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Italian Pages 254 Year 2012
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Filosofia Pubblica 25 Collana diretta da Sebastiano Maffettone
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A Marco Lavanna, mio marito, e alla memoria di Fausto Sala
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Roberta Sala
La verità sospesa Ragionevolezza e irragionevolezza nella filosofia politica di John Rawls
Liguori Editore
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Indice
1 11
Introduzione I.
Politica senza verità e svolta politica della giustizia La questione della stabilità nella Teoria della giustizia 16: Stabilità della teoria 16, La congruenza di giusto e bene 22; Stabilità della società pluralistica: la soluzione del Liberalismo politico 28: Irrealismo della Teoria della giustizia 28, Realismo dei desideri 35, Gli esiti pluralistici della ragione in condizioni di libertà 38, Un consenso ragionevole 41, Ragionevolezza, non negazione della verità 46; Può la filosofia politica fare a meno della verità? 52: Deriva contestualistica 52, Impotenza liberale e paradosso utopistico 66; A difesa (critica) di Rawls 73: Diverse accezioni di verità 73, Normatività a partire dalla contingenza 76; Conclusione 82.
85
II. La ragionevolezza nella politica Ragionevolezza e giustificazione pubblica 87: Significati ed elementi della ragionevolezza 87, Giustificazione pubblica e consenso per intersezione 98, Un esempio: la questione dell’aborto 103; Aporie della ragionevolezza. Critiche e repliche 105: Reciprocità condizionale e legittimità come accettazione 105, Uscire dalla circolarità: legittimità come ‘legittimazione’ 113, Critiche ai vincoli epistemici della ragione pubblica 118, Ragioni religiose versus ragione pubblica 124, Commenti sul valore politico e sui limiti della ragione pubblica 133; Ripensare la giustificazione pubblica 141; Conclusione 154.
157
III. Il trattamento degli “irragionevoli” Riprendere le fila 159; Gli “irragionevoli” 164: Chi sono gli “irragionevoli” 164, L’itinerario per l’inclusione 168, Il trattamento degli “irragionevoli” 173; L’esclusione degli “irragionevoli” 175: Autoesclusi
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Indice dalla giustificazione pubblica 175, Esclusi ingiustificatamente 179; I “non-ragionevoli” 187: Premessa per ripartire 187, Oltre la dicotomia ragionevoli/“irragionevoli” 194, Chi sono i “non-ragionevoli” 196, Non un ‘mero’ modus vivendi 203, L’obiezione culturale 207; Conclusione. La stabilità senza il consenso 213.
221
IV. Congedo
229
Bibliografia
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Introduzione
Scrivere un saggio su John Rawls è sicuramente un azzardo1. Lo è per due ragioni fondamentali: la prima è la sterminata letteratura secondaria a disposizione, in cui ogni concetto e quasi ogni parola della scrittura rawlsiana sono fatti oggetto di minuziosa attenzione. Scegliere che cosa leggere e che cosa trascurare è in sé un’impresa faticosa, o almeno lo è stata per me. La seconda ragione, più fondamentale e che spiega forse la prima, è l’oggettiva difficoltà del pensiero rawlsiano, nonostante l’apparente semplicità. Le opere principali, e mi riferisco alla Teoria della giustizia e a Liberalismo politico, possono essere lette in vari modi, e diversamente interpretata può essere la relazione tra quelli che sono stati chiamati, non sempre propriamente, il I e il II Rawls, i due periodi che fanno capo alle due opere principali in cui è suddivisa la produzione rawlsiana. Quanto a me, ho deciso di leggerli come fasi successive di una stessa ricerca sulla giustizia, anzi sulla praticabilità di una teoria della giustizia. «Il problema che si pone Rawls non consiste nel dimostrare la necessità o l’ineluttabilità dei prin1
John Rawls nacque nel 1921 a Baltimora, Maryland, e morì a Lexington, Massachusetts, nel 2002. Svolse gli studi superiori a Princeton, che interruppe per circa tre anni a causa dello scoppio della seconda guerra mondiale. Al rientro, nel 1946, riprese gli studi con un programma di dottorato a Princeton che concluse nel 1950. Dopo soggiorni di studio e insegnamento a Oxford e a Boston, approdò a Harvard dove insegnò fino al 1995, quando fu colpito dal primo di una serie di ictus che minarono da allora la sua salute. Una biografia accurata, in cui al racconto degli eventi si intreccia la narrazione dell’evoluzione intellettuale di Rawls, è presente in V. Ottonelli (a cura di), Leggere Rawls, Bologna: Il Mulino, 2010; altrettanto attenta e, in ragione dell’amicizia personale dell’autore con Rawls, appassionata, è la ricostruzione biografica svolta in S. Maffettone, Introduzione a Rawls, Roma-Bari: Laterza, 2010, specie le pp. 3-12.
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Introduzione
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cipi di giustizia, ma nel dimostrare che è possibile concepire una società giusta […]. Concepire la possibilità di una società giusta significa innanzitutto immaginare una società in cui le persone sono effettivamente in grado di comportarsi secondo giustizia»2. Non si capisce l’intento complessivo della riflessione rawlsiana se si trascura l’obiettivo pratico che per Rawls ha la filosofia politica: servire a costruire una società giusta che possa essere realizzabile date certe condizioni, che vanno dalle caratteristiche degli esseri umani ai contesti epocali che fissano le circostanze di giustizia. Parlare di obiettivo pratico non significa per Rawls rinunciare ad un obiettivo teorico-normativo: una teoria è una buona teoria, una teoria desiderabile, se risponde alle istanze di coloro ai quali è destinata. Avere in mente un uditorio e cercare di intercettarne bisogni e desideri non significa per Rawls dimettere l’impegno per la filosofia. Significa piuttosto vedere una praticabilità della stessa filosofia, pensare a una filosofia più pratica e meno astratta, più realistica e meno utopica. Ora, a parte la discutibilità di un tale progetto filosofico-politico, e in particolare dell’idea che la filosofia politica debba fare per forza qualcosa, il punto è che il richiamo alla praticabilità – alla stabilità della teoria, scrive Rawls – sembra diventare per lui un’ossessione: è all’altare della stabilità che sacrifica, come prima cosa, qualsiasi legame con la verità. La convinzione di fondo è che fare appello alla verità in politica significa correre il rischio dell’instabilità, specie nel contesto del pluralismo delle visioni del bene che caratterizza la democrazia liberale, per cui nessuna teoria sostanziale della vita buona può essere assunta come fondamento di una società giusta. La verità è per Rawls intrinsecamente divisiva, ovvero generatrice di divisioni, di controversie mai sopite, persino di laceranti conflitti. È una visione forse più moderna che contemporanea, quella rawlsiana, che si richiama esplicitamente all’Europa della Riforma e delle guerre di religione che ne sono seguite. Non è un caso che la tolleranza sia celebrata come la premessa necessaria ad ogni discorso intorno alla giustizia. 2
V. Ottonelli, “Introduzione” a Id. (a cura di), Leggere Rawls, cit., pp. 7-30: 8.
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Introduzione 3
La tolleranza è prima di tutto l’astenersi dalla verità: occorre applicare la tolleranza alla filosofia – scrive Rawls – mettere tra parentesi la nostra stessa verità per considerarla una credenza, cioè nello stesso modo in cui gli altri la vedono e in cui noi vediamo la loro. È un’istanza di neutralità quella invocata da Rawls con il cosiddetto metodo dell’astensione, che significa astensione dalla verità; neutralità come imparzialità, come il non prendere posizione per alcuna delle verità che potrebbero animare ma anche minare la vita politica, giungendo a sostituirle con l’idea politica della ragionevolezza. La ragionevolezza al posto della verità è il punto di partenza e, in un certo qual senso, il punto di arrivo di una società stabile e giusta. Come conseguenza dell’astensione dalla verità la teoria della giustizia congeda la sua pretesa di essere la teoria migliore e preferibile per diventare una concezione politica della giustizia, cioè una concezione che non getta le radici in una teoria in particolare ma che ciascuna teoria può fare propria come un modulo a sé stante, e intorno ad esso realizzare un consenso. Ora, è proprio sull’astensione dalla verità e sull’idea di ragionevolezza che si concentra la mia ricerca. Ammesso e concesso l’obiettivo pratico della filosofia politica di Rawls, che condivido e faccio mio, molti interrogativi si aprono sul metodo per il suo raggiungimento. Fare come se la verità politicamente non ci fosse sembra un’impresa impossibile, almeno nel senso in cui la intraprende Rawls. Tanto più che Rawls, ignorando la verità, non entra nel dettaglio se si tratti di verità ontologica o epistemica, metafisica o morale, di filosofia o di epistemologia. Fa uso invece della nozione di ‘oggettività’ nel senso costruttivistico dell’intersoggettività che, come vedremo, solleva critiche e obiezioni. Se della verità sembra impossibile non parlare, ardua è la pretesa di parlare di una ragionevolezza scollegata dalla verità: porsi a distanza dalla propria verità per osservarla dall’esterno come gli altri la osservano, per non assumere alcun pregiudizio a vantaggio delle proprie credenze, presuppone sullo sfondo una modalità tutt’altro che superficiale di stare in relazione con gli altri, con le istituzioni e con la verità medesima. La ragione-
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Introduzione
volezza non può fare a meno della verità perché della verità è misura e forma. Ragionevolezza non significa garbo nel rivolgere agli altri la parola; significa invece interpretazione di sé e degli altri come eguali portatori di verità, pari per competenza razionale e morale. La ragionevolezza rinvia a un’appartenenza, non solo politica ma anche, in un certo senso, morale e filosofica, un’appartenenza che, come vedremo, non è universale. La ragionevolezza, a sua volta, fonda l’impresa giustificativa che sta al cuore del liberalismo. È perché sono ragionevoli che i partecipanti al dibattito pubblico possono rivendicare il diritto ed assumere il dovere della giustificazione: quest’ultimo prescrive a ciascuno di adottare lo sguardo della ragione pubblica nel giustificare l’esercizio del proprio potere, come nel caso del voto e quando si difendono le proprie posizioni all’interno della sfera politica. Vedremo come l’astensione dalla verità comprometta la buona tenuta dell’impresa giustificativa che si rivela, per paradosso, troppo angusta ed esclusiva. Si invoca, infatti, non la verità a difesa del proprio potere, in modo che chiunque possa valutarne la portata politica, bensì si esibiscono le ragioni che anche gli altri possono accettare ma che, senza sfondo di verità, tendono ad assomigliare alle ragioni del buon senso, che non rivendicano universalità ma, semmai, condivisione. Una mancata condivisione segna la sorte degli “irragionevoli”, coloro che non condividono la prospettiva della ragione pubblica. Rawls riserva loro un trattamento molteplice ma che rivela, al fondo, la mancata disponibilità a fornire ragioni per diventare ragionevoli oltre a quelle che essi sono in grado di trovare da sé entro le proprie convinzioni. A spiegare questa scarsa propensione per un dialogo veramente costruttivo con gli “irragionevoli” sta la convinzione che sia compito loro adottare lo sguardo della ragione pubblica e non già che sia dovere della ragione pubblica farsi più ospitale nei confronti delle loro ragioni. Non c’è spazio nell’arena pubblica per le posizioni che non sono in grado di esibire a proprio sostegno ragioni pubbliche. Conclusione di questo pensiero è che sono gli “irragionevoli” ad escludere se stessi dalla società dei “ragionevoli”: la loro presenza all’interno
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Introduzione 5
della società – dice Rawls – è un dato da registrare ma su cui sorvegliare attentamente, onde prevenire che essi si trasformino in attentatori della stabilità. Agli “irragionevoli” fanatici, che imporrebbero la loro verità sugli altri se ne avessero la possibilità, le istituzioni devono riservare lo stesso trattamento che è indicato in caso di guerra o per arginare epidemie: gli “irragionevoli” devono essere ‘contenuti’ quando non possono più essere tollerati, ferma restando la tutela dei loro inviolabili diritti. Ora, Rawls lascia intuire, ma senza tematizzarla fino in fondo, una diversità all’interno degli “irragionevoli” tra coloro che non vogliono, coloro che non possono e coloro che non sanno fare la differenza tra le proprie ragioni e quelle che valgono o devono valere per tutti. Se sotto la dicitura di “irragionevoli” rientrano i fanatici intolleranti, veri nemici della società, vi si inscrivono anche i sostenitori di posizioni filosofiche forti, morali e religiose, che non accettano l’ingiunzione di non rinviare alla verità nel discutere di questioni di giustizia. Esemplare il dibattito sull’aborto, in cui risulta poco plausibile la pretesa che i ‘difensori della vita’ rinuncino alla verità, peraltro indeterminata, intorno allo statuto ontologico dell’embrione. Sono molte, in breve, le categorie degli “irragionevoli”. La proposta che avanzo, di parlare di un variegato gruppo di “non-ragionevoli”, è funzionale alla possibilità di estendere i confini del dibattito pubblico in modo che vi possano entrare anche coloro che non sono disponibili a difendere le proprie posizioni facendo riferimento ai criteri della ragione pubblica. Nei loro confronti, se non si può parlare in senso stretto di ragionevolezza, nel significato etico-politico che il termine assume come appartenenza a un certo mondo morale, non si può parlare neppure di irragionevolezza nel significato deteriore di inimicizia civica e morale. Aprire lo spazio ai “nonragionevoli” significa meditare su nuove forme di inclusione nella cittadinanza, di cui una, quella del modus vivendi stabile, indica una modalità di convivenza intermedia tra l’accettazione volontaria e convinta delle istituzioni liberali, al centro del consenso per intersezione, e l’acquiescenza prudenziale nei confronti di queste stesse istituzioni, che sta alla base del ‘mero’ modus vivendi
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Introduzione
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hobbesiano, equilibrio instabile di forze contrapposte pronto a rovesciarsi al mutare delle circostanze. Si tratta, allora, di tentare un’alternativa al consenso per intersezione da un lato e al ‘mero’ modus vivendi dall’altro, una modalità del convivere più attenta alle differenze e senza alcuna pregiudiziale esclusione di quelle il cui obiettivo non è l’assimilazione nella famiglia dei liberali, fatta salva la loro affidabilità per una stabile e pacifica coesistenza3. Nel primo capitolo propongo una breve ricognizione delle differenze più salienti, almeno ai fini del mio discorso, tra Una teoria della giustizia e Liberalismo politico. Cerco di inquadrare le ragioni di insoddisfazione che conducono Rawls ad abbandonare la trattazione originaria della giustizia e a intraprendere una difesa ‘politica’ di questa, per cui essa risulterebbe potenzialmente accettabile da tutti a partire da visioni del bene differenti. Tra le varie interpretazioni di questa ‘svolta politica’ nella difesa della giustizia come equità adotto quella che considera centrale la questione della stabilità: preoccupazione di Rawls è vedere come la società giusta prospettata in Una teoria della giustizia possa essere effettivamente stabile, laddove l’argomento della stabilità usato nella Terza parte della Teoria gli appare – nel contesto del pluralismo morale – intrinsecamente limitato. In sintesi, si può dire che la società giusta, così come delineata in Una teoria della giustizia, non è stabile per le ragioni (in essa dichiarate) giuste. Procedo quindi con la discussione relativa all’atteggiamento di ‘astinenza’ epistemica assunto da Rawls come modo per mettere tra parentesi, in quando potenzialmente minacciosa ai fini della stabilità, la discussione circa la verità e il bene, laddove intorno ad essi esiste un insanabile disaccordo. L’obiettivo di Liberalismo 3
Preciso sin da ora che oggetto del mio interesse è la società nazionale e non il panorama internazionale. Mi occupo di quel che accade all’interno di uno stato, al di sotto delle sue istituzioni, e non quel che potrebbe interessare il rapporto tra stati in un contesto sovranazionale. Per questo lo scritto Il diritto dei popoli non è preso in esame (J. Rawls, The Law of Peoples, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 1999 [trad. it. Il diritto dei popoli, a cura di S. Maffettone, Torino: Edizioni di Comunità, 2001]).
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Introduzione 7
politico è, del resto, dichiaratamente pratico: realizzare un accordo politico tra posizioni diverse e potenzialmente conflittuali attorno alle istituzioni giuste, nonostante il disaccordo sulle ragioni morali addotte a loro sostegno. Una società connotata dal disaccordo e potenzialmente conflittuale raggiunge la stabilità quando gli individui concordano sulle regole che fissano limiti al potere politico, ovvero sulla legittimità dell’esercizio del potere. È escluso, evidentemente, che possa essere la mera coazione come esercizio non legittimo del potere a garantire stabilità. Mettere tra parentesi la questione della verità serve alla difesa politica, cioè indipendente o free-standing, delle istituzioni giuste: la tesi è che, nonostante il disaccordo su questioni fondamentali che hanno a che fare con la verità o il bene, sia possibile realizzare un accordo su ‘come si deve vivere’ indipendentemente dalle reciproche visioni della verità o del bene. Il ‘come si deve vivere’ altro non è che il contenuto della concezione politica della giustizia come equità. In questa ricerca del ‘come si deve vivere’, al liberalismo non è richiesto, secondo Rawls, di prendere alcuna posizione intorno alla sua stessa verità. Il liberalismo politico sarebbe agnostico, o astinente, per dir così, non scettico né, tanto meno, nichilista; la sua politicità indica che la sua giustificazione non si basa su ragioni filosofiche, religiose o culturali controverse, bensì su ragioni morali politiche che posizioni filosofiche, religiose e culturali diverse possono condividere. Sulle critiche a tale pretesa agnostica del liberalismo mi concentrerò alla fine del capitolo, discutendo quelle che sollevano interrogativi che rimangono, nell’economia del discorso rawlsiano, sostanzialmente aperti. Ne sia un esempio la critica, condivisa da molti benché diversamente articolata, secondo la quale la posizione agnostica rawlsiana non può che ammettere, nonostante Rawls, una presa di posizione intorno alla verità. Concludo il capitolo mettendo nuovamente in risalto l’obiettivo del progetto rawlsiano e le ragioni della sua insistenza sulla ragionevolezza. Il liberalismo politico come politica della ragionevolezza si concentra sulla sua ambizione a legittimare la concezione politica della giustizia anche a chi non ne condivide la giustificazione morale.
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Introduzione
Il secondo capitolo riparte dalla nozione rawlsiana di ragionevolezza. Ragionevoli sono coloro che riconoscono gli “oneri del giudizio”, cioè le fonti del disaccordo ragionevole, e che riconoscono, come sua conseguenza, una realtà di pluralismo e, infine, che condividono un ideale cooperativo. Le critiche a tale nozione non sono mancate, indirizzandosi per lo più al suo carattere esclusivo: si rimprovera a Rawls di aver ‘invocato’ la ragionevolezza come modo per dirimere a priori le controversie intorno alla verità e al bene, per abbellire – potremmo dire – la sua opzione per una certa verità a discapito delle altre, ‘piegandole’ alla priorità di quella liberale. In questa prospettiva la ragionevolezza altro non sarebbe che un mero artificio retorico. Tenterò di dare riscontro a tale critica difendendo l’intenzione rawlsiana, quella della realizzazione di un consenso intorno a valori politici fondamentali. Non esiterò, nei paragrafi conclusivi, a denunciare i limiti della ragionevolezza e della ragione pubblica ad essa collegata. Il terzo capitolo discute dell’identità degli “irragionevoli”, di coloro che, in generale, non riconoscono agli altri eguaglianza e libertà, negano il pluralismo e non sono interessati alla cooperazione. L’assenza di una convergenza tra alcuni dei loro valori e i principi di giustizia – su cui si è realizzato il consenso per intersezione – rende arduo per Rawls prospettare un modo per la loro inclusione ‘piena’ nella società stabile e giusta: nei confronti di costoro Rawls non sembra cercare una soluzione migliore o più convincente del modus vivendi, che è per definizione un traguardo tutt’altro che stabile. Il trattamento che Rawls riserva agli “irragionevoli” è una forma di tolleranza unita a sforzi di accomodamento che la società dei “ragionevoli” è chiamata a predisporre ai fini di una pacifica convivenza, nell’auspicio che gli “irragionevoli”, vivendo nella società giusta e godendo dei benefici della stabilità, possano gradualmente diventare ragionevoli. Avanzo la mia proposta di rivisitazione della nozione di irragionevolezza in modo da individuare nel gruppo degli “irragionevoli” una categoria di “non-ragionevoli”. Disposti ad una lealtà parziale nei confronti delle istituzioni, i “non-ragionevoli”
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Introduzione 9
possono essere inclusi in una prassi giustificativa che garantisce una comunicazione con loro pur nel permanere del dissenso fondamentale. In assenza di giustificazione pubblica di alcune loro pretese non si potranno che studiare forme di accomodamento o di compromesso. Ciò non si traduce necessariamente, nonostante Rawls, nella instabilità della società giusta. Oltre al consenso per intersezione e oltre al ‘mero’ modus vivendi, esiste uno ‘speciale’ modus vivendi, un modus vivendi stabile, quale forma intermedia e stabile di accordo realizzabile nonostante le differenze e attraverso il loro riconoscimento o, almeno, non al prezzo della loro esclusione.
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Ringraziamenti Mentre si scrive un libro, o ci si augura che quel che si scrive possa diventare un libro, una carezza della mente attenua l’ansia e addolcisce la fatica: sapere che, alla fine, c’è spazio per dire grazie. La gratitudine è uno dei sentimenti più caldi che si possano sperimentare, ed è gratitudine quella che provo ora nei confronti di coloro che qui intendo ricordare: Anna Elisabetta Galeotti, che non mi ha mai lasciata perdere fidandosi sempre di me e persino me nonostante; Antonella Besussi, che mi ha insegnato a criticare Rawls permettendomi così di ammirarne ancor più autenticamente il valore umano e la statura morale; gli amici dei gruppi di ricerca di cui faccio orgogliosamente parte: Enrico Biale, Ian Carter, Alessandra Facchi, Beatrice Magni, Valeria Ottonelli, Francesca Pasquali, Nicola Riva, Chiara Testino, ma, sopratutti, Emanuela Ceva e Federico Zuolo per i molti consigli e il molto tempo speso per me. Li ringrazio dal profondo del cuore. Pensando a loro mi sorprendo ogni volta di come la loro giovane età sia unita a tanta serietà e competenza. Nei mesi di lavoro al libro ho goduto del pieno appoggio del mio preside, Michele Di Francesco, che ha tollerato qualche mia assenza ‘dal fronte’; ora torno alla battaglia quotidiana con gli altri colleghi, che pure ringrazio, per fare più grande la nostra piccola Facoltà di Filosofia, così come essa veramente si merita. Un ringraziamento particolare va a Massimo Cacciari: ho meditato a lungo sulla durissima critica che ha svolto nei confronti del liberalismo rawlsiano e dell’idea di tolleranza in occasione di un master che ci ha visto co-docenti; è grazie a questa meditazione sulla scia delle sue intransigenti parole che il mio interesse intellettuale per il percorso rawlsiano ha assunto i colori della passione per il filosofo oltre che per la sua filosofia. Infine, ma non perché sia minore la gratitudine per loro, ringrazio Sebastiano Maffettone, che ha accolto questo libro nella sua collana, riconfermando la sua fiducia nei miei confronti; stima ed amicizia mi legano a lui come sempre; ringrazio Giampaolo Ferranti, che ha sostenuto il mio progetto sopportando le mie celebri ansie ancora una volta; ringrazio l’Editore Liguori, per la possibilità di realizzarlo concretamente; devo ancora capire se esistano in Italia altri editori che similmente considerano la loro attività un’impresa culturale prima che commerciale. Vorrei infine esprimere la mia riconoscenza ad alcune compagne di viaggio, ciascuna di loro sa o saprà perché: Veronica Milani, Mariangela Senati, Manuela Sala, Cassandra e Agata Abbattista, Clotilde Marisa Vecchi, Verena Tschudin.
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I. Politica senza verità e svolta politica della giustizia
Apprestandosi a costruire una teoria della giustizia Rawls sembra disposto, a difesa del primato del giusto, a sacrificare beni e passioni, voleri personali e appartenenze comunitarie. In realtà, dopo aver definito la giustizia come «la prima virtù delle istituzioni sociali così come la verità lo è per i sistemi di pensiero»1, riprende l’idea, formulata anni prima, del senso di giustizia che, sulla scia di Rousseau, Rawls è prudentemente disposto a considerare come «sentimento del cuore illuminato dalla ragione, l’esito naturale dei nostri affetti primitivi»2. Il senso di giustizia si rivela presto centrale nel fornire la base motivazionale indispensabile perché le persone siano disposte ad applicare nella propria condotta i principi di giustizia. Il senso di giustizia, esito di uno sviluppo naturale degli esseri umani in quanto dotati di una precisa psicologia morale, si pone come la condizione per accedere alla sfera della giustizia3. Cercare nella psicologia morale umana la motivazione per essere giusti è interesse fondamentale per Rawls, impegnato non solo a formulare una teoria della giustizia ma anche a garantirne la stabilità. Una teoria della giustizia che non 1 J. Rawls, A Theory of Justice, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 1971 [trad. it. Una teoria della giustizia, a cura di S. Maffettone, Milano: Feltrinelli, 2010, p. 25]. 2 J. Rawls, “The Sense of Justice”. Philosophical Review, 62, 1963, pp. 281-305 [trad. it. “Il senso di giustizia”, in Id., La giustizia come equità. Saggi 1951-1969, a cura di G. Ferranti, Napoli: Liguori, 1995, pp. 141-70: 141]. 3 Per queste considerazioni vd. G. Ferranti, “Introduzione” a J. Rawls, La giustizia come equità. Saggi 1951-1969, cit., pp. ix-xlv: xxxvi.
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La verità sospesa
sia stabile non assolve, secondo Rawls, il suo compito di proporsi, rispetto ad altre, come l’alternativa più desiderabile. Per quanto possa essere attraente per eleganza o coerenza interna, una teoria si mostra insufficiente «se i principi di psicologia morale sono tali che essa non riesce a far nascere negli esseri umani il desiderio indispensabile di agire in conformità con essa»4, un desiderio che, se radicato nella natura umana e coltivato da adeguate istituzioni, diventa motivazione per essere giusti. La stabilità è dunque un elemento cui la teoria di Rawls non può rinunciare per essere una buona teoria, anzi la teoria migliore. Sulla base di questa convinzione sulla centralità della stabilità per poter parlare di una buona teoria, Rawls giunge, qualche anno dopo la pubblicazione della Teoria della giustizia, avvenuta nel 1971, a considerare insoddisfacente il modo in cui la stabilità riceve in essa assicurazione. Prendere atto delle profonde differenze, che necessariamente esistono al livello della psicologia morale delle persone che abitano la società pluralistica, significa per Rawls ‘svegliarsi’, per dir così, dal ‘sonno utopistico’ in cui la comune identità dei giusti prevale sulla variegata distonia degli ingiusti, riconducibile quest’ultima più a egoismo e a miopia morale che non ad un consapevole pluralismo dei valori5. A partire dagli scritti degli anni Ottanta6, Rawls comincia a ripensare al problema della stabilità che, a fronte del pluralismo morale, anzi della sua scoperta come ‘fatto’ della società liberale, diventa la questione della legittimità delle istituzioni
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J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 429. L’espressione ‘sonno utopistico’ è tratta da I. Berlin, The Crooked Timber of Humanity. Chapters in the History of Ideas, a cura di H. Hardy, London: Murray, 1991 [trad. it. Il legno storto dell’umanità, Milano: Adelphi, 1994, p. 28]. 6 Si tratta di una serie di saggi alcuni dei quali sono confluiti in Liberalismo politico, pubblicato nel 1993. Alcuni dei più celebri sono “L’indipendenza della teoria morale” (1975), “Il costruttivismo morale nella teoria kantiana” (1980), “Giustizia come equità: è politica non metafisica” (1985), “La priorità del giusto e idee del bene” (1988), pubblicati in J. Rawls, Collected Papers, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 1999 [trad. it. Saggi. Dalla giustizia come equità al liberalismo politico, a cura di S. Veca, Torino: Edizioni di Comunità, 2001]. 5
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e, più generalmente, della giustificazione del potere politico7. Si tratta, cioè, di prendere sul serio l’autonomia delle persone, la loro libertà di coscienza, il loro essere e sentirsi titolari del diritto di ottenere giustificazione di azioni o coazioni esercitate su di loro8. È per rispetto di tale autonomia che la Teoria della giustizia viene riformulata o, meglio, difesa come una concezione politica della giustizia, indipendente da morali o filosofie, da religioni o metafisiche, da quelle che, in generale, Rawls successivamente chiama ‘dottrine comprensive’. La convinzione è che solo un’autonomia ‘dottrinale’ possa dare adeguato riscontro all’autonomia politica dei cittadini in quanto sorgenti dell’autorità pubblica9. A questa riformulazione della teoria della giustizia è dedicato Liberalismo politico10, nel quale trova compimento la cosiddetta ‘svolta politica’ intrapresa da Rawls a miglior difesa della teoria stessa; si è parlato di una ‘politicizzazione’ della concezione della giustizia, i cui contenuti sono quelli già esposti nella Teoria, mirando a sostenerla con ragioni politiche, non filosofiche né, come le chiama Rawls, metafisiche, quelle che fanno cioè riferimento a verità universali intrinsecamente controverse11. 7
Vd. T. E. Hill, “The Stability Problem in Political Liberalism”. Pacific Philosophical Quarterly, 75, 1994, pp. 333-52. 8 Sul punto vd. J. Waldron, “Theoretical Foundations of Liberalism”. Philosophical Quarterly, 37, 147, 1987, pp. 127-50. 9 C. Audard, John Rawls, Stocksfield: Acumen, 2007, pp. 181-85. 10 J. Rawls, Political Liberalism, New York: Columbia University Press, 1993 [trad. it. Liberalismo politico, a cura di S. Veca, Milano: Edizioni di Comunità, 1994]. 11 In generale, quando Rawls parla di metafisica non fa riferimento alla filosofia prima, che indaga le cause incausate dell’universo o i principi primi, ma, più genericamente, alle affermazioni filosofiche controverse aventi ciascuna l’ambizione di rappresentare la verità. Un’ulteriore precisazione è d’obbligo: anche la Teoria della giustizia risponde ad una svolta politica, nel senso che Rawls cerca di mettere a segno una teoria politica che valga a prescindere dalle teorie morali. Qui intendo per ‘svolta politica’ quella impressa successivamente alla teoria della giustizia, che, per come è presentata nella Teoria, Rawls considera, alla luce del pluralismo, come una filosofia; Rawls intende, quindi, riformulare i valori morali collegati alla giustizia come propri del dominio del
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Dicevo come questa ‘svolta’ trovi i primi accenni negli scritti degli anni Ottanta: è nel saggio “Il costruttivismo morale nella teoria kantiana”, del 1980, che Rawls mette esplicitamente in discussione la pertinenza della verità per la filosofia politica, avendo in mente quella «verità che riceveremmo da un ordine antecedente e indipendente di oggetti e relazioni, siano essi naturali o divini – un ordine ritenuto separato e distinto dal modo in cui noi concepiamo noi stessi»12. In “Giustizia come equità: è politica non metafisica”, del 1985, Rawls istruisce, come dice il titolo stesso del saggio, la difesa politica e non metafisica della teoria della giustizia, mediante l’elaborazione di una giustificazione politica della giustizia come equità indipendente da appelli alla verità, sia essa religiosa, morale o filosofica, o, ancora, metafisica13. Dal punto di vista filosofico – precisa a riguardo Rawls – la giustizia come equità «resta deliberatamente in superficie»14: non è possibile raggiungere un accordo pubblico sulle questioni filosofiche fondamentali a meno di non violare la libertà altrui. Di una spinta verso l’emancipazione dalla verità Rawls aveva già parlato a proposito della filosofia morale, dichiarandone l’indipendenza dall’epistemologia, data la problematicità della nozione di verità morale nonché la difficoltà di poter parlare di un’unica concezione morale corretta15. Chiarire gli obiettivi politici che Rawls intende perseguire politico, difendibili con argomenti politici, nonché assumerli come in qualche senso radicati all’interno di una società liberale. 12 J. Rawls, “Il costruttivismo morale nella teoria kantiana”, in Id., Saggi, cit., pp. 64-135: 68. 13 J. Rawls, “Giustizia come equità: è politica non metafisica”, Id., Saggi, cit., pp. 171-203: 170. In questo saggio Rawls qualifica come metafisica qualsiasi concezione della giustizia che dipenda da «ambizioni filosofiche», come per esempio «l’ambizione a giungere a verità universali o a definire l’essenza o l’identità della persona». Al contrario, è politica per Rawls la concezione della giustizia «indipendente da dottrine filosofiche e religiose controverse». 14 Ivi, p. 179. 15 Rawls tratta dell’indipendenza della teoria morale dall’epistemologia e, in generale, dalla verità, in “Indipendenza della teoria morale” del 1975; vd. J. Rawls, Saggi, cit., pp. 42-63, in particolare pp. 44, 46.
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mediante l’astensione dalla verità è ciò che mi propongo di fare in questo capitolo: come prima cosa indicherò i luoghi più significativi della Teoria della giustizia in cui emerge la preoccupazione rawlsiana per la stabilità; darò, quindi, riscontro delle ragioni di insoddisfazione da cui Rawls parte per impostare diversamente la questione della stabilità, fino alla pubblicazione nel 1993 di Liberalismo politico. Tale insoddisfazione è collegata alla necessità di prendere sul serio il fatto del pluralismo, anzi del fatto del pluralismo ragionevole, cosa che richiede, a giudizio di Rawls, il mettere tra parentesi la questione della verità. Mostrerò come il cosiddetto method of avoidance16 sia adottato come strategia per la neutralizzazione politica dei conflitti morali, filosofici e religiosi, prime cause di instabilità della giustizia come equità così come è presentata nella Teoria. Passerò, quindi, a commentare la soluzione astensionistica di Rawls rispetto alla questione della verità attraverso il vaglio di alcune delle critiche più significative. Si tratta sia di critiche ‘esterne’ al modello rawlsiano, di cui si contesta il modo di fare e di pensare la filosofia politica, sia di critiche ‘interne’ ad esso, mosse da autori che, pur condividendo le istanze della riflessione rawlsiana tra cui l’obiettivo della stabilità, prendono le distanze dalla ‘svolta politica’ così come Rawls la persegue attraverso l’astensione dalla verità. La ‘svolta politica’ rawlsiana, con la conseguente politicizzazione della teoria, è generalmente contestata per aver prodotto un ridimensionamento della portata normativa della teoria medesima, con l’effetto negativo di una contestualizzazione della giustizia. Il giusto di cui si tratta – è questa sostanzialmente l’accusa – è ciò che è giusto secondo alcuni e non per tutti; il restringimento della giustizia è il danno provocato dallo smarrimento della verità o, peggio ancora, dalla rinuncia all’aspirazione a trovare in essa il fondamento della giustizia. Altri, ancora, obiettano che la proclamata astensione dalla verità nasconderebbe, paradossalmente, un presupposto metafisico, assumendo un riferimento alla verità che invece si dichiara di negare. Concluderò ribadendo l’obietti16
J. Rawls, “Giustizia come equità: è politica non metafisica”, cit., p. 179.
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vo pratico della ‘svolta politica’ della filosofia rawlsiana, per cui l’astensione dalla verità si comprende – pur al prezzo di molte aporie – come condizione di accesso ad un dibattito politico senza pregiudizi o, comunque, senza quei pregiudizi che – nel nome della verità – comportano esiti possibili di imposizione e violenza.
1.1. La questione della stabilità in Una teoria della giustizia 1.1.1. Stabilità della teoria Nella Teoria della giustizia Rawls affronta la questione della stabilità in due momenti: quando descrive le parti contraenti in posizione originaria e quando questa questione è messa specificamente a tema, nella Terza parte dell’opera. La stabilità è innanzi tutto evocata come caratteristica ineludibile della società bene-ordinata, ovvero della società intesa a «promuovere il bene dei suoi membri ed effettivamente regolata da una concezione pubblica della giustizia»17; tale società è altresì definibile come equo schema di cooperazione sociale, uno schema che deve essere «più o meno regolarmente osservato, e le sue norme fondamentali devono essere seguite volontariamente; e nel caso avvengano infrazioni, devono esistere forze stabilizzatrici che prevengano ulteriori violazioni e tendano a ristabilire l’assetto sociale»18. È posto l’accento sulla volontarietà dell’obbedienza alle norme che regolano la società bene-ordinata: la stabilità cui ci si riferisce non è quella raggiunta attraverso l’esercizio della forza, bensì quella realizzabile con il consenso dei cittadini, una stabilità che potremmo dire morale. Più precisamente, nella Teoria la stabilità presuppone una convergenza tra i sentimenti morali delle persone – la capacità di avere una concezione del 17 18
J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 428. Ivi, p. 28.
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bene e la capacità di avere un senso di giustizia – e la giustizia come equità, su cui si basa la società in cui esse vivono ed operano. La stabilità presuppone, dunque, negli individui una sorta di priorità motivazionale centrata sul senso di giustizia. Non solo: il senso di giustizia instilla nei cittadini della società bene-ordinata la motivazione a sostenere nel tempo le istituzioni giuste. Scrive a tal proposito Rawls: «una caratteristica fondamentale di una concezione della giustizia è la capacità di generare da sé il proprio sostegno. Ciò significa che i suoi principi devono essere tali che, quando sono inclusi nella struttura di base della società, si tende ad acquisire il senso di giustizia corrispondente […]. Gli individui sviluppano un desiderio di agire secondo i suoi principi; in questo caso, una concezione della giustizia è stabile»19. Si può dire che il senso di giustizia motivi le persone a comportarsi ‘naturalmente’ secondo giustizia, sviluppando un sentimento di lealtà nei confronti delle istituzioni medesime quale esito del vivere al loro interno, contribuendo a conservarle. Rawls assume, inoltre, che gli individui siano razionali per il fatto che si astengono dallo stipulare un accordo che non sono in grado di rispettare. Ciò significa che quello che alle parti contraenti si richiede è di verificare la loro capacità di tenere fede agli impegni presi, tanto più trattandosi di impegni assunti in modo definitivo e perpetuo20. L’accordo è quello sottoscritto nelle circostanze ideali della posizione originaria, tali da garantire l’imparzialità nella scelta dei principi21. In posizione originaria 19
Ivi, p. 143. Ivi, p. 178; vd. anche p. 150. 21 La posizione originaria è una condizione ideale di scelta, una situazione particolare di imparzialità in cui i principi di giustizia verrebbero scelti da rappresentanti razionali di persone libere ed eguali che intendono realizzare un’idea di società bene-ordinata: «Dal punto di vista della giustizia come equità la posizione originaria di eguaglianza corrisponde allo stato di natura della teoria tradizionale del contratto sociale […]. Tra le caratteristiche essenziali di questa situazione vi è il fatto che nessuno conosce il suo posto nella società, la sua posizione di classe o il suo status sociale, la parte che il caso gli assegna nella suddivisione delle doti naturali, la sua intelligenza, forza e simili. Assumerò anche che le parti contraenti non sappiano nulla delle proprie concezioni del 20
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considerazioni di praticabilità giocano un ruolo centrale nella scelta dei principi, dal momento che vengono selezionati quelli che risultano preferibili rispetto ad altri, derivabili da teorie concorrenti. La preferibilità dei principi è giudicata in base alla loro capacità di generare una teoria stabile22. Se così non fosse, ai principi scelti ne dovrebbero subentrare altri più ‘praticabili’ e per questo migliori. Con questa precisazione Rawls mostra di mirare alla praticabilità della giustizia come equità oltre che alla sua giustificazione teorica: pur rimanendo prioritaria la desiderabilità della teoria, la sua idealità, è innegabile che la sua praticabilità contribuisca a definirne la desiderabilità; la praticabilità della teoria si inscrive, dunque, nella sua desiderabilità23. La desiderabilità della giustizia come equità è prioritaria rispetto alla sua realizzabilità e tuttavia la include: una teoria della giustizia è più desiderabile di altre se ha, a confronto con queste, maggiori garanzie di stabilità e, dunque, se ha maggiori possibilità di essere sostenuta dalle parti. La questione è centrale: se Rawls fa appello alla teoria ideale nel senso che quel che offre è un ritratto della natura e degli scopi di una società giusta – a partire da alcuni elementi di idealità quali la posizione originaria – è altrettanto vero che la teoria deve tenere conto di vincoli di praticabilità o realizzabilità. Per Rawls la stabilità della giustizia è il test della sua praticabilità, conferendo sia alla stabilità sia alla praticabilità valore normativo in quanto elementi imprescindibili della desiderabilità della teoria stessa24. bene e delle proprie particolari propensioni psicologiche. I principi di giustizia vengono scelti sotto un velo di ignoranza» (J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 25). 22 La stabilità come espressione della realizzabilità della teoria è messa in luce da D. Copp, “Pluralism and Stability in Liberal Theory”. Journal of Political Philosophy, 4, 3, 2006, pp. 191-206. 23 Per un approfondimento del tema della desiderabilità e della praticabilità, vd. F. Pasquali, “Rawls’s Realistic Utopianism: a Critical Discussion”. WP-LPF, Laboratorio di Politica Comparata e Filosofia Pubblica, Centro Einaudi, 5, 2009, pp. 1-38; F. Zuolo, Platone e l’efficacia. Realizzabilità della teoria normativa, Sankt Augustin: Academia Verlag, 2009. 24 Il punto è illustrato con molta accuratezza da F. Pasquali, “Rawls’s Realistic Utopianism: a Critical Discussion”, cit., pp. 11-12. La stabilità cui Rawls si
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Veniamo ora al secondo momento in cui Rawls affronta più peculiarmente la questione della stabilità. Al tema, come dicevo, è dedicata la Terza parte della Teoria, in particolare i capitoli 7, 8 e 9, in cui si domanda se la giustizia come equità sia in grado di suscitare negli individui un adeguato senso di giustizia, compatibile con ciò che è bene per loro. L’idea è di verificare la stabilità della giustizia come equità sulla base del profilo psicologico-morale degli individui, una volta stabilite le istituzioni giuste. Concentrandosi sul carattere degli individui, Rawls mette in campo un interesse per la realizzabilità: l’obiettivo è testare se i principi di giustizia quale esito della scelta in posizione originaria siano compatibili con la psicologia morale degli individui, siano cioè coerenti con ciò che costoro potrebbero volere come loro proprio bene. Per psicologia morale non si deve però intendere la realtà psicologica degli individui empiricamente intesi; Rawls pensa a caratteristiche morali ideali degli individui, confacenti con la società giusta e, in un certo senso, da questa alimentate; come si diceva, sono le istituzioni giuste che rafforzano il senso di giustizia, contribuendo a formare i tratti psicologici ideali di coloro che vivono al loro interno. Scrive Rawls: «quando le istituzioni sono giuste (in quanto definite da questa concezione), coloro che partecipano alla formazione di tali assetti acquisiscono il corrispondente senso di giustizia e il desiderio di continuare a fare la loro parte conservandoli»25. Quel che Rawls fa, tratteggiando la sua idea di una psicologia morale ‘evolutiva’, è quindi assumere che principi di giustizia in una società giusta promuovano tra gli individui un senso di giustizia, che si sviluppa attraverso il rispetto delle istituzioni. Il senso di giustizia si consolida insieme alle istituzioni, inducendo l’individuo ad andare riferisce in relazione alla posizione originaria va intesa come ‘stabilità interna’, cioè come elemento implicito della desiderabilità o idealità della teoria. Non ci sono riferimenti a motivazioni empiriche o ‘reali’ delle parti, né a sentimenti che potrebbero essere propri degli individui in date circostanze. Le parti in posizione originaria sono descritte del tutto ‘irrealisticamente’ come libere da qualsiasi condizionamento. 25 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 429.
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oltre il mero interesse personale e a rivolgere l’attenzione a ciò che rappresenta un bene per tutti. È proprio in ragione di questa attenzione ai fatti della psicologia morale, benché idealizzata, che la teoria ideale della giustizia non va intesa come astrattamente utopistica, se per utopia si intende una teoria che prescinde da qualsiasi impegno per la realizzabilità; parallelamente, l’impegno per la realizzabilità della teoria, con l’importanza conferita alla motivazione dei soggetti a volere la giustizia come il loro bene, non va inteso come indice della subordinazione della giustificazione ideale alla contingenza empirica; va, invece, interpretato come elemento non trascurabile della giustificazione della giustizia, laddove essa sarebbe ben poco giustificata se non fosse in alcun modo raggiungibile né compatibile con i desideri degli individui e con i loro sentimenti26. Infatti – scrive Rawls – è solo se si realizza la congruenza tra giusto e bene, tra ciò che è giusto per tutti e ciò che è bene per sé, che si può parlare di una concezione stabile della giustizia, in cui gli individui sono psicologicamente e moralmente motivati ad agire secondo i principi in essa enunciati. L’argomento della congruenza, che vedremo nel dettaglio fra breve, serve a mostrare che la teoria della giustizia può essere realizzata e resa stabile dal momento che è compatibile con una certa interpretazione della psicologia morale. Quel che la stabilità prova, attraverso la congruenza tra giusto e bene, è la preferibilità della teoria; la stabilità, dunque, si impone come elemento della desiderabilità. Se la congruenza di giusto e bene è la condizione per difendere la teoria come preferibile in quanto realizzabile, ciò che Rawls deve allora provare è la possibilità di tale congruenza; 26 Vd. S. Freeman, Rawls, London & New York: Routledge, 2007, pp. 252 ss. Sul tema vd. anche T. Nagel, “What Makes a Political Theory Utopian?”. Social Research, 56, 4, 1989, pp. 903-20: un ideale utopico – dice Nagel – rischia di non essere sufficientemente motivante perché visto come troppo elevato e, dunque, intrinsecamente irrealizzabile. Nagel sostiene la necessità da parte delle istituzioni di operare in direzione di un bilanciamento tra motivi personali e motivi impersonali; i cittadini dovrebbero adottare un punto di vista esterno che non imponga però di ‘dimenticarsi’ di ciò che ha valore per la loro vita.
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deve, cioè, spiegare perché gli individui siano motivati ad agire secondo giustizia. Deve dimostrare, in altre parole, che la società bene-ordinata è realmente perseguibile dagli individui, spiegando perché essi vogliono agire secondo giustizia, o, ancora, perché essi, generalmente portati a fare ciò che sta loro più a cuore, siano moralmente motivati ad agire per il bene di tutti27. Se non ci fossero ragioni convincenti per conferire priorità al sentimento di giustizia, fissando così limiti al perseguimento del proprio bene, nulla garantirebbe stabilità alla società giusta; la concezione della giustizia sarebbe condannata a non essere realizzabile28. Compito di Rawls è, così, mostrare come sia possibile un comportamento ispirato ai principi di giustizia in quanto configurano motivi prevalenti anche su eventuali interessi personali, senza con ciò assumere, all’opposto, un ‘culto’ per la regola e per il dovere come fine a se stesso. In altre parole, Rawls non vuole limitarsi ad enunciare un dovere per il dovere ma, piuttosto, mostrare come fare il proprio dovere equivalga a perseguire il proprio bene29. 27 La scommessa di Rawls consiste nel mostrare come le istituzioni giuste modellino individui promuovendone il senso di giustizia, ovvero la propensione per la reciprocità e l’eguaglianza. Ciò non ha nulla a che fare con i sentimenti che gli individui nella vita reale possono avere nel segno dell’egoismo o dell’altruismo; Rawls non cambia cioè l’idea di persona presupposta in posizione originaria; in posizione originaria gli individui non si occupano degli interessi altrui ma ciò non significa che essi si occupino solo di se stessi. Scrive a riguardo Rawls: «poiché si assume che le persone nella posizione originaria non si occupino degli interessi altrui […] si potrebbe pensare che la giustizia come equità sia essa stessa una teoria egoistica». Ma – continua – «questo è un fraintendimento»: il fatto che individui in posizione originaria mostrino disinteresse reciproco non indica che costoro, accettati i principi di giustizia, siano nella vita reale altrettanto reciprocamente disinteressati. Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 152. Allo stesso modo, l’essere motivati a perseguire la giustizia anche contro i propri interessi particolari non è espressione di benevolenza, ma di un sentimento morale indipendente o dipendente dai principi. Cfr. ivi, pp. 445-50. 28 Sul punto vd. S. Freeman, Rawls, cit., p. 244. 29 Nel porsi la domanda intorno alla compatibilità tra i principi di giustizia e la volontà individuale motivata a seguirli, Rawls – afferma Barry – ammette implicitamente una distanza tra il nostro dovere e ciò che desideriamo davvero; accettare i principi di giustizia non include la motivazione a farne le regole del
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Quello che Rawls ha in mente è una motivazione nel senso di un motivante desiderio di essere giusti come desiderio di essere razionali e ragionevoli: gli individui desiderano, cioè, cooperare con gli altri e, mediante la cooperazione, desiderano perseguire i propri interessi in termini che anche gli altri possono condividere30. È in base a tale desiderio che gli individui vogliono essere giusti, riconoscendo che la giustizia è congruente con il perseguimento del loro stesso bene. Bisogna dunque capire in che modo le persone ‘sentano’ la giustizia come parte del proprio bene per poi appurare se sia questa la strada per affrontare realisticamente la questione della stabilità. Rawls, parlando del bene della razionalità, pensa di sì e spiega perché.
1.1.2. La congruenza di giusto e bene Veniamo dunque all’argomento della congruenza. Nel capitolo 8 di Teoria della giustizia Rawls definisce il bene della persona nei termini di ciò che è razionale per quella persona volere in date condizioni deliberative ideali. Per questo lo definisce il bene come razionalità, laddove la razionalità è specificata nei termini dei principi della scelta razionale. È altresì razionale che soggetti in circostanze di razionalità deliberativa scelgano un piano razionale di vita cui ispireranno le proprie azioni nel corso dell’esistenza. proprio agire. Vd. B. Barry, “John Rawls and the Search for Stability”. Ethics, 105, 1995, pp. 874-915. Secondo Barry Rawls sembra confondere, nel parlare di senso di giustizia, livello descrittivo e livello etico-politico normativo: a volte sembra indicare tale sentimento come tratto psicologico evolutivo degli individui; altre volte, invece, sembra farlo dipendere dalla concezione politica e dai desideri che sotto le istituzioni giuste prevarrebbero. Sul punto vd. S. Maffettone, Rawls. An Introduction, Oxford: Polity, 2010, p. 254. 30 I termini ‘razionale’ e ‘ragionevole’ svolgono a questo stadio della riflessione di Rawls la funzione di indicare il primo la dimensione dell’individuo interessato alla realizzazione dei propri scopi, il secondo la dimensione pubblica in cui si cercano vincoli agli argomenti che ciascuno può far valere pubblicamente a favore di alcuni principi piuttosto che altri quali elementi fondanti la società giusta.
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Politica senza verità e svolta politica della giustizia 23
L’idea di un piano razionale di vita fornisce il contenuto di una nozione formale di bene, ovvero di una teoria parziale (thin) del bene, quella presupposta nella posizione originaria. La teoria parziale del bene spiega la preferenza per quelli che Rawls definisce i beni primari, «le cose che si presume che ogni individuo razionale desideri», a prescindere dal piano razionale di vita31, e che fungono da premessa necessaria per ottenere i principi di giustizia; tale teoria parziale del bene chiarisce, così, la nozione di razionalità che sta alla base della scelta dei principi nella posizione originaria. Una volta assicurati i principi di giustizia, si possono usare tali principi per definire altri concetti morali, il concetto del valore e delle virtù morali, dando luogo alla teoria completa (full) della giustizia. Se nella posizione originaria non c’è conoscenza dei propri beni particolari e delle attività che verranno svolte allo scopo di realizzarli, di ciò si ha invece piena conoscenza nella razionalità deliberativa, in cui sono reintegrate tutte le informazioni relative ai beni individuali e ai giudizi di valore. La questione può essere descritta in questi termini: se la posizione originaria esprime la prospettiva pubblica della concezione di giustizia, in cui è sufficiente una rappresentazione parziale del bene per chiarire la nozione di razionalità che sta alla base della scelta dei principi, la razionalità deliberativa esprime invece la prospettiva individuale, il punto di vista dell’individuo, dal quale egli può avere una conoscenza completa della propria situazione e delle conseguenze che su di essa avrebbe la realizzazione del suo piano di vita, inteso quest’ultimo come il piano realmente razionale per lui e che determina il suo bene reale32. Fatta questa precisazione su che cosa sia il bene della razionalità della persona, e articolata la nozione di bene nelle due prospettive ideali, pubblica e individuale, della concezione della giustizia, Rawls entra nel dettaglio del cosiddetto argomento 31
Tra i beni primari si annoverano diritti, libertà, opportunità, ricchezza, salute, forza, intelligenza, nonché il rispetto di sé. Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 78. 32 Ivi, pp. 379, 397.
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della congruenza: esso serve a mostrare come, nelle condizioni ideali della società bene-ordinata, i giudizi formulati a partire da queste due prospettive coincidano. In altre parole, la domanda cui Rawls risponde con l’argomento della congruenza è se sia razionale, in una società bene-ordinata, che persone affermino individualmente, dal punto di vista della razionalità deliberativa, quei principi di giustizia cui aderirebbero razionalmente nella prospettiva pubblica della giustizia. La risposta è la seguente: è razionale che i membri di una società bene-ordinata facciano del senso di giustizia quell’elemento regolativo dei loro piani razionali di vita, per cui la giustizia diventa parte essenziale del loro bene. Per dimostrare la congruenza tra prospettiva individuale del bene e prospettiva pubblica della giustizia, Rawls rinvia al principio aristotelico, che è il principio motivazionale secondo il quale le persone desiderano esercitare le capacità umane superiori intraprendendo attività articolate e complesse. Il piacere aumenta via via che gli individui riescono ad esercitare tali capacità; in che cosa esse consistano il principio aristotelico non lo dice, coerentemente con la teoria parziale del bene in cui il bene è una nozione formale. In quanto il principio aristotelico esprime una caratteristica della natura umana, ne consegue che un piano di vita è tanto più razionale quanto più si ispira a questo principio: il piano razionale di vita che una persona sceglie nelle condizioni della razionalità deliberativa riserva, in base a questo principio, ampio spazio all’esercizio e allo sviluppo delle capacità umane superiori in quanto coerenti con il bene della persona. Ora, come si combina questa affermazione con la tesi della congruenza? La risposta è che l’esercizio delle capacità superiori include il senso di giustizia, ovvero la capacità di ragionare ed agire secondo i requisiti della giustizia. Riepilogo i passaggi che portano a questa conclusione33: i) si assume che gli individui nella società bene-ordinata considerino se stessi come persone razionali libere ed eguali; ii) coloro che 33
Sintetizzo così quanto presentato nei capitoli 7 e 8 della Teoria. Vd. S. Freeman, Rawls, cit., pp. 274-77.
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partecipano alla società bene-ordinata desiderano esprimere la loro natura di persone razionali libere ed eguali; segue che iii) i membri della società bene-ordinata desiderano un piano razionale di vita coerente con la loro natura, tale da implicare una preferenza fondamentale per quelle condizioni in cui è possibile scegliere uno stile di vita che sia espressione della loro natura di persone razionali libere ed eguali; iv) avere un piano razionale di vita compatibile con il desiderio di esprimere la propria natura di persone razionali libere ed eguali implica che si agisca secondo quei principi che verrebbero scelti se tale natura di persone libere ed eguali fosse l’elemento decisivo; questo è quel che accade nella posizione originaria, che specifica le condizioni che caratterizzano gli individui come liberi ed eguali; v) la posizione originaria chiarisce le restrizioni da porre ragionevolmente agli argomenti che si vorrebbero introdurre a sostegno dei principi di giustizia e che valgono come restrizioni da porre ai principi stessi; si può dire che la posizione originaria incorpori quelle condizioni di equità che i contraenti troverebbero adeguate per poter concordare sui principi che devono stare alla base della società; vi) il naturale desiderio di agire secondo quei principi su cui si realizza l’accordo in posizione originaria, che è una condizione di eguaglianza, è il senso di giustizia; vii) pertanto, sulla base di quanto fin qui detto, il desiderio di agire in modo da esprimere la propria natura di persone razionali libere ed eguali è, in buona sostanza, la stessa cosa del desiderio di agire secondo i principi di giustizia, cioè la stessa cosa del senso di giustizia; viii) da ciò segue che gli individui nella società bene-ordinata, per soddisfare il desiderio razionale di realizzare la propria natura di persone razionali libere ed eguali, devono agire secondo il senso di giustizia; ix) alla luce del principio aristotelico, è razionale realizzare la propria natura attenendosi al senso di giustizia: si tratta di un’espressione della propria natura come elemento fondamentale del bene degli individui in una società bene-ordinata; x) il senso di giustizia, in ragione del suo includere un desiderio – anzi, come vedremo, il desiderio prevalente – è una disposizione regolativa superiore: essa richiede di attribuire priorità ai principi di giustizia; xi) af-
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fermare il senso di giustizia significa riconoscerlo e accettarlo come prioritario, adottandolo come desiderio regolativo di ordine superiore nel proprio piano razionale di vita; xii) considerare la giustizia come fine di ordine superiore è il modo più adeguato per esprimere la propria natura di esseri liberi ed eguali. In questo complicato ragionamento giocano un ruolo fondamentale il principio aristotelico e il senso di giustizia. Combinando l’interpretazione degli individui come esseri razionali che si concepiscono come liberi ed eguali e il principio aristotelico, Rawls mira a sostenere che il senso di giustizia appartiene alla natura degli esseri umani. È agendo secondo le capacità morali proprie delle persone razionali libere ed eguali che gli individui sono in grado di perseguire i rispettivi piani di vita realizzando, in una parola, la loro stessa natura. Rawls previene l’obiezione circa l’effettiva priorità che avrebbe il senso di giustizia rispetto ad altri desideri che possono nascere nel corso della vita: «il vero problema della congruenza è ciò che accade se immaginiamo che qualcuno dia valore al proprio senso di giustizia solo nella misura in cui esso soddisfa altre descrizioni che lo mettono in relazione a ragioni specifiche della teoria parziale del bene […]. Supponiamo quindi che il desiderio di agire con giustizia non sia un desiderio finale»34. Di fronte a questa eventualità Rawls non nutre particolari perplessità e ribadisce che nella società bene-ordinata partecipare alla vita collettiva è un bene prioritario: essere persone giuste all’interno della società bene-ordinata significa comprendere, in base al principio aristotelico, come le proprie capacità individuali siano realizzabili al meglio nella dimensione della collettività, nonché considerare il proprio agire secondo giustizia come quello che vogliamo in quanto ci concepiamo come persone razionali libere ed eguali. La persona giusta fa quello che, tutto considerato, desidera maggiormente35. 34
J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 532. Cfr. ivi, pp. 535 ss. Commenta a proposito J. Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratischen Rechtsstaa35
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In conclusione: in una società bene-ordinata non esiste un desiderio che possa prevalere su quello di giustizia. Se vogliamo realizzare la nostra natura non possiamo che preservare il nostro senso di giustizia come superiore e capace di dirigere gli altri scopi della nostra vita. Ciò si spiega ancor meglio se pensiamo che il senso di giustizia non è un desiderio tra gli altri, bensì è il desiderio di comportarci in un certo modo, di essere un certo tipo di persone autonome, che non scendono a compromessi con il senso di giustizia, poiché ciò significherebbe «cedere il passo alle contingenze e agli accidenti del mondo»36. È, in fondo, un certo ideale di persona quello cui Rawls pensa quando si appresta a concludere la sua riflessione intorno alla congruenza: vedere il nostro posto nella società dalla prospettiva di questa posizione [la posizione originaria] significa vederlo sub specie aeternitatis […]. La prospettiva dell’eternità non è la prospettiva di un posto fuori dal mondo né il punto di vista di un essere trascendente; è invece una certa forma di pensiero e di sentimento che persone razionali possono adottare in questo mondo37.
Con questa immagine di persona, di ciascuno di noi in quanto vogliamo una società giusta, è ribadito lo scopo principale dichiarato da Rawls sin dall’inizio della sua impresa, ovvero «la costruzione di una teoria della giustizia che costituisca un’alternativa praticabile a queste dottrine [utilitarismo classico e intuizionismo] che hanno a lungo dominato la nostra tradizione
tes, Frankfurt a. M: Suhrkamp Verlag, 1992 [trad. it. Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, a cura di L. Ceppa, Milano: Guerini, 1996, p. 74]: «il senso di giustizia può sì fondare il desiderio di agire in una maniera giusta, ma questo desiderio non è ancora una motivazione effettiva ed automatica come, per esempio, la riluttanza alla sofferenza fisica. Perciò Rawls, appoggiandosi ad una ‘teoria parziale del bene’, mostra come le istituzioni giuste creerebbero rapporti a partire dai quali sarebbe convenienza bene intesa di ciascuno perseguire i propri piani di vita assoggettandosi alle stesse condizioni concesse agli altri». 36 J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 537. 37 Ivi, p. 548.
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filosofica»38, una teoria in grado di consentire un’interpretazione acuta della sensibilità morale, anzi l’interpretazione migliore rispetto alle sue possibili alternative.
