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Italian Pages 400 [396] Year 2014
M arida Nicolaci
LA SALVEZZA VIENE DAI GIUDEI Introduzione agli Scritti giovannei e alle Lettere Cattoliche
SAN PAOLO
© ED IZIONI SAN PAOLO s.r.L, 2014 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) ISBN 978-88-215-9256-0
A i miei studenti del V anno istituzionale della Facoltà teologica di Sicilia «San Giovanni evangelista»
PREM ESSA
Gli scritti attribuiti a Giovanni, Pietro, Giacomo e Giuda hanno origine, forma, contenuti, finalità e destinatari diversi. Eppure sono stati accostati sin dalla fine del III secolo d.C., quando le tre Lettere giovannee e quelle attribuite agli aposto li e ai familiari di Gesù di origine palestinese furono riunite assumendo la forma stabile di una raccolta di Lettere dette «Cattoliche». Il raggruppamento è riconoscibile con chiarezza negli elenchi canonici e nei manoscritti del Nuovo Testamento del IV e V secolo. Da dove derivò il riconoscimento di questa «cattolicità» come elemento in grado di accomunare scritti co sì diversi? La nozione di cattolicità emergente nel canone dal legame riconosciuto tra questi scritti ha qualcosa da dire, dal punto di vista storico e teologico, alle chiese cristiane del terzo millennio in cerca della propria identità? La qualifica di «Cattoliche» va intesa, anzitutto, nel senso etimologico di «universale, generale». Agli antichi lettori cri stiani il messaggio delle sette Lettere sembrava oltrepassare i limiti di singole comunità geograficamente collocate. Tale mes saggio, soprattutto, esprimeva in modo esplicito, strutturale e costitutivo l’eredità giudaica e la prospettiva di fede dei testi moni palestinesi di Gesù di Nazaret assunta come normativa per le chiese accanto a quella di Paolo apostolo delle genti. La raccolta delle Lettere Cattoliche, infatti, ha molto da dire ri guardo alla «concezione o, se si vuole, costruzione delle origi ni cristiane in rapporto con la quale la collezione si è formata
e che questa a sua volta ha certamente contribuito a far recepire»;1 una costruzione delle origini cristiane, cioè, nelle quali era irrinunciabile fissare per sempre il volto giudaico dell’ekklèsia nei suoi tratti più caratteristici. Il corpus giovanneo e le Lettere Cattoliche ci rappresentano, dunque, il volto perennemente «giudaico» della professione di fede neotestamentaria in Gesù di Nazaret, un volto indispen sabile alla sua «universalità» proprio per la sua particolarità, unicità, storicità; ci mostrano come il massimo dell’universali tà - ben espresso nel linguaggio degli Scritti giovannei - dipen da dal massimo della particolarità o, più concretamente, dalla deflagrazione accaduta all’interno del giudaismo stesso in e a causa di un’unica persona, il «giudeo» Gesù di Nazaret. Dice tutto questo qualcosa anche del Dio di Israele rivelato nelle Scritture ebraico-cristiane? Penso di sì: anche, e soprat tutto, in ragione del fatto che il messaggio teologico ricono sciuto e custodito in questo evento di deflagrazione interna al giudaismo è inseparabile dalla sua forma storica, contingente, e offre un’importante lezione anche sulle modalità corrette di comprensione della storia e sulla necessità di non astrarre mai la teologia e la dottrina dalla concretezza delle vicende storiche occorse ai singoli e alle comunità. Nella ricerca storica degli ultimi decenni sulle origini cristia ne, la questione dell’identità giudaica di Gesù e dei suoi primi seguaci, come quella del lungo processo che nell’arco di 150 anni finì per trasformare Yekklèsta in una realtà del tutto di versa e, addirittura, antagonista a quella della synagoge, sono tra le più spinose e cruciali. La ricerca su questo fronte ha avuto molteplici implicazioni anche per lo studio critico del Nuovo Testamento e ciò mi consente di giustificare ulterior mente il senso della mia proposta. Scritti giovannei e Lettere1 1 E. N orelli, «Sulle origini della raccolta delle Lettere Cattoliche», in Rivista Biblica 59(2011), 520.
Cattoliche rappresentano tradizioni giudeo-cristiane peculiari del Nuovo Testamento, talvolta con forti legami tradizionali e intertestuali interni, che alzano il velo sul delicatissimo proces so di deflagrazione interno al giudaismo, simultaneamente sto rico e teologico, da cui è dipesa e dipende l’identità cristiana. Meritano per questo di essere abbracciati insieme come gli scritti del Nuovo Testamento che meglio ci custodiscono i trat ti giudaici caratteristici e irrinunciabili del volto del Cristo, del vangelo e della chiesa. Spazio maggiore è stato dedicato nel volume al corpus gio vanneo e, in esso, all’esegesi e teologia del Quarto Vangelo, data l’importanza cruciale di questo testo e dell’intero corpus nella costruzione dell’identità e teologia cristiane e nella attua le, rinnovata riflessione sui processi di tale costruzione colle gabile, a mio avviso in modo rilevante, anche alla peculiare memoria storica di Gesù di Nazaret nella tradizione e nei testi giovannei (si pensi, per esempio, alla questione del presunto antigiudaismo degli Scritti giovannei e delle sue conseguenze nella genesi di un antisemitismo “cristiano”). Diversamente che nel caso del corpus giovanneo, al termine della seconda parte del volume manca un capitolo dedicato alla teologia delle Lettere Cattoliche: come si avrà modo di rilevare, più che di una teologia caratteristica e comune di que ste Lettere, ricostruibile su basi storico-letterarie, si dovrebbe parlare piuttosto dei tratti perennemente giudaici del volto della chiesa che esse, in modo diverso l’una dall’altra, hanno rappresentato e intenzionalmente trasmesso anzitutto come testi singoli e, successivamente, in quanto collezione canonica. L’elaborazione di una teologia comune e unitaria delle Lettere Cattoliche non dipenderebbe più, a questo punto, tanto dalla relazione storico-letteraria tra i testi stessi - solo in alcuni casi chiaramente ricostruibile - quanto dalla storia dei loro effetti e dalla loro ricezione ecclesiale come raccolta canonica. Esula, quindi, dallo scopo di questo manuale. Dai tratti giudaici del
volto della chiesa e della fede delle origini, emergenti in modo diverso dalle Lettere Cattoliche e dagli Scritti giovannei, cer cherò di trarre alcuni spunti, spero stimolanti sul piano teolo gico ed ermeneutico, nelle pagine conclusive del volume. Un ringraziamento particolare vorrei rivolgere, infine, ai colleghi dell’area biblica della Facoltà teologica di Sicilia, e specialmente al prof. R. Pistone che ha voluto iniziare e porta re avanti, attraverso seminari e convegni di studio specialisti ci, una riflessione approfondita sul corpus delle Lettere Catto liche quando ancora la discussione, in ambito europeo, era solo agli inizi.2
2 Se non segnalato altrimenti, la traduzione dei testi biblici citati estesamente è mia. I manoscritti di Qumran saranno citati secondo l’edizione di F.G. Martinez (a cura di), Testi di Qumran, Paideia, Brescia 2003 con traduzione italiana dai testi originali e note di Corrado Mattone. Nei riferimenti bibliografici delle note si troverà solo il cognome dell’autore citato (con eventuale numero di pagina del testo); nel caso di più testi del medesimo autore, anche il rimando al titolo del testo utilizzato. La citazione integrale dei testi si troverà nella bibliografia raccolta al termine di ogni capitolo, mentre quella dei testi già citati in un capitolo si ometterà nella bibliografia dei capi toli successivi. Si troveranno citati per esteso nelle note, invece che nella bibliografia dei capitoli, solo i testi non direttamente afferenti al campo d’indagine e richiamati una sola volta.
PRIMA PARTE
IL CORPUS GIOVANNEO
IL «PEN TA TEU CO » GIOVANNEO
Attribuiti a un «Giovanni» il canone neotestamentario ci consegna cinque scritti che, per la varietà dei rispettivi generi letterari, costituiscono già essi stessi una sorta di «Nuovo Te stamento» e una riscrittura dei «libri» di Israele: un Vangelo, che rappresenta il racconto fondatore su Gesù Cristo Figlio di Dio salvatore (Tórah); tre Lettere, che ne dispiegano il messag gio e lo applicano con discernimento al contesto di vita delle comunità credenti che su quello fondano la loro identità (Sa pienza) ; il libro della Apocalisse, cioè dello «svelamento/rivela zione», che come «parola profetica» tratteggia davanti agli occhi delle chiese in ascolto il senso e l’esito complessivo della storia umana dal punto di vista del piano salvifico di Dio com piuto in Gesù Cristo (Profezia)} In effetti, se c’è un corpus letterario nel Nuovo Testamento che spicca per l’uso pregnante di uno specifico vocabolario, la costanza di alcuni temi, la prossimità di background, di presup posti teologici, di problematiche affrontate e, almeno per Van gelo e Lettere, anche di stile, questo è proprio il corpus giovan neo. L’origine comune dei testi che lo compongono, d’altronde, sembra fosse un dato evidente per i copisti e i lettori della chiesa antica che, sin dalle inscriptiones o subscriptiones con cui ce li hanno consegnati nella tradizione manoscritta, hanno mostrato di riconoscerla e hanno inteso significarla attribuenCfr. Simoens, 6.
done la paternità letteraria a una personalità all’apparenza uni ca di nome «Giovanni», poi soprannominato «il teologo»2 e identificato come «apostolo» ed «evangelista». Di questi scritti, però, l’unico che reca effettivamente il no me di Giovanni come nomen auctoris è il libro dell’Apocalisse (Ap 1,1.4.9; 22,8) che tanto ai lettori antichi quanto, soprattut to, ai commentatori moderni, è apparso spesso il meno giovan neo tra i cinque. Già Dionigi di Alessandria (III secolo d.C.), il cui giudizio è riportato da Eusebio di Cesarea {Storia della chiesa 7,25), sosteneva che l’Apocalisse fosse stata scritta cer tamente da un Giovanni, un uomo santo e ispirato, ma che questi non poteva essere identificato con lo stesso Giovanni autore del Vangelo e della Prima lettera. Ugualmente, oggi, sempre più studiosi sembrano ritenere insuperabili le differen ze tra Vangelo/Lettere da una parte e Apocalisse dall’altra; sempre più frequentemente, quando si parla del corpus giovan neo, ci si riferisce ormai soltanto a Vangelo e Lettere. La rela zione storica, letteraria e teologica tra gli scritti attribuiti a «Giovanni», come l’identità del loro autore (o autori), resta dunque argomento dibattuto e costituisce il nodo centrale del la cosiddetta «questione giovannea». I diversi tentativi di solu zione di quest’ultima dovrebbero chiarire come e perché i cinque scritti attribuiti a Giovanni, pur diversi nel genere let terario, nei contenuti, negli obiettivi specifici e nelle strategie comunicative, manifestino tra loro somiglianze talmente forti, una parentela così stretta da renderli un microcosmo autono mo, ben identificabile (e tradizionalmente identificato) nel Nuovo Testamento.
2 ORIGENE, Commento al Vangelo di Giovanni, frammenti, I su Gv 1,1.
Il «Pentateuco» giovanneo
1. Gli Scrìtti giovannei a confronto La questione della forte continuità e, al contempo, della discontinuità tra i cinque scritti che compongono il corpus gio vanneo è stata affrontata in modo analitico a diversi livelli: genere letterario, stile, lessico, temi e prospettive teologiche. Somiglianze e differenze risultano evidenti soprattutto nel con fronto tra Vangelo/Lettere e Apocalisse, non solo al livello macroscopico del genere letterario ma anche a quello lessicale e tematico. Non sono però meno sorprendenti quelle tra il Vangelo e le Lettere. Sembra, anzi, che sia proprio il modo in cui le stesse espressioni e gli stessi temi vengono declinati a fare la differenza.3 Tuttavia, ferme restando la differenza di genere letterario e le anomalie specifiche dell’Apocalisse sul piano grammati cale e sintattico, mi sembra opportuno rilevare, anzitutto, che lo stile di ciascuno dei cinque Scritti giovannei è prossimo e familiare a quello degli altri del medesimo corpus più che a quello di qualunque altro scritto neotestamentario. Tutti usa no una koinè greca semplice dall’impronta marcatamente semitica e con scarsa variazione di vocabolario. Anche sul piano semantico e concettuale, le differenze non possono es sere esagerate al punto da oscurare le più forti prossimità e l’insistenza caratteristica su alcuni temi o direttrici teologiche comuni a Vangelo e Lettere o a Vangelo e Apocalisse o, infine, a tutti gli scritti. Il lessico e i temi della testimonianza, del credere/fede, della vita, della vittoria; la cristologia della P a rola e il cristocentrismo della rivelazione (Gv 1,1-18; lG v 1,1-4; Ap 1,1-3; 19,11-16); l’etica fondata sull’«amare» e sul «mantenere/custodire la parola/i comandamenti» (Gv 8,5155; 14,15-24; 15,9-10.20; 17,6; lG v 2,3-5; 3,22-24; 5,3; Ap 1,3; 3,8-10; 12,17; 14,12; 22,7-9); l’ecclesiologia intesa e vis’ Cfr. H akola, 18-29.
suta come esperienza di comunione e di testimonianza tra fratelli (Gv 15,27; 20,17; 21,23-24; lG v 2,9-11; 3,7-17; 4,2021; 5,16; 3Gv 3.5.10; Ap 1,9; 6,11; 12,10; 19,10; 22,9); il pro tagonismo pervasivo attribuito allo Spirito in tutti gli scritti; il debito evidente che tutti manifestano nei confronti dell’apo calittica e la compresenza dialettica di diversi modelli di com pimento escatologico (realizzato in Cristo, realizzantesi nei credenti che già possiedono la «vita» mentre vivono l’«ultima ora», destinato a manifestarsi pienamente in cielo e terra nuo vi); la soteriologia fondata sulla venuta (nella carne) del Cri sto-Logos e sul suo mistero pasquale (con evidenti allusioni al mondo cultuale nella presentazione di Gesù come «agnel lo» nel Vangelo e nell’Apocalisse e come «propiziazione» per i peccati in lG v 2,2; 4,10; «manifestato» per «togliere il pec cato» in Gv 1,29.31; lG v 3,5): sono, questi, altrettanti segni della prossimità concettuale e coappartenenza originaria degli Scritti giovannei. Una visione del mondo che si esprime mediante un linguag gio e uno schema di pensiero dualistico li governa, infine, in teramente, con un contenuto e una finalità che sono certamen te cristologici ma più profondamente teocentrici e, coerente mente, soteriologici ed ecclesiologici: «c’è un solo Dio sovrano, ma un duro conflitto tra tutto ciò che è di Dio e ciò che è op posto a Dio. Gli esseri umani si schierano perciò in un campo o nell’altro».4 In tutti gli scritti del corpus tale framework dua- ' listico è utilizzato, non a caso, in chiave polemica, sia che ber saglio storico ne siano gruppi giudaici o l’imperialismo romano (Vangelo e Apocalisse: Gv 8,44; Ap 2,9; 3,9) sia che bersaglio metaforico ne sia, più strutturalmente, il mondo con le sue dinamiche oppressive e idolatriche (Vangelo, Lettere, Apoca lisse: Gv 1,10; 7,7; 8,23; 12,31; 15,18-19; 16,33; 18,36; lG v 2,15-17; 3,1.13; 5,4-5.19; 2Gv 7; Ap 11,15). 4 CULPEPPER, 23.
La connessione interna e originaria tra i cinque Scritti giovannei appare ancora più forte, poi, se alla stretta parentela contenutistica si aggiunge la coerenza sul piano formale ovve ro la coscienza ecclesiale da cui originano e che li identifica sul più ampio sfondo degli scritti del Nuovo Testamento. L’unità originaria del corpus sembra stare proprio nel «noi» ecclesiale che emerge risolutamente in Vangelo e Lettere (Gv 21,24; lG v 2,19; 3,14; 4,6; 5,19; 2Gv 2; 3Gv 8) e si esprime anche come «noi» liturgico (Gv 1,14.16; Ap 1,5-6), un «noi» presupposto dal dialogo «io-voi» del veggente dell’Apocalisse, «fratello e compagno» dei suoi destinatari nella tribolazione fedelmente sostenuta per il regno (Ap 1,9; 6,11; 12,10; 19,10; 22,9). Dalla consapevolezza di questo «noi» ecclesiale, prima che dall’«io» autoriale che presiede alla stesura dei singoli testi, gli Scritti giovannei promanano come testimonianza originale, specifica e unitaria del compimento delle attese e delle Scritture di Israe le. Caratterizzati, tutti e ciascuno, da una consapevolezza spic cata ed esplicita del gesto autoriale e del suo significato teolo gico nell’economia della rivelazione biblica,5 essi si presentano complessivamente come vera e propria «Scrittura del compi mento messianico e del dono escatologico dello Spirito».6 La coappartenenza originaria di questi scritti rimane, dun que, a mio avviso l’ipotesi che meglio spiega la familiarità che in essi si respira.
5 Cfr. il modo in cui si insiste sul lessico della scrittura («scrivere», grdpho, «libro», btblion: Gv 19,19-22; 20,30-31; 21,24-25; lG v 1,4; Ap 1,10-11.19; 2,1.8.12.18; 3,1.7.14; 14,13; 19,9; 21,5) e le formule che chiudono il libro dell’Apocalisse dando ad esso l’autorità dei libri sacri (Dt 4,2; 13,1 ; 29,19 e Ap 22,18-19; Dn 12,4 e Ap 22,6-10). 6 Così, riguardo al Quarto Vangelo, si esprime VlGNOLO, 131, nota 41. Si vedano anche le osservazioni di HENGEL, 258 e 302 sul Vangelo e l’Apocalisse come «sacra scrittura» nell’ambiente giovanneo. Qualche rilievo significativo, pur se limitato all’Apocalisse, si trova anche in Pérez Màrquez, 358-371.
Data la somiglianza non solo nella fondamentale terminolo gia teologica ma anche nella visione del mondo, non c’è da meravigliarsi che nella chiesa antica tanto le Lettere (specialmente 1 Giovanni) quanto l’Apocalisse siano state poste in stretta relazione con il Quarto Vangelo e attribuite a un unico autore, l’apostolo Giovanni. Sia i dati interni ai testi che le stesse testimonianze patristiche, tuttavia, dimostrano la pro blematicità di tale attribuzione.
2.1.1 dati intratestuali e la tradizione patristica Come si è accennato, l’unico dei cinque scritti che porta il nome «Giovanni» come nomen auctoris è l’Apocalisse e in nes suno di essi, Apocalisse compresa, l’autore si fregia del titolo di apostolo o si presenta come membro del gruppo dei Dodici. A questo primo dato elementare se ne aggiungono altri. - Il Vangelo ha una doppia conclusione (Gv 20,30-31 e 21,24-25) e i suoi ultimi versi (21,24-25) spingono a ritenere che il «d i scepolo che Gesù amava» (13,23-26; 19,25-27; 20,2-8; 21,7.2123), cui la testimonianza evangelica viene complessivamente ricondotta, si distingua dall’«io» del redattore finale del testo e dal «noi» ecclesiale che pone il proprio sigillo sulla testimo nianza del discepolo amato. - Nel racconto giovanneo si notano contemporaneamente una forte unità stilistica e coerenza narrativa, riconducibili alla pre tesa autoriale sottesa al testo (esso è attestazione scritta della testimonianza oculare del discepolo amato), e tensioni lettera rie difficili da spiegare (si veda l’apparente incoerenza narrati va tra 14,31 e 15,1 e la riapertura, col c. 21, di ima narrazione che sembrava conclusa). E inevitabile chiedersi, quindi, se il Vangelo sia un testo composto da un’unica mano dal primo all’ultimo capitolo (un «abito senza cuciture», cfr. Gv 19,23) o
il frutto di un processo redazionale complesso («un mantello variopinto confezionato mettendo insieme vari pezzi di tessuto»).7 - In 1 Giovanni si ode la voce di un singolo che parla con auto revolezza e autorità a nome di un «noi» testimoniale (lG v 1,14 e 2,1.7.8.12-14; 5,13) ma questi non è identificabile a partire da un nome proprio né da titoli relazionali o funzionali. In 2 e 3 Giovanni l'«io» autoriale emerge con altrettanta forza ma, stavolta, fregiato di un titolo di origine giudaica («il presbitero» o «ranziano»: 2Gv 1; 3Gv 1) che esprime la sua identità rela zionale nei confronti dei destinatari: egli è per loro e presso di loro Tunico “anziano” riconosciuto, per dignità, autorevolezza e probabilmente anche per età. Si tratta, nel giudizio di molti, dello stesso autore di 1 Giovanni. Ma si identifica, questi, con il discepolo amato? Si identifica con Y«io» redazionale finale del Vangelo? - Quando ci si sposta all'Apocalisse, lo scenario sembra mutare sensibilmente, anche per il diverso genere letterario dei testi: al linguaggio e alle argomentazioni, progressivamente più dot trinali e dirette, di Vangelo e Lettere si sostituisce un linguaggio visionario, criptico, saturo di allusioni e di simboli. L'autore del testo si presenta, stavolta, in modo articolato ai suoi destinatari anche nell'intento comprensibile di legittimare la «rivelazio ne di Gesù Cristo» di cui si fa latore. Il suo nome proprio, «Giovanni», compare a volte in apposizione al pronome di prima persona singolare («Io, Giovanni»: Ap 1,9; 22,8), altre accompagnato da diverse qualificazioni relazionali («servo» in rapporto a Dio in 1,1; «fratello e compagno» in rapporto ai destinatari in 1,9), altre ancora senza ulteriori specificazioni (1,4). In rapporto alla «rivelazione» di cui si fa latore, il G io vanni dell'Apocalisse è testimone, tramite la scrittura, di ciò che «ha visto» (1,2.11.19-20) e «udito» (22,8) e che consegna, in forma di lettera, ai suoi destinatari (1,4-3,22; 22,21). Mem bro di una comunità di credenti che egli identifica come suoi 7 La prima similitudine è di D.F. Strauss che protestava contro la tendenza a scom porre il Quarto Vangelo in più fonti già fortemente presente nell’esegesi del X IX se colo. L’immagine antitetica del mantello variopinto è invece quella che emerge dall’ese gesi giovannea del X X secolo (cfr. HENGEL, 21).
«fratelli» (1,9; 6,11; 12,10; 19,10), condivide con loro la consa pevolezza di una identità profetica (22,9) e non si definisce mai né presbitero né discepolo né apostolo. Sembra, anzi, guarda re ai «dodici apostoli dell'Agnello» come a personaggi del pas sato (21,14). Molto più chiaramente che nel caso di Vangelo e Lettere, Fautore dell'Apocalisse «si presenta come un giudeo, anzi un vero giudeo», in contrapposizione a coloro che si dico no giudei senza esserlo (cfr. Ap 2,9; 3,9 ma anche Gv 8,39-47), «entro un gruppo di giudei che credono in Gesù Cristo».8 - Le testimonianze patristiche, infine, mostrano la rapida diffu sione degli Scritti giovannei già entro la prima metà del II secolo e la loro attribuzione a un «Giovanni discepolo del Signore». Ma l'identificazione di questo discepolo amato con l'«apostolo» Giovanni membro del gruppo dei Dodici, che Ireneo sembra suggerire (Contro le eresie 1,9,2; 2,22,5; 3,1,1; 3,3,4; 5,30,4), sintetizza tradizioni molto più complesse, come quella di Papia di Gerapoli (Eusebio, Storia 3,39,3-7) o del frammento muratoriano, che sembrano distinguere nettamen te il «Giovanni discepolo del Signore», autore degli scritti, dagli apostoli appartenenti al gruppo dei Dodici. Le testimo nianze successive, fino anche al V secolo (si veda la Storia cristiana di Filippo di Side o il Decreto gelasiano), mostrano come nelle chiese si distinguesse tra un Giovanni «apostolo» e un Giovanni «presbitero». Voce isolata ma significativa, Policrate di Efeso, alla fine del II secolo, nella lettera a papa Vittore (riportata da Eusebio, Storia 3,31,3 e 5,24,2-3) diceva che Giovanni, il discepolo amato morto a Efeso, era stato sa cerdote «avendo portato la lamina d'oro», «testimone» e «m a estro». Se interpretata alla lettera, come il tenore del testo spingerebbe a fare, l'affermazione implicherebbe che Giovan ni appartentesse a una stirpe di sommi sacerdoti e avesse offi ciato, anche occasionalmente, nel tempio.9 8 Così L upieri, lvil 9 Questa è la tesi sostenuta vigorosamente da Rigato, secondo la quale l’evidente e pervasivo interesse dell’autore del Vangelo per il tempio e il culto potrebbe spiegar si perfettamente alla luce dell’identità sacerdotale e della collocazione gerosolimitana del discepolo amato. Se il discepolo amato fosse un personaggio vicino all’ambiente sadduceo dei sommi sacerdoti, si spiegherebbe anche la sua padronanza della lingua greca e di alcuni concetti chiave dell’ambiente ellenistico.
Dai dati interni ed esterni, dunque, si può rilevare quanto segue: - Un «io» autoriale emerge con forza in ciascuno dei cinque scrit ti, senza nome proprio tranne che nell'Apocalisse. Se nel caso del Vangelo l'anonimato potrebbe spiegarsi dal punto di vista formale come caratteristica del genere, nel caso delle Lettere la mancanza del nome proprio può spiegarsi solo col fatto che i destinatari dei testi erano a conoscenza dell'identità del mitten te. In ogni caso, è una peculiarità dei testi giovannei il fatto che la loro stesura e la loro importanza siano messe in relazione alla loro origine da una personalità individuale nota e di indi scusso rilievo per i destinatari (sia esso il discepolo amato, il presbitero o il profeta-veggente Giovanni). - In tutti gli scritti, questo «io» autoriale appare sempre collega to a un «noi» che è ecclesiale, fraterno, testimoniale, liturgico, accomunato da un'esperienza di tradizione e di vita di fede del tutto particolare. Tutti i cinque Scritti giovannei, in fondo, han no in comune, pur nella differenza di genere, il fatto di essere una «testimonianza» resa a Gesù Cristo, nella e per la vita dei credenti. Sembra essere proprio una firma giovannea l'insisten za sulla attendibilità della testimonianza che in essi viene resa e che trova nella testimonianza di Gesù la sua scaturigine sto rica e teologica e in quella dei rispettivi autori la mediazione ecclesiale autentica. - La presenza di questi elementi comuni non basta da sola, tut tavia, a risolvere il problema della paternità degli Scritti gio vannei nella direzione di un unico autore. Dirimere la questio ne dell'unità letteraria del Quarto Vangelo, in senso favorevole o contrario, potrebbe risultare decisivo per capire anche in quale direzione cercare più fruttuosam ente la soluzione dell'enigma giovanneo, se guardando nella direzione di un sin golo, di una comunità o di entrambi. - La tradizione patristica conferma che verso la fine del II seco lo si conveniva sulla parentela strettissima tra Vangelo, Lettere e Apocalisse e sull'identificazione del loro autore in Giovanni l’anziano, «discepolo del Signore», suo testimone storico, esi liato a Patmos, tornato a Efeso e vissuto fino al tempo di Tra-
«fratelli» (1,9; 6,11; 12,10; 19,10), condivide con loro la consa pevolezza di una identità profetica (22,9) e non si definisce mai né presbitero né discepolo né apostolo. Sembra, anzi, guarda re ai «dodici apostoli dell’Agnello» come a personaggi del pas sato (21,14). Molto più chiaramente che nel caso di Vangelo e Lettere, Fautore dell’Apocalisse «si presenta come un giudeo, anzi un vero giudeo», in contrapposizione a coloro che si dico no giudei senza esserlo (cfr. Ap 2,9; 3,9 ma anche Gv 8,39-47), «entro un gruppo di giudei che credono in Gesù Cristo».8 - Le testimonianze patristiche, infine, mostrano la rapida diffu sione degli Scritti giovannei già entro la prima metà del II secolo e la loro attribuzione a un «Giovanni discepolo del Signore». Ma l’identificazione di questo discepolo amato con l’«apostolo» Giovanni membro del gruppo dei Dodici, che Ireneo sembra suggerire (52) e si possiedono più copie papiracee di Giovan ni che di qualunque altro testo del Nuovo Testamento, quat tordici delle quali databili a prima del 300.2 È diventato nei secoli il testo forse più importante per lo sviluppo della teolo gia cristiana, ma i suoi primi commentatori furono, intorno alla metà del II secolo, gli gnostici valentiniani. E quello in base al quale, come già accade nel Diatessaron di Taziano (po co dopo il 170 d.C.), si è immaginata nella tradizione cristiana la durata del ministero di Gesù scandito da più di una pasqua e da più visite a Gerusalemme in occasioni di altre feste, ma è anche quello che nell’esegesi storico-critica è stato maggior mente penalizzato per la ricostruzione storica del profilo e della vita del Gesù terreno, giudicati incompatibili con i tratti 1È il titolo dell’opera di KYSAR. 1 La 28a edizione critica del Nuovo Testamento di Nestle-Aland, del 2012, elenca trenta testimoni papiracei di parti del testo giovanneo rispetto ai ventidue elencati nella precedente edizione del 1993. Di questi, quattordici sono datati al III secolo, tre entro il 200 ($p52, *p66 e sp90).
che essi assumono nel racconto giovanneo per il loro spessore troppo “teologico”. E quello il cui cardine ermeneutico sta nel riconoscimento della radicale umanità del Logos Dio, ma è anche quello che per qualcuno farebbe risaltare più chiaramen te la «maestosa atemporalità del divino»345 o farebbe di Gesù «palesemente e dichiaratamente un extra-umano».4 E il Van gelo che più di tutti lascia trasparire l’identità giudaica di G e sù e dei credenti in lui, ma è quello in rapporto al quale si fa più fatica a difendersi dall’accusa di un anti-giudaismo inscrit to nel DNA stesso del cristianesimo.5 Per coglierne il fascino e carattere indipendente occorre partire, anzitutto, dal confronto con i Vangeli sinottici.
1.1. Giovanni e i sinottici Se ciascuno dei Vangeli canonici rappresenta la declinazione diversa e peculiare (secondo Matteo, Marco, Luca, Giovanni) di un unico modello comune {vangelo), nel caso del Quarto Vangelo la declinazione del modello comune è talmente origi nale e si distacca così fortemente da quella degli altri tre - det ti, appunto, «sinottici» - da far dubitare che lo si debba con siderare un «vangelo» alla stregua di quelli e non, piuttosto, un insieme di meditazioni cristologiche che del genere «vangelo» assumono solo strumentalmente ed esternamente la forma. Per chi conosce i racconti sinottici, infatti, entrare nel Quarto Van gelo significa entrare quasi in un altro universo: si pensi all’ini zio col prologo poetico (1,1-18), alla presentazione maestosa della figura di Giovanni il battezzatore primo testimone di G e sù (1,6-8.15; 1,19-34), al racconto così diverso degli inizi del 3 Così Brown, Introduzione, 131. 4 K ysar, 21. 5 Si vedano MARCHESELLI, «Antigiudaismo», e GARRIBBA - G uida.
discepolato gesuano (1,35-51) e al primo vertice narrativo rag giunto a Cana con «il principio dei segni» e la «manifestazione della gloria» di Gesù (2,1-12); oppure, per altri aspetti, all’enor me spazio occupato da dialoghi e discorsi rispetto ai pochi fatti raccontati, alcuni dal tono rivelatorio e pedagogico (3,121; 4,1-26), altri serrati, nervosi, violenti (8,21-59; 10,22-39). Se si fa eccezione per alcuni episodi o detti in comune e per alcune tappe fondamentali della storia di Gesù (per esempio, l'inizio in relazione al battezzatore Giovanni e la fine negli eventi pasquali), le differenze tra il racconto giovanneo e quel lo sinottico sono macroscopiche a diversi livelli: - nella parabola spazio temporale: non un solo anno di ministero pubblico culminante nella pasqua di morte e risurrezione a Gerusalemme, ma almeno due anni in cui, durante le princi pali feste giudaiche, la predicazione e Fattività pubblica di Gesù si concentrano e sviluppano soprattutto a Gerusalemme; - nel materiale utilizzato: nessun esorcismo e solo sette miracoli o «segni»; non controversie in materia di purità, digiuno ecc. ma solo due dispute generate da segni operati in giorno di sa bato; non brevi detti gesuani ma ampi e strutturati discorsi teologici funzionali alla relazione tra i protagonisti del raccon to in cui spiccano, in modo particolare, i detti «io sono» con cui Gesù attesta la propria missione dal Padre, la propria fun zione e la propria identità relazionale;6 - nel lessico: mancano termini relativi all'annunzio come kèryssd e kerygma, euangélion ed euangeltzd o alla conversione come metanoia e metanoéd\ si preferisce, invece, un lessico simboli camente più aperto ed evocativo, suscettibile di doppi sensi, spesso in costruzioni linguistiche oppositive e dualistiche: vita morte; luce-tenebra; giorno-notte; verità-menzogna; alto-basso; Dio-mondo; si costruiscono, con questo, campi semantici po derosi e strutturanti per il messaggio del testo, come quello 6
Si vedano BROW N, Giovanni, 1482-1489 e, per approfondimento, i testi di
WILLIAMS.
della rivelazione, quello processuale, quello della missione, dell’identità, dell’agire, delle relazioni. Ancor più che il diverso materiale di costruzione o il modo diverso di utilizzare lo stesso materiale, ciò che fa risaltare lim pidamente la differenza tra Giovanni e i sinottici è proprio il modo di raccontare la storia di Gesù (la story), il modo in cui (il «come») viene annunziato il messaggio evangelico (il «co sa»), cioè la costruzione del racconto.7 Se «la storia raccontata costituisce il film degli avvenimenti così come il narratore ha deciso di comunicarlo al lettore (o, eventualmente, così come se l’è rappresentato egli stesso)»,8 in Giovanni è proprio la struttura del film a cambiare! I protagonisti. In Giovanni, come nei sinottici, ci si trova davanti a personaggi individuali e collettivi, ad (ambigui) an tagonisti e (ambigui) aiutanti.9 Ciò che ci interessa, al momen to, è sottolineare come spariscano dalla scena giovannea alcu ni protagonisti tipici della scena sinottica, come «gli scribi», i «dottori della Legge» e i «sadducei», e ne compaiano in primo piano altri come boi ioudaioi («i Giudei»), personaggio collet tivo apparentemente generico ma difficilissimo da classificare, 7 Nel linguaggio della narratologia, la storia raccontata (la story, la fabula) non è la storia accaduta, l’insieme dei «fatti» così come sono successi e si potrebbero crona chisticamente elencare (la history), ma là loro ricostruzione narrativa in un determi nato ordine logico e cronologico. Tale ricostruzione, poi, può essere realizzata in modi diversi, a seconda della costruzione del racconto (l’intreccio) operata da un concreto narratore: la costruzione del racconto, dunque, «è la forma conferita al rac conto dal narratore, il che implica da parte sua la scelta di una struttura, uno stile, una disposizione» (Marguerat- B ourquin, 27). 8 Ivi. 9 Se fino a un decennio fa si tendeva a leggere nel Vangelo una rigida contrappo sizione tra un «fronte della fede» e un «fronte della incredulità», ciascuno dei quali rappresentato in modo cristallino e antitetico dall’uno o dall’altro personaggio, è me rito della ricerca più recente l’aver mostrato quanto tale contrapposizione sia un frain tendimento del testo e come, al contrario, i personaggi giovannei siano estremamente plastici e complessi o, spesso, anche ambigui: cfr. HYLEN.
il cui ruolo è decisivo nella trama del Vangelo. In primo piano appaiono anche singoli personaggi di cui non si fa menzione alcuna nei sinottici (la donna di Samaria, Nicodemo, Natanaele, il cieco nato, il discepolo amato) e in alam i casi la loro storia personale attraversa in parte o in foto, come uno sfondo pron to a diventare figura, lo sviluppo del racconto stesso intreccian dosi intimamente con la storia di Gesù.10 Personaggi che nei sinottici hanno un ruolo importante, come i Dodici, in G io vanni compaiono come attori del racconto solo una volta (cfr. 6,67-71), mentre singoli discepoli come Andrea, Filippo, Tom maso, che nei sinottici vengono solo elencati o quasi, emergo no, sullo sfondo del più ampio gruppo di «discepoli», come interlocutori particolarmente significativi di Gesù. Le grandi scene. Se il racconto sinottico procede fino al cul mine pasquale tramite il collegamento di numerosi episodi e/o detti letterariamente autonomi rappresentativi dell’attività di Gesù, l’intreccio stretto tra gesti e parole, che già caratterizza la tradizione sinottica, in Giovanni si traduce nella creazione di poche e grandi scene drammatiche, con una propria unità di tempo, spazio e azione, che possono occupare anche diver si capitoli e concorrere a formare ampie e ben individuate se zioni del testo (la sezione della prima pasqua a Gerusalemme in 2,13-3,21; la sequenza galilaica in 6,1-7,1; la sezione della lesta delle Tende nei cc. 7-8 o quella della cena nei cc. 13-17). Quando, poi, si notano dei passaggi improvvisi da una cornice spazio-temporale all’altra o da un’azione all’altra (cfr. passaggio dal c. 5 al c. 6 o da 7,45-52 a 8,12-59), è come se sul palcosce nico teatrale del testo si assistesse a un cambio di scena deter minato dall’esaurirsi - talvolta solo temporaneo o parziale - di Cfr. Giovanni il battezzatore in 1,6-8.15.19-35; 3,23-36; 5,33-36; 10,40-42; Naianaele in 1,43-51 e 21,1-14; Nicodemo in 3,1-21; 7,45-52; 19,38-42; Tommaso in 11,14-16; 14,1-7; 20,24-29; il discepolo amato nei cc. 13-21.
un’azione complessa e delle interazioni tra i protagonisti ad essa connesse, in una sequenza narrativa ben orchestrata che non mancherà di rilevarne puntualmente, progredendo, le con seguenze (cfr. la ripresa dell’azione del c. 5 in 7,14-24 oppure, come esempio di ripresa a grande.distanza, il rapporto tra 1,1935 e 10,40-42). Il quarto evangelista, nel dare forma alle scene e alla loro sequenza, si mostra davvero un «drammaturgo di eccezione».11 Le tecniche narrative. Due sono i modi principali con cui il narratore riesce a imprimere al suo racconto una forte coeren za narrativa e che contraddistinguono il suo Vangelo rispetto a quelli sinottici. Il primo modo è quello dei continui richiami intratestuali ai fatti raccontati prima o dopo nel testo, cioè le analessi e proles si interne al racconto, che non servono tanto a colmare even tuali lacune nella conoscenza del lettore (come sarebbe se i fatti richiamati non fossero o non dovessero essere raccontati altrove nel testo) quanto a richiamargli continuamente la se quenza degli eventi raccontati mostrandone l’intima connes sione da un capo all’altro del Vangelo. Tali richiami intratestua li agli eventi accaduti o futuri nell’asse del racconto possono essere fatti dal narratore, che mediante quelli guida la com prensione del lettore, o dai protagonisti stessi del racconto che in tal modo appaiono al lettore personaggi consapevoli, al pa ri di lui, dello svolgimento della storia raccontata. Così, solo per fare qualche esempio, Gesù può citare se stesso dicendo ai «discepoli» quanto ha già detto a «i Giudei» molto tempo pri ma nel racconto (cfr. 13,33 —» 7,33-36 e 8,21-22) o ribadendo loro, in una tappa successiva del suo discorso, quanto prima ha sottolineato per meglio esplicitarne le implicazioni (cfr. 15,20 - » 13,16); così possono fare alcuni personaggi del rac-
conto che, richiamando le azioni o le parole di altri protagoni sti, manifestano il loro bisogno di capire quanto accade e di collocarsi con un proprio giudizio in rapporto a quello (3,25-26 oppure 10,40-42 in rapporto a 1,19-35; 7,25 in rapporto a 5,18 e 7,1; 10,19-20 oppure 11,37 in rapporto a 9,1-41; 11,7-8 in rapporto a 10,22-39); così, ugualmente, può fare il narratore per mostrare la corrispondenza tra la parola di Gesù e gli even ti (18,9 in rapporto a 17,12 o 18,31-32 in rapporto a 12,32-33) o per fare emergere progressivamente nel lettore la consape volezza del legame tra gli avvenimenti raccontati e i loro pro tagonisti (cfr. 7,50 e 19,39 in rapporto a 3,1-21; 21,20 in rap porto a 13,23 o, come prolessi, 11,2 in rapporto a 12,1-3; 12,3233 in rapporto a 18,31-32 e 19,16-17). Il secondo modo è quello delle cosiddette parentesi giovannee o, come altri amano definirle, le footnotes con cui il narra tore glossa continuamente il proprio racconto, chiarendone l’orizzonte ampio (2,11; 11,51-52), orientandone la compren sione (cfr. 2,17.22; 7,39; 12,16), esplicitandone un senso altri menti oscuro (2,21; 6,71; 8,27; 12,33), mostrando la comples sità dei rapporti tra i personaggi nel tempo stesso in cui si svolge il racconto (2,9; 2,24-25; 6,6; 6,14-15; 7,35-36 / / 8,22; 10,6; 11,13; 13,28-29), pronunciando a volte un grave giudizio su di loro (12,6.43), ironizzando tragicamente (12,9-11) o pre cisando e correggendo quanto prima affermato (4,1-2 rispetto a 3,22). Alcune di queste parentesi possono coincidere anche con analessi o prolessi del narratore (4,46.54 in rapporto a 2,111; 18,14 in rapporto a 11,49-50 o 7,30 e 8,20 in rapporto a 12,23.27-28a; 13,1; 17,1) ma, mentre le analessi o le prolessi possono apparire anche in bocca ai personaggi del racconto, le footnotes sono le tracce di cui l’evangelista dissemina il testo per formarsi il suo lettore ideale, cioè per guidare personalmen te il lettore alla corretta interpretazione degli avvenimenti de scritti, così come lui li ha compresi e intende comunicarglieli, mostrandosi come voce fuori campo continuamente intrusiva!
Attraverso queste tecniche, in Giovanni, diversamente che nei sinottici e nonostante la articolazione apparentemente di sordinata di alcune sezioni (per esempio, il c. 7), la memoria degli eventi si fissa nella mente del lettore che non perde mai il filo del “film”. Basta ch’egli lo “riveda” due o tre volte per poterlo raccontare ad altri senza dimenticarne alcuna concate nazione maggiore. L’effetto così raggiunto dal quarto evange lista potrebbe essere dovuto anche alla mnemotecnica neces saria a ima cultura principalmente orale, com’era quella dell’au tore e dei lettori del Vangelo, e soggiacente alla sua arte retorica: la memoria del narratore, rappresentativa della me moria dei discepoli (2,17.22; 12,16; 14,26; 15,20; 16,4) e strut turata sulla capacità di visualizzare al dettaglio personaggi, luoghi e forme di interazione, si imprime con tale efficacia nella memoria del suo lettore che questi potrebbe riprodurne esattamente il racconto perpetuando in sé e per altri il suo «teatro della memoria».12 Nel costruire il suo racconto in modo così diverso, il quarto evangelista conobbe e usò i Vangeli sinottici? Se ne dissociò consapevolmente e, magari, polemicamente (cfr. Gv 3,24 vs Me 1,14 / / Mt 4,12 e Le 3,19-20)? Li conobbe ma non li usò come proprie fonti, potendo egli disporre di una tradizione persona le autonoma la cui diversità si evince dall’impianto stesso del suo racconto? Oppure non li conosceva affatto? Sulla risposta a queste domande non sembra essersi raggiunto un consenso unanime. Se l’insieme dei dati farebbe propendere, senza esi tazione, per l’indipendenza di Giovanni, alcune informazioni condivise (cfr. Gv 4,44 e Me 6,4 / / Mt 13,57 e Le 4,24) e sor prendenti coincidenze lessicali (cfr. pani per «duecento dena ri»: Gv 6,7 / / Me 6,37; «unguento profumato di nardo genui12 È la suggestione di T hatcher riguardo al significato della memoria nel Quarto Vangelo.
no»: Gv 12,3 / / Me 14,3; «trecento denari»: Gv 12,4 / / Me 14,5) sollevano legittimi dubbi. C ’è chi ha sostenuto la dipen denza diretta da Marco; chi la dipendenza dai tutti e tre i si nottici; chi la conoscenza delle tradizioni sinottiche, piuttosto che dei testi scritti, e contemporaneamente la fondamentale autonomia del quarto evangelista. Allo stato attuale della ricer ca sembra prevalere, perché più convincente sulla base del confronto analitico tra i testi, la tesi di chi sostiene la fondamentale indipendenza letteraria di Giovanni dai sinottici senza però escludere un’«influenza incrociata» tra le diverse tradi zioni proto-cristiane su Gesù nell’arco di tempo che condusse alla redazione finale del Quarto Vangelo.13 D ’altra parte, il lettore che si accostasse per la prima volta ttl Quarto Vangelo incontrerebbe alcune difficoltà se non co noscesse già i sinottici o le tradizioni narrative confluite in essi. Presupposta, infine, è la conoscenza di dati che l’evangelista non fornisce (per esempio, in 21,2 il lettore viene informato ilella presenza di «quelli di Zebedeo», cioè dei fratelli Giacomo e Giovanni, personaggi di primo piano secondo i sinottici mai nominati prima nel Quarto Vangelo). Probabilmente, dunque, la tradizione sinottica costituiva parte del «patrimonio culturale comune» del quarto evangeli sta e dei suoi lettori14 ed è plausibile che il dialogo con precise tradizioni sinottiche (in parte, forse, anche scritte) fosse obiet tivo intenzionale del redattore finale del Quarto Vangelo (cfr. Gv 21,11 vs Le 5,6).
n Brown, Introduzione, 109-120. MS egalla, Il Quarto Vangelo, 73.
