece conquista il sopravvento cerca di conservarlo chiacchierando. Tuttavia non gli nego una certa passione che lo rende dimentico di se stesso; spesso, in pieno giorno, si dibatte nei suoi pensieri come in sogno. Senz’esser malato – gode anzi di un’ottima salute – barcolla a volte, specialmente sull’imbrunire, ma non occorre aiutarlo, non cade. Forse di questo fenomeno ha colpa il suo sviluppo fisico: egli è troppo alto, per la sua età. Questo nel complesso non lo rende bello, nonostante la bellezza eccezionale di singole parti dei corpo, per esempio delle mani e dei piedi. Non bella è, poi, anche la sua fronte: ha un che d’incartapecorito, tanto nella pelle come nella conformazione delle ossa. Il settimo figlio mi appartiene forse più di tutti gli altri. Il mondo non sa apprezzarlo; non capisce la particolarità del suo umorismo. Non che io lo sopravvaluti so bene che è piuttosto comune; se il mondo non avesse altro difetto che quello di non saperlo apprezzare, sarebbe ancora puro. Ma non vorrei che questo figlio mancasse in seno alla mia famiglia. Egli vi porta inquietudine e insieme rispetto per la tradizione, e sa fondere questi due elementi, almeno a mio parere, in una perfetta unità.Vero è che da questo fatto lui, meno degli altri, sa trarre qualche conclusione; né sarà certo lui a metter in moto la ruota dell’avvenire; ma questa sua disposizione è così consolante e fiduciosa; vorrei che avesse dei figli e questi ancora fi-

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gli. Purtroppo questo desiderio sembra non si debba avverare. Per quanto a me sia comprensibile e insieme dispiaccia ch’egli sia così soddisfatto di sé, in profondo contrasto inoltre con l’opinione di quanti lo circondano, se ne va sempre solo in giro, senza occuparsi delle ragazze, e senza perder mai perciò il suo buon umore. Il mio ottavo figlio è la mia croce, e non so in fondo perché. Mi guarda come fossi un estraneo, eppure io, come padre, mi sento strettamente legato a lui. Il tempo ha rimediato molte cose; prima però mi coglieva a volte un tremore soltanto a pensare a lui. Egli va per la sua strada; ha rotto con me tutti i rapporti; con la sua testa dura, il suo piccolo corpo atletico – soltanto le gambe erano da bambino, molto deboli, ma questo difetto si dev’esser già cancellato nel frattempo – saprà sempre farsi strada dove gli piacerà. Spesso m’è venuta la voglia di richiamarlo, di chiedergli come andassero le cose, perché si tenesse così lontano dal padre e cosa in fondo avesse in mente, ma ormai è così lontano ed è passato già tanto tempo; è meglio che le cose rimangano come sono. Ho sentito dire che – unico tra i miei figli – porta la barba; a un uomo così piccolo non starà certo bene. Il mio nono figlio è molto elegante ed ha il dolce sguardo che ci vuole per le donne. Così dolce che a volte riesce a sedurre anche me, che so bene come basti un solo colpo di spugna bagnata per cancellare tutto quello splendore soprannaturale. La caratteristica di questo ragazzo è però ch’egli non cerca affatto di sedurre; si contenterebbe di star tutta la vita sdraiato sopra un canapè, lasciando scorrere lo sguardo sul soffitto, o meglio ancora riposare sotto le palpebre. Quando si trova in quella posizione, da lui prediletta, parla volentieri e neanche male; conciso e chiaro, ma sempre in limiti molto stretti; appena li supera – e, data la loro ristrettezza, è inevitabile – il suo discorso diventa completamente vuoto. Gli si farebbe volentieri cenno di smettere, se si avesse la minima speranza che il suo sguardo pieno di sonno se ne accorgesse. Il mio decimo figlio passa per un carattere poco sincero. Non voglio né contestare e neppure confermare completamente questo difetto. Certo, chi lo vede arrivare con quell’aria solenne, molto superiore alla sua età, con quel suo giacchettone tutto abbottonato, col cappello nero, vecchio ma scrupolosamente spolverato, con quel suo viso impassibile, il mento un po’ sporgente, le palpebre che s’inarcano pesantemente sugli occhi, e due dita spesso appuntate alle labbra – chi lo vede così pensa: ecco un autentico ipocrita! Ma lo si ascolti prima! Assennato, parla con prudenza, conciso, è pronto a risponder a tutto con maligna vivacità; in sorprendente, naturale e allegro accordo col mondo intero; un accordo che necessariamente gli fa irrigidire il collo ed ergere il corpo. Molti, che si ritengono molto furbi e che perciò, secondo loro, si sentono respinti dal suo aspetto, sono stati fortemente attirati dalla sua parola. C’è anche chi rimane indifferente dinanzi al suo aspetto ma ritiene ipocrita la sua parola. Io, come padre, non voglio giudicare ciò ma devo ammettere che gli ultimi giudici sono comunque più degni di essere presi in considerazione dei primi. Il mio undicesimo figlio è gracile, certo è il più debole di tutti; ma la sua debolezza inganna, perché a volte sa esser forte e risoluto; ma anche allora la sua debolezza in qualche modo è determinante Non è però una debolezza di cui s’abbia a vergognare, ma qualcosa che sembra tale soltanto su questa nostra terra. Non è per esempio anche la disposizione al volo una debolezza, trattandosi di un vacillare incerto, di uno svolazzare a caso? Qualcosa di simile appare nel mio figliuolo. Il padre, di tali qualità non può certo rallegrarsi, perché tendono evidentemente alla di-

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sgregazione della famiglia.A volte mi guarda quasi mi volesse dire:Ti prenderò con me, babbo. Ed io penso allora: Saresti l’ultimo a cui mi affiderei. E il su sguardo sembra rispondere: Ebbene, ch’io sia almeno l’ultimo. Questi sono i miei undici figli. [in La Metamorfosi e altri racconti, Milano, Oscar Mondadori, 2011]

2) È variabile quando l’autore fa propri progressivamente e/o alternativamente i punti di vista di due o più personaggi: caso emblematico Madame Bovary di Flaubert, in cui la storia è progressivamente “vista” attraverso gli occhi di Emma e del marito Charles. Si possono citare pure i romanzi di Virginia Woolf, in modo particolare Al faro (1927), in cui è evidente che i punti di vista sono quelli della signora Ramsey per tutta la prima parte e quelli di Lilly Briscoe per la seconda. Preferisco, però, soffermarmi su Le città invisibili (1972) di Italo Calvino, romanzo davvero atipico nella storia letteraria italiana, che prendendo spunto da Il Milione (ca 1298) di Marco Polo, cerca di costruire l’immagine della città ideale componendo i “ritratti” di cinquantadue città, oggetto dei relativi micro-racconti di Marco al Kublai Khan, città più irreali che reali, più simboliche che concrete, più rarefatte che materiali;il tutto poi legato insieme da alcuni dialoghi tra Marco e lo stesso Kublai Khan. È proprio in uno di questi dialoghi, posto in apertura della seconda della nove sezioni, che risulta evidente che la prospettiva, il punto di vista, di osservazione del viaggio compiuto da Marco non è univoco.

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Italo Calvino Le città invisibili – Gli altri ambasciatori mi avvertono di carestie, di concussioni, di congiure, oppure mi segnalano miniere di turchesi nuovamente scoperte, prezzi vantaggiosi nelle pelli di martora, proposte di forniture di lame damascate. E tu? – chiese a Polo il Gran Kan. – Torni da paesi altrettanto lontani e tutto quello che sai dirmi sono i pensieri che vengono a chi prende il fresco la sera seduto sulla soglia di casa. A che ti serve, allora, tanto viaggiare? – È sera, siamo seduti sulla scalinata del tuo palazzo, spira un po’ di vento, – rispose Marco Polo. – Qualsiasi paese le mie parole evochino intorno a te, lo vedrai da un osservatorio situato come il tuo, anche se al posto della reggia c’è un villaggio di palafitte e se la brezza porta l’odore d’un estuario fangoso. – Il mio sguardo è quello di chi sta assorto e medita, lo ammetto. Ma il tuo? Tu attraversi arcipelaghi, tundre, catene di montagne. Tanto varrebbe che non ti muovessi di qui. [Milano, Oscar Mondadori, 2011]

Se dunque la prospettiva del Gran Khan è quella di sapere qualcosa in più del proprio vastissimo impero, la prospettiva di Marco è quella del vero viaggiatore che viaggia solo per riconoscere «il poco che è suo, scopren-

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do il molto che non ha avuto e non avrà». Durante uno di questi viaggi, Marco si imbatte in una città, una città del “desiderio”, che è la perfetta e meravigliosa incarnazione del “punto di vista variabile”, doppia a seconda di chi la guarda e da dove la si guarda.

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Italo Calvino Le città invisibili In due modi si raggiunge Despina: per nave o per cammello. La città si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare. Il cammelliere che vede spuntare all’orizzonte dell’altipiano i pinnacoli dei grattacieli, le antenne radar, sbattere le maniche a vento bianche e rosse, buttare fumo i fumaioli, pensa a una nave, sa che è una città ma la pensa come un bastimento che lo porti via dal deserto, un veliero che stia per salpare, col vento che già gonfia le vele non ancora slegate, o un vapore con la caldaia che vibra nella carena di ferro, e pensa a tutti i porti, alle merci d’oltremare che le gru scaricano sui moli, alle osterie dove equipaggi di diversa bandiera si rompono bottiglie sulla testa, alle finestre illuminate a pianterreno, ognuna con una donna che si pettina. Nella foschia della costa il marinaio distingue la forma d’una gobba di cammello, d’una sella ricamata di frange luccicanti tra due gobbe chiazzate che avanzano dondolando, sa che è una città ma la pensa come un cammello dal cui basto pendono otri e bisacce di frutta candita, vino di datteri, foglie di tabacco, e già si vede in testa a una lunga carovana che lo porta via dal deserto del mare, verso oasi d’acqua dolce all’ombra seghettata delle palme, verso palazzi dalle spesse mura di calce, dai cortili di piastrelle su cui ballano scalze le danzatrici, e muovono le braccia un po’ nel velo e un po’ fuori dal velo. Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone; e così il cammelliere e il marinaio vedono Despina, città di confine tra due deserti. [Milano, Oscar Mondadori, 2011]

3) È multipla quando lo stesso evento è narrato secondo l’ottica di più personaggi, che tra loro possono anche essere in contrasto per opinioni e pensieri. Si pensi al già più volte citato romanzo di Younis Tawkik La straniera e al fatto che la storia è raccontata almeno in parte facendo riferimento ai punti di vista dei due personaggi principali, l’Architetto e Amina [cap. I, par. 3, 46-49; cap. II, par. 3, 77-78]; e soprattutto si pensi allo strepitoso, inverosimile e surreale racconto Il naso (1836) di Nikolaj Vasil’eviôc Gogol’, in cui la storia di un naso viene vista e raccontata prima attraverso gli occhi di chi lo ho trovato inaspettatamente e che se ne libera buttandolo giù dal Ponte Isakièvskij, e poi di chi lo ha perso senza sapere come e che grazie ad un annuncio sul giornale alla fine lo ritroverà e miracolosamente riuscirà e rimetterlo al suo posto,ma anche attraverso la prospettiva del tutto particolare del naso stesso, il quale, dopo essere andato «in giro con il grado di consigliere di stato», aver «procurato tanto rumore in città» e aver tentato la fuga, ritornerà «come se niente fosse» fra le guance del suo legittimo proprietario.

