La rivoluzione culturale di Lucrezio. Filosofia e scienza nell'antica roma 884307945X, 9788843079452

La diffusione dell'epicureismo nel mondo antico trova in Lucrezio uno degli interpreti più originali. La filosofia

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La rivoluzione culturale di Lucrezio. Filosofia e scienza nell'antica roma
 884307945X, 9788843079452

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Marco Beretta

La rivoluzione culturale di Lucrezio Filosofia e scienza nell'antica Roma

@ Carocci editore

1• edizione, dicembre 2.0IS ©copyright 2.0IS by Carocci editore S.p.A., Roma

Impaginazione e servizi editoriali: Pagina soc. coop., Bari Finito di stampare nel dicembre 2.0IS da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG) ISBN 978-88-430-794S-2.

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 2.2. aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione

7

Le scienze e le tecniche a Roma ai tempi di Lucrezio

13

2..

L'epicureismo a Roma: una rivoluzione culturale

54



La vita e l'opera di Lucrezio

I.

100

4· La scienza dei semi

133

Vedere è sapere

166



6. Il nuovo ordine dell'universo

188



Evoluzione e progresso

207

8.

Scienziati editori del De rerum natura

219

Appendice. Testimonianze sulla vita e l'opera di Lucrezio

265

Bibliografia

276

Indice dei nomi

304

s

Introduzione

Quando si leggono con attenzione le opere filosofiche di Cicerone, di poco più vecchio di Lucrezio, non si può fare a meno di rimanere stupiti di fronte alla ricorrente - si direbbe quasi ossessiva- vis polemica esercitata nei confronti di Epicuro e dei suoi sempre più numerosi seguaci romani. Sebbene il poeta non venga mai nominato esplicitamente, è probabile che Cicerone fosse rimasto colpito e insieme scandalizzato dall'eleganza, dalla coerenza e dal fascino espressivo con cui la filosofia epicurea aveva trovato espressione nel De rerum natura. In effetti, la propagazione dei principì del Giardino non poteva non costituire motivo di scandalo agli occhi di un cittadino romano, dal momento che andava a insidiare un ordine politico e culturale incardinato sulla stabilità delle leggi, della religione e della natura. La fllosofia presentata nel De rerum natura, scompaginando l 'ordine costituito, metteva infatti la conoscenza della natura a fondamento della felicità dell'uomo e della liberazione dalle sue paure: solo attraverso un'indagine spregiudicata dei fenomeni naturali e delle cause recondite del loro manifestarsi diveniva possibile, secondo Epicuro e Lucrezio, assegnare all'uomo un'etica capace di renderlo libero nelle sue azioni e, contemporaneamente, di farlo vivere in sintonia con le leggi naturali. La scienza della natura veniva dunque posta a base dell'etica, della cultura e addirittura della politica. Si trattava pertanto di un messaggio scandaloso, in quanto destinato a sovvertire una gerarchia di valori che, fino ad allora, aveva collocato le discipline scientifiche ai margini della cultura classica e, cosa ancor più grave, finalizzato a destituire la divina provvidenza dal suo ruolo normativa. Nonostante il sarcasmo di Cicerone e le critiche non meno pungenti degli Stoici e dei Neoplatonici, che ebbero amplissima diffusione presso i circoli intellettuali dei principali centri culturali del mondo ellenistico, l'epicureismo divenne così popolare da ispirare strategie di proselitismo tanto audaci quanto inedite. Quella forse più eclatante è costituita dall'imponente iscrizione di Enoanda (inizio n secolo d.C.), voluta dall'epicureo Diogene: si tratta di un 7

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

muro lungo ottanta metri e alto cinque, sul quale venne scolpita una parte delle opere di Epicuro, con il trattato di fisica in una posizione di particolare visibilità. Collocato nella piazza principale della città, il muro metteva a diretto contatto con l'opera del maestro anche il passante più distratto: non si conoscono esempi analoghi di propaganda così audace a favore dei principi di una filosofia della natura. Da allora, mai alla scienza è stato tributato un più alto valore culturale. È un po' come se oggi, nella piazza principale di Ginevra, venissero collocate delle iscrizioni o dei pannelli per celebrare le imprese compiute nei laboratori di fisica nucleare del CERN, o per illustrare i risvolti etico-morali delle scoperte sulla struttura e sui moti dell'atomo. Un progetto simile non è nemmeno pensabile perché, per quanta importanza possa avere la scienza nel mondo contemporaneo, il suo raggio di azione è infinitamente più limitato rispetto a quello attribuitole da Epicuro. La scienza contemporanea deve il suo grande successo anche a una scelta deliberata di neutralità etico-filosofica. Questa premessa ci aiuta a comprendere come il De rerum natura non sia stato soltanto una grandissima opera letteraria, capace di addolcire col miele della poesia l'amara verità della mortalità dell'universo; essa rappresenta anche l'espressione sintetica di una dottrina rivoluzionaria, da cui il suo autore attendeva, per sé stesso e i suoi contemporanei, una rigenerazione morale e culturale. L'idea che l 'universo sia costituito da atomi in costante movimento che, aggregandosi e disgregandosi, generano in un ciclo infinito la nascita, la crescita, l'invecchiamento e la morte di tutte le cose, era in aperta contraddizione con le principali correnti filosofiche di età ellenistica. Grazie a questa intuizione l'uomo, in maniera non dissimile da una pietra scolpita dalle onde del mare, veniva assoggettato alle leggi universali della natura e non doveva pertanto temere, dopo la morte, di andare incontro alle incognite minacciose di una vita ultraterrena. Un simile messaggio, che poteva ancora apparire liberatorio ai tempi di Lucrezio, venne considerato eretico in età tardoantica: questo atteggiamento di radicale avversione finì per dar vita alle leggende- messe in circolazione soprattutto ad opera dei Padri della Chiesa - relative alla disperazione e alla follia di Lucrezio, ed è probabilmente all'origine dell'oblio che, a partire dal v secolo, sembra aver circondato il De rerum natura. La riscoperta del poema nel Quattrocento, in un contesto così avido di novità e di riforme culturali, non poteva che assicurare al testo una nuova fortuna. Fu in effetti la nostra penisola il centro della riscoperta del poema, che - pur con qualche ritardo rispetto ad altre opere latine- vide la luce nell'edizione a stampa realizzata da Ferrando a Bre8

INTRODUZIONE

scia tra ili472. e il 1473; dunque più in Italia che altrove il De rerum natura, pur ali' interno di un contesto nuovo e per certi versi totalmente differente, divenne da allora un'opera tanto importante quanto controversa. Nel 192.3, in occasione dell'istituzione del liceo scientifico, l'allora ministro Giovanni Gentile, allo scopo di modificare l'insegnamento delle scienze naturali che ai suoi occhi era arido e privo di spessore filosofico, introdusse nel programma di latino la lettura e lo studio di alcuni passi tratti dal De rerum natura. Molto tempo è passato dal velleitarismo paternalista di Gentile, ma la collocazione del poema di Lucrezio è ancora oggi tutt'altro che facile. In effetti laricezione e la lettura di questo testo hanno subìto interpretazioni molto divergenti: da un lato moltissimi scienziati e naturalisti, a partire dal Rinascimento, hanno individuato nel poema un inesauribile ricettacolo di idee rivoluzionarie, che, adattate ai linguaggi scientifici moderni, si sono rivelate decisive per il superamento della filosofia naturale di Aristotele e l'elaborazione di nuove teorie scientifiche; dall'altro i filologi, per contro, si sono sforzati di smorzare questo entusiasmo e anzi hanno sminuito il valore fùosofico di Lucrezio, privilegiando, pur con qualche notevole eccezione, l'esame stilistico del poema come elemento distinto - se non addirittura estraneo - alla dottrina di Epicuro. Questo lavoro nasce da una riflessione che ho maturato, ormai molti anni fa, durante lo svolgimento di alcune ricerche su Lavoisier e la rivoluzione chimica, e che per molti versi è il frutto della tensione che da sempre accompagna la lettura del De rerum natura. Mi aveva particolarmente incuriosito il fatto che, a proposito di Lavoisier e della sua opera, i moderni manuali di chimica celebrino costantemente la cosiddetta "legge" - oggi associata al suo nome - di conservazione della materia. L'enunciato originale di questa celebre legge, sui cui si regge l'intero edificio della chimica moderna, è così formulato: niente si crea, né nelle operazioni dell'arte, né in quelle della natura, e si può porre in principio che, in ogni operazione, c'è una uguale quantità di materia prima e dopo l'operazione; che la qualità e la quantità dei principi è la stessa e che non si verificano che cambiamenti o modifìcazioni. È su questo principio che si fonda tutta l'arte di fare esperienze in chimica: si è obbligati a supporre in tutte una vera uguaglianza o equazione tra i principi che si esaminano e quelli che si ricavano per analisi (Lavoisier, 1789, vol. I, pp. I40-I).

Questo enunciato, assurto a legge naturale, è sorprendentemente rassomigliante ai numerosi passi del De rerum natura nei quali, partendo da premesse simili, cioè la differenza qualitativa degli atomi e delle molecole, si arriva alla stessa conclusione, cioè al principio della conservazione della materia. 9

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Se, da un lato, non può essere una coincidenza che Lavoisier possedesse, tra i libri della sua biblioteca, la traduzione francese del De rerum natura del 1768, dall'altro è però impossibile non rendersi conto di quanto risulti anacronistico accostare un capolavoro della letteratura latina a un trattato scientifico della fine del Settecento. Eppure, Lavoisier non è stato il solo scienziato a trovare nell'opera di Lucrezio l'ispirazione per esplorare nuovi orizzonti della scienza sperimentale. Di fronte a una simile constatazione, sorge spontanea la domanda: è il testo del De rerum natura che si presta a essere improbabilmente accostato alle scoperte della scienza moderna e contemporanea, oppure i numerosi scienziati che si sono avidamente appropriati dell'opera lucreziana hanno intravisto in essa degli elementi che sono spesso sfuggiti agli studiosi dell'opera letteraria? Questo interrogativo è il filo conduttore delle ricerche presentate nel presente volume. Sebbene i risultati raggiunti siano inevitabilmente provvisori, mi sono comunque persuaso del fatto che il contenuto del De rerum natura non possa essere ricondotto esclusivamente, come molti commentatori hanno creduto, all'alveo della poesia. Forse dietro l'entusiasmo con il quale Lucrezio si dilunga a spiegare le cause atomiche dei fenomeni naturali si cela un profondo interesse scientifico, che rivela una singolare fede nel potere emancipatore della filosofia naturale. Questo volume si prefigge lo scopo di studiare il contenuto della "fede" epicurea e il contesto storico dentro cui si è sviluppata; e, anche se le idee di Lucrezio sono costantemente e inevitabilmente condizionate dalla stretta osservanza della dottrina di Epicuro, molti riferimenti ed esperienze personali sembrano lasciar trasparire una personalità filosofica e scientifica fuori del comune, di cui questo studio intende tracciare un sintetico profilo. Il progetto di scrivere questo libro è nato, quasi vent'anni fa, quando ho cominciato a occuparmi della ricezione del De rerum natura in ambito scientifico nella prima età moderna. Con gli anni le mie ricerche hanno cambiato traiettoria per focalizzarsi sul pensiero scientifico di Lucrezio e il contesto culturale da cui il poeta ha attinto l'ispirazione. In questo cambiamento di rotta la guida preziosa di molti amici e studiosi ha contribuito in modo fondamentale a indirizzarmi verso la conclusione delle mie ricerche. Negli anni ho accumulato moltissimi debiti scientifici, frutto di approfondite discussioni, piacevoli conversazioni conviviali, gradevoli incontri seminadali e proficui scambi epistolari. Ringrazio l'amico Francesco Citti per aver accompagnato le tappe principali della mia ricerca con competenza e generosa sensibilità. Senza il suo aiuto questo libro non avrebbe mai visto la luce. RingraIO

INTRODUZIONE

zio di cuore anche Maria Conforti, Stefano Gattei, Lucia Pasetti e Gianluca Del Mastro per aver letto parti del libro, suggerendomi cambiamenti che hanno migliorato il risultato finale. Ringrazio Luigi Pirovano per il prezioso e meticoloso lavoro di editing. Sono grato a Stefano Casati e Alessandra Lenzi (Biblioteca Museo Galileo), a Vera Vali tutto e Giovanna Rao (Biblioteca Mediceo-Laurenziana di Firenze), a Massimo Baucia (Biblioteca Comunale Passerini-Landi di Piacenza) per il generoso supporto bibliografico e iconografico. Anche se temo sia impossibile ricordare tutti coloro che, nel corso del tempo, mi hanno offerto preziosi suggerimenti, indicazioni bibliografiche e opportune correzioni, ringrazio Franco Bacchelli, llva Beretta, David Butterfield, Antonio Clericuzio, Pietro Corsi, Giovanni Di Pasquale, Tiziano Dorandi, Ernesto De Carolis, Ivano Dionigi, Enrico Flores, Bernard Frischer, Maria Paola Guidobaldi, Giovanni Indelli, Knut K.leve, Giuliana Leone, Pietro Li Causi, Francesca Longo Auricchio, Daniela Majerna, Matte o Martelli, Fabrizio Pesando, Erik Petersen, Elisa Romano, Alessandro Schiesaro, Martin Ferguson Smith, Alessandro Tosi e Bonna Wescoat per i loro generosi suggerimenti. Un ringraziamento particolare va a Massimo Kaufmann per avermi generosamente autorizzato a usare il suo bellissimo dipinto Clinamen per la copertina del volume. L'ultimo capitolo ripropone in forma riveduta e corretta il saggio, pubblicato nel 2008, Gli scienziati e l'edizione del "De rerum natura". Il CAP. 7 offre una rielaborazione del saggio Enlightenment in Antiquity ?, anch'esso pubblicato nel2oo8. Gli autori latini sono citati facendo ricorso alle sigle stabilite dal Thesaurus Linguae Latinae; per quanto riguarda invece i testi greci, sono di norma utilizzate le abbreviazioni di Liddel-Scott-Jones, Greek-English Lexicon. Le Ville, agosto

lOIS

II

I

Le scienze e le tecniche a Roma ai tempi di Lucrezio

I. I

I Romani e la scienza della natura È opinione diffusa che le scienze della natura non abbiano goduto di grande fortuna presso i Romani, che avrebbero preferito assorbire passivamente i principi elementari della scienza greca solo per applicarli alle tecniche e alle artP. Tale convinzione sembra trovare conferma in Cicerone, per il quale il sapere disinteressato professato dai Greci' costituiva un pericolo per le principali attività alle quali doveva invece attendere il cittadino romano. Un sunto efficace del pensiero ciceroniano ricorre, ad esempio, nella Pro Sestio: Di questo "otium" carico di dignità ecco quali sono i fondamenti, gli elementi essenzia-

li che dagli uomini di potere devono essere tutelati e difesi anche a rischio della vita: le istituzioni religiose, gli auspici, il potere della magistratura, l'autorità del Senato, le leggi, la tradizione del passato, l'amministrazione del diritto penale e di quello civile, la fiducia, le province, gli alleati, il prestigio dello Stato, la forza militare, l'erario 3•

La gerarchia del sapere proposta da Cicerone, che come vedremo subirà profonde revisioni proprio durante il periodo in cui egli visse, aveva radici profonde e

1. Tre posizioni diverse, che tuttavia giungono al medesimo risultato, sono contenute negli studi di Stahl (1974); Koyré (1999 ); Russo (1996). Una recente rivalutazione della scienza romana, più fìlosofìca che storica, è esposta nell'originale tesi di dottorato di Carrier (2.0o8) e nello smdio di Lehoux (2.012.). Per i contributi più propriamente storici cfr. Romano (2.003, pp. 16787) e, per un quadro più esteso, Cuomo (2.007 ). Per quanto riguarda la tecnica dei Romani si veda Di Pasquale (z.oos). z.. Radicato nella tradizione filosofica. 3· Cic. Sest. 98: «Huius autem otiosae dignitatis haec fundamenta sunt, haec membra, quae tuenda principibus et vel capitis periculo defendenda sunt: religiones, auspicia, potestates magistratuum, senatus auctoritas, leges, mos maiorum, iudicia, iuris dictio, fìdes, provinciae, sodi, imperi laus, res militaris, aerarium ».L'orazione venne pronunciata nel s6 a.C.

13

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

si era venuta delineando in contrapposizione ad alcuni aspetti della scienza greca, che sembravano insidiare e corrompere l'identità culturale del cittadino romano. Emblematica, a questo riguardo, appare l'ostilità espressa da Catone il Censore nei confronti dei medici greci che, nel II secolo a.C., una volta giunti a Roma, avevano esercitato una crescente influenza negli ambienti colti della capitale. Gli strali di Catone erano diretti, più in generale, contro la parcellizzazione del sapere in discipline che, ai suoi occhi, costituivano una contaminazione dell'unità e della purezza della cultura romana, il cui perimetro ideale si chiudeva nella vita operosa dell'agricoltore, in quella virtuosa del legislatore e in quella leale del soldato, vale a dire in attività poste direttamente e principalmente al servizio della collettività. Nella celebre prefazione al suo De agri cultura, Catone riconduceva a un'antica tradizione romana il primato morale dell'agricoltore e invitava i suoi contemporanei a sviluppare questa nobile arte, evitando di farsi abbindolare da «aruspici, àuguri, indovini, maghi caldei» 4 e da altri personaggi che millantavano un sapere estraneo - e contemporaneamente ostile - alla cultura romana. Un atteggiamento ancora più avverso era riservato da Catone nei confronti della medicina, come emerge da un noto passo dei Libri ad Marcum filium, conservato da Plinio il Vecchio: Ti parlerò al momento opportuno di codesti Greci, o Marco mio [... ].Ti convincerò che la loro è una genia perversa e incorreggibile: fa conto che questo te l'abbia detto un profeta! Il giorno in cui codesta gente ci darà le sue dottrine corromperà tutto, tanto più se manderà da noi i suoi medici. Hanno congiurato di ammazzare con la medicina tutti i barbari, ma lo fanno dietro pagamento, per ottenere fiducia e sterminare gli alcri senza sforzo l.

Troppo tardi. Il primo medico venuto a Roma, Arcagato, aveva ottenuto la cittadinanza già nel2I9 a.C., e aveva goduto del generale apprezzamento 6 , almeno

4· Cato agr. v, 4: « Haruspicem, augurem, hariolum, chaldaeum ne quem consuluisse veli t». XXIX, 14: «Dicam de istis Graecis suo loco, M. fili, quid Athenis exquisitum habeam et quod bonum sit illorum litteras inspicere, non perdiscere. Vincam nequissimum et indocile genus illorum, et hoc puta vatem dixisse: quandoque isca gens suas litteras dabit, omnia conrumpet, rum etiam magis, si medicos suos hoc mittet. lurarunt imer se barbaros necare omnes medicina, sed hoc ipsum mercede faciunr, ut fìdes iis sit et facile disperdano>. 6. Ciò non è soprendente perché il culto di Asclepio era già stato introdotto a Roma in occasione della peste del2.93 a.C. Sull'introduzione della medicina greca a Roma, un'utile sintesi è data da Nutton (z.oo4, pp. 157 ss.).

s. Plin. nat.

I4

I. LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA Al TEMPI DI LUCREZIO

inizialmente, dei cittadini Romani7. L'invettiva di Catone contro i medici e gli scienziati stranieri costituiva in realtà una presa di posizione retorica che, sotto diverse forme, diventerà un Leitmotiv anche per molti intellettuali delle future generazioni. A ben vedere, però, il trattato di Catone pullula di grecismi, che rivelano una conoscenza approfondita della letteratura medica e tecnica che, dopo le prime conquiste in Grecia, aveva repentinamente invaso la capitale. Più che le dottrine mediche in quanto tali, Catone non vedeva di buon occhio la tendenza a separare la professione della cura del malato dall'agricoltura, cioè dal fondamento della civiltà romana. La possibilità di accumulare guadagni attraverso quello che, a suoi occhi, doveva essere il dovere di accudire gli infermi, contravveniva a un principio etico che degradava la natura disinteressata del cittadino romano, asservendola a interessi venali. L'ambivalente atteggiamento di Catone nei confronti dei Greci e, più in generale, della scienza straniera, è in realtà indicativo di una ricerca autonoma su un terreno, quello della scienza agricola, che si stava rivelando strategico, assumendo connotati assai diversi rispetto a quelli conosciuti dai Greci (Kolendo, 1980 ). Le resistenze di Catone, del resto, furono travolte poco più di un secolo dopo dall'arrivo a Roma di un numero imprecisato, ma certo non trascurabile, di medici, naturalisti, astronomi, astrologi, botanici, maghi e tecnici provenienti da rutti i paesi del Mediterraneo e anche dalla lontana e ostile Persia. La concentrazione a Roma, ai tempi di Lucrezio, di una variegata comunità di intellettuali, interessati a esplorare il mondo della natura, coincide con la presenza di un numero di autori di opere scientifiche (cfr. FIG. 1.1) che supera quello raggiunto nel secolo d'oro, il IV a.C., della scienza greca (Keyser, Irby-Massie, 2.008, pp. 937-9 ). Si tratta in effetti di un dato sconcertante, che rivela l'avvento di un breve "rinascimento" scientifico quasi interamente dimenticato dalla storiografia. L'oblio non è ad ogni modo sorprendente, perché pochissime, in effetti, sono le fonti scientifiche e tecniche di lingua latina che sono sopravvissute al progressivo irrigidimento culturale e, successivamente, all'ostilità dei primi Padri della Chiesa nei confronti della cultura secolare. Anche la manualistica, che dovette trovare nel pragmatismo della cultura romana un contesto di floridissima diffusione, non ci è stata trasmessa che per frammenti e vaghe indicazioni indirette. La stagione di risveglio di interesse per le scienze fu breve e sembra non essersi prolungata oltre la dinastia Flavia (Lana, 1980 ). Con l'età imperiale si assiste infatti a un progressivo declino, che le eccezioni di Tolomeo e Galeno non seppero arginare. In un passo che vale la pena di riportare per intero, Plinio

7.

La fonre è sempre Plinio (nat. XXIX, 12), che a sua volta rimanda a Cassio Emina.

IS

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

1.1 Il numero di autori di opere scientifiche e tecniche raggiunge l'apice (oltre I40) tra la fine del I secolo a.C. e l'inizio del I d.C. FIGURA

-715 -610 -505 -4oo -2.95 -190 -85

2.0

12.5

2.30

335

440 545

65o

Fonte: Keyser, lrby·Massie (loo8, p. 939).

lamenta con animo frammisto di tristezza e sarcasmo il disinteresse generale per la ricerca naturalistica: Noi pensiamo di godercela e, cosa che io ritengo la più vergognosa di tutte, viviamo affidandoci ciecamente agli altri [sci/. ai Greci]. Anzi, per giunta io vengo sbeffeggiato dai più per queste mie ricerche, e mi si accusa di dedicarmi a un'attività futile 8•

Anche Seneca, intorno alla metà del I secolo d.C., registrava l'inarrestabile decadenza delle scienze con le parole seguenti: Non si fanno più scoperte in quei campi che gli antichi hanno lasciato scarsamente esplorati, a tal punto che molte fra le scoperte avvenute cadono in dimenticanza. Ma, per Ercole!, anche se affrontassimo questi argomenti con tutto il peso delle nostre for8. Plin. nat. XXII, IS: «lpsi fruimur voluptatibus et, quo nihil equidem probrosius duco, vivimus aliena fiducia. lmmo vero plerisque ultro etiam inrisui sumus ista commentantes atque frivoli operis arguimur etc.».

l. LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA Al TEMPI DI LUCREZIO

ze, anche se la gioventù, divenuta sobria, vi si dedicasse con impegno e i più vecchi ne facessero oggetto di insegnamento e i più giovani di apprendimento, difficilmente si arriverebbe nel profondo, dove si trova la verità che ora cerchiamo alla superficie, smuovendo appena la terra con mano leggera 9 •

Sia l'opera di Plinio che quella di Seneca costituiscono dunque più un bilancio delle conoscenze acquisite nel passato che un repertorio di invenzioni contemporanee. Il loro sguardo retrospettivo registra con ammirata nostalgia non solo le acquisizioni della scienza greca, ma anche le scoperte che, in tarda età repubblicana, avevano segnato il volgere di una nuova epoca, introducendo innovazioni tecniche capaci non solo di cambiare la dimensione politica di Roma, ma anche di rendere ovunque palpabile, in modo profondo e duraturo, la cesura con un passato rustico e frugale.

I. l

Alla conquista della scienza Le guerre di espansione assicurarono a Roma un dominio sul Mediterraneo che, nel volgere di poco più di un secolo, tradusse il primato militare e politico in un potente strumento di supremazia culturale, scientifica e tecnica. Ammirati da imprese mai riuscite in precedenza, i popoli del Mediterraneo, e in particolare i Greci, riconobbero non senza invidia la straordinaria capacità logistica della macchina militare romana, emanazione naturale di uno Stato imperniato sulla capillare organizzazione della vita sociale ed economica. Tale ammirazione, tuttavia, veniva spesso mitigata da giudizi meno entusiastici a proposito del grado di civiltà culturale raggiunto da questa nuova potenza. Una poco benevola insinuazione sulla scarsa sensibilità dei Romani nei confronti della scienza ci viene dal resoconto degli ultimi istanti della vita di Archimede, la cui uccisione viene imputata da Plutarco (Mare. 19) all'ignoranza e crudeltà di un soldato romano: Dicono che il Romano si presentò già con la spada in pugno, pronto ad ammazzarlo, e che Archimede, appena lo vide, lo pregò di aspettare un istante, affinché non lasciasse

9· Sen. nat. VII, 32., 4: «ltaque adeo nihil invenitur ex his quae parum investigata antiqui reliquerunt, ut multa quae inventa erant oblitterentur. At mehercule si hoc totis membris premeremus, si in hoc iuventus sobria incumberet, hoc maiores docerent, hoc minores addiscerent, vi x ad fundum veniretur in quo veritas posita est; quam nunc in summa terra et levi manu quaerimus».

17

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

incompleto e privo di dimostrazione ciò che cercava; ma il soldato senza rami complimenti lo finì.

Dietro questa ricostruzione, senz'altro leggendaria, non è difficile cogliere una spiccata tendenza a innalzare lo spirito disinteressato della scienza greca e, contemporaneamente, a denunciare gli effetti devastanti di una civiltà interamente basata sulla supremazia della forza militare. Molto diverso appare significativamente il resoconto di Plinio, secondo il quale Marco Marcello avrebbe invece emesso un'ordinanza affinché Archimede, che doveva dunque godere di un altissimo prestigio, non venisse toccato: purtroppo, l'ignoranza di un soldato rese vano il divieto' 0 •

Quando si trattava di mettere in luce la superiorità culturale dei Greci, Plutarco non esitava a offrire versioni tendenziose nemmeno a proposito di eventi epocali, tanto da spingersi a imputare a Cesare la distruzione, nel46 a.C., della biblioteca di Alessandria (Plut. Caes. 49). In realtà, l'espansione militare di Roma fu accompagnata da un repentino allargamento degli orizzonti conoscitivi e, contemporaneamente, da una straordinaria trasformazione della cultura latina. I bottini e i trionfi di guerra, lungi dall'essere semplicemente un cumulo di oggetti che si era riusciti materialmente a depredare senza alcun discernimento, formavano anche e soprattutto un patrimonio di nozioni e strumenti conoscitivi che consentirono ai Romani di porre le basi culturali per elaborare un modello autonomo di civiltà. Che tali trasformazioni culturali abbiano interessato i campi della cultura letteraria e filosofica è cosa troppo nota per insistervi in questa sede. Meno conosciuta, ma non per questo meno importante, è la rapida appropriazione di nozioni scientifiche e tecniche che accompagnò le conquiste dei Romani. La tragica fine di Archimede durante l'assedio e la conquista di Siracusa del 2.12. a.C. non impedì ai Romani di comprendere l'importanza degli strumenti e dell'opera dello scienziato greco: tra i reperti del bottino che veniva condotto a Roma, una grande sfera armillare doveva occupare un posto di particolare rilievo, tanto è vero che, ancora un secolo e mezzo dopo, Cicerone ne parlava con ammirazione. Nel dialogo De re publica viene menzionato un episodio avvenuto nel 166 a.C., che ha per protagonista un console, Sulpicio Gallo, interessato agli studi astronomici: 10. P !in. nat. v n, 12.5: «Grande et Archimedi geometricae ac machinalis scientiae testimonium M. Marcelli comigit imerdicto, cum Syracusae caperentur, ne violaretur unus, nisi fefellisset imperium militaris inprudentia>>.

18

l. LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

[Sulpicio Gallo] cominciò a dare una spiegazione molto dotta di questo congegno [... ]. Ma questo nuovo tipo di globo, egli disse, nel quale erano delineati i moti del sole e della luna e di quelle cinque stelle che noi chiamiamo erranti, o, come potremmo dire, vaganti, conteneva più di quanto potrebbe essere mostrato in un globo solido, e l'invenzione di Archimede merita una speciale ammirazione perché egli ha trovato il modo di rappresentare accuratamente, in un solo dispositivo con un globo girevole, quei vari e diversi moti con le diverse velocità. E quando Gallo azionò il globo, era vero che la luna si trovava dietro al sole di diverse rivoluzioni, sul congegno bronzeo, in accordo col numero di giorni in cui era dietro nel cielo. E l'eclissi di sole avvenne nel globo quando deve accadere, e la luna si portò nel punto in cui l'ombra della terra si trovava in quel momento col sole 11 •

E ancora nelle Tusculanae disputationes, esaltando gli studi astronomici, Cicerone prendeva la sfera di Archimede come modello: Quando Archimede vincolò in una sfera i movimenti della luna, del sole e dei cinque pianeti, ottenne lo stesso risultato di colui che, nel Timeo, costruisce l'universo, il dio di Platone: un'unica rivoluzione capace di governare movimenti del tutto diversi tra loro per lentezza e velocità. Se è impossibile che ciò avvenga in questo mondo senza l'intervento di dio, neppure nella sua sfera Archimede avrebbe potuto imitare gli stessi movimenti senza un'intelligenza divinall.

La rappresentazione materiale della volta celeste, realizzata attraverso un modello meccanico dell'universo, non poteva non suscitare l'ammirazione dei Romani e soddisfare la loro predilezione per l'applicazione pratica delle teorie scientifiche. Il planetario infatti venne successivamente menzionato anche da numerosi altri autori: da Ovidio, che ne parla nei Fasti a proposito del tempio di Vesta,

11. Cic. rep. I, 2.2.: «Sed posteaquam coepit rationem huius operis scientissime Gallus exponere, plus in ilio Siculo ingenii quam videretur natura humana ferre potuisse iudicabam fuisse [... ].Hoc autem sphaerae genus, in quo solis et lunae motus inessent et earum quinque stellarum quae errantes et quasi vagae nominarentur, in illa sphaera solida non potuisse fìniri, atque in eo admirandum esse inventum Archimedi, quod excogitasset quem ad modum in dissimillimis moti bus inaequabiles et varios cursus servaret una conversio. Han c sphaeram Gallus cum moveret, fìebat ut soli luna totidem conversionibus in aere ilio quot diebus in ipso cado succederet, ex quo et in (cado] sphaera solis fieret eadem illa defectio, et incideret luna rum in eam metam q uae esse t umbra terrae, cum sol e regione». 12.. Cic. Tusc. I, 63: «Nam cum Archimedes lunae solis quinque errantium motus in sphaeram inligavit, effecit idem quod iIle, qui in Timaeo mundum aedifìcavit, Platonis deus, ut tardirate et cderitate dissimillimos morus una regeret conversio. Quod si in hoc mundo fieri si ne deo non potest, ne in sphaera quidem eosdem morus Archimedes sine divino ingenio potuisset imi-

tari ».

I9

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

dove sembra fosse conservato' 3; da Lattanzio nelle Divinae institutiones' 4 ; e ancora all'inizio del IV secolo d.C., vale a dire oltre sette secoli dopo il suo arrivo a Roma, dal poeta Claudiano, che in un epigramma intitolato In sphaeramArchimedis, testimoniava con la stessa freschezza di Cicerone la sua ammirazione per un modello che evidentemente era ancora possibile ammirare nella dimora di qualche facoltoso collezionista o in qualche tempio non ancora chiuso al culto. Gli interessi per l'astronomia indussero Cicerone a recarsi a Rodi presso Posidonio, dove egli ebbe modo di ammirare il planetario costruito dal naturalista stoico, che riproduceva esattamente il movimento degli astrPS. La sfera di Archimede non fu certo il solo bottino scientifico dei Romani di cui si abbia notizia. Il famoso congegno di Anticitera (cfr. FIG. !.l), ritrovato nel relitto di una nave di Silla naufragata alla fine del I secolo a.C. di ritorno dalla Grecia, costituiva - insieme a una parte della biblioteca di Aristotele - il prestigioso trofeo che avrebbe dovuto arricchire qualche biblioteca o museo di Roma. Si tratta di un complesso orologio astronomico, costruito a ingranaggio epiciclico a base di ruote dentate, che, secondo una ricostruzione storica recente, permetteva una straordinaria varietà di operazioni di misura, dal calcolo delle fasi lunari alla misurazione del calendario astronomico per un ciclo pari a 76 anni' 6 • Sulla base del confronto tra la data dell'affondamento della nave e il posiziona-

13. Ov. Fast. VI, 2.77-2.80: «In un chiuso spazio d'aria, per arte siracusana, v'è sospeso un globo, l piccola raffigurazione dell'immensa volta celeste, l e la terra si discosta tanto dal punto più alto quanto l da quello più basso: tale fenomeno è prodotto dalla forma rotonda>> [«Arte Syracosia suspensus in aere clauso l stat globus, immensi parva figura poli, l et quantum a summis, tantum secessit ab imis l terra; quod ut fìat forma rorunda facit >> ). 14. Lacr. inst. n, s. 18: «Il siciliano Archimede riuscì a raffigurare con molta verisimiglianza l'universo in una sfera di bronzo, nella quale collocò il sole e la luna in modo tale che, quasi ogni giorno, si producessero moti ineguali e simili ai rivolgimenti celesti e quella sfera nel suo volgersi facesse sì che non solo il sole si avvicinasse e si ritirasse o la luna crescesse o calasse, ma anche il corso delle stelle fisse e dei pianeti fosse ineguale: Dio non poté immaginare e mandare ad effetto quei fenomeni, nella loro realtà, che l'ingegno di un uomo riuscì a riprodurre imitando?>> [«An Archimedes Siculus concavo aere similirudinem mundi ac fìguram potuir machinari, in quo ira solem lunamque composuit, ut inaequales morus et caelestibus similes conversionibus singulis quasi diebus efficerent et non modo accessus solis ac recessus ve! incrementa deminurionesque lunae, verum etiam srellarum ve! inerranrium ve! vagarum dispares cursus orbis ille dum vertirur exhiberet, deus ergo illa vera non poruit machinari et effìcere quae poruit sol!ertia hominis imitatione simulare?>>]. 'S· Cic. nat. deor. n, 88: «Quod si in Scythiam aut in Brittanniam sphaeram aliquis rulerit han c quam nuper familiaris noster effecit Posidonius, cuius singulae conversiones idem effìciunt in sole et in luna et in quinque stellis errantibus quod effìcirur in caelo singulis diebus et noctibus etc.>>. 16. Wright (2.0osa); vedi anche la ricostruzione di Freeth et al. (2.0o6). 2.0

l. LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

FIGURA 1.2.

Frammento del meccanismo di Anticitera (I sec. a.C. ca.); Atene, Museo Archeologico Nazionale

mento dei pianeti su uno dei quadranti, pare accertato che lo strumento si riferisca a un periodo successivo all'87 a.C.' 7• Rispetto al planetario di Archimede, che tanta ammirazione avrebbe suscitato, il meccanismo di Anticitera proponeva soluzioni molto più innovative e, come è stato sottolineato da Michael T. Wright, è probabile che non si trattasse di un pezzo unico, ma semplicemente del «solo sopravvissuto di una lunga tradizione costruttiva di complicati strumenti meccanici dell'antichità»' 8 • La complessità dell'ingranaggio a differenziale, paragonabile ai congegni che saranno costruiti solo a partire dalla seconda metà del XVI secolo, mette bene in evidenza il livello di avanzamento dei costruttori greci di strumenti meccanici e, nello stesso tempo, la rapidità dei Romani nell'appropriarsi dell'innovazione tecnologica prodotta altrove. 17. La datazione è stata proposta nel saggio di De Solla Price (1974). 18. Wright (2.0osb. p. lllechanism.gr/.

2.43).