1.2. Stabilità della società pluralistica: la soluzione del Liberalismo politico 1.2.1. Irrealismo della Teoria della giustizia La soluzione al problema della stabilità delineata negli ultimi capitoli della Teoria della giustizia non tarda a rivelare alcuni limiti, anzi a svelare vere e proprie lacune, la prima delle quali è – a detta di Rawls – il suo essere irrealistica. «Il problema, grave, che mi pongo – scrive Rawls – riguarda l’idea di società bene-ordinata che, così come è esposta nella Teoria, è irrealistica»39. Si tratta di ammettere un’incoerenza fatale nella Teoria della giustizia, in cui la stabilità dipende da quella che «oggi chiamo una dottrina filosofica comprensiva»40, ovvero una dottrina che contiene «tutta la verità e tutti i valori riconosciuti»41. È irrealistica – e in Liberalismo politico Rawls la definisce «utopistica»42 – l’idea di una società liberale e democratica in cui vi sia un’unica concezione del bene, quale è quella esposta nella Teoria, e non già molteplici visioni. La società basata esclusivamente sulla giustizia come equità è irrealistica «perché in contraddizione con la realizzazione dei suoi stessi principi nelle migliori condizioni prevedibili»43. A fronte del fatto del pluralismo ragionevole delle dottrine 38
Ivi, p. 25. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 5. 40 Ibid. 41 Ivi, p. 331, n. 17. Rawls distingue tra dottrina pienamente comprensiva e dottrina parzialmente comprensiva: in questo secondo caso – precisa – essa comprende un certo numero di valori non politici e ha un’articolazione interna poco compatta. 42 Ivi, p. 49. 43 Ivi, p. 6. 39
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morali – un pluralismo che è detto ‘ragionevole’ in quanto normale esito dell’esercizio della ragione entro istituzioni libere – invocare la sola giustizia come equità a sostegno della società bene-ordinata significa rifiutarsi di prendere questo fatto sul serio44. Errore della Teoria è, dunque, il suo procedere astrattamente, ovvero non realisticamente, rispetto al pluralismo. La Teoria non si è peraltro mai chiesta – precisa Rawls – se la giustizia come equità volesse essere una dottrina morale comprensiva oppure una concezione politica della giustizia45, compatibile con molteplici dottrine senza fare riferimento esclusivo ad alcuna. Se è auspicabile e forse possibile che i cittadini di una società bene-ordinata concordino su un ristretto insieme di principi, il rispetto dei quali garantisce la coesistenza democratica, è piuttosto improbabile che tutti lo facciano per le stesse ragioni e con le stesse motivazioni. Questa in estrema sintesi la riflessione che spinge Rawls a dichiararsi insoddisfatto dell’argomento della congruenza, così come è presentato nella Terza parte della Teoria, laddove tale argomento assume un unico presupposto psicologico-morale, una base morale troppo ampia del tutto irrealistica e, dunque, non disponibile, dato il pluralismo che caratterizza la società democratica e liberale. Assume, cioè, una sola modalità in cui si pensano le persone razionali, libere ed eguali, un unico status morale46. 44
Rawls ribadisce questo punto nell’introduzione dell’edizione in brossura di Liberalismo politico, del 1996: «dal momento che i principi della giustizia come equità della Teoria richiedono un regime democratico costituzionale, e dal momento che il fatto del pluralismo ragionevole è un esito permanente della cultura di una società nel contesto delle istituzioni libere, l’argomento presente nella Teoria poggia su una premessa la cui realizzazione è resa impossibile dai suoi stessi principi di giustizia» (J. Rawls, Political Liberalism, II ed., New York: Columbia University Press, 1996, p. xl, traduzione mia). 45 Questo rileva Rawls in Id., Justice as Fairness: a Restatement, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 2001 [trad. it. Giustizia come equità. Una riformulazione, a cura di S. Veca, Milano: Feltrinelli, 2002, p. 207]. 46 La congruenza tra giusto e bene argomentata nella Teoria è sì realizzabile ma a condizione di avere un certo status morale, cosa contraddetta dal pluralismo; vd. S. Maffettone, Rawls, cit., p. 50. Entrerò tra breve nel dettaglio di questa autocritica di Rawls.
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Partendo dal dato di fatto del pluralismo, che – riconosce Rawls – la Teoria non ha preso in seria considerazione, la domanda intorno alla stabilità viene riformulata: il problema del liberalismo politico si pone in questi termini: come è possibile che esista e duri nel tempo una società stabile e giusta di cittadini liberi ed eguali profondamente divisi da dottrine religiose, filosofiche e morali incompatibili benché ragionevoli? Detto in altro modo: come è possibile che dottrine comprensive profondamente contrapposte, benché ragionevoli, convivano e sostengano tutte la concezione politica di un regime costituzionale?47.
Assunto a premessa il fatto del pluralismo, ora Rawls si interroga sulla possibilità che dottrine comprensive cosiddette ragionevoli – ovvero quelle dottrine morali, filosofiche o religiose che sono espressione della libera attività della ragione pratica – forniscano argomenti a sostegno delle istituzioni giuste. Questo interrogativo ottiene in Liberalismo politico una risposta positiva: le istituzioni giuste possono ricevere sostegno duraturo da dottrine diverse e addirittura contrastanti in quanto queste sono in grado di trovare un accordo su una concezione politica della giustizia che diventa quindi oggetto di consenso. La stabilità di tale consenso deve essere realizzata in ‘modo giusto’, ovvero deve essere ottenuta per le ‘ragioni giuste’, come esito non di imposizione o coercizione, bensì come conseguenza del comune sostegno dato alle istituzioni, benché da ciascuna dottrina diversamente motivato48. Ripensando alla giustizia come equità così come è esposta nella Teoria, che è ora interpretabile come una dottrina comprensiva, Rawls ammette che la stabilità là perseguita risulta ora, alla luce del pluralismo, una stabilità ottenuta per le ‘ragioni sbagliate’, cioè imposta. Non potrebbe, infatti, che essere imposta 47
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 7. Quel che a Rawls interessa è la stabilità intrinseca e non già la stabilità garantita da un potere assoluto. Sul punto vd. E. F. McClennen, “Justice and the Problem of Stability”. Philosophy & Public Affairs, 18, 1, 1989: pp. 3-30. 48
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la stabilità cui aspira la società che assume a suo fondamento un’unica morale o un’unica filosofia, fosse anche quella incarnata dalla giustizia come equità illustrata nella Teoria; un consenso duraturo su una sola dottrina comprensiva, religiosa o filosofica o morale che sia, anche quella che consideriamo la migliore o l’unica vera, può essere realisticamente ottenuto solo con la forza, ovvero con un uso oppressivo del potere statale49. È come se fosse subentrata in Rawls la consapevolezza, di fronte al fatto del pluralismo, dell’incompatibilità tra istanza di imparzialità nei confronti delle diverse visioni morali, così come richiesto dalla giustizia come equità, e la concezione liberale del bene a fondamento di quest’ultima, che nella Teoria ne assicurava la stabilità. Se la società fondata su un’unica morale non può essere stabile per le ‘giuste ragioni’, potrà esserlo solamente quella in cui si realizza un consenso per intersezione di dottrine comprensive e ragionevoli attorno ai principi di giustizia. Si concorda non su una concezione comprensiva della giustizia, bensì su una concezione politica nel senso di indipendente dalle dottrine comprensive; più precisamente, si concorda su una concezione ‘morale politica’, una concezione morale benché limitata ad un ambito ristretto, quello politico-istituzionale. Riassumendo, con le parole di Rawls, si può dire che: una società democratica bene-ordinata soddisfa una condizione necessaria (ma di sicuro non sufficiente) di realismo e stabilità. Una simile società può essere bene-ordinata da una concezione politica della giustizia purché […] quei cittadini che sostengono dottrine comprensive ragionevoli ma opposte partecipino a un consenso per intersezione (cioè purché facciano in generale 49 Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 48. Vd. anche ivi, p. 131: «in quanto concezione politica liberale la giustizia come equità è fin dall’inizio irragionevole se non è in grado di sostenersi da sé in modo adeguato rivolgendosi alla ragione di ogni cittadino […]. Solo così sarà una teoria della legittimità politica e non una descrizione di come coloro che detengono il potere possono concludere, alla luce delle loro stesse convinzioni, di agire correttamente». Vi è ribadito il principio per cui la stabilità deve essere ottenuta per le ‘giuste ragioni’, sulla base di una condivisione motivata dei principi di giustizia.
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propria quella concezione della giustizia, in quanto corrisponde al contenuto dei loro giudizi politici sulle istituzioni di base) […]. Queste condizioni non ci impongono l’irrealistico (per non dire utopistico) requisito che tutti i cittadini sostengano la stessa dottrina comprensiva, ma solo che accettino la stessa concezione politica della giustizia, come appunto nel liberalismo politico50.
Dunque, sulla base della presa d’atto delle circostanze del pluralismo, alla domanda centrale della Teoria della giustizia se ne aggiunge un’altra: non si tratta più soltanto di spiegare quali siano gli equi termini di cooperazione sociale che agenti morali sceglierebbero in posizione originaria come base di una società giusta, ma si tratta anche di dire, o forse di ‘indicare’51, a quali termini sia possibile – sia cioè concretamente realizzabile – la convivenza pacifica e duratura all’insegna della giustizia tra cittadini che si concepiscono come liberi ed eguali, ma che sono divisi da conflitti dottrinali. Si potrebbe descrivere questo mutamento di prospettiva come un passaggio dall’ideale normativo valido a priori ai fatti della realtà, assunta la realtà quale premessa ineludibile di una ‘sensata’ riflessione intorno alla società giusta; la ‘sensatezza’ della teoria qui richiede di fissare le condizioni per la sua permanenza nel tempo52 e di tenere conto dei vincoli della sua fattibilità. I fatti cui Rawls si riferisce sono quelli che connotano 50 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 49 (corsivo aggiunto). Come già sostenuto nella Teoria, anche in Liberalismo politico si ribadisce che coloro che crescono entro istituzioni giuste acquisiscono un senso di giustizia tale da rendere le istituzioni sufficientemente stabili: «la stabilità è garantita da una motivazione sufficiente del tipo appropriato, acquisita entro istituzioni giuste» (ivi, p. 130). 51 Uso entrambi i verbi stabilire e indicare senza prendere alcuna posizione in merito. Intorno all’origine dei principi di giustizia nel liberalismo politico si discute se siano stabiliti, istituiti, costruiti o soltanto scoperti. Non è questione linguistica ma teorica intorno alla giustificazione di tali principi, come si comprenderà tra breve. 52 “Sensata” è, con le parole di Rawls, la concezione politica elaborata con l’obiettivo della stabilità: se tale stabilità non fosse raggiungibile sarebbe «sciocco cercare di realizzarla» (J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 130).
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la società liberale e democratica, dei quali il più rilevante è il fatto del pluralismo ragionevole. Sono fatti anche i cosiddetti oneri del giudizio, «i rischi impliciti nell’esercizio corretto (e coscienzioso) dei nostri poteri della ragione e giudizio nel corso normale della vita politica»53, cioè gli ostacoli che il ragionamento incontra quando si sviluppa liberamente e dai quali deriva il pluralismo medesimo delle dottrine e il loro ragionevole disaccordo. Se, dunque, vista da una prospettiva realistica, la Teoria della giustizia sembra limitata a fornire argomenti universalmente validi per la giustificazione delle istituzioni senza preoccuparsi troppo della loro concreta realizzazione – sostenere l’argomento della congruenza, come s’è visto, significa mostrare perché individui fatti in un certo modo, e non già tutti gli individui nella loro realtà empirica, debbano volere la giustizia come il loro stesso bene – nel Liberalismo politico la giustificazione delle istituzioni non può più essere indipendente dalla condizione che esse siano anche realizzabili e durature. In conclusione, viste le ragioni del passaggio dalla Teoria a Liberalismo politico, si può dire che la stabilità non cessa di essere un problema centrale per la filosofia politica di Rawls, problema che, anzi, si acuisce. Egli non si stanca di ribadire la necessità che una teoria della giustizia debba essere praticabile per essere una ‘buona’ teoria, anzi la teoria migliore; insiste in più luoghi sulla necessità che una ‘buona’, anzi la migliore, filosofia politica debba rispondere a istanze ‘realistiche’, delineando una concezione della giustizia che non abbia pretese di validità universale ma solo la pretesa di essere adatta per determinate società in date circostanze. L’elemento della realizzabilità continua ad essere un requisito imprescindibile nella teoria rawlsiana, espresso dal vincolo della stabilità54. Si tratta di tenere insieme, come dice Rawls, 53
Ivi, p. 63. Rawls parla in questi termini ‘realistici’ in “Il costruttivismo kantiano nella teoria morale”, cit., p. 67: «il nostro obiettivo non è trovare una concezione di giustizia appropriata a tutte le società, quali che siano le loro particolari circostanze sociali e storiche. Ciò che vogliamo è risolvere un disaccordo fondamentale a proposito della forma giusta delle istituzioni di base di una società 54
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la teoria ideale e quella non-ideale: ciò comporta il prendere sul serio elementi di realtà tali da attenuare l’assunto dell’osservanza rigorosa della teoria ideale adottando un principio di osservanza parziale55; tenere conto di elementi di realtà rimanda, in questo discorso, alla presa d’atto di fatti o circostanze della giustizia, tra cui il fatto del pluralismo56. Se, come si diceva, nella Teoria il punto nodale della riflessione di Rawls è l’appropriatezza della teoria, la sua «desiderabilità universale», ma comprendente un elemento di praticabilità, in Liberalismo politico quest’ultimo prevale: la desiderabilità della giustizia come equità viene vincolata alla sua praticabilità nel concreto, per cui si parla a riguardo di «desiderabilità contestuale»57.
democratica […]. Fino a che punto le conclusioni cui giungiamo possano dimostrarsi importanti anche in altri contesti più ampi è un’altra questione». La stessa istanza realistica è presentata in “The Idea of an Overlapping Consensus” (1987), ripubblicato nei Collected Papers nel 1999. 55 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 239. 56 Ivi, pp. 538-39. Rawls parla della teoria ideale come «complemento necessario alla teoria non ideale», laddove senza una «forma ideale delle istituzioni di fondo non c’è base razionale né per una continua correzione dei processi sociali volta a salvaguardare la giustizia di fondo né per l’eliminazione delle ingiustizie esistenti» (ivi, p. 239). Sul punto cfr. anche J. Rawls, Giustizia come equità, cit., p. 16; per la distinzione tra teoria ideale e teoria non-ideale vd. anche J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., pp. 243-44. Il rapporto tra teoria ideale e non-ideale è trattato con chiarezza da L. Valentini, “On the Apparent Paradox of Ideal Theory”. Journal of Political Philosophy, 17, 3, 2009, pp. 332-55; vd. anche S. Maffettone, Rawls, cit., p. 219, che mette in luce la necessaria integrazione della teoria ideale con un resoconto realistico dell’osservanza parziale delle istituzioni. Infine, un’articolatissima ricostruzione dei significati di teoria ideale e teoria non-ideale in Rawls, con l’intento di dissolvere molti fraintendimenti perpetuati dalla critica, è svolta in A. J. Simmons, Justification and Legitimacy. Essays on Rights and Obligations, Cambridge: Cambridge University Press, 2001. Più che di teoria non-ideale mi piacerebbe parlare di ‘circostanze non-ideali’ della teoria: sono le circostanze a non essere ideali – ed eventualmente condizionanti la teoria – non già la teoria in sé che non rinuncia, infatti, almeno nelle intenzioni, ad una carica di normatività, per quanto essa sia ridimensionata al contesto in cui viene applicata. 57 Per queste espressioni vd. F. Pasquali, “Rawls’s Realistic Utopianism: a Critical Discussion”, cit., p. 18.
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1.2.2. Realismo dei desideri Entriamo nel dettaglio delle ragioni che convincono Rawls a considerare irrealistica la psicologia morale dei cittadini della società giusta. Perché, pur continuando a condividerla sotto il profilo ideale, Rawls la trova ora inappropriata a fungere da base per la stabilità della società reale? Per rispondere a questa domanda bisogna fare un passo indietro e riprendere il discorso sul senso di giustizia sviluppato nella Teoria. La capacità naturale che gli esseri umani hanno di agire in base alla giustizia trova rinforzo nel vivere sotto istituzioni giuste: quando le istituzioni sono giuste, coloro che partecipano alla formazione dei suoi assetti acquisiscono il corrispondente senso di giustizia e il desiderio di continuare a fare la propria parte58. Le istituzioni giuste contribuiscono, dunque, a forgiare il carattere dei cittadini, rendendoli sempre più disposti alla reciprocità sulla base della condivisione moralmente motivata dei principi di giustizia. Si potrebbe aggiungere che gli individui come Rawls li concepisce nella Teoria – soggetti morali sia razionali sia ragionevoli, capaci di formulare idee del bene individuale e, al contempo, di porsi nella prospettiva del bene pubblico – siano dei sé unificati e coerenti, il cui impegno per la giustizia risulta in parte ‘dotazione’ naturale e in parte esito di un’educazione liberale e di un ambiente improntato ai suoi valori. Inoltre – aggiunge Rawls – quando i cittadini agiscono pubblicamente secondo i principi di giustizia, agiscono in realtà autonomamente: è ispirando la propria vita ai principi di giustizia che essi possono vivere da soggetti morali liberi ed eguali, così come essi appunto si considerano. Sulla base di queste idee fondamentali emerge la convinzione di Rawls secondo la quale, a proposito di stabilità, la società giusta formulata nella Teoria è in grado di stabilizzare se stessa, date le caratteristiche psicologiche e motivazionali dei membri che la abitano dopo averla costruita coerentemente con queste stesse caratteristiche. 58
Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 429.
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Ora, perché la società sia davvero stabile e lo sia nel modo giusto è necessario che il senso di giustizia prevalga sulle inclinazioni verso l’ingiustizia. Al Rawls della Teoria non sfugge certamente il fatto che persone possano ‘essere affette’ da tali inclinazioni come condizionanti il loro senso di giustizia; ovvero, è del tutto consapevole che, anche ammettendo che gli individui abbiano acquisito il senso di giustizia, non è affatto detto che costoro si comporteranno sempre di conseguenza. Chi abita la prospettiva dell’auto-interesse ad esso mirerà, non già a conformarsi al senso di giustizia59. Tuttavia, il fatto che si registrino comportamenti ingiusti o auto-interessati nulla toglie alla tesi rawlsiana presentata nella Teoria secondo la quale, in una società giusta, l’essere una persona giusta è davvero un bene per quella persona. Rawls rimane convinto che le persone ingiuste – i free-rider – non traggano alla fine alcun beneficio in una società bene-ordinata; sono, anzi, costrette a sostenere il peso psicologico della menzogna e dell’ipocrisia, che si rivela molto oneroso in una società di questo tipo60. Ma, se è così, e se dunque si lascia da parte il fenomeno del free-riding per il fatto che non comporta una diminutio della teoria della giustizia, che cosa minaccia ancora la stabilità garantita dal senso di giustizia? Che cosa impedisce l’unità di giusto e bene? Che cosa c’è di intrinsecamente debole nell’argomento della congruenza tanto da convincere Rawls a dichiararsi a riguardo insoddisfatto? Perché il senso di giustizia, appreso vivendo in una società giusta in cui 59
Si tratta del fenomeno del free-riding, in agguato in qualsiasi assetto giusto. Il free-rider conosce quel sentimento di giustizia e lo simula fino a che le circostanze non favoriscono il suo agire per promuovere in via esclusiva i propri interessi. Cfr. ivi, p. 533. 60 Ibid. Interessante è anche l’argomento dell’amore (J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., pp. 536-37): il sapere che amando si rischia di soffrire nel caso l’amante tradisse o l’amore finisse non è una ragione sufficiente per decidere di non amare; similmente, in una società bene-ordinata, la possibilità che persone si comportino ingiustamente non fa venire meno il senso di giustizia né dissuade le persone giuste dal comportarsi di conseguenza. Vd. sul punto P. Weithman, Why Political Liberalism? On John Rawls’s Political Turn, Oxford: Oxford University Press, 2010, cap. 7.
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ognuno fa il proprio dovere e dove tutti si aspettano dagli altri che facciano lo stesso, è certamente una motivazione ma non una garanzia della condotta giusta? Ricordo la spiegazione che Rawls dà della sua ‘insoddisfazione’: deriva dall’essersi reso conto di come la società bene-ordinata associata alla giustizia come equità, che è ora definita una dottrina filosofica comprensiva, abbia assunto un’unica base morale per l’accordo dei cittadini61. Dal momento che la dottrina comprensiva è quella concezione che contiene un ideale di condotta, relazioni amicali, familiari o associative ideali, nonché un ideale di carattere, cioè una concezione che include tutto quello che rappresenta un valore per la vita umana, se ne deduce che la stabilità della giustizia come equità è assicurata solo se si dimostra che i membri della società bene-ordinata la accettano sulla base di una comune idea di vita buona. In breve: presupposto della Teoria è che i membri della società bene-ordinata sostengano la stessa dottrina comprensiva, quella che vede nella vita autonoma la vita buona. Si ricordi come nella Teoria Rawls consideri razionale che i membri della società bene-ordinata attribuiscano valore all’autonomia, sia perché essi vogliono esprimere la loro natura di esseri liberi ed eguali, sia perché essi sanno che, solo agendo secondo giustizia, possono esprimere tale natura62. Dunque, quel che la Teoria presuppone è che i membri della società bene-ordinata giungano tutti a ‘concludere’ che la vita regolata dai principi 61
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 5. A questo proposito è interessante un’osservazione di Weithman (P. Weithman, Why Political Liberalism?, cit., p. 24). Egli considera sbagliata l’accusa che Sandel muove a Rawls secondo la quale la giustizia come equità implica una concezione metafisica di persona. Quella che Rawls propone nella Teoria è – sottolinea giustamente Weithman – una concezione di persona indipendente dalla metafisica in quanto basata su un punto di vista morale che, in questo stadio della riflessione, non è controverso. Dunque, la razionalità di volere vivere autonomamente è un’esplicitazione della morale kantiana qui prevalente e fino a qui indiscussa, non già l’espressione di una qualche antropologia metafisica. L’obiezione di Sandel ricorre in M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, Cambridge: Cambridge University Press, 1982 [trad. it. Il liberalismo e i limiti della giustizia, Milano: Feltrinelli, 1994]. 62
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La verità sospesa
di giustizia sia migliore di quella in cui il desiderio di vivere secondo giustizia è un desiderio tra altri desideri possibili. I membri della società bene-ordinata possono ‘giungere a concludere’ con la stessa idea di vita buona grazie al fatto che le istituzioni giuste hanno incoraggiato e favorito quest’idea di vita buona e grazie al fatto che quest’idea di vita buona corrisponde alla giustizia63. La convergenza su tale idea di vita buona, il suo essere condivisa, dipende dal fatto che tutti vedono e comprendono che cosa è una vita giusta e che essa corrisponde al bene. Ora, quest’idea di convergenza sulla medesima visione del bene si rivela illusoria. Rendendosi successivamente conto di come la stabilità della giustizia come equità dipenda nella Teoria dalla convergenza su un’unica morale e prendendo atto che tale convergenza non sembra garantita, dato il fatto del pluralismo, Rawls giunge a considerare tale stabilità irrealistica. In Liberalismo politico Rawls continua a pensare che chi accetta la giustizia come equità lo faccia sulla base di una dottrina comprensiva, ma non pensa più che si debba trattare della stessa dottrina comprensiva64. È a fronte della presa d’atto del pluralismo che Rawls si rende conto di come le persone possano nutrire desideri tali da indebolire quello superiore della giustizia, ovvero possano avere la tentazione di agire contro le richieste della giustizia, non perché necessariamente spinte da auto-interesse (come nel caso dei free-rider), ma perché sollecitate da ragioni diverse, religiose, politiche o filosofiche.
1.2.3. Gli esiti pluralistici della ragione in condizioni di libertà Fatte queste precisazioni, è ora necessario mettere a fuoco che cosa Rawls intenda per pluralismo. Distingue tra pluralismo tout court e pluralismo ragionevole: 63 Sul punto sono chiarificatrici le osservazioni di P. Weithman, Why Political Liberalism?, cit., pp. 68 ss. 64 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 49.
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dobbiamo distinguere il fatto del pluralismo ragionevole dal fatto del pluralismo in quanto tale. Non si tratta semplicemente del fatto che istituzioni libere tendono a generare un’ampia varietà di dottrine e di opinioni, com’è prevedibile data la diversità degli interessi degli uomini e la loro tendenza ad adottare punti di vista limitati, ma del fatto che fra le opinioni che si sviluppano c’è un’ampia varietà di dottrine comprensive ragionevoli. Sono queste le dottrine che i cittadini ragionevoli sostengono, ed è di esse che deve occuparsi il liberalismo politico. Non sono soltanto frutto di interessi egoistici e di classe, o della comprensibile tendenza umana a considerare il mondo politico da un punto di vista limitato; sono parte integrante dell’opera della ragione pratica libera, entro la cornice di libere istituzioni. Dunque il fatto del pluralismo ragionevole […] non è un aspetto sfortunato della condizione umana; e nel dare alla nostra concezione politica una forma che possa […] conquistare l’appoggio di dottrine comprensive ragionevoli, stiamo adattando questa concezione non alle forze brute del mondo, ma agli esiti inevitabili della libera ragione umana65.
Qual è quindi la questione fondamentale a proposito del pluralismo? Se la presa d’atto del pluralismo è il punto di partenza per il ripensamento della teoria della giustizia, la cui stabilità risulta minata dalla realtà dei desideri controversi e divergenti rispetto al superiore desiderio di giustizia, un primo passo in direzione di una risposta all’instabilità consiste nella caratterizzazione del pluralismo come ragionevole. Il pluralismo ragionevole esprime la molteplicità delle ragioni filosofiche, morali o religiose che le persone nella società reale hanno, e che non rimanda alla varietà degli interessi individuali e degli egoismi personali. Di questa idea di pluralismo – ammette Rawls – non c’è menzione nella Teoria della giustizia66. Riconoscere il pluralismo ha il significato, prima di tutto, di ammettere che le ragioni che le persone possono avere per considerare il senso di giustizia come parte del loro stesso bene variano, variando prima di tutto il modo in cui esse concepiscono 65 66
Ivi, p. 48. J. Rawls, Giustizia come equità, cit., p. 209.
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La verità sospesa
la realizzazione di sé. Ma quel che qui conta è che tale pluralismo è ragionevole: il pluralismo è la ragionevole conseguenza del libero uso della ragione, il tratto distintivo di soggetti che si autocomprendono come esseri razionali liberi ed eguali. Così inteso, il pluralismo non è una sventura ma, al contrario, una condizione dell’umanità che vale la pena di promuovere67. Tale pluralismo è, peraltro, favorito dalle istituzioni giuste: persone che concepiscono se stesse come libere ed eguali e possono esercitare liberamente la loro razionalità non avranno realisticamente la stessa idea di libertà, né probabilmente avranno la stessa idea di natura umana. Se rientra tra i compiti della società giusta favorire nei suoi membri una visione di sé come persone razionali libere ed eguali, saranno realisticamente molteplici le visioni che queste persone avranno di se stesse. Le persone che vedono se stesse come libere ed eguali sono anche libere di scegliere quale bene perseguire e quali persone voler essere di conseguenza. È desiderando la giustizia – come si diceva – che le persone possono realizzare la loro natura di esseri liberi ed eguali, ed è sotto istituzioni giuste che esse possono realizzare tale natura. Questa considerazione fa sorgere la domanda se sia sufficiente la concezione della persona illustrata nella Teoria, in grado sia di ‘condurre’ ai principi di giustizia sia di motivare ciascuno a realizzarli. La risposta, a fronte del pluralismo è, come sappiamo, negativa. Risulta ancora più chiaro perché la presa d’atto del pluralismo imponga a Rawls di riconsiderare le ragioni per la stabilità: essa riposa ancora sulla presenza del desiderio durevole di giustizia ed ancora la società è immaginata come capace di incoraggiare tale desiderio. In un contesto pluralistico, però, non è detto che la base morale che sostiene tale desiderio sia la stessa in chiunque. Nella società pluralistica non è più, in sostanza, plausibile un’idea di stabilità che rinvii ad un unico resoconto della ragione pratica in cui razionale e ragionevole coincidono; non è più difendibile l’argomento della congruenza tra giusto e 67
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 47, 131.
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bene, che presuppone un’idea di persona come sé unificato in cui il punto di vista individuale corrisponde a quello collettivo. Desideri durevoli non si spiegano più – né possono più esserne realisticamente ‘assicurati’ – con un ideale morale di persona, ma si possono semmai innestare su un ideale politico condiviso e rintracciabile nella cultura pubblica della liberal-democrazia. Si capisce dunque perché nel Liberalismo politico la concezione metafisica di persona lasci il posto alla concezione politica di cittadino; in quanto persone libere – sostiene Rawls – i cittadini rivendicano il diritto di essere considerati indipendentemente da qualsiasi concezione metafisica particolare. Li contraddistingue, per dir così, una doppia identità, quella di cittadini che vivono nella vita pubblica e quella di persone che vivono una vita non pubblica. Non c’è per Rawls difficoltà a conciliare queste due identità poiché l’una e l’altra si giocano in sfere distinte dell’esistenza: «sulla via di Damasco Saul di Tarso diventa l’apostolo Paolo. Tuttavia una simile conversione non implica un cambiamento di identità pubblica o istituzionale»68.
1.2.4. Un consenso ragionevole Dire che il pluralismo è ragionevole ha in questo frangente un significato fondamentale, quello di ricondurre la spiegazione della molteplicità dei punti di vista all’esercizio della ragione in condizioni di libertà. Persone razionali che ragionano liberamente, che godono di libertà di coscienza e di opinione, producono pensieri divergenti; contare sulla loro ragionevolezza significa contare sulla possibilità di una composizione delle divergenze e del superamento del disaccordo. Non ci si può realisticamente aspettare che siano le stesse ragioni morali a favorire un accordo su una concezione politica della giustizia; ma esso può essere realizzato a partire da molteplici e differenti ragioni morali, capaci di convergere sul medesimo obiettivo: sostenere le istituzioni 68
Ivi, p. 44.
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giuste. L’idea è che, non potendo condividere tutto, le persone, se sono ragionevoli, possono, però, condividere qualcosa, trovarsi d’accordo sui principi di giustizia. Tali principi non sono più necessariamente difesi sulla base di una teoria comprensiva, quale la giustizia come equità; è sufficiente che siano condivisi in quanto si trovano nelle idee diffuse nella cultura politica pubblica delle democrazie liberali. Che i principi possano essere il centro focale di un consenso per intersezione sarà, «per gli scopi della politica», sufficiente69. Su tali principi, il contenuto di una concezione politica della giustizia, è ragionevole aspettarsi la riduzione del disaccordo, realizzando un consenso che stia alla base della convivenza stabile e giusta. Quali siano, poi, le ragioni che le persone ragionevoli hanno per sostenere i principi di giustizia spetta a loro decidere, trovandole all’interno delle rispettive dottrine70. Scrive Rawls: date le istituzioni libere prescritte da questa concezione [giustizia come equità] non possiamo più presupporre che tutti i cittadini, pur accettando la giustizia come equità come concezione politica, accettino anche quella particolare dottrina comprensiva alla quale può sembrare (nella Teoria) che essa appartenga. Qui supponiamo invece che i cittadini abbiano due posizioni distinte, 69
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 118. Ora, a proposito del consenso e del ruolo che gioca nella giustificazione dei principi, è fondamentale questa precisazione: «sarebbe sbagliato vedere la posizione originaria come il luogo della giustificazione ultima della teoria della giustizia rawlsiana […]. Essa è convalidata a sua volta dal fatto di accordarsi con i principi di giustizia, così come questi a loro volta sono convalidati, oltre che dalla loro derivazione dalla posizione originaria, anche dalla loro congruenza con i giudizi che diamo sulla giustizia o ingiustizia di istituzioni politiche particolari. Nella teoria di Rawls non esiste alcun elemento che sopporti da solo tutto il peso della giustificazione, perché il metodo generale di giustificazione adottato e realizzato da Rawls è quello dell’equilibrio riflessivo: una teoria è giustificata quando le sue varie parti si sostengono a vicenda e si accordano con i nostri giudizi ponderati» (V. Ottonelli, “Introduzione”, cit., p. 17). I giudizi ponderati sono quei giudizi «in cui è più facile che le nostre capacità morali appaiano senza distorsioni, formulate in situazioni che favoriscono l’uso del nostro senso di giustizia» (J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 65). 70
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o anche – forse più appropriatamente – che la loro posizione complessiva abbia due parti: la prima può essere considerata una concezione politica della giustizia, mentre la seconda è una dottrina (pienamente o parzialmente) comprensiva cui la concezione politica è in qualche modo correlata. La concezione politica può essere una semplice parte o appendice di una visione parzialmente comprensiva, ma può anche essere accettata perché derivabile all’interno della dottrina comprensiva pienamente dispiegata; spetta ai singoli cittadini decidere, ciascuno per sé, quale sia la relazione fra la loro concezione politica comune e le loro posizioni più comprensive71.
Se ne deduce che Rawls non è più interessato a scandagliare le ragioni dell’accordo, ma solo alla loro capacità di sostenerlo stabilmente. Si è parlato a questo proposito di “neutralità giustificativa”, dal momento che al liberalismo politico non spetta stabilire il nesso tra l’interiorità profonda dei cittadini e l’esteriorità politica in cui è espressa la loro adesione alle istituzioni liberali: la ricerca di tale nesso, nonché come realizzarlo, spetta ai singoli cittadini in virtù della libertà di ciascuno72. Significativo a riguardo il seguente passaggio: il liberalismo politico cerca dunque di presentare questi valori [i valori politici] come valori di un ambito particolare – il politico; di darne, cioè, una presentazione che costituisca una posizione autonoma. Tocca poi ad ogni singolo cittadino – e fa parte della sua libertà di coscienza – stabilire quale sia, nel suo pensiero, la relazione tra i valori dell’ambito del politico e altri valori della sua visione comprensiva. Assumeremo sempre, infatti, che i cittadini abbiano due concezioni, una comprensiva e una politica, e che la loro concezione complessiva possa essere divisa in due parti adeguatamente correlate73. 71
J. Rawls, Giustizia come equità, cit., p. 208 (corsivo aggiunto). L’espressione “neutralità giustificativa” è tratta da S. Maffettone, Rawls, cit., p. 290. 73 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 128 (corsivo aggiunto). L’intento di Rawls è quello di non entrare nel merito delle giustificazioni che i singoli hanno per sostenere le istituzioni giuste per rispetto della loro libertà di coscienza e di pensiero. 72
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La verità sospesa
Delle diverse ragioni che i singoli possono avere per giungere al consenso alcune saranno presumibilmente ‘continue’ con il contenuto della concezione politica mentre altre non lo saranno. La concezione della giustizia non implica più, diversamente da quello che capitava nella Teoria, una continuità ‘filosofica’ tra i principi di giustizia e le dottrine comprensive disposte a condividerli. La concezione della giustizia è ora politica, nel senso che non si fonda in nessuna dottrina in particolare, è un contenuto ‘appropriabile’ – come un «modulo», scrive Rawls74 – da diverse dottrine comprensive che la possono fare propria in ragione del loro convergere sui valori politici diffusi nella cultura politica pubblica: «in alcuni casi la concezione politica è semplicemente la conseguenza della dottrina comprensiva del cittadino, o è in continuità con essa; in altri può avere con essa un rapporto di approssimazione accettabile, date le condizioni del mondo sociale»75. Quel che si richiede ai cittadini – in buona sostanza – non è concordare sulle stesse dottrine comprensive ma solo convergere sulla concezione politica della giustizia a partire ciascuno dalla propria posizione, realizzando quel consenso per intersezione che, date le ragioni motivanti che ciascuno è in grado di rinvenire da sé, dentro la propria dottrina, garantisce alle istituzioni la stabilità. Rawls tiene a sottolineare come giustificazione e stabilità siano questioni distinte e successive: una volta che le parti hanno adottato i principi, devono chiedersi se questi, e la concezione politica che li contiene, possano conquistarsi il sostegno di quella varietà di dottrine comprensive ragionevoli che non può non esistere in una democrazia liberale. La questione della stabilità subentra una volta che la concezione politica è stata elaborata in modo indipendente dal grado di consenso da essa raggiungibile. Ribadisce, inoltre, che il consenso deve essere dato per le ‘ragioni giuste’: non fa concessioni al ‘mero’ consenso che può essere variamente estorto, ma solo perseguire quello ottenibile 74 75
Ivi, p. 132. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 7.
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per ragioni morali, ancorché la scelta di queste stesse ragioni competa ai singoli cittadini. Un consenso che fosse realizzato su ragioni non morali non sarebbe molto diverso da un mero equilibrio di forze o interessi, sarebbe qualcosa di simile a un modus vivendi76, ovvero a una forma di convivenza instabile in quanto sostenuta da ragioni ‘sbagliate’, motivi prudenziali, di opportunità o di paura, che non possono essere di alcuna garanzia alla stabilità. In conclusione, si può dire che la politicizzazione della Teoria della giustizia abbia il significato di rendere i principi di giustizia dei valori politici disponibili ad un ragionevole consenso anche da parte di chi avrebbe teorie della giustizia differenti dalla giustizia come equità. I principi di giustizia sono ora il contenuto di una concezione politica di giustizia che può essere e può non essere in continuità con le singole dottrine comprensive che la fanno propria, ciascuna dalla propria prospettiva. Anticipando temi che di seguito approfondirò, direi qualche parola sul termine ‘ragionevole’. La qualifica di ‘ragionevole’, dapprima attribuita al pluralismo delle dottrine comprensive anch’esse ragionevoli, è ora predicata dei cittadini in grado di trovare nella propria dottrina ragionevole le ragioni a sostegno dei valori politici e dei principi di giustizia. La ragionevolezza è resa indipendente dal contenuto delle ragioni che ciascuno può trovare, e dalla loro verità: non interessano le ragioni dei cittadini ma soltanto che essi siano ragionevoli. È la ragionevolezza che rende percorribile per ciascuno la strada per il consenso, dal momento che è la ragionevolezza a rendere disponibile il nesso tra ragioni ‘comprensive’ e principi di giustizia. La conciliazione tra la concezione politica e le dottrine comprensive si realizza solo se i cittadini sono ragionevoli, ovvero se sono in grado di fare propria la concezione politica a partire ciascuno dalla propria dottrina comprensiva. Come questo adattamento avvenga dipende dalla loro ragionevolezza. Quando è necessario, ovvero nei casi di conflitto tra la propria morale e le regole del giusto, 76
Ivi, pp. 133-34; vd. anche J. Rawls, Giustizia come equità, cit., p. 214.
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la ragionevolezza spinge le persone ragionevoli a sospendere il giudizio sulla propria verità come anche su quelle altrui: quel che conta è la possibilità che esse individuino un’area di intersezione abitata dai valori politici, ricavabili dalla cultura politica pubblica della società giusta e condivisibili da tutti. È sospeso il giudizio di verità sulle proprie e sulle altrui ragioni e quel che conta è la loro convergenza: l’astensione dalla verità è la prima mossa per perseguire l’obiettivo politico del consenso come risposta al problema della stabilità. È, anzi, il requisito fondamentale per rispondere alla questione della stabilità di fronte alla sfida del pluralismo.
1.2.5. Ragionevolezza, non negazione della verità La tesi dell’indipendenza reciproca di ragionevolezza e verità, sopra appena accennata, è cruciale in questo discorso: ciò che è ragionevole può essere falso così come ciò che è vero può non essere ragionevole. Sostituire la verità con la ragionevolezza – con l’idea del politicamente ragionevole – è, nell’intento di Rawls, la condizione necessaria ai fini del consenso: rinunciare alla verità o, meglio, rinunciare a fare appello alla verità per dirimere le controversie che possono sorgere nel dominio della politica o, ancora, per legittimare decisioni collettive, risponde all’obiettivo della stabilità della società bene-ordinata, una stabilità perseguita attraverso il sostegno moralmente motivato (quali che siano le ragioni morali e quali che siano le dottrine cui sono attinte) delle istituzioni giuste. L’astensione dalla verità è dunque funzionale alla stabilità, essendo la stabilità un elemento essenziale perché una società possa dirsi giusta davvero. Per questo è necessario lasciare da parte le controversie filosofiche ogni volta che è possibile […]. Come ho detto, dobbiamo applicare la tolleranza alla filosofia stessa. La speranza è che, grazie a questo metodo che consiste nell’evitare – così potremmo definirlo – le attuali differenze tra concezioni politiche contrastanti possano quanto meno ridursi, se è impossibile che scompaiano del tutto, in modo che
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si possa partecipare alla cooperazione sociale sulla base del reciproco rispetto77.
Sullo sfondo di questa considerazione c’è la convinzione – che Rawls non esita a palesare – secondo la quale la verità è profondamente e pericolosamente divisiva: quando parlano di verità gli esseri umani tendono a dividersi più che a unirsi, a diventare arroganti più che accoglienti. Non è casuale il richiamo che Rawls fa alle guerre di religione scoppiate in Europa dopo la Riforma e alla dottrina della tolleranza, oggetto sin da allora di attenta investigazione. La tolleranza è, in primo luogo, la strategia politica per disinnescare il potenziale di belligeranza implicito nello scontro tra opposte verità quando invocate dalle parti avversarie per porsi alla guida della vita politica. Non è una stabilità per le ‘ragioni giuste’ quella guadagnata attraverso l’imposizione di una verità; perché ci sia stabilità, e perché sia una stabilità per ‘ragioni giuste’, ovvero senza costrizione ma solo con il consenso dei cittadini, è necessario che la concezione politica della giustizia sia sostenuta da ciascuno in modo indipendente dalla forza politica, peraltro contingente, della propria dottrina comprensiva e in modo dipendente solo dalle ragioni morali che ciascuno è in grado di trovarvi78. Credere che una concezione politica sia vera e che sia, per questo solo motivo, l’unica base valida della giustificazione dell’autorità politica, è un atteggiamento esclusivistico e anzi settario, atto con ogni probabilità ad alimentare divisioni politiche79. Alternativa politica alla verità è la 77 J. Rawls, “Giustizia come equità: è politica non metafisica”, cit., pp. 178-79 (corsivo aggiunto). 78 «Il punto essenziale, dunque, è che il problema della stabilità non è il problema di portare chi respinge una certa concezione a condividerla o ad agire in conformità con essa, se necessario per mezzo di sanzioni effettivamente applicabili – come se il nostro compito fosse quello di trovare un modo di imporre tale concezione, una volta che ci siamo convinti che è ben fondata. La giustizia come equità, tanto per cominciare, non è nemmeno ragionevole se il sostegno che ha non se lo sa conquistare parlando alla ragione di ogni singolo cittadino» (J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 131). 79 Ivi, p. 120.
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La verità sospesa
ragionevolezza, intesa come la capacità di porsi a distanza dalla propria verità nel perseguimento della giustizia: sospendere il giudizio sulla propria e sull’altrui verità significa essere ragionevoli, disponibili a sostenere i valori politici indipendentemente da qualsiasi loro valutazione in termini di verità. Astenersi dal giudicare la verità degli altri e dall’impugnare la propria come l’unica vera significa essere ragionevoli80. Solo la ragionevolezza rende disponibile la possibilità di risolvere la questione della stabilità: data la convinzione che la verità sis causa di profonde divisioni, la mossa astensionistica – resa possibile dalla ragionevolezza – è per Rawls condizione necessaria per la stabilità, rispondendo alla sfida ad essa lanciata dal pluralismo. Articolerei così il discorso che culmina con la difesa dell’idea di ragionevolezza: a) nello sforzo di difendere una teoria della giustizia che sia praticabile, Rawls cambia strategia e si propone di difendere la giustizia come equità come concezione politica e non metafisica; b) questo significa che la concezione politica della giustizia non poggia più su una qualche dottrina comprensiva né su tesi che rinviino ad altri ambiti del sapere: la filosofia politica è dichiarata indipendente da morali o filosofie; c) il compito della filosofia è, ora, quello di verificare come sia possibile che una concezione della giustizia possa essere fatta propria da dottrine ragionevoli profondamente diverse tra loro; d) la ragionevolezza è, dunque, al centro di questa rielaborazione: essa connota un’attitudine dei cittadini della società giusta, che li abilita alla scoperta, ciascuno per proprio conto, del nesso tra le ragioni peculiari della propria appartenenza morale, filosofica o religiosa e i valori politici che stanno alla base della società giusta, attorno ai quali si realizza il consenso; e) l’idea del ragionevole esprime la disponibilità dei singoli, in circostanze di potenziale 80 Nella cornice della ragionevolezza, come vedremo ampiamente più avanti, Rawls insiste sottolineando che l’astensione dalla verità non è scetticismo: il consenso non può avvenire per rinuncia da parte dei singoli alla propria verità, ma solo per rinuncia a pretendere che tale verità sia incarnata nelle istituzioni, che sia, cioè, politicamente rilevante. Vd. ivi, pp. 136 ss.
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conflittualità tra buono e giusto, a mettere da parte i loro rispettivi valori particolari e sostenere i valori politici della giustizia; accettare di sospendere la priorità dei propri valori comprensivi per adottare la priorità del giusto è segno di ragionevolezza81; f) la disponibilità a mettere tra parentesi la verità – la verità dei valori in cui si crede, dato per assunto che non si può credere in qualche cosa senza ritenerla vera82 – non significa per Rawls rinunciare a sostenere tale verità; significa soltanto essere pronti a prendere in seria considerazione il fatto che esistono molte dottrine comprensive ragionevoli entro la società liberale e che a nessuna persona ragionevole può essere chiesto di rinunciare ai contenuti della propria verità per attribuire priorità ai principi di giustizia; g) ciò che, però, a persone ragionevoli si richiede è di essere pronte a spiegarsi l’un l’altra, riguardo alle questioni di giustizia fondamentale, come le loro scelte politiche possano essere reciprocamente accettabili, alla luce di valori politici condivisi83; h) ragionevole è anche il consenso, poiché non prescrive, per il suo raggiungimento, la negazione delle ragioni particolari, delle rispettive verità, ma richiede soltanto di individuare tra queste ragioni e verità quelle atte a sostenerlo; i) l’indipendenza della ragionevolezza dalla verità è espressa dagli stessi principi di giustizia: essi non descrivono una verità ma sono esito di una procedura di costruzione detta costruttivismo politico: esso parte 81 Ivi, p. 65; vd. anche J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica” (1997), in Id., Saggi, cit., pp. 275-326. 82 Impossibile, del resto, credere a qualcosa credendolo falso. Un’utile introduzione intorno ai rapporti tra verità e credenza è presente in F. D’Agostini, Introduzione alla verità, Torino: Bollati Boringhieri, 2011. 83 Vedremo come questa disponibilità sia implicita nel principio liberale di legittimità. Anticipo che il principio di legittimità liberale è il principio alla luce del quale l’esercizio del potere di ciascun cittadino con il suo voto deve essere giustificabile davanti agli altri in quanto persone libere ed eguali (cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 186-87). Rawls è convinto che i cittadini possano concordare sul principio di legittimità liberale in ragione della loro ragionevolezza, per cui ad essi non è richiesto di essere d’accordo su decisioni politiche particolari, ma solo di essere d’accordo nel riconoscersi il diritto reciproco di ricevere giustificazioni in merito a tali decisioni.
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La verità sospesa
da un accordo sui principi che si trovano incarnati nella cultura politica pubblica e cerca di fornire i modi in cui i cittadini giustificano reciprocamente le proprie pretese in materia di giustizia fondamentale, esprimendosi in un linguaggio – quello della ragione pubblica – che tutti possono comprendere: «è solo affermando una concezione costruttivistica – quindi politica, e non metafisica – che i cittadini possono aspettarsi in generale di trovare principi accettabili da tutti; e possono farlo senza negare gli aspetti più profondi delle loro dottrine comprensive ragionevoli»84. I cittadini ragionevoli comprendono che questi principi non sono imposti dall’esterno né dipendono da dottrine comprensive che non condividono, ma sono invece tratti dalla cultura pubblica, impliciti nelle idee condivise che essa contiene. Concludendo la discussione intorno alla ragionevolezza, Rawls dichiara la sua fiducia nella sua progressiva estensione: c’è ragione di sperare – ed è una «fede ragionevole»85 – che le dottrine comprensive evolvano in direzione di una loro progressiva inclusione nel consenso per intersezione; ciò avverrà per ‘contagio’, per dir così, ovvero per la capacità delle istituzioni giuste di guadagnare progressivamente il consenso da parte di coloro che ancora non le sostengono. A questo proposito Rawls richiama la storia della tolleranza e il suo sviluppo come esito della Riforma e del pluralismo religioso: si passò dall’intolleranza per mantenere la concordia e l’unità sociali alla tolleranza, forse «perché è difficile, se non impossibile, credere nella dannazione 84
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 95. Sulle differenze tra costruttivismo kantiano e costruttivismo politico vd. ivi, “Lezione III”, pp. 89-120, specialmente le pp. 96-99; la sostanziale differenza è che la procedura costruttivistica proposta da Rawls non intende contrapporsi a qualche dottrina comprensiva; non può poggiare su una dottrina comprensiva in particolare, quale è quella kantiana, poiché nessuna dottrina comprensiva è adatta a fornire una base pubblica per la giustificazione. Rawls ribadisce più volte l’indipendenza della costruzione dei principi da impegni per la verità; non è, del resto, la verità lo scopo della filosofia politica. La filosofia politica aspira, invece, a rendere esplicite nozioni e principi condivisi già presenti nel senso comune, anche se in forma latente. 85 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 154.
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di coloro con i quali abbiamo collaborato a lungo, in fiducia e sicurezza, per la conservazione di una società giusta»86. Anche convinzioni molto salde – spiega Rawls – cambiano; oggi nessuno argomenterebbe a favore della persecuzione, e l’accettazione della tolleranza religiosa è acquisita ed è un punto fermo della cultura politica pubblica delle società democratiche e liberali. Quanto alla verità, cui la ragionevolezza si sostituisce come rimedio pratico ai suoi effetti divisivi, riassumerei così i punti fondamentali del ragionamento di Rawls: i) la verità non rappresenta un valore politico, anzi può essere addirittura un disvalore quando diventa causa di forti divisioni che possono degenerare in conflitti aperti; ii) nel dominio della politica occorre assumere un atteggiamento astensionistico nei confronti della verità, tanto più che l’obiettivo della filosofia politica è pratico, non è né metafisico né epistemologico, e consiste nell’elaborare una concezione politica della giustizia che funga da base per un accordo politico informato e volontario tra cittadini concepiti come liberi ed eguali; lo scopo pratico della filosofia politica è duplice: (iia) fornire una base pubblica condivisa per la giustificazione delle istituzioni sociali e politiche, nonché (iib) contribuire ad assicurare la stabilità da una generazione a quella successiva; iii) astenersi dal discutere della verità significa concentrarsi su un ideale praticabile senza che rimangano resti di profondo dissenso, ovvero su un’idea del politicamente ragionevole come base di un accordo stabile per le ‘ragioni giuste’; iv) astenersi dal discutere della verità non significa negare la verità né significa rinunciare a considerare le proprie convinzioni come vere; significa soltanto prendere atto che la società reale è pluralistica laddove il pluralismo è l’esito inevitabile del libero uso della ragione. Mostrare quanto siano controvertibili queste affermazioni circa la verità senza ragionevolezza e la ragionevolezza senza verità è l’obiettivo di molte critiche. Esse generalmente concordano nel sostenere che l’errore principale di Rawls sia stato quello 86
Ivi, p. 13.
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di dire che la verità non è un interesse della filosofia politica: parlare della verità non serve – scrive Rawls – né è richiesto; «è sufficiente parlare di ragionevolezza»87. Aggiunge inoltre che la filosofia politica «non usa (o nega) il concetto di verità […]. Il fatto è che, al proprio interno, la concezione politica fa a meno del concetto di verità»88. Se il proposito di Rawls di estraniarsi, per le questioni politiche fondamentali, dalla discussione intorno ai temi salienti, filosofici, religiosi e morali, della vita degli individui risponde all’intento di concentrarsi sulla praticabilità della loro convergenza sui valori politici, la strada che intraprende per realizzare tale obiettivo si rivela piena di insidie: un ideale di ragionevolezza come ‘misura’, come adozione di un punto di vista morale, benché di una morale limitata al politico, sembra ben difficilmente disgiungibile da un richiamo alla verità. Su questa infondatezza, per dir così, della ragionevolezza si sono concentrate le critiche che procedo ora ad illustrare.
1.3. Può la filosofia politica fare a meno della verità? 1.3.1. Deriva contestualistica L’operazione di ‘politicizzazione’ della teoria della giustizia con cui Rawls cerca di affrontare il problema della stabilità corrisponde, nella sostanza, ad uno scollegamento dei principi di giustizia da un’unica base teorica per la loro giustificazione. La teoria della giustizia, i suoi principi, non sono più difesi come una filosofia bensì come una concezione politica: ciò permette alle diverse dottrine comprensive di potersene appropriare, ciascuna per le ragioni che giudicherà pertinenti. L’operazione di ‘politicizzazione’ – si diceva – corrisponde ad un’astensione dalla verità: non è necessario che i principi siano veri per poter essere condivisi, è sufficiente che rispondano all’ideale della ragionevolezza, che 87 88
Ivi, p. 8. Ivi, p. 92.
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siano cioè ‘appropriabili’ dalle dottrine comprensive, altrettanto ragionevoli perché disposte, in caso di conflitto tra questi principi e i propri valori, a far prevalere i primi sui secondi. Queste affermazioni, di apparente buon senso, sono fatte oggetto di dure critiche, che, come dicevo, sono sia ‘interne’ al paradigma rawlsiano, quelle sollevate dai ‘seguaci’ di Rawls che condividono l’istanza del consenso, sia ‘esterne’ ad esso, mosse da coloro che, mettendo in discussione la soluzione rawlsiana al conflitto, in realtà pongono un interrogativo più generale sulle ragioni del liberalismo. Non è soltanto la versione rawlsiana del liberalismo che suscita diffidenza, quindi, ma il liberalismo tout court, per essere strutturalmente inadeguato ad affrontare i conflitti reali della società pluralistica o, prima ancora, ad accettare la realtà innegabile del conflitto. Le critiche interne si concentrano, invece, sulle ambiguità del vocabolario rawlsiano, sulle aporie delle soluzioni proposte ai problemi della legittimità delle istituzioni o della loro giustificazione, fatto salvo e condiviso l’obiettivo pratico della stabilizzazione della società giusta. Per illustrare le linee fondamentali del primo gruppo di critiche a quella che è stata giudicata una caduta nel contestualismo, mi avvalgo di quella formulata da Habermas89, poiché, nonostante egli consideri le sue obiezioni come espressione di «dissensi che rimangono negli stretti confini di una discussione in famiglia»90, la famiglia, cioè, dei liberali, esse sono tali da revocare
89 J. Habermas, “Reconciliation Through the Public Use of Reason. Remarks on John Rawls’s Political Liberalism”. Journal of Philosophy, 92, 3, 1995, pp. 109-31 [trad. it. “Conciliazione tramite uso pubblico della ragione”, a cura di A. Ferrara. MicroMega. Almanacco di Filosofia ’96, supplemento al n. 5/95 MicroMega, 1996, pp. 21-50]. I numeri di pagina delle citazioni qui riportate si riferiscono però alla ripubblicazione di questa traduzione nell’edizione italiana di J. Habermas, Die Einbeziehung Des Anderen, Frankfurt a. Main: Suhrkamp Verlag, 1996 [trad. it. L’inclusione dell’altro, a cura di L. Ceppa, Milano: Feltrinelli, 1998, pp. 63-87]. 90 J. Habermas, “Conciliazione tramite uso pubblico della ragione”, cit., p. 64.
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in dubbio l’intera impresa rawlsiana, mostrandone debolezze e incongruenze. Nel celebre carteggio del 1995, che mise a confronto i due autori sui temi del liberalismo politico, ma anche in scritti successivi91, Habermas rimprovera a Rawls di non aver sufficientemente distinto tra piano normativo e piano descrittivo, tra livello dei principi e livello dei fatti. In particolare, ad essere messa sotto accusa è la figura del consenso per intersezione che esprime, a giudizio di Habermas, una confusione tra «accettabilità fondata» e «accettazione fattuale»92. La validità del consenso per intersezione – precisa infatti Habermas – nonché la proclamata ragionevolezza del suo contenuto derivano semplicemente dalla «felice circostanza per cui le ragioni non pubbliche, e diversamente motivate, vengono di fatto a convergere»93. Se è così, sembra potersi dire che nel liberalismo politico i valori siano determinati dai fatti: ad avere valore e ad essere riconosciuto da tutti come avente valore è ciò che risulta diffuso presso la cultura pubblica di una certa società, su cui si raggiunge il consenso. Dunque, è come se, così dicendo, Rawls assumesse ciò che invece deve dimostrare o almeno presentare come esito di un percorso: il consenso è già realizzato su valori comuni e non è perciò difeso al termine di un processo che parte dal confronto tra posizioni differenti. L’argomento di Rawls soffre di circolarità – continua Habermas – dal momento che i fatti che assume come valori, cioè come fonti di giustificazione, dovrebbero a loro volta essere scelti in quanto dotati di significato normativo; ma tale significato non sussiste in quanto non preesiste ai fatti medesimi. Quanto più Rawls crede di poter fondare la teoria della giustizia solo su 91 Si tratta di “Ragionevole contro vero: la morale delle visioni del mondo”, in J. Habermas, L’inclusione dell’altro, cit., pp. 88-115. Infine, contengono una critica a Rawls i capitoli 2 e 3 di Fatti e norme, cit. Per un confronto tra Habermas e Rawls vd. tra gli altri T. McCarthy, “Kantian Constructivism and Reconstructivism: Rawls and Habermas in Dialogue”. Ethics, 105, 1, 1994, pp. 44-63. 92 J. Habermas, “Conciliazione tramite uso pubblico della ragione”, cit., p. 77. 93 J. Habermas, “Ragionevole contro vero”, cit., p. 97.
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intuizioni che nessuno potrebbe localmente contestare, tanto più diventa difficile distinguere il compito della fondazione filosofica da quello della ridescrizione o autochiarimento politico intrapreso da una comunità concreta94. Il consenso per intersezione, per come Rawls lo elabora, può svolgere soltanto una funzione meramente strumentale, quale espediente per la stabilizzazione della teoria. La conclusione è che, nel resoconto del Liberalismo politico, non c’è sufficiente distinzione tra fatti e valori né vi è adeguata suddivisione tra livello fondativo e giustificativo del discorso politico e livello dell’esperienza di ciò che viene fattualmente condiviso95. L’ambiguità del consenso per intersezione sta all’origine di un’altra questione: Rawls non spiega che cosa dovrebbe condurre gli individui a sviluppare e a giustificare una concezione politica. Quel che Rawls si limita a dire è che ci sono valori comuni diffusi nella società liberale e democratica, sui quali gli individui realizzano un consenso: tale consenso è contingente nella misura in cui esso non si fonda su presupposti teorici ma solo sul fatto di ‘trovarsi d’accordo’ sui valori cui si dovrebbe acconsentire e sui quali, di fatto, già si acconsente. Rawls – continua Habermas – poggia il suo discorso su una «piattaforma comune di un consenso politico fondamentale già raggiunto»96, 94
J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 76. In Fatti e norme Habermas, a proposito dello sforzo compiuto da Rawls in Liberalismo politico, parla di un tentativo di affrontare il ‘solito’ problema, cioè «come sia possibile realizzare il progetto razionale d’una società giusta, astrattamente confrontato con la realtà ottusa. Solo che ora – essendosi del tutto consumata la fiducia in quella dialettica ragione/rivoluzione già messa in scena da Hegel e da Marx nei termini di una filosofia della storia – l’unica via praticamente percorribile e moralmente ragionevole è quella riformistica, sprovvista di garanzie a priori» (ivi, p. 73). La fragilità della costruzione rawlsiana è dunque l’esito inevitabile di una riflessione post-moderna pregiudicata dalla frammentazione dei valori e dall’indisponibilità di una loro sintesi dialettica. 96 J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 73. Vd. anche J. Raz, “Facing Diversity: the Case of Epistemic Abstinence”. Philosophy & Public Affairs, 19, 1, 1990, pp. 3-46: 12; il consenso per intersezione mostra come la teoria di Rawls pecchi di circolarità; Rawls afferma che il consenso si realizza tra persone che già 95
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senza interrogarsi sul modo del suo raggiungimento né sulle motivazioni che spingono gli individui in tale direzione. Da quel che invece si limita a dire, il consenso si ‘materializzerebbe’ tra individui aventi ciascuno una propria immagine di vita, senza che si svolga un serio confronto tra le loro ragioni: è come se i cittadini raggiungessero un accordo post factum, cioè a seguito del darsi – del casuale accadere – di un’intersezione delle loro rispettive convinzioni morali. Se è così, non è chiaro se con il consenso per intersezione Rawls cerchi di affrontare lo stesso problema presente nella Teoria, quello della stabilità della società giusta, tenendo conto del pluralismo ragionevole delle visioni del mondo, oppure se il consenso per intersezione non serva semplicemente a rispondere alla domanda su come, nelle circostanze reali della società liberale e democratica, la teoria possa guadagnarsi una «consapevole accettazione»97. All’origine di questa ambivalenza del consenso per intersezione sta – sottolinea Habermas – il “metodo dell’evitare” con cui Rawls decide di non prendere posizione intorno alla verità. Tale metodo comporta lo ‘stare in silenzio’ a proposito di come si realizza il nesso tra ragioni private e concezione politica, tra le idee ‘private’ di verità e l’idea politica del ragionevole, ai fini dell’accordo98. Rompendo il legame epistemico tra le prime e la seconda, si crea un’asimmetria tra la concezione pubblica della giustizia e le dottrine non pubbliche che avanzano pretese forti di verità, laddove sembra poco plausibile che queste ultime sostengano la prima per ragioni
abitano la società giusta. Non si capisce dunque a che cosa dovrebbe servire. Sulla superfluità del consenso vd. anche B. Barry, “John Rawls and the Search for Stability”, cit. 97 J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 76. Vd. anche O. O’Neill, “Political Liberalism and Public Reason: A Critical Notice of John Rawls’s Political Liberalism”. Philosophical Review, 106, 1997, pp. 411-28. 98 In realtà Rawls si esprime in un tono più perentorio nel dichiarare la filosofia politica non interessata alla verità; ricordiamo la seguente espressione, foriera di molte critiche: la filosofia politica «non usa (o nega) il concetto di verità […]. Il fatto è che, al proprio interno, la concezione politica fa a meno del concetto di verità» (J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 92).