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Nikolaj Vasil’eviôcô Gogol’ Il naso I Il 25 marzo accadde a Pietroburgo un fatto straordinario. Il barbiere Ivàn Jàkovleviôc, domiciliato sulla Prospettiva Voznesenskij (il suo cognome è andato perduto e persino sulla sua insegna non risulta altro se non un signore raffigurato con la faccia insaponata e la scritta: «Si cava anche sangue»), il barbiere Ivàn Jàkovleviôc si destò abbastanza presto e sentì un odore di pane caldo. Sollevatosi un po’ sul letto, vide che la sua consorte, una dama abbastanza rispettabile e molto amante del caffè, tirava fuori dal forno del pane appena cotto. «Oggi, Praskov’ja Òsipovna, non prendo il caffè» disse Ivàn Jàkovleviôc «e invece ho una gran voglia di mangiare pane caldo con la cipolla». (Ossia Ivàn Jàkovleviôc avrebbe voluto l’uno e l’altro, però sapeva che era assolutamente impossibile pretendere due cose insieme, poiché simili capricci non piacevano affatto a Praskov’ja Osipovna.) «Mangi pure il pane, lo sciocco; per me è meglio» pensò fra sé la consorte «così rimane una porzione di caffè in più». E buttò un pane sulla tavola. Ivàn Jàkovleviôc, per decenza, indossò il frac sopra la camicia e, sedutosi a tavola, versò del sale, preparò due teste di cipolla, afferrò il coltello e, assumendo un’espressione d’importanza, prese a tagliare il pane. Tagliato il pane in due parti, vi guardò in mezzo e con sua meraviglia vide qualcosa che biancheggiava. Ivàn Jàkovleviôc frugò cautamente con il coltello e tastò con il dito: «È solido» disse tra sé «che può essere?». Vi ficcò le dita e tirò fuori un naso!… Ivàn Jàkovlevôc rimase di stucco; cominciò a strofinarsi gli occhi e tastò: un naso, era proprio un naso! e per giunta pareva anche in certo senso sconosciuto. Il volto di Ivàn Jàkovleviôc fu invaso dal terrore. Ma questo non era niente al confronto dell’indignazione che s’impadronì della moglie. «Animale, dov’è che hai tagliato questo naso?» gridò lei con ira. «Furfante! Ubriacone! Io stessa andrò a denunciarti alla polizia. Razza di brigante! Io stessa ho sentito dire da tre persone che quando fai la barba maltratti tanto i nasi che appena si reggono». Ma Ivàn Jàkovleviôc stava più di là che di qua. Aveva riconosciuto quel naso: era nientemeno quello dell’assessore di collegio Kovalëv al quale faceva la barba ogni mercoledì e ogni domenica. […] Ivàn Jàkovleviôc stava lì come un morto. Pensava, pensava e non sapeva cosa pensare. «Lo sa il diavolo com’è successo», disse infine, grattandosi l’orecchio. «Se ieri sono tornato ubriaco o no, non lo posso dire di certo. Ma da tutti i segni questo è un avvenimento inaudito, perché il pane è una cosa cotta al forno, mentre il naso non è affatto tale. Non ci capisco niente!…». […] II L’assessore di collegio Kovalëv si svegliò abbastanza presto e fece «brr…» con le labbra, cosa che faceva sempre quando si destava, sebbene egli stesso non sapesse spiegarsene la ragione. Kovalëv si stiracchiò, chiese un piccolo specchio che si trovava sul tavolo. Voleva dare un’occhiata a un foruncoletto che la sera prima gli era spuntato sul naso; ma con grande sorpresa notò che invece del naso c’era una superficie completamente liscia! Spaventatosi, Kovalëv ordinò di portare dell’acqua e si strofinò gli occhi con un asciugamano il naso non c’era proprio! Cominciò a toccarsi con la mano per vedere se non dormisse ancora. A quanto pareva,

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non dormiva. L’assessore di collegio Kovalëv saltò giù dal letto, si diede uno scossone; non c’è il naso!… Ordinò che gli portassero subito i vestiti e corse diritto dal capo della polizia. […] Tutt’a un tratto si fermò come inchiodato accanto al portone di una casa; sotto i suoi occhi si verificava un fenomeno inspiegabile. Davanti all’ingresso si era fermata una carrozza: gli sportelli si aprirono; piegandosi, ne balzò fuori un uomo in uniforme e corse su per la scala. Quale non furono lo spavento e nello stesso tempo lo stupore di Kovalèv quando in lui riconobbe il proprio naso! […] decise di aspettare a qualunque costo il ritorno del naso nella carrozza, sebbene tremasse tutto come in preda al delirio. Due minuti dopo, effettivemente, il naso uscì. Indossava un’uniforme ricamata in oro, con un grande colletto rigido; aveva pantaloni scamosciati e la spada a fianco. Dal cappello con le piume si poteva dedurre che si considerava in possesso del grado di consigliere di stato. Guardò da entrambe le parti, gridò al cocchiere «andiamo!» salì in carrozza e partì. Il povero Kovalèv per poco non uscì di senno. […] «Scusate, forse avete perso un naso?». «Proprio così». «È stato trovato». […] «In che modo?». «In uno strano modo: l’hanno fermato che era quasi in viaggio. Era salito su una diligenza e voleva partire per Riga. Già da tempo aveva un passaporto col nome d’un impiegato. E lo strano è che anch’io in principio l’avevo preso per un signore. Ma, per fortuna, avevo con me gli occhiali e ho visto subito che si trattava d’un naso». III […] Svegliatosi e rivolta senza pensarci un’occhiata allo specchio, che cosa vide? Il naso! L’afferrò con una mano: era proprio il naso! «Ehe!» disse Kovalèv e dalla gioia per poco non si mise a ballare scalzo il trepàk nella stanza, ma glielo impedì la presenza di Ivan, entrato in quel momento. Allora diede ordine di portargli immediatamente il necessario per lavarsi e, mentre si lavava, diede un’altra occhiata allo specchio: il naso. Strofinandosi con l’asciugamano diede ancora una volta un’occhiata allo specchio: il naso! [in Tutti i racconti, Roma, Newton Compton, 2012]

3. Le tecniche di rappresentazione, ossia come il personaggio racconta la storia Il mondo della narrazione è pieno delle parole degli altri, ossia delle parole degli autori/narratori e delle parole dei loro personaggi, parole in mezzo alle quali il lettore deve imparare a orientarsi e che deve imparare a coglierle con orecchio acuto e attento [Bachtin 2001; Lodge 2006]. In altri termini si può dire che il linguaggio della narrativa non è un linguaggio semplice, unitario e tanto meno uniforme: esso risulta costituito da una sapiente mescolanza di stili e accenti, di espressioni e forme, di toni e timbri, di termini e codici senza i quali non esisterebbe alcuna storia e, quindi, alcun personaggio che la racconta.Anzi, tutti questi elementi, tutte queste “parole”, servono per combinare insieme le varie “voci” della narrazione (autore, narratore, personaggio) dando loro una “fisicità” maggiore e

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più delineata: non si dimentichi che il linguaggio, la comunicazione (verbale o scritta), è parte fondamentale dell’esistenza “umana”, non solo di quella della persona ma anche di quella del personaggio [cap. I, Premessa, 1-7; cap. III, par. 1, 140-145]. Oltre a ciò, le “parole” servono a raffigurare meglio l’interiorità e la mente dei singoli personaggi: durante la rappresentazione e l’enunciazione di pensieri e idee, l’autore/narratore ha la possibilità di conferire una minore o maggiore distanza tra sé e i suoi stessi personaggi, minore o maggiore distanza che come si è appena visto determina pure il punto di vista o prospettiva [par. 2, 149-160]. Il modo per stabilire e segnalare questa vicinanza e/o distanza avviene attraverso l’utilizzo di particolari forme del discorso: 1) Discorso diretto  è la tecnica che consente all’autore e/o al narratore di riportare fedelmente sulla pagina scritta i discorsi dei vari personaggi. Facilmente individuabile sulla pagina scritta, il discorso diretto è sempre introdotto da un verbo dichiarativo e dai due punti, ed è sempre incorniciato dai trattini o dalle virgolette che segnalano l’inizio e la fine del discorso stesso. Se è vero che il mondo dell’epos classico è un mondo sostanzialmente monologico, è altrettanto vero che il mondo del romanzo moderno e contemporaneo è un mondo sostanzialmente dialogico perché fonde in sé molti stili e molte voci diversi che parlano tra loro (i vari personaggi ma anche l’autore/narratore con il suo lettore) e persino con altre voci esterne al testo (i critici, i recensori,…) in quelle zone definite paratestuali [Bacthin 2001; Genette 1989; BOX 8. La soglia del testo narrativo, 162]. Il discorso diretto, che è alla base del dialogo, ossia della conversazione, dello scambio di battute tra due o più personaggi, permette di sentire la scena dialogata come se fosse reale e stesse avvenendo proprio in quel preciso momento in cui il lettore sta leggendo. Con l’utilizzo del discorso diretto e del dialogo la distanza tra personaggi e autore/narratore è ridotta al minimo tanto che la parola risulta completamente ceduta ai personaggi, che in questo modo parlano tra loro senza alcuna mediazione: si ricordino i racconti Due da due penny, per favore di Katherine Mansfield e La collana di Guy de Maupassant, e soprattutto il bellissimo scambio di battute tra il capitano Bellodi e il capo mafia in Il giorno della civetta di Sciascia [cap. I, par. 1, 8-10; cap. II, par. 4, 91-96; cap. III, par. 1, 140-145]. 2) Discorso indiretto  è la tecnica che consente all’autore e/o al narratore di riprodurre i pensieri e le parole dei personaggi attraverso un suo personale intervento, che si manifesta con l’uso dei cosiddetta verba dicendi o dichiarativi seguiti prevalentemente dalla congiunzione “che”. Nel discorso indiretto la distanza tra l’autore/narratore e il personaggio è molto maggiore rispetto a quella del discorso diretto, perché l’autore/narratore riferisce o riassume le parole e i pensieri del personaggio riportandoli in maniera sostanzialmente riflessa e mediata (persino in maniera più o meno sincera): in questo modo il lettore sente che la scena è avvenuta in un altro momento o che è semplicemente riportata, cioè che non sta avvenendo in quello stesso momento in cui viene raccontata [cap. II, par. 1,

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8. La soglia del testo narrativo

Il testo, e non solo quello narrativo, può essere a sua volta contornato, accompagnato, e supportato da una serie di altri testi, di altri enunciati: è il cosiddetto paratesto (dal greco para, vicino, e dal latino textus, tessuto, intrecciato), una vera e propria soglia, un vestibolo, che riveste una funzione importantissima nel collegare tutto quanto sta fuori del testo con tutto quanto sta dentro il testo medesimo. Per fare qualche esempio pratico, parte del paratesto è costituita dalla quarta di copertina o dalle indicazioni offerte sulla biografia dell’autore, elementi che permettono al lettore di accostarsi al testo senza per forza entrarvi in maniera diretta e definitiva. Allo stesso modo possono far parte del paratesto, introduzioni e postfazioni scritte sia dall’autore stesso sia da altri, note del traduttore, epigrafi e dediche che, anche in questo caso, pur non facendo parte del testo e della storia propriamente detti, consentono di far avviare la lettura in maniera più critica o più consapevole e di far transitare il lettore dall’esterno del testo al suo interno. Anzi, il paratesto non è solo una “zona di transizione” ma è una “zona di transazione” tra il testo e l’extra-testo attraverso la quale è possibile far cogliere al lettore, al pubblico, l’istanza autoriale, cioè la volontà dell’autore nel costruire quella e non un’altra narrazione: è in questa frangia, in questa zona, che l’autore può manifestare il proprio ruolo di creatore e può indirizzare con le sue osservazioni il suo lettore verso la giusta direzione di lettura e interpretazione. È, insomma, un testo più breve con una funzione pragmatica, ausiliare e al servizio del testo propriamente detto, con nessuna valenza estetica ma con una sua “forza illocutoria” capace da un lato di comunicare semplici informazioni (titolo, nome dell’autore o data di pubblicazione) e dall’altro di rendere più esplicita l’intenzione dell’autore e, quindi, il significato più profondo dell’opera da lui composta. Il paratesto, che è molto più flessibile del testo perché sa adattarsi al passare del tempo e delle mode visto che è più facilmente modificabile e trasformabile (nuove presentazioni, nuove traduzioni, nuove note,…), può essere suddiviso in due distinte categorie “spaziali” a seconda della sua effettiva ubicazione: il peritesto che raccoglie tutto quanto è in stretta connessione con il testo e che sta in qualche modo nello spazio del testo, cioè titolo, prefazione, postfazione, dediche…; epitesto che, stando in uno spazio più distante, raccoglie tutti i messaggi esterni al testo dalla forte funzione mediatico-comunicativa come interviste, conversazioni, corrispondenze, diari… [Genette 1989 e 1997; Lejeune 1986].

