La teoria funzionale dell'armonia
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LA TEORIA FUNZIONALE DELL’ARMONIA a cura di LORIS AZZARONI

editrice

LA TEORIA FUNZIONALE DELL’ARMONIA

a cura di LORIS AZZARONI

Editrice

Bologna

© 1991 Copyright by Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 24 In copertina: grafica di A. Foresti e R. Pancaldi

INDICE

pag-

Loris Azzaroni, Introduzione ...................................................................

9

Hugibert Ries (Hugo Riemann), Logica musicale. Contributo alla teo­ ria della musica .............................................................................. 25 Hugo Riemann, Riforma della teoria dell’armonia ................................

35

Ernst Kirsch, Natura e struttura della teoria delle funzioni armoniche. Contributo alla teoria delle relazioni armoniche .......................... 49 Dale Jorgenson, Un résumé del dualismo armonico ..............................

81

Elmar Seidel, L’armonistica di Hugo Riemann .......................................

93

Carl Dahlhaus, Teoria della tonalità armonica .......................................

159

Knud Jeppesen, Per una critica della teoria classica dell’armonia .........

219

Hellmut Federhofer, La teoria funzionale di Hugo Riemann e la teoria degli strati di Heinrich Schenker.................................................... 233 Hellmut Federhofer, Per una critica della teoria funzionale ................. Hellmut Federhofer, Accordi ad affinità di terza e loro funzione nel­ l’armonia di Franz Schubert.......................................................... 265

245

Fonti

I testi raccolti in questa antologia, pubblicati con l’autorizzazione dei rispettivi autori e/o editori, sono tratti dai seguenti volumi e riviste:

Humbert Ries (Hugo Riemann), Musikalische Logik. Ein Beitrag zur Theorie der Musik, in «Neue Zeitschrift fur Musik» 34 (1872), pp. 279282; 35 (1872), pp. 287-288. Traduzione di Mauro Mastropasqua. Hugo Riemann, Die Neugestaltung der Harmonielehre, in «Musikalisches Wochenblatt» 40 (1891), pp. 513-514; 41 (1891), pp. 529-531; 42 (1891), pp. 541-543. Traduzione di Mauro Mastropasqua. Ernst Kirsch, Wesen und Aufbau der Lehre von den harmonischen Funktionen. Ein Beitrag zur Theorie der Relationen der musikalischen Harmonie, Leipzig, Breitkopf & Hàrtel, 1928, pp. 3-34. Traduzione di Loris Azzaroni. Dale Jorgenson,^ résumé of harmonic dualism, in «Music and Letters» 44 (1963), pp. 31-42. Traduzione di Mauro Mastropasqua. Elmar Seidel, Die Harmonielehre Hugo Riemanns, in Beitrdge zur Musiktheorie des 19. Jahrhunderts, a cura di M. Vogel, Regensburg, Bosse, 1966 (Studien zur Musikgeschichte des 19. Jahrhunderts, vol. IV). Traduzione di Loris Azzaroni. Carl Dahlhaus, Theorie der harmonischen Tonalitdt, in Untersuchungen uber die Entstehung der harmonischen Tonalitdt, Kassel, Bàrenreiter, 1968, pp. 9-56 (Saarbrucker Studien zur Musikwissenschaft, vol. II). Traduzione di Loris Azzaroni. Knud Jeppesen, Zur Kritik der klassischen Harmonielehre, in Kongrefibericht Basel 1949, Basel, Bàrenreiter, s.d., pp. 23-34. Traduzione di Mauro Mastropasqua. Hellmut Federhofer, Die Funktionstheorie Hugo Riemanns und die Schichtenlehre Heinrich Schenkers, in Bericht uber der Intemationalen

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musikwissenschaftlichen Kongrefi Wien, Mozartjahr 1956, Graz-Koln, Bòhlau, 1958, pp. 183-190. Traduzione di Loris Azzaroni. Hellmut Federhofer, Zur Kritik der Funktionstheorie, in Akkord und Stimmfilhrung in den musiktheoretischen Systemen von Hugo Rie­ mann, Ernst Kurth und Heinrich Schenker, Wien, Òsterreichischen Akademie der Wissenschaften, 1981, pp. 11-31. Traduzione di Loris Azzaroni. Hellmut Federhofer, Terzverwandte Akkorde und ihre Funktion in der Harmonik Franz Schuberts, a cura di O. Brusatti, Graz, Akademische Druck und Verlagsanstalt, 1979, pp. 61-70. Traduzione di Loris Azzaroni.

Loris Azzaroni

Introduzione

«Ci sono solo due tipi di armonie: armonie superiori e armonie infe­ riori; tutti gli accordi dissonanti sono da interpretarsi, da spiegarsi e da indi­ carsi come modificazioni delle armonie superiori o delle armonie inferiori. Ci sono solo tre tipi di funzioni tonali dell’armonia (ossia di significati all’interno della Tonart), e cioè la tonica, la dominante e la sottodomi­ nante. L’essenza della modulazione sta nella diversa interpretazione di queste funzioni». In questo modo Hugo Riemann intendeva parafrasare nella Vereinfachte Harmonielehre oder die Lehre von den tonalen Funktionen der Akkorde (L) il titolo apposto al volume. Più che di parafrasi di un titolo, tut­ tavia, sembra trattarsi di una sintesi estrema del percorso seguito fino al 1893 nel campo dell’armonistica teorica e pratica: i concetti di armonia su­ periore e inferiore, di dissonanza, di funzione tonale e di modulazione vi sono espressi con tale chiarezza e concisione, da far supporre che da una lato Riemann sentisse giunte ad uno stato di saldo equilibrio le forze di­ verse che avevano agito in lui fino a quel momento nel processo di radicale trasformazione delll’intero sistema dell’armonia, intrapreso vent’anni prima con la Musikalische Logik (2), e che dall’altro egli pensasse di poter dare ormai per acquisiti e largamente diffusi i suoi scritti precedenti nel campo dell’armonistica. L’ipotesi appare tanto più credibile se si pensa che — a prescindere dalle implicazioni derivanti dalla teoria delle rappresentazioni sonore svi­ luppata negli anni della piena maturità (3) — la Vereinfachte Harmonielehre rappresenta il massimo contributo riemanniano alla rifondazione dell’ar­ monistica ed il punto limite del suo sviluppo, giacché in tutti gli scritti suc­ cessivi non verranno apportate modificazioni sostanziali al sistema ivi fon­ dato, e che ad esempio un testo come lo Skizze einer neuen Methode der Harmonielehre, scritto nel 1880, sette anni dopo compariva già in forma no­ tevolmente ampliata come vero e proprio manuale di armonia (4) (un fatto,

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questo, abbastanza sorprendente se solo si pensa a quanto rivoluzionaria e antiaccademica fosse l’impostazione del testo e agli ostacoli che esso do­ vette superare per riuscire a essere divulgato), che a sua volta sarebbe poi uscito addirittura in una traduzione olandese negli stessi anni della Vereinfachte Harmonielehre (5). Senza contare naturalmente sia l’ampio dibattito sviluppatosi negli anni ’70 e ’80 attorno alle problematiche intersecantesi negli scritti di Riemann, Helmholtz e Stumpf (6), sia l’intensa attività didat­ tica svolta da Riemann in quel lasso di tempo (7). Un secolo dopo la sua pubblicazione, la Vereinfachte Harmonielehre e con essa l’intero sistema riemanniano non possono dirsi in Italia altrettanto conosciuti e dibattuti, al di là della recente introduzione nel nostro paese di opere più o meno ispirate ai principi dell’armonistica riemanniana (8), degli apprezzabilissimi richiami in lavori di vasto respiro nell’ambito di una ri­ concettualizzazione dell’armonia (’) e del tributo a Riemann nel quadro di una disamina delle teorie e delle metodologie dell’analisi musicale (10). Ed è proprio la recente «riscoperta» dell’armonistica riemanniana, unitamente alla ripresa di una consistente attenzione per l’analisi musicale cui si sta as­ sistendo oggi in Italia (“), che sembra giustificare l’interesse di questa anto­ logia per il pubblico italiano, rimasto quasi del tutto ai margini dell’ampio dibattito sviluppatosi storicamente all’interno della teoria musicale in Ger­ mania. Il fitto intreccio delle posizioni teoriche e la costante ricerca di ap­ profondimento dei concetti fondamentali dell’armonistica è ciò che si è cer­ cato di evidenziare con la scelta dei materiali qui pubblicati, che ripercor­ rono le tappe storiche fondamentali del pensiero funzionalista. Il lettore potrà scoprire via via come già il secondo degli articoli di Riemann qui pub­ blicati — Die Neugestaltung der Harmonielehre (1891) — si ricolleghi al primo — Musikalische Logik (1872), pubblicato da Riemann con lo pseu­ donimo di Hugibert Ries —, perché ne riprende e ne sviluppa quel concetto di «logica musicale» che attraverserà tutti gli scritti riemanniani sull’armonistica, aprendo ad un tempo una prospettiva del tutto nuova, perché vi si enuncia per la prima volta il concetto di «funzione armonica», fissando già anche i simboli funzionali che rappresentano le armonie (e in ciò consiste anche l’interesse della pubblicazione di questo articolo di Riemann, poiché si ritiene solitamente che sia la Vereinfachte Harmonielehre la prima pubbli­ cazione riemanniana che testimonia l’adozione dei simboli funzionali). Lo scritto di Ernst Kirsch — Wesen und Aufbau der Lehre von den har­ monischen Funktionen. Ein Beitrag zur Theorie der musikalischen Harmonie (1928) — non solo sviluppa a fondo il concetto di funzione armonica, sviscerandonone natura e struttura e proponendone anche un’interpreta­ zione in chiave matematica, ma tenta anche di superare la concezione dua­ listica riemanniana, fonte di innumerevoli polemiche — di cui è presente qualche traccia in questa antologia —, mediante una rappresentazione fon­ data sul principio dell’analogia.

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Sulla questione del dualismo interviene Dale Jorgenson —A résumé of harmonic dualism (1963) — con un articolo che ripercorre criticamente le tappe principali dell’evoluzione del concetto, da Zarlino, a Rameau e Tartini, fino a Hauptmann, Oettingen e Riemann. I due scritti successivi — Die Harmonielehre Hugo Riemanns di Elmar Seidel (1966) e Theorie der harmonischen Tonalitàt di Cari Dahlhaus, tratto dal fondamentale volume Untersuchungen ùber die Entstehung der harmo­ nischen Tonalitàt (1968) (12) — rappresentano il punto centrale dell’antolo­ gia. L’ampio saggio di Seidel, suddiviso in tre parti, affronta la questione dell’armonistica riemanniana da altrettante diverse prospettive: lo sviluppo in senso storico dei suoi aspetti teorici, ripercorrendo le varie tappe del cammino non sempre lineare dalla Musikalische Logik alle Ideen zu einer «Lehre von den Tonvorstellungen»1 , l’armonistica pratica, attraverso un’e­ sposizione sistematica che, lungi dal tentarne una semplificazione (13), tende piuttosto ad evidenziare costantemente il rapporto fra presupposto teorico e aspetto pratico delle questioni trattate; la discussione attorno ad alcune delle posizioni critiche più significative, nel tentativo di proporre un giudi­ zio sull’armonistica riemanniana quanto più possibile scevro da difetti di parzialità, attraverso la fissazione di un punto di osservazione per così dire «a distanza», atto a garantire una visione complessiva dell’intero percorso seguito da Riemann e non solo di alcune delle sue tappe. Lo scritto di Dahlhaus in certo modo introduce alla seconda parte del­ l’antologia, fungendo ad un tempo da cerniera con la prima: la discussione sui concetti di tonalità e di armonia, di Tonart, di Stufengang, di cadenza, condotta sul confronto delle tesi, fra gli altri, di Rameau, Fétis, Sechter, Hauptmann, Kurth, Schenker e Riemann, apre la strada ad una valuta­ zione critica della teoria riemanniana delle funzioni armoniche esemplare per chiarezza e profondità, ad una visione a tutto campo del senso profondo del sistema, ben oltre le imperfezioni e le debolezze rintracciabili in esso. E su queste (o presunte tali) che puntano gli scritti della seconda parte dell’antologia, l’ultimo dei quali, come si vedrà, rappresenta più un esem­ pio di come taluni concetti centrali della teoria funzionale possano restare indenni trapassando in sistemi basati su presupposti ben diversi, piuttosto che di vero e proprio manifesto critico. Zur Kritik der klassischen Harmonielehre di Knud Jeppesen (1949) muove le sue critiche alla teoria classica dell’armonia in generale, e segna­ tamente alla teoria funzionale di Riemann, prendendo le mosse da un di­ chiarato scetticismo di fronte ad ogni tentativo di costruire un sistema di teoria della musica a partire da modelli matematici e fisici, e dalla convin­ zione che le teorie classiche dell’armonia tendano per loro stessa costitu­ zione ad una staticizzazione dei fenomeni accordali, a studiarli astraendo dalle tendenze cinetiche loro proprie. Nel primo dei suoi tre articoli qui pubblicati — Die Funktionstheorie

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Hugo Riemanns und die Schichtenlehre Heinrich Schenkers (1958) —, Hellmut Federhofer, dopo il richiamo agli scritti di taluni critici riemanniani — fra cui proprio quello di Jeppesen qui riprodotto —, fonda la sua critica al sistema riemanniano sul giudizio di inadeguatezza del sistema a cogliere il senso di ampi percorsi accordali, riconoscendo invece al sistema schenkeriano questa capacità: il sostegno lo cerca nel raffronto tra le analisi di Riemann e di Schenker delle prime sei battute dell’introduzione al Rondò finale della Sonata op.53 («Waldstein») di Beethoven (14). La sua posizione venne contrastata successivamente da Seidel nella terza parte del suo citato saggio Die Harmonielehre Hugo Riemanns, ma ciò provocò a sua volta la reazione di Federhofer, che rispose con il secondo dei suoi articoli qui pubblicati, Zur Kritik der Funktionstheorie (1981, par­ ziale rielaborazione del precedente Klangfunktionen der Dur-Mollharmonik, in Beitràge zur musikalischen Gestaltanalyse, Graz-Innsbruck-Wien, 1950, pp.6-20). L’autore vi discute in maniera estremamente stimolante uno dei punti più problematici della teoria funzionale: la «autonomia» dei gradi secon­ dari e in particolare del II grado — autonomia che il sistema riemanniano gli nega perché pone in campo il concetto di «accordo rappresentante» —, richia­ mando più volte Schenker (15) e il suo particolare concetto di «grado», nonché appellandosi più volte all’articolo di Dahlhaus qui riprodotto. L’ultimo articolo di Federhofer, che chiude l’antologia, affronta la questione degli accordi di mediante e delle affinità di terza nell’armonia di Schubert — Terzverwandte Akkorde und ihre Funktion in der Harmonik Franz Schuberts (1979). Il lettore forse si stupirà nel constatare che nelle analisi dei brani schubertiani non viene utilizzata la simbologia funzionale, bensì la tradizionale cifratura dei gradi per mezzo di numeri romani. Ep­ pure un articolo del genere si giustifica pienamente in un volume come questo proprio per il fatto che il concetto di mediante e di affinità di terza è questione fortemente problematicizzata all’interno della teoria funzionale: una eventuale discussione in chiave funzionalista degli accordi mediantici non potrebbe prescindere dalla presente analisi di Federhofer dei rapporti di terza che nascono dall’inserimento di un accordo fra due accordi posti fra loro in rapporto di affinità di quinta. I continui rimandi all’interno dell’antologia dall’uno all’altro dei saggi e quindi l’intreccio di considerazioni critiche che ne risulta, rendono forse non del tutto inutile porre l’accento su alcuni dei concetti di fondo ivi discussi, ten­ tando di stendere una sorta di mappa dei luoghi correlati. Ciò anche al fine di esplicitare, nei limiti di questa sede, quei termini che la traduzione italiana non può rendere in tutta la loro complessità, a meno di non ricorrere a lunghe para­ frasi, fedeli certamente alla lettera dell’originale tedesco, ma prive dello stesso potere di sintesi e della medesima forza espressiva. Punto centrale dell’intero sistema riemanniano dell’armonistica è la no­ zione di Klang. Il termine va inteso nella sua accezione più ampia, quindi

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né semplicemente come «suono», né come «accordo», ma come entità so­ nora complessa, risultante dalla combinazione di una frequenza di riferi­ mento data e delle frequenze concomitanti superiori e/o inferiori, ossia dei suoi armonici superiori e/o inferiori (sulla posizione di Riemann rispetto alla questione degli armonici inferiori di un suono dato cfr. oltre, p. 14, n. 22). Nella Musikalische Syntaxis Riemann afferma che «ciò che chiamiamo «suono» è il punto mediano di una serie di suoni estesa verso l’alto e verso il basso di intensità decrescente fino alla non udibilità, che nella sua interezza dobbiamo denominare Klang» (u'). Dunque Klang come insieme simulta­ neo di un suono singolo (una frequenza singola) inteso come punto di riferi­ mento e dei suoi armonici superiori e/o inferiori, un’entità sonora complessa che si è scelto di tradurre con «armonia». Certamente questo termine è al­ trettanto ambiguo di quello tedesco di Klang, se non altro perché general­ mente lo si riferisce sia alla disciplina che agli oggetti che essa tratta; tutta­ via nel contesto della teoria funzionale esso non può venire inteso in altro modo che nel senso di un complesso di frequenze risuonanti secondo le leggi dell’acustica, in linea con l’assunto riemanniano (17). Dato come suono di riferimento ad esempio il do1, esso produce in­ sieme ai suoi armonici superiori quella che Riemann denomina «armonia superiore (Oberklang) di do» (18):

es. 1

Gli intervalli che caratterizzano questa armonia (nel senso dei rapporti istituiti rispetto al suono di riferimento) sono l’ottava, la quinta e la terza maggiore, intervalli che, seguendo Hauptmann, Riemann ritiene gli unici «direttamente comprensibili» (19). La riduzione dell’ «armonia superiore di do» nell’ambito di una sola ot­ tava, attuata astraendo dall’altezza assoluta della frequenza di riferimento e degli armonici, produce un agglomerato in cui la quinta e la terza maggiore si trovano alla distanza più piccola possibile dal suono di riferimento:

14

opp.

opp,

es. 2

È l’agglomerato che si identifica abitualmente come «triade perfetta maggiore» e che rinvia ad una situazione di vera e propria «fisicità» — in quanto costituito dal suono di riferimento e dai suoi armonici 3 e 5 trasposti d’ottava — e contemporaneamente ad una pura astrazione — per il fatto che questo agglomerato nasce come derivazione artificiale della risonanza armonica di un solo suono di riferimento, ma viene poi inteso e utilizzato come se derivasse dalla sovrapposisizione di tre distinte fonti sonore (20). Il compromesso fra l’intera armonia superiore e la triade maggiore rinvia ad un’entità definibile come «accordo maggiore», che contempla in sé tanto il nucleo triadico che tutti i possibili raddoppi d’ottava dei suoi suoni costitutivi. L’«armonia inferiore» (Unterklang) è «l’esatta contrapposizione» dell’«armonia superiore»: essa è ottenibile se partendo da un suono acuto si ricercano i suoni componenti una successione discendente, i cui rapporti in­ terni corrispondano ai «rapporti dei sei primi armonici superiori» (21). Pren­ dendo ad esempio come suono di riferimento il mz5, operando nel modo suddetto si ottiene la seguente successione discendente di frequenze:

L’insieme del suono di riferimento e dei suoi armonici inferiori (22) dà luogo all’«armonia inferiore» di mi, da cui derivano la «triade perfetta mi­ nore» e quindi 1’«accordo di la minore»:

opp.

opp.

es. 4

15

È, questo, il punto di partenza del «dualismo armonico», che vede l’ac­ cordo minore come esatto rispecchiamento dell’accordo maggiore. Gli in­ tervalli costitutivi vengono calcolati in entrambi i casi a partire dal suono di riferimento, dal basso all’alto nel caso della triade maggiore, dall’alto al basso nel caso della triade minore:

$ es. 5

Per questa ragione Riemann, «simmetricamente» alla denonominazione del primo accordo come «accordo superiore di do», indica il secondo come «accordo inferiore di mi» e non come «accordo di la minore». Ed è sintomatico che Riemann non chiami «fondamentale» il suono 1 dell’armo­ nia inferiore, bensì «suono.di riferimento», riconoscendone invece come «fondamentale» il suono 5 (23). Tutta la costruzione del sistema riemanniano avviene portando fino alle estreme conseguenze il principio della simmetria opposta fra armonia supe­ riore e armonia inferiore. Se è vero che il rigore dualistico con cui il sistema viene costruito porta talvolta a risultati non immediatamente afferrabili e in certi casi di non facile interpretazione, è altrettanto vero però che il sistema così derivato riesce a raggiungere un grado altissimo di perfezione e coe­ renza interna. Due dei concetti base dell’armonistica riemanniana, ad esempio, come l’affinità di quinta (Quintverwandtschaft) e la rappresentati­ vità armonica (Klangvertretung), discendono direttamente da quello di Klang. «Come un suono può essere o suono principale (Hauptton, prima) o suono relativo (e in questo caso o direttamente affine — vale a dire terza schietta o quinta schietta dell’armonia rappresentata (24) —, o indiretta­ mente affine — vale a dire prima, terza o quinta di un’altra armonia, dun­ que dissonante [rispetto all’armonia rappresentata] (“), così anche un’ar­ monia può essere o armonia principale (Hauptklang) — nel qual caso viene chiamata tonica [e indicata con il simbolo T] — oppure armonia relativa; e in quest’ultimo caso essa può essere o armonia con affinità vicina dalla parte degli armonici superiori o armonia con affinità vicina dalla parte degli armonici inferiori, oppure un’armonia con affinità indiretta ... Le armonie con affinità vicina sono solo quelle conosciute con il nome di dominanti, e precisamente, per quanto riguarda un’armonia superiore (accordo mag­ giore), esse sono l’armonia superiore (accordo maggiore) della sua quinta superiore — la cosiddetta dominante superiore, o semplicemente domi­ nante, indicata con il simbolo D — e l’armonia superiore della sua quinta

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inferiore — la cosiddetta dominante inferiore, o semplicemente sottodomi­ nante, indicata con il simbolo S» (26). I rapporti fra T, D e S sono rappresentabili nel modo seguente, che evi­ denzia la relazione di quinta superiore e/o inferiore dei suoni di riferimento della D e/o della S instaurata con il suono di riferimento della T: (D)

(T)

(S)

sol - si - re

do - mi - sol

fa- la- do -s»fig. 1

N.B.: La freccia ------- =2— suggerisce la direzione ascendente dell’armonia superiore (ac­ cordo maggiore).

In base al principio dualistico è immediato ricavare i rapporti fra tonica, dominante e sottodominante laddove l’armonia principale sia un’armonia inferiore (accordo minore), caso in cui Riemann adotta i simboli °T, °D e °S:

mi - sol - si la- do-mi re-fa-la

(°D)

(°T)

(°S)

-«s--------fig. 2

N.B.: La freccia cordo minore).

------- suggerisce la direzione discendente dell’armonia inferiore (ac­

Ciò significa che, data come armonia principale un’armonia inferiore (°T), «l’armonia inferiore della sua quinta inferiore è la dominante inferiore (°S) e l’armonia inferiore della sua quinta superiore è la dominante supe­ riore (°D)» (27). Le rappresentazioni di fig.l e fig.2 mostrano abbastanza chiaramente come per Riemann la scala maggiore e la scala minore naturale siano per­ fettamente derivabili dall’insieme dell’armonia superiore e rispettivamente inferiore del suono principale (prima) e delle armonie superiori e rispettiva­ mente inferiori della sua quinta superiore e della sua quinta inferiore; e in­ fatti per Riemann «la scala è un fatto secondario: un risultato, non un presupposto» (28). Per Riemann l’ordine tonale, la tonalità (Tonalitdt), è «il significato par­

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ticolare che gli accordi ricevono dal loro rapporto con una triade principale, la tonica» (29). In questo senso accordi come ad esempio quelli di La be­ molle maggiore e di Mi maggiore sono perfettamente e direttamente riconduicibili all’ambito della Tonalitàt di Do maggiore: se il fondamento della Tonalitàt è il rapporto fra gli accordi, in base al presupposto che la terza maggiore sia, insieme alla quinta giusta, un intervallo direttamente com­ prensibile, gli accordi di La bemolle maggiore e di Mi maggiore possono ve­ nir riferiti direttamente alla tonica Do maggiore, nonostante contengano suoni estranei alla scala di Do maggiore, al punto che «la successione [di ac­ cordi] Do M - La bem. M - Do M - Mi M - Do M appare analoga a Do M Fa M - Do M - Sol M - Do M» (30). Un’interpretazione del genere è possibile laddove, con Riemann, si intenda sospesa la distinzione fra diatonismo e cromatismo: per interpretare rispetto alla tonica Do M gli accordi di La bem. M e di Mi M non c’è bisogno di ricorrere ad accordi diatonici di Do M e supporne una determinata modificazione; per questo è sufficiente postu­ lare l’affinità di terza tra le fondamentali do - lab e do-mi, dal che risulterà che la successione di accordi Do M - La bem. M - Do M - Mi M - Do M è in­ terpretabile rispetto alla tonica Do M come «tonica — accordo di contro­ terza — tonica — accordo di terza schietta — tonica» (31). È la sospensione fra diatonismo e cromatismo a portare dunque Rie­ mann alla definizione di un sistema sonoro che prevede rapporti più ampi di quelli che regolano la Tonart, basata sull’ipotesi che suoni estranei alla scala diatonica eptatonica di riferimento vadano interpretati o come modifi­ cazioni cromatiche dei suoni appartenenti alla scala, o come elementi pro­ pri di una scala diversa e quindi appartenenti ad una diversa Tonart (col che entra in gioco il concetto di modulazione). Se allora il campo di definizione della Tonart risulta limitato ai rapporti intercorrenti fra gli accordi costrui­ bili con i soli suoni della scala diatonica, o comunque con suoni cromaticamente riconducibili ai primi, il campo di definizione della tonalità rieman­ niana — la Tonalitàt — si estende a tutti gli accordi direttamente riferibili — grazie ai rapporti di affinità di quinta e di terza — alle tre armonie princi­ pali di tonica, dominante e sottodominante, indipendentemente dal fatto che i loro suoni costitutivi siano o meno riconducibili per via cromatica ai suoni della successione scalare derivabile dalla scomposizione delle tre ar­ monie principali (32). In definitiva, è «nella sospensione del diatonismo come fondamento dei rapporti fra gli accordi [che] Riemann vede il segno che distingue la «Tonalitàt» dalla «Tonart della precedente teoria», fondata sulla scala diatonica (33). Il passaggio dalla Tonart alla Tonalitàt può vedersi anche dal solo punto di vista dell’affinità di terza: laddove questa non venga postulata, il campo di definizione si chiude attorno all’affinità di quinta fra la tonica e le sue due dominanti, e in questo caso quindi in Do M gli accordi di La bem.