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che non possono essere, per definizione, pubblicamente giustificate: ma «tutto ciò che è valido deve poter essere giustificato pubblicamente»99. Il consenso per intersezione assume – continua Habermas – che gli individui ‘pieghino’ le loro immagini del mondo ai valori politici; ma tale assunzione non risolve la tensione che si genera tra la ragionevolezza di una concezione politica accettabile da tutti e la verità che nella propria immagine del mondo il singolo attribuisce a tale concezione politica: ciò che qualifica il ragionevole non può, infatti, derivare da queste stesse immagini del mondo ma richiede uno standard esterno ad esse100. Unica possibilità per Rawls di risolvere questa tensione tra ragioni private e ragione pubblica starebbe nel rinunciare alla divisione del lavoro tra il ‘politico’ e la ‘sfera della metafisica’ e rinviare ad un’istanza di imparzialità precedente la ‘materializzazione’ del consenso politico. Si tratta, secondo Habermas, di restituire all’accordo politico un ruolo «cognitivo»: un consenso meramente «strumentale» potrebbe al più «illustrare (alla luce di una teoria preventivamente giustificata) una condizione necessaria di stabilità sociale»101. Occorrerebbe prima ancora – prosegue Habermas – distinguere più nitidamente il problema della fondazione dal problema della stabilità, reintroducendo una relazione 99
J. Habermas, “Ragionevole contro vero”, cit., p. 99; vd. anche J. Habermas, L’inclusione dell’altro, cit., p. 74. In effetti, se Rawls non si sottrae alla giustificazione pubblica della concezione politica della giustizia, dichiara non pubblicamente discutibili, e dunque sottratti alla giustificazione pubblica, gli argomenti privati adducibili a sostegno di essa. Lascia ai singoli l’onere, per dir così, della giustificazione. La domanda è se tale ‘neutralità giustificativa’ non debba essere rivista. Il punto – che qui mi limito ad accennare – verrà ampiamente approfondito nel prossimo capitolo. 100 Il punto è precisato molto bene da R. Forst, Contexts of Justice. Political Philosophy beyond Liberalism and Communitarianism, Berkeley-Los Angeles-London: University of California Press, 2002. 101 Per una critica all’idea di Habermas secondo la quale il consenso per intersezione avrebbe una funzione meramente strumentale, si veda L. Krasnoff, “Consensus, Stability, and Normativity in Rawls’s Political Liberalism”. Journal of Philosophy, 95, 6, 1998, pp. 269-92: 290; tramite il consenso per intersezione – ribatte Krasnoff – Rawls fissa le condizioni necessarie e sufficienti per la giustificazione.
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epistemica tra la validità della teoria e la sua capacità di mantenersi ideologicamente neutrale nei discorsi pubblici. Fatti questi rilievi, Habermas esprime apprezzamento circa il tentativo di Rawls di andare oltre il momento fondativo della teoria per stabilire riflessivamente le condizioni di accettabilità della teoria medesima all’interno della realtà esistente, facendo emergere le spinte motivazionali reperibili nella cultura politica; ma questo tentativo è, per le modalità in cui è perseguito, destinato all’insuccesso102. Non è, infatti, rinunciando alla verità che si realizza la stabilità, anche se questo è ciò che Rawls crede sulla base della sua interpretazione della verità come inevitabilmente frammentata e divisiva, cosa che lo spinge a non prendere partito nella lotta insanabile tra concorrenti forme di vita e immagini del mondo fondamentalmente rivali103. 102
Secondo Habermas, all’origine degli errori commessi da Rawls e dovuti alla sua scelta per l’astensione dalla verità, sta il suo intento di difendersi dalle accuse dei filosofi comunitaristi, che lo rimproveravano di sostenere una dottrina morale particolare, quella liberale, contro la dichiarazione di occupare una posizione di neutralità. Esemplare è la critica di Sandel, che rimprovera a Rawls di aver preteso di fare a meno di una fonte morale per la giustificazione politica; tale tentativo non può che rivelarsi fallimentare – afferma Sandel – dal momento che sorgente della giustificazione è necessariamente la morale della comunità e non già qualche punto di vista astratto ed esterno ad essa; vd. M. Sandel, Liberalismo e i limiti della giustizia, cit.; vd. anche M. Sandel, “Review of Rawls’s Political Liberalism”. Harvard Law Review, 107, 1994, pp. 1765-94. Questa interpretazione è smentita dalla stesso Rawls (vd. Liberalismo politico, cit., p. 311, n. 6). Sul confronto tra Rawls e i comunitaristi vd. A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, Roma: Editori Riuniti, 2000. 103 J. Habermas, Fatti e principi, cit., p. 76. Pur denunciando l’ambiguità del liberalismo politico, causa di una continua oscillazione tra accettabilità e accettazione dei principi, Habermas prende le distanze dalla lettura che Rorty dà dell’impresa di Rawls. Rorty attribuisce a Rawls un «atteggiamento integralmente storicistico e antiuniversalistico», per cui egli non fornisce alcuna giustificazione razionale di come si debbano giudicare imparzialmente questioni morali e politiche, ma offre soltanto una «descrizione storico-sociologica» della società americana a lui contemporanea (vd. R. Rorty, “The Priority of Democracy to Philosophy”, in Id., Objectivity, Relativism, and Truth, Cambridge: Cambridge University Press, 1991, pp. 175-96 [trad. it. “La priorità della democrazia sulla filosofia” in Scritti filosofici I, a cura di A. G. Gargani, Roma-Bari: Laterza,
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Per riassumere: Habermas considera fallimentare lo sforzo di Rawls di tenere distinte filosofia e politica; nello specifico, discute dell’idea di una concezione politica della giustizia indipendente da qualsiasi riferimento a teorie filosofiche o metafisiche, cioè da quelle che Rawls chiama dottrine comprensive. Contesta, infine, il ruolo ambiguo del consenso per intersezione, considerato sostanzialmente superfluo, laddove esso somiglia ad una specie di ridescrizione di un preesistente accordo intorno a certi fatti aventi valore presso coloro che a tali fatti guardano come, appunto, ai propri valori, nell’attesa che siano riconosciuti come valori da tutti104. Pur condividendo lo scopo di Rawls di voler assicurare una durata nel tempo alla società giusta, Habermas non ne condivide il metodo: contesta la politicizzazione della teoria per i costi teorici che comporta. Infatti, l’astensione dalla verità fa sorgere un rilevante problema teorico-giustificativo per la giustizia come equità, dal momento che la clausola dell’astensione la priverebbe della possibilità di dimostrare la sua preferibilità rispetto alle altre teorie. L’astensionismo riduce fatalmente la valenza normativa della teoria poggiandola su deboli basi, su una «fondazione priva di spessore» – come direbbe Raz – di poco conto, se non inesistente105. Pensando alla società e alle sue istituzioni, ciò equivarrebbe 1994, pp. 237-64: 250]). Habermas accusa Rorty di fare confusione tra «senso ricostruttivo» in sede di giustificazione e «senso di rischiaramento esistenziale, o auto-chiarimento etico» che la teoria assume quando cerca di illuminare il contesto della sua formazione. Vd. J. Habermas, Fatti e norme, cit., p. 79. 104 Il ridimensionamento della pretesa normativa di Rawls – che in Liberalismo politico ma già negli scritti degli anni Ottanta fa mostra di accontentarsi dell’accordo sui valori diffusi in un data società e in un certo periodo – è giudicato da Pogge «parrocchiale» (vd. T. Pogge, Realizing Rawls, Ithaca & London: Cornell University Press, 1989, p. 212). Il criterio di giustizia e le giustificazioni di questo criterio sono scelti per la loro presunta capacità di rispondere al senso comune dei cittadini americani di quegli anni. Precisa Pogge che quella di Rawls è una concezione parrocchiale sia nel senso appena detto, sia nel senso di essere applicabile solo a certi sistemi sociali in certe circostanze empiriche per poter essere efficace. A questo secondo significato di ‘parrocchiale’ Pogge ascrive la Teoria della giustizia. 105 Già per Raz, come per Habermas, l’errore di Rawls della “astinenza epistemica” consiste, in buona sostanza, nell’aver preteso di derivare la giu-
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ad ‘accontentarsi’ della società già realizzata, anzi a considerarla come se fosse l’ideale desiderabile e non già, nella migliore delle circostanze, come una sempre perfettibile approssimazione di esso. Ciò che resterebbe da fare è tutt’al più un’operazione di rinforzo delle motivazioni dei ‘già’ predisposti a sostenerla, dal momento che le istituzioni risulterebbero ‘già’ giustificate per chi vive al loro interno. Per i ‘già’ cittadini la giustificazione sarebbe, nei fatti, sostanzialmente superflua106. Se, dunque, non di giustificazione si può parlare bensì, soltanto, di una celebrazione retorica dell’esistente, si capisce perché si sia anche parlato, a proposito del liberalismo politico, di ‘fede liberale’. L’idea – che è sviluppata in particolare da Jean Hampton107 – è che, in assenza di ragioni da dare ai propri interlocutori per sostenere le istituzioni liberali come migliori di altre, si possa semplicemente affermare la loro superiorità come atto di fede, per adesione incondizionata ai valori morali del liberalismo, assunti non dimostrati della coesistenza pacifica. A questa considerazione Hampton ne aggiunge un’altra: Rawls, mediante il suo stare a distanza dalla verità e – aggiunge l’autrice – dalla metafisica, finisce per servire un intento particolaristico, dunque non universale, se non deliberatamente comunitario108. A questificazione della giustizia dai dati di una cultura pubblica assunti come fatti, indipendentemente dalla loro relazione con la verità, come se – tra l’altro – i fatti possano essere semplicemente una ‘questione di fatto’ e non già l’esito di una qualche interpretazione carica di valore. Vd. J. Raz, “Facing Diversity: the Case of Epistemic Abstinence”, cit., pp. 8-10; vd. per simili considerazioni L. Wenar, “Political Liberalism: An Internal Critique”. Ethics, 106, 1995, pp. 32-62. 106 Sul punto vd. anche O. O’Neill, “Political Liberalism and Public Reason”, cit. 107 J. Hampton, “The Moral Commitments of Liberalism”, in D. Copp, J. Hampton, J. E. Roemer (a cura di), The Idea of Democracy, Cambridge: Cambridge University Press, 1993, pp. 292-313; vd. anche J. Hampton, “Should Political Philosophy Be Done without Metaphysics?”. Ethics, 99, 1989, pp. 791-814. 108 Simile accusa di particolarismo è quella mossa da Lukes a Rawls in S. Lukes, Liberals and Cannibals. The Implication of Diversity, London & New York: Verso, 2003, cap. 3. Vd. anche M. Moore, Foundations of Liberalism, Oxford:
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ste conclusioni Hampton giunge attraverso il ragionamento che segue. Punto di partenza è la nuova prospettiva giustificativa di Rawls, che consiste nella svolta politica impressa alla sua teoria: essa cessa di essere difesa per ragioni morali o metafisiche ma viene sostenuta a prescindere da queste. Tale difesa viene attribuita al consenso per intersezione, su cui Rawls conta per la funzione da esso rivestita di esibire i principi di giustizia come il contenuto di un accordo politico tra posizioni morali contrastanti. Si tratta, di fatto, di quei principi che ciascuno, in una società pluralistica, ‘si ritrova’ ad accettare, al di là delle differenze. I principi sono – continua Hampton – ciò cui capita di dare il proprio consenso, trattandosi di quel patrimonio valoriale sedimentatosi nel tempo nella società in cui si vive; inoltre, impliciti nella convivenza sono sia l’impegno condiviso per una discussione, sia la condivisione di regole procedurali che fissano i confini della discussione medesima. Implicita è, infine, la tolleranza quale principio che garantisce la stabilità, una stabilità che Hampton giudica “a basso costo”, in quanto affermata sulla base del consenso che accade su valori già condivisi. Si capisce, dunque, come la difesa dei principi di giustizia sia strumentale ai fini della conservazione di una società ‘data’ in modo che risulti stabile. L’accordo realizzato attorno a valori già condivisi, che è un accordo sul fatto di essere già d’accordo, è un accordo contingente, dipendendo dai fatti appunto e dalla loro semplice evenienza. Dunque – continua Hampton – il consenso per intersezione non è sostanzialmente diverso da un modus vivendi hobbesiano, cioè da quell’equilibrio di forze che si basa sulle ‘ragioni sbagliate’ dell’auto-interesse, dell’opportunità e della paura, ben lontano dall’obiettivo della Clarendon Press, 19982, cap. 5; anche per Moore il difetto della concezione di Rawls è il contestualismo: la proposta politica rawlsiana, benché definita indipendente, esprime nella realtà una concezione morale condivisa quale è quella che emerge dalla comunità di riferimento; gli individui cui Rawls si rivolge sono accomunati dall’appartenenza ad una medesima società di cui si ritengono, tuttavia, artefici. È un’ironia – commenta Moore – che una teoria incentrata sul valore dell’autonomia si fondi su una specie di attaccamento ad una comprensione di se stessi che i singoli, semplicemente, possiedono.
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stabilità morale perseguito da Rawls. Quella del modus vivendi è una stabilità sub condicione, che dura fintantoché non si rovescia l’equilibrio di forze raggiunto in circostanze che possono senz’altro variare. Ora – commenta Hampton – se a Rawls interessa un consenso realizzato stabilmente per le ‘ragioni giuste’, deve coerentemente assumere a fondamento di questo una morale, la cui espressione è il principio di tolleranza, che è il «cuore del liberalismo»; ma quello di tolleranza è un principio «troppo morale per il suo metodo non metafisico di far filosofia»109. L’unità morale – implicitamente assunta benché esplicitamente negata – coincide, allora, con una «fede liberale»110, impossibile da giustificare presso chi non la possiede. Hampton approfondisce la critica al consenso per intersezione e afferma che la «ritirata dall’oggettività» – che corrisponde all’astensione di Rawls dalla verità111 – produce due esiti paradossali: a) da un lato, si può dire che produca un consenso per intersezione che esprime la condivisione non esplicitata ma necessariamente presunta di una morale liberale di fondo, espressa dal principio di tolleranza112; b) dall’altro lato, si può dire che porti a negare qualsiasi morale di fondo attorno alla quale realizzare il consenso per intersezione; non sono illustrate ragioni visibili a tutti e da tutti condivisibili per sostenere le istituzioni giuste, per cui a ciascuno è lasciato il compito di trovarsi le proprie. In entrambi i casi la conclusione non cambia: il consenso per intersezione o è superfluo, assumendo all’interno della società 109
J. Hampton, “Should Political Philosophy Be Done without Metaphysics?”, cit., p. 802. 110 J. Hampton, “The Common Faith of Liberalism”. Pacific Philosophical Quarterly, 75, 1994, pp. 186-216. 111 J. Hampton, “The Moral Commitments of Liberalism”, cit. 112 Vd. anche M. Button, “Arendt, Rawls and Public Reason”. Social Theory & Practice, 31, 2, 2005, pp. 257-80. L’autore sottolinea che Rawls assume, a fondamento della sua concezione politica, una «amicizia civica»: perché i principi di giustizia possano essere realmente condivisi e perché, di conseguenza, risultino condivisibili le istituzioni che vi si ispirano, è necessario che i cittadini condividano anche una sorta di disponibilità civica e morale. In altre parole, il modello di Rawls può funzionare solo tra amici morali.
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un’omogeneità morale che però non c’è, o è un modus vivendi, dal momento che, non esistendo alcuna uniformità valoriale, chi non condivide la morale della tolleranza vi aderirà per ragioni che rimangono oscure e che saranno, verosimilmente, ragioni prudenziali113. In ciò vi è un inevitabile richiamo a Hobbes: ciò che conta come ‘giusto’ per una società è definito non da una concezione considerata come oggettivamente valida, ma dal semplice rinvio al contenuto di quanto è condiviso da molti o da alcuni, assumendo l’oggetto di tale condivisione come fonte stessa della giustizia, da far valere anche sui pochi o sui molti che non la condividono, con un inevitabile esito di illiberalità114. In assenza di ragioni forti che possano essere pubblicamente esibite e che, invece, Rawls relega nella sfera privata, alla quale pure costringe le morali e le metafisiche in quanto pubblicamente controverse, ciò su cui le parti possono concordare è il ‘fatto’ di trovarsi d’accordo nella modalità del modus vivendi. Concependo l’intesa pubblica come nutrita da ragioni private e non pubbliche, Rawls si avvicinerebbe a Hobbes più di quanto non sia disposto ad ammettere115. Quel che Hampton rimprovera a Rawls è, in conclusione, di non saper mantenere la promessa della ‘neutralità giustificativa’,
113 Un modo diverso per dire che il consenso per intersezione è in realtà un modus vivendi è presente in J. Waldron, Law and Disagreement, Oxford: Clarendon Press, 1999, p. 162: se la giustizia come equità è una concezione della giustizia che contrasta con altre concezioni di giustizia espresse da dottrine comprensive, la fedeltà che queste ultime possono garantirle è un mero modus vivendi. 114 J. Hampton, “The Moral Commitments of Liberalism”, cit., p. 295. 115 Condividendo queste annotazioni critiche intorno alla confusione tra piano normativo e piano descrittivo, con specifico riferimento al consenso per intersezione, alcuni autori si sono spinti a interpretare la filosofia politica rawlsiana come rivolta alla conservazione dello status quo (vd. per esempio T. Pogge, Realizing Rawls, cit., pp. 211-18). Il consenso per intersezione altro non sarebbe – con buona pace di Rawls – che una forma edulcorata di hobbesiano modus vivendi, per cui la questione della stabilità sarebbe risolta mediante strategie di consolidamento delle istituzioni e non mediante la realizzazione di un accordo per le ‘ragioni giuste’.
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La verità sospesa
laddove, al contrario, il liberalismo sembra potersi reggere solo a condizione di assumersi impegni teorici e morali importanti, quale è quello della tolleranza. Infine, nel voler perseguire l’obiettivo della stabilità Rawls commette due errori. Il primo è quello di ritenere di poterla perseguire rinunciando, sulla scorta di un’erronea interpretazione della verità intesa come causa di conflitti insanabili, alla difesa filosofica e morale del liberalismo. Il secondo errore, ma che è il ‘peccato originale’ della filosofia politica rawlsiana, è quello di aver considerato la stabilità come prioritaria rispetto alla verità, compromettendo la sua stessa identità teorica. Sulla stessa linea critica di Habermas e di Hampton, che ho accostato per la comune obiezione all’astinenza dalla verità, si inserisce la riflessione di Neal116, per quanto più simpatetica di quella di Hampton nei confronti degli obiettivi del liberalismo politico. Secondo Neal, nel proporre il consenso per intersezione come l’accordo su cui si realizza la stabilità per le ‘ragioni giuste’, Rawls oscilla tra due opposte interpretazioni: i) da un lato, pensa a una giustificazione universale della giustizia, poggiata su premesse morali e metafisiche che, per definizione, non possono limitarsi alla mera verifica empirica di un consenso pubblico; ii) dall’altro lato, si sforza di evitare tali premesse metafisiche, con il che le ‘ragioni giuste’ per l’accordo si riducono ad un insieme di proposizioni non universali e relative al contesto; ciò a sua volta significa: (iia) che tali proposizioni non forniscono alcun punto di vista critico esterno da cui valutare le opinioni esistenti, le norme e le istituzioni vigenti; (iib) che, al contrario, finiscono per reintrodurre quelle premesse metafisiche che si voleva, sin dall’inizio, escludere. Pensando di realizzare l’universalità senza la metafisica, Rawls intraprende una ‘via esclusivamente politica’ che conduce all’esito opposto, descrivibile in termini particolaristici: il suo liberalismo politico, nonostante sia difeso come 116
P. Neal, “Justice as Fairness. Political or Metaphysical?”. Political Theory, 18, 1, 1990, pp. 24-50.
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concezione politica della giustizia indipendente da affermazioni filosofiche controverse e tesa a realizzare un consenso privo di fondamento epistemico o metafisico, esibisce, nei fatti, la sua natura contestuale, nel senso che nasce da una situazione storica particolare e ad essa soltanto si può applicare117. La svolta politica riduce l’adottabilità della concezione della giustizia entro i limiti della cultura liberale118. Come già Hampton, anche Neal contesta il nesso tra stabilità e astensionismo: se la stabilità è un obiettivo, non è condivisibile la modalità astensionistica con cui Rawls la persegue. Se egli si illude che astenersi dalla verità sia la premessa per realizzare la stabilità per le ‘ragioni giuste’, deve presto ricredersi perché queste ragioni, per essere giuste, non possono che essere morali e metafisiche e tali, dunque, da avanzare una qualche pretesa di verità. La premessa morale della stabilità per le ‘ragioni giuste’ è, con buona pace dell’astensionismo, l’idea kantiana di persona morale: su questa idea le dottrine comprensive si intersecano, disposte a riconoscere che i cittadini sono liberi ed eguali. Il presupposto kantiano è, però, ‘meno-cheuniversale’: Neal intende dire che la neutralità proclamata dal liberalismo politico, che è la promessa di imparzialità a fronte della conflittualità delle diverse posizioni morali, si traduce nel117
È interessante la replica di Mandle a Neal (J. Mandle, “The Reasonable in Justice as Fairness”. Canadian Journal of Philosophy, 29, 1, 1999, pp. 75-108: 84). Mandle risponde in particolare all’accusa di Neal per cui il consenso per intersezione corrisponderebbe solo a una descrizione del consenso ottenuto empiricamente dall’idea rawlsiana di giustizia, privando così la teoria della giustizia della sua dimensione normativa. Mandle ritiene che Neal faccia confusione, nell’interpretare Rawls, tra impegno per la verità dei principi e loro sostegno. Una posizione simile a quella di Mandle è sostenuta da S. Freeman, Rawls, cit., pp. 356-58: imputare a Rawls una scarsa attenzione per la verità significa non aver capito che il suo obiettivo non è la verità della giustizia bensì l’oggettività, ovvero l’applicabilità universale di una concezione della giustizia indipendentemente dal suo essere vera. Si veda anche S. Freeman, “Reason and Agreement in Social Contract Views”. Philosophy & Public Affairs, 19, 1990, pp. 122-57. 118 Sulla riduzione dell’applicabilità del liberalismo politico, apprezzabile per chi è già liberale, vd. X. Li, “A Critique of Rawls’s ‘Freestanding’ Justice”. Journal of Applied Ethics, 12, 3, 1995, pp. 263-71.
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La verità sospesa
la difesa di una posizione morale particolare. Quel che invece occorre è un’imparzialità di ordine superiore, che conviva con l’affermazione della verità liberale. Non è necessario parlare di liberalismo solo come di una teoria del bene, si può e si deve parlarne come anche di una meta-teoria del bene: non c’è alcunché di neutrale nell’abbracciare una certa idea di che cosa significa avere una concezione del bene (ad un primo livello), pur rimanendo neutrali nei confronti delle diverse concezioni del bene (ad un secondo livello)119.
1.3.2. Impotenza liberale e paradosso utopistico Oltre alle obiezioni sopra riportate e indirizzate sostanzialmente alla deriva contestualistica del liberalismo politico, altre più radicali critiche sono mosse all’idea di filosofia politica così come emerge dalla riflessione di Rawls. Ad essere contestati sono gli obiettivi stessi che Rawls attribuisce alla filosofia politica tout court. Rawls, mostrando un impegno esclusivo per una concezione pratica della filosofia politica, con al centro l’interesse per la capacità produttiva di stabilità e consenso, delimita i compiti della filosofia stessa, ridimensionandola ad un’attività di problem-solving delle questioni che è in grado di affrontare120. Ridotta al perseguimento dell’accordo o della riduzione, per quanto è possibile, del disaccordo, la filosofia politica, così come è intesa da Rawls, non si interessa più di questioni di verità dal momento che la verità corrisponde ad uno spazio di irreparabili divergenze, di conflitti incolmabili, in cui domina una sorta di incomunicabilità tra i protagonisti del dibattito, sordi e muti di fronte agli argomenti altrui. La verità è per Rawls l’ambito del politicamente intrattabile 119 Vd. P. Neal, “A Liberal Theory of the Good?”. Canadian Journal of Philosophy, 17, 3, 1987, pp. 567-82: 572. Su questa proposta di separazione tra livello teorico e livello meta-teorico ritornerò in conclusione al presente capitolo. 120 A. Besussi, “Quale filosofia politica? Note su Rawls e Cohen”, in A. Besussi, E. Biale (a cura di), Fatti e principi. Una disputa sulla giustizia, Roma: Aracne, 2010, pp. 14-37: 15.
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in quanto intrinsecamente divisivo, e per questo viene espulsa dal dominio della politica. Ad essere contestata è la riduzione della portata ideale della filosofia politica nel suo complesso, anzi della filosofia politica liberale di cui quella rawlsiana è espressione. Privata della possibilità di discutere della sua stessa verità, alla filosofia politica rimane una funzione pragmatica e riconciliatoria: suo obiettivo sarà unicamente quello di raggiungere conclusioni già sperimentate, riducendo la sua portata ideale alle circostanze concrete in cui è realizzata121. Congedando la sua ambizione alla verità, la filosofia politica rischia di giungere all’esito paradossale di non potersi giustificare presso coloro che non ne condividono la finalità conciliatoria, che non si accontentano, per dir così, di accettare i fatti come anche valori. Ciò che essa si limiterebbe a fare è convincere i ‘già’ d’accordo a non fare domande sulla verità di ciò in cui credono, di ciò che essi accettano come valore, sulla base del fatto che anche gli altri fanno lo stesso. La domanda sulla verità è sospesa ed è giudicata politicamente irrilevante. Tutti gli altri, quelli che non ci credono, sono parimenti costretti a rinunciare a chiedere giustificazioni del dovere di attenersi ad alcuni principi o di rispettare le leggi, specie quelle incompatibili con i loro impegni metafisici. La filosofia politica, privata di giustificazioni per sé e per gli altri, rischia di trasformarsi in una specie di fede, in una credenza sottratta alla possibilità di essere difesa dal momento che non dispone degli argomenti e degli strumenti necessari per farlo122. 121
Peraltro, Rawls riconosce tra i ruoli della filosofia politica proprio quello della riconciliazione cui però assegna maggiore pregnanza filosofica: «la filosofia politica può tentare di placare la nostra rabbia e frustrazione nei confronti della società cui apparteniamo e della sua storia mostrandoci che le istituzioni di tale società, purché intese in modo filosoficamente appropriato, sono razionali, ed è stata l’evoluzione che hanno avuto nel tempo a portarle all’attuale forma razionale» (J. Rawls, Giustizia come equità, cit., p. 5). Rawls fa esplicito riferimento al ruolo assegnato da Hegel alla filosofia politica nella Filosofia del diritto del 1823. 122 Vd. A. Besussi, “Assoluti terrestri. Post-secolarismo e limiti della filosofia liberale”. Working Paper 7/07, Dipartimento di Studi Sociali e Politici, Università degli Studi di Milano, 2007, pp. 1-26. Vd. anche R. Talisse, “Social
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La verità sospesa
Ora, lo ‘svuotamento’ della politica dalla verità nasconderebbe per alcuni un intento ideologico e anti-politico: quello, appunto, di sostituire la politica con la morale, ingabbiando la prassi, per dir così, in una teoria che finge di descriverla ma che in realtà la comprime mistificandola. Si tratta – scrive espressamente Newey123 – di un rifiuto della politica da parte della filosofia liberale; gli autori del liberalismo, Rawls in primis, hanno pensato di affrontare le questioni della politica applicando ad essa i loro modelli teorici, puntando non tanto a comprendere le ragioni del conflitto, che è peraltro intrinseco alla politica e perciò ineliminabile, quanto a stabilire una specie di “ordine postpolitico”, rinunciando, di fatto, a dare riscontro all’autonomia della politica da qualsiasi sforzo di moralizzazione124. Quel che la filosofia liberale ha cercato di fare – continua questa critica – è circoscrivere lo spazio entro cui la politica può operare, assumendo, a torto, che non vi sia controversia circa i confini che delimitano questo stesso spazio, ovvero circa la distinzione tra politico e non politico, tra giusto e buono, cosa che è invece Epistemology and the Politics of Omission”. Episteme, 5, 1, 2008, pp. 10628; dello stesso autore vd. anche Democracy and Moral Conflict, Cambridge: Cambridge University Press, 2009, pp. 59-70: Talisse parla di esiti fallimentari dell’impresa astensionistica rawlsiana, che riconduce alla «politica dell’omissione». Tale omissione compromette l’intero disegno rawlsiano definito da Talisse un «sistema epistemicamente chiuso» o «esclusivo», dal momento che si priva della possibilità di riconoscere la forza epistemica dei suoi argomenti come anche, all’opposto, di mostrare la debolezza di quelli contrari. L’esito concreto del contrasto politico attorno a questioni morali controverse è la polarizzazione delle parti, con conseguente rischio di instabilità. Sul punto ritornerò nel terzo capitolo. 123 G. Newey, After Politics. The Rejection of Politics in Contemporary Liberal Philosophy, New York: Palgrave, 2001, cap. 1. 124 Il desiderio dei liberali di razionalizzare la vita pubblica mediante un’opera di moralizzazione è denunciato anche da W. E. Connolly, The Terms of Political Discourse, Oxford: Robertson, 1983, p. 213: tale desiderio è implicito – scrive l’autore – nello sforzo condiviso da tanta parte della ricerca filosofica di sottrarre i termini del discorso politico alla loro contestabilità. Sul tema della contestabilità dei concetti politici è un classico W. B. Gallie, “Essentially Contested Concepts”. Proceedings of the Aristotelian Society, 5, 56, 1955, pp. 167-98.
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uno dei temi centrali e irrisolti della discussione politica ‘reale’125. Errore della filosofia liberale è, in sintesi, di aver espulso la politica dai suoi confini nonché, forse, di aver negato alla politica la sua stessa identità, ponendosi così “oltre la politica”. A Rawls fa esplicito riferimento Chantal Mouffe quando scrive che la società liberale pretende di essere senza conflitti, avendoli derubricati a conflitti di interessi e avendoli così trasferiti al di fuori della sfera pubblica126; anzi, la politica stessa è ridotta a semplice attività di gestione dei conflitti tra interessi contrastanti, cui si cerca rimedio con soluzioni razionali. Ma il conflitto fondamentale, evidentemente, non è risolto ma soltanto negato, dissolto o cancellato, con buona pace dell’utopia dei liberali e del loro “sogno romantico” di una società pacifica e armoniosa127. Assumere che la società giusta sia omogenea rispetto ai suoi valori politici significa essere caduti in un ‘sonno utopistico’; il risveglio riserva, però, la scoperta che quel che è possibile è solo una soluzione particolaristica, perché l’ideale per definizione non può tradursi in realtà. Non solo: mettendo a tacere la competizione tra visioni del bene divergenti, ma anche la divergenza insuperabile delle 125 Su questo punto insistono vari autori con argomenti di grande rilievo: tra gli altri rinvio a M. Sandel, Liberalismo e i limiti della giustizia, cit.; J. Waldron, Law and Disagreement, cit.; J. Raz, “Disagreement in Politics”. American Journal of Jurisprudence, 25, 1998, pp. 25-52; K. Baier, “Justice and the Aims of Political Philosophy”. Ethics, 99, 1989, pp. 771-90. 126 C. Mouffe, “Rawls: Political Philosophy Without Politics”. Philosophy & Social Criticism, 13, 2, 1987, pp. 105-23. Simili considerazioni sugli esiti impolitici della riflessione rawlsiana sono presenti in R. Bellamy, Rethinking Liberalism, London & New York: Pinter, 2000, pp. 111-27. Secondo l’autore Rawls avrebbe proposto una teoria troppo astratta per poter fornire una guida per la gestione dei conflitti reali che sorgono all’interno della società; per converso, il consenso per intersezione necessita di un sostegno metafisico per poter essere un consenso ‘giusto’, non ottenuto sui contenuti, peraltro controversi, della tradizione. 127 G. Newey, “Is the Democratic Toleration a Rubber Duck?”. Res Publica, 7, 2001, pp. 315-36; l’accusa di utopia è presente anche in C. Mouffe, “The Limits of John Rawls’s Pluralism”. Politics, Philosophy & Economics, 2005, 4, 2, pp. 221-31. Sul tema dell’ineludibilità del conflitto tra le morali è ormai un classico S. Hampshire, Morality and Conflict, Oxford: Basil Blackwell, 1983.
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La verità sospesa
idee del giusto, il liberalismo darebbe prova di una sua totale antipoliticità128. Tale impoliticità si esprime anche – a detta di altri – nell’illusione che sia una teoria a risolvere i problemi di giustizia; nessuna teoria, però, può assolvere tale compito. Alla teoria liberale in generale, e a quella rawlsiana in particolare, «troppo occupata nella costruzione di procedure deliberative spassionate», sarebbe piuttosto utile una rivisitazione dei suoi metodi e finalità che permetta una «estensione della legittimità razionale alle passioni politiche», poiché è passione ciò che si richiede per combattere l’ingiustizia e l’iniquità129. L’incapacità della teoria liberale di affrontare le ingiustizie, illudendosi che si possano guarire con affermazioni di principio, ne mostra tutta la tragicità, che consiste nel non sapersi rivolgere alla realtà e nel dissolverla nella teoria. Per guarire da questo male va allora pensato un liberalismo anti-ideale e anti-utopico, che lasci da parte la ricerca dei principi e che si riprometta, per prima cosa, di proteggere l’individuo dalla crudeltà e dalle varie forme in cui si manifesta l’ingiustizia130. 128 D. Estlund, Democratic Authority. A Philosophical Framework, Princeton: Princeton University Press, 2008, p. 23. 129 M. Walzer, The Exclusions of Liberal Theory, Frankfurt a. Main: Fischer Verlag, 1999 [trad. it. Ragione e passione. Per una critica del liberalismo, Milano: Feltrinelli, 2001, pp. 62-85]. Non penso sia improprio associare a queste critiche la polemica svolta da Berlin alle illusioni utopistiche dell’Illuminismo, reo, a suo dire, di aver imposto una sorta di conciliazione razionalistica al conflitto valoriale (vd. I. Berlin, Liberty, a cura di T. Hardy, Oxford: Oxford University Press, 2002 [trad. it. Libertà, Milano: Feltrinelli, 2005, pp. 195 ss.]). Vd. anche I. Berlin, “Does the Political Theory Still Exist?”, in Id., Concepts and Categories, London: Hogarth Press, 1978, pp. 143-72 [trad. it. “Esiste ancora la teoria politica?”, in Id., Il fine della filosofia, a cura di N. Gardini, Milano: Edizioni di Comunità, 2002, pp. 174-209]; scrive Berlin che se la teoria politica si convertisse in una scienza applicata, sarebbe sufficiente, per le questioni che interessano la società, adottare un modello ‘terapeutico’ atto a guarire la società dai suoi mali. Ma questo modello, fondato su un’ideologia monistica, non tarderebbe a rivelarsi del tutto insufficiente. 130 Il più celebre richiamo ad un liberalismo anti-utopico è quello di J. Shklar, “The Liberalism of Fear”, in N. Rosenblum (a cura di), Liberalism and Moral
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Politica senza verità e svolta politica della giustizia 71
In questione è la separazione dei termini che compongono l’espressione ‘filosofia politica’: sia che essa respinga al di fuori dei suoi confini la politica come ambito di insuperabile conflitto, sia che rinunci alla filosofia come alla discussione intorno alla verità, l’esito è lo stesso – concludono le critiche – ed è un esito utopistico. E tale è quello prodotto dalla politicizzazione che Rawls attua della sua filosofia. Presentare ciò che è contestualmente realizzabile come se fosse l’ideale desiderabile è, però, un’operazione ideologica e fallimentare. Contro questo ridimensionamento della giustizia alla giustizia che vale per noi bisogna reagire, tornando a contemplare l’ideale e ad alimentare l’utopia. L’enfasi posta da Rawls sul contesto in cui si realizza la giustizia tradisce, peraltro, una mancanza di fiducia nella giustizia in sé, considerata troppo utopica per pensare di poterla davvero raggiungere; ci si accontenta di una giustizia qui e ora, una giustizia fattibile per noi131, laddove questo noi è un gruppo ristretto di persone, è un uditorio delimitato e prescelto e non già potenzialmente infinito132. La giustizia di cui ci si accontenta Life, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 1989, pp. 21-38; vd. anche J. Shklar, The Faces of Injustice, Yale: Yale University Press, 1990 [trad. it. I volti dell’ingiustizia, Milano: Feltrinelli 2000]. Di tragicità del liberalismo, incapace di diagnosticare i suoi stessi mali, parlano a diverso titolo J. Gray, Two Faces of Liberalism, New York: The New Press, 2000 e B. van den Brink, The Tragedy of Liberalism, Albany: State University of New York Press, 2000. 131 Vd. G. Cohen, Rescuing Justice and Equality, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 2008, p. 20: «la mia tesi – scrive Cohen – sostiene che la non realizzabilità dell’applicazione non compromette l’affermazione di un principio» (traduzione mia). 132 In questa direzione va la critica di Cohen al costruttivismo: vd. G. Cohen, Rescuing Justice and Equality, cit., cap. 7. Questa critica alla giustificazione costruttivistica dei principi di giustizia vale – dice Cohen – per tutte le giustificazioni che si avvalgono di una procedura selettiva. L’obiezione di Cohen è che i principi di giustizia sono identificati costruttivamente come quei principi, tutto considerato, migliori, non come i principi migliori dal punto di vista della giustizia. Il costruttivismo avrebbe il torto di riferirsi a dei «selettori privilegiati» cui non si chiede che cosa sia la giustizia; coloro che scelgono siamo ‘noi’, per cui la giustizia che perseguiamo costruendo principi è la giustizia per ‘noi’ (pp. 274-75). Sul punto vd. anche W. Galston, “Pluralism and Social Unity”. Ethics,
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La verità sospesa
è, però, soltanto un punto di vista sulla giustizia, è una giustizia parziale, sostenuta da un credo liberale non necessariamente condiviso, spacciata all’esterno come la giustizia universale. La convinzione quasi fideistica di Rawls è che, tradotta la giustizia in un ideale politico indipendente dalla verità, essa permetta di estirpare dalla sfera politica ogni rischio di instabilità quale esito del pluralismo morale; l’instabilità è, per dir così, sottratta alla sfera politica e trasferita nell’ambito del non-politico, nella sfera, cioè, del confronto tra dottrine del bene differenti. Nella sfera pubblica la stabilità è garantita dall’indisputabilità del giusto, ovvero del confine tra questioni politiche e questioni non politiche, separate pregiudizialmente in assenza di ragioni di tale separazione. Così facendo, Rawls manifesterebbe una forma di arroganza e di «megalomania»133, confidando nel potere di una concezione politica senza verità di realizzare la giustizia senza doverla giustificare. Riassumendo le critiche qui esposte, possiamo dire che la natura paradossale di questa filosofia politica che si astiene dalla verità, che evoca un progetto pratico senza poterlo pronunciare, mostrerebbe – con buona pace di Rawls – come della verità non si possa fare a meno: non può farne a meno neppure il liberalismo politico, qualora esso intenda difendere come migliore delle altre la propria concezione della giustizia. Anch’esso userà la parola ‘verità’ invocandone il concetto, valutando il più e il meno della realizzabilità dei suoi stessi scopi. È l’identità della filosofia politica in generale che necessita di revisione: la filosofia politica dovrebbe cessare di limitarsi ad uno statuto realistico e ritorna99, 1989, pp. 711-26: 720; non hanno una valenza normativa quei principi che consideriamo validi solo perché accade che vi si creda; se mi dovessero dire che devo fare qualcosa perché ciò corrisponde alla migliore interpretazione di alcune credenze diffuse nella mia società – scrive Galston – ho il diritto di chiedere perché dovrei considerarmi vincolato ad esse ed anche eventualmente il diritto di dissentire. 133 P. Neal, “Does He Mean What He Says? (Mis)understanding Rawls’s Practical Turn”. Polity, 27, 1, 1994, pp. 77-111: 111.
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Politica senza verità e svolta politica della giustizia 73
re ad essere «aspirazionale»134. Deve ritrovare la sua vocazione socratica, quella che non mette tra parentesi ma al primo posto la ricerca incondizionata della verità oltre ogni tentazione di adattamento al mondo135, oltre ogni mondanità come obiettivo prevalente. Si tratta, in un certo senso, di proporre l’abbandono del paradigma rawlsiano tout court, volto alla pratica più che alla teoria, per un ritorno alle origini della filosofia nel suo stile socratico, la filosofia che interroga, osando oltrepassare i limiti che essa stessa si è data per poter risultare efficace.
1.4. A difesa (critica) di Rawls 1.4.1. Diverse accezioni di verità Che dire a conclusione di questo dibattito? Ciò che le critiche mettono in luce è l’effettiva difficoltà di sostenere la mossa astensionistica rawlsiana, anche nell’ipotesi di fare propria la finalità pratica che Rawls attribuisce alla filosofia politica, rispondere cioè alla richiesta di stabilità di fronte alla sfida del pluralismo. È indubitabile che la via astensionistica proposta da Rawls debba essere riconsiderata. In questo paragrafo, a provvisoria conclusione della riflessione fin qui svolta ma anche a premessa di quanto discuterò nel prossimo capitolo, propongo alcune osservazioni. La prima osservazione fa riferimento al fatto che Rawls manca di distinguere diverse accezioni del termine ‘verità’, mancanza che rende alcune sue affermazioni ambigue e controverse. Per evitare il conflitto divisivo causato dai diverbi sulla verità, a suo 134
D. Estlund, Democratic Authority, cit.; D. Estlund, Utopophobia, Harvard Law School, Faculty Workshop, February, 2009. Il riferimento principale per la rivalutazione di una teoria politica normativa disposta «a considerare giusto anche l’impossibile», ovvero disposta ad assumere un profilo utopistico è, di nuovo, G. Cohen, Rescuing Justice and Equality, cit. 135 J. Hampton, “Should Political Philosophy Be Done without Metaphysics?”, cit.
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La verità sospesa
giudizio insuperabili, Rawls ha deciso di non parlare di verità, mentre avrebbe opportunamente potuto distinguere ‘verità come giustificazione dei propri argomenti’ da ‘verità metafisica’, di cui si può anche tacere volendo parlare di accordo politico. Considerando che il timore principale è che l’introduzione della verità nella discussione politica sia causa di divisioni profonde, rappresentando in questo modo una pericolosa minaccia per la stabilità, Rawls avrebbe potuto distinguere tra verità autoritarie – le affermazioni di autorità che pretendono deferenza acritica – e verità dei giudizi individuali di valore, riconoscendo a ciascun individuo l’autorità epistemica che gli compete, quella di decidere delle proprie credenze e della ‘capacità’ di queste ultime di sostenere valori comuni. Avrebbe, cioè, potuto distinguere più esplicitamente tra verità e dogmatismo e, infine, tra dogmatismo come atteggiamento filosofico e fondamentalismo come possibile esito politico. Rawls ha però cura di dire che applicare la tolleranza alla filosofia non significa negare la verità; astenersi dal prendere posizione intorno alla verità delle proprie credenze entro la sfera pubblica non significa essere scettici nei confronti di queste. Significa che dobbiamo riconoscere […] l’impossibilità pratica di raggiungere un accordo politico ragionevole e praticabile utilizzabile nel giudicare la verità delle dottrine comprensive – e soprattutto un accordo che serva allo scopo politico di realizzare la pace e la concordia in una società caratterizzata da differenze religiose e filosofiche interne136.
Quel che è mancato a Rawls, in termini più generali, è una più dettagliata articolazione dei significati che il termine ‘verità’ assume all’interno di una discussione politica piuttosto che all’interno di un discorso filosofico generale. Tenendo distinti i due livelli del discorso, quello filosofico-metafisico e quello politico, Rawls avrebbe potuto utilmente distinguere «la verità di alcune 136
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 68-69.
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tesi politiche specifiche e le dispute filosofiche sulla natura della verità dal concetto stesso di verità»137, utilizzando il secondo e tralasciando di discutere delle prime. La vera ambiguità consiste, in effetti, nell’aver Rawls parlato di liberalismo sia nel senso della meta-teoria liberale sia nel senso della teoria etico-politica, ovvero di un «liberalismocornice» e di un «liberalismo-quadro»138, considerando che la giustizia come equità funge sia da quadro sia da cornice in questa raffigurazione. Fatta questa distinzione, non ci sarebbe da ridire circa la posizione astensionistica di Rawls se tale astensionismo significasse atteggiamento di imparzialità nei confronti delle diverse giustificazioni morali, precisando che ciò non equivale ad essere neutrali nei confronti della giustificazione: l’impegno per la giustificazione pubblica proprio del liberalismo non implica che il liberalismo debba fornire una giustificazione teorica del suo impegno per la giustificazione pubblica139. Pur dichiarandosi neutrale nei confronti delle diverse dottrine comprensive, il liberalismo politico come liberalismo-cornice non è neutrale nei suoi stessi confronti. Con uno slogan si potrebbe dire che l’astensionismo dalla verità non contempla l’astensionismo dalla verità di se stesso140. 137
S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., p. 109. Vd. P. Neal, “Does He Mean What He Says?”, cit., pp. 94 ss.; Neal si confronta con Raz sui ‘guai’ dell’astensionismo; pur assumendo, come sappiamo, una posizione critica nei confronti di Rawls, Neal rimprovera a Raz di non distinguere tra «afondazionalismo» strutturale e «afondazionalismo» sostantivo; si può evitare riferimenti a fondazioni sostantive pur assumendo premesse strutturali, peraltro necessarie per la tenibilità di qualsiasi discorso (cosa che Rawls avrebbe potuto fare meglio). Quel che manca al discorso di Rawls è una metafisica strutturale senza che ciò implichi la mancanza di una metafisica sostanziale. 138 S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., p. 89. 139 A. J. Simmons, “Justification and Legitimacy”. Ethics, 109, 1999, pp. 73971: 759. Sul punto vd. anche J. Kraus, “Political Liberalism and Truth”. Legal Theory, 5, 1999, pp. 45-73: 51. 140 È di questo parere G. Long, Relativism and the Foundations of Liberalism, Exeter: St Andrew’s Studies in Philosophy and Public Affairs-Imprint Academic, 2004, pp. 214-15: Rawls non ha dubbi – sostiene Long – sulla verità del liberalismo.
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Le seguenti osservazioni di Joshua Cohen rendono appieno il senso di questa discussione141. Se nei confronti delle dottrine comprensive si può evitare di dire qualcosa in merito ai loro contenuti di verità, nei confronti della concezione politica di giustizia non si può evitare di considerarla politicamente vera: la ‘neutralità giustificativa’ non vieta, anzi richiede, di assumere una concezione politica di verità, ovvero una concezione adottabile da tutti, nonostante le differenti dottrine comprensive sostenute e le diverse verità in esse predicate. È possibile articolare una concezione politica della verità compatibile con concezioni comprensive della verità, tale da poter funzionare da standard normativo comune, cui tutti i cittadini possono rinviare discutendo pubblicamente di verità. La convinzione è che non si possa fare a meno – nell’ambito di una discussione pubblica – di scambiare e valutare pretese che siano pretese di verità. Questo è ciò che Rawls avrebbe potuto dire evitando i costi della sospensione della verità: avrebbe potuto ammettere una concezione politica e non metafisica della verità non precludendosi, di conseguenza, la possibilità di difendere la sua stessa concezione politica come politicamente vera; ciò gli avrebbe permesso di sostenere più giustificatamente le sue conclusioni. È inevitabile riconoscere la necessità che una certa accezione di verità rientri, per dir così, nel dibattito sulla giustificazione.
1.4.2. Normatività a partire dalla contingenza Fatte salve queste precisazioni, alcune delle quali mostrano gli innegabili limiti della posizione astensionistica rawlsiana, non bisogna tuttavia dimenticare che quello di Rawls è un obiettivo pratico, che la ‘svolta politica’ mette in risalto: «la teoria della 141
J. Cohen, “Truth and Public Reason”. Philosophy & Public Affairs, 37, 1, 2009, pp. 1-42. Sulla concezione politica della verità vd. anche D. Estlund, “The Insularity of the Reasonable: Why Political Liberalism Must Admit the Truth”. Ethics, 108, 2, 1998, pp. 252-75.
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giustizia come equità non si raccomanda a noi come migliore in quanto vincitrice di un torneo ideale fra tutte le concezioni concorrenti, bensì migliore in quanto in grado meglio di ogni altra di sottrarsi e di sottrarci allo scontro, lasciando impregiudicata la questione della superiorità delle altre concezioni, in una parola rimanendo neutrale rispetto ad esse»142. In sostanza, il fatto di non voler discutere della verità non impedisce che le tesi di Rawls intorno alla giustizia siano vere in un senso pragmatico, ovvero più utili e, sotto il profilo dell’utilità, migliori di altre. Né significa, più in generale, che la filosofia politica equivalga per Rawls alla sola messa a punto di policy per la società reale; significa, invece, formulare un progetto filosofico di società ideale anche se a partire da giudizi politici, storici e sociologici sulla società reale. La concezione politica della giustizia non cessa mai per Rawls di essere anche una concezione morale. Il punto è che Rawls non è interessato a formulare una concezione di giustizia astratta da qualsiasi contesto, valida per ogni tempo e per ogni luogo; la sua domanda è quale concezione di giustizia sia la concezione morale più adatta alla società democratica e liberale143. Non sono ideali astratti, sembra dirci Rawls, a poterci indicare la strada per la realizzazione di una società giusta, dal momento che ideali meramente utopici pensati per una società astratta non sono guide efficaci per la realizzazione della giustizia nel mondo in cui viviamo. Gli ideali cui deve ispirarsi la società per essere giusta sono i valori liberali diffusi nella cultura politica pubblica: dire questo non significa, per Rawls, dire che essi consistano in una semplice ridescrizione di interessi particolaristici spacciati come universali; i valori politici sono, piuttosto, tratti da contesti e ‘costruttivamente’ giustificati come aventi validità oltre
142
A. Ferrara, Giustizia e giudizio, Roma-Bari: Laterza, 2000, p. 36. J. Quong, Liberalism Without Perfection, Oxford: Oxford University Press, 2011, in particolare le pp. 155 ss. Giustificare il liberalismo ai liberali – come farebbe Rawls – non significa per Quong capitolare a uno sterile realismo, bensì significa vagliare i limiti della praticabilità, mostrando che una società liberale e bene-ordinata non è un sogno impossibile ma, semmai, un’utopia realistica. 143
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La verità sospesa
il contesto da cui derivano144. Fonte di normatività è, per Rawls, la costruzione intersoggettiva dei valori, un modo per procedere da alcuni fatti perché siano «riconosciuti come ragioni del giusto e della giustizia», cosa che «si può stabilire solo a partire dalla procedura di costruzione, ossia a partire dai compiti affidati ad agenti di costruzione razionali, appropriatamente rappresentati come persone morali libere ed eguali»145. Si potrebbe, dunque, sostenere un’idea di normatività che procede da una certa interpretazione di noi, mediante la quale diamo valore a noi come cittadinanza raccolta attorno a valori politici condivisi146. Questo punto, centrale per capire il progetto di Rawls, potrebbe essere riformulato in questi termini: Rawls confida che noi, in quanto cittadini della società bene-ordinata, possiamo sostenere il nostro impegno per i principi di giustizia solo se pensiamo alla nostra natura come non ostile alla realizzazione della società giusta. Non c’è dunque un mero intento descrittivo nel dire quale è la società in cui noi viviamo; c’è anche l’ambizione normativa di dire come dovrebbe essere la società sulla base della nostra comprensione di noi stessi come cittadini liberi ed eguali. L’obiettivo di Rawls è proporre una filosofia politica che sia realisticamente utopica: «la filosofia politica è realisticamente utopica quando estende quelli che di solito vengono considerati i limiti 144
Vd. A. James, “Constructing Justice for Existing Practice: Rawls and the Status Quo”. Philosophy & Public Affairs, 33, 3, 2005, pp. 281-316. James pone accento sul fatto che il riferimento al contesto e alle pratiche sociali è rilevante già in Teoria della giustizia; Rawls non ha, infatti, mai mostrato interesse per ideali morali puri ma solo per una “interpretazione costruttiva” delle pratiche esistenti. 145 J. Rawls, “Il costruttivismo kantiano nella teoria morale”, cit., p. 69. Rawls dà un resoconto di quali siano i fatti pertinenti per una concezione costruttivistica della giustizia: «una procedura costruttivistica è congegnata in modo da fornire i principi e i criteri che specificano quali fatti (relativi ad azioni, persone, istituzioni e in generale il mondo sociale) siano pertinenti alle deliberazioni politiche. […] Se si prescinde da una concezione morale o politica ragionevole, i fatti sono soltanto fatti» (J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 115). 146 A. Ferrara, La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio, Milano: Feltrinelli, 2008, p. 103; vd. P. Neal, “Does He Mean What He Says?”, cit., p. 98.
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delle possibilità politiche pratiche e, così facendo, ci riconcilia con la nostra condizione politica e sociale»147. In riferimento ai principi di giustizia Rawls non dice che essi sono giustificati per soggetti liberi ed eguali; dice invece che, se noi vogliamo vivere da cittadini liberi ed eguali, allora dobbiamo regolare la nostra condotta mediante principi, il cui contenuto è determinato dalla nostra comprensione di cittadini liberi ed eguali che sta alla base della nostra idea di cittadinanza. Ancora, Rawls non dice che noi dobbiamo vivere vite libere ed autonome; dice che, se noi vogliamo concepirci come cittadini liberi ed eguali, è allora da cittadini liberi ed eguali che dobbiamo comportarci148. Se il liberalismo politico trova fondamento nelle idee di persona e di società diffuse nella società liberale e democratica, queste idee sono ideali che prescrivono come la persona e la società dovrebbero essere; quel ‘dovrebbe’ esprime il modo in cui la società deve essere se noi vogliamo soddisfare il nostro desiderio di vivere in base alla comprensione che abbiamo di noi stessi come agenti morali liberi ed eguali. E tale desiderio non equivale, peraltro, a un desiderio che ci capita di provare sotto le istituzioni della società in cui ci capita di vivere: è il desiderio di vivere secondo giustizia in questo mondo in ragione dell’idea che abbiamo di noi stessi come agenti morali e, vivendo in questo mondo, lo vorremmo regolato da giustizia. È questo desiderio di giustizia a spingere Rawls a preconizzare che le istituzioni bene-ordinate dalla giustizia come equità potranno verosimilmente attrarre nel tempo anche persone che non si ispirano ai principi di giustizia, ma che possono aderirvi dapprima sulla base di un modus vivendi e poi accoglierli, facendoli propri. Il partire dalla contingenza è stato definito – forse un po’ forzatamente – il punto di avvio di un’avventura ermeneutica, che parte dalle convinzioni radicate all’interno della cultura democratica e liberale e le reinterpreta in considerazione di circostanze sempre nuove. Si crea certamente una circolarità, ma 147 148
J. Rawls, Il diritto dei popoli, cit., p. 15. Vd. anche p. 6. Vd. P. Weithman, Why Political Liberalism?, cit., cap. 11.
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La verità sospesa
non si tratta – sostengono alcuni149– di una circolarità viziosa, si tratta invece di una circolarità ermeneutica: quello che Rawls fa è articolare una concezione della giustizia che muove dai valori politici che sono parte di una cultura e di una tradizione perché diventino, attraverso un processo di costruzione, gli elementi essenziali che stanno alla base delle istituzioni giuste. Tali elementi forniscono una cornice all’interno della quale si crea uno spazio per l’accomodamento dei conflitti, che non sono affatto sottratti alla sfera del politico ma circoscritti dai confini della giustizia150. Si tratta non già di affermare valori a partire da un punto di vista archimedeo, bensì di portare alla superficie un insieme di idee che sono già diffuse nella società, presenti sullo sfondo della vita pubblica, e di reinterpretarle costruendo valori. L’attenzione per la contingenza non significa, dunque, difendere lo status quo151, bensì comprendere il mondo come funziona e scoprire le leggi che presiedono a tale funzionamento; si tratta, ancora, di scoprire che la razionalità del mondo reale non è la razionalità astratta e noumenica; cominciamo dall’ordine sociale reale e ne modelliamo i valori, li ‘costruiamo’152. Come 149 Tra questi R. Alejandro, “What is Political about Rawls’s Political Liberalism?”. Journal of Politics, 58, 1, 1996, pp. 1-24. 150 Perseguendo la stabilità della giustizia Rawls non intende affatto negare che la sfera della politica presenti una dimensione di conflittualità. Rawls esclude ogni conflittualità dall’ambito costituzionale, ovvero fissa gli elementi costituzionali come standard indipendenti da qualsiasi condizionalità. Non sono dunque pertinenti le critiche avanzate da quegli autori – tra i quali Newey e Mouffe – secondo i quali Rawls avrebbe cancellato la sfera del politico attraverso l’ordine assicurato dalla giustizia. Mouffe fa dire a Rawls ciò che egli non dice: Rawls non nega il conflitto ma lo sposta nella dimensione privata e non pubblica del confronto tra dottrine comprensive. Altra questione è, semmai, se questo confine tracciato tra pubblico e non pubblico abbia sufficiente giustificazione o se sia meramente presupposto. 151 Tra coloro che accusano Rawls di favorire lo status quo, oltre il già ricordato T. Pogge, Realizing Rawls, cit., vd. anche E. Wingenbach, “Unjust Context: the Priority of Stability in Rawls’ Contextualized Theory of Justice”. American Journal of Political Science, 43, 1, 1990, pp. 213-32. 152 Molti rinvengono un carattere hegeliano nella filosofia di Rawls, laddove essa non progetta di modellare la società secondo un ideale razionale, bensì
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suggerisce Alejandro, tale opzione per la contingenza va intesa come reazione consapevole di Rawls alla minaccia che proprio la contingenza rappresenta per la sua idea kantiana di giustizia153. Ciò significa che tenere seriamente conto del fatto del pluralismo, per quanto discutibile sia la sua descrizione come pluralismo ragionevole, esprime la fiducia che Rawls ha di poter ‘tenere a bada’ la contingenza – i dissidi, i disaccordi, le iniquità, la violenza e così via – attraverso la teoria della giustizia. Quella di Rawls è una sensibilità per l’esistente poiché è a partire dal qui ed ora che si può ragionare di giustizia. Come dice Gaus, un’utopia che identifichi una condizione giusta ma meramente possibile, lontana dai nostri disaccordi e dalle nostre incertezze, si trasforma paradossalmente in una distrazione e in una fonte di ingiustizia, perché fallisce nel tentativo di distinguere tra riforme urgenti e aspirazione ad un ideale di giustizia154. Al contrario dell’utopia, «la filosofia politica non si distanzia, come pensano alcuni, dalla società e dal mondo, né pretende di scoprire quale sia la verità con metodi di ragionamento tutti suoi, lontani da qualsiasi tradizione di pensiero e pratica politici. Nessuna concezione politica della giustizia potrebbe avere il minimo peso per si ripromette di comprendere la società – la società liberale e democratica in cui si vive – individuando in essa i principi latenti nelle intuizioni della cultura politica pubblica. Sul punto vd. tra gli altri J. Cohen, “A More Democratic Liberalism”. Michigan Law Review, 92, 1994, pp. 1503-46. Cohen accentua l’idea della riconciliazione pur sottolineando che in Rawls, a differenza che in Hegel, è “senza metafisica”. 153 R. Alejandro, “What is Political about Rawls’s Political Liberalism?”, cit., p. 8. Vd. anche C. Kukathas, P. Pettit, Rawls. A Theory of Justice and Its Critics, Cambridge: Polity Press, 1990, p. 136; il riferimento alla contingenza diventa centrale nello sviluppo del pensiero rawlsiano: la stabilità e l’unità sociale sono sempre sotto attacco in una società in cui il disaccordo non è risolto. 154 G. Gaus, The Order of Public Reasons, Cambridge: Cambridge University Press, 2010, p. 444: dice Gaus che un utopismo che identifica le condizioni soltanto possibili e perfettamente giuste, lontane dal nostro disaccordo, non solo rappresenta una distrazione dall’assunzione di responsabilità nei confronti di questioni urgenti, ma rappresenta anche un’ingiustizia, data l’indeterminatezza dell’applicazione di un ideale utopico alla società reale. Sui limiti dell’utopia rinvio ancora a T. Nagel, “What Makes a Political Theory Utopian?”, cit.
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noi se non ci aiutasse a riordinare le nostre convinzioni meditate sulla giustizia»155. La convinzione che la natura umana possa realizzare la società come bene-ordinata è certamente un articolo di fede pratica. Ad essa Rawls accenna nella “Introduzione” alla seconda edizione di Liberalismo politico: se una società giusta, e ragionevolmente capace di subordinare il potere ai suoi scopi, non fosse possibile, e se le persone fossero per lo più immorali, allora potremmo chiederci come Kant se valga la pena di vivere sulla terra156. Dobbiamo, invece, partire dall’assunzione che una società ragionevolmente giusta sia possibile e, perché lo sia, dobbiamo credere che gli individui abbiano una sostanza morale e possano essere mossi da una concezione ragionevole del giusto e della giustizia. È sulla base di questa natura morale che possiamo nutrire fiducia nella realizzazione di una società stabile e giusta. Dimostrare la ragionevolezza di questa fede è esattamente uno dei compiti – se non il principale – della filosofia politica di Rawls. Si tratterrà semmai di verificare se e quanto Rawls riesca in tale proposito, e quanto la concezione della giustizia sia davvero politica nel senso di indipendente da qualsiasi dottrina comprensiva, filosofica, morale o religiosa, in cui poter trovare adeguate radici. In altre parole ancora, si tratta di capire se la mossa astensionistica rawlsiana garantisca alla giustizia come equità la sua stabilità, messa in discussione dal pluralismo.
1.5. Conclusione In questo capitolo ho ricostruito le ragioni che hanno spinto Rawls ad intraprendere la cosiddetta ‘svolta politica’, partendo dalla sua insoddisfazione per come la questione della stabilità sia stata affrontata nella Teoria della giustizia. Ciò ha richiesto di spie155
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 54. Cfr. J. Rawls, “Introduction to the Paperback Edition”, in Id., Political Liberalism, II ed., cit., p. lx. 156
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Politica senza verità e svolta politica della giustizia 83
gare perché Rawls abbia dato tanta rilevanza alla stabilità della teoria – ovvero tanta importanza alla sua praticabilità – perché se ne possa parlare come della teoria più desiderabile e preferibile rispetto alle altre. È l’idea stessa di filosofia politica ad essere in gioco: Rawls la considera ineludibilmente collegata al suo saper parlare a coloro ai quali è indirizzata, mostrandosi adeguata ad affrontare i loro problemi di giustizia. Gli argomenti a favore della stabilità presentati nella Teoria si rivelano, a fronte del pluralismo che caratterizza le società liberali, inadatti, e la Teoria stessa si rivela irrealistica. Prendere sul serio il fatto del pluralismo, anzi del pluralismo ragionevole, è la spinta per un ripensamento della giustizia come equità, non perché Rawls non ne condivida più i contenuti e gli obiettivi, ma perché essa, per come è presentata nella Teoria, come cioè una filosofia, mostra di contraddire i suoi stessi fondamenti. Politicizzare la teoria è, allora, il primo passo da compiere per renderla indipendente da tutte le dottrine e tuttavia adottabile da ciascuna, come un modulo da inserire al loro interno. Politicizzare la teoria significa scegliere il metodo astensionistico: nell’ottica del pluralismo è necessario astenersi da qualsiasi rinvio alla verità come al fondamento della giustizia. La verità è per Rawls intrinsecamente divisiva: trattare di verità nell’arena politica genera pericolosi conflitti. È una specie di ‘paura’ della verità il motivo che spinge Rawls ad escluderla dal dibattito pubblico, costringendo al silenzio le sue ragioni. È per paura dell’instabilità come conseguenza dell’inconciliabilità delle posizioni intorno al vero che Rawls si adopera perché prevalga su qualsiasi pretesa il ‘diritto alla giustificazione’: è il diritto che ogni cittadino di uno stato liberale possiede e che dovrebbe proteggerlo da qualsiasi esercizio arbitrario del potere che si voglia spiegare facendo appello alla verità, quella che prevale a seconda del regime esistente. Ma non c’è verità che si possa legittimamente imporre ai cittadini, c’è solo lo spazio per la giustificazione del potere, anzi, dato il pluralismo delle giustificazioni, per la sua legittimazione. A questo tema è dedicata parte del prossimo capitolo.