57-63]. Se ci si pensa bene tutto il racconto fatto da un narratore onnisciente è come una sorta di lungo discorso indiretto iniziato con un sottinteso “lettore ti sto per raccontare che”, esattamente come succede nelle tante parti narrative e descrittive dei Promessi sposi (è sufficiente rileggere anche solo le pagine dedicate all’infanzia di Gertrude, futura monaca di Monza) o come avviene in La morte a Venezia di Mann [cap. I, par. 3, 42] in cui tutto, persino il sottile turbamento di Aschenbach quando vede per la prima volta il giovane Tadzio, viene raccontato “in differita”.

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Thomas Mann La morte a Venezia Era un gruppo di giovani e di adolescenti, radunati sotto la custodia di una istitutrice o dama di compagnia a un tavolino di vimini: tre ragazze occhio e croce fra i quindici e i diciassette anni, e un ragazzo dai lunghi capelli che poteva avere quattordici anni. Con meraviglia, Aschenbach vide che il ragazzo era perfettamente bello. Il suo viso pallido e graziosamente inaccessibile, attorniato da ricci color del miele, col naso dalla linea diritta, la bocca amabile, un’espressione di nobile e divina serietà, ricordava le sculture greche delle epoche migliori, e accanto alla purissima perfezione delle forma aveva un fascino così unico e personale, che colui che lo guardava pensò di non aver mai visto né in natura né nelle arti figurative nulla di così felicemente riuscito. […] La dolcezza e la tenerezza governavano vistosamente la sua vita. Ci si era ben guardati dall’accostare le forbici alla bella capigliatura; come quella dello Spinario capitolino, essa gli si inanellava sulla fronte, sugli orecchi, e anche giù lungo la nuca. L’abito inglese alla marinara, con le maniche a sboffo che si stringevano verso il basso, intorno ai polsi delicati delle mani ancora infantili ma affusolate, coi suoi ricami, cordoni e fiocchi conferiva alla figurina esile un che di lussuoso e di viziato. Era voltato di tre quarti verso l’osservatore, i piedi, nelle scarpette di lacca nera, uno davanti all’altro, un gomito puntato sul bracciolo della poltrona di vimini e la guancia schiacciata contro la mano chiusa, in un atteggiamento di grazia trasandata, senza la minima ombra della rigidità quasi sottomessa alla quale sembravano avvezze le sorelle. Che fosse malato? Perché la pelle del suo viso si staccava bianca come l’avorio dall’oro scuro dei riccioli che lo incorniciavano? Oppure era semplicemente un beniamino viziato, circondato da un amore capriccioso e parziale? Aschenbach propendeva a credere questo. [in La montagna magica con La morte a Venezia, Milano, Oscar Mondadori, 2011]

3) Discorso indiretto libero (erlebte rede o style indirect libre o discorso rivissuto)  è la tecnica che consente all’autore e/o al narratore di riprodurre i pensieri, e non solo i discorsi, dei personaggi come se avvenissero proprio in quel preciso momento senza alcun intervento e alcuna mediazione esterna [Spitzer 1976]. Così narratore e lettore si fondono e percepiscono il pensiero nello stesso identico modo e nello stesso identico momento in cui viene esplicitato e percepito dal personaggio; anzi, il lettore non deve riuscire a distinguere le due voci, quella dell’autore/narratore e quella del personaggio, proprio perché queste due voci si amalgamano insieme, nonostante appartengano a due distinti mondi semantici e linguistici e si presentino con stili diversi. Nel discorso indiretto libero, quindi, l’autore e/o il narratore sembrano scomparire dal testo, perché esprimono sulla pagina scritta, senza alcuna forma di mediazione morfologica e grammaticale, le “voci” dei personaggi, aumentando così e a dismisura la distanza tra sé e i personaggi stessi della storia: nel discorso indiretto libero, infatti, sono soppressi, o sottintesi, i verbi dichiarativi e qualsiasi altro elemento grafico legato alla punteggiatura (segni di interpunzione, virgolette, trattini che di solito segnalano l’inizio e la fine di un dialogo), in modo da dare l’idea

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dell’immediatezza del flusso dei pensieri e delle parole. Potrebbe essere considerato una forma ibrida tra discorso diretto e discorso indiretto: in esso nessun preciso segnale grammaticale indica il momento di passaggio dalla diegesi propriamente detta [cap. I, par. 1, 10-12] all’enunciazione dei pensieri e del discorso di un determinato personaggio, tanto che in apparenza potrebbe sembrare che il narratore continui a “vedere” e a “pensare” al posto del personaggio, mentre è proprio il personaggio a “vedere” e “pensare” senza alcun tramite. Il discorso indiretto libero, proprio per queste sue caratteristiche, è alla base della tecnica dell’impersonalità dell’arte di stampo naturalista e verista, benché già abbondantemente usato nei romanzi di Jane Austen [Moretti 2008]. Moltissimi dunque gli esempi che si potrebbero fare e riportare. Ne faccio solo alcuni, seguendo come al solito i miei gusti personali, cioè l’avvio dei Malavoglia (1881) in cui Verga alterna sapientemente discorso indiretto, il parlare per proverbi di Padron ’Ntoni e i suoi pensieri buttati lì sulla pagina senza alcuna mediazione e tali da far entrare il lettore immediatamente dentro la storia, il piccolo borgo di Aci Trezza e la famiglia Malavoglia; Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1946), in cui Carlo Emilio Gadda nel presentarci l’“eroe” della vicenda, il commissario Ingravallo, usa con vera maestria, avvicendandoli, discorso diretto, discorso indiretto e indiretto libero (nell’ultimo capoverso riportato) in modo da offrire al suo lettore una descrizione più realista e icastica possibile; e un brevissimo brano da Il sentiero dei nidi di ragno (1947) in cui Calvino, con poche battute, ci introduce nell’universo talora crudele dei bambini (e anche dei lor genitori) proprio riportando senza alcuna mediazione alcuni pensieri del suo protagonista, il piccolo Pin.

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Giovanni Verga I Malavoglia Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all’Ognina, a Trezza e ad Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull’acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ’Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch’era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla. Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron ’Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso – un pugno che sembrava fatto di legno di noce – «Per menare il remo bisogna che le cinque dita s’aiutino l’un l’altro». Diceva pure: «Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo».

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E la famigliuola di padron ’Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso che comandava le feste e le quarant’ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città; e così grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «sòffiati il naso» tanto che s’era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pigliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia: infine i nipoti, in ordine di anzianità: ’Ntoni, il maggior un bighellone di vent’anni, che si buscava tutt’ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l’equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio dei grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant’Agata» perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. – Alla domenica, quando entravano in chiesa, l’uno dietro l’altro, pareva una processione. Padron ’Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi ch’aveva sentito dagli antichi, «perché il motto degli antichi mai mentì»: – «Senza pilota barca non cammina» – «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» – oppure «Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» – «Contentati di quel che t’ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose. Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron ’Ntoni passava per testa quadra, al punto che a Trezza l’avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, il segretario, il quale la sapeva lunga, non avesse predicato ch’era un codino marcio, un reazionario di quelli che proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello, onde poter spadroneggiare nel villaggio, come spadroneggiava in casa propria. Padron ’Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava agli affari suoi, e soleva dire: «Chi ha carico di casa non può dormire quando vuole» perché «chi comanda ha da dar Conto». [Milano, BUR, 2011]

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Carlo Emilio Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po’ tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d’Italia, aveva un’aria un po’ assonnata, un’andatura greve e dinoccolata, un fare un po’ tonto come di persona che combatte, con una laboriosa digestione, vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d’olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana. Una certa praticaccia del mondo, del nostro mondo detto «latino», benché giovine (trentacinquenne), doveva di certo avercela: una certa conoscenza degli uomini: e anche delle donne. La sua padrona di casa lo venerava, a non dire adorava: in ragione di e nonostante quell’arruffio stra-

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no d’ogni trillo e d’ogni busta gialla imprevista, e di chiamate notturne e d’ore senza pace, che formavano il tormentato contesto del di lui tempo. «Non ha orario, non ha orario! Ieri mi è tornato che faceva giorno!». Era, per lei, lo «statale distintissimo» lungamente sognato. […] E poi era riuscito a far chiudere un occhio alla questura su quella ridicola storia dell’ammenda… sì, della multa per la mancata richiesta della licenza di locazione… che se la dividevano a metà, la multa, tra governatorato e questura. «Una signora come me! Vedova del commendatore Antonini! Che si può dire che tutta Roma lo conosceva: e quanti lo conoscevano, lo portavano tutti in parma de mano, non dico perché fosse mio marito, bon’anima! E mo me prendono per un’affittacamere! Io affittacamere? Madonna santa, piuttosto me butto a fiume». Nella sua saggezza e nella sua povertà molisana, il dottor Ingravallo, che pareva vivere di silenzio e di sonno sotto la giungla nera di quella parrucca, lucida come pece e riccioluta come d’agnello d’Astrakan, nella sua saggezza interrompeva talora codesto sonno e silenzio per enunciare qualche teoretica idea (idea generale s’intende) sui casi degli uomini: e delle donne. A prima vista, cioè al primo udirle, sembravano banalità. Non erano banalità. Così quei rapidi enunciati, che facevano sulla sua bocca il crepitio improvviso d’uno zolfanello illuminatore, rivivevano poi nei timpani della gente a distanza di ore, o di mesi, dalla enunciazione: come dopo un misterioso tempo incubatorio. «Già!» riconosceva l’interessato: «il dottor Ingravallo me l’aveva pur detto». Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuoi dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi: che gli evaporava dalle labbra carnose, ma piuttosto bianche, dove un mozzicone di sigaretta spenta pareva, pencolando da un angolo, accompagnare la sonnolenza dello sguardo e il quasi-ghigno, tra amaro e scettico, a cui per «vecchia» abitudine soleva atteggiare la metà inferiore della faccia, sotto quel sonno della fronte e delle palpebre e quel nero pìceo della parrucca. Così, proprio così, avveniva dei «suoi» delitti. «Quanno me chiammeno!... Già. Si me chiammeno a me… può sta ssicure ch’è nu guaio: quacche gliuommero… de sberretà…» diceva, contaminando napolitano, molisano, e italiano. […] Qualche collega un tantino invidioso delle sue trovate, qualche prete più edotto dei molti danni del secolo, alcuni subalterni, certi uscieri, i superiori, sostenevano che leggesse dei libri strani: da cui cavava tutte quelle parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad accileccare gli sprovveduti, gli ignari. Erano questioni un po’ da manicomio: una terminologia da medici dei matti. Per la pratica ci vuol altro! I fumi e le fiosoficherie son da lasciare ai trattatisti: la pratica dei commissariati e della squadra mobile è tutt’un altro affare: ci vuole della gran pazienza, della gran carità: uno stomaco pur anche a posto: e, quando non traballi tutta la baracca dei italiani, senso di responsabilità e decisione sicura, moderazione civile; già: già: e polso fermo. Di queste obiezioni così giuste lui, don Ciccio, non se ne dava per inteso: seguitava a dormire in piedi, a filosofare a stomaco vuoto, e a fingere di fumare la sua mezza sigheretta, regolarmente spenta. [Milano, Garzanti, 2011]