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M e di Mi M dovranno interpretarsi in relazione alle tre armonie principali, come loro modificazioni dissonanti rispetto alla Tonart di Do M (34). Rispetto ad un sistema basato unicamente sull’affinità di quinta — come la Tonart —, anche accordi costituiti da soli suoni diatonici — ossia appar­ tenenti alla scala deducibile dalla scomposizione delle tre armonie princi­ pali — possono presentare problemi di interpretazione. Come si è visto, le armonie superiori (accordi maggiori) di tonica, dominante e sottodomi­ nante nel modo maggiore sono armonie naturali, quindi consonanti, come lo sono le armonie inferiori (accordi minori) di tonica, sottodominante e dominante nel modo minore. Gli accordi minori nel modo maggiore e quelli maggiori nel modo minore naturale sono invece, secondo Riemann, da considerarsi dissonanti e «da interpretarsi, da spiegarsi e da indicarsi come modificazioni delle armonie superiori [gli accordi minori nel modo maggiore] o delle armonie inferiori [gli accordi maggiori nel modo minore naturale]» (35). Sono tali gli accordi sul II, III e VI grado del modo maggiore e quelli sul III, VI e VII del modo minore naturale: secondo Riemann essi costituiscono delle «consonanze apparenti» (in quanto «dissonanze concet­ tuali») da intendersi in relazione alle armonie del I, IV e V grado. Accordi che Riemann interpreta come «accordi paralleli» o, a seconda dei casi, come «accordi di cambio di sensibile» degli accordi principali della Tonart, negando quindi loro un’autonomia di significato. Questione dibattutissima, questa, che nella presente antologia trova ampio spazio negli articoli di Seidei, di Dahlhaus, di Jeppesen e nei primi due di Federhofer. Non vi si insis­ terà oltre, sia perché rappresenterebbe forse un eccessivo appesantimento aggiungere altre considerazioni oltre le tante riportate negli articoli sud­ detti, sia perché potrebbe risultare eccessivamente riduttivo tentare di sin­ tetizzare in poco spazio argomentazioni che con tanta sottigliezza si intrec­ ciano nei continui rimandi dall’uno all’altro degli articoli medesimi. Ritorniamo piuttosto alle due terne di armonie principali superiori e in­ feriori per procedere nell’illustrazione di un altro concetto chiave del si­ stema riemanniano, il concetto di funzione. Le indicazioni T, D, S e rispet­ tivamente °T, °D, °S, secondo Riemann stanno per tonica, dominante e sot­ todominante rispettivamente nel modo maggiore e nel modo minore natu­ rale. E poiché ci sono «solo tre tipi di funzioni tonali dell’armonia (ossia di significati all’interno della Tonart), e cioè la tonica, la dominante e la sotto­ dominante» (35), si dovrebbe intendere che per Riemann T, D, S e °T, °D, °S simboleggiano le funzioni tonali. Su questo punto discute Dahlhaus, a partire dalla considerazione che «Riemann non precisa se «tonica», «domi­ nante» e «sottodominante» sono indicazioni per i gradi degli accordi o per le funzioni» (37). In effetti, affermare ad esempio che S è Za sottodominante nella Tonart di Do magg. significa considerare il simbolo S una semplice e pratica abbreviazione dell’accordo posto sul IV grado, quindi riferire in certo modo l’accordo fa-la-do alla scala che rappresenta la Tonart, adorn-

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brando così il fantasma della teoria dei gradi, che prende le mosse dai suoni della scala per la costruzione degli accordi. Dire invece che nella Tonart di Do magg. S è la funzione di sottodominante significa vedere nel simbolo S qualcosa che va oltre la pura entità sonora rappresentata, qualcosa che su­ pera l’ambito del puro computo intervallare, per portarsi in quello della sfera delle relazioni implicate rispetto alla Tonart nel suo complesso. Signi­ fica, in altre parole, vedere in S la rappresentazione del ruolo che l’accordo fa-la-do assume nell’ambito della Tonart, un ruolo che non muta se, ad esempio, il do viene sostituito dal re (da cui la sottodominante parallela, Sp) o il fa dal mi (da cui l’accordo di cambio di sensibile della sottodomi­ nante, S ), un ruolo, dunque, che entro certi limiti e a determinate condi­ zioni risulta indipendente dall’entità accordale sottintesa: «Nella teoria fun­ zionale appare evidente l’obiettivo di individuare in un suono, un accordo o una successione accordale il «valore sonoro intrinseco» assunto rispetto ad un determinato sistema di riferimento polarizzato in un «centro», ossia la capacità di instaurare rapporti organici con altri suoni, accordi o successioni accordali dello stesso sistema. In questo senso, il concetto di «valore sonoro intrinseco» sembra aver più a che fare con l’insieme delle virtualità insite in un certo oggetto sonoro, che con quello delle caratteristiche concretamente sonore che esso manifesta quando, una volta estrapolato dal contesto, lo si osservi come fenomeno isolato, come puro segnale prodotto dall’emissione di frequenze da parte di un corpo elastico. La teoria funzionale tende pro­ prio a portarsi al di là dell’evento sonoro così come si manifesta, ad inter­ pretare quello che sta dietro a ciò che appare in un istante determinato, a cogliere il significato, il «ruolo» che esso ricopre rispetto agli altri eventi che lo precedono e lo seguono, dunque la «funzione» che esso esplica nel con­ testo in cui è immerso» (38). Solo se T, D, S e °T, °D, °S vengono intesi come simboli che rappresen­ tano delle funzioni armoniche, dei »significati degli accordi» che «spiegano la «logica della composizione»» (39), è condivisibile la tesi di Riemann che la musica tonale sia interpretabile alla luce della successione «naturale»

T-S-D-T

nel modo maggiore e

°T °D °S °T nel modo minore (40), con tutto ciò che tale tesi comporta, come ad esempio per quanto riguarda l’interpretazione dell’accordo costruito sul II grado nella successione cadenzale I - II - V - I del modo maggiore (cfr. sopra p.18). Il presupposto che le successioni naturali T-S-D-T e OT-°D-°S-OT pos­

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sano spiegare la «logica armonica» della musica tonale — da cui discende immediatamente la possibilità di intendere in maniera problematica colle­ gamenti accordali che deviano dall’ordine «naturale» e si pongono come tratti caratteristici di uno stile musicale (41) — implica che in una Tonart data il riferimento di tutti gli accordi alle tre funzioni armoniche principali garantisca la «chiusura» del sistema sonoro, ossia, per converso, che lad­ dove un accordo si ponga ambiguamente come portatore di un duplice si­ gnificato funzionale, i vincoli interni alla Tonart si facciano pronti a cedere e ad «aprire» il sistema dato alla possibilità del suo stesso annichilimento. Vale a dire che qualora un accordo della Tonart non esprima univocamente una certa funzione armonica, la successione cadenzale «naturale» entro cui si trova può interrompersi — ossia non direzionarsi verso la tonica da cui proveniva — e divenire punto di partenza di una seconda successione ca­ denzale orientata verso il sistema di una nuova Tonart, mettendo in atto un processo modulativo. Col che ci si ricollega all’ultima parte della seconda delle due tesi riprese dalla riemanniana Vereinfachte Harmonielehre e citate in apertura del presente scritto: «l’essenza della modulazione sta nella di­ versa interpretazione» delle tre funzioni tonali dell’armonia. In questo senso è determinante l’intervento delle funzioni secondarie (accordi paral­ leli e accordi di cambio di sensibile) e l’allargamento delle armonie triadi­ che alle dissonanze caratteristiche (settima minore e «sixte ajouté» — sesta maggiore): «Aggiungendo la sesta (6) all’accordo maggiore si tende a tra­ sformare la funzione in S. Aggiungendo la settima (7) all’accordo maggiore si tende a dargli la funzione di D. Aggiungendo la VII all’accordo minore tendiamo a dargli la funzione di S. Aggiungendo la VI allo stesso accordo si tende a dargli la funzione di D» (42). Le modificazioni imposte dalle dissonanze caratteristiche alle tre armo­ nie principali (43) privano queste ultime di quell’univocità di significato fun­ zionale che assicurava la chiusura della Tonart attorno al suo centro, la to­ nica, e ad un tempo creano il presupposto per la fissazione di un nuovo polo attrattivo: interpretato nel senso di una diversa funzione, l’accordo reso ambiguo si chiarisce immediatamente dopo come interprete di un ruolo nuovo che tuttavia, sia pure verso una nuova Tonart, potrà venir giocato solo nella successione cadenzale di sempre, come tonica, o come domi­ nante, o come sottodominante. Tutto ritorna alla norma: il sistema si ri­ chiude su se stesso, attorno alle tre armonie principali, al Klang che le ha generate. Bologna, marzo 1991

Loris Azzaroni

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NOTE (x) H. Riemann, Vereinfachte Harmonielehre oder die Lehre von den tonalen Funktionen der Akkorde, London, Augener & Co, 19032, p. 9 (I ed. 1893). Tutte le citazioni nel pre­ sente scritto si riferiscono alla II edizione. (2) H. Riemann (con lo pseudonimo di Hugibert Ries), Musikalische Logik. Ein Beitragzur Theorie derMusik, in NZfM 34-35-36-37-38 (1872). (3) H. Riemann, Ideen zu einer «Lehre von den Tonvorstellungen», in JBP (1914-15). (4) H. Riemann, Skizze einer neuen Methode der Harmonielehre, Leipzig, 1880; rist. come Handbuch der Harmonielehre, ivi, 1887. (5) H. Riemann, Handboek der Harmonieleer, tr. ol., Emilio Ergo, 1894. (6) Cfr. a questo proposito l’ampio e illuminante saggio di A. Serravezza, Helmholtz, Stumpf, Riemann. Un itinerario, in RIdM 2 (1989), pp. 347-422. (7) Nella «Prefazione alla III edizione» pubblicata nella prima edizione italiana dello Handbuch der Harmonielehre - H. Riemann, Manuale di armonia, tr. it. sulla ed. fr. di G. Setaccioli, Breitkopf & Hàrtel, 1906, p. VII sgg. -, edizione che risale al 1897, Riemann menziona i «lunghi anni d’insegnamento pratico nel Conservatorio di Amburgo e di Visbaden», ricorda di aver insegnato dal 1883 a «centinaia di allievi» il suo nuovo sistema dell’ar­ monia, e rileva compiaciuto che quest’ultimo «dopo quindici anni non è già più una semplice teoria ristretta alle pagine dei libri, ma ha superato con pieno successo la prova decisiva della pratica». (8) Ad esempio i manuali di armonia di H. Grabner, di H. Distler, di W. Maler, di D. de la Motte (quest’ultimo apparso anche in edizione italiana come Manuale di armonia, Fi­ renze, La nuova Italia, 1988). (9) M. De Natale, L’armonia classica e le sue funzioni compositive, Milano, Ricordi, 1986. (10) I Bent - W. Drabkin, Analisi musicale, ed. it. a cura di C. Annibaldi, Torino, EDT, 1990. (n) Cfr. a questo proposito C. Annibaldi, Prefazione all’edizione italiana di I. Bent W. Drabkin, op. cit., pp. VII-XXI. (12) Il paragrafo «Die Funktionstheorie» del capitolo qui riprodotto deriva dal prece­ dente articolo Uber den Begriff der tonalen Funktion, in Beitràge zur Musiktheorie des 19. Jahrhunderts, a cura di M. Vogel (Studien zur Musikgeschichte des 19. Jahrhunderts, voi. IV), Regensburg, Bosse, 1966. (13) È la critica che nel saggio qui riprodotto Seidel muove agli allievi e ai successori di Riemann: interventi sul sistema riemanniano quali la semplificazione della simbologia e l’abbandono del principio dualistico, ancorché renderne più facile la comprensione e più agevole l’utilizzo, ne darebbero un’immagine così parziale da compromettere la sua logica e la sua coerenza interna. Per una visione d’assieme dell’evoluzione del sistema delle funzioni armoniche fino ai primi anni ’60 cfr. R. Imig, Systeme der Funktionsbezeichnung in den Harmonielehren seit Hugo Riemann (Schriftenreihe zu Grundfragen der Musik «Orpheus», vol.IX), Dusseldorf, Gesellschaft zur Fórderung der systematischen Musikwissenschaft e.V., 1970. Per una conoscenza della simbologia funzionale oggi in uso cfr. fra gli altri D. de la Motte, Manuale di armonia, ed. it. cit.. (14) Sul confronto fra i due sistemi cfr. anche, di H. Federhofer, Methoden der Analyse im Vergleich, in «Musiktheorie» 1 (1989), pp. 61-69. (15) L’articolo citato è tratto dal volume Akkord und Stimmfuhrung in den musiktheoretischen Systemen von Hugo Riemann, Ernst Kurth und Heinrich Schenker, Wien, Òsterrei-

22 chischen Akademie der Wissenschaften, 1981; il volume è dedicato a Moritz Violin e Os­ wald Jonas, esegeta e instancabile divulgatore delle teorie e degli scritti di Schenker. (16) H. Riemann, Musikalische Syntaxis, Grundriss einer harmonischen Satzbildungslehre, Leipzig, Breitkopf & Hàrtel, 1877, p. 3. Cit. da A. Serravezza, op. cit., p. 407, n. 171. (17) Cfr. a questo proposito il & 2 dell’articolo di C. Dahlhaus, Teoria della tonalità ar­ monica, p. 171 sgg. (salvo diversa indicazione, d’ora in poi tutte le citazioni e i rimandi agli scritti di Seidel, Dahlhaus e Federhofer si riferiscono a quelli presentati in traduzione ita­ liana in questa antologia). (18) Della serie infinita degli armonici si riportano solo i primi cinque, ossia quelli che secondo Riemann costituiscono l’unica possibile armonia consonante. Troppo note sono le questioni relative all’intonazione e al grado di percepibilità degli armonici oltre il quinto per dovervi ritornare sopra in questa sede. Si confronti comunque quanto afferma Riemann nella Vereinfachte Harmonielehre, cit., p. 3 sgg., oppure nel Manuale di armonia, tr. it. cit., p. 2 sgg.. (19) Cfr. ad esempio E. Seidel, L’armonistica di Hugo Riemann, p. 98 e n. 39, oppure C. Dahlhaus, Teorìa della tonalità armonica, p. 160. (20) Cfr. E. Seidel, op, cit., pp. 98-99. (21) H. Riemann, Manuale di armonia, tr. it. cit., p. 4. (22) Cfr. a questo proposito il saggio citato di Seidel, pp. 107-108, dove si fa notare che mentre in un primo momento Riemann era convinto dell’esistenza degli armonici inferiori, successivamente basò la derivazione delle frequenze superiori e/o inferiori rispettivamente sulla frequenza delle oscillazioni e sulla lunghezza delle corde. Nella Vereinfachte Harmo­ nielehre, cit., pp. 2-3, Riemann basa comunque la derivazione tanto delle frequenze supe­ riori che di quelle inferiori sulla lunghezza delle corde: nel primo caso sulla suddivisione di una corda di lunghezza data in base ai rapporti 1,1/2,1/3,1/4,1/5,1/6, nel secondo caso sulla sua moltiplicazione in base ai fattori 1, 2, 3, 4, 5, 6. (23) Cfr. E. Seidel, L’armonistica cit., p. 98. (24) Riemann chiama «schietto» (schlicht) l’intervallo orientato nella stessa direzione dell’armonia cui si riferisce: ad esempio, rispetto all’armonia superiore di do, il sol è la quinta schietta di do e il collegamento di quinta ascendente do-sol è un «passo di quinta schietta», mentre il/h è la «controquinta» di do e il collegamento di quinta discendente do-fa è un «passo di controquinta»; viceversa, rispetto ad esempio all’armonia inferiore di mi, il la è la quinta schietta e il si la controquinta. Il ragionamento è analogo riguardo l’intervallo di terza. Nella presente citazione per terza schietta e quinta schietta deve intendersi perciò rispettivamente terza maggiore e quinta giusta nella direzione dell’armonia superiore o di quella inferiore. (25) Sulla base dell’asserto di Hauptmann sopra citato (cfr. p. 13), secondo cui gli unici intervalli direttamente comprensibili sono l’ottava, la terza maggiore e la quinta giusta, Rie­ mann distingue tra affinità diretta e indiretta fra suoni: dato un suono di riferimento qualun­ que, sono suoni ad esso relativi con affinità diretta l’ottava (2/1), la quinta (3/2) e la terza maggiore (5/4), in quanto definiti da rapporti semplici, mentre sono suoni relativi con affinità indiretta ad esempio la terza minore [(3/2):(5/4) = 6/5], il tono intero [(3/2)x(3/2):2 = 9/8] e il semitono [(5/4)x(3/2):2 = 15/16], in quanto derivati da combinazioni dei primi tre; cfr. Verein­ fachte Harmonielehre, cit., p. 6. (26) Cfr. Vereinfachte Harmonielehre, cit., pp. 7-8. (27) Cfr. Ibid., p. 8. Si richiama ancora una volta l’attenzione sul fatto che oggi è ampia­ mente in uso una simbologia funzionale diversa da quella ideata da Riemann: ad esempio, mentre nel modo maggiore la tonica, la dominante e la sottodominante vengono ancora in­ dicate rispettivamente con T, D e S, nel modo minore queste funzioni vengono indicate con

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le lettere minuscoole t, d e s, anziché con °T, °D e°S. Cfr. a questo proposito ad esempio D. de la Motte, ed. it. cit.. (28) È, questo, uno dei tratti che distinguono la teoria funzionale dalla teoria dei gradi, che vede invece nella scala il presupposto da cui discendono le strutture accordali, il loro col­ legamento e quindi la definizione di un ordine tonale, almeno nel senso della tonalità mo­ derne di Fétis. Cfr. in questa antologia la discussione condotta su questa questione da C. Dahlhaus, op. cit., p. 161 sgg.. (29) H. Riemann, voce «Tonalitàt», in Musik-Lexicon, Leipzig, 1967’2, p. 960 sgg.. (30) C. Dahlhaus, op. cit., p. 144. (31) Per il significato di questi termini cfr. H. Riemann, Manuale di armonia, tr. it. cit., p. 115 e pp. 130-132, ed anche D. de la Motte, ed. it. cit., pp. 210-222. (32) Cfr. la voce «Tonart» in H. Riemann, Musik-Lexicon, cit., p. 963. (33) C. Dahlhaus, op. cit., p. 162. È in questo senso che va interptretata la scelta ope­ rata nella presente antologia di tradurre il termine «Tonalitàt» con «tonalità» e di lasciare neiroriginale tedesco il termine «Tonart». (34) Si confronti invece a quali risultati perviene Federhofer con le sue analisi dei rap­ porti di affinità di terza nell’armonia di Schubert nell’articolo qui riprodotto, p. 265 sgg.. (35) Cfr. n. 1. (36) Cfr. ancora n. 1. (37) Cfr. C. Dahlhaus, op. cit.,p. 199 sgg.. (38) L. Azzaroni, Introduzione a D. de la Motte, Manuale di armonia, ed. it. cit., pp. 19-20. (39) Cfr. C. Dahlhaus, op. cit., p. 203. (40) La perfetta simmetria fra armonie superiori e inferiori postulata dal sistema riemanniano rende immediatamente comprensibile la ragione per cui nella successione caden­ zale del modo minore naturale la D debba precedere la S: «nel modo minore naturale - e non negli usuali generi misti ricavati dalla mescolanza di maggiore e minore - la dominante mi­ nore (D) gioca lo stesso ruolo della sottodominante nel modo maggiore». Cfr. E. Seidel, op. cit., pp. 124-125. (41) Cfr. ad esempio a quali conseguenze può portare nella musica di Brahms il rove­ sciamento del collegamento sottodominante - dominante in L. Azzaroni, Elusività dei pro­ cessi cadenzali in Brahms: il ruolo della sottodominante, in RIdM XXIV (1989/1), pp. 74-94. (42) Cfr. H. Riemann, Manuale di armonia, tr. it. cit., p. 227. (43) Sulla questione della modulazione in Riemann e sull’utilizzo, ad esempio, degli ac­ cordi alterati e dell’enarmonia, si rinvia al citato saggio di Seidel, e specialmente alla Parte seconda, p. 141 sgg.

Hugibert Ries

Logica musicale. Contributo alla teoria della musica

Il fatto che nell’ascolto di un pezzo musicale abbia spesso avvertito degli errori che le teorie del contrappunto e dell’armonia non erano in grado di dimostrare, è divenuto stimolo per cercare di rendere produttivo, per gli studi futuri, un campo finora completamente trascurato. E se solo si tenesse conto di ciò che ho intenzione di dire sulle successioni accordali e sulla mo­ dulazione, se ne potrebbe avere un punto di vista del tutto nuovo. Basandomi sull’armonia di Moritz Hauptmann, che è la sola a muovere da solidi principi, cercherò di farne evolvere la teoria iniziando dal punto in cui egli si arrestò, vale a dire dalle applicazioni dell’armonia e della metrica. A proposito di queste, ciò che si legge nel suo lavoro non è purtroppo né ben situabile né agevolmente praticabile, a causa dell’indecisione di Hauptmann, oppure della sua noncuranza, nel cercare i propri concetti del­ l’unità d’ottava, della divisione della quinta e della sintesi di terza anche al­ l’interno della successione temporale, senza la quale nessun brano musicale è pensabile. Un concetto astratto come ‘sistema tonale’ è definibile grazie all’inte­ grazione dei tre accordi principali della tonalità in un accordo unico, ma il porli in una successione sensata è una possibilità preclusa a Hauptmann. La mia opinione è che Hauptmann abbia compreso l’affinità tonale degli ac­ cordi, ma nient’affatto inteso il differente significato dell’uno rispetto all’al­ tro, la loro rilevanza logica in un periodo musicale. È una lacuna che il presente studio cercherà di colmare. Nel contempo di fronte alla libertà, sempre crescente, della moderna armonia e al rigoglioso panorama nel quale ad un accordo è generalmente possibile farne seguire qualsiasi altro, il mio scopo è di dimostrare che per un simile arbitrio esiste un limite ben definito da ricercare in nient’altro se non nella logica dei diversi gradi tonali. Vedremo come dai più semplici principi di tesi, antitesi e sintesi — in

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Hauptmann corrispondenti all’idea di ottava, di quinta e di terza —, si svi­ luppino le costruzioni armoniche e metriche più complesse. Allo stesso modo chiariremo, in relazione al loro differente carattere, la varietà di impiego del mezzo espressivo secondo ciascuno di quei prin­ cipi, distinguendo le diverse costruzioni del periodo, ad esempio in Mozart e in Beethoven, in Schumann e in Mendelssohn, fino alla decifrazione delle particolari formazioni wagneriane. Con questa panoramica vorremmo aprire alla teoria, spesso transitante su un percorso disagevole e un po’ sconnesso, l’accesso ad un’esistenza massimamente varia negli aspetti.

I. Logica armonica 1. Cadenza. Secondo Moritz Hauptmann, il senso di conclusività pro­ prio ad una cadenza quale DO-FA-SOL-DO (') sarebbe fondato tanto sul fatto che attraverso il risuonare della tonica, della dominante inferiore e della dominante superiore una Tonart è definita in ogni suo elemento, quanto perché passando nuovamente attraverso la tonica si ottiene una chiusa più efficace. Ciò che H. non ci mostra come punto fermo è quanto differenziata sia l’influenza esercitata dai tre diversi accordi sullo sviluppo di questo processo. Ma il gioco d’abilità di Colombo con l’uovo era altret­ tanto facile. La cadenza incompleta I-V-I suona compiuta e soddisfacente, mentre I-IV-I suona esile e fredda. Perché? Il fatto è che nella cadenza pia­ gale la fondamentale della Tonart diviene transitoriamente quinta per ridi­ ventare ancora fondamentale, sebbene ciò non costituisca affatto un ob­ bligo; in I-V-I, al contrario, la fondamentale viene del tutto eieminata, per essere imperiosamente invocata dalla terza della dominante, la sensibile. La chiusa DO-FA-DO-SOL-DO racchiude entrambe le cadenze, ed ha in ciò un carattere definitorio. La seconda enunciazione della tonica è asso­ lutamente differente dalla terza, e se ne è detto il perché; e quanto scarsa sia la propensione della tonica alla perentorietà in questa posizione, lo prova la circostanza che in tale cadenza essa compare quasi sempre come accordo di quarta e sesta, o in ogni caso ne ha la facoltà. Il suono di riferi­ mento della Tonart DO diviene quinta, poi quarta dell’accordo di quarta e sesta — in questo modo entrando in opposizione con se stessa — e solo dopo che le è sottentrata la dominante se ne sente di nuovo il bisogno. In questa seconda apparizione della tonica io vedo riassunto il concetto di quinta (2), il quale è antitetico alla concezione unitaria del suo primo aspetto e che, passando di nuovo per la dominante superiore, trova la sua unità di terza nella tonica, la quale ricompare allo stato fondamentale.

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Tale configurazione cadenzale è il prototipo di ogni forma musicale. Questa cosiddetta cadenza composta consta di tre ben distinti momenti particolari, che vogliamo definire tetici: tesi, quinta tetica e terza tetica. I momenti di transizione li chiameremo antitesi e sintesi. Più propriamente: la tesi è la prima tonica, l’antitesi è la dominante inferiore congiunta alla to­ nica in quarta e sesta, la sintesi l’unione della dominante superiore e della tonica in stato fondamentale; la tonica è tetica, la dominante inferiore è an­ titetica, la dominante superiore è sintetica. Ma anche senza l’intervento di altri accordi la tonica è in grado di rap­ presentare quei tre momenti, se il basso procede attraverso i gradi I-V-I della scala, in modo da comparire, la seconda volta, come accordo di quarta e sesta. Dobbiamo infine prendere in esame la cadenza I-IV-V-I. Nella cadenza composta, mentre tra i gradi IV-I-V è possibile disporre di suoni legati come anelli di congiunzione, questi mancano nel passaggio tra il IV e il V, a meno che il V non compaia con la settima. Di conseguenza nella scrittura rigorosa saranno più frequenti le successioni I-IV-I-V-I. Eppure nella com­ posizione libera la formula I-IV-V-I è di gran lunga la più utilizzata, e che essa sia avvertita come non lacunosa e del tutto soddisfacente, si spiega fa­ cilmente se si pensa che la fondamentale del IV grado può appropriatamente essere avvertita come quinta opposta alla tonica, tanto che quest’ultima, come accordo di quarta e sesta, non significa certo nient’altro che se stessa sotto un diverso aspetto più facilmente intelligibile. In I-IV-V-I il IV grado è dunque senz’altro in antitesi al I, e in seguito intenderemo sempre come antitesi questa occorrenza autonoma della dominante inferiore.