1.2. La differenza giovannea e la pretesa autoriale sottesa al Quarto Vangelo La differenza nel materiale utilizzato implica anche un cam biamento nella focalizzazione contenutistica del testo giovan neo. Il tema centrale del Quarto Vangelo non è più l’annuncio del regno di Dio, la remissione dei peccati in vista dell’immi nente avvento del regno e del giudizio, l’evangelizzazione dei poveri e degli emarginati di ogni tipo, ma la questione dram matica della missione, del riconoscimento e/o del rifiuto di Gesù come inviato, Parola escatologica di Dio al suo popolo (e, in esso, al «m ondo»), rivelazione personale dell’identità stessa del Dio di Israele e del suo modo di comunicarsi e do narsi agli uomini manifestando nel Figlio inviato la propria regalità salvifica. I detti «io sono», così caratteristici del lin guaggio di Gesù in Giovanni, riflettono lo stesso spostamento d ’accento che porta alla «penetrante monomania del Gesù giovanneo».15 Da dove, dunque, ima differenza così profonda che gli antichi lettori del testo giovanneo provarono a spiegare cronologicamente e teologicamente parlando di Giovanni come dell’«ultimo» a scrivere, dopo i sinottici, e del suo come di un «vangelo spirituale (pneumatikón)» che avrebbe inteso dare nuova prospettiva ai racconti degli altri dedicati alle dimensio ni «corporee» (tà sòmatikà) del suo ministero (Clemente di Alessandria, Ipotiposi, citato da Eusebio, Storia della chiesa 6,14,7)? I moderni, che si interrogano sempre sulle radici storico letterarie delle differenze “spirituali”, cercano di spiegare la novità guardando alla storia complessa delle comunità giovannee in conflitto progressivo, soprattutto dopo la catastrofe del 70, con il proprio ambiente giudaico d ’origine e, poi, in situa zione di scisma intra-ecclesiale. Alla luce di questa storia si 15 H engel , 182.
spiegherebbero l’intento del quarto evangelista (condurre i lettori alla retta fede cristologica e farli permanere saldamen te in essa), la sua prospettiva specifica sul ministero di Gesù - concentrato, non a caso, su Gerusalemme, sul tempio, sulle feste e sui simboli più importanti del giudaismo del I secolo -, la diversità delle sue tradizioni e la forma drammatica e conflittuale del racconto evangelico che le assume e le trasfor ma conferendo al linguaggio, ai modi e alle strategie del Gesù giovanneo uno spessore cristologico e teologico così diretto e trasparente da renderli difficilmente componibili con quelli del Gesù sinottico. C ’è una parte importante di verità in questa spiegazione storico-letteraria della differenza giovannea, come si è visto affrontando la questione dell’origine dell’intero corpus, ma è solo una parte che non si può far diventare la totalità. Dal testo stesso del Vangelo, del resto, la storia della comunità giovannea non può che essere inferita a rischio di non poca arbitrarietà e, spesso, a detrimento della valorizzazione piena e attenta del la storia raccontata nel Vangelo, i cui protagonisti principali non sono i credenti giovannei alle prese con i loro oppositori teologici, ma Gesù e i suoi contemporanei.16Il narratore stesso, che presenta il suo racconto anzitutto come un «libro dei se gni» compiuti da Gesù «davanti agli occhi dei suoi discepoli» (20,30; cfr. Dt 6,22), avanza da parte sua una pretesa autoriale che merita di essere presa in considerazione quando si cerca un’adeguata comprensione della differenza giovannea e che consiste nella riconduzione ultima delle cose raccontate alla testimonianza oculare di un protagonista degli eventi stessi (21,24). Una simile pretesa non ha pari nei sinottici e si può ritenere sensatamente che la differenza nella pretesa autoriale costituisca la differenza per eccellenza, quella che spiega tutte le altre differenze giovannee. Sia che si intenda il discepolo “ N icolaci, 26-66. Cfr. anche Ku n k .
amato come autore ideale del Vangelo e garante della testimo nianza in esso contenuta, sia che lo si intenda come l’autore reale del testo in una sua prima edizione, sia che lo si intenda come autore reale e ideale dell’intero Vangelo, è anzitutto da lui e dalla sua personale storia discepolare che dipende la di versità della storia giovannea di Gesù.17 È su questa base che si giustifica l’appello insistente alla fede, obiettivo del Vangelo: la narrazione di segni accuratamen te selezionati e presentati così da generare e radicare la fede nei lettori, dipende dalla testimonianza di un discepolo storico da essa e in essa personalmente impegnato. È su questa base, anche, che si spiega la risolutezza con cui il narratore del Quar to Vangelo si fa guida del lettore nell’arco del racconto mo strandosi quanto mai sicuro e affidabile nell’interpretazione delle parole e delle intenzioni di Gesù, nella comprensione degli eventi accaduti e delle loro logiche più profonde, nell’offrire a chi lo ascolta un racconto che è una continua proclama zione della fede che intende suscitare e che, per la sua stessa struttura, esprime non solo la sua esperienza singolare e per sonale ma anche l’esperienza di una comunità celebrante. La testimonianza, infatti, impegna la vita. Non è un caso che il Quarto Vangelo si apra e si chiuda evocando la vita liturgica della comunità che celebra il Verbo divenuto carne (Prologo in 1,1-18) e ne attesta la perenne pre senza in mezzo ai suoi nel segno del pane preso e donato (Epi logo al c. 21): lo sfondo ecclesiale e liturgico dà alla narrazio ne drammatica del Quarto Vangelo una forma anche rituale che è quella che dice ciò di cui è questione, la vera posta in gioco del racconto, che è storica, teologica ed ecclesiologica. Si deve al discepolo amato, alla sua particolarissima storia di17È la tesi, diffusamente argomentata, di B auckham, 12-31, che parla del Quarto Vangelo come di «qualcosa di completamente diverso» e giustifica tale diversità a partire dalla identità del suo autore.
scepolare e alla storia dei giudei credenti in Gesù che l’hanno convissuta e condivisa, di aver saputo riconoscere e proclama re con tanta limpidezza ciò che è in gioco nella vicenda di Gesù di Nazaret: ne va di Dio che si è donato al mondo, della Gloria del suo essere e, dunque, del suo modo di rivelarsi al mondo (1,1-18; 3,16-21.31-36; 4,42; 12,44-50; 17,20-23); ne va del concreto e particolare uomo storico Gesù di Nazaret e del suo destino di passione, sofferenza e morte, valutato, con estremo realismo, anche in rapporto alle inevitabili e ambigue implicazioni sociali e politiche della sua pretesa identitaria e del suo ministero (,14-15; 7,2-10; 11,47-53; 12,42-43; 18,19-21; 19,12); ne va degli uomini e della loro storia, individuale e comunitaria.18 Alcune delle strategie retoriche dell’evangelista ripetutamen te sottolineate dagli esegeti, come l’ironia e il fraintendimento che i personaggi del racconto esprimono nei loro dialoghi o il narratore nei suoi commenti,19 si spiegano bene in questa luce: sostenere l’enigmatico e provocatorio linguaggio di Gesù sen za sfuggirlo, esporsi alle sue pretese senza credere di poterle risolvere frettolosamente o ridurre con sarcasmo (2,20; 4,12; 8,57), stare nel suo linguaggio così da poterlo comprendere fino in fondo (8,31-32.43), è dal punto di vista del narratore assolutamente vitale per i destinatari del suo messaggio, siano essi gli interlocutori storici di Gesù come il narratore li disegna sulla scena (3,10; 8,21-30; 16,29-32), siano essi i contemporanei dell’evangelista e i futuri, potenziali, uditori del suo messaggio. L’ironia del narratore, a volte tragica, si comprende bene su questo sfondo: non significa il disprezzo per interlocutori strut turalmente incapaci di comprendere il linguaggio di Gesù, ma la sofferenza drammatica che il rifiuto di lui comporta per co loro che vi sono coinvolti (5,31-35.43; 15,18-16,4a). Dalla chiu“ Cfr. Reinhaktz, 32-53. 19BROWN, Introduzione, 302-305.
sura e dall’apertura alla pretesa di Gesù dipende la storia dei singoli e delle comunità. E a partire dalla peculiare esperienza storica e di fede del discepolo amato e dei (suoi) «fratelli» nella fede (20,17; 21,23) che si spiega, dunque, il racconto in «noi» che sigilla la prete sa autoriale del Quarto Vangelo;20 un racconto in «noi» che esprime un’identità e un’assunzione di responsabilità coraggio sa e decisa quanto quella espressa dalla narrazione in «io» che, secondo Giovanni, Gesù fa del Dio, delle Scritture, dei simbo li e delle speranze di Israele, e del tutto proporzionale ad essa! Nell’intrigo giovanneo ne va di «noi»: non solo il narratore ma anche il lector è attirato in fabula perché ne va del suo de stino, appeso alla professione di fede in Gesù Figlio dell’uomo (9,35-38). È in lui, infatti, che il discepolo amato ha riconosciu to la figura individuale e, al contempo, comunitaria cui il regno viene consegnato (cfr. Dn 7,13-14.27).
1.3. «Non multa sed multum»; il racconto giovanneo tra storia e teologia Il Quarto Vangelo, dunque, risulta essere un dramma tridi mensionale che ha la verticalità del rapporto Dio-mondo, l’estensione della vita e della pasqua di Gesù di Nazaret e la profondità di campo della storia, tutta “giudaica”, della comu nità messianica. Come coniugare questo con la natura e la finalità del gene re «vangelo» che, in quanto biografia kerigmatica, ha anche una pretesa referenziale? Si può parlare di storicità anche quan do si ha a che fare con la particolare fenomenologia di un vangelo che riesce a saturare di significati simbolici una storia i] 20 Sull’importanza del sigillo comunitario posto alla testimonianza del discepolo (amato in 21,24-25, si veda C ulpepper, «John 21: 24-25», 362-364.
raccontata con estremo realismo? La questione del rapporto tra storia e teologia, evento e significato, fatto e senso, nella costruzione giovannea della storia di Gesù è una delle più dif ficili da affrontare. L’essenza del genere «vangelo» consiste, infatti, nell’affermazione dell’identità tra il Gesù terreno e il Signore risorto pur nel riconoscimento della differenza e di scontinuità tra prima e dopo la pasqua, e ciò rende già per sé arduo il compito degli storici alla ricerca dei tratti della perso na e del ministero di Gesù di Nazaret. Nel caso del Quarto Vangelo, però, la difficoltà del loro compito è elevata al qua drato. La dialettica tra continuità e discontinuità, infatti, non è solo intratestuale, consapevolmente attiva nella narrazione cristologica dell’evangelista, ma è anche intertestuale nella mi sura in cui continuità e, soprattutto, discontinuità appaiono anche tra la narrazione giovannea e le narrazioni sinottiche su Gesù. Se in Giovanni lo spostamento del focus contenutistico è dal vangelo del regno (tema centrale della predicazione del Gesù sinottico) al dramma della rivelazione e del riconosci mento di Gesù in quanto Messia e, dunque, le tradizioni nar rative e discorsive su Gesù sono rielaborate teologicamente e cristologicamente in modo più esplicito e profondo che nei sinottici, come può il suo racconto essere utilizzato nella rico struzione storica? Misurare e valutare l’intenzione referenziale del quarto evangelista avendo come metro di paragone i sinot tici è un’impresa quasi impossibile; quando si tratta di disegna re i tratti dell’uomo Gesù Yaut... aut sembra inevitabile. Così, benché tutti siano disposti a riconoscere il valore sto rico di parecchie indicazioni presenti nel Quarto Vangelo al livello geografico, cronologico, delle tradizioni giudaiche e per sino, in alcuni casi, delle tradizioni narrative su Gesù,21 quando 21 Solo per fare un esempio, nel caso di uno dei pochi racconti comuni alla tradi zione sinottica e a quella giovannea, quello della guarigione del «figlio» (Gv) / «servo» (Mt/Lc) di un funzionario regio di Cafarnao (Gv 4,46-54 / / Mt 8,5-13 e Le 7,1-10), la tradizione giovannea, che parla non di un centurione pagano ma di un funzionario di
si tratta di pronunciarsi sulla sua costruzione del racconto, ar restarsi è quasi un obbligo: Giovanni «il teologo» può difficil mente essere utilizzato come fonte nella ricerca del Gesù sto rico e la «tirannia del Gesù sinottico» sembra difficile da su perare.22 Il G esù degli storici sem bra costretto a restare insuperabilmente «de-giovannizzato» e il Gesù giovanneo «destoricizzato», a non poco detrimento della stessa ricerca stori ca che, più che mai concorde oggi nell’affermare il carattere profondamente giudaico dell’insegnamento e delle pratiche di vita di Gesù, potrebbe guadagnare molto dall’assunzione del punto di vista giudaico del quarto evangelista, almeno in ter mini euristici.23 Lo stesso narratore, tuttavia, fornisce due criteri che posso no fare da guida alla lettura anche sotto questo aspetto. Tanto al livello formale quanto al livello contenutistico, infatti, egli mostra una chiara consapevolezza del senso e delle modalità del proprio racconto: da un lato, perché teorizza esplicitamen te, attraverso la categoria della memoria, il rapporto tra passa to e presente soggiacente ad esso (2,22; 12,16); dall’altro perché ne dichiara esplicitamente contenuto e scopo (20,30-31).
1.3.1. La memoria come chiave di accesso alla costruzione del racconto giovanneo Al livello formale, l’onnisciente e intrusivo narratore del Quarto Vangelo si mostra consapevole del carattere oscuro o enigmatico di gesti e parole di Gesù prima della pasqua e non Erode Antipa (un basilikós) e, dunque, possibilmente di un giudeo, sembra più antica e storicamente attendibile della stessa fonte (Q) da cui sembra attinto il racconto si nottico. 22 B rown, Giovanni, LIV. Della «tirannia del Gesù sinottico» che «dovrebbe esse re gettata nel cestino dei postbultmaniani» parla enfaticamente J.P. Meier, Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, voi. 1, Queriniana, Brescia 32006,52. 23 Cfr. Anderson - J ust - T hatcher (edd.), voi. 1,75-132.
perde occasione per sottolineare l’ignoranza dei suoi contem poranei: non solo gli outsiders o antagonisti, i personaggi non Intimi a Gesù (3,10; 8,27.43; 10,6), ma anche i suoi discepoli, nessuno escluso, nonostante la conoscenza che possono vanta re risultano spiazzati dal maestro (4,27.31-33; 6,68-71; 11,121ì; 13,6-7.27-29; 16,29-32) e devono ammettere ad alta voce tli non capire: «Che significa ciò che ci dice...?» (16,17-18). E proprio in riferimento alla loro difficoltà di comprensione che li narratore arriva a teorizzare la differenza tra due tempi nella relazione discepoli-Gesù esplicitandola in due scene partico larmente importanti del ministero pubblico. All’inizio, ricor dando la parola di Gesù sulla distruzione e ricostruzione del tempio (2,19-21); alla fine, in occasione dell’ultima venuta a ( lerusalemme per la terza pasqua (12,12-19): «Queste cose non le capirono i suoi discepoli al principio (tò proton), ma quando Gesù fu glorificato si ricordarono che queste cose erano scrit te su di lui e queste gli avevano fatto» (12,16). In entrambi i casi il narratore si esprime come voce fuori campo che, a po steriori, guarda agli eventi passati per spiegarne il senso con una comprensione che allora, nel momento in cui essi si erano «volti, non era stata possibile. Egli distingue, perciò, un «pri ma» e un «dopo che Gesù fu risuscitato» o «glorificato»: il «prima» è il tempo passato degli eventi - gesti o parole - vis suti da Gesù e dai suoi discepoli con lui fino alla pasqua; il «dopo» è il tempo successivo agli eventi di passione, morte e risurrezione complessivamente intesi. Se al «prima» corrispon de il fraintendimento (2,20) e la non comprensione (12,16), al «dopo» corrisponde la comprensione del senso delle parole pronunciate nel passato («egli diceva», cioè «intendeva dire») e delle «cose fatte a» Gesù. In entrambi i casi, la comprensio ne di eventi e parole non è espressa attraverso il verbo che esprime conoscenza (gignóskd) ma attraverso il verbo «ricor dare» (mimnéskò) e in entrambi i casi il processo della memo ria, entro il quale si realizza la comprensione piena degli even-
li, include in qualche modo il confronto con la Scrittura che risulta essere la grammatica necessaria per articolare la com prensione stessa.24 La categoria della memoria, esplicitamente collegata nei di scorsi della cena al protagonismo attivo dello Spirito (14,26), viene dunque offerta come chiave di accesso alla costruzione del racconto giovanneo. La memoria non crea o inventa paro le e gesti del passato ma esprime un ritorno su di essi per atte stare una differenza fondamentale tra due tempi: quello del rapporto tra i discepoli e Gesù prima della pasqua e quello del rapporto dei discepoli con Gesù dopo la pasqua; al primo cor risponde ima dimensione di sospensione o non comprensione di quello che, pure, è stato udito ed è accaduto sotto gli occhi; al secondo, invece, corrisponde un processo di recupero del passato pieno di comprensione e di senso e intriso di rimandi alla Scrittura. Nella costruzione giovannea del racconto, resta così salvaguardato tanto il passato di Gesù, con tutta la poli valenza e l’enigmaticità dei suoi gesti e parole, quanto la pie nezza di senso scaturita dagli eventi pasquali che, senza violare la storia con i suoi tempi, ne fa però emergere in filigrana lo spessore e la portata.
1.3.2. La Gestalt giovannea della vita di Gesù: non molte cose, ma in profondità Nett’Institutio Oratoria, scritta più o meno nello stesso pe riodo in cui il Quarto Vangelo raggiunse la sua forma finale (c. 90-96 d.C.), Quintiliano sosteneva che il perfetto oratore do vesse formare la mente e modellare lo stile selezionando sa pientemente le proprie fonti, ovvero leggendo molto, più che di molti (multa magis quam multorum lectione: 10,1,59). Il cri24 Marcheselli, «Davanti alle Scritture».
torio stabilito dal maestro dei retori sarebbe poi diventato una massima valida a diversi livelli: l’importante non è la quantità delle informazioni o delle nozioni apprese ma la loro qualità e profondità (non m ulta sed m ultum ). Il narratore del Quarto Vangelo, per certi versi, sembra gui dato da un criterio analogo. Nel consegnare al lettore il proprio hiblion (20,30-31) egli lo esplicita in questi termini: il suo lavo ro di scrittura ha una pretesa referenziale riguardo all’agire passato di Gesù con i suoi discepoli ma non ha di mira l’esaustività quantitativa; esso offre una selezione efficace di alcuni «segni», tra i «molti altri», fatti sotto gli occhi dei discepoli e giudicati capaci di generare e alimentare continuamente la fe de dei destinatari. Del principio di selezione che guida revan gelista due aspetti si possono qui sottolineare: a) il linguaggio dei «segni» riflette il punto di vista e il retroterra giudaico dell'evangelista che doveva essere condiviso dai desti natari. Esso, infatti, richiama anzitutto la storia fondativa di Israele, cioè la storia della liberazione esodica sotto la guida di Mosè accreditato da Dio mediante i segni compiuti agli occhi del popolo (Dt 6,22, ma anche Es 4,1-9; 7,3; 11,9-10). Al con tempo, però, richiama l'attesa messianica ed escatologica varia mente condivisa da diversi gruppi giudaici nel I secolo. Il com parire di «profeti di segni» nell'arco del I secolo ne è una prova. La selezione del narratore riguarda alcuni «fatti» riconosciuti e presentati narrativamente come «segni», capaci di evocare al lettore l'intervento liberatore del Dio dell'alleanza; fatti, cioè, saturi di valenza simbolica, di potere evocativo, di significato. Il «segno» esprime appunto la natura di un accadimento che, agli occhi di chi lo riconosce tale e come tale lo trasmette, si colloca tra fatto e significato, la storia e la sua interpretazione teologica; b) la duplice finalità («perché crediate... e credendo abbiate vita») esprime la convinzione di fede del narratore che, mediante il testo, si comunica perché anche altri, i lettori, possano parteci
parne per avere la vita. Ordinato a nutrire e plasmare la fede cristologica nella sua compiutezza, il libro dei «segni» non è certo una descrizione neutra di «fatti bruti», ma una proclama zione di fede relativa al significato della persona e della vita di Gesù di Nazaret, un significato che è evidentemente contesta to, che è oggetto di disputa. Anche per questo, tuttavia, il rac conto giovanneo ha a pieno titolo un valore “storico”, non in un impossibile senso cronachistico, ma «nel senso in cui la sto ria ha a che fare non solo con ciò che accadde ma anche col più profondo significato di ciò che accadde».25
Della storia e del suo significato chi scrive si assume in pri ma persona la responsabilità, identificando la scrittura evange lica come scrittura di «colui che testimonia» (19,35; 21,24).26 Non meno di quella della memoria, anche la categoria di testi monianza presuppone intrinsecamente due livelli di attuazione, una doppia dimensione: quella storica, fisica e quella metafo rica, confessionale. Da un lato la testimonianza è tale, e lo è attualmente (cfr. il perfetto e il presente di martyréd in 19,35 e 21,24), perché è propria di chi ha visto e vissuto la storia di Gesù (il testimone oculare e discepolo amato); dall’altro, è ta le perché è visione in profondità, visione illuminata, della per sona e della storia di Gesù. Nelle diverse occorrenze evangeli che del verbo «testimoniare», non di rado unito ai verbi di visione (1,32.34; 3,11; 3,32; 19,35), è evidente che è soprattut to questa seconda dimensione a caratterizzare l’atto del testi moniare, anche nel caso del discepolo amato. L’insistenza sul la testimonianza oculare non può essere presa semplicistica-
25 B r o w n , Giovanni, LIV. 26 II Quarto Vangelo spicca, rispetto ai sinottici, per lo spazio e il valore ermeneu tico del lessico testimoniale: il verbo martyréd, che nei sinottici compare solo due volte (Mt 23,31; Le 4,22), in Giovanni compare 33 volte; il sostantivo martyria, che nei sinottici compare quattro volte (tre in Marco e una in Luca), in Giovanni compa re quattordici volte. Per l’elaborazione del dato, cfr. VlGNOLO, «La dottrina»; LINCOLN, «The Beloved Disciple».
mente solo al primo livello o dimensione, perché il lessico della testimonianza appartiene alla più ampia metafora giuridico-processuale che pervade l’intero Vangelo e che vede nel la missione e nella storia di Gesù la testimonianza-processo tra Dio e mondo. L’insistenza sul significato profondo degli eventi, che è ciò su cui il testimone si compromette e si impegna, non potrebbe, però, implicare la rinuncia al significante ovvero la pretesa re ferenziale di chi crede e invita alla fede. Senza ciò cui viene riconosciuta la dignità di segno, non potrebbe darsi nemmeno un significato: «gli avvenimenti hanno bisogno di essere reali per essere significativi; non sono simboli, ma sono realtà la cui importanza tuttavia supera il momento in cui esse si sono ve rificate e si estende a tutta l’intera storia della salvezza».27 An che in rapporto all’obiettivo che si prefigge (condividere la fede messianica vivificante) l’operazione testimoniale compiu ta dal narratore si regge tenendo insieme storia e teologia, fat to e significato, ciò che fu significativo e ciò che da e in esso fu compreso in quanto significato; solo mantenendosi nel tra, nell’interfaccia significativo degli eventi, essa raggiunge il suo obiettivo; solo consentendo al lettore di contattare il passato significativo, potrà fungere da strumento efficace di mediazio ne tra colui che fu «visto» e chi in lui è chiamato a credere (20,29). Alla luce di quanto detto, la differenza giovannea non do vrebbe più risultare un ostacolo in linea di principio. Non avrebbe senso esprimerla come la differenza che si manifesta tra chi consegna al lettore le tradizioni su Gesù (i sinottici) e chi consegna al lettore la loro interpretazione (Giovanni). An che i sinottici sono interpreti e anche il loro racconto esprime una opzione di fede che si vuole plasmare e consolidare nel lettore (Le 1,1-4). La fede biblica, infatti, è sempre un giudizio
sulla storia e, con la scelta del genere «vangelo», si esprime in un racconto che pronuncia un giudizio interpretativo sulla sto ria. Lo è più che mai il racconto di colui che, nelle vicende storiche di Gesù, ha riconosciuto il processo in atto tra Dio e il mondo. La differenza, piuttosto, consiste nella diversa ango latura da cui la storia è raccontata e nel punto di vista che guida la costruzione del racconto come selezione di segni ca paci di suscitare la fede vivificante. Quello che fa la differenza è che, in Giovanni, il giudizio sulla storia è dato da un punto di vista ancora squisitamente giudaico catalizzato da tempi, luoghi, protagonisti e questioni cruciali per l’identità e le spe ranze giudaiche nel primo secolo d.C. Il suo punto di vista fa la differenza dando alla storia di Gesù la forma complessiva di un’estesa disputa, in cui, sullo sfondo della domanda giudaica sull’intervento liberatore di Dio alla fine dei tempi e sulla figu ra mediante la quale si sarebbe realizzato, la questione è deci dere chi Gesù sia e se il suo agire e il suo dire siano legittimi. I fatti sembrano fuori discussione al livello descrittivo e, dato il diverso punto di vista giovanneo, non sorprende che quelli messi a fuoco siano in buona parte diversi, materialmente e formalmente, da quelli sinottici. Ciò che, invece, è oggetto di polemica e necessita testimonianza è la loro interpretazione. Non multa sed multum, dunque. Ciò vale per il lessico, scar so in varietà ma saturo di significati; vale per il materiale di costruzione accuratamente selezionato e per il modo di com porlo (non molti episodi ma solo alcuni «segni», poche e ampie scene dense di provocazione strettamente correlate l’una all’al tra così da formare il quadro narrativo che veicola compiutamente il giudizio del quarto evangelista sulla storia di Gesù); vale, infine, per la reductio ad unum dell’oggetto della narra zione giovannea, la rivelazione e il riconoscimento di Gesù da parte dei suoi contemporanei e le conseguenze storiche di esso. Non oggetti - seppure dottrinali - ma persone; non contenuti ma modalità e processi di relazione, eventi significativi per la
loro forza estetica (10,32) e le loro implicazioni relazionali (cc. 5, 9, 11), ricondotti ultimamente al processo in atto tra Dio e mondo esploso visibilmente nella vicenda di Gesù di Nazaret. Un tale racconto viene consegnato, dunque, senza esitazio ne come racconto di un testimone, anzi come testimonianza in atto, e della soggettività dello sguardo del testimone porta tut ti i segni: la pregnanza e profondità del suo «vedere», ancora una volta, non potrebbe andare a scapito dell’implicazione re ferenziale del racconto ma solo fare ad essa da legittimo fon damento. E questa a dare alla storia giudaica di Gesù la sua sobria e imposta trasparenza, talvolta elettrizzante (8,21-59; 10,22-39). Lo sguardo del testimone, assolutamente soggettivo, non fa che rendere trasparente la trama degli eventi imponen do ad essi la forma che dal suo punto di vista ha, della storia, la capacità di durata, di senso: poco spazio per ciò che non è essenziale; valore estremo, saturo, palpitante, a ciò che è rico nosciuto significante in vista dei destinatari e dell’obiettivo da raggiungere e, cioè, concretamente, quelli che per il narratore sono i «segni» del Cristo, i segni della compiuta relazione esca tologica tra il Dio di Israele e il suo popolo.28 Da questo punto di vista, Giovanni rappresenta al meglio la natura propria del genere «vangelo» che è quella di essere «il resoconto narrativo deH’incontro di Dio con l’umanità attraverso la vita, morte e risurrezione di Gesù di Nazaret»29 e, dunque, una storia «pro fondamente semiotizzata»,30 la cui trasparenza si realizza al meglio grazie al linguaggio simbolico dell’evangelista. La strutturante tensione tra storia e teologia non potrebbe essere più chiara anche dal punto di vista dell’analisi narrativa. In Giovanni, infatti, la ricchezza dei dettagli informativi offerLa «trasparenza» del fattuale nel Quarto Vangelo è oggetto della riflessione di NoACK. Tale trasparenza altro non è che la forma specificamente giovannea di con firomene tra la storia e la sua comprensione {Ivi, 94). T hompson, 238. 10S egalla, Il Quarto Vangelo, 10.19-22.
ti riguardo ai pochi eventi selezionati accorcia per il lettore la distanza tra la story e la history, aumentando l’«effetto di reale» del racconto; ugualmente, la modalità di narrazione che egli sceglie, dando ai discorsi e dialoghi tra i protagonisti il primo piano nell’azione, è quella dello showing, più che del telling, che aumenta anch’essa l’illusione di realtà. E, tuttavia, non si dà in Giovanni ciò che più dovrebbe caratterizzare la storia mimetica che intende farsi credere oggettiva e reale, ovvero la scarsa o discreta presenza del narratore. Questi, al contrario, è massimamente intrusivo e si fa presente in prima persona ad apertura (1,14.16) e chiusura del testo (21,24-25), dichiarando il proprio punto di vista assolutamente soggettivo, testimonia le, sulla storia raccontata (19,35).31 La narrazione giovannea realizza l’unione degli opposti anche dal punto di vista narratologico: l’effetto di realtà garantito dalla mimesis drammatica e la presenza imponente del soggetto che la racconta, che do vrebbe invece essere caratteristica della diegesis. Ciò perché il racconto di Giovanni non intende dare un’«illusione di realtà», ma testimoniare la realtà; non è, come la fotografia di un og getto statico del passato, «l’immagine viva di una cosa morta»,32 ma la proclamazione di colui che è la Vita (1,4-5; 11,25; 14,6) fatta, «ricordando», dopo la sua glorificazione.
31 Nota opportunamente CuLPEPPER: «per Giovanni la storia non consiste nella cronaca di dati storici ma nella comprensione degli eventi che ne hanno mostrato il vero significato così come il discepolo amato è arrivato a comprenderlo. Nel convali dare il significato del soggettivo, il Vangelo di Giovanni è molto in anticipo rispetto al suo tempo» («John 21: 24-25», 364). 32 P. B ertetti, «O pzione antireferenziale, descrizione, effetto di reale, nella semiologia di Roland Barthes. “Sourtout il faut tuer le referent!”», in A. PONZIO P. CALEFATO - S. PETRILLI, Con Roland Barthes alle sorgenti del senso, Meltemi, Roma 2006, 161.
1.4.11 Quarto Vangelo come «metafora viva»: trama e struttura letteraria del testo Visibile nella carne, la Parola con cui Dio si rivela, che è Dio e che è Luce e Vita per gli uomini (1,1-5), pulsa dunque nelle parole del «discorso» giovanneo, cioè nella sua costruzione della storia di Gesù, rendendola per intero come una «meta fora viva» in cui la «continua torsione del senso letterale delle parole»33 esprime la trasparenza e tridimensionalità dei fatti del tutto umani della sua vita riconosciuti dall’evangelista come manifestazione piena del darsi di Dio al mondo. Tale ricom prensione della storia si manifesta tanto nella trama quanto nella struttura del testo: la prima, che si presenta come una trama di rivelazione costruita sul tema del riconoscimento di Gesù come inviato e sull’azione conflittuale a prezzo della qua le la rivelazione si realizzerà e il riconoscimento sarà raggiunto; la seconda, che si sviluppa corrispondentemente attraverso singole scene di riconoscimento compiuto o mancato.
1.4.1. La trama giovannea tra azione e rivelazione Il primo indizio chiaro da cui partire per comprendere la trama giovannea è offerto dal modo in cui il racconto evangeli co si apre e si chiude, cioè dal prologo (1,1-18) e dall’epilogo (c. 21) che, ciascuno a suo modo, rimandano il lettore oltre il rac conto e oltre la storia: a monte, perché il prologo pone l’antefat to della storia oltre la temporalità, in Dio stesso principio asso luto; a valle, perché l’epilogo addita al lettore il futuro atteso della venuta del Signore Risorto che sta oltre il racconto e, ad dirittura, oltre il tempo della storia discepolare cui l’epilogo, simbolicamente e proletticamente, accenna (21,22-23). Il rac” P. RICOEUR, La metafora viva, Jaca Book, Milano 32001,302.
conto, dunque, è awolto e sostenuto dal rimando a ciò o, meglio, a Colui che lo precede e lo supera perché posto prima e oltre la temporalità dell’esistenza e della storia umana segnata radical mente dal limite del nascere e del morire. Dai testi di apertura e chiusura del racconto il lettore apprende che l’identità del suo protagonista travalica essenzialmente le misure del tempo e lo domina, essendo egli la Parola che precede l’esistente, rivelazio ne personale dell’invisibile Dio (1,17-18), e Signore vivente (21,7.14 ma, anche, 20,28) seguito e atteso oltre la morte. Ap prende che ciò di cui si sta parlando, la posta in gioco del rac conto, ha a che fare con ciò che supera i limiti della storia umana e tocca, invece, Dio e la sua Vita stessa offerta al mondo. Stando al prologo e all’epilogo, la trama di rivelazione del racconto gio vanneo ha a che fare anzitutto con la domanda teologica su chi Dio sia e su come egli si riveli e si renda conoscibile al mondo così da salvarlo (3,17); dunque, con la domanda su Gesù Cristo. Il secondo indizio va tratto, invece, dal modo in cui, attra verso il racconto, il narratore conduce il lettore alla personale scoperta e costatazione di quanto gli è stato annunciato nel prologo. Dalla presentazione di Gesù come rivelatore (prologo) al riconoscimento compiuto di lui come Signore e, dunque, al compimento riuscito della rivelazione (epilogo) si giunge, in fatti, attraverso la storia concreta di un uomo, «Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazaret» (1,45), raccontata attraverso la sequen za temporale e causale di singoli eventi selezionati, correlati tra loro e abitati tutti dalla questione della sua identità e del rico noscimento della stessa. In questa storia, che articola tempo ralmente la rivelazione dell’identità divina e la domanda teo logica, la domanda su Gesù è collocata su uno sfondo ancora più ampio che è quello della domanda giudaica sul Messia che anima i protagonisti del racconto. Già dalla prima scena, in cui Giovanni rende a Gesù la sua prima testimonianza (1,19-28), l’evangelista mostra chiaramente che il problema che animerà il racconto è un problema di conoscenza (1,26.31) e di identi
tà squisitamente giudaico: sono, infatti, «i Giudei» a mandare dal battezzatore Giovanni «sacerdoti e leviti», gli esperti in rituali di purificazione, per domandargli «tu chi sei?» e accer tarsi se egli sia o meno il Cristo (1,19-20); è in termini giudaici che l’identità di Gesù comincia ad essere dichiarata nelle scene iniziali del suo ministero (1,29.34.36.41.45.49.51). Anche nei racconti pasquali, dove forse meno ce lo si aspetterebbe, «i Giudei» restano sullo sfondo nella scena dell’incontro tra i discepoli e il Signore risorto (20,18; cfr. 20,26): essi non sono il passato, ma il presente dei discepoli; minaccioso, forse, ma non meno implicato nell’incontro con Gesù. La domanda iden titaria («Tu chi sei?»), d ’altronde, non è solo la domanda con cui il racconto si apre, ma è anche l’inesausta domanda che i discepoli continuano a nutrire nei riguardi del Risorto in 21,12 pur sapendo ormai per sempre la risposta. A questa non si arriverà che attraverso il conflitto violento che porterà Gesù alla morte e intreccerà azione e rivelazione o, meglio, darà alla rivelazione la forma delle azioni di Gesù nel contesto di una fitta rete di relazioni all’interno di una storia intra-giudaica. In questa trama di rivelazione, la complicazione che deter mina la trama d’azione e spinge avanti il racconto, si raggiunge propriamente nel c. 5 per l’apparente violazione del riposo provocata da Gesù con la guarigione del paralitico in giorno eli sabato e, soprattutto, per la sua pretesa di porre il proprio operare di «figlio» sul piano stesso di quello di Dio, «suo pa dre» (5,16-18). Nella narrazione è a questo punto che la trama di rivelazione (chi è chi) e la trama di azione (il conflitto che attraversa il racconto e attende un rovesciamento) si intreccia no definitivamente. La domanda sull’identità (chi è chi?) aleg gia continuamente: detta la logica dei discorsi dei protagonisti in relazione (5,12.15; 6,41-42; 7,25-27.40-43; 8,31-59; 9,8-9.1721.24-25.28.36; 10,19-21; 11,25-27; 12,34), governa le loro azioni e reazioni (5,18; 6,14-15; 7,2-10.30-32.44; 8,59; 9,2223.34; 10,31.39), esplode in bocca a «i Giudei» in 8,25 e 10,24
e spiega infine le molteplici ricorrenze dei detti «io sono», tan to in forma assoluta che con un predicato (6,20.35.41.48.51; 8,12.18.24.28.58; 9,5.9; 10,7.9.11.14.36; 11,25). Nei cc. 5-12 il cammino che conduce alla scoperta e al riconoscimento delle identità in relazione, trasformato in azione conflittuale dal rap porto tra Gesù e «i Giudei», porta dunque dal tentativo di uccidere Gesù da parte de «i Giudei» (5,16-18; 7,1.19-20.25; 8,37.40.59; 10,31; 11,8) alla decisione collegiale di ucciderlo da parte di sommi sacerdoti e farisei (11,53; 11,57). La complica zione giunge, così, al suo punto massimo. Il resto del racconto evangelico, dedicato agli eventi culmi nanti della passione, morte e risurrezione (cc. 13-20), costitui rà l’azione trasformatrice che porterà la rivelazione al suo cul mine e renderà possibile la risposta alle molteplici domande identitarie - chi sia Dio, chi sia il suo Cristo, chi sia Gesù e chi siano gli altri uomini in rapporto a lui - che attraversano e determinano storicamente la vita di Gesù di Nazaret. Configurata come «biografia in forma drammatica»,34 in treccio tra trama di azione e trama di rivelazione, la storia di Gesù secondo Giovanni assume, così, la sua forma peculiare proprio come «storia dei rapporti con i Giudei».35 Una storia di relazione - tragicamente mancata, in parte, ma non per que sto meno desiderata - che, resa oggetto diretto del racconto evangelico, è riconosciuta e presentata come spazio privilegia to di rivelazione e di salvezza.
1.4.2. La struttura letteraria Profondamente coerente con l’intrigo che lo governa, il rac conto giovanneo si sviluppa, tra prologo (1,1-18) ed epilogo 54 Culpepper, The Gospel, 86. 35 Ashton, Comprendere, 139.
(c. 21), in due parti principali: la prima dedicata al racconto del ministero pubblico, esteso cronologicamente sino ad abbrac ciare tre pasque (1,19-12,50); la seconda dedicata agli eventi di passione, morte e risurrezione (13,1-20,31), con un accento narrativo evidente sul giorno stesso della morte di Gesù il ve nerdì 14 di Nisan vigilia di un sabato di pasqua (13,1-19,42). P ro lo g o p o e tic o (1 ,1 -1 8 )
1,19-2,11: Prologo narrativo (2,1-11 pericope ponte) 2.1- 4,54: Da Cana a Cana, Vinizio della manifestazione di Gesù e i suoi segni 5 .1 - 12,50: ha relazione tra Gesù e « i Giudei»: rivelazione in azione e in conflitto 1) 5,1-47 guarigione di un paralitico alla piscina di Betzatà in giorno di sabato e controversia con «i Giudei» 2) 6,1-7,1 in prossimità della pasqua, in Galilea, il segno dei pani e le sue conseguenze 3) 7,2-8,59 in occasione della festa delle Capanne, esplodo no la domanda messianica su Gesù e il conflitto con «i Giudei» 4) 9,1-10,21 tra le Capanne e la Dedicazione, guarigione del cieco nato in giorno di sabato e parabola sulla porta e il pastore 5) 10,22-39: in occasione della festa della Dedicazione, nuo va esplosione della domanda messianica e del conflitto con «i Giudei» 6) 10,40-11,54 tra la Dedicazione e la terza pasqua, la risur rezione di Lazzaro e la decisione di fare morire Gesù 7) 11,55-12,50 le ultime azioni del ministero pubblico e i suoi esiti alle soglie della pasqua di morte e risurrezione 13.1- 17,26: la comunità discepolare è consacrata come dimora di Dio sul fondamento della azione-rivelazione pasquale di Gesù 18.1- 19,42: la passione e la morte di Gesù 20.131: racconti pasquali a Gerusalemme E p ilo g o (c . 2 1 )
Anche se distinte l’una dall’altra in forza del passaggio dal contesto pubblico dell’attività e delle parole di Gesù (fino a 12,50) a quello privato della cena e del dialogo con i discepoli (13,1-17,26), le due parti maggiori della storia giovannea di Gesù sono strettamente congiunte tra loro e imbricate l’una nell’altra. Se nella prima parte del racconto sono messi a fuoco «i segni», gestuali e verbali, che sollevano la domanda sull’iden tità di Gesù e le molteplici relazioni che essi esprimono e con corrono a determinare, nella seconda parte lo spazio è lasciato interamente all’evento che da quell’insieme di segni e di rela zioni è scaturito. Pur non essendo un segno nel senso più fre quente che il termine assume nei cc. 1-12, l’insieme degli even ti di passione, morte e risurrezione, che l’evangelista connota come «partenza», «elevazione», «glorificazione», costituisce la risposta più radicale di Gesù e, in lui, di Dio alla domanda ripetuta di un «segno» e all’ambigua relazione con i segni che attraversa i cc. 1-12 (2,18; 2,23-3,2; 6,14-15; 6,30; 11,37.47-48; 12,17-18). I segni del ministero pubblico, infatti, pur essendo «tali e tanti», non determinano il riconoscimento di Gesù o, in ogni caso, non provocano una compromissione pubblica a suo favore da parte di coloro, tra i «capi», che pure hanno creduto in lui (12,37-43). Passione, morte e risurrezione, dunque, co stituiscono l’evento in cui massimamente s’irradia la «gloria», cioè si afferma e si svela l’identità di Gesù anticipata parzial mente nei segni del ministero pubblico. Se quelli lo avvicinano progressivamente all’«ora» estrema della rivelazione, è solo nel contesto dell’ultima pasqua, quella di morte e risurrezione, che Gesù proclama arrivata l’«ora» attesa (12,23.27-28a; 13,31; 17,1). Un medesimo e coerente cammino di rivelazione impe gna dunque Gesù e chiama a rispondere alla domanda sulla sua identità da un capo all’altro del racconto: nella sua prima parte esso si esprime nei segni della gloria e nel conflitto che la rivelazione di Dio provoca diventando azione; nella sua secon da parte esso elegge la passione e morte, la partenza da questo
mondo, come spazio pieno della gloria, azione trasformatrice per eccellenza, apparente negazione dei segni ma, al contempo, loro piena conferma e svelamento del loro significato ultimo.36 Con connessioni interne costanti, da un capo all’altro del racconto, la storia uscita dalla penna dell’evangelista, vista con i suoi occhi, appare come fosse veramente, benché passata, un dramma ancora in atto di compiersi, vivo, in cui ogni frammen to prende luce dalla totalità e in cui il tutto, ogni volta, è pre sente e manifesto nel frammento e si sporge da esso traboccan do. I singoli episodi, infatti, nella loro sequenza cronologica e nelle relazioni causali che li legano l’uno all’altro, richiaman doli l’uno nell’altro in quanto insieme di «segni», hanno in sé la Gestalt, la forma e struttura, dell’intero discorso evangelico, del significato riconosciuto nei fatti e negli esiti della vita di Gesù, Parola diventata carne: l’atto, cioè, del rivelarsi ultimo (escatologico) e salvifico di Dio nell’esistenza relazionale del Figlio, nel suo culmine pasquale e nelle relazioni generate a causa sua e attorno a lui (13,34-35; 19,25-27). Il significato della storia giovannea di Gesù, infatti, è essenzialmente rela zionale e processuale: se la rivelazione, nella Scrittura, ha come suo oggetto la relazione di Dio con l’umanità (l’alleanza) che, attraverso la storia particolare e rappresentativa di un popolo, si realizza processualmente, sottoposta essa stessa continuamente a processo,37 ugualmente e in modo culminante la rive lazione di Dio nella persona del Figlio è processuale e conflit tuale, sottoposta essa stessa a processo e vittoriosa in esso (16,33). La storia giovannea di Gesù, nella sua trama e nella sua struttura, si presenta dunque come una metafora viva che, raccontando un «passato» intriso di memoria scritturistica e trasparente della vittoria pasquale, dischiude in realtà il futuro e la Vita, un altro mondo possibile, invitando continuamente 16L incoln, The Gospely3-14. 17 Simoens, Selon ]ean 2 , 20-21.
il lettore a entrare dentro il racconto o, meglio, a lasciarsi pla smare da esso e a tradurlo in azione partecipando personal mente al dramma del riconoscimento di Gesù e del compimen to della nuova alleanza.
2. Esegesi di Gv 1,1-18: da dove è necessario iniziare il discorso Il primo segno della differenza giovannea è posto all’inizio del Vangelo. Essa, infatti, si esprime anzitutto nella scelta del «principio» del racconto che, spostato dalla creazione e dalla storia, è posto in Dio, dichiarato appartenente non al mondo ma a Dio stesso. Diversamente da quanto accade nei tre Vange li sinottici, a Giovanni non basta un inizio che apra la sequenza temporale degli eventi narrati. Gli è necessario il «principio» teologico che ponga la possibilità stessa del racconto che si apre. Per cominciare il Vangelo, secondo Giovanni, è necessario par tire da oltre il racconto ricamato «nel tessuto del mondo e della storia»: non da meno che da Dio e dal suo essere in sé Parola (Lògos) e, cioè, relazione viva all’altro ben «al di là del versetto».38
2.1. Genere letterario, background e funzione Nonostante la congiunzione «e» con cui si apre il v. 19 («e questa è la testimonianza di Giovanni...») e la forte continuità tematica determinata dal protagonismo di Giovanni nel prolo go e nei versi che seguono, la differenza tra i primi diciotto versi del Vangelo e il racconto che inizia al v. 19 è chiara al li vello formale. Questi possiedono, infatti, un andamento poe 38 E. LÉVINAS, Laldilà del versetto. Letture e discorsi talmudici, Guida, Napoli 1986, 61.
tico e celebrativo ed esprimono, in prima persona plurale, la confessione di fede di una comunità (w. 13.14.16). Ad essi, col v. 19, subentra la narrazione in prosa in terza persona: solenne anch’essa, grave per la testimonianza giuridica di cui reca l’at to, non ha più però la forma di un poema in strofe come i versi precedenti. Con il v. 19, dal prologo poetico che comincia dal «principio» metatemporale, assoluto, si passa al racconto vero e proprio, con un corrispondente prologo narrativo che troverà il culmine in un altro «principio», storico questa volta, che è quello dei segni compiuto in Cana di Galilea (Gv 2,11). Giovanni apre, dunque, il suo racconto con «una storia della salvezza in forma di inno».39 Dal punto di vista storico-letterario, l’origine del prologo poetico può essere spiegata senza difficoltà pensando che l’evangelista abbia assunto e trasformato un inno cristologico precedente in uso nel suo ambiente ecclesiale (Fil 2,6-11; Col 1,15-20; lTm 3,16 e la conferma indiretta di Plinio il giovane, Epistole 10,96; Eusebio, Storia della chiesa 5,28,5). Il retroterra dell’inno si può individuare nella teologia biblica della Parola di Dio riconosciuta come realtà dinamica attiva nella creazione e nella storia (Sai 33,6; Sap 9,1-2; 18,15), con tratti a volte quasi personali (Is 55,10-11); nei poemi che hanno per sogget to e tema la Sapienza personificata (Pr 8; Sir 24; Sap 7-9; Bar 3,9—4,4); nelle interpretazioni giudaiche di Gen 1,1-5 attestate letterariamente nei targum e imperniate sulla figura e sul ruo lo della divina memra’ (Parola).40 Riconoscere l’origine letteraria del prologo in un inno della chiesa giovannea non basta, però, a chiarire la questione della relazione tra il prologo e il Vangelo: tra essi, infatti, vi sono
39J. JEREMIAS, Il messaggio centrale del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1982, 77-78.
40B o y a r in , 243-284.
elementi di continuità ma anche di discontinuità.41 II prologo, dunque, per quanto ricco di forti nessi lessicali e tematici col Vangelo, non ne costituisce un riassunto narrativo né una sin tesi teologica. La sua funzione può essere meglio compresa facendo ricorso alle categorie della letteratura antica e della critica letteraria moderna. Le prime permettono di riconosce re nel prologo una forma particolare di «prediscorso», quale potrebbe essere il «prologo drammatico», destinato a illustra re agli ascoltatori il tema fondamentale del dramma mettendo loro « l’inizio nelle mani» e permettendogli di seguirne il filo (cfr. Aristotele, Retorica 3,14,12-19).42 Dal punto di vista della critica letteraria moderna lo si può considerare come «parate sto», una sequenza che, pur non costituendo il primo episodio narrativo, apre l’intero Vangelo ponendosi in «un rapporto di metariflessività con l’insieme dell’opera che introduce».43 Il prologo, dunque, non riassume l’intrigo del racconto ma dice come occorre leggerlo, stimolando il lettore, richiamandogli il ricco retroterra delle Scritture condiviso (intertestualità) coin volgendolo nella celebrazione in «noi» della storia del Logos divenuto carne (interazione), mettendogli in mano la chiave ermeneutica corretta e introducendo gli elementi costitutivi del racconto (protagonisti principali, posta in gioco, temi e intrigo) perché, progredendo nella lettura del racconto, il lettore possa comprenderlo a un livello sempre più profondo (intratestualità).44 Esso inquadra dunque la storia di Gesù di Nazaret al
41 Al livello del lessico e dei temi nel prologo appaiono vocaboli che non si ritro veranno più nel Vangelo: «grazia», «pieno/pienezza», «illuminare», «porre la tenda», «rivelare/raccontare»; non vi si troveranno più esplicitamente nemmeno le idee del divenire carne del Logos o della sua mediazione creatrice; nel prologo, d’altra parte, al livello linguistico sembra regnare il silenzio sugli eventi pasquali, non si parla né di «croce» né, secondo il linguaggio giovanneo, di «elevazione/innalzamento» o, tanto meno, di risurrezione e ascensione.