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II. La ragionevolezza nella politica
Nel capitolo precedente la ragionevolezza ha avuto un ruolo centrale. L’opzione per la ragionevolezza al posto della verità segnala la scelta di Rawls di escludere dalla discussione politica le controversie intorno a quest’ultima, dato il carattere divisivo che egli attribuisce alla verità medesima, da cui segue l’impossibilità di assumerne una tra le altre come fonte della giustificazione delle istituzioni politiche. La ragionevolezza è intesa, in generale, come la caratteristica politica dei portatori di differenti verità che, in qualità di cittadini, si affacciano sulla scena pubblica con la disponibilità a guardare la propria verità così come si guarda a quella altrui, ovvero ad assumere quel punto di vista esterno che rende possibile disgiungere la ragionevolezza dalla verità. Se è, infatti, ovvio che, dal punto di vista interno, ciò che si considera ragionevole è anche vero, è da un punto di vista esterno che si può fare tale distinzione. Possiamo dire che la ragionevolezza sia questa capacità pubblica di fare la differenza tra la verità tutta intera, la verità che è per noi e che per noi è l’unica verità, e la verità come gli altri la vedono, cioè come la nostra verità diversa dalla loro, che a loro volta considereranno, per sé e in assoluto, come la verità tutta intera. Ciò si spiega, del resto, con il fatto del pluralismo, esito della ragione umana quando è libera nel suo esercizio. Parlare di ragionevolezza significa per Rawls caratterizzare il liberalismo politico: ragionevole è la concezione della giustizia, ragionevoli sono i cittadini che la condividono per le ‘giuste ragioni’, e ragionevoli sono le loro dottrine che ammettono al
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La verità sospesa
proprio interno questa sorta di ‘distanziamento metodologico’ dalla verità, assumendo una concezione politica della giustizia. La nozione di ragionevolezza esige, ora, di essere adeguatamente approfondita, anche per la varietà dei significati con cui ad essa Rawls si riferisce, non senza vaghezze e ambiguità. Vedremo come alcune di queste ambiguità dipendano, a loro volta, dalle debolezze della teoria rawlsiana nel suo complesso, di cui s’è dato conto nel precedente capitolo. Proprio a partire dai rilievi critici alla nozione rawlsiana di ragionevolezza e alle sue prescrizioni è possibile una rivisitazione dell’idea stessa di giustificazione pubblica; da ciò si ripartirà per una rilettura più ‘ospitale’ del liberalismo politico. Il capitolo è suddiviso in questo modo: per prima cosa individuo i luoghi in cui Rawls parla di ragionevolezza nei suoi vari significati, sottolineando il ruolo che tale nozione riveste nell’ottica della giustificazione pubblica; è centrale la relazione tra la ragionevolezza e la legittimità liberale, necessaria come base per la giustificazione dell’esercizio del potere politico in un contesto pluralistico. Procedo, quindi, ricostruendo il dibattito intorno alla nozione di ragionevolezza, facendo soprattutto riferimento alle critiche che accusano l’argomento rawlsiano di circolarità, mostrandosi inadeguato a fondare il principio stesso della legittimità liberale. Vedremo come una certa interpretazione della legittimità liberale, che considera quest’ultima come intermedia tra legittimità procedurale e giustificazione, renda possibile una migliore comprensione del ruolo stesso della ragionevolezza. In particolare, la fragilità della ragionevolezza si manifesta nel modo in cui si realizza la giustificazione pubblica a partire da posizioni comprensive controverse ma accomunate dal riconoscimento da parte di ciascuna degli oneri del giudizio; proprio sulla necessità del riconoscimento degli oneri del giudizio, con il suo esito di divisione epistemica tra ragioni pubblicamente presentabili e ragioni che devono rimanere private cioè ‘interiori’, si concentrano altre critiche importanti, volte a denunciare come tale riconoscimento nasconda la pretesa, tutt’altro che giustificata, che i singoli si allontanino dalle loro verità, se non,
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addirittura, che giungano a negarle. Esemplare, in questa discussione, è il caso dell’aborto, che manifesta la problematicità di ogni ‘divisione epistemica’ tra la propria verità (le proprie ragioni ‘interiori’) e le ragioni pubbliche. Infine, come ultima tappa di questo percorso, si cercherà un modo per rivisitare i precetti della ragione pubblica, e dei requisiti della ragionevolezza alla quale è collegata, a partire dall’assunzione di basi epistemiche a sostegno del liberalismo politico. In generale, si vedrà come la discussione intorno alla ragionevolezza riprenda, pur da prospettive differenti, molte delle obiezioni già incontrate nel capitolo precedente, specie quelle che si concentrano sulla irrisolta tensione tra concezione della giustizia e verità. La cosa non deve stupire, dal momento che la ragionevolezza porta con sé le ambiguità generate da questa stessa tensione: si può dire che, invocata per prendere il posto della verità, la ragionevolezza ne ha, alla fine, esercitato il ruolo pur non avendone l’autorità. Rimando ai prossimi paragrafi per una dettagliata articolazione di questa tesi.
2.1. Ragionevolezza e giustificazione pubblica 2.1.1. Significati ed elementi della ragionevolezza Rawls parla di ragionevolezza sin dal saggio pubblicato nel 1951 dal titolo “Uno schema di procedura decisionale per l’etica”1 in 1 J. Rawls, “Outline of a Decision Procedure for Ethics”. Philosophical Review, 60, 1951, pp. 177-97 [trad. it. “Uno schema di procedura decisionale per l’etica”, in J. Rawls, La giustizia come equità: saggi 1951-1969, cit., pp. 327]. In particolare si veda p. 3: «In primo luogo, una persona ragionevole si dimostra disponibile, se non addirittura desiderosa, di usare i criteri della logica induttiva per stabilire ciò che è appropriato credere. In secondo luogo, una persona ragionevole, tutte le volte che affronta una questione morale, mostra una disposizione tipica a trovare ragioni pro e contro le possibili linee di condotta disponibili. In terzo luogo, una persona ragionevole mostra il desiderio di considerare i problemi con mente aperta, e di conseguenza, anche se può già avere un’opinione su una questione, è sempre pronta a riconsiderarla alla
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cui ‘ragionevole’ è l’aggettivo che qualifica gli agenti morali e il modo di decidere tra interessi conflittuali. Nella Teoria della giustizia il termine compare in varie occasioni in un’accezione generica: ‘ragionevoli’ sono, per cominciare, le condizioni che vengono fissate nella situazione di scelta dei principi di giustizia; non sarebbe ragionevole – si legge – fissare tali condizioni a partire da una determinata posizione sociale poiché ciò ne comprometterebbe l’equità; ragionevole è l’adozione del velo di ignoranza che esprime le condizioni da imporre alla scelta originaria; ragionevole è la concezione di giustizia che emerge dalle condizioni ragionevoli della scelta; se ragionevoli sono, in generale, le concezioni della giustizia, più ragionevole delle altre è quella i cui argomenti sono più forti, quella che ottiene il supporto della ragione, nonostante le restrizioni – anch’esse ragionevoli – imposte ai singoli soggetti decisori nelle circostanze della scelta. Ragionevoli sono anche le concezioni del bene accettabili alle condizioni fissate dalla giustizia e, dunque, per converso, irragionevoli sono quelle che rifiutano queste condizioni. Ragionevoli, infine, sono i principi di giustizia: Rawls parla della condizione di pubblicità per cui i principi di giustizia sono ragionevoli solo se sono generalmente accettabili dai membri della società bene-ordinata e se possono servire come base della giustificazione pubblica per risolvere questioni intorno alla giustizia medesima. I soggetti che scelgono i principi di giustizia sono, a loro volta, ragionevoli; benché ciascuno possieda e sostenga la propria concezione del bene, essi sono ragionevoli dal momento che concordano sull’elenco dei beni primari, che definiscono un indice delle aspettative condivise2. Si vede dunque luce di ragioni o prove ulteriori presentate durante la discussione. In quarto luogo, una persona ragionevole è consapevole, o almeno cerca di esserlo, dei propri pregiudizi intellettuali, emotivi e morali e si sforza scrupolosamente di tenerne conto quando deve soppesare i meriti di ciascun problema. Non è inconsapevole dell’influsso del pregiudizio e della parzialità anche quando compie i più sinceri sforzi per evitarlo». 2 Un’accurata esposizione dei significati di ‘ragionevole’ all’interno della Teoria della giustizia è offerta da J. Mandle, “The Reasonable in Justice as Fairness”,
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come i significati di ragionevolezza siano collegati tra loro in una sorta di elenco progressivo: ragionevolezza è, in primo luogo, la condizione da imporre agli argomenti addotti nella scelta dei principi; la concezione che viene formulata alla luce di quegli argomenti è ragionevole. Delineata la concezione ragionevole di giustizia, essa permette a sua volta di distinguere concezioni ragionevoli da concezioni irragionevoli di giustizia. Ragionevole è la persona che accetta i principi di giustizia che possono essere giustificati dal punto dei vista degli altri che non necessariamente condividono la stessa concezione del bene. I significati sopra ricordati del termine ‘ragionevole’ ricorrono negli scritti successivi e vengono utilizzati in senso più ‘tecnico’. In particolare, nel saggio “Il costruttivismo kantiano nella teoria morale”, del 1980, Rawls precisa la differenza tra ‘ragionevole’ e ‘razionale’, che considera i due elementi presenti in ogni nozione di cooperazione sociale. Il termine ‘ragionevole’ esprime l’idea che i termini di cooperazione siano equi, cioè siano quelli «che ci si può ragionevolmente aspettare che ogni partecipante accetti purché gli altri facciano lo stesso»; tali termini di cooperazione esprimono un’idea di reciprocità, per cui chi coopera deve trarre vantaggio in un modo appropriato, definito sulla base «di un termine di confronto conveniente»3. Il ‘razionale’, invece, è l’elemento che esprime la concezione del vantaggio razionale di ogni partecipante, di ciò che egli, in quanto individuo, sta cercando di promuovere. In sintesi, e per una migliore comprensione del rapporto tra ragionevole e razionale, si può dire che «il ragionevole presuppone e subordina il razionale. Esso definisce i termini di cooperazione equi accettabili per tutti all’interno di un qualche gruppo di persone separatamente identificabili […]. Il ragionevole subordina il razionale nel senso che i principi limitano […] gli scopi finali cit. Per un resoconto dell’impiego del termine ragionevolezza negli scritti rawlsiani vd. anche J. W. Boettcher, “What is Reasonableness?”. Philosophy & Social Criticism, 30, 5-6, 2004, pp. 597-621. 3 J. Rawls, “Il costruttivismo morale nella teoria kantiana”, cit., p. 80.
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che è ammesso siano perseguiti»4. Si vede, dunque, come Rawls insista sulla complementarità di ragionevole e razionale quale espressione dell’unità della ragione pratica in cui è affermata la priorità del giusto sul bene. L’idea del ragionevole diventa centrale in Liberalismo politico, e in particolare nella II Lettura intitolata “I poteri dei cittadini e la loro rappresentanza” 5, che inizia con un richiamo alla domanda fondamentale su come sia possibile che una società giusta e stabile di cittadini liberi ed eguali, ma profondamente divisi da dottrine comprensive ragionevoli, duri nel tempo. La risposta è la seguente: «la struttura di base di una simile società è regolata efficacemente da una concezione politica della giustizia che è il centro focale di un consenso per intersezione, quanto meno, delle dottrine comprensive ragionevoli affermate dai cittadini. Ciò permette alla concezione politica condivisa di servire da base per la ragione pubblica nei dibattiti sulle questioni politiche che mettono in gioco elementi costituzionali essenziali o problemi di giustizia fondamentale»6. Vediamo quale sia in questa Lettura il ruolo svolto dall’idea del ‘ragionevole’. Ammette Rawls che quella di ‘ragionevole’ è una nozione che, essendo applicata a persone, a istituzioni come anche a dottrine, può risultare «vaga e oscura»7. Per quanto possa essere ulteriormente definito, il termine ‘ragionevole’ rimanda alla «virtù di persone impegnate in una cooperazione sociale fra uguali»8 nonché a una «sensibilità morale che sottende il desiderio di impegnarsi in un’equa cooperazione in quanto tale e di farlo a condizioni che anche gli altri, in quanto uguali, possano preve4
Ivi, p. 82. Molto esplicativa l’affermazione che Rawls fa nel saggio “La priorità del giusto e idee del bene”, in Id., Saggi, cit., pp. 204-33: 205: «la giustizia traccia i limiti, il bene indica la direzione». È un modo diverso per esprimere il concetto appena visto, secondo il quale la ragionevolezza pone vincoli alla razionalità. 5 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 57-88. 6 Ivi, p. 57. 7 Ibid. 8 Ibid.
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dibilmente accettare»9. Ragionevole è la persona che possiede due poteri morali – il senso di giustizia e la capacità di concepire il bene – e che vede se stessa come libera ed eguale, che è disposta ad entrare nella cooperazione sociale accettando termini equi che si aspetta che tutti accettino e rispettino. Potremmo dunque dire, più generalmente, che la ragionevolezza rinvia a una disposizione o attitudine alla cooperazione con altri che si presume siano similmente disposti10. Ciò non implica – aggiunge Rawls – che le persone ragionevoli siano di per sé interessate al perseguimento del bene comune; ciò che le contraddistingue è il desiderio di un mondo sociale in cui possano cooperare da individui liberi ed eguali con individui considerati liberi ed eguali, a condizioni accettabili da tutti, secondo un ideale di reciprocità. In questo senso si chiarisce un’altra differenza basilare tra ‘ragionevole’ e ‘razionale’: «il primo è pubblico in un senso in cui il secondo non lo è; è grazie al ragionevole che entriamo da uguali nel mondo pubblico degli altri, pronti a proporre o ad accettare, secondo i casi, equi termini di cooperazione con loro»11. S’è fin qui visto soltanto un elemento della ragionevolezza, quello che fa riferimento alla qualità o virtù di persone impegnate nella cooperazione fra eguali, a condizioni eque accettabili da tutti e che si è disposti ad osservare purché tutti facciano altrettanto. Tale disponibilità alla cooperazione si integra all’idea che la persona ragionevole ha di se stessa, cioè di essere parte libera 9
Ivi, p. 58. Precisa Rawls che il concetto di ‘ragionevole’, specie in correlazione a quello di ‘razionale’, si trova già presente negli scritti morali di Kant, ed è stata utilmente approfondita da Sibley nel suo saggio del 1953 “The Rational Versus the Reasonable”. Philosophical Review, 62, 1953, pp. 554-60. A Sibley Rawls dichiara di ispirarsi per la sua idea di ‘ragionevole’ pur con qualche distinzione. Vd. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 319, n. 1. Infatti, se per Sibley agire ragionevolmente ha un connotato morale oltre che politico, per Rawls i cittadini possono agire ragionevolmente in senso politico senza che ciò implichi un particolare impegno morale. Sul punto cfr. J. W. Boettcher, “What is Reasonableness?”, cit. 11 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 61. 10
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ed eguale della società e di volerlo essere, nonché di voler essere riconosciuta come ragionevole anche dagli altri. Un secondo, fondamentale, aspetto del ragionevole è la «disponibilità a riconoscere gli oneri del giudizio e ad accettarne le conseguenze per quanto riguarda la direzione del potere politico in un regime costituzionale per mezzo della ragione pubblica»12. Tale disponibilità spiega la realtà del dissenso tra persone ragionevoli, un dissenso che è esso stesso definito ‘ragionevole’; le persone sono, in questo senso, ragionevoli quando riconoscono se stesse e gli altri come soggetti a tali oneri, che altro non sono che la fonte del dissenso in quanto sono «i numerosi rischi impliciti nell’esercizio corretto (e coscienzioso) dei nostri poteri di ragione e giudizio nel corso normale della vita politica»13. Rawls elenca tali oneri tra cui, per esempio, il contrasto dei dati empirici relativi a un certo caso, il disaccordo nell’assegnare peso relativo alle considerazioni pertinenti al medesimo caso, la vaghezza dei concetti e così via. Torna l’idea fondamentale del pluralismo ragionevole inteso come risultato del libero uso della ragione: insistere sulle fonti del dissenso permette a Rawls di spiegare il disaccordo che c’è tra le persone ragionevoli, un dissenso non dovuto ad ignoranza o perversità, ma riconducibile al modo in cui tutti ragionano, alle lacune che accompagnano i ragionamenti di ognuno, e che sono indiscutibilmente esito dell’uso della ragione in condizioni di libertà di coscienza e di pensiero. È alla luce degli oneri del giudizio che si spiega, dunque, la molteplicità di dottrine comprensive ragionevoli14: in quanto tutte condizionate 12
Ivi, p. 62. Ivi, p. 63. 14 Ivi, p. 65. L’assunto di base è che le persone ragionevoli sostengono dottrine ragionevoli; sono ragionevoli le dottrine che possiedono tre caratteristiche principali: sono casi di esercizio della ragione teoretica, che copre tutti gli aspetti fondamentali della vita umana; sono casi di esercizio della ragione pratica, in quanto sono scelti al loro interno i valori e i pesi ad essi relativi specie nei casi in cui entrano in conflitto; infine, si rifanno a tradizioni di pensiero e di dottrina. 13
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dagli oneri del giudizio, le persone ragionevoli non sosterranno la stessa dottrina comprensiva. Ognuno avrà la propria visione del mondo e di tante visioni alcune saranno vere e altre probabilmente false, ma potrebbero anche essere tutte quante false; ciascuno, naturalmente, vedrà la propria come vera o, almeno, come la più ragionevole. È, dunque, a partire dal comune riconoscimento degli oneri del giudizio, ovvero dalla consapevolezza che tutti sono ugualmente soggetti a tali oneri, che gli individui ragionevoli respingeranno come irragionevole qualsiasi forma di imposizione di una dottrina sulle altre, in ragione di una qualche pretesa di verità. Il punto è centrale, e si è già avuto modo di sottolinearlo: quel che Rawls intende mettere a fuoco, in questo frangente in cui discute delle conseguenze degli oneri del giudizio, è che una cosa è la verità delle proprie posizioni comprensive, altra cosa è insistere sulla verità di queste per imporle agli altri. Infatti, chiunque potrebbe comportarsi in questo modo irragionevole, dal momento che per ciascuno la propria posizione è vera e ciascuno potrebbe avanzare la stessa pretesa di imporla sugli altri. Ma nessuno, se è ragionevole, ovvero se riconosce i limiti dell’umana conoscenza e nutre il desiderio di collaborare con gli altri secondo reciprocità, deciderebbe di agire così. Sarebbe davvero irragionevole se costui volesse usare il potere, qualora ne disponesse, per impedire agli altri di affermare la propria posizione. «Concludendo, le persone ragionevoli si rendono conto che gli oneri del giudizio impongono limiti a ciò che si può giustificare ragionevolmente davanti agli altri, per cui accettano una qualche forma di libertà di coscienza e pensiero. È irragionevole usare il potere politico – se lo possediamo e lo condividiamo con gli altri – per reprimere visioni comprensive non irragionevoli»15. 15
Ivi, pp. 67, 86-87; infine, le caratteristiche della persona ragionevole vengono così sintetizzate: «la disponibilità a proporre equi termini di cooperazione e a osservarli, il riconoscere gli oneri del giudizio, il sostenere solo dottrine ragionevoli, la volontà di essere pienamente cittadini».
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Vale la pena, infine, di ribadire, anche per meglio intendere quel che seguirà, che la ragionevolezza non equivale per Rawls ad assunzione di scetticismo. La descrizione degli oneri del giudizio non deve far pensare che si vada in questa direzione: in primo luogo, perché lo scetticismo non renderebbe possibile il consenso per intersezione di dottrine ragionevoli, laddove l’intersezione si realizza su valori comuni, costitutivi di una concezione morale per quanto parziale, cioè limitata al politico; in secondo luogo, perché quel che gli oneri del giudizio permettono di fare è soltanto elencare le circostanze in cui risulta particolarmente difficile un accordo politico, il che non implica che si neghi la verità della propria credenza. Non si tratta di essere scettici riguardo alle nostre stesse verità; si tratta, invece, di riconoscere l’impossibilità pratica di raggiungere un accordo politico ragionevole intorno alla verità delle dottrine comprensive, che sia garanzia di pace e di concordia16. Questa considerazione è fondamentale – ribadisce Rawls – per mettere a tacere eventuali illazioni circa lo scetticismo come base del consenso: un consenso raggiunto su base scettica non può che essere instabile in quanto non sarebbe raggiunto per le ‘ragioni giuste’, cioè per le ragioni morali che ciascuno scopre all’interno della propria dottrina. Sottolineare la distanza della ragionevolezza dallo scetticismo significa proprio rispondere all’istanza della stabilità; né un’unica verità né la negazione della verità possono per Rawls stare alla base di un 16 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 68-69. Vd. anche J. Rawls, Giustizia come equità: una riformulazione, cit., p. 33: «è con questa idea che [la giustizia come equità] spera di moderare le divisioni nate dai conflitti politici e di specificare le condizioni di un’equa cooperazione sociale fra i cittadini. Per raggiungere questo scopo noi cerchiamo di costruire, partendo dalle idee fondamentali implicite nella cultura politica, una base pubblica della giustificazione che tutti i cittadini, in quanto persone ragionevoli e razionali, possano fare propria senza abbandonare le loro dottrine comprensive. Se raggiungeremo questo scopo realizzeremo un consenso per intersezione fra dottrine ragionevoli». Rawls torna, dunque, all’idea del consenso per intersezione, introdotta una volta che si dispone della concezione politica della giustizia, allo scopo di sapere se essa possa conquistare il sostegno delle diverse dottrine comprensive ragionevoli che non possono non esistere in una società liberale e democratica.
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sistema costituzionale; se la ragionevolezza prende le distanze dalla verità come irrealistica base per il consenso, essa prende le distanze anche dalla negazione della verità o scetticismo: solo la ragionevolezza rende una concezione politica della giustizia sostenibile dalle dottrine ragionevoli, in modo «che ricada sotto l’arte del possibile»17, che sia cioè praticabile. In sintesi, fatte queste considerazioni, si vede come nell’idea di ragionevolezza convivano due elementi: un elemento eticopolitico, che è preponderante, e che esprime una disponibilità alla cooperazione reciproca (la ragionevolezza è in questo senso una virtù politica, parte dell’ideale politico della cittadinanza democratica); e un elemento epistemico, che rinvia alla presa d’atto degli oneri del giudizio come punto di partenza per il riconoscimento reciproco della libertà di coscienza e di pensiero18. S’è detto poco fa che la ragionevolezza fa sì che le persone si rendano conto che ci sono limiti a ciò che si può giustificare ragionevolmente presso gli altri. Si potrebbe anche dire che è 17
J. Rawls, Giustizia come equità: una riformulazione, cit., p. 206. Sulle ragioni pratico-politiche che spingono Rawls ad abbracciare la nozione di ragionevolezza, vd. S. Maffettone, “Political Liberalism. Reasonableness and Democratic Practice”. Philosophy & Social Criticism, 30, 5-6, 2004, pp. 541-77. L’idea che sottostà alla ragionevolezza è la decisione di rendere la teoria politica utilizzabile nel concreto, rispondendo cioè alla necessità politica che l’esperienza democratica mette di fronte, quella della gestione del dissenso. 18 S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., pp. 105-106; vd. anche S. Freeman, Rawls, cit., pp. 345 ss; D. M. Rasmussen, “Defending Reasonability. The Centrality of Reasonability in the Later Rawls”. Philosophy & Social Criticism, 30, 5-6, 2004, pp. 525-40. Esprimendo la disponibilità a cooperare in base a equi termini accettati da tutti, la ragionevolezza si radica nella fiducia che sia possibile, non potendo concordare su tutto, concordare almeno su qualcosa. Essa esprimerebbe una presa di distanza dall’idea tradizionale di ragione come capace di realizzare l’accordo su un’unica morale condivisa. Sul punto vd. anche B. Dreben, “On Rawls and Political Liberalism”, in S. Freeman (a cura di), Cambridge Companion to Rawls, Cambridge: Cambridge University Press, 2003, pp. 316-46: 318. Di opposto avviso segnalo tra gli altri S. Besson, The Morality of Conflict. Reasonable Disagreement and the Law, Oxford & Portland: Hart Pub., 2005, p. 111.
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grazie alla ragionevolezza che le persone non impongono sugli altri la loro verità ma semmai offrono, per poter sostenere pubblicamente la propria posizione, ragioni che la giustifichino. Questa affermazione permette di capire che cosa Rawls intenda per ‘principio di legittimità liberale’: chiedersi se un’istituzione o una scelta siano legittime dal punto di vista liberale significa, nel concreto, porsi il seguente interrogativo: «quali sono i principi o gli ideali alla cui luce dobbiamo esercitare questo potere, se tale esercizio deve essere giustificabile davanti agli altri in quanto persone libere ed eguali?»19. In base al principio della legittimità liberale l’esercizio del potere politico è giustificabile «solo quando si accorda con una costituzione tale che ci si possa ragionevolmente attendere che tutti i cittadini accolgano i suoi elementi essenziali alla luce di principi e ideali accettabili per loro in quanto persone ragionevoli e razionali»20. Una concezione della legittimità politica ha lo scopo di individuare una base pubblica di giustificazione per l’esercizio del potere, requisito fondamentale dello stato liberale. Vi è un nesso tra legittimità e stabilità: la stabilità che Rawls ha in mente non è quella ‘imposta’, che deriva da un atto di forza, ma è quella che consegue da un consenso su basi morali, quale è quello che una concezione politica della giustizia è in grado di ottenere dalle dottrine ragionevoli21. Il requisito della legittimità è centrale perché una concezione politica 19
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 186. Ibid. 21 «Il problema della stabilità non è il problema di portare chi respinge una certa concezione a condividerla o ad agire in conformità a essa, se necessario per mezzo di sanzioni effettivamente applicabili, come se il nostro compito fosse quello di trovare il modo di imporre tale concezione, una volta che ci siamo convinti che è ben fondata» (J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 131; vd. anche p. 186). Ora, proprio il nesso tra stabilità e legittimità spiega perché della legittimità Rawls non parli esplicitamente nella Teoria, data la condivisione morale a sostegno della concezione della giustizia, in cui è invece centrale la giustificazione: «da un punto di vista ideale, giustificare presso qualcuno una concezione della giustizia significa fornirgli una dimostrazione dei suoi principi a partire da premesse accettate da entrambi» (vd. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 542). 20
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della giustizia sia condivisa senza essere imposta; non sarebbe ragionevole una concezione se non sa conquistarsi il sostegno di ogni singolo cittadino, parlando alla ragione di ognuno. Ha perciò senso affermare che «la giustificazione è il fine stesso di una concezione politica della giustizia»22. Ora, la giustificazione è resa possibile dalla virtù della ragionevolezza, che impone ai cittadini di rispondere al dovere morale, o ‘dovere di civiltà’, di essere disponibili a spiegare l’uno all’altro «come i principi e le scelte politiche da essi difesi e votati possono trovare un sostegno nei valori politici della ragione pubblica»23. Si può dire che la ragionevolezza può essere pensata come la capacità che i cittadini mostrano di possedere quando pensano a se stessi come se fossero legislatori, chiedendosi e spiegando agli altri quali leggi vadano promulgate in ossequio al requisito della reciprocità24. Reciprocità è la parola-chiave per comprendere il tipo di impegno che caratterizza la relazione tra cittadini ragionevoli; tale relazione, alla luce della reciprocità, può essere descritta come una forma di «amicizia tra cittadini»25. È nel segno della reciprocità che ciascuno fa le proprie scelte politiche, esercitando quella parte di potere politico che gli spetta, alla luce di ragioni che anche gli altri possono, in quanto ragionevoli, accettare. Il principio di reciprocità prescrive cioè l’adozione da parte di tutti della ragione pubblica, ovvero di quel modo di ragionare nel pubblico in base al quale a nessuno è permesso di imporre la propria verità sugli altri, in quanto è considerata come l’unica vera a fronte di tutte le altre che non sono vere, e in base al quale a ciascuno è richiesto di dare ragioni che tutti possono accettare a sostegno delle proprie decisioni politiche. È dunque alla luce della ragionevolezza che è possibile risolvere la difficoltà di base dell’idea di ragione pubblica tanto 22 G. Gaus, Value and Justification. The Foundations of Liberal Theory, Cambridge: Cambridge University Press, 1990, p. 456. 23 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 186-87. 24 J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 279. 25 Ivi, p. 282.
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da farla apparire paradossale: «come può essere ragionevole o razionale, quando sono in gioco problemi basilari, che i cittadini facciano appello solo a una concezione pubblica della giustizia e non a quella che considerano l’intera verità?»26. La ragionevolezza, in sintesi, è la risposta, laddove permette a ciascuno, se è ragionevole, di considerare il bene pubblico come prevalente sui propri beni privati.
2.1.2. Giustificazione pubblica e consenso per intersezione Abbiamo visto che il principio della legittimità liberale prescrive che l’esercizio del potere politico sia giustificato sulla base di termini equi condivisibili da tutti. Ai cittadini ragionevoli – si diceva – è richiesto di giustificare l’uno all’altro le proprie scelte sulla base di ragioni che tutti possono condividere. Si tratta di capire quali generi di argomenti possano valere per una giustificazione pubblica delle istituzioni, argomenti che siano condivisibili da quell’insieme di individui cui le istituzioni medesime devono essere giustificate (la cosiddetta constituency della giustificazione). Fatte queste considerazioni preliminari sul dovere politico della giustificazione, entriamo nel dettaglio di che cosa la giustificazione significhi. Rawls lo spiega nella “Risposta a Jürgen Habermas”27 con cui dà riscontro alla domanda sulla portata giustificativa del consenso per intersezione. La questione sollevata da Habermas è se il consenso per intersezione «aggiunga qualcosa alla giustificazione di una concezione politica della giustizia che riteniamo già giustificata come ragionevole», e che cosa indichi precisamente il termine ‘ragionevole’, ovvero «se questo termine esprime la validità dei giudizi politici e morali o semplicemente rispecchia un atteggiamento riflessivo di tolleran26
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 186. J. Rawls, “Political Liberalism: Reply to Habermas”. Journal of Philosophy, 92, 3, 1995, pp. 132-180 [trad. it. “Risposta a Jürgen Habermas”, a cura di A. Ferrara. MicroMega. Almanacco di Filosofia ’96, supplemento al n. 5/95 MicroMega, 1996, pp. 51-106]. 27
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za illuminata»28. Le due domande, in realtà, sono strettamente connesse. Ora – dice Rawls – per rispondere a Habermas è necessario prima di tutto precisare il significato di ‘giustificazione’. Il liberalismo politico contempla tre tipi di giustificazione: il primo tipo di giustificazione è detta pro tanto ed è quella che prende in considerazione soltanto i valori politici, che possono essere sufficienti per poter risolvere molte questioni. Si tratta di valori che possono essere indipendenti dai valori ‘spessi’, quelli propri delle dottrine comprensive; questi valori politici possono essere bilanciati tra loro per affrontare vari problemi che sorgono a livello politico. Ora, proprio perché la giustificazione pro tanto non coinvolge tutti i valori ma soltanto quelli politici, è prevedibile che, quando entrano in gioco le dottrine comprensive, essa si riveli insufficiente. Si chiama, invece, giustificazione completa quella che è formulata dal singolo cittadino come membro della società civile; è completa la giustificazione quando avviene alla luce della dottrina comprensiva che il cittadino, in quanto membro della società civile, sostiene. Ci possono essere dunque due possibilità: che il cittadino sia in grado di giustificare i valori politici inserendoli nella propria dottrina comprensiva, in modo che ci sia continuità tra la concezione completa e quella politica, oppure può darsi la possibilità contraria, per cui non si dà alcuna continuità tra la propria dottrina e la concezione politica della giustizia. Come i cittadini riescano ad inserire la concezione politica della giustizia nelle proprie dottrine comprensive è compito loro decidere29. Quella che è stata chiamata ‘neutralità giustificativa’ è ora ribadita da Rawls e meglio esplicitata: 28
J. Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas”, cit., p. 62. Rawls non sempre chiarisce che, quando parla di giustificazione indipendente (free-standing), si riferisce a quella raggiunta in posizione originaria; per questo si è spesso confusa la giustificazione indipendente (free-standing) con la giustificazione pubblica. La giustificazione pubblica si riferisce invece precisamente alla convergenza delle giustificazioni complete, quelle ricavate dalle dottrine comprensive in grado di adottare la concezione politica adattandola a sé come un modulo. Sul punto: G. Gaus, The Order of Public Reasons, cit., p. 41. 29
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è dunque prerogativa di ciascun cittadino, considerato come singolo o insieme ad altri con cui si associa, lo stabilire quale peso si debba attribuire alle ragioni della giustizia politica rispetto ai valori non politici. La giustificazione politica non offre orientamento alcuno in questioni del genere, dal momento che non ci dice quale peso dobbiamo attribuire ai valori non politici. Questa funzione di orientamento fa parte delle dottrine complessive intrattenute dai cittadini. Si ricordi che una concezione politica della giustizia non dipende da alcuna dottrina complessiva particolare, ivi incluse le dottrine agnostiche30.
È perché sono ragionevoli che i soggetti possono fare propri i principi di giustizia a partire dalle rispettive dottrine; come ciò possa avvenire è lasciato alla loro ragionevolezza. Sta alla discrezione dei cittadini trovare il modo in cui realizzare l’equilibrio tra la dottrina comprensiva e la concezione politica, un modo che potrebbe essere diverso in ognuno. Ora, dal momento che la giustificazione politica pro tanto non basta e quella completa non vale per tutti, è necessario un terzo tipo di giustificazione, quella pubblica31. La giustificazione pubblica ha luogo quando tutti i membri ragionevoli della società politica elaborano una giustificazione della concezione politica condivisa inserendola all’interno delle loro concezioni complessive ragionevoli. In tal caso, i cittadini ragionevoli si prendono vicendevolmente in considerazione come possessori di dottrine comprensive ragionevoli che appoggiano quella concezione politica […]. Una questione cruciale in questo contesto è che, mentre la giustificazione pubblica della concezione politica per la società politica dipende dalle dottrine complessive ragionevoli, questa concezione ne dipende soltanto in modo 30 J. Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas”, cit., pp. 63-64 (corsivo aggiunto). La traduzione italiana propone “complessiva” per “comprehensive”, che normalmente è tradotto con “comprensiva”. Si ricordi il passaggio già citato di Liberalismo politico in cui Rawls esprime questo concetto: «Tocca poi a ogni singolo cittadino – e fa parte della sua libertà di coscienza – stabilire quale sia, nel suo pensiero, la relazione tra i valori dell’ambito del politico e altri valori della sua concezione comprensiva» (J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 128). 31 Vd. S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., p. 100.
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indiretto. Vale a dire, il contenuto esplicito di queste dottrine non svolge alcun ruolo normativo nella giustificazione pubblica; i cittadini non guardano al contenuto delle dottrine altrui e rimangono pertanto all’interno dei confini del politico. Piuttosto essi tengono in considerazione e attribuiscono un qualche peso solo al fatto – all’esistenza – del ragionevole consenso per intersezione stesso32.
Si può dire che la giustificazione pubblica non tiene conto del contenuto delle dottrine né del loro eventuale ruolo normativo: i cittadini ragionevoli non guardano al contenuto di verità delle dottrine, né della propria né di quelle altrui, ovvero si astengono dal considerarle più o meno vere, rimanendo all’interno dei confini del politico. Quel che a loro, in quanto cittadini, interessa è, piuttosto, il fatto di poter ragionevolmente concordare su un insieme di valori che individuano l’area dell’intersezione delle loro rispettive dottrine33. Fatte queste osservazioni circa la realizzabilità della giustificazione pubblica sulla base della ragionevolezza degli individui, non si può tacere dei casi in cui la conciliazione tra concezione politica e dottrine comprensive appare ardua se non impossibile, in cui non sembra ci sia possibilità per queste ultime di accogliere e fare propri i principi di giustizia. Ciononostante – dice Rawls – la lealtà a una costituzione può avere il sopravvento su una dottrina comprensiva o su una professione religiosa, senza che ciò equivalga al venire meno alla propria fede e alla sua verità34: «allora coltiviamo la speranza che i cittadini giudichino (sulla base della loro concezione complessiva) che i valori politici di solito (benché non sempre) sono prioritari, ovvero superano in impor32
J. Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas”, cit., p. 64. Sul tema vd. anche J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 300. 33 Per una discussione della teoria rawlsiana della giustificazione vd. tra gli altri T. Scanlon, “Rawls on Justification”, in S. Freeman (a cura di), Cambridge Companion to Rawls, cit., p. 139-67. 34 Sul punto Rawls si esprime in modo simile in “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 323: «assumo, perciò, che le dottrine comprensive ragionevoli accettino, in qualche forma, l’argomentazione politica a sostegno della tolleranza».
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tanza qualsiasi valore non politico che possa entrare in conflitto con essi»35. Questa speranza è fondata sulla ragionevolezza: sono le persone ragionevoli, come si accennava, che si rendono conto che i valori politici sono più importanti degli altri e perciò sono disposte a sacrificare in parte le esigenze delle rispettive dottrine comprensive in nome di questa priorità36. In conclusione: con queste considerazioni Rawls dà risposta alla domanda di Habermas sul significato della ragionevolezza. Il liberalismo politico usa il termine ‘ragionevole’ considerandolo sufficiente al fine di dibattere di questioni fondamentali inerenti alla giustizia; una volta accettato il fatto che il pluralismo è una condizione permanente della cultura pubblica, l’idea del ragionevole è più accettabile di quella della verità come elemento di base di una giustificazione pubblica di un regime costituzionale37. La ragionevolezza si offre come alternativa all’argomento della congruenza esposto nella Teoria della giustizia: è in virtù della ragionevolezza che i cittadini possono fare propria la concezione politica della giustizia a partire da dottrine differenti. Ed è la 35
J. Rawls, “Risposta a Jürgen Habermas”, cit., p. 68 (corsivo aggiunto). Rawls assume il consenso per intersezione come base della giustificazione pubblica ed assume la sua realizzabilità sulla base del generale riconoscimento, da parte dei cittadini, della priorità del giusto sul bene, ovvero della concezione della giustizia sulle loro dottrine comprensive. Lascia ai singoli cittadini – come ribadito più volte – di stabilire la relazione tra i valori politici e gli altri valori delle proprie dottrine comprensive. Ma, come è chiaro, questo è un punto controverso, su cui si sono concentrate le critiche. Ne darò conto nel prosieguo. 36 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 128. Per queste considerazioni rinvio a S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., pp. 100-101. 37 Vd. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 120: «il vantaggio di restare nei limiti del ragionevole è che ci può essere una sola dottrina comprensiva vera mentre quelle ragionevoli […] possono essere molte. Una volta accettato il fatto che, entro istituzioni libere, il pluralismo ragionevole è una condizione permanente della cultura pubblica, l’idea del ragionevole è più accettabile di quella di verità morale come elemento di base per la giustificazione pubblica di un regime costituzionale. Credere che una concezione politica sia vera e che sia, per questo solo motivo, l’unica base valida della ragione pubblica è un atteggiamento esclusivistico e anzi settario, atto con ogni probabilità ad alimentare divisioni politiche».
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ragionevolezza che può suggerire la risposta che il liberalismo politico dà alla questione della stabilità: tale stabilità è ottenuta per le ‘ragioni giuste’ dal momento che la concezione politica è in grado di guadagnare il consenso delle persone ragionevoli; la stabilità del consenso è a sua volta garantita dal suo oggetto, che è una concezione politica ma anche morale, sostenuta per motivi morali, individuati da ciascuno nella propria posizione comprensiva. È attingendo alle rispettive giustificazioni complete le energie morali necessarie per sostenere la concezione politica della giustizia che i cittadini convergono sulla giustificazione pubblica, ciascuno a modo suo.
2.1.3. Un esempio: la questione dell’aborto Un esempio della relazione tra ragionevolezza e giustificazione pubblica è offerto dal caso dell’aborto: su di esso si registra il disaccordo delle dottrine comprensive la cui soluzione è affidata a un ragionamento pubblico ispirato alla ragionevolezza. Rawls spiega questo punto in una celebre nota di Liberalismo politico38: consideriamo, a titolo di esempio, la tormentata questione dell’aborto […]. Supponiamo [...] di esaminare la questione dal punto di vista di questi tre importanti valori politici: il rispetto dovuto alla vita umana, la riproduzione ordinata della società umana (compresa una qualche forma di famiglia) nel tempo e l’eguaglianza delle donne in quanto cittadini uguali [...]. Io credo che qualsiasi equilibrio ragionevole fra questi tre valori dia a una donna il diritto, debitamente qualificato, di decidere se interrompere o no la gravidanza nel primo trimestre, e la ragione è che in questa prima fase della gravidanza l’uguaglianza delle donne è dominante e questo diritto è necessario per darle sostanza e forza […]. Qualsiasi dottrina comprensiva la quale porti ad un equilibrio dei valori politici che escluda questo diritto, debitamente qualificato, nel primo trimestre è, in quanto lo esclude, irragionevole, e – a seconda della sua formulazione particolare 38
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 204-209.
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– può anche essere crudele e oppressiva, per esempio se nega del tutto i casi di stupro e incesto. Perciò, assumendo che la questione sia un elemento costituzionale essenziale o un problema di giustizia fondamentale, andremmo contro l’ideale della ragione pubblica se votassimo in base a una dottrina comprensiva che negasse questo diritto39.
Queste affermazioni a sostegno della priorità della libertà di scelta della donna suscitarono, all’uscita di Liberalismo politico, molte polemiche, specie per la dichiarazione di ‘irragionevolezza’ che Rawls riserva a coloro che, diversamente da lui, considerano prioritario il diritto del feto alla vita. Benché Rawls si sia successivamente ‘scusato’ – nel saggio sulla ragione pubblica del 199740 – per l’uso di espressioni che potevano, in effetti, essere avvertite come offensive, la sua replica è in direzione di una riaffermazione della tesi per cui, in assenza di posizioni incontestabili intorno allo statuto dell’embrione, alla ragione pubblica spetta il compito di prescrivere a ciascun interlocutore di avvalersi, nell’ambito della discussione, solo di ragioni condivisibili da tutti i cittadini ragionevoli. Quel che Rawls si limita a fare è riconoscere che la ragione pubblica, di fronte a casi come l’aborto, rischia di condurre a «punti morti» e «di non riuscire a portare a decisioni»41. Sulla base di questa ammissione – continua Rawls – e dato il fatto che non c’è un’unica idea di che cosa sia l’embrione e di come vada trattato, specie a confronto con altre esigenze quali quella della libertà delle donne, tutti i cittadini ragionevoli accettano l’esito di una votazione come vincolante per tutti secondo la regola della maggioranza42. A riguardo aggiunge: è possibile, naturalmente, che alcuni respingano certe decisioni legittime. Può accadere, per esempio, che la decisione di riconoscere il diritto di aborto sia contestata dai cattolici. Possiamo immaginare che essi presentino nella ragione pubblica un’argo39 40 41 42
Ivi, p. 344, nota 32. J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit. Ivi, p. 314. Ivi, p. 316.
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mentazione che esclude un tale diritto, ma che non riescano a ottenere la maggioranza. E tuttavia, essi non devono esercitare in prima persona il diritto di aborto. Ciò che essi possono fare è riconoscerlo in quanto appartenente al diritto legittimo promulgato in conformità con le istituzioni politiche legittime e la ragione pubblica, e pertanto evitare di opporsi a esso con la forza. Resistere in modo ostinato è irragionevole: significa cercare di imporre una dottrina comprensiva che la maggioranza dei cittadini che seguono la ragione pubblica non accetta, non senza ragioni. Naturalmente, i cattolici non perdono per questo la facoltà di continuare a proporre argomenti contrari al diritto di aborto43.
Ora, se esito della votazione è una legge che riconosce la libertà di scelta della donna come valore politico prevalente, ciò dipende dal fatto – spiega Rawls – che si è attuato un ragionevole bilanciamento dei valori in gioco: la legittimità di tale legge è basata su un’idea del politicamente ragionevole. In tutto questo niente ha a che fare con la verità o con la falsità. Assumere la priorità della libertà della donna non significa che la posizione contraria a favore della priorità della vita embrionale sia meno vera o per nulla vera. Nel confronto pubblico che precede la promulgazione di una legge nessuno è costretto a rinunciare alla verità della propria posizione morale; ciascuno è, invece, chiamato, nell’ambito della ragione pubblica, ad accettare di sostituirla con la ragionevolezza. L’obiettivo di Rawls è sempre lo stesso: non difendere una verità morale ma soltanto giustificare pubblicamente istituzioni politiche e sociali.
2.2. Aporie della ragionevolezza. Critiche e repliche 2.2.1. Reciprocità condizionale e legittimità come accettazione La nozione di ragionevolezza rimane, nonostante l’ampiezza delle spiegazioni di Rawls, molto controversa. Le ragioni di ciò sono in parte le stesse che hanno suscitato le critiche al consenso per 43
Ibid.
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intersezione, delle quali s’è dato conto nel precedente capitolo. Si tratta, in generale, di un’accusa di essere una nozione elusiva: senza radicamento in una verità, la ragionevolezza si priva di una funzione normativa e può, al più, spiegare la condivisione di alcune priorità all’interno di un gruppo omogeneo di riferimento. Come già denunciato da Habermas, il significato della ragionevolezza oscilla tra normatività e descrizione, tra il suo rappresentare uno standard morale o una regola della vita associata e l’essere la semplice espressione di un coagulo di interessi che si autocertificano come valori44. Questa obiezione è approfondita da Estlund, che denuncia l’infondatezza della nozione rawlsiana di ragionevolezza45. La tesi generale di Estlund è che assimilare la giustificazione di una regola alla sua accettabilità e l’accettabilità all’accettazione da qualificati punti di vista genera l’insularità di gruppi autoritativi; la spiegazione è la seguente. Si parta dall’affermazione di Rawls secondo la quale nessuna premessa è ammissibile come base della giustificazione pubblica a meno che non sia accettabile presso quel gruppo di cittadini che sono definiti ragionevoli. Tale requisito di accettazione, che è qualificata dal riferimento al gruppo dei “ragionevoli”, esclude la necessità di un’accettazione da parte di altri gruppi. L’accettabilità non richiede cioè che vi sia accettazione reale da parte di tutti i gruppi, conservando così una valenza normativa. Ora – dice Estlund – se il requisito di accettazione deve valere riflessivamente, esso prescrive che nessuno lo violi; si autoesclude perciò nel caso in cui qualcuno non lo condivida. Occorre, dunque, ammettere un ‘requisito di 44
Scrive Habermas: «qui sono possibili due diverse interpretazioni. La prima sta nell’intendere ‘ragionevole’ – nel senso della ragion pratica – come equivalente a ‘moralmente vero’. Si tratterebbe allora di un concetto di validità analogo alla ‘verità’ […]. La seconda interpretazione sta nell’intendere ‘ragionevole’ come se corrispondesse a ‘meditato’, nel contesto di opinioni discutibili sulla cui verità non possiamo ancora pronunciarci in via definitiva […]. Questa sembra la lettura che Rawls preferisce» (J. Habermas, “Conciliazione tramite uso pubblico della ragione”, cit., p. 78). 45 D. Estlund, Democratic Authority, cit., pp. 43-61.
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insularità’ secondo il quale esiste un gruppo determinato presso il quale il requisito di accettazione deve essere sia accettabile sia accettato. Dal momento che Rawls nega uno standard esterno di oggettività, ne segue che non un solo gruppo determinato bensì molti altri gruppi determinati si propongano come gruppi di giustificazione o autoritativi. L’approccio di accettabilità giustificata decade dal momento che, non esistendo un rinvio alla verità, non possiamo discriminare tra gruppi di giustificazione. La conclusione di Estlund è che, data l’evidente pretenziosità di un’autolegittimazione da parte dei gruppi autoritativi in assenza di verità, pretesa che potrebbe essere invocata da ciascuno, si deve fare appello alla verità oltre che alla ragionevolezza come qualificazione del punto di vista da cui stabilire un principio oggettivo di accettabilità. Più specificamente, si tratta di assumere che un individuo accetti un requisito di accettazione che includa a sua volta un elemento che lo qualifichi come portatore di un punto di vista qualificato. Venendo alla nozione rawlsiana di ragionevolezza come equivalente dell’accettabilità da parte dei “ragionevoli”, è necessario ammettere un principio di qualificazione secondo il quale il rifiuto eventuale da parte dei cittadini ragionevoli di una data istituzione giusta non rende quest’ultima ingiustificata. Nel resoconto di Rawls, invece, non c’è un modo per scegliere una specificazione dei “ragionevoli” al di fuori di una specificazione insulare. Si capisce, dunque, come l’ammissibilità nella giustificazione pubblica definita nei termini di accettabilità da parte dei “ragionevoli” implichi una petizione di principio. Quel che si deve invocare, ancora una volta, è un elemento veritativo esterno – potremmo dire un’idea di ragionevolezza più forte, una qualifica morale del cittadino ragionevole indipendente dal suo essere parte di un gruppo insulare di autorizzazione – che impedisca al ragionamento rawlsiano di cadere in circolo e risultare, ai fini della giustificazione, inconsistente46. 46 Sull’insularità del gruppo dei “ragionevoli” cfr. D. Estlund, “The Insularity of the Reasonable: Why Political Liberalism Must Admit the Truth”, cit. Interessante, a questo riguardo, la risposta che Quong dà a Estlund a proposito
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Di confusione tra dimensione normativa e dimensione descrittiva, in assenza di un radicamento veritativo della ragionevolezza, parla Onora O’Neill; secondo l’autrice l’errore di Rawls è non aver distinto tra un’accezione motivazionale e un’accezione modale della ragionevolezza: se nel primo caso essa rinvia alle ragioni che i cittadini accetteranno per condividere la concezione della giustizia, nel secondo caso si punta alle ragioni che possono essere accettate da tutti, indipendentemente da quel che poi essi decideranno concretamente di fare. In assenza di una chiara distinzione tra accettazione e accettabilità, la nozione di ragionevolezza è più o meno valida a seconda di quanto le persone sono disposte a riconoscersi reciprocamente come ragionevoli. L’accettabilità dei principi – la loro ragionevolezza – finisce per dipendere dalle circostanze concrete della loro accettazione; ma, resasi dipendente dall’accettazione, la ragionevolezza diventa ostaggio di quel che gli individui pensano concretamente. Se è così – continua O’Neill – si deve ammettere che la ragionevolezza non esprime l’idea della reciprocità che sta alla base della legittimità liberale, ma è piuttosto indice di una ‘reciprocità condizionale’ nel senso di dipendente dalle condidella critica di insularità al gruppo autoritativo dei ragionevoli (vd. J. Quong, Liberalism Without Perfection, cit., pp. 235-40): secondo Quong, nella ricostruzione di Estlund permane la sovrapposizione tra accettabilità e accettazione, peraltro imputata a Rawls, termini che invece Rawls non confonderebbe dal momento che la giustificazione pubblica qualificata non risiede nell’accettazione dei “ragionevoli” ma nelle loro ragioni morali comprensive a sostegno della concezione politica della giustizia. Su questa difesa di Quong tornerò nel seguito. È critico nei confronti di Estlund anche A. Kaufman, “Rawls’s Practical Conception of Justice: Opinion, Tradition and Objectivity in Political Liberalism”. Journal of Moral Philosophy, 3, 1, 2006, pp. 23-43. Kaufman considera valido l’argomento rawlsiano sottolineando come la ragionevolezza per Rawls sia la qualità oggettiva dei “ragionevoli” in quanto emerge da adeguata riflessione svolta sulla base di giuste ragioni. Sul necessario rinvio alla verità per poter disporre di uno standard di ragionevolezza che non si limiti all’autoproclamazione, vd. M. Nussbaum, “Political Objectivity”. New Literary History, 32, 4, 2001, pp. 883-906: 895; vd. infine C. Larmore, “The Moral Basis of Political Liberalism”, in Id., The Autonomy of Morality, Cambridge: Cambridge University Press, 2008, pp. 139-67.
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zioni in cui essa può essere realizzata. Tale condizionalità, però, mina alle basi la valenza etica della ragionevolezza, il suo essere un vincolo di tipo morale: non è detto, infatti, che ciò su cui non si acconsente non sia ragionevole né, per converso, non è detto che ciò su cui si può in condizioni opportune acconsentire sia ragionevole47. Un altro gruppo di critiche punta al nesso tra ragionevolezza e legittimità; quelle più significative sono sollevate da Raz e da Boettcher. Secondo Raz non è chiaro perché la legittimità debba dipendere dal solo accordo dei “ragionevoli”. Rendere la legittimità dipendente dalla disponibilità di un consenso, peraltro, fa della legittimità qualcosa di irraggiungibile, dal momento che non esiste un tale consenso. Secondo Raz, l’errore commesso da Rawls è quello di identificare la legittimità e l’accettazione da parte di un gruppo soltanto di cittadini, quelli che chiama “ragionevoli”, laddove la legittimità liberale richiede l’accettazione unanime da parte di tutti e non solo di alcuni. La sovrapposizione di legittimità ed accettazione è dovuta al modo in cui Rawls mostra di concepire il consenso per intersezione: un consenso attuale – dice Raz – e non già ipotetico o razionale. A quest’ultimo bisogna invece puntare – conclude – laddove è certamente desiderabile che le persone concordino su una costituzione giustificata alla luce di criteri di giustificazione indipendenti dalla effettiva accettazione48. 47 O. O’Neill, “Political Liberalism and Public Reason”, cit., p. 414. Sul punto vd. anche B. Barry, “John Rawls and the Search for Stability”, cit., pp. 888-90. La condizionalità della ragionevolezza è messa in risalto anche da R. Bellamy, M. Hollis, “Liberal Justice: Political and Metaphysical”. Philosophical Quarterly, 45, 178, 1995, pp. 1-19: 6; l’imperativo di cooperare è un imperativo ipotetico più che un imperativo morale vero e proprio, dal momento che i termini della cooperazione sono quelli che ciascun partecipante all’impresa cooperativa può ragionevolmente accettare, a condizione che anche gli altri facciano altrettanto. Parla di ambiguità tra descrizione empirica della ragionevolezza e sua potenza normativa e motivazionale anche M. Moore, “On Reasonableness”. Journal of Applied Philosophy, 13, 2, 1996, pp. 167-77. È necessario – afferma l’autrice – che della ragionevolezza si riconosca la fondazione morale. 48 J. Raz, “Disagreement in Politics”, cit., pp. 33-37.
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L’argomento di Boettcher è in parte simile a quello di Raz. Boettcher insiste sulla circolarità dell’argomento che connette ragionevolezza a legittimità: se uno degli obiettivi del principio di legittimità, e della giustificazione pubblica, è di determinare come il potere possa essere esercitato in modo non arbitrario, è pur vero che quel principio non può dipendere da una nozione infondata e, quindi, arbitraria di ragionevolezza. È come dire che il principio di legittimità dipende dalla ragionevolezza la quale è, a sua volta, definita in funzione del suo dare risposta al problema della legittimità. È per questa inconsistenza teorica che occorre rivedere la nozione di ragionevolezza dotandola, in primo luogo, di fondamenta, ovvero collegandola a ben solidi ideali morali e politici o, almeno, esplicitando le idee di eguaglianza e libertà che rimangono implicite in essa49. Simili considerazioni sono sviluppate da Mahoney quando sostiene la necessità di un radicamento della ragionevolezza in una teoria morale; questo è l’unico modo per difenderla se non ci si vuole limitare semplicemente ad ‘evocarla’50. Occorre, perciò, uscire dall’illusione dell’indipendenza della ragionevolezza dalla teoria morale e adottare il punto di vista di una verità filosofica che permetta di argomentare a favore della priorità della ragionevolezza sulla razionalità dei singoli interessi, e di valutarne la compatibilità con la giustizia. Complementari a queste critiche sono quelle che accusano la ragionevolezza rawlsiana non già di essere senza basi teoriche, di cui invece avrebbe bisogno per uscire dall’impasse della circo49
J. W. Boettcher, “What is Reasonableness?”, cit. Sulla necessità di fondare la ragionevolezza in una teoria morale si sono espressi numerosi autori: P. De Marneffe, “Rawls’s Idea of Public Reason”. Pacific Philosophical Quarterly, 75, 1994, pp. 232-50; S. Maffettone, “Political Liberalism. Reasonableness and Democratic Practice”, cit.; S. P. Young, “The (Un)Reasonableness of Rawlsian Rationality”. South-African Journal of Philosophy, 24, 4, 2005, pp. 308-20; di Young si veda anche “A Utopian Fallacy? Political Power in Rawls’s Political Liberalism”. Journal of Social Philosophy, 30, 1, 1999, pp. 174-93. 50 Vd. J. Mahoney, “Public Reason and the Moral Foundation of Liberalism”. Journal of Moral Philosophy, 1, 3, 2004, pp. 311-31.
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larità argomentativa, ma di assumere senza dichiararla una base morale forte, di presupporre cioè una premessa normativa che resta nascosta per non contraddire il proposito dell’astensione dalla verità, filosofica o morale che sia. Parlando di pluralismo ragionevole – dice per esempio Talisse – Rawls assume che la realtà plurale includa elementi di ragionevolezza, sia cioè una realtà tale da presentare una sorta di omogeneità, una condivisione dei fondamenti della giustizia sui quali si realizza il consenso. Dire questo, però, implica ammettere una morale comprensiva preesistente, una moralità diffusa entro la società democratica che si esprime pubblicamente nel comune sostegno ai valori liberali51. Le critiche fin qui esposte hanno in comune la convinzione che non si possa parlare adeguatamente di ragionevolezza una volta che la si sia privata del suo rapporto ‘naturale’ con la verità. Resa indipendente dalla verità, la ragionevolezza è ben lungi dall’essere lo standard cui fare riferimento per poter rispondere alla richiesta di legittimità; né sembra sufficientemente attrezzata per poter fungere da disposizione o attitudine capace di motivare i cittadini ad assumere comportamenti pubblici giustificati. Ora, per fare il punto su queste obiezioni è utile richiamare le ragioni per le quali Rawls ha introdotto il concetto della ragionevolezza: perché le decisioni politiche siano legittime, cioè giustificate sulla base di termini che tutti sono disposti a condividere, è necessario che tutti i cittadini assumano un atteggiamento di ragionevolezza, per cui, mettendo da parte le proprie ragioni private riferibili esclusivamente alle dottrine comprensive, sono in grado di offrire ragioni condivisibili da tutti. Il riferimento alla ragionevolezza deve permettere, agli occhi di Rawls, di individuare le ragioni che 51 Talisse ritiene che quella di Rawls non sia affatto una teoria che sta ‘in superficie’: al contrario, è una teoria che procede a partire da assunzioni impegnative proprio come quella della ragionevolezza e dei suoi dissimulati fondamenti. Vd. R. Talisse, “Rawls on Pluralism and Stability”. Critical Review, 15, 1-2, 2003, pp. 173-94: 177.
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le persone ragionevoli possono fare proprie, e che chiama oggettive, riducendo così le loro divergenze: «dire che una convinzione politica è oggettiva è dire che esistono ragioni, specificate da una concezione politica ragionevole, reciprocamente riconoscibile e che soddisfa i requisiti essenziali, sufficienti a convincere ogni persona ragionevole della sua ragionevolezza»52. Per quanto sia chiaro l’intento rawlsiano di trovare nella ragionevolezza la premessa per la legittimità liberale, non si può non avvisare, in questo resoconto dell’oggettività delle ‘convinzioni politiche’, un rischio di circolarità: esso consiste nel fatto che una concezione politica è considerata oggettiva perché è ragionevole, ed è ragionevole perché si fonda su un ordine plausibile di ragioni; tale ordine di ragioni è plausibile perché è ragionevole, ed è ragionevole perché sostenuto da persone ragionevoli53. Sembra che la nozione di ragionevolezza in Rawls non esibisca caratteristiche intrinseche, riferendosi alla fattualità dell’accordo tra persone ragionevoli disposte alla mutua cooperazione. Se, in altre 52
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 113. Il problema di fondo è quello del costruttivismo politico e dell’evoluzione che il costruttivismo come giustificazione dei principi subisce dalla Teoria della giustizia al Liberalismo politico. Se nella Teoria della giustizia Rawls offre una giustificazione coerentista della posizione originaria, affermando che i principi di giustizia sono in equilibrio riflessivo con i ‘nostri’ giudizi ponderati, laddove quel ‘nostri’ rimanda potenzialmente a qualsiasi soggetto razionale, in Liberalismo politico ridimensiona oggetto e destinatari della giustificazione (cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., “Lezione III: Il costruttivismo politico”, pp. 89-120). Nello specifico, sebbene mantenga la procedura costruttivistica dei principi, ne restringe la portata affermando che si tratta di un’idea soltanto politica, indipendente da una teoria morale, che può ottenere il consenso per intersezione di teorie morali ragionevoli. Vd. sul punto O. O’Neill, “Constructivism in Rawls and Kant”, in S. Freeman (a cura di), Cambridge Companion to Rawls, cit., pp. 347-67: l’autrice accusa la ‘ristrettezza’ del costruttivismo rawlsiano, specie a confronto con quello kantiano, in quanto insiste su una giustificazione ‘interna’ ad una società delimitata dalla nozione della ragionevolezza, tale da non poter essere indirizzata a persone all’esterno di essa. Il problema di Rawls è aver congedato l’idea di ragione pratica kantiana trascendentale per assumere un’idea contestualizzata di ragionevole, per cui la ‘costruzione’ avviene a partire da norme e credenze condivise. 53
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parole, è vero che Rawls sostiene che i cittadini devono ragionevolmente esibire ragioni oggettive per le loro scelte pubbliche, che ragionevolmente si aspettano che gli altri possano altrettanto ragionevolmente accettare, di fatto ci sta dicendo che non esistono criteri a priori per dire che cosa è ragionevole e che cosa non lo è, rimandandoci alla loro specificazione sia da parte di chi fornisce sia da parte di chi accoglie quelle ragioni. In assenza di qualità intrinseche per dire che le persone sono ragionevoli, ciò che esse sostengono è qualcosa che rinvia al senso comune. Se, ancora una volta, è condivisibile l’obiettivo che Rawls persegue proponendo l’idea del politicamente ragionevole come guida delle decisioni pubbliche, una volta sospeso il giudizio sulle verità di ognuno per rispetto del pluralismo ragionevole, è pur vero che un ancoraggio della nozione di ragionevolezza a uno standard di verità morale avrebbe contribuito alla chiarezza e alla solidità della teoria.