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Italo Calvino Il sentiero dei nidi di ragno A volte il fare uno scherzo cattivo lascia un gusto amaro, e Pin si trova solo a girare nei vicoli, con tutti che gli gridano improperi e lo cacciano via. Si avrebbe voglia d’andare con una banda di compagni, allora, compagni cui spiegare il posto dove fanno il nido i ragni, o con cui fare battaglie con le canne, nel fossato. Ma i ragazzi non vogliono bene a Pin: è l’amico dei grandi, Pin, sa dire ai grandi cose che li fanno ridere e arrabbiare, non come loro che non capiscono nulla quando i grandi parlano. Pin alle volte vorrebbe mettersi coi ragazzi della sua età, chiedere che lo lascino giocare a testa e pila, e che gli spieghino la via per un sotterraneo che arriva fino in piazza Mercato. Ma i ragazzi lo lasciano a parte, e a un certo punto si mettono a picchiarlo; perché Pin ha due braccine smilze smilze ed è il più debole di tutti. Da Pin vanno alle volte a chiedere spiegazioni su cose che succedono tra le donne e gli uomini; ma Pin comincia a canzonarli gridando per il carrugio e le madri richiamano i ragazzi: – Costanzo! Giacomino! Quante volte te l’ho detto che non devi andare con quei ragazzo così maleducato! [Milano, Oscar Mondadori, 2012]

4) Monologo interiore (o soliloquio muto)  nato in ambito drammatico, è un discorso non pronunciato o pronunciato tra sé e sé, e senza ascoltatori: il personaggio esprime, senza la presenza di qualche intermediario o di qualche altro personaggio, i pensieri più nascosti e più intimi, spesso per associazioni di idee, talora seguendo lo scorrere libero della riflessione personale e non un ordine rigorosamente logico benché grammaticalmente regolato. Non molto lontano dal flusso di coscienza o stream of consciousness, che ne è la forma estremizzata [punto 5, 169172], è il genere di discorso in cui manca la mediazione/presenza dell’autore o del narratore e in cui sono assenti tutti i verbi introduttivi e dichiarativi: spesso condotto sull’alternanza di diversi piani temporali (passato/presente), è ricco di frasi interrogative ed esclamative e di espressioni anche dell’uso comune; è sempre in prima persona a differenza del discorso indiretto libero che è in terza persona; consiste per lo più in ricordi, riflessioni, quesiti per cui il tempo della diegesi [cap. I, par. 1, 10-12] è rallentato e si può estendere a dismisura, anche se in realtà accade poco o nulla, proprio perché riguarda l’interiorità del personaggio e non il suo agire così che finisce per mettere sullo stesso livello, facendoli coincidere, momento dell’enunciazione e momento della storia. Anche in questo caso numerosissimi sarebbero gli esempi da fare e citare da Uno, nessuno e centomila di Pirandello, che è interamente costruito sul lungo monologo interiore di Vitangelo Moscarda, a Le onde (1931) di Virginia Woolf, in cui sei personaggi alternativamente monologano e presentano la loro vita (scuola, giochi, esperienze più o meno comuni, familiari, sogni e pensieri) in un continuo avanti e indietro per cui le voci si confondono tra loro come le onde del mare. E soprattutto La coscienza di Zeno di Svevo, ro-

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manzo che più che un flusso della coscienza, in quella sua forma di diario a capitoli tematici, è un monologo interiore inframezzato da altre forme di discorso/enunciazione e da un costante tono tra il divertito e l’ironico che rende puntualmente Zeno/Svevo un narratore del tutto inattendibile.

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Italo Svevo La coscienza di Zeno Nella mente di un giovane di famiglia borghese il concetto di vita umana s’associa a quello della carriera e nella prima gioventù la carriera è quella di Napoleone I. Senza che perciò si sogni di diventare imperatore perché si può somigliare a Napoleone restando molto ma molto più in basso. La vita più intensa è raccontata in sintesi dal suono più rudimentale, quello dell’onda del mare, che, dacché si forma, muta ad ogni istante finché non muore! M’aspettavo perciò anch’io di divenire e disfarmi come Napoleone e come l’onda. La mia vita non sapeva fornire che una nota sola senz’alcuna variazione, abbastanza alta e che taluni m’invidiavano, ma orribilmente tediosa. I miei amici mi conservarono durante tutta la mia vita la stessa stima e credo che neppur io, dacché son giunto all’età della ragione, abbia mutato molto il concetto che feci di me stesso. Può perciò essere che l’idea di sposarmi mi sia venuta per la stanchezza di emettere e sentire quell’unica nota. Chi non l’ha ancora sperimentato crede il matrimonio più importante di quanto non sia. La compagna che si sceglie rinnoverà, peggiorando o migliorando, la propria razza nei figli, ma madre natura che questo vuole e che per via diretta non saprebbe dirigerci, perché in allora ai figli non pensiamo affatto, ci dà a credere che dalla moglie risulterà anche un rinnovamento nostro, ciò ch’è un’illusione curiosa non autorizzata da alcun testo. Infatti si vive poi uno accanto all’altro, immutati, salvo che per una nuova antipatia per chi è tanto dissimile da noi o per un’invidia per chi è a noi superiore. Il bello si è che la mia avventura matrimoniale esordì con la conoscenza del mio futuro suocero e con l’amicizia e l’ammirazione che gli dedicai prima che avessi saputo ch’egli era il padre di ragazze da marito. Perciò è evidente che non fu una risoluzione quella che mi fece procedere verso la mèta ch’io ignoravo. Trascurai una fanciulla che per un momento avrei creduto facesse al caso mio e restai attaccato al mio futuro suocero. Mi verrebbe voglia di credere anche nel destino. [Milano, Oscar Mondadori, 2009, V. La storia del mio matrimonio]

5) Flusso di coscienza (stream of consciousness)  termine coniato da William James, fratello del romanziere Henry nel 1890 nei suoi Principi di psicologia per definire lo scorrere continuo di pensieri e sensazioni. Tecnica assai più complessa del discorso indiretto libero e del monologo interiore per quanto appartenga alla stessa tipologia e in cui quasi sempre tempo della storia e tempo del racconto coincidono [cap. II, par. 2, 57-63], consiste nell’accostamento di pensieri, percezioni ed emozioni senza alcun segno di interpunzione che li ordini, in modo tale che essi sono trascritti sulla carta secondo il libero “fluire” delle associazioni menta-

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li, determinate e regolate dai processi inconsci e non dalle norme della grammatica e del discorso (così come è stato messo in luce dalle neuroscienze e dagli studi psicoanalitici), catturando il pensiero al suo stadio nascente anteriore a qualsiasi organizzazione logica e mentale: è una forma di monologo interiore portato alle sue estreme conseguenze, che rinuncia ai nessi e all’articolazione morfologica e sintattica del discorso, cercando di riprodurre sulla pagina l’immediatezza e persino la sconnessione del pensiero, quando ancora non sia intervenuta una logica condivisa, mentale e grammaticale, a conferirgli ordine. Alcuni precedenti non così estremi come quelli più tardi di Joyce, si possono già rintracciare nel Tristram Shandy di Sterne [cap. II, par. 1, 59-62] e in Anna Karenina di Tolstoj soprattutto nelle parti finali prima che Anna decida di buttarsi sotto il treno e suicidarsi. Negli ultimi anni [Moretti 2008] è stato ipotizzata la presenza di due diversi tipologie di stream of consciousness: una in presenza di deliri della mente, svenimenti, agonie come appunto quella appena citata di Anna Karenina e anche Mrs Dalloway (1925) di Virginia Woolf con il personaggio di Septimus e L’urlo e il furore (1929) di John Steinbeck con il personaggio di Benij che, affetto da handicap mentale, si esprime in maniera spesso sconnessa e confusa. A me però, all’interno di questa prima categoria, mi piace ricordare di nuovo La signorina Else di Schnitzler [cap. II, par. 5, 105; BOX 6. I generi della narrativa, 107] il quale, nel suo duplice ruolo di scrittore e psichiatra, mette in scena gli ultimi momenti di vita della protagonista, incapace di chiedere aiuto perché completamente intontita dal troppo tranquillante ingerito, il tutto accompagnato dalle frasi, ascoltate, dei presenti (in corsivo) che non si rendono, o non si vogliono rendere, conto del dramma che si sta compiendo.

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Arthur Schnitzler La signorina Else Ho preso il veronal. È buono. Morirò. Sia ringraziato il Signore. – «Tra l’altro, se vuoi sapere la mia impressione, quel signor von Dorsday dev’essere innamoratissimo della signorina nuda. Era estremamente turbato, sembrava che la cosa lo toccasse assai da vicino». – Dorsday, Dorsday! Ma certo, è lui… è quello dei cinquantamila! Li spedirà? Per l’amor di Dio, e se non li spedisse? Devo dirlo a quei due. Bisogna che lo costringano. Per l’amor di Dio, se tutto fosse stato inutile? Ma adesso qualcuno potrebbe ancora salvarmi, sarebbe ancora in tempo. Paul! Cissy! Perché non mi ascoltate? Non lo sapete che sto morendo? Non sento niente, però. Sono solo stanca. Paul! Sono stanca. Non mi senti, dunque? Sono stanca, Paul. Non posso aprire le labbra. Non posso muovere la lingua, eppure non sono ancora morta. È per via del veronal. Dove siete, insomma? Tra poco mi addormento. E allora sarà troppo tardi! Non sento più i loro discorsi. Li sento parlare, ma non so di che cosa. Le loro voci sono così assordanti. Aiutami, Paul! Mi sento la lingua così pesante. – «Credo, Cissy, che fra poco si sveglierà. Ho l’impressione che già si stia sforzando di aprire gli occhi. Ma Cissy, che stai facendo, Cissy?». – «Ti strin-