Sul meccanismo si veda anche il sito http:/ /www.antikythera-

2.1

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

A riprova dell'importanza di questo tipo di strumenti, occorre sottolineare che l'espansione militare non era per i Romani la semplice occupazione di un territorio dai confini imprecisati, ma l'effetto- tra le altre cose- di un' accurata ricognizione delle loro coordinate geografiche, realizzata attraverso una conoscenza approfondita delle geometria applicata' 9• Del resto, nello sviluppare questa disciplina, essi non fecero altro che applicare le conoscenze acquisite nell'agrimensura, dove perfezionarono, con l'introduzione della groma o squadro agrimensorio, gli strumenti utilizzati dagli Egizi. A questo proposito è utile riportate la testimonianza di Cicerone, che per giustificare l'inferiorità dei Romani nella geometria astratta così scriveva: Presso i Greci era tenuta in grandissimo onore la geometria, e perciò nulla brillò più delle scienze matematiche; noi invece abbiamo assegnato a quest'arte solo la funzione utilitaristica della misura e del calcolo 10•

Questa distinzione non costituiva una ragione per compiangere o criticare i propri concittadini. Anzi, tutt'altro: Sono sempre stato convinto che in ogni campo i Romani o hanno dimostrato maggior sapienza inventiva dei Greci o hanno saputo perfezionare quanto avevano da loro appreso''.

Come Vegezio aveva modo di ricordare ancora nel romano era tenuto a:

IV

secolo d.C., il generale

In primo luogo possedere le descrizioni complete di tutte le regioni in cui si svolge la guerra, così da conoscere esattamente le distanze tra i luoghi non solo nel numero delle miglia ma anche nella qualità delle strade [... ].E ciò a tal punto che si dice che i generali più scrupolosi degli itinerari delle province [itineraria provinciarum], in cui si presentava lo stato d'allerta, possedessero non solo le descrizioni [adnotata] ma anche le mappe fpicta], affinché potessero individuare la via da percorrere sulla base dell'osservazione indiretta".

19. Su questo tema si veda Nicolet (1989).

Cic. Tusc. I, s: «In summo apud illos [sciL Graecos] honore geometria fui t, itaque nihil mathematicis inlustrius; at nos metiendi ratiocinandique urilitate huius artis terminavimus modum». 21. Cic. Tusc. I, 1: «Sed meum semper iudicium fui t omnia nostros aut invenisse per se sapiemius quam Graecos aut accepta ab illis fecisse meliora». 22. Veg. mi/. III, 6,4: «Primum itineraria omnium regionum, in quibus bellum geritur, pienissime deber habere perscripta, ira ut locorum intervalla non solum passuum numero sed 20.

22

I.

LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

E certamente la precisione di questi itinerari non si poteva ottenere senza ricorrere a un apprendistato scientifico, che contemplasse l'approfondita conoscenza della geometria. Nel 44· a.C., al culmine della sua fama e poco prima di essere assassinato, Cesare aveva concepito il progetto di una ricognizione geografica dell'Impero, che mettesse ordine nell'enorme quantità di informazioni e nozioni raccolte durante le vittoriose campagne militari. Questo ambizioso progetto fu parzialmente realizzato da Marco Vipsanio Agrippa (63-rl a.C.) (cfr. FIG. 1.3), che scrisse numerose opere di geografia oggi andate perdute e tracciò una celeberrima carta geografica dell'Impero, di forma circolare, la cui fama fu tale che Augusto l'avrebbe fatta incidere nel marmo (Sarton, 1959, vol. 11, pp. 430-I). E, se queste erano le realizzazioni memorabili dei capi di Roma, è del tutto probabile che mappe, peripli, globi e itineraria venissero comunemente utilizzati nel fiorente commercio marittimo. Echi di questa diffusa conoscenza si trovano nella Geografia di Strabone, un'opera forse composta sotto l'impero di Tiberio e comunque non lontano dalle vicende che ci riguardano. Combinando gli strumenti e le nozioni scientifiche acquisiti dai Greci con le conoscenze tecniche ed empiriche che si andavano accumulando con l' intensificarsi degli scambi commerciali e il costante allargamento dei confini, i naturalisti romani misero in mostra una progressiva padronanza della tradizione scientifica ellenistica e, soprattutto, rivelarono una non comune capacità di adattarne le nozioni alle esigenze pratiche dello Stato. Si è spesso ipotizzato che le conoscenze dei Romani in fatto di geografia matematica fossero nettamente inferiori rispetto a quanto veniva insegnato presso la scuola di Alessandria. A sostegno di tale opinione si è fatto sovente riferimento alle difficoltà incontrate da Cicerone (cfr. FIG. 1.4) nel portare a termine, intorno al 59 a.C., il suo trattato Degeographia, un commento all'opera dell'astronomo ed erudito Eratostene, la massima autorità in materia. Scrivendo ad Attico, Cicerone ammetteva infatti: In realtà il trattato di geografia che avevo progettato di comporre è un lavoro impegnativo. Eratostene, che mi ero riproposto di seguire, viene attaccato da Serapione e da Ipparco. Cosa pensi che succeda se si aggiungerà anche Tirannione?lJ E, per Ercole!,

etiam viarum qualitate perdiscat, [... ] usque eo, ut sollertiores duces itineraria provinciarum, in quibus necessitas gerebatur, non tantum adnotata sed etiam picta habuisse fìrmentur, ut non solum consilio mentis verum aspectu oculorum viam profecturus eligeret». 2.3. Serapione di Antiochia aveva scritto nel II secolo a.C. un trattato di geografia matematica, oggi perduto, di cui Cicerone aveva avuto una copia da Attico nell'aprile del S9 a.C.; Ippar23

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

FIGURA I.3

Busto marmoreo di Marco Vipsanio Agrippa (I sec. d.C.); Mosca, Museo Pu§k.in

FIGURA I.4

Busto di Cicerone. Copia da originale realizzata alla fine del Settecento da Berrei Thorvaldsen; Copenhagen, Thorvaldsens Museum

l. LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

sono concetti difficili a spiegarsi, non adatti a essere esposti con stile fiorito, come mi pareva' 4 •

Il passo di Cicerone ci deve spingere, a mio avviso, a considerare il livello delle conoscenze dei Romani in questo campo in modo meno sbrigativo. Si rimane stupiti, in effetti, del fatto che un politico di primo piano come Cicerone, immerso com'era negli studi di eloquenza, oratoria e filosofia, fosse in grado di leggere e dominare, pur con qualche comprensibile difficoltà, trattati matematici certamente sofisticati dal punto di vista dei calcoli, quali dovevano essere quelli di Eratostene e dei suoi commentatori. Il solo fatto che Cicerone fosse in grado di leggerli, comprendendone il contenuto, costituisce una preziosissima testimonianza del grande interesse che gli eruditi romani nutrivano in quel periodo per le scienze esatte e non solo per la filosofia e l'eloquenza. Del resto, Cicerone non è certo la sola autorità a darci una diretta indicazione di questa tendenza culturale. Oltre a preoccuparsi della misurazione precisa dell'estensione dei confini di Roma, Cesare (cfr. FIG. 1.5) affidò all'astronomo greco o egiziano Sosigenes l'incarico di risolvere il problema relativo alla sfasatura tra il calendario ufficiale e quello astronomico. Diversamente dai Greci, i Romani non avevano mai prestato grande attenzione all'astronomia, tanto che la Lex Acilia, promulgata nel I9I a.C., attribuiva ai soli pontefici il compito di risolvere il problema dei giorni intercalari. Plinio (nat. VII, 2.12) stigmatizza il ritardo con il quale era stata introdotta a Roma l'invenzione di Anassimene, che consisteva nel suddividere la giornata in ore sulla base dello gnomone, sottolineando come le leggi delle Dodici Tavole parlassero solo di alba e tramonto. Poco più avanti, Plinio data l'introduzione a Roma delle prime meridiane solari al2.93 a.C. e del primo orologio ad acqua, utilizzato dagli Egizi da oltre un millennio, al I59 a.C.: per così lungo tempo il popolo romano visse senza distinguere le ore del giorno!' 6

co fu uno dei principali astronomi e matematici di epoca ellenistica (II secolo a.C.), ma la sua opera geografica è andata parimenti perdura; Tirannione fu condono a Roma da Lucullo nel66 a.C., ma il suo contributo alla geografia matematica non è altrimenti noto: nella Vita di Lucullo (19, 9), Plurarco parla di lui ricordandone esclusivamente i meriti di grammatico. 24. Cic. Att. II, 6,1: «Etenim yEwypaqmcèt guae consrirueram magnum opus est. Ira valde Eratosrhenes, quem mihi proposueram, a Serapione er ab Hipparcho reprehendirur. Quid censes si Tyrannio accesserir? Et hercule sunr res diffìciles ad explicandum er ÒfWEtOEiç nec ram possunr liv6Y]poypa>. 25. Sull'origine di Sosigene si veda Sarron (1959, vol. Il, p. 322). Sui calendari nel mondo amico vedi Lehoux (2007 ): sugli almanacchi vedi Taub (2003, pp. 171 ss.). 26. Plin. nat. VII, 215: «Tam diu populo Romano indiscreta lux fuit>>.

2.5

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

FIGURA I.S

Busto di marmo di Giulio Cesare; Napoli, Museo Archeologico Nazionale

Ai tempi di Cesare la situazione non era migliorata di molto: la discrepanza tra il calendario religioso e quello astronomico era tale che le celebrazioni primaverili dei Floralia venivano festeggiate in piena estate. Interessante a questo riguardo è la testimonianza di Svetonio: Per colpa dei pontefici, che avevano abusato dei giorni da intercalare, si era determinato un tale disordine che le feste della mietitura non cadevano più in estate e quelle della vendemmia in autunnol 7•

Al di là però della pressante necessità di mettere ordine nel calendario, le condizioni delle discipline scientifiche a Roma ali' epoca di Cesare erano profondamente mutate e offrivano la possibilità di risolvere numerosi problemi che da tempo condizionavano negativamente il regolare decorso delle attività pubbliche della capitale. Così nel 46 a.C., alla fìne della guerra civile, Cesare fu in grado di promulgare un calendario astronomico, regolato secondo il corso del sole, che prevedeva ogni quattro anni un giorno intercalare da aggiungere ai canonici 365. L'anno venne suddiviso in dodici mesi, ma, al fìne di sovrapporre l?. Suec.Jul. 40: «Conversus hinc ad ordinandum rei publicae statum fastos correxir iam pridem virio pomifìcum per incercalandi licenriam adeo turbatos, ur neque messium feriae aestate n eque vindemiarum autumno competerenr ».

2.6

I.

LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

il calendario religioso a quello astronomico, tra gli ultimi due mesi dell'anno 46 furono aggiunti 67 giorni, che si andavano così a sommare ai 2.3 giorni intercalari già precedentemente inseriti a febbraio. L'an nus confusionis era stato così allungato fino a raggiungere un totale di 4SS giorni: questo espediente tecnico consentì a Cesare di dare inizio al nuovo calendario, nel4s, allineando il tempo di Roma ai dati più rigorosi dell'osservazione astronomica 28 • Per comprendere l'importanza di questa innovazione, vale la pena di ricordare che solo nel 1582. il calendario giuliano sarebbe stato riformato e sostituito con quello gregoriano, grazie all'opera dell'astronomo Luigi Lilio. Lontani erano i tempi nei quali i Romani ignoravano le scienze esatte. Nell'anno di introduzione del calendario, infatti, lo stesso Cesare pubblicava un'opera intitolata De astris, nella quale, basandosi sulle osservazioni astronomiche contenute nei Fenomeni di Arato, veniva offerto un almanacco sulle stagioni propizie alla coltivazione. Quest'opera, oggi perduta, dovette avere una notevole influenza, tanto che ancora nel VI secolo d.C. veniva considerata come una fonte autorevole e affidabile. Ad ogni modo, più ancora che per la pubblicazione di opere scientifiche di cui nulla sappiamo, l'importanza di Cesare per la storia della scienza romana risiede nel provvedimento legislativo, registrato da Svetonio, che consentì di ottenere la cittadinanza a tutti coloro che professavano la medicina e le arti liberali 2 9. Attraverso questo decreto, Cesare sperava evidentemente di attrarre a Roma un numero crescente di scienziati e di tecnici. Sulla base delle fonti greche e latine, collocabili cronologicamente nel I secolo a.C., che vengono citate nel primo libro dellaNaturalis historia di Plinio il Vecchio, sembra che il provvedimento avesse effettivamente comportato un rapido incremento di opere scientifiche e naturalistiche, facendo così di Roma un centro culturale che, per la prima volta, poteva rivaleggiare con le città greche. Al di là però degli effetti quantitativi, senza dubbio importanti, il significato di questa concessione risiede principalmente nel radicale cambiamento promosso da Cesare nei confronti di quella diffusa concezione che, da Catone a Cicerone, guardava ancora alle tecniche e alla medicina come a professioni soggette all'immorale ricerca del profitto e dell'utile. Se si considera poi che, in non pochi casi, i medici e pedagoghi romani erano liberti, se ne dovrà concludere che la possibilità di emancipazione offerta da Cesare rappresentò uno strumen-

2.8. Sulle origini del nuovo calendario si veda Feeney (lO o?). 2.9. Suet. lui. 42.: «Omnisque medicinam Romae professos et liberalium artium doctores,

quo libentius et ipsi urbem incolerent et ceteri adpeterent, civitate donavi t [scii. Caesar] >>.

2.7

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

to effìcacissimo che, facendo leva sulla cultura scientifica, promuoveva una notevole mobilità sociale. L'interesse di Cesare per le scienze non rappresentava certo un'eccezione, tanto è vero che anche il suo più acerrimo nemico, Pompeo Magno, non volle essere da meno: i suoi interessi riguardarono però soprattutto la storia naturale e la medicina. A quanto ci dice Plinio (nat. XXVI, 12), Pompeo aveva compiuto i suoi studi di eloquenza sotto la guida del celebre medico (forse seguace dell'atomismo epicureo) Asclepiade di Bitinia, che, giunto a Roma nel91 a.C., aveva proposto una radicale riforma della medicina, basata su rimedi semplici ma in alcuni casi assai singolari e a volte frammisti di nozioni tratte dalla tradizione magical 0 , È probabile che Pompeo avesse appreso proprio da Asclepiade il suo interesse per la medicina e la farmacologia 3'. Celebre è l 'episodio, raccontato a più riprese da Plinio (cfr. nat. XXIII, 149 ), secondo il quale Pompeo, dopo aver sconfitto Mitridate ( 63 a.C.), si sarebbe dedicato alla ricerca di un antidotario universale (il Mithridatium antidoto n) nei suoi archivi segreti: [Mitridate] nutriva dunque, fra gli interessi in cui si esplicò la grandezza del suo ingegno, una particolare passione per la medicina, e cercava di ricavare delle conoscenze in tale ambito da ciascuno dei popoli a lui soggetti (che occupavano gran parte del mondo): lasciò così, fra i suoi oggetti privati, uno scrigno contenente i resoconti delle sue ricerche su questo argomento, con insieme delle ricette e la descrizione degli effetti dei farmaci. Pompeo in seguito, impadronitosi di tutto il tesoro del re, fece tradurre quegli scritti in latino dal suo liberto Leneo, che era un letterato, arrecando in tal modo alla vita degli uomini un beneficio non minore di quello procurato, con la sua vittoria, allo Stato 3'.

Anche Cesare, del resto, non rimase insensibile al fascino della medicina e della magia. Nel De bello Gallico egli introduce infatti il lettore romano, pur non 3o. Contrario ai salassi e ad altre cure invasive, fu Asclepiade a estendere le cure termali e il movirnento a tutte le parologie e a raccomandare il vino quale potente curativo. Il medico greco fu anche uno tra i primi a suggerire la musica come efficace strumento terapico. Originale interprete dell'atomismo, sembra abbia subìto, nella sua opera medica, l'influsso di Epicuro. 31. Asclepiade fu anche maestro di Cicerone e alcuni interpreti di Lucrezio hanno trovato echi della sua opera medica nel De rerum natura. Torno sull'opera di Asclepiade e i suoi problematici rapporti con l'epicureismo nel CAP. 2.. 32.. Pii n. nat. xxv, 7: « Is ergo in reliqua in geni magnitudine medicinae peculiariter curiosus et ab omnibus subiectis, qui fu ere magna pars terrarum, singula exquirens scrinium commentationurn harum et exemplaria effectusque in arcanis suis reliquit, Pompeius autem omni praeda regia potitus transferre ea sermone nostro libertum suum Lenaeum grammaticae artis iussit vitaeque ita profuit non minus quam reipublicae victoria illa». 2.8

I.

LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

senza manifestare un certo scetticismo, ai misteri che aveva appreso dai druidi e alle proprietà magiche delle piante, un settore della botanica che dai tempi dei sacerdoti Egizi aveva esercitato un'ininterrotta influenza anche sugli autori greci (cfr. Caes. Gall VI, 13). Cicerone, per parte sua, esalta le doti divinatorie di un druido il quale dichiarava che gli era nota la scienza della natura, chiamata dai Greci physiologia, e in parte con gli auguri, in parte con l'interpretazione dei sogni, diceva il futuro H.

Anche lo sviluppo dell'agricoltura romana e l'arricchimento delle conoscenze botaniche sono da annoverare tra gli effetti dell'espansione militare; così, ad esempio, Plinio osserva: in Italia i ciliegi non esistevano prima della vittoria mitridatica di Lucio Lucullo, che risale al68o dalla fondazione di Roma [74 a.C.]. Egli li importò per primo dal Ponto e in 12.0 anni, passato l'oceano, sono giunti fino in Britannial4.

Naturalmente non furono solo i ciliegi a essere introdotti nel territorio romano: tutto quanto proveniva dalle colonie dell'Impero doveva trovare posto a Roma e fare dell'Urbe non solo il centro delle terre conquistate, ma anche una sorta di microcosmo che ne sintetizzasse il mondo naturale (Rucledge, 2012). Allo stesso modo i metodi di coltivazione fecero registrare importanti progressi tecnici, probabilmente sollecitati dall'esigenza di assicurare approvvigionamenti sufficienti a sfamare una popolazione in costante aumento. Plinio decanta l'invenzione- avvenuta 100 anni prima rispetto al momento in cui scrive (dunque, intorno al3o a.C.)- di torchi con un albero centrale scanalato aspirale per la pigiatura dell'uva e, nel passare in rassegna i numerosi vini prodotti nella penisola, non può fare a meno di registrare gli enormi progressi ottenuti sia nei metodi di vinifìcazione, sia nella produzione di nuove varietà di vitigni (Plin. nat. XVIII, 317 ). Questi progressi erano dovuti in misura non piccola al raffinarsi delle conoscenze delle proprietà chimiche dei prodotti organici e, con ogni probabilità, all' individuazione delle fasi relative alla fermentazione alcolica, seguite dall'introduzione della distillazione, un'operazione già molto diffusa ai tempi di Plinio. 33· Cic. div. I, 90: «narurae rationem, guam q,uO"toÀoy(av Graeci appellane, notam esse sibi profitebarur et parti m auguriis, parti m coniectura, guae esse m futura, dicebat etc.». 34· Plin. nat. xv, 102.: «Cerasi ante vicroriam Mithridaticam L. Luculli non fuere in Italia, ad urbis annum DCLXXX. Is primum invexit e Pomo, annisgue cxx trans oceanum in Britanniam usgue pervenere».

29

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

!.3 Le discipline scientifiche La presenza delle discipline scientifiche a Roma è un dato attestato da numerose fonti e fu proprio nel 1 secolo a.C. che la loro tendenza a istituzionalizzarsi assunse contorni progressivamente più precisi. Il primo autore a porsi il problema della classificazione del sapere fu Varrone, che scrisse un'opera appunto intitolata Disciplinarum libri IX. Di questo trattato, come del resto di quasi tutta la produzione varroniana, sono conservati solo dei frammenti, dai quali si evince un'ampia e analitica trattazione delle arti: grammatica, dialettica, geometria, aritmetica, astrologia, musica, medicina. Benché si dovesse trattare di un compendio manualistico, propedeutico ai contenuti delle discipline che cominciavano a essere oggetto di insegnamento, i frammenti superstiti rivelano come l'interesse verso le scienze naturali si fosse diffuso a Roma a tal punto da richiedere un'organizzazione capace di soddisfare un nuovo pubblico di lettori. È in effetti difficile credere che eruditi come Varrone, e dopo di lui Celso, si dedicassero allo studio delle scienze e delle arti, se non ci fosse stata una comunità di studiosi e di studenti che a vario titolo fossero interessati ad avere a loro disposizione dei compendi dedicati ali' indagine del mondo naturale. All'interno dell'ingente produzione varroniana, sono inoltre attestati i ticoli di alcune opere interessanti, come De litoralibus, De ora marittima, Ephemeris navalis, De aestuariis1S, Mensuralia (sui sistemi di misura), Atticus sive de numeris (probabilmente un trattato di aritmetica), De principiis numerorum, De natura rerum e le monumentali Antiquitates, che nella sezione dedicata alle res humanae offrivano una storia della civiltà che doveva comprendere anche ampi resoconti sullo sviluppo delle scienze e delle tecniche. Si tratta di ulteriori conferme a proposito della progressiva importanza assunta da temi e opere a carattere scientifico. Come viene apertamente riconosciuto da Plinio nel primo libro della sua Naturalis historia, le opere di Varrone costituivano una delle principali fonti da cui attingere affidabili informazioni storiche e naturalistiche. Del resto, Varrone aveva fama di essere uno dei più grandi eruditi del suo tempo e non è certo un caso che Cesare gli avesse affidato il compito di istituire a Roma una grande biblioteca pubblica. Lo stesso Plinio ricorda che

3S· Si trana di un'opera dedicata alle maree e, più in generale, ai movimenti del mare: cfr. Varro /ing. IX, l6.

30

1. LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

la statua di Varrone, unico fra i viventi, fu posta nella prima biblioteca pubblica del mondo, quella che fu aperta a Roma da Asini o Polli o ne coi proventi del bottino di guerral 6 •

Che Varrone avesse delle competenze probabilmente superiori a quelle manifestate da Plinio può essere evinco dalle opere parzialmente superstiti, il De lingua latina e il De re rustica, dove a più riprese egli mostra di dominare diverse discipline scientifiche senza cadere nel dilettantismo che frequentemente emerge nell'opera dell'erudito comasco. Nel De re rustica, in effetti, Varrone non solo domina la letteratura greca e latina, ma anche affronta con sistematicità e rigore un tema- quello dell'agricoltura- divenuto ormai tipico della letteratura tecnica latina, sottolineando non senza orgoglio i progressi realizzati rispetto ai tempi di Catone e distinguendo con precisione le proprie osservazioni dalle opinioni delle auctoritates e dalle nozioni apprese direttamente dai tecnici 37• Al di là però del contenuto specifico delle opere di Varrone, ciò che è importante sottolineare in questa sede sono i frequenti rimandi a specifiche categorie di scienziati. Astrologi, astronomi, matematici, geometri, medici, tecnici e naturalisti sono frequentemente citati come tipologie ben distinte di intellettuali: si tratta di un segno evidente della presenza a Roma di una variegata comunità di scrittori di argomenti tecnico-scientifici. Anche Cicerone riconobbe, non senza qualche preoccupazione, il proliferare delle discipline: Quasi tutte le nozioni, che ora costituiscono le arti, un tempo erano sparpagliate e disperse: così i ritmi, i toni e le melodie nella musica; le linee, le figure, le dimensioni, le grandezze nella geometria; la rotazione del cielo, il sorgere, il tramontare e il moto delle stelle nel!' astronomia; l'interpretazione dei poeti, la conoscenza della storia, la spiegazione delle parole, la fonetica nella grammatica 38 •

La sistemazione di queste nozioni avveniva attraverso la pubblicazione di manuali e compendi che, sul modello di quelli prodotti dai Greci durante l'età ellenistica, avevano invaso il mercato librario di Roma. 36. Plin. nat. VII, us: «M. Varronis in bibliotheca, quae prima in orbe ab Asinio Pollione ex manubiis publicata Romae est, unius viventis posita imago est etc.». 37· Cfr. Varro rust. I, 1. L'autorità di Varrone in questa materia fu tale che molti brani della sua opera continuarono ad essere escerptati fino alla tarda antichità anche da autori greci; cfr. L 'agricoltura antica (2.010, vol. I, pp. LXVII-LXVIII). 38. Cic. de or. I, 187: «Omnia fere quae sunt conclusa nunc artibus, dispersa et dissipata quondam fuerunt; ut in musicis numeri et voces et modi; in geometria liniamenta, formae, intervalla, magnitudines; in astrologia cadi conversio, ortus, obitus motusque siderum; in grammaticis poetarum pertractatio, historiarum cognitio, verborum interpretatio, pronuntiandi quidam sonus».

31

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Le discipline scientifiche classiche, quelle cioè che potevano contare su di una tradizione greca, non erano però le sole a esercitare una feconda influenza sul mondo latino del I secolo a.C. Interessante a questo proposito si rivela la figura di Nigidio Figulo, un filosofo e naturalista sui generis che fu contemporaneo di Varrone e, secondo Aula Gellio (Iv, r6, r), gli avrebbe conteso il primato di più dotto tra i Romani. Amico di Cicerone e morto in esilio nel 45 a.C., Nigidio aveva pubblicato un notevole numero di opere, molte delle quali dedicate alle scienze più varie. Come Varrone e Cicerone, anche Nigidio era una figura pubblica di una certa importanza e la sua autorevolezza e influenza è attestata dai numerosi riferimenti che Plinio gli riserva nella Naturalis historia. Della vita e degli interessi di Nigidio ci rimane la preziosa testimonianza di Cicerone, che, nel commento al Timeo di Platone, rievocando le comuni discussioni accademiche contra physicos, sottolinea che quest'uomo illustre era non solo adorno di tutte quelle virtù che si addicono a un uomo libero, ma anche acuto e attento indagatore dei misteri della natura; anzi penso che, dopo quei famosi filosofi pitagorici, dei quali la dottrina era estinta dopo che si era affermata per alcuni secoli in Italia e in Sicilia, sia stato proprio lui a restaurarla 39 •

La combinazione di interessi naturalisti ci con il tentativo di restaurare la Hl osofica pitagorica facevano di Nigidio una personalità di altissimo prestigio culturale, tanto che Macrobio (Sat. m, r6, 7) lo considerava maximus rerum naturalium indagator e Aula Gellio lo ritrae come il più dotto della città di Roma 40 • Tuttavia, la rivalutazione del pitagorismo doveva aver sollevato non poche controversie, se si considera che nel28 a.C. un sostenitore convinto di questa riscoperta, il naturalista greco Anassilao di Larissa, venne espulso da Roma 41 • I pochi frammenti che ci rimangono della vita e delle opere di Nigidio non ci permettono di comprendere appieno i motivi della sua fama. Sulla base di quello che ci è rimasto, possiamo dire che egli si occupò di problemi che, pur essendo solo indirettamente legati alla classificazione del sapere naturalistico proposta da Varrone, presupponevano tuttavia l'introduzione di nuove discipline che - proprio in alternativa al modello greco - risultavano capaci di riscuotere l'interesse dei Romani. Magia, astrologia, aruspicina, divinazione e

39· Per questa testimonianza cfr. Liuzzi (1983, p. 2.1). L'edizione delle opere di Nigidio è quella curata da Anton Swoboda: Nigidio Figulo (1964). 40. Geli. XVII, 7, 4 (civitatis Romanae doctissimus); cfr. anche IV, 16, 1, dove Nigidio e Varrone vengono definiti i più dotti tra tutti i Romani. 41. Sul neopitagorismo a Roma cfr. Grant (1952., pp. 61 ss.).

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I. LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA Al TEMPI DI LUCREZIO

altre discipline radicare nella tradizione del sapere orientale ed egizio costituiscono l'orizzonte culturale dell'opera di Nigidio. I titoli delle opere superstiti sono De augurio privato, De extis, De somniis, Ephemeros brontoskopia, De diis, De sphaera Graecanica (la cui fonte principale doveva essere costituita dal poema I fenomeni di Arato), De sphaera barbarica (le cui fonti erano di origine orientale), De vento, De terris, De animalibus, De hominum naturalibus. Si tratta, come è evidente, di una produzione composita, che spazia dalle opere di astrologia a quelle di divinazione, geografia, medicina e zoologia. Ancora un secolo dopo la loro pubblicazione, le opere di Nigidio esercitavano una notevole influenza, tanto che Plinio, in numerose sezioni e capitoli della Naturalis historia, sembra dipendervi totalmente 42 • In alcuni casi siamo in grado di avere, oltre al titolo, anche qualche indizio sul contenuto. Il calendario brontoscopico (Ephemeros brontoskopia ), per esempio, riprendeva la scienza augurale degli Etruschi, che, vedendo nei tuoni le manifestazioni della divinità, ne avevano approntato una complessa classificazione. Per contro le opere astrologiche attingevano alla trattatistica greca e orientale, mescolandovi però anche elementi che sembrano elaborazioni originali di Nigidio. Del resto, che l'astrologia godesse la fama di essere una vera e propria scienza, fondata come tale su criteri osservativi rigorosi, è attestato anche da Cicerone, che così si esprime a proposito della metodologia in essa adottata: Le profezie ricavate dalle viscere, dai fulmini, dai portenti, dagli astri si basano sulla registrazione di osservazioni costanti; e in ogni campo la lunga durata, accompagnata da lunga osservazione, ci procura straordinarie conoscenze 43 •

Sottolineando la fondamentale importanza dell'osservazione sistematica e costante, il passo di Cicerone rivela un tratto empirico della scienza a lui contemporanea che era forse meno dipendente dalla tradizione libresca di quanto normalmente si affermi. Queste osservazioni mostrano dunque come nella Roma del I secolo a.C., accanto alle tradizionali discipline scientifiche riconosciute dai Greci, esistesse anche una corrente di studi naturalistici imperniata sulla tradizione magica di

42.. Per esempio nel capitolo VI, 39. dedicato alla geografia astrologica. Ma si veda, ad esempio, anche il capitolo VII, 14. 43· Cic. div. I, 109: «Quae enim extis, guae fulgoribus, guae portentis, quae astris praesentiuntur, haec notata sunt observatione diuturna. Adfert autem vetustas omnibus in rebus longinqua observatione incredibilem scientiam >>.

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

provenienza orientale ed egizia. Occorre fare almeno un cenno, a tale proposito, ali' importanza assunta in questo periodo dali' alchimia, un'arte imparentata con tecniche che proprio nel I secolo a.C. avevano raggiunto, come vedremo più avanti, straordinari risultati. Ancora una volta ci può essere d'aiuto la testimonianza di Plinio, che, chiudendo il capitolo dedicato all'introduzione della soffìatura del vetro, osservava: Siamo colti da stupore, al pensiero che non c'è quasi nessun risultato che possa essere raggiunto senza l'ausilio del fuoco. Il fuoco prende le sabbie: e da queste produce da una vetro, da un'altra argento, da un'altra minio, da un'altra le varie specie di piombo, da un'altra coloranti, da un'altra medicamenti. Col fuoco le pietre si sciolgono in rame, col fuoco si produce e si lavora il ferro, col fuoco si raffina l'oro, nel fuoco bruciano i sassi che fanno stare assieme le pietre delle case. Alcuni materiali è opportuno farli bruciare più volte, e lo stesso materiale fornisce un prodotto alla prima combustione, un altro alla seconda, un altro alla terza, e quando è ridotto a carbone, proprio allora comincia, ormai spento, ad avere più forza, e quando lo si crede perito, diventa di maggiore efficacia. Il fuoco è un elemento della natura smisurato, senza legge, un elemento per cui si sta in dubbio se sia maggiore il suo effetto distruttivo o quello costruttivo 44 •

Il lungo elenco delle proprietà del fuoco e la consapevolezza manifestata da Plinio di come, grazie al sapiente uso di questo elemento, si possa trasformare la materia a piacimento, non è - come si è voluto spesso intendere - una semplice eco della fìlosofìa eradi te a, bensì un tentativo di collocare l'arte vetraria in un ambito disciplinare che, l ungi dali' identificarsi con il semplice artigianato, è piuttosto riconducibile a quello delineato in alcuni commentarii dedicati all'alchimia, dei quali Plinio omette di menzionare gli autori.

1.4

La professione e l'insegnamento La notevole diffusione, durante il I secolo a.C., di un interesse per le scienze naturali non poteva non avere effetti di notevole importanza anche sull'inse44· P!in. nat. XXXVI, l00-2.01: « [ ... ] succurrit mirari nihil paene non igni perfìci. Accipit harenas, ex quibus aliubi vitrum, aliubi argentum, aliubi minium, aliubi plumbi genera, aliubi pigmenta, aliubi medicamenta fundir. Igni lapides in aes solvuntur, igni ferrum gignitur ac domatur, igni aurum perficitur, igni cremato lapide caementa in tectis ligantur. Alia saepius uri prodest, eademque materia aliud gignit primis ignibus, aliud secundis, aliud tertiis, quando ipse carbo vires habere incipit restinctus atque interisse creditus maioris fìt virtutis.lnmensa, in proba rerum naturae portio et in qua dubium sit, plura absumat an pariat».

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l. LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

gnamento. Certamente anche in questo settore il modello greco costituiva la principale fonte di ispirazione, ma l'organizzazione e l'estensione dello Stato romano obbligavano ad alcuni importanti adattamenti. In primo luogo, la maggiore attenzione che i Romani sembravano avere per lo sviluppo delle tecniche e della arti li rendeva più inclini, rispetto ai Greci, a riconoscere a queste discipline una più elevata collocazione socio-culturale. È noto che Cicerone e Seneca, ricalcando i modelli greci, avevano manifestato un deciso disprezzo per le tecniche e, più generale, per tutte le arti che implicavano un interesse economico, rivendicando alla filosofia un ruolo di assoluto primato. Tuttavia anche queste nette prese di posizione non erano esenti da deroghe, tanto che, riprendendo un tema caro a Posidonio, il progresso della civiltà veniva ormai unanimemente riconosciuto come l'effetto delle innovazioni introdotte nelle arti e nelle tecniche. L'influenza del secondo stoicismo, e in modo particolare di Posidonio, sull' intellighenzia romana sembrava aver forgiato quella che è stata giustamente definita una filosofia operativa, tesa a cancellare le antiche gerarchie del sapere e più sensibile alla valorizzazione teorica delle tecniche. Il ruolo esercitato da Posidonio (cfr. FIG. 1.6) nella formazione a Roma di un nuovo assetto disciplinare del sapere scientifico fu indubbiamente rilevante. Filosofo stoico e scienziato di primo piano, Posidonio visse nella capitale negli anni 87-86 a.C. ed ebbe tra i suoi allievi personaggi di primo piano come Cicerone (nel 78 a.C.) e Pompeo Magno (nel 67 e nel 6l a.C.) e, tra i geografi, Strabone. La sua classificazione delle scienze costituiva una decisa correzione della tradizionale separazione tra filosofia e saperi tecnici, trasmessa da quasi tutte le scuole filosofiche precedenti. Facendo riferimento polemico a questo ripensamento, Seneca illustra la posizione di Posidonio in questi termini: Secondo Posidonio, le arti si dividono in quattro generi: quelle comuni ed umili, quelle che servono come passatempo, quelle per fanciulli e quelle liberali. Le arti comuni sono quelle tipiche degli artigiani, che vengono esercitate con le mani e che sono volte ad allestire i mezzi necessari per vivere[ ... ]. Per passatempo, invece, servono quelle che mirano al piacere degli occhi ed orecchie. Tra di esse si può annoverare quella di chi costruisce macchinari, quei congegni che si levano da soli, palchi che si innalzano senza rumore [... ].Le arti per fanciulli, invece, sono quelle che hanno qualcosa di simile con quelle arti liberali che i Greci chiamano egkuklious, mentre i nostri, appunto, liberali. [... ]Si sente dire: >. 52.. Suer. lui. 44: «Bibliothecas Graecas Latinasque quas maximas posset publicare data Marco Varroni cura comparandarum ac digerendarum>>. 42.

I. LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

biblioteche private messe insieme da diversi studiosi rendevano facilmente disponibile un ricco patrimonio di opere che, attraverso la prassi della copiatura, erano soggette a un'ampia circolazioneSJ (cfr. FIG. 1.7). È da segnalare a questo riguardo che nel I secolo a.C. presso la Villa dei Papiri di Ercolano, nella biblioteca allestita dall'epicureo Filodemo, esistevano diverse copie del trattato Sulla natura di Epicuro, forse la fonte principale del De rerum natura di Lucrezio. Le modalità attraverso le quali si diffuse e prosperò a Roma la prassi delle biblioteche private emergono chiaramente dalla lettura dell'epistolario di Cicerone. Sembra chiaro che l'accesso alle opere in esse conservate dovesse essere relativamente agevole, almeno per un gruppo ristretto di studiosi. Così sembra emergere, ad esempio, da un'osservazione di Plutarco nella Vita di

Lucullo (42, I): Merita un sentito elogio la cura da lui [scil Lucullo] posta nel metter su la biblioteca. Raccolse libri in grande quantità e libri scritti bene, di cui più ambìto era l'uso che il possesso, in quanto la sua biblioteca era aperta a tutti. I portici che la recingevano e le sale di studio accoglievano i Greci senza alcuna limitazione.

La qualità delle biblioteche romane del I secolo a.C. doveva essere, fin dali' inizio, piuttosto rilevante. Come è noto, a seguito della conquista di Atene n eli' 86 a.C., una parte della biblioteca di Aristotele, così come quella di Apelliconte, finirono nel bottino di guerra di Silla (Canfora, 2004, pp. 63 ss.), consentendo così a Roma di divenire in pochi anni uno dei maggiori centri di diffusione del!' aristotelismo. È impossibile sapere come fosse rappresentata, in queste biblioteche, la letteratura tecnica e scientifica, ma è ragionevole supporre che il modello di riferimento fosse la biblioteca di Alessandria, e che la classificazione delle discipline seguisse il complesso sistema di catalogazione introdotto da Callimaco. Non è tuttavia chiaro se, ali' interno di tale classificazione, la letteratura tecnica e scientifica (esclusa la medicina) occupasse una o più sezioni autonome o se, come sembra più probabile, i volumi relativi a queste discipline fossero collocati insieme a quelli della letteratura in prosa. Accanto alle biblioteche pubbliche e a quelle dei bibliomani, un tipo di collezione di libri che dovette essere abbastanza diffuso era quello che privilegiava i testi di una data scuola filosofica o, addirittura, di un filosofo in particolare. Un esempio di questo genere è rappresentato dalla celebre collezione di S3· Fedeli (1988); Dorandi (2007 ).

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

FIGURA

!.7

Resti della facciata della biblioteca del console romano Celso (135 d.C.); Efeso

papiri ercolanesi. Nella Villa dei Papiri di Ercolano, probabilmente appartenuta a Lucio Calpurnio Pisone Cesonino, suocero di Giulio Cesare e console nel s8 a.C.H, sono stati trovati 1.758 rotoli con testi, molti dei quali scientifici, appartenuti al filosofo epicureo Filodemo di Gadara. Tra questi papiri va segnalato il frammento di un'opera intitolata Sulla geometria (PHerc. Io6r) 11 , nella quale l'autore, Demetrio Lacone, seguace di Epicuro, critica alcuni assunti fondamentali della geometrica euclidea. Questo testo era certamente destinato agli studenti e agli adepti della scuola di Epicuro e la sua presenza nella villa ercolanese lascia credere che fosse utilizzato anche da Filodemo durante il suo insegnamento privato. Se la biblioteca costituiva il luogo di formazione per eccellenza, una volta acquisite le nozioni di base, gli antichi naturalisti non erano insensibili al richiamo dell'osservazione diretta. In astronomia, per esempio, l'uso di strumenti 54· In alternativa, anche Appio Claudio Pulcro, cognato di Lucullo e console nel38 a.C., è srato indicato come possibile proprietario della casa. ss. Su questo papiro, si veda la nota di Cristina Càndito in Lo Sardo (lOos, pp. lS9·6o).

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I. LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

come la diottra e la sfera armillare presupponeva un luogo privilegiato di osservazione. Certamente, gli osservatori astronomici erano già stati utilizzati dai Babilonesi e dagli Egizi, e dunque la loro presenza a Roma non costituiva, di per sé stessa, una novità; tuttavia, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, l'interesse manifestato dai Romani per l'osservazione del cielo assunse, da Cesare in poi, un'importanza i cui risvolti si riferivano più o meno direttamente ali' attività dello Stato. Svetonio narra ad esempio che Augusto, accompagnato da Agrippa, volle recarsi presso l'osservatorio dell'astrologo Teogene e verificare le sue divinazioni (Suet. Aug. 94). Sono inoltre sopravvissute fìno a noi le vestigia dello specularium della Villa Iovis, che Tiberio aveva fatto costruire sulla sommità di Capri per assecondare le ricerche astronomiche di Trasillo (Suet. Tib. 6s). La complessa struttura di questo osservatorio assolveva anche alla funzione di faro. Di dimensioni più contenute, ma di straordinario impatto scenografìco, era la volta celeste mobile voluta da Nerone nella sala esagonale della sua monumentale Domus aurea, un vero e proprio planetario di cui non si conoscono altri esempil 6• Se gli osservatori erano istituzioni antiche, occorre dare una diversa valutazione per la diffusione a Roma dei giardini botanici. Indubbiamente, i Babilonesi e gli Egizi erano celebri per i loro giardini e già O mero aveva celebrato le qualità dei medici egizi nel trarre rimedi farmaceutici dai principi attivi delle piante. Tuttavia, l'introduzione di horti botanici opportunamente costruiti per la coltivazione delle sole piante offìcinali sembra un contributo originale romano. Il solito Plinio fa riferimento a uno di questi si ti: lo, almeno, ho avuto la possibilità di osservare tutte le piante, eccetto pochissime, sfruttando la perizia di Antonio Castore, la massima autorità del nostro tempo in quel settore; ho infatti visitato il suo orticello, dove ne faceva crescere moltissime. Aveva superato i cento anni di vita e non sapeva che cosa fosse un malanno fisico 17•

Dunque i medici e i botanici romani esercitavano la propria professione coltivando e osservando le piante, non di rado esotiche, in giardini opportunamente creati per tale funzione. Un effetto di questa attenzione per il mondo natus6. La scoperta, relativamente recente (2oos), deve questa interpretazione all'archeologo Eugenio La Rocca, allora sovrintendente ai Beni culturali del Comune di Roma. Non mi sono note pubblicazioni in merito. S7· Plin. nat. xxv, 9: «Nobis certe, exceptis admodum paucis, contigit reliquas contemplaci scientia Antoni Castoris, cui summa auctoritas erat in ea arte nostro aevo, visendo hortulo eius, in quo plurimas alebat centesimum annum aetatis excedens, nullum corporis malum expertus ac ne aerate quidem memoria aut vigore concussis ».

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

rale si era manifestato negli erbari dei medici greci Crateva, Dionisio e Metrodoro, conosciuti a Roma nel I secolo a.C., i quali avevano «disegnato le figure delle piante» e indicato, per ciascuna immagine, le proprietà mediche (Plin. nat. xxv, 4). L'uso di illustrazioni botaniche, evidentemente piuttosto diffuso, stimolava il confronto del testo con la natura viva e un rapporto con l'osservazione diretta e la sua rappresentazione, di cui purtroppo non sappiamo quasi nulla (cfr. FIG. 1.8). Anche in ambito zoologico assistiamo a innovativi esperimenti. Plinio rammenta che nel primo I a.C. «Sergio Orata inventò i vivai di ostriche, nella sua villa a Baia», e che Licinio Murena lo seguì introducendo vivai «per tutti gli altri pesci» 58• L'interesse naturalistico per gli animali osservati e catturati durante le campagne militari del I secolo a.C. aveva naturalmente promosso la pubblicazione di opere zoologiche - di cui abbiamo testimonianza indiretta, al solito, nella Naturalis historia di Plinio - sul comportamento degli animali esotici in cattività e forse, oltre ai circhi e agli spettacoli, i Romani allestirono dei serragli per ospitarli ed esporli al pubblico. Anche il mondo minerale fu oggetto di studio e collezionismo. La presenza a Roma di numerose dattiloteche, ovvero di collezioni di gemme e minerali preziosi, è attestata ancora una volta da Plinio, che ci riferisce che il figliastro di Silla, Marco Emilio Scauro, aveva messo insieme una raccolta di minerali che nemmeno Pompeo Magno sarebbe riuscito a eguagliare e che solo Cesare, consacrando sei dattiloteche al tempio di Venere genitrice, fu capace di emulare (Plin. nat. XXXVII, u). Secondo Plinio, tale tipo di collezionismo era un ulteriore segno del lusso decadente che si stava diffondendo, come una pericolosa malattia, nella mentalità romana; e tuttavia egli non poteva fare a meno di riconoscere come, dall'esame delle gemme più rare, fosse possibile ricavare conoscenze preziose sui misteri più reconditi della materia, tanto che tutto il libro 37 della sua Naturalis historia costituisce il più esteso inventario intorno alle meravigliose proprietà chimiche, mediche e, in alcuni casi, anche ottiche delle pietre. La diffusione del collezionismo naturalistico, assai popolare nell'età di Cesare, contagiò anche l'imperatore Augusto, il quale, come ci racconta Svetonio, adornò le residenze campane dove amava ritirarsi non solo con statue e quadri, ma anche sB. Plin. nat. IX, !68-170: «Os[rearum vivaria primus omnium Sergius Ora[a inveni[ in Baiano ae[a[e L. Crassi orawris ame Marsicum bellum [... ]. Eadem ae[a[e prior Licinius Murena reliquorum piscium vivaria inveni[, cuius deinde exemplum nobili[as secura es[ Philippi, Hor[ensi>>.

1.

LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

FIGURA 1.8

Un arrista, ispirato da Epinoia e guidato da Dioscoride (a sinistra), dipinge un esemplare di mandragora. Codex medicus graecus r (512. d.C.); Vienna, Osterreichische Nationalbibliorhek

con oggetti curiosi per antichità e rarità, come sono i resti enormi di bestie mostruose scoperti a Capri e chiamati ossa dei giganti e armi degli eroi 59.

Queste collezioni non venivano esposte solo in luoghi privati, ma anche- come era costume tra i Greci- nei templi, dando vita a un tipo di collezionismo na59· Cf. Suet. Aug. 72.: «Et neptis quidem suae luliae, profuse ab ea extructa, etiam diruit ad solum, sua vero quamvis modica non ram sratuarum rabularumque picrarum ornaru quam xystis et nemoribus excoluit rebusque vetustate ac raritate norabilibus, qualia sunt Capreis immanium beluarum ferarumque membra praegrandia, quae dicuntur gigantum ossa, et arma heroum>>.

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

ruralisrico e religioso di cui la Chiesa cristiana si sarebbe successivamente appropriata. È dunque evidente come, a partire dalla rarda erà repubblicana, parallelamente all'espansione dei confini del dominio romano, andasse maturando l'esigenza di sistemare il sapere accumulato in luoghi specializzati, sia pubblici sia privati, che rispondevano a un diffuso interesse per la scienza della natura.

1.6 Le innovazioni tecnologiche Grazie all'ubicazione geografica di Roma, siruara in una zona ricca di fonrane naturali e risorse idriche abbondami, gli ingegneri e i naruralisri romani impararono assai presto a sfrurrare a proprio vanraggio le risorse a disposizione. La costruzione del primo grande acquedorro risale al 312 a.C., quando il censore Appio Claudio porrò l'acqua a Roma arrraverso un'opera di cui non sono n ore le cararrerisriche, ma che con ogni probabilità doveva limitarsi a una forma di canalizzazione sorrerranea delle acque correnti. Il primo acquedotto a conquistarsi la celebrità fu invece quello realizzato dal pretore Quinro Marcio negli anni 144-143 a.C. 60 , innalzato ricorrendo all'uso delle areare e in grado di offrire un'adduzione di acqua rale da soddisfare le esigenze idriche di una cirrà in rapida espansione. Non è possibile comprendere come i tecnici e gli ingegneri Romani possano aver realizzato un acquedorro del genere, della lunghezza di novanruno chilometri, senza riconoscere loro una notevole preparazione scientifica in diverse discipline quali la meccanica, la geometria, la resistenza dei materiali e l'idrometria. Di rali competenze purtroppo non rimangono che le vestigia monumenrali dei numerosi acquedotti, i più imporrami dei quali vennero realizzati proprio nel I secolo a.C. Le fonri lerrerarie ci hanno trasmesso il nome di numerose professioni legare all'amministrazione di questi complessi edifici, ma poco o nulla sappiamo circa la formazione scientifica, lo stato sociale e professionale e il sistema educativo da cui si arringevano rali competenze. Turravia, l'importanza progressiva che l'acqua assunse per Roma e le sue province lascia credere che gli adderri a questi impianti dovessero essere figure di un notevole prestigio sociale. La funzione pubblica delle acque comporrò, rra la fine del n e i primi anni 6o. Sugli acquedotti Romani, la prima opera da consultare è naturalmente il trattato di Frontino (1 sec. d.C.) De aquae ductu urbis Romae, ma utili riferimenti si trovano anche in Plinio (nat. XXXI, 2.4). Per gli studi recenti si veda l'ottimo studio introduttivo di Stacciali (z.ooz.) e il commento di R. H. Rodgers a Frontino (2.004).

I. LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

del I secolo a.C., una ristrutturazione radicale - con parziale copertura - della Cloaca Maxima, il sistema di drenaggio delle acque reflue voluto dai re Tarquini nel VI secolo a.C. L'ottimizzazione dello sfruttamento delle risorse idriche consentì la realizzazione di grandi bacini artificiali, le naumachie, dove si poteva assistere a spettacolari battaglie navali, la prima delle quali fece seguito al trionfo di Cesare del46 a.C. Una preziosa testimonianza di Strabone illustra i motivi della superiorità tecnica dei Romani: Mentre infatti i Greci ritenevano di aver raggiunto il loro massimo scopo con la fondazione delle città, perché si erano preoccupati della loro bellezza, della sicurezza, dei porti e delle risorse naturali del paese, i Romani hanno pensato soprattutto a ciò che quelli avevano trascurato: a pavimentare le vie, a incanalare le acque, a costruire fogne che potessero evacuare nel Tevere tutti i rifiuti della città. Selciarono anche le vie che passano attraverso tutto il territorio, provvedendo a tagliare colline e a colmare cavità, cosicché i carri potessero accogliere i carichi delle imbarcazioni; le fogne, con volte fatte di blocchi uniformi, talvolta lasciano il passaggio a vie percorribili da carri di fieno. Tanta è l'acqua condotta dagli acquedotti da far scorrere fiumi verso la città e attraverso condotti sotterranei: quasi ogni casa ha cisterne e fontane abbondanti dovute per la maggior parte alla cura che se ne prese Marco Agrippa, che ha abbellito la città anche con molte altre costruzioni (Str. v, 3, 8).

Anche se ben conosciute dai Greci, le terme assunsero un'importanza centrale nella terapia, nell'igiene pubblica e nell'architettura urbana solo con i Romani. Fu nel I secolo a.C. che il medico di Pompeo, Asclepiade di Bitinia, introdusse con enorme successo la moda dei bagni termali. A questa terapia, molto apprezzata, si associò rapidamente una sistematica ricerca sulle qualità terapeutiche delle acque minerali, che diede vita a una scrupolosa classificazione e a una non meno rimarchevole ricerca farmaceutica sui benefici degli ingredienti minerali che entravano nella loro combinazione chimica. Alcuni risultati di queste ricerche sono confluiti ad esempio nellaNaturalis historia di Plinio (xxxi, 2 ss.), che offre un'amplissima rassegna delle acque minerali italiane e così descrive, in particolare, le varietà presenti nel golfo di Baia: In nessun luogo [sci!. sono] più abbondanti che nel golfo di Baia né con più proprietà terapeutiche: alcune per virtù dello zolfo, altre dell'allume, altre del sale, altre del nitro, altre del bitume, alcune ancora per la loro composizione mista, salata o acida, altre giovano solo col loro calore, e hanno un potere di scaldare i bagni e far bollire anche l'acqua fredda nelle vasché'. 61. Plin.

nat.

XXXI, 4-s: «Nusquam tamen largius quam in Baiano sinu nec pluribus auxi-

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Prima di Plinio, anche Vitruvio aveva mostrato un'approfondita padronanza chimica a proposito di questo tema, tanto da proporre le seguenti osservazioni: Tutte le acque calde comunque hanno virtù medicinali in quanto, sottoposte a cottura, acquisiscono, ciascuna nella propria composizione, una nuova qualità da utilizzare. Infatti le fonti solforose guariscono le malattie nervose, poiché con il loro calore surriscaldano e bruciano, eliminandoli dal corpo, gli umori malsani. Quelle contenenti allume poi, usate nel trattamento delle membra indebolite dalla paralisi o da qualche altro fattore patogeno, facendo penetrare il calore, attraverso i pori aperti, sul freddo, le risanano con l'azione contraria del calore, e in questo modo gradualmente esse recuperano la loro originaria funzione. Quanto a quelle bituminose, se bevute costituiscono un rimedio abituale per le malattie interne grazie alloro effetto purgativo 6 '.

Vitruvio dava poi conto, nello stesso libro, di osservazioni su tipologie di acque che potevano avere effetti letali e, manifestando il grado di maturità delle conoscenze chimiche acquisite all'epoca, rilevava come nella costruzione delle condutture idrauliche fosse giunto il momento di abbandonare l'uso del piombo a favore della terracotta, a causa delle insalubri particelle rilasciate dal metallo nell'acqua. Tali osservazioni non provenivano dai Greci, né potevano essere il mero effetto dell'osservazione empirica quotidiana, ma riflettevano un progresso conoscitivo di cui Vitruvio stesso, nel primo libro della sua opera, aveva collocato gli sviluppi in epoche a lui vicine. Le notevoli conoscenze chimiche relative alle proprietà terapeutiche dei minerali non erano le sole a destare l'ammirazione dei naturalisti latini. I Romani infatti avevano recentemente trasformato le thermae in complessi architettonici e tecnologici assai sofisticati. Plinio (xxxi, 6-8) ricorda con ammirazione il complesso tecnologico dell'Academia, la villa costruita da Cicerone a Pozzuoli in prossimità di una fonte termale, dove l'oratore si ritirava a scrivere le sue opere filosofiche per godere degli effetti delle acque. Ma fu Agrippa, tra liandi generi bus: aliae sulpuris vi, aliae aluminis, aliae salis, aliae n ieri, aliae bituminis, nonnullae eriam acida salsave mixtura, vapore ipso aliquae prosunt, tantaque est vis, ut balneas calefaciant ac frigidam eriam in soliis fervere cogant ». 62.. Virr. VIII, 3, 3: «Omnis autem aqua calida ideo [quod] est medicamentosa, quod in pravis rebus percocra aliam virtutem recipit ad usum. Namque sulphurosi fontes nervorum labores reficiunt percalefaciendo exurendoque calori bus e corporibus umores vitiosos. Aluminosi autem, cum dissoluta membra corporum paralysi aut aliqua vi morbi receperunt, fovendo per patentes venas refrigerationem contraria caloris vi reficiunt, et hoc continenter restituuntur in antiquam membrorum curationem. Bituminosi autem interioris corporis viria potionibus purgando solent mederi>>.

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l. LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA AI TEMPI DI LUCREZIO

il IS e il I9 a.C., a rendere le terme gli edifici pubblici nei quali tutti i cittadini romani potevano trovare ristoro e salure. L'innovazione tecnologica più appariscente che accompagnò il diffondersi di questi edifici fu l'introduzione, all'inizio del I secolo a.C., del riscaldamento ad aria calda. Attraverso dei pannelli collocati nelle intercapedini delle pareti e sotto i pavimenti degli edifici, veniva immessa aria preventivamente riscaldata in appositi locali. Criticando questo artificio come una manifestazione del lusso dilagante e contrapponendolo all'austerità della villa di Scipione, Seneca rilevava come, di recente, fossero state introdotte numerose innovazione tecnologiche che, secondo lui, avrebbero progressivamente corrotto la tempra del cittadino romano: Sappiamo come alcune [sci!. invenzioni] sono comparse proprio nei nostri tempi, come ben ci ricordiamo, per esempio l'uso delle vetrate di materiale trasparente che lasciano passare una luce tersa, e bagni con elementi a volta e tubazioni incassate nelle pareti per irradiare calore che riscalda in modo uniforme le parti più basse e quelle più alte del locale. Che dire dei marmi di cui risplendono templi e case? E dei blocchi di pietre arrotondate e levigate a sostegno di portici e di ambienti capaci di ospitare folle di persone? Che dire dei segni stenografici che consentono di registrare un discorso per quanto rapidamente pronunciato e mettono la mano in grado di seguire il celere movimento della lingua? Ebbene, dobbiamo la loro invenzione ai più umili schiavi 61 . Tutte queste invenzioni non potevano però avere un valore filosofico, perché non rispondevano ai bisogni spirituali dell'uomo ma, dando soddisfazione alle necessità materiali, finivano per crearne di nuove, tanto che -lamentava ancora Seneca nella medesima lettera- era ormai divenuto indice di rozzezza e meschinità volere solo ciò che basta64 . La testimonianza di Seneca, impregnata della retorica ami-tecnica tipica di un seguace della prima scuola stoica, rivela indirettamente come l'egemonia cultu63. Sen. epist. 90, 2.s: «lmmo non aliis excogirara isra sunr quam quibus hodieque curanrur. Quaedam nostra demum predisse memoria scimus, ut speculariorum usum perlucenre testa clarum rransmittenrium lumen, ut suspensuras balneorum er inpressos parietibus tubos, per quos circumfunderetur calor, qui ima simul ac summa foveret aequaliter. Quid loquar marmora, quibus tempia, quibus domus fulgent? Quid lapideas moles in rotundum ac leve formatas, quibus porticus et capacia populorum tecta suscipimus? Quid verborum noras, quibus quamvis citata excipitur orario et celeritatem linguae manus sequitur? Vilissimorum mancipiorum ista commenta sunt>>. 64. Sen. epist. 90, 19: « Iam rusricitatis et miseriae est velle quantum sat est>>.

SI

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

rale della filosofia contemplativa dei Greci fosse messa in discussione dall' affollarsi, sempre più rapido e incalzante, di scoperte tecniche e scientifiche e dal conseguente emergere di un nuovo modo di pensare - condiviso, come abbiamo visco, anche da Posidonio- maggiormente incline a riconoscere alla tecnica un valore conoscitivo non secondario. I Romani apprezzavano la capacità degli artigiani alessandrini di combinare l'innovazione tecnologica con l'espansione delle manifatture e dei commerci. Un caso tipico di questa qualità può essere individuato nella produzione del vetro e dei suoi principali derivati. Benché manufatto antichissimo, il vetro diventò un materiale di cruciale importanza solo con l'introduzione, intorno alla metà del I secolo a.C., della tecnica della soffìarura. A seguito di questa vera e propria rivoluzione tecnologica, l'economia e gli usi degli abitanti delle città sottomesse a Roma cambiarono repentinamente: di vetro o di pasta vitrea erano molte decorazioni architettoniche, i mosaici parietali, la fritta utilizzata per produrre alcuni colori per la pittura a fresco (in particolare l'azzurro e il blu egizio), le finestre per illuminare gli spazi interni degli edifici, le lucerne, i drappeggi, gli ornamenti e alcune parti anatomiche di molte sculture in marmo e pietra, il vasellame da mensa, gli acquari, gli ornamenti, le imitazioni delle pietre e delle gemme più preziose, le urne cinerarie e, forse, i sarcofagi di uomini illustri, gli unguentari, i balsamari, le lastre utilizzare per la costruzione di serre, i recipienti per la conservazione degli alimenti, strumenti e recipienti alchemici di varie fogge e funzioni, alcuni strumenti ottici per lo studio dei fenomeni della riflessione e della rifrazione, le coppette usate dai medici per la suzione degli umori e del sangue e, infine, gli specchi, sia quelli utilizzati per la cosmesi che quelli usrori. Con gli ingredienti del vetro si produceva il blu egizio, una tinta che, dai tempi dell'antico Egitto, aveva goduto di grande diffusione. Nel I secolo a.C. un amico di Cicerone, il banchiere e imprenditore di Pozzuoli Vescorio, inventò il caeruleum, un pigmento che viene esaltato da Plinio (nat. XXXIII, r62) e che ebbe un'ampia commercializzazione in tutte le regioni del Mediterraneo, sostituendo rapidamente il concorrente blu egizio di produzione alessandrina. È importante sottolineare che il vetro, più dei metalli, poteva assumere qualsiasi colore e una straordinaria lucentezza: una qualità, quest'ultima, che, accompagnata dalla possibilità tecnica di rendere il materiale lavorato perfettamente trasparente, superava i limiti imposti dalle lavorazioni dei metalli e delle pietre. La rivoluzione della soffìatura suscitò una notevole impressione anche presso i filosofi della natura, e non è cerro un caso che è probabilmente a Lucrezio 52

I.

LE SCIENZE E LE TECNICHE A ROMA Al TEMPI DI LUCREZIO

che si deve l'introduzione del termine vitrum nella lingua latina. Fu un contesto scientifico, e più specificatamente ottico, a ispirare a Lucrezio l 'uso di un nuovo termine (Iv, 143-154 e 601-603). La scelta di questo termine rivela l'attenzione di Lucrezio per il conio di termini tecnici e scientifici capaci di essere, come vedremo nei capitoli seguenti, altrettanto espressivi rispetto a quelli greci. Nel caso specifico del vetro, però, occorre aggiungere che ci troviamo di fronte a un neologismo che riflette un'innovazione tecnica recente, la soffiatura, grazie alla quale il materiale assumeva una trasparenza sconosciuta nei tempi precedenti. Vitrum viene interpretato da Lucrezio come composto derivante dalla radice vid- (la stessa del verbo videre), a cui si aggiunge il suffisso -trum per designare la funzione di sçrumento 6 S. Dunque, vitrum starebbe a indicare uno strumento trasparente per vedere o per far vedere, ed è coerente con le occorrenze che troviamo nel De rerum natura, dove Lucrezio tratta dei simulacri e dei meccanismi di trasmissione di questi particolari atomi 66 • Le nuove scoperte tecniche come la soffiatura del vetro, che è stata datata proprio intorno alla metà del I secolo a.C., sollecitavano dunque anche un autore come Lucrezio, apparentemente intento solo a dar voce alla filosofia di Epicuro, a individuare termini tecnici capaci di veicolare il significato teorico delle scoperte. Dal breve profilo che è stato tracciato nelle pagine precedenti, risulta chiaro che l'attenzione prestata da Lucrezio alla scienza epicurea nel suo capolavoro non fu il frutto di un'immaginazione fervida e isolata, ma una scelta consapevole e approfondita, che mirava a dirigere il diffuso interesse dei Romani per la conoscenza della natura verso una dottrina che aveva contemporaneamente il potere di soddisfare la loro curiosità e, soprattutto, di liberarli dai timori e dalle inquietudini di una vita dominata dalla superstizione. Ma, prima di affrontare il contenuto del poema, occorrerà soffermarsi brevemente sulle caratteristiche dell'epicureismo romano.

6s. Questa etimologia viene oggi respinta: De Vaan (2.008, pp. 684-s) riconnette la parola alla radice iranica 'wed- che indica l'acqua, e il valore dunque sarebbe legato alla trasparenza, alla "water-like"; a favore dell'etimolgia lucreziana vedi lo studio, a mio avviso più convincente, di Trowbridge (1930, pp. 59-78). Per una più ampia discussione su vetro e scienza nel mondo antico vedi Beretta (2009a). 66. Del resto è lo stesso Lucrezio a giustificare il conio di neologismi (1, 136-139): «Né sfugge al mio pensiero ch'è difficile illuminare con versi latini le oscure scoperte dei Greci, tanto piu che bisogna sovente trattare con nuove parole, per la poverta della lingua e la novita delle scoperte» (corsivi miei).

S3

2

L'epicureismo a Roma: una rivoluzione culturale

2.1

Epicuro e la filosofia della natura Prima di affrontare la diffusione dell'epicureismo a Roma, occorre soffermarci sul valore che il filosofo greco attribuì all'indagine dei fenomeni naturali e sull'originalità del suo contributo nell'ambito della storia della scienza antica. Sovvertendo la gerarchia dei valori della cultura greca, Epicuro (cfr. FIG. 2.1) delineò un'etica basata interamente sulla conoscenza della natura: i timori, le angosce e gli errori degli uomini erano a suo giudizio l'effetto della mancata comprensione delle leggi che presiedono all'evoluzione dei fenomeni naturali. Lo scopo principale della filosofia epicurea mirava alla sostituzione della religione, e più in generale della metafisica, con una dottrina che faceva derivare tutti i fenomeni - compresi quelli relativi alla coscienza - dal movimento degli atomi nel vuoto. Epicuro riconosceva l 'esistenza degli dèi, ma non ammetteva il loro intervento sulle cose umane, verso le quali, a suo giudizio, essi mostrano la più totale indifferenza. Questa posizione del tutto insolita, che sminuiva il ruolo tradizionale della religione fin quasi ad azzerarlo, gli attirò numerose critiche, tanto che Posidonio, e con lui Cicerone, sospettarono che Epicuro non credesse affatto agli dèi e che parlasse di loro solo per evitare l'odiosità connessa all'ateismo 1• La maggior parte delle opere di Epicuro è giunta fino a noi in forma frammentaria, e questo rende estremamente difficile e controverso stabilire il debito del filosofo greco nei confronti dei sistemi precedenti, in particolar modo di quello di Democrito, e contemporaneamente determinare l'estensione del suo influsso sul De rerum natura di Lucrezio. Non a caso, molti filologi ricondu-

1. Cic. nat. deor. I, 123: «Verius esr igirur nimirum illud quod familiaris omnium nosrrum Posidonius disseruir in libro quinto de natura deorum, nullos esse deos Epicuro videri, quaeque is de deis inmorralibus dixerir invidiae deresrandae graria dixisse>>.

54

2.. L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

FIGURA 2..1

Busto di Epicuro, copia del

II

sec. d.C.; Roma, Musei Capitolini

cono in toto i contenuti del poema lucreziano alle opere - in gran parte perdute - del filosofo greco, mentre altri studiosi intravedono in alcuni passi del De rerum natura un contributo originale del poeta latino. A rendere più problematica la collocazione di Epicuro e il suo influsso sul mondo romano si aggiungono poi le numerose testimonianze indirette che, a partire da Cicerone, offrono della dottrina epicurea un'immagine deliberatamente distorta: immagine che, con l'avvento del Cristianesimo, si trasformerà in una vera e propria damnatio memoriae (Schmid, 1984). La concezione di Epicuro come pensatore dissoluto, ghiottone e crapulone, nata in ambito stoico\ si è andata rafforzando nel tempo e ha condizionato, fìno ai nostri giorni, l'idea che comunemente si associa al nome del filosofo greco. A fronte della scarsità delle opere originali superstiti, tali testimonianze- che pure riflettono 2..

Cfr. il commento alla celebre tazza di Boscoreale decorata con lo scheletro di Epicuro (cfr. Guzzo (wo6, pp. !86-7).

FIG. 2..9):

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

opinioni e punti di vista tutt'altro che neutrali- sono spesso state acriticamente accolte come indizi obiettivi del contenuto della fìlosofìa di Epicuro, con il risultato di trasformare progressivamente il fìlosofo in un'icona dai tratti morali reprensibili. La sopravvivenza di un'immagine sostanzialmente connotata da pregiudizi negativi risulta evidente anche quando si affronta il tema dei rapporti di Epicuro con le scienze della natura. Il più vivace e influente sostenitore di una presunta ostilità di Epicuro nei confronti delle scienze e delle tecniche è stato, non a caso, Cicerone. Per rendersene conto, basta leggere quanto egli scrive in un passo del Deflnibus, nell'atto di difendere Epicuro dali' accusa di essere incolto: Quanto al fatto che egli [sci/. Epicuro] ti sembra poco erudito, ciò dipende dal fatto che egli ritenne che non dovesse esistere nessuna erudizione, se non quella che giovasse alla disciplina della vita beata. O avrebbe dovuto consumare quel tempo nello srotola· re i libri dei poeti, nei quali non c'è nessuna solida utilità, e tutti i diletti puerili? O logorarsi, come Platone, nella musica, nella geometria, nei numeri, nelle stelle, in discipline che, per il fatto di partire da premesse false, non possono essere vere, e, se anche fossero vere, non contribuirebbero in nulla a farci vivere più serenamente, ossia meglio? Dunque, avrebbe dovuto coltivare queste arti e trascurare invece l'arte del vivere, che è tanto più importante, tanto operosa e, quindi, fruttuosa? 1

L'etica dunque rappresentava il principale scopo della fìlosofìa di Epicuro: non le scienze esatte, come nel caso di Platone. Tale priorità dottrinale viene del resto confermata anche da alcuni frammenti originali, che sembrano fornire una base sufficiente a suffragare la ricostruzione di Cicerone. Nelle Massime capitali, per esempio, Epicuro metteva in evidenza come non ci sarebbe stato alcun bisogno dello studio della natura, se non ci avessero mai inquietato le paure dei fenomeni celesti, e della morte (Epicur. Sent. XI). Lo studio dei fenomeni naturali aveva dunque per Epicuro come unico scopo quello di tranquillizzare l'animo umano e, soprattutto, di liberar! o dal giogo della religione, che, vincolando il destino dell'uomo al capriccioso volere degli dèi, trasformava la natura in una sorta di ricettacolo di segnali trasmessi da una

3· Cic.jìn. I, li, 71 (fr. ll7 Usener): «Qui quod ribi parum viderur erudirus, ea causa est, quod nullam erudirionem esse duxir, nisi quae bearae virae disciplinam iuvarer. An ille rempus aut in poeris evolvendis, ut ego et Triarius re hortarore facimus, consumeret, in quibus nulla solida utilitas omnisque puerilis est delecrario, aut se, ut Placo, in musicis, geometria, numeris, asrris conrererer, quae et a falsis initiis profecra vera esse non possunr et, si essenr vera, nihil afferrenr, quo iucundius, id est quo melius viveremus, eas ergo artes persequererur, vivendi arrem tanram tamque et operosam et perinde frucruosam relinqueret?».

s6

2. L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

provvidenza trascendente e minacciosa. Eppure proprio tale finalità, profondamente innovativa nell'ambito del pensiero greco, non poteva certo sminuire la funzione e il valore della conoscenza scientifica e razionale dei fenomeni naturali: semmai ne accresceva il valore fìlosofico, oltre i limiti che prima di allora le erano stati assegnati. Che la scienza fosse vincolata a un'etica, del resto, era nozione comune a tutto il pensiero greco successivo alla rivoluzione sofistica: laddove per i presocratici l'indagine dei fenomeni naturali era ancora legata alla metafisica e alla religione, per Platone, Aristotele e gli Stoici tali ricerche, pur non perdendo una connotazione religiosa, vennero ancorate all'etica. Anche se mancano le fonti dirette, sappiamo che anche astronomi considerati specialisti della disciplina, come ad esempio Eudosso, coltivarono tali interessi ali' interno di sistemi eticofìlosofici che non erano meno vincolanti rispetto a quello che sosteneva l' indagine naturalistica di Epicuro (Tepedino Guerra, Torraca, 1996). Sempre restando nel!' ambito degli scritti di Epicuro, un ulteriore elemento che sembrerebbe indicare un certo disinteresse per la spiegazione scientifica dei fenomeni naturali, e in modo particolare di quelli astronomici, può essere individuato nella famosa opinione che il fìlosofo espresse a proposito delle dimensioni del sole e dei pianeti. Nella Lettera a Pitocle infatti, difendendo il valore gnoseologico delle sensazioni contro i principi desunti da dottrine astratte, Epicuro si esprime nel modo che segue: E la grandezza del sole, della luna e degli altri corpi celesti, relativamente a noi, è tale quale appare. Ma in sé stessa, in senso assoluto, può essere o più grande di come la si vede, o un po' più piccola, oppure della stessa dimensione. Così, infatti, anche nella nostra esperienza i fuochi che osserviamo a distanza si rivelano in conformità della sensazione (Epicur. epist. ad Pyth. 9I).

