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Italian Pages 318 [319] Year 2011
Biblioteca Universale Laterza 648
Emilio Gentile
Le origini dell’Italia contemporanea L’età giolittiana
Editori Laterza
© 2003, Gius. Laterza & Figli In «Storia e Società» Prima edizione 2003 Nella «Biblioteca Universale Laterza» Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council
Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9616-0
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INTRODUZIONE Gli anni compresi tra l’inizio del Novecento e la prima guerra mondiale – denominati “età giolittiana” perché dal 1901 fino al 1914 la vita parlamentare fu dominata da Giovanni Giolitti – sono un periodo fondamentale nella storia dell’Italia contemporanea. Iniziarono allora mutamenti politici, economici, sociali e culturali, che hanno condizionato l’evoluzione del paese fino ai giorni nostri. Ci fu un progresso economico senza precedenti, con l’avvio della rivoluzione industriale, che diede impulso allo sviluppo di nuovi ceti proletari e borghesi, e all’affermazione di movimenti politici e organizzazioni sociali di massa, dai quali sono emersi i principali protagonisti collettivi della politica italiana nel XX secolo. Anche la cultura, nelle sue varie manifestazioni, umanistiche e scientifiche, partecipò allo sviluppo della vita nazionale: ci fu un rinnovato fervore di ricerche, di studi, di espressioni estetiche originali, accompagnati dalle innovazioni e dalla diffusione degli strumenti informativi e organizzativi dell’opinione pubblica. Il progresso sociale favorì il miglioramento dell’istruzione, con un sensibile calo nella percentuale di analfabeti, che, agli inizi del secolo, registrava ancora, specialmente nelle regioni meridionali, uno degli indici più alti d’Europa. L’Italia acquistò allora i caratteri essenziali di una nazione moderna, proseguendo sulla via aperta dalla rivoluzione risorgimentale e dalla creazione dello Stato unitario. Chi studia la storia italiana del primo quindicennio del Novecento non può prescindere dal contesto della storia europea di quegli anni. I problemi della società italiana, infatti, tenendo conto, ovviamente, delle specifiche condizioni nazionali e storiche, erano soltanto un aspetto di fenomeni più vasti che coinvolgevano la società europea nell’età dell’imperialismo. L’età giolittiana iniziò in una congiuntura favorevole per l’economia mondiale e di relativo equilibrio fra le grandi potenze. La fine della “grande de-
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pressione”, che aveva colpito l’economia europea dal 1873 al 1895, e il nuovo ciclo di espansione durato fino al 1907, favorirono lo sviluppo verso forme di vita più moderne, e la diffusione di un maggiore benessere sociale. Lo straordinario progresso dell’economia capitalistica industriale sconvolse le fondamenta della società tradizionale e creò nuove forme di vita collettiva, irradiando modelli di cultura in tutti i continenti. L’Europa era allora il centro del mondo. Tuttavia, lo stesso dinamismo espansivo delle potenze europee e le condizioni dell’intenso sviluppo capitalistico e industriale, con la tendenza alla concentrazione monopolistica e alla ricerca di mercati al di fuori dei confini nazionali, fecero nascere nuovi e più gravi conflitti fra gli Stati europei impegnati nella gara imperialista. Al principio del XX secolo, la situazione internazionale era notevolmente cambiata rispetto al decennio precedente. Le due maggiori potenze coloniali, Francia e Inghilterra, superata la crisi di Fashoda (Sudan), nel 1898, che le aveva portate sull’orlo della guerra per lo scontro delle loro ambizioni espansioniste in Africa, avevano avviato una politica di intesa che influenzò i rapporti internazionali stabiliti nel periodo bismarckiano. Nello stesso tempo, potenze extraeuropee, come gli Stati Uniti e il Giappone, affermavano la loro presenza nelle competizioni internazionali, mettendo in crisi l’egemonia europea nel mondo: alla fine del secolo, era nato l’imperialismo americano dalla guerra contro la Spagna, e, dalla guerra contro la Cina, era nato l’imperialismo giapponese che, alcuni anni dopo, nel 1905, con la vittoria del Giappone sulla Russia, avrebbe inferto la prima grave ferita alla supremazia dell’Europa nel continente asiatico. La Germania, con una produzione industriale prossima a superare quella inglese, era diventata un concorrente ambizioso e temibile per l’egemonia in Europa e nella corsa alle conquiste coloniali. I grossi imperi dell’Europa orientale, chiusi nell’inerzia dell’autoritarismo tradizionale, riuscivano a soffocare con difficoltà le tensioni delle nazionalità soggette e le loro aspirazioni all’indipendenza, come nell’impero asburgico, oppure violente rivolte popolari, come nella Russia zarista, che utilizzava solo in parte, con l’aiuto del capitalismo straniero, le sue immense risorse latenti; mentre l’impero turco, incapace di arrestare la sua lunga decadenza, era diventato un campo aperto alla penetrazione commerciale e coloniale delle po-
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tenze europee. La regione dei Balcani, territorio conteso tra influenza russa, austriaca e italiana, e fonte di pericolosi attriti, era una polveriera. Tuttavia, nonostante le tensioni internazionali provocate da concorrenza economica e da contrasti di potenza, fino alla prima crisi marocchina (1905) e all’espansione dell’Austria nei Balcani (1908), gli Stati europei vissero in una condizione di “pace armata”, assicurata con un fitto intreccio di accordi diplomatici segreti o palesi. Mentre le relazioni fra gli Stati si mantenevano in condizioni di pace armata, all’interno di ognuno di essi diventavano più frequenti i conflitti sociali e politici suscitati dall’industrializzazione e dalla modernizzazione. L’età dell’imperialismo presenta in quasi tutti i paesi europei, secondo le condizioni storiche di ciascuno, fenomeni analoghi: decadenza delle aristocrazie tradizionali, formazione di nuove élite di origine borghese o piccolo-borghese, nascita delle organizzazioni di massa, democratizzazione dei sistemi politici con fenomeni di mobilitazione sociale, diffusione di nuove concezioni della vita che rispecchiavano il declino della società tradizionale, con la crisi del razionalismo liberale e il prevalere di filosofie spiritualiste, irrazionaliste e idealiste, che davano nuove interpretazioni sul carattere e il fine della vita individuale e collettiva. Il passaggio dallo Stato liberal-conservatore allo Stato liberal-democratico, nella maggior parte dei paesi europei, avvenne gradualmente ma sotto la pressione di agitazioni sociali e di contrasti all’interno delle classi dominanti. Questo fenomeno si verificò anche nelle nazioni che vantavano una lunga tradizione liberale, come la Francia e l’Inghilterra, ma in questi paesi, una più antica e consolidata unità statale e una maggiore coesione economica e sociale, resero meno traumatici gli effetti della modernizzazione, e i conflitti di classe non impedirono il rafforzamento delle istituzioni e l’integrazione nazionale delle masse. Con la nascita della società di massa, l’età del liberalismo entrò nella fase di declino, mentre sorgeva l’età della democrazia, del socialismo e del nazionalismo. Questo era, in linee generali, il panorama della società europea tra il XIX e il XX secolo, entro il quale ha origine l’Italia contemporanea. Per molti aspetti, i suoi problemi erano simili a quelli di altri paesi più progrediti, ma il processo di modernizzazione avvenne in condizioni più gravi, per la mancanza di tradizioni uni-
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tarie nella coscienza delle masse e per i profondi squilibri sociali e regionali. All’alba del nuovo secolo, l’Italia doveva superare il ritardo economico e, nello stesso tempo, affrontare i problemi di una nascente società di massa, con un apparato istituzionale che non aveva una legittimità fondata sul consenso della maggioranza. L’Italia doveva, per così dire, allenarsi e gareggiare contemporaneamente; impegnarsi nell’industrializzazione e nella competizione internazionale, mentre oltre metà del paese viveva ancora in una grave depressione economica e sociale; doveva compiere l’integrazione delle masse mentre lo Stato, nato dalla rivoluzione risorgimentale, conservava ancora i caratteri e i limiti dell’origine oligarchica. I progressi compiuti durante il periodo giolittiano furono molti e notevoli, ma questo sviluppo non fu privo di carenze, che esplosero drammaticamente negli anni agitati del primo dopoguerra e contribuirono alla crisi della democrazia liberale, preparando la via all’avvento di un regime totalitario. Considerando il progresso compiuto nel primo decennio del secolo e la gravità della crisi seguita alla prima guerra mondiale, che sfociò nel fascismo, gli storici sono stati spinti a domandarsi quali furono realmente le modificazioni della società italiana nei primi anni del XX secolo, quali furono il contributo e la responsabilità dei vari protagonisti, singole personalità e forze collettive, nel promuovere e favorire i fattori di progresso o nel predisporre, pur senza averne consapevolezza, i fattori di crisi. Gli storici concordano nel ritenere che l’età giolittiana sia un periodo fondamentale nella storia dell’Italia contemporanea, ma i loro giudizi divergono quando si procede all’esame dei problemi specifici, quando cioè si ricostruiscono le vicende dei protagonisti e si valutano le loro attitudini e capacità nel fronteggiare i problemi, trovare soluzioni e assumere comportamenti adeguati alle trasformazioni profonde della società italiana. Da qui, la varietà molto contrastante delle interpretazioni storiografiche del periodo giolittiano e della figura del suo principale protagonista politico. Mi limito a ricordare le interpretazioni di tre grandi storici italiani del Novecento – Benedetto Croce, Gaetano Salvemini e Gioacchino Volpe – che possiamo considerare emblematiche per l’ampia influenza che hanno avuto sul dibattito storiografico. Croce considerava il periodo giolittiano il tempo durante il quale «meglio si attuò l’idea di un governo liberale», come scris-
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se nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, pubblicata nel 1928, per rivendicare i meriti della classe dirigente liberale contro le denigrazioni da parte dei fascisti. Egli descriveva l’evoluzione di una società avviata a sicuro progresso, attraverso un equilibrio costante fra le varie componenti della vita economica, intellettuale e politica, anche se, aggiungeva Croce, «si viveva e si lavorava e si prosperava movendosi tranquilli sopra un terreno minato», perché nel corpo sano dell’Italia liberale circolavano già allora quegli umori maligni – irrazionalismo, attivismo, nazionalismo, imperialismo – che, dopo il trauma della Grande Guerra, avrebbero dato vita al fascismo, distruggendo il regime liberale. L’interpretazione crociana, tuttavia, non rendeva chiare le ragioni della fragilità del regime liberale e l’incapacità della classe politica, tanto elogiata da Croce per virtù e capacità di governo, di fronte alla crisi del dopoguerra e all’assalto fascista. Una risposta a questi interrogativi fu data da Gaetano Salvemini in un saggio del 1952, Fu l’Italia prefascista una democrazia?, che conteneva una interpretazione generale dell’età giolittiana in netto contrasto con quella di Croce. Secondo Salvemini, che nel periodo giolittiano era stato, come militante socialista e meridionalista, uno dei più intransigenti oppositori di Giolitti, da lui definito in un libello del 1910 il «ministro della mala vita», l’Italia del primo quindicennio del Novecento, pur con i progressi sociali che aveva fatto, conservava ancora molti e gravi difetti originari dello stesso regime liberale, troppo intriso di autoritarismo, che la politica giolittiana non solo non eliminò ma anzi contribuì ad aggravare. Il giolittismo, per Salvemini, era stato un’anticipazione del fascismo: Giolitti aveva preparato la strada a Mussolini. Tuttavia, in una introduzione a un libro sull’età giolittiana del 1949, Salvemini aveva riconosciuto che l’Italia liberale, fino al 1914, era stata comunque una «democrazia in cammino» e che Giolitti, se non fu il migliore, «non fu neanche il peggiore di molti politicanti italiani che gli succedettero». Volpe, storico di ideali nazionalisti che aveva aderito al fascismo, nella sua Italia moderna, scritta fra il 1943 e il 1952, riprendendo una tesi esposta già nel libro Italia in cammino del 1927, descrisse con vigore analitico e realistico i molti aspetti di rinnovamento e di progresso della vita italiana nel periodo giolittiano, quando «si affacciava un’Italia più giovane, più pensosa, più as-
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setata di cultura, più aperta a problemi nuovi e capace di vivere i suoi problemi, più amante di coerenza, più volta alla sintesi, più sostanzialmente italiana», ma egli ribadì un giudizio molto critico sulla classe politica liberale e su Giolitti. Volpe rimproverava a Giolitti di non essere stato consapevole dei problemi che coinvolgevano la collettività nazionale come unità organica inserita nel contesto dei conflitti imperialistici, di non aver saputo dare coesione e unità alle energie della nuova «Italia in cammino» ponendo la nazione «al cospetto di grandi accadimenti, di tragiche necessità che operassero come le alte temperature sui metalli», per guidare il paese verso la grandezza: «Mai accade che Giolitti mostri di avere davanti agli occhi, come sempre, poco o molto, li ha un grande uomo di Stato, scopi più alti, per il domani, lampeggianti al di là di quelli dell’ordine e del benessere individuale, che si vogliano e si possano, per il momento, concretamente raggiungere». Giolitti era «tutto aderenza all’oggi e sue condizioni e possibilità immediate; tutto tecnica, tutto razionalità e buon senso, con i vantaggi e le insufficienze della troppa razionalità e del troppo buon senso». I tre storici valutavano in modo diverso il ruolo e le responsabilità della classe dirigente, delle forze politiche, economiche e intellettuali nel promuovere o nell’indebolire il progresso della nazione, il consolidamento delle conquiste economiche e la stabilità delle istituzioni, nell’ambito di un processo generale di democratizzazione che investiva tutta la società europea. Salvemini e Volpe, da opposti punti di vista, pur non negando il progresso compiuto dal paese, mettevano in luce che il periodo giolittiano non era stato, come lo aveva definito Croce, un’epoca «di respiro, di pace, di alacrità, di prosperità», perché la società italiana fu allora travagliata da violenti conflitti di classe, dalla crisi dei partiti tradizionali, dal declino del prestigio delle istituzioni parlamentari, dalla crescente ostilità verso lo Stato liberale non solo dei ceti proletari ma anche di molti settori della borghesia e dei ceti medi. La società era in una fase di crescita, ma nelle sue trasformazioni conservava, accanto alle conquiste positive, gravi eredità negative che rendevano difficile e instabile il progresso del paese. Ed è su questi problemi che si è in gran parte sviluppata, durante la seconda metà del secolo scorso, la storiografia sul periodo giolittiano, dalla quale sono emerse conoscenze e valutazioni che han-
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no consentito di comporre, procedendo oltre le interpretazioni tradizionali, un ritratto nuovo di quell’epoca, più complesso e meglio corrispondente ai fenomeni concreti: un quadro dove i protagonisti, sia individuali sia collettivi, appaiono collocati in dimensioni più adeguate alle loro proporzioni reali. La stessa figura di Giolitti, liberata dalle polemiche e dalle apologie, pur occupando il centro della rappresentazione, non è la chiave di spiegazione del suo tempo. Giolitti, giolittismo, età giolittiana: sono questioni distinte, anche se inevitabilmente collegate, e non possono essere risolte solo attraverso il giudizio sulla vicenda politica dello statista piemontese. «Giolitti era solo Giolitti, non la storia della sua età», ha osservato giustamente Nino Valeri, grande estimatore e biografo dello statista piemontese. Inoltre, come sistema di potere, il giolittismo è un fenomeno che trascende la personalità politica di Giolitti perché, nelle sue caratteristiche essenziali, esso coinvolge l’intera classe politica, che di quel sistema fu artefice e collaboratrice. Queste osservazioni non intendono disconoscere che un uomo politico di forte personalità come Giolitti ebbe una grande influenza nella vita della nazione, durante uno dei periodi più drammatici e ricchi di conseguenze per il futuro del paese. Va tuttavia precisato, per una migliore comprensione della stessa politica giolittiana, che il periodo storico che da lui prende il nome non ebbe uno svolgimento unitario e omogeneo, dal 1901 al 1914, all’insegna del riformismo, del progresso economico, della pace sociale, del civile confronto tra le forze politiche. Se possiamo certamente considerare questo periodo una fase della storia italiana con caratteristiche specifiche, è tuttavia necessario distinguere, all’interno dello svolgimento della stessa politica giolittiana, tutt’altro che uniforme e coerente, almeno tre momenti distinti, che potremmo definire come i periodi della nuova politica liberale dal 1901 al 1903, della stabilizzazione moderata dal 1904 al 1911, e della crisi del sistema giolittiano dal 1912 al 1914. Va tenuto infine presente che il periodo giolittiano fu aperto e chiuso da una grave crisi politica: fu preceduto dai tumulti popolari del 1898, repressi sanguinosamente, con tentativi di reazione autoritaria da parte di alcuni settori della classe dirigente; e fu concluso dalla più vasta agitazione di massa fino allora avvenuta in Italia, la «settimana rossa» (giugno 1914), cui seguirono, l’anno dopo, le manifestazioni in-
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terventiste che spinsero il paese alla guerra. La presenza di due crisi così gravi in un arco di tempo non lungo inducono ad approfondire la riflessione critica sull’effettiva stabilità dello Stato liberale, sugli orientamenti all’interno della classe dirigente, sull’efficacia della politica attuata da Giolitti per conquistare il consenso delle masse popolari e ottenere una loro pacifica integrazione nel sistema liberale, e sugli esiti finali della sua egemonia politica. Da tali riflessioni ha avuto origine questo libro. Esso si propone di introdurre il lettore alla conoscenza di un periodo fondamentale della storia italiana contemporanea, ripercorrendone le vicende politiche, economiche, sociali e ideologiche, attraverso una sintesi storica che si è avvalsa, nella valutazione critica di singoli aspetti e protagonisti, dei giudizi più persuasivi o più significativi forniti dagli studiosi che si sono occupati di questo periodo, inserendoli nel quadro di una nuova interpretazione complessiva, che si è collocata nella storiografia dell’età giolittiana con una propria fisionomia, riscuotendo un ampio e costante consenso da parte di studiosi, docenti, studenti e anche di lettori non specialisti. Lo dimostrano le numerose ristampe che il testo, nelle edizioni de Il Mulino, ha avuto fra il 1990 e il 1997, dopo essere apparso per la prima volta, nel 1977, come secondo volume della Storia dell’Italia contemporanea, diretta da Renzo De Felice e pubblicata dalle Edizioni Scientifiche Italiane. Viene ora ripubblicato nelle edizioni Laterza in una versione riveduta e ampliata, con l’aggiunta di un capitolo sull’antigiolittismo, tratto dal mio libro Il mito dello Stato nuovo (Laterza, Roma-Bari 1982, nuova ed. 2002), e con una bibliografia aggiornata.
LE ORIGINI DELL’ITALIA CONTEMPORANEA L’ETÀ GIOLITTIANA
I IL FALLIMENTO DELLA REAZIONE La caduta definitiva di Francesco Crispi, il 10 marzo 1896, dopo la disfatta italiana ad Adua, e il disastroso fallimento del suo sogno imperialista sembravano dover chiudere definitivamente un periodo di infelice politica reazionaria e repressiva. Le tensioni e le agitazioni sociali provocate dalla lunga crisi che aveva investito l’economia italiana negli anni fra il 1888 e il 1895, continuarono ad essere vive nel paese, nonostante i primi segni di ripresa economica dopo il 1895. I successori di Crispi, chiamati per liquidare la sua politica reazionaria, furono al contrario indotti a tentare di arginare e frenare, con metodi non diversi da quelli adoperati dallo statista siciliano, il processo di mobilitazione sociale e l’affermazione dei movimenti socialista e cattolico. Il nuovo fallimento della politica repressiva del governo di Antonio Rudinì, che pure era nato con un progetto liberal-conservatore di rinnovamento, aveva dimostrato che questo processo non poteva essere arrestato o annientato con la violenza. I sanguinosi tumulti del maggio 1898 avevano confermato l’esistenza di una realtà che i conservatori si ostinavano a negare o a ignorare, perché continuavano a vedere nelle agitazioni soltanto una minaccia per l’ordine e per le istituzioni. I tumulti popolari, in verità, avevano origine contingente e, anche se assumevano carattere politico, restavano legati all’esigenza di un miglioramento delle condizioni essenziali dell’esistenza e non erano di fatto ispirati da alcun disegno rivoluzionario. Tuttavia essi misero in luce che fra la politica del governo e la realtà del paese si stava scavando un solco profondo e che tale solco non poteva certamente essere colmato con una politica governativa incapace di comprendere la vera origine dei conflitti sociali. La classe dirigente restava prigioniera del com-
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plesso di stato d’assedio, convinta di dover fronteggiare un’insurrezione di forze antirisorgimentali che minacciavano l’esistenza dello Stato liberale. Gli anni dalla caduta di Crispi al ritorno al governo di Giolitti furono, per questi motivi, anni di crisi profonda nella classe dirigente liberale, più che per la stabilità delle istituzioni, mentre si dimostrò scarsamente fondata, nella reale consistenza dei fatti accaduti, la paura di una rivoluzione prossima a distruggere lo Stato risorgimentale.
1. Il governo del generale Pelloux I fatti accaduti a Milano e in altre città e province dell’Italia centrale e meridionale segnarono la sorte del governo Rudinì, abbandonato dai suoi principali alleati e sottoposto alle accuse della maggioranza della Camera. Rudinì presentò le dimissioni ma gli fu ancora confermato l’incarico di formare un nuovo ministero, che tuttavia non riuscì a superare le difficoltà di una maggioranza parlamentare ostile ai suoi propositi repressivi. In seguito all’insuccesso del nuovo governo, che aveva visto bocciato dalla Camera un progetto del presidente del Consiglio per dare carattere duraturo ai provvedimenti eccezionali adottati durante i tumulti, Rudinì rassegnò definitivamente le dimissioni. L’incarico di formare il governo fu dato al generale Luigi Pelloux il 29 giugno. Egli godeva fama di liberale: durante i tumulti, come comandante militare della zona di Bari, non aveva voluto proclamare lo stato d’assedio, perché si era reso conto che all’origine delle manifestazioni popolari vi era lo stato di miseria in cui le popolazioni erano costrette a vivere e non la volontà di distruggere le istituzioni. Inoltre Pelloux, uomo della sinistra costituzionale, era stato ministro della Guerra nel primo ministero Giolitti. La sua designazione, dunque, sembrava garantire l’abbandono della politica reazionaria e fu accolta favorevolmente dalla Camera. Infatti, per la sua reputazione di liberale e la sua formazione militare, Pelloux poteva apparire come l’uomo più adatto a ristabilire l’ordine nel paese senza offendere i principi liberali, promuovendo la smobilitazione dello stato d’assedio in cui la classe dirigente si era trincerata. Nonostante le intenzioni, nei fatti la sua politica fu rivolta soltanto all’attuazione del primo proposito, cioè la restaurazione dell’ordine. Pelloux agì nella convin-
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zione di dover salvaguardare le istituzioni e la monarchia innanzi tutto dalla minaccia delle forze sovversive. Giolitti, nelle sue memorie, definì il generale «uomo d’ingegno pronto e vario, ma deficiente nella cultura politica». È opportuno, tuttavia, precisare – come ha scritto Gastone Manacorda nella introduzione alle memorie del generale – che uomini come il generale Pelloux, a causa della loro mentalità e della loro funzione, «non esprimono nella lotta politica esigenze interessi aspirazioni di gruppi sociali in movimento, ma, da grandi funzionari, hanno a cuore la pura e semplice difesa dello Stato, o, come essi preferiscono dire, delle ‘istituzioni’, e sono quindi dei puri conservatori, che possono diventare reazionari quando il movimento sociale minaccia lo statu quo politico e sociale [...]; la coerenza di un Pelloux, la continuità della sua linea politica è limitata, invece, al campo tecnico-amministrativo e tende a ridurre a questa dimensione anche i problemi che ne esorbitano. Se non si tiene presente questo, non si spiega come il ‘progressista’ si mutasse in reazionario quando passò da compiti amministrativi all’esercizio del potere politico». Il programma col quale Pelloux presentò il suo governo era moderato nelle intenzioni. Non vi era alcun serio progetto per affrontare la complessa crisi del paese, ma soltanto alcune misure per restaurare l’ordine nell’ambito e nel rispetto delle istituzioni. I compiti del nuovo ministero, dichiarò Pelloux, erano, appunto, «il mantenimento assoluto dell’ordine, la tutela costante e gelosa delle istituzioni e della società, la pacificazione degli animi; all’estero, la pace più sincera, conservando le migliori relazioni con tutte le potenze amiche ed alleate». Egli manifestò il proposito di realizzare una riforma tributaria per andare incontro alle esigenze di larghi strati della popolazione meno abbiente e alleviare il pressante carico fiscale. Un simile programma di restaurazione costituzionale, con modeste proposte per risolvere la crisi sociale, fece guadagnare al nuovo ministero sia l’appoggio dei conservatori sia quello della sinistra costituzionale, che faceva capo a Zanardelli e a Giolitti. Le prime iniziative del governo furono rivolte alla formulazione e alla messa in atto di opportune misure per la restaurazione dell’ordine, in modo da evitare, per il futuro, il ricorso alle repressioni violente. Ciò poneva il problema di una revisione, in senso autoritario, degli ordinamenti liberali, che era stata anticipata da una proposta di Sidney Sonnino, in un discusso articolo
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del 1897, intitolato Torniamo allo Statuto. Nell’articolo, Sonnino aveva sostenuto che l’unica via valida per superare la crisi sociale e politica del paese era quella di ritornare a un metodo di governo più autoritario, di tipo tedesco, applicando letteralmente lo Statuto, per restituire al re la pienezza delle sue prerogative, limitando, di conseguenza, quelle che il parlamento e il presidente del Consiglio avevano acquisito nella prassi di oltre un ventennio. Orientandosi secondo l’indirizzo proposto da Sonnino, il generale Pelloux – che in un primo momento aveva provveduto alla revoca degli stati d’assedio e aveva concesso l’amnistia ai detenuti politici per favorire la pacificazione – chiese e ottenne dalla Camera la proroga per un anno dei provvedimenti eccezionali adottati da Rudinì, ma tentò anche di renderli permanenti. La situazione sembrava favorevole, perché il miglioramento delle condizioni economiche avrebbe potuto attenuare i motivi delle agitazioni popolari. Pelloux, inoltre, era convinto di avere nella Camera una stabile maggioranza. Il suo disegno di legge sui provvedimenti politici fu presentato alla Camera il 4 febbraio 1899. Essi prevedevano l’adozione di misure restrittive per la libertà di organizzazione, di espressione e di manifestazione; l’istituzione del domicilio coatto per condannati recidivi, anche politici; il divieto di riunioni in luogo aperto, l’autorizzazione delle quali era lasciata alla discrezione dell’autorità; la possibilità, da parte dell’autorità giudiziaria, di sciogliere le associazioni considerate sovversive; la militarizzazione degli impiegati delle amministrazioni pubbliche; infine, alcune misure che limitavano la libertà di stampa. Erano provvedimenti che potevano sembrare compatibili con le norme statutarie, ma, nella particolare situazione nella quale venivano presentati, assumevano chiaramente un carattere repressivo, soprattutto nei confronti dell’estrema sinistra. Se approvati, avrebbero dato al governo uno strumento legale per attuare una politica reazionaria. L’estrema sinistra votò, naturalmente, contro; votarono a favore i conservatori e la sinistra liberale di Zanardelli e Giolitti. Questi motivarono il loro voto dichiarando di prestar fede alla sincerità del governo, quando affermava di non voler attentare alla libertà istituzionale, ma proposero alcune modifiche per moderare il carattere repressivo di alcuni provvedimenti. Il passaggio in seconda lettura fu approvato con 310 voti favorevoli contro 93. Fra questi ultimi, vi furono anche i voti di alcuni
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esponenti della sinistra liberale. «A me, e a quelli fra i miei amici che allora consentirono meco – scrisse Giolitti nelle sue memorie –, repugnava di credere che il Pelloux, andato al governo con programma liberale, volesse volgersi a una politica reazionaria. Noi consideravamo d’altra parte che il disegno di legge ministeriale con alcuni emendamenti poteva essere reso accettabile». Con queste misure restrittive, Pelloux si illudeva di poter creare per il futuro un argine contro le sollevazioni di massa e di restituire al governo e alla monarchia l’autorità necessaria per garantire la stabilità delle istituzioni. Egli, forse, era sinceramente convinto che questa fosse la strada giusta per raggiungere la pacificazione e la conservazione dell’ordine sociale. Altre iniziative da lui prese destarono tuttavia nuove preoccupazioni sugli obiettivi della sua politica. Egli, infatti, diede l’impressione di voler riprendere la via imperialista, sostenendo l’iniziativa del ministro degli Esteri Canevaro, per ottenere, come altre potenze europee, la concessione di una base commerciale dal governo di Pechino, in crisi dopo la sconfitta subita dal Giappone nel 1895 e incapace di arrestare la penetrazione europea nel paese. Il governo pechinese respinse la richiesta e al rifiuto, il governo italiano pensò di rispondere con un’azione militare, inviando un ultimatum alla Cina. L’iniziativa destò l’opposizione dell’Inghilterra, che pareva averla incoraggiata in un primo momento, e pose l’Italia in una situazione difficile. Il governo, pertanto, dovette rinunciare alla pretesa, in un modo che metteva in ridicolo la dignità e il prestigio del paese, dopo aver corso il rischio di coinvolgere l’Italia in una nuova e pericolosa avventura coloniale. La maggioranza della Camera non approvava l’impresa, non ne vedeva alcun vantaggio o necessità. Per evitare la discussione parlamentare, di cui prevedeva l’esito sfavorevole, Pelloux presentò al re le dimissioni, il 3 maggio. Il re, tuttavia, gli riconfermò l’incarico e Pelloux colse l’occasione per formare un governo «come dal 1876 in poi, non fu mai l’eguale di tendenze, origini, propositi conservatori!» – scrisse il senatore Domenico Farini nel suo Diario. Pelloux ebbe soprattutto l’appoggio dei liberali conservatori di Sonnino, il quale fu considerato il principale ispiratore del governo, anche se non ne faceva parte. Il nuovo governo non abbandonò la politica reazionaria, ma ora incontrò una più vasta e decisa opposizione. Pelloux, infatti,
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non poteva più fare affidamento sul consenso della sinistra costituzionale di Zanardelli e Giolitti, dai quali lo allontanava l’accordo con Sonnino. Nello stesso tempo, egli dovette fronteggiare il sistematico ostruzionismo adottato dall’estrema sinistra, in occasione della discussione in seconda lettura del disegno di legge. La sinistra zanardelliana e giolittiana condannò l’ostruzionismo e in diverse occasioni aderì alla maggioranza governativa. Tuttavia, l’azione parlamentare dell’estrema sinistra fu molto efficace e riuscì a impedire un rapido corso procedurale e una tempestiva approvazione dei provvedimenti, come era nelle intenzioni di Pelloux e Sonnino. Il governo, del resto, si trovò impreparato a difendersi dall’ostruzionismo, applicato per la prima volta in Italia, per superare la valanga delle proposte, degli emendamenti, delle eccezioni procedurali, dei lunghi interventi oratorii degli oppositori. Ispirato da Sonnino, Pelloux tentò di aggirare l’ostacolo, proponendo una modifica al regolamento della Camera che, limitando il tempo di intervento dei parlamentari, avrebbe reso praticamente impossibile l’ostruzionismo e avrebbe accelerato la procedura delle votazioni. Come era prevedibile, l’azione ostruzionista si rivolse contro questa proposta. Pelloux, con il consenso del re, decise di spingersi più avanti nel tentativo di neutralizzare l’opposizione parlamentare, e fece ricorso a misure eccezionali che giunsero a toccare l’incostituzionalità. Infatti, senza l’approvazione della Camera, i provvedimenti politici vennero emanati con decreto reale il 22 giugno 1899, per entrare in vigore il 20 luglio. Era un’iniziativa che minacciava i diritti parlamentari, e la stessa Corte di cassazione, più tardi, doveva dichiarare nullo il decreto legge. La serie delle misure reazionarie, eterodosse dal punto di vista costituzionale e parlamentare, fece aumentare il numero degli oppositori del governo, nel parlamento e nel paese. L’11 giugno 1899 le elezioni amministrative a Milano, per il parziale rinnovo del consiglio comunale, furono un grande successo per la coalizione di sinistra composta dai radicali, dai repubblicani e dai socialisti. Era una prova che la maggioranza del paese, i ceti borghesi e proletari erano ostili alla politica pellousiana e manifestavano chiaramente il loro consenso alla battaglia delle sinistre per la difesa delle libertà costituzionali. Di fronte alla crescente opposizione, nel parlamento e nel paese, contro i tentativi reazionari perseguiti dal governo, il re decise
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di sciogliere la Camera e indire le elezioni per il 3 e il 10 giugno 1900: «Singolare prova di ottusità – ha scritto Benedetto Croce nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915 – questo ricorso ai comizi per non essersi avveduti di quella che era la reale disposizione del popolo italiano, il quale non solo aveva dato la vittoria ai socialisti nelle elezioni amministrative di Milano, manifestando in questo modo la stima in cui teneva i cosiddetti conservatori, ma nella sua generalità aveva seguito con fervore di consensi la lotta dei liberali contro il governo Pelloux e accolto con indulgenza perfino l’ostruzionismo dell’Estrema Sinistra, come violenza opposta a una violenza». I risultati elettorali furono una vittoria per le sinistre – socialisti, repubblicani e radicali – che si erano presentate nel blocco Unione dei partiti popolari: ottennero 333.995 voti, contro i 663.418 dei ministeriali; i loro deputati passarono da 67 a 96 (29 repubblicani, 34 radicali e 33 socialisti). Complessivamente, considerando i seggi parlamentari, Pelloux poteva contare ancora su una maggioranza di 84 voti, margine troppo esiguo per illudersi di poter continuare a dirigere il governo nel disorientamento che la politica degli ultimi tempi aveva diffuso fra i suoi sostenitori. Pelloux decise pertanto di rassegnare le dimissioni il 18 giugno 1900: non era soltanto la fine di un governo, ma la conclusione di un periodo caratterizzato da una politica repressiva e dai tentativi di una restaurazione autoritaria, a cui una parte della classe dirigente era stata spinta sia dall’incomprensione della crisi economica e sociale, che aveva avviato nel paese un intenso processo di mobilitazione sociale e di mutazioni politiche, sia dall’illusione di reagire con una prassi di governo autoritaria a un processo irreversibile di trasformazione della società italiana. «Con la caduta di Pelloux – ricordò Giolitti nelle sue memorie – si chiuse definitivamente un periodo assai torbido della nostra vita nazionale; periodo che iniziato col ministero Crispi, succeduto al mio primo ministero, e passando per i vari ministeri Rudinì e Pelloux, rappresentò nel suo complesso, non ostante momentanei proponimenti ed affidamenti, un continuo tentativo di risolvere in senso conservatore e reazionario la grande crisi, materiale e morale, che travagliava il Paese. Gli intendimenti reazionari, con l’uso dei mezzi più violenti, furono più espliciti e diretti nella politica del Crispi; mentre con Rudinì e il Pelloux le cose andarono diversamente, perché il primo, venuto al potere contro appunto il reazionarismo del Crispi, si lasciò trascinare egli stesso
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ad una politica di reazione; e il Pelloux, chiamato, con la fiducia del partito liberale contro l’ultimo periodo reazionario del Rudinì, finì per riassumere tutta la politica reazionaria nel tentativo di mutare le leggi statutarie liberali. Il Rudinì e il Pelloux parvero insomma essere spinti nella corrente della politica conservatrice e reazionaria piuttosto contro la loro volontà, dalla forza dei fatti e delle cose». La caduta di Pelloux fu la sconfitta di un tentato blocco di potere, che avrebbe dovuto far perno sulla monarchia, e fu la fine di una strategia politica sostanzialmente anacronistica. La battaglia ostruzionista, tuttavia, non sarebbe stata così efficace nell’ostacolare il successo di questa strategia, se non fosse sorto un dissidio profondo all’interno della stessa classe dirigente, fra due diversi modi di concepire la funzione e i fini dello Stato di fronte alle trasformazioni della società. Il tentativo di un blocco di potere reazionario si ispirava a una concezione statica dell’ordine sociale e politico, che trovava consenso fra le componenti più arretrate della borghesia ed era condivisa anche da uomini che non erano irrimediabilmente reazionari, come Sonnino e lo stesso Pelloux, ma consideravano lo Stato risorgimentale come una fortezza assediata dai «rossi» e dai «neri». Di fronte alla mobilitazione delle classi popolari, che manifestavano ideali antitetici a quelli della borghesia liberale, questi custodi dell’ordine, paladini di un governo forte, consideravano necessario, per salvare lo Stato, lasciare fuori dalle sue mura le forze dell’estrema sinistra e della destra clericale. Ma i sostenitori di questa politica – da Crispi a Pelloux – affascinati dal mito dello Stato forte riuscirono soltanto a realizzare governi deboli e violenti. L’unico risultato conseguito dalla politica reazionaria fu quello di isolare lo Stato dalla società, mettendo l’uno contro l’altra.
2. Il governo di transizione di Giuseppe Saracco Dopo le dimissioni di Pelloux, l’incarico per la formazione del nuovo governo fu dato all’ottantenne Giuseppe Saracco, presidente del Senato, vecchio parlamentare piemontese, molto legato alla monarchia sabauda da vincoli di tradizionale fedeltà. Non era uomo politico di grandi idee, aveva modesta personalità, e per questo pareva adatto a presiedere quello che doveva essere, evidente-
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mente, un governo di transizione, necessario per superare la crisi parlamentare e dare tempo all’elaborazione di una politica nuova. Saracco non dispiaceva né alla destra né alla sinistra. La sinistra apprezzava l’impegno che egli aveva dimostrato nel promuovere un’inchiesta sull’amministrazione napoletana, per far luce sui torbidi e corrotti ambienti politici della città. I suoi primi atti di governo furono ispirati dal desiderio di riportare la normalità in parlamento e la tranquillità nel paese, senza fare ricorso a misure repressive o limitative delle libertà statutarie. Egli affidò a una commissione mista, nella quale erano presenti anche esponenti dell’estrema sinistra, il compito di preparare alcune modifiche del regolamento della Camera in modo da restituirle prestigio e funzionalità. Le norme elaborate dalla commissione, presentate alla Camera il 1° luglio, furono approvate a grande maggioranza, con l’astensione dei sonniniani, e contribuirono a restituire un clima più sereno ai lavori parlamentari, con un compromesso che non eliminava del tutto la possibilità di un ricorso all’ostruzionismo. Privo di grandi progetti legislativi e non ostacolato da alcuna seria opposizione, il governo Saracco durò fino al febbraio 1901, ma fu turbato da un grave avvenimento, che sembrò mettere nuovamente in pericolo la pacificazione del paese: l’assassinio del re Umberto I ad opera dell’anarchico Gaetano Bresci, il 29 luglio 1900. L’idea dell’attentato era maturata negli ambienti anarchici dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti, con lo scopo di vendicare le vittime dei tumulti del 1898 colpendo la persona del re che aveva elogiato e decorato il generale Bava Beccaris. Gesto individuale, l’assassinio di Umberto I fu comunque la tragica conseguenza di un lungo periodo di crisi morale e materiale, dominato dalla repressione violenta e dall’aspro conflitto politico e sociale fra oppositori e difensori delle istituzioni. Nell’intenzione dell’anarchico vi era forse il proposito o la speranza di suscitare, con il suo gesto, una sollevazione popolare, ma, in effetti, l’uccisione del re ebbe conseguenze diverse, perché servì a riconquistare alla monarchia quel consenso di popolo e di partiti che la politica reazionaria di fine secolo aveva notevolmente diminuito. La morte del re placò per un momento i contrasti fra le forze politiche: dai conservatori ai repubblicani, dai radicali ai socialisti, la condanna del delitto e dei motivi che lo avevano ispirato fu unanime. Fu messo sotto accusa l’anarchismo, da tutti denunciato come terrorismo
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assurdo e privo di valore politico. I socialisti negarono l’utilità e la necessità di questo mezzo di lotta, affermando che la trasformazione delle strutture del sistema economico, politico e sociale, doveva avvenire attraverso un processo storico evolutivo e non per mezzo di azioni terroristiche individuali. La morte del re ebbe, dunque, l’effetto di conciliare temporaneamente l’estrema sinistra con le istituzioni, mentre dissuase la classe dirigente dal trarne pretesto per fare di nuovo ricorso alla politica reazionaria. L’assassinio non suscitò una nuova ondata di propositi antipopolari e repressivi; i timori di un ritorno alla reazione furono allontanati del tutto dall’atteggiamento del nuovo re, Vittorio Emanuele III. Vittorio Emanuele non aveva ambizioni di potere; non amava esteriori manifestazioni di prestigio; aveva disapprovato la politica repressiva e manifestava simpatie per le idee democratiche. Egli svolse un ruolo importante nel favorire l’evoluzione del liberalismo conservatore verso una pratica di liberalismo democratico, chiamando al governo, dopo la caduta del governo Saracco, uomini della sinistra costituzionale. La fine del governo Saracco, che durava più per la neutralità dei partiti che per forza propria, divenne inevitabile dopo i fatti di Genova, nel dicembre 1900. La città ligure era la capitale del commercio marittimo italiano e nel suo porto vi era un’intensa attività mercantile. Da tempo, i lavoratori del porto si erano organizzati in una forte Camera del lavoro. Naturalmente, l’azione rivendicatrice e la tutela degli interessi dei lavoratori portuali, svolte da questa organizzazione, non erano gradite ai gruppi finanziari e industriali locali. Col pretesto che la Camera era stata costituita senza autorizzazione, il prefetto di Genova Garroni ne impose lo scioglimento. Il governo approvò il decreto prefettizio. La reazione dei lavoratori fu immediata: fu proclamato lo sciopero generale, e la paralisi di un porto importante per il traffico commerciale italiano ed europeo indusse il governo a revocare il decreto e a riconoscere la legittimità dell’organizzazione. Questo incerto e debole atteggiamento segnò la fine del governo Saracco. I fatti di Genova avevano dimostrato chiaramente che una politica repressiva, con il sistematico appoggio del governo a taluni interessi finanziari e industriali contro le rivendicazioni dei lavoratori, non era più applicabile senza gravi conseguenze. Un profondo rinnovamento nei metodi e nei fini della politica governativa era
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ormai inevitabile. L’indicazione più chiara, in questo senso, venne da Giolitti, in un discorso parlamentare del 4 febbraio 1901, col quale fu decretata la fine del governo Saracco. Giolitti affermò in modo deciso la necessità di riconoscere il diritto di esistenza e di libertà per le associazioni dei lavoratori, perché le istituzioni non dovevano temere i lavoratori organizzati ma l’azione di folle disorganizzate e scomposte, sulle quali era impossibile qualsiasi intervento e controllo dello Stato, che non fosse la repressione violenta. Egli riteneva ingiusta ed errata l’avversione alle organizzazioni sindacali, motivata dal fatto che, per mezzo di esse, i lavoratori riuscivano a ottenere miglioramenti salariali. Il governo non doveva essere il difensore delle classi padronali e non doveva intervenire in loro aiuto nei conflitti di lavoro. Quando interveniva a favore delle classi padronali per mantenere bassi i salari, il governo – dichiarò Giolitti – «commette una ingiustizia, perché manca al suo dovere di assoluta imparzialità fra i cittadini, prendendo parte alla lotta contro una classe. Commette un errore economico, perché turba il funzionamento della legge economica dell’offerta e della domanda, la quale è la sola legittima regolatrice della misura dei salari come del prezzo di qualsiasi altra merce. Il governo commette infine un grande errore politico, perché rende nemiche dello Stato quelle classi, le quali costituiscono in realtà la maggioranza del paese». Con quest’ultima considerazione, Giolitti affrontava la questione fondamentale della crisi sociale e politica che travagliava la società italiana da un decennio. Egli era convinto che la mobilitazione sociale delle classi più povere, operaie e contadine, era un fenomeno legato allo sviluppo dell’economia italiana. Era perciò impossibile opporsi ad esso con misure di polizia, come era impossibile impedire all’Italia di seguire altri paesi europei sulla via del progresso economico e civile. A suo giudizio, lo Stato poteva però arginare la mobilitazione incanalandola entro l’ambito del sistema liberale, per impedire che le sue ondate violente finissero col travolgere i pilastri dello Stato e della società borghese. Criticando le misure repressive, Giolitti affermava che il governo doveva essere rigoroso ma prudente nell’applicazione delle leggi contro qualsiasi turbamento dell’ordine pubblico, senza attentare alla libertà e all’esistenza delle associazioni dei lavoratori. Così, di fronte al problema dello sciopero, il governo doveva intervenire soltanto per ga-
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rantire l’ordine pubblico e la libertà di lavoro, lasciando che la legge economica seguisse il suo corso nella definizione dei rapporti salariali. Resistere e contrastare l’azione delle organizzazioni dei lavoratori avrebbe provocato la loro trasformazione, da strumenti di rivendicazione economica, in strumenti di lotta politica contro lo Stato, mentre esse, affermava Giolitti, «non hanno e non debbono avere che un fine economico. Una politica avveduta e sapiente deve tener conto dei fatti, quali sono realmente. Chi è preposto al Governo deve conoscere il paese che ha mandato di governare, senza di ciò commetterà certamente dei gravi errori». Infine, allargando il suo discorso a una considerazione generale sugli avvenimenti degli ultimi anni, Giolitti concludeva: «Noi siamo all’inizio di un nuovo periodo storico, ognuno che non sia cieco lo vede. Nuove correnti popolari entrano nella nostra vita politica, nuovi problemi ogni giorno si affacciano, nuove forze sorgono con le quali qualsiasi Governo deve fare i conti. E la stessa confusione dei partiti parlamentari dimostra che le questioni che dividono oggi non sono più quelle che dividevano una volta. Il moto ascendente delle classi popolari si accelera ogni giorno di più, ed è un moto invincibile perché comune a tutti i paesi civili, e perché poggiato sul principio dell’uguaglianza tra gli uomini. Nessuno si può illudere di poter impedire che le classi popolari conquistino la loro parte di influenza economica e di influenza politica. Gli amici delle istituzioni hanno un dovere soprattutto, quello di persuadere queste classi, e di persuaderle con i fatti, che dalle istituzioni attuali esse possono sperare assai più che dai sogni dell’avvenire; che ogni legittimo interesse trova efficace tutela negli attuali ordinamenti politici e sociali. Dipende principalmente da noi, dall’atteggiamento dei partiti costituzionali nei rapporti con le classi popolari, che l’avvento di queste classi sia una nuova forza conservatrice, un nuovo elemento di prosperità e di grandezza o sia invece un turbine che travolga la fortuna della Patria». Con chiarezza, Giolitti aveva posto di fronte al parlamento i termini del problema che esso doveva sciogliere: o persistere in una politica gravida di pericoli per le stesse istituzioni che si volevano salvaguardare, o affrontare audacemente il rinnovamento della politica governativa in senso democratico, per promuovere l’ascesa delle classi popolari nell’ambito e nel rispetto delle istituzioni. Con il suo discorso, Giolitti era intervenuto nella discussione
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sulla mozione presentata dal deputato sonniniano Daneo, che esigeva dal governo una risposta sui fatti di Genova e sugli indirizzi di politica economica, amministrativa e finanziaria con i quali intendeva evitare simili fatti per il futuro. Si trattava, in altri termini, di una manovra per provocare un voto di sfiducia e il passaggio del potere nelle mani di Sonnino: per impedire ciò, la sinistra costituzionale presentò un emendamento alla mozione, nel quale dichiarava di non approvare l’indirizzo del governo. L’emendamento, che affermava esplicitamente la sfiducia e doveva essere votato prima della mozione sonniniana, passò con 318 voti favorevoli e 102 contrari. Di conseguenza, il 7 febbraio, Saracco presentò le dimissioni al sovrano. Il problema della successione era lasciato aperto e si presentava di non facile soluzione. La maggioranza che aveva decretato la fine del governo Saracco era composita ed eterogenea. I candidati alla successione erano, in antagonismo, Giolitti e Sonnino. La decisione era demandata al re, in mancanza di una chiara indicazione del voto parlamentare. Nel designare per la prima volta un presidente del Consiglio, Vittorio Emanuele si mostrò più sensibile agli umori del paese che all’aritmetica parlamentare. Egli, infatti, decise di dare l’incarico a Giuseppe Zanardelli, capo della sinistra costituzionale. La scelta parve poco rispettosa della tradizione parlamentare. La designazione, formalmente, sarebbe spettata al capo della maggioranza conservatrice, cioè a Sonnino. Ma, andando contro una prassi consueta, constatando la mancanza di una maggioranza omogenea e stabile, e confidando nella necessità di dare un orientamento veramente nuovo alla politica interna, Vittorio Emanuele giudicò opportuno rivolgersi al capo di una minoranza costituzionale, ma anche esponente dell’indirizzo politico che aveva vinto nella crisi parlamentare di fine secolo e che avrebbe potuto riscuotere, come avvenne, i consensi dei liberali e dell’estrema sinistra. Il radicale Francesco Papafava, nelle sue acute cronache politiche sul «Giornale degli Economisti», annotava nel marzo: «Pare che il re abbia pensato così: un nuovo ministero Saracco continuerebbe la situazione politica incerta dalla quale, prima o poi, bisogna uscire, e meglio uscirne subito; un ministero Sonnino piacerebbe forse alla maggioranza della Camera, ma sarebbe alquanto impopolare nel paese e sono troppo recenti i guai d’un governo impopolare per ritentare la prova; restano Zanardelli e Gio-
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litti i quali significano libertà politica e riforma tributaria; vada dunque per Zanardelli e Giolitti». Il nuovo governo Zanardelli, con Giolitti come ministro degli Interni, entrò in carica il 14 febbraio 1901. 3. Il dibattito Sonnino-Giolitti Il governo Zanardelli segnava una vera e propria svolta nella politica interna del paese e lasciava definitivamente alle spalle il periodo dei tentativi reazionari e i sogni di restaurazione autoritaria. Il paese usciva da una lunga crisi economica, sociale, politica e morale. Gli uomini politici più illuminati, anche conservatori, sentivano che essa aveva scosso profondamente la società, aveva messo in moto forze nuove, aveva dato impulso alla formazione di movimenti e di idee politiche non più riconducibili unicamente alla fedeltà intransigente della tradizione risorgimentale, perché espressione di ceti rimasti assenti durante la costruzione dello Stato liberale. Lo Stato era in crisi perché la base sociale che lo aveva sostenuto fino a quel momento era troppo esigua, esaurita e divisa da contrasti interni. Le istituzioni sembravano fragili in momenti tumultuosi. Le frequenti agitazioni e rivolte di massa contro l’autorità rivelavano quanto era ancora scarso il consenso di cui lo Stato godeva nella maggioranza della popolazione. L’eredità dell’ultimo decennio era pesante per la classe dirigente: la monarchia aveva pagato con l’assassinio del re Umberto I le sue complicità reazionarie; il parlamento, dopo le vicende dell’ostruzionismo e la prassi illegale del governo, riscuoteva poca stima nel paese; le forze costituzionali erano divise fra reazione e democrazia, mentre i partiti dell’estrema sinistra, contro i quali si era tentata la politica reazionaria, risultavano più forti di numero e di prestigio. La società attraversava un periodo di sviluppo economico: avviata verso l’industrializzazione, era esposta a tutti i fenomeni connessi con tale processo, che investiva e modificava i rapporti fra le classi, le mentalità, le ideologie, i costumi, e le aspirazioni di larghi strati sociali. Ormai, ad eccezione dei gruppi più reazionari e chiusi al mondo moderno, la classe dirigente, nelle sue diverse posizioni, riconosceva la necessità di mutare rotta e di affrontare con metodi e idee nuovi i problemi che travagliavano il paese. Bisognava restaurare un corretto funzionamento delle isti-
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tuzioni e, nello stesso tempo, provvedere a risolvere i conflitti sociali, modernizzare la legislazione nel campo del lavoro, ricostituire su basi più moderne e funzionali i gruppi politici di ispirazione liberale. «L’Italia – disse Giustino Fortunato, autorevole esponente della sinistra liberale, in un discorso l’11 ottobre 1900 – è al mal punto: essa si trova come Ercole al bivio, tra la vecchia società che si sfascia e va in rovina, e la nuova che sorge e si forma». Era finita l’epoca delle avventure coloniali, del militarismo, della reazione. La questione dominante era la questione sociale ed economica, il problema politico fondamentale era quello di conciliare con lo Stato liberale le masse che erano rimaste estranee alla sua formazione. In questo clima di disarmo delle passioni più violente e di riflessione da parte di tutte le forze politiche, si svolse il dibattito fra i due maggiori esponenti della classe dirigente liberale, Giolitti e Sonnino, sulla situazione politica e sociale italiana, e sui rimedi necessari per superare la crisi e rinnovare profondamente lo Stato. Uomo di severe qualità morali e di grande dottrina sociale e politica, Sonnino seppe rinnovare il suo pensiero adeguandosi al mutamento della situazione politica dopo il fallimento dei tentativi autoritari, ai quali egli aveva dato il suo appoggio nella convinzione che fosse la via più adatta per restaurare l’autorità dello Stato e salvare la monarchia dall’assalto dei «rossi» e dei «neri». Egli espose il suo nuovo programma (che doveva far dimenticare il precedente e infelice Torniamo allo Statuto) nell’articolo Quid agendum, pubblicato sulla «Nuova Antologia» del 15 settembre 1900. Con un po’ di ironia Papafava commentò il saggio sonniniano definendolo «quanto di più elevato, di più intelligente e di più efficace ci può dare oggi in Italia il partito conservatore», un saggio «scritto senz’ombra d’ira, senza passione, scritto da un uomo di Stato filosofo che dice semplicemente e candidamente quella che a lui sembra la via migliore per fare il bene della patria». Nel saggio, Sonnino non appariva più come il reazionario che voleva limitare le libertà parlamentari, ma era il conservatore illuminato che comprendeva i tempi nuovi e voleva far fronte ad essi con serietà e spirito liberale, elaborando un organico e ponderato disegno di riforme politiche e sociali. Il paese, riconosceva Sonnino, era ammalato moralmente e politicamente, come gli avvenimenti dal 1893 in poi avevano dimo-
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strato. Il governo aveva perso prestigio e autorità per mancanza di una chiara coscienza politica e per la sua instabilità: nei ventidue anni di regno di Umberto I vi erano state 21 crisi di governo mentre negli ultimi anni i voti e i rappresentanti dei partiti sovversivi erano aumentati. Il sistema liberale, dunque, era minacciato, oltre che dalla sua interna debolezza, dalle forze politiche estreme, contrarie ad esso, quali la clericale e la socialista, mentre la maggioranza costituzionale, priva di vera forza a causa delle divisioni interne del «partito liberale», oscillava ora verso i clericali ora verso i sovversivi. Il difetto principale del sistema politico italiano era la mancanza di un vero partito conservatore che fosse baluardo delle istituzioni contro i partiti estremi. Per Sonnino, era necessario costituire un «fascio» dei partiti liberali, con un programma di conservazione politica e di profondo rinnovamento sociale, per sottrarre le masse ai partiti sovversivi e conciliarle con lo Stato. Sonnino, quindi, chiedeva ai gruppi liberali «una tregua di Dio», per «concretare ed attuare prontamente qualcuna delle fondamentali riforme che tutti indistintamente riconoscono e dichiarano necessarie per il risanamento morale e politico dell’Italia». Bisognava perciò, prima di tutto, rivendicare allo Stato il dovere di dirigere il processo riformatore e di svolgere la sua funzione di supremo garante della giustizia civile e dell’ordine sociale. Rinnovata la richiesta di uno Stato forte ma riformatore, con ottimismo dottrinario Sonnino invocava il consenso di tutti i liberali al suo programma di riforme amministrative, economiche e sociali. Occorreva, a suo giudizio, innanzi tutto una riforma del sistema giudiziario, sia penale che civile, con «minor numero di giudici di tribunali e di corte d’appello, con maggiore responsabilità personale; meglio pagati e meglio scelti; indipendenti dalle correnti politiche, e tenuti lontani dalle lotte partigiane. Procedure più rapide in penale; meno dispendiose in civile. Più equa gradazione delle pene». Solo attraverso la riconquista del prestigio della giustizia e della fiducia del cittadino in essa poteva ottenersi la confidenza del popolo verso lo Stato. Ma per ottenere la stabilità delle istituzioni bisognava procedere anche alla riforma della pubblica amministrazione, che dello Stato era il corpo principale. Sonnino constatava che uno «dei sintomi più singolari, più nuovi nella storia, e perciò più gravi, dell’attuale movimento di disgregazione politica in Italia è quello della crescente disaffezione ver-
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so lo Stato di gran parte di quegli stessi elementi che costituiscono o dovrebbero costituire la base principale della sua organizzazione politica». I motivi di questa disaffezione erano dovuti alla mancanza di una legge generale sullo stato degli impiegati, che definisse e assegnasse compiti e diritti, doveri e garanzie, con prospettive di carriera non dipendenti dal potere politico. Egualmente carente era la presenza dello Stato in un settore importante e delicato, come quello dell’educazione e della scuola elementare soprattutto. Anche qui occorreva migliorare le condizioni economiche e sociali dei maestri, dando al loro lavoro dignità economica e sociale, sottraendoli all’arbitrio delle autorità locali: «Personalmente – affermava Sonnino – sarei propenso all’avocazione dell’istruzione elementare allo Stato, con che si soddisfarebbe ad un’antica aspirazione dei maestri». Accanto alle riforme amministrative, vi erano urgenti questioni sociali da risolvere; Sonnino si rendeva conto che erano le questioni che maggiormente interessavano la collettività: «I conservatori liberali non aspirano ad alcuna reazione, desiderano soltanto che si organizzi più fortemente la compagine dello Stato, non per comprimere o soffocare qualsiasi necessaria o utile libertà, ma per poter sempre più contemperare le libertà individuali tra loro, impedendo ogni violenza tanto dei meno sui più come dei più sui meno». Come conseguenza dello sviluppo economico e della maggior differenziazione delle attività e degli organi sociali, «e con la libera azione lasciata agli individui e alle loro associazioni, cresce il bisogno di una più salda e stabile organizzazione dello Stato per compimento delle funzioni sue proprie». E queste dovevano applicarsi, in primo luogo, nell’attuazione di graduali riforme, «seriamente efficaci e correlative al mutarsi della stessa struttura fisiologica della società moderna», riforme per le quali, data la complessità degli interessi, delle reazioni e delle resistenze che potevano incontrare nella società, era appunto necessario, ribadiva Sonnino, la «organizzazione di uno Stato forte retto da un governo forte, che possa affrontare risolutamente i maggiori e più ardui problemi di giustizia e d’igiene sociale». Il compito dello Stato forte era, in breve, di conciliare, nella sfera del diritto, le esigenze della collettività con quelle dell’individuo, attuando «il contenuto morale del socialismo», cioè l’aspirazione a una più equa giustizia sociale e distribuzione della ricchezza, il
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riconoscimento dei diritti del lavoro di fronte al capitale, salvaguardando la libertà individuale, la proprietà e la famiglia. In concreto, Sonnino proponeva la partecipazione degli operai ai profitti e alla gestione delle imprese: «Nella grande industria manifatturiera e dei trasporti occorre studiare con quali mezzi si possa agevolare la graduale e progressiva compartecipazione del lavoro al possesso del capitale e alla direzione delle imprese [...] Occorre combinare la partecipazione del lavoro al profitto col principio di cointeressare il lavoro al capitale e alla produzione». Sonnino, inoltre, riconosceva pienamente il diritto di associazione per i lavoratori e il diritto di sciopero, per cui il compito dello Stato «all’infuori dei grandi servizi pubblici che vanno regolati con leggi speciali, può limitarsi a stabilire principi giuridici che regolino in via generale il contratto di lavoro, a garantire la incolumità individuale, la libertà del lavoro personale e l’ordine pubblico, ad agevolare gli accordi e gli arbitrati, e a difendere i fanciulli, le donne e gli adolescenti». Maggiore preoccupazione e sensibilità Sonnino mostrava per il settore agricolo, verso il quale andavano prevalentemente i suoi interessi e i suoi progetti di riforma. Egli riteneva necessario l’intervento dello Stato per mettere ordine nella selva delle consuetudini locali per la stipulazione dei patti, che lasciavano spesso indifeso il coltivatore, e per favorire, con una legislazione moderna e adatta alle situazioni locali, lo sviluppo dell’agricoltura. Inoltre, Sonnino chiedeva un maggior impegno dello Stato nella difesa degli interessi locali dei cittadini per quanto riguardava il settore dei pubblici servizi, e auspicava, lasciando sospesa la questione della municipalizzazione, la «compartecipazione» dei municipi nei profitti, lordi o netti, dei grandi servizi di trasporti, di illuminazione, di forniture d’acqua. Ancora allo Stato spettava, infine, la tutela degli emigranti, la loro difesa nei luoghi di destinazione, l’elaborazione di una legislazione più elastica per quanto riguardava diritti e doveri dei rimpatriati, attraverso una continua opera di assistenza, favorendo la creazione di scuole italiane all’estero e misure atte a garantire la protezione degli emigrati. Questo, dunque, il vasto e impegnativo programma di Sonnino, sul quale egli chiedeva, e considerava naturale riceverla, l’adesione dei liberali. Il suo proposito riformatore era sincero, nell’ambito però di una concezione autoritaria dello Stato come uni-
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co promotore delle riforme, saldamente sostenuto da una burocrazia fedele e da un grande partito conservatore: uno Stato organizzatore e regolatore della vita sociale, garante della libertà e della giustizia. Per realizzare la sua idea, illuminata e progressista dal punto di vista sociale, Sonnino invocava, come si è detto, la creazione di un «fascio» delle forze liberali. Egli credeva ancora che lo Stato liberale fosse assediato dai partiti estremi, demagogici e sovversivi; e fosse minacciato dall’ostilità del Vaticano, mirante alla formazione di un partito antidinastico e antiunitario: «All’unione persistente dei partiti cosiddetti popolari, due terzi dei cui componenti si professano per di più apertamente sovversivi e desiderosi di disfare le attuali istituzioni, urge contrapporre una qualche unione dei partiti nazionali, cioè il fascio di tutti coloro che non vogliono informata la politica dello Stato ai soli obiettivi distinti di una o più classi o al tornaconto di questo o di quel gruppo particolare d’interessi, bensì ai fini superiori della collettività nazionale, considerando lo Stato come un complesso organico di cui i vari elementi sono tra di loro intimamente intrecciati e coordinati nelle loro funzioni e nei loro interessi». All’elaborato saggio sonniniano, che era un vero e proprio manifesto di candidatura alla guida del paese e del futuro «fascio» delle forze nazionali, Giolitti rispose più modestamente con una lettera aperta a «La Stampa», il 23 settembre, dal titolo Per un programma e per la unione dei partiti liberali. In linea di massima, egli accettava le proposte di Sonnino per la salvaguardia delle istituzioni e il consolidamento del partito monarchico, ma nello stesso tempo considerava astratto e poco realistico l’appello a una unione di tutti i liberali sulla base del programma sonniniano. Secondo Giolitti, bisognava fissare punti programmatici più circoscritti e di immediato effetto. Le grandi riforme di Sonnino richiedevano anni per la loro realizzazione, mentre bisognava guardare al futuro prossimo. Per evitare il pericolo dell’avanzata dei partiti estremi, occorreva togliere ad essi il consenso delle masse. Questo poteva avvenire soltanto se il governo dimostrava subito di voler eliminare le cause del loro malcontento. Giolitti, perciò, proponeva la revisione del sistema tributario e l’abolizione delle imposte che gravavano su consumi di prima necessità. La riforma tributaria, evitata da Sonnino perché la reputava prematura e tale da mettere in pericolo la stabilità del bilancio, veniva polemicamen-
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te considerata da Giolitti come prioritaria: quanto alle eventuali deficienze del bilancio, egli affermava, sarebbero state sanate con l’imposizione di oneri fiscali maggiori alle classi più ricche. Ironizzando sull’audacia delle riforme sociali sonniniane – che, diceva Giolitti, andavano ben oltre il programma minimo socialista – egli proponeva una serie di sgravi fiscali a favore della piccola proprietà immobiliare. Tali riforme tributarie, riconosceva Giolitti, «non risolvono interamente il problema; ma esse comincerebbero subito a salvare dalla rovina le piccole proprietà e dimostrerebbero alle classi più povere la decisa volontà dello Stato di adoperarsi seriamente per migliorarne le condizioni, e sarebbero un primo acconto sulle grandi promesse ripetutamente fatte». In conclusione, mentre Sonnino rivendicava alla classe dirigente il dovere di conservare saldamente le redini dello Stato e di procedere dall’alto alla modernizzazione del paese, Giolitti chiedeva ai ceti dominanti di sopportare, a loro volta, i sacrifici per il miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari: «È necessario persuadere le classi dirigenti che senza qualche sacrificio esse non possono sperare durevole quella pace sociale senza cui non vi è sicurezza né per le persone né per gli averi. Continuando ora nella resistenza cieca, sorgerà, in tempo non lontano, la indeclinabile necessità di sacrifici molto più gravi; allora si cederà all’impeto popolare, alla paura, ma i sacrifici non serviranno più ad altro che a dimostrare la superiorità delle forze popolari, la debolezza delle classi ricche, e ne verrà a queste tale discredito da compromettere le nostre istituzioni e il nostro ordinamento sociale». Con questi due «manifesti» programmatici iniziava il contrasto diretto fra Giolitti e Sonnino, che sarebbe durato per tutto il periodo giolittiano. Vi era, fra i due esponenti del liberalismo italiano, un elemento comune, cioè la fedeltà alle istituzioni e alla monarchia, accompagnata da un comune desiderio di conservarle, permettendo allo Stato monarchico di superare indenne le sfide del nuovo secolo. Profondamente diversi per carattere, formazione e concezione politica, Sonnino e Giolitti erano egualmente orientati verso la stabilità politica attraverso la via del riformismo sociale, ma con diverse vedute sul modo di raggiungere questo obiettivo. Sonnino pensava allo Stato forte, retto da un governo forte e sostenuto da un forte partito liberale, organizzato modernamente e solidamente piantato al centro, impermeabile a qual-
I. Il fallimento della reazione
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siasi influenza della destra clericale e della sinistra socialista. Giolitti, con minor dottrina ma con maggior empirismo, pensava a realizzare un centro-sinistra guidato da un governo riformatore e da una salda amministrazione, in vista di un dinamico compromesso sociale e politico tra la borghesia liberale e la sinistra riformista. Mentre Sonnino voleva suscitare una forza nuova con la creazione di un partito liberale organizzato, Giolitti intendeva avvalersi di quelle esistenti, anche fuori dal liberalismo, impegnandole su programmi circoscritti, senza irrigidimenti di principio e senza esclusioni pregiudiziali nei confronti di possibili alleati. Con la sua proposta di riforma tributaria, infine, Giolitti mirava a impedire che il programma sociale sonniniano potesse raccogliere consensi fra le forze più diverse riuscendo a coalizzare una maggioranza di destra, di centro e della sinistra moderata, senza escludere l’eventualità dell’appoggio di una parte della sinistra estrema al riformismo sociale di Sonnino. Politico parlamentare più abile e spregiudicato, Giolitti riuscì a neutralizzare l’antagonista per divenire il vero artefice della nuova politica liberale, iniziata con l’avvento del governo Zanardelli.
II GIOLITTI E LA NUOVA POLITICA LIBERALE
Il ritorno di Giolitti al governo, con Zanardelli, avveniva nel momento in cui la ripresa economica del paese e la pacificazione fra le forze politiche offrivano le condizioni favorevoli per mettere in pratica la sua «nuova veduta di governo». Che cosa intendeva con questa formula, Giolitti lo aveva detto da tempo e in diverse occasioni. Chiuso definitivamente il periodo dei tentativi reazionari, egli riteneva necessario procedere alla realizzazione di un nuovo esperimento di politica liberale in senso democratico, per favorire il progresso economico e l’educazione politica delle classi lavoratrici, nell’ambito dello Stato monarchico, liberale e borghese. Giolitti, infatti, era convinto che lo Stato non corresse più alcun serio pericolo e potesse affrontare con spirito francamente liberale le richieste delle classi lavoratrici, perché gli scopi delle loro agitazioni non erano il sovvertimento delle istituzioni e la distruzione dell’ordine sociale, ma la conquista di un più equo e umano tenore di vita con il riconoscimento della loro libertà di associazione per difendere i propri interessi. Era venuto il momento, per la classe dirigente, di abbandonare l’idea oligarchica dello Stato e del governo inteso come strumento di difesa dei privilegi di classe: occorreva guarire dal complesso dello stato d’assedio, per risolvere la questione sociale ed economica con piena fiducia nell’efficacia dei metodi liberali di governo. 1. Una «nuova veduta di governo» L’atteggiamento dello Stato verso le classi lavoratrici era al centro delle idee politiche che Giolitti era venuto elaborando fin dal
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tempo del suo primo ministero. Il suo liberalismo non aveva la complessità teorica e culturale di quello sonniniano, ma per molti aspetti era più aderente alla realtà e più sensibile nel comprendere il significato di taluni fenomeni moderni, percepiti nella loro immediata manifestazione. Giolitti, inoltre, si mostrò più risoluto nel formulare una soluzione di rapida efficacia per uscire dalla crisi politica e sociale. Con grande abilità di politico parlamentare, seppe tradurre in pratica la sua concezione del ruolo del governo nella società moderna, con la convinzione che fosse necessario adeguare ai progressi dell’economia le condizioni delle classi popolari e ottenere, per questa via, la loro adesione alle istituzioni liberali: «Le istituzioni nostre – aveva affermato in un discorso alla Camera il 2 dicembre 1899 – ebbero origine e fondamento nei plebisciti, cioè nella volontà popolare e perciò solamente in un largo consenso del volere popolare possono avere una forza, contro la quale si rompano tutti i partiti sovversivi». Giolitti era sicuro di poter conquistare il consenso delle classi lavoratrici, attraverso l’applicazione di una politica governativa più democratica, perché era convinto che le agitazioni popolari, dai Fasci siciliani in poi, non avevano un carattere politico. Di conseguenza, egli non credeva molto alla minaccia del socialismo contro le istituzioni, perché tale minaccia avrebbe avuto effetto soltanto se la classe dirigente, invece di rimuovere le condizioni del malcontento popolare, le inaspriva con la politica reazionaria, alimentando così i motivi della propaganda sovversiva. Giolitti considerava «profondamente errata la teoria della lotta di classe» perché pensava che gli interessi di tutte le classi dovevano essere solidali: «Non è possibile utile impiego di capitale senza lavoro, né lavoro senza capitale». Ma «la peggior forma di lotta di classe sarebbe quella che venisse iniziata da un Governo il quale si dichiarasse il rappresentante di una classe contro un’altra. La verità è che il movimento socialista ha una base esclusivamente economica». Ciò era dimostrato dal fatto che «crescono di numero, rapidamente e in proporzioni allarmanti, i socialisti che hanno un programma economico, e non crescono i repubblicani che hanno un programma politico». Si poteva far fronte alla crescita dei partiti sovversivi soltanto con un governo «il quale sappia impadronirsi di ciò che vi è di ragionevole nel programma socialista e richiamare a sé la fiducia delle masse popolari». Questo aveva det-
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to ancora Giolitti in un discorso alla Camera il 14 giugno 1899. E lo stesso anno, nel discorso agli elettori del collegio di Dronero, il 29 ottobre, Giolitti aveva affermato esplicitamente la necessità per il paese di essere governato «con la libertà e con la legalità, e può esserlo senza pericolo quante volte abbia un governo che non si metta a servizio di ristrette consorterie, ma che guardando ai soli grandi interessi della patria, si proponga come fine la giustizia per tutti, la rigida e costante applicazione delle leggi, e la cura affettuosa delle classi più numerose della società, delle quali è urgente migliorare le condizioni economiche intellettuali e morali, se si vuole evitare che cominci un periodo di pericolose agitazioni sociali». Le classi popolari avevano acquistato coscienza dei loro diritti e della loro forza, e questo era un fenomeno comune a tutti i popoli civili. Il governo doveva riconoscere questi diritti e rivolgere questa forza al bene del paese: «a tale scopo è necessario mantenere quella forza nell’orbita legale facendo che il governo sia e apparisca in tutti i suoi atti, il tutore delle classi popolari, il difensore dei loro diritti e dei loro legittimi interessi». Quali conseguenze avrebbero avuto queste idee sull’atteggiamento del governo verso le classi lavoratrici lo si vide due anni dopo quando, ministro degli Interni, Giolitti dichiarò la neutralità del governo verso i conflitti di lavoro rifiutando di intervenire a favore delle classi padronali e lasciando la risoluzione dei conflitti allo scontro diretto fra le parti interessate. Tuttavia, il governo riaffermò il dovere di intervento per tutelare l’ordine pubblico, che Giolitti considerò sempre un dovere indiscutibile, e per svolgere opera di mediazione fra le parti.
2. Il governo Zanardelli-Giolitti e la svolta liberale La scelta di Giuseppe Zanardelli come capo del nuovo governo, che avrebbe dovuto procedere alla liquidazione della triste eredità di fine secolo, e il ritorno di Giolitti al potere furono salutati come una vittoria del liberalismo democratico. Zanardelli era uno degli ultimi capi della sinistra storica, esponente del vecchio liberalismo: uomo di grande, ma «alquanto antiquata», cultura e onestà, come lo ricordava Giolitti nelle sue memorie, con una mentalità dottrinaria di tipo giuridico e convinzioni politiche «passiona-
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tamente democratiche, però della particolare democrazia borghese del suo tempo, mista a un sincero lealismo per la monarchia costituzionale». La sua opera principale era affidata al Codice penale e la sua attività come ministro della Giustizia con Depretis, Crispi, Rudinì aveva riscosso il consenso dei liberali sinceri per gli sforzi fatti nel difendere la magistratura dalle ingerenze e dalle pressioni del potere politico. Come presidente del Consiglio, Zanardelli favorì l’evoluzione del liberalismo verso la democrazia. Presentando il governo alla Camera, dichiarò di voler «mantenere con devozione scrupolosa i principi della libertà». Per accentuare il carattere della svolta liberale, nel formare il suo ministero Zanardelli avrebbe voluto la partecipazione dei radicali Sacchi e Marcora. Ma i radicali declinarono l’invito, dichiarandosi disponibili solo per un governo che, nel programma, si fosse impegnato alla riduzione delle spese militari. Una condizione, questa, che incontrava l’opposizione del sovrano. Sfumò così l’occasione per allargare il governo a una parte, sia pure moderata, dell’estrema sinistra, che fino a qualche anno prima pareva non avesse diritto di cittadinanza non solo nel governo, ma neppure nel parlamento e nel paese. Il nuovo governo fu composto da esponenti della destra, da moderati e da rappresentanti della sinistra costituzionale. Il suo programma fu approvato dalla Camera con una maggioranza di 264 voti contro 184. Anche i socialisti diedero il voto favorevole, riservandosi di valutare caso per caso la politica del governo: «aspettiamo il governo alle opere – disse Enrico Ferri – e dalle opere lo giudicheremo». Nonostante le riserve, l’atteggiamento del gruppo parlamentare socialista era un fatto nuovo nella politica italiana; era la prima volta che il partito socialista annunciava la sua fiducia a un governo borghese, non senza suscitare però, al suo interno, profondi contrasti ideologici e politici. Tuttavia, questo atteggiamento era una conseguenza della tregua che il partito socialista era disposto a dare al governo Zanardelli, rinunciando, per il momento, a insistere in una intransigente opposizione al fine di favorire una politica di ulteriore democratizzazione delle strutture politiche. La presenza più importante e significativa, nel governo, era naturalmente quella di Giolitti al ministero degli Interni. Il direttore del «Corriere della Sera», Luigi Albertini – che fu intransigente avversario della prassi politica giolittiana, nella quale vedeva una decadenza dell’autorità dello Stato e una deviazione dagli
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ideali del liberalismo classico – ebbe ragione di scrivere, il 15 febbraio: «Il vero vittorioso è lui, Giolitti: è lui il ministero». Fu infatti Giolitti, con la sua nuova prassi politica verso le classi lavoratrici, a dare il carattere di svolta liberale al governo Zanardelli e a inaugurare il periodo della sua lunga egemonia nella politica parlamentare. Come ministro Giolitti ribadì le sue convinzioni in materia di ordine pubblico, sul diritto di sciopero e sulla libertà di associazione. Né il diritto di sciopero o di lavoro, né la libertà per i lavoratori di costituire leghe economiche potevano più essere rimessi in discussione e lasciati all’arbitrio delle autorità, come era accaduto per il passato. Compito del prefetto non era quello di difendere gli interessi dei proprietari ma di restare neutrale nei conflitti di lavoro, di offrire la sua opera di mediazione, e di intervenire solo quando i conflitti minacciavano l’ordine pubblico e gli interessi della collettività. I suoi rapporti con i prefetti dimostrano la sua fermezza nell’esigere la repressione di qualsiasi violenza contro l’ordine pubblico. Ma il governo non avrebbe più mandato l’esercito per sostituire i lavoratori in sciopero né avrebbe più decretato lo scioglimento delle associazioni economiche. Gli effetti di questo nuovo atteggiamento in politica interna furono immediati. Gli scioperi, non più soggetti alla minaccia della repressione governativa, ebbero un aumento notevole e, nella grande maggioranza, si risolsero con un esito favorevole per i lavoratori. Nel 1901 vi furono 1.671 scioperi, con circa 400.000 partecipanti, rispetto ai 410 scioperi con 43.000 scioperanti dell’anno precedente. Nel mondo industriale solo il 24 per cento degli scioperi ebbe un esito sfavorevole per i lavoratori, mentre gli scioperi negativi in agricoltura furono solo l’11 per cento. Nel complesso, i miglioramenti salariali ottenuti furono valutati dai 150 ai 200 milioni. Questa grande ondata di agitazioni nel giro di un anno, esplosione di forze compresse, fu un progresso considerevole per il movimento delle classi lavoratrici, non solo per i successi economici conseguiti, ma anche per lo sviluppo delle loro organizzazioni. Il numero delle Camere del lavoro aumentò da 17, nel 1900, a 57 nel 1901 e a 76 nell’anno successivo, con più di 270.000 iscritti; le leghe contadine diventarono circa 1.000, con 230.000 aderenti. Il fenomeno avvenne, del resto, secondo le previsioni di Giolitti, il quale non mutò il suo atteggiamento di fronte all’aumento degli scioperi e alle crescenti proteste che la sua politica suscitava
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fra i liberali conservatori della Camera e, soprattutto, del Senato. La maggioranza delle accuse proveniva, naturalmente, dai rappresentanti delle classi padronali, e in particolare dagli agrari, i quali per la prima volta si videro abbandonati dal governo e costretti a cedere alle rivendicazioni dei lavoratori organizzati. Al senatore Silvio Arrivabene, proprietario terriero mantovano che si lamentava, parlando al Senato il 29 aprile, di aver dovuto – lui, senatore del Regno! – condurre l’aratro per lo sciopero dei contadini, Giolitti rispose: «La esorto a continuare, così potrà rendersi conto della fatica che fanno i suoi contadini e pagarli meglio». Giolitti difese con fermezza il suo «nuovo indirizzo di politica liberale» alla Camera, il 4 febbraio, e al Senato, il 30 aprile. Egli ribadì sia la sua valutazione generale sul carattere e gli scopi delle agitazioni popolari, sia la sua volontà di lasciare il governo al di fuori di quelli che considerava conflitti fra interessi privati. Egli intendeva rispettare e garantire la libertà di lavoro e di sciopero, nonché il riconoscimento della legittimità delle leghe operaie. E replicando alle accuse del senatore Arrivabene, Giolitti aggiunse: «Se il governo si mettesse, uscendo dalla legalità, contro queste leghe [...] darebbe a un movimento, che è essenzialmente economico, la fisionomia di un movimento politico. Ora io credo che il mettere delle grandi masse nella condizione di considerare l’ente Governo come loro nemico, di poter dire che il Governo ha violato la legge per recar loro un danno economico, sarebbe cosa gravissima. Il Governo ha due doveri, quello di mantenere l’ordine pubblico a qualunque costo ed in qualunque occasione, e quello di garantire in modo più assoluto la libertà di lavoro». Il senatore Arrivabene denunciava le leghe come sette segrete, cospiranti ai danni dello Stato e dell’ordine sociale, rette da ferrei regolamenti e da minoranze di sovversivi che trascinavano le masse dei lavoratori col miraggio della rivoluzione sociale. Giolitti non credeva a queste visioni apocalittiche; considerava ineluttabile l’avanzata del movimento popolare, e veramente catastrofiche le conseguenze di una politica repressiva. Egli era convinto che la sua prassi liberale avrebbe conquistato al governo e alla monarchia la simpatia delle classi popolari, avrebbe allargato le basi del consenso e, in sostanza, rafforzato lo Stato. Se le agitazioni erano guidate dai partiti sovversivi e tendevano ad acquisire carattere politico, ciò accadeva – secondo Giolitti – perché la classe dirigente non aveva provveduto tempestiva-
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mente a sottrarre, con una politica liberale e democratica, le masse all’influenza dei partiti estremi. Le accuse mosse a sua volta da Sonnino alla politica salariale di Giolitti – che mirava a diminuire la grande distanza tra salari e profitti, approfittando della congiuntura economica favorevole, con l’adozione di un atteggiamento dichiaratamente liberista verso i conflitti di lavoro – non nascevano dalla paura, dal risentimento per gli interessi lesi, dalla preoccupazione per gli effetti che l’ascesa delle classi popolari avrebbe avuto nel corrodere i privilegi delle classi proprietarie. Esse nascevano dalla considerazione sulle conseguenze negative che un’improvvisa e intensa dinamica degli aumenti salariali, soprattutto nella Valle Padana, centro delle agitazioni, avrebbe potuto avere per lo sviluppo economico del paese; nascevano, cioè, da una diversa concezione dei compiti che lo Stato doveva avere di fronte ai problemi dello sviluppo di una società così eterogenea nella sua struttura economica, sociale e geografica, come era quella italiana, e anche di fronte ai problemi che sorgevano da un’economia in fase di trasformazione e di decollo industriale. Questi erano i motivi principali delle critiche di Sonnino alla politica giolittiana, svolte con notevole vigore teorico, come era tipico dei suoi discorsi e dei suoi scritti politici. Al pari di Giolitti, Sonnino riconosceva il diritto di sciopero, la libertà di lavoro, la legittimità delle organizzazioni operaie; come Giolitti, ripudiava la lotta di classe e non voleva reprimerla con la violenza governativa, ma prevenirla con una politica di riforme. Tuttavia, nella prassi giolittiana egli vedeva soltanto un’abdicazione demagogica del governo alla pressione dei partiti estremi, un’ingenua e pericolosa fiducia negli effetti di una spontanea dinamica dei conflitti sociali, una degradazione dello Stato, che, pur dichiarandosi neutrale, incoraggiava di fatto le classi allo scontro diretto, disfacendo l’opera dei padri del Risorgimento. La politica salariale di Giolitti, disse Sonnino alla Camera il 19 giugno 1901, minava «le fonti della prosperità nazionale, impedendo il sorgere di nuove industrie, togliendo la possibilità di resistere alle concorrenze estere, e mantenendo in uno stato di febbrile instabilità tutti i nostri ordini politici e sociali». Tutto ciò, per Sonnino, era dovuto alla mancanza di una moderna legislazione sociale e di un governo forte capace di elaborarla «ispirandosi a un tempo ad un largo senti-
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mento di modernità, alla sicura percezione delle nostre reali condizioni di fatto ed alla coscienza delle necessità di dare una spinta alle energie latenti e sopite delle nostre popolazioni e di consociare sotto mille forme e cointeressare normalmente l’operaio alla produzione». Fare ciò era compito di «un governo liberale e intelligentemente conservatore». Al contrario, il metodo giolittiano non risolveva questi problemi e aiutava anzi l’opera dei partiti estremi. Giolitti, secondo Sonnino, riconoscendo apertamente la validità delle rivendicazioni operaie, favoriva la lotta di classe ai danni dello Stato: un presidente del Consiglio, che denunciava l’egoismo delle classi ricche, implicitamente incoraggiava contadini e operai a conquistare con la lotta aumenti di salario e più vantaggiose condizioni di lavoro. Giolitti rispose alle accuse di Sonnino – che effettivamente coglievano alcuni limiti di fondo della «neutralità» giolittiana – sdrammatizzando gli effetti politici delle agitazioni. Con ragione, poteva affermare «che mai un movimento tanto vasto in condizioni così difficili per la natura dello stesso fenomeno, per la sua immensa estensione e per la novità del caso si è potuto svolgere con danni così tenui e con minori violazioni di leggi». Le istituzioni, secondo Giolitti, non avevano affatto perduto prestigio e autorità. Al contrario, egli era convinto che le classi popolari avevano compreso che il governo non era loro nemico «ma un tutore imparziale dei loro diritti»: «se noi teniamo conto dell’estensione del movimento, delle tristi condizioni in cui i lavoratori si trovano, della poca cultura, degli eccitamenti che non sono mancati, e vediamo quanto sia stato il rispetto dell’ordine pubblico, e della proprietà, noi dobbiamo concludere che il popolo italiano realmente è maturo alla libertà [...] E, poiché le classi lavoratrici diventano uno dei fattori essenziali della vita politica del paese, gioverà pure occuparsi molto della loro educazione politica». Così Giolitti esprimeva la sua difesa alla Camera il 21 giugno 1901 aprendo quasi una prospettiva nuova per la politica liberale, lasciando intravedere la possibilità di un’azione educativa per rendere attivo il consenso che le masse avevano dimostrato, secondo Giolitti, verso le istituzioni. Egli giunse perfino ad augurare l’introduzione in Italia del referendum popolare, per obbligare le masse a conoscere e discutere questioni di interesse nazionale. L’educazione delle masse alla politica liberale avrebbe dovuto es-
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sere, in un certo senso, il secondo tempo del disegno giolittiano, forse sinceramente immaginato, in via ipotetica, dopo il ristabilimento della pace sociale con la soddisfazione delle rivendicazioni economiche delle classi popolari. Se si considerano i risultati immediati, si può ritenere che, al momento, Giolitti – in relazione con la migliorata situazione economica del paese e con la “tregua” concessa al governo dal mutato atteggiamento dei socialisti – era riuscito a incanalare nel sistema tradizionale la mobilitazione sociale dei ceti popolari. Ma, in verità, risultò presto che la dinamica dei fenomeni messi in moto dal movimento popolare e dal metodo giolittiano, in coincidenza con la crisi economica mondiale del 1903 che investì, sia pur lievemente, anche l’Italia, fece presto venir meno le condizioni che avevano reso possibile il “compromesso” fra la politica del governo e la mobilitazione delle masse. Non bisogna dimenticare, infatti, che una delle condizioni indispensabili per l’esplicazione della prassi politica giolittiana era l’appoggio del gruppo parlamentare socialista, data la forte opposizione della destra liberale. Venendo meno questo appoggio, per il mutato atteggiamento del partito socialista verso il governo, le possibilità per Giolitti di continuare l’esperimento democratico risultarono inevitabilmente limitate. Come accadde effettivamente al principio del 1903. 3. L’attività del governo Zanardelli Il governo Zanardelli aveva avviato una politica di moderato riformismo, ma non riuscì a realizzare nessuna riforma atta a rimuovere le principali cause del malcontento delle classi popolari. Tale sarebbe stata, per esempio, la riforma tributaria, che lo stesso Giolitti, prima del ritorno al governo, aveva indicato come improrogabile dovere della classe dirigente a favore delle classi povere, gravate da un pesante sistema fiscale. Un progetto di riforma fu presentato, in verità, dal ministro delle Finanze Wollemborg, nel marzo 1901, ma fu respinto dalla commissione incaricata di esaminarlo. Il progetto prevedeva l’abolizione del dazio di consumo su un bene di prima necessità come le farine, il pane e la pasta, nei comuni aperti e nei comuni chiusi di 3a e 4a classe e, fra l’altro, l’applicazione di una tassa progressiva sulla successione; il minor gettito, per i comuni, sarebbe stato compensato dall’aumento delle
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imposte dirette e da sovvenzioni statali. Anche un nuovo e più organico progetto (abolizione del dazio di consumo, dell’imposta di famiglia e del valore locativo in tutti i comuni; imposte progressive sui redditi, riforma della tassa di successione, trasferimento alle finanze comunali delle imposte sui terreni, i fabbricati ecc.), che introduceva un’effettiva riforma del sistema tributario a favore dei ceti meno abbienti, venne bocciato dal Consiglio dei ministri il 29 luglio. Il ministro Wollemborg allora rassegnò le dimissioni e il ministero delle Finanze venne affidato a Paolo Carcano, che già ne era stato titolare nel primo governo Pelloux. Carcano presentò un nuovo progetto, approvato dalla Camera, molto più modesto e limitato del precedente, per l’abolizione, in particolare, del dazio di consumo sui farinacei. Era un provvedimento che sostituiva una vera riforma e del quale, come osservò ironicamente Albertini, «una volta conquistato il potere, gli agitatori di ben più vasti programmi si erano appagati». Le ragioni che indussero il governo ad abbandonare il progetto di riforma tributaria furono probabilmente due, secondo quanto ha scritto Candeloro nella sua Storia dell’Italia moderna: «il timore che una battaglia su questo punto coi gruppi moderati e conservatori, in linea generale ostili alla riforma tributaria, potesse portare alla caduta del ministero e la convinzione che i miglioramenti salariali, ottenuti da una parte notevole dei lavoratori grazie all’instaurazione della libertà di sciopero, compensassero la persistente gravosità delle imposte indirette su molti consumi popolari». Modesta fu anche l’attività riformatrice nel campo della legislazione sociale, con alcuni significativi provvedimenti ispirati al concetto di «equità sociale», manifestato da Zanardelli nel suo discorso programmatico. Furono migliorate le condizioni del lavoro per le donne e i bambini, per la tutela della loro salute, la difesa dagli infortuni con l’estensione dell’assicurazione obbligatoria, dalla quale però restavano esclusi i lavoratori della terra. Con la legge del 29 giugno 1902 venne istituito un Ufficio del Lavoro nel ministero di Agricoltura Industria e Commercio, con il compito di studiare soluzioni per i problemi derivanti dai rapporti fra capitale e lavoro, e nel quale era prevista la partecipazione di rappresentanti del mondo industriale, degli operai e del governo. Maggior impegno il governo mostrò, invece, per particolare interesse di Zanardelli, ver-
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so la “questione meridionale”, in seguito alle agitazioni che dal Nord si erano estese al Sud, provocando spesso incidenti sanguinosi. Il movimento rivendicativo, nel Sud, non seguì l’evoluzione di quello settentrionale, per la diversa situazione economica e sociale; per la mancanza di un’efficiente rete di organizzazioni; e, infine, per la tendenza delle agitazioni a trascendere il campo delle rivendicazioni economiche per trasformarsi, col cumulo dei bisogni a lungo compressi, in proteste violente contro l’autorità. Per questo motivo gli scontri fra manifestanti e forza pubblica registravano spesso un tragico bilancio di morti: la repressione operata per la difesa dell’ordine pubblico provocò vittime in Sicilia, nelle Puglie, in Sardegna, nel Molise, in Campania. La “questione meridionale” ritornò drammaticamente all’ordine del giorno all’inizio del secolo, e riaccese il dibattito per la ricerca di nuove soluzioni. Zanardelli si impegnò personalmente in questo campo e, primo fra tutti i presidenti del Consiglio che l’avevano preceduto, si recò, benché vecchio, a visitare le regioni meridionali nel settembre 1902. L’iniziativa sollevò interesse e speranze. Nuove soluzioni furono proposte da meridionalisti come Fortunato, Nitti, Salvemini, Sonnino per affrontare in maniera realistica e complessiva il problema meridionale, che minacciava di compromettere l’intera stabilità socio-economica del paese. Ancora una volta, tuttavia, i piani organici di riforma furono sostituiti da provvedimenti locali e circoscritti, per risolvere talune situazioni particolarmente gravi, senza tener conto della interdipendenza che legava i diversi aspetti della miseria e della arretratezza meridionali. Con questo spirito di riformismo localista erano stati approvati, nel luglio del 1902, provvedimenti per la città di Napoli, per il suo risanamento finanziario e per l’avvio di uno sviluppo industriale; il 26 giugno dello stesso anno fu approvata una legge che stabiliva la costruzione dell’Acquedotto pugliese, che avrebbe dato un notevole impulso allo sviluppo dell’agricoltura in campagne prive di acqua. Altri provvedimenti furono avviati e poi attuati dai governi successivi, come la legge speciale per la Basilicata, emanata il 31 marzo 1904, durante il secondo governo Giolitti. Nel campo delle riforme civili, Zanardelli tentò, senza successo, l’introduzione del divorzio nella legislazione italiana. La proposta era stata presentata nel dicembre del 1901 dal deputato Berenini. Il presidente del Consiglio già nel 1883, come ministro del-
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la Giustizia, si era fatto promotore di un simile progetto in obbedienza alle sue convinzioni laiche e liberali. La nuova proposta non ebbe successo per le opposizioni incontrate fra alcuni ministri, come Giusso e Giolitti, che volevano evitare di introdurre un motivo di eccessivo attrito nei rapporti fra il Vaticano e lo Stato e, di conseguenza, fra le forze cattoliche e il governo liberale, e incontrò tiepide simpatie, se non indifferenza, nei socialisti. Gli unici a sostenerla furono i radicali, mentre furono contrari al progetto anche liberali conservatori come Sonnino. Il progetto fu abbandonato con la fine del governo Zanardelli. Questo governo, del resto, non aveva la forza e la possibilità di realizzare un vero programma riformatore, perché era sostenuto da una maggioranza composita e precaria, continuamente sottoposta agli attacchi della destra. Verso la fine del 1902 e i primi mesi del 1903, cominciarono i contrasti anche con il gruppo parlamentare socialista e, all’interno dell’estrema sinistra, fra socialisti e radicali su problemi di politica economica. I sostegni del governo si indebolirono. La sua sorte fu decisa il 24 marzo 1903, col passaggio all’opposizione del gruppo socialista, per il quale diventava sempre più difficile sostenere un governo che, agli occhi delle masse, continuava a versare sangue di lavoratori, anche se garantiva la libertà di sciopero. Da queste polemiche traeva forza, all’interno del partito, la corrente intransigente, che faceva capo a Enrico Ferri, e che manifestava una crescente opposizione al ministerialismo (con questo termine si indicava la politica parlamentare socialista di appoggio al governo borghese). L’opposizione socialista, lo sfaldamento del fronte democratico, i contrasti all’interno del ministero convinsero Giolitti ad abbandonare una barca che visibilmente era destinata a naufragare. Infatti, la maggioranza governativa era ormai esigua. Allorché il 10 giugno 1903 si dovette votare su una proposta dell’estrema sinistra – per aprire un’inchiesta su presunte collusioni, denunciate violentemente da Ferri, fra il ministro della Marina Giovanni Bettòlo e la Terni, società industriale che forniva materiale alla marina – questa fu respinta con solo 39 voti. Il fatto fornì l’occasione a Giolitti per dissociarsi da Zanardelli. Nella lettera di dimissioni, Giolitti dichiarò che l’esistenza del governo non era più possibile, dopo l’uscita dei socialisti dalla maggioranza e dopo che il governo aveva dovuto accettare i voti dell’opposizione di destra sulla propo-
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sta d’inchiesta. «Per quanto mi riguarda – affermò Giolitti – personalmente io devo pure considerare che nella campagna intrapresa contro il ministero da molti degli uomini politici che furono il più forte sostegno della politica interna da me seguita, questa si svolgerebbe in condizioni per me intollerabili». Nonostante l’indebolimento della maggioranza, Zanardelli tentò, assumendo il dicastero degli Interni, di ricostituire un nuovo governo che ebbe una breve esistenza, anche per la grave malattia che colpì il vecchio parlamentare. In seguito a una violenta polemica antigovernativa, suscitata dalla destra e dai moderati, a causa della mancata visita dello zar Nicola II in Italia per le minacce di manifestazioni ostili espresse dai socialisti, il 21 ottobre Zanardelli rassegnò le dimissioni. Morì due mesi dopo, il 26 dicembre. Il miglior elogio al suo governo e all’attività svolta in poco più di due anni fu espresso da un avversario della sua politica interna, il «Corriere della Sera», che, nel commentare con una nota del corrispondente romano le dimissioni, scriveva: «Forse nella stessa nostra parte alcuni o parecchi dissentiranno da noi: ma in perfetto convincimento crediamo di potere e dovere affermare che la prova di un regime di libertà più largo, come quello che si è avuto negli ultimi trenta mesi, è stato giovevole a tutti, e il bene, checché paia, ha superato il male. Toccherà ai ministri futuri e soprattutto agli Italiani di mutare la prova in buona, sicura e costante abitudine». Caduto Zanardelli, non vi furono problemi per la scelta del successore. Nessun altro poteva contrastare il passo a Giolitti, che fu chiamato subito dal re alla guida del governo. Commentò Papafava nelle sue cronache: «Ora abbiamo l’on. Giolitti, l’uomo indispensabile, inevitabile, fatale, unico. L’Italia è il paese dell’uomo unico. Unico Depretis, unico Crispi, ora unico Giolitti». 4. Un burocrate alla guida del governo Era la seconda volta che veniva affidato a Giolitti l’incarico di formare un nuovo governo. Il parlamentare piemontese, infatti, era stato già presidente del Consiglio dal 16 maggio 1892 al 15 dicembre 1893. Ma allora, la scelta di Giolitti era stata accolta da molte critiche di parlamentari di destra e di sinistra, che lo consi-
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deravano un uomo politico con poca esperienza di governo e quindi inadatto a guidare il paese in un periodo di grave depressione economica e di crisi finanziaria, di minacciosi conflitti sociali e di forti tensioni internazionali, soprattutto con la Francia. Giolitti, per giunta, a differenza di tutti i suoi predecessori, non poteva neppure esibire un passato giovanile di appassionata militanza politica nelle lotte per l’unificazione italiana e nella costruzione dello Stato unitario. Nato a Mondovì, in provincia di Cuneo, il 27 ottobre 1842, rimasto orfano del padre a un anno, cresciuto dalla madre nell’austero ambiente della borghesia torinese, Giolitti aveva trascorso l’adolescenza e la giovinezza dedicandosi agli studi, senza interessarsi molto di politica; anche se ebbe occasione di ascoltare i discorsi di Cavour alla Camera, non era stato contagiato, come altri giovani della sua generazione, dalla passione patriottica che aveva animato il volontarismo universitario nel 1859: «ero figlio unico di madre vedova – scrisse più tardi nelle sue Memorie – e non potevo lasciarla. Badavo ai miei studi; facevo grandi passeggiate in montagna; andavo a caccia e tiravo di scherma». Giolitti non sentì mai il patriottismo come un’esaltazione sentimentale, e avversò sempre la retorica nazionalista, tanto da apparire un politico alquanto arido e privo di ideali, vuoi per naturale disposizione del carattere, vuoi per effetto di un’attività professionale che si era svolta interamente, prima di entrare nell’agone politico, nell’ambito della amministrazione statale. Laureato in giurisprudenza nel 1861, Giolitti aveva intrapreso a venti anni la carriera burocratica nel ministero di Grazia e Giustizia. Nel 1869 Quintino Sella, allora ministro delle Finanze, apprezzando molto la capacità e la competenza del giovane funzionario, lo aveva nominato capo sezione al suo ministero e lo volle poi come suo segretario particolare; successivamente, Giolitti fu nominato reggente della direzione generale delle imposte, poi segretario generale alla Corte dei conti, dal 1877 al 1882, quando fu nominato consigliere di Stato, incarico che mantenne, salvo brevi sospensioni, dal 21 agosto 1882 al 31 gennaio 1894, allorché venne collocato a riposo su sua domanda. Questa lunga e molto laboriosa permanenza nella burocrazia statale, scrisse Giolitti nelle sue memorie, gli aveva consentito di sviluppare e di affinare «una educazione amministrativa efficacissima, mettendomi a conoscenza di tutto il meccanismo dello Stato;
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ciò mi riuscì assai utile quando quel meccanismo dovetti muoverlo io stesso». Certamente la burocrazia fu una scuola che influì in modo decisivo sulla formazione della sua personalità politica, distinguendolo in ciò nettamente dagli altri principali uomini di governo italiano, come ha osservato Guido Melis in un saggio sulla carriera di Giolitti al Consiglio di Stato: «Non solo rispetto a Crispi, ma più in generale nella galleria ideale degli uomini politici di governo italiani dell’Otto-Novecento, Giolitti è stato forse il solo leader politico che provenisse propriamente dall’amministrazione. A quella scuola era cresciuto, in anni nei quali l’apparato dello Stato poteva ben dirsi profondamente inserito nel motore della civilizzazione del Paese, al centro dei processi di national building; in quell’ambiente aveva compiuto per vent’anni la sua esperienza formativa, prima di intraprendere la sua fortunata carriera politica». Giolitti entrò in politica nel 1882, candidandosi nelle elezioni per la XV legislatura, con un conciso programma ispirato a un liberalismo aperto alle correnti nuove della politica sociale e alle esigenze delle classi popolari, invocando, come disse durante la campagna elettorale, «la più stretta economia nelle spese pubbliche». Alla Camera aderì alla sinistra costituzionale e fece parte, nel 1886, del gruppo dei deputati “dissidenti” fra i quali erano Rudinì, Sonnino e Pelloux, che contrastarono la politica finanziaria del ministro Magliani, giudicata troppo ottimistica e spregiudicata. Avvicinatosi a Crispi, alle elezioni per la XVI legislatura, nel 1886, Giolitti si presentò con una propria lista di «opposizione subalpina» al governo Depretis, dedicando la campagna elettorale alla denuncia della politica finanziaria e alla critica del trasformismo: «Il governo rappresentativo – affermò nel manifesto agli elettori il 28 aprile – non può procedere regolarmente senza partiti organizzati con programmi chiari e precisi. Mancando questa condizione, il governo è costretto ad appoggiarsi successivamente a mutevoli maggioranze, le quali non si possono tenere riunite se non in nome di interessi speciali e locali». In quel periodo egli elaborò anche gli elementi essenziali della sua visione dei problemi di politica interna e internazionale: «Due – disse in un discorso tenuto dopo le elezioni, il 7 novembre 1886 – sono i sistemi ai quali si può informare la sua condotta politica una nazione. Quella che suole chiamarsi la politica imperiale e la politica de-
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mocratica. La prima nei rapporti coll’estero è intraprendente, invadente, tende ad allargare i confini dello Stato, a creare colonie non solo commerciali, ma militari; in una parola, ha di mira il predominio sulle altre nazioni. La politica interna, coordinata con quella estera, ha di mira la potenza economica del Paese come base della potenza politica. Una politica imperiale non può farsi senza destinare all’esercito e alla marina le maggiori risorse del Paese e senza una direzione politica costantemente uniforme; essa richiede quindi un forte governo che abbia l’appoggio di una potente aristocrazia la quale, a sua volta, non può esistere senza la grande proprietà. Ne sono conseguenza poca libertà all’interno e il sacrificio del privato al pubblico interesse [...]. La politica democratica tende invece ad assicurare il benessere del maggior numero di cittadini; deve perciò favorire l’istruzione pubblica, l’industria, l’agricoltura, ridurre al necessario i pubblici pesi, provvedere alle classi lavoratrici, garantire la libertà. Nei rapporti con l’estero deve avere di mira il mantenimento della pace sempre quando è conciliabile con la dignità e gli interessi vitali del Paese. Esercito e Marina devono essere proporzionati a questo scopo. In un punto una illuminata e sapiente politica democratica concorda con la politica imperiale, ed è nello assicurare la potenza economica e la grandezza morale del Paese. Quale delle due politiche conviene all’Italia? Non esito ad affermare che dobbiamo fare una politica sinceramente democratica. Ce lo impongono la nostra origine, la nostra costituzione politica e sociale, i nostri interessi». Nella nuova Camera, Giolitti votò a favore del primo governo Crispi, ma proseguì la sua opposizione contro la politica finanziaria di Magliani, confermato alle Finanze; una opposizione che si concluse con le dimissioni del ministro e la nomina di Giolitti stesso, nel marzo 1889, alle Finanze e al Tesoro. La collaborazione con Crispi, nonostante la profonda diversità di formazione, di ideologia e di carattere, fu assidua, come ricordò Giolitti nelle sue memorie: «eravamo molto affiatati in tutto, ed egli mi chiamava spesso a consulto». Ma il suo programma di restringere, quanto più possibile, le spese per ridurre il disavanzo finanziario, lo mise presto in dissidio con Crispi, finché si vide costretto a rassegnare le dimissioni il 9 dicembre 1890. Iniziò da allora l’antagonismo fra i due uomini politici che si acuì sempre più a causa di una totale con-
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trapposizione delle loro vedute in materia di ordine pubblico e di politica estera. Nel 1892, caduto il governo Rudinì, Crispi, che era convinto di ricevere dal re l’incarico di formare il nuovo governo, aveva reagito con ira alla scelta di Giolitti come presidente del Consiglio. Giolitti presentò il suo primo governo alla Camera il 25 maggio, con un programma piuttosto generico, che puntava soprattutto al risanamento delle finanze: in politica estera, Giolitti mostrò un atteggiamento più distensivo nei confronti della Francia, mentre nella politica interna cercò di assicurare il mantenimento dell’ordine salvaguardando le libertà, pur trovandosi a dover fronteggiare situazioni tumultuose, come l’agitazione dei Fasci siciliani. Gli esordi del nuovo presidente del Consiglio non furono fortunati. Il suo governo ebbe la fiducia con solo 9 voti di maggioranza: ciò lo indusse a presentare subito le dimissioni, che il re respinse autorizzandolo a sciogliere la Camera. Le elezioni generali si tennero il 6 e il 13 novembre, col sistema del collegio uninominale, reintrodotto dal governo Rudinì. Ciò contribuì notevolmente alla vittoria della sinistra e alla formazione di una consistente maggioranza per il governo. Giolitti, che aveva tenuto per sé il ministero dell’Interno, non aveva esitato ad avvalersi del suo potere, tramite i prefetti, specialmente nei collegi meridionali, per ottenere la vittoria di candidati a lui favorevoli. Inoltre, per premiare gli amici o eliminare dalla competizione elettorale personaggi a lui ostili, fece nominare 90 senatori. Si manifestò così, fin dalla prima esperienza come presidente del Consiglio, la spregiudicata tecnica politica di Giolitti che suscitò allora, e ancor più avrebbe provocato negli anni successivi, le vigorose proteste degli oppositori e severe condanne da parte dell’opinione pubblica. In politica estera il proposito di riavvicinamento alla Francia naufragò dopo l’eccidio di 30 operai italiani ad Aigues-Mortes, in Provenza, il 17 agosto 1893. Questi tragici fatti avevano provocato in Italia accese manifestazioni antifrancesi (fu dato l’assalto all’ambasciata di Francia) e violente dimostrazioni dei socialisti, dei radicali e degli anarchici, che evocarono nei conservatori l’incubo di una rivoluzione imminente. Queste paure erano d’altra parte conseguenza della nascita, il 15 agosto 1892, del partito dei lavoratori italiani (denominato nel 1895 partito socialista italiano). Giolitti venne accusato di mettere in pericolo la stabilità delle istituzioni e di danneggiare il prestigio della nazione all’estero.