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go fra le mie braccia. Perché non dovrei, in fondo? Neanche lei, dopo tutto, ha avuto questo gran pudore». – No, non ho avuto pudore, io. Ero lì in piedi, nuda davanti a tutti. Se solo riuscissi a parlare, capireste perché. Paul! Paul! Voglio che mi sentiate. Ho preso il veronal, Paul, dieci, cento cartine di veronal. Non volevo farlo. Ero pazza. Non voglio morire. Devi salvarmi, Paul. Non sei forse un medico? Salvami! – «Adesso sembra di nuovo tranquillissima. Il polso… il polso è abbastanza regolare». – Salvami, Paul.Ti supplico di salvarmi. Non puoi lasciarmi morire. Sei ancora in tempo adesso. Ma fra poco io mi addormenterò e voi non lo saprete. Non voglio morire. Salvami, dunque. L’ho fatto solo per papà. È Dorsday che l’ha preteso. Paul! Paul! – «Guardala bene, Cissy, non ti sembra che stia sorridendo». – «Come può non sorridere, Paul, visto che per tutto questo tempo hai tenuto la sua mano teneramente stretta fra le tue?». – Cissy, Cissy, che cosa ti ho fatto perché tu mi sia tanto ostile? Tientelo, il tuo Paul… ma non lasciarmi morire. Sono ancora così giovane. Che dolore per la mamma. Voglio ancora andare in montagna, voglio fare ancora molte scalate.Voglio ancora ballare. E un giorno anche sposarmi.Voglio ancora viaggiare. Domani facciamo una gita, andiamo sul Cimon. Sarà una giornata meravigliosa, domani.Voglio che il filibustiere venga con noi. Gli chiederò io che ci faccia questo onore. E tu Paul, corrigli dietro, sta camminando su un sentiero a strapiombo sull’abisso. Incontrerà papà. Indirizzo rimane Fiala, non scordartelo. Sono solo cinquantamila poi tutto si aggiusterà. Eccoli, stanno marciando nelle loro uniformi da carcerati e cantano. Apri il cancello, signor matador! Tutto questo non è che un sogno.Anche Fred sta camminando con la ragazza dalla voce roca, e il pianoforte è all’aria aperta. Mamma, l’accordatore sta nella Bartensteinstrasse! Perché non gli hai scritto, piccola mia? Dimentichi proprio tutto. Dovrebbe fare più esercizi, studiare di più le scale, Else. Una ragazzina di tredici anni dovrebbe essere più coscienziosa. Rudi è andato al ballo mascherato ed è tornato a casa alle otto del mattino. Papà, che cosa mi hai portato? Trentamila bambole. Mi ci vorrebbe una casa tutta per loro. Ma possono anche passeggiare in giardino. O andare al ballo mascherato con Rudi. Buon giorno, Else. Oh, Bertha, sei tornata da Napoli? Sì, dalla Sicilia. Permetti, Else? Ti presento mio marito. Enchantée, Monsieur… – «Else! Mi senti, Else? Sono io, Paul». Ah, ah, Paul. Perché stai cavalcando la giraffa su quella giostra? – «Else! Else!». Non andartene, non galoppare lontano. Non puoi sentirmi se galoppi così veloce lungo il grande viale. Lo sai che mi devi salvare. Ho preso tanto veronal. Mi va giù per le gambe come formiche, a destra e a sinistra. Sì, acciuffalo, acciuffa il signor von Dorsday. E laggiù che scappa. Ma come, non lo vedi? E là, sta scavalcando lo stagno con un salto. Ha ammazzato papà. Corri, dunque, inseguilo. Io corro con te. Mi hanno allacciato la barella sulla schiena, ma corro lo stesso. I miei seni palpitano, ma io continuo a correre. Paul, dove sei adesso? Fred, dove sei? Mamma, dove sei? Cissy? Perché mi fate correre tutta sola nel deserto? Ho paura, così sola. Preferisco volare. L’ho sempre saputo che son capace di volare. «Else!»… «Else!»… Dove siete? Vi sento ma non vi vedo. «Else!»… «Else!»… «Else!»… E questo, cos’è? Un grande coro? E anche un organo? Canto con loro. Che inno è questo? Lo cantano tutti insieme. Compresi i boschi e le montagne e le stelle. Non ho mai sentito niente di più bello. E neanche ho mai visto una notte così chiara.

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Dammi la mano, papà. Voliamo insieme. E così bello il mondo se uno sa volare. No, non baciarmi la mano. Sono la tua bambina, papà. «Else! Else!». Mi chiamano da tanto lontano! Ma che cosa volete? Non svegliatemi. Sto dormendo così bene. Domani mattina. Sogno e volo. Volo…, volo… volo…, dormo e sogno…, e volo… non svegliatemi… domani mattina… «El…». Volo… sogno… dormo… sogno…, so… so… vo… [Milano, Adelphi, 2008]

La seconda tipologia, più estrema e complessa, serve invece a rappresentare la quotidianità dell’esistenza come in Gita al faro di Virginia Woolf e in particolare nell’Ulisse di Joyce (ma potrei citare anche il meno noto e tutto italiano Il male oscuro, 1964, di Giuseppe Berto). L’ultima parte del romanzo joyciano, Penelope, è interamente occupata dal personaggio di Molly, la moglie del protagonista, e dallo scorrere di pensieri e impressioni mai spiegati, commentati e ordinati dall’autore, ma lasciati scaturire senza un ordine cronologico, passando dal presente al futuro al passato, e senza un ordine di causa ed effetto così da renderli insieme massimamente caotici e massimamente oggettivi.

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James Joyce Ulisse Sì perché prima non ha mai fatto una cosa del genere chiedere la colazione a letto con due uova da quando eravamo all’albergo City Arms quando faceva finta di star male con la voce da sofferente e faceva il pascià per rendersi interessante con Mrs Riordan vecchia befana e lui credeva d’essere nelle sue grazie e lei non ci lasciò un baiocco tutte messe per sé e per l’anima sua spilorcia maledetta aveva paura di tirar fuori quattro soldi per lo spirito da ardere mi raccontava di tutti i suoi mali aveva la mania di far sempre i soliti discorsi di politica e i terremoti e la fine del mondo divertiamoci prima Dio ci scampi e liberi tutti se tutte le donne fossero come lei a sputar fuoco contro i costumi da bagno e le scollature che nessuno avrebbe voluto vedere addosso a lei si capisce dico che era pia perché nessun uomo si è mai voltato a guardarla spero di non diventar come lei miracolo che non voleva ci si scoprisse la faccia ma certo era una donna colta e quelle buggerate su Mr Riordan qua e Mr Riordan là io dico è stato felice di levarsela di torno e il suo cane che mi odorava la pelliccia e cercava d’infilarmisi tra le sottane specialmente quando eppure questo mi piace in lui così gentile con le vecchie e i camerieri e anche i poveri non è orgoglioso di nulla proprio ma non sempre se mai gli capita qualcosa di grave è meglio che vadano all’ospedale dove tutto è pulito ma io dico mi ci vorrebbe un mese per cacciarglielo in testa sì e poi ci sarebbe subito un’infermiera tra i piedi e lui ci metterebbe le radici finché non lo buttan fuori o una monaca forse come quella di quella fotografia schifosa che ha che è una monaca come lo sono io sì perché sono così deboli e piagnucolosi quando son malati ci vuole una donna per farli guarire se gli sanguina il naso c’è da credere che sia

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un dramma in piena regola e quell’aria da moribondo scendendo dalla circolare sud quando s’era slogata una caviglia alla festa della corale di Monte pan di zucchero il giorno che avevo quel vestito Miss Stack gli portò i fiori i peggio che aveva trovato appassiti in fondo al paniere cosa non avrebbe fatto per entrare in camera di un uomo con quella voce da zitella cercava di immaginarsi che stesse morendo per amor suo non più mai rivederti benché avesse l’aria più da uomo con la barba un po’ lunga a letto papà era lo stesso e poi non mi andava di fasciarlo e dargli pozioni quando si tagliò il dito dei piede col rasoio a spuntarsi i calli paura d’un avvelenamento del sangue ma se fossi io per esempio ad ammalarmi allora vorrei vedere un po’ solo che la donna lo nasconde si capisce per non dare tante seccature come loro sì ha fatto qualcosa in qualche posto me ne accorgo dall’appetito comunque non è amore sennò non mangerebbe per pensare a lei così o è stata una di quelle nottambule se è davvero laggiù che è stato e quella storia dell’albergo ha inventato un sacco di bugie per nascondere i suoi maneggi è stato Hynes a trattenermi chi ho incontrato ah sì ho incontrato te lo ricordi Menton e chi altri guardiamo un po’ quella faccia da bambinone l’ho visto e lui che non era sposato da molto a fare il pollo con una ragazzina al Myriorama di Poole e gli ho voltato le spalle quando lui se la svignava con l’aria colpevole poco male ma ha avuto la faccia tosta di farmi la corte una volta ben gli sta bocca irresistibile e occhi sporgenti di tutti gli imbecilli che ho trovato e lo chiaman procuratore c’è che io non posso soffrire i battibecchi a letto o se non è questo magari che puttanella o roba simile raccattata vattelapesca o pescata di nascosto se lo conoscessero come lo conosco io sì perché avantieri scribacchiava qualcosa una lettera quando capitai nella stanza sul davanti per i fiammiferi per fargli vedere la morte di Dignam nel giornale come se me l’avesse detto l’uccellino e lui la coprì con la cartasuga facendo finta di pensare al lavoro e probabilmente era questo a qualcuna che si crede d’aver trovato l’America con lui perché tutti gli uomini diventano così alla sua età specialmente sui quaranta come lui in modo da pappargli quanti più soldi possibile non c’è peggior sciocco d’un vecchio rimbambito e poi il solito bacio sul sedere tutto per nascondere non me ne importa un fico secco con chi lo fa o chi aveva conosciuto prima in quel modo però mi piacerebbe saper qualcosa purché non ce li abbia tutti e due sotto il naso tutto il tempo come quella strega quella Mary che avevamo a Ontario Terrace che s’imbottiva il sedere per eccitarlo è già abbastanza sgradevole sentirgli addosso l’odore di quelle donnacce dipinte una o due volte mi è venuto il sospetto facendolo avvicinare quando trovai quel capello lungo sulla giacca senza contare le volte che sono arrivata in cucina e lui faceva finta di bere dell’acqua 1 donna non gli basta mica a loro tutta colpa sua si capisce guastare le serve e proporre di farla mangiare a tavola con noi a Natale per favore Oh no grazie tante a casa mia no rubava le patate e le ostriche a 2/6 la dozzina andava fuori per far visita alla zia ve lo dico io una volgare ladruncola e nient’altro ma io ero sicura che c’era del tenero tra loro ci voglio io per scoprire queste cose come lui diceva non hai prove era lei la prova Oh sì sua zia andava matta pe le ostriche ma le dissi quel che ne pensavo mi trovava delle scuse per farmi uscire per restare solo a casa con lei io non mi abbassavo davvero a spiarli… [Milano Oscar Mondadori, 2012, Penelope]

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9. Incipit ed explicit del testo narrativo

L’incipit, soglia che separa il mondo reale dal mondo immaginario, ha un ruolo primario perché imprime il tono e il ritmo all’intera storia, e ci fa entrare nel mondo dei personaggi. Ci sono tanti modi per cominciare: con la descrizione del luogo che farà da sfondo alla storia, la mise-en-scène per dirla con termine cinematografico (I promessi sposi o Il rosso e il nero, 1830, di Stendhal), con la presentazione di un personaggio o l’autopresentazione del protagonista/narratore (La morte a Venezia di Mann, Memorie del sottosuolo, 1864, di Fëdor Michajloviôc Dostoevskij, o Moby Dick, 1851, di Herman Melville), con un tono insolente e sarcastico (Il giovane Holden, 1951, di Jerome David Salinger), con una riflessione (la Recherche di Proust), con una cornice per spiegare gli antefatti (Cuore di tenebra, 1902, di Joseph Conrad), con un’allusione metatestuale (Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino). L’explicit è ancora più complesso: George Eliot sosteneva che le conclusioni sono il punto debole di maggior parte delle narrazioni, non solo per colpa dell’autore incapace di trovare il modo con cui chiudere ma anche per il carattere intrinseco della conclusione, “di cui il meglio che si può dire è che è una negazione”. Forse sarebbe meglio parlare di ultime pagine che rallentano il ritmo dell’enunciazione, conducendo o meno alla fine della storia e alla soluzione o alla sua voluta non soluzione. Anche l’explicit può essere strutturato in vario modo: con una riflessione su quanto accaduto (I promessi sposi); senza concludere (Uno, nessuno e centomila di Pirandello o Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda senza un vero colpevole); con un ultimo appello al lettore (Tom Jones, 1749, di Henry Fielding); a sorpresa come nel Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, nel cui ultimo capoverso è mirabilmente condensata una storia di “perdizione” dell’anima: «Entrati, videro appeso al muro uno splendido ritratto del loro padrone, quale l’avevano visto l’ultima volta, in tutta la magnificenza della sua meravigliosa bellezza e gioventù. Per terra giaceva un uomo, morto, con un coltello piantato nel cuore. Era canuto, il viso raggrinzito e ripugnante. Soltanto esaminando gli anelli riuscirono a riconoscerlo»; con un epilogo a parte che potrebbe aprire su una nuova storia come in Delitto e castigo (1866) di Dostoevskij: «Ma ora comincia una nuova storia, la storia del graduale rinnovamento di un uomo, la storia della sua graduale rigenerazione, del suo graduale passaggio da un mondo in un altro, dei suoi progressi nella conoscenza di una nuova realtà, fino allora completamente ignorata. Potrebbe essere il tema di un futuro racconto, ma il nostro racconto di oggi è terminato».