42 ZUMSTEIN, 227. 43 Ivi. 44 Ivi, 229-232.
solo livello in cui può veramente essere raccontata e compresa, quello di Dio stesso e del rapporto tra Creatore e creatura, Dio e mondo. La scelta dell’inizio, in Giovanni, è per questo radi cale e metanarrativa: l’evento celebrato in poesia sta al raccon to che lo descriverà in prosa come la forma al contenuto, il segreto strutturale di ciò che accade al suo realizzarsi fenome nico, la «Gloria» divina al suo «manifestarsi» (1,14; 2,11).
2,2. Struttura Le proposte avanzate riguardo all’articolazione interna del prologo giovanneo sono tante e diverse. I modelli si possono ricondurre fondamentalmente a tre: - basandosi su criteri di tipo tematico, alcuni dividono il prologo in strofe che descrivono progressivamente le tappe fondamen tali dell’essere e dell’agire rivelativo del Logos: in sé; in rappor to al cosmo e agli uomini nella creazione e in rapporto alla storia; - basandosi su criteri di tipo letterario, come corrispondenze lessicali e inclusioni interne al testo (per esempio tra w. 1-2 e v. 18), alcuni riconoscono nel prologo una struttura concentri ca, altri una struttura a spirale o a onde parallele, frequente mente usata anche nel resto del Vangelo; - una strutturazione su base metrico-ritmica, conforme alla strut tura del canto corale nella lirica greca, è proposta invece da una minoranza di studiosi.
Nessuno dei criteri individuati mi sembra da solo risolutivo. Il problema maggiore è posto, a mio avviso, dalla «bipolarità semantica»45 in cui si muove volontariamente l’evangelista e che costituisce la caratteristica peculiare del movimento del
prologo. Si tratta, cioè, del fatto che a un’attenta analisi è dif ficile stabilire di cosa stiano parlando le singole unità del pro logo e decidere dove finiscono i versi che parlano dell’essere e agire del Logos prima dell’incarnazione (al v. 4? Al v. 10? Al v. 13?) e dove cominciano quelli che parlano dell’essere e agire del Logos incarnato (al v. 14? Al v. 11? Al v. 9? Al v. 5?). «Tut to il brano, a incominciare dal v. 4, è a un tempo un’esposizio ne dei rapporti tra il Logos e il mondo e un racconto del mi nistero storico di Gesù il quale, di conseguenza, non è che il riflesso di tali rapporti».46 La duplice inserzione del riferimento alla testimonianza di Giovanni dopo il v. 5 e dopo il v. 14 svela l’intenzione dell’evan gelista, perché implica un riferimento obbligato all’uomo cui Giovanni ha reso testimonianza anche quando egli non ha an cora finito di parlare del rapporto Creatore-creatura a livello cosmico (v. 10: «era nel mondo...»), e un riferimento all’esisten za sovratemporale del Logos anche quando il testimone G io vanni parla di Gesù (v. 15: « ... perché prima di me era»). Ciò che è dicibile, in termini simbolici e apocalittici, a proposito del rapporto drammatico tra Dio-Logos e mondo, si deve dire pun tualmente e concretamente, in termini storico-narrativi, anche a proposito di Gesù e della sua esistenza nel mondo. Il mythos simbolico giudaico della relazione Dio-mondo, mediata dalla Sapienza, in Gesù è diventato storia della relazione e, viceversa, la storia di Gesù tra i «suoi» nel «mondo» è né più né meno che la storia stessa di Dio e del suo Logos in relazione al mondo. Sulla base di alcuni indizi letterari evidenti nel testo e valo rizzando gli incisi sulla testimonianza di Giovanni, mi sembra, quindi, si possano individuare cinque movimenti che scandi scono lo sviluppo del prologo. Il primo abbraccia i w. 1-5. Dal v. 1 al v. 5, infatti, le affer mazioni sono tutte relative al Logos e collegate tra loro attra 46 Ivi, 353.
verso le parole-gancio (così il v. 1: Lògos, Theós; i w. 3-5: gtgnomai, zoe, phòs, skotid) o attraverso l’uso dei pronomi (così nel collegamento tra i w. 1-2 e 2-3 dove il dimostrativo houtos e il pronome di terza persona autós sono riferiti al Logos). Il v. 6, con l’uso del verbo egéneto (cfr. v. 3), determina il passaggio a un nuovo inizio nel tempo, un evento storico pun tuale qual è la missione di Giovanni, tradizionalmente collega ta con la missione di Gesù (cfr. Me 1,1-8). Non si trova alcuna congiunzione (kat) tra il v. 5 e il v. 6 e i w. 1-5 condividono un ritmo poetico che i w. 6-8 interrompono, anticipando nel pro logo lo stile solenne che caratterizzerà la narrazione in prosa del Vangelo. Si introduce anche un lessico nuovo, quello della testimonianza {martyréó/martyria) che caratterizza in modo pervasivo i w. 6-8. Il terzo movimento è formato dai w. 9-14, collegati ai versi precedenti, e in particolare al v. 8, attraverso la parola «luce» (phòs). Con il v. 9 si riprende il ritmo poetico del prologo che dura fino al v. 14 incluso. Ritorna insistentemente la congiun zione kat che scandisce le affermazioni sul venire progressivo del Logos nel mondo, come luce che illumina, fino al modo dell’incarnazione. Il campo semantico della visione («luce» e «illuminare» al v. 9; «contemplare» al v. 14) crea un’inclusione Ira il v. 9 e il v. 14 dando ai vv. 9-14 unità e compiutezza. Il quarto movimento è formato dai w. 15-17, collegati tra loro dalla triplice ripetizione della congiunzione dichiarativacausale boti alla fine del v. 15 e all’inizio dei w. 16 e 17. Il ri apparire del nome di Giovanni e del lessico della testimonian za dimostra una ripresa intenzionale dei w. 6-8. Un ulteriore elemento di ripresa tra i vv. 6-8 e i w. 15-17 si può riscontrare nel ricomparire dell’aggettivo «tutti» (pàntes) nel v. 7 e nel v. 16 dove accompagna il pronome personale «noi». Se nel v. 7 il riferimento alla missione del Battista è prolettico, orientato al futuro della fede nell’Incarnato, e la sua è una testimonianza che attende ancora il suo frutto o la sua efficacia verso «tutti»,
nel v. 16 se ne proclama il compimento efficace, perché il sog getto che parla in prima persona plurale può dire, confonden do la propria voce con quella di Giovanni, «noi tutti ricevem m o...». Il quinto e ultimo movimento del prologo è costituito dal v. 18 che, a differenza dei w. 16-17, non essendo introdotto da alcuna congiunzione, non è letterariamente collegabile al v. 15 e, in genere, alla testimonianza riconducibile a Giovanni nei w. 15-17. Al contrario, esso riprende i temi e il lessico del primo movimento, con l’arricchimento dato dal terzo: ho Theós dei vv. 1-2 adesso è «il Padre» (cfr. già v. 14); il Logos-77?em dei w. 1-2 adesso è « l’unigenito Dio» (cfr. già v. 14); il verbo «essere» all’imperfetto dei w. 1-2 («era»), ora è il verbo «esse re» al participio presente («colui che è»); l’orientamento del Logos «volto a Dio» nei w. 1-2, adesso è l’essere permanente del Figlio «in seno al Padre»: il Verbo del principio adesso è il Verbo incarnato, l’uomo Gesù, Figlio in seno al Padre. Questi cinque movimenti, letterariamente distinguibili tra loro, sono strettamente connessi e si richiamano a vicenda co sì da determinare un’inclusione maggiore tra i vv. 1-5 e il v. 18 e una più interna tra i w. 6-8 e i w. 15-17. Al centro tra le due restano i versi 9-14. Racchiusi tra i due incisi sul testimone Giovanni, essi racchiudono a loro volta al loro interno tutta la storia della rivelazione come relazione perenne tra Dio e mon do mediante il Logos che si fa storia umana fino al modo cul minante dell’incarnazione, realizzazione compiuta della Nuova Alleanza. Il fatto che i w. 9-14, che abbracciano e sintetizzano il mistero e la storia della rivelazione, siano racchiusi a loro volta, quasi come in uno scrigno, dalla testimonianza di G io vanni, dice che il passaggio dall’antica alla nuova alleanza, sin tesi e compimento della rivelazione, è preparato, garantito e autenticato nella sua legittimità storico-salvifica e, infine, pe rennemente attestato dalla testimonianza profetico-giuridica di Giovanni e dei credenti in Gesù. Esso è pienamente fonda
to nella Scrittura e nella storia. Il rapporto tra la testimonianza di Giovanni e quella dei credenti in Gesù (w. 6-8 e w. 15-17) è, dunque, compreso come lo spazio-tempo aU’intemo del qua le si è aperta e percorsa compiutamente - e si può perciò per correre sempre nuovamente - la via della rivelazione, ovvero la relazione tra il Logos e il mondo (w. 9-14). Il fatto, infine, che il passaggio dall’antica alla nuova alleanza (w. 6-17) sia incluso e celebrato tra le due unità che si occupano del miste ro di Dio in sé e in rapporto alle creature e agli uomini tutti, dice che questo passaggio ha anche in sé la forza della univer salità, dell’unicità e della definitività della rivelazione del Padre nel Figlio, l’unica che ha il carattere della «verità» e della «gra zia» vivificanti di Dio stesso; un’universalità resa possibile solo dalla storia più particolare, quella del popolo di Dio (w. 6-17) e, in essa, dalla storia dell’uomo Gesù e dei credenti in lui. Il doppio riferimento al testimone Giovanni serve da perno al movimento, rendendo possibile l’atto di rilettura che il prolo go fa del Vangelo come continua compenetrazione tra eternità t tempo, azione cosmica e azione storica del Logos, tra Dio e mondo, dando così inizio e marchio strutturale al Vangelo se condo Giovanni.
2.Ì. Traduzione e commento 'In principio era il Logos e il Logos era verso (prós) Dio e Dio era il Logos. 'Questi era in principio verso (prós) Dio.47 47 Nel resto del Vangelo la preposizione direzionale prós viene usata quasi sempre in dipendenza dai verba dicendi, dai verbi di movimento ed esprime conseguentemen te relazionalità (7,33; 13,1.3; 17,11.13; 14,6; 20,17). Data anche la corrispondenza tematica e teologica tra i w. 1-2 e il v. 18, che determina la maggiore inclusione del prologo, ritengo che le possa essere riconosciuta una sfumatura semantica che dice movimento, il costante orientamento del Logos a Dio.
3Tutto per mezzo di lui venne all'esistenza (egéneto) e senza di lui non venne all'esistenza neppure una cosa. 4In ciò che esiste {ho gégonen) egli era vita48 e la vita era la luce degli uomini. 5E la luce nella tenebra splende e la tenebra non l'ha sopraffatta (katélaben). 6Ci fu (egéneto) un uomo, mandato da Dio, che aveva nome Giovanni. 7Questi venne (elthen) in testimonianza, per testimoniare della luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8Non era (en) lui la luce, ma per testimoniare della luce. 9La luce quella vera, che illumina ogni uomo, veniva nel mondo.49 48 Nel passaggio dal v. 3 al v. 4 non è chiaro a cosa debba essere collegata la propo sizione relativa «ciò che esiste» (ho gégonen), se a ciò che precede (il v. 3) o a ciò che segue (il v. 4). Nel primo caso, la proposizione relativa sarebbe effettivamente pleona stica («... e senza di lui non venne all’esistenza neppure una cosa di ciò che esiste»)'e farebbe da zavorra nel v. 3 che ha la forma snella di un distico, impreziosito anche dal parallelismo antitetico che determina un chiasmo perfetto (a «tutto» / b «per mezzo di lui venne all’esistenza»; b 1«senza di lui venne all’esistenza» / a1 «neppure una cosa»). Il collegamento con il v. 3 interromperebbe, inoltre, il ritmo ascensionale dei versi creato mediante la ripetizione, all’inizio della frase successiva, del termine che conclu de la frase precedente (cfr. v. 1). Questo collegamento, d’altra parte, renderebbe molto semplice la comprensione del v. 4 che inizierebbe con il riferimento al Logos mediante il pronome di terza persona («in lui era vita...») e rifletterebbe la cristologia giovannea che lega strettamente la vita alla persona di Gesù (3,26; 11,23; 14,6; cfr. anche lG v 1,1; 3,11). Nel secondo caso, il senso del v. 3 risalterebbe in tutta la sua nitidezza, ma di venterebbe problematica la comprensione del v. 4: come intendere la frase «ciò che esiste in lui era vita»? A cosa legare «in lui»? A «ciò che esiste» («ciò che esiste in lui, era vita») o a «era vita» («ciò che esiste, era vita in lui»)? Di quale vita si tratterebbe? Sembra siano state proprio le difficoltà teologiche connesse all’interpretazione di tale collegamento a determinare un mutamento nella lettura patristica e il collegamento di «ciò che esiste» con il v. 3. La traduzione che propongo risolve i problemi interpreta tivi posti dal collegamento col v. 4 intendendo «ciò che esiste» come un casus pendens cui va riferito il successivo pronome di terza persona «in esso» e considerando sottin teso il soggetto della frase che sarebbe sempre il Logos del v. 3: « ciò che esiste, in esso [il Logos] era vita». Nel prologo, un altro esempio di questa costruzione si ha anche nel v. 12 («quantilo accolsero, diede a loro...»). 49 II v. 9 presenta una costruzione poco lineare: «era la luce quella vera che illu mina ogni uomo veniente nel mondo». A cosa bisogna collegare il participio «venien te» (erchómenon)? Alla «luce», a «ogni uomo» o all’imperfetto «era»? A ogni opzio ne corrisponde una diversa traduzione: «(il Logos) era la luce, quella vera, che illu-
10Era nel mondo, e il mondo per mezzo di lui venne all'esistenza (egéneto), eppure il mondo non lo riconobbe. l‘Venne nella sua proprietà (eis tà idia), eppure i suoi non gli diedero accoglienza (parélabon). 12Quanti, però, raccolsero (élabon) a quelli diede potere di diventare figli di Dio, quelli che credono nel suo nome, ,3i quali non dal sangue, né da volontà di carne, né da volontà di uomo ma da Dio sono stati generati! 14Sì, il Logos divenne (egéneto) carne e pose la sua tenda tra noi e noi contemplammo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità. 15Giovanni testimonia di lui e ha proclamato dicendo: «Questi era colui di cui avevo detto: colui che viene (erchómenos) dopo di me mi è passato (gégonen) davanti perché era (én) prima di me». 16Ché dalla pienezza di lui noi tutti abbiamo ricevuto grazia su iariti) grazia,50 mina ogni uomo venendo nel m ondo»; «(il Logos) era la luce, quella vera, che illumina ogni uomo che viene al mondo»; «la luce quella vera, che illumina ogni uomo, stava venendo nel mondo». Le prime due opzioni presuppongono che il soggetto vero della frase, cioè «il Logos», debba essere assunto dai w. 1-5 e sia rimasto sottin teso. Non spiegano, però, perché Fevangelista avrebbe lasciato sottinteso un soggetto ormai grammaticalmente lontano. La terza opzione, che ho scelto, non richiede un soggetto esterno alla frase del v. 9 e interpreta come perifrastica la relazione tra l’im perfetto «era» e il participio «veniente», benché a distanza tra loro. Sia dal punto di vista sintattico (10,40; 18,18.25) che dal punto di vista del contenuto cristologico la costruzione è coerente con il linguaggio giovanneo (1,15.27.29.30; 6,14; 11,27; 12,13; ICìv 4,2; 2Gv 7). ,0 La traduzione della preposizione ariti che ho proposto, dandole un senso cumu lativo e di sovrabbondanza («grazia su grazia»), non è l’unica possibile. A nti, infatti, potrebbe indicare contrasto e sostituzione («grazia al posto di grazia»); corrisponden za o equivalenza («grazia per grazia»); successione («grazia dopo grazia»). Le argomen tazioni grammaticali, da sole, non sono sufficienti. Il contesto dei w. 14.15-17, che solo può orientare adeguatamente l’interpretazione del v. 16, non favorisce a mio av viso un significato sostitutivo della preposizione anti\ attribuirle un valore cumulativo, d’altra parte, non esclude anche una dimensione di traboccante compimento.
17perché la Legge per mezzo di Mosè fu donata (edóthé), la grazia e la verità per mezzo di Gesù Cristo vennero all’esistenza (egéneto).51 18Dio nessuno l’ha visto mai. L’unigenito Dio, che è in seno (eis tòn kólpon) al Padre, egli ha rivelato (exègesato). w. 1-5. Il primo movimento del prologo è formato da tre unità distinguibili sintatticamente e tematicamente, indipenden ti tra loro e caratterizzate ciascuna al suo interno dalla coordi nazione tramite la congiunzione kav. i w. 1-2 riguardano l’esse re sovratemporale del Logos indipendentemente dalla creazio ne; il v. 3 ne afferma il ruolo strumentale, ma imprescindibile, nell’atto creatore; i w. 4-5 spiegano cosa il Logos rappresenta per ogni creatura e, specificamente, per le creature umane. w. 1-2, Nelle tre proposizioni del v. 1 si possono riconosce re tre enunciati. Il primo (v. la) punta lo sguardo sull’essere 51 II doppio genitivo che specifica l’aggettivo «pieno» nel v. 14 («pieno di grazia e di verità») dovrebbe essere inteso, secondo alcuni studiosi, come un’endiadi, espres sione di un concetto mediante la congiunzione di due parole («pieno della grazia della verità»). Il sostantivo principale sarebbe «verità» che nel lessico teologico gio vanneo indicherebbe la piena autorivelazione di cui Dio avrebbe fatto dono («grazia») agli uomini nella persona del Figlio. Ugualmente, anche nel v. 17 il doppio nominati vo «la grazia e la verità» dovrebbe essere inteso come endiadi e ciò spiegherebbe l’uso del verbo al singolare {egéneto). La «verità» ne sarebbe il soggetto logico anche se non il soggetto grammaticale. La verità di Dio in Cristo, rivelazione piena e compiuta, starebbe così in parallelo alla legge, dono di rivelazione ancora imperfetto. L’interpre tazione del binomio come endiadi, per molti versi plausibile, non spiega però fino in fondo un dato lessicale: il termine chdris non appartiene al linguaggio giovanneo, mentre gli appartiene il lessico del dono e, in particolare, il termine ddreà che ha per contenuto proprio la rivelazione di Dio in Cristo (4,10). Se, potendo attingere al suo tesoro linguistico specifico, l’autore del prologo preferisce ricorrere a un sostantivo che gli è estraneo (chdris), ciò si spiega meglio se si guarda ai testi che fanno ad esso da sfondo: in questo caso, senza dubbio, la rivelazione sinaitica del Nome col quale Dio si presenta a Mosè come «Signore misericordioso e pietoso, lento all’ira e pieno di grazia e di fedeltà» (Es 34,6). Di tale Nome divino, l’espressione giovannea del v. 14 « è una possibile esatta traduzione» (WENGST, 67), anche se non è la traduzione offer ta dai Settanta. Tradurla come un’endiadi in cui l’accento cade tutto sul contenuto del dono (la «verità»), piuttosto che sull’identità del Donatore misericordioso e fedele, non farebbe risuonare con la stessa intensità la rivelazione personale del Nome.
«in principio» e, precisamente, sull’essere in principio del L o gos, la sua sovra-esistenza. Il secondo (v. lb ) guarda al suo essere in relazione a Dio. Il terzo (v. le) dichiara la sua identi tà. Nel primo enunciato, il verbo «essere» è usato nel senso di «esistere, esserci»; nel secondo è usato nel senso di «essere in relazione»; nel terzo è usato come copula in una proposizione in cui il Logos è il soggetto e Theós, sostantivo senza articolo messo in posizione enfatica all’inizio della frase, il predicato. In un movimento progressivo, tendente al climax rappresenta to dal terzo enunciato, si afferma la sovra-esistenza della Paro la, la sua relazione a e distinzione da Dio, la sua identità con Dio. Il Logos e Dio, pur essendo distinti come due in relazio ne, sono dichiarati entrambi, insieme, Theós, due nel medesi mo. Il pensiero dell’evangelista procede così, per evoluzioni progressive, in un volo circolare e a spirale che gli ha meritato il titolo di «Teologo» e il simbolo dell’aquila: «volando come un’aquila, con la parola Giovanni raggiunge gli astri» (Sedulio, Carmen paschale 1,358; V secolo). La ricchezza delle allusioni ai testi e alle tradizioni bibliche che fanno da sfondo e da trama ai primi enunciati del prologo permette di dare ad essi spessore: si tratta anzitutto tradizioni relative alla creazione, che insistono sul ruolo che in essa assu me il parlare/la Parola di Dio o la Sapienza di Dio, presenti sia nel Pentateuco che nella riflessione dei libri sapienziali e dei salmi (Gen 1,1-3; Sai 33,6; Pr 8,22-31; Sap 9,1-2.9; Sir 1,4; 24,3.9); si tratta poi, in secondo luogo, delle tradizioni relative all’azione della Parola di Dio nella rivelazione, sia nel Penta teuco (Dt 8,8) che nei libri profetici (Is 40,1-8; 55,10-11), nei salmi (Sai 103,20; 107,20; 147,4.18-19; 148,8) e nei libri sapien ziali (Sap 16,12.26 e 18,15). In rapporto ai testi sopra evocati, l’«in principio» di Gv 1,1 rimanda certamente alla prima parola della Scrittura, il If resitien archìi di Gen 1,1 e, dunque, all’unico principio raccontabile: quello, cioè, della creazione in cui il parlare di Dio dà avvio
allo scorrere del tempo, del tutto essenziale ad ogni racconto. Proprio nel modo in cui l’evangelista richiama l’inizio delle Scritture, però, risulta evidente il suo salto teologico e “narra tivo” : il principio non è un «principio di» qualcosa o di un fare (il principio della creazione) ma principio in senso asso luto. Più Origine che inizio. La prima affermazione del Quar to Vangelo ci pone, dunque, davanti all’essere come sorgen te. In questo «principio», che è la fonte stessa della vita, c’è già da sempre («era») la Parola e, dunque, il dono di sé; que sta origine/principio, anzi, è dono di sé, Parola e comunione: Lògos, infatti, deriva etimologicamente da légo che significa raccogliere, connettere, legare insieme. La presenza della Sa pienza alle origini del mondo con/vicino a Dio (Pr 8,30-31; Sir 1,4; 24,9) non è detta più in relazione al mondo e ai suoi inizi, ma in relazione a Dio nella sua intimità, sorgente perenne di vita in se stesso (Sai 36,10), sopravanzo, gratuità, novità. Ri volta verso Dio come una persona a un’altra, la Parola non solo è il primo pronunciarsi di Dio, ma è essa stessa Dio. Qua lunque influenza concettuale,52 per quanto significativa, non potrebbe bastare a spiegare l’affermazione sull’originarietà della Parola come essere personale, Dio verso Dio, poi iden tificata con l’Unigenito Dio (v. 18): essa si deve alla consape volezza raggiunta in merito al rapporto tra l’uomo Gesù «fi 52 Un'influenza indiretta si può attribuire agli sviluppi della teologia giudaico-ellenistica del Logos ben rappresentata in Filone alessandrino che si riferisce al «Logos divino» come a una figura mediatrice tra il Dio creatore e le realtà sensibili create (La fuga e il ritrovamento 101). Del Logos, Filone può dire che «non è ingenerato come ho Theós né generato come voi, ma intermedio tra gli estremi, comunicando con l'uno e con l’altro» (L'erede delle cose divine 205-206); arriva a chiamarlo anche «primoge nito» di Dio (ho prdtógonos autou theìos lògos: I sogni 1,215), «secondo Dio» (Doman de e risposte sulla Genesi 2,62), «immagine» di Dio (La confusione delle lingue 97; 146-147). Per Filone, però, il Logos può essere chiamato Theós, senza articolo, solo per «abuso linguistico» (I sogni 1,230) e non ha una dimensione personale. È certa mente «strumento» (órganon) del progetto creatore di Dio (La migrazione di Abramo 6) e «ministro dei doni» per mezzo del quale Dio ha fatto il «mondo» (Lim mutabilità di Dio 57), ma non diventa «carne». L’evoluzione intra-giudaica dell’idea di Logos, da sola, non basta, a mio avviso, a spiegare l’inizio del Vangelo giovanneo.
glio» e la Parola escatologica di Dio; tra la persona di Gesù e il «Figlio dell’uomo» il cui nome è pronunciato da Dio prima della creazione (1 Enoc 4 8,3). Nel v. 2, che ha una funzione conclusiva e riassuntiva, i ter mini chiave del primo verso («in principio», «era», «verso Dio») sono richiamati così da ribadire solennemente la radica le dignità del Logos e, al contempo, l’impossibilità di dire l’es sere e Dio, «in principio», prescindendo da lui. Il v. 2, che senza dire nulla di nuovo prolunga ancora lo spazio di rifles sione consacrato all’essere di Dio indipendentemente dalla creazione, serve anche a sigillare la distinzione e la distanza tra Creatore e creatura. Il Logos appartiene interamente a Dio, non al mondo. v. 3. Stabilita la differenza, il v. 3 riprende il movimento ascensionale dell’inno e afferma che non solo il Logos appar tiene a Dio, ma ha come suo peculiare possesso la creazione. Il chiasmo stringente e perfetto del v. 3 esprime nitidamente questa radicale appartenenza del mondo al Logos: nella Paro la tutto sussiste; tutto ha genesi, inizio di esistenza e sussisten za «per mezzo di lui» e neppure una cosa «senza di lui» (cfr. anche lCor 8,6; Col 1,16; Eb 1,2). Se, da un lato, con questa affermazione continua la celebrazione della dignità sovratem porale del Logos e, al contempo, appare la dignità di ciò che esiste per la sua originaria e strutturale appartenenza alla Pa rola-Dio, imprinting di tutta la creazione, dall’altro, l’afferma zione implica che da tale appartenenza dipende la sussistenza stessa della creazione. vv. 4-5. Il tema della «vita» appare perciò immediatamente nei w. 4-5, che lasciano intravedere già il conflitto sperimen tato da Gesù (3,19-21; 12,35-36). Simultaneamente e per la prima volta appare il linguaggio dualistico nella contrapposi zione luce-tenebra. Essa dipende primariamente dal testo di Gen 1,3-5 che l’evangelista continua a rileggere cristologicamente, ma si inscrive anche nella più ampia struttura sapien
ziale e apocalittica che governa la riflessione giovannea e la sua narrazione simbolica del ministero di Gesù, «giorno» lumino so dell’operare salvifico di Dio prima che sopraggiunga la «not te» (8,12; 9,4-5.39-41; 11,9-10; 12,35-36.46-50). La sapienza di Dio, infatti, è vita e luce degli uomini: seguirne le tracce e re stare nella sua ricerca è garanzia di vita; separarsene e rifiutar la, invece, è certezza di morte (Pr 1,20-33; 6,23; Bar 3,9-14; 3,38-4,2; Sap 6,12-20; 7,10.22-30). Nel creato, ai suoi diversi livelli, la Parola è dunque vita e fonte di vita; tutto il creato partecipa della vita della Parola. Per il genere umano, però, questa vita non può darsi che in quanto «luce» e, cioè, fonte di conoscenza e spazio adeguato di relazione. Nella rilettura giovannea, la «luce» non è la prima creatura con cui Dio decide il creato, ma è la Parola stessa partecipata come vita dal genere umano. Ugualmente, la «te nebra» non è l’oscurità del caos informe da cui, mediante il parlare divino, emerge il creato. La «tenebra», in effetti, al v. 5 è descritta come soggetto attivo di conflitto/rifiuto! Mediante la contrapposizione simbolica luce-tenebra e l’assunzione del lo schema dualistico profetico-apocalittico che esso presuppo ne, l’evangelista dichiara che il rapporto con la Parola è per gli uomini questione di vita o di morte. E impensabile, per loro, una vita che non sia anche, nella Parola, relazione personale con Dio, apertura esistenziale a lui che costituisce possibilità di vedere durante la notte, di discernere e giudicare quando ancora la vita umana è segnata da ima dimensione di «tenebra» che pone ostacolo alla «luce». Come sempre nella Scrittura, anche qui si fa riferimento a una dimensione di «tenebra» cui non si dà spiegazione (da dove il male?). La prospettiva non è, dunque, archeologica ma teleologica. Non si vuole spiegare da dove venga la tenebra, ma dire che in relazione al genere uma no la «Vita» si esprime necessariamente come Luce in conflit to con Tenebra e che questa tenebra il genere umano può su perarla partecipando della Luce della Parola-Dio mediante la
quale tutto comincia ad esistere e che «nella tenebra splende» senza essere vinta. L’allusione è già chiaramente cristologica: il cuore degli uomini e la loro esistenza nel mondo saranno il teatro o il campo della lotta storica fatta dalla Parola per affer marsi come Vita per il genere umano. w. 6-8. Restando fedele in modo del tutto originale inci pit tradizionale dell’annuncio evangelico (Me 1,2.4; At 1,20-21; 10,37-43; 13,23-25; 19,4), l’evangelista inserisce nel prologo stesso il riferimento alla missione del precursore che assume ora un ruolo strutturale perché introduce letterariamente e circoscrive storicamente e teologicamente il discorso sul veni re storico/rivelarsi della Parola-Luce nel mondo. Del precur sore è indicata la comparsa nel tempo (esistenza storica e mis sione), l’origine della missione in Dio, il nome, il fine della sua missione (testimonianza e fede), la sua identità per contrasto con quella del Logos, identificato come «luce». In questi tre versi sono, quindi, concentrati per la prima volta i tre verbi più importanti del prologo che avranno una pregnanza teologica e cristologica decisiva anche nel resto del Vangelo: gtgnomai (esistenza che ha inizio nel tempo), érchomai (il venire in rap porto a una missione), eìnai (l’essere che dice l’identità profon da di un soggetto).53 In quanto dnthròpos che «comincia a esistere nel tempo» (cfr. v. 3), Giovanni è già legato essenzialmente alla ParolaLuce (cfr. v. 4b). A questo legame creaturale originario, si ag giunge quello determinato dal suo essere «mandato da Dio», li verbo apostéllò («inviare», «mandare») appartiene anch’esso al vocabolario teologico caratteristico del Quarto Vangelo e viene usato per qualificare quasi tutti i personaggi maggiori delIl Il verbo «essere», nel resto del prologo, ha come soggetto sempre e soltanto il I ,ogos-Vita e ne dice resistenza sovratemporale. L’unica volta che viene usato per un ultro soggetto, qui per Giovanni, è preceduto dalla negazione. Questo aspetto negati vo dell’identità e funzione di Giovanni è essenziale e speculare a quello positivo: cfr.
U .9-21; 3,25-30; 10,41-42.
racconto. La caratterizzazione del personaggio Giovanni come primo inviato, dunque, è particolarmente intensa. Egli, a dif ferenza di quanto accade ai discepoli di Gesù, è mandato di rettamente da Dio Padre e sta in un rapporto diretto di obbe dienza con Lui (1,33); la sua missione, quindi, ha una profon dità teocentrica ineguagliata che la rende in qualche modo parallela a quella di Gesù, le corrisponde nel tempo storica mente ed è ordinata ad essa, ricevendone, anche, una coloritu ra cristologica specifica (3,28). Come Gesù, anche Giovanni viene ed è mandato per «rendere testimonianza alla verità» (5,33 / / 18,37); come la Parola-luce che «splende nella tene bra», così anche Giovanni «arde e splende» (5,35 in relazione a Sir 48,1; Sai 132,17),34 pur non essendo lui la Luce stessa e non godendo di luce propria. C ’è un che di struggente in tutto ciò: inviato direttamente da Dio, Giovanni non è l’inviato per eccellenza perché «Colui che Dio ha inviato» è per definizione un altro, quello in funzione del quale Giovanni è stato manda to. Nel suo essere «mandato da Dio» c’è dunque implicita non solo una dimensione di profonda dignità, ma anche una dimen sione di eteroreferenzialità ed espropriazione. Giovanni non è «la Parola» ma solo la «voce di chi grida nel deserto» davanti a colui che viene (1,23), divenendo in qualche modo il model lo di ogni «apostolo-testimone» e anticipando la funzione del suo «doppio testimoniale», cioè il discepolo amato. L’insistenza sul lessico testimoniale nei w. 7-8 non è casuale: la testimonianza, infatti, si lega strettamente alla rivelazione e, dunque, alla missione nel Quarto Vangelo. Tutti coloro che sono mandati, in Giovanni, hanno un ruolo nel processo della rivelazione divina e, dunque, una funzione testimoniale. Il pre cursore Giovanni, dunque, spicca non in qualità di battezza-54
54 Nel simbolo del lychnos si potrebbe cogliere anche un’allusione alle luci del candelabro a sette braccia sempre ardente davanti all’arca della testimonianza nella Tenda del convegno secondo Es 25,31-37; 27,20; Lv 24,2.
ture - anche se tale attività viene ampiamente richiamata in 1,19-34; 3,23; 4,1; 10,40 - ma in qualità di testimone persona le del Cristo (1,32.34; 3,26; 5,33), addirittura di «amico dello Sposo» (3,29-30). Nel mondo e nella storia, deponendo «so lennemente e ufficialmente come di fronte a un tribunale»,55 egli rende al Figlio la testimonianza che il Padre stesso gli ren de attraverso le Scritture e le opere (cfr. 5,31-32.37; 8,18). Con una suggestiva immagine, R. Vignolo sintetizza tale ruolo: «ri spetto a Gesù, Giovanni Battista avanza come una sorta di suo adombramento anticipato, una sua stupenda controfigura concava»,56 anticipando e incarnando in sé stesso, per primo, ['«accoglienza» resa dai credenti alla Parola-Luce veniente nel inondo. Al «credere» di tutti, infatti, è interamente finalizzata la testimonianza di Giovanni. w. 9-14. Agganciati ai versi precedenti tramite la ripresa del sostantivo «luce» e del verbo «venire» (v. 9), i w. 9-14 costitui scono il movimento centrale del prologo che ha per tema la venuta del Logos nel mondo. Tra il v. 9 e il v. 10 kósmos, infat ti, è la parola-gancio, mentre la ripetizione del verbo érchomai («venire») collega tra loro il v. 9 (venuta nel mondo) e il v. 11 (venuta nella sua proprietà). Anche il v. 9 e il v. 14 sono in parallelo tra loro: il Logos viene nel mondo come Luce (12,46), ma soltanto «nella carne» la verità del suo «venire nel mondo» giunge alla sua piena visibilità (lG v 4,2; 2Gv 7) e «carne» si gnifica la possibilità di soffrire e di morire. Tra l’annunzio del la Luce veniente (v. 9) e la proclamazione della Luce venuta (v. 14) è racchiusa ima rilettura, a posteriori, della relazione dram matica tra la Parola-Luce e gli uomini. Tra gli uomini, la Paro la incontra rifiuto (w. 10-11) e accoglienza (w. 12-13). Se i w. 10 e 11 sono accomunati dal parallelismo antitetico («Era nel mondo, il mondo per mezzo di lui divenne» / / «nella sua prò” VlGNOLO, «La dottrina», 173-174.
56 Ivi, 183 (mio il corsivo).
prietà venne»; «eppure il mondo non lo riconobbe» / / «eppu re i suoi non lo accolsero»), il v. 11 e i w. 12-13 sono collegati invece dalla ripetizione del verbo lambàno («prendere», «rice vere») e del suo composto paralam bànó («ricevere presso», «accogliere») che determina un netto contrasto tra la reazione di chi, pur appartenendo a titolo del tutto particolare al Logos, non l’ha accolto e la reazione di coloro che, invece, «lo hanno accolto» per la loro fede ricevendone in dono una condizione di esistenza e di appartenenza a Dio del tutto nuova. Il kat epesegetico che introduce il v. 14 («sì», «cioè») collega strettamente la proclamazione del divenire carne del Logos all’acco glienza di fede: sono i credenti, gli stessi che parlano in «noi» nel v. 14, i soli a poter proclamare la venuta del Logos-Luce nel mondo come «carne». Nel loro insieme, dunque, i w. 9-14 formano un chiasmo: a) v. 9: il Logos-Luce è descritto come veniente, annunciato nel suo ingresso b) w . 10-11: esso è incompreso e rifiutato dalle sue creature e dalla sua stessa eredità b 1) w. 12-13: trova accoglienza nei credenti e dà loro di diventare «figli di Dio» a1) v. 14: la venuta della Luce è il divenire carne del Logos, rico nosciuto e contemplato nella persona dell’Unigenito
w. 9-11. Dato il suo significato strutturale per l’esistenza del creato (v. 3) e per la vita degli uomini (v. 4), l’intima apparte nenza delle creature al Logos avrebbe dovuto trovare, senza possibili opposizioni, la sua manifestazione piena, universal mente visibile, nelle relazioni storiche del Logos con il mondo fino al culmine del suo divenire carne. Invece, nella storia essa trova la smentita (w. 10c-ll). La verità della relazione creaturale e storico-salvifica del mondo al Logos non ha trovato at tuazione esistenziale universalmente visibile nemmeno nel suo
attuarsi puntuale e concreto alla venuta del Logos nella carne. L’incontro tra la Luce e il mondo sembra essere stato mancato quanto alla capacità del mondo di fare spazio alla verità. I w. 10-11, come i w. 1-5, vanno letti anch’essi sullo sfondo della tradizione sapienziale dell’Antico Testamento e dei suoi svilup pi nell’apocalittica giudaica: la Parola-Sapienza di Dio, che esercita il suo dominio sul cosmo e sui popoli (Sir 24,3-6) rice ve in eredità particolare Giacobbe-Israele (cfr. Sir 24,7-8.10-12 come rielaborazione in chiave sapienziale della teologia dell’al leanza espressa in Es 19,5; Dt 32,7-11). Secondo 1 Enoc42,1-2, però, la Sapienza abbandona la terra e non trovando posto tra i figli degli uomini pone la sua sede nel cielo, tra gli angeli. Il suo posto sulla terra viene riempito allora dall’ingiustizia. Lo scenario rappresentato da Giovanni non è meno drammatico: il mondo non «conosce»; l’eredità della Sapienza non le fa spazio. «I suoi», differenziati dal kósmos quanto al grado di relazione personale con il Logos, ma apparentati al mondo quanto alla reazione negativa con cui rispondono al suo venire, rappresentano la chiusura del mondo a Dio o, in termini giovannei, l’odio del mondo. L’allusione al conflitto cristologico sembra quanto mai chiara (Gv 3,19-20; 16,3): in esso, infatti, viene alla luce ed esplode tutto ciò che di «mondano», cioè di chiuso e opposto a Dio, in lotta con Lui perché governato da un altro «principe» e chiuso alla Sua signoria (12,31; 14,30), si annida e si insinua nelle stesse fibre della relazione di alleanza con Dio. Nel concreto della storia salvifica, questi versi illu strano quanto detto simbolicamente nel v. 5 a: la luce splende, sì, ma nelle tenebre. vv. 12-13. Secondo Giovanni, però, il Logos di Dio non abbandona la terra all’ingiustizia: al contrario, la raggiunge e l’assume fino a divenire carne. E non da tutti l’incontro con lui è stato mancato: ci sono coloro che, sì, hanno riconosciuto e «contemplato» la Gloria del Logos-Luce nella carne, anche se nel contesto e a prezzo del conflitto mortale cui l’Incarnato si
è esposto. A conferma di quanto detto nel v. 5b, al crescendo negativo dei w. 10-11 segue, dunque, il crescendo positivo inversamente proporzionale dei w. 12-13. La chiave di volta sta nel passaggio dal rifiuto all’accoglienza ed è proprio l’atto del «ricevere» (lambàno) che mette in campo, definendolo, un nuovo soggetto di relazione con la Parola-Luce: non più la tenebra (che «non ha sopraffatto», kata-lambàno), non più «il kósm os» (che «non conobbe»), non più gli tdioi (che «non diedero accoglienza», para-lambàno), ma tutti coloro che, pur essendo «nel mondo» (17,6.11.14.16), si differenziano dalla tenebra, dal kósmos e dagli tdioi per avere «ricevuto» la Paro la, atto che determina per loro una nuova appartenenza al Lo gos divenuto carne (13,1; 17,6.10). Questo atto, per Giovanni, coincide con il «credere nel no me di lui». Il sintagma «credere nel nome di» è solo giovanneo nel Nuovo Testamento (2,23; 3,18; lG v 5,13): significa crede re nella persona di Gesù in quanto Figlio rivelatore del Padre, realizzatore della sua volontà salvifica, testimone dell’essere e del dono di Dio al mondo; significa accogliere la sua parola e testimonianza resa al Padre (Gv 17,6-8).57 Per i soggetti di cui si parla nei w. 12-13, la relazione di appartenenza alla Parola e, mediante essa, a Dio non è più secondo creazione soltanto o secondo l’elezione di Israele, ma secondo il «credere/riceve re». Tale atto, costitutivamente dinamico, fa da autentico spar tiacque in seno al «m ondo» e in seno al popolo dell’alleanza (cfr. già Is 65,13-66,5). La novità della appartenenza dei ere57 Nel sintagma si potrebbe riconoscere anche un’allusione al battesimo (cfr. anche lG v 3,1-2.9; 4,7; 5,1; G c 1,18; lPt 1,3.23; 2,1). Il verbo «credere» compare anche in altre costruzioni nel linguaggio giovanneo: «credere in» (pisteùd eis + accusativo) si gnifica la fede in qualcuno in senso dinamico e relazionale, «impegno attivo per una persona e in modo particolare per Gesù. Ciò significa molto più che la fiducia in Gesù; è un’accettazione di Gesù e di ciò che lui proclama di essere e una dedizione della propria vita a lui» (BROWN, Giovanni, 1455). «Credere a» (pisteùd + dativo) implica, invece, credere a qualcuno o in/a qualcosa nel senso di accettare un messaggio come attendibile, senza che sia altrettanto evidente l’impegno per la persona (Gv 5,46-47).
denti a Dio viene illustrata con il linguaggio di creazione: essi cominciano a esistere come «figli di D io» (tékna, non hyiós usato solo per Gesù), generati da Dio e non secondo dimen sioni di esistenza o logiche di potere caduche come il «sangue» e la «carne» (3,3-8). G v 1,13 usa per la precisione il plurale «sangui» che nell’Antico Testamento è usato per indicare lo spargimento di sangue (l’omicidio), le mestruazioni della don na o «i sangui» del parto da cui la puerpera deve purificarsi al tempo stabilito (demè thohóràh: il sangue della purificazione, cfr. Lv 12,1-8, in modo particolare v. 4). E in quest’ultimo senso che lo usa probabilmente l’evangelista, indicando in mo do del tutto plastico e fisico la differenza tra la generazione fisica e la generazione spirituale delle creature umane. v. 14. Il verso, che porta al culmine il crescendo positivo dei vv. 12-13, afferma che l’incontro, per coloro che hanno credu to, si è compiuto nella carne mortale dell’uomo-Figlio, piena mente accolto e riconosciuto, «contemplato», nella sua dignità o «G loria», come pieno della pienezza di Dio, il «pieno di grazia e verità», presenza personale del Dio dell’alleanza, dal Volto invisibile ma dal Nome rivelato (cfr. Es 33,18-34,28). Se k figura biblico-teologica usata dall’evangelista per parlare del Logos nella sua sovraesistenza era quella della Parola-Sapienza, per parlare del Logos venuto nella carne l’evangelista rimanda ora più direttamente alla teologia dell’alleanza e della rivela zione sinaitica. Nel racconto esodico, infatti, la rivelazione del Nome del Signore («pieno di grazia e verità») avviene in rispo sta a (e nel contesto del) tradimento del popolo appena eleva to alla relazione di alleanza (Es 32): la rivelazione dell’essere di Dio e del suo agire salvifico fedele in favore del popolo scelto, la rivelazione della Gloria e del Nome, è sin da allora connessa alla necessità del perdono nel contesto del tradimento. Ugual mente, nel contesto del prologo giovanneo, la rivelazione del Logos divenuto carne si ha nel Nome di Colui che è stato «non conosciuto» dal mondo, non «accolto» dai suoi, ma mediante
la fede proclamato dai credenti come Figlio unico «pieno di grazia e verità», colui nel quale è visibile la Gloria che Mosè chiedeva di vedere. Nel lessico e nell’immagine dell’«attendarsi» divino in mez zo al suo popolo l’evangelista individua il luogo di convergen za tra la teologia della alleanza e le sue riletture sapienziali per esprimere nel modo migliore la prossimità relazionale tra il Dio Logos e il mondo. Della Gloria di Dio nel contesto esodico si proclamava, infatti, la presenza nella «tenda del convegno» (Es 40,33b-38; 2Sam 7,6); di un rinnovato venire del Signore per attendarsi in Sion parlavano i profeti in prospettiva escatolo gica (Gl 4,17.21; Zc 2,14). Di attendamento si parlava anche per dire la particolare presenza e sovranità della Sapienza in Israele (Sir 24,8). Per Giovanni, ora, la «tenda» è la «carne» umana del Logos, partecipe della «nostra» umana condizione. «Pose la sua tenda tra noi», infatti, è parallelo a «divenne (co minciò ad esistere come) carne» e significa anzitutto l’assun zione che il Logos fa del corpo creaturale, esposto alla soffe renza e alla morte, condiviso con noi e reso vero e vivo «san tuario» divino (Gv 2,20-21), tenda della nuova alleanza.58 In questa carne i credenti hanno potuto contemplare la Gloria: è la Gloria che Mosè aveva chiesto di vedere, ma qui si precisa come «Gloria» relazionale, condivisa da due, «Gloria come di Unigenito dal Padre». Anche nel resto del Vangelo, ogni volta che Gesù farà riferimento al proprio onore, dignità, «gloria» lo farà in termini relazionali, guardando al Padre da cui tale gloriagli viene (5,41-44; 7,16-18; 8,49-55; 17,5.22.24). w. 15-17. La prima proclamazione in «noi» del prologo (v. 14), col suo impegnativo contenuto cristologico, è immedia tamente supportata e sigillata dal secondo riferimento alla 58 II verbo skenód, in realtà, è raro nell’Antico Testamento greco: cfr. Gen 13,12; Gdc 5,17 e 8,11. Nel Nuovo Testamento compare solo qui e in Ap 7,15; 12,12; 13,6; 21,3.