2. Armonie secondarie. Facciamo ora un passo avanti ed esaminiamo gli accordi appartenenti alla Tonart in senso stretto, come si presentano sui diversi gradi della scala dividendosi subito in tre distinti gruppi, il tetico, l’antitetico e il sintetico. Il loro significato logico dipende, com’è facilmente comprensibile, dal grado di affinità con l’uno o l’altro degli accordi princi­ pali. Così, nel maggiore si trovano innanzitutto accordi tetici (I. VI. (III)). Il VI grado ha come intervallo di terza superiore la terza maggiore della to­ nica e viene quindi sentito al posto della quinta tetica, oppure come efficace rappresentante della tonica nella cadenza evitata all’interno di cadenze più estese. Il III grado è un accordo piuttosto avversato, in quanto la terza e la quinta della tonica vi fanno valere il proprio diritto in contrasto con la fon­ damentale e la terza della dominante superiore, tanto che tale accordo non ottiene il privilegio né della posizione tetica né di quella sintetica. È utiliz­ zabile solo come transizione della tonica alla dominante inferiore, oppure dalla dominante superiore alla tonica su un tempo di battuta che sia prolun-

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gamento del precedente effetto armonico, ma entrambi sono casi in cui il III grado non ha un vero e proprio significato accordale (3). Gli accordi antitetici sono IV, II e VI; sono affini al IV: il II tramite la terza maggiore e il VI grazie alla terza minore. Il VI, in qualità di accordo intercalato tra il I e il IV, è del tutto idoneo a comparire da solo come anti­ tesi oppure, più studiatamente, può condurre antiteticamente anche al terzo grado, come quinta tetica. Il II è decisamente antitetico, dato che non ha alcun suono in comune con la tonica, ma non si esige affatto che lo sia nella stessa misura in cui lo è il IV. Saranno infine sintetici: il V, il VII (e il III). Il VII è affine al V grado grazie alla terza minore; senza possedere realmente una triadicità nel senso in cui la intende Hauptmann, esige il suo riscatto nella terza della tonica se la sensibile (fondamentale) discende alla quinta inferiore. Del III grado ab­ biamo già detto; III-I è un collegamento debole, dato che introduce un solo nuovo suono (4). L’introduzione della settima conduce ad alcune minime modifiche. I7 perde subito, a causa della settima, il proprio carattere tetico, e può essere utilizzato solo come transizione all’antitesi; egualmente, è questa l’interpretazione da dare a questo accordo quando sia posto all’inizio di un brano, intendendo la settima come suono estraneo all’ottava di riferimento. La terza della dominante superiore SOL SI si pone risolutamente come contrappeso di DO MI; più propriamente: la triade maggio­ re DO MI SOL contende la supremazia alla triade minore MI SÓTSI. Il valore antitetico, nel II7, è al contrario rinforzato grazie alla settima, dato che in questo caso è l’intera dominante inferiore a poggiare sulla con­ nessa, sebbene malferma, quinta della dominante superiore. Nonostante presenti integralmente la dominante, il III7 non può van­ tare un’efficacia sintetica, perché la terza della tonica è troppo energica per discendere alla fondamentale della tonica stessa, sebbene ciò non richieda che l’addizione di un solo nuovo suono. È questo il motivo per il quale questo accordo mantiene di preferenza il suo impiego come passaggio tra tesi e antitesi. Al contrario, conduce con facilità a RE maggiore, come VI7 a SOL maggiore e come V7 a LA minore. Il IV7 contiene una ulteriore terza maggiore, quella della tonica, che si contrappone alla dominante inferiore; poiché il VI grado può agire sia teticamente che antiteticamente, il IV7 conserva un carattere antitetico ed è particolarmente adatto all’estensione dell’antitesi con risoluzione al II7. Il V7 non muta affatto il suo carattere, poiché entrambe le triadi, compenetrantisi, agiscono egualmente con forza sintetica. La settima è un anello di congiunzione opportuno tra il IV e il V grado. Il VI7 contiene certo integralmente la tonica, e soprattutto non com-

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prende nessun elemento che possa non dirsi tetico, eppure la dissonanza si oppone al carattere della tesi e rende l’accordo unicamente antitetico, op­ pure utilizzabile come transizione dalla tesi all’antitesi. Si veda il III3 *7*. Il VII7 ha il proprio momento triadico solo nella terza 5-7, la terza maggiore della dominante inferiore, e possiede anche una forte tendenza verso l’antitesi; questa viene talvolta frenata tramite l’implicazione della fonda­ mentale della dominante superiore, dalla quale si origina l’accordo di nona di dominante, ad esempio SOL SI RE FA LA, assolutamente sinte­ tico e nel quale la terza della dominante inferiore si libra isolata, se è vero che RE-LA non è una quinta pura (Hauptmann, N.d.H.u.M. § 47). Si veda anche III7. Di fronte alla mancata edificazione dell’accordo di nona, il VII7 può nondimeno mantenere la medesima possibilità di risoluzione, dato che il procedere verso la tonica gli è senz’altro connaturato. Tutt’al più sarà in grado di coordinare la posizione compresa tra antitesi e sintesi, tanto da ri­ solvere nel V7. (?!) Nel minore, la triade maggiore sul III grado si trova spesso con l’altera­ zione cromatica discendente della quinta e agisce allora teticamente; per il resto, rispetto al modo maggiore, le relazioni sono del tutto identiche, se non altro nei risultati; l’accordo di nona (minore) di dominante è più fre­ quente nel minore che nel maggiore. Tra gli altri accordi di nona si trovano, in maggiore, II9 e IV9, in minore IV9 e VI9, frequentemente utilizzati come transizione fra tesi e antitesi. Agglomerati accordali più complessi si comprendono facilmente come ritardi o anticipazioni; tra questi il più comune è il V11, anticipazione della dominante superiore che comprende la dominante inferiore in funzione an­ titetica. Si tratta di un’armonia che ha una maggior efficacia se la terza viene omessa:

3. Cadenze ampliate. Se dalla semplice sostituzione delle armonie prin­ cipali con le armonie secondarie si può ottenere una grande varietà di co­ struzioni cadenzali, le nostre facoltà organizzative si ampliano oltremodo quando concediamo alla stessa cadenza una maggiore estensione. Il che può avvenire: 1) attraverso la dilazione di un singolo momento, nel quale un mede-

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simo accordo compare in stati differenti, oppure quando gliene viene acco­ stato un altro che abbia la stessa valenza logica, ad esempio:

11,Vl'-'lV,vi1- ni-v'-i 2) attraverso la replica dell’antitesi e della sintesi:

I- II-vó'iv-iI-V-I ovvero

------ 11-------I - IV -1 - V-I-VII-I

3) attraverso l’estensione di un singolo momento, specialmente di una teticità cadenzale all’interno di una chiusa:

I-V-I-IV-I-V-I i______ i

4) attraverso la combinazione dei tre procedimenti:

'l-V-l'- |iv-i‘-n-vi,i|- V, VII -1

Nelle applicazioni compositive, è piuttosto comune la ricerca, attra­ verso ogni mezzo, di un espediente che permetta di ampliare la tesi, in modo da concludere saldamente il periodo con la semplice cadenza I-IV-VI. Quanto Beethoven predilige questa costruzione del periodo! L’amplifica­ zione investe allora anche l’antitesi, per la maggior parte dei casi caratteriz­ zata da uno sforzando. Attraverso gli elementi propri della tesi, dell’antitesi e della sintesi, non solo si potenzia straordinariamente la costruzione cadenzale al suo interno, ma anche si movimenta ogni frase melodica, ogni abbellimento; così sa­ remo in grado di interpretare correttamente una melodia, potremo dirla adeguatamente armonizzata, solo rendendoci consapevoli di quegli sviluppi logici. Qualsiasi suono può essere interpretato accordalmente, non solo in rapporto ad un’armonia data, tracciata estesamente, bensì — di per sé — come fondamentale, terza o persino quinta, con qualità tetica, di un ac­ cordo. Potrei così, per esemplificare, delineare il seguente schema, piut­ tosto intricato, delle prime otto misure (Adagio) della prima sonata per pia­ noforte di Beethoven:

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armonizzazione:

I-V-I,V,I-VIl -I-IV,V,I-IV,I,V-V,I. i ’ ’ i II i i l i i i 1

2

3

4

5

7

6

8

Il primo segmento fino a misura 5 non è altro che una tesi ampliata, le mis. 5-6 costituiscono una cadenza composta con accentuazione del IV, le mis. 7-8 presentano ancora la stessa cadenza, con la dominante inferio­ re nuovamente in evidenza e infine con ritardo della tonica. Oltre a ciò, a titolo di esempio, la frase melodica è analizzabile più dettagliatamente; mis. 1:

J, IV, I, VII, I., || JV, i,t yi,

Tesi.

A.

S.

oppure mis. 4: I, V, I, IV, V, I, I#. VII. VII# I. l___________________ I T. A. Sintesi.

I____ _J

Sarebbe possibile analizzare senza difficoltà, secondo quanto si è indicato, qualsiasi frase melodica, e in generale ogni brano non modulante.

4. Modulazione. Possiamo ora sciogliere l’ultimo vincolo, ovvero oltre­ passare i limiti di una Tonart in sé circoscritta. Sarà così possibile dare libe­ ramente prova di ciò che è la libertà creatrice. Ci sia concessa una parola sulla differenza che intercorre tra la modula­ zione e il semplice uso di accordi alterati. Se in do maggiore pongo un fa# invece di un fa davanti ad un accordo di sol maggiore oppure di mi minore, rendendo il sol maggiore un punto di riposo, avrò ottenuto una modula­ zione. Il sol maggiore, la dominante superiore, riceve significato di tonica ed esibisce una condizione tetica. Egualmente il la minore attraverso l’intonazione del sol#, il fa mag­ giore attraverso quella del sib, il mi minore attraverso il fa# e il re#, ac­ quistano significato di tonica e possono tutti comparire in luogo della terza tetica. Questa è la vera modulazione, che erompe dai limiti imposti dalla Tonart. Definendo in senso stretto il concetto, la modulazione è: la modificazione del significato logico di un grado armo­ nico. Se tali conversioni sono solo transitorie, ossia hanno luogo unicamente come estensione dell’antitesi, le definiamo deviazioni; se, perdurando, fanno sì che il periodo musicale si concluda in una nuova Tonart, nella quale si situa nuovamente l’inizio del successivo, ciò lo definiamo preferi­

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bilmente modulazione. In un passaggio del genere, l’orecchio avverte l’ac­ quisizione del significato di tonica da parte del grado armonico implicato, sia che esso compaia come accordo maggiore piuttosto che minore, sia che venga trasformato cromaticamente o meno; di conseguenza il rapido tran­ sito dal do maggiore alfa maggiore, oppure al fa# maggiore, viene sempli­ cemente sentito come diversamente intensivo: in entrambi i casi il IV grado risulta tonicalizzato. Al contrario gli accordi alterati, in apparenza appartenenti ad una Tonart lontanissima ma in realtà modificati solo cromaticamente, mantengono assolutamente inalterato il loro significato rispetto alla Tonart. Così, sovente sul VI grado di una tonalità maggiore si trova un accordo maggiore, derivato dall’abbassamento cromatico della fondamentale e della quinta. Lo stesso accordo appartiene al medesimo grado del minore ed ha una sonorità piuttosto pungente, come ad esempio in si maggiore l’ac­ cordo di sol maggiore al posto di quello di sol # minore. Allo stesso modo, in minore si presenta un accordo maggiore sul se­ condo grado tramite l’abbassamento cromatico della fondamentale. Ad esempio mi maggiore in re # minore, mib maggiore in re minore. Tanto l’alterazione del VI grado quanto quella del II agiscono antiteticamente, come le loro forme d’origine. Egualmente il II grado in maggiore può comparire con la terza mag­ giore ed essere semplicemente un accordo alterato, se il successivo sol mag­ giore si mantiene sintetico. Tutti gli accordi del genere, modificati cromaticamente, compaiono con un’accentuazione marcata; principalmente in prossimità di uno sforzando, che così bene caratterizza l’antitesi. Ora, le modulazioni possono essere introdotte nei modi più disparati. In genere questo avviene attraverso la dominante inferiore o un altro accordo antitetico alla Tonart di arrivo. Se questo appartiene alla Tonart di par­ tenza, esso muta il proprio significato logico; ad esempio: DO: I- I- III DO-DO-mi-SI-mi mi: VII- V-I ancor più naturale risulterebbe la modulazione: DO: I- VI-III DO-la- mi-SI-mi mi: VI- IV-I- V-I

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Ma è da considerare altrettanto valida la possibilità di raggiungere su­ bito la dominante della nuova tonalità: DO-DO#-FA#, una modulazione rapida che può però essere solo transitoria, sia in veste di progressione che come subitanea digressione regrediente. In una modulazione con carattere di stabilità, il mezzo più opportuno da impiegare è il conferire valore di to­ nica alla dominante della tonalità d’approdo, in modo che il passaggio a quest’ultima sia adeguatamente preparato. Infine, si può raggiungere diret­ tamente l’accordo di tonica in quarta e sesta della nuova tonalità, ciò che è particolarmente agevole quanto più le tonalità sono vicine. Ma perché non ne sortisca un cattivo effetto, l’accordo della nuova to­ nalità che è implicato dovrà sempre figurare secondo la sua corretta collo­ cazione: posizione tetica per il tetico, antitetica per l’antitetico, sintetica per il sintetico. Le progressioni modulanti vanno impiegate con molta avvedutezza, dal momento che di fronte al continuo mutamento del significato logico dei gradi tonali l’orecchio perde facilmente il filo, il che è certamente di grande effetto negli svolgimenti e nelle sezioni di transizione, nei quali anche la lo­ gica ritmica risulta un po’ confusa.

5. Divieto delle quinte. Nelle modulazioni a sorpresa possiamo senza sforzo includere anche quelle date da quinte parallele quando è solo la set­ tima a presentarsi per moto contrario rispetto alle altre voci o se perlomeno risulta da una legatura, ad esempio:

La settima dà all’accordo, col quale si incontra dissonando, un carattere deciso, cui è paragonabile solo quello proprio agli intervalli diminuiti ed ec­ cedenti e alla sensibile. In genere, relativamente al divieto delle quinte non si danno altri plausi­ bili motivi se non quello, al quale Hauptmann accenna, secondo cui in una successione per quinte di due accordi entrambi rivendicano un’autonomia, situazione che il processo organico di costituzione di un brano musicale ri­ fiuta. Il rapporto semplice 2-3 non può presentarsi che come contrasto con altri più complicati; per così dire, un po’ come se la quinta e la quinta paral­ leli dovessero dividersi la stessa onda sonora. In assoluto si ritiene che solo le ottave parallele abbiano una buona sonorità, in quanto siamo indotti a considerarle come unisono. Un cattivo effetto hanno anche, in misura de­

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crescente, quarte, terze oppure seste parallele maggiori e minori (non si di­ mentichi che sto parlando di terze maggiori parallele); seconde e settime parallele sono raramente possibili senza artificio, dato che entrambi gli in­ tervalli esigono una risoluzione, ottenibile solo per ampliamento o ridu­ zione degli stessi. Realizzare uno di seguito all’altro due accordi che compaiano entrambi privi di settima e non abbiano alcun suono in comune, suona generalmente in modo brusco e inespressivo, specialmente se sono tra loro collegati per moto retto, perché così non viene affatto data l’impressione di un movi­ mento complesso delle parti, di un loro procedere interdipendente che si ampli oppure si comprima, bensì quello di un incedere sconnesso. Di conseguenza non più la regola: nessuna quinta — bensì, meglio: moto contrario e dissonanza. Nessun vorrà asserire con convinzione che dia una cattiva sonorità lo scrivere:

NOTE

(1) Le lettere maiuscole indicano l’accordo maggiore con l’omonima fondamentale; le cifre romane il grado della Tonart. L’autore. (2) Intendo questo termine in connessione alle scelte di Moritz Hauptmann. L’autore. (3) Può anche comparire sotto altri aspetti, come ogni cultore dell’armonia sa. Il redat­ tore. (4) Lasciamo all’autore la paternità di questa e di talune altre opinioni. Il redattore.

Hugo Riemann

Riforma della teoria dell’armonia

Negli ultimi tempi, sono stati fatti diversi tentativi di far passare la mia aspirazione alla rimozione del basso numerato dalla teoria dell’armonia, per qualcosa di superfluo e di vano. Le contestazioni in questione (in «Harmonie» e nella «Allg. deutschen Mus.-Ztg») si soffermano sulle inezie per­ dendo di vista le idee fondamentali, tanto che chi non avesse familiarità con i miei libri potrebbe farsene un’idea del tutto errata. Non sarà forse inop­ portuno dunque che, una volta per tutte, esponga in brevi termini i punti essenziali della riforma. Documentata nella letteratura per la prima volta intorno al 1600 e pre­ sumibilmente sorta gradualmente in Italia nei precedenti venticinque anni, la designazione sintetica degli accordi attraverso l’indicazione numerica de­ gli intervalli posti al di sopra del basso (basso cifrato) non è mai stata consi­ derata con particolare entusiasmo dai teorici. Essa non fu altro che la ri­ sposta ad un’urgenza di ordine pratico che diede il miglior supporto all’ese­ cuzione finché questa si resse sull’accompagnamento con cembalo o con or­ gano (basso seguente). All’incirca fino alla fine del secolo scorso (quando l’accompagnamento con il basso continuo decadde gradualmente) le teorie vere e proprie del basso continuo sono immediatamente, esaustivamente ed esclusivamente orientate in modo da permettere all’allievo di destreggiarsi il più speditamente possibile e in modo relativamente corretto nella realiz­ zazione dell’accompagnamento sulla scorta del basso numerato; al contra­ rio, le «teorie dell’armonia», dalle Istituzioni armoniche (1558) di Zarlino in poi (i trattati d’armonia di Rameau, Tartini, Valletti, Fétis, Hauptmann, ecc.) si occupano di aspetti — come il tentativo di sondare l’essenza dell’ar­ monia o di edificare leggi di strutturazione logica della composizione — che la manualistica pratica sfiora appena. Finché fu in auge la prassi del basso continuo, e venne considerata un ausilio opportuno, simili questioni si confrontarono sul terreno della sua ci­

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fratura; ma da quando il basso continuo divenne obsoleto, l’adeguatezza del metodo venne messa definitivamente in discussione. Non è dunque as­ solutamente casuale che gli esordi di una nuova tecnica di cifratura accor­ dale coincidano con «il dileguarsi dell’accompagnamento con il continuo» (Gottfried Weber, Versuch einer geordneten Theorie der Tonsetzkunst, 1824). I presupposti della simbologia accordale di Weber datano naturalmente da più di un secolo, risalendo alla rameauiana teoria della rivoltabilità degli accordi; in effetti — per quanto oggi ciò possa apparire straordinario — il dato di fatto che, a partire da J. Ph. Rameau (1722), mi-sol-do abbia lo stesso significato armonico di do-mi-sol (sebbene si tratti di sfumature di­ verse di colore) costituì una scoperta che destò scalpore. Tuttavia già Zar­ lino aveva richiamato l’attenzione sul valore primario delle armonie conso­ nanti e sull’opposizione polare tra maggiore e minore; ma l’incremento im­ ponente della produzione musicale nel XVII secolo (la fioritura di opera, oratorio, cantata e di tutta la musica strumentale) non indusse le pur vivaci nature dei musicisti ad operare un adeguato sviluppo di quelle idee embrio­ nali, tanto che ancora per molto tempo si guardò al basso numerato come ad un mezzo sufficientemente efficace dal punto di vista pratico. Ma una volta che Rameau ebbe formulato il problema del «significato armonico degli accordi», si definì più stabilmente l’ambito della teoria; Tartini ricorse allora alla teoria di Zarlino dell’opposizione polare maggiore­ minore; Valletti e l’abate Vogler, tra gli altri, compiendo ricerche in questa direzione tentarono di derivare entrambi i modi dalla serie degli armonici superiori. Nel nostro secolo si pronunciarono sui medesimi argomenti i nuovi antesignani G. Weber e, in particolare, Fr. J. Fétis e Moritz Haupt­ mann; di quest’ultimo fece sensazione, per la terza volta, la rivelazione del­ l’opposizione tra maggiore e minore, mentre al belga Fétis rimarrà il cre­ dito mai estinto di aver formulato il principio fondamentale della deducibilità degli accordi dissonanti da quelli consonanti. La quintessenza delle nostre attuali conoscenze teoriche sull’armonia è riducibile nei tre punti:

I. Le armonie dissonanti si originano o per addizione di suoni estranei alle armonie consonanti o attraverso il loro inserimento sostitutivo all’in­ terno di queste ultime (Fétis). IL Non ci sono che due tipi di armonie consonanti: l’accordo maggiore e quello minore; la costruzione dell’uno è completamente speculare ri­ spetto a quella dell’altro: l’accordo maggiore con terza (maggiore) e quinta (giusta) verso l’alto, l’accordo minore con terza (egualmente maggiore) e quinta (giusta) verso il basso (Zarlino, Tartini, Hauptmann, v. Oettingen, e così via).

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III. Non ci sono che tre diverse funzioni nell’armonia: quelle di tonica, di dominante inferiore e di dominante superiore; la modulazione risulta dalla commutazione (diversa interpretazione) di queste funzioni.

Di quest’ultima proposizione penso di potermi attribuire la paternità; perlomeno non ho ancora trovato espresso, in altri teorici, lo stesso con­ cetto in questa sua chiara, apodittica formulazione. Se stimiamo corretti questi tre principi fondamentali — e non credo sia prossimo il tempo in cui potremo farne a meno — dovremo preoccuparci di tradurli dallo stadio della nozione teorica a quello dell’utilizzo pratico; per­ ciò è innanzitutto necessario disporre di modalità di contrassegno degli ac­ cordi che — conformemente al primo postulato — evidenzino le armonie consonanti (accordo maggiore e minore) come semplici nuclei nei confronti dei quali i restanti elementi della scala si dispongano distintamente come componenti accessori. Il primo tentativo in direzione dell’acquisizione di queste modalità di designazione degli accordi fu compiuto da Rameau con la sua teoria della Basse fondamentale (che non è altro che la successione ideale dei suoni generatori dell’armonia); il secondo passo fu compiuto da Gottfried Weber con la sua simbologia letterale degli accordi (C = do-misol, c — do-mib-sol, C7 — do-mi-sol-sib, c7 = do-mib-sol-si e così via); il terzo passo, le cui conseguenze sono ancora inesplorate, fu fatto dal profes­ sor Arthur von Oettingen, che trasferì anche il secondo dei summenzionati principi (polarità maggiore-minore) sul piano pratico e della designazio­ ne accordale (Harmoniesystem in dualer Entwickelung, Dorpat 1866); il quarto, che non è se non un piccolo, ulteriore passo, spetta al sottoscritto: si tratta della messa a punto del sistema di cifratura di v. Oettingen (c+ = do-mi-sol, c° = fa-lab-do) attraverso l’adozione di una simbo­ logia di numeri romani (I—IX) e arabi (1-9) integrati dagli indicatori di al­ terazione ascendente ( < ) e discendente ( > ). Dimostrerò dunque, in modo assai succinto, che questa cifratura accordale — che non ho inventato ex­ novo, ma solo perfezionato — ha pieno riscontro nei tre suddetti principi fondamentali. Sul punto I. Il fulcro del nuovo sistema di cifratura sta nella designa­ zione dell’accordo maggiore o minore, quale momento essenziale della comprensione, con l’ausilio di lettere (c d e f g ecc.) e simboli accordali (+ = maggiore, ° = minore [accordo inferiore]); così ogni suono dissonante risalta in modo evidente, dato che la sua indicazione viene espressa da una determinata cifra. Dal momento che con il nuovo sistema di cifratura un ac­ cordo maggiore o minore viene sempre inteso come tale a partire dal suono principale (nell’accordo maggiore procedendo verso l’alto, nel minore pro­ cedendo verso il basso), un accordo che non derivi né da uno maggiore né da uno minore non è rappresentabile in alcun modo attraverso questa sim­ bologia.

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La notazione del basso cifrato non dà alcun ragguaglio sull’ampiez­ za dell’intervallo; d’altronde non era certo questa la sua funzione, di per sé non essendo altro che un’indicazione sintetica, una stenografia affatto estranea a formulazioni di carattere teorico. Secondo la numerazione del basso cifrato, per compagini accordali eterogenee si dà così la possibilità di un’unica cifratura (a), mentre costruzioni equivalenti dal punto di vista ar­ monico hanno cifrature differenti (b, c):

a)

a

o

e

»

sii o^*)lì

e U

u 4

c) 7

#

e a

« s

Se si esercita l’insegnamento dell’armonia sulla scorta della cifratura del continuo, la natura armonica di ogni singolo accordo deve essere chiarita nei suoi fondamenti al di là delle soggiacenti regole di cifratura; è a tutt’oggi concepibile — come lo era prima di Rameau — che si possa essere dei per­ fetti realizzatori di basso continuo senza avere un’idea del fatto che mi-sol­ do è un rivolto di do-mi-sol e che il loro valore armonico è equivalente. La notazione accordale di Gottfried Weber, alla quale è estranea l’idea della opposizione maggiore/minore, si dimostra corretta solo per alcuni ac­ cordi, mentre in altri casi si trova in flagrante contraddizione con il primo dei nostri principi fondamentali. Weber cifra ad esempio l’accordo dimi­ nuito si-re-fa come °h, ossia come accordo di si minore con quinta diminuita (la lettera minuscola indica sempre, in Weber, l’accordo minore); d’altro canto egli, proprio come Rameau, vede in si-re-fa, un accordo di Sol mag­ giore con settima minore nel quale la fondamentale è omessa, tanto che la cifratura non coincide con la definizione propria all’accordo. Weber non giunse alla semplice conclusione di segnalare la mancanza della fondamen­ tale sbarrando il simbolo accordale (G7), probabilmente perché nella nota­ zione del basso continuo — alla quale non poteva sottrarsi definitivamente — la barra trasversale indica l’innalzamento di mezzo tono (Weber ammise nel suo sistema questo valore del medesimo simbolo anche nel caso della settima dell’accordo). E, cosa assai strana, quantunque Weber conoscesse e approvasse la spiegazione di Rameau di fa-la-do-re in Do maggiore come accordo di Fa maggiore con sesta aggiunta (accord de sixte ajoutée), non pensò affatto di includerlo come Fa6 nel suo sistema di cifratura, bensì lo indicò con re7, ossia come accordo di re minore con settima minore, di modo che il suono dissonante re apparisse come fondamentale dell’accordo e alla quinta (do) fosse impresso il simbolo numerico che ne evidenzia il ca­ rattere di dissonanza. Tale è la forza dell’abitudine anche su una simile tem­

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pra di studioso! È precisamente dall’idea di Rameau della costruzione per terze dell’accordo che Weber non sa distaccarsi, al punto di escludere che nella cifratura degli accordi possa essere incluso un simbolo differente da 7. Certo, è incomprensibile che egli non potesse spezzare questo cerchio ma­ gico; d’altra parte il suo sistema di cifratura non prende in considerazione possibilità di costituzione degli accordi al di là delle terze maggiori o mi­ nori: Do = terza maggiore più terza minore; do = terza minore più terza maggiore; °do — due terze minori sovrapposte; Do7 — accordo maggiore con terza minore sopra la quinta; Do7 = accordo maggiore con terza mag­ giore sopra la quinta; do7 = accordo minore con terza minore sopra la quinta; do7 = accordo minore con terza maggiore sopra la quinta; °do7 = terza maggiore sovrapposta a due terze minori. Chi perfezionò questa sim­ bologia (E.F. Richter e i suoi seguaci) concesse poi diritto di cittadinanza alle triadi eccedenti, intese come Do+ oppure come Do’, dunque come ac­ cordo maggiore con quinta aumentata (due terze maggiori sovrapposte), e realizzando ulteriori combinazioni con i mezzi impiegati da Weber (°do°7 — tre terze minori sovrapposte (do-mib-solb-sibb), Do+ — terza minore so­ vrapposta a due terze maggiori, e così via). Non mi sarei soffermato così dettagliatamente sulla cifratura accordale di Weber se questa non fosse oggi universalmente diffusa con una minima rettifica: l’indicazione delle triadi e degli accordi di settima sui diversi gradi della scala.