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Nonostante avesse varato alcune importanti riforme, come il riordino degli istituti di emissione e l’istituzione della Banca d’Italia (agosto 1893), il bilancio del primo governo giolittiano si chiuse con «una serie di fallimenti», come ha scritto Nino Valeri. Il 24 novembre 1893, in seguito ai risultati dell’inchiesta sullo scandalo della Banca Romana, che lo aveva coinvolto personalmente, Giolitti rassegnò le dimissioni; gli successe Crispi (15 dicembre 1893-10 marzo 1896), anch’egli coinvolto nello scandalo. A Giolitti venne addebitata la responsabilità di aver taciuto, quando era ministro del Tesoro, sui risultati di un’inchiesta che aveva portato alla luce le gravi irregolarità della Banca Romana – la quale aveva emesso abusivamente decine di milioni in banconote – e, pur sapendo ciò, di aver fatto nominare senatore Bernardo Tanlongo, il governatore della banca; e, infine, di aver sottratto all’autorità giudiziaria, come ministro dell’Interno, alcuni documenti contro Crispi: si tratta del famoso «plico» che Giolitti consegnò al presidente della Camera 1’11 dicembre 1894. Quando la commissione parlamentare rese noto il contenuto del «plico», Crispi querelò Giolitti per violazione del segreto epistolare e dei doveri d’ufficio, abuso di autorità, calunnia e falso. Non più protetto dall’immunità parlamentare, per eludere la minaccia di un arresto, Giolitti ritenne prudente allontanarsi dall’Italia e recarsi in Germania presso la figlia Enrichetta, mantenendo il massimo riserbo sullo scandalo. Tornò in Italia nel febbraio 1895, dopo aver ricevuto un mandato di comparizione, per contestare l’incompetenza dell’autorità giudiziaria a giudicarlo, avendo la Camera avocato a sé l’esame della questione. La Corte di cassazione, alla quale Giolitti si era rivolto, confermò l’incompetenza. Invece, la commissione parlamentare, formata principalmente da uomini di Crispi, il 12 dicembre si pronunciò per la competenza dell’autorità giudiziaria e per l’autorizzazione a procedere: il giorno successivo, Giolitti si difese energicamente alla Camera reclamando il suo diritto a essere giudicato dal parlamento. Alla fine, la Camera rifiutò di incriminare Giolitti, decidendo all’unanimità di archiviare gli atti. Le vicende alquanto traumatiche vissute durante la sua prima esperienza a capo del governo influirono molto sulla personalità di Giolitti, accentuando una sua naturale propensione allo scetticismo, che si rifletteva anche nella sua concezione della politica,
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sostenuta da una disincantata e realistica valutazione degli uomini e del governo degli uomini: «Mettiti in capo questo – scrisse alla figlia Enrichetta il 15 marzo 1896 – che gli uomini sono quello che sono, in tutti i tempi e in tutti i luoghi con i loro vizi, i loro difetti, le loro passioni, le loro debolezze; e il governo deve essere adatto agli uomini come sono; certo il governo deve mirare a correggere, a migliorare, ma anch’esso è composto di uomini, e l’uomo perfetto non esiste. Un governo è il portatore di secoli di storia e la peggiore di tutte le costituzioni sarebbe quella che venisse studiata in base a principi astratti e non fosse adatta in tutto e per tutto alle condizioni attuali del paese. Il sarto che ha da vestire un gobbo se non tiene conto della gobba non riesce [...]. Io non sono conservatore, tutt’altro, vedo troppo chiaro quanto vi è di brutto e di spregevole nell’andamento attuale della politica italiana, ma non voglio aiutare chi ci porterebbe a cose peggiori. Pur troppo non vi è ora la scelta fra il bene e il male, ma fra mali diversi, e questo è il lato più triste della vita politica [...] ricorda che per dare un giudizio bisogna considerare le cose come sono, non come dovrebbero essere».
5. Il secondo governo Giolitti Nel preparare il suo secondo governo, Giolitti ebbe l’idea di farvi partecipare i rappresentanti dell’estrema sinistra radicale e socialista. Egli infatti invitò Turati a un incontro, con l’intenzione di includerlo nella lista dei ministri insieme ai radicali Sacchi e Martora, ma sia Turati che i due radicali rifiutarono. Turati non ritenne opportuno partecipare al nuovo governo perché ciò avrebbe fatto nascere equivoci e confusione fra le masse socialiste. Personalmente, egli era del parere che i partiti di sinistra avevano il dovere di appoggiare, sia in parlamento che nel paese, l’indirizzo complessivo di un governo schiettamente democratico, mentre criticava i gruppi della sinistra intransigente, che si dichiaravano comunque contrari, osteggiando così anche la possibilità di un esperimento riformatore. Il rifiuto di Turati era un riflesso delle polemiche interne al partito socialista e delle pressioni della corrente rivoluzionaria, che conquistava sempre più larghi consensi fra le masse socialiste. I rivoluzionari volevano rendere impossi-
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bile la continuazione d’una politica di appoggio, diretto o indiretto, al governo, per spingere il partito verso posizioni intransigenti e rivoluzionarie. Il rifiuto dei radicali fu motivato da Marcora con la mancata offerta di uno dei due dicasteri, Guerra o Interni, cui aspiravano. Anche nel partito radicale vi erano comunque contrasti fra i seguaci di Marcora e i seguaci di Sacchi, e ciò rendeva impossibile un consistente appoggio del partito al nuovo governo. La sinistra democratica, dunque, non accettò di entrare nel governo, giudicando i tempi immaturi. In realtà, le condizioni che avevano permesso la politica democratica del governo Zanardelli-Giolitti erano venute meno in seguito allo spostamento di molti gruppi del mondo padronale, dopo un primo momento di sorpresa e di incertezza, verso posizioni di difesa e di reazione nei confronti del movimento popolare, mentre lo spostamento a sinistra dei socialisti precludeva a Giolitti la possibilità di conquistare nuovi consensi parlamentari. Certamente, l’apertura ai radicali e ai socialisti era una conferma della volontà di Giolitti di continuare la prassi politica iniziata come ministro degli Interni, anzi di accentuare la svolta a sinistra: l’attuazione del suo disegno avrebbe avuto come risultato di staccare i riformisti e di isolare, al di fuori del sistema, i rivoluzionari socialisti, con la speranza di neutralizzarli così come era accaduto per i repubblicani. Ma la speranza fu vana. Il progetto di un governo con uomini dell’estrema sinistra, commentò Luigi Lodi, un perspicace osservatore contemporaneo delle vicende parlamentari, svaniva, e sembrava strano «che l’uomo il quale aveva dedicato tanto studio all’ambiente parlamentare non se ne fosse avveduto. Quei gruppi dell’Estrema erano ancora troppo occupati e preoccupati delle loro fonti per non accogliere con un brivido di terrore il pensiero della sorte che sarebbe loro riservata il giorno in cui entrassero al Governo». Fallito il tentativo di apertura a sinistra, Giolitti effettuò una spregiudicata conversione di rotta e scelse i suoi ministri dove erano disponibili, a sinistra, al centro e a destra. Nella scelta si orientò verso uomini che non erano mai stati ministri, o erano del tutto nuovi all’attività di governo, i quali avrebbero dovuto perciò formarsi sotto la sua guida, quasi embrione di una futura classe dirigente giolittiana, come lo stesso Giolitti scrisse nelle sue memorie:
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«io ho sempre cercato di mettere alla prova del governo uomini nuovi: l’avevo già fatto nel mio primo ministero e lo feci in tutti i miei ministeri susseguenti: ubbidendo in ciò al criterio di allargare il più possibile il personale politico atto alla pratica degli affari e sperimentato nella realtà delle cose. Gli uomini che si danno alla carriera politica entrano nel parlamento con un certo bagaglio di idee e di dottrine derivate dai loro studi, e con l’attitudine e la capacità di discussione critica e polemica; quello che generalmente manca loro, a parte le attitudini naturali, è la pratica del trattamento di questioni concrete, con la conseguenza di scarsa consapevolezza dei limiti entro i quali quelle idee e quelle dottrine possono avere una ragionevole e benefica applicazione. Agli uomini politici che passano dalla critica all’azione, assumendo le responsabilità del governo, si muove spesso l’accusa di mutare le loro idee ma in verità ciò che accade non è che essi le mutino, ma le limitino adattandole alla realtà e alle possibilità dell’azione nelle condizioni in cui si deve svolgere necessariamente. Questa educazione degli uomini parlamentari alla pratica del governo, ha inoltre il benefico effetto sulle stesse discussioni parlamentari; ed io ho potuto sempre constatare che una assemblea politica, più contiene uomini pratici e più ha attitudine a trattare sul serio, con criteri positivi, gli affari del paese, evitando le vuote discussioni dottrinarie». Queste considerazioni generali in difesa dell’empirismo e del praticismo non sono una giustificazione postuma della sua prassi politica, ma riflettono i reali convincimenti di Giolitti e i motivi costanti che ispiravano la sua azione. Egli, spiegò alla Camera il 21 giugno 1901, riteneva che la politica «è l’arte di governare il paese qual è, e con le leggi che ci sono», e in questa sua visione empirica non vedeva alcun difetto: «io confesso – ribadiva ancora alla Camera il 12 giugno 1902 – che la mia è proprio una politica empirica, se per empirismo si intende tener conto dei fatti, tener conto delle condizioni reali del paese e delle popolazioni in mezzo alle quali dobbiamo fare questa politica interna. Il sistema sperimentale, che consiste nel tener conto dei fatti e procedere a misura che si può, senza grave pericolo [...] è il più sicuro ed anzi il solo possibile». Giolitti mostrò di essere molto spregiudicato nell’applicare questa regola. E a chi, in occasione della formazione del suo secondo ministero, lo accusava di voler includere anche i socialisti nel governo, egli replicava, parlando al Senato il 4
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dicembre 1903: «il programma da me formulato [...] era tale che a mio modo di vedere, avrebbe potuto avere la collaborazione di una certa parte di coloro che appartengono all’Estrema Sinistra. E io credo che questa collaborazione chiara e aperta di una parte dell’Estrema Sinistra, nell’applicazione di un programma strettamente monarchico e costituzionale, avrebbe avuto i suoi vantaggi. E se mi rivolsi anche, un po’ alla lontana, perché trattative pratiche non vi furono, se mi rivolsi ad una persona di grande ingegno, socialista, lo feci perché questo distinto parlamentare aveva dichiarato sempre di non fare questione di forma di Governo, e quindi con lui si poteva discutere di riforme sociali, senza chiedere né a lui, né a me, che si rinunziasse in parte alle nostre convinzioni in materia politica». Il nuovo governo risultò composto da uomini di diversa provenienza politica. Agli Esteri Giolitti chiamò Tommaso Tittoni, prefetto di Napoli, conservatore vicino agli ambienti clericali. Al ministero del Tesoro nominò un «tecnico», Luigi Luzzatti, esponente della destra. Il giolittiano Pietro Rosano, già sottosegretario agli Interni, fu nominato ministro delle Finanze. Lo zanardelliano Scipione Ronchetti andò alla Giustizia; Vittorio Emanuele Orlando (alla Pubblica Istruzione) e Francesco Tedesco (ai Lavori Pubblici), erano orientati a destra. Di incerta collocazione era Luigi Rava, ministro dell’Agricoltura, mentre fra i radicali era iscritto Enrico Stellutti-Scala, ministro delle Poste. Ai dicasteri militari furono chiamati il generale Ettore Pedotti e l’ammiraglio Carlo Mirabello. Con personalità come Tittoni e Luzzatti, il nuovo governo di Giolitti nacque con un carattere conservatore, e fu subito sotto il fuoco delle sinistre, che scatenarono una violenta campagna di accuse personali contro il suo amico Rosano, il quale, sopraffatto psicologicamente, si uccise proclamando la sua innocenza. La disgrazia non fece deflettere Giolitti dal suo compito. Dopo aver affidato l’interim delle Finanze a Luzzatti, e pur essendo bersaglio delle polemiche sulla questione morale connesse alla morte del suo ministro, condotte da socialisti e radicali, Giolitti presentò il suo secondo governo alla Camera, il 1° dicembre 1903. Egli dichiarò la sua volontà di continuare la politica interna «di libertà, la più ampia, nei limiti della legge», ritenendola «indispensabile alla vita ed al progresso di un popolo civile». Convinto che, attraverso la pratica della libertà, le istituzioni avevano otte-
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nuto «il consenso della immensa maggioranza del paese», Giolitti disse che ora bisognava procedere, per consolidare il consenso, sulla via delle riforme sociali ed economiche necessarie per eliminare le cause della sperequazione e dei conflitti sociali. Le questioni più urgenti riguardavano il rinnovo dei trattati di commercio con l’Austria, la Germania e la Svizzera; la diminuzione dell’onere del debito pubblico, la soluzione del problema ferroviario e il risanamento delle condizioni delle province meridionali. Per la prima questione, Giolitti affermò di voler favorire l’esportazione dei prodotti agricoli italiani, «pronti anche, per ottenere tale scopo, a diminuire la protezione dell’industria fin dove non ne sia compromessa l’esistenza». Sulla questione del debito pubblico, prospettò una «piccola conversione del consolidato 4 e mezzo per cento in 3 e mezzo per cento e con la grande conversione del titolo 5 per cento». Sulla questione ferroviaria – essendo prossima alla scadenza la convenzione con le società private che gestivano il servizio – Giolitti disse che il governo avrebbe affrontato, senza porsi alcuna pregiudiziale riserva, il problema della statizzazione del servizio nel caso di un mancato rinnovo dell’accordo con le società private. Sul più complesso problema meridionale, il governo rinunciava a prospettare soluzioni organiche e complessive, ritenendo più opportuno studiare le condizioni di ogni singola regione ed elaborare le misure adeguate; e perciò si impegnava a concludere la legge speciale per la Basilicata, in modo da farne poi un modello da estendere ad altre regioni in condizioni simili. Il governo, aggiunse Giolitti, avrebbe promosso lo sviluppo della rete ferroviaria, veicolo di progresso, in Calabria e in Sicilia; la realizzazione dell’Acquedotto pugliese e di altre opere di bonifica, e avrebbe elaborato provvedimenti per favorire lo sviluppo del commercio agricolo dei prodotti meridionali e la formazione della piccola proprietà. Il governo, infine, si impegnava a realizzare altre riforme sociali, come il miglioramento delle condizioni degli insegnanti, il risanamento delle amministrazioni locali, lo sgravio fiscale e l’alleggerimento dei debiti degli enti locali e dei debiti ipotecari. Il programma fu approvato da una maggioranza di 284 voti, contro 117. Fra questi erano i liberali sonniniani, i socialisti, i repubblicani e i radicali di Sacchi, che votarono contro in seguito al caso Rosano e al carattere conservatore del nuovo ministero, men-
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tre il gruppo radicale di Marcora votò a favore. La maggioranza conservatrice aveva votato per il governo Giolitti insieme con parte dei radicali e dei liberali della sinistra costituzionale. Si creò, così, quella maggioranza “giolittiana” che era politicamente indefinibile, senza tradizioni e vincoli comuni, ma era soltanto e unicamente «la maggioranza», come osservò Luigi Lodi, cioè una «organizzazione fondata sul fatto aritmetico del suo numero, ma che, salvo una breve eccezione, durò salda negli anni intorno all’onor. Giolitti». La creazione di questa maggioranza segnò l’inizio della cosiddetta «dittatura parlamentare» giolittiana, destinata a durare per un decennio senza forti incrinature interne e, nello stesso tempo, segnò anche la fine di qualsiasi politica alternativa a quella che Giolitti proponeva, secondo le circostanze. Era anche la fine di ogni progetto per la formazione di un grande partito conservatore laico e liberale, che venne sostituito nei fatti da una maggioranza che era fondamentalmente conservatrice ma reclutata non sulla base di un programma unitario né resa stabile attraverso una organizzazione moderna, bensì coagulatasi attorno alla figura di un uomo che diventò, per questo, veramente insostituibile nella direzione del governo. Giolitti, in mancanza di vasto consenso nel paese, seppe conservare questa maggioranza con metodi trasformisti e con interventi e pressioni nelle elezioni politiche. «Neotrasformismo» è stata infatti definita da Luigi Salvatorelli, in un saggio sullo statista piemontese, questa politica giolittiana, ma senza attribuire al termine il carattere negativo che gli davano i suoi contemporanei, avversari di un siffatto «partitone» giolittiano retto soltanto dal rapporto personale di dipendenza dal presidente del Consiglio. Un «partitone» comunque progressista, come lo presentava Giolitti, anche se composto da elementi conservatori, e ben distinto da «reazionari» come Sonnino. Giolitti, del resto, non si preoccupò mai di costituire un partito. È vero che in un discorso alla Camera del 20 dicembre 1897 aveva affermato che un governo efficiente poteva durare soltanto con una maggioranza stabile costituita da partiti, e aveva deplorato l’esistenza di gruppi perché riteneva che i gruppi sarebbero scomparsi solo «col sorgere di grandi partiti; e questi partiti non sorgeranno, se non con programmi chiari, aperti, ben definiti». Ma il suo ideale di partito non mirava che al conseguimento di una maggioranza parlamentare intorno a un programma e non era affatto concepi-
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to come una organizzazione permanente, esistente anche al di fuori del parlamento, radicata nel paese. Con una maggioranza «neotrasformista» – ha osservato Giampiero Carocci nel suo libro sull’età giolittiana – Giolitti pensava di «realizzare il suo programma di riforme economiche, sociali e politiche. L’obiettivo di Giolitti tornò ad essere quello, a lui congeniale, di realizzare un programma di riforme di sinistra, servendosi di una maggioranza di destra. Tra programma e maggioranza si stabiliva un equilibrio, nel quale peraltro il primo era subordinato alla seconda». Il secondo governo Giolitti durò poco più di un anno. Gli impegni espressi nel programma furono, in parte, mantenuti: furono approvati, con la legge del 27 dicembre 1903, i provvedimenti per l’amministrazione provinciale di Napoli e, con la legge dell’8 luglio 1904, quelli per il risanamento economico della città. La legge per la costruzione dell’Acquedotto pugliese venne approvata l’8 luglio, quella per la Basilicata il 31 marzo 1904. Scarsa fu l’attività del governo in materia finanziaria, giustificata con la necessità di non compromettere il pareggio del bilancio, per consentire la conversione della rendita. L’attività legislativa si svolse senza grandi difficoltà. La combattività parlamentare, vivace negli anni precedenti, sembrava essersi spenta improvvisamente. Ma fu, come scrisse Giolitti nelle sue memorie, «un anno di lavoro parlamentare e legislativo [...] assai operoso e fecondo». Oltre i provvedimenti per il Mezzogiorno, «si approvò la radicale modificazione della legge sulle Opere Pie, intesa ad assicurare una efficace tutela di quel patrimonio dei poveri e la sua destinazione ad usi più conformi alle mutate esigenze dei tempi; si rinnovò la legislazione sulla sanità pubblica, intensificando la cura delle malattie e della pellagra ed affermando per la prima volta il dovere dei proprietari di provvedere di sane abitazioni i lavoratori della terra; si provvide alla scuola primaria e ai maestri elementari con larghezza ignota a tutte le leggi precedenti, facendovi concorrere lo Stato con otto milioni all’anno; si estese a favore delle società cooperative, operaie ed agricole il diritto di concorrere agli appalti dei lavori pubblici; si tolse al potere esecutivo, riservandolo al potere legislativo, il diritto di modificare i ruoli organici delle pubbliche amministrazioni; si migliorarono grandemente, con la spesa di molti milioni, gli organici delle amministrazioni Postali e Telegrafiche, e di quelle
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delle Finanze e del Tesoro, dei Lavori Pubblici, della Magistratura, del Ministero degli Affari Esteri, degli ufficiali inferiori dell’esercito, delle biblioteche e della amministrazione carceraria. Si provvide inoltre a migliorare le condizioni della Cassa per la invalidità e vecchiaia degli operai; si istituì quella per gli impiegati dei comuni; si stabilirono le pensioni per gli operai della manifattura dei tabacchi, e si provvide pure ai veterani della guerra dell’indipendenza. Si fissò per un quadriennio un razionale piano di lavori pubblici, s’introdusse nella nostra legislazione penale il principio salutare della condanna condizionale e si iniziò una radicale riforma del sistema carcerario con l’ammettere i condannati al lavoro all’aperto e con la trasformazione dei riformatori pei minorenni da luoghi di pena ad istituti di educazione ed istruzione; oltre a molte cose minori, come il riordinamento delle finanze di Roma; i provvedimenti a favore dell’industria enologica ed agrumaria, reprimendo nello stesso tempo e in relazione ai trattati di commercio, la frode nella produzione e nel commercio dei vini; il disciplinamento della navigazione di cabotaggio, il perfezionamento dei sistemi di pesca marittima, con salutare miglioramento delle condizioni dei pescatori; la concessione di notevoli agevolezze alle industrie che usano il sale e lo spirito, e così via». Il lungo elenco, redatto con burocratica pedanteria da Giolitti, rispecchiava, in realtà, la normale attività di un’amministrazione piuttosto che l’opera di un governo desideroso di attuare grandi riforme sociali. Da ciò derivava il carattere e il limite di fondo della nuova politica giolittiana: un pragmatismo riformista, di limitati interventi, in un quadro politico e istituzionale che Giolitti voleva conservare stabile, mentre nuove forze sociali maturavano nella società, al di fuori e contro il sistema di potere parlamentare creato dallo statista piemontese. Giolitti amministrava il paese con una sapiente ed empirica politica di equilibrio e di contrappeso fra forze diverse, che gli consentiva di «durare», spostando però sempre più verso destra, in senso moderato, il timone delle sue alleanze. A questa correzione di rotta contribuì, nel settembre 1904, lo sciopero generale che investì tutto il paese ed ebbe una influenza decisiva sui rapporti fra le diverse forze politiche e il governo, rapporti condizionati anche dalla evoluzione della situazione economica del paese.
III SVILUPPO ECONOMICO E MOBILITAZIONE SOCIALE
La sconfitta delle forze reazionarie, il superamento della grave crisi politica di fine secolo, la vittoria di un indirizzo di governo ispirato a un liberalismo pragmatico, che concordava con le esigenze e gli ideali di una moderna borghesia industriale, furono favoriti dalla conclusione della crisi economica, da cui aveva avuto origine gran parte dei disordini e dei tumulti di massa alla fine dell’Ottocento. I primi segni della ripresa si erano già avuti dopo il 1895, ma la fase di espansione dell’economia italiana diventò più intensa negli anni successivi e durò, pur rallentando sensibilmente il suo ritmo dopo una nuova crisi nel 1907, fino al 1913. La nuova fase di sviluppo, che coincise con la presenza di Giolitti alla guida della politica italiana, fu un periodo fondamentale nella storia economica del paese, dall’Unità fino alla ricostruzione del secondo dopoguerra, perché durante l’età giolittiana ebbe inizio il processo di trasformazione dell’Italia in un paese parzialmente industrializzato. Questo processo non fu privo di gravi distorsioni e carenze, non fu né uniforme né ordinato, ma tuttavia produsse nella società profondi mutamenti strutturali che ebbero vaste ripercussioni nella vita civile e politica del paese.
1. La «rivoluzione industriale» nell’età giolittiana Le condizioni necessarie per lo sviluppo economico dell’età giolittiana erano state poste nei decenni precedenti, con la creazione delle infrastrutture e l’unificazione del mercato interno, con la regolamentazione dei nuovi istituti di emissione (dopo gli scan-
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dali bancari e il fallimento della Banca Romana), con il risanamento del bilancio operato da Sonnino nell’ultimo ministero Crispi. Nel nuovo secolo, in corrispondenza con una fase di espansione dell’economia mondiale, la presenza di una serie congiunta di fattori favorevoli, interni e internazionali, e il mutato orientamento della classe dirigente, resero più rapido e costante un generale progresso nei vari settori della produzione sia agricola che industriale. Lo sviluppo di quest’ultimo settore fu di tali proporzioni da essere definito come una vera e propria «rivoluzione industriale». Secondo i dati elaborati da Alexander Gerschenkron nel suo saggio Il problema storico dell’arretratezza economica, l’indice della produzione industriale italiana – che negli anni 18881896 era stato dello 0,3 rispetto al 4,6 del periodo 1881-1888 – salì negli anni 1896-1908 al 6,7 per scendere, dopo la crisi del 1907, al 2,4 del periodo 1908-1913. La ripresa industriale, dopo la lunga depressione degli anni 1888-1895, fu resa possibile da un generale rialzo dei prezzi, da una maggiore disponibilità di capitale investito nell’industria, dall’aumento della disponibilità di manodopera, dall’impiego di nuove risorse tecniche e di rinnovate capacità imprenditoriali e, soprattutto, dalla politica protezionista adottata dallo Stato. Questa politica – iniziata con l’introduzione della tariffa doganale del 1887 e proseguita negli anni giolittiani – permise ad alcuni settori – come quello siderurgico, quello zuccheriero e quello cotoniero – di crescere al riparo della concorrenza straniera per conquistare il monopolio del mercato interno. I successi economici favoriti dal protezionismo furono innegabili, anche se liberisti ortodossi, come Luigi Einaudi, Edoardo Giretti e Antonio De Viti De Marco sostenevano, in polemica con la politica protezionista, che i successi erano ottenuti pagando un prezzo molto alto, in favore di settori – come quello siderurgico, per esempio – che erano troppo dipendenti dall’importazione di materie prime e risultavano perciò poco «naturali», cioè poco adatti alle reali possibilità economiche del paese e scarsamente competitivi all’estero. Alle critiche di carattere dottrinario (ispirate da un’intransigente fede liberista) sull’utilità o meno del protezionismo, si accompagnavano le critiche di carattere politico e sociale. Il protezionismo stabiliva, infatti, collegamenti stretti fra governo e gruppi di interesse privati, attraverso una rete di relazioni spesso collusive che non corrispondevano agli
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interessi generali del paese, con conseguenze negative nel campo sociale. Il costo della politica protezionista veniva pagato dai consumatori che, nella grande maggioranza, appartenevano alle classi popolari e ai ceti meno abbienti. Molte critiche in proposito erano fondate ma, guardando ai risultati, non si può disconoscere che il protezionismo, come ha scritto Rosario Romeo nella sua Breve storia della grande industria in Italia, era una misura necessaria per «consentire al nostro paese di inserirsi nell’Europa industriale, evitandogli così di essere respinto nell’area sottosviluppata che abbraccia tanti altri paesi mediterranei». Un altro dei fattori principali che contribuirono allo slancio industriale fu la funzione svolta, dopo il 1895, dalle banche che favorirono l’afflusso di capitale finanziario nel settore industriale. Questo intervento fu reso possibile dal riordinamento del sistema finanziario e monetario italiano, dalla funzione svolta dagli istituti di credito ordinario con la nascita di due banche miste, la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano, create con capitale tedesco e organizzate sul modello delle banche tedesche, largamente impegnate negli investimenti industriali con una spiccata tendenza ad accentuare, rispetto alla attività di banca di sconto, quella di ente di finanziamento. Si può più giustamente ritenere, come ha scritto Gerschenkron nel saggio già citato, che «l’espansione industriale del 1896-1908 fu in gran parte resa possibile dalla importazione, nella loro forma più sviluppata e matura, di grandi innovazioni economiche realizzate dalla banca tedesca. Come in Germania, anche in Italia le banche fecero affluire alle imprese industriali nascenti o in espansione non soltanto capitali ma anche, in notevole misura, direzione imprenditoriale. Come in Germania, le banche italiane ebbero la tendenza a stabilire strettissimi rapporti con un’impresa industriale, tenendola a balia per molto tempo prima di lanciarla sul mercato dei capitali, il che spesso voleva dire semplicemente collocare le sue azioni tra i clienti della banca stessa. Come in Germania, le banche italiane tentarono di influire, modernizzando i metodi, sulle relazioni creditizie intercorrenti tra le diverse imprese. Come in Germania, esse furono sempre desiderose di ‘disciplinare la produzione’ di determinati settori industriali, espressione eufemistica che significava in realtà limitazione o abolizione della concorrenza, e promozione di accordi monopolistici di vario tipo».
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Il ruolo di queste banche nella vita economica fu importantissimo: la Banca Commerciale, ad esempio (il cui capitale di fondazione era per il 90 per cento tedesco) aveva esteso in pochi anni il suo intervento in ogni branca dell’attività produttiva. I liberisti criticarono anche questa forma di intervento bancario per i rischi ai quali, secondo loro, esponeva i risparmiatori coinvolgendoli nel rischio delle imprese. In realtà, l’intervento del capitale finanziario fu limitato soltanto a taluni particolari settori più moderni e avanzati dell’industria, mentre il rimanente della produzione industriale, basato su piccole unità, si affidava prevalentemente all’autofinanziamento, come nel caso della gran parte del settore tessile. Bisogna, inoltre, tener presente che i risparmi affluivano in misura ridotta alle banche di credito ordinario. Il risparmio disponibile negli istituti di credito ordinario era, nel 1896, di 388 milioni contro i 1.365 milioni delle Casse di risparmio ordinarie e i 495 milioni delle Casse di risparmio postali. Nel 1908 le cifre salivano, rispettivamente, a 1.380 milioni per le banche di credito ordinario, a 2.250 milioni per le Casse di risparmio ordinarie, a 1.525 milioni per le Casse di risparmio postali. La grande maggioranza dei piccoli risparmiatori faceva affluire i suoi denari alle Casse di risparmio, che li investivano prevalentemente in opere pubbliche, in mutui ipotecari, in titoli di debito pubblico e in cartelle di credito fondiario. Soltanto i ceti più agiati, che depositavano i loro capitali presso le banche di credito ordinario, in realtà venivano coinvolti nel rischio dell’investimento industriale, che risultava pertanto inferiore a quanto avrebbe potuto essere con l’impiego dei capitali depositati presso le Casse di risparmio. E va inoltre aggiunto, come ha osservato Romeo, che «questa distribuzione degli investimenti escludeva un ammontare cospicuo del risparmio dall’insieme dei capitali disponibili per lo sviluppo industriale e in questo senso ha certo rallentato il ritmo di sviluppo economico italiano; ma serviva anche a tutelare la massa dei piccoli risparmiatori dalle più rischiose vicende della vita economica, cooperando a conservare a larghissimi settori della vita italiana la fisionomia tipica di un paese di piccola gente, legata ad una mediocre sicurezza ma lontana dai grandi sviluppi della vita moderna: elementi questi, che hanno a lungo caratterizzato il vastissimo ceto medio italiano». Un altro importante fattore dell’espansione industriale fu lo
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sfruttamento dell’energia idroelettrica, considerata la nuova forza che avrebbe permesso all’industria italiana di sottrarsi alla dipendenza verso l’estero per il rifornimento di materie prime. Il «carbone bianco», come venne chiamata l’energia idroelettrica, avrebbe potuto sostituire il carbon fossile, secondo le ottimistiche previsioni di alcuni economisti come Francesco Saverio Nitti, il quale propose un programma di nazionalizzazione e di impiego delle risorse idriche. L’Italia fece rapidi progressi nell’utilizzazione di questa fonte di energia. Il primo impianto di illuminazione costruito in Europa fu quello del Teatro della Scala a Milano, nel 1883, mentre nel 1885 venne costruito a Tivoli uno dei primi impianti generatori che sfruttavano l’energia idraulica: «Questi risultati – ha scritto Clough – erano della massima importanza, perché la luce elettrica significava un aumento effettivo delle ore lavorative nella giornata, e l’energia elettrica trasportata a grandi distanze significava che l’Italia poteva ‘trasportare’ la sua forza idrica dove essa poteva combinarsi con altri fattori di localizzazione (mano d’opera, materiali, mercati) più vantaggiosi che nei luoghi di produzione. Significava anche la possibilità di avere una fonte di energia disponibile per fornire forza motrice a piccole fabbriche che non potevano permettersi macchine a vapore; che si era trovato un sostituto del carbone per le industrie ferro-metallurgiche dopo l’adozione del forno elettrico, e un mezzo più pulito e continuo per azionare i trasporti ferroviari e tranviari. Gli italiani si resero conto di che immenso vantaggio fosse per loro la forza idroelettrica, perché finalmente potevano utilizzare le grandi risorse idriche delle Alpi fino allora inutilizzate; già nel 1855 Cavour aveva profetizzato che qualora ciò fosse stato possibile, l’Italia avrebbe potuto industrializzarsi quanto l’Inghilterra». Anche se lo sviluppo di questo tipo di energia fu notevole, i risultati non furono pari alle aspettative: l’importazione di carbon fossile, infatti, non diminuì ma aumentò dai 4 milioni di tonnellate del 1896 ai 10 milioni del 1913. Il settore elettrico, tuttavia, giunse ad assorbire la quota più alta di investimenti del capitale azionario: il 20,72 per cento rispetto al 14,75 per cento dell’industria tessile, al 14,16 per cento dell’industria meccanica, al 12,62 per cento dell’industria alimentare, all’11,24 per cento dell’industria metallurgica, al 9,66 per cento dell’industria chimica e al 5,48 per cento di quella mineraria. Il capitale delle società anonime
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elettriche salì dai 37 milioni del 1897 ai 559 milioni del 1914. La produzione dell’energia idroelettrica aumentò dai 66 milioni kwh del 1898 ai 2.000 milioni kwh del 1913, mentre quella termoelettrica ebbe uno sviluppo modesto, dai 34 milioni kwh del 1898 ai 200 milioni kwh del 1913. La diffusione degli impianti di sfruttamento dell’energia idroelettrica si ebbe soprattutto nelle regioni settentrionali dove nel 1908 esistevano 241.000 kw di impianti idroelettrici contro i 28.716 kw dell’Italia meridionale, dove prevaleva ancora l’impianto termoelettrico. L’impiego della nuova energia fu prevalentemente rivolto al settore industriale, e in parte all’uso privato e all’illuminazione pubblica. Il maggior impiego industriale dell’energia idroelettrica si ebbe nel settore tessile, seguito dal settore meccanico, alimentare, chimico e metallurgico; ma fu notevole anche l’impiego per la elettrificazione della rete ferroviaria e delle reti tranviarie. Secondo i dati elaborati da Gerschenkron, il contributo maggiore, negli anni 1896-1908, alla nuova espansione industriale venne rispettivamente dal settore chimico (13,7), metallurgico (12,4), meccanico (12,2), alimentare (5,5), tessile (3,5) e minerario (1,8). Nel complesso il contributo dell’industria alla formazione del prodotto lordo privato aumentò dal 19,4 per cento del 1896 al 26,1 per cento del 1908, mentre il contributo dell’agricoltura passava dal 49,3 al 43,2 per cento, per lo stesso periodo, con variazioni non molto sensibili nei periodi successivi. L’Italia, nell’età giolittiana, restava dunque un paese prevalentemente agricolo, ma il processo di industrializzazione appariva ormai irreversibile anche se lento e non privo di ostacoli e ritardi notevoli. Nello stesso periodo si assiste a un aumento degli addetti ad attività industriali, reso più facile dalla disponibilità di manodopera a buon mercato proveniente dalla campagna, dove si riscontrava una costante eccedenza demografica rispetto alle possibilità di lavoro offerte dalle terre coltivabili. Pur mancando dati attendibili per i primi anni del secolo, è possibile valutare che, fra il 1901 e il 1911, si ebbe un incremento del 10 per cento degli addetti all’industria, i quali passarono dal 24,5 al 26,9 per cento sul totale della popolazione attiva, rispetto al 55,4 per cento degli addetti all’agricoltura, che erano il 59,5 per cento nel 1901. Questi dati offrono un quadro dei mutamenti sociali avvenuti nel mondo
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del lavoro, che influirono sulla composizione sociale e sull’azione del movimento operaio negli anni giolittiani. I settori industriali maggiormente avvantaggiati dal protezionismo e dagli investimenti bancari furono il settore siderurgico, l’industria cotoniera e l’industria zuccheriera. Il settore siderurgico ebbe un notevole sviluppo nella produzione dell’acciaio mentre fu minore la produzione della ghisa. Nel 1899 era stata fondata, con la partecipazione di capitale belga, la società Elba, che ebbe dallo Stato la concessione di potere sfruttare in condizioni di privilegio le miniere di ferro dell’isola, e installò a Portoferraio un impianto per la produzione della ghisa. Nel 1902, la società Elba cadeva sotto il controllo della Terni e della ditta Carlo Raggio, che avevano costituito la Siderurgica di Savona, collegata col gruppo cantieristico Odero-Orlando. Era il primo gruppo cantieristico-siderurgico, sorto con l’appoggio dello Stato, che riuscì a contenere la concorrenza straniera rinunciando a sua volta alle esportazioni, garantendosi, in particolare, il mercato interno per la fornitura di rotaie, passata quasi interamente alla siderurgia nazionale. Nel 1905 sorgeva a Bagnoli, nei pressi di Napoli, un grande impianto siderurgico ad opera dell’Ilva, costituita per accordo fra la Savona-Elba e la Società Ferriere Italiane. Avveniva in questo modo, come ha osservato Salvatore La Francesca, che i «gruppi siderurgici italiani presentavano un solido fronte unico e costituivano un gruppo di pressione con il quale bisognava fare i conti. La Banca Commerciale Italiana possedeva un rilevante numero di azioni della Siderurgica di Savona, collegata alla Società Elba e insieme con questa associata nell’Ilva; la stessa banca era titolare di una rilevante partecipazione nelle Ferriere lombarde Falck. La fondazione dell’Ilva, costituita, osservava Einaudi, per tenere in famiglia le lucrose concessioni, consentiva però la formazione in Italia di una siderurgia accentrata, a ciclo integrale, accanto alla quale stavano tradizionali imprese lavoranti sul rottame, come le acciaierie Falck ed altre imprese operanti nel nord Italia». Grazie agli accordi con le grandi ditte straniere per evitare il dumping, cioè la concorrenza con la vendita di prodotti a basso prezzo, e al sostegno dello Stato per mezzo della protezione doganale e delle commesse, la siderurgia italiana riuscì a monopolizzare il mercato interno e a incrementare notevolmente la produzione, ma senza riuscire a conquistare una vera e propria indi-
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pendenza al paese in questo settore, gravato sempre dagli alti costi di produzione. La produzione della ghisa in prima fusione, infatti, passò da 6.987 tonnellate del 1896 alle 426.755 tonnellate del 1913, ma l’importazione aumentò da 119.500 tonnellate del 1896 a 221.700 tonnellate del 1913. Più rilevante fu la produzione dell’acciaio di prima lavorazione che passò, nel periodo 1896-1913, da 65.955 a 933.500 tonnellate; ciò non impedì anche l’aumento delle importazioni dell’acciaio e del ferro lavorati, che erano necessari per l’industria meccanica, da 71.200 tonnellate nel 1896 a 267.100 tonnellate del 1913. Se è evidente, da questi dati, l’incremento produttivo dell’industria siderurgica, è altrettanto evidente la sua incapacità a sostenere il confronto con l’industria straniera, pur avendo il monopolio del mercato interno. Per i suoi alti costi, la siderurgia italiana produceva in realtà più di quanto il mercato interno fosse in grado di assorbire, ma senza frenare per questo l’importazione. Inoltre, il sistema di lavorazione a carbon coke, fece aumentare considerevolmente l’importazione del carbon fossile, mentre i diversi sistemi di lavorazione ancora in uso comportavano una dispersione nella produzione. L’altro settore particolarmente favorito dalla protezione doganale fu l’industria tessile, soprattutto quella cotoniera, che riuscì non solo a conquistare il mercato interno ma, prima fra le industrie italiane, a esportare il suo prodotto. In misura minore il protezionismo avvantaggiò l’industria laniera e quella serica. Lo sviluppo dell’industria cotoniera fu altresì favorito dall’ammodernamento della lavorazione e dall’impiego dell’energia idroelettrica: i fusi cotonieri aumentarono da 2 milioni, nel 1900, a 5 milioni nel 1915; i telai meccanici salirono a 134.000. La produzione crebbe, nel periodo 1900-1913, per quanto riguarda filati e tessuti di cotone, da un totale di 118.602 tonnellate a 175.570 tonnellate, con un indice massimo nel 1907 pari a 189.513 tonnellate. Rimase invece in complesso stazionaria la produzione della seta, da 4.960 tonnellate nel 1896 alle 6.173 del 1907, per calare poi, dopo la crisi, alle 4.702 tonnellate del 1913. Nonostante questa decadenza dell’industria serica sopraffatta dalla concorrenza asiatica, l’Italia conservò in questo settore il primo posto in Europa e il terzo nel mondo. Gli investimenti di capitali in questo settore furono tuttavia scarsi, essendo dispersa la produzione in piccoli opifici, basso il salario e misere le condizioni di lavoro della manodopera prevalentemente femmini-
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le. Modesto fu anche lo sviluppo dell’industria laniera, esercitata da nuclei familiari, nonostante l’aumento dei fusi meccanici e l’impiego dell’energia elettrica. Inoltre, tanto il settore cotoniero quanto quello laniero dovevano fare ricorso all’importazione di materiale greggio: l’importazione di cotone in massa greggio salì da 112.700 tonnellate del 1896 alle 201.900 tonnellate del 1913; le esportazioni passavano, per i filati, da 1.500 tonnellate nel 1896 a 14.600 tonnellate nel 1913, e per i tessuti, da 6.100 a 49.400 tonnellate. Ciò non comportò una riduzione degli alti prezzi praticati all’interno, che permettevano l’esportazione. Tuttavia, la bilancia commerciale dell’industria cotoniera restava passiva. Di grande proporzione, invece, fu l’aumento dell’industria saccarifera: la produzione in questo ramo, salì da 2.300 tonnellate nel 1896 a 305.564 tonnellate del 1913, senza favorire però l’aumento del consumo interno, che rimase su una media annua di 3 kg a testa, per l’alto prezzo dei prodotti sul mercato interno. Sebbene ostacolata dalla concorrenza straniera, specialmente tedesca, e meno protetta dalla tariffa doganale del 1887, l’industria meccanica ebbe un notevole incremento, anche se inferiore alle esigenze. Lo sviluppo maggiore fu quello dell’industria di macchine pesanti, grazie anche alle commesse dello Stato, soprattutto dopo la statizzazione delle ferrovie nel 1905 e la ristrutturazione dei servizi. Le ordinazioni statali, negli anni fra il 1905 e il 1909, furono pari a 1.050 locomotive, 3.000 carrozze e bagagliai, 25.000 carri. Collegato con l’industria cantieristica, il settore meccanico aumentò il tonnellaggio navale, da 7.000 tonnellate annue per gli anni 1894-1896 a una media di 34.000 tonnellate per il decennio successivo, anche se la produzione dell’industria meccanica era al di sotto delle capacità produttive, con il conseguente ricorso ai prodotti dell’industria straniera. Nelle costruzioni militari, infatti, prevaleva ancora l’importazione con l’acquisto di navi dall’estero. Il maggior complesso di produzione meccanica e cantieristica era l’Ansaldo di Genova, affiancato dalle grandi fabbriche milanesi come la Breda, le Officine Meccaniche, la Franco Tosi. Una novità, nel settore, fu la nascita in questi anni dell’industria automobilistica, a Torino, ad opera di Giovanni Agnelli. L’uso dell’automobile era ancora scarsamente diffuso e ciò impedì alla nascente industria di avere un grande sviluppo; ma, scarsamente ostacolato dalla concorrenza straniera, essendo un settore
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nuovo e tecnicamente moderno, fu in grado di costituirsi solidamente. La Fiat aumentò la sua produzione dalle 135 vetture del 1903 alle 268 del 1904, affermandosi con successo anche in campo internazionale. Verso questa nuova industria affluirono capitali attirati dai progressi tecnici e dalla prospettiva di investimenti vantaggiosi, accompagnati però da una spregiudicata speculazione borsistica che durò fino al crollo dei titoli della Fiat nel 1906. La riorganizzazione del settore permise alla Fiat di superare la crisi e di conservare un ruolo primario nella produzione automobilistica italiana. Da questo esame sommario, appare chiaro che, nel complesso, lo sviluppo dell’industria italiana, nel primo decennio del secolo, fu imponente se confrontato con le condizioni generali del paese, ma certo non tale da colmare la grande distanza che separava l’economia italiana da quella degli altri paesi industrializzati d’Europa. Del resto, l’industrializzazione di un paese gravato da squilibri interni e da notevoli fattori di arretratezza comportava un processo più intenso, non esente da difetti e da conseguenze negative sia nel settore economico che nel campo sociale e politico. La trasformazione della società italiana in un paese parzialmente industrializzato avvenne con l’intervento dello Stato e con il massiccio contributo del capitale finanziario: due fattori necessari e indispensabili per la nascita e lo sviluppo dell’industria italiana: «Uno dei caratteri precipui di questa rivoluzione industriale italiana – ha scritto Romeo – appare dunque il fatto ch’essa si realizza in virtù di un intervento della collettività e dello Stato assai più ampio di quanto non prevedesse la teoria economica liberale [...]. Protezionismo, impegno delle banche nello sviluppo industriale, intervento dello Stato, tutti cioè gli aspetti che quegli osservatori (liberisti) più risolutamente condannavano come indici del carattere ‘patologico’ della vita economica e industriale italiana, appariranno invece come condizioni storiche che hanno reso possibile quella ‘forzatura’ del processo industriale italiano che ha avuto una funzione decisiva nel consentire al nostro paese di inserirsi nell’Europa industriale [...]. Naturalmente, un tipo di sviluppo [...] che comportava così larghi contatti tra lo Stato e il grande capitale privato, era più di altri esposto a rischi di illecite collusioni, e lasciava largo margine ad iniziative nelle quali l’interesse pubblico appariva apertamente sacrificato alla prepotenza
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dei grandi interessi finanziari o industriali: ma era questo, come il sacrificio del Mezzogiorno e, in parte, dell’agricoltura, appunto uno dei costi propri di quel tipo di sviluppo». Il quale se nel complesso risultò, economicamente e socialmente, positivo, tuttavia si svolse secondo linee di squilibrio determinate dagli stessi fattori che lo favorirono, come ha messo in evidenza Luciano Cafagna: «Nella realtà, lo sviluppo manifestatosi era dovuto a quel sistema di impulsi, proprio come ad esso erano dovuti gli squilibri che ora si lamentavano – difficile capire quali spinte altrettanto dinamiche avrebbero potuto sorgere in un mercato le cui condizioni non fossero state appunto alterate. Non vi è dubbio, naturalmente, che molti appunti si potevano muovere alla condotta dello Stato perché gli strumenti di intervento a sua disposizione fossero meglio adoperati: nella generalità dei casi, però, ci si limitò a criticare l’intervento come tale, ovvero, da un’altra parte, a chiederne un’accentuazione e un’estensione nella direzione stessa in cui aveva operato». Nella polemica dei liberisti antigiolittiani si tendeva a mettere in luce gli squilibri provocati da un tipo di industrializzazione imposto dall’interventismo statale e dal protezionismo. Il programma liberista mirava soprattutto alla valorizzazione del settore agricolo, ad alleviare la pressione fiscale, a favorire lo sviluppo del Mezzogiorno. Meridionalismo e liberismo erano temi che si unificavano nella polemica antiprotezionista, ma le proposte dei liberisti, anche se non prive di fondate ragioni, risultavano astratte rispetto alle necessità dello sviluppo economico di un paese fortemente arretrato. L’industrializzazione fu una scelta positiva per lo sviluppo del paese, perché era l’unica soluzione moderna e progressiva possibile, adeguata alla situazione dell’economia internazionale, senza dimenticare con ciò gli effetti negativi dai quali fu accompagnata, gravissimi soprattutto per le ragioni arretrate, e che furono dovuti sia a condizioni oggettive sia a responsabilità dei protagonisti dell’industrializzazione, e, in particolare, al ruolo che lo Stato e la classe dirigente ebbero nello sviluppo economico. Le tesi più note, in proposito, sono quelle formulate da Romeo e da Gerschenkron. Secondo Romeo, l’intervento dello Stato fu determinante per la promozione dello sviluppo industriale e la formazione di un’industria di base, con l’adozione della politica protezionista e il sostegno dato alla produzione di beni strumentali, anche se il pensiero economico dominante era ancora legato
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ai principi del liberismo e, perciò, costituiva un intralcio per una realistica comprensione dei problemi connessi con lo sviluppo industriale in un paese gravato da una notevole arretratezza. Da parte sua, invece, Gerschenkron ha definito «assurda» la politica di industrializzazione seguita dal governo. Egli considera la tariffa doganale, soprattutto a favore dell’industria siderurgica, uno degli ostacoli verso un più intenso e consistente sviluppo economico; a suo giudizio, l’«effetto principale della politica del governo nel campo dell’industrializzazione del paese fu di frenare anziché di stimolare il processo di sviluppo». Nel dibattito scaturito dalla contrapposizione delle due tesi, è emersa la tendenza a riconoscere che la politica protezionista fu un fattore necessario per la promozione dello sviluppo industriale in un paese arretrato e che la scelta industrialista, da parte dello Stato, fu determinata dalla necessità di favorire lo sviluppo dei settori più moderni e dinamici dell’attività produttiva, anche a scapito dei settori più deboli. Gerschenkron, tuttavia, concorda con Romeo nel ritenere che uno dei maggiori limiti per l’industrializzazione fu la mancanza di una coscienza teorica conforme. Vi è da osservare, inoltre, che molti difetti dell’industrializzazione e alcune sue carenze strutturali furono certamente dovuti alla parzialità, alla discontinuità e al modo disorganico dell’intervento statale. Lo Stato giolittiano, adeguandosi meccanicamente alla dinamica sociale, non svolse un ruolo attivo di promotore, coordinatore e razionalizzatore dello sviluppo, per impedire la dispersione clientelare delle risorse finanziarie e per garantire la loro destinazione verso settori che interessavano la collettività nazionale e non soltanto singoli gruppi. Gli interventi dello Stato non furono effettuati secondo un programma organico di sviluppo di lungo periodo ma, in molti casi, risposero alle pressioni di interessi privati o di categoria, spesso di settori parassitari e meno competitivi, o vennero concessi per motivi di politica locale. Le collusioni fra politica governativa e interessi particolari o extraeconomici, la mancata elaborazione di un piano programmato degli interventi, la visione generalmente tradizionale della gestione del potere in un’epoca di intensi conflitti sociali e politici furono gli ostacoli principali, oltre quelli oggettivi, che impedirono un processo più ordinato ed efficiente di industrializzazione. L’azione dello Stato, osservava Riccardo Bachi nel 1913, nel suo consueto
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bilancio annuale dell’economia italiana, era stata poco conforme alle esigenze dell’economia nazionale, soprattutto per l’«insufficiente formazione di élites per l’azione politica ed amministrativa», perché la classe dirigente non si rese pienamente conto che «l’opera del reggitore della cosa pubblica nei riguardi della vita economica, nel mondo moderno, è assai più complessa, multiforme e sottile che in passato, tanto più grave per le conseguenze benefiche e dannose, prossime e remote».
2. Lo sviluppo dell’agricoltura e i problemi del Mezzogiorno L’Italia restava un paese prevalentemente agricolo: l’agricoltura contribuiva alla formazione del prodotto lordo privato con una media annua del 46,6 per cento, nel decennio 1901-1910, rispetto alla media del 23 per cento dell’industria e del 30,3 per cento delle attività terziarie. Il processo generale di ripresa dell’economia ebbe effetti anche nel settore agricolo, con un notevole aumento dell’attività produttiva. Il saggio medio di aumento del valore aggiunto nell’agricoltura fu pari al 2 per cento negli anni 1897-1913, media superata soltanto nel periodo 1920-1925 (3 per cento) e 1951-1963 (2,36 per cento). Il fattore principale di questo sviluppo, favorito dalla contemporanea ripresa dell’attività industriale e dall’aumento della domanda globale, fu, come ha scritto Giuseppe Orlando, «tutta una serie di elementi che la lunga catena di disavventure dell’ultimo decennio aveva impedito di manifestarsi e che esplosero contemporaneamente per opera di una nuova borghesia rurale, da un lato, e di una nuova classe di lavoratori della terra, dall’altro, nate in concomitanza con lo sviluppo dell’industria e dei movimenti che hanno condotto al sorgere e all’affermarsi delle prime organizzazioni sindacali». Quasi tutti i settori della produzione agricola registrarono un incremento. Nel settore cerealicolo la media annua di produzione del frumento salì da 35.315.000 quintali per il decennio 18911900 a 47.643.000 quintali nel decennio 1901-1910; la produzione del riso, per gli stessi periodi, passò da 3.501.000 quintali a 5.690.000; quella del granoturco aumentò da 19.395.000 quintali a 24.859.000. Minore fu l’incremento produttivo della segale e dell’orzo, mentre la produzione dell’avena salì da 3.252.000 a
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5.023.000 quintali. Nel settore delle colture legnose (frutta, vino, olio) la produzione del vino ebbe una media annua di incremento di 31.273.000 hl, nel decennio 1891-1900, e di 44.123.000 hl nel decennio successivo, con un indice massimo nel 1909 di 65.035.000 hl. Nel settore ortofrutticolo, fu considerevole l’incremento di produzione degli agrumi, che costituivano uno dei principali prodotti di esportazione (le arance salirono da una media annua di 2.306.000 quintali per il periodo 1891-1900 a 3.163.000 quintali nel decennio successivo; i limoni, da una media di 2.721.000 quintali a una di 4.359.000 quintali per i medesimi periodi). Soltanto la produzione delle olive diminuì, con una conseguente diminuzione della produzione dell’olio, da una media annua di 1.629.000 quintali per il periodo 1896-1900 a una di 1.565.000 quintali negli anni 1911-1914 (con un indice minimo nel 1908 di 578.000 quintali e uno massimo nel 1905 di 3.121.000 quintali). Per quanto riguarda l’allevamento del bestiame, i bovini aumentarono da 4.783.000 capi – secondo il censimento zootecnico del 1881 – a 6.218.000 capi del censimento del 1908; gli ovini, da 8.596.000 a 11.163.000 capi; minore fu l’aumento per i suini e i caprini. Lo sviluppo dell’allevamento di bestiame provocò un aumento di consumo della carne, con il contenimento temporaneo delle importazioni. Ci fu anche un aumento della produzione del latte, ma il consumo individuale rimase molto basso rispetto alla popolazione, anzi diminuì dal 38,6 per cento della produzione totale, nel 1896, al 34,6 per cento del 1913, mentre aumentò la produzione dei latticini (burro e formaggi), che alimentava un attivo commercio estero. Lo sviluppo dell’agricoltura fu dovuto a molti fattori. La tariffa protezionista del 1887 favorì indubbiamente l’incremento della coltura granaria intensiva delle regioni settentrionali e difese la coltura estensiva del latifondismo meridionale, impedendo però a quest’ultimo di subire un processo di trasformazione e di ammodernamento, che fu proprio dell’agricoltura settentrionale in questi anni. Ci fu, infatti, un miglioramento tecnico nella conduzione dei fondi, con un maggior impiego di macchine, la rotazione delle colture, un aumento dell’uso dei concimi chimici. A questi fattori tecnici, bisogna aggiungere i nuovi investimenti di capitali attratti da un settore in espansione, determinato da un generale rialzo dei prezzi e dalla scomparsa della minaccia della concorrenza stranie-
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ra, per un complessivo equiparamento dei prezzi agricoli americani ed europei. Agirono inoltre, come impulso al rinnovamento delle colture e al miglioramento del lavoro agricolo, gli effetti delle molte organizzazioni e istituti, come le cattedre ambulanti di agricoltura, che, sorte intorno alla fine del secolo scorso (erano 41 nel 1900 e 191 nel 1909) costituirono un centro di assistenza e di diffusione di moderne concezioni tecniche. La trasformazione strutturale di alcuni settori agricoli – e in particolar modo del settore zootecnico – fu agevolata dalla nascita dei consorzi agrari, che erano 17 nel 1892 e diventarono 405 nel 1905, i quali regolarono l’attività agricola attraverso la loro organizzazione, con l’acquisto di strumenti necessari alla modernizzazione della produzione. Queste trasformazioni strutturali furono dovute certamente al progresso tecnico, alla razionalizzazione della produzione, alla diffusione dei concimi; ma, come ha osservato Giuseppe Orlando, è «importante notare, come fatto più peculiare tra quelli – di natura endogena – che concorrono a spiegare i positivi avvenimenti di questo periodo, che nessun progresso tecnico e nessun mutamento di struttura – almeno nella grande Valle del Po – avrebbe avuto luogo se i protagonisti di quelle vicende non fossero riusciti a creare con le cattedre ambulanti da un lato e i consorzi agrari dall’altro, una vitale e democratica struttura di assistenza tecnica; quelle strutture che, contrariamente alla politica degli interventi indifferenziati, hanno l’inestimabile vantaggio di adattare i rimedi e gli aiuti agli specifici mali od obiettivi che si debbono eliminare o raggiungere». Lo Stato intervenne nello stimolare lo sviluppo dell’agricoltura sia attraverso la creazione di scuole agrarie, di cattedre ambulanti e di stazioni sperimentali, sia attraverso una moderata politica fiscale verso la borghesia rurale, la protezione doganale e gli interventi diretti del ministero dell’Agricoltura, il cui bilancio, dai 5 milioni del periodo fra il 1886-1887 e il 1901-1902, salì nell’esercizio 1911-1912 a 14,4 milioni. L’intervento statale, per queste vie, agevolò l’opera di una moderna e illuminata borghesia rurale, la quale inoltre traeva indirettamente stimolo al miglioramento tecnico e allo sviluppo della produzione agricola anche dalla pressione delle lotte salariali, particolarmente intense nei primi anni del secolo soprattutto nella Valle Padana. Questo rapido rigoglio economico, nell’industria e nell’agricoltura, era tuttavia accompagnato da gravi squilibri territoriali e
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sociali. I progressi dell’industria e dell’agricoltura furono in realtà circoscritti geograficamente nelle regioni settentrionali e centrali, con poche isole di sviluppo nelle regioni meridionali. Lo sviluppo economico accentuò il dualismo fra Nord e Sud, aggravando la depressione economica e sociale dei ceti popolari del Mezzogiorno. Un dato molto significativo offrono gli indici di produzione del settore agricolo: per esempio, la Valle Padana, con una superficie agraria e forestale intorno al 13 per cento della superficie totale, nel 1910 dava il 31 per cento della produzione totale nazionale. Anche nel settore agricolo, come in quello industriale, l’incremento produttivo ebbe un forte balzo nelle regioni settentrionali e un lieve aumento in quelle meridionali. Il divario secolare e storico, aggravato dopo l’unificazione, si accentuò negli anni giolittiani attraverso la concentrazione degli investimenti al Nord e il sacrificio del Mezzogiorno alle necessità dell’industrializzazione. Il regime protezionista instaurato dopo il 1887 diede al sistema industriale del Nord la base necessaria per uno sviluppo rapido e duraturo; le attività produttive del Mezzogiorno, in grave e crescente ritardo rispetto a quelle del Nord, non furono in condizione di avvantaggiarsi di questa protezione; anzi la situazione del Mezzogiorno fu aggravata dal peggioramento del rapporto di scambio tra prodotti agricoli e prodotti industriali provocato dall’innalzamento del livello di protezione della produzione industriale. Per di più il Mezzogiorno fu gravemente danneggiato dalle contromisure prese dai paesi che ritennero indebitamente colpite le proprie industrie esportatrici dall’indirizzo protezionistico italiano; e poiché l’Italia era allora un paese esportatore soprattutto di prodotti agricoli, il Mezzogiorno ebbe molto a soffrire di queste ritorsioni (si ricordino le crisi vinicole) senza che un contemporaneo sviluppo industriale potesse offrire un compenso anche parziale. «All’inizio del nuovo secolo – ha scritto Pasquale Saraceno – elementi nuovi di grande rilievo per lo sviluppo economico nazionale si risolsero in cause addizionali di depressione per l’economia meridionale. Importante tra essi l’avvento dell’energia elettrica; la produzione elettrica si sviluppa [...] a partire dal nuovo secolo e rapidamente si afferma in Italia sotto forma di sfruttamento di risorse idriche e non termiche: ora è nelle Alpi che il nostro Paese trova la maggior parte delle risorse idriche utilizzabili per la produzione della nuova forma di energia,
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della totale potenza idrica disponibile in Italia, il 10% soltanto si trova nelle regioni meridionali, ove risiede il 40% della popolazione; l’eccentricità rispetto al Sud della nuova fonte di energia è indicata dal fatto che del restante 90% di potenza idrica non disponibile nel Sud, due terzi è localizzata nel massiccio alpino. Da notare inoltre che l’energia ottenibile al Centro-Nord è molto più economica, tanto che può essere offerta a prezzi che, fino al termine dell’ultima guerra, erano pari alla metà e anche a un terzo dei prezzi correnti nel Sud». La politica economica giolittiana fu dominata dalla scelta settentrionalista, una scelta che puntava, come ha osservato Cafagna, «sul settore più dinamico e più carico di potenzialità di progresso che aveva il paese, e pertanto tendeva a permettere a quella parte d’Italia che era nella condizione di farlo di approfittare, dispiegando la sua attività, della favorevole tendenza del ciclo economico internazionale». Gli interventi statali a favore del Mezzogiorno evitarono di affrontare il problema in modo organico, essendo invece concentrati su soluzioni locali e circoscritte – le cosiddette «leggi speciali» – che però non riuscirono a determinare un progressivo sviluppo delle regioni favorite in modo autonomo e duraturo. Le conseguenze di questa arretratezza economica e sociale erano altrettanto gravi sul piano politico, perché favorivano una generale stagnazione della vitalità politica nel Mezzogiorno (a parte la formazione di gruppi d’opinione capaci di costituire un centro di coagulo e di pressione delle forze meridionali più avanzate), con la quasi totale assenza di lotta politica attraverso partiti organizzati, l’estrema frammentazione delle organizzazioni sindacali a carattere locale e di categoria, il predominio di una borghesia agraria reazionaria incapace di rinnovarsi, passivamente soggetta alla politica trasformista di Giolitti. Le menti più illuminate del meridionalismo – da Fortunato a De Viti De Marco, a Nitti, a Salvemini – concentrarono, per vie diverse e non sempre concordi, la loro battaglia nel denunciare il sacrificio tributario del Mezzogiorno verso il Nord, l’inerzia della grande borghesia agraria, l’incultura e l’arroganza della piccola borghesia. La politica protezionista e la dichiarata neutralità dello Stato, secondo la politica giolittiana, verso la dinamica delle forze sociali, costituivano i due bersagli della polemica antimeridionalista che se da parte di uomini come De Viti De Marco
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criticava aspramente il protezionismo, da parte di uomini più consapevoli delle esigenze del moderno sviluppo capitalistico industriale, come Nitti, prospettava una politica di interventismo statale, che avrebbe dovuto coinvolgere il Mezzogiorno nel processo di trasformazione dell’economia italiana, non come mercato di consumo o banca di credito, ma come partecipante attivo. Come ha scritto Rosario Villari, la “questione meridionale” era vista da Nitti «come parte integrante di un problema unico, nazionale, di sviluppo economico, di una generale esigenza di stimolare e potenziare, in tutti i modi, le forze produttive: sgravi fiscali, intervento dello Stato, lotte sindacali, rinnovamento della cultura in senso tecnico e positivo (ci fu sempre, in Nitti, una costante ‘antidannunziana’), dovevano mirare a questo generale potenziamento che, tolto l’ostacolo del meccanismo fiscale favorevole al Nord, si sarebbe infallibilmente esteso anche nel Mezzogiorno». La sostanziale permanenza dell’arretratezza economica e sociale nelle regioni meridionali si riscontrava anche nella mancanza di una, sia pur embrionale, organizzazione moderna del proletariato, come avveniva (a parte alcune eccezioni locali, per esempio in Puglia) nelle regioni agricole della Valle Padana e nelle città industriali. I primi anni del secolo furono un periodo di intensa mobilità politica e sociale, ma il Mezzogiorno rimase ai margini di questo processo, e la lotta di classe non riuscì a superare lo stadio iniziale della rivolta rabbiosa, che sfociava spesso in eccidi sanguinosi. Sfogo alla miseria delle classi proletarie del Sud fu l’esodo verso l’estero, verso i paesi europei ma, in misura crescente, verso i paesi d’oltre oceano. L’emigrazione costituì, durante gli anni giolittiani, una valvola di sicurezza che, se da un lato favoriva, determinando una riduzione della disponibilità di manodopera, un certo miglioramento salariale e una più accorta politica da parte delle classi padronali, da un altro lato costituiva, attraverso le rimesse degli emigrati, un canale attraverso il quale affluiva una cospicua risorsa finanziaria. L’ampiezza del fenomeno migratorio risulta dai dati che si hanno per il periodo 1896-1913: da una media annua di 300.000 espatri per gli anni 1896-1900, a una media di 500.000 per il periodo 1901-1904 e di oltre 700.000 nel triennio 1905-1907 fino a toccare la punta massima di 872.598 espatri nel 1913, cioè nel periodo successivo alla crisi economica del 1907.
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3. Nascita e sviluppo delle organizzazioni sindacali L’ondata di repressioni, alla fine del secolo, aveva tentato di sommergere le prime organizzazioni di classe del proletariato, ma la nuova politica liberale, attuata da Giolitti nei confronti dei lavoratori e delle loro organizzazioni, fece rifiorire il movimento sindacale e favorì la diffusione, l’evoluzione e lo sviluppo delle organizzazioni di classe verso forme più efficienti di aggregazione sociale e di lotta rivendicativa. Le grandi agitazioni del 1900-1901 diedero nuovo vigore all’opera delle Camere del lavoro e delle Federazioni di mestiere, che furono i veri artefici e protagonisti della maggior parte degli scioperi in questi anni, cioè della più estesa e forte mobilitazione operaia e contadina nella storia dell’Italia unita fino a quel momento. Questa mobilitazione coinvolse masse di operai, artigiani, piccoli borghesi, braccianti agricoli, mezzadri, fittavoli, in un vasto e complesso movimento popolare, che non ebbe carattere unitario e omogeneo per la sua composita origine sociale, per le profonde differenze nella struttura sociale ed economica del paese. In uno studio sulla lotta di classe in Italia all’inizio del secolo, Giuliano Procacci ha così delineato i caratteri peculiari del movimento proletario: «È veramente questo movimento popolare degli inizi del secolo un gran fiume nel cui alveo confluiscono rivendicazioni e aspirazioni diverse, la protesta dei ceti popolari plebei e sottoproletari, il rancore di certi settori della borghesia urbana, specie meridionale, la ‘resistenza’ dei ceti più spiccatamente proletari delle città e delle campagne. Questa diversità di livelli, questo intreccio di coscienza democratica, di rivendicazioni classiste e socialiste e, anche, di generico ribellismo costituiscono [...] la forza e al tempo stesso la debolezza del movimento operaio e socialista italiano». Per questi motivi, lo sviluppo e l’evoluzione del movimento sindacale in Italia ebbe caratteri peculiari rispetto ai movimenti sindacali di altri paesi europei, sia per la diversità delle sue forme organizzative – Federazioni di mestiere e Camere del lavoro – sia per la sua finalità, di carattere rivendicativo ma anche più genericamente politico; sia per i suoi rapporti con il partito socialista, che non riuscì a elaborare una ideologia unitaria per il movimento proletario, del quale rifletteva, nel suo interno e con la varietà delle tendenze politiche, la diversa composizione sociale operaia, contadina e piccolo-bor-
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ghese. Inoltre, il movimento sindacale riuscì solo lentamente a conquistare una certa unità di azione, superando il carattere localistico e settoriale che distingueva, da un lato, le Camere del lavoro e, dall’altro, le Federazioni di mestiere. Le Camere del lavoro, che erano state colpite e decimate dalle misure repressive del 1898 come strumenti di lotta sovversiva, nel nuovo clima liberale si svilupparono rapidamente, modificando in parte il loro carattere originario. Nate nell’ultimo decennio del secolo scorso, queste organizzazioni, prevalentemente cittadine, avevano una funzione solidaristica e assistenziale verso i lavoratori in genere, senza una specifica distinzione classista, con lo scopo di svolgere opera di mediazione e di arbitrato nei conflitti di lavoro ma senza dedicarsi all’attività rivendicativa mediante l’organizzazione di scioperi; inoltre si dichiaravano esplicitamente apolitiche. Ispirate a un generico democraticismo, le Camere del lavoro ebbero un ruolo più attivo durante il periodo delle grandi agitazioni e, dopo il 1901, divennero centri di organizzazione e di lotta delle leghe di resistenza cittadine, organizzarono gli scioperi e mobilitarono masse eterogenee per obiettivi che andavano al di là delle rivendicazioni economiche. Per la scarsa omogeneità sociale e per la presenza, nei gruppi dirigenti, di socialisti e anarchici, le Camere del lavoro acquisirono carattere politico rivoluzionario, facendosi promotrici di scioperi generali cittadini le cui finalità superavano i limiti sindacali, conservando tuttavia caratteristiche più «popolari» che classiste. «Una delle caratteristiche della nostra più recente organizzazione operaia – scrisse Sonnino sulla «Nuova Antologia» il 16 settembre 1901 – cui assistiamo in Italia è quella della costituzione delle associazioni su base territoriale piuttosto che di specializzazione delle industrie. La Camera del lavoro rappresenta per lo più tutti i mestieri di una località, dividendosi poi essa in sezioni pei rami distinti dell’industria e la Camera ha un comitato direttivo proprio. Tra luogo e luogo si tengono a contatto e si federano le diverse Camere del lavoro. All’estero, invece, a cominciare dall’Inghilterra, predomina la forma di organizzazione a sé di ogni singolo ramo di industria, quasi come corporazioni di mestiere. Così le Trade Unions, così le Gewerkverein di vario ordine a tipo operaio [...]. La formazione italiana a base territoriale e collettiva ha un carattere essenzialmente più politico dell’altra; appunto perché riunisce in
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ogni singola località tante intonazioni e tanti interessi diversi, ha più facile tendenza a deviare nella politica generale o locale, ad essere diretta da uomini di temperamento e inclinazioni politiche». Vi fu tuttavia una tendenza delle Camere del lavoro a stringere legami al di sopra della propria cerchia municipale e locale, tendenza presente fin dalle origini, allorché, nel primo congresso nazionale delle Camere del lavoro a Parma nel 1893, fu istituita la Federazione italiana delle CdL. Diversa l’origine, la composizione sociale e gli obiettivi delle Federazioni di mestiere, che costituivano un tipo di organizzazione sindacale più moderno rispetto alle Camere del lavoro, come prodotto specifico dello sviluppo e della specializzazione dell’economia e soprattutto dell’industria. La più antica ed efficiente federazione era quella dei lavoratori del libro, nata nel 1893, ma negli anni successivi esse si diffusero fino a comprendere 25 Federazioni di mestiere con oltre 200.000 iscritti, poco meno degli iscritti alle Camere del lavoro che, nel 1902, erano 270.000. Le Federazioni avevano una spiccata origine classista e le loro finalità erano di natura strettamente sindacale. Esse organizzavano i lavoratori per categorie, guidavano le rivendicazioni, organizzavano gli scioperi. La prevalenza dei socialisti riformisti nella direzione di molte Federazioni e la presenza di una base di massa formata da lavoratori specializzati e qualificati, orientavano l’azione di queste organizzazioni, poco inclini alle lotte politiche rivoluzionarie di carattere generale, verso obiettivi economici determinati e talvolta corporativi. Camere del lavoro e Federazioni di mestiere svolsero un ruolo molto importante nell’organizzazione e nella guida delle agitazioni sindacali negli anni 1900-1902, dopo una prima fase di agitazioni spontanee. Dopo il 1902, di fronte alla riacquistata capacità di reazione delle classi padronali, l’esigenza di coordinare l’azione rivendicativa e difensiva delle classi lavoratrici pose le premesse per l’unificazione del movimento sindacale. Fu pertanto istituito, nel 1902, un segretariato di resistenza, dopo un convegno tenuto a Milano da parte dei rappresentanti delle Federazioni di mestiere e della Federazione delle Camere del lavoro. Venne istituita una commissione di 8 membri, eletti a metà fra le due organizzazioni, con due segretari, Rinaldo Rigola per le Federazioni di mestiere e Angiolo Cabrini per la Federazione delle CdL. Ma il segretariato, che
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non aveva una vera funzione dirigente, non riuscì a superare i contrasti interni al mondo sindacale e al movimento socialista, l’uno e l’altro travagliati da contrasti ideologici fra le correnti riformiste e quelle rivoluzionarie, costantemente divise dagli atteggiamenti tattici e strategici verso la società e il sistema politico borghese. Ciò indebolì l’azione del movimento proletario, che negli anni fra il 1903 e il 1906 vide diminuire le proprie possibilità di lotta mentre le classi padronali mostravano una rinnovata capacità di resistenza e di reazione. Di fronte a una situazione che rischiava di compromettere il futuro del movimento sindacale, privo di unità interna, il segretario della Federazione dei metallurgici, Ernesto Verzi, propose agli inizi del 1906 di organizzare le Federazioni di mestiere in una federazione nazionale unitaria, sul modello della Confédération Générale du Travail francese. Successivamente, in un convegno tenuto a Milano il 4 marzo, i delegati di molte Federazioni accolsero la proposta di Verzi e fu nominato un comitato per preparare il primo congresso nazionale della nuova federazione unitaria, alla quale aderirono anche i componenti del segretariato di resistenza. Il congresso, riunito a Milano dal 29 settembre al 1° ottobre, segnò l’atto di nascita della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL). Erano presenti circa 500 delegati di 700 leghe, riformisti, sindacalisti rivoluzionari e repubblicani. La linea riformista prevalse nettamente sugli orientamenti del sindacalismo rivoluzionario, attestando la nuova organizzazione su basi economiche e rivendicative gradualiste. L’intensità della lotta sindacale negli anni dal 1900 al 1906, pur con alcune fasi di minore conflittualità, e l’atteggiamento di mediazione passiva assunto dallo Stato spinsero anche gli industriali a cercare di stabilire un fronte unitario di resistenza, a definire una unità di indirizzi e di comportamento nei confronti dei lavoratori e delle loro organizzazioni. Da questi propositi nacque, nel luglio del 1906, la Lega industriale torinese, di cui fu presidente un industriale francese italianizzato, Luigi Bonnefon-Craponne, titolare a Torino di una casa bancaria, liberale di vedute moderne sui problemi del lavoro e dell’imprenditoria; segretario generale fu Gino Olivetti, industriale dinamico e spregiudicato che operò attivamente per la costituzione di un’associazione generale degli imprenditori. La politica sindacale della Lega, ha scritto Mario Abrate, «appariva ispirata al concetto einaudiano dell’equilibrio ‘otte-
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nuto attraverso discussioni e lotte’, piuttosto che imposto da forze esteriori, equilibrio da raggiungersi col minimo costo, colla minore superficie di attrito. Olivetti, come si opponeva all’idea che il diritto di sciopero fosse assoluto, così negava agli industriali un diritto illimitato a chiudere le fabbriche. Egli pensava che i diritti individuali riconosciuti dalle leggi dello Stato formassero un sistema organico e si limitassero a vicenda, nel senso che nessuno poteva arrogarsi il diritto di tenere una condotta tale da minacciare l’integrità della compagine sociale. Riteneva poi che lo Stato avesse non solo il diritto ma anche il dovere di intervenire con equità ogni qual volta fosse compromessa la sua unità, la sua forza e la sua sicurezza. E ciò bastava per lui a dimostrare la fallacia della tesi, sostenuta volta a volta dagli operai e dagli industriali, che lo Stato dovesse e potesse mantenersi estraneo e neutrale nei conflitti sociali. E come lo sciopero rappresentava qualcosa di più di una semplice astensione dal lavoro, così la serrata doveva essere una risposta ‘eccezionale’ a fatti di estrema gravità». Secondo l’ideologia che ispirava la Lega, gli industriali accettavano la realtà della lotta di classe e riconoscevano, per sé e per i lavoratori, la legittimità dell’organizzazione. I loro obiettivi, però, nei confronti della realtà sociale di quegli anni e in polemica con la neutralità della politica giolittiana, volgevano sempre più verso una razionalizzazione dei rapporti fra capitale e lavoro, una definizione organica della legislazione sociale e una precisa determinazione dei rapporti fra organizzazioni sindacali e loro aderenti, tale da garantire l’osservanza degli accordi sottoscritti con le organizzazioni industriali. Su queste basi, la Lega si sviluppò rapidamente: nel 1907 raccoglieva 269 aziende con 36.124 dipendenti. Un anno dopo, nel marzo 1908, venne costituita la Federazione industriale piemontese, di cui fu presidente Bonnefon-Craponne, che nel 1910 organizzava 549 aziende, 626 stabilimenti e 81.821 operai. Nel maggio dello stesso anno, in seguito al collegamento con analoghe organizzazioni liguri e lombarde, nacque la Confederazione italiana dell’industria, che associò 1.917 aziende con oltre 180.000 operai. Lo sviluppo delle organizzazioni di lavoratori fu notevole anche nelle campagne, sebbene fosse limitato in prevalenza alle regioni settentrionali. Nel 1901 nasceva a Mantova la prima lega di braccianti, seguita da altre organizzazioni simili in diverse pro-
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vince della Valle Padana. In Romagna, accanto alle leghe dei braccianti, sorsero le fratellanze contadine dei mezzadri, dirette – le une e le altre – in maggioranza dai repubblicani e dipendenti dalle Camere del lavoro delle diverse province. Leghe mezzadrili sorsero anche in talune zone dell’Italia centrale, mentre nel Sud il movimento sindacale rimase circoscritto alla Puglia e alla Sicilia, dove furono create combattive leghe di braccianti che diedero vita a forti agitazioni, spesso represse sanguinosamente. Alla fine del 1901, in un convegno tenuto a Bologna, nacque la Federazione nazionale dei lavoratori della terra. Questa federazione, nel suo programma, si proponeva la lotta di classe e la difesa degli interessi dei contadini e, come finalità ultima, la collettivizzazione della terra, sostenendo la necessità – come si legge in un ordine del giorno approvato dal congresso – «che l’organizzazione economica del proletariato sia animata da schietto spirito socialista». La Federazione nazionale dei lavoratori della terra ebbe un’espansione rapida ma effimera: nel 1902, dopo le lotte bracciantili, aveva raggiunto i 270.000 iscritti; ma in seguito alle prime sconfitte del movimento contadino, con la scomparsa di numerose leghe, la federazione entrò in crisi e fu riorganizzata soltanto nel 1906. Attraverso le lotte sindacali, e con la nascita di queste organizzazioni, prendeva corpo una nuova realtà sociale, nata sotto l’impulso della industrializzazione. I progressi economici furono notevoli, nonostante i gravi limiti dello sviluppo industriale. Il reddito nazionale, che era stato di 8.782 milioni di lire nel 1871, salì a 12.502 milioni nel 1901, a 18.313 nel 1911, a 19.827 nel 1913. Il reddito pro capite aumentò, nel primo decennio del nuovo secolo, del 36 per cento. Anche i salari aumentarono considerevolmente, come è dimostrato dall’aumento dei consumi popolari: la retribuzione media degli operai, che era di 2,48 lire nel 1901, salì nel 1913 a 3,54 lire, con una riduzione delle ore di lavoro giornaliere. L’indice dei salari reali salì da 79,4 nel 1901 a 100 nel 1913. Un intenso processo di mobilitazione sociale seguiva agli effetti dell’industrializzazione, spingendo nuove masse sulla ribalta della vita politica. La presenza di queste masse, fino ad allora ignorata o respinta, poneva gravi problemi sia al governo che alle forze organizzate direttamente collegate con la realtà sociale e civile del paese, come i socialisti e i cattolici. Mentre lo Stato risorgimentale abbatteva le barriere oligarchiche e apriva, con il corso
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giolittiano, a nuove forze politiche, la società civile era travagliata da un profondo processo di mutamento e di crescita, che trovò immediata espressione nelle due forze che la politica autoritaria aveva cercato di respingere al di fuori dello Stato: il movimento socialista e il movimento cattolico.