testimonianza di Giovanni: il v. 15 la riporta in forma di cita zione diretta, anticipando all’interno del prologo quanto si leggerà, a racconto iniziato, in 1,30. È dell’uomo-Figlio, e non più soltanto del Logos-Luce, che Giovanni «testimonia» ora; è con l’uomo-Figlio che il Logos-Luce è identificato («questi era colui che io dissi...»). I w. 16-17, a loro volta, si collegano strettamente alla terza affermazione di Giovanni (v. 15e) me diante la congiunzione hóti cui occorre riconoscere valore causale, più che dichiarativo. La testimonianza-proclamazione di Giovanni diventa, in tal modo, la testimonianza-proclama zione della comunità dei credenti, gli stessi che parlano in prima persona al v. 14 e che ritornano a parlare in prima per sona al v. 16. La prima differenza da notare, rispetto al primo inciso su Giovanni, consiste nell’uso, nel v. 15ab, dei verbi al presente («testimonia», martyrei) e al perfetto («ha proclamato/grida ta», kékragen): entrambe le forme verbali dicono che la testi monianza di Giovanni non solo si è compiuta nel passato, ma incora risuona nel presente come in atto di compiersi. È un «grido» profetico che ancora mantiene la sua validità ed effi cacia (1,23). Utilizzato insieme al verbo martyréó, il verbo kràzo ha il sapore dell’annuncio kerigmatico solenne e definitivo: colui che è il Logos divenuto carne è anche il «veniente» atte so all’incontro di Israele con Dio (Sai 118,26; Ab 2,3; Mt 3,11 // Me 1,7-8 e Le 3,16; Mt 11,3 / / Le 7,19-20; Mt 21,9 / / Me 11,9 e Le 19,38; Gv 6,14; 11,27; 12,13; At 19,4). Pur seguendo cronologicamente Giovanni nella missione {«viene dopo»), lo precede in dignità sul piano della funzione storico-salvifica («mi è divenuto avanti») perché lo precede sul piano stesso dell’essere {«era prima di me»). Di nuovo, come nei w. 6-8, i Ire verbi «divenire», «venire», «essere» si concentrano quando tìi parla del testimone Giovanni, deputato prima di chiunque nitro a proclamare l’identità di Gesù. Riferito alla sua procla mazione, soprattutto nel v. 15 che è preceduto e seguito da due
versi che esprimono la confessione di fede della comunità (w. 14 e 16-17), l’uso del verbo martyréd rappresenta una sorta di «torsione specificamente forense» dei verbi tipici dell’annuncio kerigmatico assenti in Giovanni (keryssd, euangelizo) e della confessione cristologica (espressa anche nel Quarto Vangelo dal verbo homologéd: cfr. 1,19-20; 9,22; 12,42): «in quanto azio ne parallela alla confessione cristologica e ad ulteriori atti so lenni di proclamazione {gtiàate/kràzd, annunziare/augèllo anangélld apangéllò, patiate/laléd), l’attestazione prende chia re connotazioni kerigmatiche di energica carica affettiva e comunicativa».59 vv. 16-17. Questi versi, nei quali il «noi» del v. 14 riprende la parola fondendo la propria voce con quella del testimone Giovanni, esprimono esattamente tale carica affettiva e comu nicativa implicata nell’attestazione di fede. Per il «noi tutti» del v. 16 la testimonianza di Giovanni è già stata efficace ed essi parlano qui anche a nome di tutti i potenziali credenti, di «ogni uomo» che ancora deve essere raggiunto dalla testimonianza di Giovanni e, in essa, dalla pienezza del Logos divenuto carne. La precedenza sul piano dell’essere quanto della funzione storico-salvifica attribuita al Logos divenuto carne trova ulte riore conferma e fondamento nella proclamazione del «noi» nel v. 16: «ricevendo» il Logos divenuto carne (cfr. v. 12), in fatti, essi hanno «ricevuto grazia su grazia» dalla pienezza del suo essere filiale, presenza corporale, escatologica e personale della Parola-Dio. Il messaggio cristologico contenuto nel v. 14 si condensa qui non più dal punto di vista dell’identità del Cristo (la sua «gloria»), ma dal punto di vista di ciò che egli rappresenta per i credenti. In modo più esplicito che nel v. 14, nella testimonianza di Giovanni divenuta quella del «noi» cre dente affiora, dunque, la teologia giovannea dell’alleanza: nel v. 16 tramite l’accostamento frontale di «grazia» a «grazia»; nel 59 VlGNOLO, «La dottrina», 174.
v. 17 tramite un denso parallelismo tra «Legge» e «grazia e verità», tra mediazione di Mosè e mediazione di Gesù, tra «è stata donata» ed «è accaduta». Benché l’evangelista non usi mai la parola «alleanza», la teo logia dell’alleanza sinaitica resta potentemente sullo sfondo e nei w. 16-17 egli ne offre la propria rilettura. Come intenderla? In termini di sostituzione dell’alleanza sinaitica con l’alleanza cristologica? In termini di prefigurazione della grazia (la Legge e l’economia mosaica) e di compimento reale della grazia (l’economia cristologica)? In termini di contrapposizione e su peramento tra ciò che è qualitativamente inferiore nell’econo mia della rivelazione (la Legge di Mosè) e ciò che le è superio re, cioè la rivelazione cristologica (la «verità» di cui in Gesù è fatta «grazia»)? Oppure, ancora, in termini di semplice, piena, corrispondenza tra due «grazie» che stanno una di fronte all’al tra, l’una al pari dell’altra? L’ipotesi di una «sostituzione» o di un «superamento», che considererebbe chiuso il conto con l’alleanza mosaica, non mi sembra coerente con l’insieme del Vangelo: il tema della rivendicazione dell’identità giudaica da parte dei credenti in Gesù brucia ancora ardente nel racconto giovanneo del Nazareno che invade di sé gli spazi (Gerusalem me e il tempio), i tempi (sabato, pasqua, Capanne, Dedicazio ne) e i simboli (il pane del deserto; l’acqua viva e la luce della 7'òrah Sapienza; la vite scelta che è Israele) più sacri dell’iden tità giudaica. Nemmeno la contrapposizione qualitativa tra la Legge e la rivelazione cristologica sembra adeguata: con un passivo teologico si dice, infatti, che la Legge «è stata donata» e, dunque, è una realtà teologica eminentemente positiva stan do al lessico giovanneo del «dono». La Legge mosaica, d’altra parte, è piena secondo Giovanni di valore profetico e conte nuto cristologico (cfr. 1,45; 5,45-47; 7,19.23; 10,34-35). Penso sia più coerente con l’andamento letterario e teologico del prologo e con la teologia giovannea intendere tanto il rap porto tra «grazia» e «grazia» (v. 16) quanto il parallelismo del
v. 17 alla luce del passaggio dal dono della Legge alla «carne» del Donatore stesso di cui «Gesù Cristo» porta, nella sua esisten za storica filiale, attingibile sensorialmente ed esperienzialmente, il Nome e la pienezza. Nella storia e nel volto di lui, nella pie nezza del suo amore e della sua fedeltà ai «suoi», diventa realtà umana la pienezza dell’amore e della fedeltà di Dio a Israele e al mondo. In modo quasi intollerabile per la «carne», la «G lo ria» del «pieno di grazia e di verità» fa irruzione nel mondo nel segno e nella forma dell’identità filiale e fedele di Gesù. Tra il dono di Dio - mediato da Mosè e significato dalla Legge quale strumento della relazione di alleanza offerto da Colui che è pie no di grazia e fedeltà - e il «divenire carne», realtà esistenziale umana piena e totale del Donatore, si può riconoscere una cor rispondenza. Non paritetica, però, ma sconfinata, traboccante, perché fondata sull’abbattimento della distanza relazionale tra Creatore e creatura, sull’assunzione radicale della fragilità uma na e sulla grazia del perdono proprio della nuova alleanza esca tologica, capace di contenere nel suo crogiuolo il fallimento ri spetto alla grazia donata e tradita (cfr. Ger 31,31-34). La Gloria di Dio nel Figlio, infatti, si manifesta ed è vista, secondo Gio vanni, nella croce dell’Innalzato: il passaggio dall’antico al nuo vo nell’unica relazione di alleanza avviene per mezzo della cro ce di Gesù, luogo della glorificazione congiunta di Dio e del Figlio dell’uomo, del Padre e del Figlio, spazio dell’irrompere della grazia e fedeltà di Dio. La pienezza donata, dunque, non accade fuori o «oltre» la relazione di alleanza Yhwh-Israele: la testimonianza di Giovanni, nel prologo, ne racchiude la celebra zione e la stringe al suo interno, quasi stringendo l’intera rela zione Dio-mondo nel seno della relazione Logos-Israele e, con cretamente, nella storia e nella persona stessa del singolo uomo Gesù Cristo. E nel roveto ardente di questa relazione che la pienezza «accaduta», di portata universale e definitiva, è stata «contemplata» come Gloria: gloria di Dio stesso, Unigenito in relazione al Padre, partecipata a tutti quelli che credono.
v. 18. Con un’ultima affermazione solenne, l’evangelista chiude la celebrazione poetica del Logos rivelatore, divenuto «carne» nella persona di Gesù, per aprire il racconto della storia nella quale e mediante la quale la rivelazione si è com piuta e il riconoscimento del rivelatore è avvenuto. Il v. 18 ri prende tanto ivv. 1-5, consacrati all’essere di Dio in sé e al suo rapporto col mondo, quanto i w. 6-17 dedicati alla venuta salvifica del Logos nel mondo: ciò che di Dio Salvatore, del Dio unico di Israele, si può conoscere e dire con verità, passa esclusivamente per la persona del monogenes. Il verso contiene, perciò, due proposizioni principali: a) Dio nessuno l’ha visto inai; b) l’ha «condotto fuori», «spiegato», «raccontato», sol tanto l’Unigenito. L’affermazione dell’assoluta invisibilità di Dio è un topos classico dell’Antico Testamento: nessuno può vedere Dio e re stare vivo, anche se resta aperta la dialettica tra la relazione di Comunione cui Dio invita il suo partner umano e l’impossibi lità per l’uomo di reggere l’impatto con la divinità (Es 19,21; 33,20.23; contro Gen 32,31; Es 24,9; 33,11; Nm 14,14; D t5,4; 34,10; Gdc 6,22). Nella tradizione interpretativa giudaica, in epoca neotestamentaria, si insisteva però su alcune eccezioni alla regola, rappresentate appunto da Mosè sul Sinai o dai veg genti apocalittici nei loro viaggi celesti. Giovanni, in polemica torse con queste tendenze, insiste sul fatto che Dio non l’ha visto davvero nessuno per come Egli è in se stesso, nel suo mistero. Il «vedere», qui, implica una conoscenza intima e pro fonda dell’essere di Dio in sé (Gv 3,13; 5,37; 6,46) e nel con testo ampio della tradizione giovannea, il «vedere Dio così come Egli è» appartiene soltanto alla pienezza àe\Yéschaton ( IGv 3,2). Questa, però, è solo la prima parte dell’affermazio ne culminante del v. 18 e non avrebbe alcun senso se finalizza ta a se stessa. Essa costituisce solo la premessa negativa per l’affermazione cui tende, in fondo, l’intero prologo e da cui dipende l’inizio del racconto evangelico: di Dio soltanto uno è
autorizzato a parlare in pienezza e questi è l’Unigenito, Dio egli stesso. Se Sir 43 ,31 , al termine della sua celebrazione delle opere di Dio nella creazione (42 ,15— 43,33 ), si chiedeva: «Chi lo ha visto {tts heóraken autóri) per poterlo descrivere {kaì ekdiègesetai)? Chi può lodarlo per come egli è (kathos estin)?», al termine della sua «lode», nel v. 18, l’autore del prologo sem bra rispondere alla domanda e alla dottrina biblica sull’invisibilità e grandezza di Dio che essa presuppone: «Dio nessuno lo ha visto mai» (Theòn oudeis heóraken popote). L’Unigenito D io... Egli ha rivelato» (exègesato). Solo Dio può rivelare Dio, solo Dio può mostrare se stesso «così come è» veramente (,kathos estin, cfr. lG v 3,2). Il Dio di Israele lo ha fatto, mo strando al mondo, dispiegando in esso nella persona storica dell’uomo Gesù, il suo essere relazionale oltre e dentro il tem po: Parola verso Dio, Figlio in seno al Padre (Gv 14,6-11). La persona e l’agire dell’Unigenito, Dio egli stesso, riconosciuto nella persona unica e singolare dell’uomo Gesù, costituiscono la manifestazione puntuale e definitiva nella storia umana dell’essere di Dio per la salvezza del mondo. Si pone, a questo punto, un ultimo problema esegetico: co me intendere il participio presente che definisce l’Unigenito come «colui che è {ho on) in seno al Padre»? Fa riferimento all’esistenza sovratemporale del Logos-Figlio, per indicarne la natura divina condivisa col Padre e la sua immanenza in Lui (v. 1)? Fa riferimento al Figlio asceso al Padre dopo la morte e risurrezione (20,17)? Oppure fa riferimento al continuo es sere orientato di Gesù al Padre durante la sua vita storica, orientamento che è già proprio del Logos e costituisce il fon damento stesso del suo ruolo di rivelatore? In quest’ultima ipotesi, il presente del verbo «essere» dovrebbe essere inter pretato alla luce di testi come 6,46; 7,29 che insistono sulla costante unità e intimità tra Dio e Gesù. Il senso della frase sarebbe che Gesù, nell’intera sua vita, è rimasto sempre aperto come Figlio al Padre in una relazione di amore e di obbedien-
za incessante. Il «seno» (kólpos), immagine di intimità e vici nanza cercata o stabilmente raggiunta, procurata o percepita, sarebbe stato scelto per dire plasticamente tale relazione nel modo più incisivo: essere «nel seno di» significa, infatti, vivere in comunione (Le 16,22). In Giovanni questa immagine di comunione ritorna due volte: qui e in 13,23. In 13,23 dice una prossimità anzitutto corporea, fisica, determinata dalla posizione del discepolo ama to vicino a Gesù nella cena, ma in entrambi i casi indica una condizione di profonda intimità e condivisione. Il rapporto tra i due testi è troppo forte per essere ignorato: se Gesù è il rive latore di Dio e il testimone del Padre, il discepolo amato è il testimone per eccellenza di Gesù a partire dal momento dram matico del tradimento di Giuda. Egli incarna, dunque, la con tinuità tra l’intimità del Figlio col Padre e l’intimità dei disce poli col Figlio e, nel Figlio, col Padre, il loro essere stati intro dotti nell’intimità della relazione divina. Non si può, quindi, ridurre la portata dell’affermazione del v. 18 alla sola esistenza Storica del Figlio anche se, senza alcun dubbio, il riferimento ad essa è compreso ed è basilare. La relazione filiale a Dio come proprio Padre, che ha contrassegnato ogni istante della vita storica dell’uomo Gesù, non è altro che il mostrarsi stori co della relazione del Logos a Dio, del Figlio al Padre. In G e sù, essa è stata spalancata, aperta al mondo ed è diventata l’ere dità accessibile a tutti i credenti, abilitati alla sua stessa esisten za filiale (cfr. w. 12-13). Il v. 18 costituisce, quindi, un versetto ponte tra l’inno e la narrazione: il Vangelo illustrerà, raccontando, l’atto di «esege si» o rivelazione che il prologo enuncia celebrando. Il respon sabile di tale narrazione, non a caso, sarà riconosciuto nel di scepolo amato partecipe dell’intimità del Figlio («nel seno di Gesù»: 13,23.25; 21,20) come il Figlio lo è dell’intimità del Padre. Il dono con cui il Figlio ha aperto le profondità di Dio vivendo il suo rapporto col Padre dentro la nostra storia, nella
nostra carne e in mezzo a noi, è il suo atto di esegesi e costitui sce la nostra visione di Dio, l’unica possibile all’uomo; la pie nezza di Lui da cui noi tutti abbiamo ricevuto grazia su grazia. Cosa sia l’essere, il vivere e amarsi del Figlio e del Padre e la loro comunione nelle fibre della carne umana e fino alla pasqua dell’uomo Gesù, questo sarà l’oggetto del racconto giovanneo e la rivelazione salvifica secondo Giovanni.
3. Esegesi di Gv 9: dottrina ed esperienza davanti al rivelarsi del Figlio dell’uomo Il racconto della guarigione del cieco nato manifesta più di ogni altro la «consumata arte» narrativa del quarto evangeli sta.60 Con la sua forza estetica e la drammaticità del suo svilup po esso traduce plasticamente il tema centrale del Vangelo: quello dell’identità di Gesù «luce del mondo» la cui azione illuminante non solo salva ma anche provoca divisione, opera il discernimento e significa il giudizio (1,4-5.9; 3,19-21; 8,12; 10,21; 12,35-36.46). E come una rappresentazione in miniatu ra {mise en ahimè) della storia giovannea di Gesù: il gesto pro digioso (trama di azione) solleva la questione dell’identità del guaritore (trama di rivelazione) e questa, a sua volta, determi na conflitto e divisione; come nel resto del Vangelo, e più che in occasione dei «segni» precedenti, in questo racconto di mi racolo e di incipiente sequela l’azione fondamentale è verbale più che gestuale ma il suo protagonista principale non è tanto Gesù, che compare solo all’inizio e alla fine, quanto il cieco divenuto vedente. Egli, in altri termini, funge da figura specu lare a quella di Gesù: prende il suo posto davanti al tribunale inquisitorio di farisei e «Giudei»; lotta per affermare la propria identità davanti al dubbio e alla divisione di quanti lo conosco 60 Brown, Giovanni, 492.
no, procurandosi contestazione e abbandono; è testimone e prova vivente dell’identità di Gesù rivelatore e giudice escato logico. Dopo Giovanni Battista, a nessun altro personaggio singolo viene dedicato tanto spazio narrativo autonomo in as senza di Gesù. A nessun altro personaggio all’infuori di Gesù, infine, il quarto evangelista mette in bocca l’espressione iden titaria più asciutta, e al contempo più potente e teologicamen te evocativa, ego eimi («Sono io»: 9,9). Nel racconto del c. 9 forma e tema del Quarto Vangelo sono del tutto coincidenti: la storia del cieco diventato vedente è trasparente della traspa renza teologica, antropologica e ecclesiologica della storia di Gesù «luce del mondo».
3.1. Contesto e genere letterario Il capitolo costituisce solo la prima parte di una scena nar rativa più ampia che, come altre (per esempio, c. 5), intreccia un racconto di miracolo (9,1-38), un dialogo (9,39-41) e un discorso di Gesù (10,1-18) seguiti da una conclusione che al lude nuovamente al miracolo riconoscendo in esso un segno rivelatore dell’azione del Servo di Yhwh (10,19-21; cfr. Is 42,67). Scena centrale tra le sette che compongono i cc. 5-12, la narrazione di Gv 9,1-10,21 si colloca tra la sezione della festa delle tende (cc. 7-8) e quella della festa della Dedicazione (10,22-39) e ha come sua cornice festiva il giorno di sabato (9,14).61 Dal punto di vista letterario, quindi, la storia del cieco nato è in rapporto molto stretto anzitutto con il discorso sulla por 61 Per gli autori che ritengono che 9,1-10,21 appartenga alla sezione della festa delle Tende (cc. 7-8), il sabato di cui si parla in 9,14 coinciderebbe anche con «Fulti rno giorno, quello solenne, della festa» (7,37): la guarigione del cieco sarebbe la ma nifestazione culminante della presenza salvifica di Dio in mezzo al suo popolo duran te la festa.
ta e sul pastore che si sviluppa nel c. 10. Il cieco guarito scom pare, ma non si segnalano cambiamenti di tempo o luogo: Gesù continua a parlare con «alcuni tra i farisei che stavano con lui» da 9,41 a 10,18. Nella sua persona e nella sua storia drammatica il cieco non soltanto costituisce una figura cristo logica, ma anche una figura ecclesiologica: rappresenta il servo Israele prima cieco e poi illuminato dall’azione del Servo di Yhwh (Is 42,16.18-19; 43,8-13; 49,6-11; 50,10) e, dunque, tut te e singole le pecore del gregge di Israele, maltrattato dai suoi pastori ma radunato escatologicamente da Gesù Re e Pastore davidico (Is 53,6; Ez 34; 37,15-28). Simboli e temi legano il racconto della guarigione del cieco nato anche alla sezione del la festa delle Capanne che lo precede: l’invio del cieco alla piscina di Siloe nella cui acqua, lavatosi, acquista la vista (Gv 9,7) rimanda alla processione che si faceva a Siloe per attinge re l’acqua da versare all’altare, nel Santo, ciascuno dei sette giorni della festa; il simbolismo della luce rimanda anch’esso alle quattro mfndròt giganti poste nel cortile delle donne che di notte illuminavano Gerusalemme (mSukkot 5,1-4). Acqua zampillante da Sion e luce senza più notte erano i simboli del trionfo regale di Yhwh in Sion, al cospetto delle nazioni, nel contesto di Sukkot già secondo Zc 14,6-9.16.18.19 (cfr. Gv 7,37-39; 8,12) e al tempo di Gesù, le cerimonie della festa con nesse a questi simboli avevano acquisito ormai un carattere escatologico e messianico marcato. La storia del cieco raccontata su questo sfondo costituisce un segno quanto mai evidente dell’identità messianica di Gesù come «inviato» che, nel contesto, è oggetto continuo di dispu ta (7,12.25-27.31.40-43; 8,25; 10,19-21; 10,24.36) ma si può riconoscere dai segni e nelle opere. Nella sua stessa persona, il cieco nato attesta l’opera di Dio in atto di realizzarsi grazie alla presenza e all’azione di Gesù e, dunque, prova la differenza tra luce e tenebra e il discernimento tra chi è cieco e chi vede. Egli è, dunque, giudizio in se stesso. Un giudizio vissuto a prezzo
della propria vita: proclamarsi secondo la sua identità significa inevitabilmente, per l’ex cieco, parlare a favore dell’identità di Gesù ed esporsi così al rischio del rigetto da parte dei suoi pastori (9,24-34) e dell’abbandono da parte dei suoi stessi ge nitori (w. 18-22). A differenza di questi, il cieco illuminato non teme ma rischia, così come Gesù stesso, nei cc. 5-12, rischia continuamente la vita persistendo nell’affermazione della pro pria identità. Opera di nuova creazione in se stesso (9,3), egli dimostra la verità delle parole di Gesù: «Le opere, che il Padre mi ha dato da portare a compimento, quelle stesse opere che io faccio testimoniano di me che il Padre mi ha m andato» (5,36). Letta sullo sfondo dei cc. 5-12 e, in particolare, dei cc. 7-10 la storia del cieco nato costituisce un luogo di rivelazione cruciale del dramma cristologico nelle sue diverse dimensioni: antropologica, ecclesiologica e soteriologica. Nella sequenza narrativa del Quarto Vangelo, quello del c. 9 è il terzo racconto di guarigione dopo quelli del figlio del funzionario regio a Cafarnao (4,46-54) e del paralitico alla pi scina di Betzatà (5,1-18). Con quest’ultimo, il racconto della guarigione del cieco nato ha molte cose in comune: avviene in giorno di sabato (5,9 / 9,14) e assume conseguentemente i to ni di una controversia giuridica in materia di halakah giudaica (violazione del sabato); lo spazio maggiore è riservato ai dialo ghi più che al miracolo in se stesso e ciò conferisce un caratte re maggiormente drammatico alla narrazione; la guarigione, in entrambi i casi, è motivo di conflitto tra Gesù e coloro che appaiono deputati alla custodia del sabato («i Giudei» in 5,9-18, «i farisei» e «i Giudei» in 9,13-34); il guarito si trova personal mente coinvolto nel conflitto. Tra il paralitico di Betzatà e il cieco nato, però, c’è una profonda differenza. L’atteggiamento del primo sembra piuttosto passivo e deresponsabilizzato, non determina un rapporto personale con Gesù; l’atteggiamento dell’altro è attivo e progressivamente più deciso, capace del rischio e del conflitto, e conduce a un’esperienza intima e com
piuta di Gesù riconosciuto nella fede come il Figlio dell’uomo. La storia del cieco nato, dunque, non è solo un racconto di miracolo, né solo una controversia ma anche una storia inci piente di discepolato e sequela.02 Il genere del racconto giovanneo è dunque misto: la cornice festiva del sabato fa del racconto di guarigione una controver sia sulla Legge con importanti risvolti cristologici; lo spazio dato al protagonismo del cieco guarito, nel contesto della con troversia sull’identità di Gesù e sulla confessione messianica (Gv 9,22), rende la storia del miracolo una storia di sequela con evidenti risvolti ecclesiologici e, dato il simbolismo dell’ac qua e della luce, una probabile allusione battesimale.
3.2. Struttura Lo sviluppo del racconto si può leggere in sette tappe co struite in forma concentrica: A) 9,1-7 - Incontro e guarigione del cieco nato nel contesto di un dialogo di Gesù con i discepoli. B) 9,8-12 - Questioni paradossali sulla sua identità e prima testimonianza del guarito. C) 9,13-17 - 1 farisei e il cieco guarito: primo interrogatorio e sua seconda testimonianza. D) 9,18-23 - Interrogatorio dei genitori del cieco da par te de «i Giudei»: rifiuto di testimoniare. C1) 9,24-34 - «I Giudei» e il cieco guarito: secondo interro gatorio e sua terza testimonianza.62 62 La formula «e (Gesù) passando vide» (kat paràgdn eiden), che apre il racconto (9,1), potrebbe confermarlo. Nei Vangeli sinottici, infatti, essa compare identica all’ini zio di racconti di «vocazione»: in Me 1,16 apre il racconto della chiamata di Simone e Andrea; in Me 2,14 / / Mt 9,9 apre quello della chiamata di Levi/Matteo. In Mt 9,27 e 20,30, inoltre, si parla del «passare» di Gesù ad apertura dei due racconti paralleli di guarigione dalla cecità e, in Mt 20,34, il recupero della vista è preludio alla sequela.
B1) 9,35-38 - Nuovo incontro con Gesù e confessione di fede del cieco. A 1) 9,39-41 - Dialogo di Gesù con i farisei che stavano con lui.
La prima e la settima unità si corrispondono per la forma dialogica, per i protagonisti in dialogo (Gesù e le persone che sono con lui: «i suoi discepoli» nel v. 2, «alcuni dei farisei che stavano con lui» nel v. 40), per il tema discusso (rapporto tra cecità e peccato: w. 2 / / 40-41; soggetti e natura del «peccato»: w. 2-3 / / 41; scopo della missione di Gesù e suoi effetti: w. 3-5 //3 9 ), per il rapporto tra il segno (la restituzione della vista al cieco nato) e il significato (la possibilità di conoscere, discer nere e giudicare secondo la verità del Cristo). Nella seconda e sesta unità il cieco ha ormai acquistato la vista e si trova a parlare di Gesù all’inizio, a parlare con lui alla fine. All’inizio non sa dove sia (v. 12), alla fine è trovato da lui (v. 35); all’inizio parla di lui come dell’«uomo chiamato G esù» (v. 11), alla fine fa un atto di fede in lui come Figlio dell’uomo (v. 38). In entrambe le unità si affronta in modo speculare la questione dell’identità: il cieco guarito deve difen derla in rapporto a quelli che prima lo conoscevano come cie co e mendico e ora devono riconoscerlo come uomo trasfor mato e vedente; Gesù la rivela pienamente a colui che ha com battuto e testimoniato a suo favore prima ancora di riconoscerlo nella sua vera identità. Tra la seconda e la sesta unità viene raccontato il lungo cammino verso il pieno riconoscimento della fede. La terza e la quinta parte costituiscono il primo e l’ultimo interrogatorio del cieco guarito: da parte dei farisei prima, de «i Giudei» per la seconda volta (v. 24). I segni della progres sione narrativa sono chiari: si va da un dubbio dei farisei su Gesù all’inizio (v. 16) a una raggiunta certezza negativa de «i Giudei» alla fine (v. 24), una certezza che non ammette ulte riore conoscenza né progresso di alcun tipo. Il maestro è unico
(Mosè) e non v’è spazio alcuno per l’insegnamento di un cieco (v. 34) ! Per il cieco guarito, d ’altra parte, si va da un primo incipiente, ma deciso, «è un profeta» (v. 17) a una vera e pro pria elaborazione teologica (w. 30-33) che finisce per allineare sempre di più il cieco e Gesù. Per il cieco, anzi, Gesù è neces sariamente da Dio e si potrebbe volere essere suoi discepoli. Lui stesso viene insultato come «discepolo di quello là» (v. 28). Si passa, dunque, da una minore a una maggiore comprensio ne e compromissione del cieco nei riguardi di Gesù e da un ragionevole dubbio a una chiusura totale da parte dei suoi interlocutori. Mentre all’inizio l’uno e gli altri sembrano in posizione equidistante rispetto a Gesù, alla fine i farisei/«i Giu dei» sono definitivamente separati tanto da Gesù quanto dal cieco da lui guarito, arroccati piuttosto sulle proprie certezze mosaiche, mentre Gesù e il cieco sono irresistibilmente appros simati l’uno all’altro. La cacciata violenta del cieco (v. 34) è la situazione che prelude al suo incontro col Figlio dell’uomo. Al centro restano «i G iudei», che nei cc. 3-12 hanno un protagonismo maggiore di quello dei farisei, e i genitori del cieco che erano comparsi solo in 9,2-3 nel dialogo tra Gesù e i discepoli. Tanto «i Giudei» quanto i genitori sono segno e simbolo dell’identità del cieco nato e anche garanzia di essa: «i G iudei» dal punto di vista religioso, i genitori dal punto di vista antropologico ed esistenziale. Eppure, entrambi i perso naggi risultano nell’interrogatorio allineati tra loro e accomu nati da una presa di distanza nei confronti del cieco guarito che resta isolato con la sua (nuova) identità paradossale: «Egli parlerà di se stesso» (v. 21). Il cieco è interamente abbandona to a se stesso e all’evidenza della sua nuova condizione della quale è solo a rispondere.
Vangelo secondo Giovanni
3.3. Traduzione e commento lE passando vide un uomo cieco dalla nascita 2e i suoi discepoli lo interrogarono dicendo: «Rabbi, chi ha peccato perché nascesse cieco, lui o i suoi genitori?». 3Gesù rispose: «N é lui ha peccato né i suoi genitori, ma perché fossero manifestate in lui le opere di Dio. 4Noi dobbiamo realizzare le opere di Colui che mi ha man dato fino a che è giorno: viene notte, quando nessuno può opera re. 5Mentre sono nel mondo, luce io sono del mondo!». 6Dette queste cose, sputò a terra; dallo sputo impastò del fango e spalmò il fango sui suoi occhi 7e gli disse: «Vai a lavarti nella piscina di Siloe» (che significa inviato). Ci andò, si lavò e venne che ci vede va. 8I vicini, allora, e quelli che prima lo vedevano che stava a mendi care dicevano: «Questi non è quello che sta seduto a mendicare?». 9Altri dicevano: «E lui». Altri dicevano: «N o, ma gli somiglia». Egli diceva: «Sono io!». 10Allora gli dicevano: «Come ti sono stati aperti gli occhi?». nEgli rispose: «L’uomo chiamato Gesù ha im pastato del fango, me ne ha spalmato gli occhi e mi ha detto: “Vai a Siloe e lavati”. Allora, dopo esserci andato ed essermi lavato ho acquistato la vista». 12E gli dissero: «Lui dov’è?». Disse: «Non lo so». 13Lo condussero, lui che prima era cieco, dai farisei. 14Era però sabato il giorno nel quale Gesù aveva fatto il fango e gli aveva aperto gli occhi. 15Lo interrogavano dunque di nuovo anche i fa risei su come avesse acquistato la vista. Egli disse loro: «M i ha posto del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». 16Alcuni dei farisei allora dicevano: «Q uest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri però dicevano: «Come può un uomo peccatore fare simili segni?». E c’era divisione tra loro. 17Di nuovo, allora, dissero al cieco: «Tu che cosa dici di costui, dato che ti ha aperto gli occhi?». Quello disse: «E un profeta». 18I Giudei, allora, non vollero credere di lui che fosse cieco e aves se acquistato la vista fino a che non chiamarono i genitori di quel lo che aveva acquistato la vista. 19E li interrogarono dicendo: «Questi è il figlio vostro, che voi dite esser nato cieco? Come fa,
adesso, a vederci?». 20I suoi genitori, allora, risposero e dissero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco. 21Come ora ci veda, però, non lo sappiamo; o chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo! Interrogate lui! Ha l’età. Egli parlerà di se stesso». 22I suoi genitori dissero così perché temevano i Giudei: i Giudei, infatti, si erano già accordati sul fatto che se qualcuno lo avesse proclamato Cristo fosse escluso dalla sinagoga. 23Per questo i suoi genitori dissero: «H a l’età, interrogate lui». 24Allora chiamarono per la seconda volta l’uomo che era cieco e gli dissero: «D à gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». 25Quegli allora rispose: «Se sia un peccatore non lo so. Una cosa so: pur essendo cieco, adesso ci vedo!». 26Gli dissero: «M a cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». 27Rispose loro: «G ià ve l’ho detto e non avete ascoltato! Cosa volete udire dacca po? Forse anche voi volete diventare suoi discepoli?». 28E lo riem pirono di improperi e dissero: «Tu sei discepolo di quello là! Noi siamo discepoli di Mosè. 29Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; questo, invece, non sappiamo di dove sia!». 30L’uomo rispo se: «Qui, appunto, sta il prodigio: che voi non sapete di dove sia eppure mi ha aperto gli occhi! 31Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno teme Dio e fa la sua volontà, questi lo ascol ta. 32Da che mondo è mondo non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi di un cieco nato. 33Se questi non fosse da Dio, non avrebbe potuto fare nulla!». 34Gli risposero: «Nato tutto intero nei peccati, tu pretendi di insegnare a noi?». E lo buttarono fuori. 35Gesù udì che lo avevano buttato fuori e trovatolo disse: «Tu credi nel Figlio dell’uom o?». 36Egli rispose e disse: «M a chi è, Signore, perché io creda in lui?». 37Gesù gli disse: «Tu lo vedi ed è proprio colui che sta parlando con te». 38Quello disse allora: «Credo, Signore!». E gli si prostrò. 39E Gesù disse: «Io sono venuto in questo mondo per un giudizio, perché coloro che non vedono vedano e coloro che vedono diven tino ciechi».40Alcuni dei farisei che stavano con lui sentirono ciò e gli dissero: «Forse siamo ciechi anche noi?». 41Gesù disse loro: «Se foste ciechi, non avreste peccato; ora, però, voi dite: “Ci ve diamo” . Il vostro peccato resta».
vv. 1-7. Dopo il versetto introduttivo (v. 1), un dialogo tra Gesù e i suoi discepoli fa da cornice interpretativa al miracolo che Gesù sta per compiere (w. 2-5) e che viene descritto so briamente subito dopo (vv. 6-7). Il verso introduttivo è una formula di transizione piuttosto vaga, che non determina un legame cronologico tra l’episodio del cieco e la sezione della festa delle Tende precedente. Però li congiunge intenzional mente sul piano simbolico: il dono prodigioso della vista al cieco nato ha sul suo sfondo la festa nel contesto della quale Gesù si è proclamato «luce del mondo» (8,12). E lui a «vedere» chi non è in grado di farlo («Vide un uomo cieco dalla nascita») e a prendersene cura di propria iniziativa. Prima che dalla vi sione scaturisca un’azione, la domanda dei discepoli (v. 2) tra sforma sin dall’inizio la storia del cieco in materia di giudizio religioso: la sua condizione, infatti, viene messa in diretta rela zione con un eventuale peccato perché il rabbi Gesù esprima su di essa un giudizio («Chi ha peccato... perché nascesse cie co?»). La domanda si comprende tenendo conto del presup posto per il quale la malattia fisica potrebbe essere la conse guenza di un peccato e, dunque, dimostrazione della giusta retribuzione per le colpe commesse. La cecità, in particolare, potrebbe essere messa in relazione all’idolatria (Sai 115,5; 135,16; Is 44,9.18-19; Sap 17), peccato punibile di padre in figlio (Es 20,4-5; Dt 5,8-9). Dai discepoli, dunque, Gesù viene ritenuto in grado di stabilire se la sofferenza del cieco dalla nascita sia o meno colpevole. Nella sua notte, però, Gesù vede non il peccato (hamartia) suo o dei genitori, ma l’occasione per il «manifestarsi» (phaneród) delle «opere di D io» (v. 3). La prospettiva non è archeologica ma escatologica: nega presunte cause al passato (né lui né i suoi genitori hanno peccato) e af ferma una finalità rivelativa e salvifica al futuro. In gioco non è il rapporto tra colpa e sofferenza, ma tra la sofferenza dell’uo mo e l’azione liberante di Dio che si rivela «in lui». L’apertura degli occhi dei ciechi, infatti, ne è il segno escatologico (Is
29,18; 35,5; Mt 11,2-5 / / Le 7,18-23) e passa per l’azione del Servo di Yhwh (Is 42,7). Nei w. 4-5 il coinvolgimento personale di Gesù e di quelli che gli sono legati come discepoli {«noi dobbiamo realizzare le opere...») è, per ciò stesso, immediato: nel tempo storico circoscritto e limitato della propria presenza nel mondo, che coincide simbolicamente con un «giorno» di luce di dodici ore (Gv 11,9-10; 12,35-36), Gesù realizza concretamente la propria missione e vive il suo essere «luce del mondo». Il collegamen to tra il tempo e le «opere» di Dio viene anzitutto dal raccon to genesiaco (Gen l,l-2 ,4 a ), ma l’evangelista lo assume in prospettiva escatologica sfruttando anche la contrapposizione simbolica tra luce e tenebra del linguaggio apocalittico (Gv I, 4-5): l’opera creatrice del Padre si attua compiutamente nell’azione storica e risanante del Figlio (5,17) e al «giorno» della sua presenza illuminante, attiva e feconda si contrappone la «notte», allusione al tempo della fine del suo ministero (13,30) in cui cessa la sua possibilità di agire. Il coinvolgimen to implicito dei discepoli, che riappaiono nei primi versi del c. 9 dopo essere scomparsi dalla fine del c. 6, permette però di estendere il tempo della presenza feconda di Gesù anche oltre il ministero pre-pasquale, annunciando un altro tempo nel qua le essi, credendo, potranno fare in qualità di suoi testimoni opere degne della grandezza di Dio (14,12). Nei w. 6-7 il miracolo di guarigione viene descritto breve mente. Si sottolinea la fisicità del contatto tra Gesù e il cieco («Spalmò il fango sui suoi occhi») e la materialità dei gesti te rapeutici (sputare a terra e fare fango dallo sputo). Lo «spal mare» è collegato alla guarigione degli occhi anche in Tb 6,9; I I , 7-8.11-13 e l’uso della saliva nei gesti di guarigione viene ricordato anche in Me 7,33 (per un sordomuto) e 8,23 (per il cieco di Betsaida).63 Peculiare al racconto giovanneo, però, è 63 Anche nella letteratura greco-romana del I e II secolo d.C. ci sono attestazioni
la connessione tra questi gesti e l’invito a lavarsi in acqua che richiama la guarigione di Naaman il Siro compiuta dal profeta Eliseo (2Re 5,10-13). Il gesto del fare fango con la propria sa liva e l’invio del cieco alla piscina di Siloe nella parte sud-est di Gerusalemme - sulla cui etimologia l’evangelista gioca in tenzionalmente esplicitando il significato della radice conso nantica del nome letta con una diversa vocalizzazione (slh, «inviare») - richiamano simultaneamente la plasmazione di Adamo (cfr. Gen 2,4b-7) e il significato dell’acqua nei momen ti cruciali dell’azione salvifica di Dio (Es 14 per il Mare dei giunchi; Gs 3-4 per il Giordano): nell’acqua dell’«Inviato» il cieco acquista la vista. Eseguito puntualmente l’invito di Gesù, il cieco dalla nascita diventa effettivamente «vedente», con una nuova identità da difendere. vv. 8-12. Come accade solitamente nei racconti di miracolo, viene registrata anzitutto la reazione dei testimoni o dei benefi ciari dell’evento. In questo caso, significativamente, la reazione al miracolo non si manifesta con una esclamazione di stupore o di lode, ma attraverso la messa in discussione dell’identità: nei w. 8-9 c’è un conflitto di opinioni in merito all’identità dell’ex cieco; nei vv. 10-11 lo si interroga sulle modalità della sua gua rigione; nel v. 12 si passa alla domanda sul guaritore. Lo “sci sma” tra i personaggi all’interno del racconto giovanneo (alcuni «dicevano... altri dicevano») è un elemento formale che carat terizza soprattutto i cc. 7-12 (7,12-13.30-31.40-43; 9,16; 10,1921; 11,35-37; 12,28b-29). L’interpretazione e il giudizio però implicano da parte di ciascuno una personale assunzione di re sponsabilità. Nel caso del cieco guarito, alla domanda che atten de risposta positiva «questi non è quello che ...» (v. 8), alcuni rispondono affermativamente, altri negativamente, altri ancora
dell’uso della saliva in pratiche terapeutiche miracolose. Tacito, per esempio, tra Ì prodigi attribuiti all’imperatore Vespasiano ricorda la guarigione di un cieco median te lo sputo (Storie 4,81).
con un paradossale escamotage: non lo è, «ma gli somiglia». Il soggetto in questione, però, al conflitto delle interpretazioni ri sponde con la propria dichiarazione di identità: «Sono io» (v. 9). La struttura predicativa della proposizione è importante per capirne la funzione e il significato allusivo nell’economia del racconto: a chi si chiede se «questo» vedente (predicato) possa e debba essere identificato con il cieco seduto a mendicare che si conosceva prima (soggetto), il guarito risponde «(quello) sono io»! L’«io sono», in questo caso, è una formula di riconoscimen to in cui l’io è il predicato di qualcuno o qualcosa di cui si sta parlando (18,5.6.8). Nel Deuteroisaia e in altri testi post-esilici (Dt 32,39; Is 41,4; 43,10.25; 46,4; 48,12; 51,12; 52,6), la formu la è usata come auto-proclamazione divina: nel contesto della polemica anti-idolatrica, Yhwh - Colui che pronuncia e fa udi re il suo Io - afferma di essere lui (predicato) colui di cui si di scute (soggetto), cioè il vero Dio, quello che, a differenza degli altri pretesi «dèi», veramente merita il titolo di «Dio». Su questo sfondo va compreso l’uso della formula in bocca a Gesù in Gv 5-12 proprio in risposta al conflitto delle inter pretazioni che la sua parola e la sua azione suscitano (8,24.58), e sul medesimo sfondo, si intuisce il potere evocativo della formula messa in bocca al cieco guarito, egli stesso testimone nel suo corpo della presenza e dell’azione liberante di Yhwh nella persona del suo «Inviato». Come nel caso di Gesù, anche nel caso del cieco nato guarito la formula «sono io» è la pro clamazione decisa della propria identità in risposta al conflitto delle interpretazioni. Inizia a profilarsi per lui una situazione paradossale che si configurerà progressivamente come un’osti nata lotta dei suoi interlocutori contro l’evidenza. Nei w. 1011, ammessa e non concessa la sua identificazione con colui che prima era cieco, l’uomo viene interrogato sul «come» del la sua nuova condizione che viene implicitamente ricondotta a un intervento prodigioso (cfr. il passivo teologico «sono sta ti aperti»). L’avverbio compare sei volte nel capitolo (w. 10.15.