Sulla base di una frettolosa lettura di questo passo gli storici della scienza, e in particolare quelli dell'astronomia antica, hanno formulato giudizi durissimi contro quello che appariva loro come un grossolano errore. Uno dei più autorevoli storici del!' astronomia del Novecento, John Louis Emi! Dreyer, liquidava la faccenda in modo lapidario, affermando che «questa scuola non merita quasi di essere menzionata nella storia della scienza, dal momento che il suo fondatore non dimostrò alcun interesse per i fenomeni naturali, e praticamente lasciò libero ciascuno di formarsi idee personali sulle loro cause» (Dreyer, 1980, p. 155). È davvero sorprendente che uno storico come Dreyer, altrimenti sempre attento e preciso nella valutazione delle fonti scientifiche dell'antichità, mo57

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

strasse di ignorare quasi interamente il significato dell'opera di Epicuro e ne deducesse il contenuto soltanto da un'errata interpretazione della Lettera aPitocle. In realtà qui non si avanza alcuna ipotesi circa le reali dimensioni fisiche del sole: Epicuro si limita semplicemente a constatare che il sole e la luna, al pari dei fuochi che vediamo a distanza, non si presentano, relativamente alle nostre sensazioni, né più grandi né più piccoli di quanto appaiano. Come ha ben chiarito Sedley4 , il ragionamento di Epicuro si articola nel modo che segue: a) l'unico modo per stabilire le dimensioni di un dato oggetto è misurarlo; b) dal momento che non possiamo misurare le dimensioni del sole, ci dobbiamo limitare a dichiarare che la sua vera grandezza èpiu o meno quella che appare; c) tale affermazione è confermata dall'osservazione verificabile che i fuochi visti a distanza, per esempio da una nave che si allontana dal porto, dopo un certo punto appaiono come dei punti luminosi e, malgrado ci si continui ad allontanare, le loro dimensioni non paiono cambiare finché non scompaiono del tutto dalla vista. Un contributo importante per comprendere meglio la posizione epicurea proviene da un frammento del libro XI del trattato Sulla natura (Peri physeos), dove si legge: se le dimensioni perdessero di grandezza per la distanza, molto di più ne perderebbero il colore e la luce; non ci sarebbe infarti più distanza adatta a che si producesse questo fenomeno l.

Dal momento che i simulacri e gli atomi provenienti dal sole colpiscono i nostri sensi e generano, al pari dei fuochi, sia la sensazione di calore che quella di luce, la distanza del sole non può essere superiore a quella necessaria a generare tali sensazioni. Poiché gli atomi che provengono dal sole, anche quelli molto sottili come gli atomi della luce e del calore, passano per un mezzo - l'atmosfera nel quale incontrano moltissimi altri atomi che ne modificano il corso, ne consegue che essi non possano provenire da una distanza infinita, perché altrimenti il numero di urti sarebbe così alto da smorzare del tutto la loro traiettoria e, dunque, rendere impossibile la sensazione visiva dell'osservatore. Dal momento 4- Sedley (1976, pp. 47-53). Sull'argomento vedi anche Romeo (1979).

s. Epicuro (1973. p. 82.). L'edizione di Arrighetti raccoglie i frammenti dell'opera naruralistica di Epicuro e offre un utile commento. Oltre a questa edizione ho anche usato quella a cura di Margherita lsnardi Parente (Epicuro, 1974) che attinge anch'essa ai papiri e vi ha aggiunto le testimonianze dei principali discepoli di Epicuro: in particolare, relativamente all'astronomia e alle dimensioni degli astri, vedi i frammenti di Polistrato alle pp. 590-1 (PHerc 831). Il passo della Lettera a Pitode è stato recentemente reinterpretato da Furley (1996).

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2.. L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

che, secondo Epicuro, gli atomi della luce e del calore erano di natura così sottile che potevano raggiungere velocità elevatissime e coprire, in tempi brevissimi, distanze considerevoli, è impossibile che egli abbia pensato che le dimensioni del sole fossero uguali a come appaiono ai sensi; per contro, egli riteneva con tutta probabilità che lo spazio coperto dai velocissimi atomi di luce fosse tale da non poter essere misurato con precisione con i modelli e gli strumenti usati dagli astronomi del tempo 6 • C 'è poi un ulteriore elemento che conferisce un grande interesse al passo di Epicuro: egli critica gli astronomi non solo perché non sapevano giungere, attraverso il calcolo, all'esatta determinazione della distanza del sole, ma anche e soprattutto perché il loro approccio non metteva in evidenza le cause fisiche reali della nostra percezione del sole, e cioè il movimento e la figura degli atomi. Nel considerare dunque i fenomeni astronomici, Epicuro rinnega l'idea, invalsa fin dall'antichità, secondo la quale lo studio dei corpi celesti, costituiti di una materia divina e cristallina completamente diversa da quella che forma i corpi del mondo sublunare, dovesse basarsi su una disciplina, l'astronomia, saldamente ancorata ai principi della metafisica. In effetti, se si partiva dal presupposto che la materia celeste fosse incorruttibile, qualsiasi considerazione relativa alla natura fisica dei principi costitutivi dei corpi celesti, tesa amostrarne l'analogia con quelli terrestri, finiva non solo per scardinare un principio assoluto della scienza antica 7, ma anche per compromettere nel profondo la concezione secondo cui la volta celeste dovesse essere dotata di una natura divina. La portata filosofica innovativa della concezione epicurea colse di sorpresa anche un intellettuale raffinato come Agostino, che a quasi sei secoli di distanza così manifestava la sua riprovazione: Forse che ad Atene non godevano di fama sia gli Epicurei, i quali sostenevano che le vicende umane non interessano gli dèi, sia gli Stoici, i quali erano di parere contrario e nei loro ragionamenti filosofici asserivano che le vicende umane sono regolate e salvaguardate dagli dèi, che ci aiutano e ci tutelano? Perciò mi stupisco del perché A nassagora sia stato incriminato con l'accusa di aver affermato che il sole è una pietra infuocata, negando chiaramente che si tratta di una divinità, mentre, nella stessa città, Epi6. Sedley (1976) ha mostrato come il principale obiettivo polemico di Epicuro fosse la scuola di Eudosso, che metteva in mostra da un lato una evidente dipendenza dalla deificazione platonica dei pianeti e del moto circolare, dall'altro un certo interesse per l'astronomia e l'astrologia babilonesi. 7. La centralità di questo assunto nella scienza greca è stata messa in evidenza con grande perspicuità da Koyré (1999).

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

curo visse nella gloria e al sicuro, non solo senza credere che il sole o alcuno degli astri sia un dio, ma anzi sostenendo che non abitano il mondo né Giove né, in generale, nessuno degli dèi, a cui possono giungere le preghiere e le suppliche degli uomini 8•

Agostino aveva ben compreso come la posizione di Epicuro togliesse ali' astronomia quell'aura di superiorità che, in virtù della sua ambigua relazione con l'astrologia, la rendeva una disciplina scientifica strettamente legata alle credenze religiose. Ricorrendo alla forma, al movimento e alla posizione degli atomi quale spiegazione universale di tutti i fenomeni naturali, compresi quelli psichici, Epicuro aveva simultaneamente smantellato le fondamenta dei sistemi platonici e aristotelici e del provvidenzialismo cosmologico degli Stoici. Il passo di Agostino si rivela inoltre interessante per il parallelismo che viene istituito tra il diverso destino che investì Anassagora, condannato dal governo ateniese all'esilio intorno al 450 a.C. per aver sostenuto la materialità del sole, e quello molto più fortunato e glorioso di Epicuro. Anassagora infatti, nel negare la trascendenza degli astri, aveva proiettato le qualità metafisiche sull'intelletto (il nous), dando vita a una riflessione che avrebbe trovato il suo compimento nelle opere di Platone e Aristotele. L'eterodossia di Anassagora risiedeva nell'aver messo in discussione gli dèi della tradizione ateniese e nel tentativo di sostituirli con una nuova e più razionale metafisica. Epicuro, per contro, espelle la presenza degli dèi dall'universo e individua la scienza naturale quale unica chiave per appropriarsi degli apparenti misteri che si celano dietro i fenomeni. Non è più l'intelletto a regolare l'universo: atomi, movimento e vuoto sono sufficienti a spiegare tutto e, contemporaneamente, consentono di liberare l'uomo dal timore della morte e dalla dipendenza da credenze e superstizioni. Il contrasto messo in evidenza da Agostino tra gli Stoici, che riponevano fede nella divinazione e in altre simili superstizioni, e gli Epicurei, che per contro sostenevano il disinteresse degli dèi verso le vicende umane, è ancora

8. Aug. civ. XVIII, 41 (fr. 342. Usener): «Nonne apud Athenas et Epicurei clarebant, adserentes res humanas ad deorum curam non pertinere, et Stoici, qui contraria sentientes eas regi atque muniri diis adiutoribus et tutoribus disputabant? Un de mirar cur Anaxagoras reus factus si t, quia solem dixit esse lapidem ardentem, negans utique deum, cum in eadem civitate gloria floruerit Epicurus vixeritque securus, non salurn solem ve! ullum siderum deum esse non credens, sed nec Iovem nec ullum deorum omnino in mundo habitare comendens, ad quem preces hominum supplicationesque perveniant». Come ha acutamente notato Sedley (1976, pp. 53-4), il soggiorno di Epicuro presso Lampsaco, dove era stato esiliato Anassagora per aver messo in discussione la natura divina dei corpi celesti, è da leggersi come la volontà di ereditare la sfida contro l'autorità religiosa soggiornando nella città dove Anassagora era ancora riverito come un eroe.

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2.. L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

una volta una precisazione calzante per comprendere la posta in gioco tra le differenti scelte di campo. Come ha ben osservato Ettore Paratore (1960, pp. 30-r), il rimprovero mosso a Epicuro, secondo il quale egli avrebbe avuto una scarsa attenzione nei confronti dei progressi dell'astronomia ellenistica, non tiene conto della centralità, nella sua nuova cosmologia, del principio - derivato dai Pitagorici- secondo cui lo spazio è illimitato. Attraverso tale principio Epicuro metteva in discussione la teoria dell'unicità del cosmo, accettata dalla maggior parte degli astronomi e riaffermata con autorevolezza da Aristotele. Altrettanto rivoluzionaria era l'idea secondo cui la materia, costituita da atomi in continuo movimento nel vuoto, era anch'essa infinita. A tale proposito, in alcuni interessantissimi frammenti del libro XI del trattato Sulla natura (Peri physeos), Epicuro criticava l'uso invalso presso gli astronomi di servirsi di strumenti e modelli meccanici per rappresentare l'universo e spiegare le cause dei movimenti celesti: Quelli, penso, tutti persi dietro a tali cose, dico le macchine astronomiche, ponendo tutta la loro attenzione a queste, non solo rispetto alle difficoltà che sorgono in relazione ai movimenti (degli astri), ma anche rispetto a quelle che riguardano l' indeterminatezza dell'aspetto del sorgere e del tramontare del sole, evidentemente non possono, non riuscendo con gli strumenti a far nulla di preciso, cogliere con la mente qualche elemento di somiglianza coi fenomeni. [... ] Tralascia la finzione e la violenza (insite) nella presunzione che le esemplificazioni fatte sulla macchina presentino l'esatta analogia coi fenomeni celesti. Bisogna, dunque, io penso, che il saggio determini per prima cosa ciò di cui ragiona, quando ragiona del cosmo e dei suoi fenomeni, e riguardo a un'immagine qualsiasi che proviene da[ ... ] inviati per mezzo della vista[ ... ] nei confronti di un elaborato della mente; oppure [... ] una qualche sensazione conservata nel!' animo9.

Gli strumenti e le macchine a cui allude Epicuro erano probabilmente la sfera armillare e il modello meccanico dell'universo. L'idea di rappresentare l'universo attraverso la sfera risaliva a Talete, ma è solo dal III secolo a.C. che abbiamo testimonianze certe circa la costruzione di veri e propri modelli meccanici del!' universo. Una notissima rappresentazione di modelli di questo genere ci è stata trasmessa nel cosiddetto "Mosaico dei filosofi" (cfr. FIG. 1.2), conservato presso il

9· Epicuro (1973, pp. 2.41-2. e commento, pp. s96-9). Sul significato di questo passo si veda anche lsnardi Parente (1991, pp. 2.8-9).

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

FIGURA 2..2.

I filosofi dell'Accademia. Mosaico pariecale del Nazionale

I

sec. d.C.; Napoli, Museo Archeologico

Museo Archeologico Nazionale di Napoli: si tratta della copia di un originale greco che, secondo le ipotesi più accreditate, risaliva probabilmente al n secolo a.C. Il significato complessivo della scena risulta tuttora controverso. Alcuni studiosi pensano infatti che vi siano raffigurati i Sette Sapienti, mentre altri ritengono che si tratti dell'Accademia ateniese di Platone con Eudosso, noto per aver costruito uno di tali modelli, intento a spiegare ai colleghi il funzionamento del meccanismo. Al di là però dell'interpretazione complessiva del mosaico, ciò che interessa sottolineare in questa sede è più semplicemente la natura del modello, una sfera, probabilmente di cristallo, sulla superficie della quale sono ben visibili i meridiani e i paralleli. Ora, tale modello di universo chiuso non solo non poteva

2.. L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

essere accettato da Epicuro, per le ragioni che abbiamo testé accennato, ma contravveniva in modo eclatante a quelle che sono le nostre percezioni sensoriali del cosmo, che- diversamente da quanto rappresentato nel modello - non appare finito né tantomeno sferico. La costruzione di modelli di questo genere, che per di più venivano presentati come una fedele rappresentazione della realtà, non poteva dunque non suscitare le critiche di Epicuro. Ma c'era una ragione ancora più profonda per mettere in discussione questo tipo di modelli. Per rendercene conto è sufficiente leggere un passo del De natura deorum, nel quale Cicerone, che aveva avuto l 'occasione di ammirare sia il planetario di Archimede che il modello costruito dal suo maestro, lo stoico Posidonio, così giustificava la funzione di tali meccanismi: Quando osserviamo qualcosa muoversi per opera di un meccanismo - si tratti di una sfera planetaria o di un orologio o di un altro oggetto qualsiasi - non abbiamo alcun dubbio che sia stato un essere intelligente a determinarne il movimento. Perché allora, nel contemplare il cielo che con la sua mirabile e velocissima rotazione determina con perfetta regolarità l'alternarsi delle stagioni donando vita e prosperità a tutte le creature, dovremmo dubitare che alla base di tutto vi sia un principio non solo razionale ma anche dotato di una divina perfezione ?' 0

Dunque, la costruzione dei modelli del cielo veniva interpretata da Epicuro come un'artificiosa legittimazione del finalismo teleologico del cosmo, attraverso la dimostrazione della presenza di un'intelligenza divina capace di regolare un universo la cui natura armoniosa comprendeva, in un unico meccanismo, le orbite regolari dei pianeti, dalle quali a loro volta si facevano dipendere i destini degli uomini. Questa visione provvidenzialistica della cosmologia non costituiva un tratto esclusivo della filosofia stoica, a cui Cicerone stava dando voce, ma era una dottrina diffusa e, almeno per quanto riguarda la forma sferica del cosmo, condivisa da quasi tutti i sistemi astronomici anteriori a quello elaborato da Epicuro. Come abbiamo già sottolineato, tale visione era incompatibile con i principali fondamenti dell'atomismo e dell'etica epicurei e pertanto ogni tentativo di offrirne una riproduzione, attraverso la realizzazione di modelli e strumenti, doveva essere respinto con decisione. Cicerone, consapevole delle insidie della dottrina epicurea, cercò di difen10. Cic. nat. deor. n, 97: «An, cum machinatione quadam moveri aliquid videmus, ur sphaeram ut horas ut alia permulta, non dubitamus quin illa opera sint rationis, cum autem impetum caeli cum admirabili celeritate moveri vertique videamus constantissime confìciemem vicissitudines anniversarias cum summa salute et conservatione rerum omnium, dubitamus quin ea non solum ratione fìant se d etiam excellemi divinaque ratione? ».

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

dere le opinioni degli Stoici ridicolizzando il sapere geometrico degli epicurei. Ancora nel De natura deorum si legge: Frattanto tu, Velleio, dovresti farmi il favore di non addurre la solita scusa della vostra ignoranza in campo scientifico. Tu dici che il cono, il cilindro e la piramide ti appaiono più belli della sfera[ ... ]. Che vi può essere di più bello di quella figura che sola abbraccia e contiene tutte le altre, che non può presentare sulla sua superficie né rugosità, né gibbosità, né angolosità, né avvallamenti, né protuberanze, né rientranze?[ ... ] E anche se non riuscite a intendere queste verità non avendo mai sfiorato la polvere della sapienza, dovreste almeno comprendere, da studiosi della natura quali siete, che codesta costante uniformità di ordinati movimenti non avrebbe potuto conservarsi in una figura diversa dalla sfera. Nulla vi può essere pertanto di più sciocco di quanto voi andate affermando: che, cioè, non è accertato che codesto nostro mondo abbia forma sferica, ma potrebbe averne anche una diversa e che vi sono innumerevoli mondi dalle forme più svariate".

Daphysici quali pretendevano di essere, i seguaci di Epicuro non potevano davvero credere- questa la tendenziosa argomentazione di Cicerone- che l'universo non avesse la forma della figura geometrica più perfetta, l'unica in grado di garantire l 'uniformità dei movimenti dei corpi celesti. Ma questa obiezione, dopo i complicatissimi aggiustamenti introdotti da Eudosso per dare conto, salvando i fenomeni, delle apparenti irregolarità dei moti delle stelle, non poteva certo essere adottata come una prova definitiva della sfericità dell'universo e dei moti dei pianeti. Anche sul fronte dei più rigorosi sostenitori della concezione geometrica dell'universo, si erano aperte numerose crepe che mettevano in dubbio l'armonia dei moti celesti. Come emerge chiaramente dal passo di Cicerone, la geometria, proponendo una rappresentazione univoca e rigida, diventava un serio ostacolo per comprendere adeguatamente la struttura fisica dell'universo: per questo motivo, la conseguente moda di realizzare modelli geometrici, al fine di rendere tangibile e credibile tale rappresentazione, non poteva che essere sottoposta a critiche. 11. Cic. nat. deor. II, 47-48: «lnterea Vellei noli quaeso prae te ferre vos piane expertes esse doctrinae. Conum ti bi ais et cylindrum et pyramidem pulchriorem quam sphaeram videri [... ]. Quid enim pulchrius ea figura quae sola omnis alias figuras complexa cominet, quaeque nihil asperitatis habere n ih il offensionis potest, nihil incisum angulis nihil anfractibus, nihil eminens nihillacunosum? [... ] Sed si haec non videtis, qui a numquam erudirum illum pulverem attigistis, ne hoc quidem physici imellegere potuistis, hanc aequabilitatem motus constantiamque ordinum in alia figura non potuisse servari? ltaque nihil potest indoctius quam quod a vobis adfirmari solet. Nec enim hunc ipsum mundum pro certo rutundum esse dicitis, nam posse fieri ut sit alia figura, innumerabilesque mundos alios aliarum esse formarum>>.

2..

L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

Questo non signitìca, tuttavia, che l'atteggiamento di Epicuro fosse deliberatamente e assolutamente ostile all'uso di tali strumenti: anzi, come vedremo quando esamineremo alcuni passi del De rerum natura, questi congegni potevano talvolta favorire la corretta comprensione delle percezioni umane. L'argomento centrale della polemica epicurea contro il metodo adottato dagli astronomi era piuttosto un altro: di fronte all'illegittima pretesa di separare i fenomeni tìsici, quelli cioè che accadono nel mondo sublunare da quelli astronomici, si sosteneva la necessità di affrontare l'indagine naturalisti ca adottando un sistema unitario, governato da un limitato insieme di leggi universali (atomi, movimento e vuoto). Anche se non può essere considerato irrilevante il fatto che è proprio questa concezione che fece breccia in età moderna tra i critici dell'aristotelismo, dando vita alla Rivoluzione scientifica, non è nostra intenzione giudicarne il valore alla luce delle influenze e delle rivalutazioni successive. Il grande merito teorico della posizione di Epicuro fu quello di delineare una cosmologia coerente, totalmente alternativa a quella aristotelica, unitìcando tìsica e astronomia in un'unica scienza basata sulla combinazione di alcuni concetti astratti (atomi, movimento e vuoto) con l'esperienza sensibile. Un altro punto che spesso viene addotto per sottolineare la debolezza dell'approccio scientifico di Epicuro ali' astronomia consiste nel ricorso alle cosiddette "spiegazioni molteplici", che venivano chiamate in causa al tìne di interpretare i fenomeni complessi. Nella Lettera a Pitocle così si legge a questo proposito: Non bisogna, infatti, studiare la natura secondo assiomi vuoti e leggi arbitrarie, ma secondo quanto esigono i fenomeni. Infatti, la nostra vita ha bisogno non già di irrazionalità o di opinioni vacue, bensì solo di poter vivere senza affanni. E tutto, dunque, avviene senza scosse, se ogni cosa viene chiarita secondo il principio delle molteplici spiegazioni in sintonia con i fenomeni, ammettendo, come pur si deve, tutto quanto si può dire plausibilmente di essi. Nel caso in cui, invece, si accolga una sola spiegazione e se ne respinga un'altra, che pure sarebbe ugualmente concordante con il fenomeno, è manifesto che si cadrebbe anche al di fuori di ogni discorso di filosofia della natura e si scivolerebbe nel mito (Epicur. epist. ad Pyth. 87 ).

Dunque il metodo adottato dagli astronomi non solo poteva indurre ali' interpretazione errata dei fenomeni che intendeva spiegare, ma, tendendo a scivolare nella mitologia, era anche manifestamente anti-scientifico. La pretesa di spiegare un dato fenomeno ricorrendo a principi astratti, ai quali veniva attribuita una validità universale indipendentemente dalla conferma d eli'esperienza

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

sensibile, non poteva che presentarsi come una costruzione del tutto artificiosa della verità scientifica. Per contro, Epicuro proponeva di rendere i sensi partecipi della conoscenza scientifica, tanto che, ogni qualvolta una spiegazione di uno stesso fenomeno trovasse conferma nei sensi, tale spiegazione poteva considerarsi legittima. Tuttavia, per non cadere in una sorta di anarchismo metodologico, la legittimità di una spiegazione scientifica doveva anche essere conforme ai principi e alle leggi che regolavano la conoscenza della natura, e cioè a dire gli atomi, il movimento e il vuoto. Si potevano perciò dare più spiegazioni di un medesimo fenomeno, ma non infinite, o comunque non potevano essere ammesse quelle che riconducevano gli effetti percepiti a una dottrina diversa da quella atomica. Anche in questa circostanza, dunque, l'accusa mossa contro la metodologia di Epicuro, secondo la quale egli avrebbe generato un relativismo conoscitivo contrario ai principi della scienza, si basa su una lettura parziale della sua opera. Del resto gli Epicurei non erano certo i soli a sostenere la fondatezza delle spiegazioni multiple, tanto è vero che anche un pensato re dogmatico come Posidonio era giunto a dichiarare che le differenze di opinioni tra gli scienziati non erano un motivo sufficiente per gettare discredito sulla scienza1' .

2.2

Il trattato Sulla natura L'opera nella quale Epicuro sviluppò tutto il suo pensiero è il trattato Sulla natura, di cui rimangono parti lacunose dei 37 libri 13 in cui era suddiviso, per lo più ricavati dai papiri di Ercolano, che - anche in ragione dello stato in cui si trovano - sono stati variamente interpretati da filologi e papirologi. Una testimonianza preziosa sull'opera nel suo complesso ci viene da Galeno, secondo cui alcuni composero non un libro solo, ma parecchi sulla scienza della natura. Certuni, anzi, ne composero davvero molti, come Epicuro: anch'egli, come del resto tutti gli altri, incomincia dalla questione se sia uno solo e semplice ciò la cui natura cerchiamo

12.. Diog. Laer. VII, 12.9. Secondo la Taub (2.003, pp. us-2.6) su questo punto Epicuro fu influenzato da Teofrasto. 13· Ma di recente è stata pubblicata un'edizione a cura di Giuliana Leone con lunghissime sequenze di testo del libro II: Epicuro (2.01l).

66

2.. L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

di scoprire, oppure se sia una composizione di alcuni suoi primi elementi semplici che i successori degli antichi presero l'abitudine di chiamare elementi [stoicheia]'4.

L'attenzione di Epicuro verso i problemi scientifici era dunque addirittura superiore a quella di molti filosofi che si erano occupati di questa materia. L'opinione di Galeno trova una conferma nella Vita di Epicuro pubblicata da Diogene Laerzio, che così ne sintetizza la produzione: [La filosofia di Epicuro] si divide, dunque, in tre parti, la canonica, la fisica e l'etica. La canonica è propedeutica al sistema dottrinario e costituisce il contenuto di un'opera in un libro intitolata Canone; la fisica comprende tutta la teoria della natura e costituisce la materia dei trentasette libri Della natura, e, nelle linee fondamentali, delle Epistole; l'etica abbraccia i problemi relativi a ciò che si deve scegliere e a ciò che si deve evitare, e costituisce materia dei libri Dei modi di vita, e delle Epistole e dell'opera Del fine. Sono soliti, tuttavia, unire la canonica alla fisica (Diog. Laer. x, l9-30 ).

Le parole di Diogene mettono in evidenza la centralità che il trattato dedicato alla natura assumeva all'interno del sistema filosofico epicureo: tale importanza era sottolineata non solo dall'estensione dell'opera, ma anche dalla stretta relazione che essa intratteneva con la canonica propedeutica e l'insegnamento della fisica. Sulla base delle analisi che sono state fatte sui frammenti superstiti, si è ipotizzato che ciascun libro fosse costituito in media da 3.8oo linee di misura standard, per un totale di circa 2o.ooo parole (traducendo in termini tipografici moderni, si tratterebbe dell'equivalente di 10 volumi di una nostra edizione di testi classici)''. L'edizione di questi frammenti, resa accessibile a un più vasto pubblico grazie alla traduzione curata da Graziano Arrighetti (Epicuro, I973), ha permesso di ricostruire il contenuto di alcuni libri dell'opera e di valutare meglio, di conseguenza, l'uso che ne fece Lucrezio durante la composizione del De rerum natura. Schematicamente gli argomenti conosciuti dell'opera dovevano essere così suddivisi' 6 :

14.

Gal. in Hippocr. de nat. hom. l. 1 (fr. 73 Usener).

rs. La stima è di Sedley (1997, p. 14); per una stima leggermente diversa si veda il recente contributo di Montarese (z.orz., pp. 2.73-82.) e soprattutto Del Mamo (2.014, pp. 2.2.9-31). 16. Nel riassumere il contenuto dei libri superstiti, mi sono avvalso dei suggerimenti di Gianluca Del Mastro, il quale mi ha gentilmente comunicato i risultati più recenti degli studi papirologici: cfr. Del Mastro (2.013). Per quanto riguarda l'inquadramento generale dell'opera di Epicuro, oltre al classico testo di Usener (z.ooz.) e alla citata edizione di Graziano Arrighetti,

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Libro I: Enunciazione dei principi metodologici e dottrinali. Nulla viene dal nulla e nulla perisce nel nulla. Costituzione atomica dei corpi e loro movimento nel vuoto. Libro II (in due copie: PHerc. I783h69Iho10 e 993hi49)' 7 : Nulla esiste al di fuori di atomi e vuoto. Perpetuo movimento degli atomi. Infinità dei mondi. Generazione delle immagini e dei simulacri. Libri m-IV: Movimenti dei simulacri e visione. Gli altri sensi. Libri v-x: Forma e struttura degli atomi e loro moti. Natura dell'anima e sua mortalità. Natura del tempo (vedi anche infra,libro incerto m). Libro XI (in due copie: PHerc. 154 e 1041): Cosmologia. Origine dei corpi celesti e loro dimensioni. I moti celesti. Critica contro gli strumenti degli astronomi. Forma della terra. Libro XII: Natura dei mondi e fenomeni astronomici (eclissi di sole e di luna). Altri mondi. Origini della civiltà. Libro XIII: Opinioni sugli dèi. Natura dei fenomeni meteorologici e terrestri. Libro XIV (PHerc. 1148): Critica al monismo e al pluralismo finito. Libro xv (PHerc. IISI): Critica di Anassagora. Libro XXI (PHerc. 361). Libro xxv (tre copie: PHerc. 419h634/697• 141o/ws6 e 1191): Sui moti psichici volontari e causati da stimoli esterni. Libro XXVIII (PH ere. 1479h417 ): Sui problemi di logica. Libro XXXIV (PHerc. I431): Problema delle rappresentazioni mentali. In particolare, il modo in cui esse si colgono attraverso i sogni. Analisi dei criteri di giudizio; prospettiva etica della esposizione dottrinaria epicurea. Libro xxxv: Sulla psicologia e la libertà umana. Libri incerti, ma la cui paternità non è messa in discussione: PHerc. 1413/!416 (Sul tempo); PHerc. 989; PHerc. I385. Altri papiri (PHerc. 454, II99· 1398, 1489, 1639) restano di incerta attribuzione.

In molti casi l'argomento dei libri è molto incerto e la ricostruzione si basa unicamente su poche linee, per di più lacunose. Nonostante questi limiti, Arrighetti ha potuto osservare come il trattato Sulla natura, al pari dei testi aristotelici, fosse legato «da una strettissima concatenazione di pensieri, per cui ogni singolo problema doveva diventare di difficile comprensione per chi non avesse presente il tutto» (cfr. Epicuro, 1973, p. xxn). La coerenza dell'opera è sottolineata peraltro dallo stesso Epicuro nella Lettera a Erodoto:

si veda la sintesi di Sedley (1998, pp. 109-2.8) e la recente messa a punto del citato contributo di Montarese (2.012.). 17. Questo libro è stato pubblicato recentemente nella citata edizione di Giuliana Leone (Epicuro, 2.012.). 68

2. L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

Non è, infatti, possibile che si dia la densità del coerente sviluppo della mia dottrina nel suo insieme, se non si può abbracciare in brevi formule, in sé, ogni cosa che sia stata precisata anche nei particolari. Ora un siffatto metodo è utile a chiunque abbia preso dimestichezza con lo studio della filosofia della natura, e quindi io, che raccomando la continua applicazione a tale studio [... ],ho anche composto per te questa epitome e questo riassunto dei punti principali della dottrina (Epicur. epist. ad Herod. 37 ).

Dunque, l'indagine della natura e la metodologia che le faceva da sostrato costi tu ivano il canone dell'intera dottrina. La redazione del trattato Sulla natura durò molti anni: secondo uno studio recente (Sedley, 1998, pp. 128-p.), Epicuro avrebbe composto i primi tredici libri nel periodo 3II/310-307/3o6 a.C., i libri XIV e xv negli anni 301/300 e 300/299 e il libro XXVIII nel296/ 295. Avvalorando la testimonianza di Diogene, secondo cui l'opera- che faceva tutt'uno con la canonica propedeuticasarebbe stata riassunta nelle epistole, Sedley ha mostrato come il contenuto dei primi quindici libri sia sintetizzato nella Lettera a Erodoto (libri I-X e XII-XIII), nella Lettera a Pitocle (libri XI-XIII) e nella perduta Epitome sulla critica aifisici (libri XIv-xv) (ivi, p. 133). Sebbene gran parte del trattato Sulla natura avesse per oggetto l'indagine dei fenomeni naturali, alcuni storici della scienza hanno visto nella dottrina atomistica di Epicuro un regresso rispetto alla scientificità dell'atomismo democriteo. Secondo il più autorevole sostenitore di questa interpretazione, Alexandre Koyré, la sterilità scientifica dell'epicureismo era riconducibile al suo estremo sensismo [... ]. Soltanto quando questo venne respinto dai fondatori della scienza moderna e sostituito con un approccio matematico alla natura, l'atomismonell'epoca di Galileo, R. Boyle, Newton ecc.- divenne una concezione scientificamente valida, e Lucrezio ed Epicuro apparvero come precursori della scienza moderna. Naturalmente è possibile, anzi probabile, che quest'ultima, legando atomismo e matematismo, abbia fatto rivivere le più profonde intuizioni e intenzioni di Democrito (Koyré, 1988, pp. 13-4).

Ancora più drastico fu il giudizio del matematico e storico della scienza Federigo Enriques, secondo cui Epicuro, raccogliendo oltre un secolo dopo le dottrine degli atomisti, era animato soltanto da preoccupazioni morali e non più scientifiche. Così, per esempio, la grandiosa concezione democritea di una teoria cinetica della materia (atomi che si muovono in tutte le direzioni e coi loro urti danno origine ai fenomeni) diventa, per il gretto antropocentrismo d'Epicuro, una "pioggia d'atomi", cadenti per il loro peso secondo

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

la verticale, e talora deviati da questa per una libera inclinazione (clinamen), che rompe il magnifico determinismo meccanico del maestro (nota di Enriques a Heiberg, 1924, pp. 20-1). Che nel trattato Sulla natura non venissero discussi problemi di matematica e geometria è però dubbio' 8, poiché, come abbiamo visto, Epicuro criticò l'uso dei modelli astronomici di Eudosso e non è plausibile che lo facesse senza possedere un'adeguata conoscenza dei principi geometrici che ne avevano reso possibile la realizzazione. È certamente vero che l'atomismo epicureo non prevedeva una base geometrica tradizionale; meno chiaro è invece se Democrito, a cui gli storici della scienza guardano sempre come al prototipo del!' atomismo scientifico moderno, avesse fatto ricorso ali' atomismo per comporre alcune delle numerose opere astronomiche e matematiche che gli vengono attribuite da Trasillo' 9 e anticipare così, come si è creduto, alcuni fondamentali contributi dell'analisi moderna 20 • Indipendentemente però dal valore di questi trattati democritei, risulta difficile (e anche rischioso) giungere a conclusioni univoche a proposito delle eventuali differenze che avrebbero caratterizzato le opere di Democrito e quelle di Epicuro, visto che possiamo basarci unicamente sul confronto tra pochi frammenti. Giova ricordare a questo riguardo quanto viene asserito da Cicerone nel De natura deorum: Che cosa v'è nella fisica di Epicuro che non dipenda da Democrito? A parte qualche modifica, come quella relativa alla deviazione degli atomi di cui s'è detto sopra, dice press'a poco le stesse cose: ci parla degli aromi, del vuoto, dei simulacri, dell'illimitata estensione spaziale, del numero infinito dei mondi, del loro sorgere e del loro perire, più o meno, cioè, di tutto ciò di cui si occupa la scienza della naturau.

18. Un linguaggio geometrico sembra usato nella descrizione degli atomi; ad esempio nella lettera a Pitocle (§ 109) in riferimento alla questione della forma degli atomi di ghiaccio. 19. La lista contiene i seguenti titoli: Su una diversa forma di conoscenza o Sulla tangente

al cerchio e alla sftra; Sulla Geometria; Le realta geometriche; I numeri; Sulle linee irrazionali e sui solidi; Proiezioni; Il grande anno; L 'astronomia. Cfr. in proposito Atomisti antichi ( 2001, p. 2.81). 2.0. Heath (192.1, vol. I, pp. 178-81). Anche Federigo Enriques, in una lettura parzialmente avulsa da una precisa analisi fìlologica dei testi, propose un'edizione dei frammenti democritei nella quale non mancava di sottolineare la loro valenza anticipatrice in campo matematico. Cfr. Enriques, Mazziotti (1948). 2.1. Cic. nat. deor. I, 73: «Atqui si haec Democritea non audisset, quid audierat, quid est in physicis Epicuri non a Democrito? Nam etsi quaedam commutavit, ut quod paulo ante de inclinatione atomorum dixi, tamen pleraque dici t eadem, atomos inane, imagines infìnitatem loco-

70

2..

L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

Per quanto Cicerone attingesse a notizie dossografiche, soprattutto su Democrito, non v'è il minimo dubbio sul fatto che le informazioni a sua disposizione fossero infinitamente superiori rispetto a quelle che si possono ricavare oggi dai testi superstiti. Giova inoltre sottolineare che sono molte le testimonianze antiche che tendono a sottolineare le somiglianze tra le dottrine di Democrito ed Epicuro, rendendo ancora più dubbia la legittimità dell'influente interpretazione di Koyré. Ci sarebbe poi da aggiungere che l'idea di considerare "scientifico" solo ciò che ha un fondamento matematico non solo è un principio estraneo agli intellettuali antichi, che come si è visto adottavano - a volte anche contemporaneamente- metodi investigativi molto diversi tra di loro, ma costituisce una categoria discriminante difficilmente applicabile, senza forzature, anche al pensiero scientifico moderno. Ciò detto, è chiaro che le differenze tra la filosofia della natura di Epicuro rispetto a quella di Democrito, che pure dovevano essere non di poco conto, erano tese più a superare le critiche che Aristotele aveva mosso a Democrito, che non a mettere in discussione i principi e i fondamenti dell'atomismo antico, che Epicuro pensava di aver portato a perfezione11.