IV RIFORMISTI E RIVOLUZIONARI NEL MOVIMENTO SOCIALISTA
Il partito socialista era stato uno dei protagonisti della battaglia ostruzionista contro i tentativi reazionari di fine secolo. Esso aveva lottato, accanto alla sinistra liberale, ai radicali e ai repubblicani, per la difesa di quelle libertà «borghesi» che erano considerate un passaggio obbligato per l’avvento del socialismo. Attraverso le battaglie parlamentari, il partito socialista si era, per così dire, convertito alle istituzioni, collaborando per la salvaguardia della legalità costituzionale. I socialisti non consideravano più lo Stato liberale come una costruzione nemica da abbattere, ma piuttosto come uno strumento utile e, per il momento storico, indispensabile all’evoluzione della società; una tappa necessaria verso la modernizzazione del paese, con la piena attuazione di un corretto e funzionante sistema liberale.
1. La vittoria del «programma minimo» Il gruppo parlamentare socialista, dopo la crisi di fine secolo, aveva scelto la via della democrazia parlamentare, cercando di definire la sua posizione verso le altre forze democratiche e lo Stato borghese. La svolta politica socialista era iniziata dopo le repressioni del 1898 e fu discussa nel congresso di Roma, tenuto dall’8 all’11 settembre 1900. Era il primo congresso del partito dopo le leggi repressive e le persecuzioni crispine. Superata la minaccia di una nuova reazione, il congresso si svolse in un clima di generale soddisfazione per la recuperata libertà di azione. Il problema
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principale da discutere era l’alleanza elettorale fra il partito socialista e gli altri partiti democratici, dopo i successi che l’unità elettorale aveva ottenuto nelle elezioni amministrative di Milano nel 1899 e in quelle politiche del 1900. Prevalse la linea transigente, di collaborazione a livello collegiale, proposta dai riformisti. Più importante fu invece, sul piano politico, il successo dell’indirizzo riformista di lotta per l’attuazione di un programma minimo, come era stato formulato nel documento presentato da Turati e da Treves. Il documento, approvato con un solo voto contrario, era in realtà l’espressione di un programma democratico più che socialista e mirava alla realizzazione di alcune riforme fondamentali che non sarebbero state fini a se stesse, ma mezzi per conseguire l’attuazione del socialismo attraverso una evoluzione graduale delle strutture economiche e politiche. Fra le richieste più importanti vi erano: il suffragio universale, la proporzionale, l’abolizione del Senato, la libertà per le organizzazioni sindacali, l’abbandono della politica coloniale, il decentramento politico e amministrativo, la municipalizzazione dei servizi pubblici, la riduzione a 36 ore della settimana lavorativa, la tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli, un’ampia riforma tributaria, il miglioramento del sistema assistenziale e previdenziale, l’istruzione elementare obbligatoria e laica, l’autonomia delle università ecc. Su queste richieste si realizzò la quasi unanimità dei consensi, al di sopra delle divergenze ideologiche esistenti fra riformisti e rivoluzionari, senza un vero e proprio dibattito, anche in virtù dell’atmosfera psicologica che dominava il congresso: «un congresso – come lo ha definito Luigi Cortesi – di reduci dal carcere, dall’esilio, dalle persecuzioni che hanno colpito, più o meno apertamente, tutti i dirigenti nazionali e locali; ed è perciò un congresso senza grandi contrasti formali [...] L’avvento del riformismo matura insomma trionfalmente, senza che si pongano alternative consistenti di orientamento politico e di direzione pratica del partito». Turati, commentando i lavori e l’esito del congresso su «Critica sociale» del 1° ottobre, riconosceva che era prevalso un tono «di sano spirito positivista, potremmo dire sperimentalista, ed è in ciò il segno di una grande sincerità e maturità raggiunta dal nostro partito». La mancanza di aspri contrasti e la definizione di alcuni obiettivi di lotta immediati esprimevano un sostanziale accordo nel par-
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tito sulla necessità di favorire lo sviluppo democratico del paese, come ulteriore passo sulla strada verso il socialismo. L’elaborazione e il successo del programma minimo, che aveva molte richieste in comune con gli altri gruppi democratici, poneva di conseguenza un’altra importante questione: l’atteggiamento del gruppo parlamentare nei confronti del governo borghese. L’approvazione del programma minimo costituiva, indirettamente, un assenso all’opportunità di stabilire un rapporto diverso, non intransigentemente ostile, nei confronti del governo, nel caso che questo si fosse presentato con un programma di riforme democratiche. La questione diventò di attualità con il governo Zanardelli. Il ritorno di Giolitti («un uomo che ci ha capito», come scrisse di lui Claudio Treves nel 1899) fu considerato dai socialisti un fatto positivo e si ritenne opportuno sostenere il nuovo governo per impedire la ripresa delle forze conservatrici, dal momento che Zanardelli non aveva una sicura maggioranza alla Camera. Questo proposito contrastava con la tradizione, risalente al congresso di Reggio Emilia, di evitare al partito socialista collusioni con il governo borghese che, per quanto democratico, era sempre espressione della classe dominante. Il caso non era solo italiano ed era stato affrontato dall’Internazionale socialista nel congresso parigino del 1900. La questione era stata sollevata dopo l’ingresso del socialista riformista Millerand (donde il termine millerandismo), a titolo personale, nel governo radicale di Waldeck-Rousseau, costituito in Francia nel 1899. L’italiano Ferri sostenne, con il socialista rivoluzionario francese Guesde, il divieto assoluto di partecipazione dei socialisti a governi borghesi, contro la mozione socialdemocratica di Karl Kautsky, che riteneva ammissibile – in via eccezionale e transitoria – la partecipazione a titolo personale. La mozione intransigente fu respinta. Nel caso italiano, si trattava soltanto di “fiducia” e non di “collaborazione” con un governo che mostrava di voler favorire l’evoluzione democratica del paese. La direzione e il gruppo socialista parlamentare stabilirono pertanto, anche sulla base della risoluzione dell’Internazionale, di dare «caso per caso» un voto di «approvazione all’opera e alle riforme del ministero» senza venir meno alla coerenza con i principi socialisti e alla difesa degli interessi della classe operaia. In realtà, il gruppo parlamentare votò più volte a favore del governo, trasformando il voto «caso per caso» in un voto di fiducia. Ciò
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provocò reazioni all’interno del partito, con la formazione di una corrente intransigente antiministerialista, cui aderirono uomini come Gaetano Salvemini e Arturo Labriola. La fiducia al governo, espressa nei voti favorevoli del gruppo parlamentare, era dovuta soprattutto a Filippo Turati, capo indiscusso della corrente riformista transigente, teorico di un atteggiamento elastico verso il governo e propenso a una maggiore partecipazione dei socialisti nell’azione parlamentare, senza pregiudizi ideologici. Nel suo discorso alla Camera, il 24 giugno 1901, Giolitti aveva dichiarato di voler abbandonare i metodi repressivi, di riconoscere la libertà di sciopero e di associazione, di voler lasciare lo Stato neutrale nei conflitti di lavoro senza tentare di «sbarrare la strada ad un movimento che nessuna forza umana riuscirà ad arrestare». L’uomo che aveva “capito” i socialisti, doveva a sua volta essere “capito” e sostenuto nel suo esperimento democratico liberale. Turati raccolse, dunque, l’appello giolittiano e, in un certo senso, diede la sua risposta in un saggio importante, pubblicato il 16 luglio 1901 su «Critica sociale», dal titolo Il partito socialista e l’attuale momento politico, quasi un manifesto teorico del riformismo turatiano, anche se Turati e il riformismo avevano, in genere, poco di dottrinario.
2. Il riformismo di Turati Il saggio era una appassionata difesa della politica parlamentare socialista. Turati faceva questa difesa nell’ambito di una più vasta riflessione sui principi, i mezzi e i fini dell’azione riformista in riferimento alla situazione politica e sociale dell’Italia. Secondo il leader socialista, riformismo non significava affatto abbandono dei principi fondamentali del marxismo, cioè la lotta di classe e il collettivismo, ma significava riconoscere un valore importante anche alla lotta per le riforme, secondo una concezione evoluzionista e gradualista del socialismo. Il riformismo, senza rinunciare ai fini del socialismo, rifiutava l’idea di una trasformazione sociale ottenuta solo con interventi dall’alto o con spontanee e violente azioni dal basso. La trasformazione della società presupponeva, secondo Turati, un lungo lavoro, senza «mai ricorrere a ricette preordinate», senza colpi di testa ma «regolandosi a seconda del-
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le mutabili contingenze di fatto». Il progresso delle masse proletarie «non avviene per rivelazione mistica o per trasfusione precettuale; bensì coll’esercizio, che crea le forze, e colle riforme, che o rendono l’esercizio possibile, o ne fissano i risultati e le conquiste in istituti legali». Il partito, nell’azione quotidiana, doveva pertanto basarsi sia sull’organizzazione economica del proletariato sia sull’attività parlamentare e legislativa, in modo da costituire «una crescente pressione degli interessi proletari sulla politica generale dello Stato». Turati intendeva eliminare qualsiasi dubbio sull’eventualità che l’azione parlamentare potesse condurre il partito ad abbandonare l’attività sociale e organizzativa: senza l’organizzazione economica del proletariato non sarebbe stata possibile neppure l’azione politica parlamentare, ma solo quest’ultima avrebbe permesso all’azione economica di conseguire duraturi risultati politici. Conservare le garanzie liberali costituiva per Turati l’obiettivo principale del partito in quel determinato momento storico, perché lo sviluppo futuro della organizzazione sociale e politica del proletariato era condizionato dalla realizzazione di un vero regime democratico. In questa direzione, secondo Turati, muoveva il socialismo italiano, fin dalle sue origini. Turati distingueva tre periodi nell’evoluzione del socialismo italiano: il primo periodo era stato di lotta per l’affermazione del partito socialista e per la sua distinzione da altri movimenti di sinistra estrema, anarchici e operaisti, e si era concluso con la creazione del partito nel congresso di Genova e in quello di Reggio Emilia; il secondo periodo era stato dominato dall’azione difensiva per l’esistenza stessa del partito contro la repressione crispina, e si era concluso con la vittoria dell’ostruzionismo. Ora, il partito stava vivendo il terzo periodo, che Turati definiva «del consolidamento della libertà e del rispetto alla legge», condizione inevitabile e necessaria per passare all’ultimo e definitivo periodo, il periodo della conquista. Al momento, la questione più importante per il partito era di fissare i principi e i metodi da seguire nella lotta per il consolidamento delle libertà politiche fondamentali. Su questo problema, si apriva la discussione sui rapporti del partito con la sinistra liberale e i partiti democratici. Nella battaglia contro la reazione il partito aveva combattuto accanto alla sinistra liberale, ai radicali, ai repubblicani. Ciò di-
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mostrava che la politica reazionaria non era condivisa da tutta la borghesia italiana. Di conseguenza, sarebbe stato un grave errore politico, per il partito, sottovalutare la realtà che «le classi possidenti si distinguono nella vita quotidiana, per un cumulo di contrasti più o meno latenti». Il partito doveva abbandonare la visione semplicistica della borghesia come «un’unica massa reazionaria». Riconoscere la realtà composita e contrastante della borghesia era, indubbiamente, un grande passo avanti nell’elaborazione della strategia politica del socialismo, che doveva insegnare al proletariato «la tattica di Orazio romano contro i Curiazi, l’arte cioè di disgiungere il nemico e incalzarne separatamente le varie frazioni; più ancora, di allearsi talvolta con una o parecchie di esse contro l’altra o le altre, per determinate conquiste o determinate difese». Il partito doveva prendere atto che si era stabilita un’alleanza di fatto contro la reazione fra i partiti democratici e la sinistra costituzionale, espressioni di una borghesia moderna e liberale, e il partito socialista. La vittoria conseguita autorizzava a riflettere sulla possibilità di trasformare quest’alleanza contingente in un fatto permanente nel «secondo periodo», in modo da rendere inevitabile e irreversibile, all’interno del fronte avversario, la separazione fra gruppi reazionari e gruppi progressisti. Seguendo questa strategia, il partito non avrebbe corso alcun pericolo di parlamentarizzarsi o di perdere la sua identità dissolvendosi in un indistinto fronte democratico. Il partito, affermava Turati, non correva questi pericoli perché la sua costituzione era più robusta degli altri partiti o gruppi democratici e liberali. Le recenti battaglie avevano dimostrato che esso era la forza prevalente della sinistra italiana, l’unica dotata di una solida organizzazione, di uno stretto collegamento con le masse proletarie e un programma chiaro e definito, ispirato da una ideologia sistematica e complessiva che affondava le radici nella realtà storica ed esprimeva le esigenze e le aspirazioni delle classi popolari. Il materialismo filosofico e il fine collettivista distinguevano nettamente il partito socialista dai partiti borghesi più democratici, dai sovversivi anarchici e anche dai riformisti revisionisti, che consideravano il programma minimo fine a se stesso. Poste queste premesse, le conclusioni di Turati arrivavano a una esplicita dichiarazione sulla necessità di sostenere, nell’attuale situazione politica, ancora sotto la minaccia di una ripresa rea-
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zionaria, il nuovo esperimento liberale promosso da «quel partito, che era stato nostro alleato passivo, ma decisivo, nella battaglia ostruzionista». L’avvento di Giolitti, con il programma di difesa delle libertà per il movimento proletario, era considerato da Turati una vera rivoluzione parlamentare, più profonda e importante di quella del 1876. Mai nel passato, affermava Turati, si era tentato in Italia un simile esperimento di politica liberale. Per questo, egli non voleva isolare il partito di fronte a questa politica nuova, diversa dalle tradizionali operazioni trasformiste: un fatto nuovo, determinato anche dalla pressione delle masse proletarie, che bisognava assecondare e incoraggiare, senza dimenticare che, come tutti gli esperimenti, esso era incerto e precario. Il partito socialista poteva però influire su di esso in senso positivo, con l’approfondire il solco fra borghesia reazionaria e borghesia progressista, schierandosi a favore di quest’ultima. Gli eccidi che avvenivano, sotto il nuovo governo negli scontri fra manifestanti e forza pubblica, non facevano mutare idea a Turati, perché li considerava sciagurati episodi occasionali e non il risultato di una preordinata politica repressiva. Il partito, in conclusione, doveva operare con senso della misura, con realismo, con moderazione per stimolare i liberali progressisti a persistere nella strada intrapresa e, nello stesso tempo, per impedire anche il ritorno a una prassi politica sovversiva di tipo anarcoide, pericolosa per il futuro del proletariato, che secondo Turati si stava infiltrando fra le masse socialiste con le caratteristiche consuete di simili fenomeni: ostilità per le riforme, semplicismo e rozzezza di idee, ossessione di prossime catastrofi, culto della violenza, spontaneismo irrazionalistico. Il manifesto turatiano doveva essere, nella sostanza, una legittimazione del ministerialismo dissipando, con un’analisi politica intessuta di considerazioni realistiche, gli equivoci e le polemiche che le sue tesi potevano suscitare. Ma era anche un’esatta e intelligente diagnosi della situazione politica nella quale era maturata la svolta liberale di Giolitti. Turati dava un’acuta valutazione del ruolo svolto dalla borghesia moderna e industriale nel determinare la sconfitta delle forze reazionarie, sostenute dalla parte più arretrata della borghesia agraria latifondista. Fin dall’epoca crispina egli era convinto che fosse necessario favorire il successo di questa nuova borghesia, per la formazione di una moderna società ca-
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pitalistica, premessa necessaria per l’avvento del socialismo. Questa valutazione accostava Turati a Giolitti e alla sua scelta in favore della borghesia industriale, prevalentemente settentrionale. Turati considerava il liberalismo giolittiano l’unica via possibile per lo sviluppo industriale dell’Italia in quel periodo, e ne riconosceva il carattere progressista. L’incontro fra riformismo e giolittismo avvenne su un campo neutro, per così dire, cioè distante egualmente dall’adesione allo Stato liberale e da una radicale opposizione ad esso. Riducendo le funzioni dello Stato all’amministrazione e il parlamento a una assemblea di uomini pratici, Giolitti rendeva la sua prassi politica accettabile anche dall’opposizione – se l’opposizione ammainava la bandiera dell’intransigenza rivoluzionaria. Nel campo neutro, gli incontri potevano anche non essere occasionali, dal momento che fra il liberalismo democratico di Giolitti e il riformismo di Turati veniva di fatto a stabilirsi una concordanza oggettiva nella scelta a favore della parte più avanzata della borghesia: ma da questa posizione derivarono, di conseguenza, sia l’abbandono di una politica meridionalistica da parte dei socialisti riformisti, sia la loro incapacità di costituire un’alternativa al giolittismo, nel momento in cui questo entrò in crisi come sistema di potere moderato. Per quanto chiara e coerente, la diagnosi turatiana era troppo ottimista nella valutazione dell’esperimento giolittiano e delle sue capacità riformatrici. E anche la definizione della politica riformista era priva di una vera e propria riflessione sulle questioni sollevate. Tuttavia, essa proponeva nel complesso una prospettiva realistica dei rapporti fra partito socialista e governo liberale, escludendo fra l’altro qualsiasi tendenza di tipo revisionista. Turati non intendeva affatto integrare il partito nel sistema borghese ma collocarlo all’avanguardia del processo di trasformazione della società, in modo da renderlo preparato per il momento dell’azione risolutiva. La soppressione del sistema capitalista, al di là delle considerazioni sulla necessità della sua piena attuazione, per l’evoluzione e lo sviluppo dello stesso proletariato, restava il fine ultimo e indiscutibile del partito. Riformismo, dunque, non revisionista alla maniera di Bernstein ma, secondo la formula adottata al congresso di Imola nel 1902, «riformista perché rivoluzionario e rivoluzionario perché riformista».
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3. Gli intransigenti contro il ministerialismo e il riformismo Le tesi di Turati incontrarono forti opposizioni nel partito, da quella di Enrico Ferri, verbosa anche se suggestiva, a quella dei sindacalisti rivoluzionari, come Arturo Labriola: un’opposizione, quest’ultima, più complessa ideologicamente ed espressione di settori nuovi del movimento socialista. Non a caso la risposta ideologica più argomentata al manifesto riformista venne proprio da Labriola, irrequieto censore del «rimbambimento ministerialista», come egli lo definiva. In un opuscolo scritto in polemica con il saggio turatiano, Labriola respinse l’accusa di velleitarismo anarcoide rivolta ai rivoluzionari. Secondo il sindacalista napoletano, le argomentazioni di Turati in difesa del ministerialismo riformista celavano una realtà di fatto: «appoggiare» o «partecipare» a un governo borghese era la stessa cosa, e conduceva alle stesse conseguenze pericolose per l’esistenza e il futuro del partito socialista. Labriola, ovviamente, non negava l’utilità e la necessità di lottare per le riforme, ma il riformismo socialista a suo giudizio doveva realizzarsi contro il governo, contro il sistema borghese e non per mezzo di esso; la pratica del riformismo dall’alto, qual era in sostanza quella che i turatiani si aspettavano da Giolitti, era tipica dei regimi reazionari e avrebbe tolto qualsiasi autonomia all’azione socialista, coinvolgendo il proletariato nella politica di rinvigorimento del regime esistente. Se il fine restava il collettivismo e la socializzazione dei mezzi di produzione, Labriola considerava validi tutti i mezzi e i metodi di lotta utili per accelerare il cammino verso questo fine, dalla lotta per le riforme alla insurrezione rivoluzionaria. Ma era ovvio, per Labriola, che la strada più breve per giungere alle riforme socialiste era quella rivoluzionaria. Appellandosi alla ortodossia marxista, Labriola sosteneva che il riformismo borghese era pericoloso perché portava alla convinzione che il regime esistente avrebbe potuto sanare i mali sociali che erano invece impliciti e inevitabili nelle sue strutture. Concedendo credito a questa ipotesi, si andava contro uno dei principi fondamentali del marxismo. Ora, per Labriola, la collaborazione al governo proposta da Turati, anche sotto forma di voto di fiducia, finiva col cadere nell’equivoco del riformismo borghese, creando una falsa coscienza riguardo alla reale causa della miseria
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proletaria: non era un caso se, durante le agitazioni, si sentiva gridare «Viva il socialismo! Viva Giolitti!». Meno provvista di argomenti era la critica di Enrico Ferri, aspirante alla guida del partito. Contro il riformismo, egli si ergeva a rappresentante e fautore del più assoluto intransigentismo, senza però sostenere l’intransigenza con una salda concezione politica. Per il fascino personale e per la suggestione del suo rivoluzionarismo oratorio, Ferri riuscì tuttavia a conseguire notevoli successi personali nel partito, come l’uomo più rappresentativo della sinistra intransigente, ma anche disponibile, come si vide in seguito, a conversioni di rotta e a mediazioni di potere. Il dibattito sul problema del ministerialismo e dell’intransigenza si svolse in modo molto vivace nel periodo compreso fra il congresso di Roma e il successivo congresso di Imola, nel 1902. La linea riformista, che era prevalsa nel congresso romano, incontrò molte resistenze nel partito. L’opposizione a Turati si mostrò più forte proprio a Milano, dove il riformismo aveva il suo quartier generale. La divergenza fra le due tendenze era notevole e andava crescendo in seguito all’evolversi della situazione politica, anche se fra loro esisteva una notevole sproporzione di forze, come ha scritto Cortesi riassumendo le posizioni contrapposte: «I riformisti fruiscono [...] di una elaborazione già avanzata, di più estesi e più solidi legami con la base, di una certa conoscenza dei minuti e maggiori problemi; hanno ricette e farmaci per le miserie delle quali soffre la società italiana, e nell’attività assistenziale e provvidenziale mettono tutto il loro impegno politico, che trova oggettive condizioni di favore nello sviluppo del capitalismo italiano. Molti sono gli strumenti che essi controllano, dai circoli politici alle Camere del lavoro, dalle cooperative alle Università popolari; la loro stampa è articolata e differenziata: una sessantina di settimanali locali o speciali, ‘Critica sociale’, l’‘Avanti!’, cui s’aggiunge nell’aprile 1902 ‘Il Tempo’, diretto a Milano da Treves. Dall’altra parte sono tronconi di partito e di movimento male connessi tra di loro: protesta meridionale ed esigenze massimalistiche, contadini poveri e intellettuali declassés, sommarie contestazioni del sistema e ambizioni giacobine di duci. Il confronto fra le personalità dei due leader è indicativo. Filippo Turati ha una concezione compatta del processo di affermazione del proletariato attraverso l’attività sindacale e parlamentare, teorizza le peculiarità nazionali e locali della strategia so-
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cialista, mantiene attraverso gli adattamenti tattici una sostanziale fedeltà alle indicazioni politiche dell’ultimo Engels. Enrico Ferri non ha neppure una concezione propria del divenire del socialismo; il suo richiamo ai principi e ai fini è unicamente affidato ad una ostinata opposizione alla via che – una volta abbandonata la prospettiva rivoluzionaria – era l’unica che si apriva al partito e al movimento operaio; la sua personalità morale, dominata da un pretenzioso egocentrismo, è imparagonabile a quella del Turati, che dal lungo e tormentoso iter al socialismo ha ritenuto una coerenza e una profondità di dedizione che nella storia del Psi troveranno riscontro solo nel Serrati». L’opposizione antiriformista fu condotta, all’interno del partito, soprattutto da Costantino Lazzari e Arturo Labriola. Lazzari, esponente dell’intransigenza del vecchio operaismo, era riuscito a far mettere in minoranza nella Federazione socialista milanese il gruppo di Turati, alla fine di luglio del 1901, spingendo Turati ad abbandonare la federazione e a creare, con Treves e la Kuliscioff, una frazione staccata, l’Unione socialista milanese, che ebbe anche un proprio organo, «La lotta di classe», e visse per quasi un anno, nonostante i tentativi di riconciliazione. Il fatto in sé era grave e dimostra quanto fosse profondo il dissidio fra il partito e il gruppo parlamentare sulla questione del ministerialismo e, nel suo complesso, sull’orientamento politico del partito. La posizione turatiana venne indebolita ulteriormente dal mutamento della situazione nel paese, dove si assisteva a una ripresa dell’offensiva padronale e a un atteggiamento del governo che non corrispondeva più alle vedute dei socialisti su alcune sue iniziative, come la militarizzazione dei ferrovieri, decisa da Giolitti di fronte alla minaccia dello sciopero ferroviario, ai principi del 1902. In questa situazione di dissensi e di contrasti interni fra le due tendenze – che nella polemica venivano acquistando caratteri più definiti – si aprì a Imola il VII congresso nazionale, che si svolse dal 6 al 9 settembre. Turati, durante i lavori, tentò di attenuare il dissenso e di minimizzare il significato del contrasto fra le due tendenze, cercando di mettere in luce le contraddizioni dei suoi principali oppositori, Labriola e Ferri. Labriola, invece, attaccò la linea riformista ribadendo che l’esistenza di due tendenze era espressione di contrasti reali, e negando, contemporaneamente, alla tendenza riformista la possibilità di conseguire risultati utili
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per il proletariato. Il riformismo turatiano era una illusione, sosteneva Labriola, perché l’Italia non era nelle condizioni degli altri paesi europei di più avanzato sviluppo capitalistico, dove si erano già create le condizioni per una organica ascesa del movimento proletario e l’elaborazione di una moderna legislazione sociale. Il socialismo italiano era nato in una società ancora priva delle caratteristiche di un moderno paese capitalista e, di conseguenza, era diventato l’organizzazione politica e lo strumento di difesa economica di lavoratori «artigiani, piccoli proprietari o disoccupati». Il compito del movimento socialista non era perciò di affiancare il governo e aspettare concessioni, ma di combatterlo frontalmente come espressione dei parassitismi sociali, che prolificavano al riparo del protezionismo doganale sia nel campo industriale sia in quello, ancora più arretrato, dell’agricoltura. Le riforme concesse dalla classe dominante erano dei diversivi che allontanavano la possibilità di realizzare una società socialista. Il partito non doveva essere complice di questo riformismo conservatore, ma lottare decisamente contro il protezionismo, le spese militari e la pressione tributaria, tre questioni fondamentali che il governo non voleva affrontare. Nel rispondere alle critiche di Labriola, Turati, come si è detto, tentò di sdrammatizzare il dissidio fra le due tendenze e, nello stesso tempo, di staccare Ferri da Labriola. Egli, infatti, mentre considerava Ferri legato alla ortodossia, definì la posizione labriolana «fuori del socialismo». Labriola, sostenne Turati, svalutava il riformismo sociale ma sosteneva la necessità di un riformismo politico, i cui obiettivi risultavano molto più vicini ai liberisti che ai socialisti: «il discorso di Labriola è quello di un liberista piccolo-borghese e repubblicano, che riflette in sé i bisogni e i concetti di una parte dell’ambiente meridionale. Esso sta in antagonismo col concetto socialista». I riferimenti ai liberisti e all’ambiente meridionale, dal quale Labriola avrebbe tratto talune generalizzazioni per definire i compiti del partito socialista nella sua politica nazionale, non erano solo polemici. Essi individuavano bene i motivi delle diversità fondamentali, oggettive e non meramente ideologiche, che separavano i riformisti turatiani dal rivoluzionarismo labriolano: diversità che andavano al di là di una disputa ideologica sulla interpretazione del marxismo, perché nascevano da interpretazioni diver-
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genti dello sviluppo della società italiana in quegli anni di espansione economica, di forte mobilitazione sociale, di organizzazione del proletariato e del mondo industriale e agrario. Nel saggio già citato Turati aveva chiaramente sintetizzato i caratteri della situazione politico-economica del paese, così come si presentava agli inizi del secolo, e aveva affermato che il problema politico italiano «essenzialmente, consta di due termini, piegati a dilemma. Nell’uno è lo sforzo rabbioso, domato appena, non vinto, di tutto il superstite medioevo economico e morale, delle vecchie e nuove baronie che tentò fino a ieri, e ritenta, di traversare il cammino al processo solenne della rivoluzione borghese; ritogliendo, con violenza e con frode, alle classi popolari quelle armi che era stato necessario promettere loro, perché aiutassero al fine dell’unità della patria, e che si sperava dovessero impugnare in eterno a esclusivo servizio dei loro sfruttatori e padroni. Nell’altro è il programma di una borghesia vera e propria, giovane, intraprendente, moderna, la quale, pur curando il proprio interesse di classe – anzi per attendervi meglio – riconosce il diritto di tutte le classi operose, della classe proletaria con esse, alla loro parte di sole. E perciò consacra il diritto di associazione, di coalizione, di propaganda legittima, fino a ieri sancito dalla legge ma violato sempre nei fatti: non cova disegni obliqui di attentati coperti contro il diritto di voto, esplicazione concreta del diritto di cittadinanza nella nazione, e strumento, se ben manovrato, di ogni conquista maggiore; riconosce nel fatto la legittimità dello svolgersi libero e sereno della lotta di classe; non presta all’accidioso proprietario, in competizione economica coi lavoratori, il braccio del soldato per impastare il suo pane, per mietergli le messi; e si propone di temperare, con leggi di eguaglianza e di progressiva tutela, i più stridenti contrasti del presente assetto sociale. E questo secondo è il termine nel quale – a malgrado di deviazioni e di deficienze inevitabili – si concreta l’indirizzo del governo liberale». Turati faceva riferimento al programma giolittiano di politica interna, che per lui rappresentava emblematicamente le posizioni più avanzate della borghesia. Di fronte all’azione economica e politica di questa nuova borghesia attiva, dinamica, integralmente capitalistica e dotata di spirito imprenditoriale, bisognava creare un movimento di lavoratori altrettanto moderno, dinamico e attivo, inserito consapevolmente nel processo di sviluppo e di modernizzazione della società italiana,
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come protagonista della trasformazione industriale del paese. E perciò moderne, cioè adeguate alle esigenze dello sviluppo in corso, dovevano essere anche la concezione politica e le finalità strategiche del movimento socialista, che non doveva trincerarsi dietro un’intransigenza anacronistica, boicottando lo svolgimento di una tappa inevitabile dell’evoluzione verso il collettivismo. Era una realtà di fatto, continuava Turati, che la nuova borghesia capitalistica era settentrionale; che nel Nord si stavano realizzando le prime vere strutture di un’industria moderna e la costituzione di organizzazioni di operai e di lavoratori della terra. Derivava da queste considerazioni di Turati l’ironia del riferimento al meridionalismo di Labriola, che era salito al Nord per conquistare il partito e le organizzazioni economiche recando con sé il risentimento e le esigenze del Sud contro il Nord, con concezioni che a Turati apparivano poco confacenti alla realtà del processo di trasformazione strutturale in atto, che aveva il suo centro dinamico e propulsore nella Valle Padana. L’interpretazione turatiana, realistica ma non priva di limiti, della fase di sviluppo che l’Italia stava attraversando introdusse, nel dibattito fra le opposte tendenze, problemi che esulavano dalle questioni ideologiche, perché erano connessi a mutamenti strutturali, politici e sociali, i quali condizionavano l’azione e la stessa natura del movimento socialista, fenomeno delle regioni settentrionali e centrali, poco diffuso nel Sud e poco sensibile ai problemi delle masse contadine meridionali. In questo senso, l’antiministerialismo di Labriola era effettivamente un aspetto del suo meridionalismo, i cui cardini teorici e politici erano appunto il liberismo, l’antistatalismo e l’ostilità verso un sistema di governo che, secondo Labriola, coalizzava gli interessi industriali e quelli delle «aristocrazie» operaie del Settentrione contro i bisogni dei contadini meridionali, creando così una fitta trama di compromessi fra movimento socialista e politica governativa. Si può, dunque, affermare (concordando con quanto ha scritto Gaetano Arfè nella sua Storia del socialismo italiano, ma senza esaurire in questo giudizio la complessità del sindacalismo rivoluzionario in Italia) che, prima «ancora di incontrarsi con Sorel e di definire alla luce del sindacalismo rivoluzionario la loro posizione, i socialisti napoletani erano già orientati verso formule estreme; erano repubblicani, e non nella maniera blanda dei lombardi, erano av-
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versi all’industria di Stato, svirilizzatrice della classe operaia; nemici dello Stato i cui istituti non potevano servire che a consolidare oppressioni antiche; inclini a portare sul terreno politico la lotta di classe e a subordinare alle esigenze rivoluzionarie le azioni rivendicative, mal praticabili del resto nella loro città e nelle loro regioni per mancanza di organizzazioni di classe, di coscienza di classe e finanche di operai e la localizzazione a poche zone del bracciantato agricolo». Nel dibattito al congresso di Imola, in conclusione, il rivoluzionarismo non si presentò ancora ben distinto nei suoi diversi aspetti – ferriani e sindacalisti rivoluzionari – e con la complessa tematica di qualche anno dopo. Pertanto, la risoluzione finale, ispirata soprattutto dal bisogno di conservare l’unità del partito sanando i contrasti interni, poté nascere da un compromesso. Tanto l’ordine del giorno della corrente estremista, capeggiata da Ferri, quanto quello dei riformisti, presentato da Bonomi, facevano appello all’unità, e alla fine prevalse l’ordine del giorno riformista, conciliante nella sua formula ambigua: «l’azione del partito è riformista perché rivoluzionaria, è rivoluzionaria perché è riformista, ossia l’azione del partito è semplicemente socialista». Di conseguenza, però, il riformismo turatiano abbandonava la posizione filogovernativa, dovendo riconoscere che, davanti all’ondata delle agitazioni sociali, il governo non aveva tenuto sempre fede al suo programma di rispetto della libertà. L’appoggio del gruppo parlamentare al governo veniva quindi condizionato dalla formula non compromettente del «caso per caso». La posizione labriolana, che non ebbe modo di emergere nel congresso di fronte a quella più elastica del rivoluzionarismo ferriano, rimase ai margini dello scontro Ferri-Turati. Tuttavia, basata com’era su una prospettiva ideologica e politica elaborata e cosciente, e arricchita dal contributo del sindacalismo soreliano, essa riuscì, in poco più di un anno, a guadagnare terreno fino a trionfare, qualche anno dopo, in una breve ma intensa azione rivoluzionaria che coinvolse tutto il paese.
4. La crisi del riformismo Il successo riformista, ottenuto sulla base di un precario compromesso, fu di breve durata nonostante il fatto che i riformisti
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avessero la maggioranza nel partito. I turatiani non seppero fare del loro successo congressuale il punto di partenza per una nuova azione, per conservare l’egemonia nel partito e, cosa più importante, nella base del movimento socialista, base sociale fluida e composita. Il compromesso di vertice non servì neppure ad attenuare le divergenze fra le due tendenze. Enrico Leone, uno degli esponenti della sinistra rivoluzionaria, mise in chiaro che la manovra turatiana per isolare i rivoluzionari, negando l’esistenza delle tendenze e recuperando l’intransigente «ma pur conciliante» Ferri, era fallita. Le due tendenze esistevano obiettivamente, anche se non avevano ancora maturato una precisa teoria. Al momento però la corrente più coerentemente rivoluzionaria usciva dal congresso quasi senza diritto di cittadinanza, sopraffatta dalla maggioranza riformista. Il fatto più significativo, per le conseguenze che avrà nella storia successiva del movimento socialista, fu l’emergere nel dibattito congressuale della “questione meridionale” come elemento discriminante fra riformismo e rivoluzionarismo. È bene ricordare a questo proposito, come già si è detto, che le due tendenze erano soprattutto il riflesso della composizione sociale del movimento socialista, nel quale si riproducevano la diversità e i contrasti della società italiana: «riformismo, massimalismo, integralismo e via dicendo – ha osservato Procacci – non sono soltanto l’espressione dei convincimenti di singoli uomini politici, di Turati, di Ferri, di Labriola e di altri, ma anche la risultante di una situazione oggettiva complessa e, in parte, contraddittoria, di una ‘materia’ eterogenea che difficilmente trovava il suo punto di fusione». E il successo o la sconfitta dell’una o dell’altra tendenza dipendevano dalla capacità dei loro capi di intuire tempestivamente i mutamenti e le trasformazioni di questa “materia”, elaborando nuove e più adeguate concezioni e metodi di lotta. Il partito socialista, come si presentò al congresso di Imola, era un partito a larga maggioranza di socialisti settentrionali, che costituivano il 68 per cento delle sezioni e il 70 per cento degli iscritti, di ispirazione e di orientamento riformista ed erano la base di forza della corrente turatiana. Inoltre, i successi ottenuti dal movimento rivendicativo, soprattutto nella pianura padana, nel periodo 1901-1902, sembravano giustificare l’utilità della politica parlamentare e la concessione della fiducia a un governo che
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lasciava libero corso alle agitazioni dei lavoratori rispettando l’esistenza delle organizzazioni sindacali. Questi successi inducevano Turati a ribadire l’opportunità della scelta fatta a sostegno della politica governativa, che favoriva lo sviluppo della borghesia settentrionale, per promuovere un moderno sviluppo capitalistico, del quale il movimento operaio costituiva uno degli elementi necessari. Ma la relazione che si era stabilita fra il riformismo turatiano, i successi del movimento sindacale e la politica giolittiana costituiva in effetti un elemento di debolezza per l’egemonia del riformismo. Questa, infatti, veniva a dipendere, da una parte, dalle vicende del movimento sindacale e, dall’altra, dalla continuità o meno dell’esperimento liberale giolittiano. Già alla fine del 1902, il movimento sindacale era entrato in una fase critica, mentre si accentuava la tendenza, da parte della borghesia, a reagire alla lotta di classe, e diventava sempre più difficile, per i riformisti, conservare fiducia nell’azione di un governo che non aveva eliminato i conflitti fra forza pubblica e masse popolari, conclusi talvolta con l’uccisione di lavoratori. Per placare le reazioni degli intransigenti e l’insofferenza della base non erano sufficienti le proteste, per altro moderate, dei turatiani. Del resto, questi attribuivano l’esito sanguinoso di alcuni conflitti alla immaturità delle masse e alla irresponsabilità dei rivoluzionari che le istigavano alla rivolta; cosa, a giudizio dei turatiani, dimostrata dal fatto che gli scontri sanguinosi con la forza pubblica avvenivano soprattutto nel Meridione, dove, come abbiamo già detto, la protesta delle masse disorganizzate acquistava spesso i caratteri di una sommossa violenta contro lo Stato. L’inasprimento della lotta di classe dopo il 1902 mise in crisi l’egemonia riformista, poco dopo il congresso di Imola, e offrì agli intransigenti e ai rivoluzionari l’occasione per intensificare la loro polemica contro la politica filogovernativa dei turatiani e per conquistare una crescente influenza fra le masse. Il periodo che va dal congresso di Imola allo sciopero generale nazionale (settembre 1904) fu la stagione del sindacalismo rivoluzionario che, trasferitosi al Nord, contestò la politica e l’egemonia riformista tanto nella teoria quanto nell’azione sindacale. Nel dicembre 1902 Labriola lasciava Napoli per andare a combattere i riformisti nella loro città, a Milano, dove fondò l’organo di propaganda sindacalista rivoluzionaria «Avanguardia socialista», cercando di stabilire lega-
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mi con i socialisti operaisti di Lazzari. Nel nuovo ambiente, Labriola dedicò maggiore attenzione ai problemi dell’elaborazione ideologica, per definire in modo organico i principi, i mezzi e i fini dell’azione rivoluzionaria. Un contributo fondamentale allo svolgimento dell’ideologia labriolana e del sindacalismo rivoluzionario italiano fu dato dalle idee, originali e suggestive, del francese Georges Sorel. Sorel era un ingegnere in pensione, dilettante di genio che si era dedicato a studi filosofici, economici e storici. Convertitosi al marxismo, divenne uno dei principali protagonisti della revisione in senso rivoluzionario e volontaristico, in contrasto con la corrente del revisionismo di destra, che alimentava le concezioni evoluzioniste e riformiste. Le sue idee ebbero larga diffusione in Italia, grazie anche all’opera di Benedetto Croce, che era estimatore di Sorel, tanto che presentò la traduzione italiana del suo libro più influente, Considerazioni sulla violenza, pubblicata nel 1909. Sorel sosteneva che lo strumento di organizzazione e di lotta del movimento proletario doveva essere il sindacato, il quale non aveva solo una funzione rivendicativa, ma educativa. Il proletario, nella concezione soreliana, era considerato come il barbaro sano e vigoroso, portatore di una nuova civiltà contro la decadenza della civiltà borghese. Attraverso la lotta di classe – che doveva esser combattuta senza compromessi dalla borghesia e dal proletariato – i lavoratori maturavano una nuova coscienza morale. La lotta contro la società borghese, contro lo Stato, doveva essere intransigente e violenta. Sorel derideva perciò i «professionisti della politica», che volevano sovrapporsi al proletariato attraverso i partiti; era critico della democrazia parlamentare e sostenitore dell’azione diretta perché solo attraverso la violenza e l’azione diretta il proletariato conquistava la sua nuova coscienza. Il momento culminante e “sublime” di quest’azione era lo sciopero generale, che non aveva per Sorel tanto un valore economico, quanto mitico, etico e pedagogico. Nella sua concezione antintellettualistica e volontaristica della lotta di classe, il sorelismo era l’antitesi del riformismo gradualista ed evoluzionista e costituiva, perciò, la dottrina più congeniale ai rivoluzionari italiani come Labriola, che nella sua ideologia introdusse il mito dello sciopero generale, come idea-forza per la lotta del movimento proletario contro lo Stato borghese e contro la prassi riformista e parlamentare.
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Insieme con l’elaborazione di una nuova teoria rivoluzionaria, Labriola e il gruppo dei sindacalisti rivoluzionari (Enrico Leone, Ernesto Cesare Longobardi, Walter Mocchi, Angelo Oliviero Olivetti, Romeo Soldi) cercarono, con successo, di combattere i riformisti anche sul terreno dell’organizzazione, partendo proprio dalla capitale del riformismo. L’alleanza dei sindacalisti con gli «operaisti» di Lazzari, infatti, riuscì a conquistare il controllo della Federazione socialista milanese, nel 1903 e, l’anno seguente, la direzione della Camera del lavoro. Da Milano, il sindacalismo rivoluzionario si diffuse in altri centri importanti, industriali come Torino, o in zone agricole, come il mantovano, costringendo i riformisti ad arretrare nelle loro roccheforti emiliane. Il successo sindacalista mise in crisi il compromesso raggiunto a Imola. I turatiani uscirono dalla federazione milanese come gruppo dissidente, mentre i sindacalisti rivoluzionari intensificarono la loro azione per la conquista dell’egemonia nel partito e nelle organizzazioni sindacali, in vista di un successo definitivo nel congresso nazionale da loro insistentemente richiesto. Nel movimento socialista aumentò la sfiducia nella direzione riformista, che fra l’altro non trovava più un diretto alleato neppure nel Giolitti divenuto presidente del Consiglio con un governo spostato a destra. I rivoluzionari spinsero la loro polemica antiriformista fino al punto di chiedere che, dal prossimo congresso, fossero esclusi i gruppi dissidenti, con chiaro riferimento ai turatiani. Una anticipazione di quello che sarebbe stato l’esito del nuovo congresso nazionale socialista, fu il congresso regionale lombardo, tenuto a Brescia il 14 e il 15 febbraio 1904. Lo scontro fra il gruppo di Turati, Treves, Bonomi, Bissolati e il gruppo Labriola-Mocchi giunse ai limiti della rottura, approfondendo irrimediabilmente il solco fra le due tendenze, che invano Turati cercò di colmare con gli appelli all’unità del partito. L’ordine del giorno, presentato da Labriola e Mocchi e approvato di stretta misura, era una esplicita condanna della linea riformista: furono condannati il parlamentarismo e il riformismo borghese, fu ribadita la inconciliabilità tra socialismo e monarchia e, come coronamento del nuovo sindacalismo rivoluzionario, si affermò la necessità del ricorso alla violenza per reagire alla repressione dello Stato.
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5. Gli intransigenti alla conquista del partito e lo sciopero generale del 1904 Con queste fratture e profondi dissensi interni, il partito socialista affrontò l’VIII congresso nazionale, che si tenne a Bologna dall’8 all’11 aprile 1904. Nella sua relazione, Labriola raccolse tutte le accuse contro i riformisti, sostenendo che era un processo di degenerazione del movimento socialista l’abbandono della lotta diretta, a base sindacale, per «la trasformazione dell’organizzazione politica della classe proletaria in partito prevalentemente parlamentare, opportunista, costituzionale e possibilista-monarchico». Bisognava ripudiare qualsiasi collaborazione con i governi borghesi e affermare chiaramente il carattere repubblicano del socialismo. La lotta diretta del proletariato per la realizzazione del socialismo non doveva essere sostituita dalla fiducia nel riformismo borghese che, per quanto avanzato, serviva soltanto a rafforzare e non a indebolire il meccanismo capitalistico. Secondo Labriola, in conclusione, bisognava ricorrere all’uso della violenza in tutte le occasioni in cui essa era necessaria, senza dare tregua alla borghesia. I riformisti risposero con una relazione di Bissolati, il quale pur riconoscendo l’autonomia del partito, riteneva utile appoggiare gli indirizzi di governo che «offrano sufficiente affidamento di favorire la conquista, per parte del proletariato, di quelle riforme ond’esso, in un determinato periodo, ha più urgente bisogno». La politica ministerialista, adeguata alle circostanze, veniva dunque ribadita dai riformisti. Ferri, da parte sua, fece appello all’unità e presentò un ordine del giorno nel quale affermava che al partito erano necessarie «molteplici forme di azione quotidiana intese alla educazione delle coscienze socialiste, alla demolizione e critica dei sistemi di sfruttamento e di parassitismo, ed alla conquista proletaria di riforme economiche, politiche, amministrative, e col rispetto delle minoranze per i deliberati della maggioranza». Su questo ordine del giorno i labriolani, che avevano ottenuto 7.410 voti, fecero convergere i loro consensi riuscendo, con la vittoria degli intransigenti, a mettere in minoranza i riformisti. Il congresso si chiuse con una vittoria dei rivoluzionari. Commentando i risultati del congresso su la «Nuova Antolo-
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gia», Bonomi riconosceva che il duello fra le due tendenze era un duello «fra due concezioni opposte ed inconciliabili», che avrebbero presto dato vita, a suo giudizio, a due partiti distinti. Non ci furono, per il momento, scissioni; il partito ne usciva tuttavia diviso, senza una chiara politica nuova, ma orientato verso l’azione diretta, secondo l’ispirazione dei rivoluzionari. L’occasione per sperimentare la nuova politica si ebbe di lì a poco, nel settembre 1904, con il primo sciopero generale nazionale attuato in Italia. Il problema dello sciopero generale era stato discusso, proprio nell’agosto di quell’anno, al VI congresso della Seconda Internazionale, ad Amsterdam, dove era stato respinto a larga maggioranza. Labriola criticò questa risoluzione, affermando che lo sciopero generale era un’occasione indispensabile per sperimentare la forza del proletariato. Casi di scioperi generali locali c’erano stati, in Italia, a Torino, a Firenze e a Roma ma negli ambienti sindacali e riformisti vi era un atteggiamento negativo verso quest’arma di rivendicazione economica e di protesta politica. Tuttavia, in seguito al ripetersi di morti fra i lavoratori negli scontri con la forza pubblica, l’idea dello sciopero generale venne ripresa in considerazione come unica arma per reagire contro il governo, non più per rivendicazioni economiche, ma per esclusive ragioni politiche. In questo senso lo sciopero generale era stato concepito dal sindacalista francese Fernand Pelloutier, nel 1894; ma soltanto attraverso la divulgazione del pensiero di Sorel l’idea dello sciopero generale diventò qualcosa di più che uno strumento di lotta: un momento di autoeducazione dei lavoratori, come prova di capacità politica e di forza sociale. L’occasione per questa prova venne offerta dall’uccisione di tre lavoratori e dal ferimento di un’altra ventina, da parte della forza pubblica, a Buggerru, in provincia di Cagliari, il 4 settembre. L’episodio suscitò una vasta reazione. A Milano, in un comizio, fu presentata e approvata la mozione che proponeva lo sciopero generale di protesta per otto giorni in tutta Italia. Alcuni giorni dopo la mozione fu discussa dal comitato esecutivo della direzione socialista, che decise di respingerla, senza render nota la sua decisione. Il 14 settembre ci fu un nuovo scontro fra lavoratori e forza pubblica in Sicilia, con due morti. La protesta dilagò con maggior violenza fra il movimento socialista. La Camera del lavoro di Milano decise lo sciopero generale. Il 16 settembre la manifestazione si era estesa alle principali città d’Ita-
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lia settentrionale e centrale e in alcune del Sud. La direzione dello sciopero era nelle mani delle organizzazioni sindacali, ma la sua politica era praticamente ispirata dai socialisti rivoluzionari, mentre i riformisti – che non potevano ovviamente schierarsi contro un moto di massa così vasto – cercarono di limitarne la durata. Di fronte all’eventualità di un troppo rapido esaurimento dell’agitazione, i sindacalisti rivoluzionari presero direttamente l’iniziativa per continuare lo sciopero dandogli un obiettivo politico: far cadere Giolitti. Labriola propose la continuazione fino al 21 settembre e la proposta fu accettata. Lo sciopero generale sconvolse e paralizzò il paese, giungendo del tutto imprevisto per intensità ed estensione, suscitando grandi paure nella borghesia e altrettanto grandi aspettazioni e speranze nel proletariato. Ma Giolitti conservò un atteggiamento calmo e sicuro, attendendo l’esaurimento dell’agitazione, convinto com’era che essa non avesse sufficienti motivi per durare a lungo. Nelle Memorie così ricorderà quei giorni: «era fermissima in me la persuasione che quel movimento fosse di carattere effimero, e mancasse di base; e in questo senso telegrafai ai prefetti, osservando che trattandosi di una agitazione che non aveva alcuna ragione né in una grande questione economica né in una grande questione nazionale, non poteva avere che una brevissima durata, e che quindi lo considerassero con calma e senza soverchie preoccupazioni. Tale mio convincimento reiterai nei dispacci con cui informavo il re giorno per giorno dello svolgersi degli avvenimenti. Si ebbero qua e là episodi di violenza, ma di carattere secondario, specialmente a Genova, dove io passai la direzione della sicurezza pubblica nelle mani del generale Del Magno, comandante della piazza, mandandovi anche tre navi da guerra; ed a Napoli, dove inviai pure due navi da guerra e due reggimenti di cavalleria. Il Consiglio dei ministri deliberò pure la chiamata di due classi e la militarizzazione dei ferrovieri, pel caso che la situazione si aggravasse, ed io preparai i due decreti relativi, tenendoli però in riserva. La mia linea di condotta fu, insomma, che lo Stato fosse preparato a qualunque evento, senza però ostentare prematuramente la sua forza, che doveva essere usata solamente quando apparisse veramente necessario, il che non avvenne. Le mie previsioni ottimiste infatti si avverarono totalmente, perché lo
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sciopero non poté durare che pochissimi giorni [...] L’impressione del fallimento fu generale». L’atteggiamento del governo impedì che una mobilitazione di massa così estesa potesse degenerare in fatti tragici. Non mancò qualche episodio sanguinoso, ma nel complesso l’agitazione si svolse sotto il controllo tanto della forza pubblica quanto delle stesse organizzazioni sindacali. Soddisfatto per il fallimento di quella «prova generale» della rivoluzione e per il successo della sua politica, Giolitti decise subito di trarre frutto dall’avvenimento. Il paese era stato scosso profondamente e soprattutto nella borghesia si era diffuso l’incubo di una prossima rivoluzione. Si presentava, quindi, un’occasione propizia per sfruttare politicamente il disorientamento dell’estrema sinistra e la paura della borghesia, attraverso una consultazione elettorale. I conservatori reclamavano le elezioni generali: Tittoni e Luzzatti facevano pressioni su Giolitti in questo senso, ma egli parve, almeno in un primo momento, contrario, per timore di veder nascere dalle elezioni un parlamento nettamente reazionario. Alla fine, considerando che la legislatura era prossima alla scadenza, decise lo scioglimento della Camera. Le elezioni furono indette per il 6 novembre. I risultati confermarono le speranze dei conservatori e dello stesso Giolitti. Anche se l’insuccesso della sinistra socialista non fu così rilevante come essi avevano immaginato, il partito socialista perse 4 seggi, i radicali 3 e 1 i repubblicani. Ma i socialisti aumentarono i loro voti, dai 165 mila del 1900 a oltre 300 mila, che andarono soprattutto alla corrente riformista. Molto significativa fu la sconfitta dei sindacalisti rivoluzionari, che ebbero un solo deputato. Labriola fu sconfitto in ballottaggio. Si concluse così il primo sciopero generale nazionale di ispirazione sindacalista rivoluzionaria.
V I CATTOLICI NELLO STATO LIBERALE
Il fatto più significativo e più importante nelle elezioni del 1904 non fu tanto la sconfitta dei rivoluzionari quanto l’elezione alla Camera di due cattolici moderati, il conte Carlo Ottavio Cornaggia e l’avvocato Agostino Cameroni. Era un avvenimento eccezionale, anche se di modestissime proporzioni. Nel commentarlo, «Civiltà Cattolica», la rivista dei gesuiti, osservò: «Quello che, qualche decennio fa, avrebbe fatto sorgere un grido generale di allarme nel campo dei nostri avversari anche più moderati e creato come per incanto una specie di blocco anticlericale, cioè l’accostamento affatto parziale e molto limitato dei cattolici alle urne politiche, nell’occasione delle ultime elezioni, fu invece riconosciuto più o meno esplicitamente come il primo movimento di un grande esercito che, quando entrasse risolutamente in campo, potrebbe risolvere le sorti di una guerra contro il comune nemico». Il nemico comune era la rivoluzione socialista, nemica dello Stato, dell’ordine sociale e della religione. Per combatterlo, liberali e cattolici cominciarono ad abbandonare l’intransigente ostilità che li divideva, fin dalla creazione dello Stato unitario, per cercare le vie e i modi più opportuni e discreti per una conciliazione di fatto e una collaborazione in difesa dell’ordine.
1. Orientamenti e tendenze nel mondo cattolico I primi passi di riavvicinamento fra cattolici e liberali furono fatti dopo la crisi di fine secolo. L’ondata delle repressioni aveva investito anche i cattolici, perché i conservatori avevano evocato lo spet-
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tro della reazione papalina e temporalista che, fuori dello Stato liberale, secondo loro, spiava l’occasione opportuna per distruggere le istituzioni laiche nate dalla rivoluzione risorgimentale. Se i socialisti erano il pericolo «rosso», i cattolici erano il pericolo «nero»: gli uni e gli altri costituivano una costante minaccia per le istituzioni perché estranei alle idealità liberali dello Stato risorgimentale. Dall’altra parte, l’intransigenza clericale escludeva la possibilità di qualsiasi intesa con i liberali, i quali oscillavano fra una politica della mano tesa e una politica della reazione anticlericale. «Per i liberali – ha scritto Fausto Fonzi – i cattolici rappresentano insieme una speranza e un pericolo. Costituiranno essi la base elettorale di un grande partito conservatore o permetteranno, col loro intransigente astensionismo e col loro inconcludente socialismo, la vittoria dei rossi? Nel primo caso i liberali sono generalmente disposti a sacrificare ogni ideologia anticristiana, nel secondo caso mobiliteranno tutte le forze borghesi nazionali e costituzionali, a difesa della Patria contro le due internazionali sovversive: contro i rossi ed i neri». Alle repressioni del 1898 il mondo cattolico reagì con prudenza. I suoi rappresentanti cercarono di allontanare il sospetto che i cattolici fossero sovversivi, ispiratori di rivolte contro l’ordine sociale: chi più dei cattolici, obbedienti per la loro natura e la loro fede nell’autorità e nemici di disordini e di violenze, poteva dichiarare onestamente la propria fedeltà alle leggi e alle istituzioni? Così Giovanni Battista Paganuzzi, presidente dell’Opera dei congressi: «le sante leggi – egli disse al XVI congresso dell’Opera, riunito a Ferrara nel 1899 – che stringono fra loro i figli di una stessa patria e ne difendono i diritti, le istituzioni, le pubbliche libertà, non trovano altri difensori, veramente disinteressati in fuori di noi; o siano quelle libertà che la natura e la Redenzione di Cristo assicurò ad ogni cittadino di paese civile, o siano quelle che lo statuto del nostro paese volle solennemente riconoscere e che furono giurate inviolabili». Il timore di essere confusi con i sovversivi, con i negatori dell’ordine e gli avversari delle istituzioni, consigliava all’intransigente presidente di fare dichiarazioni concilianti. Pur riaffermando l’opposizione ideale della Chiesa allo Stato laico, indirettamente Paganuzzi assicurava quest’ultimo che la conservazione dell’ordine sociale stava a cuore anche ai cattolici. Nel mondo cattolico, tuttavia, non vi era soltanto il desiderio di non apparire sovvertitori dello Stato e di mostrarsi, al contra-
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rio, garanti dell’ordine sociale. Il sorgere e diffondersi della “questione sociale” aveva suscitato fermenti nuovi fra i giovani cattolici, i quali non volevano restare isolati e chiusi in una posizione di astensione e di sterile intransigenza, mentre la società subiva una profonda trasformazione e lo Stato liberale appariva incapace di affrontare e risolvere i nuovi problemi sociali che accompagnavano lo sviluppo dell’economia e l’industrializzazione. Molti giovani cattolici volevano partecipare a questo processo di trasformazione, per competere con i partiti avversari sul piano delle idee e sul piano dell’organizzazione sociale. All’interno del mondo cattolico vi erano diverse tendenze, distinte innanzi tutto dalla diversa concezione che ciascuna di esse aveva del problema dei rapporti fra cattolici e Stato liberale. Dopo il 1898, non esisteva un unico movimento cattolico con un definito orientamento politico e sociale, con una precisa fisionomia e un programma unitario, almeno nelle grandi linee: più che di un movimento cattolico, infatti, si può parlare di gruppi ben distinti, a parte la comune matrice cattolico-clericale, che spesso si trovavano in polemica fra di loro, anche se in tutti prevaleva il bisogno di definire il compito civile dei cattolici, cioè il loro impegno nella società, il loro rapporto con le altre forze politiche e sociali. Anche nel mondo cattolico, dunque, all’inizio del nuovo secolo, era diffusa una profonda esigenza di rinnovamento e di organizzazione. Il maggior dissidio era fra i giovani moderati, come Filippo Meda, favorevoli a un rapporto diverso e più conciliante con i conservatori liberali, senza polemiche antistataliste; e i giovani intransigenti, come Romolo Murri, decisi a dare battaglia ai liberali e ai laici sul campo dei problemi sociali; infine, vi erano i vecchi intransigenti, come Paganuzzi, che si dichiaravano più papali del papa e restavano arroccati in un aristocratico isolamento contro lo Stato liberale, che essi continuavano a condannare senza appello come usurpatore e sacrilego, proclamandosi sudditi fedeli del papa, con obbedienza assoluta. Al di là delle questioni contingenti e della valutazione su singoli fatti, la vera ragione del dissenso all’interno del mondo cattolico, soprattutto fra i giovani democratici cristiani e i vecchi intransigenti, era il diverso modo di interpretare e affrontare i problemi sorti dal processo di mobilitazione sociale in atto nel paese. La contrapposizione verteva sulla necessità o meno, per i cattolici, di partecipare a questo pro-
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cesso, per non restare esclusi dal contatto con le classi popolari che si stavano svegliando, e sull’opportunità di costituire, a questo scopo, un movimento autonomo dei cattolici, ispirato dalla Chiesa, con obiettivi sociali e politici più adeguati alla mutata realtà sociale. E su questi problemi il dissidio fra gli intransigenti di Paganuzzi e i democratici cristiani di Murri era profondo e, come i fatti dimostrarono, insuperabile sia ideologicamente che politicamente. Il confronto fra queste correnti, nei primi anni del secolo, fu molto vivace, ebbe spesso momenti di accesa polemica, ma riuscì a suscitare un nuovo interesse da parte dei cattolici verso i problemi ideologici e organizzativi, preparandoli ad affrontare, con maggiore consapevolezza della propria forza e del ruolo che potevano avere nella società, il loro ritorno nella vita politica.
2. Murri e la democrazia cristiana Romolo Murri, giovane prete marchigiano, era l’esponente più preparato e dinamico della corrente definita «democrazia cristiana». Alla base della concezione e dell’opera di Murri vi era l’ambizione di sottrarre ai partiti laici l’ispirazione e la guida delle classi popolari e impedire, nello stesso tempo, la loro integrazione nello Stato liberale. Con la sua rivista «Cultura sociale», che uscì nel 1898, Murri cercò di elaborare e diffondere le idee della democrazia cristiana, dimostrando grande sensibilità per i problemi della società contemporanea, al cui studio si dedicò con passione anche se non con sistematicità e rigore dottrinario. Allievo di Antonio Labriola, Murri aveva compreso l’importanza del proletariato nella società moderna e aveva intuito la possibilità, per la Chiesa, di avvicinarsi a questa nuova forza sociale, di comprendere i suoi bisogni sviluppando i temi sociali nel senso indicato dalla Rerum Novarum. Per far questo, la Chiesa doveva abbandonare gli ideali paternalistici e temporalisti, e acquisire al suo patrimonio i valori della partecipazione popolare, riconoscendo la legittimità d’una lotta autonoma dei cattolici per il progresso morale e materiale delle classi popolari. Secondo Murri, la Chiesa doveva conservare la sua intransigente opposizione, il suo rifiuto ideale nei confronti dello Stato liberale nato dalla rivoluzione laica, ma rinunciando nello stesso tempo al suo aristocratico conservatori-
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smo nel campo sociale, per diventare interprete e guida dei nuovi movimenti popolari. Murri non respingeva le conquiste politiche del liberalismo, anzi, durante le repressioni del 1898, egli aveva affermato, in sintonia con i socialisti, che i cattolici dovevano essere i difensori delle libertà costituzionali perché esse erano una garanzia per lo svolgimento della loro azione e per un movimento di riforma sociale. Il movimento cattolico, per questo motivo, doveva accettare i metodi liberali, servirsi delle istituzioni per combattere lo Stato liberale e trasformare, sulla base di una rinnovata socialità cristiana sensibile alle aspirazioni dei ceti popolari, lo Stato laico in una nuova democrazia cristiana. Murri non attenuava, dunque, la sua intransigente opposizione allo Stato liberale ma, con maggiore spregiudicatezza dei vecchi intransigenti, riteneva inutile continuare una protesta passiva guardando al passato e rifiutando i fatti compiuti. La riscossa delle forze cattoliche doveva avvenire guardando al futuro, attraverso la riconquista della società, ponendosi alla testa dei processi moderni da cui essa era investita e che coinvolgevano grandi masse estranee allo Stato liberale. Alcune conquiste istituzionali del Risorgimento andavano conservate, e in questo, secondo Murri, i cattolici potevano facilmente sostituirsi alle classi dirigenti, che non avevano esitato a rinunciare ai principi di libertà e si erano rese ostili le classi popolari. A differenza di Meda, favorevole a un inserimento graduale dei cattolici nello Stato liberale senza atteggiamenti di antagonismo intransigente, Murri era francamente legato a un ideale di integralismo cattolico, che voleva trasformare la struttura statale attraverso una «riorganizzazione cominciata dal basso», ispirata dalla Chiesa, in senso opposto all’opera dello Stato moderno accentratore. Le posizioni di intransigenza reazionaria e passiva erano legate, secondo Murri, alla sopravvivenza del vecchio temporalismo, ed erano espressione, in particolare, della nobiltà e della grande borghesia cattolica, gelosa custode dei propri privilegi di classe, dominata da una concezione pessimistica della realtà sociale che escludeva qualsiasi ipotesi di autonomo risveglio popolare. Contro questo atteggiamento, Murri si fece sostenitore di una contestazione attiva della società e dello Stato liberale, attraverso l’educazione delle nuove classi in ascesa. Compito dei cattolici doveva essere quello di riconoscere – scriveva Murri nel 1904 – che
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«il proletariato soffre di molte ingiustizie, e che è doveroso e cristiano occuparsi di esso», mettendolo nelle condizioni di poter «sovvenire stabilmente ai propri interessi», non col paternalismo di vecchio stampo ma osservando «ammirati e fiduciosi, lo sforzo del proletariato che, consapevole oramai esso stesso, e collettivamente, delle ingiustizie delle quali è vittima, sotto l’assillo di questa coscienza, si leva in piedi e chiede la sua parte nella vita pubblica, e chiede, specialmente, d’essere messo a parte della cultura, del benessere, dei diritti politici dei quali godono le classi superiori». Occorreva mettersi a fianco di questo proletariato, avvertiva Murri, per aprirgli la via, «non per farne un Cesare, la società cristiana non tollera Cesari da nessuna classe», ma per dargli «un posto libero e degno, nel consesso dei fratelli». Per gli intransigenti come Paganuzzi, invece, i cattolici non avevano nulla di nuovo da dire in merito alla questione sociale: la società era quella che era, immutabile nelle sue strutture gerarchiche di classe; il popolo doveva accettare la sua condizione, sottomettersi benevolmente all’autorità e vivere in armonia con i suoi padroni, ai quali era affidato il compito di educarlo moralmente e di sollevarlo dalla miseria con opere di carità e di assistenza. Nessuna rivendicazione di nessun genere era pertanto possibile né concepibile, perché qualsiasi rivendicazione della «plebe» contro i rappresentanti dell’ordine era ribellione all’autorità, era ammissione del principio laico rivoluzionario, che riconosce all’uomo la possibilità e la capacità di agire autonomamente, con le sue sole forze, contro i mali della società. Il pessimismo sociale del cattolicesimo conservatore non concepiva alcuna possibilità per uno sviluppo democratico della società. La democrazia era un’eresia, se concepita come capacità del popolo di autogovernarsi e decidere da sé il proprio destino. L’unica accezione, secondo la quale i cattolici potevano accogliere il concetto di democrazia, era quella di governo per il popolo, non del popolo; di un governo, cioè, sensibile ai bisogni delle classi più povere e paternamente sollecito alla cura delle loro anime e dei loro corpi, ma nei limiti insuperabili di una gerarchia naturale che fissava irrimediabilmente la divisione sociale fra le classi. Ogni altra accezione del concetto di democrazia era condannata come minaccia alla Chiesa e alla religione: «La visione che Paganuzzi e i suoi amici hanno della Chiesa – ha scritto Gabriele De Rosa nella sua storia del movimento
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cattolico – è bloccata, non può soffrire eccezioni da nessuna parte: una qualsiasi concessione sul piano sociale, su quello elettorale, su quello politico, se separato dall’atto di obbedienza assoluta alla Chiesa visibile, al papa, mette in moto una macchina che nella sua corsa verso il laicismo razionalistico è inarrestabile. Il pessimismo paganuzziano non è una questione di temperamento, ma un elemento essenziale del sistema, ed è anche il mezzo unico per la difesa dell’autorità della fede in ogni campo, perché l’uomo da sé nulla può fare».
3. La crisi dell’Opera dei congressi Fra l’aspirazione al rinnovamento, alla partecipazione nella vita sociale, alla conciliazione della Chiesa con il movimento ascendente delle classi popolari – che animava l’attività e il pensiero di Murri – e l’immobilismo sociale affermato da Paganuzzi, non vi era alcuna possibilità di intesa. La corrente paganuzziana, dominante nell’Opera dei congressi, ribadì le sue posizioni nel XVI congresso nazionale. Abbiamo già visto che Paganuzzi si mostrò cauto e, in certo modo, conciliante verso l’autorità laica, per allontanare dai cattolici l’accusa di sovversivismo. Ma, a parte ciò, egli riaffermava l’assoluta impossibilità di trovare una conciliazione sul piano politico e sociale, e di stabilire qualche relazione positiva fra la concezione della Chiesa e i principi del mondo moderno. Il congresso di Ferrara fu dominato dallo scontro fra la corrente del vecchio intransigentismo aristocratico e la corrente dei giovani democratici cristiani. Questo contrasto suscitava molta preoccupazione negli ambienti vaticani, perché minacciava la concordia e l’unità del mondo cattolico. Fu, però, facile per Paganuzzi presentare i giovani democratici cristiani come perturbatori della concordia, che attentavano all’unità dei cattolici portando fra questi il disordine e la confusione. Dal canto suo, un altro intransigente, Giuseppe Sacchetti, tentò di sminuire il vero significato del democraticismo cristiano di Murri, dichiarando che gli scopi sociali dei giovani democristiani non potevano essere diversi da quelli che si era sempre posti l’Opera: cioè, attività sociali di assistenza, di aiuto morale, religioso e anche economico a favore del popolo. Era fuori discussione, comunque,
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che democrazia, in senso cattolico, non significava per nulla iniziativa autonoma. I cattolici, difensori dell’ordine sociale, dovevano restare lontani da qualsiasi tipo di protesta che potesse mutarsi in ribellione contro l’ordine esistente. Di fronte a prese di posizioni così intransigenti, i murriani, colpiti dall’accusa di essere fomentatori di discordia, non ebbero la possibilità di far intendere le loro idee. L’appello alla concordia, rivolto da Leone XIII, si traduceva, in realtà, in un appello al silenzio per i democratici cristiani e alla rinuncia a qualsiasi tentativo di rinnovamento all’interno del mondo cattolico. Murri non prese la parola al congresso, per obbedire alle richieste di una «autorevolissima persona». Di conseguenza, la sua corrente uscì apparentemente sconfitta da un congresso che, nella formale riconferma dell’unità di ispirazione del movimento cattolico, aveva chiuso i lavori senza un vero dibattito interno. La sconfitta congressuale non impedì all’attivo prete marchigiano di intensificare la sua azione al di fuori dell’Opera, moltiplicando con gran fervore le iniziative per la costituzione di nuclei organizzati, i Fasci democratici cristiani, in vista di una vera e propria organizzazione diversa, anche se non opposta, all’Opera dei congressi. L’ipotesi della costituzione di una siffatta organizzazione, con scopi di preparazione politica ispirata alle idee murriane, suscitò l’intervento dello stesso pontefice. Leone XIII, con l’enciclica Graves de communi del 18 gennaio 1901, riaffermò a chiare lettere la posizione della Chiesa circa la possibilità di una organizzazione politica dei cattolici, reputata prematura e, comunque, dipendente esclusivamente dall’iniziativa del Vaticano. Facendo un esplicito riferimento alla corrente di Murri, Leone XIII dichiarò che il significato di una «democrazia cristiana» non poteva essere politico e che, di conseguenza, non era pensabile l’eventualità di una creazione di organismi autonomi popolari di ispirazione cattolica. Per i cattolici, affermava il papa, il significato del termine «democrazia» non può essere inteso altrimenti che come azione in favore del popolo, di sollecita cura per il popolo, ma non di educazione del popolo a reggere da sé le proprie sorti. Murri reagì con prudenza all’ammonimento papale, tentando di presentarlo come un velato incoraggiamento all’attività dei giovani democratici cristiani, indicati come il nucleo intorno al quale ricostituire l’unità dei cattolici. Ciò non attenuò i contrasti fra
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le due correnti. Giuseppe Toniolo, col suo prestigio, cercò di fare opera di mediazione nel XVIII congresso nazionale dell’Opera, tenuto a Taranto nel novembre 1901, avvalendosi dell’aiuto del presidente della seconda sezione dell’Opera, Medolago Albani, per soddisfare i desideri espressi dal papa. Nel breve inviato al congresso, Leone XIII auspicava la riconciliazione nell’ambito dell’Opera e faceva l’elogio dell’attività dei giovani murriani, ma avvertendo che questa attività non doveva svolgersi in contrasto con l’organizzazione dell’Opera. Il papa esortava i giovani ad aderire al secondo gruppo dell’Opera, quello sociale, dal quale avrebbero tratto maggiori possibilità di intervento senza incrinare l’unità dei cattolici. Contemporaneamente, per riaffermare la dipendenza dell’organizzazione cattolica dal Vaticano, il papa stabilì un nuovo statuto, che gli riservava formalmente il compito di scegliere il presidente dell’Opera. A ridurre ancor più l’autonomia della democrazia cristiana, anche nell’ambito della seconda sezione dell’Opera, vennero le Istruzioni pontificie della congregazione per gli affari ecclesiastici straordinari sull’azione popolare cristiana o democratico-cristiana in Italia, del 3 febbraio 1902. Il Vaticano negava la possibilità di una organizzazione autonoma del movimento democratico cristiano e assegnava ad esso, come per gli altri gruppi dell’Opera, la presenza di assistenti ecclesiastici nominati dal vescovo. In questo modo, il papa, senza impedire del tutto l’opera dei giovani democratici cristiani – per altri aspetti molto utile ed efficace – cercò di eliminare qualsiasi condizione per la trasformazione del movimento murriano in organizzazione autonoma o in partito politico. Costretto ad agire nell’ambito dell’Opera, Murri cercò di sottrarre la direzione di questa agli intransigenti e di spostare l’orientamento dell’organizzazione verso posizioni più vicine a quelle della democrazia cristiana. Con la consueta vivacità, il prete marchigiano lanciò l’attacco contro l’intransigentismo veneto, temporalista aristocratico e reazionario, impersonato da Paganuzzi. Su «Cultura sociale» del 16 agosto 1902, Murri accusò Paganuzzi di essere il vero responsabile, per la sua pervicace intransigenza, dei dissidi che minacciavano l’unità del movimento cattolico, e di essere la causa della crisi dell’Opera: per la sua ottusa convinzione di essere l’unico baluardo dell’ortodossia e dell’Italia cattolica, Paganuzzi era il vero nemico dell’unità dei cattolici.
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La violenza dell’attacco all’uomo che era ancora presidente della organizzazione cattolica suscitò autorevoli proteste, fra le quali quella del patriarca di Venezia, il cardinale Giuseppe Sarto, il futuro Pio X, che difese Paganuzzi dalle «maligne censure, le calunniose insinuazioni e la nera ingratitudine» di chi veniva meno al rispetto verso quell’«uomo venerando». Tuttavia, in seguito alle critiche, Paganuzzi diede le dimissioni dalla presidenza, che venne affidata a un esponente moderato, il conte Giovanni Grosoli, dirigente delle organizzazioni cattoliche ferraresi, fondatore del Piccolo credito romagnolo e del giornale l’«Avvenire d’Italia». Il Grosoli era persona ben accetta ai democratici cristiani, anche se non condivideva le loro idee perché era più favorevole, come Meda, a un intervento dei cattolici nella vita politica in funzione conservatrice e su basi moderate. Disposto a concedere maggior soddisfazione alle esigenze e alle richieste dei giovani, senza venir meno all’obbedienza alle direttive del Vaticano, Grosoli tentò di ricomporre la concordia fra i cattolici e salvare l’organizzazione dell’Opera. Ma a rendere vani questi tentativi intervenne ancora lo stesso Murri, la cui evoluzione ideologica, sotto l’influenza del modernismo, andava sempre più assumendo posizioni in contrasto con quelle della Santa Sede. In un discorso tenuto a San Marino, nell’agosto 1902, Murri si spinse molto avanti nella polemica contro un certo tipo di cattolicismo, echeggiando i motivi della critica modernista. Egli criticò le «costumanze semipagane riverniciate, concezioni giuridiche attinte al diritto romano, idee filosofiche e teologiche elaborate nelle nostre scuole, istituti monastici degenerati fatalmente nel tempo e incapaci di ringiovanire, sistemi, vedute e simpatie politiche, vantaggi e privilegi umani che ci sono cari ed ai quali ci è difficile rinunciare, sedimenti invecchiati ed ingombranti di vecchi sistemi e di vecchie elaborazioni sociali». Con queste dichiarazioni, Murri entrava in un campo – quello dottrinale – in cui difficilmente avrebbe potuto muoversi con abilità senza suscitare, da ogni parte, pesanti e pronte reazioni. La sua dichiarazione fu censurata, ed egli ne fece umile ritrattazione sulla sua rivista. Ciò non gli impedì di perseverare nella sua attività per rivendicare l’autonomia della democrazia cristiana. Anche Toniolo, che era stato fra i progenitori della democrazia cristiana, intervenne a criticare l’atteggiamento murriano, nel quale credeva di veder riapparire vecchi temi giobertiani. Alle accuse, Murri ri-
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spose ponendo Toniolo sullo stesso piano di Paganuzzi, giudicandoli entrambi capaci di servirsi delle armi della ortodossia e della religione solo per imporre la loro personale autorità. Nel vivo della polemica, un fatto nuovo accadde nel mondo cattolico, destinato ad avere notevoli effetti. Il 20 luglio 1903 moriva, ultranovantenne, Leone XIII. Il nuovo papa fu il cardinale Sarto. La sua elezione avveniva in un momento critico per il mondo cattolico, sia al suo interno, sia nelle relazioni internazionali. Proprio in quegli anni, il Vaticano perdeva uno dei suoi tradizionali sostegni nella polemica contro lo Stato italiano, cioè la Francia, dove il governo radicale di Combes stava intensificando la politica anticlericale, come risposta all’atteggiamento conservatore assunto dai cattolici francesi nell’affare Dreyfus. Inoltre, il nuovo papa doveva far fronte alla crisi interna dell’Opera. Pio X, come si è visto, era vicino alle posizioni dei cattolici intransigenti tradizionalisti e mostrava un atteggiamento favorevole, nel campo politico, verso i cattolici moderati. La sua elezione, quindi, era un duro colpo per la corrente della democrazia cristiana, anche se il nuovo papa confermò Grosoli alla presidenza dell’Opera e si mostrò disposto, come il suo predecessore, a ricomporre l’armonia e l’unità nel movimento cattolico. Contro la linea moderata di Grosoli, che sembrava permettere una qualche autonomia alla democrazia cristiana, gli intransigenti tradizionalisti intensificarono i loro attacchi, anche nel XIX e ultimo congresso nazionale dell’Opera, che si tenne a Bologna nel novembre 1903. In quell’occasione, Grosoli cercò ancora una volta di soddisfare la richiesta papale, di ristabilire la concordia e l’unità all’interno dell’organizzazione. Egli affermò che la funzione dell’Opera era quella di unificare e coordinare l’azione dei cattolici, lasciando ai diversi gruppi autonomia di azione, in modo che essi potessero vivere di vita propria. Era un evidente tentativo di conciliazione verso la democrazia cristiana e, in effetti, la proposta fu approvata da una larga maggioranza di democratici cristiani e cattolici moderati vicini al Grosoli. Il riconoscimento di una maggiore autonomia e libertà di azione alle singole associazioni cattoliche provocò, naturalmente, una viva reazione degli intransigenti, e aggravò la situazione dell’organizzazione, avviata ormai verso una crisi irrimediabile. Consapevole del fatto che l’organizzazione era diventata un’istituzione inutile perché provoca-
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va contrasti nel mondo cattolico invece di garantirne l’unità, Pio X decise, nel luglio 1904, lo scioglimento dell’Opera dei congressi, ad eccezione del secondo gruppo, che aveva funzioni sociali. Le associazioni cattoliche furono poste alla diretta dipendenza dei vescovi. In tal modo, ha scritto Candeloro nel suo studio sul movimento cattolico in Italia, finiva «dopo quasi trent’anni di vita, la prima organizzazione generale dei cattolici militanti. Finiva per un brusco atto d’imperio del Vaticano, le cui ragioni però sono abbastanza chiare. Infatti, data l’impossibilità evidente di ottenere una collaborazione fra le tendenze contrastanti, il Vaticano avrebbe dovuto prendere posizione in modo esplicito e clamoroso, in quelle circostanze, a favore dell’una o dell’altra parte; ma proprio questo Pio X voleva evitare. Infatti, sebbene avesse molta simpatia per gli intransigenti, egli non voleva prender posizione per loro, perché ne disapprovava il rigido astensionismo elettorale, d’altra parte non voleva prender neppure posizione per la corrente del Grosoli, la quale, dato il carattere di organizzazione cattolica ufficiale sempre mantenuto dall’Opera dei congressi, avrebbe finito per impegnare in modo scoperto il Vaticano nella lotta politica italiana; senza contare che la linea propugnata dal Grosoli avrebbe forse potuto aprire la strada alla corrente democratica più avanzata guidata dal Murri, alla quale Pio X era nettamente contrario. Non restava quindi al Papa altra via che lo scioglimento della vecchia organizzazione». Lo scioglimento dell’Opera dei congressi concludeva un lungo periodo di storia per il mondo cattolico, ma anche per i rapporti fra la Chiesa e lo Stato liberale. Il 1904 fu, per questo aspetto, una data fondamentale: la presenza di due cattolici in parlamento era il primo segno di un nuovo orientamento, che avrebbe portato i cattolici a partecipare alla vita politica, in funzione moderata. Ma la fine dell’Opera dei congressi, la sconfitta e il superamento dell’intransigentismo tradizionalista e rigidamente astensionista, segnarono anche la fine della democrazia cristiana, come corrente rivolta a creare un movimento di cattolici secondo una concezione di rinnovata socialità della Chiesa, anche se rimase viva e divenne col tempo più intensa l’aspirazione a un’autonoma presenza dei cattolici nel mondo moderno, come alternativa allo Stato liberale.
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4. Pio X e Giolitti Leone XIII aveva mostrato di essere un attento e accorto osservatore dei mutamenti sociali che avvenivano nel suo tempo e di saper preparare la Chiesa a intenderli e a comprenderli in una rinnovata concezione della questione sociale. Diversa, invece, la sua politica verso l’Italia nata dal Risorgimento, politica rimasta ancorata all’astensione senza conciliazione, e alla mai abbandonata speranza di una rivincita temporale. Con il nuovo pontefice, la politica della Chiesa verso lo Stato subì un cambiamento lento ma profondo. Pio X si rivelò più sensibile al problema politico dei cattolici, secondo una visione possibilista e moderata dei loro rapporti con le forze liberali, nel comune scopo di salvaguardare le basi della società dalla minaccia dei sovversivi. Al possibilismo nel campo politico, Pio X fece corrispondere però una maggiore intransigenza nel campo dottrinario per impedire qualsiasi deviazione dall’ortodossia, nel momento in cui, con la nascita del modernismo, nuove idee maturavano in alcuni ambienti cattolici, espressione di un desiderio di rinnovamento della tradizione secondo l’acquisizione delle conoscenze storiche e scientifiche della cultura moderna. Del resto, solo mantenendo una salda disciplina all’interno della Chiesa Pio X riteneva possibile attuare un approccio informale con lo Stato, evitando di provocare, con l’abbandono dell’astensionismo, un’incontrollabile corsa a tentativi di autonoma organizzazione politica dei cattolici. Anche prima della sua elezione, Pio X si era dimostrato propenso a una politica conciliante ed era considerato favorevole alla abolizione del non expedit. Nonostante il suo intransigentismo, il papa era alquanto vicino, per le questioni politiche, alle posizioni dei cattolici moderati e, come questi, era disposto a stabilire accordi contingenti con i liberali conservatori. Del resto, la situazione internazionale aveva fatto cadere qualsiasi speranza di riproporre la questione romana in polemica con l’assetto unitario dello Stato risorgimentale: la politica filofrancese e antitaliana di Leone XIII non aveva dato buoni frutti. Vi erano, insomma, le condizioni per una «conciliazione nella indifferenza», come l’ha definita Arturo Carlo Jemolo, dal momento che da parte cattolica e da parte liberale si erano attenuate, anche se non erano del tutto scomparse, le tentazioni di invadere l’una il campo dell’al-
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tra, e si presentavano ora le condizioni per ricercare punti di incontro sulla base di comuni interessi pratici. Giolitti non era certo Ricasoli e anche se nutriva, al pari di Sonnino, una preconcetta ostilità verso qualsiasi forma di partito clericale, non era animato da spirito di crociata laica contro la «lupa vaticana». In un discorso al Senato, il 24 aprile 1902, Giolitti aveva detto: «L’elemento cattolico, cristiano, credente è composto di ottimi cittadini e da essi nulla temo; ma v’è una parte che prende nome di partito cattolico, di partito religioso, ma le cui tendenze in realtà nulla hanno da fare col vero sentimento religioso al quale è in sostanza perfettamente indifferente, che è dominata e guidata unicamente da sentimento politico apertamente ostile all’attuale ordine di cose». Quanto alle questioni religiose, Giolitti dichiarò alla Camera, il 30 maggio 1904, che «il governo è precisamente e semplicemente incompetente». Per quanto riguardava i rapporti fra Stato e Chiesa, egli non credeva necessario rivedere la soluzione definita dopo la conquista di Roma e manifestò con chiare e semplici parole il suo pensiero in proposito: «Il principio nostro è questo, che lo Stato e la Chiesa sono due parallele che non si debbono incontrare mai. Guai alla Chiesa il giorno che volesse invadere i poteri dello Stato! Libertà per tutti entro i limiti delle leggi: questo è il nostro programma. E come lo applichiamo a tutti i partiti che sono fuori della costituzione da un estremo, l’applichiamo a quelli che sono fuori dall’altra parte». Giolitti valutava bene il peso politico che i cattolici, non come forza organizzata e autonoma, ma quali semplici cittadini potevano avere nella sua politica di compromesso, come possibile alleato di destra da contrapporre alla estrema sinistra. Un alleato che diventerà sempre più indispensabile, nel 1909 e nel 1913, in seguito alla mancata realizzazione del progetto giolittiano di una alleanza governativa con la sinistra riformista. In questo clima di ufficiale indifferenza maturò il primo, limitato accordo fra esponenti liberali e cattolici, per le elezioni del 1904, su iniziativa del ministro degli Esteri di Giolitti, Tommaso Tittoni. A livello collegiale, non erano mancati precedentemente accordi fra liberali e cattolici, ma la novità del 1904, secondo Gabriele De Rosa, «era stata nell’avere cercato un’intesa dello stesso genere, anziché a livello locale, a livello politico e di governo per assicurare una data maggioranza parlamentare e non in vista di un
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programma. Operazione di vertice, insomma, concepita e realizzata al vertice, senza trattative su punti programmatici [...] il papa concedeva che [i cattolici] votassero, ma secondo le indicazioni dei vescovi». L’iniziativa, come si è detto, fu di Tittoni, un «uomo di destra nel senso letterale e non metaforico del termine», come lo ha definito Giovanni Spadolini: egli «impersonava quel versante della Destra di estrazione conservatrice che digradava verso i cattolici», alieno da qualsiasi forma di anticlericalismo e deciso sostenitore della difesa dell’ordine contro i partiti estremi di sinistra. Di fronte allo sciopero generale, Tittoni intuì la possibilità di ottenere il sostegno dei cattolici e fece una proposta in tal senso al conte Gianforte Suardi, deputato moderato di Bergamo, per ottenere l’aiuto dei cattolici bergamaschi nella lotta contro i socialisti. Non si trattava di abolire il non expedit, come precisò il cattolico bergamasco Paolo Bonomi a Pio X, per sostenere la causa dell’intervento elettorale, ma solo di un «pratico» intervento dei cattolici contro i socialisti e gli anticlericali. L’operazione diede i frutti sperati e per la prima volta due cattolici entrarono nella Camera. Così si realizzava il primo di una serie di accordi, contingenti e informali, che avrebbero favorito durante il periodo giolittiano l’inserimento dei cattolici nella vita politica, non attraverso iniziative autonome, democratiche e integraliste di tipo murriano, ma con compromessi di vertice fra liberali e clerico-moderati, nell’ambito di una comune strategia per arginare e contenere l’avanzata del socialismo. L’operazione non piacque a Murri, che deplorò il carattere conservatore dell’alleanza realizzata nel momento in cui non vi era alcun vero pericolo di rivoluzione, mentre i cattolici si mostravano privi di una propria coscienza politica. Più duro il giudizio di un giovane prete di Caltagirone, Luigi Sturzo, che denunciò l’accordo in un articolo su «La Croce di Costantino» del 13 novembre 1904, come la «prostituzione di un voto che nulla significa per sé»: «noi combattiamo i socialisti, è vero, ma con le forze nostre e le nostre idee, che hanno un valore sociale democratico; invece appoggiando i moderati e i conservatori si è fatta opera di reazione, si è andato contro un complesso di aspirazioni e di vitalità, che rispondono ai bisogni del proletariato, all’avvenire delle forze sociali cristiane». Questa prassi elettoralistica, secondo il prete siciliano, allontanava la possibilità per i
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cattolici di entrare nella vita politica con un proprio partito «civile, sociale e politico», con un programma proprio ispirato alle idealità cristiane. Nella sostanza, dunque, le elezioni del 1904 furono il primo esperimento per un compromesso più vasto, culminato nel patto Gentiloni del 1913, fra liberalismo conservatore e cattolici clerico-moderati, un incontro a mezza via sul terreno del conservatorismo e dell’antisocialismo. Le conseguenze di questo orientamento pratico non erano prevedibili in quel momento. Ma pochi anni dopo apparve evidente che il compromesso creava in realtà una situazione favorevole per il ritorno attivo dei cattolici nella vita politica, e in un senso molto diverso da quello immaginato da Giolitti: egli aveva pensato di trovare nei cattolici, in quanto forza d’ordine e moderata, un alleato e scoprì invece un antagonista. Al momento, Giolitti considerò positivamente la partecipazione dei cattolici alle elezioni politiche, come primo passo verso una loro adesione alla realtà e alla vita dello Stato unitario: nel rispondere alle critiche di Ferri sulla presenza dei clericali alle urne e sulle conseguenze che questa presenza poteva avere, egli rispose semplicemente, alla Camera, il 13 dicembre: «Per parte mia credo sia bene che tutti indistintamente i cittadini italiani concorrano a fare il loro dovere».
VI DA GIOLITTI A GIOLITTI Le elezioni del 1904 erano state un successo per la prassi politica di Giolitti. La maggioranza della nuova Camera aveva infatti un carattere più conservatore: per compensare ciò, Giolitti riuscì a far eleggere a presidente della Camera il radicale di sinistra Giuseppe Marcora, anticlericale e repubblicaneggiante, riuscendo così a staccare i radicali dai socialisti e dai repubblicani. Gli avvenimenti degli ultimi mesi non avevano spinto Giolitti a mutare la sua linea politica. Alla nuova Camera egli dichiarò di non voler affatto rinunciare all’orientamento politico del suo programma, che aveva caratterizzato l’azione di governo negli ultimi tre anni. Al Senato ribadì la sua fiducia convinta sugli effetti positivi della nuova prassi liberale: essa agevolava il progresso sociale ed economico di nuovi ceti, senza danno per le istituzioni, che anzi traevano maggiore stabilità dal consenso delle masse popolari soddisfatte nelle loro esigenze di miglioramento e di progresso. Giolitti dovette difendere la sua politica soprattutto nel Senato, dove seppe far fronte alle critiche dei conservatori i quali sostenevano che i disordini del settembre erano stati l’inevitabile e drammatica conseguenza di una politica blanda e permissiva verso le masse popolari e i partiti estremi. Giolitti rispose a queste accuse con decisione, dichiarando di non volersi opporre a un processo di trasformazione che non era soltanto un fenomeno italiano ma comune a tutti i paesi civili. Egli perciò riteneva buona la politica di non applicare misure repressive verso le organizzazioni che si facevano interpreti di questo processo, dal momento che i loro obiettivi erano solo economici: «In tutto il mondo – disse Giolitti al Senato il 6 dicembre – le ultime classi sociali vogliono migliorare le loro condizioni economiche, ed è questo il grande problema.