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Acme della tensione vedi Evaluation/ Spannung Actio vedi Retorica Aiutante vedi Sistema dei personaggi Anacronia vedi Tempo Analessi vedi Ordine Antagonista vedi Sistema dei personaggi Anticipazione vedi Prolessi Aspetti del personaggio (Agire, Essere, Parlare e pensare,Vedere e giudicare) vedi Personaggio Attante vedi Personaggio Autore, X, XI, XII, XV, 4, 5, 6, 7, 10, 12, 13, 20, 21, 26, 27, 32, 33, 37, 51, 55, 57, 59, 62, 63, 72, 73, 75, 77, 78, 83, 86, 91, 96, 98, 101, 110, 114, 149, 150, 151, 153, 157, 160, 161, 162, 163, 167, 171, 173 – Autore implicito, 12, 13 – Autore reale, 12, 13 – Patto narrativo, 6, 26, 27, 71 Azione complicante vedi Sequenze/Tempi della diegesi Canale vedi Parti della comunicazione Capitolo cerniera vedi Durata Coda vedi Sequenze/Tempi della diegesi Codice vedi Comunicazione/Enunciazione Comparsa vedi Sistema dei personaggi Comunicazione/Enunciazione, 4, 6, 32, 59, 62, 161 – Parti della comunicazione, 4 – Canale, XI, 4, 5, 6 – Codice, 4, 5, 6, 7

– Contesto, XI, 4, 5, 6 – Destinatario, XI, 4, 5, 6, 7, 13, 20, 21, 32, 145 – Messaggio, XI, 4, 5, 6, 21, 33 – Mittente, XI, 4, 5, 6, 7 – Funzioni della comunicazione, 4, 6 – Conativa, 4, 5, 6 – Espressiva/Emotiva, 4, 5 – Fàtica, 4, 5, 6 – Metalinguistica, 4, 5, 6 – Poetica, 4, 5, 6 – Referenziale, 4, 5, 6 Conclusione vedi Explicit Contesto vedi Comunicazione/Enunciazione Conversazione vedi Discorso diretto Coprotagonista vedi Sistema dei personaggi Cornice vedi Tipi di racconto Definizione di personaggio vedi Personaggio Descrizione vedi Durata Destinatario vedi Lettore e Comunicazione/Enunciazione Dialogo vedi Discorso diretto Diegesi vedi Narrazione/Racconto Digressione vedi Durata Discorso diretto vedi Linguaggio/ Modi del linguaggio Discorso indiretto vedi Linguaggio/ Modi del linguaggio Discorso indiretto libero vedi Linguaggio/Modi del linguaggio Discorso rivissuto vedi Discorso indiretto libero Dispositio vedi Retorica Distanza vedi Tempo Durata vedi Tempo

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Ellissi vedi Durata Elocutio vedi Retorica Emittente vedi Autore e Comunicazione/Enunciazione Enunciazione vedi Comunicazione/Enunciazione Epilogo vedi Sequenze/Tempi della narrazione Epitesto vedi Soglia del testo narrativo Epos vedi Letteratura Erlebte rede vedi Discorso indiretto libero Evaluation/Spannung vedi Sequenze/Tempi della diegesi Explicit vedi Romanzo e Sequenze/ Tempi della diegesi Fabula vedi Narrazione/Racconto Fine vedi Explicit Flashback vedi Analessi Flashforward vedi Prolessi Flusso di coscienza vedi Linguaggio/ Modi del linguaggio Focalizzazione vedi Punto di vista Focus of narration vedi Focalizzazione Frequenza vedi Tempo Funzioni della comunicazione vedi Comunicazione/Enunciazione Genere letterario vedi Letteratura Incipit vedi Romanzo e Sequenze/ Tempi della narrazione Intertestualità/Transtestualità vedi Letteratura Intreccio vedi Narrazione/Racconto Inventio vedi Retorica Iperomanzo vedi Romanzo Letteratura, IX, X, XI, XIV, XV, XVI, 1, 2, 3, 46, 50, 56, 100, 107 – Epos, 3, 50, 101, 102, 107, 161 – Genere letterario, XI, XIII, 3, 10, 12, 20, 35, 50, 62, 101, 102, 107 – Intertestualità/Transtestualità, 100, 105 – Allusione, 101

– Citazione allusiva o diretta, 105 – Continuazione, 102 – Evoluzione, 101 – Imitazione, 101 – Parodia, 102 – Relazione ipertestuale, 102 – Ipertesto, 102 – Ipotesto, 102 – Riscrittura, 102 – Trasformazione, 101 – Opera/Testo, IX. X, XI, XII, XIII, XIV, XV, 1, 2, 5, 7, 10, 12, 13, 20, 32, 50, 56, 88, 98, 102, 150, 162 – Ri-uso, X, XIII – Romanzo, 3, 12, 35, 36, 62, 99, 100, 107, 121 – Explicit, 11, 12, 98, 173 – Incipit, 10, 11, 98, 173 – Iperomanzo, 107 – Metaromanzo, 35, 36, 99 – Poliromanzo, 107 – Tema/Motivo, 56, 69, 77, 84, 88, 101 – Rete tematica, 56 – Tematizzare, 56, 101 Lettore, X, XI, XII, XIV, XV, 1, 2, 4, 5, 6, 7, 10, 11, 12, 20, 21, 22, 57, 58, 63, 71, 72, 73, 77, 78, 91, 96, 99, 105, 107, 110, 114, 128, 129, 149, 150, 151, 160, 161, 162, 163, 164 – Lettore implicito, 20, 21, 22 – Lettore interno/Narratario, 22, 59, 151 – Lettore reale, 59 – Patto narrativo, 6, 26, 27, 71 Linguaggio/Modi del linguaggio, XII, 7, 110, 147, 160, 161-172 – Discorso diretto (dialogo o conversazione), 7, 8, 161, 164 – Discorso indiretto, 161, 162, 163 – Discorso indiretto libero (erlebete rede o discorso rivissuto o style indirect libre), 163, 164, 168 – Flusso di coscienza (stream of consciousness), 168, 169 – Monologo interiore (soliloquio muto), 7, 167, 168

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Livelli narrativi vedi Narratore/Voce narrante

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Memoria vedi Retorica Messaggio vedi Comunicazione/ Enunciazione Metaromanzo vedi Romanzo Mimesi vedi Narrazione/Racconto Mise en abyme vedi Livelli narrativi e Tipi di racconto Monologo interiore vedi Linguaggio/Modi del linguaggio Motivo vedi Tema Narratario vedi Lettore Narratore/Voce narrante, 2, 6, 13, 32, 33, 34, 37, 51, 55, 57, 59, 62, 63, 72, 73, 75, 77, 78, 83, 86, 91, 96, 98, 114, 149, 151, 152, 153, 160, 161, 163, 164, 167 – Narratore “umano”, 13 – Narratore “inanimato”, 13, 115 – Funzioni del narratore, 33 – Narratore allodiegetico, 38, 46 – Narratore autodiegetico o in prima persona, 37, 45, 46 – Narratore che s’identifica, 42 – Narratore comportamentista o assente o che si azzera, 44 – Narratore esterno o eterodiegetico, 40, 45, 70 – Narratore interno od omodiegetico, 37, 45 – Narratore onnisciente, 41, 42, 45, 46, 71, 109, 149, 151, 162 – Livelli narrativi, 33, 34, 36, 37 – Extradiegetico, 33, 35, 36 – Intradiegetico, 33, 35, 36 – Metadiegetico, 33, 34, 35, 36 – Mise en abyme, 35, 36, 99 Narrazione anteriore vedi Distanza Narrazione intercalata vedi Distanza Narrazione simultanea vedi Distanza Narrazione ulteriore vedi Distanza Narrazione/Racconto, 2, 3, 4, 7, 8, 11, 12, 33, 36, 37, 40, 51, 55, 57, 62, 63, 64, 72, 73, 75, 76, 77, 84, 86, 87, 91, 98, 100, 107, 109, 125, 149

– Fabula (story) e Intreccio (plot), 3, 51, 55, 56, 57, 59, 62, 64, 86, 109, 151 – Mimesi/Showing e Diegesi/Telling, 8, 10, 12, 22, 27, 33, 64, 66, 73, 77, 78, 84, 86, 147, 164, 167 – Sequenze/Tempi della diegesi, 10 – Azione complicante, 10 – Coda/Epilogo/Explicit/Fine, 11 – Evaluation/Spannung, 10 – Prologo/Incipit, 10 – Risoluzione, 10 – Situazione iniziale/Orientamento, 10 – Valutazione, 10 – Tipi di racconto, 91 – Cornice, 33, 34, 86, 87, 88, 173 – Mise en abyme, 99 – Racconto a gradini, 91 – Racconto a ostacoli, 96 – Racconto ad anello, 96, 97, 98 – Racconto parallelo, 98 Opera vedi Letteratura Oppositore vedi Sistema dei personaggi Ordine vedi Tempo Orientamento vedi Situazione iniziale/Orientamento Panorama vedi Durata Parti della comunicazione vedi Comunicazione/Enunciazione Paratesto vedi Soglia del testo narrativo Patto narrativo vedi Autore e Lettore Pausa vedi Durata Peritesto vedi Soglia del testo narrativo Personaggio, 33, 37, 42, 44, 69, 70, 83, 88, 91, 109, 149, 150, 151, 153, 154, 160, 161, 163, 164, 167 – Definizione, 109, 110, 111, 112, 114, 115, 116, 121, 128 – Antieroe contemporaneo, 101, 125, 126, 128 – Eroe classico, 112, 115, 116

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– Eroe moderno, 116, 122 – Personaggio a denotazione nulla, 111, 112, 115 – Personaggio archetipo, 128 – Personaggio “che ritorna”, 147 – Personaggio denotativo (o referenziale o storico), 111 – Personaggio dinamico (o modellato o a tutto tondo o round character), 128 – Personaggio inanimato o animale, 13, 42, 43, 115, 145 – Personaggio “seriale”, 147 – Personaggio statico (o disegnato o piatto od opaco o flat character), 128 – Personaggio tipo o stereotipo, 128 – Sistema dei personaggi, 145, 146 – Aiutante, 145, 146, 148 – Antagonista, 146, 147 – Comparsa, 149 – Coprotagonista, 148 – Oppositore, 145, 146, 148 – Protagonista (eroe o personnage focalisateur), 147 – Aspetti del personaggio, 130, 132 – Agire, 134 – Essere, 131 – Parlare e pensare, 140, 141, 164 – Vedere e giudicare, 135, 136, 164 Plot vedi Intreccio Poliromanzo vedi Romanzo Prolessi vedi Ordine Prologo vedi Incipit Protagonista vedi Sistema dei personaggi Punto di vista, 32, 149, 150, 151, – Focalizzazione esterna, 151 – Focalizzazione interna, 153 – Focalizzazione interna fissa, 154 – Focalizzazione interna multipla, 158 – Focalizzazione interna variabile, 157, 158 – Focalizzazione zero, 151