2.3

Una geometria alternativa? Alcune testimonianze descrivono una presunta ostilità di Epicuro e dei suoi seguaci nei confronti della matematica. Basti ricordare ad esempio Cicerone, che con sprezzante ironia liquida le teorie epicuree relative alla forma dell'universo («non parlerebbe in questo modo, se avesse imparato quanto fanno due più due» )•l, oppure Agostino, che a proposito di un argomento simile scrive: Chi, infine, ha mai voluto leggere o imparare i trattati di geometria di Archimede, avendo per maestro Epicuro? Contro di essi, infatti, egli discuteva con molta ostinazione, senza capirne- a quanto credo io- nulla 14 •

rum innumerabilitatemque mundorum, eorum ortus interitus, omnia fere qui bus naturae ratio continetur>>. 2.2.. Così giustamente sottolineato da Konstan (1979). La differenza tra la fisica di Democrito e quella di Epicuro era già stata messa in evidenza, con una intelligente rivalutazione della seconda, da Karl Marx nella sua tesi di dottorato del1841: cfr. Marx (1962., pp. 52.-3). 2.3. Cic. nat. deor. II, 49: «Quae si bis bina quot essent didicisset Epicurus certe non diceret >>. 2.4. Aug. util. cred. VI, 13 (fr. 2.2.9• Usener): «Quis denique geometricas litteras Archimedis

7I

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Queste critiche erano ampiamente condivise nelle scuole filosofiche impegnate a polemizzare contro gli Epicurei e col passare del tempo, estrapolate dal loro contesto, sono diventate le testimonianze probatorie di cui si sono serviti gli storici della scienza per sminuire le capacità scientifiche dei seguaci del Giardino. In un saggio di fondamentale importanza, David Sed.ley (1976) ha messo in luce la complessa relazione di Epicuro e della sua scuola nei confronti della geometria tradizionale, sottolineando come tale posizione critica fosse intimamente collegata alla confutazione dei principi teologici sui quali trovava il proprio fondamento l'astronomia classica. Per dimostrare la mancanza di conoscenza della geometria da parte di Epicuro, i suoi critici - Cicerone in testa - si sforzavano di mettere in evidenza quanto fosse assurda la sua teoria del moto atomico, che, contravvenendo alla dottrina di Democrito secondo cui il moto degli atomi è di tipo rettilineo, aveva introdotto la possibilità di deviazioni casuali e spontanee. Questo tipo di moti deviati non poteva evidentemente essere misurato secondo le regole della geometria tradizionale. Il rifiuto di Epicuro verso la geometria era in primo luogo giustificato dalla definizione che egli aveva dato dell'atomo, concepito come entità indivisibile costituita da "parti minime"lS. Mentre l'atomo è l'ente fisico più piccolo della materia, la "parte minima'' costituisce la più piccola parte di estensione concepibile, la cui esistenza non può tuttavia essere disgiunta dall'atomo. Questa definizione paradossale di una parte priva di parti ha dato luogo a moltissime interpretazioni contrastanti, inducendo alcuni filologi a ipotizzare che Epicuro avesse concepito l'estensione come una successione discreta di minime partil6 , dando vita a un atomismo matematico che prefigurava, almeno nei principi, il calcolo infinitesimalel7. Come ha mostrato Sedley, le "parti minime" servivano a Epicuro per spiegare in modo rigoroso la deviazione del moto degli atomi dalla linea retta, vale a dire l'ipotesi con cui egli dava conto del libero arbitrio. Secondo Epicuro tale deviazione era appunto costituita da una "parte minima" (elakiston), da inten-

legere magisrro Epicuro aut discere voluir, contra quas ille mulrum perrinacirer nihil earum, quanrum arbitrar, intellegens disserebar? ». lS. Benché dorare di una realtà fisica, queste parti non possono essere considerare come degli enti materiali autonomi rispetto all'aroma, ma piuttosto come dei minimi teorici oltre ai quali non è concepibile nessun'altra estensione. l6. Cfr. Bailey (19l8, p. l H): «Area an d marrer were alike a succession ofdiscrere minima>>. l?. Luria (1933). L'ipotesi di Luria è stata rigettata da Vlasros (196s).

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2.. L'EPICUREISMO

A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

dersi non come un cambiamento di direzione, ma come la scelta di una traiettoria parallela diversa (come un'auro che cambia corsia lungo l' aurostrada) 28 . In questo modo Epicuro riusciva a spiegare rigorosamente il moro deviato, definendo una retta come ente con uno spessore pari a una "parre minima'' e la deviazione del moro di un atomo dalla retta come pari a una "parre minima". L'atomo dunque non abbandonava del tutto la linea retta originaria del suo moro, dal momento che non poteva deviare per più di un elakiston, cioè la più piccola estensione concepibile. La deviazione degli atomi poteva così essere spiegata in modo "scientifico': ma occorreva ricorrere a una geometria completamente differente rispetto a quella canonica di Euclide. Di qui discendono le critiche della scuola epicurea agli Elementi, alla quale abbiamo fatto cenno nel paragrafo precedente. Se, come si è detto, sembra che Epicuro non abbia discusso di questioni pertinenti la matematica e le geometria nel trattato Sulla natura, è invece attestato che alcuni suoi discepoli pubblicarono diverse opere in relazione a questi problemi. In una testimonianza di Proda, ad esempio, leggiamo che Posidonio scrisse un'opera contro Zenone di Sidone, il quale- pur accogliendo i principi della geometria euclidea - negava che i giudizi conseguenti rispetto ai principi fossero dimostrabili senza far riferimento a elementi non contenuti nei principi stessi. La polemica di Zenone verreva sulla prima proposizione del primo libro degli Elementi di Euclide: «Su una retta terminata data costruire un triangolo equilatero». A proposito della costruzione del triangolo equilatero, [Zenone] afferma che, anche accettando i principi geometrici, le conseguenze rimarrebbero prive di fondamento, a meno che non si riconosca che due rette non possono avere un segmento in comune. Se questo non si desse, infatti, la costruzione del triangolo equilatero non risulterebbe dimostrata 29 •

La polemica contro alcuni assunti e dimostrazioni contenute negli Elementi, che del resto avrebbe coinvolto numerosi studiosi di geometria fino allo stesso Posidonio, venne ripresa da un altro discepolo di Epicuro, Demetrio Lacone, di cui rimangono alcuni frammenti in un papiro ercolanese intitolato Sulla geometria lo (cfr. FIG. 2.3). Tanto grande era la difficoltà ad ammettere che gli Epi2.8. Il calzante esempio è di Sedley (1976, p. 2.5); si veda anche Asmis (1984, pp. 2.80-3). 2.9. Proclo, Commento agli ''Elementi" di Eudide, fr. A2.s8, pubblicato in Posidonio (2.004, p. 301). Nel P H ere. 1533 Gianluca Del Masrro e Knuc Kleve hanno recuperato il primo (e unico) testimone diretto di Zenone Sidonio dal titolo In risposta a Cratero, "Contro il libro Sulle dimostrazioni di geometria": Del Mastro, Kleve (2.000 ). 30. Pubblicato con commento in Angeli, Dorandi (1987; 2.008). Per le notizie biografiche,

73

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

FIGURA 2.3

Commento di Demetrio Lacone a una proposizione degli Elementi di Euclide (1, 9) sulle proprietà del triangolo

Fonte: frammento del papiro ercolanese PHerc. 1061 cr4; Biblioteca Nazionale di Napoli- Brigham Young University (Provo, Utha, USA). Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

curei avessero potuto occuparsi professionalmente di geometria, che uno dei più grandi storici della matematica greca del secolo scorso, il danese Johan Ludwig Heiberg, aveva addirittura messo in discussione l'identità dell'autore, attribuendo lo scritto al filosofo aristotelico Demetrio di Bisanzio (Heiberg, 1900, p. 151). Tale ipotesi risulta però fuorviante e non necessaria: «in realtà, la presenza tra le opere di Demetrio Lacone di scritti matematici trova la sua giustificazione all'interno di una tradizione che sin dal fondatore del Giardino si espresse verso la matematica ufficiale in termini di netta opposizione» (Angeli, Dorandi, 1987, p. 89). Demetrio visse tra il 150 e il75 a.C. e i frammenti della sua opera, che costituiscono la più antica testimonianza papirologica relativamente all'opera di si veda invece Demetrio Lacone (1988). Oltre a Demetrio, Polieno e Zenone, la scuola epicurea annoverava tra i matematici anche Filonide di Laodicea. Sulla geometria di Epicuro vedi anche Verde (2013). 74

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Euclide, contengono una vera e propria refmazione del primo libro degli Elementi. In un'altra opera di matematica, intitolata Sulle aporie di Polieno, Demetrio prendeva le difese di un discepolo di Epicuro, Polieno di Lampsaco, il quale, avendo formulato una serie di aporie relativamente agli Elementi, aveva attratto su di sé gli attacchi degli Stoici. Polieno, come ha mostrato Sed.ley (1976, pp. 43-8), era entrato in contatto con la scuola di Eudosso, divenendo un matematico di fama 3'; intorno al3II-307 a.C. egli divenne quindi un seguace di Epicuro e applicò il proprio talento a una critica della geometria classica. Dal momento che non è possibile mettere in discussione le capacità tecniche di Polieno riguardo alla geometria, come normalmente viene fatto nel caso di Epicuro, risulta chiaro che le obiezioni mosse dalla scuola epicurea alla geometria classica non potevano essere del tutto infondate. Un'ulteriore testimonianza della ricchezza del dibattito ali' interno della scuola di Epicuro su questioni di carattere geometrico è attestata dal papiro PHerc. 1533, intitolato Zenone l Risposta al (libro) di Cratero 3" "Contro (il libro) Sulle dimostrazioni di geometria". Come giustamente sottolineato da Gianluca Del Mastro, «il titolo di quest'opera costituisce una preziosa testimonianza del dibattito sulle scienze matematiche e, più in particolare, sulla geometria, che si sviluppò nelle scuole filosofiche tra m e 1 sec. a.C. e che vide gli epicurei protagonisti di una dura polemica contro i principi della geometria euclidea» ll. Abbiamo in effetti visto come alla base della polemica degli Epicurei con Euclide vi fosse la difesa a oltranza del concetto di atomo come unità indivisibile e quanta, cioè dotata di minima grandezza, oltre che l'esigenza conseguente di ricondurre anche la geometria ai principi della fisica epicurea: pretesa ovviamente incompatibile con gli assiomi e le proposizioni contenute negli Elementi. La geometria euclidea in effetti non poteva servire, se non attraverso artifici complessi, a spiegare i fenomeni fisici e rimaneva saldamente ancorata alla concezione geometrica dell'universo presentata nel Timeo di Platone. Gli elementi stessi della materia, per Platone, erano solidi regolari, mentre per Epicuro gli atomi erano differenziati da forme variegate e irregolari: la geometria euclidea pertanto non era sufficiente a spiegare i fenomeni fisici se non astraendo da ciò che viene percepito dai sensi e costruendo un modello del tutto artificiale della realtà, come apparivano gli strumenti inventati da Eudosso e dagli astronomi di Cizico. 31. Sulla produzione scientifica di Polieno si veda Tepedino Guerra, Torraca (1996).

Non altrimenti noto. 33· Del Mastro (2.014, p. 347 ). Nella stessa opera Del Mastro esamina i titoli delle altre opere epicuree di carattere astronomico e geometrico alle pp. 2.2.3, 2.43-s e 303-s. 32..

7S

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Indipendentemente dai risultati di questa polemica, impossibili da valutare sulla base dei frammenti che ci sono stati trasmessi, quello che preme sottolineare è I' attenzione che i discepoli di Epicuro - sicuramente ispirati dal maestro -prestarono a questi problemi, che dunque non potevano essere irrilevanti all'interno della dottrina. Quello che si può dire con certezza è che l'elaborazione del trattato Sulla natura prevedeva delle approfondite conoscenze non solo delle scienze astronomiche e degli strumenti utilizzati dagli astronomi, ma anche della lingua da essi adottata, la geometria, per elaborare le proprie dottrine e ipotesi cosmologiche. Anche se tali dottrine erano state vagliate al setaccio di una critica serrata, l'alternativa che veniva proposta poggiava sull'audace tentativo di usare una lingua scientifica nuova, non più riflesso di una visione che attribuiva al cosmo forme ideali e divine, come era la geometria classica, ma fondata sul rifiuto della distinzione tra cosmo e mondo sublunare. Così come non esistevano più, nell'universo epicureo, enti ideali e metafisici, allo stesso modo il linguaggio della fisica, adattandosi alla realtà fisica degli atomi, doveva fare ricorso a enti logici capaci di esprimerne I'essenza materiale. Anche se la grammatica di questa logica ci è sconosciuta, non possiamo più ignorarne - come voleva Koyré - la funzione scientifica. Del resto, Epicuro mette in guardia i suoi discepoli dal contestare il valore della dimostrazione. In un frammento del secondo libro dello scritto di Filodemo Intorno a Epicuro, troviamo la seguente citazione, il cui contenuto è quasi certamente tratto da una delle lettere di Epicuro: a proposito di un certo astronomo-geometra di Cizico, Epicuro dimostra quale è l'errore di Arcefonte, e quelli della cerchia di !dome neo e Leonteo [discepoli di Epicuro a Lampsaco] che si spingono troppo oltre nell' invalidare il valore della dimostrazione, e fa vedere di adirarsi di queste dottrine, considerandole perverse 34 •

2.4

Epicuro e la medicina Un allievo di Epicuro, Timocrate, riferisce che le condizioni di salute del maestro erano così pietose che per molti anni non poté alzarsi dalla sedia gestatoria e che spendeva una mina al giorno per la mensa (Diog. Laer. x, 7 ).

34· Cit. in Bignone (1973. p. 443), ma corretto da Tepedino Guerra (1994, p. 45).

2.

L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

La malattia cronica - si trattava di calcoli renaJil> - aveva forse indotto Epicuro a diffidare dei medici. Così scrive in proposito Marco Aurelio: Epicuro diceva: «Durante la malattia, non conversavo delle sofferenze del mio corpiciarrolo, né parlavo di argomenti simili con quelli che venivano a trovarmi, bensì continuavo a praticare la fìlosofia della natura, ragionando sui punti più imporrami, e insistendo in particolare su quesro: come la mente, pur prendendo parre a tali movimenti nella nostra meschina carne, possa rimanere imperturbata, preservando il proprio bene». E aggiunge: «non permettevo ai medici di essere insolenti, come se potessero fare qualcosa di determinante» (Mare. Aur. IX, 4I; fr. I9I Usener).

La principale medicina somministrata da Epicuro a sé stesso e ai suoi discepoli era la nuova fllosofia della natura, la sola capace di liberare l'uomo dal timore della morte e dal dolore e di consentirgli di raggiungere così il piacere supremo del "vivere beato", una meta resa possibile solo uniformando i desideri umani a quelli dettati dalla natura. In alcune delle sue opere, le parole del fondatore del Giardino non rimasero così vaghe. Tra le raccomandazioni di Epicuro figurano, infatti, anche alcuni precetti dietetici. Ad esempio, nella Lettera a Meneceo si legge: L'abituarsi a diete semplici e non dispendiose produce salute e nel contempo rende l'uomo pronto ad affrontare i bisogni necessari della vita, disponendoci meglio ad accostarci alle cene più prelibare che di ramo in tanto ci roccano; inoltre, ci rende impavidi di fronte alla sorte. Dunque, allorché affermiamo che il piacere è il fine, non facciamo riferimento ai piaceri dei dissoluti e a quelli che risiedono nel godimento [... ],ma il non soffrire nel corpo né turbarsi nell'anima (Epicur. epist. ad Men. I3I).

L'intimo intreccio postulato da Epicuro tra i moti dell'anima e i meccanismi fisiologici del corpo trasformava la dieta in uno strumento terapeutico di importanza fondamentale. È possibile che Epicuro avesse trattato di questi temi in un'opera intitolata Massime sulle malattie, che viene citata da Diogene Laerzio (x, 2.8). La cura del corpo, da perseguire non solo attraverso una corretta alimentazione, costituiva il requisito fondamentale per raggiungere la pace dell'anima. Secondo Luciano, la dieta raccomandata da Epicuro era costituita

35· Così scriveva Epicuro in un frammenro di una lettera pubblicata da Filodemo (1997, p. 185): «sono infatti sei giorni quando ti scrivo queste cose che è cessata l'attività della vescica e

provo dei dolori che conducono all'ultimo giorno>>. Sulla malattia di Epicuro vedi anche l'anicolo di Bitsori, Galanakis (2.004).

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da dolci, focacce con miele e «soprattutto fichi secchi» (Luc. Vit. auct. 19; fr. I 82. • Usener ). Richiamandosi ali' esempio di Epicuro, Seneca scriveva a Lucilio: è perfetta la condizione di un uomo che abbia cura del corpo e dell'anima, e che tragga il proprio bene da entrambi congiumamentel 6 •

Secondo la testimonianza di Plurarco, Epicuro nel Simposio ebbe modo di trattare le proprietà mediche del vino, attribuendo la sua capacità di riscaldare il corpo ad «alcuni aromi produttori di riscaldamento» che, unendosi ai tessuti del corpo, ne altererebbero, a seconda della costituzione individuale, gli equilibri. Questa ipotesi venne discussa - sempre secondo Plutarco - da un medico di nome Zopiro, «che aveva molta familiarità con i discorsi di Epicuro» (Plut. quaest. conv. III, s, 1; fr. 6o Usener). Secondo Aezio Epicuro aveva sostenuto «che anche la femmina secerne liquido seminale. Essa è dotata, infatti, di testicoli rivolti in senso opposto, per questo avrebbe anch'essa un impulso all'unione» (Aet. v, 3, s; fr. 330 Usener). Questa originale teoria, in aperta opposizione al ruolo passivo conferito alla donna dalla biologia aristotelica e stoica, contribuì «in modo p i uttosro incisivo al cambiamento nei rapporti tra i due sessi che caratterizza la società greca tra il IV e il III sec. a.C.» (Capasso, 1987, p. 12.2.). L'insofferenza manifestata da Epicuro nei confronti dei medici non può essere ricondotta unicamente, come non senza malizia si è ipotizzato, alla cronicità della sua malattia; più probabilmente, essa discende da una più generale ostilità verso la componente religiosa che caratterizzava l'attività del medico, e, forse, dall'insofferenza nei confronti delle discipline specialistiche e delle arti. L'esigenza di ricondurre tutta la filosofia della natura ai soli principi dell'atomismo aveva spinto gli Epicurei a sostituire i linguaggi, le merodologie e i modelli operativi delle discipline scientifiche con una sola dottrina. Questo non significa però, come già abbiamo visto nel caso della geometria, che Epicuro evitasse temi molto precisi e circoscritti. È interessante notare come Demetrio Lacone, che abbiamo già incontrato nel paragrafo precedente, avesse criticato tre opere di Ippocrate, il Prognostico, il Prorretico e le Epidemie 37• In relazione ali' anatomia abbiamo poi l'autorevole testimonianza di Galeno: 36. Sen. epist. LXVI, 46 (fr. 434 Usener): «Absolurum enim illud humanae narurae bonum corporis et animi pace comemum est». 37· Demertio Lacone (1988, p. So); Roselli (1988).

2..

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A questo punto, ormai, vale la pena non trascurare quello che sostengono alcuni di quanti sposano le teorie del filosofo Epicuro e del medico Asclepiade. [... ] Ebbene questa è la loro opinione: non è perché i tendini sono spessi, che la loro azione è vigorosa, né perché sono sottili, allora è debole, bensì tali azioni sono necessariamente in questo o quel modo in conformità ai bisogni dell'esistenza; è la consistenza dei tendini, che consegue dalla quantità di movimento, in quanto quelli esercitati, come è naturale, sono in buona condizione e spessi; quelli che rimangono inerti, invece, finiscono per essere atrofizzati e assottigliati (Gal. U.P. l, 21; fr. 373 Usener).

In un altro passo del De usu partium Galeno, per dimostrare l'esistenza della provvidenziale azione degli dèi, cita come esempio la meravigliosa disposizione e struttura anatomica dei denti, che, se fosse stata frutto del caso come volevano gli Epicurei, non avrebbe mai potuto essere tale: Di ciò, in verità, si rimarrebbe meravigliati e ammirati più che di ogni altra cosa, e, pur concedendo tutta la suddetta buona fortuna agli atomi di Epicuro e alle molecole di Asclepiade, non si potrebbe più seguirli su questo punto, bensì ci si renderebbe conto e si direbbe che la disposizione ordinata dei denti è opera di un sovrintendente giusto, più che di un movimento fortunato (Gal. U.P. Xl, 8; fr. 382 Usener).

La contrapposizione tra una visione finalistica della struttura anatomica dell'uomo, comune alla maggior parte delle dottrine mediche classiche, e una invece regolata dallo spontaneo e irregolare moto degli atomi, porta alla luce un dualismo che verrà ripreso - a favore della posizione di Epicuro - solo in epoca moderna; e, anche senza voler attualizzare impropriamente il pensiero epicureo, accostandolo magari a quello di Darwin, è facile capire l'effetto dirompente di una dottrina che aveva come conseguenza quella di destituire gli dèi del loro ruolo tradizionale. La testimonianza di Galeno è per noi molto importante anche sotto un altro aspetto. Al nome di Epicuro infatti viene associato quello del medico Asclepiade (cfr. FIG. 2..4), il quale- come abbiamo visto- era vissuto a Roma ed era stato il maestro di retorica e medicina di Pompeo Magno e Cicerone. Si tratta dunque di un personaggio che, per il fatto di essere vissuto a Roma poco prima che Lucrezio mettesse mano alla sua opera, merita in modo particolare la nostra attenzione~ 8 • Plinio, che ci ha trasmesso il maggior numero di dati 38. Nonostante le testimonianze di Galeno, che come abbiamo visto associano Asclepiade a Epicuro, Vallance (1990) ha recentemente sostenuto, con argomenti non del tutto convincenti, che la relazione tra le due dottrine atomistiche sia del tutto insussistente. Per un'interpretazione differente vedi Scarborough (1993, in part. pp. 43-4).

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FIGURA 2.4

Copia romana(?) del busto di Asclepiade di Bitinia; Roma, Musei Capitolini

sulla vita di Asclepiade e si sforza costantemente di metter! o in cattiva luce 39 , ne descrive la venuta a Roma nel modo che segue: Restavano comunque ben saldi i metodi antichi [di medicina], e difendevano la legittimità di quanto rimaneva di quel grande patrimonio di acquisizioni sicuramente valide, finché Asclepiade, maestro di eloquenza al tempo di Pompeo Magno, che non guadagnava abbastanza con questo mestiere, ma aveva spiccate capacità in settori diversi dal foro, si volse improvvisamente alla medicina. Per un uomo come lui che non se ne 39· L'importanza della dottrina di Asclepiade è sottolineata a più riprese anche da Celso nel De medicina. Nel proemio storico (n), ad esempio, gli attribuisce l'introduzione di un cambiamento radicale nell'arte medica: «Sic in duas partes ea quoque, quae victu curat, medicina divisa est, aliis rationalem artem, aliis usum tantum sibi vindicantibus, nullo vero quicquam post eos, qui supra comprehensi sunt, agitante, nisi quod acceperat, donec Asclepiades medendi rationem ex magna parte mutavit>>.

Bo

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era mai occupato 40 e non conosceva le cure che si devono imparare con l'osservazione e l'esperienza, fu necessario accattivarsi ogni giorno la gente con discorsi infiammati e studiati. Costui rinnegò ogni principio e riportando tutta la medicina al problema delle cause la ridusse a una serie di supposizioni; sostenne che sono cinque i rimedi utili in ogni caso: l'astinenza dal cibo, oppure dal vino, le frizioni del corpo, le camminate, le passeggiate in lettiga. [... ] Oltre a ciò, si attirava le simpatie con artifici privi di fondamento, ora promettendo vino agli ammalati e dandolo nel momento opportuno, ora facendo la stessa cosa con l'acqua fredda. [... ] Escogitò altri espedienti gradevoli: faceva tenere appesi i lettini (il loro movimento o diminuiva il male o conciliava il sonno), introdusse la pratica dei bagni, molto desiderati dalla gente, e di molte altre cose piacevoli e divertenti a raccontarsi; aveva una grande autorità e ugualmente grande divenne la sua fama quando, essendosi imbattuto nel corteo funebre di uno sconosciuto, fece portare indietro l'uomo dal rogo e lo riportò in vita. [... ] Asclepiade fu agevolato dal fatto che nella medicina antica si usavano molti sistemi di cura troppo penosi e grossolani, come quello di avvolgere gli ammalati in una veste e di provocare in tutti i modi la sudorazione, oppure di arrostire il corpo davanti al fuoco o di far cercare incessantemente raggi del sole in una città nuvolosa; mentre egli per la prima volta introdusse l'uso dei bagni sospesi, che piacque infinitamente. Inoltre, per certe malattie eliminò le sofferenze prodotte dalle terapie, come nel caso delle angine, che venivano curate introducendo in gola uno strumento. Condannò giustamente anche l'usanza di provocare il vomito, allora esageratamente diffusa. Pose sotto accusa anche le pozioni mediche in quanto dannose per lo stomaco, il che è vero in gran parte dei casi. [... ] Al successo di Asclepiade contribuirono più di ogni altra cosa le imposture della magia, che erano spinte a tal punto da essere in grado di annullare la fiducia in tutte le erbe4'.

40. Se questa notizia è affidabile, ciò significa che Asclepiade avrebbe appreso la medicina solo durante il soggiorno a Roma. 41. Plin. nat. XXVI, 12.-18: «Durabat tamen antiquitas firma magnasque confessae rei vindicabat reliquias, donec Asclepiades aetate Magni Pompei orandi magister nec satis in arre ea quaestuosus, ut ad alia guam forum sagacis ingenii, huc se repenre convertir atque, ut necesse erat homini qui nec id egisset nec remedia nosset oculis usuque percipienda, torrenti ac meditata cotidie oratione blandiens omnia abdicavi t totamque medicinam ad causas revocando coniecturae feci t, quinque res maxume communium auxiliorum professus, abstinenriam cibi, alias vini, fricationem corporis, ambulationem, gestationes [... ]. Trahebat praeterea mentes artificio inani, alias vinum promittendo aegris dandoque tempestive, iam frigidam aquam [... ].Alia quoque blandi menta excogitabat, iam suspendendo lectulos, quorum iactatu aut morbos extenuaret aut somnos adliceret, iam balneas avidissima hominum cupidine instituendo et alia multa dictu grata argue iucunda, magna auctoritate nec minore fama, cum occurrisset ignoto funeri, relato homine ab rogo atque servato [... ]. Asclepiaden adiuvere multa in antiquorum cura nimis anxia et rudia, ut obruendi aegros veste sudoresque omni modo ciendi, n un c corpora ad ignes torrendi solesve adsiduo quaerendi in urbe nimbosa, immo vero tota Italia imbricirrice, rum primum pensili balinearum usu ad infinitum blandiente. Praeterea in quibusdam morbis medendi cru-

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Molti degli elementi riportati da Plinio rafforzano l'impressione che Asclepiade fosse effettivamente un seguace della dottrina epicurea. La dieta parca, la somministrazione oculata del vino, l'esercizio fisico, lo scetticismo nei confronti dei rimedi tradizionali, la ricerca di strumenti terapeutici naturali per alleviare il dolore, come le terme e il letto sospeso, sono tutti elementi in linea con i precetti di Epicuro. Anche la dottrina medica adottata da Asclepiade, pur discostandosi in qualche punto da quella di Epicuro, tendeva a ricondurre la causa delle malattie alla disposizione delle molecole e dei pori, basandosi su una concezione della materia che prevedeva l'esistenza del vuoto 42 • Per Asclepiade dunque la fisiologia viene ricondotta alla fisica e pertanto la disposizione anatomica delle parti, difesa da Galeno e dagli altri medici, costituisce una distrazione dalla vera costituzione del corpo umano, ovvero i corpuscoli e i pori. Secondo questa concezione, le malattie insorgono quando il moto dei corpuscoli viene ostacolato da ostruzioni presenti nei pori. È vero che per Asclepiade i corpuscoli non erano, come gli aromi di Epicuro, insecabili, ma - anche senza sminuire questa imporrante differenza con l'atomismo epicureo- troppi sono i punti di contatto tra le due visioni del corpo e della terapia medica, perché non si riconosca, come del resto aveva già fatto Galeno nel I secolo d.C., una comune matrice filosofica. La consonanza tra le idee di Asclepiade e quelle di Epicuro è ulteriormente sottolineata dalla comune inclinazione a rompere in modo radicale con la tradizione culturale precedente e a introdurre sistemi teorici capaci di conquistarsi, contro il parere della stragrande maggioranza dei loro pari, un'immediata e diffusa popolarità 43 • È sintomatico a questo proposito che nel passo appena citato Plinio, invece di soffermarsi sulla filosofia corpuscolare del sistema di Asclepiade 44 , si sforzi piuttosto di mettere in evidenza l'enorme successo ottenuto da terapie tanto radicali quanto semplici, sottolineando i pericoli insiti in un sistema di cure che di fatto aveva la conseguenza di relegare il ruolo sociale del medico in secondo piano. Non era forse il sistema di Asclepiade in sintonia ciatus detraxit, ut in anginis, quas curabant in fauces organo demisso. Damnavit merito et vomitiones tu n c supra modum frequentes. Argui t et medicamentorum potus stomacho inimicos, quod est magna ex parte verum. [... ] Super omnia adiuvere eum magicae vanitates in tamum evectae, ut abrogare herbis fìdem cunctis possent >>. 42.. Su Asclepiade ed Epicuro si veda Pigeaud (1981, pp. 171-96). 43· Sul rapporto medicina del corpo l medicina dell'anima nella scuola epicurea cfr. Gigante ( 1975). 44· Tale fìlosofìa ci è nota grazie alle critiche di Galeno e alle numerose testimonianze contenute nel De morbis acutis di Celio Aureliano.

2.. L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

con quella medicina rurale dei Romani invocata da Catone, che i medici mossi da interessi personali avevano corrotto? Fu forse questa la ragione principale del successo di Asclepiade?

2.5 L'epicureismo a Roma L'epicureismo fu una dottrina filosofica che, durante tutta l'età ellenistica, godette di un seguito eccezionale, tanto che - secondo Cicerone - fu capace di conquistare non solo la Grecia e !'Italia, ma anche ogni nazione barbara 45 •

La ragione che favorì la conversione di cittadini appartenenti a culture tanto diverse tra loro va fatta risalire al fascino di un messaggio che, per quanto aspirasse a coprire tutto lo scibile, rispondeva alle inquietudini di vasti strati della popolazione e non solo alle mode culturali delle classi colte. Del resto, se dobbiamo dare credito a una testimonianza di Lattanzio, Epicuro accoglieva nella sua scuola anche gli ignoranti (rudes) e più in generale chiunque volesse convertirsi, più che a una dottrina, a un modo di vivere 46 . Questo tratto di proselitismo trasversale si nota con particolare evidenza nel caso dell'Italia. Come abbiamo avuto modo di sottolineare nel CAP. 1, tra la fine del n e gli inizi del 1 secolo a.C. si diffuse rapidamente a Roma l'interesse per le discipline filosofiche e scientifiche. In particolare, l'annessione della G reeia aveva suscitato nella cultura latina una profonda ammirazione per lo straordinario livello di cultura acquisito dai Greci e per la vivacità culturale che caratterizzava le scuole filosofiche dell'epoca. La celebre presa di posizione di Catone il Censore contro il potere corruttore della cultura greca venne rapidamente abbandonata, a favore di una rapidissima campagna di assimilazione ed emulazione. Questo processo di feconda contaminazione culturale vide come protago-

4S· Cic. fin. II, 49: «Philosophus nobilis, a quo non solum Graecia et Italia, sed etiam omnis barbaria commota est». 46. Lact. inst. III, 2.5, 6-13: «Senserunt hoc adeo Stoici, qui et servis et mulieribus philosophandum esse dixerunt, Epicurus quoque, qui rudes omnium litterarum ad philosophiam invitar, item Plaro, qui civitatem de sapientibus uoluit componere. [... ] Ob eam causam Tullius ait abhorrere a multitudine philosophiam. At enim rudes Epicurus accipiet».

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

nisti, fin dai primi momenti, anche gli Epicurei 47• Già subito dopo la Seconda guerra punica si assiste ai primi tentativi di diffondere, non senza resistenze, il verbo di Epicuro. Nel I6I a.C. venivano espulsi da Roma due discepoli di Epicuro, Alceo e Filisco: ufficialmente vennero allontanati per «avere introdotto costumi licenziosi» 48 , ma probabilmente dietro questa accusa si nascondevano i timori nei confronti di una dottrina che esplicitamente negava la provvidenza divina, le superstizioni stoiche e il carattere coercitivo delle credenze religiose. Se si pensa al fondamentale valore politico assunto a Roma dalla religione, è evidente che una fìlosofia come quella epicurea, che indicava come sua prima missione la liberazione dell'uomo dal timore della religione e della morte, non poteva non essere guardata con sospetto e ostilità. Forse proprio all'episodio dell'espulsione dei due Epicurei si riferisce Polibio, scrivendo a non molti anni di distanza: In una nazione formata da soli filosofi, sarebbe infatti inutile ricorrere a mezzi come questi, ma poiché la moltitudine è per sua natura volubile e soggiace a passioni di ogni genere, a sfrenata avidità, a ira violenta, non c'è che trattenerla con siffatti apparati e con misteriosi timori. Sono per questo del parere che gli antichi non abbiano introdotto senza ragione presso le moltitudini la fede religiosa e le superstizioni sull'Ade, ma che piuttosto sono stolti coloro che cercano di eliminarle ai nostri giorni. Se fosse possibile fondare uno Stato in cui tutti i cittadini fossero filosofi, potremmo forse far a meno di questo genere di cose [la superstizione religiosa]; ma in ogni Stato le masse sono instabili, piene di desideri illeciti, di violente passioni. Tutto quel che si può fare è quindi tenerle a freno col timore dell'invisibile e con altri inganni del genere. Non a caso, ma a ragion veduta, gli antichi insinuavano nelle masse idee sugli dèi e pensieri sulla vita ultraterrena. La follia e l'incapacità sono nostre, poiché cerchiamo di disperdere tali illusioni (Poi. VI, s6).

Dunque i provvedimenti dei pontefici romani in difesa delle credenze religiose non erano dettati dalla fede, ma dalla mira politica di tenere sotto controllo la pericolosa volubilità delle masse. Ancora nel 92 a.C., i censori Gneo Domizio Enobarbo e Lucio Licinio Crasso emisero il seguente decreto per ostacolare l'attività dei re tori latini:

47· Sull'epicureismo a Roma si veda Farrington (1939, capitoli 12 e q), e la puntura ed erudita recensione di Momigliano (1941); Giuffrida (1940; 1959); Paratore (1960); Gigante (1983); Schmid (1984); Sedley (1989); Gigante (1990); Casrner (1990); Erler (1994, pp. 363490); Maso (2oo8). 48. Su questo episodio si veda Farrington (1939, pp. 165-6) e il più recente contributo di Ferguson, Hershbell (1990, pp. 2261-2).

2.. L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

Ci è stato riferito che delle persone hanno istituito un nuovo genere di insegnamento, che i giovani frequentano le loro scuole, e ivi i giovani tutto il giorno si impigriscono. I nostri avi stabilirono che cosa i giovani dovessero imparare e quali scuole frequentare. Queste innovazioni, contrarie ai costumi e alle usanze degli avi, non ci garbano e non ci sembrano adatte49.

Altri provvedimenti, più o meno restrittivi, non riuscirono però a impedire che i giovani dell'aristocrazia romana del I secolo a.C. subissero l'irresistibile fascino della cultura greca e in particolare delle sette filosofiche, come quella epicurea, che alimentavano l'ansia di rinnovamento che covava alla vigilia della guerra civile. La filosofia di Epicuro, infatti, non offriva una visione del mondo secondo cui l'universo era retto da un ordine preordinato, prevedibile sulla base dell'interpretazione dei misteriosi responsi degli aruspici, ma una concezione del tutto opposta, ove l'uomo poteva diventare padrone del proprio destino ed emanciparsi dalle superstizioni che, da secoli immemori, lo tenevano schiavo di una predestinazione senza scampo. Allo stesso modo in cui la dottrina medica di Asclepiade aveva insegnato ai Romani come curarsi da sé senza l' intercessione dei medici, così la filosofia del Giardino offriva loro la possibilità di liberarsi dai vincoli sociali imposti dalla legge e della religione e di condurre una vita propria. Per giungere a questo fine, però, Epicuro invitava i suoi seguaci a lasciare le occupazioni politiche e a dedicarsi interamente allo studio della natura, un aspetto questo che difficilmente poteva attecchire senza sostanziali compromessi in una cultura ove l'esistenza e la dignità dell'uomo venivano sancite dallo status di civis Romanus. Come tollerare infatti la raccomandazione a liberarsi dai vincoli imposti dalla società per badare unicamente a sé stessi, vivendo nascosti e in armonia amorosa con il prossimo? È proprio questa condotta di vita a suscitare le critiche di Plutarco, che impersonano al meglio lo spirito del Romano antico: Ma chi sono quelli che sovvertono, dissolvono e distruggono dalle fondamenta gli Stati,le magistrature e l'assetto delle leggi? Non sono quelli che cercano di tenere lontani dalla politica sé stessi e il loro prossimo? Non sono quanti asseriscono che la corona dell'imperturbabilità non è nemmeno paragonabile a quella delle grandi potenze?