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Come il terzo stato è venuto su a prendere il suo posto, così anche il quarto stato vuol fare altrettanto, e nessuna legge che vieti le associazioni, o ne regoli gli statuti potrà impedire questo moto mondiale. Ciò che si può fare è di regolare e disciplinare questo movimento, non con la violenza, ma con leggi che tutelino gli interessi di tutte le classi sociali, affinché tutte si affezionino alle istituzioni, ma ciò non si ottiene certo con il denunciarle come nemiche della monarchia, poiché questo sarebbe il peggiore dei servizi che si renderebbe ad una monarchia liberale come la nostra. Io sono pienamente d’accordo [...] che il fine nostro deve essere quello di mantenere la monarchia che è la base dell’unità d’Italia [...] bisogna rendere forte la monarchia non fucilando le masse popolari, ma affezionandole profondamente alle istituzioni, promuovendo noi il progresso, senza aspettare che lo promuovano i socialisti, facendo noi tutto ciò che è possibile fare in loro favore, e non impedendo loro di associarsi per migliorare le loro condizioni! E quando io vedo che ci sono stati dei proprietari che combattevano le leghe e ne domandavano la soppressione, perché queste chiedevano qualche centesimo al giorno di più per i contadini, dico che quei proprietari sono i veri nemici della monarchia italiana».
1. La statizzazione delle ferrovie Il primo e più importante problema che Giolitti dovette affrontare con la nuova Camera fu la questione delle ferrovie, in vista della prossima scadenza della convenzione fra lo Stato e le tre società private – la Mediterranea, la Sicula e le Meridionali – che gestivano i servizi. La convenzione ventennale stabilita nel 1885 scadeva nel 1905, ma già dal 1902 il problema di rinnovare la convenzione o statizzare le ferrovie divenne di attualità nel dibattito parlamentare. Il problema era stato affrontato, per la prima volta, nel 1899, quando fu nominata una commissione; presieduta dal senatore Lazzaro Gagliardo, per esaminare la situazione dell’esercizio, in seguito alle difficoltà sorte dopo la crisi del settore negli anni 1885-1896 e dopo l’intervento statale per far fronte alle esigenze del servizio. La commissione Gagliardo ebbe il compito di fare un’indagine per accertare lo stato del servizio e soprattutto le condizioni del personale, dal quale provenivano le maggiori
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lamentele. La commissione riuscì a presentare la relazione conclusiva soltanto nel 1902, con indicazioni favorevoli per il rinnovo delle convenzioni. Lo stesso anno, tuttavia, in seguito allo sciopero dei ferrovieri che reclamavano miglioramenti salariali, lo Stato aveva dovuto intervenire per far fronte all’agitazione dando, con la legge del 7 luglio 1902, il suo contributo finanziario alla risoluzione della vertenza. Questo intervento dello Stato, i risultati della commissione, l’accertata gravità del disservizio ferroviario, il crescente malcontento dei ferrovieri, che con la loro federazione, sorta nel 1900, costituivano una delle più forti organizzazioni sindacali: tutti questi motivi resero urgente la necessità di riesaminare la questione. Nell’ambito del governo del tempo, favorevoli all’indirizzo privatistico erano il ministro dei Lavori Pubblici Balenzano e lo stesso presidente del Consiglio Zanardelli. Giolitti, che in un primo momento era stato favorevole al rinnovo delle convenzioni, modificò in seguito la sua idea, e finì col diventare fautore della nazionalizzazione. A favore di questa soluzione vi erano varie ragioni: il bilancio negativo dell’esercizio privato per quanto riguardava le disagiate condizioni del personale, lo stato di deterioramento delle reti e del materiale ferroviario, la scarsa cura per i miglioramenti tecnici manifestata dalle società, che pure gestivano il servizio in condizioni favorevoli e vantaggiose, senza alcun rischio. Inoltre, vi erano le pressioni e le proteste dell’industria meccanica perché le società – nonostante la convenzione del 1885 che le impegnava ad acquistare dalle industrie italiane il materiale, con un prezzo non superiore al 5 per cento rispetto ai prezzi delle industrie straniere – continuavano ad acquistare il materiale dall’estero, danneggiando l’industria italiana. Infine, dopo l’intervento dello Stato nel 1902, era necessario rivedere il rapporto fra le società e lo Stato per gli oneri finanziari. Nel caso di Giolitti, vi era anche una decisa avversione per gli scioperi nei pubblici servizi e in particolare nel settore ferroviario, di grande importanza per la vita sociale e commerciale: ciò lo aveva spinto, sia in occasione dello sciopero del 1902 che di quello del 1904, a disporre un decreto per la militarizzazione dei ferrovieri. Nel progetto di legge preparato dal ministro dei Lavori Pubblici, Francesco Tedesco, e presentato il 21 febbraio 1905, erano previste pene severe per gli organizzatori e i partecipanti agli scioperi o per l’adozione di pratiche ostruzioniste nel settore dei servizi pubblici.
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Fra i partiti e i gruppi politici, i radicali, in occasione del loro congresso a Roma del 1904, si erano dichiarati assertori della nazionalizzazione e contrari al regime misto creato con la legge del 1902. Anche i socialisti riformisti erano favorevoli alla nazionalizzazione, sia per combattere i gruppi finanziari delle società private, sia perché concepivano la statizzazione come un passo avanti verso il collettivismo. Contraria era invece la corrente rivoluzionaria, che si avvicinava ai liberisti ortodossi nel chiedere il ripristino della gestione privata senza interventi statali, convinti che il passaggio del servizio allo Stato non solo non avrebbe favorito l’evoluzione verso il collettivismo ma, al contrario, avrebbe rafforzato il potere dello Stato borghese, nei confronti dei cittadini in generale e dei ferrovieri in particolare, ai quali veniva tolta l’arma sindacale. Nel 1903 i rivoluzionari riuscirono anche a staccare dalla Federazione nazionale dei ferrovieri, a maggioranza di tendenze riformiste, l’organizzazione del Riscatto ferroviario. Tuttavia tanto la Federazione nazionale quanto il Riscatto accettarono, nel 1904, il progetto di nazionalizzazione, da realizzare attraverso la costituzione di un’azienda autonoma, con la partecipazione di tutte le categorie interessate. Durante il governo Zanardelli vennero fatti alcuni tentativi per raggiungere un nuovo accordo con le società, prima della scadenza della convenzione, ma le proposte fatte dalle società non facevano che scaricare sullo Stato l’onere passivo della gestione. Esse, infatti, chiedevano la liquidazione, ad opera dello Stato, delle pendenze in corso, il suo impegno per il rinnovo del materiale e il miglioramento economico per il personale. Tornato al governo, nel dicembre 1903 Giolitti annunciò la presentazione di un disegno di legge per la statizzazione delle ferrovie, da mandare in vigore se non fosse stato possibile riorganizzare il settore con la gestione privata. Era un progetto ipotetico ma sufficiente, come ha osservato Antonio Papa, «a caratterizzare una politica ferroviaria intesa a predisporre una alternativa al regime delle convenzioni, a rinvigorire il potere di contrattazione del governo nei confronti delle società private», seguendo una via diversa da quella di Zanardelli. Giolitti fece della statizzazione anche un punto del suo programma per le elezioni generali del 1904. Il 21 febbraio 1905 fu presentato alla Camera un definitivo disegno in proposito, preparato dal ministro Tedesco. Pur accogliendo diverse richieste dei
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ferrovieri, il progetto prevedeva il divieto di sciopero e pesanti sanzioni penali per i promotori e i partecipanti. Per protesta contro questo divieto, i ferrovieri adottarono la tattica ostruzionista, con l’applicazione letterale e precisa del regolamento, e di conseguenza paralizzarono i servizi. Colpito da una malattia nervosa, nel pieno della agitazione, Giolitti presentò le sue dimissioni il 4 marzo. La sua malattia era reale, ma i suoi oppositori lo accusarono di allontanarsi nel momento cruciale, per lasciare ad altri il compito di affrontare la crisi e preparare il ritorno al potere in condizioni migliori.
2. L’intermezzo di Alessandro Fortis Lasciando il governo, Giolitti indicò al re come successore il deputato forlivese Alessandro Fortis. Fortis era un ex repubblicano garibaldino che si era convertito alla monarchia, aveva fatto le sue prime esperienze di governo sotto Crispi, come sottosegretario all’Interno, era stato ministro dell’Agricoltura con Pelloux nel suo primo gabinetto, e, infine, aveva concluso la sua trasformazione parlamentare come amico personale e fedele sostenitore di Giolitti. Personalità brillante ma priva di originalità, intelligente ma poco costante nell’impegno, legato al mondo degli affari e della finanza per la sua professione di avvocato, Fortis era politicamente un tipico rappresentante della maggioranza neotrasformista di Giolitti. Avuto l’incarico, rinunciò dopo alcuni giorni per le difficoltà incontrate, lasciando a Tittoni l’interim della presidenza. La Camera tuttavia confermò la designazione di Fortis, che riuscì a formare un governo non nuovo effettuando soltanto alcune sostituzioni fra i titolari dei ministeri del precedente governo giolittiano. Fortis si trovò di fronte la questione ferroviaria, nelle condizioni critiche in cui l’aveva lasciata Giolitti. Contro il nuovo presidente si levarono le accuse dei socialisti, che denunciavano i legami di Fortis con il mondo degli affari e una sua presunta propensione a favorire gli interessi delle società private. Fortis, a sua volta, presentò il 7 aprile alla Camera un disegno di legge che prevedeva l’esercizio statale, gestito da un’azienda creata sul modello di quelle private, presieduta da un direttore generale e da un consiglio di amministrazione, con larga autonomia. La questione del di-
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ritto di sciopero veniva risolta dando ai ferrovieri la qualifica di pubblici ufficiali e sottoponendoli, di conseguenza, alle norme che regolavano il pubblico impiego. Era una soluzione che, pur attenuando le sanzioni previste per gli scioperanti, nella sostanza riconfermava il divieto di sciopero per i ferrovieri e, perciò, contro di essa i sindacalisti rivoluzionari, che controllavano il comitato di agitazione, proclamarono il 17 aprile uno sciopero generale nelle tre reti, al quale però mancò l’appoggio degli altri lavoratori, resi meno combattivi dal fallimento del precedente sciopero generale. Scarsa fu anche la partecipazione dei ferrovieri. L’iniziativa rivoluzionaria finì ancora una volta con un fallimento, che permise al governo di far passare il suo progetto alla Camera, con 289 voti favorevoli e 45 contrari, il 19 aprile, e successivamente al Senato, il 21, con 109 voti a favore e 8 contrari. Dal 1° luglio 1905 lo Stato assumeva l’amministrazione delle ferrovie della Sicula, dell’Adriatica e della Mediterranea con la creazione della direzione generale delle Ferrovie dello Stato, sotto il controllo del ministero dei Lavori Pubblici. Alla direzione fu chiamato l’ex direttore della Sicula, Riccardo Bianchi, un ingegnere piemontese, stimato da Giolitti per le sue qualità di organizzatore, che si manifestarono nell’opera di un decennio, con la ristrutturazione del servizio e con l’ordinamento tecnico e amministrativo del settore. Fortis aveva ottenuto un successo parlamentare, ma la debolezza del suo governo si rivelò nella questione del riscatto della rete gestita dalle Meridionali e delle liquidazioni alle compagnie private che, nei progetti da lui presentati, sembravano favorite. Solo un massiccio intervento dei giolittiani riuscì a salvare il governo, con un ordine del giorno che rimandava a nuovo esame la questione delle liquidazioni. L’opera di Fortis poteva registrare qualche attivo al suo governo, come le iniziative a favore della Sicilia e della Calabria, dove il presidente del Consiglio si era recato sull’esempio di Zanardelli, dopo violenti scontri fra lavoratori e forza pubblica a Grammichele, in provincia di Catania, con un tragico bilancio di 14 morti. Fortis presentò un progetto di legge speciale per la Calabria ma, nello stesso tempo, ferì gli interessi dei produttori vinicoli meridionali con il nuovo trattato commerciale con la Spagna, concluso l’8 novembre, che concedeva una riduzione doganale ai vini spagnoli. Il trattato venne respinto dalla Camera e il 18 dicembre Fortis presentò le dimissioni. Poiché la Camera non
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aveva espresso la sfiducia, il re riconfermò l’incarico. Fortis formò un nuovo governo, cambiando quasi tutti i ministri e fra questi come ministro degli Esteri, per la prima volta, nominò il sonniniano marchese di San Giuliano. Tuttavia, la Camera negò la fiducia al nuovo governo. Il 30 gennaio 1906, Fortis fu sconfitto con 221 voti contrari. In un certo senso, la sua sconfitta era soprattutto una sconfitta parlamentare per Giolitti, che si era impegnato fino all’ultimo per salvare il governo del suo “luogotenente”, forse troppo sicuro di poter controllare la maggioranza della Camera che egli aveva fatto eleggere. La sconfitta di Fortis e di Giolitti appariva la conseguenza di un improvviso mutamento nello spirito e nelle tendenze della maggioranza. Dopo sei anni sembrava che il parlamento volesse riprendere la sua autonomia e libertà di azione verso Giolitti, e molti sperarono nell’inizio di una nuova era. Infatti, la sconfitta del governo sull’accordo commerciale con la Spagna, che colpiva gli interessi dei proprietari terrieri e dei produttori meridionali, rappresentava anche, sintomaticamente, un segno di rivolta contro il giolittismo. Nel commentare la vicenda che aveva portato Fortis al nuovo incarico, Papafava aveva intuito, con la consueta acutezza, la reazione parlamentare a quest’operazione giolittiana, e aveva previsto prossimo il momento di Sonnino. A Sonnino, infatti, fu dato l’incarico di formare il nuovo governo, come maggior esponente dell’antigiolittismo parlamentare.
3. I cento giorni di Sonnino L’avvento al potere di Sidney Sonnino fu salutato da vasto entusiasmo e dalla fiducia nei buoni frutti che avrebbe portato la sua opera di governo. Con Sonnino, scrisse qualche anno dopo Arturo Labriola nel suo saggio Storia di dieci anni, entrava nella vita politica, «dove già si era raccolto il cumulo di ogni immondizia», «la grande libera salutare aria». Sonnino era riuscito, in parte, a far dimenticare d’essere stato il teorico e l’ispiratore dei conati reazionari del governo Pelloux. Liberale convinto e sincero quale era, aveva elaborato un piano organico di riforme per promuovere lo sviluppo sociale ed economico del paese senza offendere la libertà ma anche senza diminuire l’autorità dello Stato e la stabi-
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lità delle istituzioni, che parevano vacillare e perdere prestigio con la politica di compromesso attuata da Giolitti. Sonnino offriva alla destra conservatrice la sicurezza di operare per ristabilire il prestigio dello Stato al di sopra dei conflitti sociali, mentre dava alla sinistra la speranza di attuare un programma organico di riforme che, nel complesso, era molto più avanzato di quello giolittiano. La sua inflessibilità morale, infine, dava a tutti la garanzia per un rinnovamento nel metodo di governo, diverso dalla disinvolta e spregiudicata abilità giolittiana. Sonnino, si diceva, aveva tutte le qualità per essere un vero uomo di Stato. Ma gli mancava la qualità fondamentale: la capacità di conquistare una maggioranza parlamentare per mezzo della quale realizzare i suoi progetti di riforma. Egli aveva vagheggiato la creazione di un grande partito conservatore moderno, ma la prassi giolittiana aveva eliminato la possibilità di una organizzazione stabile e moderna dei gruppi liberali. La maggioranza che aveva portato Sonnino al governo era eterogenea e il suo consenso era tanto caloroso quanto contingente. Giolitti, buon conoscitore di uomini, intuì molto bene il limite politico di Sonnino, derivante in un certo senso dalle sue stesse qualità: «L’on. Sonnino – scrisse nelle sue memorie –, datosi tutto sino dalla gioventù alla vita politica, ed entrato ancora giovanissimo nel Parlamento, e dotato pure di grande volontà e serissima capacità di lavoro, si era fatta una preparazione di dottrina e di cultura nei diversi rami della amministrazione dello Stato, quale non hanno neppure lontanamente avuta altri più fortunati di lui. Ma se egli conosceva i problemi, non ha mai conosciuto in modo sufficiente gli uomini, la cui cooperazione, volontaria o renitente, diretta o indiretta, alla soluzione di questi problemi è indispensabile nei regimi democratici e rappresentativi. Sempre un po’ isolato ed appartato anche in mezzo ai suoi amici, si è tanto più trovato a disagio nelle assemblee, che vogliono essere dominate, ma a mezzo di una sagace persuasione che tenga conto di tutti i loro umori, e che sappia volgerli ai propri fini. E gli è mancato pure il sentimento che i problemi politici, pure rimanendo sempre gli stessi nel loro nocciolo, sono essenzialmente mutevoli nei loro rapporti con le condizioni e le circostanze fra le quali vengono affrontati». Le scarse doti di empirismo politico impedirono a Sonnino di durare al governo, ma le capacità culturali, la competenza tecni-
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ca, la lunga riflessione sui problemi dello Stato e della società italiana gli permisero di avviare progetti di legge di notevole importanza, anche se il suo programma di governo rimase in gran parte irrealizzato. Nonostante la sua incapacità a muoversi con disinvoltura nelle duttili manovre parlamentari, nella composizione del nuovo governo Sonnino portò a termine una operazione «trasformista» che non era riuscita a Giolitti, cioè fare partecipare i radicali. L’idea di collaborazione era stata formulata da Sonnino prima del suo avvento al governo, in una lettera del 5 ottobre 1905 a Ettore Sacchi, principale esponente dei radicali, in previsione della caduta di Fortis, dichiarando che riteneva possibile con i radicali un accordo su alcuni punti principali da sostenere nel governo, e prima di tutto sulla “questione meridionale”. Sonnino ottenne la partecipazione dei radicali, i quali avevano ormai abbandonato qualsiasi atteggiamento polemico nei confronti delle istituzioni e si erano convertiti tanto alla monarchia che al riformismo graduale di tipo giolittiano. Due di loro, Sacchi ed Edoardo Pantano, entrarono nel governo come ministro della Giustizia il primo, e dell’Agricoltura il secondo; e due – Giulio Alessio e Luigi Credaro – come sottosegretari alle Finanze e all’Istruzione. Agli altri ministeri Sonnino chiamò uomini di destra o di centro ma tutti distinti dalle particolari competenze tecniche, come Francesco Guicciardini, esperto di problemi balcanici, al ministero degli Esteri; Luigi Luzzatti al Tesoro e Antonio Salandra alle Finanze. Sonnino presentò alla Camera il suo programma l’8 marzo 1906. I problemi principali che Sonnino si proponeva di affrontare erano: la soluzione definitiva della questione ferroviaria, riforme liberali nel campo della giustizia e delle amministrazioni locali, il problema del Mezzogiorno. La “questione meridionale” era al centro del programma sonniniano e del suo disegno riformatore. Sonnino era infatti convinto che bisognasse superare il dualismo economico e sociale fra Nord e Sud, perché soltanto così sarebbe stato possibile dare al paese una maggiore omogeneità sociale e, di conseguenza, una maggiore stabilità politica. Per Sonnino, la “questione meridionale” era il problema fondamentale per il futuro della nazione ed egli voleva discuterlo nel complesso, con un programma organico di riforme, senza disperdersi, come i precedenti governi, nella formulazione di leggi speciali, locali e fram-
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mentarie. Pur essendo sostenitore dell’industria settentrionale e particolarmente lombarda, Sonnino era molto più sensibile ai problemi dell’agricoltura meridionale. Il suo programma intendeva appunto proteggere la piccola proprietà, favorirne lo sviluppo e, nello stesso tempo, stimolare la grande borghesia agraria a intensificare l’attività produttrice, senza danneggiare le masse contadine. Per la soluzione del problema meridionale Sonnino presentò due progetti di legge, uno suo e l’altro di Pantano. Il progetto sonniniano prevedeva, innanzi tutto, uno sgravio fiscale, per favorire sia il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato contadino sia lo sviluppo della piccola proprietà. Sonnino – che aveva accolto l’idea di una riforma tributaria quando era stata abbandonata da Giolitti – proponeva una diminuzione del 30 per cento dell’imposta sui terreni per redditi non superiori alle 6.000 lire e l’obbligo, da parte dei proprietari, di fornire ai contadini il necessario per la semina, la coltura e la conduzione del fondo fino all’epoca del raccolto. Inoltre, Sonnino chiedeva l’intensificazione del credito agrario, con l’istituzione delle casse provinciali. Consapevole del fatto che le agevolazioni economiche non sarebbero state efficaci se non accompagnate dal miglioramento delle condizioni morali e sociali dei contadini, Sonnino proponeva un primo passo per l’avocazione dell’istruzione pubblica allo Stato, cioè la sovvenzione statale dell’istruzione elementare. Altro ostacolo da rimuovere, per avviare a soluzione il problema meridionale, era la prepotente ingerenza del governo nella vita amministrativa, che poneva le amministrazioni locali praticamente in sua balia, dal momento che il governo poteva scioglierle arbitrariamente. Per dare ai comuni maggior autonomia, Sonnino propose di limitare la facoltà del governo di sciogliere i consigli comunali. In tal modo, egli sperava di risanare la vita politica ponendo fine alle ingerenze clientelari del governo negli affari locali. Con eguale spirito liberale, Sonnino propose l’abolizione del sequestro preventivo della stampa, onde garantire a questa la più ampia libertà di espressione. Quanto al suo disegno di democrazia rurale, basato sulla costituzione della piccola proprietà sottratta alla minaccia dell’espansione latifondista, Sonnino credeva utile sia la diffusione del contratto di enfiteusi sia la creazione di società anonime che avrebbero provveduto all’acquisto di grandi estensioni agricole e alla creazione delle strutture necessarie – ca-
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se coloniche, acquisto di sementi, concimi e bestiame – da affidare ai contadini. Dal suo canto, il progetto Pantano prospettava la possibilità della colonizzazione interna attraverso l’affittanza delle terre incolte da parte di cooperative miste di braccianti, fittavoli e proprietari. Nel campo della legislazione sociale, il governo era ricco di ambiziosi progetti. Sonnino richiese, in via urgente, la discussione della legge che istituiva l’ispettorato del Lavoro, l’assegnazione di 10 milioni alla Cassa nazionale di previdenza per il fondo di invalidità e, infine, un progetto per la creazione di un ministero del Lavoro, in cui raccogliere tutte le attività sociali riguardanti i lavoratori in patria e all’estero. Questo programma, a parte le critiche su aspetti particolari, aveva molti elementi per essere gradito anche ai socialisti, i quali dichiararono il loro appoggio al governo del «forcaiolo» Sonnino, venendo con ciò meno ai deliberati antiministerialisti del congresso di Bologna. Ma, come osservò Ivanoe Bonomi, ripensando da storico le vicende del partito socialista di cui era stato protagonista, «Ferri e i suoi amici si volgevano con profonda simpatia al Sonnino che aveva esordito in gioventù con acuti e coraggiosi studi sulla Sicilia, che aveva manifestata la sua convinzione sull’opportunità del suffragio universale, che aveva larga e solida preparazione per affrontare questi problemi e volontà decisa per risolverli». Inoltre i socialisti erano soddisfatti per l’atteggiamento di Sonnino verso la reclamata inchiesta sulla marina, «atteggiamento che lo aveva nettamente separato da quei succhioni nei quali [Ferri] simboleggiava, con grande giubilo della piccola borghesia italiana, l’affarismo procacciante e il politicantismo disonesto». Sonnino, infatti, aveva deciso di far luce sulla questione, aprendo la discussione sull’inchiesta, che indagava sulle collusioni fra il ministero della Marina e la Terni, secondo quanto era stato denunciato da una rumorosa campagna giornalistica condotta da Ferri contro l’ammiraglio Giovanni Bettòlo. Meno entusiasta e più cauto nell’appoggio al governo sonniniano era Turati, alquanto diffidente del riformismo conservatore dell’ex reazionario. Nel complesso, il programma di Sonnino e del suo governo, «nettamente orientato a sinistra – secondo Carocci –, fu un interessante compromesso fra il riformismo di tipo giolittiano (aumento di stipendi agli impiegati di Stato, legislazione sociale, lavo-
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ri pubblici) e un programma di democratizzazione rurale basato sul problema del Mezzogiorno, con difesa della piccola proprietà». Si trattava, cioè, di un programma di riformismo agrario concepito da un conservatore illuminato, che assegnava allo Stato il ruolo di protagonista attivo nella vita sociale, e di promotore dello sviluppo economico ma, nello stesso tempo, limitava l’espansione del suo potere attraverso le autonomie locali, che avrebbero garantito una libera manifestazione della vita pubblica. Un riformismo conservatore, dunque, che non si opponeva alla crescita del movimento operaio, ma voleva che questa avvenisse nell’ambito di una visione solidaristica e non conflittuale dei rapporti fra capitale e lavoro, pur senza scadere a forme di paternalismo. Sonnino era un conservatore aperto alle nuove idee e non era timoroso di audaci riforme: esponente di un liberalismo sociale che assegnava una funzione attiva allo Stato di fronte alla società, egli era convinto della necessità di andar oltre il puro liberismo, accogliendo le istanze più valide e moderne delle dottrine socialiste. Il suo liberalismo, ha scritto Gioacchino Volpe, era moderato «solo per il metodo, per la ponderazione con cui voleva si affrontassero le questioni e si mettesse mano all’azione, per la repugnanza ad ogni atteggiamento demagogico e lenocinio parlamentare, per la preoccupazione di salvare sempre l’autorità e il prestigio dello Stato. Migliorare, elevare le condizioni del popolo, organizzare la società, ma non disorganizzare lo Stato. La libertà dei cittadini, difesa da ogni offesa, dall’alto o dal basso; ma non meno la libertà dello Stato». Sonnino era, per questi motivi, molto diverso da Giolitti, che era più fiducioso negli effetti di un libero, anche se disordinato, sviluppo della società civile senza l’intervento programmato dello Stato. Tuttavia, Sonnino aveva in comune col suo antagonista uno spirito realistico nel valutare l’importanza dei mutamenti politici e sociali, una spiccata tendenza a porre in primo piano i problemi sociali, insieme alla coscienza politica di affrontarli con una coraggiosa opera riformatrice per elevare il tenore di vita delle masse popolari, inculcando in esse sentimenti di devozione verso la monarchia. Il grave limite del riformismo conservatore di Sonnino, che impedì la realizzazione dei suoi progetti innovatori, fu la mancanza di una base sociale che sostenesse la sua politica. Gli stessi «sonniniani», cioè i conservatori, non erano per Sonnino ma per Gio-
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litti. Gli industriali diffidavano del suo riformismo agrario; la borghesia agraria non condivideva le finalità del suo programma di democrazia rurale. Nel paese non vi erano altre forze sociali capaci di sostenere la politica di Sonnino. Del resto, gli stessi gruppi parlamentari erano poco disposti a concedergli per lungo tempo la loro fiducia. L’eterogenea maggioranza che, in un momento di euforia e di confusione, lo aveva portato al governo aveva in sé le premesse per la rapida caduta del governo. La politica sonniniana sarebbe stata possibile, come lo stesso Sonnino aveva intuito, soltanto se sostenuta e attuata con l’appoggio di un grande partito conservatore. L’ipotesi di creare questo partito era, in quel momento, una pura illusione, sia per il carattere della maggioranza che dominava nella Camera, sia per la composita dislocazione politica delle forze sociali della borghesia. La maggioranza parlamentare era certamente conservatrice, ma restava una maggioranza giolittiana, formata sulla base di compromessi che risultavano incompatibili con il disegno sonniniano, secondo il quale la maggioranza di governo doveva essere impermeabile tanto alla destra clericale quanto alla sinistra socialista. Lo stesso Sonnino, del resto, dovette accettare in pratica alcune operazioni di tipo giolittiano, sia pure con spirito diverso. Ma egli non era affatto capace di contrastare la coalizione di interessi economici e politici, nazionali e locali, che si era stabilita attorno al giolittismo, per mezzo del trasformismo, del protezionismo e del clientelismo. Date queste condizioni, la sorte del ministero era segnata fin dalla nascita e fu facile provocarne una rapida morte. I primi contrasti Sonnino li ebbe con i socialisti, dopo che la forza pubblica aveva ucciso un manifestante durante uno sciopero a Torino il 7 maggio 1907. Era stato proclamato immediatamente uno sciopero generale che si estese alle principali città. Nella discussione parlamentare, i socialisti chiesero, con una proposta di legge, l’incriminazione dei responsabili dell’uccisione. La Camera respinse la proposta, e i deputati socialisti, per protesta, si dimisero il 10 maggio. Il 3 giugno furono rieletti. Da parte sua Sonnino non si era opposto, in via pregiudiziale, alla necessità di prendere provvedimenti contro elementi della forza pubblica che si fossero resi responsabili di atti sanguinosi. Egli promosse una inchiesta sui fatti, fece sospendere dal servizio e mettere sotto inchiesta i responsabili che avevano aperto il fuoco contro la folla,
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e non esclude la possibilità di perseguirli penalmente. La sua presa di posizione, che voleva conciliare le richieste della destra e della sinistra, scontentò sia i socialisti sia i conservatori, per ragioni opposte. Sonnino, che aveva fatto dell’ordine e del prestigio dello Stato il punto forte del suo programma, si mostrava, secondo i conservatori, incapace a fronteggiare le agitazioni. Venuto meno l’appoggio socialista, il governo Sonnino si trovò del tutto in balia della maggioranza giolittiana, che sollecitava ormai il ritorno di Giolitti. I primi attacchi contro il governo vennero dai componenti antisonniniani della commissione incaricata di esaminare la questione del riscatto della rete ferroviaria dalle Meridionali. La commissione rinviò più volte la conclusione dei lavori: «In questa condizione di cose – racconta Giolitti nelle sue memorie – l’onorevole Sonnino venne un giorno alla Camera e chiese che s’imponesse alla commissione di riferire entro otto giorni. La proposta non fece buona impressione in quantoché pareva intesa a forzare la mano; cosa di che, considerando l’atteggiamento favorevole della commissione, non c’era affatto bisogno. Io presi la parola per osservare che, trattandosi di un contratto di tanta importanza, mi pareva eccessivo stabilire un termine così breve alla commissione. Sonnino insistette nella sua richiesta». La discussione, su proposta di Giulio Rubini, fu rinviata, per dare tempo alle parti di riflettere sulla questione: «io – continua Giolitti – dissi ai miei amici di essere persuaso che l’onorevole Sonnino non avrebbe receduto dalla sua proposta e che la Camera l’avrebbe battuto, e che, non volendo assistere ad un infanticidio, sarei partito la sera stessa per Cavour. Le mie previsioni si avverarono, e due giorni dopo io ricevevo a Cavour un telegramma che a nome di Sua Maestà mi chiamava a Roma. Quando il telegramma mi pervenne, io non avevo ancora letto nei giornali la notizia, ma arguii subito che il ministero aveva provocato il voto ed era stato battuto». In realtà, il voto, dato su una questione secondaria di procedura, non rappresentava una dichiarazione di sfiducia al governo, con l’indicazione di un diverso orientamento della Camera. Tuttavia, Sonnino presentò le dimissioni, forse convinto di riavere l’incarico dal re. Ma ancora una volta, come era accaduto nel 1900, Vittorio Emanuele decise di non seguire la consuetudine parlamentare e, convinto di interpretare l’orientamento della maggioranza parlamentare, diede l’incarico a Giolitti. Il re accettò
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in sostanza, al di là dei formalismi parlamentari, il ritorno dell’uomo parlamentare più forte, di quel Giolitti che aveva un tale peso, come osservò ironicamente il deputato repubblicano Salvatore Barzilai, da non poter rimanere a lungo fuori del governo senza dovere andare in volontario esilio. Il governo Sonnino era durato cento giorni. Chi l’aveva salutato, all’inizio, come un ritorno all’onestà e alla correttezza parlamentari, ne lamentò la rapida caduta. Papafava così commentò il ritorno di Giolitti al governo: «Siamo dunque tornati a Giolitti. Mentre nel paese gli ingenui si disinteressavano a una politica di idee e di fatti, Giolitti faceva nella Camera una politica di persone, quindi, con stupefazione degli ingenui, buttò giù Sonnino e riacciuffò il potere. È logico che sia così. Il brevissimo ministero Sonnino è stato abbastanza lungo per offendere moltissime vanità e piccole ambizioni e moltissimi interessi più o meno sudici, inclusi, ben inteso, i nordici. Non per nulla è stato detto e ripetuto che avevamo finalmente un ministero onesto: mai fu pronunciata contro un ministero più chiara sentenza di morte». Il contrasto fra Sonnino e Giolitti non era soltanto un conflitto di personalità, né la caduta del ministero fu dovuta solo alla moralità di Sonnino e all’ostilità che essa suscitava nella maggioranza giolittiana. Anche se questi elementi non vanno sottovalutati – soprattutto per il significato che attribuivano loro i contemporanei – la debolezza del governo e della politica sonniniana erano nel fatto che ad essi mancava il sostegno delle principali forze politiche e dei più influenti gruppi economici, i quali giudicavano per loro più conveniente – al momento – la politica giolittiana, che non il riformismo sonniniano, che in parte avrebbe leso i loro consolidati interessi. Il meridionalismo di Sonnino, sintesi della protesta antigiolittiana, non era gradito alla grande proprietà meridionale né ai grandi industriali settentrionali; il suo liberalismo, ispirato da un alto senso dello Stato, si mostrava poco sensibile a intendere in modo meno dottrinario i fenomeni della società civile, dei quali sapeva comprendere l’importanza, osservandoli però dall’alto di una illuministica e alquanto astratta mentalità riformatrice.
VII LA “DITTATURA” GIOLITTIANA Giolitti tornò al governo il 29 maggio 1906. Il suo terzo ministero, il «lungo ministero» come è stato definito, durò fino all’11 dicembre 1909. Ma, a parte i brevi intervalli di un secondo governo Sonnino e di un governo Luzzatti, fino al 1914 Giolitti fu il vero dominatore della vita parlamentare. Vennero alla luce, pienamente, in questo periodo, le qualità politiche dello statista piemontese, che fondava il suo potere su una precisa conoscenza della macchina burocratica e parlamentare, e sull’abilità, frutto di lunga esperienza, nel conquistare le assemblee parlamentari, con un uso spregiudicato e spesso cinico dei mezzi possibili per reclutare e condizionare gli uomini della “sua” maggioranza. Per questo, il governo giolittiano sembrò ai contemporanei simile a una dittatura parlamentare che, mentre sottraeva di fatto alla Camera un reale potere di decisione e di controllo, oltre che di iniziativa legislativa, rendeva quasi impossibile la sostituzione di Giolitti alla direzione della politica italiana. I governi di Sonnino e di Luzzatti, infatti, non compromisero il “corso giolittiano” e non riuscirono a spezzare la solida maggioranza che, a partire dalle elezioni del 1904, si era costituita senza alcun organico programma di governo attorno alla figura di Giolitti. La “dittatura” giolittiana suscitò le vivaci proteste dell’opinione pubblica e dei parlamentari che rifiutarono di essere “giolittizzati”: alla stabilità parlamentare del giolittismo corrispondeva, nel paese, una diffusa insofferenza per i suoi metodi di governo, per la prosaicità della sua politica, per l’influenza deleteria che il trasformismo giolittiano sembrava avere sulla vita e sull’azione dei partiti. Molte accuse rivolte a Giolitti erano infondate, e molte erano ispirate da un rigoroso ma sterile moralismo, che denunciava i mali senza es-
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sere in grado di proporre rimedi efficienti. Ma ciò non toglie, come vedremo nel capitolo nono, che l’antigiolittismo maturato durante gli anni del «lungo ministero», e divenuto più forte negli anni successivi, fosse anche il frutto di critiche realistiche, le quali individuavano nella stabilizzazione moderata raggiunta dal sistema giolittiano non una garanzia per un ordinato svolgimento della vita politica, in armonia con le esigenze del paese e delle sue molteplici componenti, ma soltanto il successo di una politica personale che coinvolgeva gran parte della classe dirigente e della classe politica, ma lasciava sostanzialmente estraneo il paese. Gli anni del «lungo ministero» videro affiorare, in concomitanza con la nuova crisi economica del 1907, i segni evidenti di un crescente rifiuto del sistema giolittiano, sia da parte del proletariato che da parte della borghesia.
1. L’attività del terzo ministero Giolitti Il nuovo governo ebbe, agli inizi, mesi di intenso lavoro parlamentare ma, nel complesso, svolse attività di ordinaria amministrazione. Giolitti raccolse i frutti maturi del lavoro fatto dai governi precedenti e portò a compimento alcune importanti iniziative legislative, che la buona situazione dell’economia e la stabilità del governo rendevano possibili. Giolitti ereditò, inoltre, il programma di Sonnino, ma ne attuò soltanto i contenuti meno radicali, senza pretendere di sostituirlo con un proprio programma di riforme. Il provvedimento più importante del nuovo governo fu la conversione della rendita, operazione iniziata da Luzzatti al tempo del secondo governo Giolitti, e continuata durante il governo Sonnino, con la collaborazione del direttore della Banca d’Italia Bonaldo Stringher. Grazie ai notevoli progressi dell’economia italiana, alla solidità del bilancio statale, alla raggiunta parità della lira con l’oro, al credito e alla fiducia che il paese godeva all’estero per la sua stabilità politica, la conversione della rendita avvenne in condizioni favorevoli, che evitarono qualsiasi eventuale effetto negativo per le finanze dello Stato. L’operazione fu condotta in porto con grande perizia da Luzzatti e rapidamente decisa dal parlamento, per evitare speculazioni finanziarie. La legge presentata alla Camera il 29 giugno, fu subito approvata e, nello stesso giorno, fu fir-
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mata dal re e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Con questa legge, la rendita al 4 per cento, nominale 5 per cento, fu convertita al 3,75 per cento dal 1° luglio 1907 e, dal 1 luglio 1912, al 3,5 per cento. La rapidità e il successo dell’operazione, conseguito con la collaborazione di banche tedesche e inglesi e della banca Rothschild di Parigi, furono accolti dal plauso di tutte le forze politiche, al di là delle divergenze ideologiche, perché erano una conferma dei progressi fatti dall’economia italiana e della fiducia che il paese aveva conquistato in Europa, e rappresentavano concrete garanzie per il suo sviluppo futuro. I rischi furono ridotti al minimo, i rimborsi furono contenuti in modeste proporzioni e la riduzione sulle spese per il pagamento degli interessi del debito pubblico, per l’anno successivo, fu di circa 20 milioni. Nei tre anni seguenti, il bilancio dello Stato si chiuse con un attivo notevole, ma ciò non indusse il governo giolittiano a realizzare riforme, come quella tributaria, ritenute veramente necessarie e già indicate dallo stesso Giolitti come programma di un governo democratico. Giolitti approfittò del successo e delle reazioni positive che aveva suscitato la conversione della rendita per risolvere altre tre questioni spinose rimaste aperte, cioè il riscatto delle Meridionali, la liquidazione delle ferrovie e l’inchiesta sulla Marina. Per la prima, dopo aver ottenuto un rinvio della scadenza per il riscatto, Giolitti riuscì a concludere l’accordo con le Meridionali e la liquidazione dell’Adriatica. La legge in proposito fu approvata dalla Camera il 7 luglio. Contemporaneamente fu definito il regolamento per le Ferrovie dello Stato, che riprendeva le disposizioni della legge proposta da Fortis sul divieto di sciopero. In questo periodo di proficua attività legislativa, Giolitti si impegnò anche a portare a termine l’approvazione della legge sul Mezzogiorno, che aveva ereditato da Sonnino e della quale egli stesso riconosceva l’importanza. Tuttavia vi apportò alcune significative modifiche, abolendo fra l’altro la disposizione che prevedeva l’avocazione della scuola elementare allo Stato nei comuni inferiori a 20.000 abitanti. Secondo il metodo della politica meridionalistica giolittiana, furono adottati vari provvedimenti di carattere locale. Nel luglio furono approvate le leggi speciali per la Sicilia e la Sardegna, fu istituito il consorzio zolfifero siciliano, fu definitivamente approvata e promulgata la legge speciale per la Calabria. Inoltre, Giolitti promosse un’inchiesta parlamentare per
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accertare quali erano le condizioni di vita e di lavoro degli operai minerari della Sardegna e incaricò un’altra commissione di indagare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali. Da questa inchiesta, che prese il nome del senatore presidente della commissione, Eugenio Faina, si ebbe un quadro ampio e realistico della realtà meridionale, ma l’inchiesta non fu seguita da provvedimenti a favore dei contadini, come erano previsti nel programma meridionalistico di Sonnino. Si può ritenere tuttavia che, nel complesso, come ha scritto La Francesca, «la produzione legislativa realizzata durante il terzo gabinetto Giolitti in favore del Mezzogiorno supera quella approvata ad iniziativa dei precedenti governi. Tale circostanza vale a ridimensionare una facile catalogazione di Giolitti come esclusivo interprete degli interessi settentrionali, per quanto non si possa disconoscere che la sua politica meridionalistica del soccorso caso per caso rimanga limitata e frammentaria in confronto alla concezione di Sonnino, per il quale il disegno di sviluppo agricolo del Mezzogiorno rappresentava una scelta di fondo». Dopo aver superato anche lo scoglio dell’inchiesta sulla Marina, discussa dalla Camera e dal Senato e conclusa con una rinnovata dichiarazione di fiducia nel ministero della Marina, nonostante fossero venute alla luce, negli anni precedenti il 1903, collusioni fra questa e la Terni, il governo Giolitti procedette in un clima di bonaccia con una Camera che sembrava aver perso quello spirito di combattività, così vivo contro Sonnino, per trasformarsi in docile esecutrice della politica giolittiana, abile e spregiudicata nel dispensare con discrezione concessioni necessarie per conquistare il consenso delle forze politiche più disparate, e nel compensare la mancata politica di riforme con una politica di favori verso le forze sociali organizzate. Luigi Albertini, intransigente ma acuto critico e oppositore di Giolitti, descrisse con efficacia, sul «Corriere della Sera» del 2 luglio 1908, la situazione parlamentare: «I componenti dei partiti estremi al cospetto suo diventano agnelli; i propositi di fiera opposizione si sfibrano, si trasformano in blande, innocue manifestazioni, fatte più per soddisfare il pubblico e dimostrare un’apparente coerenza che per volontà schietta di combattere. I più bollenti eroi del radicalismo, della repubblica e del socialismo, fatte poche eccezioni, hanno l’aria, quando osteggiano Giolitti, di chiedergli merce, d’implorare
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che sia loro consentito di assumere certi atteggiamenti imposti dalla loro etichetta. Se tanto è degli oppositori estremi, che dire dei costituzionali? Essi si sono squagliati come neve al sole, attorno a capi eminenti si è fatto il vuoto. Soldati, caporali, sergenti, ufficiali e parecchi generali sono passati nel grosso di quella mastodontica maggioranza che tutti accoglie e abbraccia: destri e sinistri, massoni e clericali, liberali autentici e reazionari convinti». Con una siffatta Camera, Giolitti poté continuare nella prassi liberale avviata con la svolta degli inizi del secolo, ma notevolmente moderata rispetto alle sue premesse iniziali. Egli non aveva rinunciato al proposito di usare la maggioranza per promuovere il progresso sociale ed economico delle classi popolari, ma si muoveva sempre più secondo le condizioni del momento, senza precorrere o forzare gli eventi con riforme troppo ardite e troppo impegnative. Un riformismo, dunque, del “caso per caso” e dei piccoli passi, che interveniva soltanto nei punti di minor resistenza, evitando di affrontare questioni di fondo. La prassi giolittiana, inoltre, si esplicò in condizioni favorevoli, non incontrando alcuna seria opposizione capace di dar vita – fra le forze liberali o fra quelle della sinistra – a una valida alternativa, valida non solo nell’indicare i difetti e i limiti del riformismo giolittiano, ma anche e soprattutto nel proporre una diversa politica riformista trovando forze nuove con le quali attuarla. Queste forze, in realtà, non esistevano nel campo liberale. L’alternativa sonniniana si era infranta contro l’opposizione di una Camera che aveva legato la sua esistenza, e gli interessi che rappresentava, alle fortune del sistema giolittiano. Ma neppure nel campo dell’opposizione di sinistra – il discorso per i cattolici è molto diverso, come vedremo – ci fu la volontà di dar vita a uno schieramento capace di contrastare nell’ambito parlamentare il sistema giolittiano. Il fallimento del sindacalismo rivoluzionario e l’inconsistenza politica del massimalismo ferriano – che era ancora alla direzione del partito – avevano vanificato qualsiasi possibilità in questo senso. La tendenza riformista, che trovò il suo valido appoggio nel gradualismo delle forze sindacali organizzate nella Confederazione Generale del Lavoro, diventò, in un certo modo, un elemento complementare necessario del sistema giolittiano, anche se i socialisti riformisti non accettarono mai di essere coinvolti nel governo. Giolitti riuscì a ottenere l’appoggio dei gruppi dirigenti moderati e riformisti del
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movimento dei lavoratori con la realizzazione di una legislazione sociale per il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato: protezione del lavoro nelle risaie, tutela del lavoro dei fanciulli e delle donne durante la maternità, introduzione del riposo domenicale obbligatorio, divieto al lavoro notturno delle donne nei panifici. Soprattutto, Giolitti favorì, con provvedimenti particolari, l’attività delle cooperative, dando ad esse una privilegiata protezione nell’assegnazione e nell’esecuzione di opere pubbliche. I liberali, e taluni socialisti e sindacalisti liberisti, criticarono aspramente questa nuova forma di protezionismo perché, mentre favoriva gruppi organizzati del movimento proletario, soprattutto del Nord, danneggiava gli interessi delle classi più deboli e disorganizzate, come i contadini meridionali. La politica giolittiana sostituiva con interventi parziali e discrezionali – spesso decisi non tanto per reali esigenze quanto per pressioni locali o per interessi di categoria e di politica governativa – la mancata attuazione delle riforme promesse dal Giolitti deputato di opposizione, ma accantonate dal Giolitti presidente del Consiglio. La politica giolittiana cercava di condizionare, per questa via, l’evoluzione del movimento operaio, e soprattutto contadino, verso forme di organizzazione e di azione tipicamente riformiste e con obiettivi economici, ma senza riuscire a conquistare un vero consenso da parte delle masse popolari, che le organizzazioni riformiste rappresentavano in modo regionale e corporativo. Per altro, i limiti di una politica riformista fondata sul compromesso con le organizzazioni economiche erano nelle stesse caratteristiche delle masse lavoratrici: la loro eterogenea composizione sociale e geografica; la divergenza sempre più evidente, con il progressivo sviluppo dell’economia capitalistica, fra operai specializzati e lavoratori generici, che erano ancora la maggioranza; l’eccedenza di manodopera bracciantile nelle regioni settentrionali – dove funzionava poco la valvola dell’emigrazione – imposta nell’attività produttiva dalla forza delle organizzazioni oltre le effettive esigenze del mercato del lavoro: tutto ciò contribuì a impedire l’integrazione delle masse popolari nello Stato liberale, nonostante il compromesso fra riformismo governativo e riformismo sindacale e cooperativo, favorito dalla mediazione del riformismo socialista, che era tornato alla guida del partito nel 1908.
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2. Il successo del riformismo nel partito socialista I progressi del movimento economico rivendicativo e l’egemonia riformista nella Confederazione Generale del Lavoro coincisero con il lungo e travagliato dibattito nel partito socialista, che portò nel 1908 alla vittoria dei riformisti. La direzione rivoluzionaria, nata al congresso di Bologna dall’ibrida alleanza fra la corrente di Ferri e la corrente sindacalista rivoluzionaria, dopo il fallimento dello sciopero generale del 1904 era già entrata in crisi. Ferri aveva cercato di conquistare l’egemonia nel partito mescolando il suo rivoluzionarismo con quello dei sindacalisti. Ora, dopo lo sciopero generale e le reazioni che questo aveva suscitato nel paese, con la conseguente sconfitta elettorale del partito socialista, Ferri decise di riprendere le distanze dai sindacalisti. Il suo rivoluzionarismo, oratorio e propagandistico, non voleva compromettersi con le azioni insurrezionali e non voleva accettare la strategia di lotta del sindacalismo. Con spregiudicata manovra, Ferri distanziò i sindacalisti rivoluzionari riaccostandosi ai riformisti, facendosi ora propugnatore di un «riformismo delle grandi riforme», come egli enfaticamente lo definiva, preparandosi a mutare alleato per conservare l’egemonia nella direzione del partito. Per i sindacalisti rivoluzionari, il fallimento dello sciopero generale del 1904 era stato una dura sconfitta e aveva rivelato la debolezza della loro strategia, priva di un preciso obiettivo politico e, cosa ancora più importante, senza effettivo e largo seguito nelle organizzazioni sindacali. I successi conseguiti dal movimento rivendicativo, grazie anche alla politica di Giolitti, avevano diffuso, nelle organizzazioni di mestiere, un orientamento contrario alle insurrezioni e allo scontro violento. A parte il sindacato dei ferrovieri, in cui i rivoluzionari conservavano una larga influenza, le altre organizzazioni di classe erano, nella maggioranza, dirette dai riformisti e orientate, quindi, a svolgere un’azione rivendicativa nell’ambito della legalità e del riformismo giolittiano. Il sindacalismo rivoluzionario, pertanto, veniva a trovarsi privo della sua base naturale, l’organizzazione di classe e il sindacato, su cui aveva fondato le sue speranze, nella prospettiva di una eroica lotta dei lavoratori liberati dall’egemonia dei «professionisti della politica», dei «partitanti», per divenire unici e autonomi artefici del loro destino. La proposta del sindacalismo rivoluzionario trovò po-
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chi seguaci nel mondo del lavoro, e ciò compromise fatalmente il suo futuro, ponendo le condizioni per il distacco dal movimento socialista. Gli anni che vanno dallo sciopero generale al congresso di Roma del 1906 e al congresso di Firenze del 1908 videro la progressiva emarginazione dei sindacalisti rivoluzionari dal partito socialista. Negli stessi anni, all’interno del partito, si svolse un ampio dibattito sulle prospettive ideologiche e politiche che esso doveva assumere, sulla base di un nuovo esame della situazione sociale, economica e politica del paese dopo cinque anni di esperimento giolittiano. Ma ciò che meglio caratterizzò la vita del movimento socialista in quegli anni, fino alla guerra di Libia e al congresso di Reggio Emilia del 1912, fu una sostanziale egemonia della organizzazione economica sul partito politico che, per mezzo della direzione riformista, sembrò perdere una reale ed efficace presenza autonoma nel parlamento e nel paese, per trovarsi a svolgere una funzione subordinata sia verso il sistema giolittiano sia verso il movimento sindacale. Dal 1906 al 1911 ci fu, in sostanza, una vera e propria eclissi del partito socialista. Le ragioni dell’egemonia riformista e dei limiti oggettivi della sua politica, sia per la vita del movimento dei lavoratori che per lo sviluppo del partito, non vanno individuate soltanto nelle responsabilità di un gruppo dirigente né nei laceranti dissidi ideologici che, in verità, coinvolgevano in modo soltanto superficiale la massa degli aderenti. Il movimento socialista, nell’età giolittiana, fu travagliato da forti contrasti interni, provocati non tanto dalla difficile coesistenza di due anime incompatibili, quanto dalla sua composita formazione sociale. I suoi aderenti erano operai, lavoratori della terra, disoccupati, ma anche piccoli proprietari, artigiani, commercianti, impiegati, professionisti, che condizionavano, a livello di scelte politiche e ideologiche, il comportamento del partito. La struttura di questo era modellata sulle diversità locali, con scarsi vincoli verticali e la tendenza a coagularsi nel municipalismo, da cui traevano vita tante «isole rosse» (secondo l’espressione di Ernesto Ragionieri). Geograficamente, inoltre, il partito socialista era soprattutto localizzato nelle regioni settentrionali e centrali. L’eterogenea realtà sociale del movimento impedì l’elaborazione di una politica nazionale da parte dell’organizzazione sindacale, dell’organizzazione politica e del gruppo parlamentare. E la mancanza di questa politica nazionale fu una
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delle principali cause della debolezza manifestata dal socialismo riformista nei confronti del giolittismo, al quale di fatto fu subordinato senza avere in cambio l’attuazione di un vero programma di riforme, accettando invece una soluzione di compromesso che, come si è detto, assecondava soltanto il processo di sviluppo e di egemonia di “aristocrazie” operaie e contadine. La direzione uscita dal congresso di Bologna venne rimessa in discussione nel congresso nazionale che si tenne a Roma dal 7 al 10 ottobre 1906. Ferri si presentò nella nuova veste di sostenitore del «riformismo delle grandi riforme», dissociandosi dai sindacalisti rivoluzionari e accettando la posizione di Oddino Morgari, definita «integralismo»: una nuova corrente che, pur dichiarandosi contraria al ministerialismo e all’agnosticismo istituzionale, rifiutava il metodo insurrezionale e l’esaltazione dell’azione diretta, con il ricorrente uso dell’arma dello sciopero generale. Morgari presentò un ordine del giorno che ottenne 26.974 voti contro i 5.278 voti dell’ordine del giorno presentato da Labriola. La nuova alleanza tra Ferri e gli integralisti, per le posizioni antirivoluzionarie assunte da questi, era una vittoria del riformismo, perché la liquidazione del sindacalismo rivoluzionario fu la premessa per il ritorno dei turatiani alla direzione del partito. Il problema più importante discusso al congresso di Roma riguardava la funzione del partito, le sue prospettive di azione, il suo ruolo nell’ambito del movimento proletario. La conclusione alla quale giunsero Labriola ed Enrico Leone corrispondeva a quella cui giunse, un anno dopo, il riformista Bonomi: liquidare la funzione autonoma del partito riconoscendo, con opposte ragioni, che la direzione del movimento operaio e contadino doveva essere nelle mani delle organizzazioni sindacali. Labriola e Leone denunciarono, non senza vigore, il carattere socialmente composito del partito socialista e la sua politica non rivoluzionaria. Il partito era fondato, secondo Leone, «sopra gli ibridismi dei vari ceti» che ne costituivano la base e ne determinavano la linea politica, allontanando il partito dal suo compito specifico, cioè quello di sostenere l’organizzazione sindacale rivoluzionaria del movimento proletario. Labriola rifiutava qualsiasi possibilità di conciliazione fra movimento proletario e società capitalistica, anche se questa si presentava nella forma seducente della democrazia riformista. Per Labriola, il partito poteva essere
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«organo subordinato, organo talvolta superfluo ed inutile», ma solo al sindacato di mestiere spettava «la grande missione liberatrice delle classi lavoratrici». Contro questa tendenza Turati prese una posizione decisa, accusando i sindacalisti rivoluzionari di essere i portatori di una tendenza anarchico-repubblicana, che si era inserita come un parassita nel tronco socialista. Fra socialismo e anarco-sindacalismo, secondo Turati, non vi era alcun punto di incontro, nessun elemento comune, «né nella dottrina, né nei metodi». Esteti e sognatori di palingenesi apocalittiche, i sindacalisti rivoluzionari, per Turati, non avevano alcun diritto di cittadinanza nel partito socialista. L’antitesi era irriducibile a qualsiasi compromesso, neppure se chiesto in nome dell’unità di partito. La soluzione integralista era, chiaramente, una via di passaggio per il ritorno al riformismo. Questo ritorno maturò rapidamente nel periodo dal congresso di Roma a quello di Firenze del 1908. Le ragioni del successo riformista, oltre che al fallimento del sindacalismo rivoluzionario, furono strettamente legate allo sviluppo e all’espansione dell’organizzazione economica che, con la creazione della CGdL, aveva raggiunto una posizione di grande influenza nell’ambito del movimento proletario. Il progresso economico conseguito dai lavoratori attraverso le organizzazioni di mestiere costituiva un’esperienza suggestiva per i riformisti, sostenitori di una evoluzione graduale verso il socialismo. Di fronte alla nuova organizzazione unitaria, il partito doveva rinnovare il suo ruolo e la sua funzione definendo la natura dei rapporti che dovevano collegare la sua azione con quella della CGdL. Il prevalere dei riformisti nella CGdL, tuttavia, non significava una dipendenza dell’organizzazione dal partito sotto la direzione riformista. La scarsa capacità egemonica del partito socialista non gli permise di contestare il ruolo autonomo che la CGdL aveva assunto e intendeva conservare. I rapporti che si instaurarono fra il riformismo sindacale e il riformismo politico non furono sempre cordiali e i loro comportamenti pratici non furono sempre ispirati da una comune strategia. Tuttavia nell’ottobre 1907, in un convegno tenuto a Firenze dal 7 al 9, il partito e la Confederazione giunsero a un accordo per definire i rispettivi compiti. L’accordo si rifaceva alla risoluzione del VII congresso della Seconda Internazionale, tenuto a Stoccarda nell’agosto precedente, nel quale
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era stato affrontato il problema del rapporto fra partito socialista e sindacato. La soluzione fu un compromesso. Essa stabiliva la necessità di due compiti differenti, affidati a due organi distinti: lotta politica e rivendicazioni economiche, come forme di lotta del proletariato, non dovevano confondersi né escludersi o subordinarsi a vicenda. I sindacati potevano godere di una maggiore autonomia di azione nello stabilire alleanze anche con altri partiti di sinistra. Nell’accordo fra la CGdL e il PSI, fu stabilito che l’una e l’altra organizzazione dovevano ispirare la loro azione ai principi socialisti e a una strategia politica riformista e gradualista. Si faceva, tuttavia, una distinzione fra scioperi economici, la cui direzione spettava alla CGdL, e manifestazioni politiche lasciate al controllo del partito. Per gli scioperi politici, l’accordo stabiliva che era necessaria una decisione concordata fra partito e Confederazione. In questo modo, mentre i riformisti del partito acquistavano un alleato indispensabile nella lotta contro il sindacalismo rivoluzionario, i riformisti della Confederazione riuscivano a condizionare l’azione del partito secondo la propria concezione economicistica della lotta di classe. Questo accordo segnava la sconfitta e l’isolamento dei sindacalisti rivoluzionari. Già nel luglio 1907 essi avevano deciso di abbandonare il partito, per dare vita a un’organizzazione autonoma di classe, basata sul sindacato di mestiere. I sindacalisti rivoluzionari cercarono di intensificare la loro azione e di riconquistare nelle lotte e nelle agitazioni dei lavoratori il terreno che avevano perduto nel partito socialista. La loro azione si accentuò nel momento in cui, con il sopraggiungere di una nuova e più grave crisi economica, dopo il 1907, si era riacutizzata nel paese la lotta di classe. Questa volta, i lavoratori si trovavano di fronte industriali e agrari preparati a reagire. A Milano, nell’ottobre 1907, gli industriali avevano risposto con la serrata alla proclamazione di uno sciopero generale da parte della Camera del lavoro. Tuttavia, in questa circostanza, la CGdL rifiutò di proclamare uno sciopero generale di solidarietà, mostrando quanto fosse lontana dalla tattica rivoluzionaria e per nulla disposta a lasciarsi trascinare sul terreno dell’azione diretta. La frattura fra i sindacalisti rivoluzionari e la Confederazione si rivelò ancora più netta in occasione dello sciopero generale di Parma, nell’aprile 1908. Questo fu l’ultimo importante episodio di lotta da parte dei sindacalisti rivoluziona-
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ri prima della definitiva rottura col PSI. A Parma nel novembre 1907, i sindacalisti avevano approvato l’ordine del giorno presentato da Alceste De Ambris, uno dei più noti sindacalisti rivoluzionari, che prospettava una linea di azione contrastante con quella della Confederazione, la quale, per reazione, intervenne respingendo lo sciopero generale, definito un atto insurrezionale che andava contro gli interessi del proletariato. Nonostante ciò, nell’aprile, i sindacalisti rivoluzionari proclamarono lo sciopero generale dei braccianti contro gli agrari organizzati nell’Associazione agraria. Per la prima volta, da parte degli agrari, furono reclutati non solo «crumiri» ma furono organizzate vere e proprie squadre armate per proteggere la proprietà e reagire contro gli scioperanti. Il partito socialista e la CGdL diedero la loro assistenza alle famiglie dei lavoratori in lotta, ma la Confederazione non volle proclamare uno sciopero nazionale di solidarietà. La lotta si concluse con la sconfitta dei sindacalisti, in seguito al duro intervento del governo, che fece occupare dalla forza pubblica la Camera del lavoro. De Ambris, colpito da mandato di cattura, fu costretto a fuggire all’estero. L’azione dei rivoluzionari si rivelò ancora una volta fallimentare, non riuscendo a superare i limiti locali e a coinvolgere nella lotta le masse organizzate dalla CGdL. Sconfitti sul loro stesso terreno, il terreno della lotta di classe condotta dall’organizzazione rivoluzionaria, i sindacalisti vennero definitivamente emarginati dal partito e si scomposero come corrente del movimento socialista, per disperdersi in varie direzioni, andando così ad alimentare l’eterogeneo mondo del sovversivismo di sinistra. L’egemonia dei riformisti nel partito era ormai consolidata. Nonostante il perdurare dei conflitti sociali, il sistema giolittiano era riuscito a superare la crisi economica senza abbandonare, sostanzialmente, la sua politica di neutralità nelle lotte fra capitale e lavoro, offrendo al riformismo sindacale e al riformismo politico le migliori condizioni per potersi affermare e prosperare. Il compromesso fra il liberalismo democratico di Giolitti, il riformismo socialista e il gradualismo della CGdL sembrava ormai saldamente stabilito, aprendo una via nuova al futuro del movimento socialista. Osservando appunto lo sviluppo della situazione italiana, il riformista Bonomi giunse a teorizzare l’integrazione del socialismo nella democrazia borghese, sviluppando l’evoluzione già ini-
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ziata dalla politica riformista. Nel libro Le vie nuove del socialismo, pubblicato nel 1907, Bonomi giungeva, per una via diversa da quella seguita dai sindacalisti rivoluzionari, a decretare la fine del partito politico, ritenendo che il socialismo fosse stato ormai tutto assorbito dal movimento sindacale e che, di conseguenza, il partito socialista non aveva più ragione di esistere. Organizzata sindacalmente, la classe operaia camminava da sola per la sua strada, perciò, affermava Bonomi, «è naturale che il vecchio partito, con la sua vecchia anima e la sua superata funzione, scompaia, simile al sasso che, dopo aver sconvolto lo specchio inerte delle acque, si perde nel fondo mentre sulla superficie continua a propagarsi, in giri concentrici, l’effetto del suo urto». Il riformismo revisionista di Bonomi portava il compromesso socialista con il liberalismo democratico alle sue estreme e logiche conseguenze: abbandonato il rivoluzionarismo e considerato superato il marxismo, non vi era altra via per il socialismo che quella di integrarsi nel sistema borghese per accelerare il processo di democratizzazione avviato da Giolitti. Adattando la critica revisionista di Bernstein alla situazione italiana, e ispirandosi al modello del laburismo inglese, Bonomi chiedeva esplicitamente la liquidazione del partito a tutto vantaggio del sindacato: liquidazione per la quale Turati, profondamente legato alla tradizione del partito, non era affatto disponibile. Per Turati, il riformismo restava un metodo per realizzare il socialismo, non uno strumento per il suo abbandono. Ma egli non comprendeva forse chiaramente che la via indicata da Bonomi rischiava di diventare un percorso obbligato se, con il compromesso giolittiano, il partito avesse effettivamente rinunciato a qualsiasi politica nazionale di alternativa, accettando in sostanza i limiti del sistema giolittiano come limiti propri dell’azione socialista. Il compromesso fra politica riformista e sistema giolittiano venne condannato, con passione e intransigenza, da Gaetano Salvemini nel X congresso nazionale socialista, tenuto a Firenze dal 19 al 22 settembre 1908. La denuncia di Salvemini nasceva dal suo meridionalismo, e in nome dei contadini meridionali egli chiedeva la solidarietà dei socialisti e della parte più avanzata del movimento operaio per la lotta contro il blocco protezionista, e per l’attuazione del suffragio universale. Il suffragio universale, conquistato con l’agitazione delle masse, avrebbe dato ai contadini la
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possibilità di partecipare alla vita politica rendendo vano il gioco clientelare di Giolitti e il malcostume elettorale nel Sud. Il partito doveva impegnarsi in questa battaglia perché, secondo Salvemini, il suffragio universale era l’unico mezzo per avviare una vera politica riformista. In questo modo, il partito socialista – al quale Salvemini riconosceva, a differenza di Bonomi e di Labriola, il diritto di esistenza e di autonomia – avrebbe riacquistato una funzione nazionale, in antagonismo con il sistema borghese, che Salvemini identificava nel governo giolittiano e la fitta rete di interessi che lo sosteneva. Pur essendo lontano da posizioni anarcosindacaliste, Salvemini condivideva con i sindacalisti l’idea che la politica del partito socialista doveva rivolgersi contro lo Stato, contro Giolitti che ne era il dominatore incontrastato, contro le deviazioni corporativiste del movimento operaio. La richiesta di Salvemini, criticata da Turati, non fu inclusa fra gli obiettivi urgenti del programma socialista. I riformisti, che tornarono, nel congresso di Firenze, alla direzione del partito grazie a un compromesso con gli integralisti e al consistente appoggio dei riformisti della CGdL, continuavano a ribadire la necessità delle riforme sociali piuttosto che politiche, sostenendo un programma minimo di attuazione immediata (abolizione del dazio sul grano, blocco delle spese militari, imposta progressiva, legislazione del lavoro, riforma e laicizzazione della scuola elementare). Il congresso di Firenze, con la vittoria dei riformisti e la condanna del sindacalismo rivoluzionario – definito incompatibile con i principi e i metodi del partito socialista – confermava in sostanza il carattere democratico-progressista assunto dalla politica del partito, anche se veniva ribadita la differenza fra il suo riformismo e quello dei partiti borghesi. La vittoria riformista, scrisse «Critica sociale», era stata la «vittoria delle cose», mentre il «Corriere della Sera», affermava che era stato cantato «un vero e proprio miserere a Marx e alla sua dottrina». In effetti, la difesa della linea riformista, della «politica delle cose», significò l’abbandono del dibattito teorico sui grandi temi del socialismo e del marxismo e, di conseguenza, contribuì a un certo impoverimento della vitalità ideologica del partito, che, sotto la direzione riformista, spese maggiore energia nella pratica empirica delle battaglie parlamentari piuttosto che nell’analisi teorica. Sembrava che, con il congresso di Roma, i socialisti avessero mandato Carlo Marx in sof-
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fitta, come ebbe a dire ironicamente Giolitti alla Camera l’8 aprile 1911, presentando il suo quarto ministero.
3. I cattolici nella vita politica italiana Dopo le elezioni del 1904 e lo scioglimento dell’Opera dei congressi, anche nel mondo cattolico ci fu molto fermento per la riorganizzazione delle forze e la preparazione di una nuova strategia politica nei confronti dello Stato liberale. Ai problemi politici si aggiunse, in questo periodo, la crisi modernista, il travaglio morale e intellettuale all’interno della Chiesa per un rinnovamento della dottrina e dei costumi, che venne immediatamente condannato da Pio X. La condanna del modernismo coinvolse, naturalmente, anche le correnti democratiche che, all’interno del mondo cattolico, cercavano di proporre un’azione autonoma, come aveva tentato Romolo Murri. Con l’enciclica Il fermo proposito, emanata l’11 giugno 1905, pochi mesi dopo le elezioni generali, Pio X diede un nuovo assetto al movimento cattolico secondo direttive che ponevano la sua riorganizzazione sotto il controllo del Vaticano ed escludevano qualsiasi possibilità di iniziative autonome. Nello stesso tempo, il papa stabiliva le nuove norme che i cattolici dovevano seguire nelle elezioni. Pio X non credeva ancora opportuno abolire il non expedit, ma era convinto che ragioni gravissime, «tratte dal supremo bene della società, che ad ogni costo deve salvarsi, possono richiedere che nei particolari si dispensi dalla legge», specialmente quando i vescovi lo ritengano necessario «pel bene delle anime» e della Chiesa. La possibilità di deroga al non expedit concessa ai vescovi imponeva ai cattolici il dovere di «prepararsi prudentemente e seriamente alla vita politica, quando vi fossero chiamati». Per questo, avvertiva il papa, «importa assai che quella stessa attività, già lodevolmente spiegata dai cattolici per prepararsi con una buona organizzazione elettorale alla vita amministrativa dei Comuni e dei Consigli provinciali, si estenda altresì a prepararsi convenientemente e ad organizzarsi per la vita politica». Le nuove disposizioni sancivano, in sostanza, la scelta clericomoderata che aveva ispirato l’intervento cattolico nelle elezioni del 1904 e aprivano la via a un intervento non più occasionale,
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bensì sistematico, dei cattolici nelle competizioni elettorali per la difesa dell’ordine sociale e l’opposizione alla sinistra socialista e democratica. Per la riorganizzazione dei cattolici vennero istituite, in un convegno tenuto a Firenze nel febbraio 1906, tre associazioni nazionali: l’Unione popolare tra i cattolici d’Italia, l’Unione economico-sociale dei cattolici italiani e l’Unione elettorale cattolica italiana. La prima associazione, che aveva sede a Firenze e fu presieduta, dal 1906 al 1909, da Toniolo, aveva il compito, alquanto indistinto, di raccogliere «i cattolici di tutte le classi sociali, ma specialmente le grandi moltitudini del popolo», con un’opera di propaganda e di educazione morale. Compiti più importanti e specifici avevano le altre due associazioni. L’Unione economicosociale era l’erede del secondo gruppo dell’Opera dei congressi, l’unico sopravvissuto allo scioglimento, sotto la presidenza di Medolago Albani, con sede a Bergamo. Due anni dopo sorsero due nuove istituzioni: la direzione generale dell’Azione cattolica italiana, organo di coordinamento della gioventù cattolica, e l’Unione fra le donne cattoliche, che aveva il compito di occuparsi delle condizioni della donna in concorrenza con le associazioni femminili laiche. Di queste associazioni, la più importante dal punto di vista politico fu certamente l’Unione elettorale, presieduta dall’avvocato Filippo Tolli, che ebbe sede a Roma. Essa aveva lo scopo di riunire le varie associazioni elettorali cattoliche, di promuovere la fondazione di nuove associazioni e di definire «gli elementi del programma di azione che i rappresentanti cattolici» dovevano «concordemente propugnare nelle pubbliche amministrazioni». L’intervento elettorale dei cattolici venne predisposto secondo norme precise, che tenevano conto delle diverse circostanze in cui poteva essere concessa la deroga al non expedit: i cattolici potevano intervenire nei collegi dove vi erano buone possibilità di far eleggere un loro candidato e, in appoggio a candidati liberali moderati, nei collegi dove vi era una forte presenza dell’estrema sinistra. Negli altri casi, dove mancavano queste circostanze, bisognava rispettare l’astensione. Tuttavia, l’impegno politico elettorale dei cattolici diventò sempre più frequente e consistente. I risultati di questa nuova strategia si ebbero nelle elezioni politiche del 1909, nelle quali furono eletti 16 candidati cattolici.
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Le nuove associazioni cattoliche non avevano alcuna autonomia. Erano poste, infatti, in ogni diocesi, sotto il diretto controllo del vescovo. Con questa riorganizzazione rigidamente gerarchica e disciplinata, scompariva per il momento il sogno murriano di un’azione cattolica autonoma, sorta dal basso, volta alla creazione di una democrazia cristiana non compromessa con il conservatorismo liberale. Gli statuti delle nuove associazioni, secondo Gabriele De Rosa, «mettevano le briglie al movimento cattolico» formando «un laicato più ligio alle direttive ecclesiastiche, ma anche più clericalizzato, meno ricco di impulsi, meno vivo». Dopo lo scioglimento dell’Opera e l’enciclica Il fermo proposito, Murri non si era rassegnato all’inazione né aveva accettato la nuova forma di riorganizzazione delle forze cattoliche. Con un gruppo di giovani democristiani contrari alla scelta clerico-moderata, Murri diede vita a Bologna, nel novembre 1905, alla Lega democratica nazionale, che aveva lo scopo di «raccogliere in un fascio forze giovanili e proletarie, coscienti e mature, allo scopo di agire concordemente – con lo studio, l’opera personale nelle associazioni cattoliche e professionali, la propaganda di idee orale e scritta, l’azione politica e altri mezzi opportuni – per l’orientamento democratico dell’attività pubblica dei cattolici, per la difesa degli interessi dei lavoratori e l’educazione politica di questi, e per i progressi della vita economica, intellettuale e morale in Italia». Nello statuto della Lega, inoltre, si affermava esplicitamente la distinzione fra la società civile e quella religiosa, «la loro rispettiva autonomia», pur confermando l’obbedienza all’ispirazione spirituale della Chiesa contro ogni forma di anticlericalismo e di persecuzione religiosa. Attraverso il suo organo «Azione democratica», la Lega reclutò molti giovani, soprattutto nelle Marche e nella Romagna, ma senza riuscire a darsi una solida organizzazione. Dopo pochi mesi, la Lega entrò in crisi e fu investita dalla campagna antimodernista. Nel luglio, Pio X, con l’enciclica Pieni l’animo, condannò la Lega e vietò ai sacerdoti di aderirvi. La condanna pontificia segnava la fine della Lega, che visse come organizzazione di piccoli gruppi, con ispirazione democratica, sempre più orientata verso la lotta politica e in continua polemica con l’orientamento politico della Chiesa. Murri si oppose alle alleanze fra cattolici e conservatori, perché strette a danno della maggioranza dei cattolici «per la difesa di una posizione di privilegio contro
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ogni forza innovatrice». La Lega accentuò ancora di più il suo carattere laico e democratico assumendo, durante la ripresa della polemica anticlericale da parte dei partiti di sinistra contro il nuovo intervento politico dei cattolici, posizioni in netto contrasto con quelle della Chiesa, e ispirate chiaramente alle idee radicali e moderniste. Nelle elezioni del 1909, infatti, la Lega appoggiò i candidati radicali e socialisti. Murri, che nel 1907 era stato sospeso a divinis, risultò eletto e fu immediatamente scomunicato. Alla Camera «il cappellano dell’Estrema», come lo definì Giolitti, prese posto fra i radicali. L’orientamento decisamente laicista assunto da Murri portò alla crisi interna della Lega. Nel 1910 alcuni degli esponenti più autorevoli si staccarono da Murri e diedero vita alla Lega democratico-cristiana, diretta da Eligio Cacciaguerra, mentre Murri si allontanò definitivamente dal mondo cattolico, per rientrarvi soltanto alla vigilia della morte nel 1944. Con la scomunica di Murri, e la fine della Lega, si chiuse un esperimento ricco di fermenti, ma prematuro, per un’azione politica autonoma dei cattolici indipendente dalla Chiesa. Luigi Sturzo aveva avuto ragione nello sconsigliare Murri dall’idea di costituire, in quel tempo, un partito cattolico indipendente e aconfessionale. Anche Sturzo aveva criticato la scelta conservatrice dei cattolici, in occasione delle elezioni del 1904; ma egli pensava che i tempi non fossero ancora maturi per la formazione di un partito democratico aconfessionale di ispirazione cattolica, del quale egli stesso aveva indicato il programma in un discorso tenuto a Caltagirone nel dicembre 1905. In quella occasione, Sturzo aveva auspicato la nascita di «un partito autonomo, libero e forte», inserito attivamente nella vita nazionale e adeguato ai valori civili della vita moderna, staccato da posizioni clericali conservatrici. Di ispirazione cattolica, il nuovo partito avrebbe dovuto rappresentare non una forza religiosa, legata cioè alla ortodossia religiosa, ma una forza civile, popolare, nazionale e democratica. La scelta politica e sociale dei cattolici, secondo Sturzo, era obbligata: fra conservatorismo e democrazia, i cattolici dovevano accettare la seconda, quasi per istinto, perché nel conservatorismo cattolico vi era il rifiuto della realtà moderna, la cristallizzazione di vecchi privilegi, l’insensibilità per il rinnovamento sociale che muoveva le classi popolari. Sturzo considerava «monca, inopportuna, che contrasta ai fatti, che rimorchia la Chiesa al
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carro dei liberali, la posizione di un partito cattolico conservatore» e, perciò, credeva «necessario un contenuto democratico del programma dei cattolici nella formazione di un partito nazionale». Sturzo formulava un disegno veramente nuovo, ma non voleva anticipare gli eventi per realizzarlo, mantenendosi con prudenza sempre nell’ambito dell’ortodossia, lavorando attivamente nel campo sociale e civile per conquistare «dall’interno» lo Stato liberale attraverso la conquista dell’egemonia nella società. Il suo disegno formulava chiaramente una alternativa allo Stato liberale, come realtà sociale e come complesso di valori laici, ma era ispirato da un relativismo storico e politico, che non gli fece mai perdere il senso della realtà e l’obiettivo di una partecipazione alla vita civile, senza illusioni integraliste sul futuro della società. Se nel campo politico l’azione dei cattolici era ancora limitata e condizionata dalla scelta clerico-moderata e dal compromesso con i conservatori liberali, nel campo civile e sociale i cattolici si impegnarono con grande attività per affermare la loro presenza nel mondo del lavoro e degli affari. Dopo il 1906, il movimento sindacale cattolico si sviluppò con celerità: alla fine del 1910 vi erano in Italia 374 leghe cattoliche, localizzate soprattutto nell’Italia settentrionale, in Lombardia e nel Veneto, con 104.614 iscritti, un numero notevole se lo si confronta con i 302.400 iscritti alla CGdL. Si trattava, nella maggioranza, di lavoratori delle industrie tessili e dei pubblici servizi, di coloni e salariati fissi nell’agricoltura. Dopo il 1908, nacquero le prime federazioni cattoliche di categoria, come il sindacato italiano dei lavoratori dell’industria tessile, diretto da Achille Grandi, e il sindacato nazionale dei ferrovieri cattolici, diretto da Italo Sacco. Naturalmente, per formazione e tradizione, i sindacati cattolici affrontarono il confronto con i più combattivi sindacati socialisti con minore disposizione allo scontro di classe, ma non senza ottenere considerevoli successi. Più facile e, per così dire, naturale fu la presenza dei cattolici nell’opera delle società di mutuo soccorso e delle casse rurali. Secondo i dati dell’Ufficio del Lavoro, le organizzazioni cattoliche in questo settore raccoglievano oltre 300.000 aderenti. Per coordinare l’opera di queste organizzazioni venne istituita, nel 1907, la Federazione nazionale degli istituti popolari cattolici di previdenza. Poi, nel 1908, la Federazione delle cooperative agricole italiane e nel 1909 la Federazione delle casse rurali cattoliche.
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Notevole, nel mondo degli affari, fu lo sviluppo delle banche cattoliche, costituite sul tipo delle banche popolari cooperative, riunite in una Federazione di cui la più importante, anche per il ruolo svolto in campo nazionale, fu il Banco di Roma che, sotto la direzione di Ernesto Pacelli e con un consiglio di amministrazione composto da cattolici clerico-moderati, si impegnò anche all’estero, creando una sede in Egitto nel 1904 e una a Tripoli nel 1907. In Libia la sua presenza fu assidua anche attraverso il finanziamento di imprese commerciali e industriali di piccola entità o la gestione di reti di navigazione, che servirono a preparare la penetrazione dell’imperialismo italiano in Libia. I cattolici, dunque, partecipavano in modo sempre più attivo alla vita sociale, ma la loro azione, secondo le intenzioni di Pio X, non doveva sottrarsi al controllo delle autorità ecclesiastiche né tentare vie proprie, autonome e indipendenti. Il complesso delle attività dei cattolici, in politica, in economia e nel mondo sindacale, doveva svolgersi entro i limiti di dipendenza e di unità definiti dal papa, il quale sperava di conservare l’unità del mondo cattolico, preservandolo dalle suggestioni della vita moderna e dalle tentazioni di iniziativa autonoma nella vita politica. L’intransigenza pontificia trovava corrispondenza nell’atteggiamento dei cattolici moderati, i quali realizzarono quel tanto di attività politica che era loro consentita, senza aspirare a costituire, neppure in parlamento, un gruppo cattolico dotato di propria iniziativa. L’apparente unità imposta dalle direttive di Pio X rivelò la sua fragilità in occasione del XX congresso cattolico, tenuto a Modena dal 9 al 17 novembre 1910, dove esplose il contrasto fra le posizioni moderate e conciliative, sostenute da Toniolo, e le esigenze degli esponenti delle organizzazioni sindacali, i quali rivendicavano un riconoscimento alla loro autonomia di azione in senso tanto sociale che politico. Il congresso, commentò Sturzo dopo la sua chiusura, aveva visto lo scontro di due anime che si agitavano nel mondo cattolico: «da una parte i giovani, propagandisti e organizzatori, che lavorano e soffrono a contatto con la realtà e di questa portano la voce: dall’altro, gli scolastici, che seguono il pensiero nostro sociale dall’alto, coniando formule desunte dalle idee e non dai fatti». Vi era una reale frattura fra queste due posizioni, mentre si avvertiva sempre più diffusa l’esigenza di partecipazione attiva e diretta dei cattolici alla vita politica. Da ciò Sturzo traeva la convinzione che era necessaria
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la formazione di un partito cattolico autonomo e non confessionale. I cattolici dovevano prepararsi a raccogliere, per questa nuova via, contro lo Stato burocratico e accentratore, l’eredità della tradizione democratica autonomista.
4. I radicali nella rete del giolittismo Una delle vittime della politica di compromesso «neotrasformista» attuata da Giolitti fu il partito radicale, che pagò il suo successo parlamentare con la fine della sua autonomia nell’ambito della sinistra italiana. I radicali, infatti, come partito politico riformista e democratico, non riuscirono a vincere la concorrenza dei socialisti riformisti – i quali si muovevano sul loro stesso terreno ma avevano maggiore coesione e influenza politica – e non riuscirono neppure a resistere alle lusinghe di Giolitti, che mirava ad assorbirli nel suo sistema di egemonia parlamentare. Nonostante ciò, ha osservato Alessandro Galante Garrone, «fino alla prima guerra mondiale, essi furono una corrente politica e parlamentare non trascurabile, e, dal 1909 al 1914, addirittura determinante: una carta essenziale, e in qualche momento decisiva, del gioco politico». Già agli inizi del nuovo secolo, dopo le battaglie condotte per la difesa delle libertà istituzionali, il partito radicale aveva rinunciato all’appassionata e intransigente polemica antistatalista. Nel mutato clima politico, dopo la sconfitta della reazione, con le nuove prospettive di rinnovamento democratico del liberalismo, il partito radicale si avvicinò alle istituzioni, ritenendo che il suo programma riformista poteva essere compatibile con la monarchia, che Ettore Sacchi, in un discorso del 1901, scagionò dall’accusa di essere stata responsabile «dell’involuzione conservatrice degli ultimi decenni». Invitati da Zanardelli e da Giolitti, nel 1901 e nel 1903, i radicali avevano rifiutato di partecipare al governo, essendo ancora legati all’estrema sinistra e dissuasi dall’analogo rifiuto dei socialisti. Ma nel 1904 Giolitti, facendo eleggere Marcora alla presidenza della Camera, riuscì a staccare i radicali dalla sinistra socialista e repubblicana «per fare entrare nell’orbita delle istituzioni il partito radicale», perché riteneva che esso, come scrisse nelle sue memorie, «per il suo programma positivo e mi-
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surato non aveva alcuna ragione di rimanere confuso fra gli estremisti sia repubblicani che socialisti». Nello stesso anno, al congresso radicale di Roma del 27-30 maggio 1904, in cui fu ufficialmente costituito il partito radicale italiano, era prevalsa la posizione di Sacchi, con una esplicita dichiarazione di riconoscimento delle istituzioni monarchiche. Il partito radicale si dichiarava disponibile per un governo che avesse accettato il loro programma democratico e riformista. Nel 1906, finalmente, i radicali entrarono nel governo, con Sonnino, e vi rimasero con Giolitti. Da quel momento, il partito radicale diventò una delle componenti essenziali della maggioranza giolittiana, anche se, nel suo interno, restava qualche riserva sui metodi giolittiani e sugli aspetti poco ortodossi del suo sistema di governo. Convertito alle istituzioni, il partito radicale vide crescere, dal 1909 al 1913, il numero dei suoi deputati ma la sua individualità politica venne stemperandosi nell’empirico riformismo giolittiano, fino a perdere – come partito – i suoi caratteri distintivi: l’antiprotezionismo, l’antistatalismo e l’antimilitarismo. L’alleanza con Giolitti – che fu molto attiva e diede buoni frutti per quanto riguardava l’approvazione di provvedimenti riformatori – diventò tanto stretta da trasformarsi, talvolta, in una vera e propria «dedizione» del partito radicale alla politica giolittiana, al punto che la crisi del giolittismo coinvolse anche il partito radicale e lo avviò all’estinzione. Per valutare il significato del radicalismo italiano in questo periodo, è opportuno fare una distinzione fra il partito e il movimento radicale, che era una delle più diffuse correnti d’opinione pubblica e di cultura politica di quegli anni. Se il partito radicale, convertito alla politica di Giolitti, aveva attenuato il suo carattere antistatalista, la cultura politica radicale rappresentata da uomini come Pantaleoni, Papafava, De Viti De Marco fu costante avversaria della politica giolittiana, soprattutto per quanto riguardava il problema del liberismo e del militarismo. Sebbene fosse difficile definire esattamente il radicalismo italiano (e Nitti, radicale, vi includeva personaggi come Sonnino e Giolitti), tuttavia i suoi capisaldi erano la difesa del liberismo, la lotta contro il militarismo e l’imperialismo, la riforma del sistema tributario e la democratizzazione del sistema politico, la difesa della piccola proprietà e la lotta ai privilegi, sia borghesi che operai, e una decisa posizione anticlericale. Capisaldi, questi, che non erano esclu-
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siva dei radicali ma che i radicali sostennero sempre nella loro battaglia contro il giolittismo e contro la politica di compromesso che esso realizzava, senza fare una vera opera di riforma. Privo di un solido supporto teorico, dominato da una generica mentalità illuminista e positivista di stampo ottocentesco, che indulgeva al moralismo e al semplicismo politico, il movimento radicale non riuscì a diventare una forza politica, capace di imporsi nell’ambito delle forze politiche tradizionali, come nuovo partito democratico, espressione di una moderna borghesia industriale e di un nuovo ceto medio, come era accaduto in Francia nello stesso periodo. Ma questa incapacità dipese non solo dalla scarsa autonomia del partito radicale nei confronti del neotrasformismo giolittiano; ciò che mancava realmente era la base sociale, cioè quella borghesia nuova e omogenea, che era componente essenziale per la formazione di un partito radicale saldamente legato alla società italiana e non solo partito di comitati e movimento d’opinione illuminato ed elitario. Come ha osservato Giorgio Galli, le «alterne vicende del partito radicale durante il periodo giolittiano, il suo oscillante comportamento parlamentare, sono, appunto, la conseguenza della sua marginalità rispetto ad uno schieramento politico borghese non omogeneo e neanche aggregato». Nonostante ciò, nel periodo dal 1909 al 1913, cioè fino al patto Gentiloni che ruppe l’alleanza dei radicali con Giolitti, il partito radicale fu la forza più influente nello schieramento giolittiano, diventando, dal 1909, il terzo gruppo politico dopo i ministeriali e i socialisti, con 70 deputati. Tuttavia esso mancava di una solida organizzazione e, nonostante i successi elettorali, non diventò un partito con un seguito di massa, rimanendo una espressione meramente parlamentare. La sua forza effettiva consisteva soprattutto nel peso numerico che aveva nella Camera. In questo modo, la sorte del partito radicale fu diversa da quella del partito repubblicano. Quest’ultimo fu respinto ai margini della vita parlamentare dagli stessi socialisti, con i quali nelle regioni dell’Italia settentrionale era spesso in aspro conflitto, e venne limitato, nelle possibilità di sviluppo, sia dalla sua intransigenza contro la monarchia sia dalla sua caratteristica di partito che, sebbene organizzato modernamente, non aveva alcuno spazio politico fra la maggioranza giolittiana e la sinistra riformista, socialista e radicale.