16.19.21.26), sempre in bocca ai personaggi che si confrontano con il miracolo, e dimostra la loro difficoltà a confrontarsi con la novità: o perché la si rifiuta o perché non si ha il coraggio di prendere posizione rispetto ad essa. Alla domanda sul «come» il cieco guarito risponde raccontando dal suo punto di vista il prodigio e chiamando in causa «l’uomo chiamato Gesù». L’in sistenza sul termine ànthròpos è particolarmente marcata nel racconto in cui ricorre otto volte, quattro delle quali per rife rirsi a Gesù (w. 11.16.24) che, alla fine, chiederà al guarito di credere in lui come Figlio dell’uomo (v. 35): la dimensione antropocentrica della cristologia giovannea spicca in questo racconto che più di tutti lascia spazio alla sfida dell’identità, alla dignità e al protagonismo umano di chi viene a contatto con il Figlio dell’uomo e crede in lui. Nel descrivere il miracolo, il cieco guarito non fa menzione dello sputo ma solo del fango spalmato sugli occhi; segnala, invece, la puntuale corrispondenza tra l’esecuzione dell’impe rativo di Gesù e l’acquisizione della vista (v. 11). L’attenzione degli interlocutori si sposta, dunque, sull’«uomo chiamato G e sù». Come nel racconto della guarigione del paralitico (5,1213), anche in questo emerge il tema dell’elusività di Gesù: «Lui dove è?» (v. 12; cfr. 7,11; 11,56-57). Soprattutto nell’arco dei cc. 5-12 egli viene cercato sempre, dovunque, ma è solo lui che si fa trovare quando l’ora è giunta. La questione del suo «dove» è la questione stessa della sua identità e missione (cfr. 7,2730.34-36; 8,14.19.21-22) e avvolge l’intero Vangelo (cfr. 1,3839; 20,2.13-16). L’umile confessione - un’evidenza, in real tà - del cieco divenuto vedente («Non lo so», ouk oida) lo sintonizza già sulla verità di Gesù, sulla sua libertà e sul suo mistero, diversamente da quanto accade per tutti coloro che, nel seguito del racconto, pretenderanno più volte di «sapere» (w. 24.29) dimostrando di essere ciechi pur vedendo (v. 41). Colui che afferma di non sapere «dove» Gesù sia, alla fine del racconto sarà trovato da lui (v. 35).
vv. 13-17. Se nei w. 8-12 il miracolo ha come paradossale conseguenza la messa in discussione dell’identità del cieco e nel v. 12 la questione dell’identità di Gesù comincia appena a profilarsi, qui, invece, la questione dell’identità di Gesù guari tore diventa esplicitamene il tema del racconto e il motivo del conflitto, intrecciandosi definitivamente con quella dell’iden tità del cieco guarito. Il destino dei due, da questo momento, non sarà più separabile. A partire dal v. 14, che contestualizza in giorno di sabato il gesto di guarigione compiuto da Gesù, il racconto di miracolo si trasforma in una controversia giuridica: «fare fango», infatti, è un lavoro costruttivo che imita la crea zione, ripete ciò che Dio ha fatto creando Adamo, e determina dunque una violazione del riposo sabatico (mShabbat 7,2). Il caso viene, dunque, portato dai farisei che appaiono nel v. 13 deputati ad affrontarlo e a giudicarlo dal punto di vista della Tóràh. La sequenza interrogazione (v. 15), conflitto tra opinio ni diverse (v. 16) e domanda su Gesù (v. 17) ripete quella dei w. 10-12 ma con un’inversione: lo “scisma” tra gli interrogan ti non precede ma segue l’interrogazione. Per la seconda volta {pàlin, «di nuovo») il guarito viene interrogato sul «come» del prodigio e si trova a raccontare il miracolo. Stavolta l’accento è posto non sulla corrispondenza tra parola di Gesù e azione del cieco, ma tra l’azione di Gesù («Mi ha posto fango sugli occhi») e quella del cieco («Mi sono lavato»). La visione («ve do») ne è il risultato. Il gruppo dei farisei si divide tra quelli che insistono sulla difformità tra il comportamento di Gesù e la legge sul sabato al fine di negarne l’origine da Dio («Quest’uomo non viene da Dio perché non osserva il sabato») e quelli che insistono sulla novità inaudita del prodigio per difenderla («Come può un uomo peccatore fare simili segni?»). Dal punto di vista dei primi, che ricorda quello de «i Giudei» in 5,16.18, è dirimente il riferimento alla Legge e all’osservanza del sabato; dal punto di vista degli altri, che ricorda quello del fariseo Nicodemo
(3,2), il sigillo identitario dei «segni» chiede un salto ermeneu tico: può mai essere hamartolós, disobbediente alla Legge (9,2), chi può dare la vista a un cieco nato? La domanda diventa teologica (come Dio agisce continuamente in quanto creatore e giudice in giorno di sabato?), soteriologica (come l’Israelita deve osservare veramente il riposo di Dio e collaborare con lui al compimento escatologico della creazione?) e cristologica (Gesù è un falso profeta che, compiendo gesti che rasentano la magia, può istigare il popolo alla disobbedienza e all’idola tria, o con la sua azione sta proprio indicando che è giunto il compimento escatologico della creazione?). Al cieco guarito viene quindi chiesto di esprimersi lui stesso sul suo guaritore, di testimoniare in quello che è diventato un processo aperto a carico di Gesù per la violazione del sabato. L’uso del sintagma «dire {légo) riguardo a qualcuno (peri + genitivo)», frequente in Giovanni con i suoi equivalenti «parlare» (laléó) e «testimo niare» (martyréd) riguardo a qualcuno, sottolinea la dinamica processuale assunta dalla questione cristologica (1,22; 5,3132.36-39; 7,13; 12,41; 18,33-34). La risposta del guarito è po sitiva e decisa: «E un profeta». Dopo l’appellativo rabbi (v. 2), questo è il primo dei titoli di Gesù che appaiono nel capitolo ed è implicitamente contrapposto all’accusa che vedrebbe in lui un «peccatore». In Giovanni è un titolo rilevante (1,21.25), che inquadra Gesù nell’attesa del profeta come Mosè (Dt 18,922) carica anche di implicazioni escatologiche (IMac 14,41). Positivamente è attribuito a Gesù dall’evangelista (Gv 4,44) o anche da altri personaggi del racconto (4,19; 6,14; 7,40); i fa risei come gruppo, invece, tendono a negarglielo (7,52). vv. 18-23. La presa di posizione nei confronti di Gesù, in ogni modo, precipita il cieco guarito in una situazione ancora più paradossale quando ai farisei subentrano «i Giudei». Se non fosse per l’insistenza con cui l’evangelista introduce, semplicemente attraverso il nome, una distinzione, il lettore sarebbe indotto a identificare farisei e «i Giudei» (9,27; 10,19-21). Per
il ruolo inquisitorio che esercitano e la posizione che assumono nei confronti di Gesù i due gruppi, nella scena, finiscono co munque per sovrapporsi. Non potendo accettare il giudizio positivo e di apertura del cieco guarito nei confronti di Gesù (è un profeta), allora essi preferiscono negare l’evidenza riguardo al guarito stesso. Non potendo sfuggire alle implicazioni del miracolo, che potrebbe far pensare a Gesù come al Servo di Yhwh (10,19-21) e alla sua azione come prova dell’irrompere dell’agire escatologico di Dio, devono negare il miracolo stesso e, dunque, l’identità e la storia del cieco guarito. L’intento ne gatorio viene definito dall’evangelista come un rifiuto di crede re («non vollero credere di lui che fosse cieco e avesse acquista to la vista», v. 18) che ripropone il loro atteggiamento nei con fronti di G esù stesso (5,38.44; 8,45-46; 10,25-26). La loro resistenza, espressione di difesa davanti alla novità, cerca quin di il sostegno nella figura dei «genitori» del cieco, garanti dell’identità del guarito dal punto di vista sociale e istituziona le. Se «i Giudei» tendono a negare il passato (il cieco, forse, non era nemmeno tale), i genitori confermano l’identità dell’uomo quanto al passato (è figlio nostro ed è nato cieco) ma non si compromettono in alcun modo rispetto al presente e alla sua novità. La duplice ripetizione del «non sappiamo» (v. 21) non è in questo caso un’ammissione sincera di ignoranza come in 9,12, ma una presa di distanza dalla novità del figlio («Come ora ci veda») e una mancata assunzione di responsabilità davan ti a chi ha agito così da guarirlo {«Chi gli abbia aperto gli oc chi»). Essi dicono sì all’identità dell’uomo in rapporto alla sua nascita, no al rapporto tra l’identità di Gesù e la nuova condi zione di vita del figlio abbandonato a se stesso («Ha l’età...»). Del rapporto tra identità e novità, passato e presente, la respon sabilità pesa tutta sul figlio che, come accade a Gesù nel Van gelo, è annunciato «parlare di se stesso» (5,30-31; 8,13.18). Nei w. 22-23, un commento del narratore inquadra e deco difica le parole dei genitori del cieco guarito ripetute al v. 21 e
al v. 23 in forma chiastica («Interrogate lui! Ha l’età... H a l’età, interrogate lui»): il rifiuto di parlare in suo sostegno viene dalla paura e questa, a sua volta, dal rapporto con «i Giudei» e dalle implicazioni socio-religiose connesse all’interpretazione messia nica del «segno» e alla conseguente proclamazione di Gesù come Messia. Della «paura dei Giudei» il Vangelo parla altre volte (7,13; 19,38; 20,19) alludendo alla minaccia che alcuni giudei costituiscono per altri giudei in un contesto giudaico omogeneo interessato e attraversato dalla proclamazione mes sianica di quanti credono in Gesù. Il timore de «i Giudei», in fatti, si giustifica per una decisione collegiale (v. 22: «Si erano già accordati») di sanzionare con l’esclusione dalla comunità (12,42; 16,2) chiunque dichiari pubblicamente di riconoscere in Gesù di Nazaret il Messia. Non si tratta di una decisione formale e ufficiale presa da un qualche tribunale religioso, ma di un accordo interno a un gruppo che vede alleati «farisei» e «Giudei» quasi fino all’identificazione (9,22 // 12,42). L’obiet tivo è rendere religiosamente e istituzionalmente insostenibile per un giudeo l’attribuzione pubblica dell’identità messianica a Gesù. Tale accordo sembra richiamato dal narratore al lettore come qualcosa che questi ben conosce, che appartiene alla sua esperienza presente nel periodo post-pasqualè, ma che affonda le radici in un passato che lo precede collocandosi nel contesto del ministero pre-pasquale di Gesù: «si erano già accordati...». Data l’apparente genericità del riferimento a «i Giudei» e la difficoltà di capire cosa potesse significare concretamente e co me potesse attuarsi una «de-sinagoghizzazione» nell’arco del I secolo d.C. (prima e dopo il 70), è impossibile definire meglio i contorni dell’accordo. Certamente, l’intenzione dell’evangeli sta è, da un lato, quella di gettare un ponte tra il presente del lettore e il passato di Gesù e dei suoi discepoli storici; dall’altro, quella di far percepire al lettore tutto il carico di violenza con nesso alla questione messianica al tempo di Gesù e, al contem po, l’intensità del conflitto religioso e istituzionale determinato,
soprattutto in ambiente gerosolimitano, dall’attribuzione alla sua persona del titolo di Messia (12,9-11.42-43). Le figure che restano in primo piano nell’unità centrale del racconto non so no, dunque, scelte a caso: «i Giudei», che si impongono come garanti dell’identità religiosa del guarito, e i genitori che ne garantiscono l’identità al livello socio-antropologico, lasciano già intravedere, con il loro protagonismo negativo, il conflitto istituzionale, tanto al livello familiare quanto al livello religioso, che vedrà coinvolti i discepoli di Gesù. w. 24-34. Viene qui rappresentato il secondo e ultimo inter rogatorio del cieco guarito, molto più sostenuto e serrato del primo. La drammaticità del racconto e l’ironia brillante del suo personaggio principale, il cieco, raggiungono il loro vertice. L’unità è costruita in forma concentrica e scandita dall’alter nanza dialogica tra «i Giudei» e il cieco guarito. Dal v. 24 (a) al v. 34 (a1) si passa da una seconda convoca zione del cieco («Chiamarono per la seconda volta l’uomo che era cieco») alla sua definitiva espulsione («Lo buttarono fuo ri»); dall’invito a lui rivolto perché si dissoci da colui che l’ha guarito e riconosca che è un «peccatore», all’accusa violenta precipitata su di lui («Tu sei nato tutto intero nei peccati»); dalla presunzione di sapienza de «i Giudei» («Noi sappiamo») al loro rifiuto radicale della sapienza del guarito («Tu pretendi di insegnare a noi?»). Il cieco guarito viene posto davanti a un’alternativa: o accusare Gesù come peccatore «dando gloria a Dio» (cfr. 16,2), rinnegando la propria esperienza e assumen do in foto la dottrina della Legge così come la concepiscono «i G iudei» o, al contrario, rifiutare il loro giudizio, forte della propria esperienza, esponendosi al rischio di pagare di perso na e di vedere ritorta su di sé l’accusa di peccato scagliata se condo la più statica interpretazione della dottrina della retri buzione (nato cieco, cioè «nato tutto nei peccati»: v. 34). La prima (b v. 25) e l’ultima (b1w. 30-33) risposta del cieco illustrano la sua scelta per Gesù e contro l’alternativa imposta
da «i Giudei». Per tre volte il guarito insiste, infatti, sul dato della guarigione che è la sua verità e la sua certa e unica sapien za (v. 25: «Una cosa so: pur essendo cieco, adesso ci vedo»; v. 30: «M i ha aperto gli occhi»; v. 32: mai si è udito che «uno abbia aperto gli occhi di un cieco nato»). Davanti alla sua espe rienza, nessuna sapienza o dottrina ideologicamente e astrat tamente difesa può resistere. «I G iudei» possono pure ostinarsi in una interrogazione fatta senza alcuna volontà di ascolto (c v. 26) e nel rifiuto vio lento e oltraggioso di un «sapere» che può infrangere la graniticità delle loro certezze mosaiche (c1 v. 28-29): l’ironia del cieco guarito, che risalta massimamente nella sua domanda posta al centro del dialogo (v. 27), esprime una libertà e ima sapienza che non teme né la smentita né l’ira degli interlocu tori. Questi si avvitano sempre di più nella loro chiusura ideo logica e nella loro «cecità»; quello, forte e sicuro della propria esperienza, si slancia con sempre maggiore forza e ad occhi aperti verso la conoscenza che da essa promana. Il contra sto tra il sapere dell’uno e degli altri, tra l’io/tu del cieco e il noi/voi de «i Giudei» richiama le dinamiche della contrapposi zione verbale tra Gesù e «i Giudei» nei cc. 5-12 (5,16-47; 6,4158; 8,21-59; 10,22-39). Le identità prendono rilievo in modo sempre più marcato e antitetico: da un lato quella de «i Giudei», discepoli di Mosè esperti nel giudicare secondo la Legge pec cato e peccatori; dall’altro, quella del cieco ora vedente, accu sato ironicamente di essere discepolo di Gesù (v. 28), che di venta realmente maestro dei suoi interlocutori. Il modo di rap portarsi a Gesù dei soggetti contrapposti fa la differenza. «I Giudei» si scontrano con un’evidenza enigmatica: ritorna ossessiva e inutile la domanda sul «come» (v. 26) che mostra la lotta in atto contro un’evidenza che non si vuole accogliere nelle sue implicazioni e che, quindi, lascia senza risposta chi la rifiuta. Essi, infatti, «sanno» che a Mosè ha parlato Dio e, dun que, hanno nella Legge la garanzia del retto giudizio; essi «san
no» che se uno la trasgredisce deve essere giudicato «peccato re». Oltre questo sapere, però, non possono permettersi di andare (v. 34) e disconoscono chi in giorno di sabato apre gli occhi di un cieco nato: non sanno «di dove sia», cioè gli nega no qualunque tipo di riconoscimento e di relazione con loro (cfr. Le 13,25-27.28; 20,7). Usando il sintagma «sapere di dove sia», hevangelista gioca ironicamente su due livelli di senso: nell’intenzione de «i Giudei», dire di «non sapere di dove G e sù sia» significa dissociarsi da lui e negargli ogni origine da Dio; nella ripresa ironica del cieco, e dal punto di vista del narrato re che si esprime per sua bocca, la dichiarazione di ignoranza riguardo all’origine di Gesù, connessa al prodigio che egli ha operato, è un’implicita ammissione della sua missione dal cie lo in qualità di Messia nascosto che deve essere rivelato nel tempo ultimo (Gv 1,31.33). «Il Cristo», infatti, «quando viene nessuno sa di dove sia» (7,27). Di conseguenza, il cieco può dire: «Qui, appunto, sta il prodigio: che voi non sapete di do ve sia eppure mi ha aperto gli occhi» (v. 30)! A chi rifiuta di aprirsi resta non solo la negazione della realtà (il cieco guarito viene buttato fuori), ma anche lo smacco della risposta man cata e della non comprensione dell’agire mirabile di Dio (5,20). Il cieco, invece, si rafforza nella conoscenza di sé crescendo, contemporaneamente, nella comprensione del suo guaritore, preparandosi progressivamente a incontrare Gesù a occhi aper ti. Appare quindi, con somma ironia, “maestro” esperto dei principi teologici condivisi dai suoi interlocutori e riscontrabi li anche nella condotta e nell’insegnamento di Gesù: Dio esau disce solo chi lo teme e fa la sua volontà (4,34; 5,30; 6,38-40; 7,17; 11,41-42) e, dunque, il giudizio non può che essere a favore di Gesù. Egli è un inviato fedele a colui che l’invia, al trim enti non avrebbe «p o tu to fare n ulla» (5,19.30-31; 7,17.18.28; 8,13-14.18.28.42.54; 10,18; 12,49). «Buttando fuori» il cieco guarito, alla fine dell’interrogato rio, «i Giudei» mostrano di respingere gli stessi criteri basilari
della retta relazione con Dio che dovrebbero avere appreso dalla Legge e che credono di difendere. Perdono, con lui, l’oc casione dell’incontro con l’inaudito presente in Gesù (v. 32). L’interrogatorio non ha un «luogo» se non quello relazionale: il narratore non dice dove si trovino i protagonisti e dove si svolga il loro ultimo incontro. L’accento viene posto tutto sul la loro relazione e sulla relazione con Dio, attraverso la perso na di Gesù, che nella loro relazione è implicata: per gli uni è mancata, per l’altro è spalancata. vv. 35-38. Perso l’appoggio familiare come quello religioso, il cieco resta consegnato a se stesso. E in questa condizione relazionale spoglia ma completamente aperta che Gesù lo «tro va» e gli si fa finalmente «vedere». La costruzione della scena culminante dell’incontro con Gesù è limpida: dopo una breve introduzione, che insiste sulla condizione del guarito ormai tagliato fuori dalla relazione con «i Giudei» (v. 35a), un breve dialogo con duplice scambio di battute tra Gesù e il cieco por ta alla piena rivelazione dell’uno e alla pienezza dell’incontro di fede per l’altro (vv. 35b-38a); il gesto della prostrazione tra duce corporalmente l’atto di fede e sigilla l’incontro (v. 38b). Il dialogo è costruito in forma chiastica: a) Tu credi nel Figlio dell’uomo? b1) Tu lo vedi ed è proprio colui che sta parlando con te
b) Ma chi è, Signore, perché io creda in lui? a1) Credo. Signore.
Alla domanda di fede (a) corrisponde l’atto di fede (a1), alla domanda d’identificazione necessaria alla fede (b) corri sponde la risposta (b1): il credere è reso possibile dal vedere (6,40; 12,44-46); il Figlio dell’uomo, come del resto il Dio che si rivela storicamente presente e attivo nella persona del suo Cristo (4,26), è identificabile in «colui che sta parlando» (cfr. Is 52,6).
L’originalità e la bellezza di questo dialogo spiccano per più motivi. La richiesta di una professione di fede nel Figlio dell’uomo è un caso unico nel Nuovo Testamento e ha buone probabilità, proprio per la sua discontinuità con le formule di fede protocristiane, di risalire al Gesù storico.64 Se ci sono po chi testi, soprattutto nei Vangeli e in Atti, in cui nel dialogo diretto chi parla interroga il proprio interlocutore sulla sua fede (Mt 9,28; Gv 11,26; 14,10; At 26,27), questo è, comunque, l’unico caso in cui il locutore è Gesù e la fede di cui egli do manda ha un termine personale. Dal punto di vista della relazione tra i protagonisti, la do manda ha una sobrietà e immediatezza proporzionale alla pro fondità del cammino di conoscenza e di comprensione percor so dal cieco guarito. Alla limpidezza maturata del suo sguardo, Gesù si offre personalmente e frontalmente nella sua coscien za identitaria di Figlio dell’uomo come non fa con nessun altro. 11 cieco guarito sa, probabilmente, a cosa corrisponde la figura del Figlio dell’uomo come strumento dell’azione giudicante e salvifica di Dio negli ultimi tempi, ma non sa con «chi» iden tificarlo per poter trasformare l’attesa in una consegna di fede immediata e diretta. Gesù, che lo ha reso vedente, gli si offre alla vista proprio come il Figlio dell’uomo atteso: la figura re gale del giudice escatologico (Dn 7; 1 Enoc 48,2-5; 62-63) si identifica con l’uomo che gli ha donato la vista, che gli è di fronte e parla con lui. Diversamente da quanto accade nelle altre occorrenze giovannee, il titolo di Figlio dell’uomo è usa to qui in senso assoluto: nessun verbo ne esplicita l’agire, la funzione o il destino. Per Evangelista, dunque, si tratta di una formula cristologica onnicomprensiva, che tiene insieme tanto la dimensione umana di Gesù quanto la sua dimensione celeste e trascendente, tanto la sua solidarietà con il popolo quanto il 64 Cfr. Reynolds. Non si parla di un atto di fede nel Figlio dell’uomo nemmeno nella letteratura biblica o giudaica peritestamentaria.
suo ruolo giudicante. Donatosi immediatamente con la fede a colui che gli ha donato la vista, interna ed esterna, il cieco di venuto vedente si prostra davanti al Figlio deH’uomo (cfr. 1 Enoc 48,5). Né in Giovanni né nei sinottici esiste narrazione di un incontro con Gesù di Nazaret paragonabile all’intensità e pienezza di questo in cui la figura umana del Gesù pre-pasquale è riconosciuta, per fede, in tutta la sua trasparenza e trascen denza e in cui, alla fede di un uomo, Gesù si consegna nell’integralità del proprio mistero custodito nella cifra del Figlio dell’uomo. vv. 39-41. Il significato della storia del cieco divenuto veden te viene esplicitato in un detto che esprime il senso e lo scopo della missione di Gesù («sono venuto per»: v. 39) e in un bre ve dialogo con i «farisei che stavano con lui» (vv. 40-41) che riprende il dialogo con i discepoli all’inizio del capitolo (vv. 2-5). La storia del cieco dimostra il fine salvifico della missione di Gesù: operare un «giudizio» (krima), cioè discernere luce da tenebra, vera da falsa sapienza, e provocare una scelta (3,1721). Come nel caso profeta Isaia, la missione di Gesù implica anche l’accecamento degli occhi che non vedono credendo di vedere (Is 6,9-10; Gv 12,39-41); solo denunciando e persino sfidando l’ingiusta pretesa di chi crede di vedere, provocando ne l’accecamento, può aprirsi lo spazio per l’azione del Servo destinato ad aprire gli occhi dei ciechi. I farisei, che reagiscono alla parola di Gesù, sono probabilmente vicini a Gesù non solo al livello spaziale. Il sintagma che esprime tale vicinanza («quelli che erano con lui») indica un rapporto di familiarità determinato da una missione che si svolge insieme (Gen 24,54; Me 2,25 / / Le 6,3 e Mt 12,3), dall’appartenenza a uno stesso gruppo (Ger 41,3; Dn 10,7; Mt 27,54; Me 1,36) o dall’appar tenenza di alcuni ad altri (Ap 17,14). In Gv 3,26 viene usata per indicare il rapporto tra Gesù e Giovanni; in 11,31 quello tra Maria di Betania e «i Giudei» venuti per consolarla della morte del fratello. È possibile, dunque, che si tratti di poten
ziali discepoli di Gesù provenienti dall’ambiente dei farisei. Anzitutto per loro, il caso del cieco è la parabola in azione che la similitudine del pastore e del gregge illustrerà col linguaggio metaforico (10,1: 18). Nella misura in cui riconosceranno la propria cecità, essi potranno, come il cieco, allinearsi a Gesù; finché pretenderanno di vedere, saranno loro a portare la re sponsabilità di una cecità non guaribile, come quella manife stata, col suo carico di violenza, dagli interlocutori del cieco. Tanto l’estrinseca e astratta precomprensione dei discepoli (9,2) quanto il giudizio erroneo de «i Giudei» (9,34) sono ri baltati. Dal cieco divenuto vedente la Luce venuta nel mondo può essere accolta senza alcuno ostacolo od opacità; il dono della vista fatto a lui, per converso, significa il «giudizio» sul mondo e costituisce un appello ad andare continuamente verso la luce e a credere nella luce per diventare figli della luce (12,35-36).4
4. Esegesi di Gv 20,1-18: Maria di Magdala e rincontro con il Signore risorto 4.1. Contesto Gli ultimi due capitoli del Quarto Vangelo sono dedicati ai racconti pasquali e, anche se il c. 21 può essere stato aggiunto dopo, nella loro forma finale i cc. 20-21 presentano una strut tura narrativa e teologica coerente. Nell’insieme, essi attestano il compimento della promessa fatta da Gesù ai discepoli prima della passione: «Non vi lascerò orfani, vengo a voi; ancora un poco e il mondo non mi vedrà più, voi invece mi vedrete perché io vivo e voi vivrete» (14,18-19; cfr. 20,19.26; 21,13); «D i nuo vo vi vedrò e il vostro cuore gioirà e la vostra gioia nessuno potrà togliervela» (16,22; cfr. 20,20). Come nel resto del Van gelo, anche nei suoi capitoli finali l’intrigo verte sulla rivelazio-
ne e sul riconoscimento di Gesù ma mette a fuoco, contempo raneamente, le dinamiche dell’incontro con lui come Signore risorto che caratterizzeranno la vita della comunità dei creden ti dopo la pasqua e nell’attesa del suo ultimo venire (21,22-23). All’inizio (20,2-10) e alla fine (21,20-24), a mo’ di inclusione, il racconto insiste sulle figure di Simon Pietro e del discepolo amato, poste in stretta relazione sin dal primo apparire del discepolo amato (13,23-25). Mentre in 20,6 Pietro «segue» il discepolo amato, in 21,20 è il discepolo amato a seguire Pietro, ma nelle loro figure e nell’epilogo della loro storia discepolare sono rappresentate come significative per tutti i credenti le diverse tradizioni dell’esperienza di Gesù fatta dai suoi disce poli storici e circolanti nelle prime comunità. Restando fedele alla propria, veicolata dal discepolo amato, il quarto evangeli sta conferma a modo suo le tradizioni che riconoscono a Pietro un primato anche nell’esperienza pasquale: «Veramente il Si gnore è risorto ed è apparso a Simone» (Le 24,34; cfr. lC or 15,5). In Gv 20-21, del resto, confluiscono le principali tradi zioni pasquali del cristianesimo primitivo: scoperta della tom ba vuota (21,1-2.3-10; cfr. Me 16,1-8 e paralleli); apparizione di Gesù alle donne (Gv 20,11-18; cfr. Mt 28,9-10) e ai disce poli (cfr. lC or 15,5-7), sia a Gerusalemme (Gv 20,19-29; cfr. Le 24,33-49) che in Galilea (Gv 21,1-23; cfr. Mt 28,16-20). La prima parte del c. 20, di cui ora ci occupiamo, ne comu nica il significato raccontando l’incontro col Risorto da parte di Maria di Magdala, che chiude la sequenza delle figure fem minili della fede in Giovanni, aperta dalla «madre di G esù» (2,1), e ne rappresenta bene il consueto alto profilo. Essa con giunge tre storie diverse: la scoperta della tomba vuota fatta dalle donne, che in Giovanni si riducono alla sola Maddalena (Gv 20,1-2; cfr. Me 16,1-8 e paralleli); la costatazione del fatto da parte di altri discepoli maschi (Gv 20,3-10; cfr. Le 24,10!2.24); l’incontro della Maddalena con il Risorto (Gv 20,11-18; cfr. Me 16,9-11). La figura e l’azione di quest’ultima danno
unità e prospettiva specifica al racconto che le intreccia. Pur non restando sempre in primo piano nella scena (w. 3-10), la sua azione mette in moto e chiude il racconto. La sua presenza costituisce anche un elemento di forte continuità tra il raccon to della passione e i racconti pasquali. Essa, infatti, compare per la prima volta «presso la croce di Gesù» in 19,25, in quar ta e ultima posizione rispetto alla «madre di Gesù» nominata per prima. Mentre Marco (15,40.47; 16,1) e Matteo (27,55.61; 28,1) riservano alla Maddalena il primo posto nell’elenco del le donne presenti alla crocifissione, alla sepoltura e al sepolcro il primo giorno dopo il sabato (cfr. Le 24,10), Giovanni la elenca per ultima nel contesto della passione ma per fame una figura-gancio (insieme al discepolo amato, presente con lei presso la croce) e lasciare a lei sola, tra le donne, la scena e il protagonismo al sepolcro il giorno dopo il sabato. La sua per sonale esperienza del Risorto, cioè, è sufficientemente intensa e paradigmatica da sigillare le storie di discepolato femminile prima della pasqua e inaugurare al femminile il discepolato post-pasquale. I racconti delle apparizioni del Risorto che seguono, infatti, hanno non pochi elementi in comune con quello dell’apparizio ne alla Maddalena pur essendo diversa la loro cornice spaziale e temporale. Risuscitato dai morti, Gesù viene descritto «stare» lì dove si trovano i suoi (Gv 20,14.19.26; 21,4) ma non è rico nosciuto (20,14; 21,4) prima di avere dato loro i segni della sua identità (20,20.25.27; 21,7). Una medesima struttura di rivela zione e di riconoscimento accomuna, dunque, i diversi raccon ti ed esprime la complessità della relazione tra esperienza pre pasquale e post-pasquale di Gesù. L’incontro di Gesù con Maria di Magdala, testimone allo stesso modo del Crocifisso e del Ri sorto, porta in sé gli elementi strutturali di questa complessità ed è consegnato al lettore, primo tra tutti, come chiave di acces so a quelli seguenti e, al contempo, come paradigma per la sua propria esperienza di fede e di conoscenza del Signore risorto.
4.2. Struttura Se analizzato dal punto di vista dei personaggi e delle storie che intreccia, il racconto possiede una struttura a sandwich: i w. 1-2 e 11-18 descrivono la scoperta della tomba vuota da parte della Maddalena e la sua visione del Signore Risorto, facendo da cornice ai w. 3-10, centrali, in cui il fatto del sepol cro vuoto è costatato da Simon Pietro e dal discepolo amato. Dal punto di vista dell’intrigo, invece, l’articolazione delle sto rie è più complessa e si può leggere unitariamente secondo lo schema quinario dell’analisi narrativa: situazione iniziale (v. la): Maria va al sepolcro alla ricerca di Gesù morto; doppia complicazione (w. lb-13), al livello fattuale e al livel lo della conoscenza, drammatizzata in una sequenza narrativa con struttura concentrica: a) Maria trova la pietra rimossa dal sepolcro e corre da Pie tro e dal discepolo amato dichiarando che il Signore è stato tolto e non si sa dove sia stato posto (w. lb-2); b) i due discepoli costatano il fatto e il discepolo amato lo interpreta «credendo» (w. 3-10); a1) Maria resta al sepolcro a piangere perché il Signore è stato tolto e lei non sa dove sia stato posto (w. 11-13); azione trasformatrice (w. 14-16): Gesù è presente e si fa ri conoscere da Maria; soluzione (v. 17): Maria ha ritrovato il contatto con il corpo di Gesù ma questi la invita a non trattenerlo (livello fattuale) e le rivela il suo «dove» (livello della conoscenza) inviandola a comunicare anche agli altri la sua ascensione al Padre; situazione finale (v. 18): Maria va dai discepoli per annun ziare Gesù risorto.
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4.3. Traduzione e commento *11 primo giorno della settimana, Maria Maddalena venne al se polcro di buon mattino, che c'era ancora tenebra, e vide la pietra tolta dal sepolcro. 2Andò, dunque, correndo da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno tolto il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno p o sto !» .3Allora Pietro e l’altro discepolo uscirono e si avviarono verso il sepolcro. 4I due correvano insieme, ma l’al tro discepolo corse più veloce di Pietro e arrivò per primo al se polcro 5e, chinatosi a guardare, vide i teli funerari deposti ma non entrò. 6Arrivò, quindi, anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e osservò i teli deposti 7e il sudario, che era sulla sua testa, non deposto con i teli ma avvolto in un posto a parte. 8Solo allora entrò anche l’altro discepolo che era arrivato per primo al sepolcro, e vide e credette, infatti, non avevano ancora capito la Scrittura secondo la quale egli doveva risorgere dai morti. 10I di scepoli, quindi, se ne tornarono di nuovo sui loro passi. nMaria, invece, era rimasta al sepolcro, fuori, a piangere. Mentre piangeva si chinò a guardare nel sepolcro 12e scorse due angeli in bianche vesti, seduti uno dal lato della testa e l’altro dal lato dei piedi del luogo dove stava deposto il corpo di Gesù. 13Quelli le dissero: «Donna, perché piangi?». Ella disse loro: «Hanno tolto il mio Signore e non so dove l’hanno posto». 14Dette queste cose, si voltò indietro e scorse Gesù che stava in piedi ma non sapeva che era Gesù. 15Gesù le disse: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Lei, allora, pensando che fosse il giardiniere, gli disse: «Signore, se l’hai tolto tu, dimmi dove l’hai posto e io lo andrò a prendere». 16Gesù le disse: «M aria!». Lei, voltatasi, gli disse in ebraico: «Rabbouni (cioè maestro)»! 17Le disse Gesù: «N on continuare a tenermi, non sono ancora salito al Padre! Va’, invece, dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”». 18Maria Maddalena andò dunque ad annunciare ai discepoli «ho visto il Signore» e queste cose che le aveva detto.
v. la. L’introduzione del racconto fornisce le indicazioni es senziali riguardo a spazio, tempo e protagonisti. Il soggetto dell’azione è «Maria Maddalena», cioè proveniente dalla città di Magdala a nord-ovest del lago di Tiberiade e a sud rispetto a Cafarnao. Mentre secondo i sinottici la Maddalena va al se polcro in compagnia di altre donne, Giovanni la presenta come unica protagonista della scoperta della tomba vuota e del primo incontro con il Signore risorto. Prima della scena della crocifissione (19,25) la sua figura non appare mai e, anche in quel contesto, l’evangelista non offre informazioni specifiche riguar do alla sua relazione con Gesù. Evidentemente presuppone che i suoi lettori conoscano dalla tradizione la sua storia discepolare. Secondo i sinottici si tratta di una delle donne che ave vano seguito e servito Gesù già in Galilea (Me 15,40-41 e pa ralleli); secondo Luca, inoltre, era stata liberata da Gesù da una condizione di profonda sofferenza (Le 8,2). L’apocrifo Vange lo di Pietro la chiama esplicitamente «discepola del Signore» (12,50) e la tradizione cristiano-gnostica le attribuisce un ruo lo di primo piano tra i discepoli.65 Anche senza conferirle questo titolo, il racconto giovanneo lascia intravedere l’intimità e l’intensità del suo rapporto con Gesù. Dell’intenzione che la spinge al sepolcro non si dice nulla: non si tratta né di andare a concludere i riti di sepoltura (Me 16,1; Le 23,56-24,1) né di andare a «guardare la sepoltu ra» (Mt 28,1). Il racconto della deposizione, anzi, fa capire che i riti di sepoltura sono stati completati il giorno di parasceve (Gv 19,39-40). Maria, dunque, va verso il sepolcro senza ap parente scopo se non quello di esprimere il lutto, continuando 65 H Vangelo di Filippo la definisce «la compagna» del Signore (59,10) o «del Figlio» (63,33) e dice che il Signore Tarnava più di tutti i discepoli e spesso la baciava sulla bocca {Ivi), indicando con questo linguaggio la dignità di Maria come figura del per fetto gnostico e simbolo della Sofia unita al Salvatore. Nella letteratura cristianognostica, le è attribuito un intero testo, il Vangelo di Maria (su cui cfr. A. Puig i Tàrrech, I vangeli apocrifi, voi. II/l San Paolo, Cinisello Balsamo 2012,253-279).
a mantenere con il gesto della visita alla tomba un qualche contatto o continuità con la storia del maestro che sembra es sersi conclusa tragicamente (11,31). L’indicazione cronologica è duplice. Si tratta, come nei sinottici (Mt 28,1; Me 16,2; Le 24,1), del primo giorno della settimana. Alla lettera, del «gior no uno dei sabati», espressione che richiama il primo giorno della settimana della creazione (Gen 1,5). Se si considera il computo dell’ultima settimana di Gesù iniziato in Gv 12,1 («sei giorni prima della pasqua»), questo giorno «uno» coincide in Giovanni con l’ottavo, il primo dopo il settimo (lo sabbàt pa squale): come ottavo esce dal computo concluso dei sette, dice la pienezza e inaugura la novità (cfr. anche «dopo otto giorni» in 20,26). Anche il dettaglio relativo all’ora di questo giorno, «di buon mattino, che ancora era tenebra», richiama l’alter nanza notte giorno del racconto delle origini e, simultaneamen te, la sua rilettura in 1,4-5: quanto sarà sperimentato in questo giorno dai discepoli ha a che fare con l’inizio della creazione, anzi con la nuova creazione in cui la Vita del Logos-Luce vin ce la tenebra del mondo. La sottolineatura «che c’era ancora tenebra», oltre a riprendere un dato tradizionale relativo alla visita delle donne al sepolcro (Mt 28,1: al chiarore del primo giorno; Me 16,2: al mattino presto; Le 24,1: all’alba profonda), fa ancora percepire la tensione e il conflitto che fa da sfondo alla vittoria del Risorto. vv. lb-13 (la complicazione). Il fatto che sconvolge Maria è la visione del sepolcro senza la pietra posta a sigillarlo. Davan ti alla «pietra tolta», senza avvicinarsi per vedere all’interno, essa deduce che altri «hanno tolto» il corpo stesso del Signore. Mentre i sinottici usano un verbo specifico, apokylid (rotolare), Giovanni usa il verbo atro che ha un significato molto più am pio (prendere, togliere, portare via, sollevare, eliminare) e gli è molto caro. Nel racconto della risurrezione di Lazzaro era già stato usato per indicare il movimento di rimozione della pietra del sepolcro fatto su ordine di Gesù (Gv 11,39.41) e
anche altrove viene usato per indicare il sollevamento di pietre piccole (8,59). Assume un significato negativo proprio in rap porto a Gesù quando esprime l’intenzione de «i G iudei» di eliminarlo facendolo condannare a morte (19,15; cfr. 10,18) e quando scandisce le operazioni di rimozione dei cadaveri dal le croci (19,31.38). «Togliere», però, è anche ciò che Gesù fa in rapporto al peccato (1,29); è il gesto di liberazione del tem pio da ogni profanazione ordinato da Gesù (2,16); è il gesto del paralitico di sollevare il proprio lettuccio, segno del recu pero totale della mobilità (5,8-12). La pietra tolta, dunque, potrebbe significare estrema perdita (persino il cadavere di Gesù è stato sottratto al saluto e al pianto dei suoi cari) o estre ma liberazione (il Signore è libero dalla morte). L’interpreta zione del segno del sepolcro aperto data dalla Maddalena a Pietro e al discepolo amato va nella prima direzione. Il para dosso della sua deduzione è ben espresso linguisticamente dal rapporto tra il «togliere» e «il Signore»: Maria considera Gesù morto come oggetto passivo della manipolazione altrui; al con tempo, però, il narratore suggerisce al lettore che il Signore non può essere oggetto passivo dei gesti di morte altrui. La sua vita non può essere «tolta»: è donata per essere ripresa (10,18). Sul piano dell’azione, comunque, il problema che la M ad dalena pone implicitamente ai due discepoli è quello del recu pero del cadavere di Gesù (v. 15): il «non sapere dove» sia stato deposto è una mancanza di conoscenza da colmare al fine di recuperare il contatto fisico col corpo. La dichiarazione di ignoranza coinvolge un soggetto plurale («non sappiamo»)-. Maria parla forse a nome delle donne, sue compagne di pelle grinaggio secondo la tradizione sinottica? Forse, piuttosto, si associa enfaticamente ed emotivamente i suoi interlocutori, Pietro e il discepolo amato, nell’angoscia della scoperta. Nella sua dichiarazione di ignoranza, il lettore vede riapparire il tema giovanneo dell’elusività di Gesù, sempre (ri)cercato, che con trassegna dal suo inizio anche la storia discepolare (1,38).
La reazione dei due discepoli - l’uno scomparso dalla scena dopo il rinnegamento di Gesù fatto prigioniero (18,15-18.2527), l’altro presente insieme alla Maddalena presso la croce (19,25-27) - ripete il gesto iniziale della donna: «venire al se polcro». Se la donna aveva corso per riferire della tomba aper ta, i due «corrono» per costatare il fatto. Su questo punto la tradizione giovannea è vicinissima a quella lucana: «Pietro, al zatosi, corse al sepolcro e chinatosi a guardare vide solo i teli. E se ne tornò sui suoi passi pieno di stupore per l’accaduto» (Le 24,12; cfr. 24,24). La differenza principale tra le due con siste nel fatto che nel Quarto Vangelo il soggetto coinvolto non è solo Pietro ma anche il discepolo amato e che è anzitutto di lui che Gv 20,5 dice quello che Le 24,12 dice di Pietro, per poi farli tornare insieme sui loro passi (Gv 20,10). In Luca, inoltre, la visita di Pietro al sepolcro segue l’annunzio pasquale delle donne e il suo stupore anticipa già la gioia dell’incontro con il Risorto (Le 24,41), mentre in Giovanni le parole di Maria non hanno alcuna intonazione pasquale. Se si ritiene che «l’altro discepolo» che introduce Pietro nel cortile del sommo sacerdote in G v 18,15-16 sia il discepolo amato, come penso probabile, il riapparire di Pietro dietro a lui, rimasto vicino al Signore fino alla fine, suggerisce che anche la storia discepolare di Simone di Giovanni, soprannominato la Roccia («Cefa» o Pietro: 1,40-42), è destinata a uno sbocco positivo nonostante il fallimento nella sequela pre-pasquale preannunciato da Gesù stesso (13,6-10.36-38). Per il momen to Pietro «segue» l’amato e «i due insieme» corrono al sepol cro. L’espressione, che ricalca il linguaggio biblico (senèhem yahdàw, cfr. Gen 22,6.8), dice la strettissima relazione tra i due e, al contempo, garantisce la validità della loro testimonianza al maschile.66 Al discepolo amato il narratore lascia il primato «D ue o tre testimoni» sono necessari per una deposizione valida (Dt 17,6; 19,15; Gv 8,17; 2Cor 13,1; lTm 5,19; Eb 10,28).
temporale nella corsa e nel costatare la situazione del sepolcro dall’esterno (w. 4-5: «arrivò per prim o... non entrò»; v. 8: «era arrivato per primo al sepolcro»). A Pietro, invece, riserva il primo posto nell’osservare il dettaglio della situazione all’in terno (v. 6: «ed entrò nel sepolcro») e della precisa disposizio ne dei teli funerari ormai svuotati del cadavere (w. 6-7), per poi associare alla sua anche la visione del discepolo amato (v. 8: «Solo allora entrò... e vide»). Cosa vedono i due testimoni? Traduzione e interpretazione dei w. 5-7 sono, da questo punto di vista, una crux interpre tum .61 I panni mortuari (tà othónia) sono visibili, già a chi china il capo per guardare dall’esterno attraverso l’apertura bassa della tomba scavata nella roccia, come deposti o «gia centi», cioè distesi sul banco di pietra della deposizione del cadavere (v. 12); il sudario (soudàrion) posto sul capo, invece, avvolto a parte. Il primo sostantivo è usato nel Nuovo Testa mento solo in Le 24,12 e in G v 19,40 e 20,5-7 per indicare l’insieme dei teli funerari con i quali il corpo di G esù era stato legato e avvolto per la sepoltura dopo la deposizione dalla croce. Il secondo - termine di origine latina (sudarium) sotteso anche all’aramaico sudara ’ che indica un velo di ampie dimensioni che può fungere anche da mantello (cfr. targum Rut 3,15) - è usato solo due volte in Luca-Atti per indicare un fazzoletto e in G v 11,44 per indicare il pezzo di tessuto che copre il volto di Lazzaro morto (per qualcuno, a mo’ di mentoniera). In quest’ultimo senso è da intendere anche in 20,7. In 20,5-7 i teli sono visti poggiati e piatti, come svuota ti del loro contenuto, sulla pietra dove era stato deposto il cadavere; il sudario, invece, si trova avvolto a parte rispetto agli altri panni. L’insistenza accurata sui dettagli esprime l’in tenzione del narratore di comunicare quanto inconsueta e inspiegabile dovesse essere apparsa ai discepoli la visione dei67 67Cfr. GmBERn.
teli, anche se al lettore non è facile ricostruirne con certezza la disposizione fisica. Dalla posizione e conformazione dei teli, quanto meno, ai discepoli doveva apparire chiaro che il cadavere di Gesù non era stato trafugato come temeva Maria. Il dettaglio, infatti, spiega il credere del discepolo amato al v. 8: «E vide e credet te». Coerentemente con la strategia e teologia giovannea che connette l’atto di fede all’esperienza concreta del Cristo e, in specie, alla «visione» di lui e dei suoi segni (2,23; 6,40; 19,35), anche nel caso del discepolo amato vedere e credere sono mes si in parallelo come causa l’uno dell’altro. Diversamente che nel caso di Tommaso (20,25.27.29), però, il credere del disce polo amato non è determinato dalla visione del corpo del Cri sto risorto ma dall’anomala assenza del suo cadavere dal sepol cro. Bende e sudario privi del corpo fungono per lui da segni che stimolano una «consapevole fiducia» in Gesù correlata all’esperienza della sua presenza amante prima della morte e in fluida continuità con quella.68 Al v. 9 il commento del nar ratore esplicita il carattere ancora incipiente e intuitivo della fede del discepolo amato per affermare, allo stesso tempo, l’as soluta novità dell’esperienza pasquale. Il discepolo amato, in fatti, vede degli indizi che gli fanno presentire un accadimento di vita che stimola fiducia anche se tale accadimento «non» ha «ancora» una configurazione esperienziale e parola adeguata a esprimerlo: «non avevano ancora capito la Scrittura». La ri surrezione di Gesù è indeducibile a tavolino; non è affermabi le come atto scribale d’esegesi della Scrittura. Non è una ne cessità razionale, ma la rivelazione del disegno salvifico in essa inscritto e compiuto nel modo e nel tempo prestabilito. Prima di sperimentarla pienamente come evento, la lettura delle Scrit ture non basta a comprenderla. Una volta sperimentata, però, ne costituirà la chiave stessa (lC or 15,4; Gv 2,22; At 2,22-36; 68 G hiberti, 127.
4,2)! Dal punto di vista narrativo, conseguentemente, il crede re del discepolo amato non ha alcuna conseguenza nella storia: i due discepoli se ne tornano indietro e la loro visione del se polcro non risolve il dramma della Maddalena (Gv 20,10). Un input, però, è lanciato al lettore riguardo al modo in cui può e deve disporsi a interagire con la testimonianza del narratore sui «segni» di Gesù per vivere, a sua volta, la relazione fluida e piena con lui dopo la Pasqua.69 La telecamera, a questo punto, ritorna sulla Maddalena, che il lettore comprende essere ritornata con i due discepoli al sepolcro (w. 11-13). Come prima «stava» insieme alle altre donne e al discepolo amato presso la croce di Gesù (19,25) così ora «sta» davanti al sepolcro. La sua permanenza tenace nel luogo della morte e della sepoltura ricorda anche lo «stare» del testimone Giovanni dal quale prende avvio la storia discepolare (1,35): lo «stare» della Maddalena, dunque, definisce un arco tra inizio e fine del discepolato storico di Gesù e, al contempo, inaugura l’inizio della testimonianza pasquale del Risorto. Prima dell’incontro con il Risorto, però, la sua presen za è caratterizzata da un lutto senza consolazione: il verbo «piangere», che ricorre tre volte al participio presente, all’im perfetto e all’indicativo presente, è l’azione che maggiormente identifica la Maddalena (w. 11.13); evoca il pianto di Maria di Betania e de «i Giudei» per la morte di Lazzaro (11,31.33) ma anche il pianto dei discepoli annunciato da Gesù (16,20). Col suo pianto la Maddalena esprime tutto il peso dell’assenza del Signore e della separazione determinata dalla sua morte che, solo dopo, sarà riconosciuta come preludio di una vita ulterio re, sovrabbondante, non «toglibile» (16,22). Il suo piangere, tuttavia, si accompagna al medesimo gesto compiuto dal disce polo amato: chinarsi per guardare dentro (v. 5). Il racconto giovanneo richiama, a questo punto, la tradizione sulla visione65 65 Cfr. Wengst, 729.
angelica avuta dalle donne (Mt 28,2-7; Me 16,5-7; Le 24,4-7.23) ma attribuisce ad essa tutt’altra funzione. Dalla bocca degli angeli in bianche vesti, infatti, non viene alcun annuncio pa squale. Il dialogo con loro serve perché la Maddalena espliciti nuovamente, stavolta in prima persona singolare, il profondo smarrimento per la perdita del «suo Signore» che ella cerca cadavere («Donna, perché piangi?»). Con la loro presenza, d’altronde, essi esprimono già l’irruzione della vita divina nel luogo della morte. La loro posizione fisica, che evoca quella dei cherubini l’uno di fronte all’altro ai lati del propiziatorio dell’arca dell’alleanza (Es 25,17-22; 37,6-9; Nm 7,89; IRe 8,67), richiama al lettore la verità sul «corpo» di Gesù, «santuario» della presenza di Dio, e il segno promesso del suo innalzamen to (Gv 2,18-22). La parola degli angeli, però, non determina alcun cambiamento della situazione. vv. 14-16. L’azione trasformatrice è riservata al Signore stes so. I versi sono aperti e chiusi dalla doppia occorrenza del verbo «volgersi». All’inizio Maria volge il suo sguardo all’indietro, cioè fuori dal sepolcro dove esso era fissato nel desi derio del corpo-cadavere, e vede G esù presente pur senza riconoscerlo (v. 14); alla fine, lo volge nuovamente a Gesù in risposta al suo richiamo personale ormai riconosciuto e ine quivocabile (v. 16). Il riconoscimento, infatti, avviene attraver so il dialogo con lui in un duplice scambio di battute. Nel primo (v. 15) Gesù ripete la domanda degli angeli, ma la am plifica interrogando la donna anche sul temine personale del la ricerca che il suo pianto esprime («Chi cerchi?»). Mentre nei sinottici il tema della ricerca del Crocifisso da parte delle donne appare in bocca agli angeli ed esprime il pieno ricono scimento dell’intenzionalità di queste (Mt 28,5; Me 16,6; Le 24,5), in Giovanni esso compare in bocca a Gesù e nella forma di una domanda che richiama quella con cui egli aveva espli citato e accolto l’intenzione di sequela dei primi discepoli (Gv 1,38: « Che cosa cercate?»).