DO: I

ii

in IV V

vi°vii

I7 ut iu7 IV7 V7 vn «vin

Non si tratta forse dell’alfa e dell’omega dell’odierno abbecedario ar­ monico? Sul punto IL Secondo la nuova cifratura, come si è già detto, un’armo­ nia di tipo maggiore oppure minore si presenta sempre quale contenuto principale di ogni accordo esistente; ma dato che è esattamente l’attuazione rigorosa di un’interpretazione e di una cifratura che rilevi l’opposizione maggiore-minore a costituire la pietra dello scandalo secondo i miei detrat­ tori, non ritengo di dover fornire ulteriori chiarimenti in proposito. Che si­ re-fa-la in la minore non sia un accordo di Sol maggiore con settima e nona orfano di fondamentale (correttamente riconosciuto come tale in Do mag­ giore già da Rameau), quanto piuttosto un accordo minore con settima sottoposta: si re fa la VII V III I

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dove re-fa-la è la consonanza di base e il si un elemento ausiliario, potè però essere chiarito solo quando, con v. Oettingen, si misero in pratica le impli­ cazioni della polarità maggiore-minore riconoscendola negli accordi. Nel sistema weberiano questo accordo si indica con °si7, ossia come accordo di si minore con quinta diminuita e settima minore. Come si deve dunque in­ tendere l’accordo di si minore in la minore? Possiamo a questo proposito introdurre il terzo punto.

Sul punto III. La nuova cifratura è nella condizione di poter assegnare ad uno stesso insieme sonoro (come si è già visto nel caso di si-re-fa-la) più formule accordali, ma delle quali, in ogni caso, una sola è corretta; solo nelle modulazioni è concessa la commutazione tra simboli, ed è in ciò che risiede il merito principale della nuova cifratura. Negli ultimi tempi, mo­ vendo dalle idee espresse nel punto III, ho introdotto un uso speciale della nuova cifratura, che interesserà i miei amici e darà da pensare ai miei avver­ sari: da quel principio ho tratto le estreme conseguenze che a seconda del contesto permettono di interpretare ogni accordo come tonica, sottodomi­ nante e dominante. Così ho potuto realizzare ciò a cui aspirava il vetusto Generalbass in drei Accorden (1756) di Joh. Friedr. Daube, già avviato in modo sostanziale verso una «teoria dell’armonia basata su tre accordi». A questo proposito si possono dare ulteriori delucidazioni. Considero come vere e proprie armonie reali di una tonalità solo la to­ nica, la dominante inferiore e la dominante superiore; nel modo maggiore la dominante inferiore può essere anche un accordo minore, nel minore la dominante superiore può anche essere un accordo maggiore (T = tonica, S = sottodominante [dominante inferiore], D = dominante superiore, + = maggiore, ° = minore [armonia inferiore]): maggiore S—T—D (°S)

minore °S — T — °D (D*)

Ciò che in senso stretto può dirsi consonante (conclusiva) è la tonica, men­ tre le dominanti si presentano di preferenza unitamente a suoni ausiliari che non offuscano ma, al contrario, ne chiariscono il significato armonico’ questi suoni caratteristici sono:

a) la sesta per la dominante maggiore (S6, ad esempio fa-la-do | re in Do maggiore), b) la settima per la dominante superiore maggiore (D7, ad esempio solsi-re | fa in Do maggiore oppure in do minore), c) la settima inferiore per la dominante inferiore minore (S1^11, ad esempio re\fa-lab-do in do minore oppure in Do maggiore).

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Già da qui vediamo distintamente come si origina una delle cosiddette armonie secondarie di una tonalità; se infatti nell’accordo di sesta della do­ minante inferiore maggiore (S6) viene omessa la quinta (S5) — per una combinazione fortuita nella condotta di parti o per scelta deliberata — lo stesso accordo si presenterà sottoforma di un accordo minore (fa-la-dlo | re in Do maggiore). Per converso, sia detto tra parentesi, si può aggiungere come dissonanza la sesta inferiore alla dominante superiore minore (D VI), cosicché quando la fondamentale (la quinta inferiore, V) viene omessa (Dy), si ottiene un accordo maggiore apparente (in la minore: re\rfaisol-si). In modo del tutto simile anche gli altri accordi minori appartenenti ad una tonalità maggiore, così come gli accordi maggiori propri ad una to­ nalità minore, devono essere intesi come consonanze apparenti, come forme dissonanti delle tre armonie principali in cui sia omesso uno dei suoni dell’accordo, ossia:

A) nel modo maggiore: 1) tonica con settima maggiore (T7 solsi-re). Ritorno all’accordo di tonica mediante percorso esattamente in­ verso; forma 2: spostamento dell’intervallo di 3a minore dell’accordo di tonica di un semitono verso l’alto, in modo che l’intervallo di 3a minore si porta su quello di 3a maggiore dell’armonia successiva (ad es. do-mi-sol —> fa-la-do). Ritorno all’accordo di tonica conformemente ai principi fondamentali della forma 1. Caratteristico in entrambi i casi è lo spostamento di un elemento armo­ nico costitutivo (l’intervallo di 3a) e il collegamento semitonale. La descri-

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zione della struttura è molto utile per riconoscere le analogie nel rapporto fra modo maggiore e modo minore, di importanza decisiva nelle considera­ zioni riguardanti la teoria delle modulazioni. Analogia della relazione fondamentale nel modo minore naturale

Se nel modo minore naturale si creano rapporti strutturali analoghi a quelli appena descritti nell’ambito del modo maggiore, si ottiene: forma I: forma II:

°T - °S - °T (tonica minore - sottodominante minore tonica minore); °T - °D - °T (tonica minore - dominante minore - tonica minore).

Struttura della relazione fondamentale nel modo minore Dalla descrizione della struttura l’analogia risulta in maniera assolutamente chiara, ossia:

forma I: spostamento dell’intervallo di 3a maggiore dell’accordo di tonica minore di un semitono verso l’alto, in modo che I’intervallo di 3a maggiore si porta su quello di 3a minore dell’armonia successiva (ad es. mi-do-la lafa-re). Ritorno alla tonica minore con percorso inverso; forma II: spostamento dell’intervallo di 3a minore dell’accordo di tonica minore di un semitono verso il basso, in modo che l’intervallo di terza mi­ nore si porta su quello di 3a maggiore dell’armonia successiva (ad es. mi-dola —> si-sol-mi). Ritorno alla tonica minore con percorso inverso. Si noti la caratteristica dei rapporti strutturali: spostamento di un ele­ mento armonico costitutivo (l’intervallo di 3a) e collegamento semitonale. La direzione dello spostamento semitonale è opposta nelle forme analoghe 1 e I, e rispettivamente 2 e II.

Il problema della struttura dualistica e monocentrica

Se si prendono le mosse dal modo appena descritto dei collegamenti ar­ monici e non dal singolo “accordo” estratto dal contesto, viene a cadere la difficoltà che il discusso problema della “struttura dualistica e monocentri­ ca” racchiude in sé. Per “struttura monocentrica” si deve intendere la spie­ gazione dell’intera struttura armonica in riferimento a un unico centro to-

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naie, per “struttura dualistica” la spiegazione del cosiddetto modo minore in riferimento al centro tonale vigente in quel particolare momento. Come già detto, il problema può nascere solo se si prende in considerazione il sin­ golo accordo. Se cioè si assume che l’accordo maggiore sia dato dalla fu­ sione fisicamente e obiettivamente dimostrabile degli armonici superiori, per interpretare dualisticamente anche l’accordo minore si deve stabilire un’analogia dalla fisica, ossia cercare di spiegarlo in base a una serie obietti­ vamente dimostrabile degli armonici inferiori. Se però si prendono le mosse dall’esame del nesso logico, in quanto incontestabile come modo di pensare in termini di relazione fondamentale, la spiegazione fisica del materiale viene sostituita da una spiegazione il cui scopo è l’espressione formale di una forma immaginaria. Che la formula di chiusa °T - °S - °T - ottenibile per analogia dalla formula di chiusa T - D - T in base alla descrizione della strut­ tura - si rappresenti come T3>-S3>-T3> (cioè tonica con 3a minore, sotto­ dominante con 3a minore, tonica con 3a minore), oppure che si ponga T3> = °T (9), si tratta sempre di una rappresentazione di tipo formale. La rappresentazione dei rapporti armonici non ha infatti niente a che vedere con un ragionamento che si pone come problema la disamina delle parti sonore costitutive dell’accordo. La funzione di un’armonia viene de­ terminata solo dal rapporto con le altre armonie risultante dal concatena­ mento costruttivo, all’interno della successione armonica. Se nel nostro la­ voro scegliamo per T3> l’espressione °T, questo è solo per amore di una tendenza alla semplificazione formale, e dunque solo perché questa forma di espressione permette una rappresentazione teorica relativamente sem­ plice dei rapporti funzionali. Per quanto riguarda la struttura della teoria delle funzioni, di determi­ nante resta solo il tipo di rapporti fra le armonie. Consideriamo dunque le analogie ricavate fin qui come schema teorico fondamentale in forma di simboli.

1. T - D - T analogo a °T - °S - °T 2. T-S -T analogoa °T-°D-°T

Combinazione delle relazioni fondamentali

La forma più semplice di combinazione di due relazioni fondamentali è data dalla formula:

T-S-D-T

analogoa 0T-°D-0S-°T

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Relazione strutturale attuata mediante trasformazione di elementi costitutivi armonici simili

Le relazioni strutturali considerate precedentemente indicano sposta­ menti semitonali di elementi costitutivi armonici dissimili (3a maggiore - 3a minore). Se ora si esamina la possibilità di una relazione strutturale imper­ niata sul trasferimento di elementi costitutivi armonici simili (3a minore - 3a minore; 3a maggiore - 3a maggiore), si ottiene il risultato seguente: forma la (modo maggiore: 3a maggiore - 3a maggiore):

do-mi-sol —> fa-lab-do = T - °S Dalle relazioni semitonali risulta evidente la possibilità di una forma ca­ denzale. Dal procedimento già noto del ritorno alla tonica con percorso in­ verso nasce la formula di cadenza:

forma lb (modo maggiore: 3a maggiore - 3a maggiore): do-mi-sol

sol-sib-re = T - °D

La mancanza della relazione semitonale non consente il percorso in­ verso di ritorno per ottenere la “cadenza”. All’idea di “cadenza” manca, come risulta dalla forma della struttura, la caratteristica essenziale.

forma la (modo minore: 3a minore - 3a minore):

mi-do-la —> mi-sol#-si — °T - D Con percorso inverso di ritorno effettuato in base alle considerazioni prece­ denti si ottiene la “cadenza”: °T - D - °T

forma Ib (modo minore: 3a maggiore - 3a maggiore):

mi-do-la

re-fa#-la = °T - S

Il percorso inverso di ritorno non produce formule di “cadenza”.

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Analogie

Raggruppiamo le analogie: forma la - forma la: T - °S - T analogo a °T - D - °T forma Ib - forma Ib: T - °D analogo a °T - S

Sviluppo logico delle relazioni fondamentali mediante “estensioni” e “per­ corsi secondari”. “Estensioni delle relazioni fondamentali” Le relazioni fondamentali possono subire uno sviluppo logico talvolta mediante “estensioni” del percorso principale, talaltra mediante “interpo­ lazioni” all’interno di quest’ultimo (“percorsi secondari”). Il legame con l’armonia di partenza caratterizza le “estensioni”. Finora abbiamo trattato relazioni strutturali originate dallo spostamento di un ele­ mento costitutivo armonico: il risultato è stato una funzione con valore au­ tonomo, benché dipendente dall’armonia di partenza tramite una relazione fondamentale. Ora ci rivolgeremo a relazioni che conservano un elemento costitutivo armonico e portano solamente un’estensione lineare dell’armo­ nia di partenza. In questo caso il legame fra armonia di partenza (l’idea fon­ damentale) e la sua estensione è per sua natura significativamente più stretto che nei casi trattati finora. L’“estensione” viene intesa proprio come “derivazione” dall’idea fondamentale, e dal punto di vista formale lo stretto rapporto con l’idea fondamentale viene espresso indicando la fun­ zione derivata con lo stesso simbolo della funzione di partenza, ma con l’ag­ giunta di un segno ulteriore relativo al tipo di derivazione (T —» Tl, ecc.).

Descrizione dell’“estensione” Rispetto ad un’armonia di partenza sono possibili solo due forme di estensione lineare: estensione con movimento diatonico verso l’alto e esten­ sione con movimento diatonico verso il basso (ad es.: do-mi-sol —> do-mi-la oppure do-mi-sol —> si-mi-sol). Quindi una volta viene conservata la 3a mag­ giore e l’altra volta la 3a minore. Nel primo caso l’estensione lineare si pre­ senta come passo di tono intero, nel secondo caso come passo di semitono. Come segno di riconoscimento del tipo di relazione strutturale, per quanto riguarda lo spostamento di un tono intero sarebbe sensato aggiungere alla funzione fondamentale una “g” (tono intero — Ganzton), e per lo sposta­ mento di semitono una “h” (semitono = Halbton) e/o una “1” (sensibile =

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Leitton). Per una tradizione derivata comunemente da una spiegazione di altro tipo, da una rappresentazione di altro tipo, il rapporto di affinità di una “g”-funzione (funzione derivata per passo di tono intero) viene indi­ cato generalmente con “parallelo” e quindi, pur senza volere con questo sottintendere un compromesso che tocca la sostanza, ci vediamo costretti a seguire questa forma di cifratura del tutto usuale (“p” aggiunto alla “fun­ zione fondamentale”). Come cifratura dell’estensione di semitono sce­ gliamo di aggiungere una «1» alla «funzione fondamentale». In questo modo si originano le seguenti formazioni elementari: T - Tp (ad es. do-mi-sol —> mi-do-la) T - TI (ad es. do-mi-sol si-sol-mi)

e analogamente nel modo minore: °T - °Tp (ad es. mi-do-la —> do-mi-sol) °T - °T1 (ad es. mi-do-la —> fa-la-do)

Le formazioni elementari rispetto alle relazioni fondamentali Se le “forme di estensione” vengono intese come “derivazioni” dalle loro armonie di partenza, allora esse si devono considerare come una “forma dell’armonia di partenza”, cosa cui del resto rinvia anche il simbolo aggiunto (“simbolo funzionale”). Dunque si dovrà riflettere anche sul loro inserimento all’interno della successione ideale delle relazioni fondamen­ tali.

Descrizione dell’inserimento

Innanzi tutto tale inserimento viene descritto perché dalla descrizione stessa deriverà il principio che determina la logica o la non-logica della suc­ cessione che si origina. La numerazione è la stessa di quella impiegata pre­ cedentemente a proposito delle formule di chiusa.

la:

T - Tp - D - T

Struttura della concatenazione: do-mi-sol —> mi-do-la sol-si-re. T e Tp hanno in comune l’elemento costitutivo armonico di 3a maggiore, Tp e D non ne hanno nessuno. Esse sono collegate da un rapporto di semitono. I rapporti interni alla concatenazione sono comprensibili sul piano logico.

65

2a:

T - Tp - S - T

Struttura della concatenazione: do-mi-sol —> mi-do-la -> fa-la-do. Il giro armonico T - S (spostamento della 3a) effettua l’estensione e la sua conti­ nuazione alla sottodominante per così dire in due fasi, vale a dire: la prima fase produce lo spostamento lineare «sol-la», la seconda lo spostamento se­ mitonale «mi-fa». T e Tp hanno in comune l’elemento costitutivo armonico di 3a maggiore, Tp e S quello di 3a minore. I rapporti interni alla concatena­ zione sono comprensibili sul piano logico. lb:

T - TI - D - T

Struttura della concatenazione: do-mi-sol —> si-sol-mi sol-si-re. Spo­ stamento della 3a in due fasi come nel caso precedente. T e TI hanno in co­ mune l’elemento costitutivo armonico di 3a minore, TI e D quello di 3a mag­ giore. La comprensione dei rapporti interni alla concatenazione è con­ fusa.

2b:

T - TI - S - T

Struttura della concatenazione: do-mi-sol —> si-sol-mi fa-la-do (il rap­ porto fra T e TI è come nel caso Ib). TI e S non hanno in comune nessun elemento costitutivo armonico. Esse sono collegate dà un rapporto di semi­ tono. I rapporti interni alla concatenazione sono comprensibili sul piano logico. La descrizione dei rapporti corrispondenti nel modo minore è la se­ guente:

Struttura della concatenazione: mi-do-la do-mi-sol la-fa-re. °T e °Tp hanno in comune l’elemento costitutivo armonico di 3a maggiore, °Tp e °S sono collegati da un rapporto di semitono. Il rapporto fra °T e °Tp è confuso. Ila:

°T - °Tp - °D - °T

Struttura della concatenazione: mi-do-la —> do-mi-sol si-sol-mi. °T e °Tp hanno in comune lo stesso elemento costitutivo armonico del caso pre­ cedente, °Tp e °D hanno in comune quello di 3a minore. La comprensione della concatenazione appare confusa.

66

io:

i - il- s- i

Struttura della concatenazione: mi-do-la —» fa-la-do -> la-fa-re. °T e °T1 hanno in comune l’elemento costitutivo armonico di 3a minore, °T1 e °S quello di 3a maggiore. La concatenazione è comprensibile sul piano logico. Ilb:

°T - °T1 - °D - °T

Struttura della concatenazione: mi-do-la —> fa-la-do —> si-sol-mi. Il rap­ porto fra °T e °T1 è lo stesso del caso precedente, quello fra TI e D è di tipo semitonale. La concatenazione è comprensibile sul piano logico. Questa disamina insegna che in alcuni casi l’interpretazione del concate­ namento non è ben chiara e in altri lo è. Per molto tempo i tentativi per tro­ vare una ragione di fondo al risultato di questo esame sono stati vani. Ora invece sembra che si sia trovata una spiegazione convincente. Esaminiamo di nuovo il tipo di successione armonica e combiniamolo in forma di breve quadro sinottico in modo tale che la prima e la seconda armonia vengano sempre considerate insieme, e lo stesso per la seconda e la terza.

la: maggiore - minore (3a maggiore in comune) / minore - maggiore (sposta­ mento con relazione semitonale). Collegamento logico non confuso. 2a: maggiore - minore (3a maggiore in comune) / minore - maggiore (3a mi­ nore in comune). Collegamento logico non confuso. Ib: maggiore - minore (3a minore in comune) / minore - maggiore (3a mag­ giore in comune). Collegamento logico confuso. 2b: maggiore - minore (3a minore in comune) / minore - maggiore (sposta­ mento con relazione semitonale). Collegamento logico non particolar­ mente confuso.

la: minore - maggiore (3a maggiore in comune) / maggiore - minore (sposta­ mento con relazione semitonale). Collegamento minore - maggiore con­ fuso, collegamento maggiore - minore non confuso. Ila: minore - maggiore (3a maggiore in comune) / maggiore - minore (3a mi­ nore in comune). Collegamento confuso.

Ib: minore - maggiore (3a minore in comune) / maggiore - minore (3a mag­ giore in comune). Collegamento logico non confuso.

Ilb: minore - maggiore (3a minore in comune) / maggiore - minore (sposta­ mento con relazione semitonale). Collegamento logico non confuso.

67

Prìncipi A. Se nella successione maggiore-minore o minore-maggiore due ar­ monie hanno la 3a maggiore in comune, l’armonia di tipo maggiore viene in­ tesa come armonia di partenza (ossia principale). Quando l’armonia princi­ pale si trova al primo posto la successione viene intesa come logica, se vice­ versa essa sta al secondo posto la successione non viene intesa in tal senso (cfr. le formule la, 2a e Ib per il primo caso e le formule la e Ila per il secondo). B. Se nella successione minore-maggiore due armonie hanno la 3a mi­ nore in comune, l’armonia minore viene intesa come armonia principale. Quando essa sta al primo posto la successione viene intesa come logica (cfr. le formule 2a, Ib e Ilb). C. Se nella successione maggiore-minore due armonie hanno la 3a mi­ nore in comune, la confusione interpretativa è irrilevante (meno irrilevante nella formula Ila che nelle formule lb e 2b). D. Se due armonie stanno fra loro solo in rapporto semitonale e non hanno quindi nessuna parte armonica costitutiva in comune, la loro succes­ sione è intesa come logica (cfr. le formule la, 2b, la e Ilb).

Tutte le derivazioni possibili per la funzione di T lo sono anche per le funzioni di S e D. Si ha: (ad es. in Do magg.) T Sp SI Dp DI

(ad es. in la min.)

= = = = =

armonia di Do magg. re min. lamin. = Tp mi min. = TI si min.

°T = armonia di la min. °Sp = Fa magg. = °T1 (analogamente nel modo maggiore: Dp = Tl) °S1 = Sib magg. °Dp = Sol magg. °D1 = Do magg. = °Tp (analogamente nel modo maggiore: SI = Tp)

A questo punto si noti ancora una volta la coerenza della rappresenta­ zione per analogia, più fruttuosa di quella «dualistica».

68

«Estensioni» derivate dal rapporto con la aS e la °D nell’ambito della T e dal rapporto con laDelaS nell’ambito della °T Nell’ambito di una T abbiamo già derivato una °S e una °D, così come nell’ambito di una °T abbiamo ottenuto una D e una S. Naturalmente an­ che armonie con questo significato funzionale possono ottenere dal canto loro un’«estensione», ancora una volta grazie a «derivati» del tipo appena discusso. Si ottengono così, in maniera del tutto coerente, le funzioni se­ guenti (l0):

(ad es. in Do magg.) T °S °Sp °S1 °D °Dp °D1

= — = = = = =

armonia di Do magg. fa min. Lab magg. Reb magg. sol min. Sib magg. = (S)S Mib magg.

(ad es. in la min.)

= = = = = — =

armonia di la min. Mi magg. do# min. sol# min. Re magg. si min. — (°D)°D fa# min.

°T D Dp DI S Sp SI

«Percorsi secondari» (interpolazioni)

L’illustrazione dei «percorsi secondari» e/o «interpolazioni» si sviluppa in maniera più semplice della teoria delle «estensioni». Mentre le «estensioni» stavano in rapporto strettissimo con le rispettive ar­ monie di partenza («forme delle armonie di partenza»), per i percorsi secon­ dari è tipico lo stretto rapporto con l’armonia successiva (u). La caratteristica fondamentale comporta che l’interconnessione delle armonie indicate come funzioni-«p» e funzionici» - giacché esse vengono intese in linea di principio come «derivazioni» e/o «forme dell’armonia di partenza» - contiene in sé una contraddizione. Anche i segni funzionali indicano questa contraddizione in­ terna; ad esempio: la successione T-S-(Sp)-D è impossibile perché (Sp)D (a parole: sottodominante parallela della dominante) coincide con Tp. Per contro, secondo la loro essenza le funzioni «cadenzanti» sono atte a formare percorsi secondari (12). In virtù della capacità di formare cadenze,

69

in una successione esse conducono a qualunque idea armonica successiva con la quale stiano in un rapporto avente un certo significato. Ne consegue che all’interno di una successione armonica il rapporto (D)x, (S)x, (°S)x, (°D)x può venir inteso senz’altro in riferimento alle considerazioni che si fanno solitamente riguardo alle «forme cadenzali». «r» può essere qualunque funzione armonica in qualunque successione armonica. Perché ci se ne possa fare un’idea d’insieme, fornisco un quadro complessivo in forma di tavola sistematica'. Tavola sistematica relativa a una T maggiore

X

(P)x

(S)x

(°S)x

(W

T









S

(D) S = T

(S)S

(°S) S = (°S) °s

(°D) S (!) = °T

D

(D)D

(S)D = T

(°S)D(!) = °T

(°D) D = Sp

°s

(D) °S = T

(S) °S = (S) S

(°S) °S

(°D) °S (!) = °T

Tp

(D)Tp

CS)Tp = (D)D

(°S) Tp = Sp

(°D) Tp = Tl

Sp

(D)Sp

(+S) Sp=D

(°S) Sp = °D

(°D)Sp = Tp

Dp = 77

(D)Tl

(+S) Tl = (D) Sp

(°S) Tl = Tp

(D) Tl = DI

DI

(D)Dl

CS)Dl = (D)Tp

(°S) DI = 77

(°D) DI

N.B.: SI = Tp.

Ricapitolazione

Se dalla tabella si escludono le forme cui corrisponde una doppia inter­ pretazione, restano i seguenti nuovi rapporti funzionali: (ad es. in Do magg.)

T (S) s (°S) S (°D) S (D) D (D) Tp (D) Sp (D) TI (D) DI

= = = = = = = = =

armonia di Do magg. Sih magg. sib min. do min. (!) Re magg. Mi magg. La magg. Si magg. Fa# magg.

70 (°D) DI = fa# min. (°S) D = do min. (!)