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5. La crisi economica del 1907 Il «lungo ministero» visse un’esistenza solo apparentemente tranquilla perché, in realtà, la stabilizzazione moderata conseguita da Giolitti in parlamento non riuscì a garantire, nel paese, quella pace sociale che era stata uno degli obiettivi principali del giolittismo. Inoltre l’equilibrio politico raggiunto dal sistema giolittiano fu turbato dalle conseguenze della grave crisi che colpì l’economia italiana nel 1907 e che, sebbene superata con misure efficaci, rallentò sensibilmente il ritmo di sviluppo, inasprì la tensione sociale e fece emergere tendenze nuove e più aggressive sia nel proletariato che nella borghesia, in senso ostile alla mediazione giolittiana. Dopo la grande ondata di scioperi nel 1901 e nel 1902, le lotte rivendicative erano diminuite, per riprendere con maggiore intensità dopo il 1905: in quest’anno ci furono 715 scioperi, con 154.527 partecipanti, ma nell’anno successivo gli scioperi salirono a 1.611, con 381.094 partecipanti; nel 1907, gli scioperi furono 2.258, con 576.630 partecipanti. Le agitazioni diminuirono negli anni 19081910, per gli effetti della crisi, ma ripresero con nuovo vigore dopo il 1911, soprattutto nel settore industriale, con caratteristiche sempre più spiccatamente rivoluzionarie. La crisi del 1907, in Italia, fu un aspetto della crisi che aveva colpito l’economia mondiale e che aveva avuto origine con l’aumento dei prezzi delle materie prime nel settore industriale, verso il quale erano stati concentrati gli investimenti del capitale finanziario, e con un’accentuata tendenza alla speculazione borsistica, che condusse, col sopraggiungere di una crisi di sovrapproduzione, alla restrizione creditizia e alla riduzione dei finanziamenti per molte attività industriali. Gli effetti della crisi furono particolarmente gravi in Italia, per la fragilità strutturale dell’industria, in gran parte dipendente dal capitale finanziario. Le banche miste avevano svolto un ruolo molto importante nel finanziamento delle attività industriali ma il loro intervento, proprio per i progressi raggiunti in questo campo nei primi anni del secolo, era spesso degenerato in speculazioni di borsa, per gonfiare in modo artificiale il mercato azionario. Ciò esponeva le industrie ai rischi di una crisi di liquidità internazionale, come accadde appunto nel 1907, e a una riduzione selettiva degli investimenti. I primi segni del cambiamento in senso sfavorevole della congiuntura econo-
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mica in Italia, si ebbero «nella forma di vita economica che è il più sensibile barometro preavvertitore, nel movimento di borsa, in cui si era palesato più eccessivo l’artificio, l’esagerazione», come osservava nel suo bilancio annuale dell’economia italiana Riccardo Bachi. Nel 1907, infatti, vi fu la caduta dei titoli dell’industria automobilistica, mentre il valore del capitale azionario delle società automobilistiche scese, fra gennaio e settembre, da 70 a meno di 50 milioni. La crisi borsistica e bancaria, determinata dal crescente divario fra disponibilità di capitali e richieste di finanziamento, esplose nella seconda metà del 1907 e investì soprattutto la Società bancaria italiana, che fu sull’orlo del fallimento, coinvolgendo numerose industrie, di diversi settori, che ad essa erano collegate. Nata dalla trasformazione della Società bancaria milanese, nel 1904, la Società bancaria italiana, che svolgeva la sua attività soprattutto nell’Italia settentrionale, era uno dei maggiori finanziatori dell’industria italiana, dopo la Banca Commerciale Italiana e il Credito Italiano, con le quali era in concorrenza nell’operazione di finanziamento dei settori più disparati, senza un piano organico di partecipazione e con una gestione spesso slegata dagli interessi effettivi della società, a vantaggio di speculazioni personali di singoli dirigenti. Nel settembre 1907, la Società bancaria italiana fu sul punto di fallire, col rischio di trascinare altre banche di credito ordinario e la stessa Banca d’Italia, che aveva crediti di oltre 20 milioni con la Società bancaria. Di fronte a questa minaccia, ci fu un deciso intervento da parte dello Stato, ad opera soprattutto del governatore della Banca d’Italia, Bonaldo Stringher, il quale, per iniziativa del governo, attuò il salvataggio della Società bancaria. A questo scopo, fu costituito un consorzio con la partecipazione della Banca Commerciale e del Credito Italiano e con la collaborazione della Banca d’Italia e del Banco di Napoli. Contemporaneamente, per far fronte alla mancanza di liquidità, la Banca d’Italia aumentò la circolazione monetaria di oltre 200 milioni, permettendo agli istituti di credito di continuare il finanziamento delle imprese. Ciò fu reso possibile per la solidità del bilancio dello Stato, che da dieci anni era in attivo, e, soprattutto, per le rimesse degli emigrati che servirono a contenere la mancanza di liquidità senza danneggiare la bilancia dei pagamenti: «Si può ben dire – ha scritto Franco Bonelli – che l’altra Italia, quella agricola e quella degli emigrati, quasi non si ac-
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corse di quello che stava succedendo, ma dalla crisi essa fu coinvolta nella misura in cui aveva fornito al sistema bancario i mezzi che allora servirono a sbloccare la situazione di impasse in cui si era cacciata la gestione bancaria del triangolo industriale». Accompagnata da una serie di provvedimenti deflazionistici, l’azione del governo e di Stringher riuscì a superare la crisi finanziaria e a salvare la Società bancaria, che fu riorganizzata in modo più efficiente, nel 1908, dallo stesso Stringher. La Banca d’Italia intervenne anche nel mercato azionario per il sostegno dei titoli, con un consorzio al quale parteciparono la Bastogi e la Cassa di Risparmio delle Provincie Lombarde. Un intervento così decisivo dimostrò, in una congiuntura grave come la crisi del 1907, che la presenza dello Stato nel processo di sviluppo era insostituibile, mentre, nello stesso tempo, spinse le banche di credito ad avere un atteggiamento meno diffidente verso lo Stato e a organizzare, attraverso la concentrazione, una più organica e razionale attività di credito. I settori colpiti dalla crisi di sovrapproduzione e di liquidità furono, naturalmente, quelli più dipendenti dal credito bancario e dal protezionismo, come il settore siderurgico e il settore cotoniero. La crisi colpì, come si è detto, anche l’industria automobilistica, tuttavia, mentre questa riuscì presto a riprendersi, negli altri settori, e in particolare nel settore cotoniero, la crisi ebbe conseguenze durature, nonostante i vari provvedimenti adottati per contrastare la concorrenza straniera e provvedere alla liquidazione dei sovraprodotti, con la riduzione del lavoro e della produzione. Per far fronte alla crisi del settore venne costituita nel 1910 l’Unione filatori e nel 1913 l’Istituto cotoniero italiano, anche se con risultati poco efficaci fino alla prima guerra mondiale. Quanto all’industria siderurgica a ciclo completo, nonostante fosse un settore protetto dalla barriera doganale e dalle commesse statali, oltre che da un cospicuo finanziamento da parte delle banche, essa risultava poco competitiva con la concorrenza straniera e, per giunta, era minata dalla speculazione borsistica e dai contrasti fra le varie banche che finanziavano il settore. Anche se la produzione siderurgica migliorò dopo la crisi del 1907, le deficienze finanziarie rimasero, per cui nel 1911 fu necessario un nuovo intervento di salvataggio della Banca d’Italia, che si adoperò, fra l’altro, per la concentrazione fra le maggiori società onde raggiungere una razionalizzazione nel settore. Tuttavia, le carenze dell’industria restavano legate alla man-
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canza di un più vasto mercato interno, alla scarsa competitività, a causa dei suoi alti prezzi di vendita, con l’industria straniera, e al mancato aumento delle esportazioni. Gli effetti della crisi economica fecero emergere alcune tendenze nuove nel processo di sviluppo dell’economia industriale, che ebbero notevoli ripercussioni sulle vicende politiche e sociali dell’ultimo periodo dell’età giolittiana, nella quale gli anni 19071908 rappresentano, per diversi aspetti, una svolta decisiva. Innanzi tutto, l’intervento del governo, attraverso l’azione della Banca d’Italia nel salvataggio delle aziende di credito e nella razionalizzazione del sistema di finanziamento industriale, mise in rilievo il ruolo fondamentale dello Stato nella vita economica e, di conseguenza, la necessità – sollecitata dai gruppi industriali – di una politica di intervento non discrezionale o legata a situazioni di emergenza, ma orientata da un organico programma di finanziamento a favore dei settori trainanti dell’economia italiana. La mancata adozione di una simile politica, sostituita da una espansione della sfera di intervento discrezionale del potere esecutivo nella vita economica e sociale, determinò una crisi nei rapporti fra governo e gruppi industriali, con una crescente resistenza da parte di questi alla mediazione giolittiana, e la ricerca di una autonoma strategia di intervento e di partecipazione nella vita politica, attraverso i tentativi di una attiva mobilitazione dell’opinione pubblica in favore della politica industrialista. L’esigenza di provvedere alla riduzione degli effetti della crisi di sovrapproduzione e alla difesa dei prezzi generò, inoltre, la tendenza alla concentrazione monopolistica dei principali settori dell’industria, soprattutto nel settore siderurgico. La crisi ebbe conseguenze negative nel mondo del lavoro dove, dopo il 1909, cominciò a registrarsi un aumento della disoccupazione, una restrizione dei consumi, e una più violenta conflittualità sociale dovuta alla maggiore resistenza opposta dalla organizzazione padronale – nel 1910 nacque la Confederazione italiana dell’industria, che associava circa 2.000 aziende – che cercava di recuperare il terreno perduto e di contenere l’azione rivendicativa del movimento operaio. Le sconfitte subite da quest’ultimo provocarono, al suo interno, una accentuazione dei contrasti fra le diverse correnti sindacali sui metodi e gli obiettivi della lotta, in cui finirono col prevalere tendenze rivoluzionarie, che misero progressivamente in crisi l’egemonia riformista della CGdL. Infine, bisogna ricordare, per completare
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il quadro della situazione economica dopo il 1907, che a partire dall’esercizio finanziario 1909-1910 il bilancio dello Stato tornò ad essere passivo, in seguito all’aumento delle spese e del debito pubblico; i disavanzi aumentarono dopo la guerra di Libia, così che l’esercizio 1912-1913 si chiuse con un deficit di 556 milioni. I fenomeni finora descritti ebbero un’influenza negativa sulla egemonia politica di Giolitti, anche se gli effetti non furono immediati e i segni di disgregazione del sistema giolittiano rimasero nascosti dai successi politici che Giolitti riuscì ancora a ottenere fino alla guerra di Libia. 6. Le elezioni del 1909, i governi di Sonnino e di Luzzatti e il ritorno di Giolitti La crisi economica non ebbe sul momento conseguenze tali, nella vita politica, da mettere in crisi il sistema giolittiano che, al contrario, sembrò rafforzato dalla politica di intervento a favore dell’industria, con una maggiore possibilità di controllo sulla vita economica. Le elezioni politiche del 1909 confermarono la maggioranza giolittiana, anche se vi era stato un notevole successo dei blocchi popolari – socialisti, radicali e repubblicani – compensato però dall’elezione, in funzione moderata, di 21 deputati cattolici, mentre era diminuita l’opposizione costituzionale di Sonnino. Questa più consistente partecipazione dei cattolici suscitò una nuova ondata di anticlericalismo e di polemiche antigiolittiane da parte dei liberali intransigenti, come Sonnino e Albertini, i quali temevano di vedere sempre più compromessa, dagli accordi fra candidati liberali ed elettori cattolici, la laicità dello Stato. Per quanto riguarda l’anticlericalismo, soprattutto massonico, esso fu il motivo che unificò, in molte città, i blocchi popolari fra socialisti, radicali e repubblicani. Già nel 1907, il blocco anticlericale aveva vinto le elezioni comunali a Roma e portato a sindaco della capitale Ernesto Nathan, che era stato Gran Maestro della massoneria. Le manifestazioni di anticlericalismo, ancora vive in certi ambienti laici di antica tradizione illuminista e giacobina o di più recente matrice positivista ed evoluzionista, non riuscirono a trasformare il motivo anticlericale in un elemento attivo e unitario: le sue espressioni variavano dalle polemiche facili e caricaturali della rivista «L’Asino» di Podrecca e dalle invettive antivati-
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cane del neonato movimento futurista, alle meditate critiche di liberali fedeli alla tradizione della destra o di democratici seriamente laici. Nel complesso l’anticlericalismo, per quanto chiassoso, non fu un ostacolo per la politica giolittiana, che ne controllò le manifestazioni più virulente con severità. Anche se costituiva una componente notevole nella costellazione delle ideologie politiche e culturali del periodo, l’anticlericalismo era però messo in crisi, specialmente fra le nuove generazioni, da una riscoperta del valore del «problema religioso». L’egemonia culturale del neoidealismo di Croce e di Giovanni Gentile, così come aveva combattuto il modernismo e i tentativi di questo per adeguare la dottrina della Chiesa al pensiero storico e scientifico moderno, minò alla base anche l’anticlericalismo più combattivo, quello di tipo massonico-illuminista e positivista, perché, pur negando qualsiasi trascendenza, la nuova filosofia idealistica riconosceva al sentimento e al mito religioso un degno posto nella sfera dei sentimenti individuali e della vita collettiva. Dopo le elezioni, con la rielezione di Marcora alla presidenza della Camera e di Andrea Costa alla vicepresidenza, si stabiliva, per il momento, una sorta di «idillio generale» come lo ha definito Nino Valeri, perché «alla Camera venne a mancare, nonostante il rafforzamento dell’estrema e le sue speranze di un blocco anticlericale, la possibilità stessa di una seria lotta politica. La maggioranza non aveva volto: era semplicemente giolittiana» mentre la minoranza «dosata essa pure da Giolitti, non era animata da un’autonoma volontà di organico rinnovamento». Con questa nuova Camera, Giolitti dovette affrontare la difficile questione delle convenzioni marittime, cioè delle sovvenzioni che lo Stato dava alle società che, dall’epoca dell’Unità, gestivano il servizio di navigazione passeggeri, commerciale e postale. La maggiore beneficiaria di queste sovvenzioni, che coprivano sia le linee mediterranee che oceaniche, era la compagnia Navigazione Generale Italiana (NGI), la quale, grazie alla protezione di cui godeva, gestiva le linee con alte tariffe ma con navi spesso in pessime condizioni. La NGI era legata, con partecipazione azionaria, ad altre società in una concentrazione finanziata dalla Banca Commerciale. Per far fronte all’alto costo dei pessimi servizi forniti dalla NGI, fin dal 1901 il governo aveva posto il problema di una revisione della convenzione del 1893, che sarebbe scaduta nel 1908. Ma un tentativo in questo senso, fatto da Giolitti e dal mi-
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nistro delle Poste Schanzer, non riuscì a sottrarre il controllo delle linee alla NGI, che operava in una condizione di quasi monopolio, contro il quale Giolitti decise di agire avviando trattative dirette con altri armatori, interpellando l’armatore Erasmo Piaggio, già direttore della NGI e direttore ora del Lloyd Italiano. Giolitti, ha scritto Carocci, voleva «togliere le sovvenzioni alla Navigazione generale e darle al Lloyd Italiano, ristrutturato con capitale misto pubblico e privato e sottoposto, almeno nelle intenzioni, a un controllo statale maggiore. Sebbene si trattasse di togliere un monopolio ad una società per assegnarlo a un’altra, sembra difficile negare che in Giolitti ci fosse l’intento di affermare la superiorità dello Stato su una concentrazione economica privata che aveva voluto deprimerla». Ma il progetto giolittiano, criticato da Nitti e Sonnino dal punto di vista tecnico, si risolveva nel creare un nuovo monopolio navale-siderurgico, invece di favorire il potenziamento delle linee libere senza sovvenzioni statali, come chiedevano i liberisti. Il progetto di Giolitti incontrò una vasta opposizione nella Camera, dalla destra alla sinistra socialista e radicale. Ma l’opposizione più forte venne naturalmente dalla Banca Commerciale, principale finanziatrice del trust navale che faceva capo alla NGI. Questa coalizione di forze politiche ed economiche riuscì a sconfiggere Giolitti il quale si comportò, come aveva fatto nel 1903 e nel 1905 di fronte a una maggioranza parlamentare che osteggiava la sua politica: senza aspettare un voto di sfiducia, Giolitti preferì dare le dimissioni. Egli stesso preparò l’occasione opportuna, presentando un avanzato progetto di riforma tributaria che, come era prevedibile, sollevò numerose opposizioni, mentre ridava credito alla figura di Giolitti come difensore delle classi popolari. L’opposizione incontrata dal progetto nella commissione incaricata di esaminarlo, e in maggioranza ostile a Giolitti, diede allo statista l’occasione per presentare le dimissioni al re, il 2 dicembre 1909, dopo tre anni di ininterrotto dominio parlamentare. L’orientamento conservatore manifestato dalla maggioranza parlamentare nell’opposizione alla proposta giolittiana indicava chiaramente come successore Sonnino, che ebbe l’incarico e presentò il suo secondo governo l’11 dicembre. Ma anche questo nuovo esperimento sonniniano, più conservatore del precedente, era destinato a durare poco. Il nuovo governo aveva una debole e incerta maggioranza. Il riformismo sonniniano, inoltre, non riuscì a predisporre realisticamente i tempi di attuazione per tutte le
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riforme che aveva in animo di attuare. Solo quella dell’istruzione elementare, presentata dal deputato Edoardo Daneo, giunse a compimento nei ministeri successivi. Per il resto era chiaro che la sopravvivenza del ministero era legata ai tempi necessari a Giolitti per preparare il suo ritorno alla guida del governo. La caduta del ministero fu determinata dalla questione delle convenzioni marittime. Il progetto presentato da Sonnino, secondo un disegno di legge dell’ammiraglio Bettòlo, ministro della Marina, che cercava di limitare le sovvenzioni per favorire la marina libera, incontrò numerose critiche. Di fronte a queste, senza attendere un voto di sfiducia, il 21 marzo Sonnino presentò le dimissioni del governo, durato cento giorni come il precedente. Poiché Giolitti non riteneva ancora maturo il tempo del suo ritorno al governo, favorì la formazione di un nuovo ministero con carattere di sinistra, di cui fu presidente Luigi Luzzatti, un conservatore illuminato come Sonnino, ma più abile di questi nella politica parlamentare. Uomo di vasta esperienza e competenza nel campo finanziario ed economico, Luzzatti formò un governo in cui erano presenti giolittiani e radicali, con un programma di riforme limitato: riforma elettorale, riforma del Senato, proseguimento della riforma dell’istruzione elementare. A favore del governo si schierò una larga maggioranza, compresi i socialisti, i quali si confusero così «nel gran calderone dell’apoteosi al più abile ed amabile ciarlatano del mondo politico borghese», come commentò Anna Kuliscioff in una lettera a Turati del 2 maggio. Luzzatti riuscì a portare a termine la questione delle convenzioni marittime con una soluzione di compromesso, sulla base di un disegno di legge che assegnava per tre anni a una nuova società, la Società nazionale dei servizi marittimi, la gestione dei servizi che aveva la NGI, con una sovvenzione annua, ma nello stesso tempo favoriva con sgravi fiscali lo sviluppo della marina libera. Un altro e più importante successo del governo Luzzatti fu l’attuazione di una riforma della scuola, che riprendeva le idee espresse dal sonniniano Daneo e riproposte dal nuovo ministro dell’Istruzione Luigi Credaro. La legge Daneo-Credaro, come fu chiamata, entrata in vigore il 4 giugno 1911, costituiva una profonda innovazione nel sistema scolastico, con il miglioramento dell’istruzione elementare che, secondo il progetto sonniniano, fu avocata allo Stato; inoltre, la legge predisponeva un aumento del-
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lo stipendio dei maestri, un migliore assetto delle scuole rurali, l’istruzione obbligatoria per militari e detenuti; l’istituzione del patronato scolastico in ogni comune; l’incremento della lotta all’analfabetismo degli adulti; la ristrutturazione dell’amministrazione scolastica. Nonostante le critiche suscitate in molti ambienti, fra i cattolici, i socialisti e i pedagogisti come Gentile e Lombardo Radice, la legge Daneo-Credaro risultò efficace nella lotta contro l’analfabetismo e segnò, secondo il giudizio di Dina Bertoni Jovine, «la punta più avanzata, in senso democratico, della legislazione italiana. L’esperimento che di essa si poté fare nel decennio 19111921 poté dirsi nettamente positivo». Negli anni successivi, infatti, ci fu un notevole incremento dell’edilizia scolastica e un significativo calo dell’analfabetismo: dal 1911 al 1921 la media nazionale passò dal 37,9 al 27,3 per cento e, nel Mezzogiorno in particolare, scese dal 58,9 al 46,9 per cento. Luzzatti, invece, fallì nel tentativo di attuare le due proposte di riforma della rappresentanza politica, vale a dire la riforma del Senato e l’estensione del diritto di voto a tutti i cittadini che erano in grado di leggere e scrivere. Nel suo programma di governo, Luzzatti aveva proposto la trasformazione del Senato in Camera elettiva. La richiesta non era nuova e risaliva a Crispi, che aveva posto il problema fin dal 1874, e se ne era discusso durante i vari dibattiti, alla fine dell’Ottocento, sulla crisi del parlamentarismo e sulla necessità di riformare i sistemi di rappresentanza. Secondo il disegno di legge preparato, per incarico di Luzzatti, da Giorgio Arcoleo, si proponeva la trasformazione del Senato in una Camera parzialmente elettiva, con la presenza di rappresentanti del mondo dell’economia e del lavoro. In tal modo il Senato, in gran parte dipendente dal governo, che proponeva i nominativi dei nuovi senatori alla scelta del re, si sarebbe potuto trasformare in una istituzione rappresentativa più aderente alla realtà sociale e politica del paese e costituire così un organo complementare più efficiente per l’azione della Camera dei deputati. La commissione senatoriale incaricata di studiare il progetto espresse un parere negativo, come negativa fu la reazione della maggior parte delle forze politiche, compresi i socialisti, e, soprattutto, dello stesso Giolitti, il quale intravedeva nella trasformazione della Camera alta una riduzione del suo controllo sul Senato e un indebolimento dei metodi tradizionali e personali di reclutamento della sua maggioranza.
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Per quanto riguardava il progetto di allargamento del suffragio elettorale, in seguito alla pressione dei conservatori, Luzzatti aggiunse al suo disegno di legge la proposta della obbligatorietà del voto, con pene pecuniarie per gli inadempienti. I conservatori speravano di compensare l’allargamento del diritto di voto con la partecipazione alle elezioni di larghe masse di indifferenti che – secondo i conservatori – sarebbero stati indotti a votare per loro e non certo per i fautori di mutamenti rivoluzionari. L’istituto dell’obbligatorietà, già presente in altri paesi europei, non incontrava opposizioni di principio; ma, nella situazione italiana, esso appariva chiaramente come uno strumento a favore dei conservatori, e per questo incontrò l’opposizione di molti liberali, dei radicali e dei socialisti. I socialisti, inoltre, sostenevano la necessità di introdurre il suffragio universale senza limiti e senza obbligatorietà, pur avendo qualche timore che la partecipazione politica di nuove masse contadine, impreparate politicamente, avrebbe potuto volgersi principalmente a vantaggio dei conservatori e dei clericali e non essere quindi – come sosteneva Salvemini, deciso ma quasi solitario assertore del suffragio universale come riforma politica da conquistare con la lotta – lo strumento per la distruzione del sistema giolittiano e la formazione di nuove forze politiche. Non essendo riusciti a smuovere Luzzatti dalla proposta della obbligatorietà, i socialisti decisero di passare all’opposizione. Del resto, deputati ostili al voto obbligatorio erano presenti nella stessa commissione incaricata di esaminare la proposta di riforma elettorale. I radicali e i socialisti, per costringere gli oppositori del governo a scendere in campo, presentarono mozioni in cui richiedevano un termine per la presentazione delle conclusioni da parte della commissione, la quale chiedeva invece tempo per esaminare la questione. Colse tutti di sorpresa, in questa situazione, l’intervento di Giolitti alla Camera, il 18 marzo 1911: «Io credo che al giorno d’oggi sia indeclinabile un ampliamento del suffragio. Dopo venti anni dall’ultima legge elettorale, una grande rivoluzione sociale è avvenuta in Italia, la quale produsse un grande progresso nelle condizioni economiche, intellettuali e morali delle classi popolari. A questo progresso, secondo me, corrisponde il diritto ad una più diretta partecipazione nella vita politica del paese [...] Io non credo che un esame sulla facilità di maneggiare le 24 lettere dell’alfabeto debba costituire il criterio per decidere se un uomo ha attitudine per giudicare del-
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le grandi questioni che interessano le masse popolari; o se non sia possibile di trovare altri criteri molto più vasti». Con questa dichiarazione, Giolitti non solo accettava la proposta di allargamento del diritto di voto, ma implicitamente, negando la concessione di questo diritto ai soli alfabeti, poneva la questione del suffragio universale, scavalcando a sinistra il governo Luzzatti. Il quale, dopo il discorso di Giolitti, che aveva trovato consensi anche fra i radicali e i socialisti, ritenne ormai esaurita la sua funzione. Era maturo il tempo per il ritorno di Giolitti. In seguito alla decisione dei ministri radicali di uscire dal governo, Luzzatti presentò le dimissioni il 20 marzo 1911. Giolitti tornava al potere. Non modificò molto la composizione del governo, ottenne la partecipazione di tre radicali, fra i quali Nitti, e si rivolse nuovamente a un socialista, Bissolati, il quale non accolse l’invito, ritenendo ancora immaturi i tempi per l’entrata di un esponente del partito socialista, per quanto riformista, in un governo liberale, ma accettò comunque di essere consultato dal re. Per la prima volta un socialista andò al Quirinale, suscitando reazioni negative in molti ambienti del suo partito. Il nuovo governo nasceva con un evidente carattere di sinistra. Il programma di Giolitti era basato su due punti fondamentali, come ha ricordato lui stesso: «Il primo punto era una riforma elettorale che si avvicinasse, per quanto era possibile nelle particolari condizioni della vita italiana di allora e specialmente delle classi popolari, al principio del suffragio universale, con alcune limitazioni e cautele che mi parevano opportune. Il secondo punto era la istituzione del monopolio delle assicurazioni sulla vita, i cui utili fossero devoluti alle casse di previdenza per le pensioni operaie». Il programma era orientato verso un’azione più decisa del governo per la democratizzazione del sistema liberale e la rivendicazione di un ruolo attivo e della superiorità dello Stato verso gli interessi del capitalismo privato. L’uno e l’altro proposito costituivano gli obiettivi di una operazione politica per il rilancio del riformismo giolittiano, ma la loro realizzazione non diede gli effetti che Giolitti probabilmente si aspettava per consolidare il suo potere, mentre aumentò il numero e la forza dei suoi avversari. La situazione interna, politica e sociale, stava mutando in senso contrario alle previsioni giolittiane, e la guerra di Libia, decisa da Giolitti, fu un fattore determinante per la crisi del suo sistema politico.
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È vero, tuttavia, che al momento del suo ritorno al governo, i sintomi di questa crisi non apparivano ancora evidenti, tanto più che, in quello stesso anno, l’Italia fu percorsa dalla generale euforia patriottica per le celebrazioni del primo cinquantenario dell’Unità italiana, festeggiato con solenni manifestazioni civiche, che si conclusero il 4 giugno con l’inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele II, non ancora completato. Toccò a Giolitti pronunciare sull’Altare della Patria l’orazione ufficiale. Con toni che suonarono alquanto inusitati per un politico naturalmente allergico alla retorica, il presidente del Consiglio evocò la grandezza romana e l’epopea risorgimentale, elogiò la magnificenza del monumento che avrebbe ricordato «alle future generazioni il più grande fatto della storia d’Italia»; ricordò «il cammino che l’Italia risorta ha percorso in ogni ramo di civile progresso e nella estimazione del mondo», e rinnovò la professione di fede dei governanti nell’avvenire della patria e degli italiani «che sentono ogni giorno più fortemente la solidarietà nazionale, mentre gli ordinamenti politici fondati sul principio della più ampia libertà, rendono possibile qualunque progresso». Quindi, con discreta allusione al personale contributo che egli aveva dato a questo progresso, Giolitti parlò delle migliorate condizioni economiche del paese, con l’innalzamento del tenore di vita delle classi popolari, garanzia di una più durevole pace sociale, ed esortò gli italiani a superare le controversie su questioni minori, per elevare lo sguardo «ai grandi interessi della patria affine di renderla sempre più prospera e grande, sempre più apprezzata ed amata da tutti i popoli civili». Infine, a conclusione della sua breve orazione, si associò al sentimento corale del popolo festante per celebrare nel re «il simbolo della unità della Patria, il palladio della sua indipendenza e della sua libertà, la sicura guida verso i suoi alti destini». Nessun accenno venne allora fatto da Giolitti a nuove e imperiose iniziative in politica estera né alla possibilità di eventuali imprese belliche per assicurare all’Italia un proprio ruolo nella competizione per il dominio coloniale.
VIII LA POLITICA ESTERA, LA GUERRA DI LIBIA E LO SVILUPPO DEL NAZIONALISMO
La sconfitta di Adua aveva decretato la fine dell’imperialismo crispino, spegnendo sul nascere una politica estera avventurosa e aggressiva alla quale il paese era stato avviato, nonostante le sue gravi debolezze economiche e militari, sull’esempio degli imperialismi europei. Dopo Adua, e fino alla guerra di Libia, la politica estera italiana rinunciò a propositi bellicosi; la classe dirigente preferì dedicare maggior attenzione ai problemi dell’equilibrio europeo e delle relazioni diplomatiche. Gli obiettivi principali perseguiti dai governi succeduti a Crispi furono la liquidazione del fallimentare tentativo coloniale e il riavvicinamento alla Francia, pur senza modificare i rapporti di alleanza che legavano l’Italia alla Germania e all’Austria-Ungheria. Politica estera di pace e di amicizia, dunque, con l’abbandono della «megalomania» crispina, ma anche con una cura più attenta nella tutela degli interessi e del prestigio dell’Italia, in misura compatibile con le forze effettive del paese.
1. Revisione della politica estera italiana Una delle principali ragioni del disastro della politica estera crispina era stata – come disse Giolitti alla Camera il 20 dicembre 1897 – «la sproporzione tra il fine che si vuol raggiungere, ed i mezzi che si vogliono adoperare». In termini analoghi si esprimeva, in una lettera ai suoi elettori il 5 marzo dello stesso anno, Giustino Fortunato, il quale affermava che i disastri coloniali e «i guai che siamo andati via via creando a noi stessi, e han dato in mano a’ par-
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titi estremi l’arma più potente per battere in breccia le istituzioni che ci reggono, sono stati cagionati da opinioni nervose, nate da sentimento e da ignoranza, da vecchio abito di rettorica, che ci ha reso noncuranti della conoscenza precisa de’ fatti e sempre più proclivi a non proporzionare mai i fini a’ mezzi disponibili [...] L’Italia, ove non ripieghi amorosa e gelosa su se stessa, è perduta». Gli uomini politici più realistici riconoscevano che l’Italia non era nelle condizioni di poter gareggiare con le altre potenze europee nella corsa alla conquista di imperi coloniali. Le condizioni interne del paese erano troppo arretrate per permettere quell’unità di forze e di intenti e una solida base di forze economiche e militari, che erano indispensabili per una politica imperialista non velleitaria. Mentre nel mondo si consolidavano o nascevano gli imperialismi delle potenze europee, degli Stati Uniti, del Giappone, l’Italia, ultima delle grandi potenze, non aveva altra possibilità oltre quella di affermare il suo modesto prestigio e di difendere i suoi ben circoscritti interessi con una politica moderata ma non per questo passiva. I ministri degli Esteri che si succedettero dopo Crispi – Visconti Venosta, Canevaro, Prinetti, Tittoni, San Giuliano, Guicciardini – non si distaccarono da alcuni obiettivi principali, pur cercando di adeguare la loro politica, con maggiore o minore capacità, abilità e realismo, ai mutamenti della realtà internazionale. Non fu, dunque, casuale il ritorno alla direzione della politica estera di un vecchio rappresentante della Destra, Emilio Visconti Venosta, che era stato ministro degli Esteri dal 14 dicembre 1869 fino al 18 marzo 1876, cioè fino alla caduta della Destra. Visconti Venosta tornò alla Consulta con Rudinì, dopo il ritiro di Caetani di Sermoneta, l’11 luglio 1896 e vi restò fino al febbraio 1901, salvo una parentesi dal 1° giugno 1898 al 14 maggio 1899. Visconti Venosta era stato, a suo tempo, poco favorevole all’alleanza con la Germania, non vedendone alcuna necessità. Egli era perciò l’uomo più adatto per operare un riavvicinamento e una riconciliazione con la Francia, dopo i burrascosi rapporti di ostilità nel periodo crispino. Visconti Venosta, inoltre, liquidò l’eredità crispina della politica coloniale, senza dichiararsi sfavorevole a siffatta politica in via di principio. Egli era convinto, come disse alla Camera il 12 dicembre 1899, che «le imprese coloniali non si possono considerare indipendentemente dalle condizioni e dai mezzi che sono loro necessari per renderle possibili e proficue.
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Queste condizioni e questi mezzi sono l’iniziativa ed il concorso del capitale privato, un bilancio dello Stato che conceda le spese necessarie perché le occupazioni coloniali non rimangano sterili e senza valore, e soprattutto l’appoggio del paese; perché, se vi è una politica che per essere seriamente condotta e praticata richiede il favore dell’opinione pubblica, questa è la politica coloniale. Se queste condizioni mancano, allora, tra l’obiettivo che si persegue e i mezzi con cui si persegue sorge un contrasto alle cui spine un paese si espone a lasciare qualche brano del suo prestigio e della sua dignità». Merito principale di Visconti Venosta fu di aver dato un «colpo di timone» alla politica estera, come scrisse egli stesso in una lettera del 30 dicembre 1898. Prima di tutto, egli provvide alla soluzione della questione tunisina con gli accordi del 30 settembre 1896 e, con il trattato commerciale del 21 novembre 1898, pose fine alla decennale guerra doganale fra i due paesi. Successivamente, avviò trattative per definire la questione della Tripolitania e della Cirenaica, onde ottenere garanzie per una eventuale espansione dell’Italia nelle uniche regioni dell’Africa mediterranea ancora libere dal dominio imperialista anglo-francese e rimaste fuori dalle sfere di influenza definite con gli accordi del 21 marzo 1899, dopo la crisi di Fashoda fra Francia e Inghilterra. Visconti Venosta trovò un interlocutore ben disposto nell’ambasciatore francese a Roma, Camillo Barrère. Questi, giunto a Roma nel febbraio 1898, doveva restarvi per ventisei anni, fino al 1924. Diplomatico molto abile, Barrère, ha scritto Albertini nelle sue memorie, «acquistò in Italia un’influenza cospicua, con mezzi ed arti molto discutibili, ma con un’abilità senza pari posta al servizio del suo paese e diretta ad avvicinare il nostro paese al suo sempre più intimamente, così da non averci avversari, ma possibilmente alleati, il giorno in cui una conflagrazione europea fosse scoppiata». Gli obiettivi di Barrère coincidevano, del resto, con quelli della politica estera italiana su un punto fondamentale, cioè una più chiara affermazione del carattere difensivo che doveva avere la Triplice Alleanza e la possibilità per l’Italia di avere, all’interno di essa, una certa elasticità nei rapporti con le altre potenze europee. A differenza di quanto avevano cercato di ottenere i suoi predecessori, il diplomatico francese non fece alcuna pressione per costringere l’Italia a lasciare la Triplice ma si adoperò perché l’al-
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leanza perdesse qualsiasi implicito o esplicito carattere antifrancese. Su questo orientamento, Barrère trovò favorevoli non solo Visconti Venosta ma anche Zanardelli e Prinetti. Quest’ultimo, successo al Visconti Venosta, nel governo Zanardelli conservò la carica di ministro degli Esteri dal febbraio 1901 all’aprile 1903, quando fu costretto a dimettersi per motivi di salute. Giulio Prinetti era un ricco industriale lombardo che non aveva una specifica preparazione in politica estera. Già ministro dei Lavori Pubblici nel secondo governo Rudinì, Prinetti non si discostò dalla linea francofila di Visconti Venosta pur cercando di imprimere alla politica estera un maggior dinamismo, col proposito di raggiungere risultati immediati più soddisfacenti e ottenere impegni espliciti e precisi sul rispetto degli interessi italiani, sia da parte degli alleati tedeschi sia da parte della Francia e dell’Inghilterra. Nel continuare la politica venostiana di riavvicinamento alla Francia, Prinetti si mostrò forse troppo corrivo a dare ascolto alle dichiarazioni di amicizia che gli venivano fatte da Barrère, con lo scopo di allentare sempre più i legami dell’Italia con i suoi alleati e, soprattutto, per ottenere che – nelle ormai prossime trattative per il rinnovo della Triplice – fosse fatta esplicita dichiarazione che questa non conteneva alcuna clausola antifrancese. Per mettere in mostra la cordiale amicizia tra i due paesi, la Francia enfatizzò in diverse occasioni la riconciliazione con l’Italia, suscitando non poche preoccupazioni e irritazioni nei tedeschi. Il cancelliere Bülow si lamentò del comportamento italiano che ondeggiava, secondo la sua espressione, fra matrimonio legittimo e concubinato. Le preoccupazioni tedesche non erano del tutto ingiustificate, anche se Prinetti si affrettò a dichiarare, per tranquillizzare gli alleati, che l’Italia non avrebbe sacrificato all’amicizia francese la Triplice, ed era pronta a rinnovare il trattato. Del resto, secondo il cancelliere tedesco non v’era bisogno di alcuna precisazione, come desiderava Prinetti, sugli atteggiamenti della Triplice Alleanza verso altri paesi, dal momento che essa – come disse al Reichstag l’8 gennaio 1902 – «non è offensiva, ma difensiva: collega il passato al presente, e fa fidanza nell’avvenire». Essa, continuava Bülow, era tale «da non escludere neppure i buoni rapporti di uno dei suoi membri con altre potenze [...] in un matrimonio fortunato il marito non deve andare sulle furie se una volta tanto sua moglie fa un innocente giro di valzer con un altro
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ballerino. L’essenziale è che non si lasci rapire, e tornerà a lui se vedrà che con lui ha miglior sorte». Il nuovo orientamento filofrancese dell’Italia era condiviso e approvato non solo dall’irredentista Zanardelli, ma dallo stesso re Vittorio Emanuele III, il quale, come i suoi predecessori, considerò la politica estera un campo di competenza della monarchia. Il re non aveva simpatia per Guglielmo II e la sua antipatia era ricambiata dall’irrequieto imperatore. Fra i due alleati vi erano diverse ragioni di contrasto e di dissenso come la questione romana, che la Germania sollevava ogni volta che voleva far pressione sull’Italia, giudicata troppo disinvolta nei suoi giri di valzer, e la scarsa considerazione che l’alleato tedesco mostrava verso le aspirazioni e gli interessi italiani. Tutto ciò determinò, nei primi anni di regno di Vittorio Emanuele, un mutamento evidente, se non negli accordi ufficiali – dato che la Triplice venne rinnovata il 28 giugno 1902, con una nuova clausola che dichiarava il disinteresse austriaco per la Tripolitania – certamente nei risultati pratici della politica estera italiana. L’Italia acquistò una maggiore indipendenza nei confronti degli alleati e cercò di difendere i suoi interessi appoggiandosi di volta in volta, a seconda delle circostanze, ora a una ora all’altra potenza. Dopo il rinnovamento della Triplice, senza che venissero accolte le richieste di Prinetti per l’aggiunta di una clausola sul carattere difensivo dell’alleanza, il governo italiano volle consolidare i suoi legami con la Francia. Due giorni dopo il rinnovo della Triplice, con uno scambio di note segrete, fu definito un accordo italo-francese, che ribadiva i punti fondamentali dell’intesa raggiunta da Visconti Venosta. Nella sua lettera, Prinetti dichiarava che l’Italia sarebbe rimasta neutrale in caso di aggressione contro la Francia da parte di altre potenze o nel caso che la Francia fosse stata costretta a dichiarare guerra, dopo averne dato comunicazione all’Italia.
2. La questione libica e la conferenza di Algeciras Fino al 1911 i due principali obiettivi della politica estera italiana furono la conservazione dello status quo nel Mediterraneo e la salvaguardia degli interessi italiani in Libia. Questi due obiettivi fu-
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rono presenti nelle trattative per il rinnovo della Triplice e nello scambio di note fra l’Italia e la Francia. Dopo la convenzione anglo-francese del 1899, l’Italia aveva temuto di veder estesa l’influenza francese nell’Africa settentrionale, verso la Tripolitania. Per evitare ciò, Visconti Venosta, in uno scambio di lettere col Barrère, aveva sollecitato il diplomatico francese a fare una dichiarazione di rinuncia della Francia a qualsiasi espansione nella Tripolitania. In cambio, l’Italia si diceva disposta a non considerare un’offesa ai suoi interessi una eventuale espansione francese nel Marocco. L’accordo fu raggiunto. Nella sua lettera, l’ambasciatore francese assicurò il ministro italiano che la convenzione anglo-francese, lasciando fuori dalla divisione delle zone di influenza il vielayet di Tripoli, segnava un limite, riguardante la Tripolitania e la Cirenaica, che il governo della repubblica non intendeva superare. Da parte sua, il ministro italiano affermava di non ritenere lesi gli interessi italiani nel Mediterraneo da un’azione francese nel Marocco, ma, nel caso di una espansione politica o territoriale della Francia in questa regione, l’Italia avrebbe avuto il diritto di estendere la sua influenza in Tripolitania e in Cirenaica. La questione tripolina fu discussa anche durante le trattative per il rinnovo della Triplice. Il ministro Prinetti, che progettava l’occupazione della Tripolitania, cercò di ottenere l’assenso dei suoi alleati, chiedendo che, nel nuovo trattato, vi fosse una esplicita dichiarazione del loro disinteresse nei confronti di una iniziativa italiana in Africa. Dopo insistenti richieste italiane e rifiuti tedeschi, fu ottenuta una concessione formale. Il ministro austroungarico Goluchowski trasmise una nota ufficiale al governo italiano in cui affermava che, una volta rinnovato senza modifiche il trattato del 1891, l’Austria non avrebbe intrapreso alcuna azione per «contrastare l’azione dell’Italia nel caso che, in seguito a circostanze fortuite, lo stato delle cose in Tripolitania e Cirenaica subisse un’alterazione qualsiasi e forzasse il governo reale a ricorrere a misure impostegli dai suoi interessi». Alle dichiarazioni di disinteresse della Francia, della Germania e dell’Austria seguirono quelle dell’Inghilterra, con una nota presentata dall’ambasciatore inglese a Roma, Lord Currie, con la quale si riconosceva, in caso di mutamento dello status quo nel Mediterraneo e nella regione nord-africana, il diritto dell’Italia sulla Tripolitania e la Cirenaica. La politica estera italiana, pur procedendo talvolta con spre-
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giudicata disinvoltura, riuscì a imporre la presenza dell’Italia nelle questioni che riguardavano il Mediterraneo. Essa mirò a conquistare una posizione intermedia, fra gruppi di potenze contrapposte da sempre crescenti conflitti di interessi. In questo quadro rientra anche il viaggio in Russia che Vittorio Emanuele fece nel luglio 1902, accompagnato da Prinetti, con lo scopo di inserire l’Italia nelle discussioni fra Austria e Russia sul destino dei Balcani, per evitare che qualsiasi mutamento in quella regione potesse risolversi a esclusivo vantaggio dell’Austria. Anche nei Balcani l’Italia aspirava ad avere una qualche influenza, in particolare sulla vicina Albania. Nel complesso il bilancio della politica estera italiana, agli inizi del secolo, risultava essere sensibilmente migliorato rispetto all’eredità lasciata dalla politica crispina, che aveva praticamente isolato il paese. Le relazioni stabilite con la vicina repubblica francese, anche se non cancellarono del tutto diffidenze e rancori fra i due paesi, divisi da contrastanti interessi nel Mediterraneo, riscossero l’approvazione dell’opinione pubblica e delle forze politiche, ad eccezione di taluni ambienti ex crispini. La visita del re a Pietroburgo e la rinnovazione della Triplice Alleanza diedero, inoltre, l’impressione che la politica degli ultimi tempi fosse stata largamente coronata dal successo, perché aveva introdotto nuovamente l’Italia nel «concerto europeo», in modo più attivo e, si sperava, più proficuo per la difesa degli interessi internazionali del paese. Il quadro ufficiale delle relazioni diplomatiche restava, dunque, immutato ma, al di sotto delle relazioni ufficiali, si delineavano nuovi orientamenti, che toglievano l’Italia dalla soggezione alla «necessità» del triplicismo. Agli inizi del secolo, pur riconfermando i suoi impegni diplomatici con gli alleati, l’Italia aveva riacquistato una certa autonomia, che venne consolidandosi negli anni giolittiani attraverso una politica estera sempre cauta ma anche spregiudicata. Vi era stato un cambiamento nelle cose, in seguito all’atteggiamento «più risoluto e intraprendente perché ora si possedevano forze necessarie, e, per ciò stesso, meno pomposo e rumoroso e più fattivo che non fosse stato ai tempi del Crispi, quando quelle forze non si possedevano», secondo il giudizio espresso da Benedetto Croce. Questo mutamento rifletteva il processo di trasformazione in atto nelle relazioni fra le potenze europee, per cui la struttura e i fini della Triplice Alleanza apparivano
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ormai, se non anacronistici, certamente svuotati di gran parte del loro significato originario: «se è eccessivo dire – ha osservato a sua volta Volpe – che nella storia della Triplice si passa ora dall’età dell’oro a quella del ferro, si può dire che si entra in una nuova fase, anche se diplomaticamente non ci sono grandi novità. La Triplice risponde meno di prima alla realtà europea e italiana; non si presenta più come l’unica via aperta a noi; stenta a capire in sé e risolvere tutti i problemi di fronte a cui l’Italia si viene a trovare, che sono i problemi posti dal suo crescere di statura e dalla più serrata iniziativa degli altri. Naturalmente muta anche l’animo degli uomini a cui tocca di interpretare, di tener vivo il patto. Si era delineata questa nuova fase già sul finire dell’800 e prima ancora che a Roma venisse Barrère, ai cui intrighi i circoli politici e poi la storiografia tedesca hanno attribuito sempre una parte forse troppo grande; ma essa appartiene più specialmente al Regno di Vittorio Emanuele III e trova nel nuovo Re un assertore o realizzatore. Chi in Germania era al timone dei rapporti internazionali si accorse subito, fra 1900 e 1901, che con re Vittorio Emanuele qualche novità era in marcia, un po’ per sviluppo di situazioni precedenti un po’ per azione personale del nuovo Re; si accorse che era finita, con la morte di Umberto I, l’età del quasi incondizionato triplicismo dell’Italia». Le relazioni diplomatiche fra i paesi europei risultavano, nei primi anni del Novecento, fittamente intrecciate da una trama di fili scoperti e segreti, da accordi fra potenze non alleate e contrasti fra potenze alleate, in un complicato scambio delle parti, nel quale l’Italia cercava di conservare un autonomo margine di iniziativa, per sostenere il ruolo di grande potenza senza avventurarsi in imprese superiori alle sue possibilità reali. L’avvento di Giolitti al potere non modificò la sostanza della politica estera iniziata da Visconti Venosta e continuata da Prinetti. Uomo di politica interna, Giolitti ebbe sempre chiaro il disegno di una politica di equilibrio, cercando di mantenere distinte la politica interna e quella estera, con una pacifica ricerca di collaborazione con tutte le potenze europee, senza progetti immediati di alterazione dello status quo e delle tradizionali relazioni ufficiali. Almeno sino al momento in cui la nuova dinamica degli imperialismi non mise in moto, a partire dal 1906, un processo di disgregazione del preca-
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rio equilibrio europeo, che doveva condurre quasi inevitabilmente alla prima guerra mondiale. I primi segni di un cambiamento nelle relazioni diplomatiche e di un accentuato impulso imperialistico si ebbero in occasione della crisi marocchina del 1905. Abbiamo già visto che, nei suoi accordi con l’Italia, la Francia aveva ottenuto il consenso italiano a una eventuale espansione nel Marocco. Un consenso analogo ottenne dall’Inghilterra (accordo dell’8 aprile 1904) e dalla Spagna (accordo del 3 aprile 1904). L’intesa fra l’Inghilterra e la Francia, per la soluzione dei problemi africani, mise in allarme la Germania che da questi accordi era stata esclusa, e che ora vedeva con preoccupazione anche un ulteriore riavvicinamento franco-russo e un maggior impegno della diplomazia russa in Europa, dopo la dura sconfitta subita dalla Russia nella guerra contro il Giappone nel settembre 1905. Per questi motivi, la Germania cercò di intervenire e di far valere il suo peso di grande potenza interessata alle questioni africane e mediterranee. Per colpire il prestigio della Francia e rompere la trama di accordi che potevano isolare il suo paese, l’imperatore Guglielmo II fece un ostentato e clamoroso viaggio a Tangeri. Sbarcato il 31 marzo 1905, dichiarò al rappresentante del sultano che la sua visita era fatta con lo scopo di tutelare gli interessi tedeschi nel Marocco e per riconoscere la libera e indipendente sovranità del sultano. Il gesto dell’imperatore mise in allarme le altre potenze, ma il cancelliere tedesco cercò di contenere le reazioni all’iniziativa dell’imperatore proponendo la convocazione di una conferenza internazionale fra le potenze interessate alla questione marocchina. Egli sperava così di poter agire contro le manovre e le mire francesi. La conferenza fu tenuta ad Algeciras dal 16 gennaio al 7 aprile 1906. Vi partecipò anche l’Italia, con Visconti Venosta. Nella conferenza la Germania risultò praticamente isolata, col solo appoggio dell’Austria-Ungheria. Il suo tentativo di intervenire negli accordi fra le potenze sul problema coloniale venne frustrato, non essendo peraltro ancora in grado di perseguire fino in fondo la sua nuova politica coloniale, in concorrenza con l’imperialismo anglo-francese. Pur soddisfacendo le richieste tedesche – garanzia della libertà e indipendenza del Marocco – i risultati della conferenza riconoscevano una posizione privilegiata alla Francia e alla Spagna nella regione marocchina, premessa per una futura spartizione. L’I-
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talia partecipò alla conferenza dopo un primo momento di incertezza. Essa infatti si trovava in una situazione difficile perché, da una parte, era impegnata, per gli accordi della Triplice, a sostenere l’alleato tedesco, anche se non vi era alcuna clausola riguardante il Marocco; dall’altra, i suoi recenti accordi segreti con la Francia le imponevano di sostenere le tesi francesi. Visconti Venosta, scelto come primo delegato italiano alla conferenza da San Giuliano, ministro degli Esteri del governo Fortis, cercò di mantenere l’Italia in una posizione mediana, senza venir meno ai suoi contrastanti impegni, e si adoperò, con l’Austria e gli Stati Uniti, nella ricerca di un compromesso, che fu raggiunto il 7 aprile 1906. L’atteggiamento dell’Italia, che non aveva mostrato una incondizionata adesione alle tesi tedesche, suscitò malumori nell’alleato, il quale si convinse che l’Italia era ormai entrata nel blocco anglofrancese e che l’alleanza con essa se ne andava in fumo. Tuttavia, almeno esteriormente, i rapporti rimasero cordiali, considerando la Germania i rischi di una rottura con l’Italia, nel momento in cui il suo isolamento era quasi completo. Fu questo timore che spinse sia la Germania che l’Austria a migliorare le condizioni dei loro rapporti con l’Italia e a intensificare le consultazioni su questioni di interesse comune, superando i contrasti che vi erano in particolare fra l’Italia e l’Austria per la questione delle terre irredente e i Balcani.
3. I contrasti fra Austria e Italia La crisi del triplicismo era dovuta, fra altri motivi, anche al perdurare, e talora all’aggravarsi, dei contrasti fra l’Italia e l’Austria, suscitati da questioni rimaste aperte fra i due paesi nonostante l’alleanza: il problema delle terre italiane soggette all’impero austroungarico, che rinfocolava continuamente i sentimenti antiaustriaci dell’opinione pubblica; e i conflitti di interessi nell’Adriatico e la rivalità nelle regioni balcaniche. I contrasti sulla questione delle terre irredente, in parte sopiti negli ultimi anni dell’Ottocento, furono riaccesi nel 1903, in seguito agli scontri avvenuti nel maggio di quell’anno fra studenti italiani e studenti tedeschi a Innsbruck, e alle manifestazioni irredentiste svoltesi a Trento e a Trieste, per la mancata creazione di
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una università italiana che riconoscesse l’autonomia culturale degli italiani soggetti all’impero austro-ungarico. Gli incidenti ebbero grande risonanza in Italia, dove esisteva da tempo una vivace corrente irredentista, animata da ideali risorgimentali e dall’odio per l’autocrazia austriaca. Questa corrente cercava di sostenere i diritti dell’italianità rivendicati dagli irredentisti, i quali, soprattutto a Trieste, si sentivano minacciati dalla crescente presenza dell’elemento slavo. Le manifestazioni che si svolsero in tutta Italia nel maggio e nel giugno 1903 acuirono la crisi dei rapporti fra l’Italia e l’Austria nonostante i ripetuti sforzi fatti dai governanti italiani, in particolare da Giolitti, per evitare che la questione irredentista finisse col provocare una rottura irreparabile con l’Austria – e quindi con la Triplice – in un momento in cui le relazioni diplomatiche europee erano ancora fluide e nulla avrebbe escluso un isolamento dell’Italia nel caso di guerra contro l’Austria. Giolitti cercò, attraverso il ministro degli Esteri Tittoni, di gettare acqua sul fuoco irredentista e di ottenere dall’Austria, con una diplomazia conciliante, un più equo trattamento per gli italiani ad essa soggetti. Ma la politica giolittiana, in pratica, accantonò la questione irredentista e non tollerò manifestazioni antiaustriache, preferendo affrontare la soluzione di più immediati conflitti di interesse e di egemonia fra Italia e Austria nell’Adriatico e nei Balcani. L’Italia aveva considerato sempre con timore una espansione austriaca nei Balcani, che avrebbe pregiudicato i suoi progetti di penetrazione commerciale in quelle regioni, e paventava il pericolo di una presenza austriaca sull’opposta sponda dell’Adriatico. Per evitare ciò, sia Prinetti che il suo successore Enrico Morin avevano tentato di far partecipare l’Italia alle trattative fra Russia e Austria, provocate da alcune azioni di guerriglia e agitazioni in Macedonia. L’intesa austro-russa per i Balcani risaliva al 1897 e ora si riproponeva in termini nuovi a causa della crescente crisi dell’impero turco. Da questa intesa l’Italia era e rimaneva esclusa, nonostante le pressioni fatte dallo stesso Vittorio Emanuele per impedire che l’Austria allargasse la sua influenza verso l’Albania. L’Italia non voleva vedere sventolare a Valona e a Durazzo – fu detto – una bandiera diversa da quella turca o da quella di uno Stato albanese indipendente. La politica balcanica dell’Italia prospettava la possibilità di contenere l’espansionismo austriaco e
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russo attraverso la costituzione di nuovi Stati indipendenti, senza aspirare perciò ad alcuna conquista territoriale. L’Italia cercò di ottenere garanzie di compensi, sulla base degli accordi della Triplice, in caso di un’espansione austriaca, ma l’Austria oppose il suo rifiuto alla richiesta italiana, che non fu accolta nemmeno dalla Russia, nonostante le manifestazioni di simpatia espresse in occasione del viaggio di Vittorio Emanuele. L’accordo austro-russo fu sottoscritto a Mürzsteg nell’ottobre 1903, senza alcuna considerazione per le richieste italiane. L’accordo stabiliva una specie di sorveglianza da parte delle due potenze in Macedonia, con il consenso del sultano. L’intesa venne perfezionata con un nuovo accordo segreto stipulato dall’ambasciatore austriaco a Pietroburgo Aehrenthal con il ministro degli Esteri russo Lamsdorf, il 15 ottobre 1904: le due potenze erano concordi nel proseguire la loro politica nei Balcani, mantenendo «una neutralità leale ed assoluta nel caso che una delle due parti firmatarie di questa dichiarazione si trovasse da sola e senza provocazione da parte sua in stato di guerra con una terza potenza che cercasse di attentare alla sua sicurezza ed allo statu quo, il cui mantenimento costituisce la base della loro intesa pacifica e conservatrice insieme». Di questo accordo fu data comunicazione alla Germania, mentre l’Italia ne venne a conoscenza soltanto cinque anni dopo. Non era difficile vedere nella dichiarazione citata un implicito riferimento alla possibilità di una guerra fra Austria e Italia. Ma, nonostante le agitazioni pro irredentiste, il governo italiano escludeva seriamente una simile possibilità. L’Austria, al contrario, mantenne un atteggiamento ostile: nel 1906 fu eletto nuovo capo di Stato maggiore il generale Conrad, di noti sentimenti antitaliani, il quale non escludeva l’ipotesi di una guerra preventiva contro l’Italia, come in occasione del terremoto di Messina nel dicembre 1908. Giolitti e Tittoni cercarono di eliminare questi attriti, riconfermando la fedeltà dell’Italia alla Triplice che, infatti, venne rinnovata nel giugno 1907. Apparentemente, la politica conciliante dell’Italia sembrò dare buoni risultati, con i frequenti incontri fra Tittoni e Aehrenthal. Ma la situazione peggiorò nel 1908, in seguito alla crisi bosniaca. Il 6 ottobre, prendendo a pretesto la crisi dell’impero per la rivolta dei Giovani Turchi, l’Austria decideva di annettere la Bosnia-Erzegovina, di cui aveva l’amministrazione fiduciaria dall’epoca del congresso di Berlino del 1878. L’a-
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zione austriaca colse di sorpresa il ministro Tittoni, che non era stato consultato preventivamente, come egli credeva necessario, e suscitò forti critiche in parlamento e nel paese sulla condotta della politica estera da parte del governo giolittiano, che sembrava non tutelare gli interessi italiani nei confronti dell’Austria. Invano Tittoni richiese compensi dall’Austria, nel rispetto degli accordi della Triplice, ma ottenne solo lo sgombero del Sangiaccato di Novi Bazar e la rinunzia dell’Austria a controllare la breve costa adriatica del Montenegro. La crisi bosniaca ebbe però l’effetto di promuovere un riavvicinamento diplomatico fra l’Italia e la Russia, entrambe preoccupate per il colpo di mano austriaco, e interessate a impedire una ulteriore iniziativa dell’Austria nei Balcani. Tittoni voleva raggiungere un accordo a tre fra l’Italia, l’Austria e la Russia sulla questione balcanica, ma il suo progetto fallì per l’opposizione del ministro degli Esteri russo Isvolskij. Di conseguenza, per evitare che l’Italia rimanesse esclusa per il futuro da un’intesa austro-russa come quella di Mürzsteg, Tittoni lavorò per concludere accordi separati con le due potenze. L’accordo con la Russia fu stipulato il 24 ottobre, a Racconigi, in occasione della visita dello zar in Italia, sotto forma di uno scambio segreto di lettere ma con l’impegno reciproco a negarne l’esistenza. Secondo l’accordo, Russia e Italia si impegnavano al mantenimento dello status quo nella penisola balcanica, all’applicazione del principio di nazionalità per lo sviluppo degli Stati balcanici contro interferenze di potenze straniere, e a un’azione comune contro eventuali maneggi rivolti a contrastare queste condizioni. Le due potenze s’impegnavano, inoltre, a non concludere singolarmente nuovi accordi con una terza potenza senza la partecipazione dell’altra. Infine, la Russia si impegnava a considerare benevolmente gli interessi italiani in Tripolitania e in Cirenaica, e l’Italia gli interessi russi nella questione degli Stretti. Pochi mesi dopo la sottoscrizione di questo accordo, il 14 dicembre, l’Italia concluse una nuova intesa segreta con l’Austria, avviata da Tittoni e portata a termine dal suo successore nel ministero Sonnino, Guicciardini. L’accordo stabiliva che una rioccupazione del Sangiaccato da parte dell’Austria doveva essere preceduta da una intesa preventiva con l’Italia per la definizione dei compensi; che nessuno dei due governi avrebbe sottoscritto
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accordi con un’altra potenza sulla questione balcanica senza la partecipazione dell’altro in piena eguaglianza; che l’uno e l’altro governo si impegnavano a comunicarsi qualsiasi proposta da parte di un’altra potenza, volta a modificare lo status quo nei Balcani, nell’Adriatico, nell’Egeo e sulle coste e isole dell’impero turco. «Con la stipulazione quasi contemporanea dell’accordo con la Russia e di quello con l’Austria – ha scritto Candeloro – la politica estera italiana, già ambigua, era arrivata praticamente al limite del doppio giuoco», ma ciò permise all’Italia di conservare la sua posizione mediana nel difficile equilibrio europeo e, nello stesso tempo, di guadagnare solide garanzie per la riscossione della sua ipoteca sulla Tripolitania e sulla Cirenaica.
4. La guerra di Libia L’accordo di Racconigi completava la serie delle garanzie che l’Italia aveva ottenuto dalle potenze europee per una sua espansione in Tripolitania e in Cirenaica. L’occasione, che fece maturare in Giolitti la decisione dell’impresa, fu data da una nuova crisi marocchina, che mise in contrasto la Francia e la Germania. Dopo il 1906, la Francia aveva intensificato la sua penetrazione del Marocco e nel 1911, prendendo a pretesto una rivolta contro il sultano, aveva occupato militarmente Fez, capitale del Marocco. La Germania, che si era resa pubblicamente garante dell’indipendenza del Marocco, rispose all’azione francese con un gesto di minaccia inviando un incrociatore nelle acque di Agadir il 1° luglio 1911. Seguirono alcuni mesi di tensione fra le due potenze ma alla fine, nel novembre, si giunse a un accordo: la Francia occupò il Marocco, lasciando la parte settentrionale alla Spagna e dichiarando Tangeri città libera; in compenso, cedeva alla Germania alcuni territori dell’Africa equatoriale, che furono annessi alla colonia tedesca del Camerun. Nel marzo 1912, la Francia imponeva il suo protettorato al sultano. L’incidente di Agadir fece precipitare la situazione politica nel Mediterraneo, in modo tale che appariva prossima la necessità, per l’Italia, di risolvere con una spedizione militare la questione della Libia. In un promemoria inviato a Giolitti pochi giorni dopo l’incidente di Agadir, il 28 luglio, il ministro degli Esteri San Giuliano
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esponeva con chiarezza e precisione i termini del problema, considerando sia le ragioni che consigliavano l’Italia di evitare una spedizione militare, sia le ragioni che la potevano costringere all’impresa. San Giuliano prevedeva, infatti, che l’impresa militare avrebbe provocato una nuova iniziativa austriaca nei Balcani, per approfittare del colpo dato dall’Italia all’impero turco. Ma, d’altra parte, secondo il ministro, vi erano numerose altre ragioni, secondo le quali l’Italia non poteva più rinviare la soluzione del problema libico e la riscossione dell’ipoteca che aveva posto sulla Libia e che era stata riconosciuta dalle altre potenze europee. «Noi – scriverà Giolitti nelle sue memorie –, nei negoziati con la Francia e l’Inghilterra per le questioni egiziane e marocchine, ci eravamo fatti attribuire dei diritti, dei quali avevamo ottenuto il riconoscimento anche da parte delle altre maggiori potenze; e doveva venire, e per me era venuto o era imminente il momento nel quale noi ci trovavamo in questa alternativa: o esercitare senz’altro questo diritto o rinunciarvi. Lo stato di cose esistente non poteva durare, e data la condotta dei Giovani Turchi, se in Libia non fossimo andati noi, ci sarebbe andata qualche altra potenza in qualche modo interessata politicamente o vi avrebbe creato degli interessi economici. D’altra parte l’Italia, che si era già così profondamente commossa per l’occupazione francese di Tunisi, non avrebbe certamente tollerata una ripetizione di un evento di quel genere per la Libia; e così noi avremmo corso il rischio di un conflitto con qualche potenza europea, cosa senza confronto più grave di un conflitto con la Turchia. Perseverare nella situazione in cui ci trovavamo, di avere messo un’ipoteca sulla Libia, ciò che impediva agli altri di andarvi, senza poi andarvi noi, sarebbe stata una cosa non seria, e che del resto ci creava difficoltà in tutte le altre questioni europee, e particolarmente in quelle dei Balcani. Un’altra complicazione derivava dal fatto della politica turcofila in cui si erano impegnati allora i nostri alleati, soprattutto la Germania, e che si trovava in contrasto con il trattamento che il governo di Costantinopoli faceva agli interessi italiani; così che San Giuliano, nelle sue comunicazioni coi governi di Berlino e di Vienna sosteneva la tesi, in apparenza paradossale, che l’unico modo per ristabilire l’amicizia fra noi e la Turchia, e rendere possibile una politica armonica della Triplice Alleanza nell’Impero Ottomano, era che noi occupassimo la Tripolitania».
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La rivolta dei Giovani Turchi nel 1908 aveva impresso un carattere dinamico e nazionalista al governo dell’impero. Di conseguenza, l’opera di penetrazione finanziaria e commerciale fatta dall’Italia in Libia – e in particolar modo dal cattolico Banco di Roma – veniva seriamente intralciata e ostacolata dalla Turchia, col chiaro scopo di sottrarre la Libia all’influenza italiana. Pressioni sul governo per un intervento militare venivano proprio dal Banco di Roma, il quale minacciò di cedere i suoi interessi a gruppi finanziari austro-tedeschi nel caso che il governo italiano non li avesse protetti con l’occupazione della Tripolitania. Nel suo promemoria, inoltre, San Giuliano avvertiva Giolitti che la spedizione militare avrebbe potuto essere imposta al governo anche dall’opinione pubblica, orientata in senso nazionalista ed espansionista, che reclamava un’azione contro la Turchia per la difesa della dignità nazionale e degli interessi coloniali dell’Italia. Il neonato movimento nazionalista, infatti, stava orchestrando una chiassosa campagna espansionista, accusando il governo di essere troppo remissivo verso le altre potenze e di non difendere gli interessi coloniali dell’Italia con una energica politica estera: «ogni piccolo incidente tripolino ed italo-turco – notava San Giuliano – è ad arte ingigantito dalla stampa per diversi motivi, tra cui il denaro e l’intrigo del Banco di Roma, interessato ad affrettare l’occupazione italiana della Tripolitania». Liberali, cattolici, nazionalisti erano favorevoli alla conquista della Libia per considerazioni di politica internazionale, per motivi di prestigio nazionale, per interessi economici, per ragioni di politica interna. Anche giornali poco inclini al colonialismo, come il «Corriere della Sera», diedero il loro contributo alla campagna favorevole all’impresa sostenendo la tesi che il territorio libico era una miniera intatta di ricchezze naturali (ma non si parlava allora del petrolio), e che la sua conquista avrebbe risolto il problema principale dell’economia italiana, cioè la mancanza di materie prime e di risorse naturali. Si trattava di valutazioni fondate spesso su dati poco attendibili o artificialmente esagerati, ma che servirono a diffondere l’immagine della Libia come una sorta di Eldorado e galvanizzarono l’opinione pubblica in favore dell’impresa. La stampa cattolica, per sostenere la penetrazione commerciale e finanziaria del Banco di Roma, alimentava la propaganda colonialista presentando la guerra contro la Turchia come una nuova
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crociata contro gli infedeli, e l’occupazione della Libia come una conquista di anime alla cristianità, nonostante la dichiarazione ufficiale del Vaticano che la guerra era soltanto un problema politico, col quale la religione nulla aveva a che fare. Ma i più impegnati e attivi nella campagna a favore dell’impresa furono il movimento futurista e soprattutto i nazionalisti imperialisti, i quali sfruttarono tutti i motivi disponibili – da quelli politici a quelli economici, letterari e ideali – per affermare la necessità dell’impresa, diffondendo la loro propaganda specialmente attraverso il settimanale «Idea nazionale», uscito proprio in quel tempo, organo del movimento nazionalista che faceva capo a Enrico Corradini, Luigi Federzoni, Francesco Coppola, Roberto Forges-Davanzati. Per i futuristi e e i nazionalisti, l’imperialismo era una legge naturale nella vita delle nazioni e l’Italia non poteva sottrarsi ad essa. Dopo le umiliazioni di Dogali e di Adua, bisognava riscattare il prestigio nazionale e affermare la vocazione italiana all’imperialismo con la guerra contro la Turchia e la conquista della Libia, la «quarta sponda», che i nazionalisti dipingevano come terra promessa, ricca di risorse agricole e minerarie, terra fertile che aspettava il lavoro fecondatore degli italiani. Anche alcuni repubblicani e radicali furono contagiati dalla passione coloniale, e neppure ne furono immuni qualche socialista e qualche sindacalista rivoluzionario, che si richiamavano ad Antonio Labriola – il quale nel 1904 aveva espresso un parere favorevole alla conquista della Libia – e alla teoria della necessità delle conquiste coloniali per l’evoluzione della società capitalistica verso la sua forma compiuta e, quindi, verso l’inizio della sua fine. Insieme alla fragorosa retorica imperialista di D’Annunzio, che inneggiava a nuove, aristocratiche glorie nazionali, non scarso peso ebbe anche il motivo populista – condensato nella frase di Giovanni Pascoli «la grande proletaria si è mossa» –, un sottofondo costante dell’imperialismo italiano, che considerava la conquista delle colonie come lo sbocco naturale dell’emigrazione per la soddisfazione del bisogno di terra dei contadini meridionali. Pur non sottovalutando le pressioni dell’opinione pubblica e di gruppi economici e finanziari, le ragioni che spinsero Giolitti a intervenire furono determinate principalmente da considerazioni sulla situazione politica internazionale, che imponeva ormai o la riscossione dell’ipoteca messa sulla Libia o la rinuncia definitiva alla conquista dell’ultimo territorio dell’Africa mediterranea an-
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cora libero dal dominio o dall’influenza coloniale delle potenze europee. Giolitti preparò con calma e realismo, senza lasciarsi affatto contagiare dalla retorica imperialista, le diverse fasi dell’impresa. Nel settembre, egli accelerò i preparativi per impedire che una proposta di mediazione tedesca – grazie alla grande influenza che la Germania aveva sul governo turco – potesse realizzarsi a danno dell’Italia. Il 24 settembre Giolitti ottenne dal re il consenso per l’invio di un ultimatum alla Turchia, col quale si chiedeva al governo turco di permettere l’occupazione italiana della Tripolitania e della Cirenaica entro 24 ore, motivando la richiesta con le continue ostilità manifestate dalla Turchia verso le iniziative italiane in Libia. L’ultimatum naturalmente venne respinto e il 29 settembre l’Italia dichiarò guerra alla Turchia. La dichiarazione, decisa dal re, da Giolitti e da San Giuliano e approvata dalle alte gerarchie militari, non fu approvata né ratificata dalla Camera, che era stata chiusa nel luglio 1911 e fu riaperta soltanto nel febbraio 1912, quando l’impresa era già un fatto compiuto. Nelle prime due settimane di ottobre, la marina occupò i principali porti della Libia, preparando il terreno allo sbarco del corpo di spedizione al comando del generale Carlo Caneva. Ma l’azione militare italiana, che era stata prevista rapida, si arrestò molto presto a causa della forte resistenza incontrata sia da parte dei turchi che da parte delle popolazioni arabe, le quali si mostrarono tutt’altro che ben disposte verso la conquista italiana, come avevano pensato i fautori dell’impresa. Gli arabi contrastarono efficacemente l’azione militare italiana con una guerriglia che colse del tutto impreparati gli italiani, in grande maggioranza soldati di leva per nulla adatti al combattimento in un territorio come quello libico, e colse di sorpresa gli stessi capi militari, che furono costretti ad affrontare la guerriglia in condizioni di difesa, nonostante l’aumento del corpo di spedizione da 35.000 fino a 100.000 soldati. Sostenuti dalla potente organizzazione della confraternita islamica dei Senussi, che lanciò la guerra santa contro gli infedeli invasori, i turchi e i guerriglieri arabi riuscirono a contenere l’occupazione delle truppe italiane nel territorio intorno a Tripoli e a poche città della Cirenaica. Né furono sufficienti, per fiaccare la resistenza araba, le repressioni violente, indiscriminate e sanguinose messe in atto dagli italiani contro interi villaggi. Il lento procedere delle operazioni militari mise in moto, con-
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temporaneamente, la diplomazia delle grandi potenze, per risolvere il conflitto senza gravi conseguenze per l’equilibrio europeo. La Germania e l’Austria, preoccupate per l’indebolimento della Turchia, che avrebbe potuto spingere la Russia ad occupare gli Stretti e ad estendere la sua influenza sui Balcani, cercarono di raggiungere una soluzione di compromesso fra l’Italia e la Turchia che ponesse fine alla guerra, proponendo una occupazione di fatto della Libia da parte dell’Italia sotto la sovranità formale dell’impero turco. Questo fitto incrociarsi di manovre diplomatiche spinse Giolitti ad una decisione che sembrò intempestiva: a dichiarare, cioè, l’annessione della Libia ancor prima di aver concluso la guerra, con un decreto reale del 5 novembre 1911, che proclamava la sovranità assoluta dell’Italia sulla Tripolitania e sulla Cirenaica. Nel febbraio dell’anno successivo il decreto venne approvato all’unanimità dal Senato e a grande maggioranza dalla Camera. La decisione italiana rese ancora più difficili i rapporti diplomatici con le altre potenze le quali, anche se non ostacolavano l’Italia, premevano per soluzioni di compromesso che in vario modo condizionavano la sua azione e miravano a ridurre i vantaggi dell’impresa. Fallì anche l’iniziativa russa che prevedeva una pressione sull’impero, da parte dell’Inghilterra soprattutto, perché accettasse il fatto compiuto della perdita della Libia in cambio di un cospicuo indennizzo finanziario. La Turchia si oppose a una simile soluzione, convinta di poter ancora vincere la guerra. Nuove difficoltà fra l’Italia e le altre potenze europee sorsero quando Giolitti, per accelerare la conclusione del conflitto e colpire l’impero in centri vitali, prospettò la possibilità di estendere le operazioni alle isole dell’Egeo o nei Dardanelli. Ma l’intenzione italiana incontrò l’opposizione dell’Austria, che dichiarò contraria agli accordi della Triplice l’occupazione di isole dell’Egeo da parte italiana. Intanto l’Italia si trovò in contrasto anche con la Francia, a causa di alcuni incidenti che Giolitti definì «cause da pretura»: due mercantili francesi, che avevano a bordo militari turchi, furono fermati e perquisiti nel mare di Sardegna, e i turchi presi prigionieri. L’incidente sollevò le proteste del governo francese, che si sentì offeso nel suo orgoglio nazionale, ma suscitò una reazione analoga nell’opinione pubblica italiana, ed ebbe l’effetto di raffreddare i rapporti italo-francesi mentre, nello stesso tempo, favorì una di-
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versa disponibilità della Germania verso l’Italia. Nell’incontro a Venezia con Vittorio Emanuele, nel marzo 1912, Guglielmo II si impegnò a fare pressioni sull’Austria per dare via libera all’azione militare italiana nell’Egeo. La Germania, infatti, temeva che una lunga guerra di logoramento avrebbe indebolito troppo l’Italia e messo in pericolo l’esistenza della Triplice. Così, nell’aprile, l’Italia poteva iniziare le operazioni militari nell’Egeo: occupò 12 isole mentre una squadra navale comandata dal capitano di vascello Enrico Millo effettuò una audace spedizione nei Dardanelli che, se non diede alcun risultato concreto, servì a galvanizzare l’opinione pubblica italiana. In Libia, durante l’estate, gli italiani riuscirono a riprendere l’iniziativa e a estendere, sia pur di poco, la loro zona di occupazione. La presenza italiana nell’Egeo costituiva per la Turchia una seria minaccia e un grave pericolo nel momento in cui si preannunciavano nuovi conflitti nei Balcani a danno dell’impero. Trovandosi isolata, la Turchia considerò favorevolmente la possibilità di un accordo diplomatico con l’Italia. I primi passi furono fatti dal veneziano Giuseppe Volpi, il quale non era un diplomatico ma un uomo di affari che aveva buone relazioni con l’impero attraverso la Società commerciale d’Oriente, di cui era presidente. Per mezzo di Volpi e del suo rappresentante a Costantinopoli, Bernardino Nogara, Giolitti venne a conoscenza della disponibilità turca a un accordo e autorizzò Volpi a iniziare i negoziati di pace. Le trattative si svolsero a Losanna e a Ouchy, dal luglio all’ottobre 1912. Il 18 ottobre fu firmata la pace sulla base di un accordo, che stabiliva la concessione dell’autonomia alla Tripolitania e alla Cirenaica da parte del Sultano, e il ritiro delle truppe turche dalle due regioni, cui sarebbe seguito il ritiro dell’Italia dalle isole dell’Egeo. La Turchia non rinunciava ufficialmente alla sovranità sulla Libia, ma solo all’amministrazione e all’occupazione militare. Da parte sua, l’Italia, col pretesto che truppe turche erano rimaste in Cirenaica, mantenne l’occupazione delle isole dell’Egeo, che furono annesse dopo la prima guerra mondiale, con il trattato di Losanna del 1923. Si concludeva così la conquista della Libia, la prima impresa fortunata dell’imperialismo italiano. Non mancarono le critiche, all’interno, sul modo in cui era stata condotta la guerra e fatta la pace, soprattutto da parte della destra e dei nazionalisti, i quali avrebbero desiderato un’ostentazione ancor più energica della
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politica estera italiana. Giolitti invece preparò e guidò l’impresa con burocratica calma, e la concluse a tavolino per mezzo di un uomo d’affari. Scriverà poi nelle memorie: «Io pensavo, e mantengo questo convincimento, che il successo di un’impresa non debba misurarsi affatto dalla teatrale grandiosità dei mezzi e dei modi con cui viene conseguito; ma anzi dall’uso sobrio dei mezzi atti al suo conseguimento. Noi ci eravamo proposti semplicemente la conquista della Libia, ed a tale scopo avevamo predisposti tanto i mezzi diplomatici quanto quelli militari: l’esserci riusciti senza bisogno di ricorrere a colpi di audacia che implicavano rischi corrispondenti e senza provocare l’apertura di altre questioni e di altri conflitti, conseguendo all’ultimo precisamente gli scopi che ci eravamo preposti sino dal primo giorno, fu a mio parere il merito maggiore del governo [...] La pace fu generalmente bene accolta, nel Parlamento, nella stampa e nel paese. Non mancarono però le critiche anche per essa, specialmente da parte di coloro che avrebbero voluto che, scoppiata la guerra balcanica, noi avessimo colta l’occasione di una maggiore guerra, mettendoci alla testa dei nuovi nemici della Turchia, o almeno aspettandone la soluzione. Per me invece lo scoppio della guerra balcanica era una nuova e potente ragione perché noi dovessimo procurare in ogni modo che la questione nostra fosse liquidata prima ed a parte, affinché la fine di quella guerra ci trovasse fra i giudici e non fra coloro che dovevano essere giudicati». La conquista della Libia fu accompagnata dal consenso della grande maggioranza delle forze politiche e della popolazione, fu esaltata dai nazionalisti, da D’Annunzio, dai futuristi e dal socialista umanitario Pascoli, come abbiamo visto. Non mancarono però le voci contrarie, suscitate da diversi motivi, ma sostanzialmente contrarie sia alla guerra coloniale in sé, sia alla conquista di un territorio che nella realtà non risultava corrispondere alle descrizioni fatte dai sostenitori dell’impresa, perché privo di ricchezze e risorse naturali. L’opposizione più sistematica venne da parte della rivista fiorentina «La Voce», con la campagna antitripolina fatta da Salvemini per denunciare le mistificazioni nazionaliste e i rischi di un’impresa che rinviava la soluzione dei veri problemi della società italiana. «La Voce» polemizzò soprattutto con i nazionalisti, l’avanguardia ideologica del nuovo imperialismo italiano, i quali gonfiavano o inventavano relazioni di esperti sulle presunte ricchezze
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naturali della Libia e sulla buona volontà degli indigeni verso l’Italia, ansiosi, secondo i nazionalisti, di liberarsi dal giogo turco per docilmente sottomettersi a quello italiano. «La Voce» respinse questa campagna di montature e confutò sistematicamente la propaganda nazionalista, appoggiandosi a un rapporto della Jewish Territorial Organization, che forniva una relazione negativa sulle possibilità di colonizzazione della Libia. Secondo Salvemini, l’impresa era una manovra giolittiana per procrastinare le questioni interne più urgenti: «noi – scriveva Salvemini su “La Voce” – non dobbiamo stancarci di affermare, che anche ammesso che la Tripolitania sia quel paese di cuccagna che gli austro-clericali e i nazionalisti vanno cantando, in questo momento e per qualche anno ancora l’Italia deve tenere le mani a posto, non assumere l’iniziativa di nessun’impresa internazionale, mirare soprattutto ad impedire all’Austria ogni avanzata verso Salonicco, subordinare tutta la sua azione a questo obiettivo supremo, tenersi strettamente legata a tutti coloro che in questa politica di mantenimento dello statu quo sono come noi interessati». Tuttavia, una volta decisa l’impresa, la rivista fiorentina attenuò la polemica anticolonialista per accettare il fatto compiuto e sottomettersi alla disciplina di un paese impegnato in guerra. Da parte sua Salvemini, separatosi da «La Voce» perché contrario a questa decisione, continuò sulla sua nuova rivista «L’Unità» la polemica contro l’impresa e, in senso più generale, contro il giolittismo e Giolitti. I socialisti reagirono tardi e con poca convinzione all’ipotesi di una occupazione militare della Libia. Anche fra di loro, fra riformisti e sindacalisti rivoluzionari vi era qualche fautore dell’impresa, non per esaltato nazionalismo, ma per una realistica valutazione della necessità politica che spingeva l’Italia ad affermare con l’occupazione i suoi interessi in Libia, evitando di essere preceduta da qualche altra potenza. Del resto, nel partito socialista italiano vi era scarsa consapevolezza dei problemi della politica estera: al di là di un generico antimilitarismo pacifista e di un umanitario anticolonialismo, i socialisti ignoravano la complessità dei problemi di politica estera nell’età dell’imperialismo, problemi nei quali l’Italia, pur con il suo modesto imperialismo mediterraneo, era coinvolta. In questo senso, come ha osservato Maurizio Degl’Innocenti nel suo studio sulla guerra di Libia e la crisi del socialismo, l’impreparazione del gruppo dirigente riformista pro-
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vocò anche la crisi della sua egemonia nel partito socialista: «Nella quasi assoluta mancanza di analisi delle condizioni economiche e politiche nelle quali era maturata l’impresa coloniale, che si tese ad attribuire a fattori patologici e parassitari, e non fisiologici, dello sviluppo economico, la sia pure esatta individuazione dello spostamento a destra dell’asse politico del paese, del venir meno delle condizioni per una politica di alti salari e di allargamento del mercato interno, per l’aggravio della finanza pubblica e del peggioramento delle condizioni di vita del proletariato, non pose al gruppo riformista più omogeneo e preparato l’esigenza di un rinnovamento profondo della ideologia e della prassi tradizionale, bensì, semplicemente, di un passaggio all’opposizione parlamentare, dalla quale rilanciare l’esperimento riformista, dopo che fosse stata chiusa la parentesi, più o meno lunga, della ‘guerra folle’. La guerra, anzi, rappresentò per tutta l’ala destra del riformismo, con l’accettazione del fatto compiuto e con l’anteporre la ‘solidarietà nazionale’ alla lotta di classe, l’ultima tappa di un lungo percorso di inserimento nel sistema borghese». I riformisti furono incapaci di elaborare una loro coerente teoria antimperialista e mutuarono le loro critiche all’impresa dal liberismo borghese degli Einaudi, dei Giretti, dei Salvemini, convinti, come Turati, fino all’ultimo, che il pericolo della guerra era una minaccia che Giolitti avrebbe saputo sventare. L’unica intransigente opposizione, che scese alle vie di fatto, fu quella della corrente intransigente del partito, che riaffermò la posizione anticolonialista, senza compromessi, del movimento operaio. Gli esponenti rivoluzionari furono gli unici veri protagonisti dello sciopero generale contro l’impresa coloniale indetto dal partito socialista e dalla CGdL per il 27 settembre. Lo sciopero riuscì solo in qualche zona e particolarmente in Romagna, dove si distinsero il socialista Mussolini e il repubblicano Nenni, che guidarono una violenta manifestazione contro la guerra. Ostili all’impresa furono anche i gruppi sindacalisti rivoluzionari di De Ambris, di Filippo Corridoni, di Umberto Pasella, Michele Bianchi, Edmondo Rossoni e gli anarchici di Errico Malatesta. La linea antitripolina prevalse nel congresso nazionale del partito socialista a Modena, tenuto dal 15 al 18 ottobre ma, nel complesso, la campagna contro l’impresa non riuscì a compromettere la sua preparazione e la sua realizzazione.
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5. Origini e sviluppo del nazionalismo italiano Durante l’impresa di Libia, l’opinione pubblica italiana fu sommersa da una ondata di sentimenti e idee nazionaliste. I più accaniti sostenitori della guerra, suoi esaltatori e cantori in versi e in prosa erano stati alcuni intellettuali, come i futuristi, che da qualche tempo si agitavano nel paese predicando la necessità per l’Italia di armarsi e mettersi anch’essa come le altre potenze europee, come gli Stati Uniti e il Giappone, sulla via delle conquiste territoriali. La guerra di Libia coincise con la nascita di un vero e proprio nazionalismo italiano come movimento politico, ispirato da alcuni principi fondamentali e dominato dall’idea centrale della grandezza nazionale e dell’imperialismo. Le origini remote di questo movimento affondavano nel periodo risorgimentale, in talune esaltate proposizioni mazziniane e giobertiane, nella «megalomania» crispina, nella letteratura superomistica e dannunziana. Solo nel primo decennio del nuovo secolo, tuttavia, cominciarono a udirsi in Italia, con qualche ritardo rispetto ad analoghi movimenti stranieri, le prime voci di un nuovo movimento assertore della nazione come totalità organica e valore assoluto dominante su qualsiasi altra idealità politica e sociale, nonché propugnatore di una politica di espansione all’esterno e di disciplina all’interno. Questo movimento ebbe in origine carattere letterario e retorico ma, in seguito, pur senza abbandonare l’enfasi oratoria e senza liberarsi da una certa mitologia imperiale classicheggiante, che era parte integrante della sua cultura politica, acquisì precisi contenuti ideologici, come nuova e complessa concezione politica, economica e sociale dello sviluppo capitalistico in Italia nel periodo imperialista, con un progetto di radicale trasformazione delle forme di organizzazione della società e dello Stato, secondo i principi di un moderno autoritarismo di massa, che interpretava e risolveva, a suo modo e non senza originalità, i problemi connessi con il processo di mobilitazione sociale e lo sviluppo industriale del paese. Prima di diventare un movimento politico, con una organizzazione attiva, un organo di stampa, un’ideologia e un gruppo dirigente, il nazionalismo italiano fu la convergenza di diverse correnti culturali indigene ma non insensibili alla suggestione di nazionalismi stranieri; un movimento di opinioni politiche e di stati
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d’animo non definiti né orientati verso obiettivi precisi. Questa fase coincise con gli anni dal 1903 al 1910, anno in cui fu tenuto il primo convegno dei nazionalisti per la definizione ideologica del nazionalismo e la fondazione di una associazione e di un programma comune di azione. Alla fine del 1903 era nata a Firenze una rivista, «Il Regno», diretta da Enrico Corradini, scrittore e drammaturgo di epica nazionale, che nelle sue opere aveva esaltato la grandezza dell’Italia e la necessità dell’imperialismo. Il sociologo Vilfredo Pareto, nell’annunciare la nascita della rivista, alla quale collaborò, il 26 gennaio 1904 scriveva sulla «Gazette de Lausanne»: «Ecco ora l’Italia, dove si manifestano segni inequivocabili di resistenza all’umanitarismo. È stata appena fondata a Firenze una rivista che esplicitamente lo combatte. Si chiama “Il Regno” ed è scritto da persone intellettualmente molto battagliere. […] Essi non credono affatto che la borghesia sia stata messa al mondo solo per ricevere colpi e dire: grazie! […] Io credo anche che essi non si limiteranno solo a rispondere ai colpi degli avversari, ma che, al momento, essi sappiano anche essere pronti a prendere l’offensiva». Il sociologo coglieva bene i due caratteri fondamentali della rivista: lo spirito guerrafondaio e il disprezzo per l’umanitarismo, il che voleva dire, più in esteso, avversione alla politica sociale giolittiana, al movimento socialista e alla decadenza della borghesia come classe dirigente. Il fondatore della rivista e i suoi più stretti collaboratori, Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini, lanciavano un appello per raccogliere tutti i borghesi avviliti dalla situazione nazionale del momento, ma disposti a opporsi al sopravvento delle masse popolari, per restituire alla borghesia il suo vigore e la sua autorità con una aperta politica reazionaria e antisocialista. La rivista, inoltre, sosteneva la necessità di una politica estera più dinamica, energica e aggressiva: «Noi siamo soprattutto espansionisti. La forma più naturale di espansione è per ora quella territoriale per conquista. Cioè l’espansione territoriale dovrebbe precedere quella industriale e commerciale non questa quella». L’appello alla reazione di classe e all’imperialismo costituiva il caposaldo del nascente nazionalismo, che si sarebbe sviluppato in forme più articolate ed elaborate, mano a mano che dagli stati d’animo si passava a concrete iniziative politiche. Il carattere letterario e retorico del primo nazionalismo era stato individuato da Croce,
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anche se il filosofo enfatizzò esclusivamente questo aspetto a scapito di quello più propriamente politico. Croce aveva avvertito che nella mentalità delle nuove generazioni borghesi, superata la passione per il socialismo, vi era stato un mutamento che si manifestava attraverso nuovi ideali e nuovi sentimenti, sintomi di quella che Croce considerò una malattia morale: «appaiono – scriveva in un saggio del 1907 – nell’arte, nella filosofia, negli studi storici tipi psicologici affatto diversi. Abbiamo non più il patriota, il verista, il positivista, ma l’imperialista, il mistico, l’esteta o come altro si chiamino. Sono tutti operai della medesima industria: la grande industria del vuoto [...] Che cosa vogliono? Chi lo sa? [...] L’imperialismo vuol trarre l’Italia a grandi destini; vuole schiacciare la bestia democratica; vuole conquistare, guerreggiare, cannoneggiare, spargere fiumi di sangue; ma se gli si domanda contro chi e perché e con quali mezzi e quali fini vuol muovere tanto fracasso, eccolo sulle furie, eccolo che rivolge contro l’importuno domandatore i suoi cannoni di parole: egli sente che i suoi programmi di dominazione e devastazione perderebbero la loro grandiosità e presto si dissiperebbero, se si volesse determinarli storicamente». La retorica imperialista non esauriva il valore delle idee che si andavano precisando all’interno della nebulosa nazionalista, ove convivevano tendenze ideali diverse, spesso contrastanti e occasionalmente unificate da una comune quanto generica aspirazione a una vita nazionale più alta e più grande. Spetta comunque a Corradini il vanto di aver dato al nazionalismo italiano il primo corredo di miti e di idee, che ne costituivano il substrato ideologico e propagandistico, prima che il nazionalismo fosse meglio definito, in modo più organico, attraverso il contributo politicamente più consistente di Federzoni, Coppola, Rocco. Nel nazionalismo corradiniano – vero colpo di genio propagandistico – il mito imperialista era connesso con quello del populismo nazionale, che ambiva a presentarsi come superamento del socialismo in una concezione della nazione come unità organica di gruppi sociali diversi e distinti, con giusto equilibrio e rapporto di forze, nelle loro funzioni e attività, legati da una solidarietà naturale superiore a qualsiasi realtà particolare – individuo o classe – in essa vivente. Corradini mutuava dal socialismo proprio uno dei caratteri che maggiormente i nazionalisti detestavano nel socialismo, vale a
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dire l’appello demagogico alle masse. Il mito nazionalista popolare di Corradini nasceva, infatti, dalla suggestione provocata dai moderni movimenti di massa, dall’incremento demografico, dal fenomeno dell’emigrazione che colpiva l’Italia nei primi anni del secolo in una misura superiore a quella di qualsiasi altro paese europeo. Questo fenomeno non era studiato realisticamente come frutto di particolari condizioni sociali ed economiche bensì esaltato come manifestazione della potenza demografica della razza italiana, costretta a dirigersi verso paesi stranieri perché priva di una efficace guida politica nazionale capace di indirizzarla verso la conquista di colonie. L’elemento populista era essenziale nella concezione imperialista corradiniana. Affascinato dall’espansione dell’imperialismo inglese e francese, e dal nascente imperialismo americano e nipponico, il neonato nazionalismo italiano reclamava una politica estera simile a quella delle altre nazioni imperialiste e, per ottenerla, esigeva che la nazione fosse unita e organizzata militarmente, senza fratture e contrasti interni. Perciò il nazionalismo rifiutava la concezione della lotta di classe e si proclamava ferocemente antisocialista, ma, nello stesso tempo, sosteneva di voler conseguire il progresso e il benessere delle masse attraverso la loro integrazione in un nuovo sistema di potere, dominato da una borghesia capitalistica capace di affrontare i rischi di una lotta internazionale per l’espansione territoriale ed economica. Le vie attraverso cui realizzare la nuova politica reazionaria e imperialista non erano chiare. Sulle questioni politiche immediate non vi era, fra i nazionalisti, concordanza di vedute. Incerto era anche il loro atteggiamento verso la monarchia, sia per le simpatie repubblicane di qualche nazionalista di matrice mazziniana, sia per la poca stima che molti nazionalisti avevano di Vittorio Emanuele III, considerato un monarca democratico e socialisteggiante, poco sensibile alla maestà della sua funzione. Vari erano pure i giudizi sulla democrazia e gli istituti rappresentativi, anche se era sollecitata da tutti i nazionalisti la loro trasformazione. Quanto al problema economico, i nazionalisti oscillavano fra protezionismo e liberismo. L’unica voce chiara e distinta era quella reclamante una franca politica reazionaria di classe, che avrebbe dovuto riorganizzare le forze borghesi contro la politica di compromesso e di concessioni ai socialisti attuata da Giolitti: «Nel complesso, dunque – ha scritto Franco Gaeta nel suo studio sul na-
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zionalismo italiano –, se ne va pur sempre tenuta presente la componente retorico-letteraria [...] occorre anche sottolineare che nel Regno esistevano ben nutriti germi di preciso pensiero politico e, per essere più esatti, le basi di un programma politico non solo aggirantesi per aeree regioni di immaginarie grandezze, ma anche proponente una linea non del tutto astratta di difesa di classe». La prima occasione di incontro, confronto e scontro fra le diverse tendenze nazionaliste fu il convegno tenuto a Firenze dal 3 al 5 dicembre 1910. Il convegno si aprì senza un programma preciso da discutere, anche se in Corradini, che ne era stato il principale promotore, vi era la volontà di fare del convegno il momento di fusione fra i nazionalisti di diverse tendenze: «Siamo qui per fare opera di concordia. Che si è ora tutti noi? Alcune persone separate le une dalle altre. Che cosa ci proponiamo di essere di qui a tre giorni? Una sola personalità con un’idea chiara, un intento certo, una forza per raggiungerlo». Non fu cosa facile fondere insieme repubblicani e monarchici, liberisti e protezionisti, irredentisti e triplicisti. L’impostazione generale alla discussione venne data, naturalmente, dallo stesso Corradini, il quale svolse una relazione che aveva il lapidario e significativo titolo Classi proletarie: socialismo, nazioni proletarie, nazionalismo, e fu, come afferma Gaeta, «la prima carta ideologica del nazionalismo italiano», nella quale Corradini sintetizzò i temi fondamentali della sua concezione nazional-imperial-populista. Adottando la terminologia marxista, Corradini affermò che, come il proletariato era sfruttato dalla borghesia, così le nazioni proletarie – come l’Italia – erano sfruttate dalle nazioni ricche e potenti. La lotta di classe fra borghesia e proletariato aveva il suo corrispondente nella lotta fra nazioni ricche e nazioni proletarie. L’Italia, paese povero di materie prime ma ricco di energie umane, apparteneva alle nazioni proletarie. Il problema dell’emigrazione, per Corradini, non era una questione sociale ma un problema di politica di potenza. Egli citava l’esempio del Giappone, paese con un forte incremento demografico, compresso fra grandi potenze come Russia e Stati Uniti, ma capace di realizzare un’audace politica di espansione. Allo stesso modo l’Italia doveva trasformare le schiere degli emigranti in eserciti di conquista, per rivendicare il suo ruolo di grande potenza contro le nazioni ricche e gli imperi consolidati. Il nazionalismo doveva essere la coscienza imperialista dell’Italia: «come il
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socialismo insegnò al proletariato il valore della lotta di classe, così noi dobbiamo insegnare all’Italia il valore della lotta internazionale. Ma la lotta internazionale è la guerra? Ebbene sia la guerra! E il nazionalismo susciti in Italia la volontà della guerra vittoriosa». Corradini affermava il primato della politica estera e la teoria che i problemi interni – come l’emigrazione, la questione sociale e la questione meridionale – potevano trovare soluzione solo attraverso l’imperialismo. A conclusioni non diverse giungeva Maurizio Maraviglia, che svolse una relazione su Il movimento nazionalista e i partiti politici, in cui sostenne la necessità di fare del nazionalismo un partito nuovo che doveva dare unità al paese per prepararlo ad affrontare i problemi della politica imperialista. Secondo Maraviglia, i partiti esistenti erano diventati «organi di filantropia universale» e, perciò, erano responsabili della decadenza politica dell’Italia e del suo indebolimento a danno delle organizzazioni di gruppi particolari. L’idea di nazione, affermava Maraviglia, aveva un valore proprio, e i suoi interessi erano superiori a qualsiasi interesse particolare. In termini più concreti venne affrontato il problema della politica estera da Scipio Sighele e Luigi Federzoni. Sighele discusse la questione dell’irredentismo in relazione con la vocazione bellicista del nazionalismo e l’eventualità di una guerra contro l’Austria. Egli, tuttavia, moderò notevolmente lo spirito guerrafondaio del nazionalismo, riaffermando nei confronti della questione irredentista la priorità di una politica realista, rivolta piuttosto a dare un sostegno alla difesa del sentimento nazionale e degli interessi degli italiani soggetti all’Austria, che non tesa a una pericolosa ricerca di occasioni di guerra. Sighele respingeva l’essenza del nazionalismo corradiniano quando dichiarava che «l’irredentismo è il fiore più puro del nazionalismo, perché non è desiderio di conquista, ma affermazione di un diritto». La questione irredentista, del resto, non poteva esser vista solo dal punto di vista storico e sentimentale. Essa era subordinata al problema delle alleanze, alla politica estera triplicista alla quale l’Italia, nonostante i giri di valzer e le delusioni del 1908, restava legata. Sulla bontà della scelta triplicista Federzoni non aveva alcun dubbio e la sua relazione fu una circostanziata difesa dell’alleanza; senza escludere l’eventualità di una guerra contro l’Austria, quando l’Italia fosse stata abbastanza forte da potere scegliere fra la pace e
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la guerra. L’Italia, secondo Federzoni, non poteva uscire dalla Triplice, ma doveva cercare nell’ambito di questa un ruolo più attivo, alla pari con gli alleati, con una politica estera più energica a tutela degli interessi italiani, una politica di prestigio e di rispetto da parte delle altre nazioni. Il dibattito su queste relazioni non servì molto a creare una fusione e il convegno non definì i caratteri specifici del nazionalismo, lasciando convivere tendenze diverse. Il congresso si chiuse con la fondazione di una Associazione nazionalista italiana, con un consiglio centrale di 31 membri e con sede a Roma. Nel marzo usciva il settimanale «L’idea nazionale», che avrebbe avuto un ruolo molto importante sia per la definizione ideologica sia per la formazione di un gruppo dirigente nazionalista, diventando centro di raccolta e un efficace mezzo di pressione e di organizzazione dell’opinione pubblica quando si trasformò, nel 1914, in quotidiano, grazie ai cospicui finanziamenti di industriali lombardi e piemontesi, e di zuccherieri e armatori genovesi. Nel secondo congresso per l’unità nazionalista, tenuto a Roma dal 20 al 22 dicembre 1912, la situazione all’interno del movimento era notevolmente mutata, soprattutto in seguito all’impresa di Libia che, se da una parte sembrò spezzare le armi polemiche dei nazionalisti contro la politica «pacifista» del governo, dall’altra però accentuò i caratteri imperialisti e reazionari del nazionalismo. Il congresso di Roma, infatti, sancì la incompatibilità del nazionalismo con i principi democratici e con la massoneria, in quanto espressione di ideologie e mentalità internazionaliste e radicalsocialiste. Arcari e Sighele, sostenitori del principio democratico e della politica irredentista, abbandonarono l’Associazione, che aveva assunto i suoi definitivi caratteri di movimento autoritario e imperialista, volto alla sovversione del sistema giolittiano e dello Stato democratico.