Il contesto scenico, quello del giardino in cui il sepolcro si trova (19,41), permette l’equivoco della Maddalena che scam bia Gesù per il giardiniere e chiede a lui conto del suo stesso corpo («Se lo hai tolto tu ...»)! L’ironia nascosta nel frainten dimento è coerente sul piano letterario con il racconto di rico noscimento (cfr. Le 24,18: «Tu solo sei forestiero così da non sapere...?»), ma si colora anche dell’allusione al Cantico che paragona l’amata a un giardino (Ct 4,12-5,1; 6,1-2) e la ritrae alla ricerca dell’amato (3,1-4; 5,6-8), per due volte invitata a voltarsi (7,1). A differenza della ricerca che si svolge nel giar dino dell’arresto, alla quale Gesù risponde dicendo la propria identità («Sono io») e consegnandosi liberamente in vista del la morte (Gv 18,1-11), alla ricerca della discepola nel giardino della sepoltura Gesù risponde chiamandola per nome («M a ria!»), dicendo cioè la sua identità così come egli la conosce (10,3-5.14-16.27). La risposta di riconoscimento della discepo la non si fa attendere ed è ben espressa dall’appellativo aramaico con cui si rivolge con intimità a Gesù (rabbouni: v. 16) .70 II suo incontro con il Risorto, fatto di reciproco riconoscimento, richiama l’incontro di Gesù con Natanaele, ultimo dei primi cinque discepoli (1,47-49). La risurrezione, dunque, non è an nunciata formalmente («È risorto»: Mt 28,6; Me 16,6; Le 24,6) ma esperita come inveramento pieno, oltre la morte, della re 70 L’unica altra occorrenza di rabbouni nel Nuovo Testamento è Me 10,51. Il tito lo di rabbi («mio grande») poteva essere rivolto, al tempo di Gesù, a diversi personag gi degni di onore o stima rispetto ai quali colui che parla si trova in una posizione subordinata e si rivolge con deferenza. Dopo il 70 d.C., l’espressione divenne termine tecnico per definire i maestri farisei costituiti del popolo. Dunque, l’equivalenza che Giovanni stabilisce esplicitamente tra rabbi e didàskalos è un anacronismo anche se «la traduzione è in qualche modo in continuità con la realtà storica gesuana, sia perché Gesù era realmente maestro, sia perché rabbia non come titolo, bensì come semplice appellativo onorifico, era certamente usato anche nei riguardi dei maestri. E tuttavia rabbi avrebbe potuto essere tradotto in modo appropriato anche con kyrios e così difatti è avvenuto» soprattutto negli strati più recenti della tradizione evangelica (M. Pesce, «Discepolato gesuano e discepolato rabbinico. Problemi e prospettive della comparazione», in Aufstieg und Niedergang der romischen Welt II, 25/1 [1982], 375). Giovanni, tra i Vangeli, è quello che ama e usa di più l'appellativo rabbi per Gesù.
lazione personale e della conoscenza reciproca storicamente vissuta col Maestro. v. 17. Soluzione: la parola che Gesù rivolge a Maria dopo essersi fatto riconoscere presuppone un gesto che il testo non descrive («Non continuare a tenerm i...»: v. 17a) e risponde alla mancata conoscenza del «dove» di Gesù («Salgo al Padre m io...»: v. 17b) che determinava l’angoscia della donna. Il ge sto presupposto, che implica la soluzione del problema della scomparsa del corpo di Gesù dal punto di vista della trama di azione, è il contatto fisico di Maria con il corpo del Maestro (Mt 28,9; Ct 3,4). Benché sperimentato come segno della veri tà della risurrezione, questo contatto non può essere prolun gato ulteriormente. La glorificazione-innalzamento di Gesù, cioè il suo «passaggio» pasquale dal mondo al Padre (Gv 13,1) come vittoria piena sulla morte, sul mondo e sul suo «principe» (12,31-33; 16,33), comprende necessariamente la fine delle modalità storiche del suo incontro e contatto con «i suoi». Non è attraverso distinte e interminabili apparizioni che egli sarà presente e riconoscibile come vivente, bensì nel potere espresso col dono dello Spirito (7,39; 16,7; 20,21-23) - di as sociarli pienamente a sé e al proprio rapporto col Padre in una relazione di reciproca immanenza consentita dall’amore per lui e per i fratelli e dalla custodia fattiva della sua parola (6,56-57; 13,34-35; 14,15-26; 15,9-17). La metafora spaziale del «salire al» Padre è coerente tanto con la cristologia del Figlio dell’uomo celeste, rivelatore e giu dice, inviato e disceso dal cielo (3,13; 6,62; cfr. anche Tb 12,20) quanto con il linguaggio dualistico che esprime l’alterità di Dio anche attraverso il simbolismo spaziale (alto-basso, terra-cielo). Impiegata qui, essa ha delle conseguenze anche per la com prensione del fine e significato ultimo della relazione discepolare stabilita storicamente con Gesù: originata da e nel rappor to con Dio Padre (Gv 6,45) essa termina essenzialmente in Lui. La relazione col Padre, la destinazione a Lui, è il «dove» di
Gesù Figlio (14,10-11; 16,28) e nel suo movimento compiuto, incessante e perfetto, verso il Padre (1,18) sarà anche il «dove» dei discepoli (12,26; 14,3-4; 17,24), diventati a loro volta figli di Dio, partecipi come singoli e come popolo della nuova alle anza compiuta nel Cristo davidico (2Sam 7,14; Sai 89,27; Os 2,25; Ger 31,33; Gv 1,12-13; lG v 3,1-2; Ap 21,7). Nella solu zione, dunque, il corpo di Gesù è recuperato e il suo «dove» è svelato perché né è manifestato il significato relazionale ai discepoli-fratelli e al Padre. Nella «ascensione» al Padre, che definisce metaforicamente la sua nuova condizione di esisten za in quanto innalzato-glorificato, non è rivelato solo il compi mento del destino di Gesù ma anche la vocazione ultima dei credenti in lui, ormai definiti «fratelli». Ancora una volta, non è l’uso formale della categoria di «risurrezione» che caratteriz za il racconto pasquale di Giovanni, bensì quella relazionale del movimento definitivo verso il Padre in atto di compiersi e di essere partecipato ai discepoli anzitutto mediante la parola che lo annuncia. Il nuovo rapporto della Maddalena con il corpo- del «suo Signore» risorto starà tutto dentro questa pa rola («Non continuare a tenermi.. .Va’, invece, e di’»): la paro la della glorificazione, infatti, dovrà dirla Maria e risuonerà come parola-azione del Risorto proprio nella bocca della di scepola. Il «non continuare a tenermi» non è la fine di una storia relazionale, ma la condizione perché essa, inverata e rin novata nella sua struttura, sia feconda e si traduca in missione di annuncio. v. 18. Con il suo «andare annunciante», speculare e inverso al primo (w. 1-2), si ha la situazione finale del racconto (cfr. Mt 28,8-10; Le 24,9). L’uso per esteso del nome «Maria M ad dalena», fatto nella pericope solo al v. 1, rappresenta con la sua solennità un’altra forma di inclusione. Il contenuto dell’annun cio della donna è espresso con una costruzione sintattica sin golare: la prima affermazione («Ho visto il Signore») è in forma diretta ed è l’unica nei Vangeli in cui l’annuncio pasquale del
le donne viene riportato come citazione; la seconda afferma zione, in realtà, non ha contenuto esplicito ma rimanda il let tore alle parole sull’ascensione affidate da Gesù alla Maddale na e da lei fedelmente riportate. La formula con cui Maria esprime la sua esperienza del Risorto richiama la visione della pietra tolta all’inizio del racconto (v. 1) e ne illustra il vero si gnificato: non il trafugamento del corpo-cadavere ma la liber tà del Signore risorto personalmente visto e riconosciuto da Maria. Essa dice anche che la promessa di Gesù si è compiuta (16,16-19.22) ed è in se stessa una testimonianza (1,34; 19,35) che anticipa quella degli altri discepoli a Tommaso (20,25). Soprattutto, essa riecheggia definitivamente fuori dal racconto, alla cui trama non contribuisce più in alcun modo, come la testimonianza ecclesiale che farà da base alla fede di tutti i credenti nelle generazioni a seguire (20,20.29). Sotto la sovra nità del Signore risorto, visto e testimoniato da Maria, si farà strada una fraternità in cui a determinare la dignità di ciascuno non saranno il genere sessuale o il ruolo ecclesiale, ma la rela zione d’amore fedele e di testimonianza rappresentata nei suoi poli maschile e femminile da Pietro, dal discepolo amato e dalla Maddalena.5
5. Linee teologiche Rimandando il lettore agli studi utili all’approfondimento organico della teologia giovannea, vorrei tracciarne i lineamen ti principali partendo da una considerazione ermeneutica. La sfida maggiore per l’interprete del «Vangelo spirituale» è riu scire a tenere sempre orientato il timone dell’indagine teologi ca verso ciò che è primario rispetto a ciò che è secondo, ciò che è originario rispetto a ciò che da esso scaturisce, ciò che contiene e implica rispetto a ciò che è contenuto e implicato. Condizione perché questo accada è non perdere mai di vista il
concreto e costante radicamento storico ed esperienziale delle affermazioni teologiche eccezionalmente dense del racconto giovanneo. La narrazione teologica di Giovanni, infatti, è «una testimo nianza resa all’esperienza»:71 Gesù per primo «testimonia ciò che ha visto e udito» (3,31-32) e ugualmente fanno i protago nisti del suo racconto (1,34; 4,28-29.41-42; 12,17), il discepolo amato (19,35) e i testimoni del Risorto (20,18.25). Consideran do, dunque, l’importanza strutturale che la nozione di «testi monianza» assume nel Quarto Vangelo si può dire che l’espe rienza pasquale della salvezza in Gesù come compimento esca tologico della relazione di D io col m ondo {soteriologia), indissociabile dal riconoscimento credente della sua signoria e messianicità (20,28.30-31), è primaria rispetto alla complessa elaborazione cristologica del racconto evangelico (cristologia). Anche la ricca ed esplicita pneumatologia giovannea ne dipen de e ne è una elaborazione riflessa. L’esperienza storica di G e sù di Nazaret, che determina una riconfigurazione radicale del messianismo giudaico, porta a sua volta con sé un sostanziale ribaltamento delle attese tradizionali relative ai modi e tempi dell’agire di Dio per il giudizio e la salvezza (escatologia) e un’innovazione ancor più radicale del linguaggio adeguato per parlare di Dio stesso {teologia). La cristologia e la pneumato logia, in questo senso, saranno seconde rispetto alla soteriolo gia ma primarie rispetto all’escatologia, alla teologia e anche all’ecclesiologia giovannee. Analogamente, la cristologia e l’ec clesiologia su quella fondata risulteranno primarie rispetto al le implicazioni sacramentali del linguaggio che le esprime nel racconto giovanneo. Il vertice teologico da cui esso parte (1,12) non sarebbe potuto emergere in figura che alla fine di tutta la storia e grazie al suo completamento (20,28; 21,7): non è il frutto di un’elaborazione concettuale fatta a tavolino, l’esito 71Motyer, 198-199.
spontaneo di una storia delle idee giunta a piena maturazione, ma primariamente l’audace espressione verbale di ima cono scenza relazionale consentita dalla fede e maturata dall’espe rienza di Gesù letta a partire dalla Scrittura.
5.1. La soteriologia L’affermazione da cui si snoda la riflessione giovannea è che la storia della relazione del Dio unico con le creature - trat teggiata nelle sue dinamiche più profonde nella Scrittura - in Gesù è giunta efficacemente al suo compimento escatologico per la salvezza piena o la «vita» del mondo. Egli, che rimane celato dietro l’ignaro sposo di Cana, è il donatore del «vino migliore conservato» fino all’ultimo per la festa nuziale (2,10). Da questo punto di vista, il lessico giovanneo della testimo nianza si può considerare equivalente a quello kerigmatico dei sinottici e dà ragione della scelta letteraria del genere «vange lo»: il racconto della vita di Gesù è l’attestazione o annuncio gioioso (3,29; 15,11; 16,20.22; 20,20) della definitiva e com piuta presenza messianica e salvifica di Dio in mezzo al suo popolo e al mondo (Gv 1,14; 20,28 e Mt 1,23; 28,20). «Cre dere in lui» - atto su cui il prologo (Gv 1,1-18) e il primo epilogo (20,30-31) del Vangelo insistono come punto di par tenza (1,13) e finalità (1,6-8; 20,31) della testimonianza - con sente di «ricevere» in pienezza la «grazia» della compiuta re lazione di alleanza e, dunque, di partecipare della Vita stessa che Dio è per il mondo nella persona del Figlio unigenito, l’uomo Gesù, Logos divenuto carne «pieno di grazia e di ve rità». La testimonianza giovannea, dunque, prende avvio dall’esperienza credente della partecipazione alla «pienezza» di Cristo (1,16), riconosciuto, nell’individualità della sua per sona e nella modalità della sua manifestazione storica, come la presenza salvifica di Dio al mondo. Egli è «l’agnello di Dio che
toglie il peccato del m ondo» (1,29) e la cui «morte-per» fa sgorgare perdono (19,33-37) e vita (10,10-11.15) costruendo i discepoli in santuario del Dio santo e fedele (17,17-19) e apren do il tempo del raduno escatologico di tutti i «figli di Dio di spersi», dentro e oltre i limiti delVéthnos giudaico (11,51-52). La salvezza donata in lui ha due dimensioni, entrambe dia lettiche. Dal punto di vista “spaziale” della sua estensione, es sa presuppone e valorizza la distinzione tra Israele e le nazioni, tra giudei e non giudei (siano essi samaritani, greci o romani), ma anche la oltrepassa introducendone un’altra non lineare ma trasversale e verticale, di natura non più etnico-religiosa ma personale e teologale, quella che passa per l’accoglienza di fe de o il rifiuto verso il Logos divenuto carne. La dialettica tra universalità e particolarità della salvezza che, pur venendo dai giudei (4,22), riguarda non solo «i Giudei» (5,34) ma «il mon do» tutto (3,16-17; 4,42; 6,51; 12,47), si trasforma nella dialet tica tra la destinazione universale della rivelazione salvifica in Gesù e la particolarità, individualità anzi, della risposta perso nale di chi le si apre credendo, ponendosi responsabilmente di fronte al Cristo e impegnandosi a «rimanere» fino in fondo nella sua parola (8,31-32; 15,4-10). L’attrazione al Cristo e la fede in lui (6,44.65) si verificano ormai al livello individuale e non nazionale. Il personalismo giovanneo diventa così uno dei segni più marcati del suo universalismo soteriologico. Dal punto di vista “temporale” della sua qualità ed efficacia, poi, la salvezza presuppone la distinzione giudaica tra una vita terrena, caduca, «in questo mondo» e una vita eterna nel mon do a venire che si può «avere», «vedere/gustare» o nella quale si può «entrare» così come nel regno (Mt 19,16-17; Gv 3,3.5.1516.36; 8,51-52), ma la supera insistendo su un’altra differenza, anch’essa di tipo trasversale e verticale, quella tra la vita propria delle creature (la psyche) e la vita stessa di Dio (zoe). Se la pri ma è segnata dal limite della «carne» mortale e non può essere sottratta indefinitamente all’esperienza della morte fisica, l’al
tra è per sua natura indefettibile e trascendente, per definizio ne non passibile di morte e antitetica ad essa, ma può essere partecipata dalla «carne» stessa (17,2); passa, anzi, attraverso la «p a ro la» (8,51-52) e la «carn e» del Figlio dell’Uomo (6,51.53-56), Re-Pastore che dona volontariamente la sua psyche nella morte perché il suo gregge abbia vita sovrabbon dante (10,10.15.17-18.28; 12,24-25; 15,13). La salvezza, che è partecipazione alla vita stessa di Dio e «conoscenza» intima di Lui così come il Figlio inviato lo rivela al mondo (17,2), ha dunque una dimensione simultaneamente storica e metastori ca: può cambiare la storia concreta degli uomini strappandoli ai dinamismi mortali del peccato (8,24) e persino temporanea mente - come nel segno di Lazzaro - dalla morte fisica, evi tandone il fallimento esistenziale o la «perdizione» (3,16; 6,39; 10,28; 12,25; 17,12; 18,9), ma la sua efficacia travalica i limiti temporali della storia individuale o nazionale per esprimere, piuttosto, l’«ora» delTauto-rivelarsi e donarsi pieno di Dio al mondo. La salvezza in Gesù Cristo non è il futuro di un regno atte so e ancora da venire (o da raggiungere), ma il presente acca duto (1,17) di una relazione nutriente e vivificante, quella tra il Padre e il Figlio comunicata agli uomini (6,57), che «trasfe risce» totalmente chi crede «dalla morte alla vita» (5,24-25), assicurandogli la vita nonostante la morte fisica (11,25; 12,25). Per i credenti, dunque, la salvezza si configura proprio come una nuova creazione o rigenerazione in «figli di Dio» (1,12-13; 3,3-8). Ma anche per «il mondo» che rifiuta, che è connotato come tale per l’«odio» con cui risponde alla testimonianza lu minosa di Gesù (3,19-20; 7,7; 15,18-19.23-25) e il cui potere tenebroso, nell’ermeneutica narrativa del Quarto Vangelo, è incarnato tragicamente dall’opposizione religiosa e istituziona le incontrata da Gesù in seno al suo stesso popolo (1,10-11), il conflitto drammatico - che ha il suo epilogo nella morte di croce del Messia - significa non l’irreversibilità di ima condan
na e la conclusione fallimentare della storia di salvezza ma l’ir rompere apocalittico dell’essere e agire salvifico di Dio già annunciato nelle Scritture profetiche. In Giovanni, a differen za dei sinottici, mancano gli esorcismi che attestano la battaglia di Dio e del suo Messia per l’affermazione del regno e la libe razione degli eletti: la stessa vita di Gesù «luce del mondo», in tutta la sua estensione e drammaticità, e la sua morte sulla croce sono viste come l’esorcismo infallibile e universale sul cosmo nell’«ora» dell’intervento finale di Dio per il giudizio e la salvezza (12,31-32). La manifestazione o rivelazione che G e sù ha fatto di sé in relazione al Padre e, dunque, la comunica zione ai credenti della sua vita di relazione col Padre, attestata definitivamente nel Vangelo dei segni messianici, resta ancora e sempre la salvezza o vita offerta a chiunque crede.
5.2. La cristologia La trama cristologica è individuata nitidamente, nella ma crostruttura del Vangelo, dalle due proclamazioni fatte dal narratore all’inizio e alla fine del racconto. La prima parte dall’essere stesso di Dio per riconoscere in Gesù Cristo il Logos divenuto carne, l’Unigenito del Padre interamente partecipe della sua esistenza sovratemporale (1,1-2.14.18); la seconda, al contrario, parte dall’uomo Gesù di Nazaret, crocifisso e risor to, per riconoscere in lui il Messia atteso di Israele (il Cristo) e il Figlio di Dio (20,30-31). La prima, dunque, è fatta da una prospettiva teocentrica e presuppone una domanda squisita mente teologica: chi è il Dio creatore e redentore che si rivela al mondo? La seconda, invece, è fatta da una prospettiva sto rico-salvifica convergente nella domanda cristologica e soteriologica: chi è il Cristo di Dio, il Re Messia che libererà Israele e farà trionfare la sovranità divina davanti a tutte le nazioni? La prima afferma l’umanità del Logos; la seconda, evidentemente
correlata alla confessione di fede di Tommaso («Mio Signore e mio D io!»: 20,28), afferma la messianicità e divinità di Gesù. Il prologo va da Dio all’uomo, dal Logos alla carne mortale, suggerendo come l’esperienza di Gesù di Nazaret renda neces saria una proclamazione teologica nuova e audace. Il primo epilogo va da Gesù al Cristo Figlio di Dio, suggerendo così la necessità di un radicale ripensamento delle idee giudaiche sul Messia a partire dall’incontro col Messia che Gesù è. Posta al crocevia tra le due domande principali, chi sia Dio che si rivela e chi sia il Messia per mezzo del quale egli agisce nell’ora culminante della storia salvifica, la cristologia giovan nea si sviluppa in forma narrativa attraverso il dramma della rivelazione e del riconoscimento dell’identità dell’uomo Gesù, giudeo, figlio di Giuseppe da Nazaret, maestro galileo attivo a Gerusalemme, operatore di segni e latore di una parola mai udita prima dalla bocca di un uomo (7,46). Le informazioni che i suoi interlocutori possono vantare riguardo alla sua ori gine familiare (1,45; 6,41-42) e provenienza dalla Galilea (1,4546; 7,27.52) o, viceversa, alla sua mancata formazione scribale (7,15), sono altrettanti tratti della sua specifica fisionomia uma na. L’umanità di Gesù, in effetti, è molto sottolineata, anche linguisticamente, dall’evangelista che a più riprese insiste sul suo essere ànthròpos per esprimere positivamente la sua fami liare prossimità agli altri (4,29; 5,7; 7,46.51; 8,40; 9,11; 11,47.50; 18,14.29) o per rimarcare, polemicamente, come essa costitui sca una pietra di inciampo per i suoi interlocutori se correlata alla sua pretesa identitaria, interpretata come blasfema e arro gante (3,27; 5,12; 9,16.24; 10,33; 18,17). Per Giovanni l’umanità di Gesù è punto di intersezione e matrice esperienziale di entrambe le prospettive di approccio alla sua identità: tanto quella che guarda a lui partendo dalla teologia biblica della rivelazione e, dunque, dalla Legge, dalla Parola e dalla Sapienza, quanto quella che lo guarda a partire dalle categorie multiformi dell’attesa escatologica e messianica
di Israele (il Cristo Re, il Servo di Yhwh, il germoglio di Davi de, il profeta come Mosè, il Figlio dell’uomo). Essa è l’impre scindibile punto di partenza di ogni riflessione cristologica al punto da apparire, nel suo Vangelo, come un vero e proprio tema, che è al contempo teologico (Dio si rivela divenendo uomo mortale) e cristologico (il Messia re liberatore e il Figlio dell’uomo giudice apocalittico è l’uomo consegnato dai giudei ai romani e crocifisso).72 L’ultima occorrenza evangelica della parola ànthropos nella proclamazione solenne di Pilato in 19,5 («Ecco l’uom o!»), prossim a a quella che lo dichiara «re» (19,14), costituisce, in questa luce, un culmine paradossale del la cristologia giovannea: Gesù, visto come uomo sofferente e schernito, è il re eletto di Israele (cfr. il ricorrere dell’espressio ne «ecco l’uomo» in lSam 9,17 in relazione a Saul) e il Ger moglio abilitato alla ricostruzione del tempio del Signore (cfr. il ricorrere dell’espressione «ecco un uomo che si chiama Ger moglio» in Zc 6,12). Per quanto debitrice anzitutto dell’elabo razione apocalittica più tardiva (1 Enoc), la stessa cristologia giovannea del Figlio dell’Uomo, giudice riservato da Dio per la rivelazione escatologica (Gv 5,27-29), è piena di legami con la cristologia della Parola divenuta sàrx o, se si vuole, ànthropos e, dunque, col significato letterale dell’espressione «figlio d’uo m o» come indice dell’appartenenza di qualcuno alla stirpe umana. Proprio nel suo essere visibile, raggiungibile, condizio nato e condizionante, passibile di sofferenza e di rigetto come ànthropos, il Figlio dell’uomo - che è anche messia, profeta e servo - può esercitare il giudizio, ricevere il regno e rivelare la Gloria (9,35-41). 72 «Giovanni è il solo scrittore apostolico a fare della parola ànthropos, uomo, un tema teologico» (L a POTTERIE DE, 90). Ci troviamo qui di fronte a «un nuovo modo di esprimere l’incarnazione (Gv 1,14)... Quest’uomo concreto, Gesù, è colui nel qua le il Figlio di Dio si è reso visibile... Il significato dell’espressione ecco l'uomo, allora, è proprio che quest’uomo Gesù, presentato ai giudei come un condannato umiliato e sofferente, irradia malgrado tutto potenza e maestà regali» (Ivi, 91).
È dalla sua identità umana, detta e agita, che l’evangelista vede emergere entrambe le dimensioni della sua persona, quel la teologica e quella cristologico-soteriologica, che intreccia tra loro in modo che l’una illumini l’altra. La prima emerge soprat tutto quando, per spiegare se stesso e il proprio agire, Gesù usa ed elabora in senso teologico un linguaggio del tutto an tropomorfico, quello della relazione tra un padre e il figlio, facendo appello al suo essere «(il) Figlio» in senso assoluto e all’essere «Padre» di Dio in senso specifico e personale (5,17. 19-20) e richiamando continuamente, col medesimo linguaggio, la struttura della relazione con Dio tipica dei veri profeti, in tutto conformi alla Parola che portano e incapaci di fare nulla «da se stessi», indipendentemente o, peggio, difformemente dalla volontà di Colui che li invia (Nm 16,28; Gv 5,19.30; 7,17.28; 8,28.42; 14,10). La seconda emerge quando Gesù par la e agisce in modo da provocare e attirare su di sé le attese escatologiche del suo popolo, pronunciando parole (i discorsi sul Pastore e sul gregge nel c. 10) e compiendo gesti che sup pongono una forte coscienza e pretesa messianica (2,13-22; 12,12-19) e operando miracoli che richiamano nell’immagina rio e nella memoria storica del suo popolo l’azione di Mosè, dei profeti, del Servo di Yhwh (il segno dei pani; la guarigione del cieco nato) e, in ultima analisi, l’agire salvifico ed escatolo gico di Dio (la risurrezione di Lazzaro). Ogni volta che i suoi gesti attirano su di lui l’attesa messianica dei suoi contempora nei, però, l’evangelista ritrae Gesù in atto di sottrarsi o scher mirsi, senza rigettare interamente l’identificazione messianica ma riconducendola sistematicamente al proprio rapporto di unità, fedeltà e obbedienza al «Padre» e, dunque, a una com prensione nuova tanto dell’essere e dell’agire di Dio, che in lui è presente e si rivela per salvare come Padre, quanto dell’esse re e dell’agire del Messia atteso la cui missione, a differenza dei suoi interlocutori, egli non intende in termini nazionalistici e bellicosi.
I detti «io sono», che funzionano alternativamente da for mula di auto-identificazione in cui «io» è soggetto («io sono» + predicato) o da formula di riconoscimento in cui «io» è pre dicato («[quello] sono io»), letti su questo sfondo, appaiono l’espressione migliore, oltre che distintiva, della complessa cri stologia giovannea. Da un lato, essi esprimono la funzione che Gesù assolve per gli uomini in rapporto ai loro bisogni e alle loro attese (il pane, la via, la verità, la vita, la luce, la porta, il pastore, la risurrezione, la vera vite) e dicono, anche attraverso il linguaggio simbolico, il suo ruolo salvifico. Dall’altro, quan do appaiono in forma assoluta senza alcuna determinazione nel contesto, essi esprimono l’essere dell’uomo Gesù nel suo duplice rapporto al Padre Dio e agli uomini. Egli, proprio co me uomo, è al contempo la presenza personale del Dio di Israe le salvatore in mezzo al suo popolo (cfr. la rivelazione del N o me divino in Es 3,14 e la sua ripresa nel Deuteroisaia) e la fi gura di mediazione che i suoi contemporanei attendono per l’ora escatologica, attribuendo ad essa tratti diversi ciascuno secondo la propria tradizione interpretativa. La verità del suo essere e della sua funzione, indissolubilmente connessa alla verità di Dio, al suo essere e agire, potrà apparire pienamente, però, soltanto nel momento culminante dell’«ora», quello dell’innalzamento sulla croce o piena manifestazione della Glo ria, cioè dell’identità personale di Gesù e, in lui, di Dio stesso (8,28). Giovanni, dunque, considera legittima e fondata l’identifi cazione di Gesù con il Messia di Israele, ma ritiene che questa identificazione richieda «un processo di elaborazione e di mo difica a causa di ciò che Gesù è stato ed è»,73 presenza unica e irripetibile di Dio in mezzo al suo popolo. La struttura emi nentemente relazionale del ritratto giovanneo di Gesù, inviato perfettamente fedele a Colui che lo manda e al compito che
deve assolvere, determina, quindi, una continua torsione teo logica, antropologica ed ecclesiologica della sua cristologia e la sottrae a ogni autoreferenzialità e impiego strumentale in ter mini ideologici e di potere. Il linguaggio patro-centrico del Gesù giovanneo, antropologicamente e religiosamente radica to, fa sì che chiunque possa riconoscere la sua identità e il suo insegnamento se ben disposto a «fare la volontà di Dio» (7,17). Proprio nei frammenti della sua storia di uomo (il dramma cristologico) sono riconoscibili i segni della gloria di Dio (il dramma teologico o la storia del Padre);74 nella limitatezza del la sua vita soggetta al disonore, al rifiuto e alla morte, è conte nuto il sempre «più grande» di Dio (1,50; 4,12; 5,20; 8,53; 10,29; 14,12.28), pienamente rivelato e donato agli uomini e, simultaneamente, la storia di sequela e di «glorificazione» di Dio che si apre per ogni discepolo fedele (9,3; 15,8; 21,18-19).
5.3. La pneumatologia Lo Spirito è il protagonista della comprensione autentica e profonda della «verità» di Gesù - cioè della sua rivelazione, della sua identità e della sua missione (16,11) -, testimonianza intima ed esperienziale della sua salvezza tra i credenti e con tinuatore, in loro, della sua opera nel mondo. Insieme a Luca, Giovanni è, tra i quattro, l ’evangelista che più chiaramente elabora una dottrina dello Spirito in rapporto a Dio, a Gesù e alla comunità dei credenti. Come in Luca, anche in Giovanni la presenza e l’azione dello Spirito sono indispensabili perché i discepoli assolvano al loro ruolo di testimoni del Cristo dopo la pasqua (15,26-27; At 1,8). In Giovanni, però, lo Spirito vie ne caratterizzato, sia nei titoli che nella funzione, in modo teo logicamente peculiare e di matrice fortemente giudaica. E 74 Cfr. Stibbe.
«m andato» insieme dal Padre e dal Figlio come dono della loro intima unità e prende, presso i discepoli, il posto di Gesù ormai assente.75 Non è definito solo come «Spirito Santo» (Gv 14,26; 20,22), secondo l’uso antico- e neotestamentario più tradizionale, ma anche come «lo Spirito di verità» (14,17; 15,26; 16,13)76 e «il Paraclito» (14,16; 15,26), cioè colui che è «chiamato-presso» per difendere un imputato nel contesto di un processo o per sostenere e consolare. Entrambi i titoli, in Giovanni, si spiegano a partire dalla metafora processuale che caratterizza la sua presentazione del ministero di Gesù e del destino dei suoi stessi discepoli: lo Spirito è inviato, dopo la partenza di Gesù, per continuare presso, con e in loro (14,17) la sua medesima testimonianza nel «mondo» nella duplice funzione di difensore di Gesù e di pro tettore, consolatore, dei discepoli. Come Gesù, anche lo Spi rito «discende dal cielo» (1,32), appartiene cioè interamente alla realtà di Dio opposta alla realtà del mondo signoreggiato da un «principe» che è menzognero e padre della menzogna (8,44). Sarà contro l’azione di questo «principe», in ultima ana lisi, che i discepoli insieme allo Spirito continueranno la testi monianza di Gesù alla verità (16,11; 18,37) vivendo, come nuove creature generate «da acqua e da Spirito», l’esperienza del regno di Dio (3,3-8) e mostrandone la profonda alterità rispetto alle logiche di potere violento del «mondo». Non a caso in Giovanni - come del resto anche nella tradizione sinot
75 In 14,15-17 è il Padre che lo «dona» ai discepoli ma su richiesta del Figlio; in 14,26 è il Padre che lo manda ma «nel nome» di Gesù; in 15,26 è Gesù che lo «man da» ma «da presso il Padre» come Spirito che sgorga dal Padre e quando lo Spirito, soggetto personale d’azione, «viene» per «condurre nella via» della verità intera di Gesù e «parlare» e «annunciare», non prenderà e annuncerà altro che ciò che è co mune al Padre e al Figlio (16,12-15). 76 Questa espressione nel linguaggio dualistico di scritti come i Testamenti dei Dodici Patriarchi (Testamento di Giuda 20,1-5) o la Regola della Comunità di Qumran (3,13-4,26) designa lo spirito buono - opposto allo spirito di menzogna, tenebra e malvagità - che ispira e guida i giusti nella loro lotta contro l’empietà.
tica - l’annuncio del dono dello Spirito è messo in relazione all’annuncio delle persecuzioni che i discepoli incontreranno nel compimento della loro missione (15,26-27; Mt 10,19-20; Me 13,11; Le 21,15). Come la cristologia, anche la dottrina giovannea dello Spi rito promana da e esprime l’esperienza di salvezza e di vita in Gesù e, più precisamente, la consapevolezza del compimento pasquale della nuova alleanza. In Giovanni, infatti, il dono del lo Spirito non è un evento narrativamente e teologicamente distinto dalla pasqua - come in Luca - ma è il sigillo della pasqua stessa (Gv 20,21-23) e ne esprime la portata salvifica per gli uomini: il Risorto può ora metterli a parte della sua stessa vita facendo dei discepoli nuove creature e «inspirando» in loro, come Dio nell’atto di plasmare Adamo (Gen 2,7; Sap 15,11) e come Elia nell’atto di resuscitare il figlio della vedova di Sarepta (IRe 17,21), lo Spirito vivificante atteso per il tempo della risurrezione o restaurazione dei morti di Israele (Ez 37,9) e, più ampiamente, come segno del compimento dell’alleanza e della purificazione di Israele dall’idolatria e dal peccato. Per dono dei peccati e dono della vita nuova appaiono così colle gati, nella narrazione giovannea, da potersi dire che il dono pasquale dello Spirito Santo da parte del Risorto compie la promessa del «battesimo» di purificazione «in Spirito Santo» annunciato dal battezzatore Giovanni (Gv 1,33) proprio in quanto nuova creazione.77 Di questo battesimo, che esprime il giudizio di Dio come salvezza e nuova creazione, tutti i creden ti parteciperanno poi anche sacramentalmente rinascendo «da acqua e da Spirito». Come il Padre e il Figlio (5,21), anche lo Spirito ha potere di «vivificare» (6,63) e per questo esprime la natura stessa di Dio (4,24) contrapposta alla condizione fragi le e caduca della «carne». 77 Sul rapporto tra l’acqua purificante e il dono divino dello «spirito di verità» nella nuova creazione, cfr. lQ S a Regola della comunità 3,6-8; 4,18-25.
Donato dal Risorto dopo la passione (ma cfr. già 19,34), esso è anche simultaneamente il «giudizio» di salvezza del Creatore sulle creature ed è donato proprio perché i testimoni di Gesù possano portare nel mondo la testimonianza divina del perdono (20,23): non un perdono che ignora il peccato del mondo (16,8-11), ma il perdono che lo denuncia e lo porta via (1,29). Giustamente, Giovanni può affermare con decisione che prima della «glorificazione» di Gesù «non c’era lo Spirito» (7,39): c’era, continuo e pieno, su lui in quanto Figlio (1,32-33; 3,34) ma non ancora riversato sul mondo come purificazione dal peccato prima della sua passione. Per questo, anche, «gio va» che Gesù «vada», cioè si separi fisicamente per sempre dai discepoli con la sua morte-per (16,7; indirettamente anche 11,50), perché lo Spirito del perdono «venga», testimonianza fedele, intima e continua della verità-fedeltà di Dio e della sua nuova creazione a dispetto e al cospetto del peccato del mon do. Continuando l’azione di «insegnamento» del Gesù terreno, lo Spirito, infatti, ne continua anche la glorificazione (14,26; 16,12-15) rendendo presenti, efficaci e sempre più intellegibi li ai discepoli, passo a passo con la loro storia nel mondo, le parole del Figlio che sono «Spirito e Vita» (6,63). Come, cre dendo, si «riceve» il Logos divenuto carne e, in lui, la pienezza della relazione con Dio, così, nell’incontro con il Risorto, i discepoli «ricevono» il dono rinnovante dello Spirito simulta neamente alla missione per testimoniare al mondo la Parola divenuta carne.
5.4. Lescatologia All’esperienza pasquale della salvezza e al dono dello Spiri to va certamente ricondotta anche l’escatologia giovannea che, com’è noto, affianca tenacemente l’una all’altra due concezio ni solo in apparenza alternative: quella che guarda a un «ultimo
giorno» o a un’«ora» come a un momento futuro, ancora da venire, che segnerà il compiersi del progetto salvifico di Dio, creatore e giudice, sul mondo; quella che sembra anticipare o radicare questo tempo ultimo già all’interno del tempo presen te della storia nel suo sviluppo lineare. La prima concezione è riflessa in testi dove si parla di un’ora attesa, di un «vivere» riservato al futuro, di un nuovo «venire» di Gesù dopo la Pa squa e della promessa della risurrezione dei morti (4,21; 5,2829; 6,39.40.44.54; 11,24; 12,48; 14,2-3; 21,22-23); la seconda si ritrova in testi come quelli che mettono in relazione al cre dere, nel presente storico dei singoli, il possesso della «vita (eterna)» (3,15-16.36; 5,24; 6,40.47.54; 20,31). Ci sono poi i testi che le affiancano candidamente nella medesima afferma zione (4,23; 5,25; 6,40.54; 11,24-25), confermando «la propen sione giovannea per l’unione dei contrari».78 Come spiegare e interpretare il dato giovanneo? In realtà, la combinazione delle due prospettive non è un inedito del tutto giovanneo: la comunità di Qumran, che associava l’azio ne dello «spirito di verità» al tempo ultimo della salvezza, rite neva anche di anticiparlo nella liturgia vissuta in comunione con gli angeli, nello studio amoroso della Tóràh, compresa in tutti i suoi segreti e osservata fedelmente, e nella vita fraterna condotta in spirito di umiltà e benignità dai membri della co munità in attesa del(i) Messia di Israele (lQ S a Regola della comunità 2,3-22; 1QM Regola della guerra 10,10-11). Diversamente da altri (gli empi non appartenenti alla comunità), i membri della comunità adunata «negli ultimi giorni» di una generazione empia si ritenevano messi a parte tra i «figli del mondo» «secondo la misericordia di Dio, secondo la sua bon tà e la sua gloria meravigliosa» per essere «annoverati con lui nella [assemblea degli] angeli come una congregazione santa in una posizione di vita eterna e nella parte con i suoi angeli» 78 B r o w n , Introduzione, 256-257.
(4Q181 Le dieci generazioni 1,3-4). Su questo sfondo linguisti co e teologico, a partire dalle proprie tradizioni gesuane e dal confronto con altre tradizioni neotestamentarie che insistevano alternativamente - ma non esclusivamente - sull’uno o l’altro aspetto del compimento (Le 17,20-21.22-37; lTs 4,13-5,10 e 2Ts 2; lC or 10,11; 15,12-58), Giovanni può avere maturato, senza contraddizione, la propria concezione. La si può comprendere e interpretare, poi, alla luce della cristologia, della soteriologia e della pneumatologia giovannee. La riflessione prolungata sul significato e sull’avvento dell’«ora» di Gesù - intesa già nei segni che ne anticipano la Gloria (la risurrezione di Lazzaro) come evento di rivelazione e di com pimento escatologico dell’agire creatore e redentore di Dio segna il passaggio definitivo da una concezione quantitativa o cosmologica del tempo a una qualitativa, del tutto condiziona ta dall’esperienza cristologica. Se di dottrina delle «cose ulti me» bisogna parlare in Giovanni, se ne può parlare solo in termini di escatologia personale cristocentrica: risurrezione (escatologia futura) e vita (escatologia presente) coincidono con la persona di Gesù di Nazaret (11,25-26). «Cristo è l’even to escatologico che libera dalla morte e dalle tenebre»79 e segna «il cambio degli eoni».80 La vita eterna è la relazione intima (il «conoscere») col Padre e col Figlio (17,2) e, ove si tratta di questa relazione, le «delimitazioni temporali» vengono messe «totalmente da parte».81 Come il «non poter trovare» Gesù è, per chi lo cerca ambiguamente, minaccia del proprio fallimen to escatologico (7,34-36; 8,21), così il «trovarsi» reciproco di Gesù e di quanti vanno a lui (1,41.45; 5,14; 6,25; 9,35; 11,17) è già esperienza della presenza vivificante e salvifica di Dio nella e oltre la storia, pegno di un sicuro «essere con» Gesù là 79 G nilka, 284. 80 B rown, Introduzione, 262. 81 G nilka, 287.
«dove egli è» (6,62; 12,26; 13,36; 14,3; 17,24).82 Di questo «do ve», già i discepoli conoscono la «via» (14,3) per percorrere la quale hanno la guida dello Spirito (16,13), partecipando già ai doni tipici dell’era escatologica come la gioia e la pace (14,27; 15,11; 16,20-24.33; 20,19.21.26). Certamente in Giovanni (come e più che in Luca-Atti) si può, dunque, parlare di un tempo dello Spirito che segue al tempo della vita storica di Gesù di Nazaret (7,39) e prepara, anticipandolo, quello del suo venire finale. I discorsi di addio annunciano esattamente questo tempo come il tempo di vita e di testimonianza dei credenti destinato a coinvolgere e inclu dere il «m ondo» (17,21.23). In questo senso, è vero anche per Giovanni che «la salvezza richiede tempo, non solo perché essa si realizza nella storia, ma anche perché vi sono fasi diver se nella sua realizzazione».83 Questo tempo, però, non si pone rispetto agli altri due in termini di mera sequenza: il presente del «dimorare» e del «manifestarsi» del Padre e del Figlio in chi custodisce la parola e ama G esù (14,21-24) «recupera nell’adesso anche passato e futuro»;84 ne partecipa e li manife sta. L’«ultimo giorno», per Giovanni, non è qualitativamente diverso dal «giorno» di Gesù già visto con giubilo da Abramo (8,56): manifesto nella sua più vera luce nel giorno ottavo, fuo ri la misura dei «sette giorni» della prima creazione, il giorno di G esù non è più qualcosa da attendere. L’esperienza dell’«ora» a venire è già l’«adesso» per i credenti (4,23; 5,25; 11,22; 12,31; 21,10).
82 Sottolinea correttamente Brown, Introduzione, 264, nota 57: «l'escatologia gio vannea non è soltanto il prodotto di una sofisticata riflessione teologica quanto prin cipalmente l’articolazione della spiritualità comunitaria». 83G n i l k a , 281. 84 Ivi, 287.
Vangelo secondo Giovanni
5.5. La teologia In coerenza con la cristologia, anche la teologia giovannea è eminentemente relazionale e dipende essenzialmente dalla persona e dall’atto rivelatore di Gesù, Logos divenuto carne (1,18). Egli, infatti, rende visibile al mondo il «D io» che «nes suno ha mai visto» (1,18; 3,31-32; 5,37; 6,46; 14,7-9; 20,28) rivelandolo come «Padre» nel parlare di sé come «Figlio». Tut ti i termini che esprimono la teologia giovannea, sin dal Prolo go, dicono tutti un dinamismo relazionale: il Logos (termine che esprime già in se stesso legame, connessione, vincolo) è volto verso Dio così come l’Unigenito sta in seno al Padre; l’orientamento costante di Gesù al Padre, origine del suo «ve nire» e meta del suo «andare» (5,43; 7,28-29.33; 8,14.42; 13,3; 16,28), e ia sua dipendenza da lui (4,34; 5,17.19.30; 6,38; 7,1618; 8,26.28.55; 9,32; 10,17-18; 14,31; 16,32) traspaiono da ogni sua parola e azione nell’arco del Vangelo; lo Spirito stesso è inviato «da presso» il Padre e costituisce il sigillo identitario e relazionale del Figlio (1,32-34) rispetto al Padre e rispetto ai discepoli; il Padre stesso, infine, è definito dall’atto dell’amare, dell’inviare e del donare che lo lega al Figlio e al mondo (3,16.35; 5,20.22; 6,32; 13,3; 16,27; 17,23). Nel modo peculiare di Gesù di riferirsi al Dio unico di Israe le chiamandolo suo proprio «Padre» l’evangelista non trova solo la chiave di volta per la sua cristologia (Gesù è «il Figlio», Parola eterna del Padre inviata al mondo) ma anche, conse guentemente, il cuore della rivelazione su Dio: colui che nella proclamazione quotidiana dello s'm a‘ «i Giudei» chiamano «il nostro Dio» (Dt 6,4; Gv 8,54) può essere conosciuto nella sua verità solo come Padre, origine, significato e meta della mis sione di Gesù. Conoscendo e vedendo Gesù, lo si conosce e lo si vede (12,44-45; 14,7; 16,3); ascoltando e custodendo la pa rola di Gesù, si ascolta e custodisce quella del Padre (7,16; 8,26.28.38.40; 12,47-50; 14,24; 17,6-8.14); disonorando e
odiando Gesù, si disonora e odia anche il Padre (5,23; 15,2324). L’identità del Dio uno non potrebbe essere compresa che a partire dalla unità d ’essere e d ’agire tra il Padre e il Figlio, ben espressa dalla relazione di immanenza reciproca (8,16.29; 10,30.34-38; 14,10-11; 17,11.21-23). Per la sua paternità, signoria e assoluta trascendenza, Dio il Padre è «più grande» di Gesù (10,29; 14,28), ma il Figlio ne è l’inviato plenipotenziario, lo rappresenta pienamente e perfet tamente nel mondo, ne cerca e ne rivela la gloria (7,18; 8,4950.54), lo manifesta e lo glorifica nelle parole e nelle opere (12,28; 13,31; 17,4.6), vive di lui e unito a lui (6,57), gli è fede le nell’amore con l’adempimento della sua volontà e missione fino alla morte (14,30-31). È il Padre, in fondo, il contenuto ultimo, tragicamente non compreso, della predicazione di Gesù secondo Giovanni (8,27). Gesù chiama a sé e parla di se stesso ma solo perché riconoscerlo come il Figlio inviato è l’unica via per scoprire l’identità e il volto del Padre. Il compimento pa squale della sua missione e della relazione di alleanza si avrà, infatti, quando, risuscitato dai morti, Gesù potrà parlare di Dio e Padre suo come «D io vostro e Padre vostro» (20,17). Da questo punto di vista, il Quarto Vangelo si può definire teo centrico o, meglio, patrocentrico e la profondità del suo teo centrismo è direttamente proporzionale al rigore giudaico del suo monoteismo, inteso come adorazione e riconoscimento dell’unico Signore non solo nella proclamazione ortodossa del lo ìema‘ ma nell’interezza di un’esistenza attraversata non dal la ricerca idolatrica della gloria e delle sicurezze umane (5,4144; 8,50.54; 12,43), con esiti di bestemmia pratica (19,15!), ma dallo «zelo divorante» per la Gloria dell’unico Dio (2,17), espe rienza di relazione in cui si incontrano e si fondono, dramma ticamente, l’amore «geloso» del Dio di Israele (Zc 1,14-17; 8,1-2) e quello del giusto fedele (Sai 69,10 in Gv 2,17). Le conseguenze dell’elaborazione teologica del linguaggio rivelativo di Gesù si vedono nel modo in cui l’evangelista par-
la di lui non solo come Figlio, come accade anche in altre tra dizioni neotestamentarie (Me 1,11 e paralleli; Rm 1,3-4.9; 8,3.32; Gal 4,4; Eb 1,2), ma come monogenes, l’unico hyiós, tale sul piano dell’essere (Gv 1,1-2.14.18; 3,16-18) e non del divenire come nel caso dei tékna Theou (1,12-13).85Al termine del Vangelo, nella professione di fede di Tommaso, le implica zioni teologiche di tale cristologia appaiono nell’attribuzione a Gesù dei titoli di Kyrios e Theós fatta da Tommaso (20,28): il Dio dell’alleanza {«m io Signore e mio Dio») è messianica mente ed escatologicamente presente al mondo nella persona di Gesù crocifisso e risorto. Nell’arco del Vangelo è la procla mazione dell’«io sono» in forma assoluta quella che lascia tra sparire più chiaramente la dimensione teofanica della presenza umana di Gesù e, viceversa, il carattere storico e concreto del la presenza salvifica di Dio, l’«Io sono» perennemente rivolto al suo popolo e unito al suo destino. Ma è forse il lessico della «gloria» e del «glorificare», profondamente biblico e caratte risticamente giovanneo, quello che con più efficacia comunica l’intuizione teologica di Giovanni: nell’interezza della sua esi stenza umana e filiale, piena di dignità (1,14; 2,11) ma votata alla ricerca dell’onore del Padre anche a costo del disonore e del rigetto (5,43; 8,49; 12,46), Gesù Figlio rivela nel modo più alto la «Gloria» di Dio, cioè - secondo il significato etimologi co del kabòd ebraico: l’essere pesante, rilevante di qualcosa o qualcuno - l’identità e l’essere di Dio, «la qualità di Dio in quanto Dio»,86la sua realtà così come si manifesta nel suo im patto col mondo quando egli si rivela per liberare e salvare (Es 14,4.17.18; 16,7; 24,16-17; 33,18-23; Lv 10,3; Is 6,1-3; 40,5; 60,2; Ez 1,28; 38,23). 851 titoli «Figlio» e «Figlio di Dio» in Giovanni, anche se strettamente correlati, non sono immediatamente sovrapponibili e la loro differenza si spiega in ragione dell’elaborazione teologica giovannea del titolo messianico, già anticotestamentario, di «figlio di Dio» (1,48). 86 S mith, 149.