N.B. : L’indicazione di una °T all’interno di una successione riferita a una T sarebbe una contraddizione rispetto all’essenza del concetto di tonalità, anzi, lo sopprime­ rebbe. Per questo motivo, nella tavola ho segnato il punto corrispondente con (!). La tavola che segue, riferita ai rapporti relativi all’ambito di una °T, è costruita interamente sulla base del principio della rappresentazione analo­ gica. Quindi essa deve intendersi al di fuori della sua definizione originaria come dimostrazione della logicità del principio analogico nel pensiero armo­ nico. La costruzione della tavola discende dalle considerazioni seguenti. Le funzioni del modo maggiore vengono sostituite con le funzioni ana­ loghe (e quindi non con le funzioni rappresentate dualisticamente) del modo minore, e questo sia nelle successioni indicate verticalmente che in quelle segnate orizzontalmente. Una volta formate le relazioni, all’interno delle espressioni raffigurate nei riquadri si ottengono analogie dello stesso tipo. Come rapporti «analoghi» vi figurano: T - °T; D - °S; S - °D; °S - D; °D - S (quindi rapporti corrispondenti alle derivazioni ricavate dalla strut­ tura). E ancora: Tp - °Tp; Sp - °Dp; Dp - °Sp. Idem per le funzionici». Tavola sistematica relativa a una °T

X

CS)X

(°D)x

CD)x

CS)x

Oy>









°D

(°5) °D = °T

(°D) °D

CD)°D = (D)D

CS)°DO = + 7

°S

(°S) °S

(°Z>) °S = °T

CD)°SC) = +T

(+5) °S = aDp

CD) +D

CS)'D(\) = *T

+s

(°S) +D = °T CD) +D = (°D) °D

°Tp

(°5) °Tp

(°D) °Tp = (°.S’) °S

CD) °Tp = °Dp

(+5) °Tp = °Tl

°Dp

(°S) °Dp

CD) °Dp = °S

CD) aDp = +S

CS) °Dp = °Tp

°Sp = °Tl

°(S) °Tl

CD) °Tl = (°S) °Dp

CD) °Tl = °Tp

C+S) °Tl = °Sl

°Sl

(°S) °Sl

CD)°SI = CS)tP

CD) °Sl = °Tl

(+5) °Sl

N.B.: °Dl = °Tp.

Procedendo all’eliminazione delle forme cui corrisponde una doppia in­ terpretazione, come si è fatto in relazione all’ambito di una T, risultano le funzioni seguenti:

71

(ad es. in la min.)

°T (°D)°D (°S) °S (D)°S (D) D (°S) °Tp (°S) °Dp (°S) °S1 (°S) °T1 (S) °S1 (S) °D

= armonia di la min. = si min. = sol min. = La magg. (!) = Si magg. = fa min. = do min. = mih min. = si/? min = Mih mag. = La magg. (!)

N.B.: L’osservazione di p. 70 relativa a una °T nel modo maggiore, vale in questo caso relativamente a una T nel modo minore.

Combinazioni di funzioni

Sulla teoria della dissonanza Una teoria delle funzioni armoniche esclude per sua natura tutte quelle formazioni «dissonanti» che non modificano i tratti fondamentali dell’idea armonica, caratterizzati proprio da funzioni, ossia esclude quelle forma­ zioni che o determinano solamente una modificazione della struttura li­ neare, o mirano ad effetti timbrici, o per così dire vengono «inserite di colpo» come interiezioni allo scopo di produrre certi effetti espressivi. Noi rivolgeremo la nostra attenzione unicamente a quelle armonie cosiddette «dissonanti» da valutarsi come momento logico all’interno della succes­ sione delle idee armoniche. Per complessi armonici che funzionano in questo modo l’espressione armonia «dissonante» non è appropriata, in quanto non si tratta di un «disturbo di una entità sonora» da cogliere in base a calcoli, bensì della «neo-formazione di una entità sonora» da intendere sul piano logico.

Natura e struttura delle combinazioni di funzioni Dal punto di vista della loro natura, questi complessi armonici formanti nuove funzioni sono una «fusione» (ossia una mescolanza) di due idee ar­ moniche aventi una relazione armonica comune ad una singola idea ar­ monica della stessa tendenza logica; dal punto di vista della loro struttura,

72

sono una concentrazione degli elementi di due formazioni armoniche in una nuova formazione armonica.

Cifratura Questi complessi armonici si possono cifrare come combinazioni di fun­ zioni (al contrario di quelli trattati finora: funzioni fondamentali, funzioni derivate da estensioni, funzioni secondarie). Derivazione

Le combinazioni di funzioni discendono dalle relazioni fondamentali in accordo col procedimento seguito finora: la) T - D - T lb) T-S-T Le funzioni D e S hanno un’armonia di riferimento comune (una stessa tendenza logica). Esse devono venire combinate. Le combinazioni più sem­ plici sono:

comb.l: conservazione dell’armonia di dominante, fusione di un elemento dell’armonia di sottodominante, fusione di un elemento dell’armonia di do­ minante; ad esempio in Do magg.:

comb. 1:

do-mi-sol - T sol-si-re + fa-la-do sol-si-re-fa

Nella combinazione così originata viene conservato il complesso armo­ nico dell’armonia di dominante, come pure il carattere della funzione di do­ minante. L’elemento della fusione rafforza la tendenza logica. Esso non comporta solo la «annessione» di un suono, ma piuttosto la fusione di un fattore caratterizzato sul piano funzionale da valutarsi in base alla logica. Per questa ragione al posto all’indicazione normalmente adottata D7 si do­ vrebbe preferire l’espressione Ds (ossia D + un elemento della S). comb. 2:

fa-la-do-re

L’armonia di sottodominante viene conservata e fusa con un elemento dell’armonia di dominante. In particolare valgono in base al senso le deri­

vazioni e le spiegazioni viste a proposito della comb. 1. Il risultato è S e/o Sd. Si ottengono altre combinazioni se si rinuncia alla conservazione di un intero complesso armonico e se di due complessi armonici vengono combi­ nati in una neo-formazione funzionale solo elementi costitutivi aventi la stessa tendenza logica.

comb. 3:

D + S

È data dalla combinazione: 3a min. della D + 3“ mag. della S; ad esem­ pio in Do magg.:

comb.: cifratura:

sol-si-re + fa-la-do si-re-fa-la D 9 (o meglio: < °DS > )

comb. 4:

D + °S

È data dalla combinazione: 3a min. della °S + 3a min. della D; ad esem­ pio in Do magg.: comb.: cifratura:

fa-lab-do -I- sol-si-re si-re fa-lab D9> (o meglio: )

Analogie nel modo minore In base a quanto discusso a proposito della validità delle relazioni analo­ giche fra modo maggiore e modo minore, per descrivere le combinazioni di funzioni nell’ambito di una °T saranno sufficienti le formule. comb. I:

comb. 1 — Ds, da cui comb. I = °Sd (ossia °S 4- un elemento della °D); ad es. in la min.: la-fa-re + si-sol-mi — la-fa-re-si.

comb. II:

comb. 2 — Sd, da cui comb. II = °Ds (ossia °D + un elemento della °S); ad es. in la min.: si-sol-mi + la-fa-re = si-sol-mi-re.

comb. Ill:

comb. 3 = DS, da cui comb. Ill = < °S°D > ad es. in la min.: la-fa-re + si-sol-mi = si-sol-fa-re.

N.B. : A causa della conservazione della 3“ mag. sol-si risulta facilmente la rein­ terpretazione della comb. Ili come armonia maggiore di sol.

74

comb. IV:

comb. 4 = °SD, da cui comb. IV = ad es. in la min.: la-fa-re + mi-sol#-si — fa-re-si-sol#.

La valutazione delle combinazioni di funzioni individuate in un per­ corso armonico dipende dal significato funzionale. Naturalmente neanche le combinazioni di funzioni sono «formazioni accordali» isolate.

Parte terza Teoria della modulazione

Premessa Al fine di eliminare fin dall’inizio ogni fraintendimento, si sottolinea che in questa parte del presente studio si tratterà unicamente dell’interpre­ tazione del principio della modulazione in base alla teoria funzionale. Qui si discuterà la sostanza del problema e la presentazione di un insieme di norme generali, non una guida all’esecuzione delle modulazioni o l’esame dell’infinita varietà delle possibilità risolutive di esercizi pratici, in cui la di­ pendenza dal gusto personale gioca un ruolo altrettanto significativo del ta­ lento individuale. L’elaborazione dei risultati, di importanza basilare per l’utilizzazione pratica, appartiene al campo della pedagogia musicale e non a quello della teoria speculativa.

Concetto di modulazione

Le leggi della modulazione devono venir dedotte dal concetto di modu­ lazione, che definiamo nel modo seguente: la modulazione è il passaggio lo­ gico da una sfera tonale a un’altra. Decisivo per continuare il ragionamento è che tale passaggio deve es­ sere logico, dunque conforme ad un insieme di norme. Se però viene ri­ chiesta conformità alle norme e d’altra parte la ricerca condotta fin qui ha asserito che la teoria funzionale è in grado di spiegare l’esatta espressione teorica dei rapporti legittimi nell’ambito del pensiero armonico, allora ne consegue l’esigenza che la teoria funzionale stabilisca teoricamente anche il percorso di ogni modulazione. A questo punto la ricerca si trova davanti al compito di cogliere il principio che indica la direzione dei percorsi possibili da un ambito tonale ad un altro, ossia il principio che chiarisce la legge della logica armonica immanente alle modulazioni possibili.

75

Principi della ricerca

La ricerca viene condotta in base ai principi seguenti: 1. La fissazione di un principio può venire esaminata solo nel caso «più semplice». Noi ci ricolleghiamo perciò alle forme originarie degli ag­ gregati armonici, definibili in base a formule funzionali prive di appendici. 2. Se il principio della modulazione deve trasformare il passaggio lo­ gico da una sfera tonale a un’altra in un’espressione teorica, allora un’unica formula, espressa con simboli funzionali, deve essere in grado di caratteriz­ zare il più semplice momento del rapporto logico tra le sfere tonali. 3. Dal momento che per «sfera armonica della tonalità» si intendono i rapporti armonici rispetto a una tonica rappresentabili funzionalmente, in cosiderazione di quanto elaborato fino a questo momento risulta chiaro che per illustrare le formule valide in linea di principio per tutte le modulazioni possibili si devono raggruppare gli ambiti tonali nel modo seguente: A. modulazioni nell’ambito della tonica maggiore; B. modulazioni nell’ambito della tonica minore; C. modulazioni dall’ambito di una tonica maggiore a quello di una to­ nica minore; D. modulazioni dall’ambito di una tonica minore a quello di una tonica maggiore. 4. Tutte le questioni si accentrano attorno alla domanda chiave: come si determina la funzione della tonica che si deve raggiungere in rapporto alla tonica da cui si parte, ossia come si determina la relazione fra la tonica di arrivo e quella di partenza? Ciò deve avvenire per mezzo di una formula funzionale. Ne consegue che il numero indeterminato di percorsi possibili viene ri­ condotto effettivamente a un numero definito dei percorsi fondamentali «più semplici» ricavati in base al principio logico. In accordo al nostro modo di concepire l’essenza della teoria funzionale come questione logica e non fisica, l’interpretazione enarmonica viene con­ siderata ammissibile in linea di principio.

Sulla forma espositiva

Per quanto riguarda la forma in cui esporre i risultati si osservi che: a) Quale forma espositiva viene scelta quella in tavole, al fine di otte­ nere una visione il più possibile chiara dell’insieme delle leggi. b) In cima alla tavola viene indicata la tonica di partenza. Le toniche

76

di arrivo sono ordinate cromaticamente in senso ascendente e/o discendente in base al suono fondamentale. c) La distanza del suono fondamentale della tonica di arrivo da quello della tonica di partenza è misurata in base all’ampiezza dell’intervallo che li separa, per cui sulla scorta della simbologia riemanniana vengono indicati solo intervalli giusti o alterati in senso ascendente. d) È ovvio che le formule non possono essere date solo da funzioni semplici. A questo riguardo si noti che la complicazione della formula cor­ risponde alla complicazione della possibilità del passaggio, cosa comprensi­ bile anche razionalmente e/o intuitivamente (13). Tav. I - Relazioni del gruppo A (modulazione da un ambito maggiore a un ambito maggiore) Tonica di partenza: T = Do maggiore

n. 1 2

3 4 5 6 7 8 9 10 11 12

formula (tonica di arrivo)

do* reb* (do#*) re* mib* mi* fa* fa#* sol* sol#* (lab*) la* sib* si*

intervallo

= T = °S1

1 r

= == = = =

2 2< 3 4 4< 5 5';

(D) D (D) °Sp (D) Tp S (S) °S1 D °Sp

- (D) Sp = (S) S = (D) TI

6 6-= 7

Nota fondamentale alla Tav. I

Le dodici formule sopra indicate, in linea di principio abbracciano teori­ camente tutte le modulazioni fra tonalità maggiori; esse comprendono tutte le distanze intervallari possibili tra le fondamentali della tonica di partenza e di arrivo. Per trovare la formula relativa alla modulazione fra qualunque coppia di toniche maggiori è sufficiente determinare la distanza intervallare fra le due fondamentali nel modo in cui viene indicato nella tavola. È indifferente che si tratti di un rapporto fra Tonarten con diesis o fra Tonarten con be-

77

molli, oppure fra Tonarten con diesis da un lato e Tonarten con bemolli dal­ l’altro. La formula va bene in tutti i casi.

Avvertenza preliminare alla Tav. II Le distanze tra le fondamentali vengono raggruppate in ordine discen­ dente. Per evidenziare la diversa direzione degli intervalli rispetto alla Tav. I vengono impiegati i numeri romani. Le formule nascono dalla applica­ zione delle funzioni analoghe. Tav. II - Relazioni del gruppo B (modulazione da un ambito minore a un ambito minore)

Tonica di partenza: °T = Do minore

n. I II III IV V VI VII Vili IX X XI XII

formula (tonica di arrivo)

°do °si °sib °la °sol# (°lab) °sol fa# fa °mi °mib °re °do# freb)

_

intervallo

= DI = (°S) °S = (°S) Dp = (°S) °Tp

I r ii ii" HI

= = = = = = =

IV IV" V v: VI VP VII

°D (°S) °S1 °s Dp (°S) °Dp (°D)°D (°S) °T1

Nota fondamentale alla Tav. II Quello che risulta dalla Tav. Il è da intendersi come derivazione di quanto contenuto nella Tav. I. Ciò significa che le modulazioni fra toniche minori sono da interpretarsi fondamentalmente in base al fatto che le loro formule corrispondono, secondo un principio uguale e contrario, a quelle delle modulazioni fra toniche maggiori. La formula per gli ambiti minori corrisponde alla formula per gli ambiti maggiori in base all’applicazione dell’analogia: una uguale distanza interval­ lare fra le fondamentali viene considerata nella direzione opposta.

78

In sostanza tutti i possibili rapporti di modulazione fra toniche maggiori da una parte e fra toniche minori dall’altra sono riducibili a dodici formule modulative valide in linea di principio, se si tengono in considerazione le analogie funzionali esistenti in entrambe le sfere tonali e la forma opposta dell’ordine in cui si presentano le distanze intervallari fra i suoni fondamen­ tali.

Tav. Ili - Relazioni del gruppo C (modulazione da un ambito maggiore a un am­ bito minore) Tonica di partenza: T = Do maggiore

n. 1 2

3 4 5 6 7 8 9

10 11 12

formula (tonica di arrivo) °do ado# (W>) °re °mib °mi °fa %# (°solb) °sol °lab (°sol#) °la °sib °si

intervallo

= (°S) D = (°S) °Sp

1 p

= Sp = (°S) SS = TI = °S = (°S) °S1

2 2C 3 4 4


5 5, Ve, lc,I>,ecc.); 3. mediante sostituzione di uno dei suoni dell’accordo con il suono dia­ tonico adiacente (seconda maggiore o minore superiore e/o inferiore). 1. Di questo gruppo, l’accordo di settima del modo maggiore è il più fa­ cilmente comprensibile. Esso trae origine dall’unione dell’armonia perfetta della quinta schietta (D) con la controquinta della tonica; ad esempio, in Do maggiore:

135

fa -------do+-------- sol + = sol - si - re /fa = if

Il suo analogo nel modo minore è l’unione dell’armonia perfetta della quinta schietta (°S) con la settima inferiore; ad esempio, in la minore:

°la si = si/re- fa - la - Sm Entrambi hanno verso la tonica di riferimento una forza cadenzale simile a quella del passo di tono (S-D, °D-°S)(57). La loro dissonanza particolar­ mente dolce Riemann la mette in rapporto con gli armonici superiori e/o in­ feriori nn. 4, 5, 6 e 7, ai quali i suoni dei due accordi corrispondono «abba­ stanza esattamente» (58) (cfr. p. 104). La settima naturale (7, VII) è un suono naturale aggiunto, ed è la dissonanza caratteristica della dominante del modo maggiore e della sottodominante del modo minore:

es. 14

«Per ^utilizzo degli accordi di settima inferiore si tenga presente soprattutto che in essi il suono grave più importante (la fondamentale) non è la settima, ma è sempre la quinta, cosa che naturalmente non esclude che occasional­ mente uno degli altri suoni possa diventare il basso» (59). Ne consegue che la settima inferiore deve venir risolta verso l’alto. Riemann perciò sostituisce la vecchia prescrizione di far muovere le settima di seconda inferiore — prescrizione con la quale egli, in quanto dualista, non può aver nulla a che fare — con una regola più generale: «I suoni dissonanti esigono una prose­ cuzione con movimento di seconda» (60). Se nell’accordo di settima supe­ riore (D7) e rispettivamente nell’accordo di settima inferiore (Svn) si omette la prima (JZ>7 e rispettivamente S VI1), si originano degli accordi di set­ tima ellittici — ossia, nella terminologia del basso continuo, delle triadi di­ minuite —, che Riemann chiama accordi di terza e settima. Il loro valore «non è però lo stesso nel modo maggiore e nel modo minore, perché nel

136

maggiore viene a mancare il suono meno superfluo di tutti (la prima, 1), mentre nel minore viene a mancare quello più superfluo (la prima, I) ( )•

Tanto nella E)7 che nella Svn l’unico suono raddoppiabile è la quinta (5 e rispettivamente V). Come accordo di sesta (dissonante) — che dopo l’accordo di settima na­ turale è il più importante e il più frequente fra tutti gli accordi dissonanti — Riemann dapprima indica l’«accord de la sixte ajoutée» di Rameau, ma poi segnala come tale ogni armonia principale nel modo maggiore e nel modo minore in cui si aggiunga la sesta alla quinta. I sei nuovi accordi così otte­ nuti (tre nel modo maggiore e tre nel minore) egli li interpreta come «armo­ nie simultanee delle tre armonie principali del sistema naturale e delle loro armonie parallele» (“). Ad esempio, in Do maggiore: S

/------- : re-fa - la- do Sp

T

/--------- ; la- do- mi - sol L______ f

mi - sol - si - re

Tp

e in la minore:

re-fa - la- do

/------- 7 la- do- mi - sol

Z____ 7 °Tp I loro simboli sono S6, T6, D6 e rispettivamente SVI tVI r\Vt - • • fica che — a differenza degli accordi paralleli — in quanto acro ’ar Hu e Tvn>). Come gli accordi di sesta (dissonanti), essi nascono dalla simulta­ neità di un’armonia principale e della sua secondaria (che qui è l’armonia di cambio di sensibile). Anche in questo caso due Tonarten parallele devono annoverare in maniera simmetrica formazioni tra loro sonorialmente iden­ tiche; ad esempio: do:mi:sol:si

in Do maggiore: in la minore:

Dvn>

e e e

fa:la:do:mi S7
9. Non così inusitato come sembrerebbe è Vaccordo inferiore di nona maggiore (S^); ad esem­ pio, in la minore: . 1 . i i . , la : fa : re : si : sol L______ / L____/

La sua forma incompleta (senza la I) può spiegare nel modo migliore l’ef­ fetto di certe successioni armoniche (**):

138

es. 16

L’accordo di nona minore (D9> e rispettivamente SIX — (sol)-si-re-fa-lab

e rispettivamente:

sol#-si-re-fa-(la) —

SIX< (interpretato più fre­ quentemente come D 9 > )

Riemann chiama questo agglomerato accordo di terza e nona minore. Ai confini degli accordi alterati sta il cosiddetto accordo di sesta minore, ossia, in Do maggiore:

lab-do-mi Esso è la dissonanza costituita dall’unione dell’armonia di tonica e del suo controcambio; consta di intervalli naturali e manca della quinta. II suono di riferimento si trova al centro. Poiché secondo Riemann in base alla logica musicale (quindi a partire dal 1882) non sono ammissibili accordi in cui ri­ suonino contemporaneamente due armonie, in una stessa Tonart ogni ac­ cordo di sesta minore può ricoprire due funzioni, ma sempre una per volta (65):

139

in Do maggiore:

lab /do - mi

e rispettivamente

lab /do -mi

in la minore:

do - mi /sol #

e rispettivamente

do /ni - sol #

= SVI


L’accordo rimanda sempre all’armonia propria della sua funzione, perciò esso è soprattutto un accordo di ritardo:

2. La «triade eccedente» può originarsi anche per innalzamento e/o ab­ bassamento cromatico della quinta giusta. Il suono di riferimento è allora nel modo maggiore quello più grave e nel modo minore il più acuto:

in Do maggiore

in la minore

T5< = do-mi-sol# — do5< D5< = sol-si-re# — sol5< S5< = fa-la-do# = fa5
= lab-do-mi — miv> Sv> = reb-fa-la = lav> D v> = mib-sol-si — siv>

Riemann definisce alterati solo quegli accordi in cui vengono modificati cromaticamente o il suono principale, o la terza, o la quinta. Essi costrin­ gono o ad una continuazione dell’armonia, o almeno alla prosecuzione di semitono del suono modificato cromaticamente: ciò fa sì che da «triadi

140

eccedenti» essi si trasformino allora in accordi di sesta schietta senza quinta, ossia in accordi paralleli (6S) (cfr. es. 18) (67).

7*5* rp

D^Dp

1^‘Tp

D'^Dp

S^°Sp

es. 18

Con l’abbassamento e/o l’innalzamento cromatico della quinta giusta si ori­ ginano nella D+ e/o nella °S formazioni che, in accordo con la terminologia del basso continuo vengono chiamate «accordi di sesta aumentata» e «ac­ cordi di terza, quarta e sesta aumentata» (68). L’alterazione ascendente della prima della tonica maggiore produce una «triade diminuita», che assume per lo più il significato di una IZ>7 (e rispetti­ vamente $ vn) (®). Se però accanto alla prima alterata resta anche la prima naturale, la funzione dell’accordo originario non cambia:

es. 19

Anche la successione riportata nell’esempio 20 Riemann la indica come T14< -D7

es. 20

Analogamente, nella tonica minore prima naturale e prima abbassata pos­ sono risuonare contemporaneamente senza che muti la funzione:

? J d

-

°T

*S

1? es. 21

141

Quale accordo raro e di difficile comprensione Riemann indica quello mag­ giore con prima abbassata e quello minore con prima alzata. L’abbassa­ mento cromatico della terza maggiore e/o l’innalzamento cromatico della terza minore viene spiegato come cambio di quinta (o variante). Riemann li ammette sempre per la S nel modo maggiore e per la D nel modo minore, perché esse avrebbero comunque una forma duplice. Invece un qualunque scambio fra T e °T non viene permesso, perché metterebbe gravemente in pericolo la tonalità. Che per Riemann non ci siano né una dominante mi­ nore nel modo maggiore, né una sottodominante maggiore nel modo mi­ nore, lo abbiamo già menzionato (cfr. p. 129 sg.).

3. Il paragrafo sugli accordi alterati giustamente Riemann lo tratta in modo conciso (solo sei pagine e mezzo), perché tutte queste formazioni ar­ monicamente complicate (per la maggior parte accordi di sesta, di settima e di nona) trovano «la loro spiegazione nel principio della ornamentazione melodica delle armonie per mezzo dei suoni adiacenti alle singole parti costi­ tutive degli accordi» (70). Però anche gli accordi paralleli e gli accordi di cam­ bio di sensibile si mostrano come forme secondarie delle armonie principali risultanti da movimenti figurali di questo tipo. Riprodurre qui in maniera dettagliata tutte le diverse forme di figurazione (note di passaggio, note di volta, ritardi, ecc.) così come Riemann le illustra (diciotto pagine, esclusi gli esercizi) porterebbe troppo lontano. In questa sede basterà attenersi al principio da cui egli si fa guidare nella «presentazione delle diverse possibi­ lità di formazione degli accordi»: «dedurre tutti gli accordi, anche i più complicati, dall’accordo maggiore o dall’accordo minore in uno dei suoi tre impieghi possibili rispetto alla logica tonale (ossia come tonica, sottodomi­ nante o dominante» (71).

Tonalità e modulazione Nella teoria funzionale Riemann vede l’approfondimento del concetto di tonalità di Fétis. Dal punto di vista dualistico la riduzione alle tre fun­ zioni principali è un «precetto di necessità logica». «Tra i suoni esiste unicamente una affinità in senso positivo (ascen­ dente) ed una in senso negativo (discendente); dalla prima discende, oltre il concetto di accordo maggiore, anche quello di dominante, dalla seconda de­ riva, oltre il concetto di accordo minore, anche quello di sottodominante. Tutti i rapporti dominantici sono dunque propriamente di tipo maggiore, tutti quelli sottodominantici di tipo minore, fatto che peraltro si riscontra nella stessa preoccupazione di fornire alla Tonart minore una dominante maggiore e alla Tonart maggiore una sottodominante minore» (72). Dominanti secondarie e cadenze intermedie si limitano solo ad allargare

142

il concetto di tonalità (73), perché l’accordo che momentaneamente viene elevato a tonica conserva la sua condizione rispetto alla Tonart principale. Mediante la modulazione gli accordi vengono orientati in maniera vera­ mente nuova. Anche le Tonarten secondarie (tonalità secondarie) di un certo pezzo hanno con la tonalità principale un’affinità simile a quella che nell’armonia propria della scala le dominanti hanno con la tonica (cfr. pp. 102-103), per cui il compositore non è totalmente Ubero di scegliere le Ton­ arten secondarie per le singole parti di un brano. Le Tonarten vicine sono più naturali («più normali») di quelle più lontane, che hanno solo un signifi­ cato transitorio, paragonabile a quello delle armonie secondarie estranee alla scala. L’indicazione delle funzioni rende possibile una chiara evidenzia­ zione dei rapporti fra la Tonart principale e le singole Tonarten alle quali si modula, e soprattutto del momento in cui si passa alla nuova Tonart:

A batt. 6 il °si dopo il soT ha il significato di sol6, vale a dire che con l’ag­ giunta della sesta (al posto della quinta) l’accordo maggiore assume la dis­ sonanza caratteristica della sottodominante (74). In genere nella modula­ zione giocano un ruolo importante le dissonanze caratteristiche, perciò Rie­ mann afferma che: «L’aggiunta della 6 all’accordo maggiore spinge a reinterpretarlo come S. L’aggiunta della 7 all’accordo maggiore spinge a reinterpretarlo come D (75). L’aggiunta della VII all’accordo minore spinge a reinterpretarlo come °S» (76).

Invece l’accordo minore con la VI ha meno funzione di dominante mi­ nore che di sottodominante maggiore (S6), perché generalmente la domi­ nante minore è fragile e meno usata. Significato modulativo ha anche «la trasformazione di una forma di dissonanza caratteristica in un’altra» (77); così la S6 di Do maggiore (fa-la-do-re) diventa, se continua con un collega­ mento 5-4 = si-sol-mi/reb (in la minore = D^>).