IX L’ANTIGIOLITTISMO E IL MITO DELLO STATO NUOVO
1. Gli antigiolittiani e i meriti di Giolitti I nazionalisti erano soltanto una delle molteplici correnti antigiolittiane, che nel corso del primo decennio del secolo sorsero e si moltiplicarono, sia a destra che a sinistra e al centro, fino a costituire un vasto ed eterogeneo fronte di oppositori sempre più tenaci e aggressivi del sistema di potere dello statista piemontese. C’è prima di tutto un equivoco da eliminare parlando dell’antigiolittismo. È ancora opinione diffusa che esso, come fenomeno, sia stato caratterizzato dalla incapacità di comprendere la nuova politica liberale, iniziata da Giolitti per favorire il progresso delle classi lavoratrici e l’inserimento delle masse nella vita dello Stato. È un’opinione infondata. Gli esponenti più rappresentativi dell’antigiolittismo avevano, in principio, favorito o accettato come un fatto compiuto la svolta di fine secolo, valutando positivamente i risultati immediati da essa ottenuti, ed erano favorevoli a una politica di riforme. Anche i più intransigenti antigiolittiani riconoscevano a Giolitti almeno il merito di aver superato il complesso dello stato d’assedio, da cui era stata afflitta la classe dirigente liberale; di aver francamente difeso la libertà di organizzazione e di lotta per il proletariato e i partiti democratici; di aver contribuito al miglioramento delle condizioni economiche delle classi popolari. Anche Sonnino, dimesso l’abito reazionario, affermò il 1° dicembre 1903 che il «rispetto della libertà delle organizzazioni operaie e della libertà di sciopero come di quella del lavoro non
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può e non dev’essere oggetto di contesa tra i partiti politici dovendo esso costituire ormai un presupposto comune, universalmente consentito da tutti coloro che accettano le istituzioni; così come avviene in Inghilterra e negli Stati Uniti». Salvemini, in un articolo su «La Voce» dell’11 maggio 1911, ammonì gli antigiolittiani a non cadere nel moralismo, a evitare gonfiature e insincerità: «Per esempio, continuare oggi, nell’anno di grazia 1911, a rinfacciare all’on. Giolitti del 1893 le marachelle della Banca Romana, è proprio una gonfiatura e una insincerità. Fra il 1901 e il 1903, allorché l’on. Giolitti contribuiva con la sua politica di libertà al consolidamento definitivo del diritto di organizzazione proletaria [...] nessuno dei deputati socialisti, repubblicani, democratici, pensò o disse che il ricordo della Banca Romana dovesse essere ostacolo all’azione politica complessivamente benefica di quell’uomo [...] Oramai, dopo l’attestazione di fiducia nel 1901, 1902, 1903 la Banca Romana si deve considerare come prescritta. E non è serio, ed è una vera e propria volgarità, ritornare a ricordarsene proprio ora». Ma c’era il Giolitti posteriore al 1903: «il Giolitti protettore e complice delle camorre meridionali, il Giolitti specialista in operazioni elettorali», verso il quale la condanna politica di Salvemini era senza appello. Egli tuttavia non negava i progressi che il paese aveva fatto nel decennio giolittiano, dichiarandosi, come scriveva su «L’Unità» del 7 marzo 1913, «un cittadino della ‘Piccola Italia’, dell’Italia d’oggi, che comincia appena ora a sollevarsi faticosamente dalla miseria intellettuale e morale ed economica di molti secoli», e considerava gli anni dal 1896 al 1911 «gli ‘anni della iniziata restaurazione’ economica del nostro paese». Con motivazioni simili a quelle di Salvemini, Luigi Sturzo in un articolo del 25 settembre 1904 giudicò il secondo governo Giolitti un miglioramento nella politica liberale e, entro certi limiti, una speranza per il paese. Anche di fronte al ripetersi di episodi sanguinosi durante gli scontri tra forza pubblica e manifestanti, come a Buggerru e a Castelluzzo, Sturzo osservò che fatti come questi avevano «un notevole significato politico sotto Pelloux, ma non certo sotto Giolitti, che permise, anzi spinse gli scioperi del 19021903 con la sua politica a larga base democratica, poggiante verso l’estrema». L’uccisione di manifestanti era considerata da Sturzo
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un doloroso incidente, non l’esito inevitabile di una politica repressiva. Il comportamento di Giolitti in occasione di lotte sindacali, come durante lo sciopero del 1904, ebbe l’approvazione di Vilfredo Pareto, che lodò la difesa del diritto di sciopero e del diritto di lavoro, fatta da Giolitti alla Camera nel 1901, e la sua «politica di equilibrio»: tutti gli amanti della libertà, secondo Pareto, avrebbero dovuto approvare il suo operato, che era stato savio, giusto, onesto, perché, come scriveva il 20 luglio 1901 su «Il Secolo», «è principale ufficio di un governo civile di impedire le prepotenze da qualsiasi parte vengano e di imporre a tutti, senza alcuna eccezione, il rispetto del diritto»; Giolitti agiva da «vero uomo di Stato», sapeva adeguare l’azione alle circostanze, usava interessi e sentimenti esistenti, senza curarsi di suscitarne di nuovi. Del resto, notava Pareto su «Il Regno» del 30 ottobre 1904, «se facesse altrimenti, non solo nocerebbe a se stesso, il che credo, è la sola cosa che a tal passo lo sospinga, ma nocerebbe altresì a coloro stessi che vorrebbe difendere ed a cui vorrebbe giovare». Un altro tenace antigiolittiano, Giovanni Amendola, ricordò su «Il Resto del Carlino» il 29 ottobre 1913, mentre il sistema giolittiano tramontava, che Giolitti aveva dimostrato la validità e la vitalità del liberalismo quando i socialisti, intorno al 1900, «chiedevano per il proletariato più libertà e più benessere, ma al proletariato non sapevano offrire che del marxismo in forma catechistica. Ci volle Giolitti per dare al proletariato libertà di organizzazione e aumenti di salario. Il proletariato ci guadagnò: ed il liberalismo si dimostrò, grazie a un’audace iniziativa, più largo e più vitale di quanto i suoi nemici sospettassero», svolgendo la sua azione non per un ceto particolare, ma per «la nazione che quei ceti contiene e difende». Anche la personalità di Giolitti, che suscitava scherno e disprezzo fra gli amanti dei personaggi dal gesto clamoroso e dal fascino carismatico, trovava un equilibrato apprezzamento negli antigiolittiani più sereni: per esempio, «La Voce», il centro più attivo e vivace dell’antigiolittismo, dopo la guerra di Libia fece un vero e proprio elogio di Giolitti, uomo rappresentativo dei tempi moderni: «In fondo quest’uomo freddo e burocratico, industriale e pratico – scriveva Prezzolini il 24 ottobre 1912 –, è quel che ci voleva per un popolo che si lascia troppo spesso trascinare dall’entusiasmo e dalla retorica. Giolitti è un segno dei tempi; egli è
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la sovrana apparizione della ‘prosa’ nel campo della politica italiana, è il ritmo del Codice Commerciale scandito in una nazione di versaioli e di pindarici. Egli getterà sempre intorno a sé, per gli uomini che hanno un po’ di ispirazione e di fede, un senso di repulsione e di gelo. Ciò spiega il disprezzo che può suscitare, e insieme il successo che ha, ma scompagnato da affetto e da entusiasmo». Pochi critici della politica giolittiana negavano le qualità dell’uomo; tutti lo consideravano un parlamentare molto abile, gran conoscitore della macchina burocratica e degli uomini, dotato di forte temperamento, chiarezza mentale, volontà, decisione. Antonio Fradeletto, analizzando la politica di Giolitti nel 1911, gli attribuiva sentimenti socialmente democratici, una chiara visione delle cose sostenuta da una grande fiducia in sé e da pronta risoluzione, con l’aggiunta d’una fama di spregiudicata scaltrezza, che contribuiva ad accrescere il mito della sua onnipotenza parlamentare. Giolitti sapeva sedurre anche gli avversari, per renderli alleati e collaboratori, con repentini mutamenti di idee e di programmi, manifestando «una tendenza al dominio personale» che provocava «attorno a lui e per lui la morte delle convinzioni». Fradeletto riconosceva che Giolitti aveva reso utili servizi al movimento democratico assicurando la libertà di organizzazione e di lotta per il proletariato, in un momento in cui questa era ancora «argomento di controversia, di timori, di sgomenti». Il giudizio di Fradeletto concordava con quello espresso nel 1907 da Nitti, che considerava Giolitti «la natura politica più completa, il temperamento più notevole della Camera», dotato di capacità realizzatrice ma indifferente e insofferente per i problemi generali, e con un’influenza negativa sulla vita parlamentare, perché «sa più di tutti ciò che l’assemblea può dare e ciò che non può. Non desidera essere contraddetto e perciò preferisce forse alcune persone mediocri, di cui premia la fedeltà, e tollera che i funzionari dello Stato invadano il Parlamento, con danno dell’amministrazione e della politica». L’ondata di critiche contro Giolitti, la sua politica, le sue scelte, i suoi atteggiamenti contingenti, non potevano nascondere l’evidenza del fatto che il giolittismo corrispondeva a un periodo di notevole progresso, economico e sociale, al quale certamente la politica giolittiana, in qualche misura, aveva contribuito. Persino Alfredo Rocco, prima di convertirsi al nazionalismo, dichiarò al-
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la «Tribuna» il 10 novembre 1913 la sua stima per Giolitti «uomo di governo e non apostolo o propagandista di idee», che agiva adoperando il materiale che il paese gli offriva, in condizioni «che non era in suo potere mutare», e perseguiva «i grandi interessi nazionali, destreggiandosi fra i partiti», sapendo «usufruire sapientemente delle forze di ognuno, assimilare i più pericolosi, servirsi degli uni per correggere gli eccessi degli altri». Gran parte degli antigiolittiani non aveva prevenzione verso i motivi che avevano ispirato la nuova politica liberale, mirante ad attrarre le classi lavoratrici nello Stato. Anche i più sensibili alla conservazione dell’ordine costituito erano ormai persuasi che lo Stato non potesse ignorare le classi popolari, ma dovesse contribuire a migliorare le loro condizioni di vita, conquistare il loro consenso, promuovere un più rapido cammino nella modernizzazione, accettando la nuova realtà che si formava per gli effetti della rivoluzione industriale. Essi però non credevano che la prassi giolittiana, così come si manifestò nel corso degli anni, fosse la più adatta per raggiungere gli obiettivi che Giolitti per primo, fra gli uomini di parte liberale, aveva indicato alla classe dirigente. La maggior parte degli antigiolittiani, anche se di orientamenti radicalmente diversi, era concorde nell’analisi del sistema giolittiano, coralmente giudicato inadeguato, secondo i diversi punti di vista, sia per una politica di riforme democratiche a vantaggio delle classi più colpite o meno favorite dallo sviluppo capitalistico; sia per un impegno più efficace e attivo in funzione di questo sviluppo, nell’ambito della competizione internazionale; sia, infine, per sollecitare e ottenere una maggiore adesione delle masse allo Stato nazionale.
2. Critiche al sistema giolittiano Le critiche degli antigiolittiani riguardavano poco la personalità politica di Giolitti e si concentravano contro quello che veniva denominato il «sistema giolittiano», il «giolittismo», cioè il complesso delle relazioni che, agli occhi dei contemporanei, formava la trama costante della politica giolittiana, la base della sua indiscutibile egemonia nel mondo parlamentare. Gli elementi
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fondamentali che costituivano questo sistema furono così riassunti da Arturo Labriola nella Storia di dieci anni, pubblicata nel 1910: protezionismo doganale per gli industriali e gli agrari; lavori pubblici per gli appaltatori e gli operai disoccupati; concessioni alle cooperative «ove si annida l’elemento più intelligente, più famelico e più temibile del socialismo e del clericalismo militante»; aumenti agli impiegati; maggiori spese per l’esercito; facilitazioni alle banche, e «soprattutto un frego sulle più ingombranti questioni di politica interna o di politica estera». Il giolittismo non era una forma personale di governo, ma rappresentava un momento nuovo nella politica italiana, l’avvento alla direzione dello Stato della borghesia nata dalla rivoluzione industriale e appoggiata dal proletariato organizzato, per un’obiettiva convergenza di interessi nello sviluppo del capitalismo. Giolitti, tornato al potere dopo le grandi battaglie politiche di fine secolo, quando la nuova borghesia si era schierata accanto alle organizzazioni del proletariato contro la politica reazionaria, aveva inaugurato la politica degli affari, «rinunziando a turbare il paese con grandi questioni di interesse politico», per dedicarsi alla tutela dei ceti industriali, finanziari e commerciali. Con i favori alle organizzazioni del proletariato e le accortezze verso i capi del movimento operaio, Giolitti era diventato «il vero padrone della cosiddetta democrazia», ma lasciava fuori dal suo sistema le classi più povere, la massa dei contadini meridionali. La politica degli affari, conveniente per le minoranze borghesi e proletarie, che ne traevano notevoli vantaggi e privilegi, rappresentava un danno per gli interessi della collettività, perché inaridiva le risorse finanziarie dello Stato rendendo più difficile la realizzazione di un vasto programma di riforme amministrative e sociali, invano richieste dai liberisti. I liberisti consideravano il protezionismo la causa di tutti i mali sociali e politici del paese, perché, a loro avviso, la barriera doganale soffocava le industrie naturali e creava un ambiente malsano, dove vivevano e prosperavano, a danno dei contribuenti e dei consumatori, pochi gruppi di privilegiati e di affaristi, speculatori, agrari, industriali e aristocrazie operaie. Questi gruppi, sempre alla ricerca di favori politici, inquinavano la democrazia e favorivano il trasformismo giolittiano. Liberismo e libertà politica erano considerati termini inscindibili. Solo l’abolizione del protezio-
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nismo avrebbe consentito il progresso della democrazia politica: da questa asserzione, la polemica liberista deduceva una condanna integrale del sistema giolittiano. Il movimento liberista, che trovò tiepidi alleati fra i socialisti ma entusiasti compagni di strada nei sindacalisti rivoluzionari, aveva capeggiato l’opposizione alla politica reazionaria di fine secolo, ed era stato l’anima dell’alleanza dei partiti popolari, con la speranza che, vinta la reazione, il blocco democratico avrebbe promosso una campagna di riforme economiche e amministrative, a partire dall’abolizione del protezionismo. Ma il blocco si frantumò con l’inizio del sistema giolittiano. Nel settembre 1903, sul «Giornale degli Economisti» Edoardo Giretti prendeva atto della crisi dei partiti popolari e del successo di Giolitti, che al programma di riforme, promesso durante le battaglie parlamentari ed elettorali di fine secolo, aveva sostituito semplicemente una più larga interpretazione della legge, senza modificare l’assetto economico e sociale ereditato dai governi precedenti. Il piccolo e attivo gruppo degli antiprotezionisti cercò di corrodere le basi del sistema giolittiano e contribuì molto alla diffusione dei temi antigiolittiani. Tuttavia, il bersaglio cui miravano era sproporzionato rispetto alle loro effettive possibilità di successo pratico. La loro azione procedeva in senso inverso a quello che era ormai il corso consolidato dello sviluppo economico, per l’ostinata convinzione dottrinale che la scelta industrialista, nella quale erano coinvolti anche larghi settori del movimento operaio, fosse errata e reversibile. Tuttavia, la loro polemica, documentata e puntigliosa, fu abilissima nel denunciare le degenerazioni del protezionismo e, soprattutto, nel mettere in evidenza le conseguenze politiche negative del sistema giolittiano per il progresso della democrazia. La prima conseguenza, osservava Antonio De Viti De Marco delineando un programma di azione democratica nel giugno del 1913, è stata la rinuncia da parte dei capi dei partiti popolari alla lotta contro i privilegi economici, che aveva portato a «un contratto politico» tra «i vecchi gruppi parassitari della borghesia e i nuovi del proletariato», con «un complesso di leggi e provvedimenti e favori a beneficio non della intera classe lavoratrice, ma di alcuni gruppi proletari e a danno della collettività dei lavoratori». Il giolittismo elargiva pubblico denaro, con «larghezza regale», per appagare «tutti i bisogni, tutti i desideri, tut-
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te le domande, che con qualche clamore salivano al governo da ogni classe, da ogni categoria di cittadini, da ogni regione e da ogni provincia [...] quasi mai calcolando la spesa in rapporto al tornaconto economico nel pubblico interesse; ma quasi sempre ubbidendo a un vecchio e vieto concetto politico: quello, cioè, di assicurare o di dar parvenza della tranquillità sociale e dell’ordine pubblico, tacitando i malcontenti veri, latenti o provocati, con elargizioni di bilancio, e mettendo il malcontento dei gruppi più turbolenti a carico della massa silenziosa e pacifica dei contribuenti». Così, il sistema giolittiano aveva ridotto il parlamento a «un mercato dove si negoziavano i grandi e piccoli favori dello Stato, la cui spesa era fatta dalla gran massa dei consumatori e dei contribuenti». Grave il danno morale per le istituzioni liberali, perché mentre le organizzazioni dei privilegiati «dissanguavano le forze produttive del paese povero», la massa dei cittadini finiva per disprezzare il parlamento. La critica del parlamentarismo era un corollario dell’antigiolittismo. La potenza parlamentare di Giolitti, per i metodi con i quali era ottenuta e conservata, suscitava molti dubbi sul corretto funzionamento del regime rappresentativo. Dal 1904, il pilastro centrale del suo sistema fu la maggioranza. Giustino Fortunato, appassionato difensore del buon nome della Camera contro i suoi vari denigratori, amico di Giolitti ma non giolittiano, nel 1908 confessava di essere stanco di «una vita parlamentare ormai così grigia e mediocre», nata da «tutto un insieme di sistemi e di intendimenti elettorali», e pienamente affermata durante il «lungo ministero» giolittiano della XXII legislatura. Secondo Fortunato il fatto caratteristico di questa legislatura era stato la formazione della maggioranza: «a quelli che erano, od almeno parevano dover essere i nuovi partiti, subentrò un ente occasionale, anonimo: la Maggioranza – nata dall’appello che il Governo [...] fece nell’autunno del 1904, a tutte indistintamente le forze costituzionali del paese». Fortunato era un osservatore troppo disincantato per immaginare ministeri «con fisionomie proprie e distinte», e una vita parlamentare fondata sul perfetto bipartitismo. L’allargamento del suffragio, nel 1882, aveva reso inevitabile lo sgretolamento delle antiche compagini della Destra e della Sinistra. Era un fenomeno comune a tutte le società democratiche, dove l’allargamento del suffragio e l’ascesa di nuovi ceti sociali determinavano
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una «instabilità di equilibri, nella quale è pur la molla del progresso umano»; di conseguenza, non vi erano più governi di colore, ma «di coalizione, non più di partiti ma di maggioranze». Ma proprio in questa situazione, secondo Fortunato, era necessario che «amicizie e alleanze si fondino non sulla fiducia di questo o di quell’uomo parlamentare, ma sul consentimento in un programma di pronta attuazione». Altrimenti, si creavano governi «tanto più forti in apparenza per numero di aderenti, quanto sostanzialmente più deboli innanzi ad ogni singola questione, ad ogni particolare gruppo d’interessi: Governi che, ridotti ormai a semplici comitati esecutivi, non possono addirittura vivere se non di espedienti e dilazioni, scavando un buco per tapparne un altro, sostituendo a programmi organici – non saprei come dire – elenchi di proposizioni contraddittorie, buone soltanto a raccogliere non forze omogenee e concordi, ma enti, sotto nome di Maggioranza [...] politicamente amorfi». Giolitti era considerato il massimo artefice di questa maggioranza ottenuta con una rinnovata pratica trasformista nel reclutamento di deputati a lui personalmente fedeli. Tuttavia, secondo Salvemini, in realtà Giolitti non era l’onnipotente padrone della «maggioranza»: la fedeltà di questa, infatti, era condizionata dai vantaggi che i suoi componenti traevano dal sistema giolittiano. Egli sembrava, a prima vista, scriveva Salvemini ne Il ministro della malavita, «il dittatore della maggioranza, in realtà è il servo e lo strumento dei deputati della maggioranza, i quali intanto gli hanno conferito la dittatura, in quanto sanno che questa dittatura sarà esercitata a tutela dei loro interessi. È il loro capo, dunque deve servirli». Giolitti doveva assicurare i suoi seguaci «che solo con lui possono tutto sperare». Giolitti diveniva così il «ministro della malavita» elettorale, soprattutto nelle regioni meridionali, dove agiva senza scrupoli per reclutare un centinaio di deputati che costituivano il nerbo della sua maggioranza. Il Meridione aveva una lunga tradizione di malcostume elettorale, di corruzione, di violenze, spesso tollerate dal governo. Salvemini sapeva che Giolitti non aveva inventato la «malavita» elettorale, ma lo accusava di aver approfittato con cinismo di uno stato di cose che poteva continuare solo con la complicità del governo. I meridionalisti erano unanimi nel denunciare questo aspetto del giolittismo e nell’invocare riforme amministrative ed elettorali, per porre fi-
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ne all’ingerenza del governo nella vita locale. Il governo, affermava ancora Nitti nel 1907, era «la più grande forza di corruzione», che metteva i prefetti, i funzionari, i magistrati a servizio delle clientele locali. E Colajanni aggiungeva, commentando su «Rassegna contemporanea» le elezioni del 1909, che il giolittismo, nel Meridione, impediva la formazione di una coscienza pubblica, agiva per deprimere ogni sforzo fatto in questo senso. Secondo Sturzo, la lotta politica serviva soltanto a mascherare interessi economici, e il governo sfruttava questa situazione per trarre dai deputati meridionali la «massa degli ascari», che a loro volta contribuivano «allo sfruttamento delle coscienze del popolo», come scriveva il 18 aprile 1913. Il giolittismo sfruttava l’arretratezza delle plebi, l’avidità della grande borghesia agraria, gli appetiti della piccola borghesia impiegatizia, e la quasi totale assenza di lotta politica e di organizzazioni sociali. I meridionalisti avevano idee diverse sulla soluzione della “questione meridionale”, ma erano concordi nel considerare la politica giolittiana il primo ostacolo da abbattere. Si deve certo far la tara a queste accuse, ma non si può negare la loro consistenza né sottovalutare l’effetto che avevano su un’opinione pubblica incline ad avere poca stima della classe politica; a considerare la politica campo di lotte personali e di interessi privati. La stabilizzazione di una maggioranza parlamentare, che di fatto eliminava la possibilità di un’alternativa di governo; la pratica delle ingerenze elettorali; le lunghe pause nell’attività parlamentare, e altri fenomeni connessi con il prevalere del sistema giolittiano sul sistema parlamentare, sembravano alla lunga convalidare l’accusa che il giolittismo fosse una «dittatura parlamentare», che annichiliva la vita politica con l’assopimento dei contrasti, la confusione delle parti e dei partiti.
3. La «dittatura parlamentare» Il sistema giolittiano deprimeva il prestigio e l’autorità delle istituzioni liberali: a questo tema era particolarmente sensibile Luigi Albertini. Per lui, come scrisse nelle sue memorie, il sistema giolittiano era una «larvata dittatura», prodotta dall’accentramento della vita costituzionale in una persona, con il consenso
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della maggioranza parlamentare. Giolitti esercitava un «governo paterno», che poteva anche «fare molto di più bene che male», ma era comunque «un grave pericolo per l’avvenire se non per il presente, per l’infiacchimento della coscienza civile in un libero paese se non per atti e fatti episodicamente nefasti». Il giolittismo rappresentava indubbiamente una forza parlamentare, che dava ampia libertà di azione al governo, ma non esprimeva programmi definiti, proposti da una maggioranza omogenea. Quando una maggioranza, omogenea perché «formata quasi per legge fisica dall’attrazione delle stesse idee sulle principali questioni della vita sociale e politica del paese, manda al governo l’uomo che è in grado di attuare con più energia di propositi e con più autorità personale il programma affidatogli, se egli ha carattere di dominatore, quel carattere può giovare al corso dei lavori parlamentari», senza danno per il regime parlamentare, perché non è «un governo personale, ma un governo di maggioranza»: «Quando invece è l’uomo di Stato che forma la maggioranza, che se la raduna intorno dalle parti più diverse, con i più disordinati accordi, in seguito a transazioni di ogni specie, dai clericali [...] ai radicali massoni che ne predicano lo sterminio, e impone egli il programma e stabilisce egli la suprema convenienza di non impacciarsi con programmi, e piega i suoi fedeli a tutte le contraddizioni senza neppure darsi la briga di tentarne una soluzione; allora l’uomo di Stato potrà fare anche del bene, oltre che del male, e magari del bene più che del male, ma la corruzione del regime parlamentare si fa più profonda e può preparare danni gravissimi all’avvenire. Allora non c’è più governo di maggioranza, ma governo personale; e la funzione di controllo, per cui il Parlamento esiste ed è necessario anche più che per la funzione di sovranità popolare, è sostanzialmente annullata». Secondo Albertini, dunque, il sistema giolittiano non era affatto un progresso nella vita delle istituzioni parlamentari, ma una sorta di riedizione del dispotismo illuminato, cioè di un regime che potrebbe anche «condurre una nazione ad alti destini», ma con il rischio che, scomparso il despota, la vita pubblica ritorni «nel caos e il vantaggio che il paese ha ottenuto resta annullato dalla diminuzione che hanno subito i suoi organismi costituzionali». Alla fine del periodo giolittiano, anche i socialisti riformisti, che per anni erano stati alleati del giolittismo e garanti del suo ca-
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rattere democratico e progressista, giunsero a queste conclusioni. Nel 1913, su «Critica sociale», Claudio Treves parlava di «tirannide giolittiana» (pur precisando che Giolitti non aveva aspirato alla tirannide) e si domandava quanto ancora sarebbe durata «la sfacciata onnipotenza di un uomo nella paralisi del sistema», «una dittatura che si esprime nella semi-universalità dei consensi parlamentari», e che se «non infama sé, infama il regime parlamentare», preparando l’agonia del sistema rappresentativo. Gli antigiolittiani dipingevano talvolta un’immagine mitica del potere di Giolitti, attribuendo alla volontà d’un singolo quella che era una caratteristica tradizionale del sistema parlamentare italiano, nel quale, per consuetudine, il capo del governo aveva un notevole potere personale. In Italia, osservava Gaetano Mosca ne «La Riforma sociale» del luglio 1912, il presidente del Consiglio, più che espressione e strumento della maggioranza, era stato quasi sempre «una specie di arbitro armato fra le diverse correnti rappresentate nella Camera elettiva»; indubbiamente però, con il giolittismo, questo potere si era spinto fino a «far prevalere alcune aspirazioni della parte democratica, che era in minoranza, contro la resistenza della maggioranza conservatrice». Si ricordava, a questo proposito, l’improvvisa conversione di Giolitti al suffragio universale nel 1911 e l’offerta d’un ministero a Bissolati, esponente d’una piccola minoranza parlamentare. Tuttavia, questo potere personale non avrebbe potuto manifestarsi senza la condiscendenza dei partiti rappresentati nella Camera, verso i quali Giolitti riuscì a condurre un’abile manovra di disgregazione, operando per la scissione fra moderati e intransigenti, con lo scopo di attirare i primi nel suo sistema. Durante l’egemonia giolittiana, i partiti non furono in grado di offrire alcuna soluzione alternativa, non seppero resistere alle tentazioni di un nuovo trasformismo. Se la Camera amava il quietismo, rifiutava la discussione su questioni generali, si rassegnava volentieri a cedere il suo potere a un capo, ciò dipendeva anche dalla mancanza di una viva azione dei partiti, mentre la lotta fra di essi si svolgeva prevalentemente nella vita amministrativa, dove più facilmente operava l’azione dei gruppi di interesse a detrimento dei programmi politici e dei princìpi. Questo, secondo Colajanni, era un aspetto della «profonda dissonanza» fra la coscienza pubblica e la rappresentanza parlamentare, che i partiti non colmavano: per
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esempio, le elezioni del 1909 si svolsero in un clima generale di indifferenza, che rivelava «l’incredulità nell’efficacia del regime rappresentativo»; analfabetismo e assenteismo elettorale impedirono una larga partecipazione popolare, che gli interventi del governo nelle elezioni non cooperavano certo a sollecitare. Il governo, osservava Colajanni, «ha a disposizione tali e tante armi che impari diviene la contesa; e le elezioni generali che dovrebbero nominare i giudici dell’opera sua precedente e dare le linee di quella futura, vengono meno al loro scopo essenziale: il giudicabile interviene attivamente e con preponderanza di forze nella scelta dei propri giudici, o per meglio dire, dei propri complici», con metodi illeciti, specie nelle regioni dove «è più debole il senso della legalità, dove si crede alla onnipotenza del governo e quindi a quella dei deputati ligi al medesimo», col pessimo esempio di un governo che per primo violava quella legalità che avrebbe dovuto tutelare e far rispettare. Tutto ciò dava l’impressione che la vita della Camera divenisse sempre più appartata rispetto a quella del paese. Si assisteva, osservava Sonnino su «Il Giornale d’Italia» del 27 novembre 1906, al «singolare fenomeno che mentre il ministero dispone a suo talento di una enorme maggioranza della Camera, gli sfugge di mano ogni giorno più il paese. Il ministero appare solidissimo e intanto va diminuendo a vista d’occhio la forza intima del Governo come tale e si fa ognora più anemica la compagine e più fiacco il prestigio dello Stato». Negli ultimi tempi della XXII legislatura, il governo aveva assunto «un carattere spiccatamente personale ed autocrate», come affermava la «Rassegna contemporanea» nel gennaio 1909, mentre il parlamento aveva «perduto sempre più la sua influenza dinanzi al Paese». Si parlava sovente di malessere politico e morale, si denunciava, come aveva fatto ancora la «Rassegna contemporanea» nell’aprile dell’anno precedente, la presenza di «quel senso di inquietudine e di irritazione che si genera dal fondato sospetto che qualche cosa di guasto è in noi e che il nostro organismo non funziona più in modo sano e normale, senza che di questo malessere indefinito noi riusciamo a stabilire i caratteri, la natura, la sede, per sapere quali rimedi siano da applicare onde ricondurre le funzioni dell’organismo allo stato normale». Questo stato d’animo era diffuso specialmente fra le nuove generazioni, come documentano le numerose riviste che uscirono
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in questi anni, e principalmente «La Voce»: «La democrazia presente – scriveva Prezzolini il 23 giugno 1910 – non contenta più gli animi degli onesti. Essa non rappresenta più che l’abbassamento di ogni limite, per far credere di aver innalzato gli individui: mentre si è fatto l’interesse dei più pavidi e prepotenti [...] La severità per il minimo necessario di coerenza e di onestà politica è pure decresciuta. Nelle elezioni trionfa il danaro, il favore, l’imbroglio; ma non accettare tali mezzi è considerato come ingenuità imperdonabile». Sembrava dominante un sentimento di accettazione passiva di questo stato di cose, quasi fosse una inevitabile contropartita pagata alla democrazia giolittiana per avere in cambio la stabilità politica e il progresso economico. Si trattava, invece, secondo i vociani, d’una profonda crisi di ideali: «Ogni ideale svanisce. I partiti non esistono più, ma soltanto gruppetti e clientele. Dal parlamento il triste stato si ripercuote nel paese. Ogni partito è scisso [...] Le grandi idee cadono di fronte a uno spappolamento e disgregamento morale di tutti i centri di unione. Oggi uno è a destra, domani lo trovi a sinistra; ma questa vecchia scena della politica vien complicata dal fatto che, se indaghi, ci vedi del brutto sotto ed è più grave perché nessuno ha più sensibilità per accorarsene e criterio per conoscerne il valore». E si arrivava alla conclusione che il giolittismo, con la politica di stabilizzazione moderata, aveva contribuito attivamente a rendere grigia e mediocre la vita nazionale. Esaminata in una prospettiva storica, l’accusa sembra quanto meno ingenua. Pochi periodi della storia italiana sono, infatti, così ricchi di conflitti politici, di vitalità intellettuale, di lotte sociali. Ma attraverso le accuse dell’antigiolittismo noi possiamo avere l’immagine della realtà come era percepita dai contemporanei, un’immagine che alimentava l’insoddisfazione per il presente, il sentimento di rivolta contro il sistema giolittiano, e la ricerca di nuove soluzioni politiche. Sarebbe inoltre errato pensare che queste «lamentazioni» sullo stato del paese fossero manifestazioni di astratto moralismo, di estetismo individualista, e tali da suscitare scettici inviti a disertare la lotta e l’impegno civile. Il vero malessere, al contrario, era attribuito proprio alla mancanza di impegno civile, all’indifferenza, alla mancanza di lotta, allo stemperamento delle ideologie in una pratica di compromessi e di indulgenze ver-
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so le questioni di principio per conseguire la soddisfazione d’interessi particolari. La critica al parlamento non conduceva inevitabilmente al rifiuto delle istituzioni rappresentative. La lotta politica era necessaria perché, affermava Nitti, «è il solo modo di sviluppare una civiltà nuova e più alta», nulla essendo più dannoso della rassegnazione e del quietismo; e perciò bisognava lottare per avere un buon parlamento, perché democrazia e forme parlamentari, «ed anche civiltà e forme parlamentari sono cose che vanno insieme, né nei popoli moderni è possibile disgiungerle». Anche chi denunciava le degenerazioni del parlamentarismo, come Lombardo Radice, ribadiva la fiducia nell’istituto rappresentativo: «Il Parlamento – scriveva in “Nuovi Doveri” il 15 aprile 1908 – sarebbe sempre la più grande istituzione della nazione, anche se 400 dei 500 deputati fossero degli indegni. Il Parlamento [...] lo Stato è un ideale, e partecipa della natura di tutti gli ideali: mai raggiunti e storicamente concretatisi, ma sempre presenti come esigenza nello spirito degli uomini. Il parlamento rappresenta la libertà, l’ideale della libertà, in quel modo che la povera umanità riesce a dargli una concreta esistenza». E aggiungeva: «Se dicessi ‘giù il Parlamento’, sarei un anarchico; ma dicendo ‘giù il giolittismo’ (e per giolittismo intendo ‘l’interesse di una oligarchia incompetente sostituito all’interesse dello Stato’) credo di essere un uomo d’ordine, e, nella mia nullità, se non un moderato, un moderatore». Il problema politico, che emerge nel corso del periodo giolittiano, non verte dunque sulla accettazione o sul rifiuto del principio democratico, inteso in senso lato, come libera partecipazione del popolo alla politica, ma sulla reale capacità del sistema giolittiano di promuovere la partecipazione, di rappresentare le esigenze e le aspirazioni della collettività. Per gli antigiolittiani il sistema giolittiano era una falsa democrazia, sia in un senso tradizionale, perché non garantiva il corretto funzionamento del sistema liberale sotto l’impero della legge codificata; sia in senso moderno, perché non interpretava o non rappresentava (anche al di là del rispetto formale per la legge codificata) le nuove forze sociali emergenti dallo sviluppo economico, portatrici di nuovi valori, non più riconducibili nell’ambito dello Stato liberale.
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4. Insegnanti e burocrati contro lo Stato giolittiano Il senso di malessere, lo spirito di irrequietezza e di rivolta verso il sistema giolittiano non erano presenti solo nel mondo politico, ma anche fra categorie considerate tradizionalmente estranee alla politica, come faceva rilevare Guglielmo Ferrero nel «Divenire sociale» del 16 febbraio 1905: «Il malcontento, la diffidenza, l’antipatia, le sorde irritazioni, una esasperazione vaga e indefinita ma diffusa dovunque dissolvono le istituzioni, i partiti, le classi. Il partito radicale è in sfacelo, il partito socialista è diviso, discorde, indebolito: ma per compenso anche l’esercito va perdendo la disciplina e fugge di mano alle autorità. Se dei socialisti e dei repubblicani sostengono il dazio sul grano o il trust siderurgico; se una parte della massoneria fa alleanza con i clericali, i richiamati si ammutinano, i coscritti vanno al reggimento gridando ‘viva il socialismo’, la piccola burocrazia dello Stato è in rivolta, minaccia di passare in massa nelle file di quei partiti che furono sempre definiti ‘nemici dello Stato’». Gli osservatori contemporanei videro con sorpresa che la protesta antigovernativa, attraverso moti sociali che assumevano uno spiccato carattere politico, si diffondeva anche fra gli insegnanti e gli impiegati pubblici. Fin dai primi anni del secolo, sull’esempio del proletariato, sorsero numerose associazioni fra impiegati pubblici e fra gli insegnanti al punto che, osservò nel 1911 Croce, la lotta di classe promossa per rigenerare la civiltà «si è tradotta nelle meschine lotte di associazioni, nelle quali tante sono le classi quanti i mestieri, anzi quante le professioni, anzi quante le forme di pubblici servizi, anzi quante le ‘categorie’ di ciascun mestiere, professione o ufficio; e lottano i metallurgici e magistrati, ferrovieri e professori universitari, tranvieri e ufficiali di marina, e, perfino i ‘pensionati di Stato’, perfino gli scolaretti delle scuole secondarie contro lo ‘sfruttamento’ che eserciterebbero sopra di essi i loro maestri». L’organizzazione degli insegnanti e degli impiegati era considerata dai conservatori un fattore di disgregazione dello Stato. Ma, obiettava Lombardo Radice nell’articolo citato, «le organizzazioni sono anche esse [...] pubblica opinione, cioè campo aperto alle discussioni che interessano i problemi nei quali gli organizzati sono, per le loro funzioni, i più competenti [...] Le organizzazioni sono
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l’opinione pubblica fondamento dello Stato», e attraverso di esse si promuove realmente il progresso democratico. L’apoliticismo degli insegnanti era insostenibile, quando i problemi della scuola erano trascurati o ignorati dal governo, che impediva una vera riforma in senso laico e democratico: «La nostra opera – scriveva ancora Lombardo Radice su “Nuovi Doveri” il 20 novembre 1911 – è volta alla laicità, cioè, negativamente, alla liberazione dalle ingerenze parlamentari, dalla prepotenza o anarchia degl’incompetenti, causa di ogni abuso e favore illecito; positivamente, all’ordinamento della scuola affidato agli spiriti liberi, alla scienza [...] Abbiamo sempre combattuto l’apoliticismo degli insegnanti», per affermare princìpi politici democratici contro il sistema giolittiano: «L’orientamento democratico – aveva dichiarato la Federazione nazionale degli insegnanti di scuola media nell’aprile 1908 – è aspirazione all’ordinamento cui sono ormai avviati tutti gli Stati, è volontà di svolgere tutti i germi che sono contenuti nel regime costituzionale, è desiderio di uno Stato che associ al rispetto di ogni libertà la più netta affermazione della propria sovranità; che deleghi e regoli le funzioni del suo organismo col criterio, non di autorità e di gerarchia, ma di competenza, che sia aperto ad ogni corrente di idee, ad ogni impulso di aspirazioni, in modo da essere espressione sempre più sincera dell’anima nazionale». La Federazione nazionale degli insegnanti di scuola media unì la polemica antigiolittiana alla campagna per la riforma della scuola perché, come disse il presidente dell’associazione al VII congresso nazionale nel 1908, il governo giolittiano «nefasto a ogni sincero incremento della vita nazionale, si è mostrato particolarmente nemico a ogni ragionevole, modesto, necessario progredire delle istituzioni scolastiche. Né c’è da farne meraviglia! Un governo che fa sua arte e suo scopo addormentare la coscienza nazionale, sopprimere per viltà ogni serio problema di alta e degna politica, ridurre tutto il proprio compito ad atti di quotidiana spicciola amministrazione, assicurare al nichilismo della propria azione una colpevole complicità d’interessi personali e di affarismo parlamentare, un governo siffatto deve necessariamente sentire una gelosa paura di quei problemi che attraverso la scuola, investono larghi, profondi criteri di azione politica e sociale». Lotta al giolittismo voleva dire, dunque, anche lotta all’amministrazione dello Stato, che era considerata una delle componen-
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ti del sistema giolittiano. La burocrazia era il mondo nel quale Giolitti era stato allevato e formato. Egli dominava la macchina dello Stato perché conosceva tutti i congegni della pubblica amministrazione: «in Italia – scrisse Fortunato in una lettera a Salvemini del 6 dicembre 1911 – così povera di classi politiche, unica sola forza politica è la burocrazia, arbitra del parlamento. Ecco la chiave dell’enigma. Buona parte della fortuna di Giolitti dipende da ciò, che egli solo, venuto su dalla burocrazia, ha saputo e sa, in qualche modo, dominarla. Guarda i suoi ministeri: in maggioranza, sono composti di uomini politici addetti alle amministrazioni dello Stato; ce ne fu uno, che su 11 ministri, 9 erano stipendiati dallo Stato. Formar l’Italia politica, fuori e al di sopra della burocrazia: questo il compito di domani». L’espansione della burocrazia sembrava confermare il nesso fra potere giolittiano e pubblica amministrazione. Gli stessi funzionari parlavano di «sterminato esercito burocratico», della «mastodontica macchina della nostra pubblica amministrazione», e sollecitavano il governo a «provvedere alle crescenti esigenze della pubblica amministrazione con un maggior rendimento individuale, frutto d’un’alta coscienza del dovere di funzionari, ed una profonda ed efficace semplificazione ed abolizione di complicati congegni», come affermava nell’aprile 1912 il «Bollettino della società fra gli impiegati della pubblica amministrazione». Gli impiegati reclamavano la riforma dei ruoli, lo stato giuridico, miglioramenti economici. Nella relazione della giunta del Bilancio, del 22 febbraio 1907, si faceva notare che «il personale dello Stato non era adeguatamente retribuito [...] e la tenuità degli assegni andava facendosi sempre più sproporzionata al contemporaneo, progressivo aumento del costo della vita». Ai disagi economici si aggiungevano quelli morali, per la mancata definizione giuridica dei ruoli e della carriera, in modo da sottrarre gli impiegati agli arbitrii dei superiori e del governo, e la scarsa stima nella quale era tenuto nella comune opinione il lavoro burocratico. I numerosi provvedimenti legislativi, compresa la legge del 1908 sullo stato giuridico, che anche ad Albertini parve troppo autoritaria, non sanarono le disfunzioni della macchina burocratica. Durante il periodo giolittiano, gli impiegati divennero un altro fattore di instabilità del sistema. Accusati di essere complici e strumenti del giolittismo, gli impiegati rispondevano protestando contro il gover-
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no, formando un esercito di malcontenti sempre più aggressivo: «Noi – scriveva il giurista Gustavo Ingrosso nel 1908 – assistiamo tutti i giorni alla marcia trionfale degli impiegati dello Stato verso la terra promessa della felicità, e in pari tempo constatiamo inquieti le manifestazioni incessanti di una politica di stipendi sempre più prodiga. Così pure vediamo l’esercito dei funzionari ingrossarsi per via e divenire compatto più di una falange macedone, per quanto non abbia lo spirito di disciplina che condusse gli opliti di Alessandro alle porte dell’India». Gli impiegati diedero vita a varie associazioni con scopi sociali di mutua assistenza, a cooperative di consumo, a cooperative edilizie, a cooperative di credito. Alcune di esse si dichiaravano estranee alle contese politiche, considerando l’aderenza ai partiti un fattore di divisione all’interno della categoria, ma anche pronte a «chiedere l’ausilio di un partito politico e prestare ad esso la propria forza», come scriveva il citato «Bollettino» degli impiegati pubblici nel febbraio 1912. La maggiore organizzazione, la Confederazione degli impiegati, aderente alla corrente riformista del partito socialista, proclamava di seguire vie moderate, di rifiutare lo sciopero nei pubblici servizi, di accettare la soluzione dell’arbitrato, ma col tempo il suo atteggiamento divenne più polemico, mentre si moltiplicavano le accuse al giolittismo, che, con la «legge capestro» del 1908, aveva tentato di «infrenare un movimento di classe, determinato da cause sociali, coi vecchi espedienti di polizia». Giolitti – scriveva, nell’aprile 1911, «La Riforma», organo confederale – ha considerato l’amministrazione pubblica «come un demanio privato, nel senso che ogni libito fu lecito: gli organici venivano fatti per favorire l’alta burocrazia, anzi per questo o per quel gruppo di burocrati», complicando le funzioni e duplicando gli uffici, così che «l’estensificazione dei servizi non era inerente allo sviluppo dei traffici, ma alle influenze parlamentaristiche ed elettorali [...] insomma alla dittatura politica corrispondeva, peggiorata, una dittatura amministrativa». Gli impiegati delle pubbliche amministrazioni rivendicavano l’importanza della loro funzione in una fase di espansione delle funzioni dello Stato e, quindi, dei servizi che la pubblica amministrazione veniva assumendo; ma erano convinti che il sistema giolittiano non adeguava la pubblica amministrazione alle trasformazioni imposte dallo sviluppo industriale; Giolitti, aveva osservato «La
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Riforma» nel gennaio 1911, non si rendeva conto che «da più anni l’amministrazione pubblica è travagliata da bisogni, da idee, da movimenti nuovi che tendono alla trasformazione della macchina dello Stato [...] La Camera attuale non funziona, perché è in aperto contrasto con i bisogni del paese», ed è dominata da Giolitti: «Non v’è che Lui, il padrone, il dittatore: al quale importa che nessun uomo si affermi, alla Camera, contro o senza di Lui, ed anche con Lui. La legislatura e la legislazione debbono muoversi attorno a Lui [...] Giolitti, il salvatore, l’unico, l’invincibile, l’indispensabile». Contro i governi giolittiani «vivacchianti alla giornata, sfuggenti alla soluzione di vitali problemi sociali», bisognava insorgere, per impedire che lo Stato «mentre più e più la evoluzione economica lo trasforma, a suo dispetto, in un grande organismo industriale e coordinatore di attività industriali», persista nel rimanere «il più che può, burocrate, caporale, gendarme», come lo definiva Turati su «La Riforma» del 28 aprile 1912. Secondo gli impiegati, dunque, lo Stato giolittiano era un impaccio per lo sviluppo economico e sociale, ed era avviato verso la degradazione con il disavanzo finanziario, con i comuni dissestati, senza riforma amministrativa e tributaria, afflitto da un disordine sociale cronico nei suoi apparati, sempre più estraneo alla vita del paese.
5. Le due Italie Secondo gli antigiolittiani il giolittismo approfondiva il distacco fra le istituzioni e l’opinione pubblica, fra gli orientamenti della classe dirigente e le aspirazioni del paese. In effetti, dopo il 1912 si può constatare che la corrente antigiolittiana si ingrossa mentre il sistema giolittiano perde continuamente consensi fra i partiti, le organizzazioni sindacali, gli organi di stampa nazionali e locali, gli intellettuali militanti. Giolitti aveva ancora la maggioranza dei consensi parlamentari, era l’arbitro della Camera, ma riscuoteva scarse simpatie nel paese. «Che amaro destino – scriverà nel 1919 la figlia Enrichetta – quello di mio padre, il quale ha dovuto governare in un ambiente spiritualmente opposto al suo». Il suo governo, notava «La Voce» il 16 dicembre 1909, «è stato parlamentare e non nazionale, cioè circondato da solida obbedienza di clientele nel parla-
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mento e da larga antipatia nel paese; non è stato offeso da nessun soffio di violenta passione disinteressata. Giolitti ha governato non con il consenso del paese ma con una maggioranza parlamentare». La nazione manifestava in ogni campo della vita sociale e intellettuale nuova vitalità, ma la vita ufficiale, aveva scritto già Tommaso Gallarati Scotti nel 1904 in un saggio su Giuseppe Mazzini, «non risponde a questo immenso anelito della giovine Italia. Piccoli personaggi giuocano la commedia sul palcoscenico della storia», rappresentanti «artificiali della complessa vita del popolo, anche quando dal popolo si denominano»; la vita politica e la vita sociale parevano svolgersi come «cerchi concentrici, ma che circolano in senso inverso, senza pericolo di incontrarsi mai nel loro opposto moto rotatorio» e «il progresso crescente e espansivo del paese, accompagnato da un senso di giovinezza operosa, appare affatto estraneo alle discussioni, alle inerzie, ai compromessi e alle vergogne di Montecitorio». Amendola, su «La Voce» del 1° dicembre 1910, sintetizzò questo perdurante stato d’animo, che cercava di definirsi in una continua ricerca di soluzioni ideali, con l’espressione «L’Italia come oggi è non ci piace»: «Il nostro ideale della vita pubblica e privata, i nostri valori intellettuali, morali e politici non sono quelli degli uomini che oggi costituiscono la classe dirigente; essi stanno su un livello sensibilmente più elevato [...] Un più alto concetto dei fini propri della convivenza sociale in genere, e degli scopi che può e deve proporsi quella speciale convivenza sociale che si chiama Italia, ci fa disprezzare e rimpiangere vari decenni di vita politica ed amministrativa del Regno, che hanno tradotto in fatti, talora irrimediabilmente, di vita pubblica, la pochezza, la povertà fattiva e intellettuale della classe dirigente. E constatiamo con impazienza e con sdegno quale immane peso noi dovremo rimuovere dal nostro cammino di popolo, prima di poter intraprendere una via nazionale corrispondente all’attuale realtà dei nostri ideali e dei nostri bisogni». L’aspetto morale e ideale dell’antigiolittismo aveva, per le generazioni maturate nel clima della rinascita idealistica, un’importanza fondamentale; era la premessa per condannare lo Stato giolittiano e disegnare, sia pure confusamente, gli abbozzi d’un diverso regime politico più consono a quelle che erano considerate le esigenze e le aspirazioni della nazione. Come Lando Laurentano de I vecchi e i giovani di Pirandello (che uscì a puntate sulla
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«Rassegna contemporanea» nel 1909 e in volume nel 1913), la generazione antigiolittiana sentiva «un dispetto amaro e cocente del tempo in cui [le] era toccato in sorte di vivere», tanto diverso dalle speranze e dagli ideali del periodo risorgimentale, e guardava con severità l’Italia unita, «messa su per accomodamenti e compromissioni, per incidenze e coincidenze», mentre «una sola fiamma avrebbe dovuto correre da un capo all’altro d’Italia per fondere e saldare le varie membra di essa in un solo corpo vivo». Come il personaggio pirandelliano, il giovane storico Adolfo Omodeo, nelle lettere alla fidanzata, invocava la «patria nuova», per rigenerare e consolidare una nazione «ancora così mal saldata nelle sue giunture; rosa dalla cancrena dell’ignoranza e della superstizione», come scriveva il 14 novembre 1911, pronta a infiammarsi per improvvisi entusiasmi nazionalisti, durante la guerra di Libia, ma incapace di diventare qualcosa di più che un aggregato politicamente «non ben fuso delle antiche regioni», ancora diviso internamente «nelle singole egoistiche attività individuali»: tutto bisognava rifondere, «tutto riunire in profonda volontà che tutto abbracci, che tutto vincoli, in cui tutto converga: creare la patria anche con la fiaccola della guerra civile». Il contrasto fra l’Italia politica e l’Italia reale divenne un altro tema costante dell’antigiolittismo, e lo si rileva, in particolare, nell’emergere di una nuova indefinita entità, immaginata e vagheggiata come la «patria nuova», «il popolo vero», la «nazione» ancora da creare; una entità che parlamento, burocrazia, governo, partiti – in una parola, il sistema giolittiano – impedivano e soffocavano. Il contrasto era vissuto in modo drammatico, nell’antagonismo fra «vecchio» e «nuovo», ma non era ancora venuto il momento, in cui l’unica soluzione, per gli antigiolittiani, sarebbe stata la guerra. Agli inizi del periodo giolittiano, i primi nazionalisti dedicarono la loro attività a propagandare, con moderna tecnica demagogica, una nuova politica che proclamava di essere direttamente ispirata all’Italia reale: contro l’Italia politica i nazionalisti rivendicavano il diritto di parlare a nome del «vero popolo italiano», di intendere la sua anima e la sua volontà meglio dei politici tradizionali e dei rappresentanti parlamentari: «Per noi – affermava “Il Regno” il 22 maggio 1904 – il cuore della vita nazionale non è nel vecchio palazzo pontificio ove i nostri cinquecento e otto rappresentanti spendono molto tempo per mettere insieme mediocri
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leggi [...] Quella è la parte malata e indebolita del paese, la borghesia che non sa che parlare e spendere, coll’acquiescenza dell’altra borghesia che fa e guadagna. La vita d’Italia è in quei coraggiosi industriali [...] che aumentano la nostra produzione, battono sui mercati l’Inghilterra, conquistano l’Asia Minore e l’America del Sud. La vita d’Italia è in quei contadini delle Puglie, in quei braccianti romagnoli e veneti che s’imbarcano a Genova, a Napoli, a Marsiglia e si spandono pel mondo traforando gallerie, formando colonie, dissodando terre, scavando miniere, creando industrie, mandando ogni anno centinaia di milioni di oro alle famiglie rimaste in Italia [...] Sopra tutta questa vera vita del fatto sta la falsa vita della parola; sopra l’officina di macchine di Legnano sta l’officina di parole di Montecitorio». Il nazionalismo voleva dare una coscienza politica all’Italia produttiva ed esaltare la funzione dirigente della borghesia, con un franco appello alla reazione antisocialista e antidemocratica: «Fra queste due Italie – una che ripete nella sua sonnolente vita gli intrighi quotidiani e le formulette sterili della vecchia generazione; l’altra che agisce, cresce, moltiplica la patria, ma è ignara di sé, senza fini grandi, meschina in politica, meschina in arte, meschina in pensiero – fra le due Italie: una dell’abitudine retorica, curialesca, affarista, l’altra dell’incoscienza feconda di energie ma senza direzione – noi dobbiamo essere e la forza che distrugga la prima e la luce che rischiari la seconda; dobbiamo essere una fiaccola che bruci ed illumini». Nel 1904, questi ambiziosi propositi non giungevano ancora a ipotizzare uno Stato nuovo. Sfogliando le pagine de «Il Regno», troviamo idee contrastanti sui problemi politici e sulle soluzioni che i nazionalisti proponevano. È però significativa, per esempio, la scarsa simpatia che alcuni di loro avevano per Sonnino, dal quale si sentivano «insanabilmente divisi» per la sua concezione dello Stato, «irriducibilmente contrari alla mania statolatra e socialista». Ma più che uno Stato nuovo, fino al 1914 il nazionalismo si limitò a invocare un governo più sensibile ai problemi della politica estera e agli interessi della borghesia industriale, che, per i nazionalisti, rappresentava la collettività nazionale, mentre la classe operaia doveva essere disciplinata e organizzata per lo sviluppo della produzione. Il mito delle due Italie, il mito del produttivismo e il rifiuto del-
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la politica tradizionale dei partiti e del parlamento erano diffusi anche fra i sindacalisti rivoluzionari. Liberisti in economia, sostenevano la necessità di una lotta di classe senza compromessi e senza tregua, fra una borghesia produttiva, consapevole della sua funzione storica e capace di espandere al massimo le potenzialità del capitalismo, e un proletariato organizzato nei sindacati, al di fuori dei partiti, che si sarebbe preparato nella lotta violenta a divenire classe dirigente, a espropriare la borghesia, a creare una nuova civiltà e un nuovo modo di fare politica. Il sindacalismo rivoluzionario muoveva guerra al protezionismo, al parlamentarismo, al riformismo, per esaltare la funzione liberista del sindacalismo, l’iniziativa diretta del proletariato contro lo statalismo paternalista e corruttore del sistema giolittiano. Liberismo e antiparlamentarismo erano affiancati a temi specificatamente sindacal-rivoluzionari, come l’apologia della violenza, l’esaltazione dell’azione diretta e il rifiuto di qualsiasi forma di delega e di rappresentanza politica contro la burocratizzazione delle organizzazioni del proletariato da parte dei politici professionisti. Il sindacalismo rivoluzionario, affermava De Ambris al congresso nazionale dell’Azione diretta, che si tenne dal 23 al 25 novembre 1912, combatteva la politica dei partiti e dello Stato per «lo sviluppo integrale, completo, autonomo del sindacato operaio, fino a farne l’elemento costitutivo principale e l’organo direttivo della nuova società dei produttori liberi ed eguali», educando il proletariato «ad avere fede solo nelle proprie forze, a non attendere alcun beneficio all’infuori delle sue azioni direttamente esplicate» e liberandolo così dal «feticismo legislativo» e dalla tutela di qualsiasi partito, anche socialista. L’azione diretta del proletariato doveva essere continuamente rivolta ad «aggredire e disorganizzare» lo Stato, «cotesta macchina borghese, indebolendola quanto più è possibile e disgregandone con ogni mezzo i congegni». La lotta antistatale doveva «tendere costantemente a diminuire il potere oppressivo dello Stato, perturbandone tutte le volte che ciò è possibile il funzionamento, con un processo continuo e tenace di corrosione di tutti i suoi organi». Il successo della propaganda sindacal-rivoluzionaria fra le masse contribuì a indebolire lo schieramento riformista filogiolittiano e a diffondere l’avversione contro qualsiasi politica di conciliazione e di compromesso con lo Stato borghese. L’ostilità teorica verso l’intervento dello Stato nelle attività del-
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la vita sociale assumeva, in concreto, il carattere di una vera e propria ripulsa nei confronti dello Stato giolittiano. Non erano solo i nazionalisti e i sindacal-rivoluzionari a esaltare i produttori contro i politici. Nel maggio 1911, Luigi Einaudi scrisse sul «Corriere della Sera» l’elogio della borghesia come «classe universale», che chiama a sé nuove energie e respinge i poltroni. I veri borghesi, affermava Einaudi, non sono «i burocrati, eredi delle clientele di liberti romani e dei servitori dell’antico regime», né quelli che assillano deputati e ministri per averne favori e protezione, ma sono «gli imprenditori e agricoltori che lottano per far progredire industria e agricoltura e vorrebbero tener per sé tutto il maggior prodotto ottenuto; e sono borghesi gli operai che lottano e sacrificano denari e tempo ed energia per strappare agli imprenditori e agli agrari una parte di questo maggior prodotto». Borghesi e operai sono «fecondissimi collaboratori nella conquista di civiltà sempre più alte», purché sappiano combattere uniti le «oscure forze della reazione statale», e non si diano in balia degli «uomini ignavi», che vorrebbero «instaurare in terra la morta pace delle leggi e dei regolamenti». Da uomini come Rigola, Olivetti, Bonnefon-Craponne, «uomini e non marionette», fratelli spirituali che cooperano su fronti opposti per la «formazione di una nuova e giovane e ardita classe di imprenditori, di agricoltori, di operai, che non spereranno più tutto dallo Stato», ma avranno fiducia in sé e nella propria forza organizzata – da uomini come questi, scriveva ancora Einaudi sul «Corriere della Sera» il 29 marzo 1911, egli sperava veder sorgere gli «uomini selvaggi», come quelli «che fecero grandi le loro patrie pericolanti»; i nuovi capi da «mettere al posto dell’attuale classe politica». Gli industriali torinesi aderivano all’ideologia liberista e consideravano il regime di libera concorrenza una condizione necessaria per il progresso economico. Perciò guardavano con diffidenza l’intervento del governo giolittiano nei conflitti di lavoro, secondo criteri discrezionali che alteravano la libera contrattazione fra sindacati padronali e sindacati operai e limitavano la libertà imprenditoriale, come ha osservato Mario Abrate, in una «fitta rete di obblighi e di vincoli che tendono a burocratizzare la nostra industria sul tipo della gran macchina statuale» elevata dallo Stato. Lo statalismo, per Gino Olivetti, mortificava il libero svolgimento dell’attività industriale e lo spirito di libera iniziativa
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anche nella classe operaia, «anzi – osserva ancora Abrate – l’azione statuale con i suoi provvedimenti sociali, con tutto il suo sistema di assicurazioni obbligatorie, va diminuendo e deprimendo negli operai quel sentimento di responsabilità, che dovrebbe essere conseguenza necessaria della nozione di individualità». L’atteggiamento della Lega industriale verso il sistema giolittiano divenne più critico, con il progressivo deterioramento dei rapporti di classe, l’inasprimento dei conflitti di lavoro, il prevalere di pratiche di lotta rivoluzionaria, e con l’esaurimento dei margini di manovra per la mediazione giolittiana. Gli industriali, schierati su posizioni antigiolittiane, divennero sensibili alla propaganda nazionalista, che sosteneva la necessità di una nuova organizzazione dello Stato sulla base del predominio della borghesia produttiva.
6. L’antigiolittismo dei partiti popolari Il successo che l’antigiolittismo ottiene in tutti i settori della vita sociale, economica, culturale, politica rivela uno dei limiti di fondo, forse il più importante, del sistema giolittiano, proprio per quel che riguarda l’obiettivo principale di Giolitti, cioè la politica del consenso e l’integrazione delle masse nello Stato liberale. Il 2 dicembre 1899, parlando alla Camera contro la politica di Pelloux, Giolitti aveva denunciato un fatto gravissimo: «Parlo della grandissima indifferenza, del distacco quasi che, da qualche tempo a questa parte, si verifica fra le grandi classi popolari e della piccola borghesia e le nostre istituzioni fondamentali [...] sarebbe illusione grandissima il credere che l’apparente tranquillità di oggi significhi un miglioramento nelle condizioni politiche del Paese, significhi maggior affetto delle popolazioni verso le istituzioni nostre». Giolitti aveva illustrato, con la consueta semplicità di parola, uno dei maggiori problemi della società contemporanea, e aveva intuito che, in un’epoca di grandi mutamenti sociali, con inevitabili conflitti di classe, il vero pericolo per le istituzioni veniva dalla mancanza di consenso da parte delle masse, che si affacciavano sulla scena politica. Per Giolitti, compito principale della classe dirigente doveva essere l’attuazione di una politica del consenso,
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capace di volgere i mutamenti sociali e l’ascesa di nuovi ceti a vantaggio della stabilità delle istituzioni. In questo senso Giolitti disse che il suo sistema di governo «apparentemente semirivoluzionario» era «il solo veramente conservatore». La prassi politica giolittiana, almeno nella fase della nuova politica liberale, era stata indubbiamente una coraggiosa innovazione, rispetto alla politica tradizionale dei governi liberali, e rispondeva a orientamenti caratteristici nelle società liberali europee, per agevolare il passaggio dello Stato liberale classico a uno Stato democratico, nel quale fosse concesso più largo spazio all’azione dei partiti e delle organizzazioni popolari. Il significato di questa innovazione politica, nei suoi aspetti indiscutibilmente moderni, era stato compreso acutamente da Massimo Fovel in un articolo sulla «Rassegna contemporanea» dell’ottobre 1908 intitolato Il «giolittismo»: Giolitti non era il dittatore, il cinico corruttore, ma «l’emissario di una larga situazione di nuove cose che si vanno compiendo»; Giolitti, cioè, aveva capito che «stiamo attraversando una crisi di autorità»; nel giolittismo, «tutte le vecchie nozioni autoritarie dello Stato sono venute necessariamente a trasformarsi, a farsi più sciolte e dissolversi anche, talvolta». Secondo Fovel, Giolitti aveva un «vero e proprio programma di devoluzione, conveniente e legittimo, del diritto e dell’autorità dello Stato ad altre forze e ad altri poteri che sgorgano e agiscono altrove [...] Dietro il disordine d’oggi v’è forse il nuovo ordine di domani che si va, e sia pure lentamente, formando». Giolitti «si lascia andare alla deriva della corrente della vita del paese che si rinnova, obliando funzioni e nozioni passate, conquistando via via atti e coscienze nuovi». In conclusione, il giolittismo era l’«intelligenza embrionale», il «senso del pullulare delle nuove collettività professionali e dei nuovi limiti posti all’imperio dello Stato e, in compenso, dei nuovi obblighi d’imperio che allo Stato erano creati». Gli antigiolittiani avevano però molti dubbi sull’efficacia duratura di questa prassi di governo per affrontare i problemi di una nascente società industriale, e condannavano quel giolittiano «andare alla deriva» dei movimenti sociali, con atti che molti liberali consideravano abdicazione dell’autorità dello Stato e rinuncia alla funzione dirigente della classe politica liberale. Lo spirito innovatore della politica giolittiana si era esaurito in una pratica del compromesso, che lasciò sfuggire le condizioni per una efficace
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opera riformatrice e contribuì alla disgregazione delle forze costituzionali: su queste critiche vi era una generale concordanza di opinioni fra gli antigiolittiani, con i quali alla fine consentirono anche gli estimatori di Giolitti. Pareto, dopo avere elogiato l’arte politica di Giolitti, accusava il suo governo di procedere seguendo una via di mezzo, lasciando l’iniziativa agli avversari, comportandosi come chi «si addormenta ogni sera su un deposito di polvere e che, svegliandosi la mattina, esclama: Che fortuna! Neppure questa notte nessuno è venuto a dar fuoco alla polveriera», come scriveva ne «La vita internazionale» del 20 novembre 1901. Con prospettive molto diverse, Luigi Sturzo e Anna Kuliscioff esprimevano un giudizio sostanzialmente analogo. Per Sturzo, il governo giolittiano, nonostante alcuni meriti, era un governo che viveva di opportunismi, cercando di conciliare empiricamente «il giusto rispetto della libertà generale, che diviene condiscendenza politica verso i sovversivi (dico condiscendenza politica e non vero regime di libertà nella legge) e la necessità di tutela dell’ordine pubblico, che arriva alla reazione». Giolitti, scriveva la Kuliscioff a Turati, il 17 dicembre 1913, cerca di contentare destri e sinistri, «fa la corte ai socialisti, ma cerca nello stesso tempo di non scontentare i cattolici; dà uno zuccherino ai democratici colla precedenza del matrimonio civile, e manda in sollucchero i nazionalisti, coll’aumento delle spese militari; ed infine, costa della Libia a parte, fa un programmino a scartamento ridotto delle riforme sociali ad uso e consumo dei Cabriniani riformisti». La politica giolittiana del consenso era indirizzata prevalentemente verso quelle frazioni della classe operaia e contadina rappresentate dal partito socialista e dalla Confederazione Generale del Lavoro, adoperando per contrappeso l’appoggio elettorale dei cattolici moderati. Ma il risultato finale, come vedremo nel prossimo capitolo, fu contrario alle aspettative di Giolitti. Il fallimento della politica giolittiana verso i socialisti divenne irrimediabile dopo il 1912, con la guerra di Libia e l’inasprimento della lotta di classe, che rivelò la profonda estraneità delle masse proletarie al sistema giolittiano e allo Stato, mentre nel partito socialista prendevano il potere le tendenze rivoluzionarie, che rifiutavano qualsiasi transazione con lo Stato borghese e lottavano per la sua distruzione. Il distacco dei socialisti d’ogni gradazione dal sistema giolittiano apparve evidente dopo le elezioni generali del 1913, di
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cui ci occuperemo nel prossimo capitolo. Le argomentazioni erano, in gran parte, mutuate dall’antigiolittismo. Bissolati, parlando alla Camera il 10 dicembre 1913, condannò l’intervento giolittiano nelle elezioni e giudicò sconveniente che il governo «manipoli quell’assemblea che deve essere il suo controllo e il suo giudice», provocando un danno enorme nello spirito pubblico, perché il cittadino, specie nel Sud, «ha ragione di dubitare che un fazioso criterio di parzialità deformi normalmente il funzionamento dello Stato», e perché si impediva così «il libero formarsi di partiti nel paese». I socialisti ricordarono a Giolitti la fiducia che per anni gli avevano concesso, nella convinzione che fosse, come disse il deputato Alberto Calda alla Camera il 18 dicembre, «un uomo di qualità intellettuali solide [...] ma questi meriti che lei aveva e noi le avevamo riconosciuto sono irrimediabilmente caduti dopo l’impresa libica, e sono caduti per noi e per quella parte di paese che noi rappresentiamo e che è contro di lei. Sono rimasti invece i suoi difetti e il suo abominevole sistema di governo». Perfino Turati, ostinato nella sua fiducia per Giolitti, nel discorso alla Camera del 5 dicembre, giunse a deplorare la sua politica «di mezza libertà e mezza reazione, saltuaria, contraddittoria, disforme da luogo a luogo e da momento a momento, politica del colpo al cerchio e del colpo alla botte». Nell’ambito di questa valutazione le riforme giolittiane, come il suffragio universale, apparivano espedienti per conservare il potere e non l’attuazione di un organico programma di rinnovamento. Dopo quindici anni, Turati confessava candidamente di non sapere ancora, con «assoluta certezza, se, quando l’onorevole Giolitti ci concede qualche cosa a cui teniamo, lo faccia per secondarci o lo faccia per corbellarci». Per parte loro, i socialisti rivoluzionari negavano sostanzialmente l’esistenza di un programma di governo giolittiano e la capacità dell’uomo di guardare oltre il contingente. Giolitti, disse il deputato Lucci l’11 dicembre, «vive alla giornata: non vede il complesso, ma il singolo fatto: corre al rimedio del fenomeno curando i sintomi l’uno dopo l’altro con espedienti [...] ma il male resta nel fondo, ed i problemi fondamentali, per amor di pace parlamentare, sono sempre accuratamente evitati». La trama delle relazioni su cui Giolitti aveva tessuto la sua politica si era, dunque, lacerata in più parti, e si erano spezzati i legami con i partiti popolari, che egli aveva privilegiato nella sua politica del consenso.
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Giolitti aveva cercato di fare una politica conservatrice con i partiti democratici ma, osservò Salvemini su «L’Unità», il 28 novembre 1913, la democrazia «è, per natura e per fortuna sua, indisciplinata: ha cento braccia e cento teste e non è possibile né convincerle né legarle tutte. L’on. Giolitti afferra Turati e perde Ferri: attira Bissolati e si lascia scappare Turati; si era messo in tasca Sacchi, ed ecco venir fuori Giretti. È un lavoro di Sisifo; il risultato del quale è che la democrazia è, piuttosto che conquistata, disorganizzata e paralizzata». Dopo anni di trasformismo e di larghe maggioranze parlamentari senza colore politico e programmi definiti, i democratici e i socialisti, come i liberali antigiolittiani, volevano un ritorno ai princìpi, alle definizioni precise delle linee politiche, alla riorganizzazione dei partiti, per ristabilire un corretto funzionamento del sistema parlamentare, una precisa distinzione fra governo e opposizione. «Noi vogliamo fare l’opposizione – disse il socialista Raimondo, in una intervista del 16 dicembre – [...] La Camera italiana, da anni ormai, si era disabituata a questo fenomeno, il quale avviene pure in tutti i Parlamenti del mondo». Il sistema giolittiano aveva impedito che nel paese si determinassero correnti politiche definite. La situazione era mutata, ma Giolitti non l’aveva capito. Egli si era posto al di sopra della Camera e del paese, considerando l’attività parlamentare «un’ingrata parentesi del suo governo». Ora i socialisti condannavano questo sistema: «Noi vogliamo fermamente, risolutamente, senza ambagi e senza riserve, che l’on. Giolitti se ne vada». Bisogna combattere il giolittismo, scriveva Kuliscioff a Turati il 16 dicembre 1913, «dovrete avere mani libere per combatterlo finché dura come fatto, anche liquidato Giolitti». «Voi non siete che un uomo – disse il repubblicano Cappa a Giolitti, parlando alla Camera il 18 dicembre – ma dovete andarvene, per la salute del paese». Anche i radicali cominciarono a prendere le distanze. Fovel divenne l’animatore dei radicali antigiolittiani, precisando che «quando si fa dell’antigiolittismo non si combatte un uomo, che è soltanto un esponente poliedrico e luminoso, ma si prende a tu per tu tutta una situazione, si vuol percorrere a ritroso tutta una trafila di situazioni, si arrovescia una certa quantità di realtà come si arrovescia un guanto»; il giolittismo, per i radicali, esprimeva sostanzialmente «la soppressione dei partiti» e la riduzione della politica all’amministra-
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zione: è necessario però, affermava Fovel in una intervista il 19 ottobre, «risollevare il valore dell’idea di ‘partito’ inteso come comunione libera e spontanea di spiriti, rimettere in onore la ‘politica’ contro l’amministrazione e il tecnicismo che la invadono, corrodono, polverizzano e annullano la vita politica dei partiti». Gli esponenti dei partiti popolari ribadivano quei motivi antigiolittiani che, durante il corso del decennio, Albertini aveva costantemente pubblicizzato contro un sistema di potere che, a suo giudizio, «cloroformizzava» i partiti e il parlamento e tendeva, per conseguire il successo di una politica personale, a soffocare i dissensi, ad annullare le opposizioni, a limitare la funzione di controllo del parlamento. In tal modo si minava, secondo Albertini, l’essenza dello Stato liberale: la politica giolittiana indeboliva le forze liberali, contribuiva a sminuire la fiducia della borghesia nel liberalismo come promotore attivo e guida ancora valida ed efficace per lo sviluppo politico e sociale dell’Italia. Certamente, Albertini non era affatto convinto che fosse scoccata l’ora della fine per l’egemonia borghese, e che funzione di un governo liberale fosse ora quella di preparare il trapasso dei poteri nelle mani di una nuova classe. C’era, nell’antigiolittismo albertiniano, l’orgoglio di una borghesia moderna, che nel dinamismo delle sue forze economiche vedeva le condizioni per un rinnovato diritto alla direzione dello Stato, ma vi era anche la riaffermazione di valori ideali, che erano considerati ancora vivi e attuali, e la difesa di un concetto di libertà che trovava la sua concretizzazione nel regime liberale e nello Stato di diritto. Il direttore del «Corriere della Sera» non si ispirava affatto a un modello anacronistico di società né alla nostalgia, pur viva e forte nel suo animo, per la tradizione risorgimentale e la Destra storica, ma si ispirava all’analisi della situazione reale, con lucida consapevolezza, da un punto di vista rigorosamente liberale, dei compiti e delle funzioni dello Stato e della classe dirigente nel processo di formazione di una democrazia industriale. L’assunzione di nuovi compiti sociali da parte dello Stato imponeva un più attivo impegno del governo nella guida del paese: «Il paese – scriveva Albertini a Ojetti il 9 ottobre 1913 – va guidato. Se chi lo deve dirigere soffoca tutti gli impulsi che esso manifesta, uccide i partiti, porta avanti problemi che non sono nella coscienza pubblica, crea piattaforme artificiali e indice lotte elettorali sulla base solo dell’attaccamento alla persona del capo del governo, il paese rima-
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ne sotto il cloroformio, i clericali si avanzano e quando vorremo combatterli sarà tardi [...] Come è possibile che l’Italia vada avanti a legiferare in modo da rendere paga l’Estrema e a fare le elezioni in modo da rendere paghi i clericali? Si contentano così i due partiti opposti a spese dei liberali». Le condizioni che avevano permesso la durata del sistema giolittiano erano ormai esaurite. Il sistema giolittiano si era sviluppato in un periodo di prosperità economica, che aveva reso possibile una temporanea convergenza di interessi fra gli operai organizzati e la nuova borghesia industriale, e aveva consentito al governo di largheggiare nelle spese per conquistare l’appoggio delle organizzazioni del proletariato. Dal 1898 al 1912, osservava ancora Pareto in un articolo del settembre 1913, «i governi hanno sinora sparsa la manna sui politicanti e sugli elettori di questi; non potranno seguitare a distribuirne altrettante nel prossimo periodo, e da ciò cresceranno certi mali umori e opposizioni vivaci». Giolitti aveva galleggiato, con vento favorevole, su un mare relativamente tranquillo. Egli era il rappresentante della borghesia speculatrice, riccamente dotato d’arte volpina per attenuare i conflitti e conquistare gli avversari attraverso compromessi e mediazioni, tipici di una borghesia d’affari, che riduceva la politica ad amministrazione e concepiva il divenire storico come graduale e inevitabile processo verso la prosperità economica e la pacificazione umanitaria. Dopo la guerra di Libia, il vento mutò e le acque cominciarono ad agitarsi. Una nuova crisi economica, nel 1913, gravò sulle classi popolari, fece aumentare la disoccupazione, alimentò un vasto movimento migratorio, inasprì la lotta di classe su entrambi i fronti. Gli scioperi divennero frequenti, ma la maggior parte si concluse con la sconfitta dei lavoratori, per ragioni – notava nel 1914 Riccardo Bachi – derivanti dalla «ben irrobustita resistenza padronale e in parte connesse con lo stesso stato di disagio economico e di squilibrio morale della classe operaia e con le divergenze di metodi e di tendenza fra le leghe dei lavoratori», divenuti ora più sensibili agli appelli rivoluzionari. Il mutamento delle condizioni economiche ebbe una grande influenza sulla sorte del giolittismo, ma ciò, come vedremo nel prossimo capitolo, determinò soltanto il momento finale di una crisi, che aveva origine e carattere politici e maturava già negli anni precedenti, in seguito al fal-
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limento della politica giolittiana del consenso. L’antigiolittismo, nelle forme fin qui esaminate, è espressione e coscienza della crisi e, nel contempo, è dall’antigiolittismo che emerge la volontà di elaborare una nuova politica nazionale, aderente, per metodo e idee, ai mutamenti in corso nella società italiana, contro un sistema di potere e di governo che sembrava aggravare la crisi dello Stato nazionale piuttosto che apprestare adeguate difese.
X IL TRAMONTO DEL SISTEMA GIOLITTIANO La guerra contro la Turchia, come abbiamo visto, fu decisa da Giolitti in seguito a una realistica valutazione della situazione internazionale che aveva posto l’Italia di fronte alla necessità di procedere alla riscossione dell’ipoteca sulla Libia posta con lunghe e laboriose manovre diplomatiche negli anni precedenti. Le ragioni di politica estera prevalsero sulle pressioni di taluni gruppi economici e finanziari e delle correnti nazionaliste. Giolitti giustificò la sua decisione presentandola come una «fatalità storica» alla quale il governo non poteva sottrarsi: «Vi sono fatti – disse a Torino il 7 ottobre 1911 – che si impongono come una fatalità storica alla quale nessun popolo può sottrarsi senza compromettere in modo irreparabile il suo avvenire. In tali momenti è dovere del governo di assumere tutte le responsabilità perché una esitazione o un ritardo può segnare l’inizio di una decadenza politica, producendo conseguenze che il popolo deplorerà per lunghi anni, e talora per secoli». Giolitti si rendeva conto che gli effetti della guerra avrebbero influito anche sulla vita politica interna e, per questo motivo, riteneva necessario conservare distinte, per quanto ciò fosse fattibile, la politica estera dalla politica interna: «la politica estera non deve influire in alcun modo, né direttamente né indirettamente, sulla politica interna, se non dal punto di vista di costituire una spinta a più rapido progresso». E in un discorso alla Camera il 23 febbraio 1912, che doveva servire a raffreddare le esaltazioni nazionaliste e a riconciliargli gli umori della sinistra riformista, Giolitti confessò di essere stato spinto alla grave decisione di intraprendere la guerra «senza entusiasmo ma unicamente per ragionamento», anche se egli non era per principio contrario alla conquista coloniale considerandola uno strumento
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per la «civilizzazione di popolazioni che in altro modo continuerebbero nella barbarie». Tuttavia la speranza di preservare la politica interna dagli effetti della politica estera era del tutto illusoria perché sottovalutava le implicazioni interne, economiche e politiche, del nuovo imperialismo italiano, del quale l’impresa era, nonostante le dichiarazioni di Giolitti, un momento significativo. Infatti la speranza di Giolitti fu presto smentita dai fatti. Dopo la guerra di Libia, i sintomi di crisi del sistema giolittiano diventarono più evidenti, mentre aumentava nel paese, come abbiamo visto nel precedente capitolo, l’ostilità verso il compromesso che aveva dato a Giolitti la possibilità di durare al vertice del potere parlamentare per un decennio. Il quadro politico italiano, dopo il 1912, era molto mutato: nuove forze sociali e politiche si erano rafforzate, con la tendenza a rifiutare la mediazione giolittiana e a distruggere la stabilizzazione moderata sulla quale si fondava l’egemonia parlamentare dello statista piemontese. La guerra aveva galvanizzato il neonato nazionalismo italiano, verso il quale si rivolgevano le simpatie di alcuni settori del mondo cattolico e l’attenzione interessata di esponenti del mondo industriale. Il nazionalismo rinvigorì la sua azione ed estese la sua influenza sull’opinione pubblica, diventando un punto di riferimento per alcuni settori della borghesia antigiolittiana. Nello stesso tempo, le battaglie anticolonialiste avevano rafforzato la corrente dei socialisti rivoluzionari all’interno del partito, che si era opposto in modo debole e tardivo alla guerra coloniale, ponendo radicalmente in crisi l’egemonia riformista. Le conseguenze della guerra, con l’aumento delle spese e della pressione fiscale, la stagnazione economica seguita alla crisi del 1907 e la nuova crisi del 1913, il rincaro del costo della vita e l’aumento della disoccupazione diffusero fra le masse sentimenti di rivolta contro il regime liberale e inasprirono la lotta di classe, con una progressiva radicalizzazione dello scontro sociale e politico. La concessione del suffragio universale maschile, invece di conciliare le nuove masse elettorali con le istituzioni, contribuì alla crisi definitiva del giolittismo. 1. Il quarto ministero Giolitti Nel suo quarto ministero, Giolitti riuscì ancora a raccogliere alcuni importanti successi, oltre quello rappresentato dalla con-
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quista della Libia e dalla soluzione diplomatica della guerra. Come è stato già detto, i punti principali del programma giolittiano erano il monopolio statale delle assicurazioni sulla vita e un progetto di riforma elettorale per l’allargamento del suffragio. La Camera fu impegnata prima nel dibattito sul monopolio statale delle assicurazioni. Il progetto di legge, preparato dal ministro dell’Agricoltura Nitti, fu presentato alla Camera il 3 giugno 1911 ma incontrò forti opposizioni sia fra i deputati liberali, sia nella stampa legata alle tendenze liberiste, per gli interessi finanziari privati che il disegno di legge colpiva. Soprattutto contrari erano i conservatori che, in parlamento, facevano capo ad Antonio Salandra. Nel suo intervento alla Camera, Salandra definì il disegno di legge un attentato alla libertà di iniziativa, un colpo inferto al capitalismo che, in Italia, non aveva ancora sviluppato interamente le sue forze e le sue capacità, mentre il monopolio avrebbe contribuito ad ampliare l’area del capitalismo di Stato, «un ente mostruoso, il quale ci irretirà tutti nei suoi fili inestricabili e soffocherà la vita economica del paese. Tale è l’avviamento di cui il presente disegno di legge è l’indice». Giolitti intervenne alla Camera in difesa del progetto, l’8 luglio, dichiarando che il monopolio non era affatto contrario ai principi liberali, perché esso era proposto nell’interesse dello Stato, cioè della collettività: «lo Stato è l’universalità dei cittadini, quindi il fare l’interesse dell’universalità dei cittadini non è cosa che non sia liberale». Egli ribadì le ragioni della sua proposta, che era collegata al bisogno di reperire fonti di finanziamento a favore delle Casse per la vecchiaia e la invalidità dei lavoratori: «Poiché le condizioni del bilancio non consentirebbero ora maggiori assegnazioni a carico della finanza, noi proporremo di istituire un monopolio di Stato delle assicurazioni sulla vita e di devolverne per intero i proventi alla Cassa per la vecchiaia e invalidità dei lavoratori. Per tal modo, mentre la garanzia sicura dello Stato provocherà un incremento della previdenza sotto forma di assicurazione sulla vita, i proventi delle assicurazioni delle classi più agiate accresceranno la misura delle pensioni agli operai». Più esplicitamente, Giolitti affermò il carattere politico del monopolio, che doveva ristabilire l’autorità dello Stato anche nel campo dell’economia. Egli riconosceva la necessità delle «grandi forze finanziarie» e delle concentrazioni industriali per la difesa verso la concorrenza straniera, ma voleva sottrarre lo Stato all’influenza politica di queste forze:
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per far ciò, disse Giolitti, «è necessario che lo Stato abbia nelle sue mani dei grandi istituti finanziari, che lo pongano in piena libertà di fronte a tutte le classi. Lo Stato, anche in materia economica, deve dirigere, ma non deve essere diretto. La forza finanziaria dello Stato, che si verrebbe creando con questi enti, che concentrino in sua mano dei grandissimi capitali, è elemento di solidità per le industrie e i commerci, perché uno Stato debole non può, nei momenti più difficili, trovar modo di evitare le grandi crisi». Giolitti, dunque, si proponeva di assicurare allo Stato una nuova fonte di finanziamento per le pensioni di invalidità e vecchiaia, ma il suo obiettivo era più generale e rappresentava certamente un mutamento significativo nell’orientamento della politica economica. Egli mirava, infatti, ad assegnare allo Stato il diritto di intervento nella vita economica, per prevenire e correggere le distorsioni derivate dall’iniziativa privata, conquistando una completa autonomia dalla pressione degli interessi privati e una maggiore capacità di azione di fronte alle congiunture sfavorevoli, come era accaduto nella crisi del 1907. Il progetto, se rappresentava una conferma della svolta a sinistra di Giolitti con il quarto ministero, contribuì a far emergere una nuova linea politica conservatrice, rappresentata da Salandra, che affermava senza mezzi termini l’identificazione del liberalismo col liberismo e l’intransigente difesa della libertà economica contro qualsiasi tentativo di statalismo. Giolitti riuscì a vincere le opposizioni nel dibattito parlamentare e ottenne il passaggio in discussione degli articoli prima della chiusura estiva della Camera. La guerra di Libia fece interrompere e rinviare la discussione, che fu ripresa nel febbraio 1912, sulla base di alcune modifiche al disegno di legge, concordate in un compromesso fra Nitti e la commissione incaricata di esaminare il progetto, per andare incontro alle richieste di società assicurative straniere. La nuova legge, che creava l’Istituto nazionale assicurazioni fu, questa volta, approvata con larga maggioranza alla Camera e al Senato, ma alle società private fu tuttavia concesso di continuare la loro attività per dieci anni; alla scadenza, nel 1923, la concessione fu prorogata dal governo fascista. Il monopolio, quindi, non fu realizzato ma la creazione del nuovo istituto fu un fatto importante, perché era il primo ente pubblico con personalità giuridica, distinta dallo Stato, dotato di larga autonomia e or-
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ganizzato con i criteri di un’azienda privata, che costituì un modello per gli enti pubblici creati successivamente. Più importante, sia per il suo valore politico sia per le conseguenze che avrebbe avuto nella vita dello Stato italiano, fu l’attuazione della riforma elettorale secondo il disegno di legge proposto dal governo, che fu approvato rapidamente a larga maggioranza sia dalla Camera che dal Senato, mentre ancora il paese era impegnato nella guerra contro la Turchia. Giolitti aveva sostenuto la necessità di superare le vecchie restrizioni per l’esercizio del diritto di voto. Per la concessione di questo diritto, aveva affermato il 6 aprile 1911 presentando il governo alla Camera, «più che ad una superficiale istruzione acquistata al solo fine di superare un facile esame, noi crediamo si debba guardare alla maturità della mente, la quale si acquista o nella scuola educativa o con l’esperienza della vita». Perciò, «noi proporremo che alle categorie di elettori stabilite dalle leggi vigenti siano aggiunti coloro che hanno prestato il servizio militare e coloro che hanno compiuto i trenta anni di età. Così l’educazione militare o una migliore esperienza della vita suppliranno l’educazione della scuola, senza togliere la spinta a frequentare la scuola per diventare elettori appena raggiunta la maggiore età». La nuova legge elettorale, emanata il 30 giugno 1912, estendeva il diritto di voto a tutti i cittadini maschi di età superiore a ventuno anni, capaci di leggere e scrivere, e a tutti i cittadini maschi di età superiore a trenta anni, anche analfabeti, che avessero fatto il servizio militare. Con questa riforma, l’elettorato saliva dal 9,50 per cento della popolazione nazionale al 24 per cento; gli elettori aumentavano, da 3 milioni e 300.000, a 8 milioni e 600.000. La legge, inoltre, stabiliva una indennità per i parlamentari, aprendo così le porte della Camera anche a deputati di modeste condizioni economiche, i quali avrebbero potuto esercitare liberamente, senza angustie finanziarie, il loro mandato. Rimase invariato, invece, il sistema uninominale e il numero delle circoscrizioni, ma fu abbassato il numero delle firme necessario per la presentazione del candidato. La concessione del suffragio universale era una riforma democratica, che stimolava la partecipazione delle masse alla vita politica, ma creava problemi nuovi per la gestione dello Stato liberale, che ancora conservava una struttura oligarchica, e per lo stesso sistema giolittiano di governo. Nuove masse entravano nella vi-
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ta politica e gran parte di esse appartenevano al mondo contadino meridionale, che era in gran parte privo di una sia pur rudimentale esperienza politica ed era rimasto estraneo, se non addirittura ostile, ai processi politici di formazione e di trasformazione dello Stato unitario. Nel disegno politico giolittiano, che aveva portato alla concessione del suffragio universale maschile, vi era il proposito di prevenire l’azione del partito socialista nella richiesta della riforma e, nello stesso tempo, vi era la speranza dell’adesione delle nuove masse di elettori alle forze politiche tradizionali. L’interpretazione conservatrice appariva chiara anche alla parte cattolica, che non a caso era stata calda sostenitrice della riforma, convinta di avvantaggiarsi del voto moderato e conservatore delle masse contadine cattoliche o influenzabili dal clero: «Giolitti – ha scritto Carlo Ghisalberti – forse comprendeva il pericolo di questa soluzione ma vedeva chiaramente come non fosse più possibile sottrarsi alla scelta democratica implicita nell’universalizzazione del suffragio senza essere scavalcato da una Sinistra estremamente combattiva. Da fine politico qual era intuiva le difficoltà che sarebbero sorte per lo Stato liberale dall’immissione totale delle masse nella vita pubblica in un momento in cui né il benessere né l’istruzione erano tanto diffusi da garantire la piena riuscita dell’operazione agli effetti della conservazione dell’assetto istituzionale consolidato. Tuttavia si rendeva conto dell’assoluta necessità per la classe dirigente liberale di guidare la grande trasformazione che ne sarebbe scaturita fatalmente, a pena di veder finita quella egemonia borghese sulla società italiana di cui il liberalismo giolittiano era al tempo stesso l’ultima espressione e il più moderno garante. Probabilmente egli era fiducioso che quei metodi di governo che aveva utilizzato con una spregiudicatezza assolutamente sconosciuta ai suoi predecessori si sarebbero ancora rivelati utili a contenere le spinte eversive per un sistema provocate dall’incrementata pressione delle masse da quel momento non più escluse dal voto, e soprattutto a rendere i loro rappresentanti in parlamento, con una sagace operazione trasformistica, meno ostili alle istituzioni caratterizzanti lo Stato liberale». L’ottimismo giolittiano sulla capacità mediatrice del governo non trovò conferma nella realtà sociale e politica del paese dopo la guerra di Libia. Tanto a destra quanto a sinistra era in corso un processo di trasformazione in senso più radicale degli orienta-
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menti politici, sul quale influirono anche gli effetti dei nuovi avvenimenti internazionali, politici ed economici che contribuirono ad aggravare la tensione fra le potenze europee e a porre le condizioni dalle quali, quasi inevitabilmente, sarebbe scaturito un nuovo conflitto armato di proporzioni continentali.