49· Geli. xv, 11, 2.: «Renuntiatum est nobis esse homines, qui novum genus disciplinae in· stituerunt, ad quos iuventus in ludum conveniat; eos si bi nomen inposuisse Latinos rhetoras; ibi horn in es adulescentulos dies totos desidere. Maiores nostri, guae liberos suos discere et quos in ludos itare vellent, instituerunt. Haec nova, guae praeter consuetudinem ac morem maiorum fìunt, neque placent neque recta videntur». Su questi episodi si veda anche la monografia di Della Valle (1933, pp. 2.53-4).

Bs

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Non sono quelli che dichiarano che esercitare la sovranità è una colpa e un errore? (Piut. adv. Col. 3I; fr. ss6 Usener).

Ai tempi di Plutarco, grazie all'instaurazione dell'Impero, il pericolo che la setta di Epicuro contribuisse al dissolvimento dello Stato romano era stato almeno per il momento - neutralizzato. Un secolo prima, per contro, la fllosofia del Giardino aveva contagiato anche non pochi uomini politici. Tra di essi mette conto ricordare il nome di Tito Albucio, propretore della Sardegna nel 104 a.C., il quale, come ironizzerà Cicerone nelle Tusculanae disputationes, poté approfittare veramente dei precetti di Epicuro solo quando fu esiliato ad Atene (Cic. Tusc. v, 108). Lo stesso Cicerone aveva studiato filosofia a Roma (verso il 90 a.C.) e ad Atene (nel 79-78 a.C.) sotto la guida degli epicurei Fedro e Zenone Sidonio e, pur senza mai convertirsi, conservò una profonda conoscenza della dottrina di Epicuro, che cercò, con sistematicità costante, di confutare. Tuttavia, il disprezzo per la dottrina non lo rese insensibile e irrispettoso nei confronti di amici, come Pomponio Attico e Cassio, che per ragioni diverse avevano aderito alla filosofia del Giardino so. Nel De finibus Cicerone ci offre il ritratto, oltremodo positivo, di un altro amico, il tribuno di origine plebea Lucio Torio Balbo: Quest'uomo viveva in tale maniera che era impossibile immaginare alcun piacere, anche il più raffinato, di cui non avesse notizia. Cupido di ogni voluttà, egli possedeva una speciale finezza di buon gusto e un'intelligenza piena di risorse. Era così poco superstizioso che scherniva i sacrifici e i santuari di cui era pieno il suo paese nativo. Disprezzava la morte, al punto che perdette la vita sul campo di battaglia, combattendo per la patria. Cercava il limite dei piaceri non nella divisione di Epicuro ma nella propria sazierà. Però aveva cura della propria salute [... ].Non mangiava che cibi i quali fossero a un tempo molto squisiti e di facile digestione. Beveva vino finché gli facesse piacere, ma evitando di riportarne danno. Assaporava tutti quegli altri godimenti, tolti i quali, Epicuro pretende essere impossibile formarsi un concetto di ciò che sia il bene. Era esente da ogni specie di dolore; del resto, se qualcuno gliene fosse sopravvenuto, egli l'avrebbe sopportato senza debolezza, ricorrendo ai medici piuttosto che ai filosofi. Ottimo era il colorito del volto, eccellente la salute, grandissima la simpatia che riscuoteva; insomma un'esistenza sovraccarica di tutti i più svariati piaceris 1 •

so. Sui rapporti di Cicerone con l'epicureismo, si veda Maso (20o8). Cic.fin. II, 63-64: «ls [sci!. L. Thorius Balbus] ira vivebar, ur nulla ram exquisira posser inveniri volupras, qua non abundaret. Erat et cupidus voluptarum et eius generis intellegens et copiosus, ira non superstitiosus, ur illa plurima in sua patria sacrifìcia et fana contemneret, ira non timidus ad mortem, ut in acie si t ob rem publicam interfecrus. Cupiditates non Epicuri divisione SI.

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Anche per Cicerone, dunque, vivere seguendo i precetti - pur errati- del Giardino poteva occasionalmeme condurre a un'esistenza felice. Nell'estate del sr a.C., su richiesta di Patrone, capo della scuola epicurea ad Atene, Cicerone accettava di farsi promotore nella causa diretta a salvare le rovine della casa di Epicuro dalla demolizione ordinata da Gaio Memmio, il mecenate di Lucrezio e Catullo, nonché dedicatario del De rerum natura. Vale la pena di citare qualche passaggio della lettera a Memmio, che offre anche un interessante spaccato dell'epicureismo romano: Con Patrone l'epicureo condivido tutto fuorché le convinzioni filosofiche, riguardo alle quali non sono per nulla d'accordo con lui. A parte questo, all'inizio del suo soggiorno a Roma- allora mostrava rispetto per te e per tutti i tuoi - mi ossequi ava più di ogni altro. Ora che è stato accontentato in tutti i benefici e favori che voleva, continua a considerare proprio me più o meno come il principale suo difensore e amico. In precedenza mi era stato presentato e raccomandato da Fedro, che in gioventù - ancora prima di conoscere Filone - apprezzavo molto come filosofo, e che poi mi limitai ad apprezzare solo come persona onesta, compiacente e premurosa. Dunque questo Patrone mi inviò una lettera a Roma, perché ti rabbonissi nei suoi riguardi e ti chiedessi di concedergli non so che casa in rovina di Epicuro. [... ] So bene che tu conosci le argomentazioni e le ragioni di Patrone: egli adduce il dovere di tutelare l'onore, l'onere e i diritti testamentari, il prestigio di Epicuro, i giuramenti di Fedro, la sede della scuola, l'abitazione e i ricordi di tanto grandi personaggi. Possiamo pure mettere in ridicolo tutto il suo genere di vita e l'indirizzo filosofico che segue, se vogliamo cavillare con le sue richieste; ma proprio perché non possiamo essere ostili sul serio a lui e a tutti quelli che si divertono con quel genere di passatempi filosofici, mi chiedo se non dovremmo essere comprensivi con lui se si affanna tanto 11 •

fìniebat, sed sua satietate. Habebat tamen rationem valitudinis: utebarur [... ] eo cibo, qui et suavissimus esser et idem facillimus ad concoquendum, vino et ad voluptatem et ne noceret. Cetera illa adhibebat, quibus demptis negar se Epicurus inte!legere qui d si t bonum. Aberat omnis dolor, qui si adesset, nec molliter ferret et tamen medicis plus quam philosophis utererur. Color egregius, integra valirudo, summa gratia, vita denique con ferra voluptatum omnium vari eta te». 52.. Cic.fom. XIII, 1, 2.-3: «Cum Patrone Epicurio mihi omnia sunt, n isi quod in philosophia vehementer ab eo dissenrio. Sed et initio Romae, cum te quoque et tuos omnis observabat, me coluit in primis et nuper, cum ea quae voluit de suis commodis et praemiis consecurus est, me habuit suorum defensorum et amicorum fere principem et iam a Phaedro, qui nobis cum pueri essemus, ante quam Philonem cognovimus, valde ut philosophus, postea tamen ut vir bonus et suavis et officiosus probabatur, traditus mihi commendatusque est. Is igitur Patro cum ad me Romam litteras misisset, uri te si bi placarem peteremque ut nescio qui d illud Epicuri parietina· rum si bi concederes, nihil scripsi ad te ob eam rem quod aedifìcationis tuae consilium commen· datione mea nolebam impediri. [... ] Quamquam Patronis et orationem et causam tibi cognitam esse certo scio; honorem, officium, testamentorum ius, Epicuri auctoritatem, Phaedri obresta-

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Patrone dunque era stato a Roma e aveva frequentato, oltre a Cicerone, il circolo dei protetti (forse anche Lucrezio?) di Memmio, la cui fede epicurea doveva essere tutt'altro che solida se, forse per una ripicca, aveva deliberato di distruggere le vestigia della scuola. L'esito della perorazione di Cicerone non ci è noto. Ciò che però possiamo dire è che, mentre ad Atene la memoria e il culto di Epicuro erano alla mercé della volubilità di un potente, a Roma la sua fìlosofia si era diffusa molto rapidamente, attirando l'attenzione di uomini politici di alto livello. Prima di occuparci di loro è però opportuno ricordare che lo stesso Cicerone, in seguito ali' esito nefasto della guerra civile, aveva abbandonato la politica e- in sintonia con le raccomandazioni di Epicuro- aveva optato per una vita ritirata, nella sua villa di Pozzuoli, per dedicarsi alla fìlosofia (Cic. Att. xv, 13a). Ed è proprio nelle opere fìlosofiche di Cicerone che troviamo la più ricca documentazione sugli Epicurei romani. Nel De natura deorum, composto nel 45 a.C., Cicerone immagina un incontro fittizio, ambientato tra il 77 e il 75 a.C. presso la residenza dell'amico Cotta, il quale stava animatamente discutendo col senatore Gaio Velleio, un uomo al quale in quel tempo gli Epicurei assegnavano un posto di primo piano fra i nostri concittadini 13 •

L'identità di questo influente senatore è purtroppo rimasta nel vago, ma sappiamo che fu tribuna nel9o a.C. e faceva parte degli amici dell'oratore Licinio Crasso (Cic. de orat. III, 78). Durante questo periodo o forse un po' prima, intorno cioè alla fine del II secolo a.C., l'opera di Epicuro aveva raggiunto gli strati meno colti della popolazione romana grazie agli scritti di Amafìno. Fu grazie a questo oscuro autore che l'epicureismo toccò a Roma l'apice della popolarità, favorito - secondo il malizioso appunto di Cicerone- dalla mancanza di fìlosofi di lingua latina: approfittando del loro silenzio, si levò a parlare Gaio Amafino, e la gente, colpita dalla pubblicazione dei suoi libri, si volse con grande fervore alla dottrina epicurea, sia per-

rionem, sedem, domicilium, vestigia summorum hominum si bi tuenda esse dici t. Totam hominis vitam rationemque quam sequitur in philosophia derideamus licet si hanc eius contentionem volumus reprehendere. Sed mehercules, quoniam illi ceterisque quos illa delectant non valde inimici sumus, nescio an ignoscendum sit huic si tanto opere laborat». 53· Cic. nat. deor. l, 15: «Nam eu m feriis Latinis ad eum ipsius rogatu arcessituque venissem, offendi eum sedemem in exedra et cum C. Velleio senatore disputantem, ad quem tum Epicurei primas ex nostris hominibus deferebant ».

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ché essa era di facilissima comprensione, sia perché vi scorgeva un seducente invito al piacere, sia anche perché, nell'assenza di pubblicazioni migliori, la gente si accontentava di ciò che c'era. Dopo Amafino, molti altri seguaci della stessa scuola occuparono l'Italia intera con i loro numerosi scritti, e proprio i punti che costituiscono la più grande prova della scarsa finezza di quella filosofia, cioè la grande facilità del suo apprendistato e il favore di cui gode presso gli incolti, sono per loro una conferma della validità della loro dottrina1 4 •

Nonostante il consueto tono denigratorio riservato ai seguaci di Epicuro, la testimonianza di Cicerone si rivela preziosa, perché mostra come l'importanza attribuita da Epicuro alla canonica costituisse un efficacissimo strumento di proselitismo; allo stesso modo, una morale che liberava l'uomo dai vincoli imposti da una gerarchia sociale rigidissima non poteva non avere un grande seguito presso quello che Cicerone definiva, sprezzantemente, il popolo degli indocti. A questo proposito occorre poi precisare che la maliziosa allusione, secondo cui il successo dell'epicureismo sarebbe in massima parte dipeso dal fatto di invitare al piacere, era stata smentita in numerose occasioni dallo stesso Arpinate, che più volte aveva riconosciuto l'alto valore morale dell'etica di Epicuro. Del resto, questa accusa è sconfessata nel modo più clamoroso dall'intima amicizia che legava Cicerone a moltissimi Epicurei 11, primo tra tutti Pomponio Attico, più volte chiamato a risolvere - al pari di una guida morale - i dubbi e i tormenti etico-politici che accompagnavano I'Arpinate nel suo problematico tentativo di combinare cultura filosofica e azione politica. Allo stesso modo, è difficile credere che il successo di Amafino fosse dipeso esclusivamente dalla mancanza di opere filosofiche scritte in lingua latina. Le critiche di Cicerone sembrano invece avere un maggior fondamento quando, in numerose occasioni, mettono a nudo la rozzezza terminologica dei volgarizzatori latini della dottrina di Epicuro, ma anche in questa circostanza può sorS4· Cic. Tusc. IV, 3. 6-7: «ltaque illius verae eleganrisque philosophiae, guae ducta a Sacrate in Peripateticis adhuc permansit et idem alio modo dicenti bus Stoicis, cum Academici eorum conrroversias disceptarent, nulla fere sunt aut pau ca admodum Latina monumenta si ve propter magnitudinem rerum occupationemque hominum, sive etiam quod imperitis ea probari posse non arbitrabantur, cum interim illis silenribus C. Amafìnius extitit dicens, cuius libris editis commota multirudo conrulit se ad eam potissimum disciplinam, sive quod erat cogniru perfa· cilis, sive quod invitabanrur inlecebris blandis voluptatis, sive etiam, quia nihil erat prolarum melius, illud quod erat tenebant. Post Amafìnium aurem multi eiusdem aemuli rationis multa cum scripsissent, ltaliam toram occupaverunt, quodque maxumum argumentum est non dici illa subtiliter, quod et tam facile ediscantur et ab indoctis probentur, id illi fìrmamentum esse disciplinae putant >>. SS· Si veda in proposito Della Valle (1933, pp. 314-51).

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

gere il sospetto che questi serali fossero in qualche modo riconducibili alla sua pretesa, manifestata in ogni occasione, di essere stato il primo intellettuale latino a introdurre e tradurre la fìlosofìa greca a Roma. Accanto ad Amafìno Cicerone cita anche Rabirio, di cui non si hanno notizie certe, e Cazio, un lombardo morto intorno al 45 a.C., che scrisse un libro intitolato De rerum natura e che Cicerone deride per la sua scelta di tradurre il greco eidola (i simulacra di Lucrezio) con il latino spectra (cfr. Cic.Jam. xv, I6, I). Forse contemporaneo di Lucrezio fu Egnazio, che scrisse un poema, diviso in ere libri, anch'esso intitolato De rerum natura. Sebbene Memmio, come abbiamo visto, fosse un sostenitore tutt'altro che convinto della fìlosofìa epicurea, il suo mecenacismo nei confronti di Lucrezio e Catullo ha indotto a credere che intorno a lui e a Patrone si fosse creato a Roma un attivo circolo di seguaci di Epicuro. Oltre ad Attico, che non nascondeva la sua simpatia per la fìlosofìa del Giardino, anche se soprattutto per quanto riguarda i temi morali, un altro illustre corrispondente e amico di Cicerone, Gaio Trebazio Testa, destinato a diventare un giurista di grido, si era convertito all'epicureismo nel s3 a. C. (cfr. Cic. fa m. VII, I 2, I), senza che questo evento suscitasse alcuno scandalo presso il suo interlocutore. Il corrispondente ciceroniano più famoso tra quelli che si convertirono all'epicureismo fu però Cassio (fine del46 a.C.), l'ispiratore della cospirazione che di lì a poco avrebbe portato all'assassinio di Cesare. La reazione di Cicerone di fronte alla conversione dell'amico, all'inizio scherzosa, si conclude con una concessione alla forza attrattiva dell'epicureismo, che vale la pena riportare: E d'altra parte, con chi sto parlando? Con un uomo tutto d'un pezzo quale sei tu che, quando hai calcato il foro, non hai fatto mai nulla che non fosse ricolmo della più grande dignità. Peraltro persino nella "scuola" cui tu aderisci temo vi sia più energia di quanto io abbia creduto, se ora tu l'approvis 6 •

L'adesione all'epicureismo da parte di Cassio e di altri oppositori di Cesare, come ad esempio Lucio Manlio Torquato 17, viene solitamente posta in relazione con la loro avversione alla tirannide, di cui Cesare rappresentava l'incarnazione. Occorre tuttavia rilevare che allo stesso tempo l'epicureismo aveva con-

s6. Cic.fom. xv, 16,3: «Quamquam quicum loquor? Cum uno fortissimo viro, qui, postea quam forum attigisti, nihil fecisti nisi plenissimum amplissimae dignitatis. In ista ipsa ctlpÉ>. 94

2.. L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

e propria diffusione su grande scala67• In mancanza di testimonianze che precisino la vaga allusione di Plinio, non è possibile mettere in relazione la realizzazione dei grandi giardini promossi da Lucullo, Cassio e Cesare, così come da altre figure pubbliche che avevano familiarità con la dottrina di Epicuro, con il kepos ateniese. Sappiamo però, sempre da Plinio, che un simpatizzante di Epicuro, di nome Gaio Mazio, fu colui che primo inventò l'arte di tosare i boschi in varie fogge So anni or sono [ca. 68 IO a.C.] •

Per un epicureo coerente come Lucrezio, la strada da seguire rifuggiva i palazzi sontuosi o le costruzioni artificiose, ed era preferibile trovare ristoro con gli amici, sdraiati sulla molle erba lungo un rivo d'acqua sotto i rami d'un albero alto 69.

Alcuni archeologi e storici dell'arte antica 70 hanno individuato in numerosi esempi di pitture pompeiane a soggetto naturalistico delle consonanze con la concezione lucreziana della natura. In assenza di precise corrispondenze tra il De rerum natura e le vedute su giardini, marine e altri paesaggi rappresentati nei vari affreschi, è difficile non avere riserve a proposito di queste entusiastiche attribuzioni. È però impossibile non rimanere abbagliati dalla passione per una natura rigogliosa e solo parzialmente addomesticata che si ammira in alcune composizioni, come per esempio le bellissime vedute di giardino della Casa del Bracciale d'Oro di Pompei, che rivelano idee e ispirazioni di matrice epicurea. La disposizione di queste pitture in ambienti raccolti, da cui si effondeva un' atmosfera di serenità e distacco (De Carolis, 2007, in pare. p. 148), sostituiva di fatto i lari con la rappresentazione della natura (cfr. FIG. 2.6). Un indizio forse più concreto della relazione tra il giardino epicureo e la trasformazione dello spazio architettonico delle ville romane ci viene dalla presenza di un ritratto di Epicuro nel peristilio della Casa dei Vettii (Gigante, I979, p. uo) e, ancora una volta, dall'audace disposizione degli spazi nella Villa dei

67. Grimal (1984, pp. 42.7-8). Sui giardini romani si veda anche Henderson (2.004). 68. Plin. nat. XII, 13: «Primus C. Matius ex equestri ordine, Divi Augusti amicus, invenit nemora ronsilia inera hos LXXX annos >>. 69. Lucr. Il, 2.9-33: «Cum tamen imer se prostrati in gramine molli l propter aquae rivum

sub ramis arboris alrae l non magnis opi bus iucunde corpora curane, l praeserrim cum tempesras arrider et anni l rempora conspergunr viridantis floribus herbas >>. 70. In particolare Schefold (1972., pp. 47, 109 e 113); Borbein (197s).

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

FIGURA 2..6

Affresco con veduta di giardino; Pompei, Casa del Bracciale d'oro. Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei

Papiri di Ercolano 71 • L'enorme villa, che occupa un'estensione di 250m su un rialzo che, ai tempi dell'eruzione del79 d.C., dominava la scogliera, si distingue per un lunghissimo colonnato rettangolare (95 m), forse un giardino, al centro del quale si trovava una piscina. Questo spazio era collegato, attraverso un viale sui cui lati si estendeva un altro giardino aperto, a un ambiente a pianta circolare che è stato interpretato come un belvedere sospeso sul mare. Secondo l' archeologo francese Gilles Sauron, «la presenza di una torre in prossimità del ginnasio suggerisce che il proprietario della villa, una decina d'anni dopo la pubblicazione del De rerum natura,[ ... ] ha voluto rappresentare, per mezzo dell'architettura e della decorazione, il celebre prooemium 7 l del canto II del poema di Lucrezio» 7 3. 71. Sulla villa si veda La villa dei papiri (1983): Guzzo (1999 ): Guidobaldi, Pesando (2.007). 72.. Lucr. II, 1-4: « Suave, mari magno turbanti bus aequora ventis l e terra magnum alterius spectare laborem; l non quia vexari quemquamst iucunda voluptas, l sed quibus ipse malis careas quia cernere suave est>>. 73· Sauron (1983, pp. 69-82., in part. pp. 81-2.). Su questo stesso tema Wallace-Hadrill (1998,

2.. L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

La Villa dei Papiri, che i più credono sia appartenuta a Lucio Calpurnio Pisone, divenne - sotto la guida di Filodemo di Gadara - uno dei principali centri di studi e di insegnamento dell'epicureismo in Italia, ed è proprio a Filodemo che si deve l'organizzazione dell'importante biblioteca a cui si è più volte accennato. I busti di Epicuro, di Ermarco, di Metrodoro e (forse) di Democrito segnalano l'intento di tracciare, probabilmente in due fasi distinte e non egualmente coerenti, un programma di decorazione scultorea influenzato dalla filosofia del Giardino 74 • Biblioteca, giardino, ambientazioni architettoniche e percorsi scultorei sembrano parte di un disegno omogeneo, teso alla creazione presso la Villa ercolanese di un ambizioso scenario dentro il quale rappresentare elementi diversi della filosofia di Epicuro. Se il giardino romano sembra essere lo spazio che ha subìto maggiormente l'influenza della filosofia epicurea, altri ritrovamenti e suggestive interpretazioni rivelano la presenza epicurea e lucreziana nel paesaggio urbano. Lo storico dell'arte Karl Galinsky (1969, pp. 2.03-41) ha per esempio identificato la Venere lucreziana, prospera, feconda e pacificatrice, nella rappresentazione della Terra madre che si vede nel rilievo che celebra la Pace augusta nell'Ara Pacis (cfr. FIG. 2.7). In conclusione, si può osservare che la presenza e l'immagine di temi epicurei non era confinata unicamente agli inaccessibili ambienti dell'aristocrazia romana. Pompei, residenza di una florida classe di mercanti e artigiani, reca segni diffusi della presenza di Epicuro e di Lucrezio. L'esistenza di un fregio pittorico raffigurante Epicuro e i suoi allievi, oggi andato distrutto, indica che l'insegnamento della filosofia del Giardino era apprezzato anche tra gli operosi cittadini della città campana (Della Corte, 1959) (cfr. FIG. 2.8). Inoltre, il rinvenimento di un graffito presso la casa di Fabio Rufo 7 S, con l' incipit del secondo libro del De rerum natura, attesta la popolarità di un autore evidentemente conosciuto e amato anche tra i cittadini più umilF 6. Ancora a Pompei, un altro graffito ( CIL, IV 3072), con l' incipit del poemaAenaedeum genetrix77, richiama l'inno a Venere, che- come è noto- era la divinità protettrice della città. Infine, in un'iscrizione funeraria trovata a Napoli è possibile leggere il seguente epitaf-

74· Pandermalis (1983); per una recente reinterprerazione del programma scultoreo della villa guidata da nuovi esami archeomerrici vedi lo studio di Manusch (2.0os). 7S· Solin (1975. in parr. pp. 2.SO·I). Sul graffito si veda anche la scheda di Antonio Varone in Rediscovering Pompeii (1990, pp. ISO-I). 76. Per una più ampia contesrualizzazione si veda Gigante (1979 ). 77· E nongenitrix, come già rilevato da Carlo Giussani in Lucrezio (1896-98, vol. II, p. u).

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

FIGURA 2..7

Rilievo raffigurante "madre Terra", simbolo della fertilità c della pace (9 a.C.); Roma, Ara

Pacis

FIGURA 2..8

Riproduzione di un affresco pompeiana, oggi perduto, raffigurante la scuola di Epicuro

JJlP

~

FonU: Della Corte (1959).

fio: «Gaius Stallius Hauranus, membro del gioioso coro epicureo, protegge questo luogo» 78 • p. II) ha scritto che «che burghers ofPom peii were no t incapable of quasi -cpicurean sentiment ». Marcello Gigante (1990, pp. 69-70) ha notato l'assonanza del passo lucreziano con un epigramma di Filodemo. La posizione di Sauron è stata recentemente messa in discussione, per la verità senza argomenti nuovi o convincenti, da Capasso (2.010). Può essere interessante ricordare che nel 1785, in maniera analoga, Frederick Auguscus Hervcy, vescovo di Derry, sul modello del tempio di Vesta a Roma, volle costruire un tempio sulla sommità di una scogliera nei pressi di Derry con un'inscrizione tratta da Lucrezio: «Tis pleasant, safely co behold from shore l The rolling ship, and hearrhe tempest roar». Sul tempio si veda Gillespie, Hardie (2.007, p. 14). 78. « Stallius Gaius has sedes Hauranus cuecur l ex Epicureio gaudiuigente choro>> (cfr. CIL x, 2.971). Rigsby (loo8).

2.. L'EPICUREISMO A ROMA: UNA RIVOLUZIONE CULTURALE

FIGURA 2..9

Lo scheletro di Epicuro, ammonito da quello del suo seguace Zenone (sulla sinistra), si accinge a servirsi delle libagioni collocate su un elegante tripode. In una delle numerose iscrizioni greche si legge il seguente ammonimento epicureo: «Guarda quelle lugubri ossa, bevi e godi finché puoi: un giorno anche tu sarai cosÌ». Vaso d'argento di età ellenistica rivenuto negli scavi di Boscoreale; Paris, Musée du Louvre

Possiamo dunque concludere sottolineando come le idee, i paesaggi e le rappresentazioni (cfr. FIG. 2..9) che circolarono a Roma e in Campania nel I secolo a.C. fossero profondamente influenzate dal verbo di Epicuro e dal suo rivoluzionario programma di cambiamento radicale della mentalità e della cultura del suo tempo. A dare voce a questo programma in versi latini fu Lucrezio.

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3

La vita e l'opera di Lucrezio

3-1

Vita di Lucrezio secondo le fonti È difficile credere che a Roma possa essere circolata un'opera più autorevole del De rerum natura nel presentare i principi della filosofia di Epicuro. Eppure, per quanto questo possa apparire paradossale, della vita del suo autore non sappiamo quasi nulla (cfr. FIG. 3.1). L'unico dato attendibile tra quelli in nostro possesso sembra essere la data della nascita, che Girolamo fissa tra il96 e il93 a.C., ma anche su questo una testimonianza di Elio Donato ha generato, come vedremo tra poco, dubbi o perplessità. Cicerone, che, come abbiamo visto, non si esime dal nominare e dal giudicare moltissimi seguaci romani del Giardino, cita Lucrezio in una sola circostanza, in appendice a una lettera del febbraio del 54 a.C., nella quale invita il fratello Quinto a discutere del poema1 : quanto ai versi di Lucrezio, è proprio come mi scrivi: rivela molti lumi d'ingegno, ma anche un'attenta elaborazione artistica'.

La citazione prosegue con un accenno critico agli Empedoclea di Sallustio, che in virtù della sua difficile comprensione merita qualche breve considerazione. Come ha giustamente osservato Munro, Cicerone sembra dire al fratello: «hai avuto ragione ad apprezzare l'ingegno di Lucrezio alla prima lettura, ma, se sarai capace di uno studio più attento del poema e vi troverai anche una notevole tecnica, allora ti considererò come uomo di valore (vir); se invece riuscirai ad arrivare alla fine degli Empedoclea di Sallustio, non ti considererò nemmeno un uomo (homo)»l. I. Tutte le testimonianze sulla vita di Lucrezio sono raccolte in Appendice, pp. 2.6S-7S· 2.. Ci c. Q}tint. Il, IO, 3: «Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt, multis lumini bus ingeni, mul-

tae t amen artis ». 3· Hugh Andrew Munro in Lucrezio (I866, vol. 11, p. I9). 100

3· LA VITA E L'OPERA DI LUCREZIO

FIGURA 3.1

Profilo di uomo barbato inciso su agata nera con l'iscrizione LVCR (r sec. a.C.). Intorno al 1830 il filologo tedesco Karl Otfried Miiller ha creduto si trattasse di un ritratto autentico di Lucrezio

Fonte: cfr. Beretta (1014).

Anche se alcuni studiosi hanno manifestato un certo scetticismo a proposito dell'eventualità che Sallustio possa aver effettivamente composto un'opera fìlosofica4, è certamente degno di nota che lo storico fosse amico di Nigidio Figulo e facesse probabilmente parte del circolo neopitagorico animato dal celebre naturalista romano. Dal momento che Sallustio era, nel 54 a.C., un avversario politico di Cicerone, il giudizio fortemente negativo su di un'opera di questo genere, i cui contenuti filosofici non potevano certo essere approvati dall'Arpinate, potrebbe essere una conferma - per quanto indiretta - del fatto che l' autore degli Empedoclea sia effettivamente il celebre storico 1• Quello che più conta, però, è il farro che nel riferimento ciceroniano l'opera di Sallusrio venga accostata a quella di Lucrezio. Anche gli Empedoclea, in effetti, dovevano essere un'opera incentrata sulla fìlosofia della natura (forse si trattava della traduzione latina del Peri physeos di Empedocle): non è dunque privo di senso che Cicero4· In alternativa, si è proposto di identificare il Sallustio menzionato nella lettera con l'amico di Cicerone Gneo Sallustio. s. Così Paratore (1983, p. 2.81). 101

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

ne abbia introdotto un raffronto con i versi di Lucrezio, visto che anche nel De rerum natura sono presenti - come vedremo - molti ammirati riferimenti alla dottrina del filosofo agrigentino. Normalmente si ritiene che, allorché Cicerone scrisse la lettera al fratello (dunque, nel 54 a.C.), Lucrezio fosse già morto. Contro questa opinione si è espresso Luciano Canfora (1993, p. 20 ), secondo cui niente, nelle parole di Cicerone, lascerebbe intendere che il poeta in quel momento non fosse più in vita. È però altrettanto vero che, come ha notato Martin Ferguson Smith (Introduzione a Lucrezio, 2001, p. vn), il confronto istituito da Cicerone sembra riferirsi a opere pubblicate: ma certamente Lucrezio non avrebbe pubblicato un poema incompiuto, e questo sembra garantire che egli sia stato colto dalla morte prima di poter terminare la propria opera. È dunque difficile, oltre che rischioso, utilizzare la testimonianza ciceroniana per ricavarne indicazioni a proposito della cronologia della vita di Lucrezio: e questo vale, a maggior ragione, se si tenta di conciliarla con l'affermazione di Girolamo, secondo cui il poeta sarebbe morto all'età di 44 anni 6. Sulla testimonianza di Girolamo torneremo più avanti; per il momento, ci basti collocare la vita di Lucrezio nella prima metà del I secolo a.C. Se Cicerone nomina Lucrezio in una sola occasione, le cose non vanno molto meglio con gli autori della prima età imperiale, che, pur mostrando di conoscere il De rerum natura e subendone direttamente l'influenza, menzionano il poeta solo raramente o addirittura (è il caso di Virgilio) 7 in modo allusivo. Ad esempio, Ovidio manifesta la propria ammirazione negliAmores, scrivendo che «i versi del sublime Lucrezio» sono destinati a morire solo con il perire della terra 8• Pochi versi prima, lo stesso Ovidio aveva predetto che la fama di Arato, poeta della scienza ellenistica a cui Lucrezio andava naturalmente associato, sarebbe stata imperitura come il sole e la luna9• Questo accostamento allude forse al fatto che Cicerone era stato il traduttore di Arato e Lucrezio si era ispirato, in alcuni passi, a questa traduzione. In tempi successivi Stazio, sottolineando la passione e l'entusiasmo espressi

6. Al fine di conciliare la testimonianza di Girolamo con i dati contenuti nella lettera di Cicerone, alcuni studiosi anticipano la nascita del poeta al 99 a.C. 7· Sono certamente un'allusione a Lucrezio i seguenti versi delle Georgiche (11, 490-493): «Felix qui potuit rerum cognoscere causas l atque mems omnis et inexorabile fatum l subiecit pedibus strepimmque Acherontis avari». 8. Ov. am. I, 15, 23-24: «Carmina sublimis tunc sunt perimra Lucreti, l exitio terras cum dabit una dies>>. 9· Ov. am. I, 15, 16: «Cum sole et luna semper Arams erit>>. 102

3· LA VITA E L'OPERA DI LUCREZIO

nel De rerum natura, evoca l'ardente «furore» 10 del suo autoreu, mentre il poeta satirico Persi o fa proprio il principio fondame della fìlosofia espressa nel De rerum natura 1l. Più o meno nello stesso periodo Quimiliano, ostile alla fìlosofia naturale, descrive Lucrezio come un autore difficile, anche se non può fare a meno di riconoscere l'eleganza del suo stile 13 • Si può poi aggiungere che Plinio il Vecchio include il De rerum natura tre le fonti della propria opera sciemifica 14, mentre un erudito come Aulo Gellio, considerando ormai Lucrezio un classico della letteratura, lo cita numerose volte per evidenziare similitudini e differenze stilistiche con altri autorP 1• Insomma, come si può vedere, Lucrezio fu un poeta rinomato e celebrato presso molti autori latini successivi, ma questo dato contrasta - per certi versi sorprendemememe- con il fatto che nulla ci sia stato tramandato sulla sua vita, se non da fomi cristiane tardoantiche. La scarsità di testimonianze, comune a numerose altre biografie di autori amichi, solleva in questo caso particolare un problema imerpretativo di non poco como. In effetti Lucrezio, per il suo materialismo (numerosi i suoi sforzi volti a dimostrare la mortalità e la corporeità dell'anima umana), per le frequenti critiche alla religione (ritratta come semplice superstizione) e per il contrasto con la dominante visione provvidenzialistica dell'universo sostenuta dagli Stoici e dagli Aristotelici, divenne per i Padri della Chiesa un obiettivo polemico nella lotta contro il paganesimo. Per esempio Lattanzio e Arnobio, che pure furono influenzati profondamente dallo stile e dalla lingua di Lucrezio, attaccarono senza alcuna riserva i contenuti della dottrina epicurea, visto che essa, più di tutte le altre, si configurava come un'insidia ai fondamenti teologici della nuova religione. Mentre infatti le opere di Platone e Aristotele potevano essere addomesticate ai principi della fede cristiana, ben poco delle dottrine epicuree e scettiche appariva degno di essere conservato. Questa cieca campagna di censura aveva dato i suoi frutti già nel363 d.C., tanto che Giuliano poteva esprimersi nel modo che segue:

10. Che va inteso come ispirazione poetica e non come un sintomo della follia attribuita da Girolamo a Lucrezio. 11. Star. silv. II, 7, 73-76: «Haec primo iuvenis canes sub aevo, l ante annos Culicis Maroniani. l Ceder Musa rudis ferocis Enni l et docti furor arduus Lucreti». 12.. Pers. sat., III, 83-84: «Gigni l de nihilo nihilum, in nihilum nil posse reverti>>. 13· Quint. inst. x, 1,87: «Nam Macer et Lucretius legendi quidem, sed non ut phrasin, id est corpus eloquentiae faciant, elegantes in sua quisque materia, sed alter humilis, alter diffìcilis >>. 14. Plin. nat. l, 1 index: «Ex auctoribus [... ] Fabio Pietore, T. Lucretio, Cornelio Celso, Horatio etc.>>. 15. Cfr. e.g. Geli. r, 2.1, s-7: v, 14, 4: x, 2.6, 9 ecc.