(69) Qui e in seguito cfr. Handbuch derHarmonielehre, cit., p. 173 sgg.. (70) ZfaW.,p.213. (71) Ibid.. (72) Ibid., p. 214 sg.. (73) Qui e in seguito cfr. Ibid., p. 215. (74) Ibid., p. 215 sgg.. (75) J.Ph. Rameau, Nouveau système de musique théorique..., Paris, 1726, p. 60 sgg.. (76) H. Riemann, Handbuch der Harmonielehre, cit., p. 218. (77) Ibid.. (78) Ibid., p. 218 sgg.. (79) Ibid., p. 221; il segno ~ significa «suona enarmonicamente come». (80) Ibid., p. 222. (81) Ibid.,?. XW.

147

Parte terza Per un degno apprezzamento dell’armonistica di Riemann Abbiamo tentato di seguire in particolare Io sviluppo storico dell’armo­ nistica speculativa di Riemann e di fornire un compendio della sua armonistica pratica. Ora occorre tirare la somma delle due e mostrare che cosa oggi vi sia di ancora valido in esse. Questo compito non è affatto semplice. È vero che la concezione fonda­ mentale di Riemann che l’armonistica sia la teoria del significato logico de­ gli accordi nella struttura musicale viene stabilita fin dall’inizio ('), però, come abbiamo visto, la motivazione base di questa teoria e la sua forma metodico-pratica ha subito considerevoli mutamenti dalla Dissertation alla Lehre von den Tonvorstellungen e dallo Skizze einer neuen Methode der Harmonielehre fino alla sesta edizione dello Handbuch. Sono considera­ zioni di cui occorre tener conto se non si vuole cadere nell’errore di alcuni critici riemanniani, i quali — sia per ignoranza che per avventatezza — ba­ sano il loro giudizio solo su alcuni dei libri di Riemann, o addirittura su uno solo. Tuttavia, anche con una buona conoscenza dell’intero sistema rieman­ niano in tutte le sue fasi, un giudizio in certo qual modo corretto è abba­ stanza difficile. Con Riemann si conclude l’epoca dell’incontestata egemo­ nia dell’armonistica nella teoria musicale e nell’insegnamento della compo­ sizione. Con i Grundlagen des linearen Kontrapunkt di E. Kurth (1917), ap­ parsi quando il nostro teorico era ancora in vita, si apre un’epoca nuova, in cui prevale il contrappunto. Quest’epoca non si è ancora chiusa, perciò guardiamoci da una critica che corrisponderebbe, è vero, alla concezione musicale di oggi, ma che non coglierebbe il suo oggetto. Così l’eterna obie­ zione che le armonistiche classiche in generale e quella di Riemann in parti­ colare porrebbero assolutamente in primo piano gli accordi a scapito della linearità melodica (2), almeno per Riemann non vale del tutto, come ab­ biamo potuto constatare (cfr. p. 120). Essa tutt’al più caratterizza la nostra epoca come un’età in cui troppo spesso si è ceduto all’illusione di poter pro­ durre una linearità «pura», priva di quella relatività fra i suoni che è pur sempre ad un tempo orizzontale e verticale. Riemann non commise questo errore: per lui armonia e melodia non erano opposizioni incompatibili. Questo è il vero e proprio senso della sua teoria della rappresentatività ar­ monica. Guardiamoci poi dal «mitigare» l’armonistica di Riemann ricono­ scendole — per «salvarla» — limiti di validità strettamente circoscritti in senso temporale. Piuttosto, atteniamoci al fatto che il teorico Riemann (come anche il musicologo) era estraneo ad ogni storicismo e pensava es­ sere «assolutamente minima» la differenza «fra il tipo di ascolto di qualche

148

millennio fa e quello di oggi» (3). Se non si può concordare con lui in questo, non lo si può neanche condannare. Fino ad oggi tutti i teorici della musica si sono posti il problema della validità generale della teoria rieman­ niana, perché una teoria il cui ambito di validità sia denotato fin dal princi­ pio da un fattore di limitazione non merita di venire eretta. Malgrado ciò, daremo la parola alla critica nostra e altrui — nella mi­ sura in cui essa ci sembra degna di considerazione (4). Sarebbe possibile raccogliere le osservazioni critiche alla armonistica riemanniana seguendo un ordine cronologico ed esaminandone la fondatezza o l’infondatezza. Vi rinunciamo, perché un tale modo di procedere uscirebbe dai confini di questa trattazione e nel contempo imporrebbe al nostro tema un’articola­ zione estranea alla sua natura. Inoltre prenderemo posizione meno sui par­ ticolari del sistema di Riemann che sui suoi elementi essenziali, il concetto di funzione e la teoria dualistica. Il giudizio sui particolari ne risulta auto­ maticamente. Prima di tutto però è necessario ritornare ancora una volta al presupposto fondamentale della teoria musicale riemanniana, l’ascolto mu­ sicale come «attività logica», e alla «teoria delle rappresentazioni sonore» su esso sviluppata nel periodo della maturità. J. Handschin rimprovera a Riemann di aver «messo da parte, con il con­ cetto di rappresentazione sonora insistito come uno slogan, la questione del rapporto fra queste rappresentazioni e la realtà sonora, ... così come la questione se sia un caso che altri immaginino le mie stesse rappresentazioni sonore» (5). La decisione se la teoria delle rappresentazioni sonore sia «puro kantismo», come pensa Handschin (6), oppure se sia in stretto rap­ porto con la fenomenologia di Husserl, come tenta di dimostrare Besseler (7), possiamo rinviarla ad uno studio apposito. Addentriamoci invece un momento nella posizione riemanniana circa il rapporto fra rappresenta­ zione e realtà sonora. Certamente il tardo Romanticismo ha accettato il primato dell’interio­ rità (rappresentazione sonora) sull’esteriorità (realtà sonora) (cfr. p. 110), ma non semplicemente messo da parte la questione del loro rapporto. Rie­ mann se ne era già occupato laddove discuteva la differenza fra rappresen­ tazioni sonore suscitate spontaneamente e provocate volontariamente (cfr. p. 110), e successivamente si interrogò in maniera esplicita sulle «proprietà distinguibili che un suono rappresentato ha in comune con un suono effetti­ vamente risuonante, quando lo stesso venga rappresentato corretta­ mente»^). La corrispondenza fra interiorità ed esteriorità non viene quindi messa in dubbio, e la loro relazione non viene ritenuta «irrilevante». La questione del «se sia un caso che altre persone immaginino le mie stesse rappresentazioni sonore», obiettivamente Riemann non l’ha posta. Ma in effetti avrebbe potuto porla? Da un lato, già nel 1882 egli parlava dell’interpretazione dei suoni come rappresentanti di armonie — una delle più importanti rappresentazioni secondo la sua teoria — come di un fatto

149

empirico, che necessita di motivazioni fisiche (ossia acustiche) (cfr. p. 105). Dall’altro lato, la teoria delle rappresentazioni sonore non vuole essere una psicologia del suono (9). Per Riemann l’obbligatorietà generale delle «cate­ gorie date naturalmente e diventate storiche», con le quali la fantasia arti­ stica sia produttiva che ricettiva opera continuamente (10), non è affatto in discussione. Essa perciò non ha nemmeno bisogno di venir provata da test psicologici. Poiché queste categorie «spogliano la produzione artistica di ogni arbitrio e ne fanno un dovere necessario sul piano logico» (u), l’eti­ chetta di «idealismo soggettivo» che Handschin attacca a Riemann (12) non ci sembra del tutto adeguata. Per Riemann l’«assestamento soggettivo come norma» non aveva alcun valore. Il rapporto fra «il numerico-oggettivo e lo psichico-umano», che secondo Handschin 1’«idealista soggettivo» nega e/o considera irrilevante (13), nella teoria delle rappresentazioni sonore non viene mai messo in dubbio (14). L’ascolto musicale come «attività logica» soggiace agli stessi principi og­ gettivi secondo i quali lavora anche la fantasia artistica. Proprio questi im­ pediscono che l’ascoltatore «possa aver mano libera» con ciò che ha ascol­ tato, come se si trattasse di una massa plastica» (15), cosa che altrimenti — e in questo siamo d’accordo con Handschin — sarebbe giustamente da te­ mere. Di questi principi, quello della «massima economia possibile delle rappresentazioni sonore» ci sembra essere il decisivo (cfr. p. 110). Esso comprende non solo il fatto «che anche con intonazione inesatta si sente ciò che si è immaginato» (16), ma anche «la possibilità (anzi, la necessità) dello scambio di valori sonori enarmonicamente coincidenti» (17). Purtroppo Rie­ mann non arrivò a studiare approfonditamente il ruolo importante dell’i­ dentificazione enarmonica nella rappresentazione dei rapporti sonori (18). Forse avrebbe dubitato della sua convinzione «che noi ... immaginiamo unicamente nel senso dell’intonazione naturale [anche l’accordatura artifi­ ciale del temperamento equabile]» (19). Con questo non si vuole assolutamente parlare in favore dell’illusione di una realizzazione assoluta dell’into­ nazione naturale nella nostra prassi musicale. Che, per così dire, noi ve­ niamo a patti col temperamento, è un fatto assodato. Piuttosto, pensiamo che Riemann non abbia affatto tratto le conseguenze ultime del principio dell’economia delle rappresentazioni. In questo senso, egli avrebbe dovuto prima di tutto eliminare dal quadro notale l’identificazione enarmonica, conseguenza, questa, dell’adozione di una Tonart centrale assoluta (do+ e/o °mi). Da questo punto di vista lo scambio fra suoni enarmonicamente uguali diventa necessario non appena la modulazione vaga in ambiti che «permetterebbero una rappresentazione più semplice in una posizione più centrale del sistema sonoro» (20). La Tonart principale assoluta però è una finzione. In realtà ogni brano tonale ne ha una sua propria. Se esso viene trasposto, come ad esempio si rende spesso necessario in un Lied , cambia anche la sua Tonart principale, però i rapporti tonali restano gli stessi. Se

150

nel brano si presenta una «spirale armonica» (21), ossia una modulazione che conduce ad una Tonart enarmonicamente equivalente senza modula­ zione di ritorno alla Tonart di partenza, il punto dell’identificazione enar­ monica (lo scambio fra # e b) nella Tonart originale per lo più non concor­ derà con quello della trasposizione. Vale a dire che tale punto si conforma nei due casi alla migliore leggibilità del quadro notale. Esso non ha alcuna influenza sui rapporti tonali all’interno del brano, perciò sarebbe errato im­ maginarsi l’identificazione enarmonica una volta in una battuta e una volta in un’altra, potendo essa avvenire solo laddove la spirale chiude il cerchio, ossia nella Tonart meta della modulazione. Per motivi di «massima econo­ mia possibile delle rappresentazioni sonore» le parti del cerchio (22) devono immaginarsi nel senso dell’accordatura temperata. A dire il vero, in questo caso il termine «temperato» è più che altro d’impaccio. In realtà, per rappresentarci rapporti sonori temperati abbiamo poco bisogno del temperamento equabile — comunque realizzabile sul piano acustico solo in modo approssimativo —, così come per rappresen­ tarci rapporti sonori naturali abbiamo poco bisogno dell’accordatura natu­ rale. Le nostre rappresentazioni dipendono sempre dal contesto dell’opera da rappresentare. Né l’accordatura temperata del pianoforte impedisce la rappresentazione di rapporti sonori naturali, né noi saremmo in grado di in­ tendere in modo diverso che da quello temperato spirali armoniche come quelle presenti nell’elaborazione del I tempo del Quartetto per archi in Sol maggiore D 887 di Schubert, anche se questo fosse eseguito con strumenti accordati in modo non temperato. L’osservazione di Hauptmann che gli in­ tervalli temperati devono considerarsi naturali (23), sulla quale Riemann concorda, ha dunque bisogno di una integrazione: in un contesto temperato anche gli intervalli naturali esigono di venir considerati temperati (24). Se­ condo noi questa sarebbe l’ultima conseguenza (non tratta da Riemann) del principio della «massima economia possibile delle rappresentazioni sonore» in campo armonico. Tuttavia il suo presupposto relativo all’ascolto musicale come attività lo­ gica viene criticato da molti. Ad esempio E. Kurth si oppone risolutamente all’ipotesi che la musica debba adempiere un compito della logica (2S): è concettualmente errato «costringere gli accordi, per puro amore della logica della costruzione, in un sistema che non corrisponde né all’evoluzione sto­ rica della musica, né alla sua evoluzione pratica» (26). Kurth sembra essere dell’avviso che il sistema logico — con cui intende la teoria funzionale — sia stato in certo qual modo imposto alla musica dall’esterno. Questo però si ri­ vela un errore non appena si riflette sullo sviluppo storico dell’armonistica riemanniana (cfr. p. 99 sgg.). L’oggetto di partenza era la cadenza composta. Riemann la interpre­ tava dialetticamente sotto l’influenza di Hauptmann. Senso e fine di questa operazione non si limitavano tuttavia ad un’analogia ingegnosa, ma non ob­

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bligante sul piano musicale. Piuttosto, Riemann vedeva nella dialettica tria­ dica di Hegel da una parte la possibilità di delimitare fra loro i differenti si­ gnificati tonali dei singoli momenti della cadenza — che egli non aveva in­ ventato, bensì solo riscontrato —, dall’altra parte invece la possibilità di metterne in evidenza i rapporti interni dati dalla Tonart. Giustamente scrive Wiencke: «Per logica Riemann intende l’ininterrotta conoscenza del­ l’ordine tonale» (27). Poiché ciò è indispensabile per la comprensione della musica tonale maggiore/minore, era ovvio sussumere in termini dialettici anche gli accordi diversi dai gradi I, IV e V, e perfino dissonanze, collega­ menti armonici di maggiore ampiezza e infine interi brani. Se tali termini dialettici ben presto spariscono dall’armonistica riemanniana per far posto dapprima ai nomi dei passi d’armonia e successivamente alle indicazioni funzionali, restava però per Riemann l’esigenza della consapevolezza co­ stante dell’ordine tonale del pezzo. Il mezzo per rispondere positivamente a tale esigenza egli lo trovò nella riduzione di tutti i significati tonali degli ac­ cordi ai tre significati fondamentali (tonica, sottodominante e dominante). Che siano solo tre può sembrare un limite sul piano stilistico, ma come os­ serva giustamente Handschin ciò corrisponde «a una tendenza che si mani­ festa molto spiccatamente nella musica classica e nella musica romantica [tedesca]» (28). Quando però subito dopo lo stesso Handschin asserisce che il «funzionalismo esasperato» annulla l’individualità degli accordi, non si avvede che proprio la comparazione di tutti i collegamenti accordali con la cadenza composta, e quindi il rapporto di ciascun accordo con la tonica, non solo non ne cancella l’individualità, ma al contrario la fa maggiormente risaltare, perché a seconda che l’accordo abbia un’affinità più vicina o più lontana con la tonica il suo effetto nel contesto tonale del brano sarà com­ pletamente diverso. Si può dire che esso deve la sua individualità prima di tutto a questo rapporto. I simboli funzionali lo evidenziano dando il signifi­ cato tonale dei singoli accordi, ma in questo modo essi contrassegnano con­ temporaneamente i diversi effetti individuali prodotti da ogni accordo. La teoria funzionale quindi non è il risultato di una costruzione pura­ mente logica imposta alla musica (tonale maggiore/minore), ma al contrario essa corrisponde alla sua essenza intrinseca. Che il termine logica riferito alla musica sia una scelta felice può anche essere contestabile, però tutti co­ loro che lo criticano dovrebbero trovarne un altro che meglio esprima la sensatezza e la coattività del fluire della musica tonale maggiore/minore. A Riemann non interessava né la logica né la dialettica, bensì la compren­ sione della musica. Ciò è provato sufficientemente dal fatto che ben presto egli rinunciò — senza alcun pregiudizio per la sua teoria — ai termini tesi, antitesi e sintesi, che all’inizio erano serviti in certo qual modo come mo­ tore della sua armonistica. L’obiezione di H. Federhofer che la teoria funzionale di Riemann sug­ gerirebbe all’ascoltatore una «successione di accordi riferiti armonicamente

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e funzionalmente solo gli uni agli altri» (29), ma non sarebbe in grado di co­ gliere «una forma musicale come un tutto unitario» (30), a nostro parere non tiene sufficientemente in considerazione ciò che Riemann ha scritto sul tema della modulazione per esempio nella Vereinfachte Harmonielehre: «In tutti i casi un’armonistica sensata deve aspirare a conquistare, ai fini dell’unitarietà della concezione, un campo sempre più vasto. In definitiva, la modulazione reale è paragonabile anche al passo d’armonia dalla tonica ad un accordo di affinità vicina, ossia le nuove toniche raggiunte mediante mo­ dulazione devono in tutti i casi venire interpretate come armonie all’interno della Tonart, cioè spettano loro finzioni tonali in senso più lato» (31) (cfr. p. 102 sg. e p. 141). Fin dall’inizio la preoccupazione di Riemann fu di concepire ogni opera come un tutto unitario (32). La sua esigenza di contemplare nell’armonistica i grandi rapporti armonici non restò sulla carta: egli cercò sempre di realiz­ zarla nelle sue opere. Ad esempio, egli interpreta il I periodo (le prime nove battute) dell’introduzione al Rondò della Sonata per pf. op. 53 in Do maggiore di Beethoven «come un’unica gigantesca cadenza di Fa maggiore (l’accordo iniziale e quello finale sono accordi di/«+) (33)» (34). Dunque Rie­ mann non si ferma all’interpretazione del nesso fra due o al massimo tre ac­ cordi vicini (35). A questo proposito si deve ricordare che già nel 1877 Rie­ mann aveva anticipato di fatto il concetto schenkeriano di grado (cfr. p. 103). Quando Federhofer, seguendo Schenker, vuole dedurre la funzione degli accordi esclusivamente dal moto delle parti al fine di rendere giustizia al «percorso complessivo» di un brano, dimentica che anche il moto delle parti non è una grandezza assoluta. Accordi e moto delle parti si condizio­ nano reciprocamente, e non solo Schenker, ma anche Riemann era consa­ pevole del «collegamento organico fra dimensione orizzontale e verticale» (cfr. p. 119 sg.). Ci si dovrebbe guardare dall’illusione di potere, con l’ana­ lisi di una delle due dimensioni relative all’altezza dei suoni, rendere ra­ gione in eguale misura anche dell’altra. Dal punto di vista della ricerca sul moto delle parti e sui suoi strati, i collegamenti accordali e i loro strati da­ ranno sempre un’impressione di importanza secondaria e viceversa, senza che si possa dire perciò che nell’un caso il moto delle parti avviene comple­ tamente a spese dei collegamenti accordali e che nell’altro questi sono total­ mente a spese di quello (36). Entrambi i modi di considerare le cose sono in grado di afferrare il «percorso complessivo» di un’opera, benché sempre sotto un solo aspetto. Non si dovrebbe perciò tirarli in ballo contrapponen­ doli con etichette del tipo «statico» o «dinamico». Per entrambi vale il giu­ dizio di Schonberg sulla Urlinie schenkeriana: »nella migliore delle ipotesi essa è una parte del tutto. Perciò si devono formare molte parti« (37). Su un’altra sezione dell’armonistica riemanniana, quella pratica, verte la questione se i simboli funzionali sviluppati da Riemann siano attrezzati per tutte le eventualità della composizione e dell’analisi armonica. Ad essa

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rispondono negativamente, fra gli altri, Kurth e Federhofer. Essi criticano il fatto che i simboli funzionali generalizzano le singole situazioni in cui si originano le triadi secondarie, e tentano anche di dimostrare che in certi casi le armonie secondarie possono conseguire un significato tonale del tutto autonomo e non, per così dire, preso a prestito dalle armonie princi­ pali (38). Purtroppo entrambi i critici sembrano non prendere molto sul serio la distinzione che fa Riemann fra armonistica speculativa e composizione pratica (cfr. p. 94). Come si ricorderà, quest’ultima non necessita delle mo­ tivazioni così profonde dell’armonistica speculativa, la quale d’altra parte rinuncia ad una «specializzazione nel dettaglio», che è compito della com­ posizione pratica. É vero che nome e simbolo dell’accordo di cambio di sen­ sibile rimandano ad una singola situazione di origine, ma laddove Riemann nei trattati pratici conserva la medesima denominazione (teorica) anche quando una identica armonia secondaria si presenta sotto diverse condi­ zioni di moto delle parti, non vi si dovrebbe scorgere la coercizione di un sistema rigido che contraddice le abitudini uditive, bensì l’incondizionata aspirazione a cogliere nessi armonici. Dal punto di vista armonico non è af­ fatto necessario che due accordi di Do maggiore alla stato fondamentale e in posizione di quinta circondino l’accordo si2-mi3-sol3 affinché questo venga inteso come T di do+ (39). È già sufficiente T-T, poiché è unicamente il rapporto di seconda minore fra i suoni principali degli accordi a venir rap­ presentato graficamente. Che la triade sul III grado di Do maggiore — os­ servata isolatamente — sia tonalmente ambigua, lo sa anche Riemann, e di questo fatto tengono conto proprio le indicazioni funzionali riemanniane nel momento in cui interpretano lo stesso accordo o come Dp o come T, a seconda del suo contesto (armonico) (cfr. sopra p. 126 sgg.). Se una triade secondaria viene transitoriamente resa autonoma mediante una dominante secondaria — la sua definizione (teorica) come modificazione di una triade principale nel senso di consonanza apparente non è in contrasto con tale autonomizzazione (cfr. p. 135) —, il suo significato tonale viene conservato in base alle relazioni con una della armonie principali. Allora si manifestano nessi armonici di ordine superiore. Persino quando l’armonia principale dalla quale deriva l’armonia secondaria non risuona per nulla, come ad esempio la sottodominante nella successione T-Sp-D-T, il secondo accordo — Sp — avrebbe, sulla base della somiglianza di questa successione con la cadenza composta T-S-D-T, un significato di tipo sottodominantico. Non vogliamo negare l’affinità di quinta fra le fondamentali della Sp e della D, però di fronte al legame più stretto fra la Sp e la tonica (una sorta di ca­ denza d’inganno in ambito sottodominantico) tale affinità passa in secondo piano. Insomma, non siamo tanto inclini ad attribuire ad un accordo mi­ nore nel modo maggiore (in questo caso al II grado) un effetto di tipo dominantico (cfr. p. 141). Non si possono assolutamente scambiare i gradi della scala con i signifi­

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cati tonali. Guardiamoci dall’errore di pensare che l’indicazione dei gradi rappresenti «una teoria funzionale molto più sottile... in quanto capace di classificare sotto i concetti di tonica, dominante e sottodominante tutti i fe­ nomeni che si presentano nella Tonart» (40). Le cifre romane registrano uni­ camente la posizione dell’accordo nella scala, ma non dicono nulla sul loro significato tonale nel contesto di un brano. E vero che I, V e IV hanno, im­ plicite, un significato armonico, tuttavia esso non è il risultato delle denomi­ nazioni dei gradi, ma unicamente la conseguenza dell’impiego continuato delle triadi registrate con tali denominazioni in determinati collegamenti to­ nali stereotipati; ad esempio: V-I, IV-I o I-IV-V-I. Al contrario, le restanti denominazioni dei gradi (II, III, ecc.) non rendono palesi tutte le interpre­ tazioni, non suscitano nessuna rappresentazione tonale. Si può dire, è vero, che le triadi del II, III e VI grado possono assumere, a seconda del con­ testo, questo, o quel significato tonale, però le cifre in sé non hanno, oltre alla loro capacità di registrazione, nessun significato. Secondo Riemann l’armonistica è la teoria dei significati degli accordi. Un testo di armonistica adempie al suo scopo quando gli riesce di palesare questi significati. Per questo occorre sviluppare segni appropriati nei quali si possano riconoscere subito i significati degli accordi. Non si interviene certo in favore dell’utilità delle indicazioni dei gradi quando, come fa Kurth, che se ne serve, non solo non si rinuncia al termine funzionale di dominante secondaria, ma addirit­ tura si mescolano le cifre romane con la maniera riemanniana di indicare le dominanti secondarie (l’inserimento fra parentesi tonde); ad esempio: (V) oppure (V7) (41). E allora perché non impiegare direttamente le indicazioni funzionali? Ma se, come abbiamo tentato di dimostrare, i simboli della teoria fun­ zionale sono più potenti delle indicazioni dei gradi, perché l’armonistica di Riemann, dalla quale questa teoria ha preso le mosse, oggi sopravvive a mala pena? Come è potuto accadere che i testi dei suoi successori abbiano completamente soppiantato i suoi? Quando all’inizio di questo lavoro ac­ cennammo al fatto che nei loro libri il sistema riemanniano è stato forte­ mente modificato (cfr. sopra p. 93), intendevamo dire che tali modifica­ zioni concernono soprattutto i fondamenti teorici. Per lo più si è rinunciato al dualismo — a prescindere dal polarismo di Karg-Elert —, mentre Rie­ mann lo aveva strettamente collegato alla teoria funzionale. Questo colle­ gamento tuttavia non è scevro da contraddizioni. La tesi che «tutti i rapporti dominantici... sono di tipo maggiore, tutti quelli sottodominantici di tipo mi­ nore» viene sostenuta presentando in primo luogo ogni dominante come triade maggiore e/o introducendo la sottodominante preferibilmente come triade minore anche nel modo maggiore (cfr. p. 141). D’altra parte, però, secondo Riemann l’effetto di contrasto della successione T-S (passo di con­ troquinta nel modo maggiore) e rispettivamente °T-°D (passo di contro­ quinta nel modo minore) è più forte di quello della successione T-°S e ri-

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spettivamente °T-D (cfr. p. 123 sg). Questa opinione non dovrebbe con­ traddire solo «il comune senso musicale» (42), ma anche la tesi sopra esposta, secondo la quale proprio la triade minore provocherebbe il più forte effetto sottodominantico e la triade maggiore il più forte effetto dominantico. Oltre a ciò, ci sarebbe da domandarsi se la teoria funzionale abbia ef­ fettivamente bisogno del dualismo, come Riemann sostenne e come riten­ gono molti suoi critici. Il significato tonale di un singolo accordo rispetto al percorso armonico complessivo di un brano (43) in definitiva può venir affer­ rato se — dualisticamente parlando — si intende l’accordo minore nel senso del maggiore e lo si indica coerentemente. Dal punto di vista teorico l’inter­ pretazione dualistica della triade minore può avere ancora senso: se cioè quali intervalli direttamente comprensibili si ammettono solo l’ottava, la quinta e la terza maggiore (cfr. p. 98), è effettivamente più semplice vedere il suono principale dell’accordo minore nel suono più acuto e non nella sua fondamentale. Tuttavia, fin dal princpio Riemann fu consapevole del fatto che il rapporto reciproco fra modo maggiore e modo minore è rappresenta­ bile nello strettissimo ambito armonico dei suoni propri della scala, ma che nella pratica musicale del genere misto della tonalità maggiore-minore la triade minore viene sempre sentita dal basso verso l’alto (cfr. p. 97 sg.) (44). Ed il fatto che, ciò nondimeno, egli indicasse gli accordi minori dualistica­ mente ha inutilmente appesantito la sua trattatistica pratica. Per questo Riemann fu costretto ad interpretazioni che contraddicevano troppo pale­ semente le convenzioni d’ascolto della tonalità maggiore-minore (ad esem­ pio, il cambio di tono per la successione Sp-D nel modo maggiore, cfr. p. 127). D’altra parte, contrariamente a Oettingen egli non arrivò fino alle estreme conseguenze pratiche della teoria dualistica. In questo consiste an­ che quella contraddizione fra teoria e prassi insita nel sistema riemanniano alla quale alludemmo all’inizio di questa trattazione (cfr. p. 94). Essa è la vera causa del rapido oblio che toccò in sorte al sistema dopo la morte di Riemann. In questa sede non è possibile entrare nelle notevoli modificazioni del sistema sperimentate dai successori di Riemann. Esse appaiono meno signi­ ficative in considerazione del fatto che l’idea delle funzioni tonali degli ac­ cordi non si è continuata a scorgere unicamente nelle armonistiche esplici­ tamente funzionali, ma è stata ammessa anche laddove ci si atteneva, al­ meno esteriormente, alle indicazioni dei gradi (45). Che questo mescola­ mento sia problematico (cfr. sopra) lo dimostra il fatto che nella trattazione dell’armonia tonale maggiore-minore non si può evitare la necessità di dive­ nire consapevoli dei significati tonali degli accordi. È merito duraturo di Hugo Riemann l’avere per primo chiaramente riconosciuto e portato a ter­ mine teoricamente e praticamente il compito essenziale dell’armonistica, di essere una teoria dei significati degli accordi.