Quadro vedi Scena Racconto vedi Narrazione Racconto a gradini vedi Narrazione/Racconto Racconto a ostacoli vedi Narrazione/Racconto Racconto ad anello vedi Narrazione/Racconto Racconto parallelo vedi Narrazione/Racconto Retorica, XI, 5, 7, 50, 57, 86, 105 – Actio o pronuntiatio, 7 – Dispositio, 7 – Elucutio, 7 – Inventio, 7 – Memoria, 7 Riassunto vedi Durata Risoluzione vedi Sequenze/Tempi della diegesi Ri-uso vedi Letteratura Romanzo vedi Letteratura Scena vedi Durata Scena retrospettiva vedi Analessi Sequenze/Tempi della diegesi vedi Narrazione/Racconto Showing vedi Mimesi Sincronia vedi Tempo Sistema dei personaggi vedi Personaggio Situazione iniziale/Orientamento vedi Sequenze/Tempi della diegesi Soglia del testo narrativo, 10, 27, 161, 162, 173 – Epitesto, 162 – Paratesto, 27, 161, 162 – Peritesto, 162 Sommario vedi Durata Spannung/Evaluation vedi Sequenze/Tempi della diegesi Story vedi Fabula Stream of consciousness vedi Flusso di coscienza Style indirect libre vedi Discorso indiretto libero Suspence/sorpresa, 55, 63, 64, 71, 173

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Telling vedi Diegesi Tema vedi Letteratura Tempo (piano temporale, scarto temporale), 5, 8, 10, 32, 45, 51, 55, 56, 57, 58, 59, 62, 63, 64, 66, 71, 72, 73,75, 77, 78, 83, 84, 85, 91, 96, 98, 111, 167, 168 – Anacronia e Sicronia, 51, 57, 64, 84, 98 – Distanza, 62, 149, 150, 161, 163 – Narrazione anteriore, 62 – Narrazione intercalata, 62 – Narrazione simultanea, 62 – Narrazione ulteriore, 62 – Durata, 46, 57, 62, 72, 151 – Capitolo cerniera, 84 – Descrizione, 12, 78, 81, 83, 84, 131, 173 – Digressione, 7, 11, 56, 59, 62, 77, 78, 81, 83, 84 – Digressione narrativa, 77 – Digressione riflessiva, 77 – Panorama, 77, 83 – Pausa, 7, 56, 59, 62, 77, 83, 84 – Riassunto, 77 – Scena (o quadro), 42, 44, 55, 62, 64, 73, 128, 136, 148, 161 – Sommario, 77, 83, 84, 98 – Ellissi, 62, 75, 77 – Connettivi temporali, 75 – Tempi commentativi, 75

– Tempi narrativi, 75 – Tempi verbali, 75 – Tempo del primo piano, 75 – Tempo dello sfondo, 75 – Frequenza, 57, 62, 86, 151 – Racconto iterativo, 86 – Racconto ripetitivo, 86 – Racconto singolativo, 86 – Racconto singolativo-multiplo, 86 – Ordine, 51, 55, 57, 86, 91, 97, 151, 171 – Analessi, 7, 56, 62, 64, 66, 68, 71 – Analessi interna od omodiegetica, 64, 66, 68 – Analessi esterna o eterodiegetica, 64, 68 – Prolessi, 7, 62, 64, 71 – Tempo del racconto, 62, 63, 168 – Tempo della narrazione, 59, 73, 77, 111 – Tempo della storia, 57, 59, 63, 73, 77, 111, 168 Testo vedi Opera Tipi di racconto vedi Narrazione/ Racconto Transtestualità vedi Intertestualità Valutazione vedi Sequenze/Tempi della diegesi Voce narrante vedi Narratore

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Indice tematico delle opere

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Sono elencati soltanto i titoli dei testi (riportati per esteso o lacerti, oppure solo evocati) che sono stati utilizzati per esemplificare le parti teoriche: sono accompagnati dal nome dell’autore, dalla data della prima pubblicazione e dalla indicazione non della pagina ma dell’argomento per cui sono stati usati/citati.

Al faro (Virginia Woolf, 1927) Flusso di coscienza Focalizzazione interna variabile Alla ricerca del tempo perduto (Marcel Proust, 1913-1917) Analessi Incipit Memoria Personaggio (definizione) Racconto iterativo Tempo del racconto Anna Karenina (Lev Nicolàeviôc Tolstoj, 1875-1877) Diegesi Flusso di coscienza Racconto parallelo Bibbia Opera/Testo Bonjour Tristesse (François Sagan, 1954) Tempo della storia Chançon de Roland (Anonimo, XII sec.) Intertestualità Commedia (Dante Alighieri, 13041321) Genere letterario Intertestualità (legame allusivo e imitazione) Narrazione anteriore Opera/Testo Personaggio archetipo Controcorrente (Joris-Karl Huysmans, 1884) Focalizzazione interna fissa Così è (se vi pare) (Luigi Pirandello, 1917) Intertestualità (riscrittura)

Cuore di tenebra (Joseph Conrad, 1902) Incipit Decameron (Giovanni Boccaccio, 1339-1351) Cornice Livelli narrativi Personaggio (eroe moderno) Delitto e castigo (Fëdor Michajloviôc Dostoevskij, 1866) Explicit Diari (André Gide, 1893) Mise en abyme Don Chisciotte (Miguel de Cervantes, 1605) Genere letterario Intertestualità Due da due penny, per favore (Katherine Mansfield, 1908) Discorso diretto/Dialogo Focalizzazione esterna Mimesi Scena (o quadro) Eneide (Virgilio, 29-19 a.Cr.) Epos Intertestualità (legame allusivo e imitazione) Evgenij Onegin (Aleksandr Sergeeviôc Puškin, 1823-1831) Romanzo Fosca (Iginio Ugo Tarchetti, 1869) Aspetti del personaggio (essere) Guerra e pace (Lev Nicolàeviôc Tolstoj, 1865-1869) Personaggio (definizione)

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I dolori del giovane Werther (Johann Wolfgang von Goethe, 1774) Intertestualità I falsari (André Gide, 1925) Livelli narrativi Mise en abyme I Malavoglia (Giovanni Verga, 1881) Discorso indiretto libero I miserabili (Victor Hugo, 1862) Personaggio (eroe moderno) I promessi sposi (Alessandro Manzoni, 1838-1840) Analessi Analessi esterna o eterodiegetica Aspetti del personaggio (agire) Capitoli cerniera Comparsa Descrizione Diegesi Discorso indiretto Ellissi Explicit Fabula (story) Focalizzazione zero Incipit Intertestualità Intreccio (plot) Iperomanzo Lettore implicito Lettore interno o narratario Lettore reale Narratore onnisciente Narrazione intercalata Opera/Testo Parti della comunicazione Patto narrativo Personaggio (definizione) Poliromanzo Protagonista Punto di vista Racconto a ostacoli Scena (o quadro) Sequenze/Tempi della diegesi Tempo della storia I turbamenti del giovane Törless (Robert Musil, 1906)

Aspetti del personaggio (essere) Il cavaliere inesistente (Italo Calvino, 1959) Intertestualità Personaggio “che ritorna” Il conte di Montecristo (Alexandre Dumas pér, 1844-1845) Personaggio (definizione) Il cuore rivelatore (Edgar Allan Poe, 1843) Lettore interno o narratario Il destino di una tazza senza manico (Heinrich Böll, 1963) Narratore inanimato Personaggio inanimato Il fu Mattia Pascal (Luigi Pirandello, 1904) Prolessi Il Gattopardo (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 1958) Aspetti del personaggio (vedere e giudicare) Il giorno della civetta (Leonardo Sciascia, 1961) Aspetti del personaggio (parlare e pensare) Discorso diretto/Dialogo Il giovane Holden (Jerome David Salinger, 1951) Incipit Il male oscuro (Giuseppe Berto, 1964) Flusso di coscienza Il Milione (Marco Polo, ca 1298) Punto di vista Il naso (Nikolaj Vasil’eviôc Gogol’, 1836) Focalizzazione interna multipla Il nome della rosa (Umberto Eco, 1980) Intertestualità Narratore autodiegetico o in prima persona Narratore onnisciente Narratore reale Patto narrativo Il ponte (Franz Kafka, 1917) Personaggio inanimato

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Il ritratto di Dorian Gray (Oscar Wilde, 1890) Descrizione Explicit Il rosso e il nero (Stendhal, 1830) Incipit Il sentiero dei nidi di ragno (Italo Calvino, 1947) Discorso indiretto libero Il signore degli anelli (John Ronald R.Tolkien, 1954-1955) Personaggio “che ritorna” Il soldo bucato (Luigi Capuana, 1882) Fabula (story) Iliade (Omero, IX-VIII sec. a.C.) Anacronia Comunicazione/Enunciazione Epos Narratore onnisciente Personaggio archetipo Io non ho paura (Niccolò Ammaniti, 2001) Focalizzazione interna fissa Jane Eyre (Charlette Brontë, 1847) Aspetti del personaggio (vedere e giudicare) Lettore interno o narratario L’esclusa (Luigi Pirandello, 1901) Aspetti del personaggio (essere) L’uomo senza qualità (Robert Musil, 1930-1942) Descrizione Personaggio (antieroe contemporaneo) L’urlo e il furore (John Steinbeck, 1929) Flusso di coscienza La collana (Guy de Maupassant, 1885) Discorso diretto/Dialogo Focalizzazione esterna Racconto a gradini La coscienza di Zeno (Italo Svevo, 1923) Genere letterario

Monologo interiore Narratore autodiegetico Narrazione anteriore Personaggio (antieroe contemporaneo) Romanzo La forma dell’acqua (Andrea Camilleri, 1994) Personaggio “seriale” La metamorfosi (Franz Kafka, 1912) Personaggio (antieroe contemporaneo) La mia Africa (Karen Blixen, 1937) Descrizione La modificazione (Michel Butor, 1957) Intertestualità (citazione allusiva) La morte a Venezia (Thomas Mann, 1912) Discorso indiretto Focalizzazione zero Incipit Narratore onnisciente La rallegrata (Luigi Pirandello, 1913) Narratore che s’identifica Personaggio inanimato o animale La roba (Giovanni Verga, 1880) Focalizzazione esterna La sentinella (Fredric Brown, 1954) Analessi La signora delle camelie (Alexandre Dumas fils, 1848) Personaggio (definizione) La signora Frola e il signor Ponza, suo genero (Luigi Pirandello, 1917) Intertestualità (riscrittura) La signorina Else (Arthur Schnitzler, 1924) Flusso di coscienza Genere letterario Intertestualità (citazione diretta) Romanzo