Chi e come il Dio unico sia si manifesta essenzialmente nel la relazione tra l’uomo Gesù e Dio il Padre e nel modo in cui questa si realizza storicamente nel mondo come evento di re ciproca glorificazione (7,39; 8,54; 11,4; 12,23.28; 13,31-32; 15,8; 17,1.4-5), massimamente e paradossalmente nella morte di Gesù in cui la gloria del Dio di Israele e del Figlio dell’uomo, Servo di Yhwh (12,37-43), si rivela come «la gloria di amare».87 Significativamente, in Giovanni, la morte-per di Gesù, prima che come evento di espiazione e redenzione (prospettiva soteriologica), è vista come evento culminante di glorificazione del Padre e del Figlio, condizione per la consegna e l’effusione dello Spirito (7,39; 19,30) e, dunque, rivelazione piena e per fetta dell’essere divino: è in essa che potrà essere «conosciuto» l’«io sono» di Gesù in totale unione col Padre (8,28). Essa è importante come evento di salvezza solo e proprio perché ri vela la relazione vitale - vittoriosa sul mondo, sul suo principe e sulla morte - tra l’uomo Gesù e il Padre Dio e, in Gesù, tra il Padre e gli uomini (3,14-17; 10,17-18). Rivelando Dio come relazione d ’amore sovratemporale, eterna, tra il Padre e il Fi glio, essa salva comunicando agli uomini, nella fragilità della loro condizione mortale, la partecipazione alla vita stessa del Figlio col Padre (6,57). La relazione in Dio, presente «in prin cipio» e vissuta nel tempo dal Logos divenuto carne, è per Giovanni la rivelazione che trasforma l’Antico nel Nuòvo rea lizzando e comunicando la salvezza.
5.6. Lecclesiologia La relazione d’amore tra il Padre e il Figlio, riconosciuta come rivelazione e dono salvifico della loro Gloria e Unità (17,20-23), costituisce il fondamento stesso e lo spazio vitale 87 Simoens, La gioire d’aimer.
della chiesa o, nei termini del Vangelo, della relazione d’amore reciproco consegnata come unico imperativo etico (13,34; 15,12.17), possibilità d’esistenza aperta in Gesù (15,4-5) e sfida identitaria ai suoi discepoli (13,35; 15,14), «lasciati» (14,18; 16,28; 17,11) e «inviati» nel mondo (17,18; 20,21-23) dopo la sua pasqua come testimoni della sua rivelazione e della vita dischiusa dalla fede (14,1.19-20; 15,27). In rapporto a Gesù, il lessico che più insistentemente espri me l’identità dei credenti, dal primo all’ultimo capitolo del Vangelo, è certamente quello della relazione maestro-discepo lo. A differenza di quello della relazione padrone-servo (13,1314.16; 15,15.20), questo non viene annullato dalla condizione di intimità e confidenza totale cui i discepoli sono elevati in qualità di amici destinatari della rivelazione del Figlio (11,11; 15,13-15): permane anzi come condizione relazionale privile giata per l’esperienza più profonda del suo amore, paradigmaticamente rappresentata dal «discepolo che Gesù amava». L’insistenza sul lessico discepolare permette di focalizzare l’im portanza e l’unicità dei singoli all’interno della comunità cre dente e del loro rapporto personale e frontale con «il Signore e M aestro» (13,13-14); nel contempo, evidenzia il carattere paritario od orizzontale del loro rapporto fraterno (20,17; 21,23) che nemmeno la diversità di funzioni o ruoli cancella (21,15-23) vedendoli comunque impegnati, tutti e ciascuno, in un medesimo cammino di sequela. Le metafore che ne espri mono l’unità e la vocazione comunitaria, riprendendo quelle che nella Scrittura definivano Israele nella sua relazione d’al leanza con il Signore, sono quella nuziale (3,28-30), quella del gregge (10,1-18.25-30; 21,15-17) e della vite (15,1-8) e tutte hanno sempre un preciso fondamento cristologico: Gesù è lo sposo, è porta e pastore del gregge, è la vite di cui vivono i tralci. Non viene esplicitata l’immagine del tempio-santuario, ma chiamati a «rimanere» in Gesù, custodendone con la fede e con la vita la parola di rivelazione e il comandamento
dell’amore, i discepoli possono diventare essi stessi «dimora» del Padre e del Figlio, partecipando in Gesù del suo essere santuario vivente della presenza di Dio nel mondo (2,21; 6,56; 14,20.23; 15,4-7.9-10). La loro esistenza, infatti, non è destinata ad altro che a con tinuare e a perpetuare nel mondo la sua missione testimoniale e rivelatrice: come in Gesù, anche nella fecondità della loro esistenza discepolare il Padre sarà glorificato (15,8) e col Padre anche il Figlio (17,10); come Gesù, anche essi sperimenteran no odio e persecuzione da parte del mondo (15,18-16,4a), sostenuti dal Paraclito nella loro testimonianza. La loro unità d’amore, partecipazione dell’unità del Padre e del Figlio, sarà segno al mondo perché anch’esso possa credere e conoscere l’amore (17,21.23). Questa unità «costituisce l’essenza della chiesa... è la chiesa»,88 ed è tanto paradossale quanto tipica mente giovanneo il fatto che essa sia invocata e prospettata da Gesù proprio nel contesto della peggiore lacerazione costitui ta dall’abbandono e dal tradimento di Giuda (13,10-11.21-30): tale unità, fondata su e radicata nell’unità del Padre e del Fi glio, non teme la fragilità e la possibilità del fallimento umano ma è il dono chiesto efficacemente dal Figlio vincitore del mon do nell’ora della sua glorificazione (16,33). Con la preghiera consacratoria del Figlio, la comunità dei credenti è costituita e presentata al Padre come il nuovo tempio risollevato da Gesù nella sua ora.
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PRIMA LETTERA D I PIETRO
1. Questioni storico-letterarie La Prima lettera di Pietro, conservata parzialmente in quat tro papiri1e integralmente nei principali codici onciali del IVV secolo (Vaticano, Alessandrino, Sinaitico), al contrario della Lettera di Giacomo fu recepita senza esitazioni nella chiesa antica come testo autenticamente petrino. Secondo Eusebio fu riconosciuta e usata dagli anziani, come da Papia (Storia della chiesa 3,39,17), quale testo indisputato (Storia della chiesa 3,3,1 e 4). Stranamente assente dal Canone muratoriano, potrebbe essere stata utilizzata già da Clemente di Roma (cfr. 1 Clemen te 1,1 e lPt 1,1-2; 30,2 e Pr 3,34 citato in Gc 4,6 II lP t 5,5; 49,5 e lP t 4,8 II G c 5,20) e sicuramente lo fu da Policarpo di Smirne (Lettera aiFilippesi 1,3 e lP t 1,8; 2,1 e lP t 1,13.21; 8,1 e lP t 2,22.24). 2Pt 3,1 la presuppone ed è citata esplicitamen te da Ireneo (Contro le eresie 4,9,2; 4,16,5; 5,7,2). 1.1. Datazione, destinatari e autore La diffusione e considerazione di cui il testo godette sin dagli inizi del II secolo costituisce un terminus ante quem per la sua datazione: la Lettera deve essere stata composta entro 1?p72 (III/IV secolo: 1,1-5,14), (VII secolo: lacunosi i cc. 1,2 e 3), *PS' (IV se colo: 2,20-3,1.4-12), gV25 (III/TV secolo: 1,23-2,5.7-12).
la fine del I secolo d.C. Più difficile, invece, è stabilire un terminus post quem: se fosse realmente stata scritta dall’apo stolo Pietro, col quale il mittente si identifica nel prescritto (1,1), allora la sua redazione non potrebbe essere posteriore alla data del suo martirio entro la metà del 60. Tuttavia, le prove a favore del carattere pseudepigrafo del testo sono for ti, anche se non certo con un «peso schiacciante» come giu dicano alcuni studiosi:2 - nei saluti finali (5,13), il luogo d'origine della Lettera sembra essere Roma, appellata simbolicamente col nome sferzante di «Babilonia» nei testi giudaici o giudaico-cristiani solo dopo la conquista di Gerusalemme e la distruzione del tempio nel 70 d.C. (Ap 14,8; 16,19; 17,5; 18,2.10.21; 2 Baruc 11,1-2; 67,7; 4 Esdra 3,1-2); - le esortazioni rivolte ai «presbiteri», incaricati della cura «p a storale» delle comunità e probabilmente retribuiti per il loro servizio (lP t 5,2), e quelle ai «più giovani» cui viene chiesta sottomissione (5,1-4), fanno pensare a strutture intra-ecclesiali più prossime a quelle rappresentate nei testi dell'ultimo quarto del I secolo (At 20,28; lTm 5,17-18; Tt 1,5-8); - l'uso consapevole, elegante e colto della koinè, con oltre cin quanta hapax neotestamentari, fino anche alla creazione di ter mini composti non attestati precedentemente in greco,3 le cita zioni dell'Antico Testamento tratte usualmente dai Settanta nonché la maestria nell'interpretazione del testo biblico secon do le regole del pesher tematico (lPt 1,10-12; 2,4-10),4 depon gono a favore di uno scrittore giudeo-cristiano che «non igno ra l'aram aico» ed è «profondam ente pervaso di tradizioni palestinesi»,5 ma che conosce troppo bene il greco per essere 2 Cfr., per esempio, GlELEN, 643. 3 Cfr. aprosdpolemptóSy «con imparzialità», in 1,17; artigénnetos, «appena nato» in 2,2; allotriep/skopos, «uno che osserva/spia altri», in 4,15; sympresbyterosy«co-anzia no », in 5,1; syneklektéy «co-eletta», in 5,13. 4 PUECH, «La P r e m iè r e » , 501-505. 5 Ivi, 524.
identificato col Pietro di Betsaida (cfr. At 4,13). Il riferimento nei saluti finali a Sila/Silvano (lPt 5,12: «Vi ho scritto... attra verso Silvano»), nel quale potrebbe essere riconosciuto il lato re piuttosto che l’estensore del testo, non risolverebbe comun que il problema anche se Silvano si considerasse il redattore reale del messaggio petrino.
L’ago della bilancia, allo stato attuale della ricerca, mi sem bra pendere quindi a favore di quanti ritengono che la Lettera sia stata scritta da Roma tra il 70 d.C e i primi anni del 90 d.C. (periodo nel quale, stando alla testimonianza di Plinio il gio vane governatore romano nella Bitinia e nel Ponto tra il 111113, erano cominciate le defezioni dei cristiani dalla loro fede: Lettere 10,96) e sia una testimonianza emblematica della capa cità della chiesa di Roma di elaborare una sintesi profonda e originale di tradizioni diverse e di esercitare e rappresentare, nel segno di Pietro apostolo, la sua cura verso le altre chiese appartenenti all’unica «fraternità che è nel mondo» (lPt 5,9).6 Con maggiore precisione, invece, possono essere identifi cati geograficamente e sul piano socio-religioso i destinatari del testo che, secondo il prescritto (1,1) sono «stranieri sog giornanti {pareptdèmoi) nella diaspora del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia». Si tratta di regioni appartenenti alle province romane dell’area settentrio nale dell’Asia minore, elencate in un ordine che va da nord-est (Ponto) a sud-ovest (Galazia, Cappadocia e Asia) per ritorna re a nord-ovest (Bitinia), plausibilmente secondo l’itinerario che avrebbe fatto il latore della Lettera. Si tratta, altresì, di zone in cui - eccezion fatta per la Galazia e l’Asia - il primo annuncio evangelico non doveva essere stato portato da Pao lo (At 16,7) ma da giudeo-ellenisti provenienti da Gerusalem me (At 2,9). 6H orrell, 50-51.
La conoscenza e l’apprezzamento profondo delle Scritture, dei privilegi e delle categorie teologiche tipiche del giudaismo che la Lettera presuppone nei destinatari (lPt 1,10-12.15-16.1920; 2,3-10; 2,21-25; 3,5-6.10-12.18-22; 5,13), appellati «stranieri e pellegrini» (2,11) residenti in «diaspora» (1,1) da un Pietro che li saluta da una «co-eletta» comunità collocata anch’essa simbo licamente in terra d’esilio (Babilonia, 5,13), spinge quindi a ri tenere che i destinatari dovessero avere in parte un’origine giu daica e che, benché forse convertiti in (buona?) parte dal paga nesimo (1,14.18; 2,10.25; 3,6; 4,3-4), dovessero comunque essere venuti a contatto con Pevangelo attraverso il giudaismo o avere avuto una catechesi d’impronta fortemente giudaica7. Se, poi, dietro il nome simbolico di Babilonia si riconosce la città di Roma è ragionevole pensare che le chiese dell’Asia settentriona le destinatarie della missiva condividessero con la chiesa di Ro ma la stessa matrice giudaica e gerosolimitana (At 2,10). La fi gura di Pietro, rappresentante anzitutto della predicazione e tradizione gerosolimitana, poteva costituire un’autorità per en trambe le aree credenti. Pietro, infatti, è descritto in modo sin golare nella Lettera come «co-anziano», membro cioè di un presbiterio giudeo-cristiano, «testimone (màrtys)» delle sofferen ze di Cristo e «partecipe (koinonós)» della sua gloria di prossima rivelazione (lPt 5,1): dunque, confessore integro del kerigma e corresponsabile; con gli altri «anziani» del mandato pastorale di Cristo «pastore capo (archipotmen)» (5,4; cfr. Gv 21,15-19). D all’accento costante posto sulle sofferenze (pàscho, pathemata) di Cristo (lPt 1,11; 2,21-23; 3,18; 4,1.13; 5,1) e dei credenti (2,19-20; 3,14.17; 4,12-13.15.19; 5,910), si può anche dedurre che i «cristiani», ormai riconoscibili con questo pre 7 Questa era anche la convinzione di Eusebio, che riteneva 1 Pietro indirizzata agli ebrei della diaspora (Storia della chiesa 3,4,2), e di Girolamo (Gli uomini illustri 1) secondo il quale «Simon Pietro... principe degli apostoli, dopo l’episcopato della chiesa di Antiochia» aveva predicato «alla diaspora di quanti avevano creduto dalla circoncisione, nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia».
ciso nome nel loro contesto sociale (4,16; At 11,26; 26,28), pur appartenendo a nuclei domestici in cui i padroni o i mariti potevano essere non credenti (lP t 2,18-3,2), avevano comin ciato a dissociarsi dalle pratiche licenziose e idolatriche attri buite ai pagani (4,3-4) e potevano essere malvisti (2,12; 3,16), sperimentare varie forme di ostracismo sociale ed essere espo sti ad azioni giudiziarie (3,13-17), forse anche per il rifiuto del culto imperiale, «dimostrazione cultuale di lealtà» verso l’im pero romano che per i cristiani restava una «soglia invalicabile» (in 2,13.17 il «re» e i «governatori» locali sono «creature uma ne»; il Kyrios è solo Dio con il suo Cristo).8
1.2. Genere letterario e scopo della Lettera I versi iniziali e finali offrono l’indicazione più sicura per definire il genere letterario di 1 Pietro: si tratta di una lettera circolare «scritta con poche parole per esortare e attestare» che la condizione dei «chiamati» (5,10) ed «eletti» da Dio in Cristo (1,1), pur se in stato di sofferenza temporanea, «è la grazia vera di Dio» in cui i destinatari possono e devono «stare» sal di sentendosi al sicuro anche nella «prova» (5,12; cfr. 1,6; 4,12). Il testo, dunque, è una vera e propria lettera con una duplice finalità pastorale: sostenere i «cristiani» nella sofferenza che stanno affrontando a causa della loro obbedienza credente e della «coscienza che essi hanno di D io» (2,19); confermarli e rassicurarli sul fatto che la loro condizione è una condizione di «grazia» e di elezione (2,19; 5,12) che li prepara alla «rive lazione» piena di Gesù Cristo (1,7.13; 4,13). Benché forestieri e stranieri nel mondo come minoranza, «vicina e dissimile allo stesso tempo dai giudei della diaspora»9 e in posizione sociale 8 G ielen, 647-648. 9 PUECH, «La Première», 497.
inferiore e disprezzata, essi possono considerare l’appartenen za alla «fraternità» dei credenti come esperienza di una «casa spirituale» (2,5; 4,17) e la «rigenerazione» battesimale vera fonte di identità (2,2). Per raggiungere questo scopo e comunicare ai destinatari il suo messaggio cristologico di speranza e di conforto, l’autore ricorre a tradizioni e, forse, anche a materiali letterariamente autonomi e formalmente diversi tra loro: frammenti innici di origine liturgica (1,18-21; 2,21-25) e battesimale (3,18-22) uni ti, o talvolta inframmezzati ad arte, a brani di sapore omiletico (si veda in 1,4 il passaggio dal «noi» liturgico-confessionale al «voi» omiletico) e a schemi catechetici e parenetici.101La ric chezza delle tradizioni e dei materiali utilizzati non rende però necessarie ipotesi complicate sulla genesi letteraria del testo, come quelle che vedrebbero in 1 Pietro originariamente un’omelia (o, addirittura, un rituale) battesimale:11 l’unità stili stica, la continuità tematica e la serrata coerenza argomentativa, teologica e pastorale della Lettera depongono a favore della sua unità letteraria e confermano la natura autenticamente episto lare del testo individuabile già dalla sua struttura formale. L’immagine dell’esistenza in diaspora, usata nella Scrittura tanto per indicare la condizione originaria di Abramo e dei padri quanto quella del popolo esiliato in Egitto o in Babilo nia, apre (1,1-2), attraversa (1,17; 2,11) e chiude la Lettera (5,9.13) e permette ai destinatari di dare un preciso senso soteriologico ed escatologico alla loro condizione critica nella società: partecipi della sorte di Abramo, connessa originaria mente alla sua chiamata, essi sono anche la «comunità escato10 Si veda l’invito in 2,1-2 a «deporre» la malvagità o in 2,11-12 ad «astenersi» dalle passioni; 2,13-17; 2,18-3,7; 5,1-7: indicazioni relative alla vita in società, nel nucleo domestico o nella comunità introdotte dall’invito a «sottomettersi a». 11 Si veda la discussione delle diverse ipotesi in CHESTER - MARTIN, 120-128 e, per la ricchezza delle tradizioni liturgiche e catechetiche sottese alla lettera, Selwyn, 17-24; 364-466, e l’articolo di Vanhoye.
logica dell’esodo»12 chiamata a «cingersi i fianchi della mente» per rispondere alla chiamata del Santo (1,13-16; 2,9-10). In trecciando continuamente l’esortazione all’elaborazione rifles sa dell’annuncio cristologico, l’autore dà quindi corpo al suo messaggio di fondo: le prove che i credenti stanno affrontando, impegnandosi a vivere con discernimento e responsabilità co me creature nuove rigenerate dalla parola del Vangelo (1,3.2325; 2,2), non sono che una partecipazione alla passione di Cristo, il giusto e l’eletto per antonomasia (2,4-6.21-24; 3,18), gravida della speranza che viene dalla sua risurrezione (1,3.21; 3,21-22); al contempo, sopportate senza venire meno alla giu stizia, esse non sono che l’anticipazione del giudizio purifi catore di Dio iniziato proprio dal suo stesso tem pio/«casa» (4,17-19).13
1.3. Struttura letteraria
Alla situazione dei destinatari, cui si rivolge mostrando so lidarietà e cura (la stessa che egli assicura loro da parte di Dio: 5,7), l’autore risponde mettendo in atto una strategia comuni cativa che è ben rispecchiata dalla struttura del testo. Elabora zione del kerigma e parenesi costituiscono i pilastri su cui si regge la sua architettura. Il corpo - tra il prescritto (1,1-2) se guito dall’esordio (1,3-12) e i saluti finali (5,12-14) - si può suddividere in tre parti distinguibili formalmente dal ripetersi del medesimo appellativo, assente dal resto della Lettera, con cui in 2,11 (« C arissim i, come forestieri e stranieri vi esorto...») e 4,12 (« C arissim i, non stranizzatevi per l’incendio divampato tra voi...») vengono introdotti progressivamente nuovi svilup pi argomentativi. Se la prima parte del corpo della Lettera 12G oppelt, 545-546.
13Cfr. D.E. J ohnson.
(1,13-2,10) si concentra sulla definizione teologica dello status identitario dei credenti in Cristo, la seconda (2,11-4,11) indica i criteri di fondo e le modalità con le quali essi sono chiamati a tradurre la loro identità battesimale nel concreto di un’esi stenza da vivere all’interno di una società «estranea», mentre la terza (4,12-5,11) insiste maggiormente sul significato teolo gico ed escatologico della sofferenza dei credenti e sul modo corretto di affrontarla vivendo coerentemente la fede nell’espe rienza della fraternità cristiana.
2. Linee teologiche Caratteristica complessiva della costruzione teologica di 1 Pietro è il suo essere frutto di una consapevole elaborazio ne del kerigma alla luce delle Scritture profetiche (1,10-12), condotta nel solco delle tradizioni interpretative giudaiche14 e capace di tesaurizzare e sfruttare in modo creativo, in vi sta dei destinatari e alla luce delle domande sollevate dalla loro concreta condizione storica e sociale, diverse tradizioni neotestamentarie: gesuane,1516paoline,lé giovannee17 nonché espressioni e temi presenti specificamente nella Lettera di 14 Si vedano, per esempio, la rilettura cristologica ed ecclesiologica di tre testi apparentati dal termine «pietra» in 2,4-10 e lQ a Regola della comunità 8,5-8; 4Q174 Florilegio 3,6-7 oppure il recupero in termini cristologici e battesimali delle tradizioni bibliche e giudaiche sul diluvio e sul giudizio degli «spiriti in prigione», cioè gli ange li ribelli, in 3,18-4,6 e 1 Enoc 6-36; 106,13-17. Cfr. P uech, «La Première», 505-523. 15 lPt 2,12 e Mt 5,16; 3,9 con Mt 5,44 / / Le 6,27-28; lPt ,14 e 4,13 con Mt 5,10-12 / / Le 6,22-23. 16 Cfr. i contatti nel formulario tra lP t 1,3-12 e 2Cor 1,3-4; E f 1,3-14; lPt 1,14 e Rm 12,2; il rapporto con la società in lPt 2,13-17; 3,9 e Rm 12,14.17-21; 13,1-7; lTs 5,15; l’espressione tipicamente paolina «in Cristo» presente in lPt ,16; 5,10.14; i co dici domestici condivisi con Col 3,18-4,1 ed E f 5,21-6,9; l’esperienza dei carismi all’in terno delle comunità in Rm 12,3-8; ICor 12-14 e lPt 4,7-11. 17 Cfr. l’immagine della rigenerazione in lP t 1,3.23 e Gv 3,3-8; la relazione tra il gioire e il credere e amare pur senza avere visto in lPt 1,6-9 e Gv 16,20-22; 20,20.29; quella di Pietro corresponsabile nel «pascere il gregge di Dio» in lPt 5,2 e Gv 21,15-19.
Giacomo.18A partire dallo studio pionieristico di Ora Delmer Foster,19 l ’analisi delle relazioni tematiche e letterarie di 1 Pietro con gli altri scritti del Nuovo Testamento ha attra versato l’esegesi del X X secolo ed è diventata un capitolo classico delle introduzioni alla Lettera. Usando la felice espressione di A. Vanhoye, si può ben dire che 1 Pietro «è al crocevia delle teologie del Nuovo Testamento» e ancor più specificamente, data la finalità pastorale dello scritto, «al cro cevia della teologia pastorale del Nuovo Testamento».20 La costatazione delle molteplici relazioni che la Lettera in trattiene con le altre tradizioni neotestamentarie non solo per mette di riconoscere la sapienza teologica e pastorale sottesa all’originale trama letteraria creata dall’autore di 1 Pietro ma - qualunque sia la soluzione che si sceglie relativamente alla paternità letteraria del testo - apre anche un vero squarcio sul la capacità di un rappresentante della tradizione apostolica del le origini (e/o della chiesa la cui voce questi fa udire) di appro priarsi della ricchissima eredità dei giudei credenti in Cristo, di approfondirne con grande capacità di penetrazione le implica zioni e di applicarla in nuovi contesti di vita e con nuove fina lità ben oltre i confini originari del giudaismo palestinese. Su tre direttrici mi sembra si possa porre l’accento per esem plificare l’originalità della sintesi “petrina”: quella cristologica; quella ecclesiologica e quella etica. a) La cristologia. Come negli Scritti giovannei e nell’Apoca lisse in particolare (Gv 1,29.36; Ap 1,5), anche in 1 Pietro sin dai primi versi lo sguardo dei lettori è indirizzato al Cristo in rapporto alla sua azione redentrice. Con un semitismo, l’autore dice infatti che essi sono «eletti... nell’aspersione del sangue di 18 lPt 1,1-2 e G c 1,1; lPt 1,3 e G c 1,16-18; lP t 1,6^9 //4,12-14 e Gc 1,2-4.12; cfr.
N icolaci, «Giacomo e Prima Petri». 19 The Literary Relations, 1913.
20 Vanhoye, 110.
Gesù Cristo» (lPt 1,2),21 del quale alla fine dell’esordio si richia mano insieme le «sofferenze» e la «gloria» pasquali (1,11) e che nel primo frammento cristologico innico di 1,18-21 è paragona to a un «agnello senza macchia e difetto» (cfr. Gv 1,29; Eb 9,12.14), grazie al cui sangue prezioso i credenti sono stati «ri scattati» dalla «condotta vana ereditata dai padri» (lPt 1,18-19). Il suo «sangue», prezzo di redenzione, libera e consacra i cre denti come popolo sacerdotale di Dio (Es 12,22-23; 24,8; 29,21; Lv 8,30). Quale «pietra rigettata dai costruttori» (lPt 2,4.7; Sai 118,22; At 4,11), Cristo è il Servo giusto, senza peccato (Is 52,13-53,12), grazie alla cui sofferenza innocente, vissuta nella piena fiducia in Dio giusto giudice e in favore dei peccatori, i credenti sono radicalmente destituiti (apogenómenoi, bapax bi blico) dai loro peccati (lP t 2,21-25) e messi in grado di «cam minare sulle orme» di Gesù stesso vivendo «in lui» e come lui la propria sofferenza innocente nella giustizia e per amore della giustizia (2,20; 3,14; cfr. Mt 5,10). Il sangue di Cristo, dunque, è il prezzo della loro liberazione: se, sul piano sociologico, essi vivono l’esperienza della schiavitù rispetto a padroni non sempre «miti» (lPt 2,18), sul piano teologico essi possono riconoscersi riscattati ed eletti da Dio per mezzo del sangue di Cristo agnel lo. La sua passione è condizione per il loro esodo escatologico. La «cristologia della passione», che in 1 Pietro è presente con un grado di concentrazione e in una «forma unica nel Nuovo Testamento»,22 non esaurisce però la visione di Gesù: pur non chiamandolo mai «Figlio (di Dio)» ma sempre, insistentemente, «Cristo», per l’autore l’identità messianica di Gesù si collega strettamente alla sua signoria (Gesù è Kyrios) che lo pone sul piano stesso di Dio e la cui santità i credenti devono riconosce re e venerare integralmente «nei loro cuori» anche se questo costa loro la sofferenza (3,15). In prospettiva apocalittica ed 21 PuECH, «L a Première», 495-496. 22 G nilka , 399-400.
escatologica, l’autore guarda quindi a Gesù a tre livelli di esi stenza: come Messia promesso e sofferente egli è «pre-conosciuto» da Dio «prima della fondazione del mondo» (1,20; cfr. anche la «pre-conoscenza di Dio» in 1,2) ed è suo lo Spirito attivo nei profeti per «pre-attestare» la sua passione e la sua gloria (in 1,10-12 si parla dello «Spirito di Cristo»); come uomo storico è colui che «è stato manifestato alla fine dei tempi» proprio per i credenti (1,20), che ha sofferto nel proprio corpo per i peccati «una volta per tutte» (3,18; Eb 9,26-28) ed è «stato messo a morte nella carne» (lP t 2,24; 3,18); come risorto, «vivificato secondo lo spirito», egli però è Signore che, attraversati i cieli da vero vincitore, sovrano su «angeli, autorità e potenze» (3,19.22), condivide pienamente la «gloria» stessa di Dio, di cui i credenti attendono la «rivelazione» piena «nel tempo ultimo» (1,5.7.11.13.21; 4,11.13; 5,1). La sua vittoria è pegno sicuro di quella loro e garanzia della «cura» del Dio e Padre (1,17), «crea tore» (ktistès, hapax neotestamentario in 4,19) fedele (5,6-7). b) Lecclesiologia. «In Cristo», eletto e giusto, i credenti han no «grazia e pace» in abbondanza (1,2; 5,14) e, portando il nome stesso di christianot, sono dichiarati a loro volta «eletti». La teologia dell’alleanza, che il lessico dell’elezione sottende, si esprime dunque attraverso l’attribuzione ai credenti del ti tolo di «popolo di Dio» edificato, sulla pietra angolare che è Cristo, in tempio escatologico (2,4-10). Rigenerati a una spe ranza viva mediante la parola del vangelo in forza della risur rezione di Gesù (1,3.23-25), sono il popolo di cui il Dio santo ha preso possesso (Es 19,3-6; Lv 19,2; lP t 1,14-16; 2,9). Essi, dunque, si distinguono da tutti gli altri uomini (2,8; 4,17) pro prio per la loro risposta di fede e di obbedienza alla Parola evangelica: sono «figli di obbedienza» che si sono lasciati alle spalle l’«ignoranza di un tempo» (1,14) e che, radicati nell’ob bedienza di Cristo (1,2), hanno purificato con « l’obbedienza della verità» la loro esistenza (1,22). Il loro cammino nel mon
do, nella sequela di Cristo servo di Dio, è orientato non al possesso di una terra ma a un'«eredità incorruttibile, immaco lata e imperitura nei cieli» (1,4). Come tempio «spirituale» ed escatologico, quindi, sono chiamati a tradurre in tutti gli am biti della loro esistenza concreta la santità stessa di Dio che li ha chiamati ed eletti in Cristo (1,15-16; 2,5.9; 3,5), «parteci pando» alle sofferenze di lui come agnello senza macchia (4,13) e vivendo nella sua stessa giustizia. Se in rapporto a Dio i credenti sono creature, figli appena generati, popolo santo, «servi» (2,16), casa regale e sacerdozio santo per il culto spirituale, in rapporto al Cristo pietra ango lare essi sono pietre vive edificate in tempio e gregge; in rap porto allo Spirito Santo, poi, sono spazio di riposo come l’Un to stesso di Dio (4,14; cfr. Is 11,2). Tra loro, sulla base dell’ap partenenza a Cristo e della rigenerazione dal seme incorrutti bile della Parola di Dio, essi condividono l’appartenenza a una «fraternità» identificabile e distinguibile in mezzo al mondo (lP t 2,17; 5,9), straniera in esso (cfr. già Fil 3,20) e accomuna ta dall’esperienza delle stesse sofferenze e dalla medesima lot ta contro ciò che nulla ha a che vedere con la santità di Dio (lP t 1,17; 2,11; 4,1-6). Nella fedeltà dei cristiani all’unico Si gnore e nella loro sofferenza per la giustizia sono in atto le «doglie messianiche»:25 nel mondo è già in atto il giudizio esca tologico e purificatore di Dio (1,17) che «non trascura la casa di Dio, cioè il Tempio, ma inizia in essa».2324 Custoditi da Dio «attraverso la fede» (1,5), risposta preziosa ed efficace alla sua «grazia» salvifica (1,7.9.21; 5,9), ne sperimenteranno la cura amorevole e fortificante (5,7.10). c) luetica. Uno degli elementi più caratteristici della parenesi petrina, senza paralleli nel Nuovo Testamento, è la traduzio 23 II periodo di sofferenza purificatrice che, nella prospettiva apocalittica, deve precedere il compimento escatologico della storia salvifica.
24 G oppelt, 557.
ne etica dell’identità battesimale dei credenti attraverso la no zione della «coscienza di Dio» (synetdisis Theoù: 2,19). Se, in fatti, di «coscienza» come istanza di giudizio e di decisione si parla anche in molti altri testi del Nuovo Testamento (At 23,1; lC or 4,4; Rm 2,15; 13,5; 2Cor 4,2; 5,11; lTm 1,5.19) ed essa viene considerata «buona/bella» (Eb 13,18; lTm 1,5.19) nella misura in cui riflette o stimola una «condotta» conforme alla Legge di Dio e con effetti benefici nelle relazioni con gli uomi ni, per l’autore di 1 Pietro la misura della «buona coscienza» (lP t 3,16.21) è il suo essere vincolata al Dio25 la cui giustizia e il cui giudizio si sono manifestati nella passione del Servo del quale i credenti sono chiamati a seguire le «orme» (2,21), resi anch’essi «servi di Dio» liberi non per la malizia ma per la giu stizia (2,13.24). Il battesimo, per loro, è proprio l’atto in cui l’azione salvifica di Dio in Cristo si comunica al credente non in forza di purificazioni rituali ma per l’«impegno (eperotéma, hapax nel Nuovo Testamento con un solo corrispondente in Dn 4,14 nella traduzione di Teodozione)26 di una coscienza buona» con cui questi si volge a Dio in forza della risurrezione di Gesù Cristo (lPt 3,21); attraverso, cioè, l’impegno positivo o decisio ne presa di una coscienza liberata dalla colpa e fondata sulla speranza della vita incorruttibile che la pasqua significa.27 La 25 G oppelt, 552-553 traduce il genitivo syneidèsin Theoù come «il legame di co scienza a Dio». 26 U sostantivo si trova, significativamente, anche nella lezione del codice Sinaitico di Sir 36(33),3b che, invece di «e la Legge è per lui [l’uomo assennato] affidabile come Yinterrogazione degli oracoli», ha: «e la Legge è per lui affidabile come l’assicu razione (eperotéma) degli oracoli». Essendo, purtroppo, questo emistichio ricostrui bile nel testo ebraico di Sir 33,3 solo per congettura (cfr. A. Minissale, La versione greca del Siracide, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1995,79-80.82.89) non è possibi le stabilire con certezza lo sfondo semitico del greco. Considerando, però, che il verso appartiene alla sezione di Sir 32,14-33,6 dedicata al rapporto tra il giusto, la Sapienza, la Legge e il timore di Dio, si può quanto meno rilevare come l’uso petrino del sostan tivo in contesto battesimale riecheggi effettivamente la responsabilità verso la giustizia chiesta al credente. Ciò conferma la connotazione particolarmente giudaica della vi sione petrina del battesimo cristiano. 27 Cfr. P uech, «L a Première», 518-519.
risurrezione di Cristo, in ultima analisi, è il fondamento di un’etica della responsabilità direttamente proporzionale alla coscienza identitaria dei credenti: il suo criterio formale e per manente è il traguardo escatologico segnato dal Cristo e annun ciato dal vangelo perché tutti possano vivere spiritualmente secondo Dio anche se condannati ingiustamente dagli uomini (4,6); come esso debba tradursi concretamente nelle diverse circostanze della vita e nelle diverse situazioni relazionali, que sto dovrà essere scoperto di volta in volta dal credente che cam mina sulle orme del giusto sofferente. Nelle relazioni sociali, allora, la «bella condotta» sarà caratterizzata da «mitezza e ri spetto» (3,16), dall’assenza di violenza, colpa, aggressione o disordine perché tutti possano essere guadagnati senza parole alla Parola (3,1); contemporaneamente, però, essa sarà una giu stizia senza compromessi, cedimenti o conformismo rispetto ai «propositi dei pagani» (4,3), per quanto ciò possa costare in giusto patire. Il rapporto con la società basato sulla «coscienza di Dio», per certi versi, è più critico di quello prospettato da Paolo (cfr. Rm 13,1-7) anche se non è esplicitamente un rap porto di resistenza frontale e radicale come quello sostenuto da Giovanni di Patmos. I codici domestici petrini ne sono la tra duzione letteraria più chiara (lP t 2,13-17; 2,18-3,7), segno di un’«etica interinale che vive nel presente sperando nella giusti zia divina dell’età a venire»28 senza, però, smettere di chiedere a ciascuno di assumersene di volta in volta la responsabilità personale. La condotta dei credenti, così, diventa «testimonian za della nuova esistenza escatologica, perché non evita le con dizioni di vita proprie della storia, ma vi si espone in maniera oggettivamente adeguata».29 La formulazione della struttura teologica e antropologica dell’etica in termini di libertà dei «servi di Dio» e di «coscien 28 Chester - Martin, 159. 29 G oppelt, Teologia, 555.
za di Dio», legata alla riscoperta delT«uomo nascosto del cuo re» (3,4), cioè del sacrario intimo dell’esistenza umana quale luogo dell’incontro autentico con il Dio che ha glorificato il suo Cristo (1,21), appartiene implicitamente alla rivoluzione religiosa operata da Gesù.30 Nella parenesi petrina, che guarda alla comunità dei credenti come «casa di D io» in diaspora e, perciò, a rischio di conflitto profondo con il mondo, la parola del vangelo è «dono di un’identità personale» e determina una «reinterpretazione della condizione dei destinatari» che, in quanto «stranieri e pellegrini» nel mondo, «soffrono precisamente per ciò che li caratterizza». La «strategia di non violen za attiva» sarà il loro modo di manifestare la propria «dissi denza»31 o la propria differenza, fondata non sulla consacra zione di una qualunque morale filosofica o sociale, storicamente determinata, ma sulla speranza viva della risurrezione di Cristo e sul suo significato critico e profetico. Nelle relazioni interne alla fraternità, i criteri corrisponden ti al medesimo fondamento pasquale saranno quello di un amo re fraterno reciproco strenuo e fedele (1,22; 4,8), fatto di umil tà pari alla dedizione degli uni verso gli altri (5,1-5), e la dia conia carismatica (4,7-11), capacità di «amministrare», come si addice a economi della «casa di Dio», una «grazia di Dio multiforme» tanto quanto le prove che i credenti devono af frontare nel mondo (4,10 e 1,6).
Bibliografia A c h t e m e ie r J.P ., La prima lettera di Pietro. Commento storico-esege
tico, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2004. 30 Cfr. Me 7,1-23; Mt 6,1-18 e 23,1-12 (polemica contro una religiosità esteriore priva di pienezza nel segreto in 6,8 / / 23,3; 6,1.2.5.16 / / 23,5; 6,5 / / 23,6; 6,2 / / 23,7). Il «Padre», unico che deve vedere, è e guarda «nel segreto» (6,4.6.18 / / 23,9). 31 F. VOUGA, Il cristianesimo delle origini, Claudiana, Torino 2001,260-261.
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LETTERA D I GIUDA E SECO NDA LETTERA D I PIETRO
Entrambe conservate nel $P72 (III/IV secolo, che contiene soltanto 1-2 Pietro e Giuda), nel $P74 (VII secolo, con soltanto versi frammentari di 2 Pietro e Giuda) e nei codici onciali Vaticano, Alessandrino, Sinaitico, Efrem riscritto, P, V 1, le due Lettere vengono usualmente studiate insieme perché mostra no una prossimità letteraria e tematica tale da indurre a ipo tizzare un rapporto letterario diretto: la brevissima Lettera di Giuda sembra quasi tutta contenuta nella Seconda lettera di Pietro (in 2Pt 2,1-3,3) ed entrambe testimoniano una presa di coscienza forte e decisa rispetto alla «fede» salvifica ricevu ta e trasmessa («la nostra comune salvezza... la fede conse gnata ai santi una volta per tutte»: G d 3; «la fede ricevuta in sorte per la giustizia del nostro Dio e Salvatore Gesù Cristo»: 2Pt 1,1) e alla necessità di difenderla, anche con tono forte mente polemico, senza lasciarsi ingannare da quanti vorreb bero coniugarla con atteggiamenti mentali e comportamenti pratici che, nella comprensione dei due autori, costituiscono un «rinnegamento» delT«unico padrone e Signore» Gesù Cri sto (G d 4 e 2 P t2 ,l). Uno specchietto può aiutare a visualizzare rapidamente i paralleli tematici maggiori tra i due testi, nella loro rispettiva sequenza:
1 G d 4-5.7-8 è attestata anche nel $ 7‘ (III/IV secolo).
Gd
2Pt
Temi
1-2
1,1-3
...
3
1,4-11 1,12-21
4
2,1-3
5
(1,12)
prescritto (misericordia / grazia a voi e pace... abbondino) esordio la «sollecitudine» di scrivere e lo scopo della Lettera presentazione polemica di «negatori» della signoria di Gesù despótès necessità di «ricordare» ai destinatari ciò che già è «saputo» da loro il giudizio divino: esempio del popolo uscito dall’Egitto il giudizio divino: esempio degli angeli decaduti il giudizio divino: esempio di Noè e del la generazione del diluvio il giudizio divino: esempio di Sodoma e Gomorra il giudizio divino: esempio di Lot applicazione alla blasfemia degli avver sari che disprezzano gli angeli stigmatizzazione degli avversari come «animali irrazionali» l’esempio di Caino l’esempio di Balaam l’esempio di Core applicazione all’arroganza degli avversari metafore per dire l’errore degli avversari la profezia di Enoc riguardo al giudizio divino ritratto pratico degli avversari arroganti memoria delle parole trasmesse (da apo stoli e/o profeti) annuncio di «schernitori» che appaiono al momento escatologico confutazione delle tesi degli schernitori
5 6
2,4
—
2,5
7
2,6
...
8-10
2,7-8 2,10-11
10
2,12
11 11 11 12 12-13 14-15
—
2,15-16 ...
2,13-14 2,17 —
16 17
2,18-22 3,1-2
18-19
3,3-4
...
3,5-13
20-23
3,14-18a
24-25
3,18b
esortazioni finali ai destinatari («carissi mi») dossologia conclusiva (teologica / cristo logica)
Sono davvero pochi, come si può notare, i versi di Giuda che non abbiano un corrispondente in 2 Pietro. Questa, d’altra parte, contiene materiale assente in quella (cfr. l’esordio o la confutazione finale delle tesi degli avversari) ed elabora in mo do molto più articolato spunti presenti anche in quella (cfr. la «sollecitudine» di scrivere che occupa un verso in G d 3 e un’in tera pericope in 2Pt 1,12-21). Nonostante gli evidenti paralle li, che nell’opinione della maggioranza degli studiosi si posso no spiegare adeguatamente solo presupponendo una dipen denza letteraria tra i due testi e, con molta più probabilità, di 2 Pietro da Giuda, la ricerca contemporanea tende quindi a sottolineare le differenze e la specificità di ciascuna Lettera: le prossimità letterarie e tematiche, infatti, non implicano neces sariamente uno stesso sfondo storico-culturale né, tanto meno, le stesse finalità e strategie.21
1. Questioni storico-letterarie 1.1. Pseudepigrafia e datazione delle due Lettere Se la Lettera di G iuda viene menzionata già nel Canone muratoriano come testo accettato nella chiesa cattolica, della Seconda lettera di Pietro non si hanno citazioni esplicite prima di Origene e sulla paternità petrina di quest’ultima circolavano parecchi dubbi già nella chiesa antica (Eusebio, Storia della chiesa 3,1,4; 25,3). Di Giuda, Girolamo affermava che, anche
se breve e caratterizzata dall’assunzione della testimonianza dell’apocrifo libro di Enoc che avrebbe spinto la maggior par te a respingerla, aveva «meritato autorità sia per l’antichità che per l’uso e si considerava tra le Scritture sante» {G li uomini illustri 4). Riguardo alle Lettere petrine, invece, notava corret tamente che Pietro aveva scritto «due Lettere, dette Cattoliche, la seconda delle quali i più negano che sia sua a causa della dissonanza di stile con la prima» (G li uomini illustri 1). Nel dibattito esegetico contemporaneo, le questioni relative all’ori gine dei due scritti sono molto controverse se non per il fatto che, soprattutto nel caso di 2 Pietro, l’ipotesi che si tratti di scritti tardivi e pseudepigrafi trova il maggiore consenso. Considerata la sobrietà dell’autoidentificazione dell’autore nel prescritto («servo di Gesù Cristo, fratello di Giacomo»: G d 1), la sua profonda dipendenza dalle tradizioni giudaiche pe ritestamentarie e la sua abilità nell’interpretare le Scritture se condo le regole del pesher, il suo rifarsi alle Scritture in lingua ebraica piuttosto che ai Settanta (cfr. Pr 25,14 in G d 12 o Is 57,20 in G d 13), come anche a 1 Enoc nella sua forma aramaica (1 Enoc 1,9 in G d 14-15),3 nel caso della Lettera di Giuda non mancano i sostenitori dell’attribuzione reale del testo al «fratello di Giacomo» membro della famiglia di Gesù (Me 6,3 / / Mt 13,55), benché la padronanza del greco che la Lettera manifesta sollevi inevitabilmente, come nel caso di Giacomo e 1 Pietro, la domanda sul modo in cui un giudeo di Galilea di origine rurale potesse acquisire tale competenza linguistica.4 Egli si distingue dagli «apostoli del Signore nostro Gesù Cri sto», cui riconosce autorità profetica (Gd 17), ma si considera egualmente responsabile e in obbligo, nei confronti dei suoi
3 Cfr. M a z ic h . 4 BAUCKHAM, } ude
and thè Relatwes o f Jesus, 174-178. BROSEND, 183-186 ritiene che il testo sia stato composto da Giuda fratello del Signore entro il 70 d.C per rispon dere a una contestazione della propria autorità e difendere il proprio onore.
destinatari, quanto alla «fede trasmessa ai santi una volta per tutte» (3). L’autore sembra derivare in qualche modo la sua autorità da quella di Giacomo, di cui forse conosce la Lettera, e il suo personale insegnamento presuppone comunque, ide almente e/o realmente, una cristianità giudaica di area palesti nese in cui i fratelli del Signore erano leader riconosciuti. Nel caso di 2 Pietro, al contrario, gli studiosi sono pressoché unanimi nel riconoscere nel testo i segni tipici della pseudepigrafia. Il richiamo solenne al nome semitico e al soprannome greco del primo apostolo di Gesù («Simon Pietro, servo e apo stolo di Gesù Cristo»: 2Pt 1,1), autorevole testimone della sua gloria nella trasfigurazione (1,16-18); la familiarità con il lessi co, con la cultura e con concezioni filosofiche ellenistiche (cfr. in 1,3-11 l’insistenza sul lessico della virtù e della conoscenza o sulla partecipazione alla «natura divina»; in 3,10 l’idea di una conflagrazione degli elementi cosmici presente nella filosofia stoica); la scelta di adottare il genere del discorso testamentario, grazie al quale può essere assicurata continuità al messaggio di «Pietro» dopo la morte ormai imminente (1,12-15); il modo con cui, pur identificandosi con Simon Pietro, l’autore guarda agli «apostoli» come autorità distinte e del passato (3,2); la sua conoscenza di una collezione di Lettere paoline, messe al pari delle «altre Scritture», e di interpretazioni delle stesse a suo giudizio devianti (3,15-16); l’utilizzazione della Lettera di Giu da: sono tutti argomenti che rendono inevitabile il giudizio sul carattere tardivo e pseudepigrafo del testo. L’autore della Let tera, dunque, è un giudeo-cristiano erudito della diaspora che conosce gli scritti paolini, 1 Pietro e Giuda. Lo si può imma ginare tanto in Asia minore quanto a Roma o, secondo alcuni, ad Alessandria.5 Dai dati sopra richiamati, tuttavia, non si possono ricavare elementi certi per la datazione di nessuna delle due Lettere. Se 5C o sì G r u n st à u d l .
la Lettera di Giuda può essere ragionevolmente collocata non oltre l’80-90 d.C. (periodo in cui Giuda, tra i più giovani dei fratelli di Gesù, poteva essere ancora vivo), per 2 Pietro (che presuppone 1 Pietro, Giuda e una collezione di Lettere paoline) le proposte vanno dai primi decenni del II secolo alla se conda metà, anche in ragione del giudizio che si dà del rappor to letterario tra il testo e l’apocrifa Apocalisse di Pietro che, presupponendo la rivolta di Bar Kochba (132-135 d.C.), può essere datata intorno al 135 d.C. Per quanti ritengono che 2 Pietro sia presupposta àa\VApocalisse di Pietro, la datazione non può essere ritardata oltre il 130 d.C.; per quanti ritengono il contrario, ne si può ritardare la composizione fino alla secon da metà del II secolo.6 Si tratta comunque dell’ultimo testo del Nuovo Testamento: in uno scritto che si richiama saldamente all’eredità delle Scritture profetiche e al loro carattere ispirato, servendosi per questo anche delle loro riletture nella tradizio ne giudaica (1,19-21; c. 2), Pietro e Paolo, l’uno custode della retta interpretazione del messaggio dell’altro, appaiono l’auto rità apostolica riconosciuta quando, passata la generazione degli apostoli e dei testimoni oculari, era necessario custodire integra la traditio fidei per nuove generazioni in tempi e spazi mutati.