2.2.2. Uscire dalla circolarità: legittimità come ‘legittimazione’ Come uscire da questa circolarità? Una soluzione possibile viene dall’interpretazione proposta da Maffettone del concetto di legittimità, un’interpretazione che serve da integrazione all’idea che Rawls sembra avere in mente ma che non esplicita. Maffettone propone di chiamare la legittimità à la Rawls con il termine «legittimazione»54. La ‘legittimazione’ permette di concepire la legittimità non solo in senso descrittivo ma anche normativo; la ‘legittimazione’ è intermedia tra la legittimità – che rinvia alla conformità a procedure – e la giustificazione – che rende ragione di un’istituzione. La legittimazione è più della semplice legittimità (la legittimità in senso procedurale), dal momento che contiene un elemento normativo oltre che descrittivo, facendo riferimento a norme condivise e, in tal senso, facendosi più simile alla giusti54
137.
S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., in particolare pp. 16-17, 101-103,
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ficazione. L’intento di Maffettone è allora quello di distinguere più nettamente di quanto Rawls non faccia tra livello empirico e livello normativo della questione in modo da mettere in rilievo l’accezione normativa di legittimità. Se Rawls avesse precisato in questo senso la sua idea di legittimità presentandola come una nozione normativa – dice in sostanza Maffettone, richiamando alcune precedenti considerazioni di Simmons55 – avrebbe potuto distinguere tra un’istanza normativa tout court e un’istanza di normatività riferita al contesto56, in modo da rimediare anche 55 Vd. A. J. Simmons, “Justification and Legitimacy”, cit., p. 759: Simmons accusa Rawls di non distinguere adeguatamente tra giustificazione e legittimazione, intesa quest’ultima nel senso procedurale tradizionale. Sembra che con la nozione di giustificazione pubblica Rawls colleghi la giustificazione (che comporta l’esplicitazione di ragioni morali a sostegno delle istituzioni e non solo il rispetto delle procedure) con la legittimità (per cui si tratta della capacità di soddisfare requisiti procedurali). La giustificazione pubblica – aggiunge Simmons – così come Rawls la intende sembra svolgere anche un ruolo di motivazione, mirando a individuare un terreno intermedio tra appelli impersonali a ciò che è oggettivamente giusto e la legittimità richiesta personalmente attraverso il consenso di ciascuno. Vd. anche A. J. Simmons, Justification and Legitimacy, cit. Che in Rawls la giustificazione fornisca motivazione è tesi sostenuta, benché a scopo ‘apologetico’, da J. Quong, “Political Liberalism Without Skepticism”. Ratio, 20, 2007, pp. 320-40. Di avviso opposto è S. Cushing, “Justification, Legitimacy, and Social Embeddedness: Locke and Rawls on Society and the State”. Journal of Value Inquiry, 37, 2003, pp. 217-31; l’autore giudica l’intersezione tra giustificazione e legittimazione come una «confusione». 56 Su questo punto vd. M. Walzer in Spheres of Justice. A Defence of Pluralism and Equality, New York: Basic Books, 1983 [trad. it. Sfere di giustizia, Milano: Feltrinelli, Milano, 1987]: Walzer, distinguendo tra «normatività assoluta» e «normatività contestuale», scrive: «la mia analisi è radicalmente particolaristica: non pretendo di essere distaccato dal mondo sociale in cui vivo. Uno dei modi, forse quello originario, di iniziare a fare filosofia consiste nell’uscire dalla caverna, abbandonare la città, scalare una montagna e creare per se stessi, cosa impossibile per la gente comune, un punto di vista oggettivo ed universale: e allora il terreno della vita di tutti i giorni sarà descritto da lontano, perderà ogni tratto particolare ed assumerà una forma generale. Io invece voglio restare nella caverna, nella città, al livello del terreno. Un altro modo di fare filosofia è di interpretare per i nostri concittadini il mondo dei significati che abbiamo in comune» (p. 10). Con questa precisazione Walzer prende le distanze dalla Teoria della giustizia, con parole che potrebbero spiegare, anche se solo parzialmente, la svolta pratica attuata successivamente da Rawls. Sulla questione
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alla circolarità dell’argomento della ragionevolezza. Sulla scia di questa distinzione si sarebbe, inoltre, meglio chiarita la portata giustificativa del consenso per intersezione, non già mera espressione di un’accettazione fattuale o ex post di contenuti già dati, come dicono le critiche, bensì come modello di giustificazione pubblica di questi medesimi contenuti. Quel che la giustificazione pubblica presuppone è, allora, una «legittimazione normativa», che è appunto «un’accettazione diffusa delle norme per le giuste ragioni nell’ambito di un gruppo di riferimento socialmente e politicamente identificato»57. Se allora la giustificazione non basta a garantire stabilità, data la molteplicità delle giustificazioni, neppure la legittimità in senso procedurale basta per dire che un certo potere è giustificato, potendo infatti essere esercitato per le ‘ragioni sbagliate’. Non sarebbe in alcun modo legittima, nel senso rawlsiano del termine, quell’istituzione che si limitasse ad aggregare il consenso dei cittadini a prescindere dal suo ispirarsi ai contenuti essenziali di una concezione della giustizia. In conclusione, l’idea di Maffettone è che si possa meglio difendere l’idea rawlsiana di legittimità parlando di legittimazione normativa; così facendo, le accuse di contestualismo vengono a cadere, data la valenza normativa della legittimità, benché si tratti di una normatività situata, non di una giustificazione valida universalmente. Del resto Rawls non ha mai detto che l’esistente è un valore, semmai è partito dall’esistente per costruire valori, mostrando come ciò che ha valore è esito di un certo modo di concepire la convivenza58. del rapporto tra normatività e verità vd. anche M. Walzer, “Philosophy and Democracy”. Political Theory, 9, 1981, pp. 379-97. Ora, la riflessione di Walzer sul rapporto tra universalismo e contestualismo è solo in parte adattabile al caso di Rawls: se è innegabile che anche Rawls parta dalla constatazione di valori condivisi, mi sembra che suo intento sia proporre una lettura di tali valori che ne enfatizzi la normatività ben oltre la contingenza della loro origine. Quanto egli riesca in questo intento è precisamente ciò che è qui in discussione. 57 S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., p. 102. 58 Altra questione, ovviamente, è quella che riguarda la tenibilità in generale di questa idea costruttivistica di giustificazione politica.
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Sottolineare l’elemento di novità della nozione di legittimazione permette di comprendere ancor meglio l’esigenza rawlsiana della stabilità: la legittimazione diventa un requisito centrale nelle condizioni della società non-ideale in cui i criteri di giustizia non sono accettati uniformemente. Rawls non cessa di considerare giustificata la teoria della giustizia, ma si rende conto che una posizione filosoficamente giustificata, cioè giustificata in astratto, non è detto lo sia anche pubblicamente, ovvero legittimata presso coloro cui si riferisce59. Per questo rinvia al consenso per intersezione per spiegare come ciascun individuo possa, a partire dalla propria concezione morale, far propri i principi; il consenso per intersezione è tanto più importante quanto più mette in luce la visione che il Rawls di Liberalismo politico ha della giustificazione come implicante la legittimazione: non c’è solo il liberalismo come la teoria comprensiva della giustizia come equità, ma c’è anche un’idea del liberalismo che ci suggerisce che esistono pratiche democratiche cui nessuna persona ragionevole se la sentirebbe di rinunciare, in quanto parte della cultura e della storia in cui vive. Nello spazio che si crea tra i giudizi individuali che rinviano alle dottrine comprensive e il consenso basato sulla legittimazione democratica si danno le condizioni del rispetto reciproco e della fiducia tra i cittadini, la loro disponibilità a darsi reciprocamente ragioni in virtù della ragionevolezza60. Proprio la ragionevolezza permette allora di unificare l’appello impersonale a ciò che è oggettivamente giusto e la legittimità 59
S. Freeman, Rawls, cit., pp. 325 ss. Secondo Freeman Rawls riesce nell’intento di realizzare il passaggio dalla giustificazione astratta della giustizia, quella che lui chiama filosofica, alla giustificazione pubblica, attraverso la scoperta dei valori politici che, in quanto comuni, svolgono la funzione di motivare coloro che sono in sostanziale disaccordo rispetto all’idea di giustizia. Nel linguaggio usato da Rawls nella “Risposta a Jürgen Habermas”, cit., la giustificazione ‘in senso stretto’ è la giustificazione completa laddove la legittimità è quella garantita dalla giustificazione pubblica. 60 S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., p. 121; cfr. anche S. Maffettone, Rawls, cit., p. 249.
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‘personale’ conquistata attraverso un consenso61, di garantire cioè la compatibilità di giustificazione e legittimazione. Si potrebbe dire che, nonostante il pluralismo delle giustificazioni, esiste un’unica legittimazione, pensata nei termini di una convergenza su norme morali diffuse. Messa la questione in questi termini, e così interpretata la nozione rawlsiana di legittimità secondo un’accezione che Rawls non esplicita, si può concordare con Quong62 quando afferma che il consenso per intersezione andrebbe interpretato – precisando e un po’ forzando la lettura che ne dà lo stesso Rawls – come il punto di partenza più che come il punto di arrivo di un processo giustificativo, quello che assume come premessa la ragionevolezza degli individui, la loro disponibilità a cooperare e a fornirsi reciprocamente ragioni, a partire da quel terreno comune normativo rappresentato dalle idee diffuse nella cultura politica pubblica. La ragionevolezza sta alla base del consenso per intersezione ma è anche, in un certo senso, il prodotto della stabilità generata dal consenso: istituzioni stabili sono in grado di rinforzare una cultura pubblica comune che mostra di essere non solo la premessa ma anche la conseguenza della ragionevolezza. Ciò significa – prosegue Quong – ribadire la valenza ideale che Rawls attribuisce al consenso per intersezione: l’idea di Rawls non è esplicitare quel che semplicemente esiste come oggetto di un mero fattuale accordo, ma è quella di indagare il modo in cui le dottrine comprensive possono giungere ad affermare il ragionevole come base della giustificazione pubblica63. Ora, fatte queste integrazioni a favore di una migliore comprensione del concetto di legittimità secondo la proposta in61
A. J. Simmons, “Justification and Legitimacy”, cit., p. 762. J. Quong, Liberalism Without Perfection, cit., pp. 180-88. 63 Sulla normatività del consenso per intersezione vd.: C. McKinnon, Liberalism and the Defence of Political Constructivism, New York: Palgrave, 2002, p. 7; S. Lecce, Against Perfectionism. Defending Liberal Neutrality, Toronto: University of Toronto Press, 2008, p. 218; P. Graham, Rawls, Oxford: Oneworld, 2007, pp. 133-35. 62
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terpretativa avanzata da Maffettone, va riconosciuto che Rawls non fa tutte queste distinzioni; non distingue, come Maffettone prontamente segnala, tra legittimità e legittimazione, né precisa se, parlando di giustificazione pubblica, si stia parlando di accettabilità piuttosto che di accettazione, se si stiano facendo considerazioni sul piano normativo piuttosto che su quello descrittivo. A complicare ulteriormente il discorso, come sappiamo, contribuisce l’ambivalenza della nozione di ragionevolezza e la debolezza della sua valenza normativa; quel che certamente questa idea identifica è un’attitudine pubblica, una disponibilità, un orientamento morale-politico dei cittadini a prendersi reciprocamente sul serio, per cui ognuno fa lo sforzo di dare ragioni del potere che individualmente esercita per quanto è di sua competenza. Anche quando non sono d’accordo sul tipo di giudizio da dare a una regola o a un’istituzione, i cittadini sono d’accordo nel fornirsi reciprocamente ragioni a sostegno del loro giudizio. L’accordo verte, in buona sostanza, sul riconoscimento che il potere vada giustificato. La ragionevolezza è alla base dell’accordo e lo rende possibile. Ha ragione Maffettone quando dice che la base della ragionevolezza sta, a sua volta, nella partecipazione dei cittadini al gioco democratico: «si diventa ragionevoli perché si coglie lo spirito della democrazia, che per Rawls è costituito essenzialmente da uno scambio continuativo di ragioni tra cittadini consapevoli degli oneri del giudizio e muniti di un solido rispetto per gli altri»64.
2.2.3. Critiche ai vincoli epistemici della ragione pubblica Occorre ora approfondire il ruolo degli oneri del giudizio all’interno della giustificazione pubblica. Che cosa la giustificazione pubblica richiede è noto: ciascuno è in grado, in virtù della ragionevolezza, di fare propria la medesima concezione politica a partire però dalla propria dottrina comprensiva. Come tale 64
S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., p. 109.
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‘appropriazione’ sia possibile spetta ai cittadini decidere. Ora, al di sotto di questa ‘abilità di appropriazione’ sta la facoltà, propria delle persone ragionevoli, di sostituire nella discussione pubblica il vero con il ragionevole; la verità, pure questo è noto, non è oggetto della ragione pubblica. Ricordiamo, ancora, come essere ragionevoli significhi essere disponibili ad accettare la realtà del dissenso ragionevole, che è tale nella misura in cui esso è esito della ragione nel suo libero esercizio. Per accettare la realtà del dissenso ragionevole occorre riconoscere gli oneri del giudizio, ovvero riconoscere che, a causa di questi, non si è d’accordo né si può esserlo nell’atto di giudicare, nonostante la buona fede di coloro che giudicano. Riconoscere gli oneri del giudizio, ricordiamo infine, non significa mettere in discussione la verità della propria dottrina né crederla, per via degli ostacoli che si incontrano mettendosi a confronto con gli altri su temi di natura politica, meno vera. Scrive Rawls: la conseguenza evidente degli oneri del giudizio è che le persone ragionevoli non sostengono tutte la stessa dottrina comprensiva; inoltre ognuna di esse riconosce che tutti, lei compresa, sono ugualmente soggetti a questi oneri […]. Dunque non è irragionevole, in generale, sostenere una qualsiasi fra un certo numero di dottrine comprensive ragionevoli; noi riconosciamo che la nostra non ha né può avere titoli di validità speciali, a parte i meriti che queste persone le riconoscono […]. Poiché le dottrine ragionevoli sono molte, l’idea del ragionevole non impone né a noi né ad altri di accettarne una in particolare – anche se ovviamente possiamo farlo65.
Attorno al riconoscimento degli oneri del giudizio come requisito della ragionevolezza si è sviluppato un ampio dibattito; alcuni hanno contestato la plausibilità di tale riconoscimento, altri hanno visto alla base di tale riconoscimento una forma di scetticismo, poiché non c’è sospensione della verità che non equivalga alla sua negazione. Altri, ancora, si sono scagliati con65
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 66 (corsivo aggiunto).
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La verità sospesa
tro gli esiti discriminatori della ragione pubblica a carico dei cittadini credenti: la ‘divisione epistemica’66 imposta dalla ragione pubblica li costringe intollerabilmente al silenzio su ciò che è fondamentale per loro, come nel caso dell’aborto. A queste obiezioni dalla ‘parte dei credenti’ dedico il prossimo paragrafo. Parto ora dalle critiche all’argomento degli oneri del giudizio, valutando per prima, anche questa volta, quella mossa da Raz. Nel celebre saggio del 199067 Raz confronta le due versioni di Nagel e di Rawls dell’argomento a favore di una ‘restrizione epistemica’ da adottare nella discussione pubblica68. In particolare, Nagel ritiene che non si possa fare appello a ragioni religiose nel giustificare il potere politico. Si pone quindi la questione se ci sia una qualche forma di imparzialità che renda plausibile l’esclusione delle ragioni di fede dalla base di legittimità delle istituzioni politiche. La risposta è che tale imparzialità è assicurata dall’adozione di un ‘vincolo epistemico’ da applicare agli argomenti che possono essere fatti valere entro la discussione pubblica. Si tratta di adottare una sorta di duplice sguardo con cui ci riferiamo alle nostre credenze: da credenti, le sosteniamo e le difendiamo come vere, anzi perché vere («se crediamo a qualcosa – scrive Nagel – crediamo che sia vero»69); da cittadini 66
Di ‘divisione del lavoro giustificativo’, per dire qualcosa di simile a ‘divisione epistemica’, parla S. Mendus, Impartiality in Moral and Political Philosophy, Oxford: Oxford University Press, 2002. 67 J. Raz, “Facing Diversity: the Case of Epistemic Abstinence”, cit. 68 Raz si riferisce a T. Nagel, “Moral Conflict and Political Legitimacy”. Philosophy & Public Affairs, 16, 1987, pp. 215-40; quanto a Rawls il riferimento è a “Giustizia come equità: è politica non metafisica”, cit. Nonostante Raz accomuni i due autori, è però importante precisare che Rawls prende le distanze dall’ideale di imparzialità così come è sostenuto da Nagel; secondo Rawls non si tratta di assumere un punto di vista impersonale bensì di assumere un punto di vista oggettivo costruttivistico, esito dell’accordo di individui ragionevoli nel formulare i loro giudizi. Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 110. 69 T. Nagel, “Moral Conflict and Political Legitimacy”, cit., p. 222 (traduzione mia). Nagel tratta estesamente del principio di imparzialità, collegato a questa divisione del lavoro epistemico tra individui nella sfera privata e
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le dobbiamo invece guardare dall’esterno, indipendentemente da quanto le crediamo giustificate dall’interno, vedendole cioè come credenze e non come verità; l’appello pubblico alla loro verità deve essere considerato soltanto come un appello alle nostre credenze. Da cittadini dobbiamo, dunque, trattare le nostre verità come credenze, a meno che non si disponga di giustificazioni valide, in quanto formulate da un punto di vista esterno, per sostenerle pubblicamente. Questa sorta di ‘divisione epistemica’ tra sfera privata e sfera pubblica – conclude Nagel – non deve essere considerata come una forma di scetticismo: guardare alle nostre verità come a mere credenze non implica che le si consideri meno vere; significa solo contemplare la possibilità che, in assenza di una valida giustificazione, quelle verità possano essere addirittura false, ancorché questa ipotesi non sia per noi sostenibile. Non basta, in sintesi, la mia convinzione che la mia credenza sia vera nella sfera della politica; in assenza di un punto di vista esterno che permetta di stabilire univocamente la verità della mia credenza, il mio appello alla verità è soltanto l’appello alla mia credenza che essa sia la verità70. La proposta di Nagel – che richiama l’idea rawlsiana del riconoscimento degli oneri del giudizio e del conseguente pluralismo delle verità – è considerata da Raz inaccettabile. Non è possibile – replica Raz – distinguere tra verità e credenza; non è possibile considerare le nostre credenze, che ovviamente crediamo vere, come se non fossero vere. È come se dicessi – continua con un esempio – che credo che fuori sia buio non perché vedo che è buio ma perché credo che fuori sia buio71. Se io agisco facendo cittadini nella sfera pubblica, in T. Nagel, Equality and Partiality, Oxford: Oxford University Press, 1991 [trad. it. I paradossi dell’eguaglianza, Milano: Il Saggiatore, 1993]. 70 Sul punto vd. anche B. Kilan, “John Rawls’s Idea of an Overlapping Consensus and the Complexity of Comprehensive Doctrines”. Ethical Perspectives, 16, 1, 2009, pp. 21-60: la capacità di vedere le due parti del sé, quella privata e quella pubblica, come se fossero separabili, è indice della ragionevolezza dei cittadini e della loro capacità di interagire tra loro. 71 J. Raz, “Facing Diversity: the Case of Epistemic Abstinence”, cit., p. 38.
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riferimento a una mia credenza, la mia ragione per agire non è che io penso di avere una credenza ma è che credo che sia la verità. Assumere di dover ragionare pubblicamente in modo asimmetrico, sospendendo il giudizio di verità rispetto alle mie credenze e considerandole con gli occhi di uno spettatore esterno che non necessariamente le condivide, significherebbe far sì che le ragioni degli altri prevalgano sulle mie. Un esempio è il caso dell’aborto: se rinunciassi ad affermare la mia verità in casi come questo – scrive Raz – ciò equivarrebbe a lasciare che le verità altrui prendano il sopravvento. Se credo – spiega l’autore – che l’aborto debba essere proibito perché è un omicidio, ho una ragione forte per ritenere che debba essere proibito, che gli altri la condividano o meno72. Ora, nella sua risposta Raz assume che verità e giustificazione si equivalgano; credenze e ragioni non sono separabili, né si può distinguere tra la verità della propria credenza e la sua giustificazione pubblica. Per poter giustificare un’istituzione, una legge o un comando, è necessario e sufficiente affermarne la verità. Con simili obiezioni Raz si rivolge a Rawls e all’asimmetria epistemica prescritta dall’adozione degli oneri del giudizio. La conclusione di Raz è questa: non c’è spazio per una giustificazione pubblica che non sia anche una giustificazione morale, né viceversa; non c’è spazio per un liberalismo politico ‘astinente’ ma solo per un liberalismo morale e perfezionista, in grado di proporre valori morali sostanziali validi come valori politici. Una critica diversa da quella di Raz, ma similmente volta a mettere in discussione i vincoli della giustificazione pubblica, è avanzata da Barry; secondo Barry l’argomento degli oneri della ragione implica scetticismo73. Data la proclamata indipendenza della ragionevolezza dalla verità, che Rawls incessantemente ribadisce, sembra poco probabile – scrive Barry – che gli individui 72 Questa linea argomentativa è presente in modo più esteso in J. Raz, “Disagreement in Politics”, cit., p. 28. 73 B. Barry, “John Rawls and the Search for Stability”, cit.
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possano sostenere la concezione della giustizia trovando nelle proprie dottrine comprensive le ragioni necessarie a sostenerla. Ci si appella, cioè, alla ragionevolezza degli individui, chiedendo loro di mettere da parte le loro dottrine comprensive e, allo stesso tempo, si chiede loro, in virtù della loro ragionevolezza, di trovare dentro le loro dottrine comprensive le ragioni per sostenere ragionevolmente la concezione della giustizia74. Secondo Barry, Rawls sembra ammettere una “componente di scetticismo di secondo livello” nel caso in cui le dottrine di riferimento dei singoli non fossero in continuità con la concezione politica della giustizia. Questo implica, nel momento in cui riconosciamo che è impossibile un accordo tra livello delle dottrine comprensive e concezione politica nonché un accordo tra le dottrine comprensive, fare ammissione di scetticismo. Rawls si limita a ribadire che a ciascun individuo spetta trovare il nesso di compatibilità tra la propria verità e i valori politici; ma come ciò possa avvenire rimane – conclude Barry – oscuro75. Non solo: gli esiti scettici sono ancor più evidenti nel caso dei credenti – i portatori di posizioni religiose – dal momento che è ben poco plausibile che un credente conceda agli altri di essere in disaccordo con lui e al tempo stesso mantenga una posizione di certezza rispetto alle proprie credenze76. 74
Considerazioni simili si trovano in S. Scheffler, “The Appeal of Political Liberalism”. Ethics, 105, 1994, pp. 4-22: 12, e in P. J. Steinberger, “The Impossibility of a Political Conception”. Journal of Politics, 62, 1, 2000, pp. 147-65. 75 B. Barry, “John Rawls and the Search for Stability”, cit., p. 899: Barry sostiene che il liberalismo rawlsiano sarebbe coerente se non rinunciasse ad ammettere la verità dei principi di giustizia. Nel caso in cui alcuni individui sostenessero, per agire in modo repressivo nei confronti degli altri, che non c’è salvezza al di fuori della chiesa, l’unica cosa da fare è dire che la loro affermazione è sbagliata. L’errore di Rawls – che pure rinvia a questo caso (cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 127) – è non aver distinto tra verità e imposizione della verità; avrebbe invece potuto affermare la verità del liberalismo senza che ciò implicasse imporla. Sul punto vd. anche S. Caney, “Liberal Legitimacy, Reasonable Disagreement and Justice”, in R. Bellamy, M. Hollis (a cura di), Pluralism and Liberal Neutrality, London: Cass, 1999, pp. 19-35. 76 B. Barry, Justice as Impartiality, Oxford: Clarendon, 1995.
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La verità sospesa
Ora, è evidente che Barry non contempla la possibilità di una ‘divisione epistemica’, ovvero quella sorta di asimmetria del ragionamento che ascrive la verità delle proprie credenze ad un dibattito non pubblico, laddove quello pubblico richiede solo la ragionevolezza. Tale divisione o asimmetria è per Barry difendibile solo da chi non ha credenze o, avendole, non è interessato alla verità di queste; ma questo è un atteggiamento compatibile solo con lo scetticismo. Quel che Barry, in sintesi, rimprovera a Rawls è proprio la deriva scettica che egli caparbiamente rifiuta di ammettere, quando a più riprese sostiene che non si tratta di negare scetticamente la verità ma solo di condividere i termini essenziali che stanno alla base della cooperazione.
2.2.4. Ragioni religiose versus ragione pubblica Venendo ora alle critiche più attente alle ragioni dei credenti, che sarebbero penalizzate in un discorso pubblico vincolato, parto da un’osservazione semplice ma condivisa da molti. Nel fissare le condizioni di accesso alla ragione pubblica, onde favorire un clima di tolleranza nel dibattito pubblico, Rawls non ha fatto i conti – scrive per esempio Wenar77 – con le fedi religiose che popolano la società democratica. Il riconoscimento degli oneri del giudizio come condizione per accedere al dibattito pubblico è un requisito che i credenti non accettano né possono accettare, non accettando né potendo accettare di mettersi a distanza dalla verità. I credenti – sostiene Wenar – possono essere buoni 77
L. Wenar, “Political Liberalism: An Internal Critique”, cit.; simile posizione è presente anche in: D. Weinstock, “The Justification of Political Liberalism”. Pacific Philosophical Quarterly, 75, 1994, pp. 165-85; D. Hollenbach, “Contexts of the Political Role of Religion: Civil Society and Culture”. San Diego Law Review, 30, 1993, pp. 877-901; P. Weithman, Religion and the Obligations of Citizenship, Cambridge: Cambridge University Press, 2002, specie le pp. 180-211; R. Buck, “Religion, Identity and Political Legitimacy”. Journal of Social Philosophy, 39, 3, 2008, pp. 340-58; M. Perry, Under God? Religious Faith and Liberal Democracy, Cambridge: Cambridge University Press, 2003.
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cittadini professando la propria fede, anzi portando le ragioni di fede nel dibattito pubblico e contribuendo, così, a modellare più autenticamente la società giusta. Quel che dunque occorre fare, contrariamente a quel che pensa Rawls, è riconoscere un ruolo pubblico alle credenze in quanto capaci di arricchire la discussione sulle questioni fondamentali. La convinzione di fondo è che l’idea rawlsiana di ragione pubblica sia troppo esclusiva o troppo vincolante se non, addirittura, discriminatoria nei confronti dei portatori delle visioni religiose, imponendo ai credenti sacrifici in termini di difesa della propria verità più di quanto non faccia con gli altri. Greenawalt, ponendosi dal punto di vista dei credenti, coglie il dilemma di fronte al quale essi vengono posti nel momento in cui si chiede loro di valutare quanto spazio le loro dottrine comprensive lascino alla lealtà nei confronti delle istituzioni78. È come se si chiedesse ai credenti se, in certe circostanze, le loro dottrine comprensive possano favorire un atteggiamento di slealtà nei confronti delle istituzioni stesse. A questa domanda costoro potrebbero rispondere in molti modi che non necessariamente implicano comportamenti riprovevoli sotto il profilo dei doveri di cittadinanza: potrebbero dire che le istituzioni sono in armonia con le loro convinzioni, oppure dire che le istituzioni devono essere accettate sulla base di un necessario compromesso, ben al di sotto di ciò che sarebbe per loro ideale; potrebbero, ancora, replicare che si conformeranno alle regole anche se faranno di tutto per modificarle, o che, infine, disobbediranno ad esse non appena se ne presenterà l’occasione. Peraltro – continua Greenawalt – non è neppure chiaro che cosa la ragione pubblica richieda concretamente: se, per esempio, nel corso di un dibattito sui finanziamenti pubblici alle scuole religiose, è prevedibile che i credenti si schierino a favore di tali finanziamenti, non è detto che non si uniscano allo stesso coro anche i non-credenti; costoro potrebbero dirsi favorevoli onde assicurare l’eguale trat78
K. Greenawalt, “On Public Reason”. Chicago-Kent Law Review, 69, 1994, pp. 669-89, soprattutto le pp. 682-85.
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La verità sospesa
tamento di tutte le identità religiose presenti nella società. Quel che Greenawalt vuole dire è che la ragione pubblica è un ideale di difficile applicazione, non essendo, per stare all’esempio, capace di dirci come il principio della libertà religiosa e quello della separazione tra istituzioni e religione possano o debbano essere bilanciati79. È necessario allora ammettere che la ragione pubblica, per come è stata delineata da Rawls, può favorire risultati anche opposti tra loro, con buona pace del suo intento di conciliazione. Il problema più grave che sta allo sfondo dell’indeterminatezza della ragione pubblica, e della discutibilità dei vincoli che impone ai partecipanti al dibattito politico, è la distinzione preconcetta tra il bene e il giusto che, nel caso delle posizioni religiose, rischia di produrre effetti di esclusione. Se l’idea di Rawls è quella di un accordo sul giusto nonostante il disaccordo sul bene, è la distinzione tra giusto e bene che va precisata e, ancor prima, giustificata. Anche Greenawalt fa riferimento al caso paradigmatico dell’aborto: se l’aborto rappresenta per il credente cattolico un illecito in quanto è assimilabile ad un danno gravissimo inferto a un essere umano, è difficile confinare la ragione del credente alla fede soltanto, essendo l’argomento del danno valido per tutti80. Un caso come questo mostra
79 Greenawalt approfondisce questo punto in K. Greenawalt, Private Consciences and Public Reasons, New York-Oxford: Oxford University Press, 1995, pp. 115-16: anche se riuscissimo a convincere coloro che sono a favore del finanziamento pubblico delle scuole cattoliche che la loro richiesta mette in crisi il principio di separazione tra stato e chiese, perché costoro non dovrebbero sentirsi liberi di difendere la loro posizione? Non si vede del resto come impedire che difendano la loro tesi a favore dei finanziamenti pubblici né come imporre loro una lealtà nei confronti di istituzioni che considerano incompatibili con le loro convinzioni. Una risposta a sostegno delle ragioni religiose come ragioni che devono valere anche nella sfera politica è presente in C. Eberle, Religious Conviction in Liberal Politics, Cambridge: Cambridge University Press, 2002; si veda soprattutto la p. 245. 80 K. Greenawalt, Private Consciences and Public Reasons, cit., pp. 6-7. Il problema, però, non è la discutibilità del danno – come dice l’autore – bensì quella dello statuto ontologico dell’embrione. Non c’è danno se non c’è persona, attuale o potenziale che sia.
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l’arbitrarietà del vincolo epistemico che impone restrizioni alle ragioni a difesa dell’embrione; mostra inoltre l’arbitrarietà della distinzione aprioristica tra ciò che può valere pubblicamente e ciò che invece si considera espressione di convinzioni private. Ma che il valore della vita dell’embrione sia un credo privato è cosa che i cattolici non sono disposti ad accettare. Di discriminazione nei confronti dei credenti parla esplicitamente Sandel: c’è ragione di chiedersi – scrive l’autore – se sia plausibile la distinzione, anzi la separazione, tra politica e religione, primo esito dell’adozione della ragione pubblica; ci si deve chiedere quali siano i motivi per cui, per favorire la realizzazione dell’obiettivo della cooperazione, si debbano mettere a tacere interessi morali superiori quali quelli che provengono dalla propria visione religiosa. Il principio di separazione tra politica e religione, che è per Rawls un requisito fondamentale della ragione pubblica, è in realtà molto controverso; lo si vuole difendere come principio di tolleranza che distingue e separa ragioni politiche e ragioni religiose, facendo però a meno di qualsiasi giudizio circa il valore morale delle pratiche tollerate; ma la tolleranza non si giustifica da sé – sottolinea Sandel – e va invece valutata sulla base dei giudizi morali formulati intorno alle pratiche che si dice di tollerare, anche se poi tollerare significa relegare negli spazi non pubblici81. La ragione pubblica, con la sua istanza di neutralità nei confronti delle verità pone, nei fatti, vincoli alla libertà religiosa, con la conseguenza di discriminare coloro che, nel discutere di questioni pubbliche, non potrebbero non fare riferimento alle loro credenze. Il ‘peccato originale’ della ragione pubblica consiste, anche per Sandel, nell’arbitrarietà dell’idea che il giusto venga prima del bene, per cui le ragioni religiose sono considerate secondarie rispetto a quelle politiche in quanto, prima ancora, dichiarate, senza fondato motivo, politicamente irrilevanti, e considerate così come ragioni nonpolitiche. 81
M. Sandel, Democracy’s Discontents. America in Search of a Public Philosophy, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 1996.
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La verità sospesa
Alla questione dell’aborto anche Sandel rivolge l’attenzione per rinforzare la sua critica a Rawls e alla sua ingiustificata espulsione dalla sfera politica delle istanze che sorgono all’interno di dottrine morali e religiose. È difficile immaginare che un cittadino per il quale il feto è una persona possa fingere che non lo sia: se il feto è una persona non si può ragionare come se non lo fosse, non si può fare a meno di sostenere pubblicamente questa verità in cambio di un’idea tanto vaga quanto non condivisa di ragionevolezza. La soluzione rawlsiana è costruita – ribadisce Sandel – su un presupposto non dimostrato, quello dell’irrilevanza dei punti di partenza morali e religiosi che si limita a dichiarare non politici82. Una legge che riconosca il diritto di abortire sarebbe tutt’altro che imparziale nei confronti di tutti i possibili punti di partenza morali e religiosi – come invece sostiene Rawls – dal momento che essa escluderebbe pregiudizialmente le ragioni morali a difesa dell’embrione per assegnare priorità alle ragioni, altrettanto morali e parziali, a difesa della libertà della donna. Pur dicendo di non voler entrare nel merito della questione relativa all’inizio della vita umana, volendo cioè astenersi dal dire qualcosa circa la verità o la falsità delle singole posizioni, il legislatore che promulgasse una legge a favore dell’aborto mostrerebbe di assumere il valore della libertà come predominante83. Astenersi 82
M. Sandel, “Review of Rawls’ Political Liberalism”, cit. Il riferimento di Sandel è alla sentenza Roe vs. Wade, 410 U.S. 113, 93 S. Ct. 705, 35 L. Ed.2d 147 (January 22 1973) della Corte Suprema degli Stati Uniti. Questa sentenza pose fine alla battaglia legale condotta da Jane Roe contro la legge penale dello stato del Texas perché ne venisse dichiarata l’incostituzionalità. Tale legge equiparava l’aborto a un crimine ad eccezione dei casi in cui fosse necessario salvare la vita della madre. La sentenza emessa dalla Corte Suprema riconobbe che tale legge violava alcuni principi della Costituzione americana, in particolare il IX e il XIV Emendamento che affermavano sostanzialmente l’eguale diritto dei cittadini americani a veder rispettata la propria libertà e la propria privacy. A premessa di questa sentenza la Corte affermò di non essere entrata nel merito dello statuto dell’embrione e di essersi limitata a considerare il diritto di abortire, almeno entro il terzo mese, come un diritto alla privacy. Così facendo – dice Sandel – la Corte ha preso in realtà una posizione nonostante la sua professata neutralità: ha cioè 83
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dal prendere posizione sulla definizione di embrione e dichiararsi a favore del diritto di aborto in quanto diritto di libertà significa, per Sandel, affermarne la liceità, né più né meno di quanto sostenuto da coloro che negano che l’embrione sia persona. Irragionevole – conclude Sandel – non è, dunque, il credente che considera impossibile mettere tra parentesi la questione teologica e morale nel dibattere di una legislazione sull’aborto, ma, al contrario, è irragionevole la pretesa che il credente obbedisca a un’ingiunzione che gli impedirebbe di rimanere fedele alla sua integrità morale. E irragionevole è anche la pretesa che tutti siano d’accordo su ciò che deve valere come giusto, dal momento che non c’è accordo su come si debba trattare l’embrione; ma che cosa sia e come vada trattato l’embrione è proprio una questione fondamentale di giustizia84. La conclusione è che la politicità della soluzione rawlsiana è giudicata inadatta alla composizione della controversia che esiste sulla questione dell’aborto, dal momento che, nonostante l’obiettivo dichiarato, all’interno dell’argomento politico viene inserita surrettiziamente una visione morale comprensiva. Non ci sono del resto soluzioni politiche che non si fondino su posizioni morali, per cui nessuna soluzione politica può essere sottratta alla sua disputabilità. Le conclusioni cui Rawls giunge assumono infatti, nonostante la sua dichiarazione di neutralità, prese di posizioni sostantive: il diritto di scelta della donna, che secondo Rawls dovrebbe prevalere in escluso dalla discussione pubblica, almeno nel primo trimestre di gravidanza, le ragioni a favore della vita dell’embrione. Cfr. M. J. Sandel, “Moral Argument and Liberal Toleration: Abortion and Homosexuality”. California Law Review, 77, 3, 1989, pp. 521-38 [trad. it. Il discorso morale e la tolleranza liberale: l’aborto e l’omosessualità, in A. Ferrara (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit., pp. 251-73]. Una posizione simile a quella di Sandel è sostenuta da W. A. Galston, Liberal Purposes. Goods, Virtues and Diversity in the Liberal State, Cambridge: Cambridge University Press, 1991, p. 274. 84 M. Sandel, “Review of Rawls’ Political Liberalism”, cit., p. 1778. Vd. anche M. Sandel, Liberalism and the Limits of Justice, II ed., Cambridge: Cambridge University Press, 1998, pp. 184 ss. Sul punto vd. infine: R. Bellamy, Liberalism and Pluralism. Towards a Politics of Compromise, London & New York: Routledge, 1999, pp. 42 ss.; W. Galston, “Pluralism and Social Unity”, cit., p. 718.
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La verità sospesa
un ragionevole bilanciamento di valori politici, può essere difeso solo sulla base di valori non politici ma morali, valori che, per definizione, non sono condivisi da tutti85. Si vede dunque come, oltre alle sfumature, emerga dalle osservazioni sopra riportate la generale contestabilità della divisione epistemica, per cui le ragioni dei credenti sono considerate inammissibili nel discorso pubblico. Come i riferimenti all’aborto provano, ci sono questioni che esulano dal modo in cui la ragione pubblica pensa di trattare i disaccordi morali, cioè relegando le ragioni del disaccordo al di fuori della sfera pubblica. Ma su questa sorta di separazione delle ragioni pubbliche e delle ragioni private o non pubbliche i credenti resistono, poiché contestano la maniera in cui la ragione pubblica stabilisce che cosa debba valere come valore politico e che cosa debba invece valere come valore non politico; per i credenti cattolici, e non solo per loro, la vita dell’embrione è, per fare l’esempio più lampante, un valore politico rilevante86. Che la questione dell’aborto non sia una questione di giustizia è affermazione allora del tutto disputabile, così come disputabili sono le divisioni tra ragione pubblica e ragioni non pubbliche, tra pubblico e privato, e, prima ancora, tra politica e verità. Casi di conflitto morale fondamentale come l’aborto provano l’arbitrarietà di ogni divisione e, così facendo, accusano, più in generale, il limite fondamentale del liberalismo 85 Sul punto vd. P. De Marneffe, “Rawls’ Idea of Public Reason”, cit. Non è chiaro – afferma De Marneffe – come il diritto di aborto possa essere difeso, ancorché entro i primi tre mesi di gravidanza, solo sulla base di valori politici. L’affermazione secondo cui il valore dell’eguaglianza della donna debba prevalere, in un equilibrio ragionevole, sul dovere di rispettare la vita è – dice De Marneffe – necessariamente supportata anche da valori non politici, per esempio dal valore non politico dell’autonomia. Simili considerazioni sono presenti anche in: L. B. Solum, “Inclusive Public Reason”. Pacific Philosophical Quarterly, 75, 1994, pp. 217-31; S. A. Lloyd, “Family Justice and Social Justice”. Pacific Philosophical Quarterly, 75, 1994, pp. 353-71. 86 Sul punto vd. anche J. Hampton, “The Common Faith of Liberalism”, cit. Hampton non esita a concludere che le affermazioni rawlsiane sull’irragionevolezza di coloro che non condividono la priorità del valore della libertà della donna sono illiberali.
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politico, sostanzialmente inadeguato a trattare questi conflitti se non, addirittura, a prenderli sul serio87. Il liberalismo politico svela da sé il suo limite di fronte all’intrattabilità politica delle questioni fondamentali più controverse88. Sotto attacco è la ragione pubblica che, al di sotto dell’apparente prescrizione di vincoli epistemici a qualsiasi posizione che entri nel dibattito pubblico, nei fatti ‘chiude’ al dissenso intorno alla giustizia, cosa che appare con maggior chiarezza quando in gioco sono le ragioni dei credenti. Essa detta, infatti, ai cittadini di individuare all’interno delle rispettive dottrine gli argomenti a sostegno della concezione politica e chiede, al contempo, di non fare riferimento alla loro dottrina quando questa concezione politica viene messa in discussione. Non si vede perché i cittadini 87
Cfr. K. Greenawalt, Private Consciences and Public Reasons, cit., pp. 118-19. Che non ci sia accordo su che cosa possa essere interpretato come ambito della giustizia e su che cosa esuli da tale ambito per essere riferito a questioni di morale privata è aspetto ampiamente sottolineato dalla critica. Concordi nel contestare la divisione rawlsiana tra ragione pubblica e ragioni non pubbliche sono, tra gli altri: J. Cohen, “A More Democratic Liberalism”, cit.; J. Waldron, Law and Disagreement, cit., J. Bohman, Public Deliberation, Cambridge (Mass.): Mit Press, 1996, p. 86; J. Raz, “Disagreement in Politics”, cit. 88 Sul punto vd. A. Ferrara, “Introduzione”, a Id. (a cura di), Comunitarismo e liberalismo, cit., p. lii: «Il caso dell’aborto […] mostra quanto sia illusoria quella separazione tra giustizia e visioni del bene su cui fa perno l’idea liberale di neutralità delle istituzioni. Nel caso di questi moral issues il terreno su cui una posizione neutrale può attestarsi è virtualmente ridotto a zero. Non si vede come si possa svincolare il giudizio legale sull’ammissibilità dell’aborto – sancito dalla delega alla donna della valutazione sulla liceità morale – da una presa di posizione morale sul diverso status della vita del feto rispetto alla vita del neonato». Più in generale, tra gli autori che negano l’esistenza di soluzioni politiche neutrali, cioè indipendenti da posizioni morali, si veda M. Perry, “Neutral Politics?”. Review of Politics, 51, 1989, pp. 479-509, specie le pp. 496-97: non ci sono interessi politici che non rimandino a interessi morali – dice Perry – e quel che conta è riconoscere la necessità di una comune politica ecumenica, volta alla maggiore conciliazione possibile tra morali differenti. All’ecumenismo di Perry si richiama espressamente P. L. Quinn, “Political Liberalisms and Their Exclusions of the Religious”. Proceedings and Addresses of the American Philosophical Association, 69, 2, 1995, pp. 35-56.
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debbano rinunciare a fare appello a ragioni religiose – sottolinea Weithman – o, in generale, alle loro convinzioni morali nell’ambito della discussione pubblica anche per contestare le sue stesse regole89. Per coloro che sostengono una posizione religiosa non c’è opzione oltre a quella di sostenere la giustizia basandola sulla loro religione; la religione non è per costoro qualcosa di estraneo alla loro esistenza sociale e politica, anzi ad essa si rivolgono come alla loro guida indiscussa90. Non c’è dubbio – continua Weithman – che tra i cittadini credenti ce ne siano alcuni che usano argomenti di fede per difendere posizioni politiche illiberali; questo però non dimostra che costoro stiano violando gli obblighi di cittadinanza, ma mostra soltanto che la società democratica è caratterizzata da disaccordi profondi sulla priorità stessa della giustizia, su che cosa la giustizia debba richiedere e su quali ragioni siano buone ragioni per attuare politiche pubbliche. È in base alla presunta priorità del giusto rispetto al bene, della lealtà pubblica rispetto alla fedeltà comunitaria, che Rawls ritiene sia possibile un disaccordo ragionevole sulle questioni morali, fatto salvo un accordo, anzi un consenso, sulle questioni di giustizia fondamentale. C’è un’ulteriore osservazione di Weithman che va sottolineata: riguarda la giustificazione pubblica e la sua ingiunzione a fare riferimento alle stesse «ragioni giustificative»91, cioè alle ragioni accettabili da tutti i partecipanti alla discussione pubblica. Questa ingiunzione produce inevitabili esiti di discriminazione – spiega Weithman – poiché assume che le persone siano degne della partecipazione politica solo se sono capaci di interpretare se stesse come soggetti per i quali la capacità pubblica, quella che rende possibile il distanziamento dai loro stessi fini, viene prima della loro appartenenza92. La conclusione è la seguente: al di sotto 89
P. Weithman, Religion and the Obligations of Citizenship, cit., p. 5. Sul punto cfr. anche N. Wolterstorff, “The Role of Religion in Decision and Discussion of Political Issues”, in N. Wolterstorff, R. Audi (a cura di), Religion in the Public Square, Lanham: Rowman & Littlefield, 1997, pp. 67-120: 91. 91 P. Weithman, Religion and the Obligations of Citizenship, cit., pp. 6 ss. 92 Ivi, pp. 189-91. 90
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dell’idea rawlsiana di ragione pubblica soggiace un’idea di persona come soggetto autonomo e consapevole; è solo sulla base di questa autocomprensione dei cittadini che si può immaginare che le ragioni giustificative siano le “ragioni che tutti possono accettare” e che fungano da motivazione per agire in base alla ragionevolezza; solo assumendo un’idea di sé come soggetti di un certo tipo, si capisce come tale motivazione ad agire ‘agisca’ come motivazione morale. Le “ragioni giustificative” sono motivanti in quanto si incastonano in un’idea di cittadino ragionevole, essendo la ragionevolezza la qualità morale che lo connota. Ed è solo assumendoci come ragionevoli che si può pensare di fare la differenza tra le nostre ragioni e quelle accettabili da tutti; ma la ragionevolezza è una delle modalità possibili di interpretare il nostro ‘posto nell’universo’, la nostra identità morale. Ma questa identità morale non è – semplicemente – la stessa in ognuno.
2.2.5. Commenti sul valore politico e sui limiti della ragione pubblica Dal dibattito sopra riportato è emersa in generale la radicale contestabilità dell’idea di ragione pubblica e delle sue indicazioni o vincoli. I critici di parte religiosa si sono in particolare concentrati sulla denuncia dell’arbitrarietà di tali vincoli: non si può fare una distinzione a priori tra argomenti pubblici e argomenti non pubblici né a priori si può tracciare il confine tra sfera pubblica e sfera privata, tra politica e morale. Arbitraria è per costoro l’assegnazione delle ragioni religiose all’insieme delle ragioni non pubbliche, come se affermazioni fondamentali come il valore della vita dell’embrione non siano rilevanti per tutti. A replica di queste considerazioni che, come s’è visto, contestano più radicalmente l’ideale rawlsiano di ragione pubblica, è necessario, come prima cosa, ribadire l’obiettivo di Rawls: fornire una tesi sul modo in cui le decisioni politiche devono essere giustificate presso cittadini con dottrine comprensive differenti. Rawls non è interessato a dare giustificazione di ogni legge o istituzione, ma
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La verità sospesa
a illustrare il modo in cui tale giustificazione deve essere fornita93. L’intento di Rawls è politico: non c’è alcuna pretesa di interferire con la verità delle posizioni ma solo quella di fissare le condizioni necessarie per la loro ragionevole convivenza. In questa direzione vanno le parole di Rawls quando scrive che «la cosa essenziale è che la ragione pubblica sia un’idea politica, che appartenga alla categoria del politico […]. Essa non si contrappone alle credenze e alle ingiunzioni della religione, a condizione che queste siano compatibili con le libertà costituzionali essenziali, la libertà di religione e la libertà di coscienza comprese. Non c’è una guerra tra religione e democrazia, né deve esserci»94. Ribadito l’intento politico, considero dunque infondata l’accusa secondo la quale l’ideale della ragione pubblica discriminerebbe in modo aprioristico le posizioni religiose; come scrive Maffettone, «la ragione pubblica non crea alcuna asimmetria tra religiosi e laici. La ragione pubblica di Rawls vuole piuttosto porsi contro ogni forma di interpretazione settaria della vita politica liberal-democratica. E le interpretazioni settarie poggiano su dottrine comprensive, che possono a loro volta essere indifferentemente laiche o religiose»95. Il cittadino religioso ha gli stessi obblighi dei cittadini non religiosi, tra cui quello di tradurre le sue ragioni in ragioni comprensibili anche dagli altri. Quel che 93
S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., p. 133. J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 325. Vd. anche J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 88. 95 S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., p. 130. L’autore difende Rawls dall’accusa di porre vincoli a quanti ragionano in base alle dottrine comprensive: «egli intende offrire loro un’opportunità in più: continuare a credere nella loro visione accettando al tempo stesso una moralità istituzionale nel momento in cui tratterranno alcuni temi fondamentali del dominio pubblico» (p. 131). Sul punto vd. P. Weithman, “Liberalism and the Political Character of Political Philosophy”, in P. Weithman (a cura di), Reasonable pluralism, vol. V, Philosophy of Rawls: a Collection of Essays, a cura di H. S. Richardson, P. J. Weithman, 5 voll., New York, London: Garland Publishing, 1999, pp. 223-45: non c’è in Rawls alcuna esclusione preconcetta di posizioni religiose o metafisiche. Vd. sul punto J. Mandle, Rawls’s A Theory of Justice. An Introduction, Cambridge: Cambridge University Press, 2009, p. 150. 94
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Rawls chiede ai credenti come anche ai non credenti è di astenersi dall’invocare la verità tutta intera quando sono in gioco questioni politiche fondamentali, impegnandosi a giustificare agli altri le proprie scelte ed azioni96. Che poi questo sia possibile, è appunto l’oggetto della contesa. Ora, riaffermato l’obiettivo del ‘distanziamento metodologico’ dalla verità a fini soltanto politici, non filosofici né religiosi, rimane non eludibile che tale distanziamento sia meno ‘naturale’ per coloro che si identificano con una appartenenza religiosa97. Se è vero che non c’è alcuna aprioristica preclusione del dibattito pubblico ai credenti, certo le condizioni di accesso, specie la ‘divisione epistemica’ richiesta per potervi entrare, sono certamente causa di un malcontento non sempre irragionevole. La questione dell’aborto è in tal senso esemplare. La premessa è che, discutendo di aborto, Rawls mira non a persuadere i contrari all’aborto della falsità della loro posizione (Rawls non intende entrare nel merito, come è noto, della verità delle po96 «Non ci viene chiesto di mettere a rischio la nostra dottrina, religiosa o non religiosa, ma ciascuno di noi deve rinunciare una volta per tutte sia alla speranza di cambiare la costituzione nel nome dell’egemonia della propria religione, sia alla pretesa di modificare i nostri obblighi al solo scopo di assicurare alla propria dottrina successo e influenza. Conservare questa speranza e questi obiettivi significa opporsi all’idea di eguali libertà fondamentali per tutti i cittadini liberi ed eguali» (J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 296). 97 Non si dimentichi, tuttavia, l’ammorbidimento dei requisiti della ragione pubblica che Rawls prevede in “Un riesame dell’idea di ragione pubblica” inserendo la cosiddetta clausola condizionale: «le dottrine comprensive ragionevoli, siano esse religiose o non religiose, possono essere introdotte nella discussione politica pubblica in qualsiasi momento, a condizione che siano a tempo debito presentate ragioni propriamente politiche – e dunque non ragioni date esclusivamente da dottrine comprensive – sufficienti a sostenere ciò che si dice sostenuto dalle dottrine comprensive introdotte. Chiamo questa ingiunzione a presentare ragioni propriamente politiche clausola condizionale» (cfr. J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 298). Nella sostanza il ragionamento di Rawls non cambia; con questa clausola dà un’interpretazione più inclusiva delle ragioni adducibili nel dibattito, e tuttavia ne prescrive la traducibilità nel linguaggio della ragione pubblica. Stesse conclusioni, benché meno articolate, sono già presenti in J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 209.
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sizioni anche quando le giudica irragionevoli), ma a ribadire il suo scopo politico, cioè dire quali argomenti i cittadini disposti alla reciprocità siano in grado di offrirsi l’un l’altro a sostegno delle istituzioni, quali tipi di argomenti essi siano in grado di scambiarsi in quanto cittadini ragionevoli98. Se è questo l’intento di Rawls, non tutti però lo condividono, come s’è visto, perché non tutti condividono la premessa della ragione pubblica, cioè l’idea che la ragionevolezza vada messa al posto della verità, che il giusto venga prima del bene, che la definizione di giustizia sia indipendente da quella di vita buona. Prima ancora, molti trovano pregiudizievole la domanda stessa che sta al fondo di tutta la discussione: Rawls non si chiede se le persone possano accettare la soluzione politica alla questione dell’aborto come accettabile sulla base della loro identità di credenti; si chiede, invece, se i credenti la possano accettare in base alla comprensione che hanno di se stessi in quanto cittadini liberi ed eguali. Si tratta della convinzione, che sta sullo sfondo di questo interrogativo, che, politicamente parlando, si debba e si possa essere cittadini prima che credenti; ma che ciò sia possibile dipende dalla disponibilità ad assumere un orizzonte interpretativo comune, in cui tutti comprendano se stessi innanzi tutto come persone libere ed eguali, capaci di prendere le distanze dalla propria verità. Queste sono le obiezioni più rilevanti e forse più condivisibili – almeno a mio parere – dell’idea di ragione pubblica. Tanto più che Rawls, come correttamente gli obiettano i sostenitori di posizioni religiose, sembra non soffermarsi a distinguere tra le varie ragioni della mancata adesione all’idea di ragione pubblica, limitandosi, come nel caso esemplare dell’aborto, ad ammettere che si tratta di un «punto morto» della discussione pubblica, che equivale ad ammettere come la ragione pubblica dimostri di non essere la strategia adatta a dirimere il disaccordo fondamentale tra la posizione a difesa della vita embrionale e la posizione a so-
98
Sul punto, vd. J. Quong, Liberalism Without Perfection, cit., p. 5.
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stegno della scelta della donna99. Ma, come è evidente, una cosa è la posizione degli autori sopra ricordati, Greenawalt e Weithman in particolare, che considerano restrittiva se non discriminatoria la ragione pubblica in quanto obbliga i credenti a tradurre le loro verità nel linguaggio astratto della giustificazione pubblica; altra cosa è la posizione di coloro che imporrebbero la loro verità come fondamento della legittimità politica. Si tratta in entrambi i casi di posizioni che mettono in discussione l’esistenza di ragioni pubbliche; ma se coloro che afferiscono alla prima posizione disputano della ragionevolezza come principio che prescrive di individuare ragioni condivise da tutti anche a prezzo del silenzio sulle proprie convinzioni, coloro che invece si richiamano alla seconda posizione sono indubitabilmente irragionevoli. Fatta questa distinzione sulle ragioni che si possono avere per accusare la ragione pubblica di essere troppo ‘stretta’, essendo ben diverse le ragioni di chi si sente penalizzato nella difesa dei propri impegni metafisici e quelle di chi invece imporrebbe la propria fede come l’ultima parola del dibattito pubblico, è indiscusso merito della ragione pubblica aver fissato un impegno etico-politico comune contro qualsiasi tentativo o tentazione di interpretazione settaria della vita politica100. La differenza tra liberalismo e settarismo non sta nel credere o meno che esista 99
J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 314. Il timore di derive settarie delle posizioni comprensive, religiose e non religiose, è centrale in tutti i resoconti liberali, dato lo sfondo storico delle guerre di religione a partire dal quale si delinea l’ideale liberale della tolleranza. La storia di questi conflitti e la diffusione dell’ideale della tolleranza stanno a monte di tutte le interpretazioni delle politiche della ‘restrizione’, ovvero le politiche ispirate alla separazione tra ragioni ‘accampabili’ pubblicamente e ragioni che, accampate pubblicamente, altro non sarebbero che forme di imposizione. Vd. K. Greenawalt, Private Consciences and Public Reasons, cit., pp. 62 ss. Nel descrivere il vincolo imposto alle ragioni religiose nel dibattito pubblico l’autore rimanda a R. Audi, “The Separation of Church and State and the Obligations of Citizenship”. Philosophy & Public Affairs, 18, 3, 1989, pp. 259-96; Id., “Religion and the Ethics of Political Participation”. Ethics, 100, 2, 1990, pp. 386-97. 100
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la verità o, addirittura, nel credere o meno di possederla: la differenza sta nel tipo di certezza con cui ci si sente giustificati a sostenere pubblicamente la propria credenza; nessuna credenza, a meno di non essere fanatici, ha un’automatica autorità politica; nessuna verità può essere imposta come fondamento della legittimità. Il liberalismo politico non respinge le credenze in sé ma le credenze quando diventano terreno di coltura di un uso arbitrario della coercizione; respinge non la verità né la convinzione dei credenti di possedere tutta la verità; piuttosto, prescrivendo vincoli epistemici, costruisce tutele per il discorso pubblico, difendendolo da ciò che seguirebbe se la credenza di possedere tutta la verità implicasse il suo essere automaticamente giustificata come politicamente autorevole101. Ora, a fare da sfondo a questa idea di ragione pubblica è, come noto, il requisito della ragionevolezza che permette alle persone ragionevoli di riconoscere l’impossibilità per chiunque di dimostrare di possedere la verità. Ciò significa saper fare la differenza tra credenza e conoscenza, ritenendo coerente confidare nella propria credenza come l’unica vera e, al contempo, essere disponibili a riconoscere l’impossibilità di dimostrarne la verità. Come suggerisce Cohen, una cosa è dire che ciò che si dice è vero, altra cosa è dire ciò che si può dire ragionevolmente: quando sosteniamo la nostra posizione la affermiamo 101 M. Sleat, “Liberalism, Fundamentalism and Truth”. Journal of Applied Philosophy, 23, 4, 2006, pp. 405-17: 413. Vd. anche S. Mendus, “Pluralism and Skepticism in a Disenchanted World”, in M. Baghramian, A. Ingram (a cura di), Pluralism. The Philosophy and Politics of Diversity, London & New York: Routledge, 2000, pp. 103-19. Il sentimento di certezza che proviamo nei confronti di una nostra credenza è irrilevante per la giustificazione del potere. Per questo occorre ammettere vincoli epistemici, onde tagliare il nesso tra lo stato della mente dell’agente, cioè la sua certezza, e la giustificazione del potere politico. A difesa dei vincoli epistemici nonché della distinzione, a livello del dibattito pubblico, tra verità e giustificazione, vd. T.L. Price, “Debate: Epistemological Restraint-Revisited”. Journal of Political Philosophy, 8, 3, 2000, pp. 401-407; vd. anche H. Brighouse, “Is There Any Such Thing as Political Liberalism?”. Pacific Philosophical Quarterly, 75, 1994, pp. 318-32; Brighouse sostiene che l’astinenza epistemica sia una condizione necessaria per la legittimità.
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ma contemporaneamente ammettiamo che questa nostra credenza non è sostenibile interamente con la ragione. Possiamo addirittura affermare di possedere la verità, ma dobbiamo insieme riconoscere che questa affermazione non è qualcosa che la ragione stessa possa interamente dimostrare102. Siamo ragionevoli se siamo capaci di vedere noi stessi in diversi contesti di giustificazione, in quello della giustificazione completa della nostra dottrina e in quello della giustificazione pubblica condivisa da tutti103. Queste considerazioni intorno all’impossibilità di dimostrare la verità delle nostre credenze fondamentali permette di aggiungere un commento ulteriore e forse chiarificatore intorno alla questione dell’aborto. Riconoscere che l’aborto è un “punto morto” della ragione pubblica indica come tale questione poggi – come dice Bird – su premesse «opache»104. Se le premesse per sostenere una decisione pubblica circa determinate questioni possono essere opache, non è detto che sia ‘opaco’ l’intento di discutere di tali decisioni a partire dal riconoscimento dell’opacità delle premesse medesime105. Il problema, semmai, si presenta quando alcuni interlocutori negano l’opacità delle proprie premesse, ritenendo che non vi sia spazio per l’incertez-
102 J. Cohen, “Moral Pluralism and Political Consensus”, in D. Copp, J. Hampton, J. E. Roemer (a cura di), The Idea of Democracy, Cambridge: Cambridge University Press, 1993, pp. 270-91. Sul punto vd. inoltre P. Jones, “Liberalism, Belief and Doubt”, in R. Bellamy (a cura di), Liberalism and Recent Legal and Social Philosophy, Stuttgart: Steiner, 1989, pp. 51-69. 103 Sul punto vd. J. Quong, “Disagreement, Asymmetry and Liberal Legitimacy”. Politics, Philosophy & Economics, 4, 3, 2005, pp. 301-30. 104 C. Bird, “Mutual Respect and Neutral Justification”. Ethics, 107, 1, 1996, pp. 62-96, specie le pp. 72-76. Bird mette l’accento sul nesso tra oneri del giudizio, premesse oscure della giustificazione pubblica, e affidamento ai singoli del giudizio di compatibilità tra le proprie credenze e i valori politici. 105 Anche Bird fa riferimento al disaccordo fondamentale nel caso dell’aborto. La credenza secondo la quale il feto è persona per animazione divina poggia – dice Bird – su una premessa «opaca» che non risulta accettabile dall’esterno di questa stessa credenza. Vd. C. Bird, “Mutual Respect and Neutral Justification”, cit., p. 77.