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La storia infinita (Michael Ende, 1979) Livelli narrativi Mise en abyme La straniera (Younis Tawfik, 1999) Focalizzazione interna multipla Narratore autodiegetico Narratore interno od omodiegetico Pausa La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (Lawrence Sterne, 1760-1767) Flusso di coscienza Tempo della narrazione Le città invisibili (Italo Calvino, 1972) Focalizzazione interna variabile Le confessioni d’un italiano (Ippolito Nievo, 1857-1858) Descrizione Personaggio dinamico Le onde (Virginia Woolf, 1931) Monologo interiore Le avventure di Pinocchio (Carlo Collodi, alias Carlo Lorenzini, 1883) Personaggio (definizione) Le particelle elementari (Michel Houellebecq, 1999) Personaggio (antieroe contemporaneo) Lo Hobbit (John Ronald R.Tolkien, 1937) Narratore onnisciente Personaggio “che ritorna” Madame Bovary (Gustave Flaubert, 1854) Focalizzazione interna variabile Narratore esterno o eterodiegetico Opera/Testo Memorie del sottosuolo (Fëdor Michajloviôc Dostoevskij, 1864) Incipit Mille e una notte (Anonimo, XIIXVI sec.) Cornice

Moby Dick (Hermann Melville,1851) Incipit Mrs Dalloway (Virginia Woolf, 1925) Flusso di coscienza Musica rock da Vittula (Michael Niemi, 2000) Analessi Nibelungenlied (Anonimo,XIII sec.) Epos Norvegian wood (Haruki Marukami, 1987) Intertestualità (citazione diretta) Notturno indiano (Antonio Tabucchi, 1984) Explicit Patto narrativo Sequenze/Tempi della diegesi Odissea (Omero, IX-VIII sec. a.C.) Comunicazione/Enunciazione Intertestualità (legame allusivo, ipotesto) Narratore onnisciente Opera/Testo Personaggio archetipo Sincronia Tema Orlando furioso (Lodovico Ariosto, 1532) Personaggio “che ritorna” Pamela, o la virtù riconquistata (Samuel Richardson, 1740) Intertestualità Quel che sapeva Maisie (Henry James, 1897) Focalizzazione interna fissa Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (Carlo Emilio Gadda, 1946) Discorso indiretto libero Explicit Questione di scala (Fredric Brown, 1954) Racconto ad anello

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Indice tematico delle opere

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Ricordi (Lev Nicolàeviôc Tolstoj, 1903) Narratore/Voce narrante Personaggio (definizione) Rosso Malpelo (Giovanni Verga, 1878-1880) Narratore comportamentista o assente o che si azzera Se questo è un uomo (Primo Levi, 1945-1947) Narratore interno od omodiegetico Se una notte d’inverno un viaggiatore (Italo Calvino, 1979) Lettore Lettore interno o narratario Mise en abyme Storia della colonna infame (Alessandro Manzoni, 1840) Genere letterario Tom Jones (Henry Fielding, 1749) Explicit Ulisse (James Joyce, 1922) Flusso di coscienza Intertestualità (evoluzione, trasformazione, parodia, relazione ipertestuale, ipertesto)

Narrazione simultanea Ultime lettere di Jacopo Ortis (Ugo Foscolo, 1801-1817) Intertestualità (continuazione) Un bar sotto il mare (Stefano Benni, 1987) Cornice Racconto ad anello Una voce di notte (Andrea Camilleri, 2012) Personaggio “seriale” Undici figli (Franz Kafka, 1911) Focalizzazione interna fissa Uno studio in rosso (Arthur Conan Doyle, 1887) Analessi Analessi interna od omodiegetica Narratore allodiegetico Uno, nessuno e centomila (Luigi Pirandello, 1936) Diegesi Explicit Lettore interno o narratario Monologo interiore Personaggio (antieroe contemporaneo) Sequenze/Tempi della diegesi Tempo della storia

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Indice dei nomi

Aeurbach, Eric, 125, 175 Alighieri, Dante, X, 50, 62, 101, 105, 128, 185 Almansi, Guido, 178 Ammaniti, Niccolò, 154, 187 Antonello da Messina, 83 Ariosto, Lodovico, 147, 188 Aristotele, XI, 50, 110, 166 Austen, Jane, 164 Bachtin, Michail Mihajloviôc, 3, 100, 122, 160, 175 Balzac, Honoré, de, 111 Battaglia, Salvatore, 116, 175 Beatle,The, band musicale, 105 Benni, Stefano, 88, 89, 98, 189 Bernardelli,Andrea, 100, 175 Berto, Giuseppe, 171, 186 Blixen, Karen, 80, 187 Boccaccio,Giovanni,33,34,87,116, 117, 185 Böll, Heinrich, 13, 115, 186 Bonaparte, Napoleone, 112, 168 Booth,Wayne C., 57, 175 Brioschi, Franco, X, XI, 3, 175, 176 Brontë, Charlotte, 21, 136, 187 Brooks, Peter, 57, 175 Brown, Fredric, 70, 98, 187, 188 Butor, Michel, 105, 106, 187 Calabrese, Stefano, 64, 175 Calvino, Italo, XIII, XVI, 21, 22, 99, 100, 102, 107, 147, 157, 158, 164, 167, 173, 175, 186, 187, 188, 189 Camilleri,Andrea, 147, 187, 189 Capuna, Luigi, 52, 187 Cederna, Camilla, 176 Chatman, Seymour, 57, 86, 175 Christie, Agatha, 147

Collodi, Carlo (pseud. di Carlo Lorenzini), 112, 113, 188 Conrad, Joseph, 173, 185 Dällenbach, Lucien, 99, 176 de Certeau, Michel, XVI, 176 de Cervantes, Miguel, 102, 107, 185 Debenedetti, Giacomo, 109, 176 Di Girolamo, Costanzo, 3, 175 Dostoevskij,Fëdor Michajloviôc,173, 185, 188 Doyle,Arthur Conan, sir, 38, 39, 66, 68, 147, 189 Dumas, Alexandre, fils, 110, 111, 187 Dumas,Alexandre, pér, 110, 186 Easthope,Anthony, XIII, 176 Eco, Umberto, 13, 17, 21, 27, 30, 37, 78, 176, 186 Eliot, George (pseud. di Mary Ann Evans), 173 Ende, Michael, 36, 188 Ficara, Giorgio, 110, 176 Fielding, Henry, 173, 189 Flaubert, Gustave, X, 5, 40, 128, 151, 153, 157, 188 Forster,Edward Morgan,57,110,176 Foscolo, Ugo, 102, 189 Friedman, Norman, 150 Freud, Sigmund, 2, 128 Frye, Northrop, 50, 176 Fusillo, Massimo, 3, 175 Gadda, Carlo Emilio, 164, 165, 173, 188 Gatto Trocchi, Cecilia, 177 Gautier,Théophile, 111 Genette, Gérard, IX, X, 1, 13, 21, 27, 32, 33, 57, 62, 86, 100, 102, 150, 161, 162, 176

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Indice dei nomi

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Gide,André, 35, 36, 99, 185, 186 Goethe, Johann Wolfgang, von, 102, 186 Gogol’, Nikolaj Vasil’eviôc, 158, 159, 186 Goodman, Nelson, 111, 112, 115, 176 Greimas, Algirdas Julien, 109, 146, 176 Grosser, Hermann, 177 Hamon, Philippe, 78, 176 Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 3, 50, 122 Houellebecq, Michel, 126 Hugo,Victor, 111, 122, 186 Huysmans, Joris-Karl, 154 185 Ingarden, Roman, XIV, 176 Iser,Wolfgang, X, 176 Jakobson, Roman, XI, XIII, 4, 176, 178 James, Henry, 150, 154, 177, 188 James,William, 168 Jedlowski, Paolo, 4, 177 Joyce, James, 62, 101, 102, 128, 169, 171, 189 Jung, Carl Gustav, 128 Kafka, Franz, 115, 126, 154, 186, 187, 189 Kellogg, Robert, 57, 177 Kristeva, Julia, 100, 177 Labov,William, 10, 177 Lausberg, Heinrich, X, 7, 177 Leed, Eric J., 56 Lejeune, Philippe, 162, 177 Leonardi, Paolo, 178 Leopardi, Giacomo, IX Levi, Primo, 37, 38, 189 Littré, Emile, 109 Lodge, David, 10, 57, 160, 177 Lukács, György, 3, 177 Mallarmé, Stephane, XIV Mann, Thomas, 42, 151, 162, 163, 173, 187

Mansfield, Katherine, 8, 73, 151, 161, 185 Manzoni, Alessandro, X, 6, 11, 12, 20, 21, 27, 28, 41, 55, 64, 66, 73, 75, 76, 79, 84, 96, 97, 107, 112, 131, 134, 148, 151, 186, 189 Marukami, Haruki, 105, 188 Maupassant, Guy, de, 91, 151, 161, 187 Melville, Hermann, 173, 188 Meneghelli, Donata, 149, 150, 177 Moretti, Franco, 164, 169, 177 Musil, Robert, 81, 82, 126, 131, 186, 187 Nerval, Gérard, de, 111 Niemi, Michael, 69, 188 Nietzsche, Friedric, 111 Nievo, Ippolito, 83, 84, 129, 188 Nigro, Salvatore Silvano, 147 Omero, XIII, 2, 41, 56, 187, 188 Pellini, Pierluigi, 78, 177 Pirandello, Luigi, 11, 12, 22, 42, 43, 71, 102, 103, 104, 115, 126, 127, 131, 132, 167, 173, 185, 186, 187, 189 Platone, 50 Platone, Rossana, 175 Poe, Edgar Allan, 22, 23, 26, 186 Polo, Marco, 157, 186 Prince, Gerald J., 1, 57, 62, 177 Propp,Vladimir Jakovleviôc, 51, 122, 146, 177 Proust, Marcel, 32, 62, 69, 86, 111, 126, 173, 185 Puškin,Aleksandr Sergeeviôc, 3, 185 Raimondi, Ezio, 97 Reiss,Timothy J., XIV, 177 Richardson, Samuel, 102, 188 Ricoeur, Paul, 62, 177 Robbe-Grillet,Alain, 110, 177 Saffo, 112 Sagan, François, 58, 185 Salgari, Emilio, 13 Salinger, Jerome David, 173, 186

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Indice dei nomi

Sand, George (pseud. di Armantine Aurore Lucille Dupin), 111 Sartre, Jean-Paul, IX, X, XI, XII, XIII, 177 Scarpati, Claudio, 178 Schnitzler,Arthur, 105, 169, 187 Scholes, Robert, 57, 177 Schumann, Robert, 105 Sciascia, Leonardo, 141, 161, 186 Searle, John S., X, 178 Segre, Cesare, 102, 178 Socrate, 112 Spitzer, Leo, 163, 178 Stara,Arrigo, 109, 178 Steinbeck, John, 169, 187 Steiner, Peter, IX, 178 Stendhal (pseud. di Marie-Henri Beyle), 173, 187 Sterne, Lawrence, 59, 169, 188 Stevenson, Robert L., 111 Svevo, Italo (Ettore Schmidt), 45, 62, 107, 126, 167, 168, 187 Tabucchi, Antonio, 11, 26, 27, 107, 188 Tadié, Jean-Yves, 126

Tarchetti, Iginio Ugo, 133, 185 Tawfik,Younis, 46, 47, 77, 78, 188 Todorov, Tzvetan, XIII, XV, 1, 2, 50, 150, 178 Tolkien, John Ronald R., 41, 147, 187, 188 Tolstoj, Lev Nicolàeviôc, 12, 32, 98, 111, 112, 169, 185, 189 Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, 136, 139, 186 Tomasôevskij, Boris V., IX, 55, 56, 178 Turchetta, Gianni, 149, 178 Verga, Giovanni, 44, 152, 164, 186, 187, 189 Vigny,Alfred, de, 111 Virgilio,Anneo Caro, 41, 101, 185 Vittorini, Fabio, 55, 178 Weinrich, Harald, 62, 75, 178 Wilde, Oscar, 81, 82, 173, 187 Woolf, Virginia, 157, 167, 169, 171, 185, 188 Zola, Émile, 151

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Finito di stampare da Studio Rabbi - Bologna Aprile 2013

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