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Ai trattati di un Epicuro o di un Pirrone sia precluso l'accesso, come del resto fortuna-

tamente gli dei hanno gia sterminato la maggioranza di queste opere' 6 •

Nell'atto dunque di valutare gli scritti del grammatico Elio Donato (Iv secolo d.C.) e del suo allievo Girolamo (347-419), ai quali dobbiamo i primi riferimenti che ci siano pervenuti a proposito della vita di Lucrezio, dobbiamo procedere con estrema cautela, riconoscendo che si tratta di fonti non del tutto attendibili, in quanto soggette al deliberato disegno di mettere in cattiva luce un autore che aveva trasmesso dottrine considerate eretiche e pericolose. Il primo dato biografico su Lucrezio ci è trasmesso nella Vita Vergilii di Elio Donato, probabilmente desunta- almeno in gran parte- dal perduto De poetis di Svetonio' 7• Si tratta però di una testimonianza intimamente contraddittoria, dal momento che vi si afferma: a) che Virgilio avrebbe assunto la toga virile all'età di 17 anni; b) che in quell'anno i consoli erano gli stessi (Pompeo e Crasso) che erano stati in carica durante l'anno di nascita di Virgilio; c) che Lucrezio sarebbe morto in quello stesso anno. Ora, Virgilio nacque con certezza nel7o a.C. e in quell'anno i consoli erano effettivamente Pompeo e Crasso, che rivestirono insieme questa carica anche nel 55 a.C.; ma è evidente che in quell'anno (durante il quale sarebbe morto Lucrezio) Virgilio non poteva avere 17 anni' 8• Il dato offerto da Donato risulta poi in contraddizione con la testimonianza- di poco più recente- di Girolamo, che nella traduzione (con aggiunte) dei Chronica di Eusebio ( 2.6 o-3 39) colloca la data di nascita di Lucrezio nel secondo anno dell'Olimpiade CLXXI, cioè intorno al94 a.C., aggiungendovi la seguente nota biografica: nasce il poeta Tiro Lucrezio, che in seguito, impazzito per effetto di un filtro d'amore, dopo aver scritto negli intervalli di lucidità della follia alcuni libri, che poi Cicerone rivide per la pubblicazione, si uccise di propria mano all'età di 44 anni' 9 •

16.]ul. fr. 89b (citato in Schmid, 1984, p. 143); i corsivi sono miei. 17. Don. Vita Térg. VI: «lnitia aetatis Cremonae egit [scii. Vergilius] usque ad virilem togam, quam XVII anno natali suo accepit isdem illis consulibus iterum [duobus], quibus erat nams, evenitque ut eo ipso die Lucretius poeta decederet>>. 18. È stato più volte notato che i conti potrebbero tornare se Virgilio avesse assunto la toga a 15 anni. La svista potrebbe essere imputabile a un errore di rrascrizione del copista. 19. Hier. chron. ad Olymp. 171, 3-4: «Titus Lucretius poeta nascitur, qui postea amarorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu imerfecit anno aetatis XLIII>>.

3· LA VITA E L'OPERA DI LUCREZIO

Se questo risponde a verità, Lucrezio sarebbe dunque morto intorno al so a.C., e non nel 55 come credeva Donato. Visto che anche Girolamo utilizzò probabilmente come fonte il De poetis di Svetonio, l' incongruenza tra i due autori deve mettere in guardia sulla loro aftìdabilità. A ben vedere, se a proposito della data di nascita il resoconto di Girolamo appare verosimile, riguardo alla data di morte esso suscita qualche perplessità: riconsiderando tutte le testimonianze a nostra disposizione, Luciano Canfora ha avanzato l'ipotesi che Lucrezio potesse essere ancora vivo nel so o addirittura nel49 a.C. 10 • A mettere definitivamente in discussione la verosimiglianza della testimonianza di Girolamo è poi la notizia che Lucrezio si sarebbe tolto la vita e, per di più, a causa di un filtro d'amore che lo avrebbe reso folle. Tale ricostruzione, certamente tesa a screditare la vita di un uomo la cui dottrina era considerata empia e pericolosamente eretica, non può essere vera. Basti pensare ad esempio che Virgilio, nel tributare una lode al suo modello, sottolinea la forza rasserenante della dottrina epicurea: ma con ogni probabilità avrebbe evitato di mettere in evidenza questo dato, se Lucrezio si fosse suicidato. Inoltre, se il resoconto di Girolamo fosse stato vero, Lattanzio - uno dei più accaniti critici dell'insania epicurea- non si sarebbe certamente lasciato scappare l'occasione di mettere in evidenza i devastanti effetti di una dottrina che, in aperta contraddizione con le proprie promesse, aveva indotto il suo massimo cantore a togliersi la vita1 '. Benché molti studiosi si siano resi conto delle numerose incongruenze presenti nel resoconto di Girolamo, il dramma del suicidio di Lucrezio affascinò gli intellettuali del Rinascimento 11 , al punto che l'evento venne corredato di nuovi e piccanti particolari, che, abilmente spacciati per veri, finirono per avvalorare la fonte che li aveva alimentati. Un esempio emblematico di questa tendenza è costituito dalla cosiddetta Vita Borgiana, una biografia di Lucrezio contenuta in un manoscritto copiato nel 1502 da Girolamo Borgia e ora conservato presso la British Library. Alcuni nuovi dati, confermando la scarna nota di Girolamo, sembravano avvalorare definitivamente l'ipotesi del suicidio. Ma ecco alcuni passi tra i più significativi:

2.0. Per i non pochi argomenti a favore di tale posticipazione, rimando a Canfora (1993). Tale conclusione non è di poco como, poiché come si è visto i biografi e gli interpreti di Lucrezio, sulla base della lettera di Cicerone, sono soliti ritenere che il poeta nel S4 a.C. fosse già morro. 2.1. Nemmeno Arno bio, che prima della sua conversione era stato un seguace della fìlosofìa epicurea e mostra di conoscere a fondo l'opera di Lucrezio, fa cenno al suicidio e al filtro amoroso. 2.2.. Leto (1993); Solaro (2.ooo).

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Tito Lucrezio Caro nasce sotto il consolato dell'oratore Licinio Crasso e del pontefice Quinto Mucio Scevola [... ].Visse quarantaquattro anni; quindi, impazzito a causa della bevanda avvelenata di una donna malvagia, si suicidò impiccandosi, oppure, come pensano altri, si gettò sulla spada, essendo nato da madre a lungo sterile. Visse in grandissima familiarità con Tito Pomponio Attico, Cicerone, Marco Bruto e Cassio. A Cicerone inoltre mostrava i versi appena scritti, seguendo i suoi consigli per limar! i; da lui a volte durante la lettura veniva ammonito a conservare il pudore nelle metafore> 1•

Anche se la pubblicazione della Vita Borgiana suscitò immediatamente critiche e perplessità, Masson - con il sostegno di numerosi studiosi di Lucrezio - difese l'autenticità del manoscritto (Masson, 1907; 1909, pp. 3-13), andando così ad arricchire le leggende che, in mancanza di dati certi, costituivano la base delle ricostruzioni biografiche. Giova ricordare a questo proposito che la testimonianza di Girolamo venne approvata da studiosi del calibro di Lachmann e Giussani 24 e, anche se l'ipotesi del filtro amoroso sembrò a molti eccessiva, il materialismo epicureo del poema sembrava fornire, ancora nei primi decenni del xx secolo, un movente sufficiente a giustificare l'ipotesi della follia e del conseguente suicidio•;. Più recentemente Marcello Gigante ha colto un'allusione al suicidio di Lucrezio nel seguente passo dell'operaDella morte di Filodemo: La medesima cosa più o meno si adatta proprio agli infelici che si impiccano. Ché il darsi spontaneamente la morte e l'essere afferrati da gravi dolori, sia per quello che riguarda il cibo sia per quello che riguarda il bere, consideriamo frutto di una mente delirante> 6 •

23. Solaro (2000, p. 33); la traduzione italiana è di Olimpio Cescatri in Lucrezio (1982, pp. Per il testo integrale, cfr. Appendice, pp. 274-5. 24. «Non c'è alcuna seria ragione di dubitare della pazzia intermittente e del suicidio di

VII-VIII).

Lucrezio; come infatti non dubitano il Lachmann, il Munro, il Bierger>>: così Giussani in Lucrezio (1896-98, vol. I, p. XII). La certezza di Giussani, come quella dei suoi predecessori, si basava esclusivamente sulla convinzione che il testo di Girolamo riproducesse fedelmente i dati offerti da Svetonio nel De poetis. 25. Sia sufficiente citare quanto scrive il più autorevole dei moderni commentatori di Lucrezio, Cyril Bailey: «In view of the probability that Lucretius suffered from some insania as has been described, there is nothing improbabile in its termination in suicide, whether or no there was the additional stimulus of the love-potion >> (cfr. Lucrezio, 1947, vol. I, p. 12). 26. Gigante (1983, p. 125). Nella stessa opera Gigante ha commentato il passo di Filodemo (ivi, p. 147) come segue: «Se non mi inganno, il filosofo può aver alluso qui alla morte di Lucrezio e confermato così la testimonianza di Girolamo. E per questo acquisiamo un tenninus post quem per la composizione del! 'opera De morte. Né c'è da meravigliarsi se gli Epicurei del primo

ro6

3· LA VITA E L'OPERA DI LUCREZIO

Tali grossolani fraintendimenti sono forse da ricondurre alla rivalutazione di Lucrezio operata da parte di molti autorevoli scienziati europei, i quali vedevano nel contrasto tra scienza e religione, con la conseguente soluzione atomistica tutta a favore della prima, una formidabile arma di propaganda culturale per la causa positivista (su questo cfr. CAP. 8). Molti studiosi di Lucrezio di questo periodo, lungi dal condividere l'entusiasmo degli scienziati e anzi formulando giudizi critici sull'empietà della dottrina sostenuta nel De rerum natura, preferirono avvalorare il racconto di Girolamo, piuttosto che attualizzare artificiosamente i contenuti del poema~7• Nel 1946 uscì addirittura un libro, ad opera del celebre psichiatra francese Benjamin Joseph Logre, nel quale, dopo un esame psicoanalitico del contenuto del poema, si giungeva alla conclusione "clinicà' che Lucrezio fosse predestinato al suicidio~ 8 • Eppure già nel 1936 le incongruenze fùologiche e storiche del racconto di Girolamo erano state messe in risalto in un celebre articolo di Konrat Ziegler (1936), nel quale si dimostrava tra le altre cose: a) che la testimonianza di Cornelio Nepote, in cui pure si parla della morte di Lucrezio, non offre elementi che possano far credere a una fine violenta~ 9 ; b) che Plinio il Vecchio, che certamente conosceva l'opera di Lucrezio, nel capitolo dedicato agli antidoti e ai veleni registra solo l'avvelenamento di Lucullo, morto poco prima di Lucrezio, ma non fa alcun riferimento al poetaj 0 ; c) che Ovidio, il quale pure parla soven-

secolo a.C. si suicidano, come Lucrezio, e menzionano, come Filodemo, una morte simile a questa>>. 2.7. Munro, ad esempio, nell'introduzione alla sua edizione dichiarava: «We of course care not for its scientifìc truth or value, but for its poetica! grandeur and effìcacy upon our imagination>>; cfr. Lucrezio (1866, vol. Il, p. 7). 2.8. Cfr. Logre (1946, in parr. pp. 186-2.15). Sull'opera di Logre ha sagacemente scritto Bayet (1967, p. 31): «Ce spécialiste n'a d'ailleurs fait que suivre !es errements des philologues et des admirateurs littéraires de Lucrèce, qui, au lieu de s'élever à la vue générale d'une ceuvre dont la puissance de pian et la perfection logique d'exécurion sont tour exceptionnelles, fìxant des regards de myopes sur cerraines transitions, certains aspects du raisonnement ou quelques pages brillantes (toujours !es memes), n'ont cessé de multiplier !es faux problèmes et d'ouvrir !es fausses perspectives >>. 2.9. Nep. Att. XII, 4: «Idem L. lulium Calidum, quem post Lucreti Catullique morrem multo elegantissimum poetam nostram tulisse aetatem vere videor posse contendere, neque minus virum bonum optimisque arri bus erudirum, post proscriptionem equi rum propter magnas eius Africanas possessiones in proscriptorum numerum a P. Volumnio, praefecto fabrum Antonii, absentem relarum expedivit>>. 30. Plin. nat. xxv, 2.5: «Ego nec aborriva dico ac ne amatoria quidem, memor Lucullum imperatorem clarissimum amatorio perisse, nec alia magica porrenta, nisi ubi cavenda sunt aut coarguenda, in primis fide eorum damnata >>. 107

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

te degli effetti dei filtri amorosi, e altrettanto spesso allude ali' opera di Lucrezio, tace a proposito dell'episodio citato da Girolamo. Occorre ad ogni modo aggiungere che anche coloro che non hanno condiviso l'ipotesi della follia di Lucrezio, forse a causa di un inconsapevole condizionamento dovuto a questa diceria, non hanno potuto fare a meno di interpretare il finale del De rerum natura, dedicato a una drammatica descrizione dei devastanti effetti della peste che colpì Atene nel430 a.C., come un'espressione dell'inclinazione malinconica del poetall. Secondo altri studiosi, per contro, questo finale tragico era incongruente per un poema il cui principale intento era quello di ispirare fiducia nello studio della natura e di cancellare il timore della mortel 2 • Altri interpreti hanno infine ipotizzato che il contrasto tra l' iniziale inno a Venere e la descrizione degli effetti della peste possa aver avuto lo scopo di mettere in risalto il Leitmotiv del ciclo tra nascita e morte, creazione e dissoluzione, che, nello studio dei fenomeni particolari, accompagna l'intero poema B. Indipendentemente però da queste ipotesi contrastanti a proposito del significato della descrizione della peste di Atene, le numerose ripetizioni presenti nel poema 34 mostrano chiaramente che Lucrezio non fece in tempo a dare l 'ultima li matura alla sua opera, probabilmente a causa di una morte prematura. Al di fuori della testimonianza di Girolamo, però, nulla induce a credere che il poeta possa essere stato vittima di una morte innaturale o violenta. Se la testimonianza di Girolamo ha generato molti equivoci, anche l'esame delle fonti contemporanee a Lucrezio non ha mancato di suscitare ipotesi audaci. Al di là dei pochi (ma significativi) riferimenti all'opera e alla lingua di Lucrezio, lo studio dei testi epicurei ritrovati nella Villa dei Papiri a Ercolano non tardò a far nascere l'idea che Lucrezio possa essere stato un allievo di Filodemo, di poco più vecchio rispetto al maestro 3s. Alcune iscrizioni pompeiane relative a un certo Lucrezio, la presenza di Memmio a Pompei (cfr. Ci c. Att. IV,

31. « The springlike radiance of Triumphant Venus, which opens rhe poem, has yelded in rhe end ro rhe awful will ofDearh. Such a conclusion would probably have appealed wirh especial force ro a poer whose remperament is marked by a profound and brooding melancholy» (cfr. Lucrezio, 1942., p. 866). 32.. Di diverso avviso, rra gli alrri, è Sedley (1998). 33· Minadeo (1969, pp. 32.-3) ma cfr. anche Giancorri (1959). 34· Per non menzionare che i casi più eclatanti, cfr. I, 76-77 =v, 89-90; I, 351-363 =v, 351363; Il, 2.9-33 =V, 1392.-1396; III, 784-797 =l, 12.8-141; IV, 2.16-2.19 =VI, 92.3-935. 35· Si è anche rentaro di individuare nel ricorso di Lucrezio a una lingua e a uno srile arcaicizzanti una prova della provenienza contadina del poera, o addirirrura della sua origine pompeiana. La resi è sosrenura nel ci raro contributo di Della Valle (1933).

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3· LA VITA E L'OPERA DI LUCREZIO

FIGURA 3.2

Busto di Lucrezio di cui si sono perse le tracce, da una stampa conservata nel British Museurn di Londra (fine XVIII sec.)

Fonu: Lucrezio (1916).

I 6, 6),1' esistenza di un graffito pompeiana recante la scrittaAenaedum genetrix, e infine le ricerche sul cognome Carus, che in alcuni casi risulta associato a schiavi e liberti, sono tutti elementi che sono stati interpretati come evidenze indirette del legame del poeta con la città campana (cfr. FIG. p). Secondo alcuni studiosi più prudenti, ma non meno dotati di immaginazione, Lucrezio sarebbe invece da connettere con la gens Lucretia, di origine aristocratica, tanto che, sulla base di alcuni passi del De rerum natura, Bailey (in Lucrezio, I947, vol. I, pp. s-6) e molti altri hanno ipotizzato che il poeta fosse nato e risiedesse a Roma. Difficile invece è condividere l'opinione di Canfora36 , secondo cui Lucrezio avrebbe conosciuto Diogene di Enoanda, e avrebbe pertanto fatto parte della cerchia degli Epicurei di stanza a Rodi. Ancora più problematico risulta stabilire se Lucrezio abbia effettivamente

36. Canfora (1993, pp. 67-8). Una serie di convincenti obiezioni alla tesi di Canfora è stata avanzata da Smith (1997).

I09

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

conosciuto Cicerone. Va ricordata in proposito la testimonianza di Girolamo, probabilmente ripresa e amplificata nella Vita Borgiana, secondo cui Lucrezio avrebbe affidato i propri versi a Cicerone perché li correggesse 37 ; e Cicerone, non va dimenticato, aveva tradotto in latino i Fenomeni di Arato, un poema astronomico di cui è possibile rinvenire qualche eco nel De rerum natura 38 • Del resto, i filologi si sono accaniti non poco per interpretare l'espressione utilizzata da Girolamo, secondo cui Cicerone avrebbe «emendato» (emendavi!) il testo lucreziano, e per stabilire di conseguenza il ruolo svolto dall'Arpinate nell'edizione o pubblicazione del poemal9. In realtà, lo stato incompleto in cui apparve il De rerum natura rende improbabile, anche se non impossibile, che Cicerone possa averne curato l'edizione40. Ad eccezione della fugace menzione ai versi del De rerum natura nella citata lettera al fratello del 54 a.C., la totale assenza di riferimenti a Lucrezio appare piuttosto difficile da giustificare in un autore che, come abbiamo più volte sottolineato, era molto interessato all'epicureismo e vantava diversi autorevoli amici appartenenti a quella setta. Tale assenza, sulla quale si è per la verità molto esagerato, è stata addirittura considerata come un indizio per mettere in dubbio che Cicerone possa aver conosciuto l'intero poema (Merrill, 1909). Non è tuttavia plausibile che Cicerone non fosse a conoscenza dell'opera di un intellettuale della statura di Lucrezio, il quale peraltro - come videro già Munro (Lucrezio, 1866) e Giussani (Lucrezio, 1896-98, vol. I, p. xv) -gli aveva offerto un vero e proprio tributo, interpretabile anche come segno di amicizia, imitando alcuni passi della traduzione dei Fenomeni di Arato. Inoltre, come ha bene mostrato Canfora (1993, pp. 69-89), nelle opere filosofiche di Cicerone sono molti i rimandi impliciti a Lucrezio. In particolare, un passo delle Tusculanae disputationes ha tutta l'aria di una critica sarcastica ai proemi del De rerum natura, nei quali Lucrezio celebra come opere di un dio le

37· Naturalmente, come si è detto, la Vita Borgiana possiede un valore probatorio ancora inferiore rispetto alla testimonianza di Girolamo, e va considerata semplicemente come un'in· terpretazione, piuttosto originale, del passo in questione. 38. Sulla base delle poche centinaia di versi superstiti della traduzione ciceroniana, Munro ha individuato venti imitazioni da parte di Lucrezio; cfr. Lucrezio (1866, vol. II, p. 9). 39· Non sono risultate conclusive a questo proposito le eruditissime ricerche di Paratore, tese a dimostrare che il significato di emendare, derivato da Svetonio, indicherebbe «nel grande Arpinate colui che tutt'insieme era stato il revisore e l'editore del De rerum natura», e che tale impresa sarebbe stata realizzata dopo la morte del poeta: cfr. Scarcia et al. (1964, p. 159). 40. Sulla prassi della «pubblicazione>> nel mondo romano, legata a una circolazione degli scritti all'interno di circoli di letterati, si possono trovare utili spunti in Gurd (2.012., in part.le pp. 49·76). IlO

3· LA VITA E L'OPERA DI LUCREZIO

dottrine di Epicuro. Rivendicando il diritto, tipico di uno stoico, a celebrare la bellezza e l'armonia dell'universo, Cicerone scriveva: Certo, pensando a questo, mi succede spesso di meravigliarmi dell'irriverenza di certi filosofi che, pieni di ammirazione di fronte alla conoscenza della natura, si prodigano in entusiastici ringraziamenti verso colui che l'ha inventata e ne è il maestro, e lo venerano come un dio; per opera sua infatti - così dicono - sono stati liberati da quegli insopportabili padroni che sono il terrore eterno e la paura che non cessa mai, né di giorno né di notte. Ma quale terrore? Quale paura? Neppure una vecchietta delirante avrebbe paura di ciò di cui voi invece, se non avete studiato la scienza della natura, evidentemente avreste paura: «le profonde distese Acherontee deli'Orco,lividi luoghi di morte, opachi di tenebre» 4 '. Ma non si vergogna un filosofo a vantarsi di non aver paura di queste cose e di averne riconosciuto la falsità? 4 '

Evidentemente questo passo sembra configurarsi come un attacco implicito, diretto contro gli argomenti impiegati da Lucrezio per elogiare la dottrina di Epicuro, descritta come capace di dissolvere i timori della morte e della religione; eppure, il nome del poeta non viene citato esplicitamente. Secondo l'interpretazione di Canfora, questo "silenzio" sarebbe da connettere al fatto che, in numerose occasioni, l'Arpinate aveva rivendicato il primato di aver introdotto la fìlosofìa nel mondo latino, traducendo la complessità e la ricchezza della terminologia fìlosofìca dei greci. A testimoniare questo primato c'era non solo la giovanile traduzione dei Fenomeni di Arato, ma, soprattutto, un cospicuo numero di opere fìlosofìche che rendevano familiari ai Romani la cultura greca

41. Questa citazione, che Cicerone trae da Ennio, il poeta maggiormente ammirato da Lucrezio, evoca contemporaneamente Lucr. III, lS-l7 («In nessun luogo appaiono i templi Acherontei, né la terra è di ostacolo a che tutto si scorga, ciò che sta sotto i piedi si compie nelle profondità dello spazio» [ «At contra nusquam apparent Acherusia tempia, l nec tellus obstat quin omnia dispiciantur, l sub pedibus quaecumque infra per inane geruntur»]) e 3s-38: «Dopo questo mi sembra ch'io debba illuminare con i miei versi la natura della mente e dell'anima, e cacciar via a capofitto quel terrore dell'Acheronte, che dalle radici profonde sconvolge la vita dell'uomo ... >> [ «Hasce secundum res animi natura videtur l atque animae claranda meis iam versibus esse l et metus ille foras praeceps Acheruntis agendus, l funditus humanam qui vitam turbar ab imo»]. Cfr. anche Lucr. III, 964-989. 4l. Cic. Tusc. 1, 48: «Quae quidem cogitans soleo saepe mirari non nullorum insolentiam philosophorum, qui naturae cognitionem admirantur eiusque inventori et principi gratias exultantes agunt eumque venerantur ut deum; liberatos enim se per eum dicunt gravissimis dominis, terrore sempiterno et diurno ac nocturno metu. Quo terrore? Quo metu? Quae est anus tam delira quae timeat ista, quae vos videlicet, si physica non didicissetis, timeretis, "Acherunsia tempia alta Orci, pallida leti, nubila tenebris loca"? Non pudet philosophum in eo gloriaci, quod haec non timeat et quod falsa esse cognoverit? ».

III

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anche nei suoi aspetti più complessi: un'impresa, questa, che nulla aveva a che spartire con la divulgazione di basso livello operata dai seguaci di Epicuro. Ancora nelle Tusculanae disputationes Cicerone precisa il suo pensiero come segue: La filosofia è stata fino ad oggi completamente trascurata, né mai ha ricevuto alcun lume dalla letteratura latina; darle splendore e vita è compito mio: se infatti dal mio impegno politico è venuto qualche vantaggio ai miei concittadini, vorrei essere loro utile, se fosse possibile, anche ora che mi sono ritirato a vita privata. E tanto più io sento il dovere di impegnarmi in questo campo perché sento dire che sono già molti i libri in circolazione scritti in latino senza criterio: gli autori sono senz' altro bravissime persone, ma prive di cultura adeguata. È possibile senza dubbio che uno abbia opinioni giuste e non sappia esprimerle con eleganza; ma l'idea di mettere per iscritto le proprie meditazioni senza essere in grado né di chiarirle né di renderle così piacevoli da attrarre il lettore, può venire solo a chi abusa senza criterio del suo tempo libero e delle lettere. Ecco perché i loro libri li leggono solo con i loro compagni; nessuno li tocca, tranne chi rivendica per sé la stessa indisciplina nello scrivere 41 •

Dalle parole di Cicerone se m bra emergere una certa irritazione. È probabile che egli abbia passato sotto silenzio qualsiasi riferimento esplicito all'opera di Lucrezio per il fatto che quest'ultimo gli contendeva un primato che, una volta ritiratosi dalla vita politica, egli voleva a tutti i costi rivendicare. Per Epicuro ritirarsi dalla vita politica costituiva una scelta necessaria al raggiungimento della felicità, mentre per Cicerone il forzato esilio dali' agone romano apriva un nuovo fronte di competizione, nella quale per prevalere occorreva procedere automaticamente alla sopraffazione degli sconfìtti. Dopo la morte di Lucrezio, il tentativo di far prevalere il proprio sincretismo fìlosofìco sulla rapida espansione dell'epicureismo avrebbe potuto essere coronato da successo, se l'imminente avvento dell'autoritarismo imperiale non avesse rapidamente tolto ogni vitalità ai dibattiti fìlosofìci. Per concludere: che Cicerone avesse letto il De rerum natura è difficile du43· Cic. Tusc. I, s-6: «Philosophia iacuit usque ad hanc aetatem nec ullum habuit lumen litterarum Latinarum; quae inlustranda et excitanda nobis est, ut, si occupati profuimus aliquid civibus nosrris, prosimus etiam, si possumus, oriosi. In quo eo magis nobis est elaborandum, quod multi iam esse libri Latini dicuntur scripti in considerate ab optimis illis quidem viris, sed non satis erudiris. Fieri autem porest, ut recte quis senriat et id quod sentir poli re eloqui non possit; sed mandare quemquam litteris cogitationes suas, qui eas nec disponere nec inlustrare possit nec delectatione aliqua allicere lectorem, hominis est intemperanrer abutentis et otio et litteris. ltaque suos libros ipsi legunr cum suis, nec quisquam attingit praeter eos, qui eandem licenriam seri bendi si bi permitti volunr >>. 112.

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bitare e non è da escludere che, sia pur senza diventarne amico, egli possa anche averne conosciuto personalmente l'autore.

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La vira di Lucrezio nel De rerum natura Il De rerum natura offre numerosi spunti a proposito della biografia di Lucrezio, dei suoi viaggi, dei suoi luoghi prediletti e, forse, anche degli eventi storici di cui fu testimone oculare. A parte alcuni passi difficilmente equivocabili, le allusioni di Lucrezio sono relativamente vaghe e, quindi, oggetto di interpretazioni anche vistosamente differenti da parte dei filologi. Ci si è interrogati più volte sulla provenienza sociale di Lucrezio. A seconda dell'enfasi che si è data ad alcuni passi del De rerum natura, gli studiosi sono giunti a conclusioni divergenti: come si è detto, alcuni hanno infatti voluto vedere nell'idealizzazione della vita campestre un segno delle umili origini del poeta, mentre altri, al contrario, hanno raccolto degli indizi che ne attesterebbero l'appartenenza all'aristocrazia. Anche se non sono molte, le testimonianze in favore della seconda ipotesi sembrano avere un peso difficilmente trascurabile. All'inizio del n libro, Lucrezio invita il suo interlocutore Memmio ad abbracciare la dottrina di Epicuro, perché solo così sarà in grado di contemplare con distacco le inutili gare di coloro che, errando smarriti nell'agone politico, si sforzano notte e giorno con assillante fatica di emergere a somma potenza e di impadronirsi dello Stato 44 .

Come è stato giustamente osservato da Giussani (Lucrezio, I896-98, vol. n, p. rs6), Lucrezio non si sarebbe rivolto in modo così diretto al suo mecenate e protettore, se fosse stato un semplice liberto e non, almeno per estrazione sociale, un suo pari. I frequenti inviti ad abbandonare i palazzi sontuosi, descritti nei minimi dettagli, e i riferimenti a manufatti di pregio provenienti da paesi lontani 41 lasciano trasparire una certa familiarità con ambienti dominati dal 44· Cfr. Lucr. II, 7-13: «Sed nil dulcius est, bene guam munita tenere l edita doctrina sapientum tempia serena, l despicere un de guaes alios passimgue videre l errare argue viam palanris guaerere virae, l cercare ingenio, contendere nobilitare, l noctes argue dies niti praestante labore l ad summas emergere opes rerumgue poriri>>. 4S· Lucr. IV, 112.3-1130: «Labitur interea res et Babylonica fìunt, l languent offida argue aegrorat fama vacillans. l t Unguentat et pulchra in pedibus Sicyonia rident l scilicet et grandes viridi cum luce zmaragdi l auro includuntur terirurgue rhalassina vestis l assidue er Veneris su-

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lusso. Il disdegno con cui Lucrezio condanna la fuga del volgo (vulgus) dalla verità della filosofia di Epicuro sembra infine confermare l'intenzione di selezionare i suoi interlocutori nell'ambito dell'élite intellettuale, da cui si aspetta una maggiore capacità di recepire i difficili contenuti di un'opera filosofica (Giancotti, 1959, p. u8). Se non è facile identificare con certezza il censo di Lucrezio, l'allusione del poeta alla guerra civile sembra poggiare su basi più sicure. Nel II libro, la condanna all'uso delle armi ha fatto pensare che Lucrezio stesse descrivendo il Campo Marzio e le manovre che Cesare stava facendo nel s8 a.C., in preparazione della sua partenza per la Gallia 46 . Altri hanno visto in questa rappresentazione, e in particolare nell'uso della seconda persona riferito ai movimenti delle legioni (tuas legiones), i preparativi di Memmio in difesa dell'Urbe. Nel I libro, inoltre, il poeta aveva richiamato l'attenzione del lettore sull' «ora avversa della patria», forse evocando il dramma dell'imminente guerra civile47. Alcuni versi del III libro mostrano infine come Lucrezio avesse ben presenti gli effetti devastanti del triumvirato e della guerra civile sui destini- sempre più incerti - della Repubblica e della virtù civica romana ormai allo sbando. Scrive Lucrezio: Anche l'avidità e la cieca ambizione, che spingono i miseri uomini a varcare i confini del giusto e talvolta, facendosi complici e ministri di scelleratezze, a sforzarsi notte e giorno con assillante fatica per emergere al sommo della potenza: queste piaghe della vita sono alimentate in gran parte dalla paura della morte[ ... ]. Con il sangue civile accrescono la loro fortuna e raddoppiano avidi le ricchezze, accumulando strage su strage; crudeli gioiscono al triste funerale del fratello e odiano e temono le mense dei consanguinei48.

dorem exercira potar. l Er bene parca parrum fìunr anademara, mirrae, l imer dum in pallam acque Alidensia Ciaque verrunr». 46. Lucr. n, 40-46: «Si non forre ruas legiones per loca campi l fervere cum videas belli simulacra cienris, l subsidiis magnis tEpicurit consrabiliras, l ornaras armis tirasruast parirerque animaras, l his cibi rum rebus rimefacrae religiones l effugiunr animo pavidae; morrisque rimores l rum vacuum pecrus linquunr curaque solurum». 47· Lucr. 1, 41-43: «Nam neque nos agere hoc parriai rempore iniquo l possumus aequo animo nec Memmi clara propago l ralibus in rebus communi desse saluti». 48. Lucr. III, s9-73: «Denique avariries er honorum caeca cupido, l guae miseros homines cogunr rranscendere fìnis l iuris er inrerdum socios scelerum acque minisrros l nocres acque dies niri praesranre labore l ad summas emergere opes, haec vulnera virae l non minimam parrem morris formidine alunrur. [.. .].l Sanguine civili rem conflanr diviriasque l conduplicanr avidi, caedem caede accumulanres, l crudeles gaudenr in tristi funere fratris l et consanguineum mensas odere timenrque >>.

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Anche se i riferimenti non sono espliciti (e certo non avrebbero potuto esserlo in un'opera poetica), questo passo rievoca eventi che Lucrezio ha vissuto con appassionata partecipazione, trovando nella filosofia di Epicuro un sicuro rifugio e anticipando quella scelta che, qualche anno più tardi, Cicerone sarebbe stato costretto, suo malgrado, a compiere. Il De rerum natura contiene anche qualche indizio interessante a proposito dei luoghi frequentati da Lucrezio. Un'informazione di questo genere emerge ad esempio in un passo del libro IV, nel quale il poeta si sforza di dimostrare la natura dei simulacri delle cose e dei colori: Ciò fanno comunemente i velari gialli e rossi e di colore ferrigno, quando, tesi su grandi teatri, fluttuano vibrando spiegati fra pali e travature. Sotto di sé colorano la folla delle gradinate, lo sfarzo della scena e l'accolta dignitosa dei senatori, e li costringono a oscillare nell'onda del proprio colore 4 9.

Stando alla testimonianza di Plinio, l'introduzione dei velari nei teatri di Roma risalirebbe al 69 a.C.: si tratterebbe di un uso inaugurato da Quinto Lutazio Ca tulo, che per primo lo escogitò, quando fu consacrato il Campidoglio 50•

Si trattava dunque di un'invenzione recente, che Lucrezio, riferendosi a un pubblico di senatori, doveva aver ritratto traendo spunto da un teatro di Roma. I passi citati in precedenza e la dedica a Memmio rendono dunque altamente probabile la presenza di Lucrezio a Roma. Altri riferimenti suggeriscono una notevole familiarità del poeta anche con le regioni meridionali della penisola. Nel VI libro (vv. 738 ss.) Lucrezio descrive con padronanza le caratteristiche dei laghi Averni e le loro esalazioni mefìtiche: un tal luogo è nei pressi di Cuma, dove monti ripieni d'acre zolfo esalano fumi alimentati da sorgenti calde 5'.

49· Lucr. IV 7s-8o: «Et vulgo faciunr id lurea russaque vela l et ferrugina, cum magnis intenta theatris l per malos vulgata trabesque tremenria flurant. l Namque ibi consessum caveai supter et omnem l scaenai speciem tpatrum matrumque deorumt l inficiunt cogunrque suo fluitare colore>>. Cfr. anche Lucr. VI, I09-IIO. so. Plin. nat. XIX, l3: «Postea in theatris tantum umbram fecere, quod primus omnium invenit Q. Carulus, cum Capirolium dedicaret>>. SI. Lucr. VI, 747-748: «ls locus est Cumas apud, acri sulpure monres l oppleti calidis ubi fumane fonti bus aucti >>.

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Allo stile assertivo e sicuro di questo passo si contrappone, poco oltre, una descrizione certamente di seconda mano, introdotta da un significativo «si dice» (jèrtur), a proposito di un luogo in Siria dove una forza misteriosa uccideva d'improvviso i quadrupedi che vi si avvicinavano (vi, 756-759). In ben ere passi del De rerum natura (I, 722-725; n, 592-593; VI, 639-697 ), Lucrezio mostra di essere affascinato dalla forza distruttrice dell'Etna, di cui richiama gli effetti per la prima volta dopo aver elogiato Empedocle (I, 729-731) e l'isola che gli aveva dato i natali (I, 716-717 ). L'eruzione vulcanica dell'Etna, descritta con dovizia di particolari nel libro VI, è probabilmente quella avvenuta nel 122 a.C., ma data la frequenza di eruzioni minori tipiche di questo vulcano non si può escludere che possa trattarsi di un evento successivo. Ad ogni modo, anche ammettendo che la rievocazione dell'eruzione e dei suoi effetti distruttivi siano il risultato di un'interpretazione di fonti letterarie, in alcuni passi Lucrezio illustra così bene la natura geofisica del vulcano siciliano (vi, 68o ss.) che una sua conoscenza diretta non risulta affatto improbabile. A confermare questa ipotesi sono in particolar modo i versi che descrivono, in modo analitico, l'infrangersi delle onde del mare sulla costa etnea e la natura del litorale, costituita da numerose grotte e caverne (vi, 694-703). È poi interessante notare come Lucrezio riporti l 'uso degli abitanti del luogo di chiamare "crateri" quelli che lui invece preferisce definire "fauci" o "bocche" del vulcano (vi, 701-702). Anche se non è da escludere che Lucrezio preferisse sostituire con un termine latino un grecismo trovato in qualche fonte letteraria, non c'è ragione di dubitare che l'occasione di questa precisazione terminologica gli fosse stata ispirata, come lui dice, dal diretto contatto con la popolazione erneasl. Ci sono poi descrizioni che, pur non riferendosi ad aree geografiche precise, lasciano trasparire una profonda familiarità del poeta latino con il mareB. È stato recentemente segnalato come Lucrezio, per parlare del mare e, più in generale, dell'acqua, si sia servito di un vocabolario tecnico decisamente più ricco rispetto a quello utilizzato nella descrizione degli altri elementi, il fuoco, la terra e l'aria (Luzzi, 2009-10, pp. 82-8). Il mare diventa addirittura un modello per spiegare quello che accade nell'aria; allo stesso modo, per spiegare i mutamenti impressi alla natura degli atomi che volteggiano nell'atmosfera e sottolinearne la potenza invisibile, Lucrezio usa l'espressione «gran mare d'aria» H. s2. È interessante osservare, a questo proposito, che crateres non è arrestato prima di Lucrezio. S3· Su Lucrezio e il mare si veda Saint-Denis (193s. pp. 118-9), e la tesi di dottorato di Rosaria Luzzi (2009-10, pp. r8o-20o). S+ Lucr. v, 276: «Aeris in magnum [... ]mare».