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za nell’adottare una decisione politica che risponda alla (loro) verità. Costoro, come sappiamo, sono quelli che Rawls chiama “irragionevoli”. C’è una questione che qui anticipo e che ha a che fare con la convinzione di Rawls secondo la quale, come ovvia conseguenza della mancata accettazione dei vincoli della ragione pubblica, i sostenitori delle posizioni contro l’aborto sono irragionevoli106. Costoro, benché sostengano posizioni irragionevoli, non rappresentano per Rawls un problema: lo diventerebbero se, in quanto insoddisfatti della soluzione pubblica ragionevole, quella a favore della libertà di scelta della donna, rifiutassero di ragionare alla luce della ragione pubblica in tutti gli altri casi del dibattito politico. Rawls confida – anzi spera, ragionevolmente107 – che, nonostante l’insoddisfazione di gruppi di cittadini nei confronti delle soluzioni pubbliche a questioni obiettivamente controverse, essi sosterranno la cooperazione equa rispettandone i principali requisiti. Detto altrimenti, Rawls ritiene che coloro che sostengono, nella discussione sull’aborto, argomenti irragionevoli, possano essere, per altri versi, ragionevoli, mostrando di essere buoni cittadini. Che poi esistano posizioni ‘interamente’ irragionevoli, che si imporrebbero su tutte le altre, è un dato di fatto. Ciononostante, «l’esistenza di dottrine irragionevoli non diminuisce il grande valore e l’importanza del tentativo di rea106 Questa affermazione è peraltro controversa; non è sempre chiaro che cosa Rawls intenda per irragionevoli; se in generale lo sono le persone che imporrebbero la propria dottrina sugli altri violando la loro libertà di coscienza e pensiero, in alcune occasioni non sono irragionevoli le persone che sostengono argomenti irragionevoli. Tornerò su queste ambiguità nel prossimo capitolo. 107 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 70. Ricordo altri luoghi in cui Rawls parla della speranza ragionevole: J. Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 50, 151, 154, 212. In particolare è emblematica la seguente affermazione: «non abbiamo bisogno di contrapporre le pretese della giustizia politica a quelle della tale o talaltra visione comprensiva, né di dire che i valori politici sono intrinsecamente più importanti degli altri valori ed è per questo che prevalgono su di essi. Quello che speriamo di evitare è proprio la necessità di dire questa cosa, e il fatto di realizzare il consenso per intersezione ci permette appunto di evitarla» (p. 141, corsivo aggiunto).
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lizzare quell’ideale [quello della ragione pubblica] nel modo più pieno possibile»108. A tale consapevolezza corrisponde anche la speranza che tutti i cittadini si impegnino, prima o poi, a darsi l’un l’altro spiegazioni di ciò che vale per loro; che assumano, prima o poi, il dovere di civiltà, cui corrisponde il diritto di ciascuno a ricevere giustificazioni; è, in fondo, questo dovere/diritto a connotare più peculiarmente ogni progetto liberale109. Tale considerazione va in direzione di un apprezzamento da parte di Rawls della varietà delle ragioni che, come sopra accennavo, le persone possono avere per ritenere inaccettabile l’ideale della ragione pubblica. Benché non sia del tutto chiaro in Rawls, c’è un diverso riferimento alle modalità in cui essere irragionevoli. Su questo punto tornerò nel prossimo capitolo.
2.3. Ripensare la giustificazione pubblica Nel precedente paragrafo ho cercato di mettere a fuoco i nuclei problematici dell’idea rawlsiana di ragionevolezza. Mi sono soffermata sulla discutibilità dell’imposizione di vincoli epistemici come condizione di accesso delle singole posizioni al dibattito pubblico. Ampio spazio è stato lasciato alle voci di coloro che, cittadini credenti, considerano questa un’ingiunzione discriminatoria, sollevando obiezioni rilevanti e spesso condivisibili all’idea rawlsiana della ragione pubblica. Mettono in questione, ancora più radicalmente, l’idea che il giusto prevalga sul bene, tanto più che il giusto è esso stesso una forma del bene. Nel 108
J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 325. S. Macedo, “The Politics of Justification”. Political Theory, 18, 2, 1990, pp. 280-304. Afferma Macedo che la giustificazione pubblica incarna l’idea di rispetto per le persone, assumendo come punto di partenza del processo di giustificazione l’atteggiamento di ragionevolezza degli individui. La giustificazione pubblica è un bene in sé, è il miglior modo per essere liberali. Vd. anche J. Waldron, “Theoretical Foundations of Liberalism”, cit., p. 145. Sul diritto alla giustificazione vd. R. Forst, The Right to Justification. Elements of a Constructivist Theory of Justice, Princeton: Princeton University Press, 2011. 109
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condividere l’obiettivo di Rawls, quello di evitare che posizioni irragionevoli si impongano con la forza, violando così il principio liberale di legittimità, non ho sottovalutato la forza delle ragioni dei cittadini credenti: arduo se non troppo esigente chiedere a loro di essere ragionevoli nel senso indicato da Rawls. Rassicurare le posizioni religiose che nulla è tolto alla loro verità, a condizione che essa non rilevi politicamente, è un modo per non rassicurarle affatto; che le loro verità non possano avere un ruolo nella discussione politica intorno alla giustizia rimane per loro un dettame incomprensibile. La richiesta che tali verità siano tradotte nel linguaggio della ragione pubblica significa richiedere l’accettazione degli stessi valori politici110: una pretesa, anche questa, irrealistica. È innegabile, mi pare, l’esito divisivo che l’intento di conciliazione della ragione pubblica paradossalmente genera: volta a realizzare una convergenza a partire da giustificazioni complete differenti, essa prescrive di individuare termini che tutti possono condividere ma che, realisticamente, condivisi non sono, a meno che non siano, si perdoni il gioco di parole, già condivisi. I sostenitori di posizioni religiose, attenti alle ragioni dei credenti, Greenawalt e Weithman in particolare, lo hanno messo puntualmente in evidenza. Inoltre, per quanto la ragionevolezza rappresenti una sorta di precondizione per l’accesso alla sfera politica, per cui si richiede «un certo distacco dal nostro profondo» (non una rinuncia ad esso) e l’assunzione di un atteggiamento neutrale, è pur vero che le ragioni che stanno alla base dell’ideale di ragione pubblica à la Rawls sono pur sempre ragioni morali sostanziali111. Rawls lo nega e sostiene che l’idea di ragione pubblica non fa riferimento alla verità, neppure a una verità morale, ma solo alla ragionevolezza. Prescrive, anzi, che la verità non rientri nella discussione pubblica intorno alle questioni di giustizia fondamentale. Ma alla verità, tuttavia, in qualche modo rimanda, se è alla verità che i singoli attingono a sostegno della concezione politica della giustizia, se è per le loro 110 111
Ivi, p. 285. Vd. anche J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 193. S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., pp. 134-35.
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ragioni particolari che possono essere motivati ad aderire alla ragione pubblica. C’è uno strano mescolamento tra l’istanza di continuità e l’istanza di discontinuità tra posizione comprensiva e giustificazione pubblica, continue e discontinue ad un tempo. La tesi che, in nome della continuità, i credenti non liberali possano trovare nelle loro credenze ragioni per agire da liberali alla luce della ragione pubblica, e perciò in modo discontinuo rispetto alle loro stesse credenze, risulta una tesi piuttosto confusa112. Ad essere fatto oggetto di critica è proprio l’argomento delle “ragioni che tutti possono accettare”. Se è chiaro, e a mio giudizio condivisibile, l’intento di affrontare il pluralismo e di considerare impegno fondamentale della democrazia il “darsi reciprocamente ragioni per giustificare politiche e decisioni”, non è detto che le ragioni scambiate siano accettabili da tutti o che debbano esserlo o, ancora, che prima o poi lo saranno; ciò potrà essere stabilito solo ex post. Per capire bene questo punto occorre tornare ancora una volta all’idea di ragionevolezza e alla sua ambivalenza: essa esprime una condivisione di partenza, un punto di vista condiviso, implicando un criterio di reciprocità cui gli individui rimandano nel darsi reciprocamente ragioni, attingendole alle proprie dottrine. Rawls non fa, però, un’analisi delle ragioni attinte alle rispettive dottrine, non ne indaga il contenuto né, come si ricorderà, il ruolo normativo: il principio di legittimità liberale non richiede, del resto, un’indagine sui diversi impegni delle persone realmente esistenti e considerate ragionevoli. Richiede, piuttosto, di determinare più in astratto se una data ragione esibita pubblicamente sia coerente con la ragionevolezza, che si assume sia la stessa in tutte le persone. Ma se è alla ragionevolezza che è comune a tutti che si rimanda come al fondamento della legittimità, sembra pleonastico il rinvio alle “ragioni che tutti possono accettare”. Forse la cosa si spiega così: con l’argomento delle “ragioni che tutti possono accettare” sembra che Rawls intenda la giustifica112
Sulla commistione di continuità e discontinuità torno nel prossimo capitolo.
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zione pubblica come tale da superare da un lato i conflitti del disaccordo attuale e, dall’altro lato, tale da trascendere il punto di vista degli individui nella loro singolarità113. Di fatto, il suo modo di intendere la ragionevolezza e la giustificazione pubblica rende impossibile agli individui mettere in campo le convinzioni interiori, le loro più profonde credenze, assumendo che gli individui si comportino pubblicamente come se non fosse importante la difesa della loro integrità morale nel discutere di giustizia. Sembra che Rawls sia consapevole di questa tensione implicita nell’argomento delle “ragioni che tutti possono condividere”, per esempio quando parla del permanere di un pluralismo ‘irragionevole’ nonostante la ragione pubblica. E, così dicendo, non fa però la differenza tra coloro che sono ‘irragionevoli’ perché obiettano all’argomento delle “ragioni che tutti possono accettare” come condizione per accedere al dibattito pubblico, e coloro che sono ‘irragionevoli’ perché imporrebbero le loro credenze su chi non le sostiene. Come ripensare, dunque, la giustificazione pubblica, in direzione di una maggiore inclusione degli interlocutori per come concretamente sono, senza assumere che già condividano le stesse ragioni per accedere alla sfera politica? Una proposta è quella del liberalismo giustificativo, che cerca di correggere il limite fondamentale della giustificazione pubblica rawlsiana, l’essere, cioè, priva di basi epistemiche, un limite che si ripercuote sull’ambiguità del requisito delle “ragioni che tutti possono accettare”, che a sua volta oscilla tra una valenza in qualche senso trascendentale e un’altra che invece rinvia alle ragioni che soggetti determinati – i “ragionevoli”, individuati, per dir così, dalla ragionevolezza, su cui appunto pesa l’ambivalenza di essere una caratterizzazione ideale e una caratterizzazione ‘sociologico-contestuale’ – condividono. Per capire in che cosa consista 113 Per queste considerazioni vd. J. Bohman, H. S. Richardson, “Liberalism, Deliberative Democracy and ‘Reasons-that-All-Can-Accept’”. Journal of Political Philosophy, 17, 3, 2009, pp. 253-74.
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la ‘correzione’ alla giustificazione pubblica come indipendente dalla verità, dalla razionalità e da qualsiasi impegno epistemologico, occorre tornare alla funzione della ragionevolezza, che deve permettere ai singoli di conciliare le ragioni derivate dalle giustificazioni complete con i valori politici, un compito che Rawls lascia loro in quanto cittadini ragionevoli, in assenza di un criterio valutativo comune. Ora, lasciare a ciascuno la libertà di ‘percorrere la propria strada’ verso la giustificazione pubblica, se da un lato è funzionale agli obiettivi della ‘neutralità giustificativa’, che cioè ciascuno trovi da sé le ragioni a sostegno delle istituzioni nella propria dottrina comprensiva, dall’altro lato non dice però alcunché sull’itinerario della giustificazione che conduce dalle premesse comprensive alla concezione liberale114. Ma, contrariamente a quel che pensa Rawls, questo itinerario è importante ai fini della giustificazione: oscurare agli altri le proprie ragioni, privandoli della possibilità di valutarle, di giudicarle vere o false, buone o cattive, può significare due cose: o assumere che vi sia tra i cittadini un’omogeneità morale di fondo che li identifica come ragionevoli, impegnati per una soluzione liberale dei loro disaccordi sulla base della condivisione della stessa ragione pubblica o delle “ragioni che tutti possono accettare”; o rendere invisibile il tipo di sostegno che ciascuno può o vuole offrire alle istituzioni, per cui non si può sapere se esso dipenda da una sentita condivisione o da una forma di modus vivendi. È solo conoscendo le ragioni che ciascuno fornisce a sostegno dei valori politici, peraltro, che si può valutare di che tipo di sostegno si tratti, se sia – per dirla con Rawls – un sostegno per le ‘ragioni giuste’ o per le ragioni sbagliate; un sostegno di cui non si conoscono le ragioni potrebbe generare un accordo instabile e provvisorio. Se, infatti, non si sa perché gli altri cittadini sottoscrivono il consenso per intersezione, non si può a rigore sapere se essi rientrino nel consenso per ragioni
114
Per questa descrizione vd. R. Talisse, “Toward a Social Epistemic Comprehensive Liberalism”, Episteme, 5, 1, 2008, pp. 106-28: 111 ss.
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morali o di opportunità115. Rawls ha voluto assumere la ‘neutralità giustificativa’ nel rispetto del pluralismo: ma l’indipendenza della giustificazione pubblica da valori comprensivi non implica di per sé l’indipendenza da valori epistemici, o almeno da una struttura giustificativa che obblighi ciascuno a rendere conto agli altri delle proprie ragioni, rendendole visibili quali che siano, pubbliche o non pubbliche, condivise o non condivisibili, come le proprie importanti ragioni. L’impegno è quello di valutare in prima persona la razionalità delle proprie credenze e, quindi, di lasciare le giustificazioni personali al giudizio degli altri. Dire questo significa mettere in discussione il requisito della condivisione delle ragioni giuste, “le ragioni che tutti possono accettare”. Se Rawls è convinto che, per realizzare la giustificazione pubblica e far sì che la concezione politica della giustizia ottenga il consenso dei cittadini, sia necessario che essi condividano gli stessi argomenti a sostegno delle istituzioni, è proprio su questo requisito che è lecito dissentire da Rawls: ai fini della giustificazione pubblica non è necessario – come dice Gaus – il consenso sulle ‘ragioni giuste’ ma è sufficiente la convergenza delle rispettive ragioni, una volta che si siano rese intelligibili116. L’intelligibilità delle ragioni, nel rispetto delle loro differenze, comporta non la loro invisibilità pubblica ma, al contrario, la loro comunicabilità. Parlando di consenso sulle ‘ragioni giuste’ Rawls assume una premessa troppo esigente, che si condivida, cioè, lo stesso tipo di argomenti a sostegno della concezione politica della giustizia. Ma la disponibilità di tali argomenti non può essere 115
La pensa così Talisse, secondo il quale, in assenza di basi epistemiche della ragionevolezza, il consenso per intersezione è sostanzialmente un modus vivendi. Vd. R. Talisse, Democracy and Moral Conflict, cit., pp. 59-71, e R. Talisse, “Rawls on Pluralism and Stability”, cit. 116 Parla di convergenza e non di consenso F. D’Agostino, Free Public Reason: Making It Up as We Go, Oxford: Oxford University Press, 1996. A sostegno di un’idea di convergenza invece che di uguaglianza di ragioni entro il consenso per intersezione vd. anche J. S. Ryzek, S. Niemeyer, “Reconciling Pluralism and Consensus as Political Ideals”. American Journal of Political Science, 50, 3, 2006, pp. 634-49.
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assunta – commenta Gaus – e, anche nel caso ci fossero ragioni condivise, sarebbero comunque insufficienti a garantire sostegno ai principi politici. Ossia, anche nel caso di un accordo a livello della giustificazione non è detto che ad esso corrisponda un accordo a livello della motivazione. Giustificazione e motivazione, diversamente da quanto Rawls sembra propenso ad ammettere, non sono la stessa cosa117. Che cosa c’è dietro la difesa rawlsiana dell’argomento delle “ragioni che tutti possono accettare”, ovvero dietro al principio di legittimità che richiede la condivisione degli stessi termini di giustificazione? La ragione è nota, ed è la preoccupazione per la stabilità. Gaus la spiega così, riassumendo i passaggi salienti dell’intero ragionamento di Rawls. Se nella Teoria della giustizia Rawls ha proposto una giustificazione indipendente dalle concezioni del bene realizzando un consenso su ragioni comuni, quelle che esprimono la giustizia come equità, in seguito si è domandato come una tale giustificazione indipendente potesse essere stabile, cioè attrarre il sostegno dei cittadini divisi da concezioni del bene differenti. Quel che Rawls deve dimostrare è che cittadini con idee del bene divergenti hanno ragioni abbastanza forti per sostenere e condividere regole comuni. Il problema si pone quando, sollevato il velo di ignoranza, i cittadini vengono a conoscenza di ciò che è bene per loro. Da quel momento in poi non è più possibile mettere tra parentesi le idee del bene e realizzare una giustificazione indipendente della giustizia come quella esposta nella Teoria; Rawls accetta l’idea che le concezioni comprensive siano importanti per la giustificazione pubblica della giustizia. Pur continuando a sostenere la giustificazione indipendente della giustizia così come costruita nella Teoria, Rawls si accorge che tale giustificazione politica non basta: riconosce che si tratta di una giustificazione pro tanto. Proprio perché non basta, i cittadini 117 G. Gaus, Justificatory Liberalism. Essay on Epistemology and Political Theory, Oxford: Oxford University Press, 1996, pp. 131-36. Gaus approfondisce la sua posizione critica in G. Gaus, The Order of Public Reason, cit., pp. 38-42.
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sono chiamati a ricavare dalle loro giustificazioni complete le ragioni utili a sostenere la concezione politica. Quella che era una giustificazione indipendente, basata sulla condivisione di una certa idea di persona, serve ora da modulo adottabile dalle diverse concezioni comprensive. Quel che a Rawls preme è garantire che la giustificazione dei principi di giustizia, basata su un ragionamento condiviso nella posizione originaria, rimanga inalterata anche dopo che i contraenti siano venuti a conoscenza delle loro dottrine comprensive. La preoccupazione di Rawls è dunque che, divenuti consapevoli di queste, gli individui non facciano venire meno la loro devozione ai principi. Si tratta di assicurare, anche nell’ottica delle giustificazioni complete, l’argomento della giustificazione politica pro tanto; si tratta, cioè, di garantire la stabilità della giustificazione astratta alla luce delle giustificazioni complete118. Assicurare la stabilità è un requisito saliente: fino a che gli esiti del ragionamento astratto non vengono confermati alla luce dell’insieme completo dei criteri valutativi di persone razionali libere ed eguali, la giustificazione politica astratta può evaporare venendo a contatto con gli elementi delle differenti visioni del bene119. Ora, la soluzione rawlsiana della giustificazione pubblica dovrebbe essere la risposta a questa istanza di stabilità. Di fronte alla preoccupazione nutrita nei confronti del pluralismo degli standard normativi, che Rawls sovrappone al pluralismo potenzialmente conflittuale dei resoconti della verità tutta intera, deci118
Sul punto vd. anche S. Freeman, Rawls, cit., p. 325. Per quanto Rawls non cessi di considerare la giustizia come equità giustificata, considera la possibilità che essa non sia accolta unanimemente; affermare che una posizione sia giustificata filosoficamente non equivale a dire che lo sia anche pubblicamente. L’idea della giustificazione pubblica permette a Rawls di tenere conto della pluralità delle giustificazioni complete nella consapevolezza che nessuna di queste basti a realizzare l’accordo. 119 Si ricordino le parole di Rawls: «la questione della stabilità subentra in una seconda fase rispetto alla costruzione della concezione politica e autonoma della struttura di base; solo dopo aver fatto questo e dopo avere a disposizione il contenuto di tale concezione – i principi di giustizia – si affronta il problema se la giustizia come equità sia stabile» (J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 129).
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de di bandire l’idea stessa di verità, anche nell’accezione di verità epistemica. Ma così ha bandito – scrive Gaus – l’epistemologia dall’idea di giustificazione per purificare il discorso giustificativo da impegni filosofici per definizione settari120. Facendo in questo modo, cioè escludendo ogni impegno epistemologico, Rawls ha cercato di rendere indipendente la giustificazione pubblica sia per quanto riguarda il suo contenuto sia per quanto riguarda la sua struttura: nel primo caso, evitando di derivare le premesse della giustificazione dalle dottrine comprensive, nel secondo caso lasciando a ciascuno la decisione di partire da premesse secondo una propria idea di giustificazione. Rawls è consapevole della difficoltà di assicurare l’incontro tra la giustificazione politica e il pluralismo degli standard normativi: per questo tenta la soluzione attraverso la giustificazione pubblica realizzata dal consenso per intersezione. Laddove la giustificazione indipendente faceva riferimento a ragioni condivise, ora la giustificazione pubblica fa riferimento a una convergenza di diverse concezioni del bene, che per ragioni differenti confermano e danno sostanza ai risultati della giustificazione indipendente. I cittadini, detto in altre parole, traggono dalle concezioni comprensive le ragioni morali e le risorse intellettuali che servono per giustificare la concezione politica, offrendo ad essa una giustificazione completa. Come i cittadini riescano a mettere in equilibrio la loro dottrina comprensiva con la concezione politica è, però, un compito lasciato a loro e alla loro iniziativa. Certamente Rawls è convinto che, anche dopo essere venuti a conoscenza delle rispettive concezioni comprensive, i risultati della giustificazione indipendente possano essere stabili; è convinto cioè che gli interessi e le preoccupazioni individuali non capovolgeranno la giustificazione politica pro tanto. Il passaggio dalla giustificazione politica pro tanto alla giustificazione pubblica è possibile in ragione della ragionevolezza dei cittadini, che significa la loro disponibilità a rendersi conto che i valori politici sono più importanti degli altri 120
G. Gaus, “The Rational, the Reasonable and Justification”. Journal of Political Philosophy, 3, 1995, pp. 234-58.
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valori. Con questa idea di giustificazione pubblica Rawls sembra però, come si diceva, andare in direzione dell’affermazione di un’unica modalità giustificativa, che prevede l’accettazione da parte di tutti degli stessi valori121. È dunque la struttura della giustificazione pubblica che chiede di essere rivista onde rispondere alle obiezioni mosse all’idea di ragione pubblica. In termini più generali, quel che occorre difendere – dice Gaus – è l’oggettività di una prassi giustificativa indipendentemente dai possibili esiti: ragionevoli sono tutti i cittadini che riconoscono la centralità della giustificazione nonostante la possibilità che non si giunga a un consenso sugli esiti o sui modi della giustificazione pubblica122. Condizione preliminare è riconoscere a ciascuno l’autorità epistemica per valutare la razionalità delle sue stesse affermazioni, che siano condivise oppure no123. Si tratta infatti, prima di tutto, di comprendere che non è detto che la giustificazione personale della propria credenza sia condivisa. Quel che è giustificato per noi non è detto che lo sia anche per gli altri, cosa che non implica che quel che noi crediamo sia da noi creduto arbitrariamente. Ora, dire che una credenza è giustificata per qualcuno significa che costui ha ragioni per credere in essa, ma ciò non implica che anche gli altri abbiano le sue stesse ragioni e che, conseguentemente, vi credano. Il fatto che costoro non abbiano le stesse ragioni per 121 G. Gaus, Justificatory Liberalism, cit., p. 131: Gaus parla a proposito della giustificazione pubblica secondo Rawls di “populismo giustificativo”: è populistica la decisione di assumere come prevalente un’unica prospettiva epistemica. L’assunzione aprioristica di una prospettiva sulle altre contraddice l’impegno per la ragione pubblica. Pur condividendo la debolezza epistemica della proposta rawlsiana, considera l’accusa di populismo eccessiva e poco plausibile S. Maffettone, Rawls, cit., pp. 245-46. 122 Per queste considerazioni sulla pluralità delle pratiche giustificative vd. anche G. Gaus, “Reasonable Pluralism and the Domain of the Political: How the Weakness of John Rawls’s Political Liberalism Can Be Overcome by a Justificatory Liberalism”. Inquiry, 42, 1999, pp. 259-84. 123 Su questo punto, per arrivare a conclusioni diverse, vd. J. Quong, “Disagreement, Asymmetry and Liberal Legitimacy”, cit.
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accettare la stessa credenza non significa neppure che essi siano epistemicamente deboli, che non siano cioè dotati delle stesse abilità epistemiche. Riconoscere agli altri le loro ragioni, riconoscere che quelle sono ragioni per loro, significa che tali ragioni sono intelligibili anche se non condivise. Dunque, ammettendo una diversità di ragioni a sostegno della giustificazione pubblica e assumendo la loro intelligibilità presso chi non le condivide, si eviterebbero le conseguenze negative dell’astensionismo rawlsiano, che addossa l’intero lavoro giustificativo ai singoli senza aprire la possibilità di un confronto tra le rispettive ragioni nei casi di dissenso. Detto questo, cioè assodato che ogni persona ha le proprie ragioni per credere giustificatamente alle proprie credenze, è vero che ci sono credenze che richiedono una giustificazione pubblica, dal momento che esse vertono su doveri o oneri che ricadono su tutti (si pensi a credenze che sostengono una certa legge o una certa istituzione). È nel discutere di casi come l’aborto che ciò che si richiede a tutti – ed è ciò su cui si deve realizzare il consenso – è la capacità di distinguere tra le ragioni private e le ragioni pubbliche, laddove queste ultime devono essere giustificate non solo entro il proprio sistema di credenze ma anche all’interno del sistema di credenze altrui. L’impegno per la giustificazione pubblica nasce proprio quando, capaci di vedere la differenza tra ragioni personalmente giustificate e quelle giustificate anche per gli altri, si riconosce che le proprie ragioni non sono le ragioni di tutti124. Su ciò si può e si deve concordare, e su ciò si realizza la base comune della discussione pubblica. 124
Si potrebbe continuare nel ragionamento chiedendoci se siamo giustificati a sostenere questa concezione di giustificazione pubblica; si tratta di decidere se l’affermazione “credo giustificatamente che P sia giustificata anche per te” debba equivalere a “ho giustificato a te il fatto di credere giustificatamente che P sia giustificata anche per te”. All’interno di una prospettiva liberale come è quella qui sostenuta l’idea è che principi possano essere giustificati presso gli altri senza che ciò comporti il dimostrare di essere giustificati a giustificarli. Si assume, in altre parole, il requisito della giustificazione alla base dell’ordine liberale. Sul punto S. Wall, “On Justificatory Liberalism”. Politics, Philosophy &
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Ma, ancora, cogliere la necessità di tale impegno per la giustificazione non significa, evidentemente, avere la garanzia che si possa giungere ad essa. Si prenda di nuovo l’esempio dell’aborto: la sfida che la giustificazione pubblica si trova a fronteggiare consiste nella indeterminatezza delle ragioni in campo. Sono indeterminate le credenze il cui rifiuto o la cui accettazione sono ingiustificati. Ciò significa che non si dispone di prove sufficienti per accettare o per rifiutare una certa credenza. Sono credenze ‘opache’ quelle che si contendono la soluzione pubblica della questione dell’aborto, come si diceva sopra. In assenza di giustificazione pubblica di una o dell’altra delle ragioni o credenze private, rimane solo lo spazio per la discussione o per la disputa: le ragioni sono indeterminate ma non per questo sono condannate all’incomunicabilità; rimane un ampio spazio per il confronto. Certo, una simile conclusione è lontana dall’idea della ragione pubblica rawlsiana: i vincoli epistemici stabiliti dalla giustificazione pubblica sui valori afferenti alle dottrine comprensive rischiavano di sottacere – come obiettano gli autori ‘di parte religiosa’ – alcune delle ragioni in gioco. Come ancora si diceva, è difficile che i sostenitori del valore della vita dell’embrione mettano da parte questa stessa credenza nel discutere della liceità o meno dell’aborto; al contrario, costoro sono decisi a sostenere pubblicamente la loro credenza e lo faranno; quel che si richiederà loro è che accettino l’onere della giustificazione pubblica nonché l’impegno di astenersi dall’esibire giustificazioni private senza aver cercato la via di una loro giustificazione pubblica125. Tale astensione non va interpretata come un non potere o non volere parlare della verità delle proprie credenze o perché le si tratti come opinioni o preferenze personali; va invece interpretata come conseguenza del fatto che esse non forniscono agli Economics, 2010, 9, pp. 123-49: anche il liberalismo giustificativo esprime un impegno sostantivo a favore del liberalismo. 125 G. Gaus, K. Vallier, “The Roles of Religious Conviction in a Publicly Justified Polity”. Philosophy & Social Criticism, 35, 1-2, 2009, pp. 51-76.
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altri cittadini ragioni per condividere le stesse esigenze morali, pur nella possibilità che essi le comprendano, le trovino cioè intelligibili126. Fatta questa considerazione, rimane il problema di come gestire il conflitto tra le ragioni che non possono essere ‘composte’ in una giustificazione pubblica. Ma, a questo punto, il problema non è più epistemico ma pratico: si tratta non di trovare ‘a tutti i costi’ una giustificazione pubblica, che sembra peraltro indisponibile data l’indeterminatezza delle ragioni, ma si tratta di decidere che cosa fare, e questo qualcosa potrebbe essere soltanto un compromesso127. Perseguire il compromesso non significa, però, abbandonare i propri principi. Al contrario, quando non si riesce ad arrivare alla giustificazione pubblica e tutto è lasciato al confronto tra ragioni opposte non pubblicamente giustificabili, 126
L’aver da certa parte liberale ridotto le ‘ragioni dell’embrione’ a mere preferenze personali è stato sentito, da parte dei contrari all’aborto, come un torto e una discriminazione e certamente lo è, perché, che le si sottoscriva o no, le ragioni dell’embrione hanno una valenza pubblica. Quindi, una legge che vuole essere imparziale non può dichiarare di astenersi dal discutere dell’aborto, anche se limitatamene ad una certa fase della gravidanza, equiparando la scelta della donna, quale che sia, a mera decisione privata; ciò significa non tenere conto dell’embrione e del suo statuto ontologico. Sul punto vd. tra gli altri: G. Calabresi, Ideals, Beliefs, Attitudes, and the Law: Private Law Perspectives on a Public Law Problem, Syracuse (NY): Syracuse University Press, 1985 [trad. it. Il dono dello spirito maligno, Milano: Giuffrè, 1996]; S. Maffettone, Il valore della vita, Milano: Mondadori, 1998. 127 Vd. F. D’Agostino, Free Public Reason, cit., pp. 25 ss: per D’Agostino la ragionevolezza è la disponibilità a cercare aggiustamenti sociali che possono essere giustificati a tutti quelli che ne saranno coinvolti. Parlano di «economia del disaccordo» A. Gutmann, D. Thompson, Democracy and Disagreement, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 1996, pp. 73-85; il disaccordo deliberativo è fondamentale perché i cittadini hanno idee diverse non solo sulla soluzione giusta ma anche sulle ragioni in base alle quali il conflitto potrebbe essere risolto. La controversia sulla legalizzazione dell’aborto è un caso paradigmatico, in cui il governo deve prendere una decisione facendo riferimento a una considerazione morale che non è accettabile da tutti. Il che implica che i decisori pubblici decideranno sulla base di quel che detta loro la coscienza, una volta considerate le ragioni in gioco. Praticherebbero così una economia del disaccordo morale, ovvero favorirebbero il miglior compromesso possibile.
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è necessario assumere il punto di vista della ‘prima persona’; è il singolo che deve dire che cosa è disposto ad accettare nei termini del compromesso. Il compromesso interpella le persone reali, e le loro concrete moralità.
2.4. Conclusione In questo capitolo ho messo in luce le ambivalenze della ragionevolezza dovute alla sua problematica fondazione normativa, tale da ripercuotersi anche sulla nozione di giustificazione pubblica. Ho ricostruito le istanze che hanno spinto Rawls a integrare la giustificazione politica indipendente, esposta nella Teoria, con la giustificazione pubblica che la concezione politica della giustizia può ottenere e che si esprime attraverso il consenso per intersezione tra dottrine comprensive ragionevoli. Peraltro, la struttura della giustificazione pubblica ha suscitano le critiche di coloro che non considerano adottabili i vincoli epistemici stabiliti dal requisito della ragionevolezza, che prescrive il riconoscimento degli oneri del giudizio: la praticabilità di tali vincoli implicherebbe un’ammissione di scetticismo o, ancora, un tradimento dei propri impegni morali fondamentali. Esemplare in tal senso è la questione dell’aborto che segnala, anche a detta di Rawls, un “punto morto” della ragione pubblica. Per Rawls superare questo scoglio è possibile ribadendo gli obiettivi politici dell’astinenza epistemica, ovvero dei vincoli epistemici imposti per poter parlare delle rispettive verità, cioè parlarne come di posizioni ragionevoli. È necessario sottolineare l’aspetto saliente dell’idea di ragione pubblica, che «essa non critica né attacca nessuna dottrina comprensiva, sia essa religiosa o di altro tipo, a meno che tale dottrina non sia incompatibile con gli elementi essenziali della ragione pubblica e delle società democratiche»128. Per gli altri rimane il fatto che la ragione pubblica è eccessivamente esclusiva, perché le condizioni di accesso alla sfera politica che essa 128
J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 276.
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impone non sono tali da poter essere accettate da tutti. Nei fatti, si rimprovera a Rawls di porre come condizione di accesso alla sfera politica la condivisione di una moralità che non è comune a tutti gli individui che abitano la società reale e che alcuni vivono come un semplice arbitrio. Una via di uscita dalle contraddizioni in cui sembra precipitare la ragione pubblica, dovute anche al suo incerto statuto normativo, è offerta dalla teoria del liberalismo giustificativo: si tratta di ripensare la giustificazione nel segno di un prassi giustificativa in modo che essa permetta l’apertura del dibattito a posizioni inconciliabili, in quanto fondate su premesse opache o indeterminate, ma egualmente titolate a sostenere le rispettive ragioni nella consapevolezza che possono anche non ricevere alcuna giustificazione pubblica. L’idea, in sintesi, è che ci sia spazio per il compromesso, che per definizione non si realizza sulla condivisione di valori comuni, ma si attua a partire dalle posizioni degli individui ‘concreti’, adottando ciascuno non lo sguardo impersonale della ragione pubblica ma quello personale della ‘prima persona’, dal quale si difendono i propri valori. Ad un modo diverso di pensare il consenso occorre ora puntare. Lo scopo non è quello di cancellare né lo spirito della ragionevolezza né l’istanza della ragione pubblica, ma solo quello di valutare se esistano modi alternativi per trattare le posizioni che non rispondono ai requisiti di entrambe, che sono cioè refrattarie alle condizioni di inclusione nella sfera politica. Quel che nel prossimo capitolo mi propongo di fare è partire dalla nozione rawlsiana di irragionevolezza per capire se e come gli “irragionevoli” possano essere trattati da cittadini, a tutti gli effetti.
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III. Il trattamento degli “irragionevoli”
Sulla scorta delle critiche mosse all’ideale della ragione pubblica – critiche che mettono in dubbio la tenibilità stessa del liberalismo politico – riprendo l’idea di ragionevolezza per chiarire quella opposta di irragionevolezza, per poi tentare di rispondere alle istanze dei cosiddetti “irragionevoli”. Si tratta, in breve, di tendere a un superamento delle divisioni che permangono nel discorso rawlsiano, visti soprattutto i rischi di esclusione dalla sfera politica di chi non sottoscrive le condizioni di accesso stabilite dalla ragione pubblica. Si tratta, come s’è detto, di vincoli molto più stringenti di quanto non sembrino a prima vista; la ragionevolezza, richiesta per poter tradurre le proprie ragioni nel linguaggio della ragione pubblica, non è infatti un semplice dispositivo per il dialogo o un requisito formale del discorso, ma si rivela un indicatore di appartenenza, per quanto politica e non metafisica, un segno di condivisione di un ideale di cittadinanza democratica. Per questo i suoi requisiti sono avvertiti da chi sta al di fuori di tale appartenenza come vere e proprie ingiunzioni. Procederò come segue: dopo aver ripreso le fila del discorso fin qui svolto e dopo aver messo a fuoco l’identità degli “irragionevoli”, discuterò del trattamento che Rawls riserva loro nell’ottica della stabilità della società giusta. Mi concentrerò sul dibattito intorno a quella che da più parti è stata giudicata una discriminazione o, almeno, un’elusione degli “irragionevoli”: se per Rawls, e più marcatamente per i suoi ‘difensori’, si può tutt’al più parlare di un’autoesclusione degli “irragionevoli” dalla constituency giustificativa del liberalismo, ragione che spiega perché a
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costoro vadano assicurati diritti ma non riservato un posto nella giustificazione pubblica, per altri, critici nei confronti di Rawls, si deve propriamente parlare di un’esclusione degli “irragionevoli”. Starebbe, al fondo di questa esclusione, un pregiudizio: sono definite irragionevoli le persone che non condividono le ragioni pubbliche e che, tuttavia, potrebbero avere un ruolo nella discussione politica se soltanto le loro ragioni venissero ascoltate, senza l’obbligo che essi si ‘convertano’ alla ragione pubblica e alla ragionevolezza cui è collegata; si tratterebbe, come s’è detto, di ripensare alla giustificazione pubblica, considerarla come una prassi giustificativa che includa le verità senza nasconderle, che apra a un giudizio di razionalità delle ragioni onde ‘valutarne’ la ragionevolezza, piuttosto che assumerle come ragionevoli o escluderle perché irragionevoli. Ora, una volta tirate le fila di questo dibattito, cercherò di proporre una nuova modalità per parlare degli “irragionevoli”: chiamerò questi individui non-ragionevoli per dire che, benché non condividano alcune premesse fondamentali per un sostegno wholehearted del liberalismo, non sono liquidabili come irragionevoli nel senso di fanatici, in quanto disposti a mettere in campo le loro ragioni per il dissenso. Nei loro confronti valuterò una modalità di convivenza stabile come uno speciale modus vivendi. Non si tratta del modus vivendi hobbesiano temuto da Rawls ma neppure del modus vivendi transitorio corrispondente al tempo necessario alla ‘trasformazione’ degli “irragionevoli” in cittadini ragionevoli, come Rawls ‘congettura’1 che accada come esito della consuetudine a vivere al di sotto delle istituzioni liberali, apprezzandone via via i benefici. Si tratta, invece, di concepire la possibilità di un modus vivendi stabile, che è stabile in virtù della lealtà ‘divisa’ o parziale di cittadini non-ragionevoli, disposti alla cooperazione con i “ragionevoli”. Il loro stare nelle istituzioni non sarà un consenso per intersezione, che si dà nella condivisione delle stesse ragioni pubbliche, ma non sarà neppure 1
La “congettura” è ciò che fa sperare Rawls nel progressivo ampliamento del consenso. Vd. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., pp. 32, 150.
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Il trattamento degli “irragionevoli” 159
un equilibrio instabile di interessi contrapposti, nella rinuncia al valore della cooperazione. Il loro stare nelle istituzioni è un partecipare ad una prassi giustificativa che non oscura le loro verità ma le rende visibili, così come visibili sono in essa le verità di ciascuno. Quanto poi queste possano essere alla fine condivise, dipenderà dagli esiti della giustificazione pubblica. Oltre la dicotomia tra ragionevoli e “irragionevoli” si profila così la possibilità di ‘aprire’ la cittadinanza a persone che, non disposte alla cooperazione secondo i requisiti della ragione pubblica, mostrano la capacità di rispettare le istituzioni per le loro ragioni non condivise né condivisibili, a volte semplici motivazioni, ma tali da non mettere a repentaglio la stabilità.
3.1. Riprendere le fila Il capitolo precedente si è concluso con una riflessione sui limiti della ragione pubblica. Rispondere alle condizioni da essa fissate per accedere al dibattito politico significa – per i portatori di posizioni ‘forti’, specie religiose – subire un trattamento discriminatorio. La critica principale è mossa all’ingiunzione a non fare appello alla verità, che si assume sia causa di profondi dissensi, per concordare su un’idea del politicamente ragionevole. Ciò comporta un esito paradossale: non poter esibire pubblicamente le proprie ragioni, cui peraltro si sono attinte le energie morali per sostenere la concezione politica della giustizia. Su questa ambivalente richiesta di continuità e insieme di discontinuità tra le verità e i termini della giustizia si concentrano le critiche più significative mosse alla giustificazione pubblica così come è interpretata da Rawls. Sappiamo come Rawls confidi nella condivisione di ‘ragioni giuste’ per sostenere una concezione politico-morale della giustizia. Tale condivisione, come sappiamo, è garantita dalla ragionevolezza, che, per come è presentata da Rawls, esprime molto più di una generica disponibilità alla cooperazione, assumendo al fondo una moralità condivisa. Tale condivisione sta alla base
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La verità sospesa
della legittimità delle istituzioni e, di conseguenza, è la condizione per vincere la sfida che il pluralismo lancia alla stabilità2. Ora, quel che si può trarre dalla discussione sui vincoli della ragione pubblica è che, per quanto ospitale si dichiari il liberalismo politico, le condizioni fissate per l’accesso al dibattito politico risultano piuttosto restrittive. Gli argomenti portati dai sostenitori delle posizioni religiose nel denunciare la separazione aprioristica tra pubblico e non pubblico, tra politica e religione, tra legge e morale, tra giusto e bene sono tutt’altro che pretestuosi. La stessa concezione politica della giustizia, per quanto Rawls la difenda come espressione di una moralità costituzionale condivisibile da tutti, sembra richiedere un ancoraggio più saldo e profondo in una visione del bene determinata e tutt’altro che superficiale, in una concezione che non rimane, nonostante l’intento di Rawls, «in superficie dal punto di vista filosofico»3. Ci si chiede, peraltro, se abbia senso parlare di una concezione ‘soltanto politica’ della giustizia; come si diceva, è difficile capire come due o più dottrine differenti possano accettare una stessa concezione politica pur essendo in disaccordo sulle ragioni teoriche a suo sostegno; ciò significherebbe concepire la concezione politica come insieme ‘collegata’ e ‘scollegata’ dagli argomenti teorici delle varie dottrine comprensive; significherebbe, ancora, assumere una coerenza tra visioni teoriche tra loro incoerenti, visto che la medesima concezione politica riceve sostegno da ragioni ‘metafisiche’ differenti tra loro se non del tutto divergenti. Questa 2
Cfr. J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 65: «Non vi è dunque giustificazione pubblica per la società politica senza un ragionevole consenso per intersezione, e tale giustificazione si collega anche alle idee di stabilità per le giuste ragioni e di legittimità». Cfr. anche J. Rawls, Giustizia come equità. Una riformulazione, cit., p. 33: «Se raggiungeremo questo scopo [quello di mettere tra parentesi le controversie religiose e filosofiche] realizzeremo un consenso per intersezione fra dottrine ragionevoli, e la concezione politica che affermiamo troverà così un equilibrio riflessivo. È proprio quest’ultima condizione – la riflessione ragionata – a distinguere, insieme ad altre cose, la giustificazione pubblica dal semplice accordo». 3 Ricordiamo come questa espressione sia usata da Rawls nel saggio “Giustizia come equità: è politica non metafisica”, cit., p. 179.
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Il trattamento degli “irragionevoli” 161
impasse è, del resto, il prevedibile esito degli errori commessi da Rawls nella sua difesa del liberalismo politico: l’aver negato un ruolo pubblico alla verità, con la conseguente chiusura epistemica del suo sistema giustificativo; richiedere, ancora, agli individui di servirsi delle loro ragioni private per un’ultima volta, quella necessaria per adottare la ragione pubblica, e quindi di disfarsene nel dibattito sulle questioni fondamentali di giustizia; l’avere, infine, preteso un consenso attorno ad una concezione politica a partire da ragioni ‘metafisiche’ persino divergenti, ma aspettandosi ad un tempo, implausibilmente, che tali divergenti ragioni ‘metafisiche’ possano sostenere la stessa concezione politica. C’è qualcosa di paradossale, come sopra dicevo, nell’assumere che ci siano continuità e insieme discontinuità tra ragioni ‘metafisiche’ e ragioni pubbliche4. Quel che si può, infine, dire è che Rawls mostra di non dare spiegazioni sufficienti su come si possano tenere insieme entrambe le esigenze, quella di una ‘astensione’ dalla verità delle dottrine comprensive e quella di una loro adesione alla concezione della giustizia sulla base delle ‘giuste ragioni’. Non sembra realisticamente in grado di riconciliare il pluralismo delle dottrine comprensive attorno ai valori politici ottenendo un consenso stabile per ragioni morali. È prendendo atto di queste aporie interne alla proposta di Rawls, pur nella condivisione della finalità pratica e, per dir così, della posizione assunta a difesa di un mondo liberale depurato da settarismi, che trovo non convincente la difesa di coloro che, per risolvere tali contraddizioni, leggono Rawls come sostenitore di una concezione ‘interna’ del liberalismo politico, una lettura che trovo non in linea con i motivi che l’hanno convinto a ‘politiciz4 La discontinuità tra ragioni metafisiche e concezione politica segna l’impossibilità di difendere una concezione soltanto politica (P. J. Steinberger, “The Impossibility of a Political Conception”, cit.) se non al prezzo di abbandonare la verità per lo scetticismo (B. Barry, “John Rawls and the Search for Stability”, cit.).
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zare’ la teoria della giustizia5. Non va infatti trascurato l’intento di Rawls di proporre una teoria praticabile della giustizia, tale cioè da rendere conto delle caratteristiche psicologiche morali dei soggetti cui è indirizzata. Ma non si soddisfa il requisito della praticabilità delimitando la constituency di giustificazione a soggetti con caratteristiche morali, quelle che Rawls ha in prima battuta definito irrealistiche e che, successivamente, ha predicato di persone ‘scelte’ entro un preciso contesto di elezione, quel contesto definito dalla ‘ragionevolezza’ e dal ‘pluralismo ragionevole’. Assumere una constituency ideale di persone come destinatarie della giustificazione mi pare contraddica l’istanza di praticabilità a fronte di un ‘reale’ pluralismo. È pur vero che contraddittoria è già in sé la definizione che Rawls dà del pluralismo, che considera un fatto che però qualifica come ragionevole: se prendere sul serio il fatto del pluralismo è all’origine del ripensamento della giustizia come equità, sì da cercare il modo di stabilizzarla sulla base della sua accettabilità morale nonostante il pluralismo, un fatto dichiarato ragionevole più che un fatto è un’interpretazione. L’espressione “fatto del pluralismo” è infelice, perché «crea […] un’inutile confusione tra ciò che è un fatto (la presenza, cioè, di una pluralità di valori) e ciò che è, invece, una teoria (il pluralismo ragionevole), che di tale fatto spiega le origini (gli oneri della ragione) e ne evidenzia la rilevanza per la teoria politica»6. Assumere la ragionevolezza alla base della cooperazione tra persone che rispettano termini equi, cioè che, nella sostanza, condividono le stesse ragioni pubbliche, significa aver risolto in partenza la sfida lanciata dal pluralismo alla stabilità: i conflitti che nascono nella società pluralistica sono a priori componibili e la loro componibilità è resa possibile dalla ragionevolezza. Raggiungere la stabilità, per dir così, è una questione di tempo, non di una qualche invenzione o impegno filosofico. Ma la società figurabile come un puzzle i cui pezzi andranno 5
Il riferimento è a J. Quong, Liberalism Without Perfection, cit. E. Ceva, Giustizia e conflitti di valori. Una proposta procedurale, Milano: Bruno Mondadori, 2008, p. 21. 6
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prima o poi al proprio posto non è una società realistica, non è la società cui Rawls probabilmente pensava quando ha trovato, a sua volta, irrealistica la teoria della giustizia. E se comunque di tempo si deve parlare come del fattore necessario perché le stesse istituzioni liberali contribuiscano alla formazione del senso di giustizia degli individui, un contributo nel quale Rawls confida, i termini della questione non mutano radicalmente: che occorra tempo perché le istituzioni svolgano la loro opera di «socializzazione liberale» non cambia l’assunto di fondo che si passi dalla irragionevolezza alla ragionevolezza, dal pluralismo come fatto tout court a un pluralismo ragionevole7. Il fatto che Rawls attribuisca la (giusta) importanza alla funzione educatrice svolta dalle istituzioni liberali non mi sembra, peraltro, implicare un’azione intesa a motivare gli “irragionevoli” affinché diventino ragionevoli. È, anzi, alla speranza, per quanto ragionevole, che Rawls affida questa sorta di ‘spostamento’ dalla irragionevolezza alla ragionevolezza; che avvenga non c’è, come è noto, garanzia. Riparto ora dalla nozione di ragionevolezza ma per mettere in chiaro ciò che implica la nozione contraria di irragionevolezza. Di questa intendo scoprire qualche sfumatura in più per andare oltre la distinzione tracciata da Rawls tra ragionevoli e “irragionevoli”, una ‘distinzione che separa’, laddove questi ultimi sembrano esclusi dal «raggio d’azione della teoria rawlsiana» per non essere «pronti a sostenere la propria posizione tramite il riferimento alla ragione pubblica e a rivederla alla luce degli argomenti altrui al fine di raggiungere un accordo mutuamente accettabile»8. L’idea di irragionevolezza che ho in mente individua diversi gruppi di persone, cui corrispondono diverse modalità di essere non-ragionevoli, cui corrispondono altrettante forme di inclusione nella cittadinanza nonché, infine, un’unica forma, ma in un caso soltanto, della loro esclusione. 7 8
Vd. S. Macedo, “The Politics of Justification”, cit., pp. 290 ss. E. Ceva, Giustizia e conflitti di valori, cit., p. 115.
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3.2. Gli “irragionevoli” 3.2.1. Chi sono gli “irragionevoli” Finora si son dedicate pagine ai “ragionevoli”, individui e dottrine, e alla ragionevolezza, la virtù che li contraddistingue. S’è fatto solo qualche cenno agli “irragionevoli” come quegli individui o quelle dottrine che, per definizione, non sono ragionevoli. Come la nozione di ragionevolezza ha mostrano una certa elusività, lo stesso vale, forse ancor di più, per quella di irragionevolezza. Vediamo dunque di ripercorrere il ragionamento di Rawls onde mettere a fuoco l’identità degli “irragionevoli”. Nelle prime pagine di Liberalismo politico, dopo aver affermato che la società democratica è caratterizzata da un pluralismo di dottrine comprensive ragionevoli, Rawls afferma che «naturalmente una società può avere in sé anche dottrine comprensive irragionevoli e irrazionali, o perfino folli; e in questo caso il problema è quello del contenimento, del fare in modo che tali dottrine non minino l’unità e la giustizia della società»9. Successivamente, dopo aver spiegato chi sono le persone ragionevoli e aver precisato che sono quelle «disposte a proporre dei principi e criteri che facciano da equi termini di cooperazione e rispettarli volontariamente, una volta sicure che anche gli altri faranno lo stesso», Rawls contrappone ad esse quelle irragionevoli: «una persona è invece irragionevole […] quando desidera impegnarsi in sistemi cooperativi ma non è disposta a onorare o anche solo a proporre […] alcun principio o criterio generale che specifichi equi termini di cooperazione. Simili persone sono pronte a violare questi termini ogni volta che ne hanno la convenienza e che le circostanze glielo consentano»10. Passando, poi, a parlare delle dottrine comprensive ragionevoli ed assumendo che le persone ragionevoli sostengono solo dottrine comprensive ragionevoli, Rawls ammette di dare di esse 9 10
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 6. Ivi, p. 59.
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una descrizione piuttosto vaga11, ma di farlo per non dover «classificare una dottrina come irragionevole senza motivi molti forti, basati su chiare caratteristiche del ragionevole stesso»12: se lo si facesse, si correrebbe il rischio di dare una descrizione arbitraria e troppo restrittiva. La preoccupazione di Rawls è che il liberalismo politico considera ragionevoli molte dottrine che tuttavia non sarebbe disposto a sostenere per l’importanza in esse conferita a certi valori discordanti con quelli liberali. Ma – conclude Rawls – per gli scopi del liberalismo politico non è necessario un criterio più rigido. Rawls torna sull’indipendenza reciproca di ‘ragionevole’ e ‘vero’ e lo fa con queste parole: «se qualcuno dice che fuori della chiesa non c’è salvezza e perciò non è possibile accettare un regime costituzionale, salvo quando è inevitabile, dovremo pur rispondere e diremo che questa dottrina è irragionevole perché si propone di usare il potere politico pubblico […]. Qui è importante sottolineare che questa obiezione non dice, per esempio, che la dottrina extra ecclesiam nulla salus sia falsa; dice, caso mai, che è irragionevole chi vuole usare il potere politico pubblico per imporla e ciò non significa che le cose in cui crede siano false»13. In sintesi: verità è altra cosa da ragionevolezza così come falsità è altra cosa da irragionevolezza; il giudizio di ragionevolezza è indipendente da quello di verità così come, per contrasto, quello di irragionevolezza lo è da quello di falsità. A questo riguardo Rawls fa una considerazione apparentemente sibillina, avvisan11
Ricordo come le dottrine comprensive ragionevoli siano definite da tre caratteristiche principali: «la prima è che una dottrina ragionevole è un caso di esercizio della ragione teoretica e copre, in modo più o meno coerente ed organico, i più importanti aspetti religiosi, filosofici e morali della vita umana […]. Ma quando sceglie i valori da considerare particolarmente significativi e i pesi relativi da assegnare loro quando entrano in conflitto, una dottrina comprensiva ragionevole è anche un caso di esercizio della ragione pratica […]. Un terzo aspetto, infine, è che una visione comprensiva ragionevole, pur non essendo necessariamente fissa e immutabile, normalmente appartiene, o si rifà, a un certa tradizione di pensiero e dottrina» (ivi, p. 65). 12 Ivi, p. 66. 13 Ivi, pp. 126-27.
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do il lettore che ci sono casi in cui non c’è modo di evitare del tutto riferimenti alla non verità di certe affermazioni, quelle che mettono in discussione, anzi mostrano di rifiutare, gli elementi costituzionali essenziali. La spiegazione viene data dopo qualche pagina ed è la seguente: si tratta di quelle credenze che rinunciano alla ragione pubblica e che riteniamo sbaglino nel negare il fatto del pluralismo ragionevole; tuttavia, non abbiamo per questo bisogno di dire che tali credenze religiose non sono vere, perché dire che tali credenze non possono essere stabilite pienamente e pubblicamente dalla ragione non è lo stesso che dire che non sono vere14. Fare questa considerazione – precisa Rawls – è dire che una concezione politica non può essere indifferente alla verità più di quanto la tolleranza non lo sia nei confronti della verità religiosa. Dire che la verità non rileva è dire qualcosa che vale sul piano politico ma che non dà sostanza ad alcun giudizio di verità sul piano teorico, filosofico e religioso. Ricordiamo come, nel segnalare il contrasto tra “ragionevoli” e “irragionevoli”, Rawls faccia riferimento all’uso del potere politico: le persone ragionevoli troveranno irragionevole usare il potere politico – se dovessero possederlo – per reprimere dottrine comprensive non irragionevoli, benché diverse dalla loro15; essi infatti riconoscono che nella cultura di una società democratica non c’è una base unica per la giustificazione pubblica e che potrebbero esserci molte basi per la giustificazione a condizione di fare la differenza tra credenza comprensiva e credenza comprensiva vera16. La pretesa di qualcuno che non faccia tale differenza e che insista sulla propria opinione, intendendola imporre in quanto vera, altro non sarebbe che espressione di irragionevolezza. Tanto più irragionevole sarebbe costui dal momento che la stessa pretesa potrebbe essere avanzata da tutti allo 14
Ivi, pp. 136-38. Ivi, p. 66. 16 Rawls dichiara il suo debito nei confronti di Thomas Nagel e di Joshua Cohen per aver chiarito questa necessità di distinguere, nel cercare una base per la giustificazione pubblica, tra credenza e verità. Cfr. ivi, p. 321, n. 15. 15
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stesso titolo, laddove nessuno è depositario della verità e tutti, se ragionevoli, riconoscono come le opinioni discordanti intorno al vero dipendano dall’esercizio della ragione in condizioni di libertà17. Al contrario, la persona irragionevole non accetta né gli oneri del giudizio né che gli oneri del giudizio pongano dei limiti a ciò che si può giustificare ragionevolmente agli altri; non accetta, in poche parole, la differenza tra la verità e la possibilità di dimostrarla. Waldron sintetizza efficacemente il significato di ‘irragionevole’: irragionevole è la dottrina la cui divergenza dalle altre non è intelligibile alla luce degli oneri del giudizio; lo è, inoltre, la dottrina le cui istanze non sono in alcun modo equamente bilanciate con quelle avanzate dalle altre dottrine18. Come si è più volte sottolineato, dire che esistano tali oneri del giudizio non implica, peraltro, negare la verità, bensì soltanto avere la consapevolezza che è praticamente impossibile un accordo politico attorno ad una stessa concezione di verità, dato il fatto del pluralismo. Irragionevole – torna a dire Rawls – è il pluralismo delle posizioni irragionevoli, un pluralismo “puro e semplice” di dottrine comprensive che, avendone la possibilità, sopprimerebbero la libertà di coscienza e di pensiero19. Per questo motivo, ricordiamo ancora, è meglio parlare di concezione politica ragionevole e non vera: per evitare, cioè, ogni deriva fondamentalista, riconducibile al fatto che alcune persone sono propense a considerare la propria dottrina come l’unica vera e a imporla sugli altri. Peraltro, non è neppure necessario che essa sia vera, dal momento che non rientra tra gli scopi di tale concezione politica dimostrarsi vera; suo scopo è, invece, quello che i cittadini, in quanto persone razionali e ragionevoli, la possano fare propria dopo un’adeguata riflessione, raggiungendo in questo modo un accordo sugli elementi costituzionali essenziali 17 Su questo punto Rawls torna, con ampi riferimenti alla irragionevolezza di alcune posizioni religiose, in “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., specie le pp. 296, 319. 18 J. Waldron, Law and Disagreement, cit., p. 163. 19 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 69.
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e sulle questioni di giustizia fondamentale. Ora – precisa Rawls – certamente l’esistenza delle dottrine irragionevoli è un fatto che minaccia il consenso per intersezione rendendolo impraticabile. Può accadere che i tentativi di realizzarlo siano schiacciati dalle dottrine irragionevoli se non, addirittura, da dottrine irrazionali o folli. Il fatto che il consenso possa non essere raggiunto da dottrine irragionevoli o separate dalla ragione pubblica nulla toglie alla sua dimensione normativa. Rawls fa infine cenno all’irragionevolezza in cui cadrebbe la stessa concezione della giustizia se venisse imposta su chi non la condivide, su coloro cioè non in grado di realizzare un consenso: la stabilità che la condivisione della concezione politica della giustizia dovrebbe garantire va ottenuta per le ‘ragioni giuste’, non già come frutto di un’imposizione. Una stabilità estorta, per dir così, può garantire tutt’al più un precario modus vivendi20.
3.2.2. L’itinerario per l’inclusione Al modus vivendi Rawls fa in varie occasioni riferimento per fissare la distanza del consenso per intersezione da un mero e precario equilibrio di forze quale è appunto, per lui, il modus vivendi. Il consenso per intersezione si realizza, come è noto, sui valori politici sostenuti dagli individui per i motivi morali che essi rinvengono nelle loro rispettive dottrine; non è questo il tipo di consenso che si realizzerebbe per adesione a tali valori per cause diverse e non morali, che possono essere la paura, la prudenza o l’opportunità21. In questo caso – afferma Rawls – «l’unità sociale è solo apparente, perché la sua stabilità è legata all’eventualità 20
L’opinione che Rawls ha del modus vivendi è generalmente negativa, poiché esso equivale a un hobbesiano equilibrio di forze destinato alla precarietà. Tornerò tra breve su questa affermazione. 21 Ricordo che Rawls insiste sulla distinzione tra consenso per intersezione e modus vivendi in Liberalismo politico, cit., pp. 132-34. Rimando al cap. 1 per le molte critiche che cercano di dimostrare come tale distinzione non sia, ad una più attenta analisi, sostenibile.
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che la situazione rimanga tale da non perturbare una fortuna convergenza di interessi»22. I motivi per aderire al consenso per intersezione e quelli che preludono al modus vivendi fanno la differenza: il consenso per intersezione è, diversamente dal modus vivendi, un consenso su base morale, ottenuto su una concezione morale benché limitata alla sfera politica e istituzionale; coloro che aderiscono ad essa lo fanno a partire dalle rispettive dottrine comprensive, attingendo alle motivazioni religiose, filosofiche e morali che esse mettono a disposizione; il fatto che affermino per ragioni diverse la stessa concezione politica non rende meno religiosa, morale o filosofica il loro affermarla, dato che le motivazioni sostenute con sincerità determinano la natura di tale affermazione23. All’opposto, il modus vivendi rappresenta un modo di adesione ai principi che non dà alcuna garanzia di stabilità, proprio per la precarietà intrinseca alle ragioni prudenziali alla base di tale adesione. Fatta questa affermazione, Rawls è però convinto che, in date circostanze di pace e di sostanziale stabilità delle istituzioni, il modus vivendi si trasformi gradualmente in un consenso per intersezione, ovvero che si offra come una via verso l’inclusione nella cittadinanza. Spiega come ciò accada facendo riferimento al consenso costituzionale, che si ottiene quando i principi sono accettati semplicemente come principi politici e non in quanto fondati sulle idee di persona e società di una concezione politica; il consenso costituzionale è un consenso che avviene solo sulle procedure e non sulla struttura di base della società giusta. Come esso avvenga lo si può capire andando con la memoria agli eventi successi dopo la Riforma: il principio di tolleranza 22
Ivi, p. 133. Ivi, p. 134. Sembra che Rawls, con questa considerazione, veda la ragionevolezza degli individui nel modo in cui essi sostengono le loro dottrine; possono, come è noto, convergere nel consenso per intersezione anche dottrine che troveremmo false o almeno non condivisibili, a condizione che esse adottino il linguaggio della ragione pubblica. Sappiamo come questa affermazione non sia per tutti appropriata, laddove la conformità alla ragione pubblica determinerebbe non già il come ma il che cosa della condivisione. 23
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venne accettato dapprima con riluttanza – spiega Rawls – cioè come un modus vivendi, e poi venne inserito nella istituzioni politiche esistenti come unica alternativa praticabile a una guerra civile distruttiva; si passò, in sostanza, da un’acquiescenza iniziale nei confronti di una costituzione che soddisfaceva certi principi liberali di giustizia a un consenso costituzionale che affermava questi stessi principi. Il consenso costituzionale non è però né ampio né profondo, precisa Rawls: non è ampio perché non entra nel merito delle libertà fondamentali, non è profondo perché si limita alle procedure e non concerne concezioni profonde della politica. Si può dire che il consenso costituzionale sia frutto di una prassi consolidata nel tempo; in un qualche modo esso prepara al consenso per intersezione laddove il tempo stabilizza, per dir così, la lealtà ai principi della concezione politica. Il progressivo consolidamento dei principi genera, quindi, il consenso per intersezione, che acquista nel tempo ampiezza e profondità, presupponendo una concezione politica autonoma che adopera idee di società e persona tratte dalla teoria della giustizia come equità24. Il passaggio dal consenso costituzionale a quello per intersezione è spiegato da Rawls indicando le fasi di un processo democratico in cui le parti approfondiscono e ampliano le loro concezioni politiche. Senza entrare nel merito delle singole fasi di tale processo, Rawls si limita a “congetturare” che, quanto più si riducono le differenze tra le concezioni liberali basate sulle idee politiche fondamentali di una cultura democratica pubblica, tanto più la gamma delle concezioni politiche che definiscono il centro del consenso si restringe25. Fatte queste precisazioni e spiegato in che modo avviene il passaggio dal modus vivendi al consenso costituzionale e, quindi, al consenso per intersezione, Rawls fa un’ammissione rilevante: nella pratica non è sempre facile stabilire se l’accettazione della concezione politica dipenda dal credere che i principi siano sostenuti da una visione comprensiva piuttosto che dal fatto di 24 25
Vd. S. Maffettone, Introduzione a Rawls, cit., p. 118. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 150.