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NOTE ALLA PARTE TERZA (x) H. Riemann, Musikalische Logik, in NZfM 34 sgg. (1872), rist. in Prdludien und Studien, vol. Ill, Leipzig, 1901, p. 1 sgg.. (2) Cfr. fra gli altri K. Jeppesen, Zur Kritik der klassischen Harmonielehre, Kongrefibericht Basel 1949, Basel, s.d., p. 23 epassim. (3) H. Riemann, Handbuch der Musikgeschichte 1/1, Leipzig, 1904, p. VII. Al contra­ rio di H. Chr. Wolff (MGG XI, col.485), non siamo del parere che verso la fine della sua vita, a causa dello studio della musica esotica, Riemann non sia stato più così fermo in questa convinzione. I passi che Wolff cita dagli Folkloristische Tonalitdtsstudien, Leipzig, 1916, p. VII, sembrano riflettere meno punti di vista propri di Riemann piuttosto che di Helmholtz, che Riemann cita soltanto per ditinguere tanto più risolutamente la propria Lehre von den Tonvorstellungen dalla Lehre von den Tonemfìndungen di Helmholtz. Mal­ grado l’innegabile influenza esercitata da quest’opera sulla Dissertation riemanniana, essa non fu mai menzionata da Riemann. (4) Non terremo in considerazione la critica che dimostra palesemente una conoscenza lacunosa dell’armonistica riemanniana. (5) J. Handschin, Der Toncharakter, Zurich, 1948, p. 126. (6) Ibid.. (7) H. Besseler, Das musikalische Hòren der Neuzeit, Berichte ùber die Verhandlungen der Sàchsischen Akademie der Wissenschaften zu Leipzig, philologisch-historische Klasse, voi. 104, quad. 6, Berlin, 1959, p. 10. (8) H. Riemann, Ideen zu einer »Lehre von den Tonvorstellungen«, in JBP (1914/15), p. 4sg.. (9) ZtaZ.,p.2ep.U. (10) H. Riemann, L. van Beethovens sàmtliche Klavier-Solosonaten, vol. I, Berlin, 1918, p. IV. (n) Ibid.. (12) J. Handschin, Der Toncharakter, cit., p. 124 sgg.. (13) Ibid.,p. 124. (14) Si leggano le parti sulla contrapposizione fra triade maggiore e triade minore (cfr. Ideen zu einer »Lehre von den Tonvorstellungen«, cit., p. 16). Saranno sfuggite a Hand­ schin? (15) J. Handschin, Der Toncharakter, cit., p. 126. (16) Ibid.. (17) H. Riemann, Ideen zu einer »Lehre von den Tonvorstellungen«, cit., p. 26. (18) Ibid.. (19) Ibid.. (20) Ibid.. (21) Il termine e la definizione derivano da W. Keller, Handbuch der Tonsatzlehre, voi. I, Regensburg, 1957, p. 304. (22) Per cerchio non si intende qui semplicemente il circolo delle quinte, delle quarte o delle terze maggiori, bensì ogni tipo di rapporto enarmonico a grande distanza. (23) M. Hauptmann, Die Natur der Harmonik und der Metrik, Leipzig, 18531, p. 44, e 18732, p. 40.

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(24) In questa sede non è possibile prendere in considerazione l’importanza che queste tesi potrebbero avere sulla Nuova Musica del XX secolo. (25) E. Kurth, Musikpsychologie, Bern, 19472, p. 219. (26) 7^.,p.22O. (27) G. Wienke, Voraussetzungen der »musikalischen Logik« bei Hugo Riemann, Stu­ dien zur Musikàsthetik in der 2. Hàlfte des 19. Jahrhunderts, diss., Freiburg i. Br., 1952, p. 6. (28) J. Handschin, Der Toncharakter, cit., p. 268. (29) H. Federhofer, Die Funktìonstheorie Hugo Riemanns und die Schichtenlehre Heinrich Schenkers, KongreB Bericht Wien, Mozartjahr 1956, Graz-Kòln, 1958, p. 185. (30) Ibid,, p. 185 sg.. (31) H. Riemann, Vereinfachte Harmonielehre oder die Lehre von den tonalen Funktionen derAkkorde, London, 1893, p. 141. (32) «Se cioè la nostra attività mentale non mirasse al confronto di due rappresentazioni di suoni e armonie susseguentisi l’una all’altra, un brano musicale sarebbe paragonabile ad una successione di frammenti presi in considerazione uno ad uno senza compararli gli uni agli altri e senza ricercare l’opera nel tutto. Ma non appena si cominciano a congiungere via via fra loro e fino all’ultimo i singoli frammenti al fine di attribuire a ciascuno di questi il va­ lore che gli deriva dal suo rapporto con l’intera successione di frammenti, anche le rappre­ sentazioni delle armonie susseguentesi le une alle altre — non solo le singole coppie di rap­ presentazioni, ma l’insieme di tutte le rappresentazioni — vengono, consapevolmente o meno, messe a confronto, e il risultato è la comprensione del pensiero musicale» (H. Rie­ mann, Ùber das musikalische Horen, Leipzig, 1874, p. 41). (33) H. Riemann, L. van Beethovens sàmtliche Klavier-Solosonaten, vol. Ili, Berlin6, s.d., p. 31. Stranamente Federhofer nella sua critica a questa analisi (Die Funktìonstheorie Hugo Riemanns cit., p. 186 sg.) non tiene conto di questa pagina. (34) Le batt. 2 e 4 Riemann le intende una volta come deviazione a Mi maggiore e ri­ spettivamente a Si maggiore, un’altra volta come deviazione a la minore e rispettivamente a mi minore (con cadenza sospesa). L’ultima interpretazione è certamente più corretta, in quanto la batt. 6 (con un’inequivocabile funzione di dominante di Fa maggiore) si trova chiaramente in rapporto di analogia formale con le batt. 2 e 4. (35) Contrariamente a quanto afferma H. Federhofer in Die Funktìonstheorie cit., p. 187. (36) Riemann richiama espressamente l’importanza della linea cromatica discendente «tipo ciaccona» del succitato esempio di Beethoven (H. Riemann, ibid.). (37) Cit. da J. Rufer, Das WerkArnold Schonbergs, Kassel-Basel..., 1959, p. 172. (38) E. Kurth, Musikpsychologie, cit., p. 220 e Die Voraussetzungen der theoretìschen Harmonik, Bern, 1913, p. 104 sg., e rispettivamente H. Federhofer, Klangfunktionen der Dur-Mollharmonik, in Beitrdge zur musikalische Gestaltanalyse, Graz-Innsbruck-Wien, 1950, p. 11 sgg. (39) Contrariamente a quanto afferma H. Federhofer in Klangfunktionen cit., p. 11. (40) G. Gùldenstein, Theorie der Tonart, Stuttgart, 1927, p. 127 (cit. da E. Kurth, Musikpsychologie, cit., p. 218). (41) E. Kurth, Musikpsychologie, p. 228 sg.. (42) E. Kurth, Die Voraussetzungen der theoretìschen Harmonik, cit., p. 101 sg.. (43) H. Grabner, Die wichtigsten Regeln des funktìonellen Tonsatzes, Leipzig, 1935, p. 3.

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(44) Solamente nel corso del XX secolo — soprattutto grazie alla tecnica dodecafonica — guadagnò importanza pratica l’accordo inverso costituito dai medesimi intervalli dell’ac­ cordo originale. (45) Cfr. fra gli altri A. Halm, Harmonielehre, Berlin, 1905, nonché R. Louis-L. Thuille, Harmonielehre, Stuttgart, 1907.

Carl Dahlhaus

Teoria della tonalità armonica

§ 1.

Tonalità e armonia

Secondo la definizione di Riemann, la «Tonalità!» è «il significato parti­ colare che gli accordi ricevono dal loro rapporto con una triade principale, la tonica» ('). I significati degli accordi Riemann li indica come «funzioni». Dunque, la «Tonalitàt» è l’essenza delle funzioni accordali. Il termine deriva da Fran§ois Joseph Fétis, che arrivò alla concezione dell’idea di tonalità con una sorta di illuminazione. «Improvvisamente la verità si presenta al mio spirito; le questioni si pongono con chiarezza, le te­ nebre si dissipano; le false dottrine cadono a pezzi attorno a me» (2). L’idea che Fétis collegò all’espressione «Tonalitàt» è però incompatibile con la de­ finizione di Riemann. Il concetto di funzione era estraneo a Fétis quanto lo era l’idea di determinare la tonalità in primo luogo in base al rapporto fra gli accordi. Il sistema della tonalità di Riemann si distingue dalla teoria sviluppata da Fétis in primo luogo nella fondazione della categoria di «Tonalitàt», se­ condariamente nella determinazione dei caratteri distintivi, in terzo luogo nell’interpretazione del rapporto esistente fra sistema accordale e scala, e da ultimo nella definizione dei limiti di validità della teoria. 1. Riemann assunse dalla tradizione del «fisicalismo» (Jacques Handschin) — che risale fino a Rameau — la tesi secondo la quale la tonalità si fonda su fatti acustici; la dominante tende alla tonica, perché l’accordo di dominante è contenuto nella serie degli armonici superiori del suono fonda­ mentale della tonica (3). Il concetto di tonalità di Fétis rappresenta invece la tesi opposta: la convinzione che sia un errore spiegare i rapporti musicali fra i suoni per via matematica o acustica. Fétis coniò il termine «tonalité» per avere a disposizione un termine che esprimesse il fatto che scale e si­ stemi sonori non si fondano sulla natura del materiale sonoro, ma che al contrario si basano su presupposti storici ed etnici. «La natura fornisce,

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come elementi della musica, solo una moltitudine di suoni che si differen­ ziano fra loro per intonazione, durata e intensità, per delle sfumature più o meno grandi o piccole... L’idea dei rapporti esistenti fra di essi si desta nel­ l’intelligenza, e sotto l’azione della sensibilità da una parte, della volontà dall’altra, lo spirito li coordina in serie diverse, ciascuna delle quali corri­ sponde a un particolare ordine di emozioni, di sentimenti e di idee. Queste serie diventano dunque dei tipi di tonalità...» (4). «Tonalité», dunque, come «principe puramente métaphysique» (per «metafisica» Fétis intende antropologia), l’opposto del «principe naturel» al quale Rameau aveva ri­ dotto l’armonia. «Ma, si dirà, qual’è il principio su cui si fondano queste scale, e chi ha regolato l’ordine dei loro suoni, se non sono dei fenomeni acustici, e le leggi del calcolo? Rispondo che questo principio è puramente metafisico. Noi percepiamo quest’ordine e i fenomeni melodici e armonici che ne discendono, come conseguenza della nostra conformazione e della nostra educazione» (5). 2. Secondo Riemann, la tonalità è l’essenza dei significati degli accordi, e i significati degli accordi — sottodominante e dominante, parallela della sottodominante e parallela della dominante — si fondano sulle affinità fra i suoni. Riemann assunse da Moritz Hauptmann l’assioma relativo al fatto che la quinta e la terza maggiore sono gli unici intervalli «direttamente in­ telligibili» (6), e dedusse dalla quinta e dalla terza maggiore sia la struttura degli accordi che il rapporto fra di essi. La triade maggiore è costituita da una quinta e da una terza maggiore sopra la fondamentale, la triade minore da una quinta e da una terza maggiore sotto la quinta della fondamentale; il rapporto fra tonica e dominante, o fra tonica e sottodominante, nel modo maggiore si fonda sull’affinità di quinta delle fondamentali, e nel modo mi­ nore sull’affinità di quinta delle quinte degli accordi. A differenza di Riemann, la cui teoria della tonalità è una teoria delle affinità fra i suoni, Fétis vide il momento costitutivo della «tonalité mo­ derne», della tonalità armonica del periodo fra il XVII e il XIX secolo, nel contrasto fra triade e accordo di settima, fra la «armonia consonante chia­ mata accordo perfetto, che ha carattere di riposo e di conclusione, e l’armo­ nia dissonante, che determina la tensione, l’attrazione e il movimento... È così che vengono a determinarsi quei rapporti di necessità fra i suoni, che in generale si designano con il termine tonalità» (7). Il principio del rapporto tra i suoni sembra essere lo scambio fra «riposo» e «tensione». I suoni cor­ rispondenti al I, IV, V e VI grado della scala maggiore sono «note di ri­ poso» ed ammettono un «accordo perfetto»; i suoni corrispondenti al II, III e VII grado, invece, «non possono essere considerati note di riposo» e ri­ chiedono perciò un «accordo derivato», un accordo di sesta (Re-Fa-Si, MiSol-do1 e Si-re^-sol1). «Sulla scorta dell’assetto tonale, essi possono dun­ que essere accompagnati solo da armonie derivate» (8). Fétis esclude dalla «tonalité» le triadi del II, III e VII grado; le progressioni di accordi conte-

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nenti una triade o una settima del II, III e VII grado sospendono il senso to­ nale. «Lo spirito, assorbito nella contemplazione della progressione, perde momentaneamente il senso della tonalità» (’). Il concetto di tonalità di Fé­ tis non abbraccia quindi tutto l’insieme dei rapporti accordali possibili e sensati nell’armonia tonale, bensì contraddistingue solo un momento par­ ziale. Il contrasto con la teoria di Riemann pare essere ineliminabile; però non è esclusa una mediazione. L’asserzione di Fétis, secondo cui un «ac­ cordo perfetto» sul II o sul III grado costituisce un’eccezione alla norma della «tonalité», può venire reinterpretata senza sforzo in base alla tesi se­ condo cui una triade del II o del III grado sembra essere un «accordo per­ fetto», ma non lo è: il risultato di questa «traduzione» non sarebbe nient’al­ tro che la teoria riemanniana delle «consonanze apparenti», l’asserzione che la fondamentale apparente della parallela della sottodominante o della parallela della dominante sia in realtà una «sixte ajoutée» all’armonia di sottodominante o di dominante. Viceversa, la tesi di Riemann secondo cui solo la tonica, la dominante e la sottodominante sono «consonanze», men­ tre le parallele della tonica, della dominante e della sottodominante sono «dissonanze», risulterebbe meno sorprendente se — in accordo con Fétis — si interpretasse il termine «consonanza» come «riposo» e «dissonanza» come «tensione». 3. Secondo Riemann, la tonalità è un sistema di accordi o «armonie». La tesi del primato dell’accordo rispetto al singolo suono e del rapporto fra gli accordi rispetto alla scala, è uno dei principi fondamentali della teoria funzionale. «1) I suoni li sentiamo sempre come rappresentanti di armonie, ossia di accordi consonanti, di cui esistono solo due tipi, e cioè l’accordo maggiore (armonia superiore) e l’accordo minore (armonia inferiore). 2) Le successioni accordali (e così pure le melodie, che secondo questo princi­ pio rappresentano successioni accordali nella forma più semplice) le sen­ tiamo con un rapporto unitario e costante con un accordo principale (il «centre harmonique» di Rameau, la tonica), al quale quegli accordi sono armonicamente affini (10). La scala maggiore e la scala minore appaiono come il risultato della scomposizione degli accordi di tonica, di dominante e di sottodominante; la scala è un fatto secondario: un risultato, non un pre­ supposto. Il rapporto fra gli accordi è indipendente dalla scala: dal presup­ posto che la quinta e la terza maggiore fondino rapporti «direttamente in­ telligibili» fra i suoni e gli accordi, discende come estrema conseguenza l’as­ serzione che gli accordi di La bemolle maggiore e di Mi maggiore possano venir riferiti direttamente alla tonica Do maggiore, ossia che la successione di accordi DoM - LabM - DoM - MiM - DoM appare analoga a DoM - FaM - DoM - SolM - DoM. «Così la tonalità di Do maggiore domina finché le ar­ monie vengono interpretate in riferimento all’accordo di Do maggiore; ad esempio, la successione

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es. 1

così ardita, ma anche vigorosa e armoniosa, non si deve affatto definire nel senso di una Tonart della precedente teoria; nel senso della tonalità di Do maggiore essa è: tonica — accordo di controterza — tonica — accordo di terza schietta — tonica, come a dire che sono posti a confronto con la tonica solo accordi di affinità vicina» (n). La «affinità di terza» postulata da Rie­ mann non significa altro che la sospensione della distinzione fra diatonismo e cromatismo. Se, in contrasto con Riemann, si tenesse ferma tale diffe­ renza, l’accordo di La bemolle maggiore si spiegherebbe come parallelo della sottodominante minore, e l’accordo di Mi maggiore come alterazione del parallelo della dominante; alla base dell’accordo di La bemolle mag­ giore c’è un «cambio di armatura di chiave» — uno scambio tra la scala di Do maggiore e quella di do minore —, alla base dell’accordo di Mi mag­ giore c’è una modificazione cromatica della scala di Do maggiore. Invece, un accordo di La bemolle maggiore o di Mi maggiore non sono, se riferiti direttamente a Do maggiore, né diatonici, né cromatici: la differenza è an­ nullata. E nella sospensione del diatonismo come fondamento dei rapporti fra gli accordi Riemann vede il segno che distingue la «Tonalitàt» dalla Tonart della precedente teoria», fondata sulla scala diatonica. Il contrasto con Fétis, che vedeva nella scala diatonica il presupposto della tonalità, è brusco. «La tonalità — scrive Fétis — si forma dalla colle­ zione dei rapporti necessari, successivi o simultanei, dei suoni della scala» (12). Per la verità, l’idea di Fétis del rapporto fra tonalità e scala è contraddittorio, o sembra esserlo. Da una parte, la tonalità è il «principe régulateur» dei rapporti fra i suoni. «Ora, il principio regolatore dei rap­ porti fra i suoni, sia in ordine successivo che simultaneo, si designa in gene­ rale con il termine tonalità» (13). Dall’altra parte, è la tonalità che «risulta» dalla scala. «Ciò che si chiama tonalità è dunque l’ordine dei fatti melodici e armonici che risulta dalla disposizione dei suoni delle nostre scale maggiore e minore» (M). E come principio fondamentale dei nessi tonali appare, ac­ canto alla scala, il contrasto fra accordo di settima di dominante e triade di tonica, «tensione» e «riposo» (15). Le contraddizioni non sono tuttavia irri­ solvibili. Le diverse definizioni del concetto di tonalità, tutte basate sui fatti, entrano in collisione perché sono formulate come se fossero complete, mentre in verità costituiscono solo parti di una definizione che Fétis aveva solo pensato e non espresso: la «tonalité» — o meglio: la «tonalité mo­

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derne» — è un modo di ascolto storicamente ed etnicamente condizionato, che coglie i rapporti fra i suoni e gli accordi sotto le categorie della «ten­ sione» e del «riposo»; la sua impronta più chiara è il contrasto fra accordo di settima di dominante e triade di tonica, che è in correlazione con la ridu­ zione delle scale al modo maggiore e al modo minore. Quando Fétis «defi­ nisce» come tonalità alternativamente le condizioni storiche ed etniche («il principio metafisico»), i rapporti fra i suoni («i rapporti necessari fra i suoni»), il contrasto fra accordo di settima di dominante e accordo di tonica e la scala maggiore e minore, egli non si impiglia in contraddizioni reali, bensì utilizza la figura retorica di considerare una parte per il tutto. 4. «Se ci si domanda — scrive Riemann — in che cosa consista propria­ mente il compito della teoria di un’arte, la risposta non può essere che la se­ guente: esso consiste nell’esaminare approfonditamente le leggi naturali che regolano, consciamente o inconsciamente, la produzione artistica, e nell’esporle in un sistema di tesi logicamente correlate» (16). Il «sistema di tesi logicamente correlate» che Riemann intende è la teoria funzionale, e non c’è dubbio che le «leggi naturali» che sono state riconosciute dalla teo­ ria funzionale, erano state «colte intuitivamente» anche nell’antichità e nel medioevo (17), senza però venir formulate in maniera inequivocabile. «An­ che la semplice melodia a una voce dei capolavori dell’arte antica che ci sono pervenuti, si fonda completamente su basi armoniche» (18). Fétis era più prudente. Egli menziona diversi «types de tonalités» (19) senza cercare di ridurli ad un unico principio, e a proposito della «gamma maggiore dei cinesi» e della «gamma minore degli irlandesi» osserva: «In queste tonalità le successioni delle nostre armonie diventerebbero inesegui­ bili» (20). Tuttavia per Fétis la «tonalité moderne» è, non diversamente che per Riemann, l’unico sistema nel quale egli possa sentire i rapporti fra i suoni come «rapporti necessari». Persino la «tonalité ancienne» del XVI se­ colo gli è estranea e incomprensibile. Egli definisce, è vero, la «tonalité an­ cienne» come «ordine unitonico» e la «tonalité moderne» come «ordine transitonico» (21); però anche se sembra che alla base di queste definizioni ci sia un’interpretazione della «tonalité ancienne», ciò è solo un’illusione: il contrasto — proprio in base alle stesse premesse di Fétis — è formulato in maniera erronea. Segni distintivi della «tonalité moderne» sono da una parte l’accordo di settima di dominante, e dall’altra il definire «note di tensione» il III e il VII grado della scala maggiore (suoni che distano di un semitono dai successivi) armonizzati con accordi di sesta. La definizione di «tonalité moderne» come «ordine transitonico» non significa altro che la capacità da parte del­ l’accordo di settima di dominante, che costituisce la Tonart, di essere con­ temporaneamente un mezzo per rendere riconoscibile un cambio di Tonart. La «tonalité moderne» può quindi essere «transitonica», però non ha biso­ gno di esserlo. Quale più antico documento della «tonalité moderne» Fétis

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cita le batt. 9-19 e 24-30 del madrigale di Monteverdi Cruda Amarilli. «Nel passaggio qui riportato del madrigale di Monteverdi si vede una tonalità de­ terminata dalla proprietà dell’accordo perfetto sulla tonica, dall’accordo di sesta attribuito al terzo e al settimo grado, dalla scelta facoltativa dell’ac­ cordo perfetto o dell’accordo di sesta sul sesto; infine dall’accordo perfetto, e soprattutto da quello di settima senza preparazione, con la terza mag­ giore, sulla dominante (22). La «tonalité ancienne», la tecnica accordale di Palestrina, viene caratterizzata da Fétis in modo esclusivamente negativo: come deviazione dalle regole della «tonalité moderne». Poiché essa manca dell’accordo di settima di dominante e l’accordo di sesta vi è impiegato in modo arbitrario, non possiede né «tensione» né «attrazione» (23). «Vi si trova solo una successione di accordi perfetti indipendenti gli uni dagli al­ tri» (24). La differenza cui Fétis pensa senza spiegarla è quella esistente fra determinatezza e indeterminatezza. La «tonalité ancienne», così come la intende Fétis, non è «unitonica», ma vaga, e la ben delineata «tonalité mo­ derne», inequivocabilmente definita dall’accordo di settima di dominante, può essere non solo «transitonica», ma anche «unitonica». Il fatto che la Tonart cambi o che si stabilisca una sola Tonart, è un segno secondario, che Fètis dichiarava essere primario per poter formulare l’antitesi fra «transitonico» e «unitonico» e per evitare di confessare di non essere in grado di de­ finire la «tonalità ancienne». *

Non ci sarebbe nulla di più errato che vedere una fetta di un passato or­ mai morto nel contrasto fra Fétis e Riemann — un contrasto tra fonda­ mento «naturale» e «storico-etnico» della tonalità, tra deduzione dei rap­ porti tonali dalle «affinità fra i suoni» e riferimento all’antitesi fra «ten­ sione» e «riposo», fra pretesa di un valore ampio della teoria e restrizione ad un suo valore limitato. E sempre un problema stabilire se sia possibile un fondamento «naturale» dell’armonia, se si debbano chiamare «tonali» esclusivamente i rapporti fra gli accordi, se l’accentrarsi dei rapporti fra i suoni o fra gli accordi attorno ad un suono o ad un accordo fondamentale si debba considerare un segno essenziale o accidentale della tonalità. 1) La tesi di Fétis che la tonalità sia un «principe purement métaphisique» indipendente dalle condizioni imposte dalla natura, per non essere esposta a malintesi deve venir differenziata. Che la consonanza — o meglio la graduazione degli intervalli rispetto al grado di consonanza — sia data dalla natura e non sia il risultato di un «assestamento», non viene negato da Fétis. Secondo Fétis, però, sotto il concetto di tonalità cade unicamente la disposizione degli intervalli e non la loro esistenza e il loro carattere. Non l’intervallo di quarta come tale, bensì solo la posizione e la funzione della