2. Le guerre balcaniche e la crisi economica del 1913 Con la guerra di Libia, l’Europa entrò in un periodo di conflitti che vanificarono del tutto le possibilità di conservare una forma di convivenza pacifica, anche se agitata da continue tensioni, come quella che i maggiori paesi europei erano riusciti a contenere conformandosi ai concetti direttivi della balance of power, fondata soprattutto sulla capacità di impedire la radicalizzazione degli antagonismi di potenza e di evitare una contrapposizione irriducibile fra diversi sistemi di alleanza. Tuttavia, già la modificazione dei rapporti avvenuta con la formazione dell’Entente cordiale (1904) fra Francia e Inghilterra, allargata con il successivo accordo fra Inghilterra e Russia, nel 1907, costituiva un passo decisivo verso la formazione di due blocchi, dominati da interessi e aspirazioni egemoniche tendenzialmente inconciliabili, con la scomparsa definitiva del ruolo di una potenza intermedia – come era stato quello della Germania bismarckiana – capace di garantire la permanenza dell’equilibrio. A partire dal 1906, sul continente europeo si erano accumulate tensioni gravissime, generate da vari motivi. In primo luogo, l’espansione industriale della Germania alimentava le ambizioni imperiali di Guglielmo II e la rivalità economica e militare fra Germania e Inghilterra, lanciate in una pericolosa corsa agli armamenti; poi, la sconfitta subita in Estremo Oriente aveva respinto la Russia verso l’Europa orientale e, in particolare, verso i Balcani, dove incontrava la resistenza rivale dell’Austria; infine, la Triplice Alleanza era tutt’altro che un blocco solido, perché minacciato dalle continue frizioni interne fra Austria e Italia per la questione delle terre irredente, il problema dell’Adriatico e le contrastanti aspirazioni sull’assetto politico della penisola balcanica. Le tendenze aggressive dell’imperialismo europeo, che fino agli anni Dieci avevano trovato sfogo nei continenti africano e asiatico, tornavano ora a gravare sul con-
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tinente europeo, creando una situazione esplosiva che le arti tradizionali della diplomazia, educata all’ideale del «concerto europeo», non furono più in grado di contenere e di sanare. Il campo dei nuovi conflitti armati, prima della conflagrazione europea, fu la penisola balcanica. La guerra italiana contro l’impero turco indusse gli Stati balcanici – Serbia, Grecia, Bulgaria e Montenegro – a coalizzarsi contro la Turchia per distruggere gli ultimi resti del suo impero in Occidente. Dietro le nazioni balcaniche, vi era il sostegno della Russia, che indirettamente cercava di contrastare l’egemonia austriaca trovando il consenso della Francia e dell’Inghilterra. La guerra contro la Turchia, infatti, era un mezzo per colpire la Germania, che aveva allargato la sfera dei suoi interessi nell’impero ottomano. La guerra, iniziata nell’ottobre 1912, si concluse con la sconfitta della Turchia. La pace, firmata nel maggio 1913, prevedeva la spartizione della Macedonia fra gli Stati vincitori, l’assegnazione della Tracia alla Bulgaria e dell’isola di Creta alla Grecia. La Serbia, tuttavia, fu delusa nella sua aspirazione ad avere uno sbocco al mare, in seguito a un intervento austro-italiano che favorì la nascita di uno Stato indipendente d’Albania, con a capo un principe tedesco. La Turchia conservava, nel continente europeo, soltanto Costantinopoli e una piccola parte della Tracia. La spartizione della Macedonia suscitò però nuovi contrasti fra gli alleati, perché la Serbia non riuscì a raggiungere un accordo con la Bulgaria che, nel giugno 1913, le dichiarò guerra. La speranza di ottenere parte della Macedonia spinse la Romania a intervenire a sua volta contro la Bulgaria, contro cui scesero in campo anche la Grecia, alleata della Serbia, e la Turchia, che sperava di recuperare ai danni della Bulgaria i territori che aveva perso nella guerra precedente. La Bulgaria fu sconfitta e, con la pace di Bucarest nel luglio 1913, fu costretta a cedere quel che aveva guadagnato nella prima guerra balcanica: Adrianopoli e gran parte della Tracia tornarono alla Turchia, la Macedonia fu divisa fra Serbia e Grecia, la Romania ottenne la Dobrugia meridionale. In complesso, le guerre balcaniche furono una ferita molto dura per il prestigio e gli interessi dell’Austria e della Germania, che videro un ulteriore indebolimento dell’impero turco e l’espansione della Serbia, la quale mostrava di voler imporsi come Stato guida nei Balcani in funzione antiaustriaca. L’Italia, dal canto suo, dopo la guerra contro la Turchia si era
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mossa con prudenza nelle acque agitate della politica balcanica, con lo scopo di consolidare la sua posizione nell’Egeo e favorire la formazione di Stati balcanici indipendenti, verso i quali orientare i propri progetti di penetrazione economica e politica ai danni dell’Austria. Il problema dell’Adriatico assumeva, in questo modo, un’importanza capitale nella politica estera dell’Italia e avrebbe condizionato in modo decisivo la scelta di campo durante la guerra europea. Tutto ciò non aveva impedito, comunque, il rinnovo della Triplice Alleanza nel dicembre 1912. San Giuliano aveva anticipato il rinnovo del trattato, che scadeva nel luglio 1914, in seguito ai contrasti fra l’Italia e la Francia dopo gli incidenti avvenuti durante la guerra di Libia. Il nuovo trattato riproduceva il testo del 1902: Austria e Germania rifiutarono di accogliere le modifiche proposte dall’Italia, che riuscì soltanto a ottenere l’inserimento di un protocollo aggiuntivo in cui veniva implicitamente riconosciuta la sovranità italiana sulla Libia e venivano riconfermati gli accordi italo-austriaci sull’Albania e il Sangiaccato di Novi Bazar. Tuttavia, le conseguenze delle guerre balcaniche e la crescente tensione fra i due blocchi resero più difficili i rapporti fra Austria e Italia, e sempre più irrequieta la posizione dell’Italia nella Triplice Alleanza. L’Italia entrava nella nuova fase dei conflitti di potenza con una situazione interna turbata, oltre che dalle difficoltà e dai rischi della politica estera, dagli effetti della nuova crisi economica mondiale di sovrapproduzione, con ribasso dei prezzi, diminuzione degli investimenti, aumento della disoccupazione. La crisi del 1913 era analoga a quella del 1907, anche se le sue conseguenze furono meno gravi per lo sviluppo economico dei paesi capitalisti più avanzati. In Italia, tuttavia, essa fu il momento più critico del «malessere economico» che aveva colpito l’economia italiana dopo il 1907, aggravato dallo sforzo sostenuto per la conquista della Libia. Nel suo bilancio annuale, Bachi così riassumeva le condizioni dell’economia italiana nel 1913: «Dopo gli anni di baldanzosa ascesa e quelli di discesa artificialmente rallentata, seguono gli anni di raccoglimento preparatorio. Può accadere che questa fase sia alquanto più breve che altra volta; a differenza di quanto si presentava vent’anni fa, il meccanismo economico dell’Italia è fondamentalmente irrobustito, resistente: l’intensa attività economica degli anni 18991907 ha lasciato tracce rovinose, ma ha anche lasciato una impal-
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catura più complessa, un organismo meglio atto a una futura ripresa, e, soprattutto, una schiera di uomini fatti esperti dagli errori; gli istituti di emissione e alcune fra le grandi banche presentano una situazione salda, bene garantita, che non troppo risente della minacciosa condizione di alcune industrie; le finanze dello Stato – per quanto assai scosse – sono in una posizione per nulla comparabile a quella di venti anni fa. L’agricoltura – la più seria e vitale tra le forme di attività economiche in Italia – per quanto insufficientemente curata dal capitale privato e, nei riguardi del progresso tecnico, dallo Stato – è sensibilmente più redditizia che in passato, e ha visto in molte zone corrispondentemente elevarsi il valore del terreno, sebbene il suo progresso non possa paragonarsi a quello avvenuto nell’industria manifatturiera». Il rallentamento del ritmo di sviluppo fu particolarmente sensibile nell’industria tessile e nella meccanica, minore invece nelle industrie estrattive, chimiche, alimentari e metallurgiche. Queste ultime furono favorite, per quanto riguarda il settore della produzione bellica, dalla guerra di Libia e dall’aggravarsi della situazione europea dopo le guerre balcaniche. Le conseguenze della crisi economica nel settore industriale, dovuta essenzialmente alla limitazione del mercato interno e alla difficoltà di reperire adeguate fonti di finanziamento, furono in parte compensate dall’incremento della produzione agricola, che determinò un aumento delle esportazioni e una riduzione del deficit della bilancia commerciale. Il bilancio dello Stato, tuttavia, si chiuse nuovamente, nell’esercizio finanziario 1912-1913, con un disavanzo di 556 milioni, attribuibile in gran parte alle spese sostenute per l’impresa coloniale. Gli effetti di questa riduzione del ritmo di sviluppo, accentuata nella crisi del 1913, furono notevoli soprattutto nel campo sociale: un dato significativo è quello degli espatri, che nel 1913 toccarono la punta massima di 872.588 unità rispetto ai 711.446 del 1912 e i 533.844 emigranti del 1911, provenienti in prevalenza dai ceti operai e artigiani Le difficoltà della situazione economica contribuirono a rendere più agitata la vita sociale e politica nel paese e meno efficace l’azione politica di Giolitti per adattare il suo sistema ai mutamenti in atto. La guerra di Libia, l’aumento della disoccupazione e del caroviveri, la maggiore capacità di resistenza e di reazione dimostrata dalla classe padronale avevano risvegliato i sentimenti di
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rivolta fra le masse, sulle quali il riformismo aveva sempre meno influenza, mentre si diffondevano e si affermavano i metodi e le idee di un rivoluzionarismo di tipo nuovo che avrebbe definitivamente sconfitto l’egemonia riformista nel partito socialista ed eliminato, di conseguenza, una delle principali condizioni per la sopravvivenza del sistema giolittiano. 3. I rivoluzionari alla guida del partito socialista Gli anni dal 1908 al 1912 – anno in cui fu tenuto il XIII congresso nazionale – furono un periodo di dibattito e di crisi all’interno del partito socialista. La conquista della direzione da parte dei riformisti, nel congresso di Firenze, non era riuscita a rivitalizzare il partito con una politica unitaria e autonoma nei confronti del compromesso giolittiano, dopo i mutamenti sociali e politici sopravvenuti negli anni intorno alla guerra di Libia. La polemica nel movimento socialista verteva principalmente sulla spinosa questione dei rapporti fra il gruppo parlamentare e il governo, rapporti che erano stati contrassegnati dal «ministerialismo» manifestato, in diverse occasioni, dalla corrente riformista. L’evoluzione dell’ala destra del riformismo – rappresentata da Bonomi e da Bissolati – verso posizioni teoriche di tipo laburista era giunta al punto di decretare la fine del ruolo politico autonomo del partito. Al congresso di Milano, nel 1910, Bissolati aveva esplicitamente chiesto di mutare i compiti e la funzione del partito socialista: «Io non credo che il Partito socialista abbia finito la sua funzione: credo però che debba trasformarsi. La sua composizione va mutata. Ma oggi, superata la fase della lotta per la libertà, il partito è un ramo secco, un organismo vecchio, che deve lasciare posto ai germogli della vita proletaria autentica [...] Deve venire il momento che la classe lavoratrice deve essa stessa formulare i suoi bisogni e tracciare la via del suo destino». Queste dichiarazioni, se da una parte esaltavano la funzione egemonica dei sindacati economici riformisti, dall’altra preparavano l’incondizionata adesione alla politica giolittiana, che si sarebbe concretata nel passaggio dal «ministerialismo» come possibilità, al «ministerialismo» come necessità di adesione e partecipazione al governo. La destra riformista confermò questa posizione nel XII congresso nazionale del partito, che si svolse a Modena dal 15 al 18 ottobre 1911.
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La convivenza di tendenze ideologiche così diverse all’interno del partito diventò impossibile dopo la guerra di Libia. I riformisti di destra aderirono o giustificarono l’impresa, ponendosi in contrasto con la maggioranza del partito, che ribadì la pregiudiziale anticolonialista del socialismo italiano. Nel congresso di Modena il riformismo di destra fu messo sotto accusa: il maggior imputato fu Bissolati, che aveva accettato di essere consultato dal re dopo le dimissioni di Luzzatti. I riformisti di sinistra, con una relazione di Treves, presero le distanze dalla destra, preparando in tal modo la sua espulsione dal partito. Fu facile per gli intransigenti intensificare gli attacchi contro la guida riformista, che portava, in pratica, alla liquidazione del partito non solo proponendo prospettive ideologiche di tipo laburista, ma nella stessa realtà dei fatti: la direzione riformista coincideva con una drastica diminuzione degli iscritti da 43.000 nel 1908 a 30.000 del 1911. Anche se non riuscì a sconfiggere il predominio riformista, confermato dai risultati del congresso di Modena, la nuova corrente rivoluzionaria, espressione della trasformazione alla base del partito e di nuove idee, uscì rafforzata dalla crisi del riformismo e preparata per la successione. Le decisioni conclusive, espresse in un ordine del giorno presentato da Turati e da Treves, sancirono comunque il passaggio del gruppo parlamentare socialista all’opposizione, perché – fu affermato – era assurdo «un sistematico ministerialismo del Gruppo Parlamentare», mentre mancava assolutamente «nella presente fase storica italiana, la possibilità di una partecipazione di socialisti – che intendono continuare ad essere considerati tali – al Governo borghese». La crisi del riformismo non era soltanto un problema interno del partito socialista, ma un aspetto sintomatico della crisi del sistema giolittiano, che nella fiducia o nel «neutralismo» dei socialisti riformisti aveva uno dei suoi più validi sostegni. I riformisti avevano accettato il compromesso giolittiano, pur senza giungere a una esplicita adesione, perché consideravano il giolittismo l’unica via per una progressiva democratizzazione dello Stato, ottenuta attraverso l’opera legislativa del governo borghese piuttosto che con le lotte di massa. Il «tradimento» consumato da Giolitti verso i riformisti, con la guerra di Libia, tolse qualsiasi giustificazione alla scelta filogiolittiana, che, del resto, non corrispondeva più all’orientamento della base sociale del par-
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tito. La combattività delle masse proletarie, che era stata indebolita dalla crisi economica del 1907 e dalla maggiore capacità di resistenza e di reazione del padronato, stava riacquistando vigore in conseguenza della guerra di Libia e delle ripercussioni economiche che questa ebbe. Come ha scritto Carocci, per «fronteggiare l’offensiva padronale, tra i nuclei più compatti della classe operaia, che fino allora erano stati prevalentemente riformisti e legati al sindacato, andarono rafforzandosi la tendenza intransigente e quella sindacalista rivoluzionaria. La classe fu più avanzata del sindacato. La corrente riformista del socialismo confermò di avere i suoi punti di forza non più tanto nei nuclei compatti della classe quanto nell’alone di consensi che riscuoteva fuori del partito, segnatamente fra i ceti medi. Si trattava di punti di forza numericamente consistenti, se si pensa che nel 1911, su circa quattro milioni e mezzo di lavoratori occupati nell’industria, oltre tre milioni erano di tipo artigianale, lavoranti a domicilio ecc. In sostanza, sebbene gli scioperi diminuissero numericamente rispetto agli anni immediatamente anteriori al 1908, il periodo compreso fra l’impresa libica e lo scoppio della guerra mondiale corrispose – non solo in Italia – a uno di quei casi nei quali il malessere economico non deprime ma radicalizza le masse». Le varie esigenze ideologiche e politiche che venivano emergendo dalla base socialista e, in particolar modo, dalle nuove generazioni formate da esperienze di cultura prevalentemente idealistiche e “vociane”, diverse da quelle della vecchia generazione di formazione positivista, furono espresse nel XIII congresso nazionale del partito socialista, tenuto a Reggio Emilia dal 7 al 10 luglio 1912. Nei mesi precedenti l’apertura del congresso si erano accentuati i contrasti e gli scontri fra rivoluzionari e riformisti, che riguardavano la tattica e la strategia del partito, le questioni politiche e quelle ideologiche. Apparvero nel dibattito, spesso violento, i temi di un nuovo intransigentismo che cercava di elaborare una coerente dottrina rivoluzionaria da contrapporre alla crisi del riformismo e alle insufficienze teoriche del socialismo positivista ed evoluzionista, che aveva portato, nelle sue forme più conseguenti, alle idee di Bonomi sulla liquidazione del partito. Giornali come «La Soffitta» di Costantino Lazzari e Giovanni Lerda, e l’«Avanguardia», organo della Federazione giovanile socialista, raccoglievano le diverse voci contrarie al riformismo e al giolitti-
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smo, e avversarie di qualsiasi forma di compromesso e di partecipazione a governi borghesi. La corrente rivoluzionaria, alla vigilia del congresso, era riuscita a conquistare la maggioranza in varie sezioni. La Federazione socialista di Forlì, capeggiata da Benito Mussolini, dopo essere uscita dal partito per protestare contro la salita di Bissolati al Quirinale, rientrava aderendo alle posizioni rivoluzionarie. E toccò a Mussolini, giovane socialista romagnolo, e astro nascente della nuova corrente rivoluzionaria, il compito di recitare la parte dell’accusatore contro il riformismo di Bonomi e di Bissolati e contro il parlamentarismo del partito socialista. A nome della frazione rivoluzionaria, egli chiese l’espulsione di Bonomi, Bissolati e Cabrini per aver reso omaggio al re dopo uno scampato attentato, e di Guido Podrecca per la sua approvazione all’impresa di Libia. Mussolini motivò la richiesta di espulsione con un’accesa ma serrata critica del parlamentarismo e della politica riformista, che aveva vanificato l’opera e l’azione del partito nei confronti del movimento sindacale: «Noi riteniamo che l’Italia per 50 anni almeno abbia bisogno di un partito socialista forte ed omogeneo, il quale [...] ha un compito preciso da assolvere: precipitare, decomporre cioè la caotica ed incoerente democrazia italiana urtandola ed assaltandola da ogni parte. Ecco perché ci presentiamo con una lista di proscrizione. Voi, deputati accusati aspettate da tempo la nostra esecuzione: per voi significa liberazione. Sciolti da ogni impaccio formale, e da ogni vincolo morale, voi potrete più speditamente proseguire il vostro cammino. In fondo non vi troverete la voragine ardente, ma la scala fiorita del potere. Noi abbiamo un preciso dovere: quello d’abbandonarvi sin d’ora al vostro destino. Bissolati, Cabrini, Bonomi e gli altri aspettanti possono andare al Quirinale, anche al Vaticano, se vogliono, ma il Partito socialista dichiari che non è disposto a seguirli né oggi, né domani, né mai». Gli accusati risposero accusando a loro volta sia i rivoluzionari che i turatiani. Bonomi rivendicò la coerenza della sua politica, che svolgeva logicamente i presupposti del riformismo contro le impennate rivoluzionarie. Per Bonomi, non si trattava di casi personali ma dello scontro inevitabile fra due concezioni contrapposte: «La crisi proviene da questo: che le due concezioni, la concezione riformistica e quella rivoluzionaria, che si sono sempre contese la preminenza nel partito e si sono sempre combattute tra loro in tutti i
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congressi sono state così rapidamente sospinte dagli avvenimenti esteriori alle loro estreme e logiche conseguenze, che si sente già avvicinarsi l’ora del loro distacco. Da una parte il riformismo, nel suo sviluppo logico senza esitazioni sentimentali, ha generato Bissolati e i riformisti di destra che voi vi affrettate ad espellere; dall’altra parte il rivoluzionarismo, dalle affermazioni puramente verbali dell’antico ferrismo, attraverso il pessimismo sconsolato di Costantino Lazzari, ha raggiunto la forma acuta, di cui è stato esponente qui il Mussolini, avanguardia estrema della sinistra. Cosicché le due concezioni che un tempo hanno potuto convergere e coesistere insieme, si sono andate paralizzando verso i due poli estremi – non creati dalla volontà nostra, ma creati dall’ambiente e dalle cose – talché si sente, per la prima volta minacciata l’unità del partito». Turati respinse la manovra di Bonomi e di Bissolati per coinvolgerlo nella loro polemica, rifiutando di vedere assimilate le sue alle loro idee e alla loro azione; egli negò decisamente «il collaborazionismo eretto a sistema», confermando d’essere «unitario e... riformista, perché voglio rimanere socialista»; respinse i tentativi di spaccare il partito fra riformisti e rivoluzionari perché, disse Turati, «in Italia non v’è posto, oggi, per due partiti socialisti. Se riusciste ad opporre al socialismo degl’ideali quello degli interessi, a creare un partito laburista (ed è un’illusione: la nostra organizzazione operaia ha il sindacalismo alle calcagna, e questo ci salva!), avreste fatto insieme il danno nostro ed il vostro. Non farete che un partito di candidati; non socialista abbastanza per avere le masse, troppo democratico per non dar ombra all’ombra di ciò che fu democrazia, non foss’altro per gelosia dei Collegi. Avrete tutti gli arrivisti [...]; sarà il vostro castigo. E avrete indebolito noi, riformisti fedeli al Partito, che già, per l’antica solidarietà, siamo dei sospetti, quasi dei sottoposti a vigilanza speciale». Nella votazione conclusiva, l’ordine del giorno di Mussolini ottenne la maggioranza. La direzione del partito passò, quindi, ai rivoluzionari. Lazzari fu eletto segretario, mentre gli espulsi diedero vita ad un partito socialista riformista italiano che, inserito nel sistema parlamentare, diventò un «partito di candidati» privo di un seguito di massa. Mussolini – che si era affermato nel congresso con un successo personale come esponente di maggior prestigio nella nuova frazione rivoluzionaria – ebbe nel novembre la direzione dell’«Avanti!».
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La vittoria della frazione rivoluzionaria non fu soltanto la sconfitta del riformismo di Bonomi e di Bissolati ma anche il superamento del riformismo di Turati, che, pur restando nel partito, non riuscì più a condizionare e a ispirare la sua politica: «Il Congresso di Reggio – ha scritto Leo Valiani – segnò la fine della prevalenza del riformismo turatiano nel socialismo italiano. Pur con le interruzioni del 1897-1899 e del 1904-1906, quando cioè fu alla ribalta l’intransigenza più formale che di sostanza di Enrico Ferri, Filippo Turati era stato per venti anni alla guida del partito socialista. Egli ne aveva fatto un grande partito democratico parlamentare, basato su forti sindacati operai di categoria, capace di conquistare importanti riforme sociali. Anche quando nelle sezioni del partito prevalevano, in molte località, gli intransigenti, nel gruppo parlamentare, rappresentante un numero di elettori molto maggiore di quello dei tesserati, fra gli eletti ai consigli comunali e provinciali, nelle direzioni sindacali, nelle cooperative, i partigiani del socialismo democratico turatiano erano abitualmente in maggioranza». Dopo Reggio Emilia, il partito socialista prese una strada nuova – da cui non sarebbe più tornato indietro – che lo allontanava da qualsiasi forma di compromesso con il governo borghese, in una direzione decisamente ostile alla politica giolittiana. La vittoria degli intransigenti fu qualcosa di inedito, e non poteva essere ricollegata al vecchio rivoluzionarismo di tipo ferriano. Era una svolta che esprimeva non soltanto una protesta contro il riformismo e il sistema giolittiano, secondo le formule suggestive ma generiche dell’intransigentismo tradizionale; e neppure costituiva una rinascenza di posizioni sovversive di tipo operaista o anarchicheggiante: il nuovo rivoluzionarismo nasceva dalla volontà politica di ridare al partito il primato nella direzione del movimento dei lavoratori, con la formazione di un’organizzazione unitaria e centralizzata, retta da una salda disciplina e da un gruppo dirigente rivoluzionario alieno da tendenze ministeriali e adatto a guidare il partito nelle lotte che si annunciavano più dure contro lo Stato borghese e la reazione delle classi padronali. La vittoria dei rivoluzionari era il risultato, oltre che dei contrasti interni al partito socialista, anche dello stato di malessere e di rivolta che animava le masse proletarie, colpite dagli effetti del ristagno economico seguito alla crisi del 1907 e aggravato dalla nuova
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crisi del 1913. Dopo il 1911 la relativa tregua sociale conseguita dalla politica giolittiana era finita e nell’anno successivo andò rianimandosi vivacemente la lotta sindacale. Fu un’annata significativa per vari aspetti, nazionali e locali; il sistema giolittiano, mentre per un verso sembrava raggiungere le mete più alte tanto in politica interna quanto in quella estera, rivelava sempre più l’esilità del suo equilibrio parlamentare. E se la ricerca di nuove basi popolari attraverso nuove alleanze sembrò risolvere la questione fondamentale della stabilità, lasciò tuttavia irrisolti grossi problemi economico-sociali. Come ha osservato Abrate, il «rallentamento nel ritmo dello sviluppo industriale, concordemente segnalato dopo il 1908, metteva in pericolo quelle che, nelle intenzioni, avrebbero potuto costituire le basi del connubio giolittiano-socialista, una politica di alti salari congiunta al suffragio universale. Nella stessa politica economica, si osservavano sintomi di incipiente nazionalismo, incoraggiato da forze padronali e riformistiche, alle quali non sembrava vero di potere scorgere nell’attuazione di un più deciso protezionismo, e soprattutto nell’imposizione del principio del ‘prodotto nazionale’, una soluzione anche solo temporanea alle crescenti difficoltà dell’espansione industriale». Nel 1911 nacque la prima concentrazione industriale, il trust siderurgico, mentre fra gli industriali prevalevano le intese per organizzarsi e contrastare con una politica unitaria le rivendicazioni operaie. La crescente tensione sociale è dimostrata sia dall’aumento degli scioperi, che nel 1910 da 1.118 con 187.021 partecipanti salirono, nel 1911, a 1.255 con 385.591 scioperanti, sia dalla ripresa della corrente sindacalista rivoluzionaria, che alcuni mesi dopo il congresso di Reggio Emilia, diede vita, nel congresso tenuto a Modena nel novembre 1912, all’Unione sindacale italiana (USI), contrapposta alla CGdL. Le tensioni e lo stato di malessere crescente nelle masse diffusero un sentimento di sfiducia verso la CGdL, che vide diminuire i suoi iscritti da 383.770 nel 1911 a 309.871 nel 1912, mentre nel 1913 l’USI, capeggiata da Filippo Corridoni e Alceste De Ambris, raggiunse i 150.000 iscritti. I conflitti di lavoro, particolarmente acuti dopo il 1911 e nel 1912 (come lo sciopero dei metallurgici di Piombino e dell’Elba e quello degli operai automobilistici di Torino – entrambi diretti da sindacalisti rivoluzionari ed entrambi finiti con la sconfitta dei lavoratori – che si trovarono a lottare per mesi contro la serrata delle for-
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ze padronali) divennero più gravi nel 1913, provocando nuovi eccidi negli scontri con la forza pubblica. Nel gennaio, a Roccagorga, in uno scontro fra manifestanti e forza pubblica, furono uccise 7 persone. Dalle pagine dell’«Avanti!» il nuovo direttore rivoluzionario accese una violenta campagna antigovernativa che culminò nello sciopero generale di Napoli, il 3 febbraio. La nuova tendenza rivoluzionaria, espressa da Mussolini e riconfermata con successo dal XIV congresso del PSI, tenuto ad Ancona dal 26 al 29 aprile 1914, voleva sfruttare qualsiasi occasione per accentuare il carattere antigovernativo e antisistema del partito socialista; per affermare una nuova strategia sovversiva particolarmente sensibile agli umori delle masse; per combattere nella lotta politica secondo i principi di un rivoluzionarismo unitario e intransigente il cui scopo immediato era la liquidazione del giolittismo.
4. Il patto Gentiloni e le elezioni del 1913 Il 26 settembre il Consiglio dei ministri sottopose alla firma del re il decreto di scioglimento della Camera eletta nel 1909. Le elezioni furono fissate per il 26 ottobre. Erano le prime elezioni con suffragio maschile allargato e interessavano oltre 8 milioni di votanti. Giolitti si presentava al paese con due successi politici, la conquista della Libia e la concessione del suffragio, ma per il futuro il suo programma restava generico, non volendo forse impegnarsi troppo prima d’aver conosciuto l’esito di una consultazione che coinvolgeva nuove masse e comportava, di conseguenza, una minore possibilità di manovra e di controllo. Tuttavia, la tensione sociale e la minaccia del socialismo rivoluzionario spingevano il governo a orientarsi verso i moderati e i conservatori per garantire al governo una maggioranza. Come nel 1904 e nel 1909, i liberali trovarono alleati nei cattolici moderati. Questa volta l’operazione non fu locale né personale: sollecitata dall’una e dall’altra parte, fu preparata sulla base di accordi elettorali, stabiliti secondo alcuni principi formulati dal conte Vincenzo Ottorino Gentiloni, presidente dal 1909 dell’Unione elettorale cattolica. Gentiloni apparteneva all’ala moderata del movimento cattolico ed esprimeva l’esigenza dei cattolici di partecipare al confronto elettorale che coinvolgeva milioni di italiani, senza deflettere dalla linea tenuta fino a quel mo-
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mento, senza organizzarsi cioè in un partito politico. Agiva, inoltre, in favore dell’intesa, la preoccupazione di contenere l’avanzata della sinistra radicale e socialista, massonica e anticlericale. La partecipazione dei cattolici alle elezioni appariva, sotto molti aspetti, necessaria e tale da non poter essere affidata soltanto a particolari circostanze o a situazioni contingenti. Per questo, anche se non è esistito un vero e proprio «patto» ufficiale, per così dire, ci fu nei fatti una alleanza fra i cattolici e i liberali conservatori, i quali accettarono l’appoggio cattolico offerto sulla base di sette punti, che i candidati dovevano sottoscrivere per avere il voto dei cattolici. I punti erano i seguenti: «1) Difesa delle istituzioni statutarie e delle garanzie date dagli ordinamenti costituzionali alla libertà di coscienza e di associazione, e quindi opposizione anche ad ogni proposta di legge in odio alle congregazioni religiose e che, comunque, tendessero a turbare la pace religiosa della nazione. 2) Svolgimento della legislazione scolastica, secondo il criterio che, con maggiore incremento della scuola pubblica, non siano fatte condizioni che intralcino o screditino l’opera dell’insegnamento privato, fattore importante di diffusione e di elevazione della cultura nazionale. 3) Sottrarre ad ogni incertezza ed arbitrio e munire di forme giuridiche e di garanzie pratiche ed efficaci il diritto dei padri di famiglia di avere per i propri figli una seria istruzione religiosa nelle scuole pubbliche. 4) Resistere ad ogni tentativo di indebolire l’unità della famiglia e quindi assoluta opposizione al divorzio. 5) Riconoscere agli effetti della rappresentanza nei Consigli di Stato, il diritto di parità alle organizzazioni economiche e sociali, indipendentemente dai principi sociali e religiosi ai quali esse si ispirino. 6) Riforma graduale e continua degli ordinamenti tributari e degli istituti giuridici nel senso di una sempre migliore applicazione dei principi di giustizia nei rapporti sociali. 7) Appoggiare una politica che tenda a conservare e rinvigorire le forze economiche e morali del paese, volgendole ad un progressivo incremento dell’influenza italiana nello sviluppo della civiltà internazionale». Il candidato che intendeva ricevere il voto dei cattolici, doveva sottoscrivere queste condizioni in una sua dichiarazione da rilasciare ai comitati elettorali dell’Unione, «con facoltà di eventuale pubblicazione» oppure essere poste «esplicitamente nel programma del candidato stesso». Il patto Gentiloni, dunque, era indirizzato a far convergere su deputati liberali e della maggioranza
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giolittiana i voti cattolici; fu, perciò, come ha osservato De Rosa, «un patto sostanzialmente trasformista perché, sotto la paura del socialismo, dette al liberalismo moderato una forza che esso non aveva in realtà». Per agevolare questa operazione, il non expedit venne sospeso in 330 collegi, facilitando così la partecipazione dei cattolici alle elezioni, in misura superiore a quella del 1909. I risultati elettorali confermarono la vittoria della maggioranza moderata, ma ci fu anche una considerevole avanzata delle sinistre e un successo della destra nazionalista. La maggioranza liberale ebbe 304 deputati, i cattolici – che avevano presentato 48 candidati propri – ebbero 20 deputati; i nazionalisti 6. La sinistra – socialisti, socialisti riformisti, radicali e repubblicani – ebbe complessivamente 169 deputati rispetto ai 115 della Camera precedente. Fra i socialisti indipendenti furono eletti anche 2 sindacalisti rivoluzionari, De Ambris e Labriola. Il patto fra moderati cattolici e liberali aveva dato i suoi frutti, ma suscitò altresì numerose polemiche, sia in campo liberale che nel mondo cattolico. Chi era fedele a un liberalismo intransigente e puro nei princìpi, come il «Corriere della Sera», giudicò negativamente questa operazione trasformista, che invalidava il valore delle elezioni di molti deputati liberali, perché questi avevano condizionato la loro libertà vincolandosi a un patto che alterava lo spirito liberale e laico della classe dirigente. Chi, invece, guardava al futuro politico dei cattolici attendendo il momento opportuno per una loro organizzazione nuova, autonoma e democratica, come Sturzo, non poteva approvare una operazione che rinviava la possibilità di questa organizzazione, mentre portava i voti cattolici a sostegno del conservatorismo liberale e del giolittismo. Da parte vaticana, la soddisfazione era notevole: «Sono 228 – scriveva l’“Osservatore romano” all’indomani delle elezioni – i candidati che hanno ottenuto l’appoggio dei voti dei cattolici italiani [...] sono oltre cento i candidati socialisti o repubblicani che di fronte ad essi sono rimasti soccombenti, e che senza l’intervento dei cattolici sarebbero probabilmente, per non dire sicuramente, andati ad ingrossare la schiera, già sensibilmente aumentata, dei partiti sovversivi». Lo stesso Gentiloni esaltò il significato e i risultati del patto, provocando, con un’intervista al «Giornale d’Italia» dell’8 novembre, numerose polemiche, e mettendo in imbarazzo sia i deputati liberali che avevano accettato il patto, sia lo stesso Giolitti,
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il quale, in apertura della nuova legislatura, dovette riaffermare alla Camera la laicità e la sovranità dello Stato «che è il solo rappresentante dell’universalità dei cittadini» e «non può ammettere limitazione alcuna della sua sovranità». I deputati che avevano accettato le condizioni del patto, disse Giolitti, non erano veri liberali. Le dichiarazioni di Giolitti non valsero a dissipare le polemiche e la convinzione che, con l’alleanza clerico-moderata e liberale, si era consumata una ennesima operazione trasformista giolittiana. Ancora una volta, tuttavia, Giolitti sembrava uscire trionfatore dalla confusione delle forze politiche: «Gli è, onorevoli colleghi – disse il neodeputato socialista di Genova Orazio Raimondo il 6 dicembre alla Camera – che noi, all’ombra della bandiera democratica, siamo insensibilmente arrivati a un regime, absit iniuria verbis, ad un regime di dittatura. L’onorevole Giolitti ha fatto quattro volte le elezioni: nel 1892, nel 1904, nel 1909 e nel 1913. Inoltre, nella sua lunga carriera parlamentare, l’on. Giolitti ha nominato quasi tutti i senatori, quasi tutti i consiglieri di Stato, tutti i prefetti e tutte le alte cariche che esistono nella gerarchia amministrativa, giudiziaria, politica e militare del nostro paese. Con questa terribile potenza sua (reciti un po’ ciascuno di noi il mea culpa) egli ha fatto opera d’aggruppamento di partiti mediante riforme, ed opera d’aggruppamento d’individui, mediante attenzioni personali [...] Così, si arriva in pratica all’annullamento delle istituzioni parlamentari, all’annientamento dei partiti, al confusionismo, ad un trasformismo che non ha più, non solo una scusa, ma neanche un’attenuante». Qualcosa, tuttavia, era mutato anche nella situazione parlamentare, piccolo ma significativo riflesso di una trasformazione in atto nella società italiana attraverso un processo che andava oltre i sistemi parlamentari e i metodi di governo. Lo avvertì Labriola, parlando alla Camera il 9 dicembre, dove fece una esatta diagnosi dei sintomi che stavano corrodendo il sistema giolittiano: «la situazione giolittiana, che spiegò la sua lunga permanenza al potere, ora non c’è più. Queste elezioni hanno tutto rimutato»; forze nuove erano entrate in parlamento, esprimenti aspirazioni e tendenze nuove della società: il nazionalismo, i socialisti eletti nel Mezzogiorno, il socialismo rivoluzionario. Vi era una situazione nuova nel paese, dopo la crisi economica e la guerra di Libia: «Ora questa nuova situazione non è di quelle, onorevole Giolitti, che el-
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la possa più dominare con i suoi criteri. Il paese le è cresciuto sotto mano, le è scappato di tutela, parla un nuovo linguaggio, e perciò me lo lasci stare. Situazione novella, politica novella, uomini nuovi». Il sistema giolittiano, che era parso eterno, rivelava la sua fragilità di fondo: sistema di governo adatto alle circostanze economiche favorevoli, entrava in crisi appena la congiuntura mutava, la crisi economica si aggravava, le forze sociali entravano in conflitto senza possibilità di mediazione o di compromessi indolori, resi tollerabili dalla prosperità generale: «Predicare la pace e l’accordo delle classi è facile in questi frangenti. Ella parve un vittorioso, onorevole Giolitti. Poco merito suo: il paese progrediva, le rimunerazioni capitalistiche crescevano e v’era margine per un miglior trattamento degli operai». Ora, «l’astro favorevole si è spento, la costellazione è mutata, la congiuntura si è capovolta [...] La crisi passa dal mercato al parlamento. Avevate creata una situazione che credevate stabile. Dove sta più questa situazione? Ciò che si urta fuori, si urta anche qui dentro. La vostra grande maggioranza partiva dai cattolici e giungeva ai socialisti. Ecco che a mano a mano voi perdete per via qualcuna delle vostre penne maestre». I socialisti avevano abbandonato il ministerialismo; i radicali, ora, indugiavano dubbiosi; i costituzionali guardavano altrove: «La maggioranza, l’ideale maggioranza giolittiana è già morta». L’esplosione del fenomeno imperialista aveva mutato la società italiana e messo in moto forze rimaste a lungo inerti, incompatibili con qualsiasi demiurgica soluzione di compromesso: «Noi siamo all’urto democratico di tutti gli elementi politici. Il giolittismo diviene una superfluità. Esiste un’Italia cattolica, esiste un’Italia socialista, esiste un’Italia imperialista: non esiste un’Italia giolittiana. L’Italia giolittiana è una mediocre combinazione parlamentare, nata fra i corridoi e l’aula, buona soltanto ad impedire, incapace di creare. Questa Italia deve sparire». La diagnosi di Labriola era, nella sostanza, esatta: imperialismo nazionalista e rivoluzionarismo socialista costituivano l’avanguardia di due tendenze nuove nella società e nella vita politica italiana, che agivano nel profondo e in sintonia con le trasformazioni della società europea verso forme di più aggressivo imperialismo e di intransigente rivoluzionalismo, per modificare le condizioni della lotta politica e i rapporti fra le classi. Il giolittismo non era più un efficiente sistema aggregatore di gruppi politici, di
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destra e di sinistra, attorno a un centro mobile, che garantiva un equilibrio stabile ma non duraturo. Come ha scritto Valeri nel saggio introduttivo ai discorsi extraparlamentari dello statista piemontese, «la politica di Giolitti, a partire dall’avvento del nazionalismo e del sindacalismo rivoluzionario, non appare più semplicemente una serie casuale di errori tattici o tecnici, culminati con la sconfitta subita ad opera della minoranza interventista, ma come l’inevitabile decadenza di chi nella nuova temperie restava il principale interprete e simbolo di un mondo che stava scomparendo. Come tale, egli aveva avuto il suo fiore nei primi anni del secolo, e ora non rappresentava che una forte, pugnace, ma già declinante sopravvivenza di quel passato, illuminato sovente da lampi geniali, ma non più incidente efficacemente nel processo dei tempi. Giolitti divenne, in certo modo, un sopravvissuto, e conservò l’animo della sua giovinezza; e ripete i procedimenti che allora gli erano valsi il successo, mentre potevano giovare solo a ritardare la nuova ondata d’interessi e di passioni». In effetti, anche se nei successivi dibattiti parlamentari Giolitti uscì ancora vincitore, la sorte del suo sistema politico era segnata. Al termine delle discussioni alla Camera della nuova legislatura, il governo Giolitti ottenne nuovamente la fiducia, con 362 voti favorevoli e 90 voti contrari dei socialisti, dei repubblicani e di alcuni radicali. Anche fra i radicali, infatti, si acuiva il bisogno di distaccarsi dalla soggezione al giolittismo. Nel congresso nazionale tenuto a Roma dal 31 gennaio al 2 febbraio 1914, il partito radicale decise di passare all’opposizione, per protesta contro il patto Gentiloni e la persistente politica protezionista di Giolitti. Il gruppo parlamentare e i ministri radicali non diedero, tuttavia, esecuzione immediata ai deliberati della direzione del partito. Le conclusioni del congresso radicale erano la manifestazione di un disagio vivissimo all’interno del radicalismo e del partito, coinvolto nel sistema giolittiano fino al punto di perdere quasi del tutto la sua identità, diluendosi in un generico democraticismo che quasi svaniva di fronte al più agguerrito movimento socialista. Durante il decennio giolittiano, abbandonata la pregiudiziale antimonarchica, il partito radicale, ha scritto Brunello Vigezzi, era diventato «sempre più ‘partito di realizzazione’, e ‘democrazia di governo’: e però perdeva così i suoi connotati più precisi, la sua fisionomia particolare, o almeno li celava in una prudente
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ambiguità che gli era del resto permessa e suggerita dalla situazione circostante». Ora che il sistema giolittiano apriva le porte della sua maggioranza anche ai cattolici moderati, ma si dimostrava inadeguato a comprendere e a fronteggiare i fermenti, le aspirazioni, le trasformazioni della società civile e politica, i radicali erano spinti a ricercare una funzione nuova e autonoma, a riconquistare la propria libertà di azione come partito democratico, laico, progressivo (non privo anche di qualche nuova suggestione nazionalisteggiante, che lo rendeva maggiormente sensibile ai problemi della mobilitazione delle masse). Un partito radicale rinnovato e autonomo avrebbe potuto avere una sua specifica funzione nell’ambito delle nuove forze politiche, un ruolo determinante nel futuro del paese come partito egemonico di una «sana democrazia», aliena da estremismi e da nostalgie conservatrici, e rivolta principalmente a dare una organizzazione politica ai ceti medi laici e patriottici. E toccò proprio ai radicali decretare la fine del quarto ministero Giolitti, l’ultimo dell’età giolittiana. Il 4 marzo, infatti, i ministri radicali – forse per suggerimento o, comunque, senza incontrare opposizione da parte di Giolitti – abbandonarono il governo, offrendo a Giolitti l’occasione per presentare al re le dimissioni. Nell’intenzione di Giolitti, le dimissioni non provocate da un voto di sfiducia dovevano, come era accaduto per casi analoghi in passato, permettergli di preparare il ritorno in una Camera nuova, appena eletta e, perciò, meno propensa a sottomettersi alla sua egemonia. In tal senso, egli designò come successore un rappresentante della destra liberale, Antonio Salandra. Il governo Salandra, nel disegno giolittiano, avrebbe dovuto essere una sorta di governo interinale, retto da un conservatore, che avrebbe permesso, in tempi più o meno prossimi, il suo ritorno al potere come uomo di sinistra. Lo stesso Giolitti, nelle sue memorie, ha spiegato i motivi delle sue dimissioni: «Ogni Camera nuova è sempre irrequieta ed ha il bisogno, alle volte salutare, di provocare una crisi. La spinta alla crisi, in quella occasione, venne dai radicali, nel cui gruppo, pure notevolmente accresciuto, si manifestò un movimento di fronda contro i propri rappresentanti al governo, e la direzione del partito deliberò di passare all’opposizione. Il distacco dei radicali dalla maggioranza, che metteva la coalizione di Sinistra nella condizione di non poter reggere un governo, portava logicamente a che il pote-
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re passasse a quegli che si presentava come il capo dei gruppi di Destra. Il gruppo che per tanti anni aveva fatto capo all’onorevole Sonnino, si era disciolto dopo la guerra di Libia, constatando che le ragioni che lo avevano tenuto unito in un programma generale, erano ormai venute meno, i suoi componenti riprendendo piena libertà di azione; in seguito a ciò la persona più in vista era il Salandra, che effettivamente fu indicato al Re da me e dalla maggioranza delle persone consultate. Il Salandra venne da me perché l’aiutassi a comporre il nuovo ministero, e soprattutto perché persuadessi il San Giuliano a rimanere come ministro degli Esteri; al che il San Giuliano opponeva molta resistenza, non inducendosi ad accettare se non dopo che io lo ebbi vivamente pregato di farlo, per la continuità della politica estera, che in quegli anni aveva avuta una così essenziale importanza anche per l’Italia. Il nuovo ministero, appena insediato dovette affrontare alcune difficoltà, fra cui una specie di agitazione semianarchica nell’Italia centrale [la «settimana rossa» nel giugno 1914] ed uno sciopero parziale di ferrovieri, ciò che il Salandra fece con grande fermezza, senza precipitare a misure di reazione, cercando di contemperare le proprie tendenze conservatrici con la pratica liberale ormai compenetrata nella vita del paese».
5. Il governo Salandra e la «settimana rossa» Antonio Salandra, esponente di primo piano della destra liberale meridionale, già vicino a Sonnino ma negli ultimi tempi accostatosi alla maggioranza giolittiana, era tutt’altro che un luogotenente: una forte personalità politica, che univa alla competenza dottrinale una esperta pratica della vita parlamentare, mossa dall’ambizione di affermare una propria visione politica, come organizzatore e teorico di un nuovo partito liberale. Legato agli uomini sopravvissuti della vecchia Destra ma abbastanza abile da non confondersi con essi, Salandra aveva una concezione dinamica del conservatorismo, attraverso il quale ristabilire saldamente l’egemonia della borghesia liberale dopo un decennio di esperimenti democratici. Egli aveva fiducia nella vitalità del partito liberale e nella sua capacità di riconquistare unità ed energia, nell’ambito del nuovo mondo politico in cui si affermavano forze nuove di si-
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nistra e di destra: «il compito del partito liberale non è ancora esaurito. I gruppi multiformi – perché s’intenda ora, di Estrema – che, per darsi un nome comune, si chiamano popolari, non hanno ancora un contenuto concreto, né dispongono finora di tale forza e di tale educazione politica da svolgere sicuramente la loro azione nel campo del reale e del possibile. Coloro che non osano chiamarsi cattolici, non hanno ancora mostrato in che modo essi intenderebbero superare le antinomie logiche fra la immutabile dottrina cattolica e il pensiero moderno, che è l’anima, come pensava lo Spaventa, dello Stato moderno e le antinomie storiche tra la Curia romana e lo Stato italiano. Restano, per ora, soli possibili i liberali, conservatori e progressisti a un tempo e travagliati dall’intima contraddizione dalla quale non si possono affrancare, che è gloria e tormento loro e condizione necessaria della loro stessa esistenza. Per mezzo secolo essi hanno retto le sorti dello Stato; e dovranno durare ancora per altro tempo, fino a quando il loro fato non sarà compiuto». Così scriveva Salandra in una raccolta di scritti e discorsi La politica nazionale e il partito liberale – pubblicata tempestivamente nel 1912 come manifesto programmatico di un candidato alla guida del paese – che costituiva, in forme aggiornate, un proseguimento del programma sonniniano di organizzare al centro e al vertice del potere un moderno partito liberale. Salandra non dubitava sulla necessità, per la borghesia liberale, di riordinare le proprie forze; egli era convinto che l’egemonia borghese fosse, per molto tempo ancora, insostituibile. Il liberalismo di Salandra, in sostanza, costituiva non una prosecuzione a breve termine del giolittismo ma una vera alternativa a questo sistema, un’alternativa ispirata all’idea dello Stato forte, e affatto contraria alla fiducia giolittiana nel progresso risultante dallo sviluppo spontaneo delle forze sociali e dall’ascesa autonoma delle classi popolari. Ma, per molti aspetti, l’alternativa di Salandra, come ha osservato Franco De Felice, era «anche più complessa e più consapevole in quanto realmente egemonica nella borghesia italiana. Per questo la costituzione del ministero Salandra rappresenta un momento fondamentale nella storia italiana e segna la fine dell’età giolittiana». Salandra, infatti, era convinto che il liberalismo fosse ancora ricco di vitalità e, per questo, non era necessitato, come riteneva Giolitti, a cercare collaborazioni al di fuori del suo ordine ideale
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e politico, fra le forze democratiche. Mantenendo ferma l’incompatibilità fra liberalismo e socialismo, e la distinzione fra liberalismo e democraticismo, Salandra intendeva restituire alla borghesia liberale il ruolo di classe dirigente, che identificava nello Stato risorgimentale il quadro ideale di riferimento, in nome di una nuova politica nazionale che avrebbe posto fine al connubio fra liberalismo e democrazia, praticato per un decennio da Giolitti, trovando nuovi alleati fra i cattolici e i nazionalisti. Il nuovo governo, entrato in carica il 21 marzo 1914, era formato, in gran parte, da conservatori ed era completamente rinnovato rispetto al precedente ministero giolittiano, ad eccezione del ministro degli Esteri San Giuliano. La maggioranza che lo sosteneva era composita e comprendeva giolittiani, cattolici, nazionalisti. Esteriormente, il governo poteva sembrare una nuova edizione di ministero «luogotenenziale», suggerito da Giolitti per predisporre le condizioni di un suo ritorno alla presidenza del Consiglio. Con la costituzione del governo Salandra, invece, iniziò un processo di trasformazione dei tradizionali rapporti di forze, perché la politica di Salandra ambiva a presentarsi come nuova formula di governo, i cui esiti sarebbero stati rivolti alla eliminazione dell’egemonia giolittiana nella politica italiana. Il governo Salandra fu messo presto alla prova da nuove agitazioni sindacali dei ferrovieri e, soprattutto, dai drammatici avvenimenti del giugno 1914, noti come «settimana rossa», allorché l’Italia sembrò ritornare alla situazione di fine secolo. Il 7 giugno, in occasione della festa dello Statuto, una manifestazione antimilitarista organizzata ad Ancona da repubblicani e anarchici si concluse in uno scontro fra forze di polizia e dimostranti, fra i quali si ebbero due morti e un ferito grave. La notizia si diffuse rapidamente e servì a mobilitare tutto il vario sovversivismo italiano e le organizzazioni socialiste, sindacaliste, repubblicane e anarchiche. La CGdL proclamò uno sciopero generale, seguito da violente manifestazioni di massa nelle principali città dell’Italia settentrionale e centrale. Per una settimana gran parte dell’Italia sembrava diventata un campo di lotta rivoluzionaria: in molti comuni fu proclamata la repubblica, furono assaltati e devastati edifici governativi e chiese, sabotate le linee di comunicazione: in un paese della Romagna fu catturato persino un generale con sei ufficiali. I numerosi scontri fra i rivoltosi e la forza pubblica finirono con un
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bilancio di una decina di morti e numerosi feriti. Le manifestazioni furono particolarmente violente in Romagna, dove erano alimentate da una lunga tradizione sovversiva: «Ciò che dette allo sciopero in Romagna il carattere di rivolta – ha scritto Luigi Lotti – fu, oltre alla gravità dei vandalismi, la finalità che mosse gli scioperanti: l’instaurazione della repubblica. Finalità che è ben manifestata nei vandalismi stessi, proprio da essa provocati: che infatti gli edifici colpiti furono quelli ai quali per un motivo o per l’altro si collegava l’idea dell’oppressione. E fu proprio quella finalità, che altrove mancava o per lo meno non esisteva con pari passionalità e un pari ardore, a dare allo sciopero in Romagna un’impronta uniforme e caratteristica, diversa dalle altre regioni». I socialisti si divisero nel giudizio sugli avvenimenti: i riformisti turatiani, pur accusando la repressione governativa, furono molto duri nel condannare la violenza sovversiva come «teppismo», mentre i socialisti rivoluzionari e Mussolini in particolare, che nel congresso nazionale di Ancona aveva consolidato il suo successo, esaltarono le agitazioni che sembravano confermare la validità della nuova politica rivoluzionaria sostenuta dal partito socialista. Tuttavia, due giorni dopo la proclamazione dello sciopero generale, la CGdL lo revocò e la decisione, condannata dai socialisti e dai sindacalisti rivoluzionari, se non impedì l’espansione delle agitazioni locali, certamente favorì l’estinzione della rivolta. Le polemiche fra le varie componenti del movimento operaio e la prevalenza di tendenze anarchiche e repubblicane fra i rivoltosi misero in luce i limiti della rivolta e l’effettiva mancanza di un definito disegno rivoluzionario da parte dei dirigenti socialisti per convogliare le agitazioni verso obiettivi precisi; la «settimana rossa», come scrisse «L’Unità» di Salvemini, era stata una «rivoluzione senza programma». Salandra fece intervenire duramente sia la forza pubblica che l’esercito per reprimere le agitazioni, attirandosi l’accusa di essere un «novello Pelloux». Ma il bilancio della «settimana rossa», se da una parte confermò la stabilità dello Stato liberale e la fragilità di una alternativa rivoluzionaria, d’altra parte rivelò quanto profondo fosse rimasto il solco fra le istituzioni e le masse popolari, nonostante il lungo esperimento giolittiano per acquisire il loro consenso attraverso una prassi politica che aveva cercato di conciliare con lo Stato liberale le forze democratiche e socialiste. Gli avvenimenti della «set-
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timana rossa» sembravano concludere in modo negativo il periodo giolittiano, scoprendo un «paese reale» ancora estraneo e ostile al «paese legale». Inoltre, la crisi del sistema giolittiano si inseriva in una crisi più generale dello Stato liberale di fronte alla ascesa delle masse.
6. Lo Stato liberale e le masse Alla fine del periodo giolittiano, la società italiana non era pacificata e da tempo già si erano diffusi nuovi segni di crescente avversione nei confronti dello Stato liberale da parte di gruppi e movimenti politici, sociali, culturali: «In nessuna epoca, come nella presente – disse Vittorio Emanuele Orlando inaugurando l’anno accademico del 1910 – lo Stato ha avuto nei suoi cittadini altrettanti creditori e così molesti, così arroganti, così inesorabili [...] Individui e collettività premono, stringono, urgono: chiedono con minaccia, accettano con dispregio. Sono individui, che covano o proclamano propositi di folle ribellione tra l’indifferenza, se non tra l’indulgenza, dell’universale: sono collettività che pur di conseguire un proprio interesse, non esitano a ferire a morte quelle che sono le condizioni essenziali per la salute e la vita dello Stato». L’assidua polemica di Gaetano Mosca contro il giolittismo era ispirata a una visione analoga della crisi dello Stato liberale, ed era centrata sul tema del «feudalesimo funzionale» dei nuovi baroni, le organizzazioni di classe e di categoria, verso i quali il governo giolittiano si mostrava troppo debole e indulgente, mentre infiacchiva, scriveva Mosca nell’ottobre 1907, «in tutte le classi e in tutti i ceti la coscienza degli interessi collettivi, e più fiacchi ancora sono i legami morali, che stringono l’individuo alla patria e allo Stato». I moti eversivi della «settimana rossa» rivelarono i sentimenti delle masse popolari verso lo Stato: questi moti, spiegava il filosofo Giuseppe Rensi su «L’Azione» del 21 giugno 1914, avevano una semplice ed evidente spiegazione: «il popolo italiano odia il suo Stato e questo odio si manifesta naturalmente e spontaneamente irrompe ogni volta che a ciò si presentino le occasioni favorevoli». Gli antigiolittiani avevano una esatta percezione della crisi dello Stato liberale, ma essi erano troppo corrivi, per contin-
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gente passione polemica, a caricare sulle spalle di un solo individuo, per quanto estesa e durevole fosse stata la sua influenza sulla vita del paese, la responsabilità di una situazione che non era soltanto italiana, anche se aveva specifici caratteri italiani, perché nei suoi aspetti generali era comune ad altri Stati europei più moderni ed evoluti, egualmente sottoposti al travaglioso passaggio dalla società tradizionale alla società di massa. Il mutamento di situazione storica non era sfuggito all’osservazione di Giolitti, ed egli aveva cercato di fronteggiarlo, poiché aveva capito che era vano e impossibile reprimerlo, adottando una prassi politica liberale innovatrice nei propositi, ma sostanzialmente tradizionale nei metodi e nei mezzi impiegati e, alla lunga, inefficace. Per Giolitti, la politica continuò ad essere un’attività circoscritta nel campo parlamentare e amministrativo: l’uomo di governo doveva svolgere la sua azione attraverso contatti personali fra i dirigenti dei partiti, con i quali, se persone ragionevoli e di buon senso, sarebbe stato sempre possibile trovare un accordo su questioni pratiche e concrete, al di là delle divergenze ideologiche. Egli aveva scarsa considerazione per i sentimenti delle masse come fattore della lotta politica, sottovalutò l’influenza che cominciavano ad avere sulla politica e non diede sufficiente importanza all’opinione pubblica e ai mezzi con i quali questa era formata, interpretata, eccitata, guidata. Giolitti sperava, con ottimismo liberale, di risolvere i conflitti sociali con una politica che lasciava ad essi larga libertà di manifestazione, anche quando arrecavano grave offesa a quelli che erano considerati i cardini fondamentali dello Stato di diritto. Egli riteneva che ciò fosse necessario per raggiungere senza interventi traumatici una graduale transizione verso le nuove situazioni della società moderna, per raggiungere una durevole pace sociale, liberando le istituzioni dall’incubo della rivoluzione sociale e conquistando ad esse l’affetto delle classi popolari. Il suo liberalismo fatto di empirismo e di buon senso, il suo trasformismo, la sua politica di mediazione e di assorbimento verso forze non schiettamente liberali, della destra e della sinistra, non erano meri espedienti di un uomo politico privo di idee, ma corrispondevano a una visione della politica, ritenuta ancora valida in quella fase di sviluppo democratico dello Stato liberale; e ancora efficace per raggiungere l’obiettivo di un più ampio consenso popolare alle istituzioni. Nella realtà delle co-
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se, mentre si formavano e si organizzavano nuovi gruppi ostili al regime parlamentare e al liberalismo, l’autorità dello Stato, dopo la lunga egemonia giolittiana, non aveva trovato nel consenso popolare un sostegno più largo e più stabile e non era neppure difesa da una moderna organizzazione delle forze liberali, organizzazione invano auspicata dai capi del liberalismo antigiolittiano. Salandra, nel già citato volume sulla politica nazionale, affrontò la questione di un nuovo partito liberale consapevole dell’effettivo isolamento nel quale si trovavano, rispetto ai nuovi orientamenti dell’opinione pubblica, le istituzioni liberali: «Scrutiamo i più profondi strati sociali; prestiamo l’orecchio alle cupe voci di malcontento e di minaccia; guardiamo intorno a noi e fuori di noi; ci persuaderemo che lo Stato italiano non ha ancora conseguito tale grado di forza da reggere all’urto di una di quelle crisi che sopravvengono fatalmente nella vita di ogni popolo». Tale forza poteva venire solo dalla «partecipazione del massimo numero» di cittadini alla vita politica e dalla riorganizzazione del partito nazionale, liberale e borghese, abbandonando i compromessi giolittiani con la «democrazia». Salandra cercava di innovare le prospettive di una politica liberale per adeguarla alla nuova situazione storica che si andava delineando, dove apparivano sempre più determinanti il peso delle masse, il ruolo dell’opinione pubblica, l’azione di nuove organizzazioni di partito e di classe, che ponevano inevitabilmente in crisi la gestione tradizionale del potere e minacciavano seriamente l’egemonia della borghesia liberale. Osteggiare questa nuova situazione sarebbe stata opera vana e, dopo tutto, contraria ai valori del liberalismo risorgimentale e cavouriano: «Sarebbe discepolo indegno del più geniale e progressivo uomo di Stato del secolo XIX chi non intendesse come la vita politica del paese debba essere profondamente rinnovata dall’avvento di nuovi strati sociali. Questo reale ingrandimento della patria noi dobbiamo non solamente constatare e subire, bensì con ogni nostro potere promuovere e favorire», ma senza abbandonare, anzi riaffermando con tenacia, «i principii fondamentali del nostro ordinamento politico: Patria, Principato, Esercito nazionale, Libertà», e la validità della «monarchia parlamentare, saldamente organizzata e difesa», unica forma di governo «che garantisca la pacifica convivenza di tutte le credenze e di tutti gli interessi e comprima i germi dell’individualismo e dell’anarchia». Chiamate col suffragio universale a partecipare alla vita del-
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lo Stato, le masse potevano divenire un mezzo per consolidare l’autorità dello Stato liberale, che da questa partecipazione avrebbe tratto «la forza necessaria a resistere alla pressione degli interessi privati e, in ispecie, ai minacciosi aggruppamenti d’interessi di classe che, penetrando nel suo stesso organismo, lo pongono in grave pericolo di infiacchimento e di dissoluzione». Considerazioni analoghe erano fatte da Sonnino in un articolo sulla «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1911. Sonnino riteneva che la maggior causa di debolezza dello Stato liberale derivasse proprio dal fatto di fondare la sua autorità sul «consenso di una classe ristretta della popolazione» mentre «più della metà della popolazione rimane aliena all’ordinamento politico dello Stato, e si contrappone quasi al Governo, restandogli completamente estranea e in atteggiamento poco men che ostile». La legittimità delle istituzioni liberali veniva contestata da nuove formazioni politiche, che proclamavano di rappresentare la volontà delle masse contro l’oligarchia liberale e non esitavano a infrangere la legge codificata in nome di una legge non scritta ritenuta più alta e più giusta. Citando Tocqueville, Sonnino proclamava che il grande problema politico del momento era «difendere la società dalla demagogia mediante la migliore organizzazione della democrazia»: il suffragio universale avrebbe dato allo Stato liberale maggior prestigio, maggiore autorità e «maggiore forza morale derivante dalla rappresentanza e dal consenso di tutti indistintamente gli ordini di cittadini», e, di conseguenza, la piena legittimità per imporre la sua volontà, in nome dell’interesse generale consacrato dal voto popolare, nei confronti della collettività. A questo fine, sia Salandra che Sonnino ritenevano indispensabile e urgente creare una organizzazione di tutte le forze liberali e la formulazione di una politica nazionale, tali da riconfermare l’autorità e l’efficacia dell’egemonia borghese di fronte alle masse e nei confronti delle «nuove formazioni politiche destinate a crescere e a svilupparsi a spese del partito liberale», come osservava Salandra. Le sorti del partito liberale erano legate alla sua capacità di darsi una moderna e solida struttura, indipendentemente dalla forza parlamentare di una maggioranza «giolittiana», reclutata a spese dei princìpi di uno schietto liberalismo, e alla capacità di operare efficacemente e attivamente nella guida dell’opinione pubblica e nell’educazione patriottica delle nuove masse, contro
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l’internazionalismo socialista e il confessionalismo cattolico. All’empirismo giolittiano, insomma, i liberali antigiolittiani volevano opporre un liberalismo organizzato, attivo, dinamico, saldo presidio contro la disgregazione dello Stato nazionale. La restaurazione dello Stato liberale presupponeva, dunque, l’eliminazione del giolittismo, un’organizzazione moderna del partito liberale e l’affermazione del ruolo egemonico della borghesia come classe dirigente nazionale, con una più larga partecipazione delle masse alla vita politica. La consapevolezza della crisi non implicava, naturalmente, la capacità e la possibilità di mettere in pratica la soluzione auspicata dai liberali «classici», per i quali lo Stato liberale, nato dalla rivoluzione risorgimentale e consolidato durante cinquant’anni di vita unitaria, era una struttura ancora valida nei suoi fondamenti istituzionali e ideali. La nuova cultura politica, elaborata attraverso la critica del giolittismo, poneva invece la questione in termini diversi: era possibile restaurare l’autorità dello Stato e realizzare l’integrazione delle masse conservando lo Stato liberale, oppure era necessaria una profonda trasformazione delle istituzioni esistenti, anche con uno sconvolgimento radicale, per creare uno Stato nuovo? Finito l’«ordine provvisorio» instaurato da Giolitti, affermò Giovanni Amendola su «L’Azione» del 17 maggio 1914, era emerso «il problema più assillante della nuova Italia: la creazione del nuovo ordine, morale, sociale ed amministrativo; dell’ordine nel quale si esprima finalmente in modo adeguato la vita unitaria dell’Italia [...] Il panorama della realtà politica italiana si andrà via via rivelando allo sguardo di una nuova generazione di uomini politici. Il compito che s’impone a questa nuova generazione è duplice: la creazione di un ordine italiano – all’interno – e la creazione di un’azione italiana – all’esterno –»; per questo compito, occorrono «nuove elaborazioni dottrinali corrispondenti alla più matura coscienza nazionale [...] nuove determinazioni di programmi concreti; occorrono, infine, nuovi organi e nuovi modi d’azione». Gli antigiolittiani d’orientamento idealistico e liberale consideravano la crisi del sistema giolittiano la risultante finale delle insufficienze della democrazia liberale, costruita senza partecipazione popolare, degenerata nella pratica trasformista per la mancata formazione di una coscienza nazionale. L’opposizione alla democrazia liberale maturava nell’ambito
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di una critica dell’ideologia illuminista, con la riscoperta di una tradizione ideologica autoctona, quella del realismo politico, che discendeva da Machiavelli a Pareto, e si innestava ora nel pensiero politico dell’idealismo, con la elaborazione di una concezione organica della democrazia e la ricerca di una costituzione politica che fosse più aderente alla società italiana. La democrazia, identificata «arbitrariamente [...] con l’attuale regime di partiti», aveva condotto alla disgregazione della società, dei partiti, dello Stato. Invece, affermava lo storico Antonio Anzilotti in un saggio su La crisi spirituale della democrazia pubblicato nel 1912, la democrazia doveva «ricostituire entro di sé organismi coerenti» perché ciò che «ha potere nella società è ciò che è organico, ciò che disciplina ed attua un’azione collettiva». La situazione italiana appariva gravemente minata dalla scarsa presenza di vincoli morali fra le sue diverse componenti, dalla quasi completa assenza del sentimento di unità sociale. Tale appariva a un «osservatore attento e spregiudicato della presente vita spirituale italiana» come Benedetto Croce, il quale scriveva nel 1911, che i simboli dell’Unità – il Re, la Patria, la Città, la Nazione, la Chiesa, l’Umanità – erano divenuti freddi e retorici, parole che per la maggioranza suonavano false, conseguenza di una «generale decadenza del sentimento di disciplina sociale», perché gli individui «non si sentono più legati a un gran tutto, sottomessi a questo, cooperanti in esso, attingenti il loro valore dal lavoro che compiono nel tutto». Anche se il problema di questa «indisciplina diffusa» e l’indebolimento del sentimento di unità sociale erano, per il filosofo, particolarmente riferiti all’ambiente della cultura e del lavoro intellettuale, la sua valutazione corrispondeva a un atteggiamento frequente negli osservatori contemporanei, molti dei quali invocavano una profonda revisione dei caratteri orientativi della politica italiana, per dare al paese un nuovo ordine organico, fondato su una coscienza etica unitaria e collettiva. Un paese, osservava Nitti nel 1907, non era la «semplice addizione di tutti gli individui che lo compongono: è una coscienza, una persona, una risultante viva», e ciò era tanto più evidente nel mondo contemporaneo, in cui prevalevano i tipi di società dove «più profondo è lo spirito di solidarietà e dove la subordinazione delle singole parti alla vita dell’insieme è più viva». L’Italia, per ragioni storiche, non aveva una vera coscienza nazionale, senso di
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coesione, sentimento vivo della propria personalità collettiva, e ciò acuiva l’indisciplina sociale, che toglieva al paese la possibilità di partecipare alla vita mondiale. Ma invocare una maggiore solidarietà nazionale era cosa diversa dalla capacità di indicare una concreta iniziativa politica per la formazione di una coscienza etica collettiva, per educare ai valori nazionali le masse che erano rimaste ostili o indifferenti alla realtà dello Stato unitario liberale, coinvolto ora in un processo storico caratterizzato dalla generale «crisi dello Stato moderno», mentre la fragile pellicola dell’ideologia risorgimentale pareva non poter resistere alla pressione dei mutamenti sociali. La causa principale della crisi dello Stato moderno era individuata nella crescente partecipazione delle masse alla vita sociale, attraverso organizzazioni di classe e di categoria, che non trovavano un’adeguata espressione e comprensione nelle istituzioni liberali. Questa crisi, osservava il giurista Santi Romano, in un articolo pubblicato nel 1910 sulla «Rivista di Diritto pubblico», era caratterizzata dalla convergenza di due fenomeni, «l’uno dei quali aggrava necessariamente l’altro: il progressivo organizzarsi sulla base di particolari interessi della società che va sempre più perdendo il suo carattere atomistico, e la deficienza dei mezzi giuridici e istituzionali, che la società medesima possiede per fare rispecchiare e valere la sua struttura in seno a quella dello Stato». Si poteva deprecare il fenomeno e paventarne gli effetti sulla vita delle istituzioni liberali, ma esso si imponeva comunque, era una realtà moderna con la quale bisognava fare i conti, riconoscendo che la forza politica delle masse era, per varie ragioni, aumentata: «le migliorate condizioni economiche, il diffondersi della pubblica opinione e dello spirito critico e indagatore, l’allargarsi della cultura, la stampa quotidiana, la facilità di riunirsi e di associarsi, i contatti provocati dal lavoro industriale moderno che raccoglie attorno alle macchine gli operai, la rapidità dei mezzi di comunicazione [...] che ha abolito la vita sedentaria ed è un potente mezzo di avvicinamento. Così molte volte avviene che la stampa e altre manifestazioni energiche delle forze sociali prevengano la tribuna parlamentare e l’opera dei partiti, esercitando sul lavoro legislativo ben maggiore influenza che non questi. Ed è vero che accanto alle forme di responsabilità giuridica e politica del governo, indipendentemente da esse e con maggiore efficacia pratica, si è sviluppata una
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specie di responsabilità sociale dei ministri, che, facendo a meno del parlamento, pone in diretto contatto popolo e Governo». Di fronte a questa realtà nuova, lo Stato avrebbe potuto affermare nuovamente la funzione di organismo superiore, che armonizzava e unificava le organizzazioni minori, conservando «quasi intatta la figura che attualmente possiede [...] come un organismo che superi gl’interessi parziali e contingenti, che faccia valere una volontà che possa ben dirsi generale». Con queste considerazioni siamo ancora, è evidente, in un’aura liberale, di razionale ottimismo commisurato a una visione equilibrata della vita sociale. La soluzione proposta era ancora fondata sul principio della sovranità statale, espressa nelle istituzioni parlamentari, e sulla libertà di organizzazione e di lotta regolate dalla legge codificata: Romano rifiutava la «mostruosa formulazione» di dottrine che volevano mutare l’ordinamento istituzionale «in una specie di codice della forza», per «secondare e rispecchiare gl’istinti della conquista, dell’eroismo, della lotta fra gl’individui, fra le diverse classi e fra le diverse razze». Come pure nell’ambito liberale restava, nonostante un certo aristocratico distacco culturale per la folla indistinta, l’ideale di «democrazia industriale» vagheggiato da Nitti, il quale assegnava allo Stato limitati compiti di coordinatore e di moderatore delle molteplici forze sprigionate dalla società moderna. Tuttavia, nell’ambito della corrente antigiolittiana, venivano formandosi altre soluzioni che, pur accettando la realtà dell’edificio unitario, intendevano ormai rompere la continuità con la tradizione liberale e prefiguravano, sia pure in forme non ancora pienamente elaborate ed esplicite, uno Stato nuovo, diversamente costituito e idealmente orientato verso forme che apparivano meglio corrispondenti alle esigenze di una società di massa. Possiamo esemplificare queste soluzioni nel progetto di democrazia antistatalista e nel progetto di panstatalismo nazionalista. Le posizioni più significative della prima soluzione sono rappresentate da «L’Unità» di Salvemini e dall’ideologia di Sturzo. La rivista di Salvemini registrava il dibattito sulla crisi dei partiti e dell’ideologia democratica, ma non riusciva a indicare altra via di uscita che l’opera benefica di gruppi illuminati per il rinnovamento della pratica democratica: «Un ideale migliore dell’ideale democratico non c’è – affermava “L’Unità” il 2 maggio 1913 –, quel che essi [i democratici] devono combattere accanitamente è
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la pratica in cui durante quest’ultimo decennio si sono impantanati i deputati, i giornalisti, gli organizzatori, in genere quasi tutti i politicanti dei partiti democratici; a questa vecchia pratica, la quale non è la realizzazione ma la sofisticazione e il tradimento della democrazia, devono opporre non un altro ideale ma una pratica nuova: la quale è di fronte a questo problema la seguente, di fronte a quest’altro problema quest’altra, e così di seguito». Salvemini non credeva alla possibilità di promuovere la formazione di nuovi movimenti suscitandoli con il fascino e la suggestione di un nuovo mito democratico, ma sperava di educare con il suo giornale un gruppo di uomini nuovi, formati alla scuola del «problemismo» e del «concretismo»: «Il nostro giornale non può creare nuove correnti di sentimenti democratici, ma, presupponendo la esistenza sempre fresca e viva di queste correnti, le quali scaturiscono da origine ben più larga che non possa essere la volontà cosciente di un gruppo di uomini e sono il prodotto naturale di tutta la moderna evoluzione sociale, cerca di preparare un nuovo gruppo di condottieri capaci di mettersi a capo delle moltitudini mosse dal sentimento democratico, e di canalizzare questo sentimento verso una nuova pratica democratica assolutamente opposta a quella di quest’ultimo decennio». La soluzione di Sturzo era, invece, più filosofica e radicale. Per Sturzo, la crisi dello Stato era la crisi del liberalismo, di una concezione dello Stato, come l’aveva definita in un articolo del 2 giugno 1901, «accentratore, panteistico, antisociale, ateo», attuata in un «deforme e viziato ambiente», dove «nel suo immane corpo disorganico e caotico, si sviluppano i germi mortiferi dell’affarismo parlamentare, dell’intrigo politico, della compravendita del voto, dell’irresponsabilità dei governati». Secondo Sturzo, il ciclo dello Stato liberale, fondato sull’individualismo economico e il centralismo statalista, si era compiuto; i nuovi fenomeni di organizzazione nascenti dalla società civile riconducevano la vita statale agli enti locali, ai comuni, centri per una radicale trasformazione dello Stato unitario, dopo la fine del liberalismo. L’altra soluzione era discussa e studiata nell’area nazionalista. Essa riaffermava il carattere assoluto della sovranità dello Stato, ma traeva da una spregiudicata valutazione dei fenomeni collettivi le indicazioni per la restaurazione dell’autorità statale, attraverso l’utilizzazione delle organizzazioni sindacali e la nazionalizza-
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zione delle masse. La soluzione panstatalista sistemava organicamente i principali motivi dell’antigiolittismo nella concezione antiliberale, antidemocratica, antisocialista dello Stato dei produttori, diretto dalla grande borghesia. Alla vigilia della guerra mondiale, il nazionalismo aveva già ideato le strutture fondamentali del nuovo Stato nell’ideologia di Alfredo Rocco, il quale era del tutto fuori del mondo liberale e democratico. Lo Stato nuovo era, per lui, un’alternativa radicale allo Stato rappresentativo parlamentare: «Il parlamentarismo è morto – scrisse nel luglio 1914 su “Il Dovere nazionale” –, e il giolittismo, che gli è successo, prova che è morto ben definitivamente. E con lui è finito tutto quel piccolo mondo arcadico e sentimentale, a cui non è possibile pensare senza rimpianti, perché aveva la sua bellezza e la sua poesia: il culto della ragione, il rispetto della libertà, la fede nella giustizia [...] Il sistema parlamentare, cioè il predominio politico di assemblee di delegati eletti dal popolo, di intermediari non governanti e irresponsabili, sorto, per contingenze speciali, in Inghilterra, diffusosi in Europa sotto il predominio della filosofia razionalista e dell’idealismo liberale, doveva cadere col cadere del razionalismo e dell’idealismo. Noi riteniamo che il parlamentarismo abbia ormai assolto il suo compito; che cosa verrà dopo di esso? Nessuno può dirlo. Il giolittismo non è che un momento della grande evoluzione, da cui uscirà il nuovo regime politico di domani». Per attuare il progetto dello Stato nuovo i nazionalisti avrebbero utilizzato le istituzioni esistenti, ma non avrebbero esitato a far ricorso alla «politica della piazza», all’agitazione rivoluzionaria. Il rispetto della legge e delle istituzioni, per i nazionalisti, era del tutto strumentale. Essi erano profondamente convinti che le istituzioni liberali fossero ormai condannate e che la lotta politica stava tornando a una hobbesiana situazione prestatale, all’antagonismo radicale fra le parti, da cui doveva emergere nuovamente trionfante la sovranità assoluta dello Stato, sintesi organica della comunità nazionale.
7. La fine del sistema giolittiano La formazione del governo Salandra segnò la fine dell’età giolittiana, almeno secondo il significato convenzionale che si suole
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dare a questo termine per indicare il lungo periodo dominato dalla personalità dello statista piemontese. Giolitti non scomparve dalla scena politica, ma gli eventi successivi alla fine del suo quarto ministero – la formazione di un governo decisamente di destra con un programma alternativo a quello giolittiano; lo scoppio della prima guerra mondiale; l’intervento dell’Italia nel conflitto, deciso dal governo Salandra-Sonnino; la travagliata crisi dello Stato liberale nell’immediato dopoguerra, la nascita e l’affermazione di nuovi partiti e movimenti di massa; lo sviluppo della reazione fascista – resero impossibile la ricomposizione del sistema di potere giolittiano, al quale il governo di transizione di Salandra avrebbe dovuto concedere soltanto una pausa di respiro. Il ritorno al governo di Giolitti nel 1920, in una situazione sociale e politica radicalmente mutata dalle conseguenze della guerra, fu l’ultima apparizione, non priva dei tratti di una rinnovata grandezza personale, di uno statista vecchio ma ancora energico, sicuro di sé e della propria arte politica. Ma l’arte del compromesso e della mediazione fra forze opposte era ormai sorpassata in una società lacerata dalla violenta radicalizzazione della lotta politica e sociale fra nazionalismo e socialismo, con l’affermazione di nuovi movimenti di massa antiliberali. Avrebbe potuto rinnovarsi il sistema giolittiano se non fosse scoppiata la guerra con le sue conseguenze, che sconvolsero l’ordine internazionale e minarono le fondamenta in Italia dello Stato liberale? Aveva il sistema giolittiano strumenti adeguati per gestire il governo di una società di massa in un’epoca di intensi processi di mobilitazione sociale e nell’ambito di una esasperazione dei contrasti fra gli imperialismi europei? E, infine, il sistema giolittiano era riuscito, dopo un decennio di potere, a conquistare il consenso delle nuove classi popolari allo Stato liberale, come era nel disegno originario di Giolitti, secondo il motivo ispiratore della sua prassi politica? La risposta a questi interrogativi costituisce un problema ancora aperto nel dibattito storiografico. Tuttavia, crediamo sia possibile fare alcune considerazioni, sulla base di quanto è emerso dagli studi più recenti sul periodo giolittiano, che hanno modificato in gran parte l’immagine tradizionale, delineata dalla storiografia dell’immediato secondo dopoguerra e ispirata in prevalenza da una nostalgica rievocazione dell’Italia liberale e del giolittismo come sapiente arte di governo, equilibrata e innovatrice. Considera-
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zioni, naturalmente, che non hanno alcuna pretesa di risolvere i molti problemi relativi all’età giolittiana e che abbracciano tutti i campi della vita politica, sociale, economica e culturale, ma intendono soltanto indicare le vie nuove attraverso le quali si viene elaborando un ritratto più realistico dell’età giolittiana. Alla vigilia della prima guerra mondiale, il sistema giolittiano, che aveva cercato di rinnovare il liberalismo con una nuova prassi di governo, non costituiva più un efficace strumento di aggregazione fra gruppi parlamentari diversi e di svuotamento delle alternative, nel momento in cui cominciavano a prendere forma movimenti di massa, e non riusciva più a svolgere una funzione di mediazione tra forze sociali antagoniste. È un dato di fatto, ha osservato Giuseppe Are concludendo una rassegna degli studi sull’Italia nel periodo dell’imperialismo, che «alla fine dell’età giolittiana, nessuna delle forze sociali suscitata dall’industrializzazione tipicamente forzata e concentrata che il paese stava compiendo, nessuna delle forze intellettuali più sensibili ai termini nuovi della competizione internazionale era ormai più solidale col giolittismo. Per cui vien fatto di chiedersi quale tipo di rappresentatività del reale dinamismo del paese mantenesse ancora, alla fine del periodo, quella rappresentanza parlamentare che si coagulava nella maggioranza giolittiana». Il che significa porsi il problema di che cosa fu realmente, nelle premesse, nei metodi e nei risultati, la «democrazia giolittiana», come e quanto rappresentativa del «paese reale». Da quanto abbiamo detto finora, crediamo di poter giungere a una constatazione, riconoscendo che rispetto al fine generale del programma giolittiano e al motivo ispiratore della sua politica, «cioè l’immissione delle masse popolari nella vita dello Stato italiano, riducendo la tradizionale frattura tra ‘paese legale’ e ‘paese reale’, anche l’opera di Giolitti, secondo quanto affermato da Roberto Vivarelli, «si concluse con un fallimento». Questo giudizio può apparire forse troppo sommario, ma a nostro avviso esso merita considerazione perché è fondato sulla realtà dei fatti, accertati nel loro storico divenire senza confronti con modelli astratti, ideali o temporali. E questi fatti mostrano che alla fine della sua lunga egemonia nella vita politica e amministrativa, Giolitti non era riuscito a risolvere i principali problemi da lui stesso indicati come fondamentali per lo sviluppo del paese e della democrazia: la conquista del consenso delle classi popolari e la conversione dei
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cattolici e dei socialisti allo Stato liberale per il consolidamento delle istituzioni. Giolitti aveva cercato di conservare lo Stato risorgimentale con l’apertura verso gli «esclusi» – socialisti e cattolici – e una politica favorevole all’integrazione delle masse, con la concessione di miglioramenti economici. Alla fine del periodo che da lui prende il nome, lo Stato appariva più screditato, più instabile, con un bilancio in grave passivo e una burocrazia pletorica, irrequieta e inefficiente. Lo Stato si era modernizzato, nel senso che aveva accresciuto le sue funzioni, moltiplicato i suoi apparati e allargato la sua sfera di controllo nel campo economico e sociale, ma non diventò per questo più funzionale ed efficiente per le esigenze dello sviluppo economico e sociale, e per l’evoluzione verso forme definite e solide di democrazia moderna. Le masse, inoltre, lontane dall’accontentarsi delle «concessioni» che toccavano solo poche categorie privilegiate, reclamavano una partecipazione politica reale. Il partito socialista, con la guida rivoluzionaria, aveva ritrovato la sua forza proprio nel rifiutare il giolittismo e nel contestare radicalmente lo Stato borghese, chiamando a raccolta tutti i sovversivi. I cattolici, che avevano condizionato in modo decisivo le elezioni del 1913, rifiutavano di continuare ad essere una forza subordinata e reclamavano un ruolo autonomo adeguato al movimento di massa che essi rappresentavano. All’interno della classe dirigente, infine, l’alternativa Salandra riapriva una frattura fra diverse tendenze in contrasto. Il «riformismo senza riforme» di Giolitti, secondo la definizione di Ernesto Ragionieri, favorì inconsapevolmente il decadimento dell’autorità dello Stato anche nella borghesia e soprattutto fra i nuovi ceti medi, nei quali lo Stato liberale avrebbe dovuto cercare i suoi naturali sostenitori. Nel tentativo di conquistare il consenso delle classi popolari (che per Giolitti erano, in sostanza, i lavoratori rurali organizzati della Valle Padana) lo statista piemontese perse il consenso dei ceti medi, i quali rappresentavano, con il 51,2 per cento della popolazione attiva, la componente principale della società italiana. L’esistenza dei nuovi ceti medi, formati dalla industrializzazione e dalla modernizzazione, non era stata avvertita come uno dei problemi fondamentali per lo sviluppo politico, né da Giolitti né dai partiti democratici, che dai ceti medi reclutavano gran parte delle loro classi dirigenti. Esclusi dal compromesso giolittiano e
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confinati in una condizione politica subalterna nei confronti della grande borghesia e del proletariato organizzato, i nuovi ceti medi diventarono uno dei principali fattori di instabilità del sistema, e da essi emersero le ideologie e le più attive élite antigiolittiane. Di fronte a questa massa sociale di tipo nuovo, risultò evidente, secondo Alberto Asor Rosa, la «incapacità dei vecchi valori e delle vecchie istituzioni a garantire un controllo di forze materiali – che sono appunto le masse – rispetto alle esigenze di funzionamento complessivo della società e di sviluppo economico generale». Da qui il contrasto e, alla fine, l’opposizione fra i valori espressi dal giolittismo e quelli espressi dalla nuova cultura militante del tempo, tipica espressione di ceti medi non integrati, che fu in gran parte antigiolittiana. Da qui, ancora, le critiche alla democrazia parlamentare giolittiana, giudicata un sistema inadeguato, per rappresentare le nuove forze produttive. L’opposizione a Giolitti divenne antiparlamentare non tanto per una invincibile vocazione reazionaria dei ceti medi, ma piuttosto perché il parlamento giolittiano era visto come un ostacolo all’ascesa politica delle élite emergenti, un fattore disgregante delle forze politiche, un centro di governo nel quale non era possibile la formazione di una alternativa reale al giolittismo. Era, insomma, un parlamento che rappresentava non l’Italia emergente dello sviluppo ma l’Italia rurale, avvocatesca e clientelare. Per una più realistica valutazione di questo fenomeno è necessario, come ha proposto Raffaele Del Carria, abbandonare l’idea di ceti medi «fatalmente» reazionari e studiarli invece nella loro «impossibilità ad inserirsi economicamente, socialmente, politicamente e culturalmente nell’Italia giolittiana per le strozzature tipiche del sistema economico-sociale di allora» e, perciò, «oscillanti nell’anelito di conquistare la propria libertà e di inserirsi in una società che [li] respingeva, tra una vocazione reazionaria ed una volontà rivoluzionaria di rompere l’ordine esistente». In questo senso è più facile comprendere i motivi di fondo che ispiravano i nuovi movimenti antidemocratici con ideologie di massa e guidati da dirigenti che erano in maggioranza provenienti dai ceti medi: il nazionalismo, il sindacalismo rivoluzionario, il socialismo rivoluzionario, i quali proposero non un sommario rifiuto della rappresentanza e della partecipazione ma un nuovo modo di interpretare e rappresentare la volontà delle masse proletarie e borghesi attraverso l’organizzazione e l’appello diretto e demagogico: la
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classe e la nazione sostituivano il parlamento e, in questo senso, si può individuare nell’antiparlamentarismo uno dei motivi unificanti dell’antigiolittismo, sia di destra che di sinistra. Il fronte antigiolittiano, come abbiamo visto, era vario e multiforme, e sarebbe errato indicarlo con un’unica connotazione negativa, assegnando al giolittismo un valore positivo. Superando taluni giudizi diffusi, e non senza fondamento, sull’irrazionalismo, il decadentismo, il velleitarismo di molti antigiolittiani, è necessario anche riconoscere quel che di razionale, di realistico, di moderno e di progressivo, rispetto al giolittismo, vi era nelle ideologie ad esso contrarie. I motivi prevalenti nelle critiche al giolittismo non riguardavano, infatti, il programma democratico che lo ispirava, cioè l’immissione delle masse nello Stato. Al contrario, lo Stato giolittiano era accusato di essere poco democratico e nocivo per il futuro della democrazia; poco sensibile agli interessi della comunità nazionale; poco rispettoso delle regole del sistema rappresentativo e proclive invece ad abusare di strumenti di pressione e di repressione; troppo sollecito a difendere interessi e privilegi di categorie, borghesi e proletarie, ma per nulla disposto ad operare coraggiosamente per l’evoluzione sociale e politica delle grandi masse contadine del Mezzogiorno. A questo antigiolittismo, del resto, apparteneva anche un movimento democratico come quello ispirato da Sturzo, dal quale prenderà vita il partito popolare, anch’esso espressione di vecchi e nuovi ceti medi urbani e rurali. Se consideriamo, infine, le ali estreme della destra e della sinistra, come il nazionalismo e il sindacalismo rivoluzionario, risulterebbe semplicistico spiegare alcune evidenti convergenze di idee e di metodi fra i due movimenti in chiave banalmente psicologica e sociologica. All’origine dell’uno e dell’altro movimento vi era lo stesso problema, cioè l’integrazione delle masse in una comunità organica, sulla base del sindacato o della nazione. Era, insomma, il problema intuito da Giolitti agli inizi del secolo, ma che egli aveva cercato di risolvere con i metodi tradizionali della gestione clientelare del potere politico e la soddisfazione materiale di interessi settoriali, trascurando del tutto il valore politico delle nuove forze, come il partito socialista e il movimento cattolico, e operando piuttosto per una loro «spoliticizzazione». I nuovi movimenti di massa affrontavano il problema in termini più moderni e, praticamente, più efficaci per la conquista del consenso, anche se si rivelarono letali per la democrazia parlamentare e lo Stato liberale. Ciò
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conferma la validità delle osservazioni di Luigi Salvatorelli, uno storico, va ricordato, tutt’altro che ostile a Giolitti e al giolittismo: «Grande parlamentare, Giolitti non sentì l’avvento dei ‘partiti di massa’; che avrebbero spostato la lotta politica dal parlamento alla piazza; e mentre pure ebbe, come pochi, la netta intuizione dell’arretratezza e dell’inesperienza politica ancora persistenti nel popolo italiano, non ne trasse altra conseguenza se non che il sarto deve fare al gobbo l’abito con la gobba. Il che era perfettamente esatto come espediente temporaneo, ma non come metodo perpetuo: poiché le gobbe dei popoli, a differenza di quelle degli individui, si possono e si debbono raddrizzare: altrimenti – a differenza sempre dei gobbi individui – rischiano di provocare catastrofi». È senza dubbio esatto affermare, come ha fatto Carocci, che se «si vuol parlare di crisi definitiva del giolittismo prima del luglio del 1914 occorre spostare il discorso dai problemi di politica interna a quelli della situazione internazionale e sottolineare il fatto che la democrazia giolittiana era un’isola nel mare sempre più tempestoso dell’imperialismo. Questa debolezza, lungi dall’essere limitata all’Italia, era tipica di ogni paese, il cui ordinamento interno democratico era subordinato all’imperialismo e alle sue esigenze. La democrazia, la collaborazione riformatrice col movimento socialista erano possibili nella misura in cui le classi dirigenti erano in grado di tamponare le spinte eversive o più rozzamente aggressive dell’imperialismo con una politica estera accorta e sensibile agli interessi nazionali». Tuttavia, bisogna aggiungere che le altre democrazie occidentali, sebbene coinvolte nella guerra imperialista, rivelarono nel dopoguerra una notevole capacità di resistenza ai conati di reazione, che invece ebbero pieno successo in Italia. Segno evidente di una più intrinseca debolezza della democrazia – perché tale essa fu, nonostante vari e gravi limiti – giolittiana, la quale risultava in crisi già alla vigilia della guerra, proprio perché era venuta meno la collaborazione con il movimento socialista e perché la prassi giolittiana aveva fallito nel suo obiettivo, fondamentale e originario, di integrare le nuove masse entro lo Stato liberale. Con o senza la guerra, vi erano, dopo il 1912, elementi interni al sistema giolittiano che ne mettevano in discussione la sopravvivenza, senza coinvolgere con ciò l’intero apparato dello Stato, ancora saldamente nelle mani della borghesia liberale.