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apparire in se stessi ragionevoli. Infatti, molti cittadini, se non la maggioranza, mostrano di sostenere i principi di giustizia incorporati nella costituzione e nella loro pratica politica senza vedere un «nesso particolare, né in un senso né nell’altro, fra questi principi e il resto delle loro idee. È possibile che i cittadini prima apprezzino il bene che tali principi significano per loro e per le persone che stanno a loro a cuore e per la società in generale; e poi li sostengano su questa base»26. Ciò sembra dire che non sia alla fin fine necessario avere dottrine comprensive complete per aderire alla concezione politica: i singoli possono dare un’adesione indipendente ai principi contribuendo alla realizzazione di un consenso. Questa adesione induce gli individui ad agire intenzionalmente in armonia con gli assetti istituzionali dato che hanno ragionevole garanzia, basata sull’esperienza del passato, che anche gli altri vi si adegueranno; a mano a mano che i successi della cooperazione politica continuano, la fiducia reciproca dei cittadini aumenta, per cui la realizzazione dell’intersezione diventa una realtà27. L’adesione graduale ai principi spiega come, storicamente, pur essendo stati accettati con iniziale riluttanza come modus vivendi e quindi inseriti in una costituzione, i principi di giustizia abbiano gradatamente modificato le convinzioni più generali dei cittadini in modo da far loro accettare i principi di una costituzione liberale. Tali principi hanno permesso di risolvere questioni dovute a rivalità politica stabilendo procedure democratiche utili a moderarla e a risolvere problemi di politica sociale. Questo significa che le idee comprensive dei cittadini si 26
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 144. Significativo quanto Rawls scrive a proposito in Giustizia come equità: una riformulazione, cit., p. 38: «mentre la visione dei più, nel suo insieme, è comprensiva nel senso che include anche valori non politici, lo è solo in modo parziale nel senso che non risulta né sistematica né completa; […] vedremo che questa mancanza di sistematicità e completezza è un fatto positivo, e col tempo facilita la trasformazione di un modus vivendi in un consenso per intersezione». La mancanza di una vera e propria dottrina e la disponibilità solo di argomenti compatibili con le istituzioni giuste costituiscono una via più semplice per il consenso. 27
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La verità sospesa
son fatte ragionevoli mentre dapprima non lo erano: «il pluralismo semplice si avvicina al pluralismo ragionevole e si realizza un consenso costituzionale»28. Questa precisazione è fondamentale, e ad essa farò riferimento nel prosieguo: Rawls ammette, in altre parole, che al consenso per intersezione possano partecipare non solo i portatori di dottrine comprensive ragionevoli ma anche quei cittadini, la maggior parte in realtà, che non hanno particolari visioni o non sanno di averle, o che aderiscono alla concezione politica dopo un’iniziale acquiescenza, magari per consuetudine o perché hanno vissuto da sempre al di sotto delle istituzioni liberali, constatandone giorno dopo giorno i benefici. La loro adesione alle istituzioni è reale benché a stento si possa dire sia dovuta o sia stata dovuta a un consapevole consenso. Si diceva della fiducia reciproca dei cittadini che aumenta con i successi della cooperazione: ricordiamo come già Rawls dicesse che crescere al di sotto delle istituzioni liberali permette di acquisire un senso di giustizia e una fedeltà ragionata verso le istituzioni tale da renderle stabili. Il senso di giustizia, che i cittadini possiedono e che si sviluppa all’interno della società liberale, li rende capaci di resistere alle normali tendenze all’ingiustizia; in altre parole, permette loro di far sì che, nei casi di conflitto tra la giustizia pubblica e i propri interessi, la prima prevalga sui secondi. È in ragione di questa ‘psicologia evolutiva’ che è plausibile che si realizzi un consenso per le ‘giuste ragioni’ intorno alla concezione politica della giustizia29. Rawls fa, infine, un’ultima precisazione: l’adesione alla concezione politica può essere graduale ma non è mai un compromesso. Un compromesso è imposto dalle circostanze e non può mai esprimere – dice Rawls – un’adesione autentica e libera ai principi di giustizia30. 28
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 146. Ivi, p. 130. 30 Ivi, pp. 151, 153. Ritorna, in conclusione di questa ampia spiegazione di come il consenso per intersezione sia realizzabile, l’avvertenza di Rawls secondo la quale è in gioco la plausibilità stessa del liberalismo politico. Si tratta di nutrire una fede ragionevole in un regime costituzionale giusto. 29
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Il trattamento degli “irragionevoli” 173
3.2.3. Il trattamento degli “irragionevoli” Abbiamo visto dunque come, una volta chiarito chi sono gli “irragionevoli”, Rawls si sia soffermato sul passaggio storicamente avvenuto da forme di modus vivendi al consenso per intersezione, mettendo in rilievo come le istituzioni liberali svolgano nel tempo un’opera di educazione delle persone perché diventino ragionevoli, capaci cioè di aderire, alla fine di un percorso, ai principi di giustizia con intenzione e convinzione. Ma, mentre il tempo lavora, nei confronti delle dottrine irragionevoli – quelle che respingono gli elementi essenziali di un regime democratico minacciandone la stabilità – quel che c’è da fare è attuare politiche di contenimento, in modo che l’unità sociale e la giustizia non ne vengano compromesse31. Aggiunge a margine Rawls che «la stessa esistenza di dottrine che respingono una o più libertà democratiche è – o almeno sembra essere – un fatto permanente della vita. Ciò significa che abbiamo, nella pratica, il compito di tenerle a bada – come le guerre e le malattie – affinché non sovvertano la giustizia politica»32. Si può dire, in sintesi, che il trattamento che Rawls riserva agli “irragionevoli” sia una forma di tolleranza unita a sforzi di accomodamento che la ‘società dei ragionevoli’ deve predisporre ai fini di una pacifica convivenza, nella speranza che gli “irragionevoli”, vivendo nella società giusta e godendo dei benefici della stabilità, possano gradualmente fare propri i valori politici. C’è un caso a noi noto in cui il trattamento degli “irragionevoli” appare ambivalente. È il caso di quelle persone ‘irragionevoli’ che sostengono la posizione contraria all’aborto. Una caso, come ben sappiamo, che segnala, anche a detta di Rawls, la limitatezza della ragione pubblica; l’aborto la costringe a un “punto morto” poiché appare evidente la sua incapacità a risolvere la controversia. Le posizioni degli anti-abortisti sono 31 32
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 6. Ivi, p. 322, n. 19.
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irragionevoli perché «incompatibili con il regime democratico»: esse – dice Rawls – possono rispettare la costituzione solo nella forma del modus vivendi, per cui rappresentano un rischio per le istituzioni democratiche33. La loro esistenza è un vincolo per la piena realizzazione della società democratica. Questo giudizio generale sugli “irragionevoli”, pur dato e chiarito a conclusione della diatriba sull’aborto, è però alla fine attenuato nei confronti degli anti-abortisti: replicando allo scandalizzato rimprovero per aver dato loro degli ‘irragionevoli’, Rawls precisa, ma in effetti ribadisce, che con l’uso del termine “irragionevoli” intendeva indicare le posizioni comprensive che, negando il diritto di aborto, «entrerebbero di fatto in collisione con la ragione pubblica». Irragionevole, in quel dibattito, era considerato colui che non trova accettabile la distinzione tra ragioni pubbliche e ragioni non pubbliche, colui che non condivide il ragionevole bilanciamento delle ragioni politiche a favore della libertà della donna. Se ne è parlato come di una persona irragionevole per il fatto di non riconoscere gli oneri del giudizio né le conseguenze politiche di tale riconoscimento. Precisa cautamente Rawls che, «in questo tipo di caso, ma solo in questo», una dottrina comprensiva è irragionevole. Ad ulteriore attenuazione del suo precedente giudizio Rawls conclude dicendo che «naturalmente una dottrina comprensiva può essere irragionevole su una o più questioni senza esserlo del tutto»34. Il giudizio di irragionevolezza permane, comunque, per coloro che, dovendo andare al voto per dirimere la controversia sull’aborto, dovessero resistere in modo ostinato e, con eguale ostinazione, volessero imporre la loro convinzione religiosa alla maggioranza dei cittadini che non la accettano. Essi ritengono impercorribile l’idea di discutere di una legge sull’aborto mettendo tra parentesi la loro credenza circa la personalità dell’embrione. Queste sacche di resistenza 33
J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 325. Ivi, p. 315, n. 80. Rinvio al precedente capitolo per un chiarimento ulteriore di tale oscillazione nel giudizio di irragionevolezza a proposito degli anti-abortisti. 34
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‘irragionevole’ provano per Rawls ulteriormente i limiti della ragione pubblica, dal momento che quest’ultima dimostra, nel concreto della discussione, di non essere sempre in grado di condurre a un accordo generale. La mancata realizzazione di tale accordo non inficia, neppure in questo caso, l’ideale della ragione pubblica, cosa che a Rawls preme sottolineare: «i cittadini imparano e traggono profitto dalla discussione e, quando le loro argomentazioni seguono la ragione pubblica, essi arricchiscono la cultura politica della società e approfondiscono la comprensione reciproca, ed è così anche quando raggiungere un accordo è impossibile»35. Su costoro, sugli “irragionevoli”, Rawls non sembra avere altro da dire.
3.3. L’esclusione degli “irragionevoli” 3.3.1. Autoesclusi dalla giustificazione pubblica Il trattamento riservato da Rawls agli “irragionevoli”, per cui vanno tenuti a bada come le malattie e le guerre in modo che non minaccino l’ordine e la stabilità, suscita ampio dissenso. Per alcuni, difensori di Rawls, non c’è alternativa al controllo esercitato sugli “irragionevoli”, tanto più che sono loro stessi ad escludersi dalla giustificazione pubblica; per altri, invece, di opinione opposta, l’alternativa c’è e consiste nel rimediare alla loro esclusione, avvedendosi in primo luogo dei pregiudizi che si hanno su di loro, e che esprimono una specie di tirannide della maggioranza. In linea con la soluzione rawlsiana si esprime, per esempio, il già ricordato Quong36, che ribadisce come non sia compito del liberalismo politico giustificarsi presso gli “irragionevoli” o persuaderli dell’irragionevolezza delle loro posizioni. Quel che 35
Ivi, p. 317. J. Quong, Liberalism Without Perfection, cit., pp. 290-314. Alle sue considerazioni mi riferisco nel prosieguo. 36
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si può fare è tollerarli, pur garantendo loro gli stessi diritti degli altri37. A sostegno di questa affermazione a favore dei diritti degli “irragionevoli”, l’autore fa riferimento allo scopo esplicito della posizione originaria, che è quello di modellare la libertà e l’eguaglianza delle persone. Se accettiamo che tutte le persone sono libere ed eguali e che la posizione originaria ha modellato queste caratteristiche ideali, se accettiamo inoltre che i principi di giustizia siano correttamente derivati dalla posizione originaria, allora dobbiamo accettare che questi principi valgano per tutti. Se qualcuno dovesse negare che gli individui sono liberi ed eguali, ciò non toglie di doverli trattare come persone libere ed eguali, assicurandone diritti e libertà. I principi di giustizia – precisa Quong – sono giustificati nonostante l’indisponibilità degli “irragionevoli” a sostenerli, così come i diritti valgono anche per loro, nonostante essi li neghino agli altri. Non dimentichiamo – continua – che la constituency giustificativa del liberalismo, ovvero l’insieme delle persone cui le decisioni politiche devono essere giustificate, è idealizzata: non si riferisce cioè a individui empiricamente identificabili ma a quelli ragionevoli, cioè alle persone dotate della virtù politica della ragionevolezza, che li rende inclini alla cooperazione sulla base della condivisione di termini equi38. Ciò significa che non c’è alcuna esclusione preconcetta di soggetti in carne ed ossa, dotati di certe caratteristiche personali o morali, ma solo la modellizzazione delle qualità e delle competenze richieste per rientrare nella constituency giustificativa, che sono le competenze democratiche implicate dalla ragionevolezza. Quong indica una modalità ulteriore per distinguere “ragionevoli” da “irragionevoli”: i “ragionevoli” sono caratterizzati da un «disaccordo giustificativo», ovvero da un disaccordo che sorge quando i partecipanti al dibattito pubblico condividono premesse che servono come standard della giustificazione accettati da tutti; 37 Vd. J. Quong, “The Rights of Unreasonable Citizens”. Journal of Political Philosophy, 12, 3, 2004, pp. 314-35: 316-17. 38 J. Quong, Liberalism Without Perfection, cit., p. 153.
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nonostante si sia partiti dalla condivisione di ciò che conta come una buona ragione per tutti, non si esclude che si possa giungere a conclusioni sostantive divergenti. Si tratta, in altre parole, di concordare sul fatto che la struttura di base della società richiede un tipo speciale di giustificazione che rinvia alla ragionevolezza delle persone che la abiteranno, destinatarie dell’esercizio del potere da parte delle istituzioni39. Di «disaccordo sostanziale» si deve invece parlare in riferimento agli “irragionevoli”: ciò significa che gli “irragionevoli” sono coloro che non si adoperano per proporre ragioni accettabili da tutti; essi non ammettono alcuna premessa condivisa che possa servire da standard giustificativo condivisibile. Gli “irragionevoli” adottano lo standard proprio del loro contesto di valori come valido per qualsiasi altro contesto; rispondono, cioè, alla richiesta di giustificazione adducendo non ragioni condivisibili dagli altri bensì le ragioni della loro morale40. In quanto non accettano le basi della giustificazione pubblica, gli “irragionevoli” sono esclusi, anzi si autoescludono, dalla con39
Sul punto vd. anche J. Mandle, Rawls’s A Theory of Justice, cit., p. 151. Vd. J. Quong, “Disagreement, Asymmetry and Liberal Legitimacy”, cit. Un esempio di disaccordo giustificativo è il seguente: in un confronto pubblico due persone potrebbero dichiararsi rispettivamente pro e contro l’esclusione del sacerdozio femminile nella chiesa cattolica. Pro si invoca la libertà di coscienza e contro si invoca l’eguaglianza delle opportunità. In entrambi i casi, nonostante il disaccordo, c’è accordo sullo standard di giustificazione, per cui si portano argomenti a sostegno di valori politici condivisi ma, nel caso specifico, diversamente bilanciati. I principi usati nel dibattito sono accettabili da tutti anche se ciò non implica che tutti accetteranno di attribuire ad essi lo stesso peso. Quel che in sostanza entrambe le persone condividono sono i requisiti della ragionevolezza: il voler proporre criteri accettabili da tutti e attenervisi e l’accettare gli oneri del giudizio. Un esempio di disaccordo sostantivo, quello che fa dire che una persona è irragionevole, è quello di un individuo che assume l’immoralità dell’uso di droghe come ragione per combatterlo pubblicamente. La sua credenza morale – l’immoralità dell’uso di droghe – non è una ragione che possa essere condivisa da chi, per esempio, non ritiene che il consumo di droghe vada contrastato. Se la proibizione di fare uso di droghe fosse legittimato dalla (propria) ragione morale, ciò significherebbe imporla su chi non la condivide, anche in assenza di uno spazio condiviso su cui avviare il confronto delle rispettive ragioni. 40
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stituency giustificativa del liberalismo politico. Il problema non sta, dunque, nel giustificare presso di loro il liberalismo politico, laddove questo non è dovuto né auspicato; sta, semmai, nel decidere quale trattamento pubblico vada riservato loro. Lo stato liberale riconoscerà a loro, come a tutti i cittadini, i benefici della cittadinanza, e ne tutelerà i diritti fondamentali in ragione del rispetto dovuto a chiunque in uno stato liberale. In conclusione, mi pare che l’idea di Quong sia la seguente: agli “irragionevoli” non è dovuta alcuna giustificazione, poiché essi non sono parte del pool di individui cui il liberalismo politico deve essere giustificato; il liberalismo politico assume infatti una constituency di persone ragionevoli cui rivolgere la giustificazione pubblica senza alcun dovere o interesse a dimostrare la propria ragionevolezza a chi sta al di fuori. A costoro, agli “irragionevoli”, a chi sta al di fuori del liberalismo, va riservato un trattamento di tolleranza sulla base dell’eguale rispetto. Se il liberalismo politico non deve convincere gli “irragionevoli” della loro irragionevolezza, né deve giustificare il suo basarsi sulla ragionevolezza, deve però garantire loro i benefici della cittadinanza come a tutti gli altri. La tolleranza, in questo discorso di Quong, mi pare abbia due valenze, una negativa e una positiva. La valenza negativa consiste nel fatto che le istituzioni ‘tollerano’ gli “irragionevoli”, nel senso che non interferiscono nella loro libertà a meno che essi non rappresentino una minaccia reale all’unità sociale, caso in cui è legittimo l’uso della forza per intervenire a limitare la loro libertà. La valenza positiva consiste, invece, nel fatto che, pur entro queste condizioni, agli “irragionevoli” vengono garantiti i benefici della cittadinanza, ovvero un trattamento basato su un rispetto eguale a quello dovuto a tutti gli altri. Qualcuno chiama questa duplice valenza della tolleranza il suo “paradosso”, dal momento che vi rientra sia un giudizio negativo che riguarda i destinatari della tolleranza, sia un comportamento positivo che sostituisce la repressione con la tolleranza. Diciamo che, in generale, la tolleranza esprime un’accettazione condizionata o una non-interferenza nei confronti di certe credenze, azioni o pratiche che si possono considerare minacciose per l’ordine e
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che, tuttavia, conviene non reprimere. A seconda del contesto in cui ci troviamo possiamo mettere tra parentesi il significato negativo della tolleranza – la sua componente di ‘obiezione’ – mettendola in equilibrio con la componente di ‘accettazione’, che non rimuove il giudizio negativo ma dà ragioni positive come prevalenti su quelle negative che, nel caso degli “irragionevoli”, potrebbero essere le ragioni del rispetto per le singole persone. In questo senso, i limiti della tolleranza sono posti laddove le ragioni dell’obiezione superano quelle dell’accettazione. Per inciso, questioni di tolleranza sono quelle che hanno a che fare con il disaccordo e non con ciò che è universalmente condannato come sbagliato; in questo caso non c’è neppure spazio per la tolleranza41. Si pone ora la domanda se la tolleranza sia un trattamento sufficiente per gli “irragionevoli”. Prima di affrontare questo tema, è opportuno vagliare alcune posizioni contrarie o almeno lontane da questa sostenuta da Quong, che ho assunto esemplarmente come la posizione più vicina a quella di Rawls.
3.3.2. Esclusi ingiustificatamente Veniamo ora alle posizioni contrarie di chi sostiene che il trattamento da Rawls riservato agli “irragionevoli” sia discriminatorio. 41 Sul paradosso della tolleranza e sulla sua ambivalenza esistono molti contributi, alcuni piuttosto datati ma fondamentali nel dibattito sulla tolleranza: M. Cranston, “Toleration”, in Encyclopaedia of Philosophy, New York-London: MacMillan & Free Press, 1972, 8 voll., vol. VIII, pp. 143-46; D. Heyd (a cura di), Toleration. An Elusive Virtue, Princeton: Princeton University Press, 1996; A. E. Galeotti, Toleration as Recognition, Cambridge: Cambridge University Press, 2002; R. Forst, “Toleration”, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Fall 2008 Edition), a cura di E. N. Zalta, URL =http://plato.stanford.edu/archives/ fall2008/entries/toleration/; J. Waldron, “Toleration and Reasonableness”, in C. MacKinnon, D. Castiglione (a cura di), The Culture of Toleration in Diverse Societies. Reasonable Tolerance, Manchester & New York: Manchester University Press, 2003, pp. 13-37; J. Bohman, “Deliberative Toleration”. Political Theory, 31, 6, 2003, pp. 757-79.
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Tra le obiezioni più dure a quella che è considerata un’esclusione ingiustificata degli “irragionevoli” ricordo quella sollevata da Marilyn Friedman42. Friedman ha una convinzione opposta a quella di Quong: gli “irragionevoli” hanno diritto alla giustificazione come tutti gli altri, per cui è compito del liberalismo politico giustificarsi anche presso di loro e non escluderli, benché nel modo ‘garbato’ della tolleranza. L’obiezione muove a sua volta da quella sollevata alla nozione di ragionevolezza e al suo essere invocata come base della legittimità liberale. La considerazione che Friedman fa a proposito della ragionevolezza avvicina la sua posizione a quella degli autori che accusano l’argomento rawlsiano di circolarità, di cui ho dato ampio riscontro nel precedente capitolo. La nozione di ragionevolezza è circolare in quanto è usata per escludere dal legitimation pool, cioè dall’insieme di coloro il cui sostegno conferma la legittimità delle istituzioni e il cui mancato sostegno ne decreta l’illegittimità, quelle persone che non condividono i valori liberali e che non hanno contribuito a definirli. La strategia adottata da Rawls, di far dipendere la legittimità dello stato liberale dal solo sostegno delle persone ragionevoli, priva dell’autonomia politica coloro che non assicurano tale sostegno. Dopo aver richiamato l’origine storica del consenso come quel consenso ipotetico che persone razionali o, almeno, ragionevoli darebbero a determinate istituzioni, l’autrice sottolinea come la nozione stessa di ragionevolezza, cui Rawls affida il compito di estendere pragmaticamente la legittimazione delle istituzioni anche alle persone che non sono liberali, si riveli, nei fatti, esclusiva: la ragionevolezza rawlsiana non si applica a tutti, per esempio non si applica a coloro che non accettano gli 42 M. Friedman, “John Rawls and the Political Coercion of Unreasonable People”, in V. Davion, C. Wolf (a cura di), The Idea of a Political Liberalism. Essays on Rawls, Lanham: Rowman & Littlefield, 2000, pp. 16-33. Vd. anche M. Silver, “Irreconcilable Moral Disagreement”, in L. Foster, P. Herzog (a cura di), Defending Diversity. Contemporary Philosophical Perspective on Pluralism and Multiculturalism, Amherst: University of Massachussets Press, 1994, pp. 39-58: secondo Silver considerare irragionevole il disaccordo intorno ai principi di giustizia è espressione di una «attitudine razzista».
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oneri del giudizio e che pensano che le persone non dovrebbero essere in disaccordo sulle dottrine comprensive. Facendo, infine, riferimento alla sorte degli “irragionevoli”, Friedman conclude che costoro non solo vengono espulsi dal pool di legittimazione, ma addirittura vengono privati, tramite le strategie di contenimento, dei loro diritti e delle loro libertà. Ora, penso che Friedman accentui eccessivamente l’ambivalenza, che in Rawls è certamente irrisolta, tra legittimità e giustificazione, così come enfatizzi l’oscillazione tra accettazione e accettabilità. L’interpretazione che Friedman dà della legittimità propende per un’accezione più descrittiva che normativa, laddove, infatti, parla di ‘realtà’ del consenso per intersezione perché così, a suo dire, Rawls lo concepisce, come estensione reale del consenso ideale ai non liberali, onde coinvolgere questi ultimi nella legittimazione43. Penso, inoltre, che sia sbagliata l’interpretazione che l’autrice dà del termine ‘contenimento’: contenere dottrine o persone irragionevoli significa per Rawls evitare che queste dottrine oltrepassino i limiti fissati dalla giustizia ed impongano sugli altri verità non condivise né, considerata la natura divisiva stessa della verità, condivisibili. Rawls non afferma che i diritti non debbano essere riconosciuti agli “irragionevoli” né che costoro debbano essere privati delle garanzie della cittadinanza; al contrario, riconosce che il trattamento da riservare loro debba essere, nei casi in cui non traducano le loro idee in una minaccia reale per l’ordine, una positiva tolleranza44. Penso, tuttavia, che Friedman abbia ragione quando rimprovera a Rawls di essere evasivo sulla nozione di “irragionevoli” e di esserlo anche quando si tratta di decidere del trattamento da riservare loro all’interno della società liberale. Il punto che Friedman giustamente solleva è che, quando Rawls afferma che irragionevoli sono coloro che 43 Ricordo come qualcosa di simile sia stato sostenuto da Raz, quando ritiene che per Rawls il consenso per intersezione sia da intendersi come consenso reale e non già come consenso ideale. 44 J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., pp. 324-35. Per una risposta a Friedman simile a quella qui accennata vd. J. Quong, Liberalism Without Perfection, cit., pp. 290-96.
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non rispondono ai requisiti della ragionevolezza, non chiarisce a quali e a quanti di questi requisiti stia pensando; non spiega se per essere ‘dichiarati irragionevoli’ occorra rifiutare una o tutte o qualcuna delle seguenti indicazioni, che, come sappiamo, costituiscono gli elementi della ragionevolezza: cooperare secondo termini equi, riconoscere gli oneri del giudizio, riconoscere il pluralismo delle dottrine comprensive. Friedman si chiede, correttamente, quale debba essere l’atteggiamento delle istituzioni nei confronti di chi nega tutti i requisiti della ragionevolezza piuttosto di chi ne nega uno solo o al massimo due. Il problema, dunque, è affrontare la questione del tipo di trattamento da riservare agli “irragionevoli”, non nel loro complesso ma ai gruppi di ‘diversamente irragionevoli’, di cui vanno maggiormente prese sul serio le differenze. Sul trattamento ingiustamente esclusivo degli irragionevoli torna anche Gaus con argomenti diversi, quelli che ho anticipato nel precedente capitolo. Ricordiamo come, discutendo della giustificazione pubblica, Gaus muovesse a Rawls l’accusa di «populismo giustificativo», cui Rawls cederebbe a causa della sua ossessione per la stabilità. Populistica è la giustificazione – precisa Gaus – in quanto si basa su un’unica premessa epistemica, sulla necessaria condivisione, da parte dei partecipanti al dibattito pubblico, delle “ragioni che tutti possono accettare”45. Il populismo di Rawls starebbe, secondo Gaus, nell’aver sostenuto una teoria della giustificazione basata sul senso comune, elaborata 45
Gaus parte dalle affermazioni di Rawls: dopo aver detto che la relazione politica «è una relazione tra persone entro una struttura di base della società, e in questa struttura istituzionale di base noi entriamo solo per nascita, uscendone solo con la morte», Rawls invita a chiederci «quali sono i principi e gli ideali alla cui luce noi, in quanto cittadini liberi ed eguali, dobbiamo riconoscere a noi stessi l’esercizio del potere, se tale esercizio deve essere giustificabile davanti agli altri cittadini e rispettare la loro ragionevolezza e razionalità» (J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 125). Gaus accentua, come sappiamo, la contestabilità di una giustificazione valida per un gruppo specifico di persone entro un contesto definito.
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allo scopo pragmatico di garantire la stabilità della concezione della giustizia; tale concezione è considerata giustificata dagli individui in grado di apprezzarla e dalla quale risultano convinti. Nonostante Rawls affermi – continua Gaus – che le ragioni giustificative sono quelle condivise dai ragionevoli e che la ragionevolezza non è una caratteristica empirica bensì una qualità ideale e morale di soggetti che si concepiscono come liberi ed eguali, è pur vero che ammette che un «accordo meditato nel giudicare è sufficiente […] per l’oggettività»46. Benché siano stati idealizzati come soggetti della giustificazione pubblica, i “ragionevoli” fanno appello a principi del ragionamento condivisibili in quanto, di nuovo, «sanzionati dal senso comune»47. Il punto è che le regole del senso comune cui Rawls fa riferimento non sono coerenti con le sue premesse, non sono cioè accettate da tutti: basti pensare a come i cosiddetti oneri del giudizio non siano riconosciuti da molte persone ragionevoli e, ancora, come giustificare pubblicamente qualcosa non equivalga a comportarsi di conseguenza; le ragioni che giustificano certe credenze non implicano, infatti, che esse vengano anche accettate. Infatti, anche nel caso in cui si giunga alla stessa giustificazione pubblica – questa conclusione di Gaus ci è nota – non è detto che da essa si passi necessariamente all’azione: le giustificazioni non sono necessariamente motivazioni per agire48, diversamente da quel che Rawls sembra invece supporre. Per Rawls la giustificazione assolve, nella sostanza, il compito della motivazione, dal momento che sostenere posizioni ragionevoli equivale a comportarsi ragionevolmente. Per evitare la deriva populistica, Rawls avrebbe fatto meglio – conclude Gaus – ad adottare un’idea di giustificazione pubblica per la quale non è necessaria la condivisione delle stesse ragioni. Ragioni diverse dalle ragioni pubbliche, assunte come uguali per tutti, possono stare alla base della giustifica46
Ivi, p. 113. Cfr. G. Gaus, Justificatory Liberalism, cit., p. 132. Gaus rinvia per esempio a J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 192. 48 G. Gaus, “The Rational, the Reasonable and Justification”, cit. 47
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zione pubblica, ricavabili da sistemi di credenze differenti. Non è necessario che le persone abbiano o debbano avere le stesse ragioni per sostenere una concezione politica della giustizia; è sufficiente che ogni persona abbia le proprie ragioni che non deve, però, tenere nascoste, e che deve, invece, esibire come ragioni intelligibili anche dagli altri e riconoscibili come ragioni ragionevoli dato il loro sistema di riferimento. Non è detto, ovviamente, che gli altri concorderanno, o che accetteranno quelle ragioni pur trovandole intelligibili. Parlare invece, come fa Rawls, di “ragioni che tutti possono accettare”, cioè di ragioni pubbliche condivise, significa, nei fatti, affermare ragioni particolari, proprie di una prospettiva, di cui peraltro non si spiega né si dice se sia epistemicamente la prospettiva migliore, con la pretesa che sia però accettabile da tutti. Per riassumere: per rimediare alla fallacia dell’idea di ragione pubblica, dati i suoi esiti esclusivi, è necessario superare il “populismo giustificativo”; a questo esito arriva Rawls una volta scollegata la ragionevolezza dalla razionalità, e ridotti i contenuti della ragionevolezza alle regole del senso comune; al fondo, come sappiamo, giace la convinzione rawlsiana che, escludendo la verità dalla ragionevolezza, si possano bandire dal discorso pubblico impegni settari pericolosi per la stabilità. Perché la giustificazione non sia esclusiva e “populista” è necessario tenere conto degli impegni epistemologici delle persone, di cui si assume la razionalità come capacità di valutare in prima persona l’appropriatezza o meno delle loro giustificazioni private, se valgano o meno anche come giustificazioni pubbliche. Una persona dotata di questa razionalità non può non chiedersi se le credenze dell’altro siano o meno razionali. Al “populismo giustificativo” si replica solo con uno scambio di ragioni che non genera necessariamente consenso, ma può generare soluzioni concordate non necessariamente condivisibili49. 49 Cfr. G. Gaus, Justificatory Liberalism, cit.; G. Gaus, “Reasonable Pluralism and the Domain of the Political”, cit. A conclusione del ragionamento di Gaus, che giudico di grande interesse nell’ottica di un riesame della giustificazione
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Sulla stessa linea di Gaus nel considerare la giustificazione pubblica come esclusiva, anche Talisse punta il dito contro la nozione di ragionevolezza. Per capire l’obiezione di Talisse occorre ricordare come, a suo parere, la ragionevolezza rawlsiana corrisponda non ad un’attitudine politica bensì ad un’identità morale forte. Ciò si spiega dal momento che Rawls accenna soltanto alla dimensione epistemica di questa nozione, quando cioè fa riferimento agli oneri del giudizio, ma sempre in funzione della dimensione morale, per l’assunzione di una condotta ragionevole. In quanto identità morale, la ragionevolezza si sovrappone per Talisse all’etica liberale sostantiva50. Le persone sono dette ragionevoli – dice quindi Talisse – perché sostengono principi liberali, che esse considerano condivisibili in quanto condivisi da loro; tali principi, infatti, sono condivisi non perché veri o perché basati su ragioni epistemicamente migliori di altre, ma perché accettabili dalle persone ragionevoli. Il che mostra – prosegue Talisse – che la ragionevolezza ha a che fare non con la modalità in cui si sostiene un contenuto di verità, bensì con il contenuto medesimo, ovvero con il contenuto morale della ragionevolezza. Se, per esempio, una persona dicesse di sostepubblica, ritengo che l’accusa di populismo nel caso di Rawls sia esagerata, se si tiene conto degli obiettivi conciliatori che persegue con la giustificazione pubblica pur con tutti i suoi limiti. Rimando alla critica già ricordata di S. Maffettone, Rawls, cit., pp. 245-46. Ad una conclusione simile a quella di Gaus giunge anche A. Carter, “The Evolution of Rawls’s Justification of Political Compliance”. Journal of Moral Philosophy, 3, 1, 2006, pp. 7-21. Il problema fondamentale del Liberalismo politico – sostiene Carter – è che la giustificazione della conformità politica ai principi liberali dipende, in modo circolare, dal fatto di essere la giustificazione disponibile all’interno del liberalismo politico. Quella di Rawls – conclude Carter – è una teoria comprensiva che trova giustificazione nei suoi stessi principi. 50 R. Talisse, “Toward a Social Epistemic Comprehensive Liberalism”, cit. L’osservazione di Talisse si capisce in riferimento alla sua convinzione – illustrata nel capitolo precedente – che la ragionevolezza rawlsiana esprima una posizione morale comprensiva e non già, come afferma Rawls, un modo per sostenere i valori politici a prescindere dai contenuti di qualsiasi posizione morale. La tesi rawlsiana, ricordiamo, è per Talisse una filosofia che non sta, pace Rawls, ‘in superficie’.
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nere i principi liberali per illuminazione divina, questa persona non cesserebbe di essere liberale51. Ciò è la prova – sostiene Talisse – che il sistema rawlsiano è «epistemicamente chiuso»: in esso irragionevoli sono coloro che sostengono, eventualmente con buoni argomenti, posizioni illiberali. Ne sono un esempio, anche per Talisse, i contrari all’aborto, dichiarati irragionevoli anche nel caso si servissero di argomenti epistemicamente forti ma contrari al riconoscimento della priorità della libertà delle donne. La conclusione di Talisse è che la ragione pubblica è epistemicamente esclusiva, nel senso che non può riconoscere, per come è concepita, cioè come ragione morale forte, la forza epistemica degli argomenti, che siano contrari o a favore del liberalismo. Esito di questa situazione è la «polarizzazione» dei gruppi di coloro che sono considerati “irragionevoli”, con la loro collocazione esterna e satellitare rispetto al sistema, e con inevitabili esiti di instabilità. Queste considerazioni non impediscono a Talisse di apprezzare l’obiettivo generale di Rawls, quello di ridurre se non eliminare il disaccordo quando esso è reale minaccia per la democrazia; purtroppo, però, Rawls ha commesso un errore nello stipulare i vincoli della ragione pubblica invece di costruirli nel confronto con gli interlocutori. Dal quadro delle critiche qui riportate si desumono i motivi di malcontento riguardo alla collocazione degli “irragionevoli” all’interno – ma forse, a questo punto, sarebbe meglio dire all’esterno – dell’impianto teorico rawlsiano. La ragione è ora nota: esso prescrive l’adozione di quei vincoli epistemici che da un lato costringono la ragionevolezza all’autoreferenzialità e dall’altro obbligano i partecipanti alla giustificazione pubblica ad ‘oscurare’ le loro ragioni nel dare sostegno alla concezione politica. Distolta dalla verità, resa indipendente da qualsiasi affaccio sul vero, svuo51 Ad onor del vero, se questi liberali ‘illuminati’ da una rivelazione divina dicessero di avere con ciò la carta vincente per imporre i principi liberali sugli illiberali, costoro sarebbero da Rawls dichiarati irragionevoli, proprio come lo sarebbe anche una concezione politica della giustizia che non ottiene il ‘giusto’ consenso.
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tata da impegni epistemici, la ragionevolezza finisce per esprimere l’adesione ad una posizione morale tutt’altro che superficiale e che pretende di giustificarsi da sé. Chi sta al di fuori di questa posizione è dichiarato irragionevole. S’è visto come vincoli di questo tipo mettano fuori gioco o depotenzino le ragioni ‘forti’ dei credenti, quelle che costoro giudicano prioritarie e irrinunciabili all’interno del dibattito sulle questioni di giustizia. La loro indisponibilità a rinviare alla ragione pubblica nella difesa delle loro posizioni politiche procura loro il nome di “irragionevoli”.
3.4. I “non-ragionevoli” 3.4.1. Premessa per ripartire La discussione intorno al ‘posto’ degli “irragionevoli” all’interno della giustificazione pubblica ha messo a confronto due tesi fondamentali; la prima sostiene l’esclusione, anzi l’autoesclusione di queste persone da quella che è stata definita la constituency giustificativa dei “ragionevoli”. Non si tratta di un’affermazione ridondante, poiché è ovvio che gli “irragionevoli” sono coloro che non sono ragionevoli, ma è l’espressione di una ‘scelta’ degli “irragionevoli”, quella di non partire da quel terreno comune da cui il ragionamento pubblico deve invece prendere le mosse. Agli “irragionevoli” mancherebbe la disponibilità stessa alla giustificazione che, come sappiamo, sottintende un’attitudine alla cooperazione reciproca. L’idea è che essi non possano partecipare al dibattito a meno di non impegnarsi in una relazione giustificativa che implica l’utilizzo delle “ragioni che tutti possono accettare”. La seconda tesi, invece, considera l’esclusione degli “irragionevoli” una sorta di chiusura preconcetta nei loro confronti; si rimprovera a Rawls di averli ‘liquidati’ senza darsi troppo pensiero per un loro avvicinamento ai valori politici della società liberale o per uno sforzo più attivo onde motivarli in questa direzione. L’unica forza persuasiva è riconosciuta da Rawls alle istituzioni liberali e alla loro capacità di favorire il senso di giustizia.
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Ora, se, in generale, è certamente vero che una concezione della giustizia non può far dipendere la sua capacità normativa da quel che nella realtà accade, ovvero dal suo essere più o meno effettivamente accettata, ragione per cui c’è del vero quando si dice che ‘il liberalismo non deve giustificare se stesso agli illiberali’, è altrettanto vero che è intorno agli “irragionevoli” che si pone il vero problema del liberalismo politico, nato, peraltro, per rispondere alla sfida lanciata dal pluralismo alla stabilità, una sfida che viene vinta dal liberalismo politico ma alla condizione, assai irrealistica, che quel pluralismo sia ragionevole. S’è anche ampiamente visto come la giustificazione pubblica con cui Rawls risponde al pluralismo giustificativo mostri molte ambiguità, così come sono segnalate dalle critiche che considerano troppo esigente quella giustificazione, che richiede di adoperare le stesse ragioni, le “ragioni che tutti possono accettare”. Il vincolo che la ragionevolezza pone al pluralismo – per cui il pluralismo sarebbe molto meno plurale di quel che è nella realtà – non risolve al fondo il problema della stabilità: in un primo senso, perché alcuni o anche molti individui possono avere motivi per opporsi alla concezione politica della giustizia in nome di ciò che essi considerano vero o razionale o buono; in un secondo senso, perché la concezione politica stessa, non aspirando a presentarsi come vera o razionale, non fornisce alcuna spiegazione di come i principi liberali possano essere compatibili con le visioni comprensive; non dice cioè quali nessi possano essere trovati tra le ragioni pubbliche e le più private convinzioni, né dà motivi per indurre a modificare la convinzione che debbano essere le credenze – per esempio le ragioni forti dell’appartenenza religiosa – a forgiare l’ordine politico52. In una parola, non fornisce ragioni oggettive per conquistarsi il consenso. Riassunte così le conclusioni del dibattito sul posto da assegnare agli “irragionevoli”, vengo ora alla premessa da cui ripartire per una proposta alternativa. Questa premessa tiene conto dei 52
A. F. March, Islam and Liberal Citizenship. The Search for an Overlapping Consensus, Oxford: Oxford University Press, 2009, pp. 23-33.
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seguenti elementi: di alcune ‘aperture’ fatte da Rawls nel parlare di adesione al consenso; del modo già visto in cui Gaus propone una versione più inclusiva della giustificazione pubblica; della riflessione di Scheffler53 che sostiene la tesi dell’intenibilità di un consenso su una concezione politica, per ragioni un po’ differenti da quelle viste fin qui. Riparto allora da Rawls. Sono due le aperture cui mi riferisco, quella che Rawls fa nei confronti di coloro che aderiscono dapprima per modus vivendi ai principi per poi sottoscriverli nel consenso; e a quella per cui possono rientrare nel consenso anche coloro che non hanno dottrine comprensive ma solo argomenti per sostenere le istituzioni. Le due aperture sono in parte sovrapposte nel discorso di Rawls ma per chiarezza le tengo distinte. Ricordo dunque come, nella prima ‘apertura’, Rawls si riferisca a coloro che, da un’adesione acquiescente ai principi (secondo il modus vivendi), siano passati a sostenerli nella modalità del consenso per intersezione; si tratta di un passaggio – in estrema sintesi – favorito dalla capacità socializzatrice delle istituzioni liberali, dalla loro funzione ‘abilitatrice’ alla ragionevolezza, cui corrisponde la crescente fiducia dei cittadini sempre più intenzionati al sostegno delle istituzioni54. Con un’immagine, si può dire che Rawls confidi nella possibilità 53
S. Scheffler, “The Appeal of Political Liberalism”, cit. Come è ormai noto, Rawls ne parla in Liberalismo politico, cit., pp. 142-46. Vd. anche J. Rawls, Giustizia come equità: una riformulazione, cit., pp. 215-16: «la lealtà a certe istituzioni e alla concezione che le regola si può basare, almeno in parte, su interessi (individuali o di gruppo) di lungo termine, sul costume, su atteggiamenti tradizionali o sul puro e semplice desiderio di conformarsi alle aspettative e a quelli che sono i comportamenti abituali […]. Noi congetturiamo perciò che i cittadini, a mano a mano che giungono ad apprezzare ciò che una concezione liberale sa realizzare, arrivino ad essere fedeli e questa fedeltà si rafforzi sempre più nel tempo. Finiranno così per pensare che sia ragionevole e saggio accettare i suoi principi di giustizia, in quanto esprimono valori politici che nelle condizioni ragionevolmente propizie che rendono possibile la democrazia prevalgono, normalmente, su tutti gli altri valori che si potrebbero loro opporre». 54
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di un progressivo ‘spostamento’ di queste persone nella ‘giusta’ direzione della ragionevolezza; il loro vivere nell’iniziale modus vivendi corrisponderebbe ad una fase di transito da una qualche specie di irragionevolezza – o di assenza di ragionevolezza – alla ragionevolezza. Non possono dirsi, a rigore, ragionevoli le persone il cui rapporto con le istituzioni è ascrivibile ad un modus vivendi, che segnala l’assenza di ‘ragioni giuste’ per sottoscrivere il consenso. Ma queste persone non sono neppure ‘del tutto’ irragionevoli nel senso più negativo paventato da Rawls, non trattandosi di fanatici intolleranti che aspettano l’occasione propizia per imporre sugli altri la propria verità. La seconda ‘apertura’ cui mi riferisco è quella sopra segnalata, e che si riferisce all’ammissione da parte di Rawls che, nella pratica, non è sempre facile stabilire se l’accettazione della concezione politica sia sostenuta a partire da una dottrina vera e propria piuttosto che per il fatto di trovare i principi in se stessi ragionevoli. Ricordo le parole di Rawls quando dice che molti cittadini, se non la maggioranza, mostrano di sostenere i principi di giustizia incorporati nella costituzione e nella loro pratica politica senza vedere un «nesso particolare, né in un senso né nell’altro, fra questi principi e il resto delle loro idee» 55. Questa duplice ‘apertura’ di Rawls mi induce a chiedermi se si possa ripensare il modello rawlsiano della giustificazione pubblica in modo da superare le divisioni epistemiche da esso implicate. Rawls stesso sembra offrire con questa duplice ‘apertura’ uno spunto per immaginare un nuovo modello di giustificazione pubblica delle istituzioni liberali, un nuovo ulteriore modo per sostenerle, sulla base non della condivisione di una concezione politica della giustizia, che è oggetto del consenso per intersezione, bensì sulla base di ragioni, o più frequentemente semplici motivazioni, che persone di varie appartenenze o identità possono avere per dare sostegno alle istituzioni. Questa duplice ‘apertura’ mi fa cioè sperare nella plausibilità di un ‘allargamento’ dello spazio della giustificazione in modo da ‘ospitare’ nella cooperazione 55
J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 144.
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le persone disposte al sostegno delle istituzioni liberali ma che, ciononostante, Rawls qualifica come irragionevoli. La mia idea è che questa duplice ‘apertura’ possa essere reinterpretata in modo che, da un lato, essa non si limiti, come invece accade in Rawls, ad una ‘concessione’ sulla base di un ‘precedente’ offerto dalla storia – la storia insegna a Rawls e a noi come in certe epoche di conflitto si sia gradualmente passati da un acquiescente modus vivendi al consenso per intersezione; né si limiti, dall’altro lato, ad una ‘concessione’ alla sociologia – per cui prendiamo atto insieme a Rawls che la maggioranza delle persone non ha o non sa di avere dottrine comprensive ragionevoli56. L’idea che ho in mente è che a una ‘apertura’ (che interpreterò come apertura dello spazio politico) si possa giungere sulla base di un ragionamento: è irrealistico pensare ad un consenso per intersezione che abbia a suo oggetto una concezione politica della giustizia, cioè una concezione della giustizia che le parti riconoscono o giudicano come ‘politica’. Mi servo delle considerazioni di Scheffler per chiarire questo punto57. Scheffler giudica il consenso per intersezione troppo vincolante dal momento che esso si basa sull’assunzione che le persone siano disposte a sostenere una concezione politica della giustizia indipendente dalle loro dottrine comprensive. La concezione politica della giustizia ottiene infatti un consenso da parte di dottrine comprensive ragionevoli; oggetto del consenso è la concezione politica della giustizia58. Ma chi – si chiede l’autore – può stabilire che quella concezione è politica? Probabilmente le persone che la 56
Dicendo questo non sto dimenticando o sottovalutando la ‘fede ragionevole’ che Rawls nutre nei cambiamenti delle persone e delle società nella direzione indicata dalla ragionevolezza. Il punto è che anche la fede ragionevole risente della aleatorietà della ragionevolezza: la ragionevolezza rawlsiana è troppo disarmata per poter essere il soggetto di una filosofia della storia, diversamente da quanto lo è la ragione per Kant, per cui la storia evolve verso un suo intrinseco compimento. 57 S. Scheffler, “The Appeal of Political Liberalism”, cit. 58 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 134.
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sostengono sulla base delle idee diffuse nella cultura politica pubblica; è la cultura politica pubblica che fornisce argomenti politici per la giustizia. A rigore, coloro che invece attingono alle loro dottrine comprensive le ragioni per sostenere la concezione politica della giustizia non potrebbero chiamare questa concezione ‘politica’. Non potrebbero, cioè, dire di sostenere una concezione politica della giustizia coloro che possiedono argomenti non-politici – in quanto attinti alle dottrine comprensive – per sostenerla. Poiché non è chiaro chi e perché possa qualificare come ‘politica’ la concezione della giustizia, è meglio allora abbandonare lo sforzo di distinguere tra concezioni politiche e concezioni non-politiche e concentrarsi sulla distinzione tra argomenti politici e argomenti non-politici: argomenti politici sono quelli che, indipendenti da qualsiasi dottrina, si trovano diffusi in una cultura politica pubblica, mentre argomenti non-politici sono quelli che fanno appello alle dottrine comprensive. Ma, ed è questa la domanda, è possibile supporre che le persone che attingono alla cultura politica diffusa i loro argomenti a sostegno della giustizia siano consapevoli che i loro argomenti sono politici? O non è forse vero – continua l’autore – che siamo noi, i filosofi che interpretano i loro comportamenti, a definire politici gli argomenti che sono forse, nella realtà delle persone, consuetudini o convinzioni irriflesse maturate all’interno del contesto liberale? Pretendere che le persone siano consapevoli della politicità o della non-politicità delle loro ragioni sembra un requisito che restringe l’accesso al consenso piuttosto che estenderlo. La conclusione cui giunge Scheffler è interessante e merita attenzione: quel che si può dire è che i cittadini della società liberale hanno una concezione della giustizia ma non decidono di avere una concezione della giustizia basata su idee implicite nella cultura politica pubblica; il fatto che essi facciano riferimento a queste idee e le esplicitino sotto forma di argomenti a sostegno della concezione della giustizia significa che noi abbiamo ragioni per considerare tale concezione come politica. Richiedere invece, come fa Rawls, che i partecipanti alla discussione pubblica siano disposti a sostenere come politica una concezione della giustizia,
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e che dunque siano disposti a ‘pubblicizzare’ le loro ragioni private nella discussione pubblica, è irrealistico. L’idea che le persone ‘comuni’, che sono la maggioranza dei cittadini, quando impegnate in una discussione pubblica o in una votazione, debbano fare appello solo a quella che dovrebbero considerare come una concezione politica della giustizia, e non già alle loro convinzioni morali, è un vincolo troppo esigente, i cui esiti vanno in direzione opposta agli obiettivi del consenso auspicati da Rawls59. L’idea di Rawls che ci sia consenso intorno ad una concezione politica ha senso a condizione di assumere un’uniformità del modo in cui i cittadini guardano alla giustizia. In buona sostanza, la giustificazione pubblica dei principi di giustizia così come ci viene offerta da Rawls mostra di presupporre una società in cui i valori liberali sono già solidamente stabiliti e consapevolmente assunti dai cittadini. Una ‘tradizione liberale’ sembra cioè essere richiesta perché la giustificazione pubblica del liberalismo politico abbia senso. Ma, così dicendo – conclude Scheffler – Rawls mostra di rinunciare all’ambizione universalistica del liberalismo, spostandosi verso una versione più storica e contestuale, dipendente da una tradizione delle istituzioni liberali che ha, però, ben poca rilevanza nelle situazioni in cui una giustificazione sembra più necessaria, quando cioè il liberalismo si confronta con una società reale in cui a quella liberale si aggiungono tradizioni e pratiche che liberali non sono. Certamente le istituzioni liberali sviluppano un ethos liberale e infondono un senso di giustizia; ma 59
Scheffler mostra di condividere le obiezioni al centro della riflessione svolta nel precedente capitolo circa la discutibilità dei vincoli epistemici imposti dalla ragione pubblica; rispetto a quelle obiezioni, più interessate a sottolineare gli esiti discriminatori dell’applicazione di tali vincoli, Scheffler sembra più intento a dimostrarne la irrealtà, la ‘intenibilità argomentativa’. Ora, è significativo come l’argomento di Scheffler sia ripreso successivamente da Rawls in Giustizia come equità: una riformulazione, cit., pp. 214-15, dopo aver discusso del modus vivendi come fase che precede l’inclusione nel consenso: riprendendo le osservazioni di Scheffler, Rawls sottolinea come la mancanza di una vera e propria dottrina permetta a molte persone, se non alla maggioranza, di accettare le istituzioni in modo irriflesso e acquiescente per poi giungere a sostenerle in maniera più consapevole.
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ciò richiede tempo e non tiene conto della necessità di risposte urgenti alle emergenze della vita collettiva. In conclusione: le considerazioni di Scheffler, innestate sulle ‘concessioni’ di Rawls, sulla ‘duplice apertura’ ad una via alternativa al consenso per intersezione, offrono una premessa per ripartire con la progettazione di una nuova forma di convivenza che includa però, oltre Rawls, anche coloro, o parte di coloro, che egli chiama – con un termine che appare sempre più vago – “irragionevoli”. Vorrei cioè servirmi della ‘duplice apertura’ di Rawls non per ampliare – come egli fa – la via al consenso per intersezione, ma per vedere – diversamente da Rawls – se ci sia un modo di convivenza stabile con coloro che per lui rimangono e non possono non rimanere irragionevoli. Apprezzare tale ‘apertura’ è la premessa per spiegare meglio, dal punto di vista teorico, che cosa essa possa implicare, in che modo di ‘apertura’ si possa parlare in base a più forti argomenti, come quelli offerti prima da Gaus e ora da Scheffler. A Gaus si deve il nuovo modo di intendere la giustificazione come processo giustificativo più accogliente, non solo e non necessariamente vincolato alle “ragioni che tutti possono accettare”; al secondo si deve invece l’aver messo sull’avviso che non si può ‘realisticamente’ parlare di una consenso ottenuto per intersezione su una concezione politica, dal momento che tale consenso sarebbe troppo esclusivo ed esigente, realizzabile solo da persone consapevoli della politicità della concezione condivisa o, almeno, della politicità degli argomenti necessari per condividerla.
3.4.2. Oltre la dicotomia ragionevoli/“irragionevoli” Fatta questa premessa, con cui ho cercato di mettere in ulteriore evidenza i chiaroscuri del discorso rawlsiano, propongo ora di ripartire con una definizione più articolata di irragionevolezza, in prospettiva di un ulteriore alternativo trattamento degli “irragionevoli”. Questo termine mostra ora di non essere più adeguato per indicare tutti i gruppi di persone che, a vario titolo,
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non rientrano o non rientrano ancora nell’area del consenso per intersezione. Propongo inoltre di sostituire questo termine con “non-ragionevoli”: è piuttosto una non-ragionevolezza la non disponibilità di alcuni individui e di alcuni gruppi a sottoscrivere le ragioni pubbliche del consenso per intersezione, senza che dalla non disponibilità derivi necessariamente una minaccia per le istituzioni. Possono rientrarvi varie tipologie di persone che non soddisfano, a vario titolo, i requisiti della ragionevolezza. A non soddisfare questi requisiti sono per primi i fanatici intolleranti, pronti a interferire con la libertà degli altri e ad imporsi su di loro; sono le persone cui Rawls pensa quando mette in guardia dal loro potenziale di minaccia per la stabilità. Concordo con Rawls nel dire che, nei loro confronti, è necessario adottare forme di controllo sociale e legale, se non di coercizione. Ma altre persone non soddisfano i requisiti della ragionevolezza: mi riferisco alle persone la cui base ‘comprensiva’ di partenza è inconciliabile con i valori politici della ragione pubblica. Esse permangono in questo senso irragionevoli, pur mostrando la disponibilità ad una forma di cooperazione stabile anche se non per le ‘ragioni giuste’, quelle “che tutti possono accettare”. Di queste persone – i “non-ragionevoli” – non ci si deve necessariamente attendere la ‘trasformazione’ in ragionevoli, come invece fa Rawls: ci si deve piuttosto aspettare che siano cittadini leali, benché la loro potrà verosimilmente essere una lealtà ‘divisa’ e parziale, una lealtà alle istituzioni di cui non accettano le basi morali. Rientrano all’interno di questo gruppo persone le cui dottrine non sono ragionevoli e che non sono spontaneamente inclini al confronto in quanto cresciute, per esempio, in una cultura in cui non vige lo scambio di opinioni; non è detto che queste persone non possano essere motivate a comportarsi in modo cooperativo, adottando modalità ragionevoli di relazionarsi con gli altri60. Come sappiamo, Rawls non dà motivazioni particolari ma, per dir così, ‘concede’ agli “irragionevoli” il tempo necessario 60
Per considerazioni in parte simili vd. E. Ceva, Giustizia e conflitti di valori, cit., p. 31.
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per tradurre le proprie ragioni nel linguaggio della ragione pubblica61. In altre parole, spetta agli “irragionevoli” adeguarsi alle richieste della ragione pubblica, aiutati in questo dalla funzione educatrice delle istituzioni.
3.4.3. Chi sono i “non-ragionevoli” Passo ora a precisare meglio la categoria dei “non-ragionevoli”. Per spiegare chi sono i “non-ragionevoli” richiamo per comodità le caratteristiche incluse nella ragionevolezza: in primo luogo, la «sensibilità morale che sottende il desiderio di impegnarsi in un’equa cooperazione in quanto tale e di farlo a condizioni che anche gli altri, in quanto uguali, possano prevedibilmente accettare»62; in secondo luogo, la «disponibilità a riconoscere gli oneri del giudizio e ad accettarne le conseguenze per quanto riguarda la direzione del potere politico in un regime costituzionale per mezzo della ragione pubblica»63. Sappiamo come gli “irragionevoli” non presentino queste caratteristiche. Ho sopra accennato al fatto che Rawls non chiarisce se, per ‘ricevere’ l’appellativo di “irragionevoli”, sia sufficiente negare una caratteristica soltanto o più di una di quelle implicate dalla definizione, peraltro lasca, di ragionevolezza; quello che Rawls dice è che una persona è irragionevole «quando desidera impegnarsi in sistemi cooperativi ma non è disposta a onorare o anche solo a proporre […] alcun principio o criterio generale che specifichi equi termini di cooperazione»64. Ciò significa rifiutare il progetto della giustificazione pubblica che richiede a tutti, nel proporre le proprie decisioni, di adottare il linguaggio della ragione pubblica, la disponibilità a spiegare l’uno all’altro «come i principi e le scelte politiche da 61 Mi riferisco alla «clausola condizionale» che concede un lasso di tempo per adottare il linguaggio della ragione pubblica; cfr. J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 298. 62 J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 58. 63 Ivi, p. 62. 64 Ivi, p. 59.
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essi difesi e votati possono trovare un sostegno nei valori politici della ragione pubblica»65. Nel rifiutarsi di sottoporre l’esercizio del proprio potere politico alla giustificazione pubblica, gli “irragionevoli” mostrano di respingere l’ideale morale sotteso, cioè che i cittadini sono liberi ed eguali. Ora, parlando dei “non-ragionevoli” ho in mente persone che non rinviano – proprio come gli “irragionevoli” per Rawls – all’ideale della ragione pubblica; i “non-ragionevoli” non si riferiscono allo standard comune della giustificazione pubblica e, infatti, a fronte di una materia conflittuale, userebbero per dirimerla le stesse ragioni che valgono nel contesto della loro credenza, senza rendersi conto che la credenza non può fondare un’istanza politica valida per tutti. I “non-ragionevoli”, direi così, mantengono tra le caratteristiche della ragionevolezza quella che impegna alla cooperazione, ma senza che tale impegno comporti la condivisione di valori liberali. Anche se costoro sono ‘rawlsianamente’ irragionevoli in quanto, per esempio, si rifiutano di dare una giustificazione pubblica delle loro convinzioni, non sono però ‘rawlsianamente’ irragionevoli nel senso di intolleranti fanatici: essi non interferiscono con le decisioni altrui né impongono sugli altri le loro convinzioni. Costoro, i “non-ragionevoli”, sono disposti, invece, ad entrare stabilmente nella cooperazione pur non riconoscendo gli oneri del giudizio né il pluralismo che ne consegue; sono dunque disponibili alla cooperazione anche se non in base ai requisiti della ragione pubblica. Tale cooperazione sarebbe dai “non-ragionevoli” intrapresa per le loro ragioni che non sono le ‘ragioni giuste’, quelle cioè stabilite dall’ideale della ragione pubblica. La disponibilità a esibire ragioni permette di includerli in una prassi giustificativa allargata rispetto a quella basata sulla condivisione delle ragioni pubbliche. Per spiegare meglio il significato di questa affermazione traggo spunto da un confronto tra due posizioni sostenute intorno alla definizione e al trattamento degli “irragionevoli”. 65
Ivi, pp. 186-87.
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La verità sospesa
Mi riferisco al dibattito ospitato dal Journal of Political Philosophy tra Kelly e McPherson da un lato e Quong dall’altro66. Nel loro articolo Kelly e McPherson propongono una rielaborazione della nozione rawlsiana di ragionevolezza ai fini dell’inclusione degli “irragionevoli” all’interno della constituency giustificativa del liberalismo politico. Per sostenere la loro tesi gli autori ritengono che, a differenza di Rawls, che non distingue tra ‘filosoficamente irragionevoli’ e ‘politicamente irragionevoli’, sia possibile invece parlare, oltre che di “irragionevoli” tout court, anche di ‘irragionevoli’ dal punto di vista filosofico – identificati come i portatori di dottrine o posizioni irragionevoli – che possono però essere, al contempo, ‘politicamente ragionevoli’, nel senso che non violano i principi fondamentali della società liberale. Fanno un esempio: un fan del Ku Klux Klan può essere un cittadino ragionevole nella misura in cui la sua convinzione razzista non si traduce in comportamento irragionevole. Egli può – continuano gli autori – sostenere il valore dell’autonomia come valore politico e non come valore radicato nelle sue convinzioni morali. Il valore dell’autonomia è indipendente dal suo credo razzista. Finché, dunque, le sue azioni sono ragionevoli, il fan del Ku Klux Klan deve essere tollerato. La nozione di tolleranza che Kelly e McPherson hanno in mente, però, è molto più esigente di quanto non lo sia generalmente e anche di quanto non lo sia per Rawls: non corrisponde soltanto a una non-interferenza nei confronti di un simile credo, a condizione che rimanga ‘filosofico’, ma implica che le leggi e le istituzioni vengano giustificate in termini che anche il razzista possa accettare. Questa nozione ‘forte’ di tolleranza – come la chiamano gli stessi autori – include un’idea più ampia di giustificazione pubblica. Il senso forte della tolleranza esige non solo un atteggiamento di non-interferenza ma richiede altresì che i confini della non-interferenza debbano essere giustificabili alle persone che sostengono visioni impopolari o addirittura offensive. 66 E. Kelly, L. McPherson, “On Tolerating the Unreasonable”. Journal of Political Philosophy, 9, 1, 2001, pp. 38-55; J. Quong, “The Rights of Unreasonable Citizens”, cit.