1.2. La polemica contro i «negatori» e lo scopo delle due Lettere L’elemento formale che maggiormente accomuna le due Lettere è la polemica contro «uomini empi» (Gd 4.15; 2Pt 2,5-6; 3,7) accusati di «rinnegare» Gesù («L’unico padrone e Signore nostro Gesù Cristo»: G d 4; «Il padrone che li ha ri scattati»: 2Pt 2,1). Più che di una negazione diretta e formale 6 Q u esta , p er esem pio, è la tesi d i GRÙNSTÀUDL.
della messianicità e della signoria di G esù di Nazaret (come quella di cui si discute in lG v 2,22-23) i personaggi presi di mira nelle due Lettere sembrano accusati di comportamenti e convinzioni che, nel giudizio dei due autori, implicano di fatto la negazione dell’unico Signore e della sua salvezza (2Pt 2,1; cfr. lC or 6,20). Con un hapax neotestamentario, in entrambi i testi essi vengono definiti «schernitori», beffeggiatori, derisori (em paìktai: G d 18; 2Pt 3,3): se in Giuda essi si fanno beffe della realtà del giudizio divino, in 2 Pietro si fanno beffe della manifestazione ultima di tale giudizio nella parusia gloriosa del Signore Gesù e nella conflagrazione finale del vecchio mondo. Si tratta in ogni caso di un rifiuto beffardo degli «elementi apocalittici del messaggio cristiano»,7 tradotto in stili di vita deprecabili e distruttivi, che in modo del tutto peculiare le due Lettere mettono in relazione significativa con l’arroganza ma nifestata in rapporto alle potenze angeliche (Gd 8-10 e 2Pt 2,10-11). Ogni altra precisazione del loro identikit resta specu lativa e ipotetica, considerato anche che le accuse polemiche lanciate contro gli avversari corrispondono a dei topoi o mo delli stereotipi costruiti attraverso il recupero di esempi bibli ci e delle loro riletture nella tradizione giudaica. Su questo sfondo comune, però, la situazione lamentata dai due autori sembra di natura diversa tanto riguardo al ruolo e all 'identikit degli interlocutori polemici, quanto riguardo alla loro condotta e ai loro proclami: a) Giuda scrive costretto dalla «necessità» rappresentata dal fatto che si sono «infiltrati» alcuni dall’esterno («Si sono intro dotti di soppiatto, infatti, alcuni uomini... empi»: 4) inseren dosi nella vita e nella condivisione dei pasti dei suoi destinatari (12; cfr. Gal 1,6-9; 3,1-5; 5,1.7-8.12) e portando divisione. Si tratta, probabilmente, di predicatori itineranti, «pastori di se stessi», che sfruttano per vantaggio personale quanti danno 7 C hester - Martin, 95.
loro ospitalità (Gd 12-13.16).8 Essi, però, non vengono mai identificati a partire da un ruolo stabile che potrebbero avere esercitato nelle comunità. Né sembra che i destinatari di G iu da siano stati già sedotti dalle loro mormorazioni e spinte sci smatiche (Gd 16.19). 2 Pietro scrive, invece, per «ricordare» in modo permanente la traditio profetica e apostolica (2Pt 3,2) in modo da aiutare i lettori a fare la differenza tra veri e falsi profeti, veri e falsi maestri, senza «dimenticare» la salvezza ricevuta (1,9; 2,20-22). I suoi interlocutori polemici, infatti, non sono empi genericamente intesi o «sognatori» (cfr. G d 8) che «si sono introdotti» nelle comunità, ma «falsi maestri» che «hanno introdotto fazioni rovinose» (2Pt 2,1): sono empi che insegnano dottrine perniciose, accuratamente argomentate, che possono realmente depistare i credenti, soprattutto i più fragi li nella fede (2,2.14.18; 3,16). b) In entrambe le Lettere la condotta stigmatizzata come empia ha a che fare con un’«impudenza» o sfrontatezza arro gante (G d 4; 2Pt 2,27.18). Nel caso di Giuda, l’immoralità viene correlata alla «contaminazione della carne» (8), a bagor di indegni nei banchetti della comunità (12), a mormorazioni piene di insoddisfazione (16), a divisioni, comportamenti istin tivi e mancanza di «Spirito» (19; cfr. G c 3,15). Nel caso di 2 Pietro i comportamenti dei falsi maestri sono stigmatizzati con ferocia ancora maggiore: «Vanno dietro alla carne» pieni di una bramosia di corruzione mondana (2,10.20; 3,3); si delizia no di bagordi, sono ingannatori avidi, pieni di adulterio e inar restabili nel peccato (2,13-14); a causa loro la «via della verità» è bestemmiata (2,2) e la «via della giustizia» abbandonata (2,21), perché i credenti da poco convertiti vengono riportati alla loro condotta di un tempo (2,18). Soprattutto, il loro at
8 Cfr. la situazione descritta in Didachè 11-13 nell'intento di distinguere i veri dai falsi profeti: «Non è profeta ognuno che parli nello spirito, ma se ha i modi del Signo re; da questi modi sarà riconosciuto il falso profeta e il (vero) profeta» (11,8).
teggiamento ha un fondamento concettuale che in Giuda non appare: essi promettono «libertà» (2,19; cfr. lP t 2,16; Gal 5,13), pur rivelandosi - agli occhi dell’autore - «schiavi» essi stessi «della corruzione» (2Pt 2,19). La radice teoretica del loro comportamento, dunque, è da un lato la negazione con sapevole del giudizio finale di Dio nella parusia (3,3-5: non c’è un mondo nuovo né ricompensa dei giusti né giudizio dei mal vagi); dall’altro, la pretesa, tradotta in comportamenti concre ti, di essere al di sopra del giudizio stesso. In relazione ai rispettivi destinatari e alla situazione deter minata dall’attività di queste figure «empie», dunque, Giuda si propone di «esortare a combattere per la fede trasmessa ai santi una volta per tutte» (3) e a «custodirsi» edificati su que sta medesima fede santificante (20), sapendo discernere e agire di conseguenza (21-22); 2 Pietro si propone, con un’espressione concettuale molto più densa ed elaborata, di « risvegliare mediante la memoria» i destinatari e il loro retto pensare (1,12-13; 3,1-2). Lo scopo di Giuda, dunque, è l’esor tazione e il discernimento per neutralizzare l’influenza di esterni sopraggiunti; quello di Pietro è la sollecitazione e la definizione del retto pensare perché i credenti siano sostenu ti nel portare la loro vita di fede al suo pieno compimento escatologico senza perderne la consapevolezza a causa di in terpretazioni addomesticanti sorte all’interno stesso della co munità. La puntualizzazione del contenuto escatologico della fede e la confutazione di sue interpretazioni deviami, nel ca so di 2 Pietro, è un obiettivo primario che manca, invece, in Giuda.
1 .3 .1 destinatari In nessuna delle due Lettere si trovano indizi utili all’identi ficazione storica dei destinatari. Il prescritto di Giuda li quali
fica teologicamente come «i chiamati amati in Dio Padre e cu stoditi per Gesù Cristo» (Gd 1); quello di 2 Pietro come «co loro che hanno ricevuto in sorte la nostra medesima fede per la giustizia del nostro Dio e salvatore Gesù Cristo» (2Pt 1,1). Nel caso di Giuda, data l’importanza strutturale che le tra dizioni bibliche e giudaiche, nonché 1 Enoc (unico testo scrit turale citato formalmente da Giuda come profezia: G d 14-15), hanno nell’argomentazione della Lettera, è necessario suppor re un gruppo di destinatari familiare con i testi e le tradizioni del giudaismo apocalittico. Si tratta, quindi, di comunità giu deo-cristiane, già legate alla figura di Giacomo. Non ci sono elementi per collocarle geograficamente (Antiochia di Siria? Alessandria d ’Egitto? Asia minore? Grecia?). Nel caso di 2 Pietro è certo, invece, che si tratta di comuni tà che già conoscono 1 Pietro (cfr. 2Pt 3,1). Dunque, comuni tà miste dell’Asia, forse particolarmente sensibili all’influenza di un pensiero greco che non sapeva che farsene delle specu lazioni sull’aldilà e per i quali alcuni elementi del messaggio cristiano - come l’idea di un Messia che doveva ritornare in gloria e di un cosmo che si sarebbe «dissolto» in un «giorno di Dio/del Signore» (cfr. 3,10-13) per lasciare spazio a un mondo nuovo - potevano risultare poco illuminati e suscettibili di in terpretazioni culturalmente più plausibili.
1.4. Lettera di Giuda: genere letterario e struttura Il prescritto che richiama la formula di saluto di lP t 1,1 («grazia e pace abbondino» I l «misericordia e pace e carità abbondino») e riflette lo stile delle lettere aramaiche (Dn 3,31 testo masoretico = Dn 4,1 Teodozione; 6,26) definisce formal mente il testo come una lettera (cfr. anche G d 3), circolare per la sua destinazione, conclusa da alcune esortazioni e da una dossologia (cfr. Rm 16,25-27). La sua struttura argomentativa,
però, riflette l’andamento di un p esh er9 esempi tratti dalla Scrittura e/o da altre tradizioni giudaiche vengono applicati in modo sistematico al presente della comunità e, in specie, agli avversari empi che vi si sono introdotti e la cui presenza dimo stra come la comunità si trovi «nel tempo ultimo» (Gd 18; cfr. lG v 2,18). Ciò vale per l’esempio del popolo tratto dall’Egitto (Gd 5: cfr. Nm 14; lC or 10,10), quello degli angeli decaduti e tenuti in serbo per il giorno del grande giudizio (Gd 6: cfr. Gen 6,1-4 e 1 Enoc 10-16) e quello di Sodoma e Gomorra (Gd 7: cfr. Gen 19,1-28) il cui giudizio e la cui condizione vengono poi paragonati a quelli degli avversari («Allo stesso modo anche questi...»: Gd 8). Lo stesso metodo interpretativo si ripete poi in 9-10; 11-13; 14-16; 17-19 dove esempi tratti dall’Antico Te stamento (Caino, Balaam, Core), da 1 Enoc 1,9 (la profezia sull’avvento del Signore per il giudizio sugli empi), da altre tradizioni apocalittiche (la disputa tra l’arcangelo Michele e il diavolo sul corpo di Mosè dipendente, probabilmente, da un passo perduto dell’apocrifa Assunzione di M osè)10 e dalle pa role «degli apostoli del Signore nostro Gesù Cristo» (Gd 17; cfr. Me 13,6.22; At 20,29-30; lTm 4,1; 2Tm 3,1.6; 4,3) vengo no applicati a «questi» personaggi stigmatizzati. A loro e alla loro condotta esposta al giudizio, alla fine della Lettera, l’au tore contrappone i suoi destinatari («Voi, invece, carissimi...»: G d 17.20). Lo schema della Lettera si può, dunque, presentare come segue:
9 B a u c k h a m , Jttde and thè Relatives, 201-206. 10 Origene, Iprincipiò,2,1: «In Genesi, il serpente è descritto come chi ha sedotto Èva e, in relazione a ciò, nelYAscensione di Mosè (un libro che l’apostolo Giuda menziona nella sua Lettera) l’arcangelo Michele, disputando col diavolo sul corpo di Mo sè, dice che il serpente, ispirato dal diavolo, fu la causa della trasgressione di Adamo ed Èva».
Prescritto (1-2) Occasione e scopo (3-4): messa in guardia dagli empi negatori espo sti al giudizio che si possono riconoscere come tali proprio dalle Scritture Corpo della Lettera (5-23): - tre esempi (Israele nel deserto, gli angeli ribelli, Sodoma e Go morra, cfr. Sir 16,7-10) con la loro applicazione (5-8) - un altro esempio (Michele e il diavolo) e un’applicazione (9-10) - tre esempi (Caino, Balaam, Core) con la loro applicazione (11-13) - la profezia di Enoc e la sua applicazione (14-16) - l’appello ai destinatari sulla base della predicazione apostolica (17-23) Dossologia conclusiva (24-25)
1.5. Seconda lettera di Pietro: genere letterario e struttura Proprio il confronto formale tra Giuda e 2 Pietro dimostra quanto 2 Pietro abbia reinterpretato e adattato per i propri scopi e secondo una sua peculiare strategia la Lettera di G iu da: la formula di saluto iniziale (1,1-2) richiama quella di 1 Pietro e di Giuda e la dossologia conclusiva, cristologica come quella di lP t 4,11, richiama quella (teologica) di G d 24-25, ma del pesher tematico di Giuda in 2 Pietro rimangono solo poche tracce in alcuni dei passi paralleli (cfr. 2Pt 2,12.17), mentre la Lettera assume la forma del discorso testamentario (1,12-15:3,1). Dopo il prescritto (1,1-2), l’esordio si presenta come un’esor tazione a progredire nella «fede» fino alla «carità» piena, cre scendo in virtù apprezzabili anche a un uditorio greco e facen do già l’esperienza trasfigurante, in una perfetta sinergia tra il dono divino e l’attivo disporsi umano (cfr. il ripetersi del verbo epichoregéd, «somministrare, fornire, provvedere», all’attivo nel v. 5 e al passivo nel v. 11), dell’«ingresso nel regno eterno del Signore nostro e salvatore Gesù Cristo» (1,3-11).
Da 1,12 a 3,13 1’intentio polemica e apologetica della Let tera, che emerge con forza in 2,1-3,7, si esprime in una stra tegia originale. Pur adeguandosi al contesto culturale dei suoi destinatari e assumendone talvolta il linguaggio, l’autore con futa le loro tesi con argomenti basati sulla tradizione biblica e apostolica: a) in 1,16-18 fa appello alla memoria apostolica di Gesù e alla sua trasfigurazione come fondamento storico, e non favolistico, della speranza della gloria del Signore e della sua venuta in potenza come giudice e dominatore; b) in 1,192,22 radica nelle Scritture profetiche e in esempi da esse trat te la garanzia che Dio interviene per giudicare e riscattare; c) in 3,1-13 risponde alla questione del ritardo nel giudizio, tipi ca della teodicea già nella Scrittura (cfr. Sap 11,17-12,2.8-18), richiamandosi nuovamente ai profeti e agli apostoli, dimo strando la differenza tra l’esperienza umana e quella divina del tempo (cfr. Sai 90,4) e assumendo come criterio interpretativo ultimo la divina makrothymia («magnanimità»; cfr. G c 5,7-11). L’attesa di cieli e terra nuovi viene, così, pienamente rilanciata e i credenti esortati a viverla da protagonisti attivi, responsa bili anche della «accelerazione» della «parusia del giorno di D io» (2Pt 3,12). La struttura della Lettera può essere così rappresentata: Prescritto (1,1-2) Esordio (1,3-11) Corpo della Lettera (1,12-3,13): - intenzione testamentaria della Lettera apostolica (1,12-15) - l’esperienza della trasfigurazione del Signore, «parusia» po tente del passato testimoniata dall’apostolo, è posta a fon damento storico della «parusia» finale del Signore (1,16-18) - la parola profetica delle Scritture ne è confermata (1,19-21) e diventa criterio di discernimento profetico nel presente (1,19-2,22), garantendo l’esito escatologico della storia (per i falsi maestri, analoghi ai falsi profeti stigmatizzati dalle
Scritture, «il giudizio da lungo tempo non cessa di operare» e «la distruzione non sonnecchia», cfr. 2,3) - la parola dei profeti e degli apostoli viene ricordata a fonda mento della speranza e della vita dei credenti (3,1-12) Epilogo (col richiamo alle Lettere di Paolo al pari delle Scritture) e dossologia finale (3,14-18)
2. Linee teologiche Le due Lettere, in modo diverso, mettono a fuoco tem i teologicamente cruciali, come la salvezza, il giudizio e l’attesa escatologica dei credenti in Cristo. Più che individuare e de nunciare «eresie», dimostrando un incipiente sclerotizzarsi della tradizione viva del vangelo e della fede in un corpo di dottrine teologiche e morali istituzionalmente definite e dife se («protocattolicesimo»), esse evidenziano delle dinamiche pericolose o viziose sperimentabili nella vita di fede alle qua li contrapporre dinamiche virtuose o, si potrebbe dire, il me todo proprio della fede apostolica. I diversi esempi tratti dal le Scritture o dalla tradizione giudaica, scarsamente utilizza bili per ricostruire l’identikit degli interlocutori polemici, servono proprio a stabilire dei topoi, dei modelli (negativi o positivi) da assumere per discernere la «via» da percorrere. Il metodo, a sua volta, riflette una consapevolezza ben precisa della fede in cui la sensibilità tipicamente giudaica verso la «signoria» dell’«unico Dio» (Gd 25), manifestata, riconosciu ta e sperimentata nel Cristo, diventa la direttrice attorno alla quale ruotano i temi delle due Lettere e dalla quale, anche, dipende la dura polemica contro traduzioni della fede/salvezza che rischiano di «dimenticarla» (2Pt 3,5) o «pervertirne» la grazia (Gd 4).
2.1. La signoria di Dio e del suo Cristo Il denominatore comune degli avversari stigmatizzati, come si è visto, è il «rinnegamento» pratico della signoria di Gesù e, in essa, della «signoria» stessa di Dio creatore, salvatore e giu dice. La semantica dei due testi è costante e coerente in tal senso. Giuda è «schiavo» di Gesù Cristo (Gd 1) che quindi ne è anche il «padrone» (4), colui che può disporre sovranamente del suo servo;11 il Kyrios è il soggetto attivo della liberazione di Israele come del giudizio su coloro che non sono rimasti nella fede del popolo (5); Kyrios è Dio soggetto del «rimprovero» rivolto al diabolos (9), Signore in quanto sovrano sui demoni; è il Dio che viene, con le miriadi di angeli, per giudicare quan ti pronunciano parole arroganti contro di lui (14; cfr. 1 Enoc 1,9); Kyrios è il «nostro Signore Gesù Cristo» sia in G d 17 che in G d 21, colui mediante il quale si compie la dossologia teo centrica che sigilla la Lettera (24-25). Ugualmente, Simon Pietro è «schiavo» e apostolo di Gesù Cristo (2Pt 1,1) che è detto «nostro Kyrios» in 1,2 e, addirittu ra, «D io nostro e Salvatore» in 1,1; la conoscenza approfondi ta dei credenti (epignósis, in 1,2 come in 1,8; 2,20; gnosis in 3,18), ha come termine proprio «il Kyrios nostro (e Salvatore) Gesù Cristo»; il regno cui i credenti devono tendere è il regno eterno «del Signore nostro e Salvatore Gesù Cristo» (1,11). La sua signoria, dunque, è legata alla sovranità con cui esercita il suo potere di salvatore e liberatore del suo popolo («Il padro ne che li ha riscattati»: 2,1). Egli, poi, è non solo termine di conoscenza ma anche sorgente e origine della medesima: è co lui che può «mostrare» al suo apostolo che il giorno della sua morte è vicino (1,14). Dunque, è un Signore presente che go 11 Eusebio, Storia della chiesa 1,7,14 dice che i fratelli del Signore si definivano, in riferimento a Gesù, despósynoiy coloro che appartengono al despótès.
verna intimamente e storicamente la vita dei suoi; è colui la cui «potente presenza» è stata sperimentata in tutta la sua sover chiarne grandezza e gloria dai testimoni storici (Pietro e il «noi» apostolico a nome del quale egli parla: 1,16-18). A lui come Kyrios Salvatore risale il «santo precetto» trasmesso dagli apo stoli (3,2). Kyrios, però, è anche il nome del Dio creatore e salvatore delle Scritture (2,4.9); è Colui presso il cui tribunale si può recare o meno un «giudizio» offensivo nei confronti di qualcun altro (2,11 / / G d 9); è il Signore al di sopra delle mi sure del tempo umano (Sai 90,4 in 2Pt 3,8), che è fedele e immancabile nella realizzazione della sua promessa (3,9) e nell’avvento del «suo» giorno (3,10 con chiara allusione cristo logica). E Colui di cui si può conoscere e predicare la makrothymia come spazio desiderabile ed efficace di salvezza (3,15). Anche in 2 Pietro, dunque, come in Giuda, la «signoria» unica è quella condivisa da Dio e da Gesù Cristo in qualità di Salvatore e Figlio amato (2 Pietro), soggetto di éleos (Gd 21) come Dio lo è di makrothymia (2Pt 3,15).
2.2. ha negazione della «signoria» e le sue manifestazioni In relazione al riconoscimento o, al contrario, alla negazione della «signoria» di Dio e di Cristo possono acquistare spessore aspetti, temi e dinamiche della vita di fede giudicate coerenti e feconde o empie e temibili per i loro esiti escatologici. Emble matica, in tal senso, è la contestazione fatta dell’arroganza degli avversari nella relazione con gli angeli (Gd 8-10 e 2Pt 2,9-12), evocati con i termini «signoria» (kyriótès) e «glorie» (dóxai), entrambi simbolici della sfera della trascendenza divina. Per alcuni studiosi tali versi sono particolarmente significativi per comprendere la polemica teologica dei due autori. Si tratta, infatti, degli unici due testi polemici del Nuovo Testamento dove agli oppositori viene rivolto questo specifico capo d’accu
sa: «bestemmiare» le glorie e rinnegare la «signoria». Dal pun to di vista storico-teologico, è plausibile che un simile atteggia mento si possa fare risalire alla svalutazione paolina delle «au torità e potenze» (lC or 2,8; 6,3; 15,24; Rm 8,38-39; Col 2,18), influenzata ulteriormente - soprattutto in 2 Pietro - da uno «scetticismo anti-mitologico». Giuda prima e, al suo seguito, l’autore di 2 Pietro sembrano riconoscere in questa attitudine una potenziale minaccia «rispetto ad alcune dimensioni crucia li della fede, non ultima la posizione del Signore stesso».121 visionari pneumatici (Gd 8.19) e i falsi maestri (2Pt 2,1), forse, reclamavano una diretta vicinanza a Dio senza alcuna riserva escatologica, accompagnando anche le loro pretese con una condotta etica libertina, egoista e opportunista. Dietro l’accusa di bestemmia degli angeli potrebbero nascondersi «la negazio ne di Gesù Cristo come giudice escatologico e quindi la nega zione della sua prossima venuta».13 Nella prospettiva dei due autori, dunque, la relazione con la «signoria» di Dio in Cristo implica strutturalmente una corretta relazione al mondo celeste delle «glorie»; viceversa, la confessione credente della «signo ria» divina in Gesù Cristo implica l’accusa decisa di ogni atteg giamento umano arrogante e superbo, incapace di riconoscere e rispettare i limiti assegnati all’umanità e, al contempo, il po tere di giudizio esercitato su di essa da Dio in Gesù Cristo. Tanto in Giuda che in 2 Pietro il disprezzo della «signoria» rappresentata dagli angeli mostra che, di fronte a ciò che so verchia la loro esistenza fisica, gli oppositori sono in una con dizione non solo di ignoranza ma anche di colpevole superbia. In questo senso, prima che in senso morale o sessuale, essi «contaminano la carne» (Gd 8) e si preparano ad essere «cor rotti per la loro stessa corruzione» (2Pt 2,12): se la «carne», intesa nel senso semitico, designa la realtà creaturale e mortale i2F rey, 315. 13 G ielen , «L a Seconda», 697.
di ogni essere umano, il viverla come «esseri irragionevoli (sen za parola)» (Gd 10; 2Pt 2,12), limitati solo a ciò che fisicamen te può diventare oggetto di conoscenza, rappresenta una cor ruzione della stessa condizione mortale propria degli umani, quella per la quale il riconoscimento del limite, che dovrebbe caratterizzarne l’esistenza mortale e lasciarla costitutivamente aperta al riconoscimento dell’alterità e, massimamente, dell’alterità sovrana del Signore-giudice unico, viene sostituito dall’assolutizzazione dello stesso. La «carne» non riconosce più i suoi confini e, negando ciò che le è superiore, ne usurpa anche il posto: accade, dunque, una contaminazione che fa sì che ciò che è oggetto positivo della conoscenza dei sensi, diventi cau sa di corruzione-distruzione degli stessi soggetti della cono scenza. L’autore di 2 Pietro sembra avere inteso proprio in questo senso il riferimento di Giuda all’episodio di Michele e del diavolo, quando precisa che gli oppositori «non temono di insultare le glorie laddove gli angeli, più grandi per forza e po tenza, non portano contro di loro presso il Signore alcun giu dizio offensivo» (2,10-11). Chi, per superiore dignità, potrebbe permettersi ciò che ad esseri di carne non è consentito, proprio per la cognizione profonda della maggiore e unica vera signo ria, quella divina, rinuncia ad assolvere un ruolo giudicante che, invece, gli esseri mortali si arrogano. La dinamica opposta a quella sottesa al riconoscimento del la «signoria» è, dunque, quella che valica il limite creaturale e nega i confini. Questa dinamica è presente, più o meno espli citamente, nei tre esempi richiamati in G d 5-8. Coloro che, per la loro mancanza di fede, si separano con ribellione dal popo lo liberato (Nm 13-14), valicano i confini loro assegnati in qualità di potenziali eredi della terra (e non giudici della bon tà della promessa divina) e periscono nel deserto, fuori dalla terra promessa in eredità al popolo salvato.14Tradiscono i loro 14 Cfr. Nm 13,32: alcuni degli esploratori introducono nella comunità «una calun-
confini anche gli angeli che non hanno custodito il dominio celeste loro assegnato {arche) e hanno provocato il peccato sulla terra unendosi alle figlie degli uomini (cfr. Gen 6,1-5 alla luce di 1 Enoc 6-11). In modo simile ad essi violano nuovamen te i confini Sodoma, Gomorra e le altre città che sono «andate dietro a una carne diversa» (Gen 19,4-25 e Libro dei giubilei 16,5), tentando di violentare gli esseri angelici e, così facendo, violando i confini tra angeli e uomini.15 La stessa dinamica è implicita nel peccato della bocca attribuito agli avversari in G d 16 («Sono mormoratori lamentosi che si muovono in base alle loro bramosie mentre la loro bocca pronuncia enormità») e stigmatizzato nel v. 11 col richiamo alla antilogia di Core (Nm 16) e nei w. 14-15 con la profezia di Enoc sull’avvento del Signore giudice di tutte le opere e parole dure degli empi (1 Enoc 5,4). Dunque, la dinamica sottesa a tutti i modelli nega tivi tratti dalla tradizione è una questione di «confini e di contaminazione».16 Il lessico della purezza e dei suoi contrari, che attraversa le due Lettere e che indica solo occasionalmente e non struttu ralmente violazioni di natura sessuale, conferma il dato: il pun to nodale della polemica sta nella violazione empia dei confini che implica da un lato la corruzione e il fallimento della propria dignità creaturale (la propria «carne»), dall’altro la negazione radicale della «signoria» (ciò che è altro dalla propria carne mortale) che ben si esprime nel vituperio arrogante delle «glo rie» che appartengono alla sfera della trascendenza divina. Nell’ampio contesto di 2 Pietro, in particolare, la sovranità di Dio creatore e giudice è ciò su cui cade l’accento: è la sovraninia della terra» (cfr. Nm 14,36-37); in 14,2 la comunità «mormora» (cfr. gli opposito ri di Giuda accusati di essere «mormoratori» nel v. 16); in 14,9 Giosuè supplica la comunità: «non diventate apostatai apò toù Kyriou». Apostasia dal Kyrìos e rifiuto presuntuoso di ricevere la terra così come essa si presenta, disobbedendo alla volontà divina, vanno di pari passo. 15 H armngton, 196-197.
16B rosend, 174.
tà di Colui che «con la Parola» ha dato forma alla creazione e la sostiene in vita nella sua condizione presente (2Pt 3,5-7). Coloro che negano il proprio limite creaturale, negando il po tere di Dio creatore e giudice e la parusia ultima del Signore e del suo giorno, sono paragonabili a maggior ragione e con sen so nuovo rispetto a quello reperibile in Giuda ad «animali sen za parola» destinati alla corruzione. Se tutto si mantiene grazie alla Parola di Dio, coloro che vivono allo stato «fisico» natu rale, che non godono del «riconoscimento» del Signore e Sal vatore, non potranno che andare distrutti «come gli animali che periscono» (Sai 49,13-21). Il giorno del Signore verrà per loro «come un ladro». Il nesso tra angelologia, cristologia e parusia dimostra che nella signoria di Gesù Cristo sono comprese dimensioni visi bili e invisibili della realtà. Un atteggiamento di timore e tre more, in ultima analisi, è ciò che i nostri due autori chiedono ai loro destinatari ricavandolo dalla Scrittura e dalle parole dei profeti e degli apostoli: la polemica contro gli oppositori è strumentale al raggiungimento di tale scopo. Ottenere tale at teggiamento, al contempo fiducioso, pieno di misericordia e di speranza come trepido e attivo, pieno di tensione prospettica, di apertura esistenziale radicale al mistero della sovranità tra scendente di Dio nel suo Cristo e alla «promessa» del suo gior no (quella contenuta nella parusia del suo giorno), è il fine ultimo della predicazione di profeti e apostoli accolta dai cre denti al cospetto del mondo. È ciò cui l’intera Scrittura serve «finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei nostri cuori» (2Pt 1,19).
2.3. Il metodo della fede apostolica Per inculcare tale atteggiamento e radicare le dinamiche positive della fede, i due autori non fanno appello a nessuna
istanza estrinseca a quella originaria della fede stessa, che pas sa all’inizio attraverso la «consegna» (G d 3; 2Pt 2,21) e poi attraverso la «memoria» (Gd 5.17; 2Pt 1,12-15; 3,1-2) della parola apostolica. Non si fa ricorso a nessuna funzione mini steriale istituita e dirimente, se non all’autorità definita dalla custodia dell’annuncio cristologico, chiave ermeneutica delle Scritture rilette in contesti sempre nuovi. Tenere desta la me moria dei credenti o, per dirla col «Simon Pietro» di 2Pt 1,1, «svegliare/sollecitare mediante la memoria l’intelligenza schiet ta» (2Pt 3,1; cfr. 1,13) è il compito «apostolico» per eccellenza e il metodo per custodire perfettamente la fede e la salvezza ricevute in dono. Concretamente esso si traduce in una memo ria costante e viva, attualizzante, delle Scritture profetiche e, per l’autore di 2 Pietro, anche nella memoria del passato di Gesù: se 1 Pietro guarda al passato di Gesù come fondamento identitario e morale dei credenti, 2 Pietro guarda piuttosto al passato di Gesù come fondamento del loro futuro escatologi co. In entrambi i casi, la memoria apostolica è tale proprio perché veicola la volontà del Kyrios (cfr. il doppio genitivo in 2Pt 3,2 «ricordare... quello dei vostri apostoli comandamento del Signore e Salvatore», che rilegge G d 17). Dalla Scrittura e dalla memoria apostolica del Signore possono trarsi criteri cer ti per il discernimento, il giudizio e l’esperienza integra della fede tra ciò che è stato ricevuto in dono e ciò che ancora si attende, tra vera e falsa profezia, veri e falsi maestri. Bibliografia Jude and thè Relatives o f Jesus in thè Early Church, T & T Clark, London - New York 1990. BROSEND W.F. il, Jam es & Jude, Cambridge University Press, Cam bridge 2004. CALLAN T., «The Christology of thè Second Letter of Peter», in Bi blica 82(2001), 253-263. BAUCKHAM R .,
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CO N CLU SIO N E
Accomunati sul piano storico-tradizionale dal fatto di pro venire da figure di riferimento delle chiese di origine giudaica, Scritti giovannei e Lettere Cattoliche spiccano nel panorama neotestamentario come attestazione della ricca diversità della testimonianza a Gesù, della memoria di lui e della compren sione della sua persona e del suo significato storico-salvifico nel “cristianesimo” delle origini. Se resistenza del corpus del le Lettere Cattoliche chiede al lettore del Nuovo Testamento che la sua elaborazione della fede cristologica e dell’identità dei credenti non venga mediata «d a Paolo soltanto», quella degli Scritti giovannei chiede che la sua memoria di Gesù e del discepolato delle origini non venga mediata solo da Sinot tici e Atti. Tanto il volto di G esù quanto quello dei primi credenti in lui emergono in questi testi con tratti originali che dipendono dalla tematizzazione dell’identità giudaica del pri mo - rivendicata e agita in termini così inauditi da costare a lui un conflitto mortale e da determinare una svolta teologica e storico-religiosa senza paragoni nella storia del mediogiu daismo - e dalla matrice giudaica dei secondi consapevolmen te vissuta ed elaborata come marcatore identitario irrinuncia bile e fecondo del popolo di Dio radunato escatologicamente. In un contesto di crisi interna ed esterna - sia sul fronte del giudaismo d’origine che su quello dell’ambiente pagano al cui interno le comunità credenti si erano andate stabilendo l’identità ecclesiale si va così costruendo come identità aperta,
rilettura teologica e nella applicazione ecclesiologica della sto ria (1 Giovanni; 1-2 Pietro) e della predicazione (Giacomo) di G esù di Nazaret come delle categorie, delle figure e degli schemi interpretativi biblico-giudaici della storia salvifica e del suo compimento escatologico (tutte e sette le Cattoliche). I legami intertestuali e tradizionali tra i testi, che in alcuni casi si potrebbero dimostrare anche in termini di dipendenza let teraria (si veda il rapporto tra 2 Pietro e Giuda, tra 2 e 1 Pietro o, come ritengo, tra 1 Pietro e Giacomo), dimostrano come le Lettere Cattoliche, comprese quelle giovannee, riflettano am bienti ecclesiali accomunati storicamente dall’assunzione piena della matrice giudaica dell'ekklèsia e dalla sua traduzione idea le e culturale in spazi e tempi diversi da quelli d ’origine tra la seconda metà del I secolo d. C. e i primi decenni del II secolo. A conclusione di questo percorso penso che l’eredità peren ne delle chiese che si riflettono in questi scritti, e che dovrebbe riflettersi nel volto di quelle che da questi scritti dovrebbero lasciarsi formare, si potrebbe riassumere in sette aspetti. 1) Per definire l’identità dei lettori reali e ideali, vengono ripresi testi, temi, immagini, categorie e schemi teologici bibli co-giudaici, anche se spesso rimodulati in linguaggio greco e in contesti culturali diversificati e sempre più attivi nel proces so di inculturazione ellenistica (cfr. 2 Pietro). Questi restano l’asse fondamentale per la costruzione dell’identità dei «fratel li» nella fede. Però, in nessun caso, l’assunzione e trasmissione integra dell 'identità giudaica, nei due gruppi di scritti, implica esplicitamente l’assunzione dei segni identificanti del popolo giudaico in quanto «nazione» (éthnos) con un suo sistema di tradizioni, osservanze e pratiche (di purità, circoncisione, os servanza del sabato ecc.), che garantissero il confine etnico e, dunque, la protezione dell’identità nell’ambiente circostante. Scritti giovannei e Lettere Cattoliche, dunque, parlano di una ekklèsta in cui - diversamente che in Paolo - non appare al cuna polemica diretta con le osservanze giudaiche ma la cui
identità giudaica - reale e/o ideale - non sembra dipendere in alcun modo dall’assunzione dei marcatori identitari esterni dell'éthnos giudaico. 2) Ognuno di questi testi, a suo modo, mostra come l’iden tità dei credenti si costruisca attraverso un processo di raccol ta e rilettura costante delle tradizioni protocristiane, comprese quelle sul Gesù terreno, che si vanno coagulando e diventano stimolo per nuove sintesi, confronto dialettico, riflessione e discernimento (si pensi al rapporto tra la tradizione giovannea e quella sinottica; tra l’Apocalisse e altre tradizioni non giovannee; tra Giacomo e la tradizione delle parole di Gesù; tra 1 Pietro e le diverse tradizioni neotestamentarie o tra 2 Pietro e Giuda da un lato e gli scritti paolini dall’altro). In questo sen so, le tradizioni e la letteratura del Nuovo Testamento più se gnate dalla matrice giudaica delle origini si dimostrano «catto liche» nella loro stessa struttura e consegnano la loro dialettica quale regola della fede e forma processuale imprescindibile della trasmissione viva e rielaborazione continua dell’identità cristiana. 3) La coscienza del compimento cristologico delle Scritture attraversa gli scritti e si traduce in un nuovo, sistematico, ac cesso all’Antico Testamento alla luce di Cristo e nella compren sione della sua storia e della storia dei credenti in lui alla luce delle Scritture profetiche riconosciute sempre attuali nel loro potenziale rivelativo e significato teologico, antropologico e cristologico. 4) La consapevolezza della qualità escatologica del tempo inaugurato dalla vita, morte e risurrezione di Cristo e dalla pro fessione pubblica della fede in lui (testimoniata, oltre che con la parola, in un «fare» di segno anti-idolatrico) non implica mai lo spegnersi dell 'attesa di un compimento escatologico che ab bracci ogni uomo e il cosmo stesso (la parousia del Signore: Gc 5,7-8; 2Pt 3,4.12; lG v 2,28). Essa resta sempre viva, dai testi più antichi a quelli più recenti, ed espressa con linguaggio e
categorie apocalittiche, anche se non si traduce mai in una spe culazione quantitativa sui «tem pi» del «giorno» del Signore. 5) Nella costruzione dell’identità dei credenti, l’etica - inte sa come amore reciproco, solidarietà, cura dell’altro e capacità di fedeltà estrema - occupa un posto importante. Essa costitui sce una traduzione concreta, articolata, differenziata, respon sabile e trasparente del fondamento cristologico della loro esperienza salvifica e della loro speranza escatologica. Anche quando implica, euristicamente, l’assunzione di codici cultu rali che le sono estrinseci (per esempio, i «codici domestici» in 1 Pietro) non li consacra mai con l’evangelo, ma ne fa strumen to perché siano concretamente «guadagnati» alla Parola quan ti, solo mediante quei codici, potrebbero esserne raggiunti. 6) La configurazione ecclesiale che emerge dagli Scritti giovannei e dalle Lettere Cattoliche è kerigmatico-testimoniale più che istituzionale o soltanto carismatica. I ruoli ministeriali o pastorali, anche quando presenti in forme ereditate dal giudai smo (cfr. «presbitero/i» in 2-3 Giovanni, Giacomo, 1 Pietro), sono secondari. Tutt’altro che irrigidire strutture ministeriali che sarebbero il segno di un protocattolicesimo nei testi neotesta mentari, anche le Lettere Cattoliche mostrano l’intima e irrinun ciabile relazione tra autorità pastorale e tradizione apostolica: una relazione non formale o stabilita una volta per tutte, ma dinamica e strutturale, da agire e confermare in modo nuovo in nuovi tempi e situazioni delle chiese. Anche nel testo più tardi vo qual è 2 Pietro, il ricorso ai profeti e agli apostoli conferma che la traditio è principio dinamico, non statico, della fede: dal la Scrittura profetica e dalla predicazione originaria del Cristo andranno attinti, ogni volta in modo nuovo, gli elementi di co struzione dell’identità ecclesiale tra retta fede e retta vita. 7) Pur non individuandolo in osservanze rituali esterne, Scrit ti giovannei e Lettere Cattoliche attestano l’esigenza di un pre ciso confine identitario. O per motivi parenetico-apologetici (1 Pietro) o per motivi polemici (1-3 Giovanni, Giacomo, Giu
da e 2 Pietro), nelle Lettere si manifesta la percezione condivi sa della necessità di un confine che custodisca la differenza e l’identità dei credenti in Cristo rispetto al «mondo», anche e soprattutto quando il «mondo» manifesta la sua seduzione ido latrica aU’interno, piuttosto che all’esterno, della comunità. Proprio l’esperienza delle divisioni e lacerazioni intra-comunitarie (1-3 Giovanni, Giacomo, Giuda e 2 Pietro) dimostra, sin dalle origini, che il confine che identifica i credenti non può essere individuato all’esterno dei singoli e della comunità, qua si in un’opposizione settaria degli «eletti» rispetto al mondo, ma passa all’interno nel «cuore» di chi crede (Gc 1,26; 3,14; 4,8; lP t 1,22; 3,4.15; lG v 3,19-21) e si rende visibile nella pra tica dell’amore fraterno e reciproco tra i credenti (Gv 13,34-35; Gc 5,7-20; lPt 1,22). Il ricorso polemico al linguaggio dualisti co, negli Scritti giovannei e in alarne delle Cattoliche (Giacomo, Giuda), esprime proprio questa esigenza. Se la polemica e l’in vettiva costituiscono una modalità occasionale e non essenziale della definizione dei confini, l’esigenza di tale definizione - che si esprime, non casualmente, mediante codici di matrice giudaico-apocalittica - non dovrebbe mai essere persa di vista. La custodia dinamica del fondamento identitario che fa esistere i credenti, infatti, è custodia stessa della rivelazione e condizione perché si mantenga storicamente, cioè in tempi e spazi diversi, la differenza della fede che è anche, sostanzialmente, irriduci bile differenza tra Dio e «mondo» e testimonianza di salvezza. Il rimando costante e performativo alle Scritture e a ciò «che è stato udito sin da principio», costatabile nella sua verità ed ef ficacia salvifica dall’amore fraterno e da stili di vita conformi ai «modi del Signore» che traducano concretamente la Parola al cospetto del «mondo», rimarrà il metodo costante della fede apostolica e il criterio della differenza perché in tempi e spazi diversi, sempre, si possa conservare «la via diritta» della giusti zia, della verità, dell’integrità (2Pt 2,15) e fare, così, l’esperien za della salvezza «che viene dai Giudei».
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Premessa
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PRIMA PARTE IL CORPUS GIOVANNEO
IL «PENTATEUCO» GIOVANNEO 1. Gli Scritti giovannei a confronto 2. L’origine e il background della letteratura giovannea 2.1 I dati intratestuali e la tradizione patristica 2.2. Lelaborazione critica dei dati nella storia della ricerca 2.2.1. Da «Giovanni» alle chiese «giovannee» 2.2.2. Punti di convergenza 2.2.3. La redazione del Quarto Vangelo e Tinsieme del corpus: principali ipotesi' di soluzione 3. Conclusione Bibliografia
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VANGELO SECO N D O GIOVANNI 1. Questioni storico-letterarie 1.1. Giovanni e i sinottici
1.2. La differenza giovannea e la pretesa autoriale sottesa al Quarto Vangelo pag. 1.3. «Non multa sed multum»; » il racconto giovanneo tra storia e teologia 1.3.1. La memoria come chiave di accesso » alla costruzione del racconto giovanneo 1.3.2. La Gestalt giovannea della vita di Gesù: » non molte cose, ma in profondità 1.4. Il Quarto Vangelo come «metafora viva»: » trama e struttura letteraria del testo 1.4.1. La trama giovannea tra azione e rivelazione » » 1.4.2. La struttura letteraria 2. Esegesi di Gv 1,1-18: da dove è necessario » iniziare il discorso » 2.1. Genere letterario, background e funzione » 2.2. Struttura » 2.3. Traduzione e commento 3. Esegesi di Gv 9: dottrina ed esperienza » davanti al rivelarsi del Figlio dell’uomo » 3.1. Contesto e genere letterario » 3.2. Struttura » 3.3. Traduzione e commento 4. Esegesi di Gv 20,1-18: Maria di Magdala » e rincontro con il Signore risorto » 4.1. Contesto » 4.2. Struttura » 4.3. Traduzione e commento » 5. Linee teologiche » 5.1. La soteriologia 5.2. La cristologia » » 5.3. La pneumatologia » 5.4. L'escatologia » 5.5. La teologia » 5.6. Lecclesiologia » Bibliografia
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LETTERE DI GIOVANNI 1. Questioni storico-letterarie Pag. » 1.1. Il genere epistolare e le Lettere di Giovanni 1.2. La crisi intra-ecclesiale e gli interlocutori polemici » delle Lettere » 1.3. Scopo e strategia retorica delle Lettere 1.4. Struttura letteraria della Prima lettera » di Giovanni 2. Esegesi di lG v 3,7-18: l’amore fraterno » come criterio ultimo di discernimento » 2.1. Delimitazione e contesto » 2.2. Struttura e modello argomentativo » 2.3. Traduzione e commento » 3. Linee teologiche » Bibliografia
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APOCALISSE 1. Questioni storico-letterarie 1.1. G li scritti «apocalittici» e lApocalisse di Giovanni 1.1.1. U«apocalisse» come genere letterario 1.1.2. Uso e trasformazione del modello letterario nell’Apocalisse di Giovanni 1.2. LApocalisse di Giovanni nel contesto di vita delle chiese dellA sia minore n e lI secolo d.C. 1.3. Il simbolismo dellApocalisse 1.4. La struttura letteraria dellApocalisse come diacronia di una sincronia 1.4.1.1 dati 1.4.2. L’interpretazione 2. Esegesi di Ap 1,4-8: il saluto del profeta Giovanni alle chiese 2.1. Contesto e struttura 2.2. Traduzione e commento
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La salvezza viene dai Giudei
3. Esegesi di Ap 21,1-8: la città di Dio con gli uomini 3.1. Contesto e struttura 3.2. Traduzione e commento 4. Linee teologiche 4.1.11 Dio vivente, fonte della rivelazione salvifica 4.2. Il Cristo amante, sposo e redentore 4.3. La chiesa testimoniale: sposa dell'Agnello e tempio del Dio vivente 4.4. L'escatologia Bibliografia
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LIN E E DI TEO LO G IA GIOVANNEA 1. La rivelazione cristologica al centro della storia salvifica 1.1. Gesù morto e risorto accadimento e centro delle Scritture 1.2. Gesù Viglio inviato e testimone fedele 2. Il Dio uno, fonte e termine dell’amore che vivifica 3. La pienezza dello Spirito 4. Aspetti dell’ecclesiologia giovannea
SECONDA PARTE LE LETTERE CATTOLICHE
IL SETTENARIO D E LLE LETTER E «CA TTO LICH E» 1. Le Lettere «Cattoliche» come corpus 2. «Non con Paolo soltanto» Bibliografia
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LETTERA DI GIACOM O 1. Questioni storico-letterarie 1.1. Datazione e autore 1.2. Genere letterario e stile 1.3. Destinatari e scopo della Lettera 1.4. Struttura letteraria 2. Esegesi di Gc 2,1-11: pensare, giudicare e agire secondo il vangelo del regno 2.1. Contesto e struttura 2.2. Traduzione e commento 3. Linee teologiche 3.1. Il Dio uno e la sua Parola fedele 3.2. Il nucleo primario della cristologia e rermeneutica della Legge 3.3. Comunità, etica e discernimento evangelico Bibliografia
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PRIMA LETTERA DI PIETRO 1. Questioni storico-letterarie 1.1. Datazione, destinatari e autore 1.2. Genere letterario e scopo della Lettera 1.3. Struttura letteraria 2. Linee teologiche Bibliografia
LETTERA DI GIUDA E SECO NDA LETTERA DI PIETRO 1. Questioni storico-letterarie 1.1. Pseudepigrafia e datazione delle due Lettere 1.2. La polemica contro i «negatori» e lo scopo delle due Lettere
1 .3 .1 d e stin a ti 1 4 Lettera di Giuda: genere letterario e struttura 1.3. Seconda lettera didietro: genere letterano e struttura 2. Linee teologiche 2.1 La signoria dt riho e del suo Cristo 2.2. La negazione della «signoria» e le sue manifestazioni 2.3. Il metodo della fede apostolica Bibliografia
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