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Il neutralismo giolittiano poteva essere frutto di un’estrema intuizione, cioè che la guerra avrebbe sconvolto violentemente la società italiana: «L’intuizione era giusta, benché sia altrettanto giusto osservare – affermava nel 1950 Palmiro Togliatti in un discorso su Giolitti dove la polemica politica contingente era frammista a valide riflessioni storiche – che la scossa della guerra non fece che rendere più celeri processi già in atto. Il partito socialista era già prima della guerra avviato a diventare il partito di maggioranza della classe operaia. Le premesse politiche e anche organizzative per la costituzione del partito popolare erano già poste. Presentatisi sulla scena politica e nel parlamento questi due colossi dell’organizzazione delle masse, non vi era più posto per gli esperti e maghi del vecchio modo di governare navigando tra le clientele e i prefetti. I capi della democrazia borghese non lo capirono; continuarono a esaurirsi nel vecchio giuoco». Alla vigilia della guerra, il sistema giolittiano appariva privo di sostenitori al di fuori della maggioranza parlamentare, e sottoposto alle pressioni e agli attacchi concentrici dei nuovi movimenti socialista, cattolico, nazionalista, mentre le nuove generazioni del ceto medio, eccitate da ideologie attiviste, aspiravano a conquistare un ruolo di protagonista in una organizzazione statale che non si prefigurava con i caratteri del vecchio Stato liberale. In tal senso, si può affermare che, per molti aspetti, il vario, vasto e promiscuo fronte interventista fu anche una rivolta contro il giolittismo: una scelta radicale per distruggere il sistema giolittiano e impedire il ritorno al potere dello statista. L’insufficienza del sistema giolittiano, che non costituì durante l’arco della sua durata una vera e organica soluzione liberale, alternativa sia alla destra conservatrice e paternalistica sia alla sinistra socialista (per altro indebolita dalle divisioni interne e, perciò, incapace di porsi essa stessa come alternativa nazionale al giolittismo e al paternalismo conservatore) è evidente già prima della guerra mondiale, come aveva già osservato Romeo nel 1951 in una recensione alla Italia moderna di Volpe: «Guerra di Libia, prevalenza sempre maggiore del rivoluzionarismo mussoliniano (‘settimana rossa’), invadenza del conservatorismo clericale nelle file del ceto dirigente (patto Gentiloni): furono i segni che già allora chiaramente denunciavano l’incapacità del giolittismo a dominare un contrasto che si faceva sempre più aspro».
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Certo, Giolitti non fu unico responsabile di queste insufficienze: la crisi del giolittismo fu solo un momento della crisi del liberalismo italiano. Il fallimento della politica giolittiana nel conseguire il suo obiettivo principale non fu dovuto soltanto agli errori di un individuo, per quanto grande e decisiva sia stata la sua influenza nel determinare l’azione dello Stato. La verità è che la classe dirigente liberale, pur possedendo saldamente gli strumenti del potere, non seppe adoperarli per estendere la sua influenza ideale, per contendere a cattolici e socialisti la conquista del consenso nella società civile. Lo Stato liberale, e il sistema giolittiano attraverso il quale si esplicò per oltre un decennio, non riuscirono a fronteggiare gli urti della modernizzazione; le soluzioni adottate dal giolittismo non favorirono la conversione dei «rossi» e dei «neri», in modo da trasformarli in componenti della classe dirigente a vantaggio dello Stato liberale. Lo Stato giolittiano, in mancanza di alternative, si realizzò attraverso il neotrasformismo parlamentare, la sistematica manipolazione delle elezioni nelle regioni arretrate, la gestione clientelare della spesa pubblica, l’intervento autoritario nella vita locale, l’espansione della burocrazia ma senza raggiungere con tutto ciò un maggior livello di efficienza e di coesione. Gli effetti corrosivi della critica al giolittismo finirono per investire lo Stato risorgimentale e il liberalismo, ad opera di forze che si opponevano al sistema giolittiano non per tornare indietro, al 1898, ma per andare avanti, verso forme nuove di organizzazione della società e dello Stato. Si affermava, con la crisi del sistema giolittiano, il mito dello Stato nuovo, per il quale avrebbero lottato drammaticamente, nel primo dopoguerra, organizzazioni politiche idealmente estranee ai valori dello Stato liberale, al quale Giolitti aveva sperato di garantire una lunga e pacifica esistenza, in una età di violenti conflitti di classe e di aggressivi imperialismi.
BIBLIOGRAFIA Opere di carattere generale L’età giolittiana costituisce uno dei più esplorati campi della storia italiana contemporanea. Le indicazioni bibliografiche che seguono sono state raccolte con il proposito di offrire al lettore un orientamento essenziale, senza pretese di completezza, sugli studi principali, utili per un maggior approfondimento di singoli problemi politici economici e sociali trattati nel presente volume. Indispensabili per seguire il dibattito sulla storia italiana dopo l’Unità, e con particolare riferimento al periodo giolittiano, sono le opposte interpretazioni contenute nelle opere ormai classiche di B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1928, e G. Volpe, L’Italia in cammino, Treves, Milano 1927 (rifusa nella più ampia e analitica Italia moderna, Sansoni, Firenze 1943-1952), mentre un’agile sintesi, anche se per molti aspetti superata, è data da I. Bonomi, La politica italiana da Porta Pia a Vittorio Veneto, Einaudi, Torino 1966. Prevalentemente attento ai fatti politici e all’opera delle classi politiche e della classe dirigente è il volume di G. Perticone, L’Italia contemporanea dal 1871 al 1948, Mondadori, Milano 1968; concisa e problematica la sintesi di G. Carocci, Storia d’Italia dall’Unità a oggi, Feltrinelli, Milano 1975. E. Ragionieri propone un’interpretazione marxista nel suo volume La storia politica e sociale, compreso nel tomo III del volume IV della Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1976. Fra le opere di studiosi stranieri si segnalano in particolare l’equilibrata ricostruzione delle vicende politiche fatta da C. Seton-Watson, Storia d’Italia dal 1870 al 1925, trad. it. Laterza, Bari 1967, e la polemica e discutibile Storia d’Italia dal 1861 al 1969, di D. Mack Smith, trad. it. Laterza, Roma-Bari 197310. Fra le opere di sintesi sulla storia dell’Italia liberale fino al periodo giolittiano, vanno segnalate in particolare R. Romanelli, L’Italia liberale (1861-1900), Il Mulino, Bologna 1979; e F. Cammarano, Storia politica dell’Italia liberale. 1861-1901, Laterza, Roma-Bari 1999.
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Bibliografia
Il periodo giolittiano è stato analizzato in modo particolare, come fase della storia italiana contemporanea avente specifiche caratteristiche, in opere che costituiscono ancora oggi un punto di partenza obbligato per ulteriori indagini sull’età giolittiana: tuttora degna di nota, soprattutto per le vicende politiche e per una importante introduzione di G. Salvemini, è l’opera di W.A. Salomone, L’età giolittiana, trad. it. De Silva, Torino 1949 (nuova ed., La Nuova Italia, Firenze 1989); contributo di notevole valore come momento significativo della storiografia italiana sul periodo giolittiano è il conciso e concettoso G. Carocci, Giolitti e l’età giolittiana, Einaudi, Torino 1961; ben informato ed equilibrato nell’interpretazione di problemi particolari è, come i volumi che lo hanno preceduto, il vol. VII di G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna. La crisi di fine secolo e l’età giolittiana, Feltrinelli, Milano 1974; di contrastante validità e utilità, e talvolta viziati da superficiali forzature ideologiche, sono i saggi contenuti nel volume L’Italia di Giolitti della Storia della società italiana, Teti, Milano 1981. Due importanti opere d’assieme hanno visto la luce negli anni Ottanta: F. Gaeta, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana, Utet, Torino 1982, di impianto interpretativo tradizionalmente filogiolittiano, e la fondamentale, anche se purtroppo incompiuta opera di A. Aquarone, L’Italia giolittiana, Il Mulino, Bologna 1988. Vari aspetti del periodo giolittiano, che tengono conto dei risultati delle ricerche più recenti, sono esaminati nei saggi contenuti nel III volume della Storia d’Italia, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto: Liberalismo e democrazia. 1887-1914, Laterza, Roma-Bari 1995. Numerose sono le rassegne degli studi sull’età giolittiana, a cominciare da quelle di F. De Felice, L’età giolittiana, in «Studi Storici», 1969, che può essere integrata con la rassegna, diversamente ispirata e svolta, di B. Uva, Per una storia del periodo giolittiano, in «Clio», 1969. In precedenza erano apparse altre rassegne importanti: A. Papa, Orientamenti per uno studio di G. Giolitti, in «Belfagor», 1950; G. Candeloro, Giolitti e l’età giolittiana, in «Società», 1950; N. Valeri, G. Giolitti nella storiografia del secondo dopoguerra, in Questioni di storia del Risorgimento, Marzorati, Milano 1951; A.W. Salomone, Ritorno all’Italia giolittiana. Salvemini e Giolitti fra la politica e la storia, in «Rassegna storica del Risorgimento», 1959; C. Vallauri, Storiografia e polemica sull’Italia giolittiana, in «Storia e politica», nn. 3-4, 1962, e Id., Nuovi studi su Giolitti e il suo tempo, in ivi, n. 1, 1970; G. Are, La storiografia sullo sviluppo industriale italiano e le sue ripercussioni politiche nell’età dell’imperialismo, in «Clio», 1974, ricca di riflessioni critiche sui tradizionali orientamenti interpretativi della storiografia filogiolittiana.
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Si vedano inoltre le rassegne di A.A. Mola, Età giolittiana, in Il Mondo contemporaneo. Storia d’Italia, 1, La Nuova Italia, Firenze 1978, e di F. Barbagallo, L’età giolittiana, in N. Tranfaglia, M. Firpo (a cura di), La storia. I grandi problemi dal Medioevo all’Età Contemporanea, vol. VIII, L’Età Contemporanea, III, Dalla Restaurazione alla prima guerra mondiale, Utet, Torino 1986. Utile, infine, può risultare la consultazione delle antologie dedicate alle interpretazioni dei contemporanei e degli storici, ispirate a diversi indirizzi storiografici: L’età giolittiana, a cura di A.A. Mola, Zanichelli, Bologna 1971; L’Italia giolittiana. La storia e la critica, a cura di E. Gentile, Laterza, Roma-Bari 1977; L’età giolittiana, a cura di F. De Felice, Loescher, Torino 1980. Alcuni problemi specifici dell’Italia giolittiana sono esaminati in F.J. Coppa (a cura di), Studies in Modern Italian History. From the Risorgimento to the Republic, Peter Lang, New York 1986, e in A.A. Mola (a cura di), La svolta di Giolitti. Dalla reazione di fine Ottocento al culmine dell’età liberale, Bastoni Editrice Italiana, Foggia 2000. Per un inquadramento critico generale delle interpretazioni della storia italiana, in riferimento ai temi discussi in questo volume, si veda E. Gentile, Breve storia delle storie d’Italia, in Storia dell’Italia contemporanea, diretta da R. De Felice, vol. VII, Esi, Napoli 1983, e G. Pescosolido, Il periodo 1870-1915, in L. De Rosa (a cura di), La storiografia italiana negli ultimi vent’anni, vol. III, Età contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1989.
Fonti edite principali Una approfondita conoscenza del periodo giolittiano deve avere le sue premesse negli scritti e nei discorsi del suo maggiore protagonista individuale, cioè Giovanni Giolitti, di cui si vedano: Memorie della mia vita, Treves, Milano 1922 (ried., Garzanti, Milano 1977); Discorsi extraparlamentari, Einaudi, Torino 1952, con una importante introduzione di N. Valeri; Discorsi parlamentari, Camera dei Deputati, Roma 1953-1956. È inoltre disponibile una raccolta di documenti soprattutto epistolari, provenienti dagli archivi di Giolitti: Quarant’anni di politica italiana. Dalle carte di Giovanni Giolitti, Feltrinelli, Milano 1962: I, L’Italia di fine secolo 1885-1900, a cura di P. D’Angiolini; II, Dieci anni di potere 1901-1909, a cura di G. Carocci; III, Dai prodromi della grande guerra al fascismo 1910-1928, a cura di C. Pavone. Per una approfondita conoscenza del pensiero e dell’opera del maggior antagonista di Giolitti, si vedano: S. Sonnino, Discorsi parlamentari, Camera dei Deputati, Roma 1924-1925; Id., Scritti e discorsi extraparlamenta-
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ri, a cura di B.F. Brown, Laterza, Bari 1972; Brown ha curato inoltre la pubblicazione del Diario, vol. I, 1866-1922, di Sonnino, Laterza, Bari 1972. Di Luigi Luzzatti si vedano le Opere, Zanichelli, Bologna 1924-1951, e le Memorie autobiografiche e carteggi, Zanichelli, Bologna 1931-1936. Un indispensabile corredo documentario è offerto dalle raccolte di articoli, discorsi ed epistolari del periodo giolittiano. In particolare: L. Einaudi, Cronache economiche e politiche di un trentennio (18931925), Einaudi, Torino 1959-1965; F. Papafava, Dieci anni di vita italiana, 1909: cronache, Laterza, Bari 1913; A. De Viti De Marco, Un trentennio di lotte politiche (1894-1922), Collezione meridionale editrice, Roma s.d.; V. Pareto, Scritti politici, a cura di G. Busino, voll. IIIII, Utet, Torino 1975; G. Salvemini, Il ministro della malavita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura di E. Apih, Feltrinelli, Milano 1962; Id., Movimento socialista e questione meridionale, a cura di G. Arfè, Feltrinelli, Milano 1963; Id., Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, a cura di A. Torre, Feltrinelli, Milano 1963; G. Mosca, Il tramonto dello Stato liberale, a cura di A. Lombardo, Bonanno, Catania 1971; G. Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano. Discorsi politici (1880-1910), Laterza, Bari 1911, e Id., Carteggio, a cura di E. Gentile, Laterza, Roma-Bari 1978-1981, 4 voll.; L. Albertini, Venti anni di vita politica, 1898-1918, Zanichelli, Bologna 1950-1953; Id., Epistolario 1911-1926, a cura di O. Bariè, Mondadori, Milano 1968, 4 voll.; F. Turati, Discorsi parlamentati, Camera dei Deputati, Roma 1950; F. Turati, A. Kuliscioff, Carteggio 1898-1914, a cura di F. Pedone, Einaudi, Torino 1977, 5 voll.
La crisi di fine secolo e la svolta liberale La crisi di fine secolo è stata oggetto, dopo il contributo d’assieme di R. Colapietra, Il Novantotto. La crisi politica di fine secolo (18961900), Feltrinelli, Milano 1959, di importanti studi analitici: tesi contrastanti sono proposte da U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi di fine secolo in Italia 1896-1900, Feltrinelli, Milano 1975, che accentua – in modo non del tutto convincente – l’ipotesi di un organico programma reazionario presente nell’azione repressiva dei governi Rudinì e Pelloux; M. Belardinelli, Un esperimento liberal-conservatore: i governi di Rudinì (1896-1898), Elia, Roma 1976, che evidenzia, con una equilibrata ricostruzione dei fatti e delle idee, il carattere moderato ma innovatore presente nei programmi rudiniani, giudicati come tentativo di adeguare la politica del governo alle trasformazioni della
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società. Si vedano inoltre, per ricostruzioni analitiche della lotta politica, M. Sagrestani, Italia di fine secolo. La lotta politica parlamentare dal 1892 al 1900, Forni, Bologna 1976; L. D’Angelo, Lotte popolari e Stato nell’Italia umbertina. La crisi del 1898, Carecas, Roma 1979. Sulla politica del generale Pelloux si veda l’introduzione di G. Manacorda a L. Pelloux, Quelques souvenirs de ma vie, Istituto per la Storia del Risorgimento, Roma 1967; sulla crisi di fine secolo è importante anche D. Farini, Diario di fine secolo, a cura di E. Morelli, Bardi, Roma 1961. Sul governo Saracco e i fatti di Genova, cfr. G. Perillo, Ricostituzione e secondo scioglimento della Camera del lavoro di Genova, in «Movimento operaio e contadino in Liguria», 1956, che analizza la vicenda che portò alla crisi del governo Saracco e alla definitiva sanzione della svolta liberale. Sulla svolta liberale mancano studi specifici e analitici, ma possono essere utilmente letti gli articoli di R. Colapietra, Destra, sinistra, reazione di fine secolo e svolta liberale giolittiana, in «I problemi di Ulisse», 1961; G. Perticone, Governo e Parlamento alla svolta del secolo, in «Storia e politica», 1968; Id., Il regime parlamentare alla svolta del secolo, in «Storia e politica», 1969; taglio genericamente biografico, ma senza adeguata indagine storiografica, hanno U.A. Grimaldi, Il re «buono», Feltrinelli, Milano 1970, e S. Bertoldi, Vittorio Emanuele III, Utet, Torino 1970. Le vicende della crisi di fine secolo, in situazioni locali, sono esaminate da: G. Pinzani, La crisi politica di fine secolo in Toscana, Barbera, Firenze 1963; A. Canavero, Milano e la crisi di fine secolo (1896-1900), SugarCo, Milano 1976.
Giolitti Gran parte della letteratura giolittiana pubblicata tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta ha carattere polemico o apologetico. Fra le opere di maggiore interesse si segnalano: G. Natale, Giolitti e gli italiani, Garzanti, Milano 1949, opera nettamente filogiolittiana ma ricca di materiale documentario; filogiolittiana è anche la brillante biografia di G. Ansaldo, Il ministro della buona vita. Giolitti e i suoi tempi, Longanesi, Milano 1949; tendenzialmente favorevole a Giolitti e alla sua prassi politica è il saggio di L. Salvatorelli, Giolitti, in «Rivista storica italiana», fasc. IV, 1950 (raccolto in seguito in Miti e storia, Einaudi, Torino 1967); degno di nota per alcune interessanti osservazioni critiche sui principali problemi della politica giolittiana, nella prospettiva dell’interpretazione comunista, e per la sua influenza nella storiografia marxista, è P. Togliatti, Discorso su Giolitti, Rinascita, Roma 1950. La figura di Giolitti, proposta quasi come ideale dell’uomo di Stato, è on-
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nipresente nella serie di suggestivi ritratti di protagonisti dell’età giolittiana tratteggiati da G. Spadolini, Il mondo di Giolitti, Le Monnier, Firenze 1969 (in gran parte rifusi nel più ampio successivo volume, Giolitti. Un’epoca, Longanesi, Milano 1985). Utili inoltre i saggi di F.L. Oddo, Il pensiero e l’opera politica di Giolitti, Nuovi Quaderni del Meridione, Palermo 1973, e di A.A. Mola, Giovanni Giolitti. Grandezza e decadenza dello stato liberale, L’arciere, Cuneo 1978. Si veda anche C. Chiaraviglio, Giovanni Giolitti nei ricordi di un nipote, Centro Studi Piemontese, Torino 1981. Alla biografia di N. Valeri, Giovanni Giolitti, Utet, Torino 1971, si sono affiancate quella di S. Romano, Giolitti. Lo stile del potere, Bompiani, Milano 1989, e di A.J. De Grand, The Hunchback’s Tailor. Giovanni Giolitti and Liberal Italy from the Challenge of Mass Politics to the Rise of Fascism, 1882-1922, Praeger, Westport (Conn.)-London 2001, ma rimane viva tuttora l’esigenza di una più ampia e analitica biografia critica dello statista e della sua opera. Il più recente profilo biografico, con relativa bibliografia, è E. Gentile, Giolitti Giovanni, in Dizionario biografico degli italiani, edito dall’Istituto della Enciclopedia Italiana, vol. 55, Roma 2000, pp. 168-83. Contributi importanti sulla formazione e sulla carriera di Giolitti nell’amministrazione statale sono i saggi di E. Gustapane, Giovanni Giolitti Federico, dottore in leggi, in «Storia contemporanea», XI, 1981, n. 1, e G. Melis, Giolitti e l’amministrazione, in Dal mondo antico all’età contemporanea. Studi in onore di Manlio Brigaglia offerti dal Dipartimento di Storia dell’Università di Sassari, Carocci, Roma 2001 (il saggio di Melis, basato su documenti inediti dell’archivio del Consiglio di Stato, fornisce nuove e precise informazioni sull’attività di Giolitti quale membro della Sezione terza, dal 1882 al 1892, correggendo così quanto erroneamente affermato da altri biografi, compreso chi scrive – cfr. Gentile, Giolitti Giovanni, cit., p. 170 – in merito a una sua “breve” permanenza). Per quanto riguarda gli inizi della carriera politica di Giolitti si vedano gli articoli di G. Volpe, Gli inizi dell’attività politica di Giovanni Giolitti. Dalla crisi agraria alla «opposizione subalpina» 1885-1886, in «Clio», 1976; e di A.A. Mola, Alle origini del metodo politico di G. Giolitti, in «Cuneo provincia granda», 1970. Vedi anche di R. Colapietra, Politica e finanza nel primo decennio parlamentare di Giovanni Giolitti (1882-1892), in «Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche della Società nazionale di scienze, lettere e arti in Napoli», 1957; di G. Perticone, Sulla politica economico-finanziaria di Giolitti nel primo periodo della sua attività di governo, in «Archivio Finanziario», 1958; la raccolta di testi e articoli in Giolitti trent’anni dopo, in «L’osservatore politico e letterario», n. 4, 1958. Sulla formazione, l’attività e le ripercussioni del primo governo Giolitti si veda l’esemplare analisi di G. Manacorda, Il primo ministero
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Giolitti, in «Studi storici», 1961 e 1962. Sul ritorno di Giolitti alla direzione della vita politica italiana si veda F. Diaz, La formazione del secondo ministero Giolitti (1903-1905), in «Nuova Antologia», 1962.
Lo Stato Per i molti problemi connessi con l’evoluzione delle attività e delle funzioni dello Stato durante il periodo giolittiano, nell’ambito della storia istituzionale del regime liberale definito dallo Statuto albertino, si vedano: G. Maranini, Storia del potere in Italia 1848-1967, Vallecchi, Firenze 1967; G. Galasso, Potere e istituzioni in Italia, Einaudi, Torino 1974; la chiara sintesi storica di C. Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia. 1848-1948, Laterza, Roma-Bari 1974; l’antologia curata da I. Zanni Rosiello, Gli apparati statali dall’Unità al fascismo, Il Mulino, Bologna 1976; U. Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana, Il Mulino, Bologna 1989, i saggi del volume Storia dello Stato italiano dall’Unità a oggi, a cura di R. Romanelli, Donzelli, Roma 1995. Manca uno studio storicamente approfondito sulla monarchia nel periodo giolittiano: per un primo inquadramento storiografico d’insieme, si veda F. Mazzonis (a cura di), La monarchia nella storia dell’Italia unita. Problemi ed esemplificazioni, in «Cheiron», 1997. Sulla problematica istituzionale negli anni giolittiani si possono vedere specificamente: G. Melis, Istituzioni liberali e sistema giolittiano, in «Studi storici», 1978; E. Rotelli, Governo e amministrazione nell’età giolittiana, in Costituzione e amministrazione dell’Italia unita, Il Mulino, Bologna 1981, e la raccolta di saggi Istituzioni e metodi politici dell’età giolittiana, a cura di A.A. Mola, Centro Studi Piemontesi, Torino 1979. Sul problema dell’ordine pubblico: F. Fiorentino, Ordine pubblico nell’età giolittiana, Carecas, Roma 1978; G.C. Jocteau, L’armonia perturbata. Classi dirigenti e percezione degli scioperi nell’Italia liberale, Laterza, Roma-Bari 1988; J. Dumage, Istituzioni e ordine pubblico nell’Italia giolittiana. Le forze di polizia in provincia di Bologna, in «Italia contemporanea», 1989. Sull’amministrazione pubblica: E. Ragionieri, Politica e amministrazione nella storia dell’Italia unita, Laterza, Bari 1967; R.C. Fried, Il prefetto in Italia, Giuffrè, Milano 1967; S. Cassese, Le istituzioni amministrative, in N. Tranfaglia (a cura di), L’Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra, Feltrinelli, Milano 1980, e Giolittismo e burocrazia nella «cultura delle riviste», in Storia d’Italia. Annali, IV, Einaudi, Torino 1981; G. Melis, Storia dell’amministrazione italiana, Il Mulino, Bologna 1996. Sui rapporti fra potere politico e magistratura, si vedano: P. Marovelli, L’indipendenza e l’autonomia della magistra-
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tura italiana dal 1848 al 1923, Giuffrè, Milano 1963; G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura. 1870-1922, Laterza, Bari 1969; B. Sordi, Giustizia e amministrazione nell’Italia liberale, Giuffrè, Milano 1985; C. Guarnieri, Magistratura e sistema politico in Italia, Il Mulino, Bologna 1992. Sulle istituzioni parlamentari, oltre il vivace volume di ricordi del giornalista L. Lodi, Venticinque anni di vicende parlamentari. Da Pelloux a Mussolini, Bemporad, Firenze 1923, si veda: S. Cilibrizzi, Storia parlamentare, politica e diplomatica d’Italia. Da Novara a Vittorio Veneto, 3 voll., Società editrice Dante Alighieri, Milano 1929; Il Parlamento italiano nella storia d’Italia. Antologia storica della classe politica, a cura di G. Carocci, Laterza, Bari 1964; G. Perticone, Il regime parlamentare nella storia dello Statuto albertino, Ateneo, Roma 1969; Storia del parlamento italiano, voll. X e XI, Flaccovio, Palermo 19731976; Il Parlamento italiano 1861-1988, voll. VII e VIII, Nuova Cei, Milano 1989; G. Spadolini, Le riforme del Senato nell’Italia unita. Fra Depretis e Giolitti, Le Monnier, Firenze 1987; N. Antonetti, Gli invalidi della Costituzione. Il Senato del Regno. 1848-1924, Laterza, RomaBari 1992; M.E. Lanciotti, La riforma impossibile. Idee, discussioni e progetti sulla modifica del Senato regio e vitalizio (1848-1922), Il Mulino, Bologna 1993; Le riforme regolamentari di fine secolo (1886-1900), a cura di A.P. Tanda, Archivio storico della Camera dei Deputati, Roma 1996. Sul sistema elettorale nel periodo giolittiano, si veda M.S. Piretti, Le elezioni politiche in Italia dal 1848 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1995; G. Sabbatucci, Le riforme elettorali in Italia (1848-1994), Unicopli, Milano 1995. Sul tema della classe dirigente, si vedano: P. Farneti, Sistema politico e società civile, Giappichelli, Torino 1971; L. Garibbo, Elites e masse dall’unità al periodo giolittiano, Luet, Trento 1980; A.M. Banti, Storia della borghesia italiana. L’età liberale, Donzelli, Roma 1996; M. Salvati, Cittadini e governanti. La leadership nella storia dell’Italia contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1997. Di fondamentale utilità è il repertorio di M. Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del regno d’Italia, Pubblicazioni degli archivi di Stato, Roma 1989.
Movimenti e partiti politici La ricerca sui movimenti e i partiti politici è stata per lungo tempo privilegiata rispetto alle indagini su altri aspetti e problemi del periodo giolittiano. Ne è derivata una letteratura di numerosi titoli, che naturalmente non possono essere esaurientemente richiamati in queste
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note bibliografiche. Ci limiteremo, pertanto, a segnalare quelle opere di carattere generale o di particolare interesse sulla vicenda dei diversi partiti che, a nostro avviso, costituiscono un punto di riferimento indispensabile per una conoscenza specifica della vita politica italiana nel periodo giolittiano attraverso le formazioni politiche nuove o tradizionali. Per un inquadramento generale del problema dei partiti nell’Europa contemporanea e nell’Italia del primo Novecento si vedano P. Pombeni, Introduzione alla storia dei partiti politici, Il Mulino, Bologna 1990, e M. Ridolfi, Interessi e passioni. Storia dei partiti italiani tra l’Europa e il Mediterraneo, Bruno Mondadori, Milano 1999, che inquadra le vicende dei partiti italiani in una dimensione internazionale, con una analisi che intreccia la storia politica con la storia della mentalità, dei miti e dei riti. Una introduzione generale alla storia dei partiti politici italiani è fornita da C. Morandi, I partiti politici nella storia d’Italia, Le Monnier, Firenze 1986 (I ed. 1945), G. Galli, I partiti politici, Utet, Torino 1974, e dai saggi raccolti in G. Quagliariello (a cura di), Il partito politico nella Belle époque. Il dibattito sulla forma-partito in Italia tra ’800 e ’900, Giuffrè, Milano 1990. Una analisi complessiva delle relazioni fra partiti e sistema politico nella evoluzione del sistema liberale è proposta da S. Rogari, Alle origini del trasformismo. Partiti e sistema politico nell’Italia liberale. 1861-1914, Laterza, RomaBari 1998. Vi è da notare che la storiografia sui partiti politici, dopo la fine della seconda guerra mondiale, è stata orientata prevalentemente verso la ricostruzione della storia del movimento cattolico e del movimento socialista; cosa del resto comprensibile, se si pensa che da questi due movimenti sono nati i principali protagonisti collettivi dell’Italia repubblicana. Minore attenzione è stata, di conseguenza, dedicata ad altre formazioni politiche, e, in particolare, al composito e vario «partito» liberale, con i suoi vari esponenti, divisi da antagonismi politici e personali, che negli anni giolittiani fu, è bene ricordarlo, la forza dominante della politica italiana. Si possono vedere i contributi di H. Ullrich, L’organizzazione politica dei liberali italiani nel parlamento e nel paese, in R. Lill, N. Matteucci (a cura di), Il liberalismo in Italia e in Germania, Il Mulino, Bologna 1980; Parlamento, partiti, elezioni nell’Italia liberale, in M. Brigaglia (a cura di), L’origine dei partiti nell’Europa contemporanea. 1870-1913, Il Mulino, Bologna 1985; e, soprattutto, La classe politica nella crisi di partecipazione dell’Italia giolittiana. Liberali e radicali alla Camera dei Deputati (1909-1913), Camera dei Deputati, Roma 1979, 3 voll. Di notevole interesse anche P.L. Ballini, La destra mancata. Il gruppo rudiniano-luzzatiano fra ministerialismo e opposizione (1901-1908), Le Monnier, Firenze 1984. Sui ten-
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tativi di costituzione di un partito conservatore, si veda U. Gentiloni Silveri, Conservatori senza partito. Un tentativo fallito nell’Italia giolittiana, Edizioni Studium, Roma 1999. Manca tuttora una biografia storiograficamente adeguata di Sidney Sonnino: la lacuna non è colmata dal pur utile G.A. Haywood, Failure of a Dream. Sidney Sonnino and the Rise and Fall of Liberal Italy 1847-1922, Olschki, Firenze 1999; il periodo della formazione e della prima attività politica è accuratamente ricostruito da P. Carlucci, Il giovane Sonnino fra cultura e politica 1847-1886, Archivio Guido Izzi, Roma 2002, a cui vanno aggiunti i saggi di R. Nieri, Costituzione e problemi sociali. Il pensiero politico di Sidney Sonnino, ETS, Pisa 2000, gli atti del convegno Sidney Sonnino e il suo tempo, a cura di P.L. Ballini, Olschki, Firenze 1997, e, per un aspetto specifico, A. Jannazzo, Sonnino meridionalista, Laterza, Roma-Bari 1986. Su L. Luzzatti: P.L. Ballini, P. Pecorari (a cura di), Luigi Luzzatti e il suo tempo, IVSLA, Venezia 1994. Per la storiografia del movimento socialista è opportuno aver presente l’utilissima rassegna di L. Valiani, Il movimento socialista in Italia dalle origini al 1921. Studi e ricerche, in Id., Questioni di storia del socialismo, Einaudi, Torino 1958 (nuova ed. riveduta e aggiornata, 1977). Utile anche il volume di I. Granata, Il socialismo italiano nella storiografia del secondo dopoguerra, Laterza, Roma-Bari 1981. Per la storia generale, rimane fondamentale il volume di G. Arfè, Storia del socialismo italiano, Einaudi, Torino 1965, anche se prevalentemente dedicato ai problemi politici e ideologici, a cui vanno ora aggiunti i più aggiornati contributi sul partito socialista nel periodo giolittiano contenuti nel vol. II della Storia del socialismo italiano diretta da G. Sabbatucci, Il Poligono, Roma 1980; Z. Ciuffoletti, M. Degl’Innocenti, G. Sabbatucci, Storia del PSI, vol. I, Le origini e l’età giolittiana, Laterza, Roma-Bari 1992 (l’autore del volume è Z. Ciuffoletti); R. Zangheri, Storia del socialismo italiano, vol. I, Einaudi, Torino 1993. Una sintesi che delinea con precisione le componenti interne del partito socialista è data da L. Valiani nel saggio Il Partito socialista italiano dal 1900 al 1918, in AA.VV., Il movimento operaio e socialista. Bilancio storiografico e problemi storici, Edizioni del Gallo, Milano 1965 (con saggi di G. Bosio, C. Francovich, P.C. Masini, G. Manacorda, G. Arfè, F. Catalano). Proficua la consultazione dell’antologia Il socialismo nella storia d’Italia, a cura di G. Manacorda, Laterza, Bari 1966. I dibattiti congressuali sono sinteticamente ricostruiti da F. Pedone, Il partito socialista italiano nei suoi congressi, Edizioni «Avanti!», Milano 1959-1963, mentre un’analitica raccolta antologica degli atti congressuali è Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione. Dibattiti congressuali del PSI 1892-1921, a cura di L. Cortesi, Laterza, Bari 1969. Sull’origine ed evo-
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luzione del partito socialista come partito di massa, con particolare attenzione anche agli aspetti culturali, simbolici e rituali, oltre che organizzativi, è fondamentale M. Ridolfi, Il PSI e la nascita del partito di massa.1892-1922, Laterza, Roma-Bari 1992; mentre di alcuni aspetti dell’organizzazione e della propaganda socialista si occupa M. Degl’Innocenti, Geografia e istituzioni del socialismo italiano, Guida, Napoli 1984. Su l’«Avanti!», si veda G. Arfè, Storia dell’Avanti!, 18961946, Edizioni «Avanti!», Milano 1956. Un’utile antologia della maggiore rivista socialista è «Critica sociale», a cura di M. Spinella, A. Caracciolo, R. Amaduzzi, G. Petronio, Feltrinelli, Milano 1959. All’esame dei contrasti interni durante il periodo giolittiano è dedicato G. Mammarella, Riformisti e rivoluzionari nel partito socialista italiano 1900-1912, Marsilio, Padova 1968, mentre il volume di B. Vigezzi, Il PSI, le riforme e la rivoluzione (1898-1915), Sansoni, Firenze 1981, sviluppa la sua analisi in riferimento all’attività di Turati e della Kuliscioff; sui rapporti fra Turati e Giolitti si veda anche Id., Giolitti e Turati. Un incontro mancato, Ricciardi, Milano-Napoli 1979. Il volume di E. Santarelli, La revisione del marxismo in Italia, Feltrinelli, Milano 1964, ricostruisce, in vari saggi, il dibattito ideologico in relazione con le correnti del revisionismo europeo di destra e di sinistra. Sul riformismo: F. Manzotti, Il socialismo riformista in Italia, Le Monnier, Firenze 1965; L. Cortesi, Ivanoe Bonomi e la socialdemocrazia italiana, SES, Salerno 1971; T. Detti, Il socialismo riformista in Italia, La Pietra, Milano 1981. Sul socialismo rivoluzionario dopo il 1912 si veda, in particolare, R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario, Einaudi, Torino 1965. Sul movimento giovanile manca un lavoro organico e analitico, in generale si veda G. Arfè, Il movimento giovanile socialista. Appunti sul primo periodo 1903-1912, Bella Ciao, Milano 1973. Per il socialismo anarchico, si veda la sintesi di E. Santarelli, Il socialismo anarchico in Italia, Feltrinelli, Milano 1959. Per quanto riguarda alcuni principali esponenti del movimento socialista si vedano: su Turati, G. Monteleone, Filippo Turati, Utet, Torino 1988; S. Di Scala, Dilemmas of Italian Socialism: the Politics of Filippo Turati, University of Massachusetts Press, Amherst 1980, e il saggio di G. De Rosa, Filippo Turati e il gruppo dirigente giolittiano nelle carte di Camillo Corradini (19071916), in «Rivista storica del socialismo», 1958; sui rapporti KuliscioffTurati, si veda N. Valeri, Turati e la Kuliscioff, Le Monnier, Firenze 1974. Su Anna Kuliscioff: M. Casalini, La signora del socialismo italiano, Editori Riuniti, Roma 1987. Su Ferri: R. Salvadori, Momenti dell’azione politica di Enrico Ferri (1908-1915), in «Bollettino storico mantovano», 1956. Su Bissolati: R. Colapietra, Leonida Bissolati, Feltrinelli, Milano 1958. Su Salvemini: E. Tagliacozzo, Gaetano Salvemi-
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ni nel cinquantennio liberale, La Nuova Italia, Firenze 1959; Gaetano Salvemini, Laterza, Bari 1959, con saggi di E. Sestan, R. Villari, A. Saitta, E. Garin, E. Tagliacozzo; M.L. Salvadori, Gaetano Salvemini, Einaudi, Torino 1963; Gaetano Salvemini tra politica e storia, a cura di G. Cingari, Laterza, Roma-Bari 1986; C. Killinger, Gaetano Salvemini. A biography, Praeger, Westport, Connecticut-London 2002. Sul sindacalismo rivoluzionario manca tuttora una storia complessiva, a parte le sintesi informative di B. Uva, Vita e morte del sindacalismo rivoluzionario italiano, in «Storia e politica», n. 3, 1963, e G.B. Furiozzi, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia, Mursia, Milano 1977. Una guida bibliografica relativa al primo decennio del Novecento è fornita da A. Osti Guerrazzi, Il sindacalismo rivoluzionario in Italia (1904-1914): una bibliografia orientativa, in «Rassegna di storia contemporanea», 1996. Analiticamente il primo periodo del sindacalismo rivoluzionario italiano, fino al 1908, è ricostruito da A. Riosa, Storia del sindacalismo rivoluzionario in Italia 1902-1908, De Donato, Bari 1976; per il periodo successivo si veda Id., Il sindacalismo rivoluzionario in Italia dal 1907 alla «settimana rossa», in «Movimento operaio e socialista», 1979, e i saggi raccolti in Id., Momenti e figure del sindacalismo prefascista, Unicopli, Milano 1996. Si segnalano, inoltre, fra i contributi a carattere generale: A. De Clementi, Politica e società nel sindacalismo rivoluzionario (1900-1915), Bulzoni, Roma 1983; G.B. Furiozzi, Socialismo, anarchismo e sindacalismo rivoluzionario, Maggioli, Rimini 1984; M. Antonioli, Il sindacalismo rivoluzionario italiano dalle origini al fascismo. Studi e ricerche, Biblioteca Franco Segantini, Pisa 1997. Sui principali protagonisti del sindacalismo rivoluzionario: R. De Felice, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo nel carteggio De Ambris-D’Annunzio, Morcelliana, Brescia 1966, che contiene notizie essenziali sulla formazione e l’azione del sindacalista rivoluzionario; D. Marucco, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario, Fondazione Einaudi, Torino 1970 (a Labriola si deve anche una polemica interpretazione della politica italiana, la Storia di dieci anni. 1899-1909, pubblicata nel 1910 e riedita a cura di N. Tranfaglia, Feltrinelli, Milano 1975); W. Gianinazzi, L’itinerario di Enrico Leone. Liberismo e sindacalismo nel movimento operaio italiano, Franco Angeli, Milano 1996; A.O. Olivetti, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativo, Bonacci, Roma 1984. Alcuni aspetti teorico-ideologici sono stati studiati da G. Cavallari, Classe dirigente e minoranze rivoluzionarie. Il protomarxismo italiano: Arturo Labriola, Enrico Leone, Ernesto Longobardi, Jovene, Napoli 1985. Le eterogenee e molto discusse convergenze fra sindacalismo rivoluzionario e nazionalismo nel periodo giolittiano nel tentativo di elaborazione di un “socialismo nazionale”, sinteticamente
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trattate in E. Santarelli, Le socialisme national en Italie: précèdente et origines, in «Le Mouvement social», gennaio 1965, sono state studiate con maggior interesse negli anni più recenti, ma viste quasi sempre, attraverso una deviante “retrospettiva storiografica”, come manifestazioni di “protofascismo” se non di vero e proprio “fascismo”: tipico, in questo senso, è il volume di Z. Sternhell, M. Szanjder, M. Asheri, Nascita dell’ideologia fascista, trad. it. Baldini & Castoldi, Milano 1989, dove l’ideologia fascista viene vista unicamente come filiazione di queste convergenze e fatta coincidere sostanzialmente con il sindacalismo nazionale degli anni a cavallo della Grande Guerra. Un diverso orientamento, anche se variamente argomentato, emerge dagli studi di W. Gianinazzi, Intellettuali in bilico. “Pagine libere” e i sindacalisti rivoluzionari prima del fascismo, Unicopli, Milano 1996; M. Gervasoni, La penna e il movimento. Intellettuali e socialismo tra Milano e Parigi, M&B Publishing, Milano s.d.; M. Carli, Nazione e rivoluzione. Il “socialismo nazionale” in Italia: mitologia di un discorso rivoluzionario, Unicopli, Milano 2001. Sull’anarchismo in Italia nel periodo giolittiano, fornisce un primo inquadramento storiografico la rassegna di G. Cerrito, Il movimento anarchico dalle sue origini al 1914. Problemi e orientamenti storiografici, in «Rassegna storica toscana», 1968; si vedano, insieme ai lavori di sintesi di P.C. Masini, Gli anarchici italiani da Bakunin a Malatesta, Rizzoli, Milano 1969, e di E. Santarelli, Il socialismo anarchico in Italia, Feltrinelli, Milano 1973; G. Cerrito, Dall’insurrezionalismo alla settimana rossa, Firenze 1977, gli studi biografici dei principali esponenti: G. Landi, Tra anarchismo e sindacalismo rivoluzionario. Armando Borghi nell’USI, Casa Armando Borghi, Castelbolognese 1982; M. Antonioli, Armando Borghi e l’Unione sindacale italiana, Lacaita, Manduria 1990; E. Falco, Armando Borghi e gli anarchici italiani, Edizioni Quattro Venti, Urbino 1992; G. Berti, Francesco Saverio Merlino. Dall’anarchismo socialista al socialismo liberale (1856-1930), Franco Angeli, Milano 1993. La storia del movimento cattolico è indissolubilmente legata ai rapporti fra Stato e Chiesa, problema sul quale resta fondamentale il volume di A.C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Einaudi, Torino 1948 (riedito con il titolo Chiesa e Stato in Italia dall’unificazione ai giorni nostri, 1977), mentre un profilo sintetico è F. Fonzi, I cattolici e la società italiana dopo l’unità, Studium, Roma 1960. Un’utile documentazione è data dall’antologia Chiesa e Stato nella storia d’Italia. Storia documentaria dall’Unità alla Repubblica, a cura di P. Scoppola, Laterza, Bari 1967; sui rapporti fra Giolitti e i cattolici è fondamentale il volume di G. Spadolini, Giolitti e i cattolici, Le Monnier,
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Firenze 1970. Fra le rassegne bibliografiche sulla storiografia del movimento cattolico, G. Verucci, Recenti studi sul movimento cattolico in Italia, in «Rivista storica italiana», 1955; M. Bendisciolì, Recenti studi di storia del movimento cattolico, in «Il Politico», 1966, e M.G. Rossi, Il movimento cattolico, in N. Tranfaglia (a cura di), L’Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra, Feltrinelli, Milano 1980. Utile per un inquadramento generale è l’antologia curata da B. Gariglio, E. Passerin d’Entréves, Introduzione alla storia del movimento cattolico in Italia, Il Mulino, Bologna 1979. Per la storia generale del movimento cattolico si vedano i volumi, di diversa ispirazione ideologica, di G. Candeloro, Il movimento cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma 1953 e di G. De Rosa, Storia del movimento cattolico in Italia, vol. I, Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Laterza, Bari 1966, insieme ai saggi sul periodo giolittiano della Storia del movimento cattolico in Italia, diretta da F. Malgeri, Il Poligono, Roma 1980-1981. Si vedano, inoltre, G. Spadolini, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Le Monnier, Firenze 1954; M.G. Rossi, Le origini del partito cattolico, Editori Riuniti, Roma 1977; G. Vecchio, Alla ricerca del partito. Cultura politica ed esperienze dei cattolici italiani nel primo Novecento, Morcelliana, Brescia 1987. Sugli aspetti sociali: A. Gambasin, Il movimento sociale nell’Opera dei congressi. Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Università Gregoriana, Roma 1958; I cattolici e la questione sociale in Italia nel 1874-1904, a cura di G. Are, Feltrinelli, Milano 1963. Sulla figura e l’opera di Romolo Murri si vedano G. Capelli, Romolo Murri, contributo per una biografia, Cinque Lune, Roma 1960; S. Zoppi, Romolo Murri e la prima democrazia cristiana, Vallecchi, Firenze 1968; F.M. Cecchini, Murri e il murrismo, Argalia, Urbino 1973; M. Guasco, Romolo Murri. Tra la “Cultura sociale” e “Il Domani d’Italia”(1898-1906), Edizioni Studium, Roma 1988. Trattano le vicende del movimento cattolico in relazione ai problemi della democrazia e del modernismo i volumi di P. Scoppola, Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna 1966; Id., Crisi modernista e rinnovamento cattolico in Italia, Il Mulino, Bologna 1961; L. Bedeschi, Interpretazioni e sviluppi del movimento cattolico, Bompiani, Milano 1975; M. Guasco, Modernismo. I fatti, le idee e i personaggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995. Sulla Lega democratica nazionale: G. Brogi, La Lega democratica nazionale, Cinque Lune, Roma 1959; L. Bedeschi, I pionieri della DC. Modernismo cattolico 18961906, Il Saggiatore, Milano 1966; C. Giovannini, Politica e religione nel pensiero della Lega democratica nazionale, Cinque Lune, Roma 1968. Sul conservatorismo cattolico: O. Confessore, Conservatorismo politico e riformismo religioso. La «Rassegna Nazionale» dal 1898 al 1908, Il
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Mulino, Bologna 1970. Sulla figura e il pensiero di Meda: G. De Rosa, Filippo Meda e l’età liberale, Le Monnier, Firenze 1959, e G. Formigoni (a cura di), Filippo Meda tra economia, società e politica, Vita e Pensiero, Milano 1991. Su Luigi Sturzo, oltre il volume miscellaneo L. Sturzo. Saggi e testimonianze, Civitas, Roma 1960, si veda M. Vaussard, Il pensiero politico e sociale di Luigi Sturzo, Morcelliana, Brescia 1966; G. De Rosa, Sturzo, Utet, Torino 1977, e la raccolta di articoli L. Sturzo, «La Croce di Costantino», a cura di G. De Rosa, Edizioni di storia e letteratura, Roma 1958. Sui “cattolici nazionali”, si veda P. Giovannini, Cattolici nazionali e impresa giornalistica. Il trust della stampa cattolica (1907-1918), Unicopli, Milano 2001. Per quanto riguarda la polemica anticlericale, si vedano i saggi di E. Decleva, Anticlericalismo e lotta politica nell’Italia giolittiana, in «Nuova rivista storica», 1969. Sui radicali, una sintesi essenziale è A. Galante Garrone, I radicali in Italia 1849-1925, Garzanti, Milano 1973; più specifico L. D’Angelo, Radical-socialismo e radicalismo sociale in Italia (1892-1914), Giuffrè, Milano 1984; sopravvaluta, con argomentazioni contraddittorie, la vitalità del partito radicale nel periodo giolittiano, il volume di G. Orsina, Senza Chiesa né classe. Il partito radicale nell’età giolittiana, Carocci, Roma 1998. Per la storia del partito repubblicano, oltre i saggi di G. Spadolini raccolti nel suo L’opposizione laica nell’Italia moderna 18611922, Le Monnier, Firenze 1988, è da vedere soprattutto M. Tesoro, I repubblicani nell’età giolittiana, Le Monnier, Firenze 1978, a cui va aggiunto Id., Democrazia in azione. Il progetto repubblicano da Ghisleri a Zuccarini, Franco Angeli, Milano 1996; utile, anche se limitato geograficamente, è il saggio di L. Lotti, I repubblicani in Romagna dal 1894 al 1915, Lega, Faenza 1957. Sulla massoneria: A.A. Mola, Storia della Massoneria dall’Unità alla Repubblica. 1892-1908, Bompiani, Milano 1976; F. Cordova, Massoneria e politica in Italia. 1892-1908, Laterza, Roma-Bari 1985; F. Conti, Sinistra risorgimentale, massoneria e associazionismo fra Ottocento e Novecento, Franco Angeli, Milano 2000. Per quanto riguarda il movimento nazionalista, si rinvia ai riferimenti bibliografici relativi alla politica estera.
Sviluppo economico e rivoluzione industriale Le principali fonti statistiche sono, innanzi tutto, i volumi pubblicati a cura del ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio, direzione generale della Statistica: Censimento generale della popolazione del Regno d’Italia, al 10 febbraio 1901, Roma 1902-1904; Riassunto delle notizie sulle condizioni industriali del Regno 1905-1906, Roma
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1905-1906, che si riferisce in particolare alla situazione del 1903; Censimento degli opifici e delle imprese industriali al 10 giugno 1911, Roma 1913-1916; Censimento generale della popolazione nel Regno d’Italia al 10 giugno 1910, Roma 1914-1916. Più sintetiche raccolte di dati, di rapida consultazione, sono i volumi pubblicati a cura dell’Istituto Centrale di Statistica: Sommario di statistiche storiche italiane 18611974, Roma 1976; Indagine statistica sullo sviluppo del reddito nazionale dell’Italia dal 1861 al 1956, in «Annali di statistica», n. 9, 1957. Una essenziale e importante analisi di dati complessivi è quella elaborata da P. Ercolani, Documentazione statistica di base, nell’opera Lo sviluppo economico in Italia. Storia dell’economia italiana negli ultimi cento anni, a cura di G. Fuà, vol. III, Franco Angeli, Milano 1969. Sull’economia italiana, in generale, oltre al volume di S.B. Clough, Storia dell’economia italiana dal 1861 ad oggi, Cappelli, Bologna 1965, si vedano i lavori di sintesi di V. Castronovo, La storia economica, che costituisce il tomo I del IV volume della Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1975; G. Toniolo, Storia economica dell’Italia liberale, Il Mulino, Bologna 1988; V. Zamagni, Dalla periferia al centro. La seconda rinascita economica dell’Italia (1861-1981), Il Mulino, Bologna 1990; uno schizzo degli effetti della rivoluzione industriale nei cambiamenti della società italiana è in V. Fontana, Il nuovo paesaggio dell’Italia giolittiana, Laterza, Roma-Bari 1981. Utile sintesi informativa sulla politica economica dei governi e sullo sviluppo dei diversi settori produttivi nel periodo giolittiano è S. La Francesca, La politica economica italiana dal 1900 al 1913, Ateneo, Roma 1971. Si vedano, inoltre, per alcuni aspetti della politica protezionista: F.J. Coppa, Planning, Protectionism and Politics in Liberal Italy: Economics and Politics in the Giolittian Age, Catholic University of America Press, Washington 1971, e A. Cardini, Stato liberale e protezionismo (1850-1900), Il Mulino, Bologna 1981. Sulla finanza pubblica cfr. F.A. Repaci, La finanza pubblica nel secolo 1861-1960, Zanichelli, Bologna 1962, e A. Pedone, Il bilancio dello stato e lo sviluppo economico italiano: 1861-1963, in «Rassegna economica», 1967. Sempre proficua la consultazione delle analisi coeve di R. Bachi, L’Italia economica, dall’anno 1909 al 1914, pubblicati dal 1910 sulla «Riforma sociale» e, dal 1912, in volume (Lapi, Città di Castello). Sulla dibattuta questione dello sviluppo industriale e delle sue caratteristiche specifiche, si vedano, in generale, di R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia. 1861-1961, Cappelli, Bologna 1961 (nuova ed. riveduta e ampliata, Il Saggiatore, Milano 1988), e di B. Caizzi, Storia dell’industria italiana dal secolo XVIII ai giorni nostri, Utet, Torino 1965. Una ricca rassegna della storiografia su aspetti e
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problemi dell’economia industriale è G. Mori, Studi di storia dell’industria, Editori Riuniti, Roma 1967 (a cui si è affiancata l’antologia, a cura dello stesso autore, L’industrializzazione in Italia, Il Mulino, Bologna 1981). Altri volumi di rilevante interesse: G. Are, Alle origini dell’Italia industriale, Guida, Napoli 1974; V. Zamagni, Industrializzazione e squilibri regionali in Italia. Bilancio dell’età giolittiana, Il Mulino, Bologna 1978; V. Castronovo, L’industria italiana dall’ottocento a oggi, Mondadori, Milano 1980. Il vivace e proficuo dibattito sul problema della «rivoluzione industriale» e dei suoi fattori propulsivi, sommariamente delineato nel presente volume, può essere opportunamente approfondito con il fondamentale volume di A. Gerschenkron, Il problema storico dell’arretratezza economica, Einaudi, Torino 1965, e con la raccolta di saggi a cura di A. Caracciolo, La formazione dell’Italia industriale, Laterza, Bari 1969 (con il dibattito di A. Gerschenkron, R. Romeo e saggi di L. Spaventa, L. Dal Pane, S. Fenoaltea, L. Cafagna, R.S. Eckaus, D. Tosi, R. Zangheri). Il problema dello sviluppo è discusso anche nel volume Lo sviluppo economico italiano. 18611940, a cura di G. Toniolo, Laterza, Roma-Bari 1973 (con saggi di P. Ciocca, J.S. Cohen, R. Faucci, S. Fenoaltea, E. Sori, R.E. Sylla, S. Tattara, G. Toniolo, V. Zamagni, in gran parte orientati secondo i criteri e i metodi della «nuova storia economica»). Una precisa e vivace riflessione critica sui problemi dello sviluppo industriale è data da G. Pescosolido, Agricoltura e industria nell’Italia unita, Le Monnier, Firenze 1983. Di grande rilievo la raccolta dei saggi di L. Cafagna raccolti nel volume Dualismo e sviluppo nella storia d’Italia, Marsilio, Venezia 1989. Sul problema del finanziamento dello sviluppo industriale e della politica degli istituti di emissione: M. De Luca, Il credito di lunga e media scadenza all’industria italiana dall’unificazione ad oggi, Zanichelli, Bologna 1962; P. Hertner, Il capitale tedesco in Italia dall’Unità alla prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1984; F. Bonelli, Osservazioni e dati sul finanziamento dell’industria italiana all’inizio del secolo XX, in «Annali della Fondazione Luigi Einaudi», vol. II, Torino 1968 (dello stesso autore: La crisi del 1907. Una tappa dello sviluppo industriale in Italia, Einaudi, Torino 1971, e Il capitalismo italiano, in Storia d’Italia. Annali, I, Einaudi, Torino 1978); J.S. Cohen, Financing Industrialization in Italy 1894-1914: The Partial Transformation of a Late-Comer, in «Journal of Economic History», 1967; P. Milza, Les rapports économiques franco-italiéns en 1914-1915 et leurs incidences politiques, in «Revue d’Histoire Moderne et Contemporaine», 1967; B. Gille, Les investissements français en Italie (1815-1914), Ilte, Torino 1968. Per i rapporti fra banca e mondo industriale si veda: R. Came-
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ron, Le banche e lo sviluppo del sistema industriale, Il Mulino, Bologna 1975; A. Confalonieri, Banca e industria in Italia 1894-1906, Banca Commerciale Italiana, Milano 1974 (ried., Il Mulino, Bologna 1980); L. De Rosa, Storia del Banco di Roma, Edizioni del Banco di Roma, Roma 1982-1984, 3 voll. Fondamentale il volume di G. Are, Economia e politica nell’Italia liberale, Il Mulino, Bologna 1974, per un approfondito esame dei problemi dell’agricoltura connessi con lo sviluppo capitalistico in Italia, attraverso l’analisi del pensiero economico italiano nell’età giolittiana. Per la storia delle maggiori aziende industriali: V. Castronovo, Giovanni Agnelli. La Fiat dal 1899 al 1945, Einaudi, Torino 1977; F. Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Einaudi, Torino 1975; P. Macchione, L’oro e il ferro. Storia della Franco Tosi, Franco Angeli, Milano 1988; P. Rugafiori, Perrone. Da casa Savoia all’Ansaldo, Utet, Torino 1992; F.H. Adler, Italian Industrialists from Liberalism to Fascism. The Political Development of the Industrial Bourgeoisie, 1906-1934, Cambridge University Press, Cambridge 1995. Sullo sviluppo dell’agricoltura, in generale, il volume di M. Bandini, Cento anni di storia agraria italiana, Cinque Lune, Roma 1957, costituisce un’agile sintesi; indispensabile G. Orlando, Progressi e difficoltà dell’agricoltura, in Fuà (a cura di), Lo sviluppo economico in Italia, cit.; G. Porisini, Produttività e agricoltura: i rendimenti del frumento in Italia dal 1815 al 1922, Ilte, Torino 1971; E. Rossigni, C. Vanzetti, Storia della agricoltura italiana, Edagricole, Bologna 1986. Importanti, per l’analisi dei dibattiti parlamentari sulla politica agraria e sull’atteggiamento del mondo rurale e della proprietà fondiaria, sono i volumi di S. Rogari, Ruralismo e anti-industrialismo di fine secolo. Neofisiocrazia del movimento cooperativo cattolico, Le Monnier, Firenze 1984; Id., Proprietà fondiaria e modernizzazione. La Società degli agricoltori italiani, 1895-1920, Franco Angeli, Milano 1994; Id., Rappresentanza, corporazione, conflitto. Ceti e figure dell’Italia rurale fra Otto e Novecento, Centro editoriale toscano, Firenze 1998. Per quanto riguarda il problema dello sviluppo economico in relazione con le differenze fra Nord e Sud, una documentazione di base è fornita dalle antologie Il Nord nella storia d’Italia. Antologia politica dell’Italia industriale, a cura di L. Cafagna, Laterza, Bari 1962, e Il Sud nella storia d’Italia. Antologia della questione meridionale, a cura di R. Villari, Laterza, Bari 1961. Sulla questione meridionale, oltre la vastissima letteratura coeva al periodo giolittiano, è fondamentale il volume di F. Vöchting, La questione meridionale, Istituto Editoriale per il Mezzogiorno, Napoli 1955. Di utile consultazione la Nuova antologia
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della questione meridionale, a cura di B. Caizzi, Comunità, Milano 1962. Analisi del pensiero dei principali meridionalisti è il volume di M.L. Salvadori, Il mito del buon governo. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, Einaudi, Torino 1963. Fra gli studi critici fondamentali, si vedano: S.B. Clough, C. Livi, Economic Growth in Italy: an Analisys of the Uneven Development of North and South, in «Journal of Economic History», 1956; P. Saraceno, La mancata unificazione economica a cento anni dall’unificazione politica, in Id., L’Italia verso la piena occupazione, Feltrinelli, Milano 1963; R.S. Eckaus, The North South Differential in Italian Economic Development, in «Journal of Economic History», 1961, parzialmente riprodotto in La formazione dell’Italia industriale, cit.; G. Galasso, Mezzogiorno medievale e moderno, Einaudi, Torino 1965 e Passato e presente del meridionalismo, Guida, Napoli 1978, 2 voll.; L. De Rosa, La rivoluzione industriale in Italia e il Mezzogiorno, Laterza, Roma-Bari 1973; F. Compagna, Meridionalismo liberale, Ricciardi, Napoli 1975; F. Barbagallo, Mezzogiorno e questione meridionale, Guida, Napoli 1980; G. Barone, Mezzogiorno e modernizzazione. Elettricità, irrigazione e bonifica nell’Italia contemporanea, Einaudi, Torino 1986. Sul problema dell’emigrazione sono da vedere E. Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1979, e R. Paris, L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia, vol. IV, tomo I, cit.; per il dibattito politico sulla questione si veda F. Manzotti, La polemica sull’emigrazione nell’Italia unita fino alla prima guerra mondiale, Dante Alighieri, Milano-Roma 1962; per l’emigrazione meridionale: F. Barbagallo, Lavoro ed esodo nel Sud, 1861-1971, Guida, Napoli 1973. Su alcuni problemi economici e politici particolari di cui si è data notizia nel presente volume, ci limitiamo a segnalare, per il loro specifico interesse: S. La Francesca, La statizzazione delle ferrovie e lo sviluppo dell’industria elettrica, in «Clio», 1965; A. Papa, Classe politica e intervento pubblico nell’età giolittiana. La nazionalizzazione delle ferrovie, Guida, Napoli 1973; A. Scialoja, L’Istituto nazionale delle Assicurazioni ed il progetto giolittiano di un monopolio di Stato delle assicurazioni sulla vita, in «Quaderni storici», 1971.
Lotta di classe e mobilitazione sociale Sulle lotte sindacali nel periodo giolittiano, fra le opere generali: G. Candeloro, Il movimento sindacale in Italia, Cultura sociale, Roma 1950; A. Gradilone, Storia del sindacalismo, Giuffrè, Milano 19571959; D.L. Horowitz, Il movimento sindacale italiano, Il Mulino, Bo-
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Bibliografia
logna 1966; I. Barbadoro, Storia del sindacalismo italiano. Dalla nascita al fascismo: I. La Federterra; II. La CGdL, La Nuova Italia, Firenze 1973. Sulla Confederazione Generale del Lavoro, oltre al volume documentario La CGdL negli atti, nei documenti, nei congressi (19061926), a cura di L. Marchetti, Edizioni «Avanti!», Milano 1962, si veda soprattutto A. Pepe, Storia della CGdL dalla fondazione alla guerra di Libia (1905-1911), Laterza, Bari 1972; Id., Storia della CGdL dalla guerra di Libia all’intervento (1911-1915), Laterza, Bari 1971, e dello stesso autore, Movimento operaio e lotte sindacali, Loescher, Torino 1976; G. Cartiglia, Rinaldo Rigola e il sindacalismo riformista in Italia, Feltrinelli, Milano 1976. Sulla lotta di classe nelle campagne: Le campagne emiliane nell’epoca moderna, Feltrinelli, Milano 1957, e Lotte agrarie in Italia. La Federazione nazionale dei lavoratori della terra 1901-1905, a cura di R. Zangheri, Feltrinelli, Milano 1960; L. Radi, I mezzadri, le lotte contadine nell’Italia centrale, Cinque Lune, Roma 1962; G. Giorgetti, Contadini e proprietari nell’Italia moderna, Einaudi, Torino 1974; R. Zangheri, Agricoltura e contadini nella storia d’Italia, Einaudi, Torino 1977; F.M. Snowden, Violence and Great Estates in the South of Italy: Apulia 1900-1922, Cambridge University Press, Cambridge 1986. Una informata rassegna sulla storiografia del movimento sindacale è il volume Il movimento sindacale in Italia. Rassegna di studi 1945-1969, Fondazione L. Einaudi, Torino 1970 (con saggi di A. Agosti, A. Andreasi, G.M. Bravo, D. Marucco, M. Nejerotti); interessante per l’impostazione problematica il saggio di A. Lay, D. Marucco, M.L. Pesante, Classe operaia e scioperi: ipotesi per il periodo 1880-1923, in «Quaderni storici», 1973, e il volume di A. Lay, M.L. Pesante, Produttori senza democrazia. Lotte operaie, ideologie corporative e sviluppo economico da Giolitti al fascismo, Il Mulino, Bologna 1981. Sulla composizione della classe operaia italiana e le prime lotte rivendicative fino allo sciopero generale del 1904, fondamentale è l’esemplare lavoro di G. Procacci, La lotta di classe in Italia agli inizi del secolo XX, Editori Riuniti, Roma 1970. Da consultare anche A. Pepe, Lotta di classe e crisi industriale in Italia. La svolta del 1913, Feltrinelli, Milano 1978. Sull’organizzazione sindacale degli industriali si veda: M. Abrate, La lotta sindacale nell’industrializzazione in Italia 19061926, Ceris, Torino 1968. Per altre esperienze di associazionismo sindacale: E.R. Papa, Magistratura e politica. Origini dell’associazionismo democratico nella magistratura italiana (1861-1913), Marsilio, Venezia 1973; F. Venturini, Un «sindacato» di giudici da Giolitti a Mussolini. L’Associazione generale fra i magistrati italiani, 1909-1926, Il Mulino, Bologna 1987; G. Melis, Burocrazia e socialismo nell’Italia liberale. Al-
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le origini dell’organizzazione sindacale del pubblico impiego (19001922), Il Mulino, Bologna 1980. Sullo sciopero generale del 1904 cfr. Procacci, La lotta di classe, cit. Sullo sciopero nel parmense del 1908, oltre il citato lavoro di Riosa, U. Balestretti, Lo sciopero parmense del 1908 nel ricordo e nelle considerazioni di un vecchio sindacalista, in «Movimento operaio e socialista», 1965, e T.R. Sykes, Revolutionary Syndicalism in the Italian Labour Movement: the Agrarian Strikes of 1907-1908 in the Provincia of Parma, in «International Review of Social History», 1976.
La politica estera e il nazionalismo italiano Sulle vicende politiche e diplomatiche della politica estera italiana dopo il fallimento dell’imperialismo crispino fino alla prima guerra mondiale, si segnalano, per la storia generale: C. Morandi, La politica estera dell’Italia da Porta Pia all’età giolittiana, a cura di F. Manzotti, Le Monnier, Firenze 1967; A. Torre, La politica estera dell’Italia: I. Dal 1870 al 1896; II. Dal 1896 al 1914, Zanichelli, Bologna 1959-1960; E. Decleva, Da Adua a Sarajevo. La politica estera italiana e la Francia. 1896-1914, Laterza, Bari 1971, e, dello stesso, l’utile sintesi L’Italia e la politica internazionale dal 1870 al 1914, Mursia, Milano 1975; C.J. Lowe, F. Marzari, Italian Foreign Policy (1870-1940), Routledge & Kegan, London 1975; R.J.B. Bosworth, La politica estera dell’Italia giolittiana, Editori Riuniti, Roma 1985; J.D. Grange, L’Italie et le Méditerranée (1896-1911). Les fondaments d’une politique étrangére, Ecole française de Rome, Roma 1994, 2 voll. Sul colonialismo italiano in generale, L. Goglia, F. Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Laterza, Roma-Bari 1981; sulla guerra italo-turca e la conquista della Libia, si vedano, inoltre, P. Maltese, La terra promessa. La guerra italo-turca e la conquista della Libia, Sugar, Milano 1968, e, soprattutto, F. Malgeri, La guerra libica, Edizioni di storia e di letteratura, Roma 1970, che esamina la situazione interna del paese, i movimenti dell’opinione pubblica, l’azione del governo e le reazioni delle forze politiche. Per l’opinione pubblica, si segnalano: M. Pincherle, La preparazione dell’opinione pubblica all’impresa di Libia, in «Rassegna storica del Risorgimento», n. 3, 1969, e per l’opposizione all’impresa de «La Voce»: E. Gentile, La Voce e l’età giolittiana, Pan, Milano 1972. Di notevole interesse G. Gianferrotti, Giuristi e mondo accademico di fronte all’impresa di Tripoli, Giuffrè, Milano 1984. Per l’atteggiamento dei cattolici di fronte al problema espansionista: L. Ganapini, Il nazionalismo cattolico. I cattolici e la politica estera in Italia dal
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Bibliografia
1871 al 1914, Laterza, Bari 1970; più specifiche analisi dell’azione economica esercitata dai cattolici alla vigilia della guerra libica: R. Mori, La penetrazione pacifica italiana in Libia dal 1907 al 1911 ed il Banco di Roma, in «Rivista di studi politici internazionali», 1957; A. D’Alessandro, Il Banco di Roma e la guerra in Libia, in «Storia e politica», 1968. Sull’atteggiamento dei socialisti, si veda il denso lavoro di M. Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Editori Riuniti, Roma 1976. Su alcuni aspetti dell’imperialismo italiano in relazione con il mondo economico, si veda R. Webster, L’imperialismo industriale italiano, Einaudi, Torino 1974, e G. Mori, Banche, industria e imperialismo nell’età giolittiana, in «Studi storici», 1975. Più in generale, W. Schieder, Fattori dell’imperialismo italiano prima del 1914-15, in «Storia contemporanea», 1972, e G. Are, La scoperta dell’imperialismo. Il dibattito nella cultura italiana del primo novecento, Edizioni Lavoro, Roma 1985. Sul nazionalismo italiano, si segnalano i contributi storiografici più rilevanti. Un quadro complessivo delle molteplici espressioni del «vario nazionalismo» italiano, come fu definito da Gioacchino Volpe, è in E. Gentile, La Grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1997. Per l’analisi delle origini dello sviluppo politico-ideologico del movimento nazionalista sono fondamentali i saggi raccolti in F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Esi, Napoli 1965 (nuova ed., Laterza, Roma-Bari 1981); si vedano, inoltre: S. Bertelli, Incunaboli del nazionalismo, in «Nord e Sud», 1961; W. Alff, L’Associazione nazionalista italiana, in Faschismus und Nationalsozialismus, A. Limbach Verlag, Braunschweig 1964; R. Molinelli, Per una storia del nazionalismo italiano, Argalia, Urbino 1966; S. Lanaro, Nazionalismo e ideologia del blocco corporativo protezionista in Italia, in «Ideologie», 1967; G. Sabbatucci, Irredentismo e movimento nazionalista in Italia, in «Storia contemporanea», 1970-1971; E. Gentile, Papini, Prezzolini, Pareto e le origini del nazionalismo italiano, in «Clio», 1971 (ora in Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1982, 20022); M. Garbari, L’età giolittiana nelle lettere di Scipio Sighele, Società di studi trentini di scienze storiche, Trento 1977; Id., La cultura italiana tra ’800 e ’900 e le origini del nazionalismo, Olschki, Firenze 1981; R. Lill, F. Valsecchi (a cura di), Il nazionalismo in Italia e in Germania fino alla Prima guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1983; F. Perfetti, Il mito imperialista e il nazionalismo italiano, in «Storia e politica», 1971, e Id., Il movimento nazionalista in Italia (19031914), Bonacci, Roma 1984. I rapporti del nazionalismo con il cattolicesimo sono analizzati in modo approfondito, anche se limitatamente al caso di Luigi Federzoni, da R. Moro, Nazionalismo e cattolicesimo, in B. Coccia, U. Gentiloni Silveri (a cura di), Federzoni e la storia della de-
Bibliografia
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stra italiana nella prima metà del Novecento, Il Mulino, Bologna 2001. Fornisce una minuziosa ricostruzione del movimento nazionalista nella capitale A. Roccucci, Roma capitale del nazionalismo (1908-1923), Archivio Guido Izzi, Roma 2001. Di utile consultazione, per la stampa del primo nazionalismo, l’antologia «Leonardo», «Hermes», «Il Regno», a cura di D. Frigessi, Einaudi, Torino 1960.
L’antigiolittismo e la crisi del sistema giolittiano Per le principali interpretazioni storiografiche sui motivi, le caratteristiche e i tempi della crisi del sistema giolittiano rinviamo alle opere generali sulla storia d’Italia e sulla storia dei partiti politici che abbiamo precedentemente indicato. Per altro, il problema della crisi del giolittismo è strettamente legato e si inserisce in un certo senso nel più ampio e complesso problema della crisi dello Stato liberale e, in particolare, dell’interventismo e della prima guerra mondiale. Questi ultimi problemi esulano dalla nostra trattazione che, cronologicamente, si conclude con le dimissioni di Giolitti e la formazione del governo Salandra, nella primavera del 1914. Di conseguenza, ci limitiamo a segnalare alcuni studi relativi ai problemi discussi negli ultimi due capitoli, fornendo informazioni bibliografiche essenziali sugli aspetti complessivi della cultura politica con particolare riferimento alle correnti critiche della politica giolittiana. Per le correnti antigiolittiane nella cultura ideologico-politica, un profilo generale è in N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento, in Storia della letteratura italiana. Il Novecento, vol. IX, Garzanti, Milano 1969 (nuova ed. anche in volume a sé stante, 1990); A. Asor Rosa, La cultura, tomo II del volume IV della Storia d’Italia (Einaudi, Torino 1976); N. Zapponi, I miti e le ideologie. Storia della cultura italiana 1870-1960, in Storia dell’Italia contemporanea, diretta da R. De Felice, vol. VII, Esi, Napoli 1983; per la cultura economica e la politica economica: G. Are, Economia e politica nell’Italia liberale, Il Mulino, Bologna 1974, e A. Cardini, La cultura economica italiana e l’età dell’imperialismo (1900-1911), Giuffrè, Milano 1981; per la cultura giuridica: L. Mangoni, La crisi dello stato liberale e i giuristi italiani, in «Studi storici», 1982. Sulla stampa: V. Castronovo, La stampa italiana dall’Unità al fascismo, Laterza, Roma-Bari 19762 e V. Castronovo e N. Tranfaglia (a cura di), Storia della stampa italiana, vol. III, La stampa italiana nell’età liberale, Laterza, Roma-Bari 1979. Per quanto riguarda i molteplici aspetti dell’antigiolittismo, oltre i riferimenti bibliografici forniti nei paragrafi relativi ai personaggi, ai movimenti e ai partiti di opposi-
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Bibliografia
zione alla politica giolittiana, si vedano: G. De Rosa, La crisi dello Stato liberale, Studium, Roma 1955; J.A. Thayer, L’Italia e la Grande Guerra, Vallecchi, Firenze 1969, 2 voll.; L. Mangoni, Giuseppe Prezzolini, in «Belfagor», 1969; O. Bariè, Luigi Albertini, Utet, Torino 1972; E. Gentile, La Voce e l’età giolittiana, Pan, Milano 1972; Id., Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Laterza, RomaBari 1982 (nuova ed. 20022); S. Zeppi, Il pensiero politico dell’idealismo italiano e il nazionalfascismo, La Nuova Italia, Firenze 1973; W.L. Adamson, Avant-Garde Florence. From Modernism to Fascism, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1993. Per le più significative riviste del primo Novecento, dal «Regno» a «L’Unità», si vedano le antologie pubblicate nella collana La cultura italiana del ’900 attraverso le riviste, Einaudi, Torino 1960-1963. A «La Voce» sono dedicate altre due antologie, una curata da G. Ferrata (San Giovanni ValdarnoRoma 1961); l’altra dallo stesso fondatore e direttore della rivista, G. Prezzolini, La Voce, con la collaborazione di E. Gentile e V. Scheiwiller, Rusconi, Milano 1974. Sui problemi della scuola: L. Borghi, Educazione e autorità nell’Italia moderna, La Nuova Italia, Firenze 1959; D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 ai giorni nostri, Editori Riuniti, Roma 1967; G.C. Lacaita, Istruzione e sviluppo industriale in Italia 1859-1914, Centro storico della tecnica, Genova 1973; M. Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Il Mulino, Bologna 1974; E. De Fort, La scuola elementare dall’Unità alla caduta del fascismo, Il Mulino, Bologna 1996; sulle critiche alla politica giolittiana nel mondo della scuola, si veda L. Ambrosoli, La Federazione Nazionale Insegnanti Scuola Media dalle origini al 1925, La Nuova Italia, Firenze 1967; G. Chiosso, L’educazione nazionale da Giolitti al primo dopoguerra, Editrice la Scuola, Brescia 1983. Sugli effetti politici del suffragio universale e sulla “politica nazionale” di Salandra, si veda B. Vigezzi, Da Giolitti a Salandra, Vallecchi, Firenze 1969. Per un’analisi campione delle vicende collegate alle elezioni con suffragio universale e alle alleanze politiche da questo determinate, si veda: H. Ullrich, Le elezioni del 1913 a Roma. I liberali fra massoneria e Vaticano, Dante Alighieri, Roma 1972. Sul ruolo e carattere dei ceti medi italiani, in generale, si veda P. Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1974. Osservazioni interessanti e originali sul carattere dei «nuovi ceti medi», sono in R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne in Italia, vol. II, Savelli, Roma 1975. Sulla crisi del sistema giolittiano come momento della crisi del liberalismo italiano si vedano le osservazioni di R. Romeo nella recensione a G. Volpe, Italia moderna (1815-1915), in «Rivista storica italiana», fasc. I, 1951; e, in una diversa prospettiva, G.
Bibliografia
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Procacci, Appunti in tema di crisi dello Stato liberale e di origini del fascismo, in «Studi storici», 1965; R. Vivarelli, Italia liberale e fascismo. Considerazioni su una recente storia d’Italia, in «Rivista storica italiana», 1970, ora in Id., Il fallimento del liberalismo, Il Mulino, Bologna 1981; A. Aquarone, Alla ricerca dell’Italia liberale, Guida, Napoli 1972; N. Tranfaglia, Il deperimento dello Stato liberale in Italia, in Id., Dallo Stato liberale al regime fascista, Feltrinelli, Milano 1975; D.J. Forsyth, La crisi dell’Italia liberale. Politica economica e finanziaria. 1914-1922, Corbaccio, Milano 1998.
INDICI
INDICE DEI NOMI
Abrate, Mario, 71, 218-19, 243. Aehrenthal, Alois, barone-conte di, 175. Agnelli, Giovanni, 58. Albertini, Luigi, 27, 33, 132, 156, 166, 203-204, 211, 224. Alessio, Giulio, 122. Amendola, Giovanni, 196, 214, 259. Anzilotti, Antonio, 260. Arcari, Paolo, 193. Arcoleo, Giorgio, 160. Are, Giuseppe, 266. Arfè, Gaetano, 88. Arrivabene, Silvio, 29. Asor Rosa, Alberto, 268. Bachi, Riccardo, 61, 153, 225, 235. Balenzano, Nicola, 116. Barrère, Camillo, 166-67, 169, 171. Barzilai, Salvatore, 128. Bava Beccaris, Fiorenzo, 11. Berenini, Agostino, 34. Bernstein, Eduard, 82, 141. Bertoni Jovine, Dina, 160. Bettòlo, Giovanni, 35, 124, 159. Bianchi, Michele, 186. Bianchi, Riccardo, 119. Bissolati, Leonida, 93-94, 162, 205, 222-23, 237-38, 240-42. Bonelli, Franco, 153. Bonnefon-Craponne, Luigi, 71-72, 218. Bonomi, Ivanoe, 89, 93, 95, 124, 137, 140-42, 237, 239-42.
Bonomi, Paolo, 112. Bresci, Gaetano, 11. Bülow, Bernhard von, 167. Cabrini, Angiolo, 70, 240. Cacciaguerra, Eligio, 146. Caetani, Onorato, 165. Cafagna, Luciano, 60, 66. Cameroni, Agostino, 98. Candeloro, Giorgio, 33, 109, 177. Caneva, Carlo, 181. Canevaro, Felice Napoleone, 7, 165. Carcano, Paolo, 33. Carocci, Giampiero, 48, 124, 158, 239, 270. Cavour, Camillo Benso, conte di, 37, 54. Clough, Shephard B., 54. Colajanni, Napoleone, 203, 205206. Combes, Justin-Louis-Emile, 108. Conrad, Franz Xaver Josef von Hötzendorf, 175. Coppola, Francesco, 180, 189. Cornaggia, Carlo Ottavio, 98. Corradini, Enrico, 180, 188-92. Corridoni, Filippo, 186, 243. Cortesi, Luigi, 76, 84. Costa, Andrea, 157. Credaro, Luigi, 122, 159-60. Crispi, Francesco, 3-4, 9-10, 27, 36, 38-41, 118, 160, 164-65, 170. Croce, Benedetto, VIII-X, 9, 92, 157, 170, 188-89, 209, 260.
302 Currie, Philip Henry Wodehouse, primo barone Currie of Hawley, 169. Daneo, Edoardo, 15, 159-60. D’Annunzio, Gabriele, 180, 184. De Ambris, Alceste, 140, 186, 217, 243, 246. De Felice, Franco, 252. De Felice, Renzo, XII. Degl’Innocenti, Maurizio, 185. Del Carria, Raffaele, 268. Depretis, Agostino, 27, 36, 38. De Rosa, Gabriele, 103, 111, 145, 246. De Viti De Marco, Antonio, 51, 66, 150, 200. Dreyfus, Alfred, 108. Einaudi, Luigi, 51, 56, 186, 218. Engels, Friedrich, 85. Faina, Eugenio, 132. Farini, Domenico, 7. Federzoni, Luigi, 180, 189, 192-93. Ferrero, Guglielmo, 209. Ferri, Enrico, 27, 35, 77, 83-86, 8990, 94, 113, 124, 135, 137, 223, 242. Fonzi, Fausto, 99. Forges-Davanzati, Roberto, 180. Fortis, Alessandro, 118-20, 122, 131, 173. Fortunato, Giustino, 17, 34, 66, 164, 201-202, 211. Fovel, Massimo Natale, 220, 22324. Fradeletto, Antonio, 197. Gaeta, Franco, 190-91. Gagliardo, Lazzaro, 115. Galante Garrone, Alessandro, 149. Gallarati Scotti, Tommaso, 214. Galli, Giorgio, 151. Gentile, Giovanni, 157, 160.
Indice dei nomi
Gentiloni, Vincenzo Ottorino, 113, 151, 244-46, 249, 271. Gerschenkron, Alexander, 51-52, 55, 60-61. Ghisalberti, Carlo, 232. Giolitti, Giovanni, V, IX-XI, 4-9, 1317, 21-32, 34-35, 50, 66, 68, 7778, 81-85, 93, 96-97, 111, 113-23, 125-35, 140-43, 146, 149-52, 15664, 171, 174-75, 177-86, 190, 194202, 204-205, 211-14, 219-23, 225, 227-32, 236, 238, 244, 24750, 252-53, 256, 259, 265-72. Giretti, Edoardo, 51, 186, 200, 223. Giusso, Gerolamo, 35. Goluchowski, Agenor, 169. Grandi, Achille, 147. Grosoli, Giovanni, 107-109. Guesde, Mathiew Basile (detto Jules), 77. Guglielmo II Hohenzollern, imperatore di Germania, 168, 172, 183, 233. Guicciardini, Francesco, 122, 165, 176. Isvolskij, Aleksandr Petrovicˇ, 176. Jemolo, Arturo Carlo, 110. Kautsky, Karl, 77. Kuliscioff, Anna, 85, 159, 221, 223. Labriola, Antonio, 101, 180. Labriola, Arturo, 78, 83, 85-86, 88, 90-97, 120, 137, 142, 199, 246-48. La Francesca, Salvatore, 56, 132. Lamsdorf, Vladimir Nikolaevicˇ, 175. Lazzari, Costantino, 85, 92-93, 239, 241. Leone, Enrico, 90, 93, 137. Leone XIII (Gioacchino Pecci), papa, 105-106, 108, 110. Lerda, Giovanni, 239. Lodi, Luigi, 43, 47.
Indice dei nomi
Lombardo Radice, Giuseppe, 160, 208-10. Longobardi, Ernesto, 93. Lotti, Luigi, 254. Luzzatti, Luigi, 45, 97, 122, 129-30, 159-62, 238. Malatesta Errico, 186. Manacorda, Gastone, 5. Maraviglia, Maurizio, 192. Marcora, Giuseppe, 27, 43, 47, 114, 149, 157. Marx, Karl, 142. Meda, Filippo, 100, 102, 107. Medolago Albani, Stanislao, 106, 144. Millerand, Alexandre, 77. Millo, Enrico, 183. Mirabello, Carlo, 45. Mocchi, Walter, 93. Morgari, Addino, 137. Morin, Enrico, 174. Murri, Romolo, 100-107, 109, 112, 143, 145-46. Mussolini, Benito, IX, 186, 240-41, 244, 254. Nathan, Ernesto, 156. Nenni, Pietro, 186. Nicola II Romanov, zar di Russia, 36. Nitti, Francesco Saverio, 34, 54, 6667, 150, 158, 162, 197, 203, 208, 229-30, 260, 262. Nogara, Bernardino, 183. Ojetti, Ugo, 224. Olivetti, Angelo, 93. Olivetti, Gino, 71-72, 218. Omodeo, Adolfo, 215. Orazio Flacco, Quinto, 80. Orlando, Giuseppe, 62, 64. Orlando, Vittorio Emanuele, 45, 255. Pacelli, Ernesto, 148.
303 Paganuzzi, Giovanni Battista, 99101, 103-104, 106-108. Pantaleoni, Maffeo, 150. Pantano, Edoardo, 122-24. Papa, Antonio, 117. Papafava, Francesco, 15, 17, 36, 120, 128, 150. Papini, Giovanni, 188. Pareto, Vilfredo, 188, 196, 221, 225, 260. Pascoli, Giovanni, 180, 184. Pasella, Umberto, 186. Pedotti, Ettore, 45. Pelloutier, Fernand, 95. Pelloux, Luigi, 4-10, 33, 38, 118, 120, 195, 219, 254. Piaggio, Erasmo, 158. Pio X (Giuseppe Sarto), papa, 10710, 112, 143, 145, 148. Pirandello, Luigi, 214. Podrecca, Guido, 156, 240. Prezzolini, Giuseppe, 188, 196, 207. Prinetti, Giulio, 165, 167-71, 174. Procacci, Giuliano, 68, 90. Raggio, Carlo, 56. Ragionieri, Ernesto, 136, 267. Raimondo, Orazio, 223, 247. Rava, Luigi, 45. Rensi, Giuseppe, 255. Ricasoli, Bettino, 111. Rigola, Rinaldo, 70, 218. Rocco, Alfredo, 189, 197, 264. Romano, Santi, 261-62. Romeo, Rosario, 52-53, 59-61, 271. Ronchetti, Scipione, 45. Rosano, Pietro, 45-46. Rossoni, Edmondo, 186. Rubini, Giulio, 127. Rudinì, Antonio Starabba, marchese di, 3-4, 6, 9-10, 27, 38, 40, 165, 167. Sacchetti, Giuseppe, 104. Sacchi, Ettore, 27, 42-43, 46, 122, 149-50, 223.
304 Sacco, Italo, 147. Salandra, Antonio, 122, 229-30, 250-54, 257-58, 264-65, 267. Salvatorelli, Luigi, 47, 270. Salvemini, Gaetano, VIII-X, 34, 66, 78, 141-42, 161, 184-86, 195, 202, 211, 223, 254, 262-63. San Giuliano, Antonino PaternòCastello, marchese di, 120, 165, 173, 177-79, 181, 235, 251, 253. Saracco, Giuseppe, 10-13, 15. Saraceno, Pasquale, 65. Schanzer, Carlo, 158. Serrati, Carlo Lucio, 85. Sighele, Scipio, 192-93. Soldi, Romeo, 93. Sonnino, Sidney, 5-8, 10, 15, 17-23, 30-31, 34-35, 38, 47, 51, 69, 111, 120-32, 150, 156, 158-59, 176, 194, 206, 216, 251, 258, 265. Sorel, George, 88, 92, 95. Spadolini, Giovanni, 112. Spaventa, Silvio, 252. Stellutti-Scala, Enrico, 45. Stringher, Bonaldo, 130, 153-54. Sturzo, Luigi, 112, 146-48, 195, 203, 221, 246, 262-63, 269. Suardi, Gianforte, 112. Tedesco, Francesco, 45, 116-17. Tittoni, Tommaso, 45, 97, 111-12, 118, 165, 174-76. Togliatti, Palmiro, 271. Tolli, Filippo, 144. Toniolo, Giuseppe, 106-108, 144, 148.
Indice dei nomi
Tocqueville, Charles-Alexis-Henri Clérel de, 258. Treves, Claudio, 76-77, 84-85, 93, 205, 238. Turati, Filippo, 42, 76, 78-91, 93, 124, 138, 141-42, 159, 186, 213, 221-23, 238, 241-42. Umberto I di Savoia, re d’Italia, 11, 16, 18, 171. Valeri, Nino, XI, 41, 157, 249. Valiani, Leo, 242. Verzi, Ernesto, 71. Vigezzi, Brunello, 249. Villari, Pasquale, 67. Visconti Venosta, Emilio, 165-69, 171-73. Vittorio Emanuele II di Savoia, re d’Italia, 163. Vittorio Emanuele III di Savoia, re d’Italia, 12, 15, 127, 168, 170-71, 174-75, 183, 190. Vivarelli, Roberto, 266. Volpe, Gioacchino, VIII-X, 125, 171, 271. Volpi, Giuseppe, 183. Waldeck-Rousseau, Pierre-MarieRené, 77. Wollemborg, Leone, 32-33. Zanardelli, Giuseppe, 5-6, 8, 15-16, 23-24, 26-28, 32-36, 43, 77, 11617, 119, 149, 167-68.
INDICE DEL VOLUME
Introduzione
V
I.
3
Il fallimento della reazione 1. Il governo del generale Pelloux, p. 4 - 2. Il governo di transizione di Giuseppe Saracco, p. 10 - 3. Il dibattito Sonnino-Giolitti, p. 16
II.
Giolitti e la nuova politica liberale
24
1. Una «nuova veduta di governo», p. 24 - 2. Il governo Zanardelli-Giolitti e la svolta liberale, p. 26 - 3. L’attività del governo Zanardelli, p. 32 - 4. Un burocrate alla guida del governo, p. 36 5. Il secondo governo Giolitti, p. 42
III.
Sviluppo economico e mobilitazione sociale
50
1. La «rivoluzione industriale» nell’età giolittiana, p. 50 - 2. Lo sviluppo dell’agricoltura e i problemi del Mezzogiorno, p. 62 - 3. Nascita e sviluppo delle organizzazioni sindacali, p. 68
IV.
Riformisti e rivoluzionari nel movimento socialista
75
1. La vittoria del «programma minimo», p. 75 - 2. Il riformismo di Turati, p. 78 - 3. Gli intransigenti contro il ministerialismo e il riformismo, p. 83 - 4. La crisi del riformismo, p. 89 - 5. Gli intransigenti alla conquista del partito e lo sciopero generale del 1904, p. 94
V. I cattolici nello Stato liberale 1. Orientamenti e tendenze nel mondo cattolico, p. 98 - 2. Murri e la democrazia cristiana, p. 101 - 3. La crisi dell’Opera dei congressi, p. 104 - 4. Pio X e Giolitti, p. 110
98
306
VI.
Indice del volume
Da Giolitti a Giolitti
114
1. La statizzazione delle ferrovie, p. 115 - 2. L’intermezzo di Alessandro Fortis, p. 118 - 3. I cento giorni di Sonnino, p. 120
VII. La “dittatura” giolittiana
129
1. L’attività del terzo ministero Giolitti, p. 130 - 2. Il successo del riformismo nel partito socialista, p. 135 - 3. I cattolici nella vita politica italiana, p. 143 - 4. I radicali nella rete del giolittismo, p. 149 - 5. La crisi economica del 1907, p. 152 - 6. Le elezioni del 1909, i governi di Sonnino e di Luzzatti e il ritorno di Giolitti, p. 156
VIII. La politica estera, la guerra di Libia e lo sviluppo del nazionalismo 164 1. Revisione della politica estera italiana, p. 164 - 2. La questione libica e la conferenza di Algeciras, p. 168 - 3. I contrasti fra Austria e Italia, p. 173 - 4. La guerra di Libia, p. 177 - 5. Origini e sviluppo del nazionalismo italiano, p. 187
IX.
L’antigiolittismo e il mito dello Stato nuovo
194
1. Gli antigiolittiani e i meriti di Giolitti, p. 194 - 2. Critiche al sistema giolittiano, p. 198 - 3. La «dittatura parlamentare», p. 203 4. Insegnanti e burocrati contro lo Stato giolittiano, p. 209 - 5. Le due Italie, p. 213 - 6. L’antigiolittismo dei partiti popolari, p. 219
X.
Il tramonto del sistema giolittiano
227
1. Il quarto ministero Giolitti, p. 228 - 2. Le guerre balcaniche e la crisi economica del 1913, p. 233 - 3. I rivoluzionari alla guida del partito socialista, p. 237 - 4. Il patto Gentiloni e le elezioni del 1913, p. 244 - 5. Il governo Salandra e la «settimana rossa», p. 251- 6. Lo Stato liberale e le masse, p. 255 - 7. La fine del sistema giolittiano, p. 264
Bibliografia
273
Indice dei nomi
301