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Quello che conta è che esse non entrino in conflitto aperto con i diritti degli altri. Quel che Kelly e McPherson intendono dire è che si devono distinguere gli interessi personali dagli interessi su cui è opportuno insistere nella sfera pubblica; si tratta di due gruppi di interessi che possono essere discontinui tra loro ma la cui discontinuità non impedisce ai ‘filosoficamente irragionevoli’ di essere ‘politicamente ragionevoli’, ovvero di conservare un credo irragionevole e tuttavia di avere motivazioni per agire ragionevolmente, nel rispetto dei diritti degli altri. Un ulteriore esempio è dato dall’esistenza di persone che sostengono l’idea dell’inferiorità morale delle donne a giustificazione del ruolo cui le vorrebbero ‘segregare’ tra le mura domestiche. Il punto non è che queste persone, e tra loro persino donne, possano condividere questa lettura dell’identità morale femminile; il punto è, semmai, che tale lettura non si traduca in una limitazione delle opportunità per le donne, poiché questa sarebbe un’azione politicamente irragionevole e ingiustificata. A Kelly e McPherson replica Quong, che respinge – come ci è ben noto – l’idea che agli “irragionevoli” sia dovuta una qualche giustificazione oltre la mera tolleranza e la garanzia dei diritti fondamentali. Peraltro, sulla scia di Rawls ed oltre Rawls, dal momento che quest’ultimo non ha una posizione precisa a riguardo, Quong dubita che si possa distinguere una irragionevolezza filosofica da una irragionevolezza politica: quali ragioni – si chiede – possono avere persone, che sostengono posizioni filosoficamente irragionevoli, per agire in modo politicamente ragionevole? La possibilità di questa schizofrenia può risiedere soltanto in un calcolo opportunistico, non in una disgiungibilità dei due significati di irragionevolezza67. Ancora: se una persona è irragionevole e cioè non riconosce né gli oneri del giudizio 67 Sul punto vd. anche J. Mandle, “The Reasonable in Justice as Fairness”, cit., pp. 84-100: secondo Mandle non è credibile la tesi secondo la quale persone ragionevoli possano sostenere dottrine irragionevoli; la ragionevolezza riferita alle persone deve essere intesa in una accezione ‘forte’, dunque non può conciliarsi con la possibilità che esse difendano teorie irragionevoli.
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né il pluralismo che ne deriva, perché dovrebbe essere motivata ad accettare l’ideale della giustificazione pubblica che prescrive la condivisione di ragioni pubbliche? Quong ci dice perché una persona è irragionevole; lo è perché nega – almeno è questa la sua interpretazione, data l’elusività di Rawls su questo punto – almeno una delle seguenti affermazioni: che la società politica è un sistema equo di cooperazione reciproca; che i cittadini sono liberi e eguali; che il pluralismo è un fatto. Nel rifiutare uno o più di questi elementi implicati dalla ragionevolezza, la persona irragionevole rinuncia al progetto della giustificazione pubblica che è il cuore della democrazia liberale. Nel sottrarsi alla giustificazione pubblica, sottrae il suo potere politico al vaglio della ragione pubblica, mostrando così di rifiutare anche l’idea morale sottostante a tale progetto, cioè l’eguale libertà dei cittadini. In conclusione, la persona irragionevole, filosoficamente e politicamente, è ben lungi dal poter essere destinataria di una più ampia giustificazione; quel che le istituzioni liberali le garantiscono è il godimento dei diritti e della libertà, fatta salva la libertà degli altri. Il confronto tra Kelly e McPherson da un lato e Quong dall’altro mi permette di delineare con maggiore chiarezza la categoria dei “non-ragionevoli” così come l’ho in mente. Come Kelly e McPherson, ritengo plausibile che esistano persone filosoficamente irragionevoli ma al contempo capaci di comportamento ‘in qualche modo’ ragionevole. Preferisco chiamare queste persone con il termine di “non-ragionevoli”, dal momento che esse sostengono dottrine irragionevoli incompatibili con i valori liberali fondamentali. L’idea è che non si possano coerentemente sostenere posizioni irragionevoli ed essere politicamente ragionevoli; si potrà invece parlare di dottrine irragionevoli cui corrisponde un atteggiamento cooperativo, per cui è meglio parlare appunto di “non-ragionevoli”68. Tuttavia, a differenza di Quong, penso che queste persone possano rientrare in un 68
J. Mandle, “The Reasonable in Justice as Fairness”, cit., pp. 84-100.
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processo giustificativo più ampio di quello previsto dalla giustificazione pubblica à la Rawls che prescrive la condivisione delle stesse ragioni, così come previsto dalla ragione pubblica. La giustificazione pubblica può essere ripensata in modo che non richieda requisiti così stringenti. La giustificazione pubblica non richiede necessariamente che vi sia consenso sulle stesse ragioni – come dice Gaus – ma si limita a dettare a ciascuno il compito di esibire le proprie in modo da renderle intelligibili agli altri; non è necessario un consenso sulle ‘ragioni giuste’ ma è sufficiente la convergenza delle proprie differenti ragioni alla ricerca di una giustificazione pubblica che potrebbe persino non essere mai realizzata. È sufficiente, per essere inclusi nella prassi giustificativa, assumere l’impegno per la giustificazione anche se sulla base di ragioni non condivise69. È in gioco una concezione più ampia della giustificazione pubblica, tale da poter aprire il processo giustificativo anche a persone non di per sé in grado di condividere le stesse ragioni fissate dalla ragionevolezza. Questa maggiore apertura della prassi giustificativa, per cui a ciascuno è lasciata la possibilità di partire dalle proprie ragioni senza l’imperativo della condivisione delle ‘ragioni giuste’, prelude così ad un’ulteriore possibilità di inclusione dei “non-ragionevoli”: il loro non fare appello alla ragione pubblica, rispondendo al suo intransigente requisito di traduzione delle ragioni private in ragioni pubbliche, non impedisce a costoro di accampare le loro ragioni nello sforzo di renderle comprensibili, benché non già accettabili, dai loro interlocutori. Essere coinvolti in una pratica giustificativa di questo tipo esige comunque che si comprenda o si arrivi a comprendere quando la giustificazione personale della propria credenza richiede di essere pubblicamente giustificata; significa comprendere o arrivare a comprendere che quel che è giustificato per noi non è detto che lo sia anche per gli altri; riconoscerlo, tuttavia, non implica 69 G. Gaus, Justificatory Liberalism, cit.; G. Gaus, “Reasonable Pluralism and the Domain of the Political: How the Weakness of John Rawls’s Political Liberalism Can Be Overcome by a Justificatory Liberalism”, cit.
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che si debba rinunciare alla propria giustificazione personale ma solo accettare che non può valere contemporaneamente anche come giustificazione pubblica. In altri termini, si tratta di inaugurare una prassi giustificativa che coinvolga tutti i cittadini disposti a riconoscere la centralità della giustificazione, nella consapevolezza che non sempre il consenso potrà essere raggiunto; riconoscere la centralità della giustificazione significa essere disposti ad agire politicamente insieme, nonostante il disaccordo anche sui termini stessi della giustizia. Soccorre sempre, per capire meglio le cose, l’esempio dell’aborto: non esistendo uniformità nelle ragioni private per cui tutti possano essere a favore o contro l’aborto, è necessario che le parti si impegnino in una prassi giustificativa da cui ciascuna si aspetterà di poter far valere pubblicamente le proprie ragioni, nella convinzione e nell’auspicio che possano essere accettate da tutti. La difficoltà che la giustificazione pubblica incontra, e che non è in grado di superare, consiste in questo caso nella indeterminatezza delle varie ragioni (indeterminate sono le ragioni il cui rifiuto o la cui accettazione sono ingiustificati). Non si dispone, infatti, di prove sufficienti per accettare o per rifiutare la credenza che l’embrione sia una vita umana personale che merita prioritaria tutela. Sappiamo come siano ‘opache’ le credenze che si contendono la soluzione pubblica della questione dell’aborto70. In assenza di giustificazione pubblica di una o dell’altra delle ragioni private in campo, rimane lo spazio per la discussione e per la disputa: le ragioni sono indeterminate ma non per questo sono condannate all’incomunicabilità; ampio è lo spazio che rimane per lo scambio di ragioni nonostante l’irraggiungibilità di un esito condiviso. Come gestire lo scambio di ragioni è una questione pratica: la non disponibilità di una giustificazione pubblica a favore di una o dell’altra delle posizioni non esime dall’impegno di decidere che cosa fare, nella consapevolezza che quel che si deciderà di fare è al di sotto dell’ideale che si aveva in partenza. 70
C. Bird, “Mutual Respect and Neutral Justification”, cit. Ne ho parlato estesamente nel precedente capitolo.
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Non ci sono compromessi morali ma solo compromessi pragmatici, eventualmente perseguiti per ragioni pragmatiche o anche per la convinzione – morale – che sia meglio un compromesso che lo stallo dovuto all’assenza e all’impossibile raggiungimento di un consenso71. Accettare il compromesso non comporta la rinuncia alle proprie convinzioni più profonde; al contrario, le convinzioni più profonde entrano a pieno titolo nello scambio di ragioni. Dimostratosi insufficiente il compito della ragione pubblica si entra nell’agone politico in ‘prima persona’; sono io in prima persona a dover dire che cosa sono disposta ad accettare e che cosa non sono disposta ad accettare, anche a riguardo degli elementi essenziali della vita associata. Sono io in prima persona ad essere interpellata, sono io con la mia concreta moralità.
3.4.4. Non un ‘mero’ modus vivendi Ora, data la non condivisione delle stesse ragioni pubbliche alla base dell’inclusione nella prassi giustificativa, non si può parlare di consenso per intersezione. Il consenso pensato da Rawls non è in grado di includere persone che non giungano a dare sostegno ai valori politici del liberalismo che stanno a fondamento della società liberale. Ciononostante, e in alternativa all’esclusione degli “irragionevoli” cui il discorso rawlsiano conduce, si apre uno spazio per uno stabile modus vivendi. Intendo dire che, oltre al sostegno garantito dal consenso per intersezione che si realizza sugli stessi valori politici e sulle stesse ragioni pubbliche, un sostegno alle istituzioni può essere offerto da un modus vivendi che non è un ‘mero’ modus vivendi: non è cioè quell’equilibrio instabile da tenere sotto controllo di cui parla con preoccupazione Rawls, benché egli sia disposto ad interpretarlo anche ‘evolutivamente’, in direzione cioè del consenso. In generale, per Rawls il modus vivendi è uno stato provvisorio raggiunto a partire da ragioni pru71
S. Cabulea May, “Principled Compromise and the Abortion Controversy”. Philosophy & Public Affairs, 33, 4, 2005, pp. 317-48.
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denziali per loro natura mutevoli, è un bilanciamento di interessi contrastanti che dipende da una contingente distribuzione di forze72. La ‘paura’ rawlsiana per il modus vivendi è l’avversione per il rischio dell’instabilità. La società giusta deve durare nel tempo e perché questo avvenga è necessario un consenso stabile sul quale possa reggere. È l’instabilità del modus vivendi a contrapporlo al consenso per intersezione: coloro che accettano la concezione politica per ragioni morali-politiche condivise non ritireranno il proprio sostegno se la forza relativa della loro posizione dovesse crescere fino a diventare dominante73. Ora, se il modus vivendi paventato da Rawls è il ‘mero’ modus vivendi, si contrappongono ad esso due forme di modus vivendi ulteriori e prive di minaccia per la stabilità: la prima è quella, appena ricordata, contemplata da Rawls, come modalità non-instabile di inclusione progressiva nella cittadinanza, che riguarda le persone che accettano le istituzioni dapprima con riluttanza e poi con sempre maggiore convinzione. Riguarda cioè persone che non condividono la concezione politica della giustizia ma che raggiungono con il tempo il consenso per intersezione; la loro obbedienza alle istituzioni è dapprima un modus vivendi che esprime una modalità in fieri della loro esistenza pubblica all’interno della società liberale. È questo un modus vivendi noninstabile, nel senso che non è preludio di squilibri minacciosi per l’unità sociale, ma che non è neppure stabile nel senso della stabilità morale. È, piuttosto, una condizione intermedia, un modus vivendi in ‘via di stabilizzazione’. La stabilità di questa condizione è da intendersi meglio come una promessa di stabilità per le ‘ragioni giuste’. Il tempo, in questo caso, è la terapia per l’instabilità. 72 Ricordo come, nel caso del modus vivendi, «l’unità sociale [sia] solo apparente, perché la sua stabilità è legata all’eventualità che la situazione rimanga tale da non perturbare una fortuna convergenza di interessi». Cfr. J. Rawls, Liberalismo politico, cit., p. 133. 73 J. Rawls, Giustizia come equità: una riformulazione, cit., p. 217.
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In un secondo senso il modus vivendi può essere stabile; è quel modus vivendi che riguarda le persone non-ragionevoli così come le ho presentate, persone portatrici di dottrine irragionevoli, ma tali da poter essere incluse in una prassi allargata di giustificazione. Questo speciale modus vivendi che non è un ‘mero’ modus vivendi è una modalità di inclusione di questi cittadini non-ragionevoli, il cui sostegno alle istituzioni liberali avviene sulla base di ‘ragioni che gli altri non possono accettare’, non avviene cioè per le ‘ragioni giuste’, ma per ragioni buone per loro alla luce del loro piano di vita. Costoro acconsentono all’autorità delle istituzioni non con riluttanza né per mera acquiescenza; ma neppure acconsentono all’autorità per le “ragioni che tutti possono condividere”. Potremmo dire che essi ‘danno il loro assenso’ all’autorità pur non ‘acconsentendo’ ad essa74. Ci si può volontariamente assoggettare alle leggi senza condividere le ‘ragioni giuste’ per farlo, le ragioni valide per chiunque sia rawlsianamente ragionevole e che corrispondono alla moralità costituzionale delle società liberali. Ci si può adeguare volontariamente alle istituzioni avendo non le ‘ragioni giuste’ ma solo le ‘proprie ragioni’. Le ‘proprie ragioni’ non sono, necessariamente, motivi prudenziali o di mera opportunità, ma ragioni che potrebbero rimandare a una visione del mondo in cui, per esempio, non ci sono individui liberi ed eguali, ma persone di buona volontà e peccatori, salvati e dannati, un mondo in cui i primi hanno una missione, quella di convertire i secondi a eterno beneficio della loro anima. Si considerino ad esempio gruppi di predicatori di qualsiasi confessione: essi mostrano la disponibilità a vivere sotto le istituzioni liberali pur non condividendone le basi morali. Il modo in cui considerano gli ‘altri sulla terra’, per quanto irragionevole sia non essendo fondato sull’eguale rispetto, non è però ascrivibile a una forma di violazione dei diritti o di imposizione coatta della verità o di danno a terzi; costoro non sono i fanatici intolleranti cui si riferisce Rawls nell’accezione più negativa di 74
D. Archard, “Political Disagreement, Legitimacy and Civility”. Philosophical Explorations, 3, 2001, pp. 201-22.
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‘irragionevoli’ 75. Se ragionevolezza significa riconoscimento della libertà e dell’eguaglianza degli altri nonché del pluralismo come esito del libero uso della ragione, certamente costoro non sono ragionevoli: convivono pacificamente con gli altri cittadini con atteggiamento collaborativo ma non in base a equi termini di cooperazione; collaborare con il ‘prossimo’ è prescritto non dal principio dell’eguale rispetto ma dalla conformità ad un disegno divino che fa pregare per la ‘salvezza’ di chi si riesce ad illuminare con la propria fede, con la predicazione e il buon esempio76. Un’obiezione rilevante può essere sollevata alla mia idea di una qualche forma stabile di inclusione di queste persone nonragionevoli nel dibattito pubblico. L’obiezione è che potrebbe accadere che all’interno di gruppi di “non-ragionevoli” viga una gerarchia che penalizza le donne, il cui destino, fissato da qualche disegno provvidenziale, è di vivere relegate a ruoli domestici. Il mancato riconoscimento dell’eguaglianza delle donne conferma perché questo gruppo non possa essere considerato ragionevole; e, tuttavia, non è detto che se ne possa parlare come di un gruppo di “irragionevoli” nel senso di fanatici intolleranti. Quel che intendo dire è che, finché non ci sono prove di un asservimento delle donne, di una discriminazione esercitata su di loro contro la loro autonomia, non si può invocare l’intervento delle istituzioni per ‘imporre’ la loro emancipazione. Le istituzioni liberali, se rispondenti ad un ideale di neutralità che impedisce l’imposizione di una qualunque morale, fosse anche di una morale liberale, non 75
‘Fanatismo’ è qui inteso come la traduzione in azione di posizioni integraliste. ‘Fanatico’ si riferisce al comportamento conseguente all’assunzione di posizioni integraliste. 76 Un esempio diverso ma sulla falsariga è offerto da Wenar (L. Wenar, “Political Liberalism: An Internal Critique”, cit., p. 46): è rawlsianamente irragionevole la chiesa che distingua le persone in salvati e dannati. Tuttavia non è contraddittorio che essa coltivi la libertà di coscienza anche per i miscredenti. Può essere infatti difesa la dignità di tutti gli esseri umani, miscredenti inclusi, in quanto creature divine. Una società liberale potrebbe essere l’ambiente migliore per la diffusione della parola di Dio.
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sono legittimate a interferire nell’organizzazione di gruppi né nelle relazioni dei membri al loro interno se non per prevenire e punire danni procurati ad altri. Non vedo, cioè, ragioni liberali sufficienti per interferire con la libertà delle donne di scegliere un modo di vita che i liberali considerano una forma di schiavitù. Non è detto, infatti, che, all’interno di gruppi illiberali, individui che accettano condizioni di subalternità vi siano costretti; il fatto che le scelte delle donne all’interno di alcuni gruppi siano diverse da quelle che farebbero le cittadine della società liberale non significa che le loro scelte siano necessariamente frutto di imposizione o di autoinganno. Sarebbe un modo per considerare la libertà individuale come pregiudicata quando avesse a suo oggetto preferenze giudicate inaccettabili. Ma questo non è, a mio giudizio, un atteggiamento liberale77.
3.4.5. L’obiezione culturale Apro una parentesi per chiarire questa mia considerazione a sostegno dell’idea che gruppi di “non-ragionevoli” possano essere coinvolti in una prassi giustificativa allargata senza minacciare la stabilità delle istituzioni liberali. Ora, che si possa parlare di autonomia delle donne all’interno 77 Qualcosa del genere, peraltro, è affermato da Rawls: «una certa divisione del lavoro è pienamente volontaria se è adottata dalle persone sulla base della loro fede religiosa – dal punto di vista politico, infatti, professare una certa fede è un atto volontario» (J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 307). L’affermazione integra la posizione più generale a difesa dell’inviolabilità dei diritti prima di ogni altra considerazione comunitaria: «è chiaro che i principi liberali della giustizia politica non chiedono che il potere di una chiesa sia democratico. […] È tuttavia vero anche che i principi della giustizia politica impongono, di fatto, vincoli essenziali riguardanti il potere ecclesiastico. Per esempio, impediscono alle chiese di praticare l’intolleranza effettiva. […] Perciò, per quanto non si applichino direttamente alla vita interna di nessuna comunità religiosa, i principi di giustizia proteggono di fatto i diritti e le libertà dei suoi membri impongono vincoli cui ogni chiesa e associazione deve sottostare» (J. Rawls, “Un riesame dell’idea di ragione pubblica”, cit., p. 304).
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di certe culture – autonomia di aderire volontariamente a quel che i liberali considererebbero il loro asservimento – è oggetto di controversia. Si tratta di uno dei temi più caldi del dibattito multiculturale in cui molte voci si pronunciano per un’interpretazione meno ‘forte’ di quella tradizionale di cultura, in cui essa è considerata come un’entità stabile e coesa entro la quale gli individui sono come ingabbiati nelle pratiche culturali e nelle modalità di esistere prescritte dall’appartenenza. Un’interpretazione più ‘debole’ è quella in cui la cultura è vista come un’entità fluida in cui i membri mantengono o possono mantenere una relativa libertà decisionale; le culture non sono «palle da bigliardo»78 senza possibilità di contatto o di ibridazione, ma, al contrario, sono prospettive tradizionali di vivere che possono entrare in relazione tra loro e che possono mutare continuamente79. In questa interpretazione più ‘debole’, la cultura è vista come insieme di pratiche, di abitudini e di tradizioni che soggetti perpetuano come anche contribuiscono a modificare: gli individui non vengono definiti attraverso la loro cultura né la cultura è considerata la premessa necessaria per spiegare ogni loro azione o opinione. Questo orientamento a considerare le culture in modo più fluido e meno ‘essenzialista’ spinge a riconsiderare anche la questione delle donne; le donne non sono necessariamente i soggetti vulnerabili all’interno delle culture né sono destinate alla schiavitù, costrette da una falsa coscienza all’inconsapevolezza della loro stessa oppressione. Alla luce di questa reinterpretazione della cultura si propone un diverso modo di intendere il multiculturalismo come «multiculturalismo senza le culture»80. 78
J. Tully, “The Illiberal Liberal”, in P. Kelly (a cura di), Multiculturalism Reconsidered, Cambridge: Polity, 2002, pp. 102-13: 104. 79 S. Benhabib, The Claims of Culture. Equality and Diversity in the Global Era, Princeton and Oxford: Princeton University Press, 2002 [trad. it. La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, Bologna: Il Mulino, 2005]; T. Modood, Multiculturalism. A Civic Idea, Cambridge: Polity, 2007. 80 A. Phillips, Multiculturalism Without Culture, Princeton: Princeton University Press, 2007.
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Si tratta di liberarsi da prospettive irrealistiche o forzate interpretazioni, quale quella che vede gli individui entro le culture come soggetti liberi di sceglierle o di andarsene, o come quella che li vede imprigionati dentro le culture e privati della capacità di qualsiasi decisione autonoma. Si tratta invece di guardare alla realtà delle cose: se le culture non sono club di soci che vi entrano e ne escono secondo preferenza, né sono libere associazioni per il perseguimento di fini autonomamente scelti, esse non sono neppure necessariamente delle gabbie in cui gli individui sono rinchiusi, ‘contrassegnati’ dalle caratteristiche o dalle preferenze loro ascritte in ragione della loro appartenenza81. Prendere atto di questa realtà significa intraprendere politiche volte a tutelare le persone all’interno delle culture, difendendo gli individui dai rischi dell’oppressione, ma anche a ‘liberare’ le culture dall’interpretazione che ne è stata data, come di entità chiuse e sigillate, in cui i membri non possono che essere totalmente assorbiti e assoggettati. Come si sia giunti all’interpretazione ‘forte’ di cultura, con la conseguente polarizzazione degli individui da una parte e delle culture dall’altra, per cui gli individui non agirebbero se non condizionati dalle culture, e con la separazione delle culture tra di loro, come se fossero entità impermeabili prive di canali di comunicazione, si spiega come esito paradossale di un ideale condivisibile. Mi riferisco all’ideale di non discriminazione sostenuto dal liberalismo neutrale per cui, per garantire l’eguaglianza delle persone, se ne sono azzerate le differenze. La neutralizzazione di queste, però, ha finito per sottovalutare le diseguaglianze 81
Una simile considerazione è svolta da Macedo. Discutendo del caso di quelle famiglie religiose che non manderebbero i figli alla scuola pubblica perché contrari a programmi in cui si celebra la libertà di coscienza, Macedo si pronuncia a favore di un’imposizione dell’obbligo scolastico; considera però un’eccezione il caso degli Amish: le famiglie Amish lasciano che i loro figli escano dalla comunità per decidere quale vita vivere. Il loro integralismo – conclude Macedo – non è fondamentalismo. Sono “cittadini alieni” ma non settari. Vd. S. Macedo, “Liberal Civic Education and Religious Fundamentalism. The Case of God vs. John Rawls?”. Ethics, 105, 3, 1995, pp. 468-96.
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fattuali, tra cui quelle che dipendono dall’appartenenza culturale. Il guaio del liberalismo neutrale è stato quello di voler vedere gli individui senza le culture per poterli vedere tutti uguali, laddove dalle culture traggono la loro identità che può essere la sorgente della stima di sé e dell’autoriconoscimento82. È stata un’ironia della sorte che il multiculturalismo, per correggere gli esiti paradossalmente discriminatori del neutralismo, con la sua pretesa di rendere innocue le differenze cancellandole, abbia finito per proteggere le identità culturali assumendo la loro ovvia rilevanza per gli individui, a prescindere dal tipo di legame che questi ultimi potevano avere o volevano avere con le loro appartenenze; è come se si fosse presupposta la necessità di questo legame come condizione per l’autoidentificazione e per la stima di sé; è come se si fosse assunta l’appartenenza come condizione necessaria per l’eguaglianza senza realizzare fino in fondo che l’eguaglianza include l’autonomia, anche quella di rinunciare alle proprie appartenenze. S’è proceduto così a tutelare le culture come fonti dell’autoriconoscimento, proteggendone i diritti come diritti culturali o collettivi, indirizzati alle comunità prima che agli individui al loro interno83. Per difendere le identità culturali degli individui si è finito per accentuarle e renderle radicali, ‘culturalizzando’ – come qualcuno ha sostenuto
82 Così C. Taylor, “The Politics of Recognition”, in A. Gutmann (a cura di), Multiculturalism and the Politics of Recognition, Princeton: Princeton University Press, 1992, pp. 25-73 [trad. it. Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Milano: Anabasi, 1993]. 83 Sul punto rimando a A. E. Galeotti, Toleration as Recognition, cit.; Galeotti propone di non parlare di diritti delle culture ma di valorizzare le istanze di riconoscimento avanzate dalle culture sulla base del principio dell’eguaglianza e della giustizia. Per una difesa dei diritti collettivi come forme di tutela delle culture e della loro conservazione vd. C. Taylor, Multiculturalismo, cit. Per una difesa liberale dei diritti collettivi vd. W. Kymlicka, Multicultural Citizenship. A Liberal Theory of Minority Rights, Oxford: Oxford University Press, 1995 [trad. it. Cittadinanza multiculturale, Bologna: Il Mulino, 1999]. Per una critica liberale ai diritti collettivi vd. B. Barry, Culture and Equality. An Egalitarian Critique of Multiculturalism, Cambridge: Polity, 2002.
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– le loro relazioni84. Ciò ha finito per incoraggiare visioni delle persone e delle culture come molto più separate e reciprocamente impermeabili di quanto non lo siano nella realtà. Nella realtà, infatti, le culture non sono uniformi al loro interno, né sono separate irrimediabilmente tra loro, anzi acquisiscono per contagio e ibridazione caratteristiche comuni. Nella realtà gli individui dentro alle culture possono avere atteggiamenti diversificati: alcuni sostengono le regole culturali, altri vivono secondo quelle regole senza porsi troppe domande, mentre altri ancora rifiutano l’idea di vivere secondo queste regole come se vi fossero costretti. Lo stesso vale, naturalmente, per le donne e per la variabilità dei modi della loro appartenenza alla comunità. Se alcune intraprendono la difficile strada per l’emancipazione, non è escluso che altre conservino la loro identificazione con il gruppo, scegliendola come modalità in cui vivere la loro vita. Pensare ad un automatico asservimento delle donne entro le culture significa non prendere sul serio la loro autocomprensione come soggetti non necessariamente oppressi per il solo fatto di fare scelte lontane dalla cultura liberale. In conclusione: spetta alle istituzioni liberali difendere i cittadini, dentro le minoranze o nella maggioranza, dentro i gruppi culturali come al loro esterno, dalla loro vulnerabilità, quale che ne sia l’origine, proteggendone i diritti85. Non spetta però alle istituzioni liberali interferire con scelte di vita non liberali, quali che siano e come si esprimano, se tali scelte non costituiscono un danno ad altri. Detto questo, rimane la difficoltà pratica di distinguere tra scelta e coercizione, laddove, entro alcuni contesti, le due categorie sono difficilmente isolabili e altrettanto difficilmente distinguibili. Dall’interno dei gruppi, la nozione di 84
S. Moller Okin, “Is Multiculturalism Bad for Women?”, in Is Multiculturalism Bad for Women?, a cura di J. Cohen, M. Howard, M. C. Nussbaum, Princeton: Princeton University Press, 1999, pp. 9-24 [trad. it. “Il multiculturalismo è un male per le donne?”, in Diritti delle donne e multiculturalismo, a cura di A. Besussi, A. Facchi, Milano: Cortina, 2007, pp. 3-22]. 85 A. Shachar, “On Citizenship and Multicultural Vulnerability”. Political Theory, 28, 2000, pp. 64-89.
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vita buona non è sempre identificata con la nozione di vita scelta; ci può essere vita buona e non scelta, e l’autonomia non è necessariamente il bene più grande86. Oltre a questa difficoltà pratica che mette a dura prova le politiche pubbliche, non credo – per tornare al mio discorso sul trattamento dei “non-ragionevoli” – che si possa negare la tolleranza delle tradizioni, intesa la tolleranza in senso ampio e tale da includere la tutela dei diritti e la garanzia dei benefici della cittadinanza, sulla base dell’eguale rispetto. Ancora, ritengo che non si tratti più soltanto di tolleranza ma di apertura dello spazio civico al confronto, anche per un coinvolgimento di questi gruppi di “non-ragionevoli” alla costruzione di politiche in grado di accomodare il più possibile istanze divergenti, se non, come qualcuno propone, per ripensamenti profondi delle istituzioni fondamentali come la giustizia, nel senso del suo esercizio87. In gioco è allora la modalità di inclusione delle culture, se vada concepita come un modus vivendi ‘in via di stabilizzazione’, come ho chiamato la modalità ‘transitoria’ contemplata da Rawls, la fase che precede l’ingresso nel consenso per intersezione; o se vada concepita come un modus vivendi stabile, che qui propongo e che concepisco come la forma di inclusione che risponde più realisticamente alla diversità delle appartenenze e che non ambisce alla trasformazione dei “non-ragionevoli” perché possano essere considerati cittadini, anche se sulla base di una lealtà ‘parziale’ alle istituzioni. Penso che una risposta all’interrogativo di quale modus vivendi possiamo parlare in riferimento alle culture possa contemplare entrambe le possibilità, a seconda di quel che accade a livello di socializzazione dei gruppi e 86 A. Besussi, “La libertà di andarsene. Autonomia delle donne e patriarcato”. Ragion pratica, 23, dicembre 2004, pp. 433-51. 87 Mi riferisco alla proposta di tribunali multiculturali per una gestione separata della giustizia: vd. per esempio A. Shachar, Multicultural Jurisdictions. Cultural Differences and Women’s Rights, Cambridge: Cambridge University Press, 2001. Il tema della individualizzazione della giustizia per una cultural defence è esempio di sfida del pluralismo, in una versione evidentemente più radicale di quella proposta da Rawls.
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degli individui al loro interno; dipende cioè dalla conservazione delle credenze illiberali al loro interno piuttosto che dalla loro ibridazione con altre credenze all’esterno. Ma assumendo che le differenze possano rimanere e che le culture possano conservare le loro tradizioni o che le modifichino dall’interno, rimane, come dicevo, lo spazio per il confronto, per lo scambio delle ragioni, per varie forme di accomodamento.
3.5. Conclusione. La stabilità senza il consenso La riflessione che ha preceduto ha inteso mostrare come, oltre al consenso per intersezione, siano percorribili vie diverse per l’inclusione dei “non-ragionevoli”. Il punto di partenza è quello della presa d’atto dell’esistenza di un pluralismo che Rawls chiamerebbe irragionevole, come di una realtà con cui occorre fare, che si voglia o no, i conti. Nei confronti degli “irragionevoli” si profilano per Rawls due ipotesi di trattamento: da una parte una sorta di tolleranza o modus vivendi cui può ragionevolmente seguire una graduale inclusione nel consenso grazie agli effetti benefici del vivere al di sotto delle istituzioni liberali; dall’altra parte, in casi estremi, in cui si avverte come incombente la minaccia per la stabilità, l’alternativa è un trattamento nella forma di controllo e di contenimento. Quel che a Rawls sta a cuore – in cui spera ragionevolmente – è che il modus vivendi si trasformi in un consenso per intersezione, nel consenso morale stabile sui valori liberali88. Un modus vivendi non 88
Vd. D. Weinstock, “A Neutral Conception of Reasonableness?”. Episteme, 3, 3, 2006, pp. 234-47: 243. Secondo l’autore l’insistenza di Rawls su una moralità condivisa, esplicitata dal consenso per intersezione, si spiega in ragione della sua ‘paura’ per il modus vivendi concepito come un equilibrio instabile di forze contrapposte il cui esito più probabile è il caos. Si tratta però di un timore eccessivo – continua Weinstock – tanto più che il modus vivendi che caratterizza la società contemporanea è molto più stabile di quanto Rawls non paventi. In un’ottica più realistica non c’è bisogno che la ragionevolezza esprima una virtù politica; basta che esprima una disponibilità al compromesso quando è
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La verità sospesa
può, nell’ottica rawlsiana, sostituirsi alla giustificazione pubblica che si esprime nel consenso per intersezione, che è sottoscritto esclusivamente sulla base di ragioni morali. Come bene sottolinea Rossi, il modus vivendi (ma nell’accezione di ‘mero’ modus vivendi, quello cui Rawls si riferisce per contrasto rispetto al consenso) non è un’alternativa percorribile se si intende salvaguardare il principio di legittimità liberale basato sul valore dell’autonomia. Ha ragione Rossi quando ribadisce l’importanza della motivazione morale per arrivare al consenso per intersezione: nel caso del ‘mero’ modus vivendi, le motivazioni non sono ragioni morali ma ragioni prudenziali, sono interessi o preferenze. Per questo il modus vivendi non è compatibile con il resoconto liberale della legittimità basata sul consenso, cioè con la visione secondo la quale l’autorità politica è giustificata a condizione che i cittadini vi aderiscano consensualmente, condividendone gli elementi essenziali. Il requisito delle ragioni morali è imprescindibile per parlare di legittimità liberale così come ne parla Rawls; bisogna volere quelle istituzioni e volerle autonomamente perché esse, in questa prospettiva, siano legittime. Non si ottempera al requisito della legittimità in presenza di ragioni prudenziali – ragioni che sono dettate dalle circostanze, ragioni non libere, per dir così, ma determinate dal variare delle situazioni – per realizzare un consenso, che sarà tutt’al più un ‘mero’ modus vivendi. Se, dunque, il progetto rawlsiano della giustificazione pubblica mira a vincere la sfida lanciata dalla diversità senza rinunciare all’obiettivo del consenso, il modus vivendi non può servire a questa sfida laddove implicitamente rinuncia al consenso che si ottiene solo sulle ragioni morali89. Ora, la mia ragione per accordare valore al modus vivendi dopo averlo ripensato è la stessa che muove Rossi a respingerlo: necessario condividere uno spazio con persone di cui non si condividono né le idee né gli interessi. 89 E. Rossi, “Modus Vivendi, Consensus and (Realist) Liberal Legitimacy”. Public Reason, 2, 2, 2010, pp. 21-39.
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Il trattamento degli “irragionevoli” 215
l’istanza realistica di immaginare un modo diverso per sottoscrivere la società liberale non sovrapponibile a quello dettato dal principio della legittimità liberale à la Rawls. La mia difesa del modus vivendi non ritiene infatti che non debbano esserci ragioni morali forti per aderire alle istituzioni, al contrario auspica che ci siano; ma, realisticamente, è ben difficile che un consenso morale si realizzi davvero, a meno di non presumerlo, come in fondo fa Rawls. La mia difesa del modus vivendi corrisponde alla proposta di estendere la prassi giustificativa affinché nel dialogo pubblico possano rientrare, a difesa delle loro posizioni, anche i “non-ragionevoli”. Una forma più ampia di giustificazione pubblica può essere ipotizzata laddove non ci sono soltanto ragioni morali condivise per il consenso, non ci sono solo motivazioni di tipo morale che inducono a perseguire un accordo nel rispetto delle leggi. Dire questo non significa rinunciare all’ideale del consenso nella sua dimensione normativa, come modo per assumere, alla base della giustificazione delle istituzioni, l’autonomia morale dei cittadini pensati come agenti autonomi liberi ed eguali. Il progetto liberale di una società giusta, e che chiede più solidi fondamenti di quelli garantiti da una ragionevolezza ‘astinente’ da ragioni forti e pretese di verità, non è inficiato dalla convinzione che ci possano essere altre forme di inclusione nella cittadinanza nella forma di un più realistico modus vivendi. È stato proprio Rawls, del resto, ad averci invitato a prendere sul serio il pluralismo; ma un pluralismo preso davvero sul serio non è soltanto quello ragionevole, cioè quello che si fa espressione, pur in svariate sfumature, di una premessa condivisa, la ragionevolezza. Quel che voglio dire è che una politica ‘realistica’ non può fare esclusivo appello all’ideale del consenso per intersezione, raggiungibile al più dai “ragionevoli” sulla base di ragioni morali condivise. Ma non tutti i cittadini sono ragionevoli nel senso inteso da Rawls, e il fatto che esistano molti “non-ragionevoli” non è un semplice dato empirico per ciò stesso irrilevante ai fini della validità della teoria; è invece un ‘fatto politico’ e per questo la teoria politica non può che tenerne conto. Una buona teoria, infatti, non dovrebbe essere totalmente astratta: prescindere dalla
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La verità sospesa
realtà potrebbe rivelarsi controproducente per una teoria, anzi potrebbe renderla «pericolosamente utopistica» con il possibile esito di non prendere sul serio il proprio impegno per progettare oltre che per sognare una società giusta90. Pensare teoricamente e normativamente la politica non significa non poterla pensare anche realisticamente, anzi, verrebbe da aggiungere, significa pensarla a partire dalla realtà così come essa è91. Parlare di modus vivendi significa allora assumere – come suggerisce McCabe92 – un approccio anti-utopistico: a differenza di Rawls, che confida nella condivisione di una morale quale base dell’unità sociale, bisogna ed è giusto accontentarsi, in certe circostanze, di accomodamenti e compromessi. Il liberalismo del modus vivendi è un liberalismo che si basa sul riconoscimento di due fatti: che ci sono persone entro le istituzioni liberali che si ispirano a modelli illiberali di associazione politica; che anche costoro possono sostenere a modo loro le istituzioni liberali. Essi concordano con i liberali sul sostegno da dare alle istituzioni senza che ciò significhi confidare nella conciliazione delle loro opposte visioni. L’idea è, dunque, che un sostegno alle istituzioni liberali possa essere l’esito di un compromesso tra cittadini che riconoscono il valore della vita politica ordinata ma che sono anche consapevoli che non c’è una visione politica condivisa a giustificazione di tali istituzioni93. Se per alcuni il liberalismo 90 W. Galston, “Realism in Political Theory”. European Journal of Political Theory 9, 4, 2010, pp. 385-411: 388. Galston usa queste parole in riferimento alla critica di Bernard Williams a Rawls e alla sua “politica moralistica”, cioè irrealistica e utopica. 91 J. Horton, “Realism, Liberal Moralism and Political Theory of Modus Vivendi”. European Journal of Political Theory 9, 4, 2010, pp. 431-48: 437. 92 D. McCabe, Modus Vivendi Liberalism. Theory and Practice, Cambridge: Cambridge University Press, 2010. 93 Sul compromesso come possibile esito del disaccordo vd. per esempio R. Bellamy, Liberalism and Pluralism. Towards a Politics of Compromise, cit., pp. 93-95. Secondo Bellamy, il compromesso, benché osteggiato dal liberalismo basato su un consenso morale, riflette una visione meno individualistica e più cooperativa della vita pubblica. Si concorda sul fatto di poter rimanere
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del modus vivendi esprime il fallimento di un progetto di società realizzata sull’unità nonostante le differenze, si tratta invece di un modo diverso per concepire e difendere il liberalismo. La domanda è quindi come il modus vivendi possa rispondere alle istanze giustificative del liberalismo; una risposta potrebbe venire non dall’appello a ideali morali ma dalla garanzia dell’ordine, nel rispetto della libertà di ciascuno di perseguire i propri fini94. Anche la priorità data all’ordine implica al fondo un assunto morale: l’idea che nulla è più importante per le persone del loro essere libere di vivere secondo i loro valori più profondi. Quello che allora caratterizza il liberalismo del modus vivendi non è il rifiuto di ideali morali ma il suo impegno per un “universalismo morale minimo” fondato sull’assunzione che gli interessi di tutte le persone contino alla stessa maniera95. in disaccordo, cosa che non impedisce di fare sforzi per trovare soluzioni accettabili da tutti. Così concepito, il compromesso esprime un’attitudine alla solidarietà, nella consapevolezza – continua Bellamy – che valori condivisi da tutti non siano realisticamente disponibili. Perseguire il compromesso è più della semplice tolleranza come sopportazione di coloro con i quali si è in disaccordo; è un modo più realistico per affrontare le sfide del pluralismo, laddove l’omogeneità morale su cui Rawls basa la società liberale non esiste. Vd. anche R. Bellamy, “Consensus, Neutrality and Compromise”, in R. Bellamy, M. Hollis (a cura di), Pluralism and Liberal Neutrality, London: Frank Cass, 1999, pp. 54-78, specie le pp. 54-55. 94 D. Reidy, “Reciprocity and Reasonable Disagreement: from Liberal to Democratic Legitimacy”. Philosophical Studies, 132, 2, 2007, pp. 243-91. 95 D. McCabe, Modus Vivendi Liberalism, cit., p. 138. La questione è al centro, da un altro punto di vista, della riflessione di D. Reidy, “Reciprocity and Reasonable Disagreement: from Liberal to Democratic Legitimacy”, cit. Reidy parla di motivazione alla cooperazione distinguendo un’idea forte e una debole di reciprocità. L’idea forte di reciprocità è quella che Rawls mostra di avere, reciprocità nella giustificazione, ed è del tutto irrealistica; la versione debole o procedurale della reciprocità non serve però all’idea di legittimità, essendo nella sostanza una reciprocità negli interessi. Se dunque quella debole è, per dir così, troppo debole, quella forte è insostenibile perché richiede la condivisione di termini a partire dai quali difendere le proprie posizioni; tale condivisione però non c’è né può esserci nel liberalismo politico, a meno di assumere una comune fede liberale, che è una fede illuministica nella capacità della ragione di superare il dissenso. Reidy propende per una versione debole di reciprocità
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La verità sospesa
La conclusione è che il modus vivendi non è necessariamente precario, non è necessariamente adottato come modo di convivenza solo perché e finché funziona come sforzo congiunto di massimizzazione delle rispettive preferenze. Non c’è solo il modus vivendi come equilibrio di interessi e preferenze ma c’è anche un modus vivendi come equilibrio delle diversità quando queste sembrano insuperabili. Il modus vivendi può allora essere concepito come una terza via oltre il consenso morale intorno a valori condivisi, su cui si basa la legittimità delle istituzioni liberali, e l’accordo strumentale, il ‘mero’ modus vivendi. Si tratta di un’alternativa che contempla il sostegno alle istituzioni non per ragioni morali bensì per ragioni ‘contingenti’; ciò significa che non sono accettate perché si rinviene in esse un valore in sé, non sono cioè accettate di per sé, per il fatto di rappresentare valori e di condividerli, ma sono accettate in quanto valgono in funzione della realizzazione di un proprio piano di vita96. Dire ragioni ‘contingenti’ non significa dire ragioni soltanto prudenziali, dettate da interesse o opportunità; significa dare spazio alle ragioni degli altri nonostante il nostro dissenso. Significa pensare al modus vivendi in modo più ‘generoso’ di quello offerto da Rawls: è un modo del convivere perseguito in base a ragioni
come reciprocità negli interessi, che spinge i cittadini a sottoscrivere un sistema di cooperazione reciprocamente vantaggioso e che rende comunque possibile esprimere il dissenso. Mi pare evidente che questa rilettura sia ben lontana dall’idea rawlsiana di giustificazione pubblica. 96 Sul punto vd. C. Mills, “Not a Mere Modus Vivendi: the Basis for Allegiance to the Just State”, in V. Davion, C. Wolf (a cura di), The Idea of a Political Liberalism. Essays on Rawls, cit., pp. 190-220; Mills contesta l’idea rawlsiana del consenso sostenendo che la lealtà alle istituzioni non richiede che esse vengano sostenute sulla base di principi compatibili con le proprie dottrine; richiede soltanto un’esperienza di vita condivisa. Il modus vivendi è espressione di questa esperienza condivisa da cui, solo successivamente, derivano i principi. La stessa idea è presente in D. Edyvane, Community and Conflict: The Sources of Liberal Solidarity, London: Palgrave McMillan, 2007, p. 143. L’idea di un modus vivendi non precario, reso stabile dalla lealtà alle istituzioni, è difesa anche da J. Haldane, “The Individual, the State and the Common Good”. Social Philosophy & Policy, 13, 1996, pp. 59-79.
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non necessariamente morali come anche in base ad un calcolo di svantaggi e vantaggi, di costi e benefici, un calcolo prudenziale nel senso ampio del termine. Si tratta di accettare l’idea che gruppi diversi possano avere le loro ragioni per accettare le istituzioni e le regole della convivenza come un mix di ragioni morali e non morali. Non solo: si tratta di rassegnarsi – in certi casi – all’impossibilità pratica di tracciare confini certi tra la morale, la prudenza e l’auto-interesse. Si tratta anche di accettare il fatto che non c’è garanzia perenne di stabilità di un assetto politico, e che ciò tuttavia non significa che esso sia privo di una qualche legittimità97. Con questi problemi ha del resto a che fare – come ammonisce Horton – quell’attività difficile e confusa, e per il moralista certamente frustrante, che è la politica98.
97
J. Raz, “Disagreement in Politics”, cit., p. 48. J. Horton, “Why the Traditional Conception of Toleration still Matters”. Critical Review of International & Political Philosophy, 14, 3, 2011, pp. 289-305, specie le pp. 295-96. 98
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IV. Congedo
Se è peccato «l’abuso, l’aberrazione e la distruzione della comunità» che precipitano l’essere umano «nell’abisso dell’isolamento e della separazione»1, è certamente qualcosa di assai simile al peccato agire come se gli altri non ci fossero. Per chi non crede o non crede più in Dio non è peccato ma, certo, qualcosa di profondamente ingiusto. Del resto, il volere stesso di Dio – dice Rawls – deve essere in accordo con «le idee fondamentali della giustizia così come noi le conosciamo. Infatti, che cos’altro potrebbe essere la giustizia più fondamentale?»2. Che il volere di Dio debba concordare con la giustizia come noi la conosciamo è una premessa che fa dire a Rawls che per lui non è più possibile la preghiera. Non può più pregare Dio se questo Dio è lo stesso che non ha impedito la Shoah. Il Dio che ha permesso la Shoah dimostra di non avere una volontà suprema; per questo non ha più senso credere nel supremo volere di Dio, né ha senso, ovviamente, pregarlo. Non c’è bisogno di Dio per essere o diventare donne e uomini giusti. E tuttavia, malgrado l’allontanamento dalla fede in Dio, forte in gioventù tanto da indurlo a meditare di accostarsi alla vita religiosa, Rawls continua a credere che ci sia una relazione tra
1 J. Rawls, A Brief Inquiry into the Meaning of Sin and Faith, a cura di T. Nagel, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 2009, p. 193 (traduzione mia). 2 Ivi, p. 263 (traduzione mia).
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La verità sospesa
la ragione di Dio e i valori morali e politici: la ragione di Dio e la nostra ragione – ammette – sono in qualche senso simili e in altri sensi differenti3. Rawls dà prova di questa convinzione nella Teoria della giustizia, in cui, nonostante la dichiarata indipendenza della morale dalla religione, punti di contatto permangono tra le nozioni di peccato e di comunità e quelle legate alla giustizia. A contenuti di fede si avvicinano alcune delle idee che la Teoria espone, per esempio quella della moralità definita in base alle relazioni interpersonali più che in riferimento a un sommo bene, quella che concerne la separatezza delle persone, che sta alla base di una nozione di comunità come costituita da individui distinti; e, ancora, quella di una società basata su una forma morale di consenso e non già sul compromesso tra opposti interessi, sul loro instabile equilibrio4. C’è qualcosa di profondamente religioso che soggiace al progetto rawlsiano di società giusta. C’è un’idea di umanità capace di redimersi dal male terreno dell’ingiustizia, sempre che gli esseri umani riescano a concepirsi come liberi ed eguali, come capaci di convivenza sulla base del rispetto reciproco. Anche questa è una fede, ed è una fede ragionevole. È la fede nella ragionevolezza e la ragionevolezza è questa stessa fede. Si tratta della fede che l’umanità, nonostante spaccature e conflitti, possa trovare la sua pace perpetua e la sua stabilità nella condivisione della giustizia. È una fede ed è ragionevole, perché la giustizia è connaturata all’umanità, è dell’umanità il desiderio più grande. Dobbiamo partire – scrive ancora Rawls – assumendo che una società giusta sia possibile e, perché sia possibile, dobbiamo riconoscere che gli esseri umani devono avere una natura morale, 3
J. Rawls, “On My Religion”, in Id., A Brief Inquiry into the Meaning of Sin and Faith, cit., pp. 261-69. 4 Sul punto: J. Cohen, T. Nagel, “Introduction”, in J. Rawls, A Brief Inquiry into the Meaning of Sin and Faith, cit., pp. 1-23: 7.
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Congedo 223
una natura non perfetta ma tale che essi possano agire sulla base di una concezione ragionevole della giustizia5. Capiamo perché Rawls, nella Teoria come nel Liberalismo politico, cerchi di provare che è ragionevole credere nella moralità della natura umana – contro ogni contraria empirica evidenza – spiegando come sia possibile una società giusta. Non basta dire di avere una natura morale; bisogna dimostrare di poterla anche esprimere. In entrambi gli scritti Rawls cerca di mostrare che è ragionevole credere a ciò in cui dobbiamo credere, e che è ragionevole fare ciò che dobbiamo fare, se vogliamo vedere il mondo come Dio l’ha visto creandolo, cioè come una ‘cosa buona’. Ritroviamo il senso kantiano della fede ragionevole: per agire secondo la natura morale, per essere devoti alle leggi morali e per impegnarsi nei confronti dei loro ‘oggetti a priori’, bisogna prima di tutto credere nella possibilità della loro realizzazione; se così non fosse, se non ci fosse alcuna apertura per questa realizzabilità, tale impegno sarebbe ben poco motivante, anzi ben poco sensato. È a Kant che Rawls rivolge lo sguardo quando parla della fede pratica nella realizzabilità del ‘regno morale’, una fede che si basa su «certe supposizioni a proposito della nostra natura e del mondo sociale»: possiamo credere che il regno dei fini sia possibile in questo mondo, infatti, solo se né l’ordine della natura né le esigenze sociali sono d’ostacolo alla realizzazione di questo ideale. E perché sia così è necessario che questo ordine della natura contenga forze ed andamenti che tendano a lungo andare a produrre, o quanto 5 J. Rawls, “Introduction to the Paperback Edition”, cit., p. lx. Nel suo recente saggio Weithman riporta le parole che Rawls non pubblicò e che integravano significativamente l’introduzione: «questi pensieri conducono rapidamente a una questione collegata con quella della teodicea. Si dice che dopo aver creato il mondo Dio disse che era buono (Genesi 1). Se è buono, una società giusta e ragionevole deve essere possibile; e perché lo sia, gli esseri umani devono avere una natura morale». Cfr. P. Weithman, Why Political Liberalism?, cit., p. 368 (traduzione mia).
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La verità sospesa
meno a sorreggere, un tale regno e a educare il genere umano a favorire questo fine6.
Se la società giusta, se la giustizia stessa, sono degli ideali, si tratta però di ideali realizzabili, inscritti in un’utopia realistica7. È nella nostra natura umana che si inscrive questa possibilità, se solo la si vuole perseguire: è infatti nel seguire la legge morale per come si applica a noi, nel cercare di formare in noi stessi una salda volontà buona, e infine nel costruire il nostro mondo sociale di conseguenza, che acquisiamo i requisiti necessari per essere lo scopo finale della creazione. Senza di questo, la nostra vita nel mondo e il mondo stesso perdono il loro significato e il loro senso8.
Oltre la Teoria, che gli lascia l’insoddisfazione per come non si sia affrontata realisticamente la questione della stabilità – «date le istituzioni libere prescritte da questa concezione non possiamo più presupporre che tutti i cittadini, pur accettando la giustizia come equità in quanto concezione politica, accettino anche quella particolare dottrina comprensiva alla quale può sembrare (nella Teoria) che essa appartenga»9 – il Liberalismo politico intende dimostrare che la concezione politica può essere praticabile, può ricadere cioè nell’arte del possibile, perché può conquistarsi il sostegno delle varie dottrine comprensive che non possono non esistere nella società contemporanea. Tale dimostrazione, come sappiamo, è garantita dalla ragionevolezza, che permette agli individui ragionevoli – i cittadini della società liberale – di sostenere la concezione politica indipendentemente dalla forza 6
J. Rawls, Lectures on the History of Moral Philosophy, a cura di B. Herman, Cambridge (Mass.): Harvard University Press, 2000 [trad. it. Lezioni di storia della filosofia morale, a cura di S. Veca, Milano: Feltrinelli, 2004, p. 341]. 7 «La filosofia politica è realisticamente utopica quando estende quelli che di solito vengono considerati i limiti delle possibilità politiche praticabili e, così facendo, si riconcilia con la nostra condizione politica e sociale». Cfr. J. Rawls, Il diritto dei popoli, cit., p. 15. 8 Ivi, p. 173 (corsivo aggiunto). 9 J. Rawls, Giustizia come equità: una riformulazione, cit., p. 208.
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Congedo 225
delle loro dottrine comprensive. E la ragionevolezza ci riporta all’assunzione per cui gli esseri umani hanno una natura morale che li dispone alla socievolezza, alla reciprocità, alla giustizia. La ragionevolezza è il filo rosso che attraversa tutta la riflessione di Rawls. È il nome per la disposizione, naturale ed acquisita ad un tempo10, degli esseri umani pronti a prendersi reciprocamente sul serio, a riconoscersi come appunto ragionevoli, come dotati di quella libertà di coscienza e di pensiero da cui si origina il dissenso. In questi termini la ragionevolezza è il presupposto della tolleranza. Interpretata come indipendente dalla verità, la ragionevolezza, in realtà, le appartiene: non c’è contraddizione dicendo questo, laddove si intenda la ragionevolezza come la virtù di chi sostiene le proprie opinioni senza imporle agli altri come vere e, al contempo, la si assuma come un’oggettività morale alla base dell’unità politica e della sua giustificazione. La ragionevolezza è una forma della verità in quanto è unità di misura, in quanto stabilisce la sua distanza dall’irragionevolezza collocandola oltre il confine che ha tracciato, distinguendo i cittadini in ragionevoli e non. E come la verità che tale si proclama – una verità che si autodefinisce senza riferimento ad altro da sé – la ragionevolezza mal tollera diversità e conflitto e del conflitto si offre come cura. Vista da vicino, la ragionevolezza è lo strumento che concilia il conflitto quando è limitato ai “ragionevoli”, ed è l’espediente che dissolve il conflitto quando lo si imputi agli “irragionevoli”. La ragionevolezza è il modo in cui vengono risolti conflitti ‘risolvibili a priori’, il modo in cui vengono sistemati i dissensi tra amici civili, tra i membri dello stesso ethnos. Per quanto sembri tautologico, la ragionevolezza non offre alcuna soluzione nel caso dei conflitti ‘veri’, quelli che si scatenano a contatto con gli “irragionevoli” e che rimangono 10 È naturale in quanto è un potere morale, una capacità, ma è acquisita, con il senso di giustizia, in quanto instillata dalle istituzioni liberali in ragione della loro funzione educativa.
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La verità sospesa
senza composizione. Nei riguardi degli “irragionevoli” lavora il tempo delle istituzioni, che contribuiscono a forgiarne il senso di giustizia, oppure, nei tempi stretti della politica, lavora la tolleranza e, se non basta, rimane come ratio estrema la coercizione. Si impone ora la domanda: la società giusta sarebbe a rischio se ammettesse al suo interno un dissenso morale sui suoi stessi fondamenti? Certamente dovrebbe fare i conti con una realtà fatta di conflitti e di insuperabili diversità. E tuttavia non c’è solo la stabilità morale fondata sul consenso; c’è anche la stabilità, per quanto meno solida e certa, di un modus vivendi. È possibile pensare un modus vivendi più stabile di quello temuto da Rawls; un modo del convivere che risponda ai requisiti di una giustificazione pubblica alternativa a quella stessa basata sul consenso. Ma, anche oltre il modus vivendi, il conflitto, o l’irragionevolezza, sono una realtà che eccede qualsiasi sforzo di sistemazione. Non basta allora, volendo prendere sul serio la praticabilità del liberalismo, affermarne l’idealità. Non basta neppure invocare la ragionevolezza: essa è un presupposto, non è la descrizione di come gli esseri umani sono e si rapportano tra loro; non è neppure la descrizione del pluralismo che dovrebbe caratterizzare la società così come la vediamo e la abitiamo. Pensare di fare appello alla ragionevolezza come alla chiave di lettura della realtà – come sembra fare Rawls parlando del ‘fatto’ del pluralismo ragionevole – significa ‘figurarsi’ un mondo in cui vengono meno le distanze, in cui è sottratto lo spazio stesso della politica, lo spazio che si inaugura dove le persone non sono tutte uguali, né sono assimilabili tra loro. Ma un mondo senza distinzioni rischia di essere un mondo ‘irragionevole’, oggetto di una prospettiva da cui guardare la realtà che è più multiforme di qualsiasi interpretazione. Irragionevole è, in un mondo senza distanze, l’inevitabile negazione delle relazioni, le relazioni che si instaurano tra le differenze, l’eliminazione – ‘peccaminosa’, l’avrebbe definita il giovane Rawls – di comunità.
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Congedo 227
Oltre Rawls, occorre portare avanti e riscattare il suo progetto liberale: difenderne la verità senza timore di settarismo, assumerne la difesa pur sapendo che è esso stesso l’emanazione di una cultura, di una tradizione, di una storia; proporne i valori come valori per tutti oltre ogni contingente accettazione. Occorre sfidare i non-liberali su un terreno che non li escluda ma che dia loro la voce cui hanno diritto, il diritto che il liberalismo riconosce a chiunque, quali che ne siano le parole. Riconoscere ai non-liberali la loro autonomia, il loro essere l’autorità epistemica delle verità di cui sono portatori, vincendo la tentazione di liquidarli come irragionevoli. Riconoscere che sussiste un margine di intrattabilità, quella che Rawls chiama ‘metafisica’, e che non ci sono sempre confini facilmente tracciabili tra giusto e bene, tra scelta e destino. Riconoscere che l’azione stessa di tracciare confini è discutibile, non di rado motivata dall’ingenua pretesa di chi pensa di abitare un punto di vista trascendente, di stare sulla montagna dalla cui sommità decidere, illudendosi di farlo senza pregiudizi, che cosa debba stare al di qua e al di là di questi stessi confini. È allora un liberalismo meno moralistico quel che si annuncia, un liberalismo del modus vivendi che sa di non potersi purificare dalle contingenze ma che sa anche che è solo a partire da queste che si può aspirare al loro superamento. Un liberalismo che rinnovi la fiducia nel discorso come nell’unica possibilità per la comprensione reciproca, in cui valga come aurea la regola non di accogliere tutte le verità ma solo di rispettare lo sforzo di ciascuno di difendere la propria11. A chi, anni fa, mi chiedeva perché ‘ancora’ leggessi o rileggessi Rawls, perché ancora mi soffermassi sulle sue opere di cui s’era già detta ogni cosa, di cui s’erano già segnalati tutti i limiti e le contraddizioni, mi trovai a rispondere così, con una battuta un po’ sciocca o un po’ troppo pretenziosa: perché di Rawls 11
A. Besussi, “Assoluti terrestri. Post-secolarismo e limiti della filosofia liberale”, cit.
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La verità sospesa
sono innamorata, come Kant lo è della metafisica. Nell’oggi in cui vivo la mia vita, più che dalla metafisica mi sento attratta dal bisogno che se ne ha. Allo stesso modo, leggendo e rileggendo Rawls, continuo ad essere attratta dal suo desiderio di speranza, dalla sua fede nella ragionevolezza di una società giusta, dal suo bisogno di credere nella sua possibilità e dal suo sforzo umile e incessante di mostrarci come sia possibile davvero. Al liberalismo politico Rawls affida questa speranza e alla ragionevolezza il compito di tradurla in realtà. Leggendo Rawls sento la passione del filosofo che, gli occhi fissi sul mondo, se lo immagina visto dall’alto, per poter dire che è ‘cosa buona’.
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Filosofia Pubblica Collana diretta da Sebastiano Maffettone
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P. Singer, Etica pratica M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste A.M. Okun, Eguaglianza ed efficienza. Il grande tradeoff A. Buchanan, Etica, efficienza, mercato Introduzione alla bioetica (a cura di G. Ferranti e S. Maffettone) A. Ferrara, L’eudaimonia postmoderna D. Rasmussen, Leggere Habermas A.E. Galeotti, La tolleranza. Una proposta pluralista F. Forte, Etica pubblica e regole del gioco J. Rawls, La giustizia come equità. Saggi 1951-1969 (a cura di G. Ferranti) A. Besussi, Giustizia e comunità. Saggio sulla filosofia politica contemporanea Etica e animali (a cura di L. Battaglia) V. Gessa-Kurotschka, Dimensioni della moralità. Etica e politica nella filosofia tedesca contemporanea F. Fagiani, L’utilitarismo classico. Bentham, Mill, Sidgwick (a cura di B. Morcavallo) A.E. Galeotti, Multiculturalismo: filosofia politica e conflitto identitario V. Marzocchi, Per un’etica pubblica. Giustificare la democrazia Etica individuale e giustizia (a cura di A. Ferrara, V. Gessa-Kurotschka, S. Maffettone) A. Besussi, Somiglianza e distinzione. Saggi di filosofia politica V. Marzocchi, Ragione come discorso pubblico. La trasformazione della filosofia di K-O. Apel R. Sala, Bioetica e pluralismo dei valori. Tolleranza, principi, ideali morali Ricostruzione della soggettività (a cura di R. Bodei, G. Cantillo, A. Ferrara, V. Gessa-Kurotschka, S. Maffettone) V. Marzocchi, Le ragioni dei diritti umani L. Greco, L’io morale. David Hume e l’etica contemporanea G. Pellegrino, La fabbrica della felicità. Liberalismo, etica e psicologia in Jeremy Bentham R. Sala, La verità sospesa. Ragionevolezza e irragionevolezza nella filosofia politica di John Rawls
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