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quarta in una certa scala sono un fenomeno «tonale». «La divisione mate­ matica di una corda e i rapporti numerici attraverso i quali si determinano le proposizioni degli intervalli non possono formare una scala musicale, perché nelle loro operazioni numeriche gli intervalli si presentano come dei fatti isolati, senza legame necessario fra loro, e senza che niente determini l’ordine in cui essi debbano essere collegati; da cui si conclude che ogni gamma o scala musicale è il prodotto di una legge metafisica nata da certi bisogni o da certe circostanze relative all’uomo» (25). Gli intervalli di quinta e di terza sono fatti naturali, ma «fatti isolati»; il collegamento dei «fatti iso­ lati» si fonda su una «legge metafisica». Per «metafisica» Fétis non intende altro che antropologia: «È così che egli fece vedere che le disposizioni la­ scive dei popoli orientali hanno originato i piccoli intervalli dei loro canti languorosi; che lo scoraggiamento dei popoli fatti schiavi ha fatto nascere tutte le scale minori...» (26). Contro il sistema di Riemann, Fétis eccepi­ rebbe che anche se la quinta e la terza maggiore, in quanto intervalli «diret­ tamente intelligibili», sono dati dalla natura, la decisione di porli alla base di un sistema è «metafisica». La «legge di Lipps-Meyer» e la teoria di Jacques Handschin della «Tongesellschaft» sono da intendersi come tentativi di spiegare in base alla na­ tura delle cose o degli uomini oltre i «fatti isolati», anche il loro «legame necessario». a) La «legge di Lipps-Meyer» (27) afferma che l’effetto ultimo («Finaleffekt») di un intervallo dipende dal fatto che «il suono finale dell’intervallo sia rappresentabile o meno con il numero 2 e/o con una sua potenza» (28). Alle successioni solido1, mi^do1, re1-do1 e Si-do1 la legge attribuisce un «effetto finale», ai rivolti do^sol1, do^mi1, do1-re1 e do^-Si un «effetto di continuazione»; ciò perché rappresentanti del numero 2 sono il suono infe­ riore della quinta (do^-sol2 - 2:3), della terza maggiore (do1-mi1 — 4:5) e del tono intero (do1-™2 = 8:9) e il suono superiore del semitono diatonico nella «accordatura naturale» (Si-do1 = 15:16). Secondo la «legge di LippsMeyer» lo ionico o il maggiore sono Tonarten «naturali», il frigio «artifi­ ciale»: la finalis dello ionico attira su di sé degli «effetti finali» (soll-do1, mi1-do1, re^-do1, Si-do1), il frigio invece degli «effetti di continuazione» (re^mi1, fa^mi1, la^mi1, do1-mi1). La «legge di Lipps-Meyer» implica dunque un fondamento «naturale» del modo maggiore. Se però la legge sia una legge naturale dell’ascolto musicale o se essa — come risultato di espe­ rimenti con cavie umane cresciute nella tradizione della tonalità maggiore — presupponga la tonalità maggiore che sembra fondare, è un problema che deve restare aperto. Ed anche il tentativo di sostenere la legge con ar­ gomentazioni storiche sarebbe difficile, se non inutile. Accanto alla clau­ sola ionica cu' «tegg® di Lipps-Meyer» attribuisce un «ef­ fetto finale», nel periodo dal XIV al XVI secolo era possibile la clausola fri-

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già (^efmio), che secondo la «legge di Lipps-Meyer» ha un carattere di «continuazione». Però presumere che la clausola frigia debba sentirsi come cadenza più debole sarebbe un’ipotesi storicamente rilevante solo se ci fossero circostanze storiche che potessero venir spiegate in base ad essa. b) Secondo Jacques Handschin (29), il diatonismo eptafonico rappre­ senta un sistema chiuso, il cui intervallo costitutivo è la quinta. I caratteri dei suoni dipendono dalla loro posizione all’interno della successione di quinte fa-do-sol-re-la-mi-si; il carattere del mi è più simile al carattere del la o del si, che a quello del do o del fa. La proprietà intrinseca del suono, che Handschin chiama «carattere», è quindi un’essenza di relazioni; il carattere del suono è, per così dire, la posizione occupata all’interno del sistema, o, viceversa, la posizione nel sistema è la rappresentazione esterna del carat­ tere del suono. Handschin però definisce il carattere del suono non solo for­ malmente, come concetto correlativo alla posizione nel sistema, ma anche dal punto di vista del contenuto: i suoni «inferiori» della serie delle quinte —fa, do, sol — sono «più stabilizzati, più affermativi» dei suoni «superiori» — la, mi, si (30). E la caratteristica contenutistica implica un fondamento «naturale» della tonalità maggiore. In Do maggiore, fa, do & sol sono le fondamentali della sottodominante, della tonica e della dominante, la, mi e si sono le terze; la tonalità maggiore mette quindi drasticamente in risalto che la qualità naturale dei suoni fa, do, sol è «più assestata e più afferma­ tiva» di quella dei suoni la, mi, si (31). Per la verità, nel modo maggiore il suono la non è riferito al fa in modo indiretto come quarta 5a, ma in modo diretto come 3a nella serie degli armonici; e la spiegazione del modo mag­ giore sarebbe in sé contraddittoria se presupponesse che i caratteri dei suoni sono legati all’interpretazione del diatonismo come successione di quinte. Sembra però che la differenza fra il sistema di quinte fa-do-sol-re-lami-si e il sistema di qmnteltexze fa-la-do-mi-sol-si-re non modifichi niente al fatto che la somiglianza o la dissomiglianza dei caratteri dei suoni dipende dalla vicinanza o dalla lontananza dei suoni nella successione delle quinte; perché anche nella Tonart di Do maggiore, che presuppone il sistema di terze/quinte fa-la-do-mi-sol-si-re, i suoni la e mi sono, come terze, più simili fra loro nel «carattere», che la terza la rispetto alla fondamentale della sot­ todominante fa. Il sistema di quinte/terze dei rapporti fra i suoni e il sistema delle quinte dei caratteri dei suoni, dunque, non si escludono. La tonalità minore però rovescia la prospettiva del carattere dei suoni; l’asserzione che fa e do siano «assestati e affermativi» anche come terze minori sarebbe un paradosso. È vero che fa e do nel modo minore sono — esattamente come nel modo maggiore — più simili fra loro che fa e re oppure do eia', la somi­ glianza, la cui misura è determinata dalla distanza misurata in quinte, conti­ nua ad esistere, però essa modifica il suo contenuto. Dunque solo la defini­ zione formale del carattere dei suoni come posizione «rispetto all’interno»

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del sistema è inconfutabile. Se però nella fondazione della tonalità mag­ giore si rinuncia alla parte relativa ai contenuti, viene contemporaneamente a cadere quella relativa all’aspetto «naturale».

2) Quando Hugo Riemann parlava di «Tonalitàt», intendeva gli stessi fenomeni di Fétis, ma era convinto, al contrario di Fétis, che i «types de tonalités» fossero riducibili ad un unico principio, il sistema delle tre funzioni accordali di tonica, dominante e sottodominante. La tesi di Riemann fu ri­ gettata da storici ed etnologi, che temevano la coazione del sistema come dogma empiricamente insostenibile; e l’ammissione che la validità dello schema-delle-tre-funzioni è limitata all’armonia dal XVII al XIX secolo, ha avuto come conseguenza che il concetto di tonalità perse i suoi tratti defi­ niti. Si poteva o ritornare al termine di Fétis — che abbracciava la totalità dei «types de tonalités» — e sacrificare l’interpretazione di Riemann, o, vi­ ceversa, mantener ferma la parificazione riemanniana del concetto di tona­ lità con lo schema-delle-tre-funzioni e di qualificare come «tonale» esclusi­ vamente l’armonia dal XVII al XIX secolo. E poiché non si lasciò cadere nessuna delle possibilità, il termine divenne ambiguo (32). Per evitare ogni confusione, occorre distinguere fra tonalità «armonica» e tonalità «melodica». Per cadere sotto il concetto di tonalità, le relazioni fra i suoni non hanno bisogno di essere riducibili a rapporti fra accordi. D’altra parte, la tonalità definita per mezzo di categorie melodiche — tonalità che precede quella armonica del XVII secolo, basata sugli accordi — è definibile come «modalità». E si può ammettere di abbreviare il ter­ mine «armonicamente tonale» con «tonale» solo se «tonale» viene inteso in opposizione a «modale». Di conseguenza, «tonalità» sarebbe tanto un con­ cetto generico, quanto un concetto opposto a «modalità».

3) Se il porre come centro dei rapporti fra i suoni o gli accordi un suono fondamentale o un accordo fondamentale si debba ritenere segno essen­ ziale o accidentale della tonalità, è incerto o sembra esserlo. La rinuncia al segno che definisce il «porre al centro» riduce la «tonalità» a una generica indicazione di rapporti fra suoni; «tonalità» e «sistema sonoro» diventano sinonimi, nella misura in cui non si intende «tonalità» come «principio» e «sistema sonoro» come «fenomeno». «Tonalità significa senza dubbio che si può stabilire un sistema di relazioni e di interdipendenze fra le armonie che occupano l’area di un linguaggio sonoro» (33). In primo luogo, tuttavia, è su­ perfluo indicare lo stato di cose implicato dall’espressione «sistema sonoro» con un secondo termine; e, in secondo luogo, la rinuncia al segno che defi­ nisce il «porre al centro» costringe a complicazioni linguistiche: si deve inte­ grare il termine «tonalità» con un’aggiunta per esprimere il fatto che si in­ tendono rapporti fra suoni o accordi riferiti a un centro, oppure, come pro­ pone Rudolf Reti, si deve parlare di «tonicalità».

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Per la verità, la rinuncia non è così priva di motivazioni come sembre­ rebbe. Essa è motivata al negativo: dal timore di chiamare «atonali» i rap­ porti fra suoni o accordi che non si raggruppano attorno ad un centro. Per non dover parlare di «atonalità» si allarga il concetto di tonalità fino al punto in cui esso non significa altro che il fatto che i suoni formano un in­ sieme e non stanno l’uno accanto all’altro senza che fra essi non vi sia un rapporto. Il dilemma sembra essere inevitabile. Quando Edward E. Lowinsky de­ signa con il termine «atonalità triadica» la tecnica accordale di taluni madri­ gali cromatici del XVI secolo (34) e con questo termine intende il fatto che gli accordi vengono collegati gli uni agli altri senza essere riferiti a un cen­ tro, sul piano logico non c’è niente da obiettare contro il suo modo di usare le parole. Lowinsky però nega che la «tonalità» sia, oltre che una categoria sistematica, anche una categoria storica. La tonalità del XVI secolo e quella del XIX secolo sono gradi di uno sviluppo continuo. Ma la «atonalità» del XVI secolo non è per niente collegata a quella del XX secolo. I fatti che Lo­ winsky denomina «atonali» non danno luogo, a differenza di quelli «to­ nali», a rapporti che giustifichino di sussumerli nella stessa categoria. La «atonalità», trasferita dalla musica del XX secolo a quella del XVI secolo, diventa un concetto generico e confuso, privo di contenuto effettivo. *

Le conclusioni si possono riassumere in poche frasi. 1) L’espressione «tonalità armonica», sinonimo della «Tonalitàt» di Riemann e della «tonalité moderne» di Fétis, designa la rappresentazione di una Tonart mediante rapporti fra accordi riferiti ad una tonica come centro.

2) Se o in quale misura la tonalità armonica si fondi nella natura della musica o dell’uomo, deve restare un problema aperto. Il tema dello studio dell’origine della tonalità armonica nella polifonia del XVI e del XVII se­ colo può venir trattato senza che si debba decidere se l’«origine» sia da in­ tendere come evento esclusivamente storico, o come impronta di uno stato di cose tracciato dalla natura. 3) Il porre al centro attorno ad una tonica vale come segno essenziale della tonalità armonica senza che d’altra parte si debba parlare, nel caso che tale centratura manchi, di «atonalità». Alla base dei fenomeni che Lo­ winsky chiamava «atonali» sta, come si vedrà, un principio definibile positi­ vamente, cosicché la caratteristica negativa diventa superflua.

169 NOTE § 1 (1) H. Riemann, voce «Tonalitàt», in Musik-Lexikon, Leipzig, 19097. Similmente Ernst Kurth afferma: «Il concetto di ‘Tonalitàt’ implica il rapporto unitario degli accordi con una tonica intesa come centro e perciò contiene un duplice presupposto: in primo luogo l’e­ sistenza di momenti concatenati, secondariamente l’esistenza, o quanto meno l’ideale ricostruibilità di un centro tonale» (Romantische Harmonik und ihre Krìse in Wagners «Tris­ tan»), Bern, 1920, p. 273). (2) F.J. Fétis, Traité complet de la théorie et de la pratique de Vharmonie, Paris, 18792, p. XL (3) J.Ph. Rameau, Nouveau système de musique théorique, Paris, 1726, p. 59: «Remarquons done bien que le titre de Cadence parfaite n’est annexé à une Dominante qui passe au Son principal, qu’en ce que cette Dominante qui est naturellement comprise dans l’Harmonie du Son principal, semble reourner comme à sa source, lorsque elle y passe». H. von Helmholtz, Die Lehre von den Tonempfindungen, Braunschweig, 1863, vol. II, p. 488: «Quando da do-mi-sol passo a sol-si-re mi rivolgo ad un’armonia che ho già sentito all’in­ terno del primo accordo e la cui entrata è quindi preparata». H. Riemann, Musikalische Syntaxis, Leipzig, 1877, p. 14: «In Fa maggiore do* è un’armonia costituita dagli armonici di fa*» (con il simbolo do* Riemann indica la triade di Do maggiore). (4) F.J. Fétis, op. cit., p. XI sg.. (5) Ibid., p. 249. (6) M. Hauptmann, Die Natur der Harmonik und derMetrik, Leipzig, 1853, p. 21. (7) F.J. Fétis, op. cit., p. III. (8) Ibid., p. 251. Cfr. anche p. 21 sg.. (9) Ibid., p. 26. Cfr. anche pp. 34, 81, 88,235. (10) H. Riemann, Geschichte der Musiktheorie, Berlin, 19202, p. 253. (n) H. Riemann, voce «Tonalitàt», in Musik-Lexikon, cit.. Nella Prefazione alla 7a. ed. dello Handbuch der Harmonielehre (Leipzig, 1917, p. XVII) Riemann è più prudente. Egli spiega «il rapporto diretto dell’armonia di terza con 3+ e IIP invece che con (D) [Tp] e rispettivamente °Sp (3 è la terza superiore e III la terza inferiore); ad esempio: do*-mi*-sol* do* = T 3+ D T e do*-lab*-fa*-do* = T IIP S T», ed aggiunge: «Attenzione però a non pen­ sare che in questo modo io apra la strada alla sostituzione dei simboli funzionali D e S con 5 e V. Al contrario, con l’impiego eccezionale delle cifre 3 e III intendo porre in rilievo la pro­ blematica relativa alle armonie di terza che rinnegano la scala». (12) F.J. Fétis, op. cit., p. 22. (13) JtóZ.,p.VII. (14) Ibid., p. 249. (15) Ibid., p. III. (16) H. Riemann, Geschichte der Musiktheorie, cit., p. 470. (17) 7òzJ.,p. 470. (18) Zbzd.,p. 471. (19) F.J. Fétis, op. cit., p. XII. (20) Ibid., p. 2^. (21) Ibid., p. 174. (22) Ibid.,p. 166. (23) Ibid., p. 152.

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(24) Ibid.,p. 165. (25) F.J. Fétis, voce «Fétis», in Biographic universelle des musiciens, Paris, 18622, vol.

III.

(26) Ibid.. (27) M.F. Meyer, The Musicians Arithmetic, in «The University of Missouri Studies», gennaio 1929. (28) H.H. Drager, Die «Bedeutung» der Sprachmelodie, KongreBbericht Hamburg 1956, p. 73. (29) J. Handschin, Der Toncharakter, Zurich, 1948. (30) Ibid., p. 7. (31) ZtaZ.,p.264. (32) H. Lang, Begriffsgeschichte des Terminus (Tonalitàt), diss., Freiburg i. Br., 1956 (datt.). W.E. Thomson, Clarification of the Tonality Concept, diss., Indiana University, 1952. (33) E. Krenek, Music Here and Now, New York, 1939, p. 108. (34) E.E. Lowinsky, Tonality and Atonality in Sixteenth-Century Music, Berkeley-Los Angeles, 1961, pp. XII e 39.

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§ 2.

Excursus sul concetto di armonia

«Contrappunto» è un concetto tecnico-compositivo, «armonia» invece è un concetto filosofico e un termine che interpreta, più che indicare, uno stato di fatto musicale. «Armonia» significa combinazione fra diversi o fra contrari. La spiega­ zione e il fondamento dell’armonia furono cercate, fino al XVII secolo, nelle proporzioni numeriche della tradizione pitagorico-platonica. A par­ tire dal primo medioevo (*) nella musica il concetto di armonia abbracciò in primo luogo la combinazione dei suoni in una successione o anche in gruppi di suoni in una melodia; secondariamente, la combinazione dei suoni in un bicordo o dei suoni e degli intervalli in una triade; in terzo luogo il collega­ mento di bicordi in una successione di accordi; in quarto luogo il rapporto fra le voci in una composizione polifonica; da ultimo la connessione di ac­ cordi in una successione.

1) L’applicazione del concetto di armonia alla melodia, la «modulatio», nel primo medioevo non significa altro che le distanze fra i suoni furono in­ terpretati come intervalli determinati razionalmente, come «consonantiae». «Harmonia est modulatio vocum et consonantia plurium sonorum vel coaptatio» (2). Però nel XV secolo le melodie non venivano definite come armonie solo per il fatto che i suoni formano intervalli razionali, ma anche perché una melodia deve consistere di diverse, e non uguali, successioni di suoni. Il concetto complementare ad «harmonia», alla combinazione degli opposti, è la «varietas». Quando Tinctoris nel Diffinitorium impiega le es­ pressioni «armonia» e «melodia» come sinonimi e nel Liber de arte contrapuncti vieta le ripetizioni di identiche successioni di suoni perché trasgredi­ scono il principio della «varietas», vengono indicate con formulazioni appa­ rentemente sconnesse due facce della stessa medaglia^). Non è determi­ nante solo l’accordarsi, ma anche che è la diversità ciò che si accorda. 2) A partire dal XIII secolo il concetto di armonia venne applicato an­ che agli agglomerati verticali. L’Anonimo I, che in quasi tutte le parti del suo trattato si appoggia, tranne che nella definizione seguente, sulla Ars cantus mensurabilis di Francone, definisce la «concordantia» come una «harmonia duorum vel plurium sonorum in eodem tempore prolatorum» (4). Gafurio (1496) ammette come armonie solo le consonanze di tre suoni, e non quelle di due. La limitazione non significa però un’anticipa­ zione del concetto di armonia «in senso moderno» (5). «Hinc falso sunt ar­ bitrati qui consonantiam et harmoniam idem esse posuerunt. Nam quam­ quam harmonia consonantia est, omni tamen consonantia non facit harmo­ niam. Consonantia namque ex acuto et gravi generatur sono: Harmonia

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vero ex acuto et gravi conficitur atque medio» (3 *6). Il restringimento del concetto di armonia sembra essere necessario perché Gafurio, per poter graduare le consonanze di tre suoni in perfette e imperfette, oltre che della maggiore o minore diversità dei suoni e della semplicità o complessità dei rapporti numerici, aveva bisogno di un terzo momento definitorio dell’«armonia»: la priorità della «proporzione armonica» su quella «aritmetica» e «geometrica». Con la teoria delle proporzioni si motivava matematicamente l’imperfezione dell’accordo di quarta e ottava (proporzione aritme­ tica 4:3:2) e la perfezione dell’accordo di quinta e ottava (proporzione ar­ monica 6:4:3). «Dispositis vero tribus chordis secundum harmonicam medietatem... ea tunc producetur melodia quam proprie harmoniam vocamus: Haec nempe duabus consonantiis inaequalibus constat, quae ex dissimilibus proportionibus (majore quidem majoribus numeris, minore minoribus) conducuntur» (7). Però il principio, se lo si commisura al contrappunto del XV secolo come realtà musicale, è esposto ad una reductio ad absurdum. In primo luogo perché Gafurio è costretto a spiegare l’accordo di ottava e duo­ decima (proporzione armonica 6:3:2) come perfetto ed invece l’accordo di quinta e duodecima (proporzione aritmetica 3:2:1) come imperfetto e a ca­ ratterizzare come completamente difettoso l’accordo di ottava e ottava, che rappresenta la proporzione geometrica 4:2:1 ed è composto da intervalli uguali e non diversi, e quindi non soddisfa l’ipotesi del concetto di armonia. In secondo luogo perché secondo la tradizione antica le proporzioni degli intervalli sono rovesciabili: il suono più grave poteva corrispondere al nu­ mero più grande, ma anche al più piccolo.

3) Si consideri ora l’impiego del concetto di armonia alle successioni ac­ cordali nel Tractatus de contrapunctu (1412) di Prosdocimo de Beldemandis. Prosdocimo permette le successioni parallele di consonanze imperfette, però le limita, in quanto una successione di seste o di terze non interrotta o articolata da un’ottava o da una quinta è una durezza che contraddice l’ar­ monia — ossia il principio della combinazione del diverso o del contrario. «Quarta regula est hoc, quod contrapunctare non debemus cum combinationibus imperfecte concordantibus continue, nullam combinationem perfecte consonantem interponendo, quum tunc ita durum esset hoc cantare, quod in ipso nulla penitus reperietur armonia, que armonia finis totalis musice existere videtur» (8). Quel che è nuovo non è la pretesa o il divieto, ma la motivazione attraverso il richiamo al concetto di armonia. Come norma di tecnica compositiva vale lo scambio regolare fra consonanze perfette e imperfette: «Semper una consonantia et altera dissonantia cantari debet. Possumus facere duas vel tres ad plus dissonantias et postea sequi debet conconantia... Consonantia et consonantia perfecta idem sunt, et dissonan­ tia et consonantia imperfecta pro eodem habentur» (9).

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4) Il concetto di armonia del XVI secolo leggibile dall’uso che Zarlino fa del termine, abbraccia tutti i momenti della composizione polifonica: la combinazione di suoni in una successione; l’accordarsi dei suoni in un bi­ cordo; il rapporto reciproco di bicordi in successione; la combinazione di bicordi in una triade (10); il rapporto fra successioni di suoni e ritmi in voci diverse. Il principio, l’origine e il punto di partenza dell’armonia musicale è la distanza fra i suoni determinabile razionalmente. «Come è manifesto: che se alcuno ode una cantilena, che non esprime altro che l’Harmonia: pi­ glia solamente piacere di essa, per la proportione, che si ritrova nelle di­ stanze de i suoni, o voci» (n). Premessa di una «Harmonia» è una «varietà» o «diversità»; e contro il principio della «varietà», quindi anche dell’«Harmonia», vanno secondo Zarlino non solo le consonanze perfette parallele, ma anche le imperfette della stessa ampiezza. «Conciosiache molto ben sa­ pevano, che l’Harmonia non può nascere se non da cose tra loro diverse, discordanti et contrarie et non da quelle ch’in ogni cosa convengono. La onde se da tal varietà nasce l’Harmonia sarà dibisogna che nella Musica non solo le Parti della Cantilena siano distanti l’una dall’altra per il grave et per l’acuto ma etiandio che le loro modulationi siano differenti ne i movimenti et che contenghino varie Consonanze contenuti da diverse proportioni» (12). Successione di suoni e agglomerato verticale sono manifestazioni diverse della stessa armonia. Nella sua spiegazione della regola secondo cui un compositore che voglia esprimere «aprezza, durezza, crudeltà» con una «Harmonia» deve impiegare intervalli senza semitoni, Zarlino menziona successioni di suoni come il tono intero accanto ad agglomerati come la Tredezime (n). E nella definizione di contrappunto come «modo di Harmo­ nia, che contenghi in sé diverse variationi di suoni, o di voci cantabili, con certa ragione di proportioni et misura di tempo» (14), anche il ritmo viene sussunto nel concetto di armonia. Nel pensiero di Zarlino è caratteristica la figura sintattica «non solamente, ma anco», e il suo concetto di armonia, che abbraccia tutti i momenti della composizione, non ammette nessuna in­ terpretazione unilaterale che miri ad una preminenza della condotta delle parti o della successione accordale, del bicordo o della triade. 5) D’Alambert, l’esegeta di Rameau, non indica come «Harmonie» i singoli accordi, ma il loro collegamento. «Si chiama accordo la combina­ zione di più suoni che si fanno sentire contemporaneamente; e l’armonia è in senso proprio una successione di accordi che si susseguono lusingando l’organo» (15). Sembra quasi che la consonanza e la dissonanza siano pen­ sate come momenti opposti che si uniscono in un’armonia. Perché nel si­ stema di Rameau il cambio della qualità accordale è uno dei momenti fon­ danti del rapporto tonale. La dominante e la sottodominante vengono defi­ nite prima di tutto non come gradi tonali (V e IV), ma come tipi accordali: ogni accordo di settima è una «dominante», ogni triade con una «sixte ajou-

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tèe» è una «sousdominante»; il rapporto diretto con la tonica è il segno di­ stintivo attraverso il quale si distingue una «dominate tonique» (V7) da una «simple dominante», cui non segue direttamente la tonica (II7 e VI7). La tonica non è un centro di riferimento presupposto, ma la meta e il risultato della risoluzione di una dissonanza: la settima della «dominante tonique» viene risolta con un movimento di seconda discendente nella terza della triade di tonica, la «sixte ajoutée» della «sousdominante» viene risolta con un movimento di seconda ascendente nella terza della triade di tonica. L’u­ nità della Tonart rappresentata da accordi è quindi un’armonia che risulta da un contrasto — dal contrasto fra «dominante» o «sousdominante» disso­ nante e «tonique» consonante.

NOTE § 2 Lo studio di H. Hùschen sul Harmoniebegrìff im Musikschrifttum des Altertums und des Mittelalters (KongreBbericht Kòln 1958, pp. 143-150) sarebbe da integrare con due os­ servazioni: 1) Secondo Hùschen il concetto di armonia è passato attraverso le più diverse de­ finizioni a seconda del mutare del contenuto concettuale (p. 143). Mutati però sono, a ri­ gore, non il contenuto e la definizione del concetto — « armonia» è sempre stata la combina­ zione di diversità o di opposti —, ma unicamente il suo ambito e la sua applicazione. Non è il concetto di armonia che è stato definito in maniere diverse, ma sono stati di cose diversi ad essere definiti come «armonia». 2) La «perequazione con musica» sostenuta da Hiischen è problematica. Restringere o ridurre la «musikè technè» alla «harmonikè techné» implica o un’astrazione non solo del inguaggio, ma anche del ritmo, oppure una sussunzione anche del ritmo, delle durate temporali, sotto il concetto di armonia. (2) Isidoro di Siviglia (cit. da H. Hiische, voce «Harmonie», in MGG V, col. 1610); la frase non significa che «harmonia» viene definita come «modulatio», ma viceversa che la «modulatio» viene riconosciuta come un’armonia. Nella «modulatio» (il «modus movendi») le proporzioni numeriche vengono rappresentate sia dalle distanze fra i suoni, sia dai ritmi. «Quindquid in modulatione suave est, numerus operatur per ratas dimensiones vocum; quindquid rhythmi delectabile praestant sive in modulationibus, seu in quibuslibet rhythmicis motibus, totum numerous efficit» {Musica Enchiriadis, GerbertS I, p. 195; cfr. H.H. Eggebrecht,ylr