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Abbiamo già rievocato, nel capitolo precedente, I' incipit del II libro del De rerum natura e la sua diffusione in Campania. Nello stesso libro Lucrezio descrive i repentini cambiamenti di colore del mare, da marmo candido a nero, per spiegarne la causa e ricondurla alla posizione degli atomi (n, 766 sgg.). Poco prima il poeta si era soffermato sui pericoli del mare, soprarrurro quando subdola ride la lusinga della bonacciass.

Il ciclo di acqua, cielo, mare e fiumi è descritto inoltre nel libro v (vv. 261-2.73), mentre alle esperienze dei marinai ci riconduce un passaggio del libro IV: In mare aperto sembra ai marinai che il sole si levi dalle onde, e nelle onde cali e sommerga la luce [... ].A chi è inesperro del mare, nel porro i navigli sembrano poggiare stravolti, con gli aplustri infranti, sulle onde.[ ... ] E quando i venti portano per il cielo rade nuvole nel tempo notturno, le splendide costellazioni sembrano allora scivolar contro i nembi e fuggire in alto in tutt'altra parte da quella verso cui veramente si muovonos 6 •

Lucrezio era tanto esperto di cose marinare che, sul finire del IV libro, illustra nei particolari il moto di una nave di grande stazza, spiegando come il timone, per mezzo di pulegge e di ruote, una macchina smuove e solleva con lieve sforzo molti carichi di peso enormes7.

Il poeta si riferisce forse a un altro congegno meccanico, quando, nel libro v (vv. 333-334), menziona una recente invenzione introdotta nelle navi. I riferimenti

a grandi navi inducono a pensare al più importante porto romano di età repubblicana, quello di Pozzuoli, poco distante dai laghi Averni descritti nel De rerum natura (cfr. FIG. 3.3). Nel suo frequente ricorso a esperienze personali, per spiegare la natura cor-

55· Lucr. Il, 559: «Subdola cum ridet placidi pellacia ponti».

Lucr. IV, 43l-446: «In pelago nautis ex undis orrus in undis l sol fit uti videarur obire et condere lumen [... ]. At maris ignaris in portu clauda videntur l navigia aplustris fractis obnitier undae [... ]. Raraque per caelum cum venti nubila portant l tempore nocturno, rum splendida signa videntur l labier adversum nimbos atque ire superne l longe aliam in partem ac vera catione feruntur». Cfr. anche Lucr. IV, 387-390. 57· Lucr. IV, 905-906: «Multaque per trocleas et tympana pondere magno l commovet atque levi susrollit machina nisu >>. Si tratta di un riferimento che, come si capisce, apprezza i principi su cui si reggeva la meccanica archimedea. s6.

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FIGURA

3·3

Porto di Pozzuoli (?).Incisione settecentesca di un affresco rinvenuto a Stabia

Fontt: Piroli (1794-1807).

porea dell'eco e la sua causa atomica, Lucrezio ha modo di ricordare anche una gita in montagna, quando cerchiamo i compagni fra le cupe montagne, e a gran voce li chiamiamo dispersi. Ho visto [vidi] luoghi rimandare fino a sei o sette volte gridi, se uno ne gettavi1 8•

Ancora, la duplice esperienza del mare e della montagna è raccolta sinteticamente da Lucrezio in un passo teso a dimostrare la potenza dell'azione invisibile degli atomi: Che infatti in alto s'aprano luoghi ventosi lo rivelano le cose e i sensi, quando scaliamo alte montagne. Anche da tutto il mare la natura solleva innumerevoli corpi, come dimostrano le vesti appese sul lido, quando s'impregnano dell'umidità che aderisce 19 .

sB. Lucr. IV, s?s: «Palantis comites cum montis imer opacos l quaerimus et magna dispersos voce ciemus. l Sex etiam aut septem loca vidi reddere voces, l unam cum iaceres». S9· Lucr. VI, 468-472.: «Nam loca declarat sursum ventosa parere l res ipsa et sensus, mon118

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Abbiamo già citato, nel capitolo precedente, la contrapposizione tra l'armonia del vivere agreste, di cui Lucrezio offre numerosissimi esempi, e quella segnata dai lussi artificiosi di ville e palazzi: ed è certo che, anche attenendoci esclusivamente ai rapporti con Memmio, il poeta deve aver frequentato ambienti di questo genere. Lucrezio non aveva visitato solo luoghi e città della penisola italiana: come tanti suoi contemporanei, egli si recò certamente anche in Grecia. Nel VI libro il poeta latino afferma di aver visto (vidi) un esperimento sulla repulsione magnetica, effettuato con anelli di ferro magnetizzato della Samotracia60 • Affidandosi all'autorità di una tarda testimonianza di lsidoro di Siviglia 61 , Sedley (1998) crede che il passo di Lucrezio sia frutto di una ricostruzione immaginaria, perché gli anelli di Samotracia non avevano proprietà particolari ed erano composti da ferro e oro. Questa ipotesi è però smentita dal recente ritrovamento, presso il santuario locale, di alcuni anelli di ferro (cfr. FIG. 3.4) che, dunque, confermano il resoconto offerto nel De rerum natura e inducono a supporre la presenza del poeta nella lontana isola greca62 . Un altro dato che, almeno indirettamente, sembrerebbe confermare la testimonianza di Lucrezio è costituito da un'epigrafe, che attesta la presenza nell'isola del già menzionato Lucio Calpurnio Pisone, proprietario della Villa dei Papiri a Ercolano (Bloch, 1940 ). Pisone fu in Samotracia negli anni compresi tra il 57 e il 55 a.C. e, secondo Cicerone, una volta giunto al santuario, sarebbe stato introdotto ai misteri per poi diventare patronus dell'isola 63 . Viene la tentazione di pensare che Lucrezio possa aver accompagnato Pisone nel suo viaggio e di confermare così anche la sua frequentazione della Villa dei Papiri, di cui diremo di più nel PAR. 3-3È inoltre possibile che Lucrezio si sia spinto anche nella città di Magnesia, visto che descrive, poco prima del passo relativo a Samotracia, le proprietà magnetiche delle pietre presenti in questa zona (vi, 906-909). Luciano Canfora tis cum ascendimus alros. l Praererea permulra mari quoque rollere roto l corpora naruram declaram lirore vesres l suspensae, cum concipium umoris adhaesum ». 6o. Lucr. VI, 1044-1046: «Exsulrare edam Samorhracia ferrea vidi l et ramema simul ferri furere imus aenis l in scaphiis,lapis hic Magnes cum subdirus esser». 61. lsid. orig. XIX, p., s: « Ungulus est gemmarus, vocarusque hoc nomine quia, sicur ungula carni, ira gemma anuli auro adcingirur. Samorhracius aureus quidem, sed capirulo ferreo; a loco ira vocatus». 62.. Cfr. http:/ /www.samorhrace.emory.edu/visualizing-rhe-sancruary/emering-rhesancruary l merals. 63. Cic. Pis. 36. Stranamente l'epigrafe e il passo di Cicerone sono stati ignorati sia da Canfora (1993) che da Sedley (1998).

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FIGURA

3·4

Anello di ferro trovato presso il santuario di Samotracia (photo Craig Mauzy ); Samothrace Excavations

(1993. pp. 66-7) sostiene poi che la descrizione dei giacimenti minerari di Scaptensula (Skapté Hyle) in Tracia, significativamente introdotta dall'espressione nonne vides, possa essere il frutto di un'esperienza personale del poeta (I, 8o6815). Che Lucrezio sia stato ad Atene appare meno documentato, anche se tutt'altro che improbabile. Nel De rerum natura vi sono poi altri riferimenti geografici, molti dei quali, come ammette lo stesso Lucrezio, sono il frutto di resoconti letterari (jèrtur): in questa categoria vanno collocati il monte Ditte a Creta (I, 633), i riti religiosi del Monte Ida (n, 6ro-6u; v, 663), i terremoti di Sidone ed Egio (vi, 585-587 ), il N ilo (vi, 712.-737 ), il tempio di Giove Ammone in Libia(vi, 848-849), Arado (vi, 890 ), Pomo e Cadice (vi, uo8),l'Attica e l'Acaia (vi, m6). Il poeta latino si sofferma sovente a descrivere merci provenienti da luoghi esotici e lontani come il croco di Cilicia (n, 415),l'incenso di Pancaia (n, 417 ),la porpora meli bea (n, 501),le conchiglie tessaliche (n, 502),le coperte e i tappeti Babilonesi (Iv, 1029; IV, II23), i sandali di Sicione (Iv, 112.5) e le stoffe di Alinda e di Ceo (Iv, II30 ). Molti luoghi sono poi naturalmente tratti dalla letteratura e dalla mitologia greca, come le regioni delle Pieridi (I, 926; IV, 1),1'Elicona (Iv, 547; VI, 786),l'Arcadia (v, 25) e il lago di Stinfalo (v, 30 ), Creta e Lerna (v, 26), le Esperidi (v, 33), il lido d'Atlante (v, 35), Troia (v, 326) e naturalmente il Tartaro e l'Acheronte. La suggestiva combinazione tra i luoghi citati da Lucrezio e le sue esperienze personali, i riferimenti ad alcune innovazioni tecniche a lui contemporanee, 120

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oltre che a commerci e manufatti, evocano l'impressione di un uomo colto e curioso, che, oltre ad aver appreso sui libri i principi della filosofia di Epicuro, aveva viaggiato e, pur in una vita relativamente breve, si era mostrato attento testimone della cultura e degli avvenimenti politici del suo tempo.

3·3

Il De rerum natura Il poema di Lucrezio è costituito da più di 7.000 esametri 6 4, divisi in sei libri. L'opera propone la cura del timore della morte e dell'aldilà attraverso la filosofia della natura e offre una spiegazione razionale e atomistica di tutti i fenomeni naturali, compresi quelli che scaturiscono dalla psiche umana. Alla fede nel soprannaturale e nella provvidenza il poeta propone di sostituire la fede nel reale, basata sull'evidenza dei sensi, e promette di raggiungere una felicità immanente e in piena sintonia con la natura. Il processo di composizione dei libri non è stato lineare: sulla base di puntuali ricerche sui rimandi interni del testo 65 , si è giunti alla conclusione che Lucrezio abbia scritto in sequenza i libri I, II, v, IV, III e VI. I numerosi tentativi di datazione della loro composizione si basano su indizi troppo fragili e controversi perché possano essere riportati in questa sede. Nel poema sono presenti frequenti ripetizioni 66 , a proposito delle quali i filologi hanno opinioni contrastanti: mentre qualcuno ritiene che esse siano la prova dell' incompiutezza del poema, altri pensano a una scelta deliberata, tesa a sottolineare ricorsivamente l'importanza di alcuni messaggi della filosofia epicurea. L' incompiutezza è stata chiamata in causa per spiegare come mai Lucrezio, nel v libro, prometta di parlare con un «esauriente discorso» 67 della sede abitata dagli dèi, senza poi effettivamente occuparsi di questo argomento 68 (cfr. FIG. 3-s). Infine, già a partire dai primi editori rinascimentali sono state notate lacune nel testo (per esempio nel I libro ai vv. so, 86o, 1013 e 1093), che confermerebbero l'impossibilità di Lucrezio di portare a conclusione definitiva la redazione del poema. 64. Gli editori del poema e i fìlologi, a seconda dell'approccio più o meno conservativo, ne comano tra 7-339 e 7.409. 6s. Si veda in proposito Bailey in Lucrezio (1947, vol. I, pp. 31-7 ). 66. Una lista delle ripetizioni, con relativa bibliografia, si trova in Boyancé ( 1985, pp. 94-6). 67. Lucr. v, 1ss: «Quae tibi posterius largo sermone perorabo». 68. Di diverso avviso è Ubaldo Pizzani ( 1959, pp. 174-80 ), secondo cui l' argomemo sarebbe rrarrato nei versi immediatameme successivi e nel VI libro. Ili

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FIGURA

3·5

Prima rappresentazione iconografica degli dèi epicurei. Incisione di Romeyn De Hooge tratta dalla prima traduzione olandese del De re rum natura ( Lucretius, Werken, Amsterdam I70I, tav. 2)

I contenuti del De rerum natura offrono una rappresentazione molto coerente della Hlosofia di Epicuro, anche se fino a oggi non è stato possibile ricondurne la struttura a un'unica matrice. In effetti la disposizione della materia data da Lucrezio è diversa rispetto a quella che si trova nelle opere conosciute di Epicuro. Naturalmente anche questa differenza ha dato adito a interpretazioni molto contrastanti e a una ricerca, spesso infruttuosa e sempre problematica, delle fonti. Nel I libro, composto vegliando durante le notti serene (I, 142), Lucrezio parte dall'assumo, che verrà dimostrato in seguito, che tutte le cose sono costituite da atomi indistruttibili ed enuncia il principio generale per cui nulla può nascere dal nulla (I, rs3-154) e nulla può ridursi in nulla (I, 2rs-2r6). Il poeta passa poi alla dimostrazione dell'esistenza del vuoto (I, 329 ss.), grazie a cui si possono spiegare la diversa consistenza materiale delle cose e la possibilità del moto dei corpi. Successivamente Lucrezio offre una trattazione delle caratteristiche degli atomi, descrivendo le ragioni della loro indivisibilità e immutabilità e la natura delle parti minime che conferiscono loro forme differenti. Passa poi in rassegna (I, 63s-920) le filosofie della natura di Eraclito, Empedocle e Anassagora, per concludere con un'affermazione dell'infinità dell'universo. Il n libro spiega come si formano i corpi (n, 62 ss.), le velocità e i moti degli atomi (n, 143 ss.), la declinazione (clinamen) degli atomi (n, 216-293), la varietà delle forme atomiche (n, 333 ss.), le combinazioni dei corpi composti e le leggi che presiedono a fissarne il numero secondo regole certe (n, 66r ss.). Lucrezio spiega poi l'origine non atomica dei colori (II, 730 ss.), dimostra la mancanza negli atomi di altre qualità secondarie e della sensibilità (n, 843 ss.), e, verso la conclusione, elenca una serie di argomenti a favore dell'esistenza di una I22

3· LA VITA E L'OPERA DI LUCREZIO

pluralità di mondi, illustrando le dinamiche della loro nascita e della loro estinzione (II, 102.3 ss.). Nel III libro Lucrezio mostra che mente e anima sono parti integranti del corpo e che sono composte da atomi sottilissimi (III, 94 ss.). La parte centrale e più estesa del libro è costituita dalle 2.9 dimostrazioni della mortalità dell'anima (m, 417 ss.), a cui seguono le ragioni per non temere la morte (m, 830 ss.). Il IV libro si apre con le prove dell'esistenza dei simulacri: si tratta di membrane sottilissime che, staccandosi dagli oggetti e penetrando nelle pupille, rendono possibile la visione del mondo esterno (Iv, 54 ss.). Lucrezio passa poi in rassegna alcuni fenomeni quali la riflessione (Iv, 2.69 ss.), le illusioni ottiche (Iv, 379 ss.) e la prospettiva (Iv, 42.6-431). A questa sezione ne segue una nella quale il poeta dimostra l'infallibilità dei sensi e la loro differente configurazione fisiologica (Iv, 469 ss.), ricondotta al tessuto atomico. Dopo una polemica contro il finalismo degli Stoici (Iv, 82.2.), Lucrezio illustra quindi l'origine delle sensazioni di fame e di sete (Iv, 858 ss.), del movimento volontario (IV, 878 ss.), del sonno (Iv, 907 ss.) e dei sogni (Iv, 962. ss.), concludendo con una lunga digressione sulla fisiologia e psicologia del sesso e dei sentimenti amorosi (Iv, 1037 ss.). Il v libro si apre con una spiegazione di «come il mondo consista d'un corpo mortale e insieme nativo» (v, 6s-66). Lucrezio passa poi a dimostrare l'estraneità degli dèi alla creazione del mondo (v, 146 ss.), che, in virtù della sua natura mortale, è destinato a un lento e inesorabile deperimento: solo la somma dei mondi è eterna (v, 361). Alla descrizione della formazione del mondo (v, 416-so8) segue una lunga disamina sulla natura e sui moti degli astri. Dopo aver brevemente accennato alle diverse cause delle eclissi, Lucrezio affronta il tema dell'origine della vita e dell'evoluzione delle specie viventi e, dopo la comparsa dell'uomo, della cultura e delle civiltà (v, 772. ss.). Il libro, il più lungo del poema, si chiude con una visione moderatamente ottimistica a proposito dei progressi umani. Il VI libro affronta numerosi temi, che potremmo oggi associare alla meteorologia, alla geologia e alla medicina: il tuono (vi, 96 ss.), il lampo (vi, 160 ss.), il fulmine (vi, 2.19 ss.), la tromba marina (vi, 42.3 ss.), le nubi (vi, 451 ss.), ifenomeni atmosferici (vi, 495 ss.), i terremoti (vi, S3S ss.), la grandezza del mare (vi, 6o8 ss.), i vulcani (vi, 639 ss.), le piene del Nilo (vi, 703 ss.), gli Averni (vi, 738 ss.), i pozzi e le fontane (vi, 840 ss.), il magnete (vi, 906 ss.), per concludere con le epidemie e la peste di Atene (vi, 1090 ss.). I libri sono tutti introdotti da proemi. Nel primo, il più lungo e complesso, Lucrezio celebra Venere, Aeneadum genetrix, il cui ruolo è assimilabile a quello di una m usa ispiratrice che accompagna il poeta «a scrivere i versi intorno alla I2.3

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

natura» destinati alla conversione del «nostro Memmio », il dedicatario del poema6 9. Memmio è stato quasi universalmente identificato con il pretore Gaio Memmio, corrispondente - come abbiamo visto - di Cicerone e mecenate di Catullo, oltre che di un circolo di simpatizzanti della dottrina di Epicuro. A questa premessa segue il primo elogio che Lucrezio rivolge- senza tuttavia nominarlo direttamente - a Epicuro, presentato come il liberatore dal peso della religione che opprimeva il cuore degli uomini: così, vivida tensione dell'animo vinse, e avanzò lontano, oltre le fiammeggianti mura del mondo, e l'universo immenso percorse con la mente e col cuore7°.

Il proemio del II libro, su cui abbiamo già richiamato l'attenzione parlando della Villa dei Papiri, invita Memmio ad abbandonare le ricchezze e le ambizioni terrene per dedicarsi alla vera filosofia, guardando alle vicende della vita con distaccata serenità. Il III libro si apre con il secondo elogio di Epicuro, presentato curiosamente con versi di devozione religiosa tesi a esaltarne la «mente divina» e a presentarlo come «padre e scopritore del vero», il cui verbo assume vita perenne e provoca nei suoi seguaci una divina voluptas. L'eternità e divinità del messaggio epicureo contrasta con il contenuto del libro, che è dedicato alla dimostrazione della mortalità dell'anima, l'ultimo baluardo che resta a Lucrezio per persuadere Memmio della mortalità di tutte le cose. Oltre al tono devoto e religioso con cui Lucrezio presenta Epicuro, l' incipit del proemio viene spesso indicato come prova della fedeltà dogmatica del poeta verso l'opera del maestro. Vale la pena riportarne il testo: Tu che da tante tenebre così vivida luce hai saputo suscitare illuminando le gioie della vita: io seguo te, gloria della greca gente, e nelle tue orme profonde ora imprimo ben salde le impronte dei miei piedi, non perché io voglia gareggiare con te, ma per amore, perché bramo imitarti 71 •

69. Cfr. Lucr. I, 2.4-2.7: «Te sociam studeo scribendis versibus esse l quos ego de rerum natura pangere conor l Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempo re in omni l omnibus ornatum voluisti excellere rebus». 70. Lucr. I, 72.-74: «Ergo vivida vis animi pervicit, et extra l processit longe flammamia moenia mundi l acque omne immensum peragravit mente animoque». 71. Lucr. III, 1-6: «E tenebris tantis tam clarum exrollere lumen l qui primus potuisti inlustrans com moda vitae, l te sequor, o Graiae gemis decus, inque tuis n une l fìcta pedum pono pressis vestigia signis, l non ita certandi cupidus quam propter amorem l quod te imitari aveo». I24

3· LA VITA E L'OPERA DI LUCREZIO

Mentre il proemio del III libro appare totalmente improntato a una professione di modestia, si direbbe quasi ali 'ossequiosa resa di fronte alla rivelazione, il libro successivo si apre con l'orgogliosa rivendicazione di Lucrezio di aver percorso solitarie regioni «mai prima segnate d'orma d'uomo»: prima, perché insegno grandi verità e mi sforzo di sciogliere l'animo dai chiusi nodi della religione, poi, perché di un'oscura materia scrivo così lucidi versi, in tutto trasfondendo la grazia della poesia 7 l.

Lucrezio si dichiara dunque un fedele e devoto discepolo di Epicuro per quanto riguarda i contenuti, ma rivendica per sé un ruolo di protagonista, secondo per importanza solo a quello del maestro, per quanto riguarda la trasmissione della dottrina in una forma - quella poetica - mai esplorata da altri. I proemi degli ultimi due libri sono dedicati a Epicuro, che Lucrezio ci presenta - pur con una voce più tenue rispetto al proemio del III libro - come un dio incarnato e benefattore dell'umanità. La contraddizione tra il culto religioso di Epicuro e la violenta lotta di Lucrezio contro la religione e la superstizione è solo apparente, perché Epicuro, con il suo messaggio rivoluzionario, sostituisce gli dèi e incarna una nuova dottrina onnicomprensiva, emancipatrice, secolarizzata e umanistica che, proiettando sulla spontanea fecondità della natura l'origine e il termine delle vicende umane, risponde alle religioni tradizionali con un nuovo messaggio di salvezza 7 ~. L'attribuzione a Epicuro di un messaggio salvifico universale è stata accostata da alcuni studiosi al Cristianesimo 74 : tuttavia, per quanto sia indubbia l 'esistenza di alcuni tratti comuni, non può sfuggire la differenza principale. Per Epicuro l'esistenza umana e la sua salvezza si risolvono infatti nella conoscenza della natura, che permette all'uomo di accettare con serenità i limiti temporali, etici e conoscitivi imposti dalle leggi naturali; Cristo, per contrasto, incarna un messaggio trascendente, che promette agli uomini il raggiungimento della salvezza solo al termine della loro esistenza terrena. Mentre dunque il messaggio di Epicuro, pur dotato di universalità, presuppone la partecipazione attiva dell'individuo alla realizzazione della propria esistenza, quello cristiano ap-

72. Lucr. IV, 6-9: «Primum quod magnis doceo de rebus er arris l religionum animum nodis exsolvere pergo, l deinde quod obscura de re ram lucida pango l carmina, musaeo conringens cuncra lepore >>. 73· Su questo si vedano i saggi raccolti in Bererra, Cirri, Iannucci (2014). 74· De Wirr Hyde (19os). Il più persuasivo sostenitore di questa resi è stato De Wirr (19s4, pp. 336 ss.), i cui eccessi sono srari correrti da Schmid (1984). I2S

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

prezza e valorizza un atteggiamento più remissivo e fa perno, all'opposto del realismo materialista della filosofia epicurea, sulla fede trascendente. In effetti, la divinizzazione di Epicuro che Lucrezio condivide con la scuola epicurea, più che anticipare i tratti del Cristianesimo, mira a sostituire l'antica identità che la religione tradizionale stabiliva tra gli dèi e i fenomeni naturali con una nuova filosofia naturale, ricondotta interamente alla psicologia e alla fisiologia della percezione individuale. A questo elemento ne va aggiunto poi un altro: per Epicuro, vivere secondo i precetti della filosofia del Giardino comportava il raggiungimento di una serenità e di una beatitudine paragonabili a quelli degli dèi7S. In una lettera alla madre, riportata nell'iscrizione di Diogene di Enoanda, egli scriveva infatti: Non sono infatti piccoli o privi di efficacia per noi questi guadagni che rendono la nostra disposizione simile a quella di un dio e mostrano che nemmeno la nostra condizione mortale ci rende inferiori alla natura imperitura e beata, poiché, quando siamo vivi, siamo gioiosi come gli dèi 76 •

Il titolo del poema lucreziano richiama sia quello del Peri physeos di Epicuro, sia quello del poema sulla natura di Empedocle, che secondo alcuni sarebbe servito da modello principale per il De rerum natura. Se, da un lato, Epicuro aveva fornito a Lucrezio i contenuti della dottrina, dall'altro il poema di Empedocle gli aveva mostrato la possibilità di tradurre la filosofia in versi. Anche senza voler privilegiare uno di questi modelli, è chiaro che il titolo scelto da Lucrezio era perfettamente coerente con i contenuti del poema, nel quale i temi legati ali' indagine scientifica sono privilegiati rispetto a quelli etici e politici che altri Epicurei a lui contemporanei, Filodemo in primis, ritenevano più consoni agli interessi filosofici dei Romani 77• Se, da un lato, la scelta di trattare in modo sistematico e approfondito i temi relativi alla filosofia naturale è sembrata a molti interpreti talmente inusuale, per un letterato latino, da proporre di ricondurla in foto a una presunta fedeltà del poeta a un libro perduto di Epicuro, il ricorso alla poesia per diffondere i principi della filosofia del Giardino ha obbligato a riconoscere, pur con varie gradazioni di giudizio, l'autonomia e l'originalità di Lucrezio. Epicuro, in effet75· Come messo in evidenza nell'importante studio di Konstan (2007, pp. 155-66). 76. Diogene di Enoanda (1993, p. 414). 77. Secondo una testimonianza di Cicerone (ac. l, 6), Amafìno avrebbe composto anche un

trattato epicureo di fisica (non è chiaro se prima o dopo la pubblicazione del De rerum natura): come appare probabile, si trattava di uno scritto divulgativo di natura molto diversa dal poema lucreziano, che della fìlosofìa naturale di Epicuro offre un quadro tutt'altro che superficiale. 12.6

3· LA VITA E L'OPERA DI LUCREZIO

ti, aveva esecrato «ogni tipo di poesia come esca di favole» (Epicuro, 2.002., fr. 2.2.9 Usener) e miti: di conseguenza, tale mezzo espressivo diventava ancora più improprio se adottato per esprimere i principi di una filosofia che, tra i suoi primi obiettivi, aveva quello di distruggere la superstizione che si annidava nella mitologia greca. Non è un caso che addirittura Omero fosse caduto nella condanna senza appello di Epicuro. Al contrario per Lucrezio, che tra l'altro riconosce a O mero un posto di assoluto rilievo (m, 1037 ), i lucida carmina offrivano uno strumento espressivo assolutamente idoneo a comunicare la dottrina epicurea e, contemporaneamente, a sublimare la filosofia del Giardino in versi di insuperata bellezza estetica. Se l'obiettivo polemico di Epicuro, espresso in tante occasioni, erano l'artificiosità e il tecnicismo della filosofia della natura dei suoi contemporanei, quale strumento poteva essere migliore della poesia per esprimere l'ambizione di ricongiungere la conoscenza della natura alle profondità della coscienza umana? A questo deve aver pensato Lucrezio quando, nel proemio del IV libro, dichiarava di essere stato il primo uomo ed essersi cimentato in un'impresa di questo genere. Occorre a questo proposito precisare che molti studiosi, al fine di sminuire l'originalità di Lucrezio, hanno tentato di mettere in relazione le sue scelte stilistiche con la produzione poetica di Filodemo: il quale per di più, essendo più vecchio del poeta latino, sarebbe stato il primo a rompere la prescrizione di Epicuro 78 • Tuttavia, come è stato giustamente sottolineato da Boyancé (1985, pp. 70-1), gli epigrammi di Filodemo, in conformità con la censura del maestro, non riguardano la filosofia ma argomenti di "intrattenimento", cosicché la sua presunta affinità con Lucrezio appare del tutto impropria. Il De rerum natura viene prevalentemente considerato come un testo letterario, finalizzato a illustrare in modo gradevole e istruttivo i precetti principali della filosofia epicurea. Come abbiamo avuto modo di vedere, però, Lucrezio sposta il baricentro della sua attenzione verso l'indagine dei fenomeni naturali, aggiungendovi spesso esperienze, o addirittura esperimenti, personali. Allo stesso modo, l'introduzione di una moltitudine di termini latini, differenti rispetto a quelli adottati da altri seguaci di Epicuro, sono indicatori dell'inclinazione del poeta all'approfondimento teorico. Per questa ragione ritengo che Benjamin Farrington abbia colto nel segno, allorché ha definito il De rerum natura come un poema "protrettico", vale a dire un'opera tesa alla conversione più che all'ammaestramento (Farrington, 1965, p. 30 ). In effetti l'invito- rivol-

78. Filodemo nacque nelJJO a.C. circa e morì nel3s a.C. I2.7

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

to a Memmio - a consacrare la propria esistenza alla Hlosofia epicurea, seguendo i dettami dei versi lucreziani, rivela un'ambizione molto più alta rispetto a delle mere finalità didascaliche, sottintendendo la conversione a una scelta di vita di cui le nozioni epicuree costituiscono la premessa. Fiumi d'inchiostro sono stati versati per contestare o provare l'originalità di Lucrezio. Molti studiosi, da Bignone a Sedley79 , hanno manifestato la tendenza a sminuire (o addirittura ad annullare) il contributo del poeta latino allo sviluppo della filosofia del Giardino, negando recisamente che gli spunti polemici presenti nel poema possano riferirsi alle scaramucce contemporanee contro gli Stoici o con altri autori del I secolo a.C. Sulla base di questa linea interpretativa, il nucleo principale dei contenuti esposti nel poema lucreziano viene fatto risalire al trattato Sulla natura e alle Lettere di Epicuro. È da questo punto di vista sintomatico il fatto che gli Epicurea di Hermann Usener (del 1887; cfr. Epicuro 2002), l'edizione degli scritti e delle testimonianze su Epicuro che ancora oggi costituisce un saldo punto di riferimento per la comprensione della sua opera, non contengano che pochi riferimenti provenienti dal De rerum natura: evidentemente il poema lucreziano non veniva considerato una fonte sufficientemente autorevole per illuminare i contenuti della filosofia del Giardino 80 • L'approccio selettivo di Usener, che ha dettato la direzione da seguire per molti decenni, proponeva - non si capisce quanto deliberatamente - un percorso opposto a quello seguito più di due secoli prima da Pierre Gassendi, il quale, nella sua eruditissima biografia di Epicuro 8 ', si era giovato a tal punto delle testimonianze lucreziane, da non escludere dal commento all'opera di Epicuro nemmeno un verso del De rerum natura 8l (cfr. FIG. 3.6). In realtà, in alcune sezioni del De rerum natura sono stati riconosciuti- per fare solo pochi esempi - una conoscenza diretta del poema di Empedocle (Montarese, 2012, p. u), alcuni riferimenti agli scritti medici di Asclepiade (Pigeaud, 1981), gli spunti di una polemica contro gli Stoici (K.leve, 1978), un'attenta lettura critica delle opere biologiche di Aristotele (Schrijvers, 1999) e la 79· Si veda anche il contributo di Warren (l007 ). So. Per non fare che un esempio. è difficile capire il motivo per cui Usener abbia preferito spiegare la posizione di Epicuro sulla declinazione del moto atomico ricorrendo all'illustrazione impacciata di Cicerone piuttosto che a quella, decisamente più coerente e fedele alla domina epicurea, di Lucrezio. 81. Gassendi (1649 ). L'opera seguiva di due anni la biografia di Epicuro: Gassendi (1647 ). Di quest'ultima Sylvie Taussig ha recentemente curato una traduzione commentata: Gassendi (lDo6). Sl. Cfr. Beretta (lDo8c) e, infra, CAP. 8. 128

3· LA VITA E L'OPERA DI LUCREZIO

FIGURA 3.6 Frontespizio del!eAnimadversiones di Gassendi (1649). Si noti che il vero ritratto di Epicuro (in realtà si tratta di Socrate) non era ancora stato scoperto

conoscenza di trattati riconducibili al Corpus Hippocraticum (Munro in Lucrezio, 1866, vol. n, pp. 394-5). Lo stato di grave menomazione con il quale ci è conservata l'opera di Epicuro, oltre alla conoscenza, ancora insufficiente, che abbiamo della scienza e della filosofia a Roma nel I secolo a.C., rendono molto difficile risolvere, in un senso o nell'altro, la questione delle fonti. Per ragioni che, per chi ha seguito fin qui, dovrebbero risultare ormai chiare, ritengo però improbabile che Lucrezio non avesse aggiunto nulla di personale nella sua appassionata e competente esposizione della filosofia di Epicuro. Se non altro, e questo è difficilmente contestabile, Lucrezio si distinse per un tentativo ambizioso di tradurre, con vocaboli e immagini nuove ed espressive, i principi della nuova filosofia (Schiesaro, I990 ). I29

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Consapevole della difficoltà «di illuminare le oscure scoperte dei Greci» 83 attraverso una lingua non altrettanto ricca, Lucrezio annuncia la sua intenzione di coniare molte nuove parole capaci di esprimere la novità delle cose. Non è dunque solo l'esigenza stilistica che spinge Lucrezio a usare un linguaggio espressivo inconsueto e originale, ma è la sua aspirazione di filosofo che intende dar forma, primo tra i Latini, alla dottrina epicurea. La relativa povertà del vocabolario del De rerum natura, costituito da 4.464 parole (Hellegouarc'h, 1989), nasconde lo sforzo di restringere l'estro poetico entro un perimetro linguistico fortemente connotato dall'esperienza fùosofica e scientifica vissuta dal suo autore. Al servizio di questa impresa, Lucrezio ha mostrato una straordinaria creatività. I filologi hanno individuato oltre 100 termini che non sono attestati prima di Lucrezio, molti dei quali potrebbero essere dei veri e propri neologismi. Oltre alla nomenclatura atomica, alcuni termini, come ad esempio la diade sensile/insensile, esprimono al meglio l'esigenza di dare espressione alla separazione esistente tra il mondo vivente e quello inorganico. Sebbene in qualche raro frangente- il caso più importante è senz'altro l'uso del termine omeomeria - Lucrezio decida di traslitterare i termini greci, quando si tratta di esprimere concetti importanti o inerenti la filosofia epicurea, il poeta si serve di espressioni latine molto ricercate, a volte nuove e a volte arcaizzanti. Questa strana combinazione di neologismi e arcaismi trova probabilmente la sua ragione nel costante sforzo di conferire peso semantico, prima che poetico, a tutte le espressioni usate nei contesti in cui vengono esposti concetti filosofici o scientifici. Tale approccio, come vedremo nel CAP. 4, costituisce a nostro avviso uno degli aspetti più interessanti, ancora non sufficientemente esplorati, dello stile lucreziano. Se, come sembra universalmente riconosciuto, Lucrezio morì prima che il De rerum natura venisse pubblicato, quale fu la sua circolazione in età repubblicana e durante la prima età imperiale? Per rispondere a questo interrogativo occorrerà ricordare innanzi tutto che, come è stato giustamente rilevato da Enrico Flores, è probabile che il testo lucreziano fosse circolato già prima della pubblicazione, e che il suo autore «ne avesse potuto diffondere, leggere in privato, in circoli ristretti di amici, alcune parti» (Flores in Lucrezio, 2002-09, vol. I, p. 17 ). Il primo riferimento ali 'opera nel suo complesso, quello riportato dalla lettera di Cicerone al fratello, ha dato adito a numerosissime interpretazioni, mal-

83. Lucr. I, 136-137: «Nec me animi fallir Graiorum obscura reperta l difficile inlustrare Larinis versi bus esse».

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3· LA VITA E L'OPERA DI LUCREZIO

te delle quali sono state condizionate dalla testimonianza di Girolamo, secondo la quale l'Arpinate avrebbe "corretto" (emendavit) il testo lucreziano. Senza qui ripercorrere le tappe del dibattito storiografico su queste due testimonianze, mi sento di concordare con la tendenza recente secondo cui il contributo di Cicerone si sarebbe limitato alla diffusione, e non ali 'edizione, del De rerum natura. A tale proposito, l'attenzione dei filologi è stata recentemente attratta dalla scoperta, presso la Villa dei Papiri, di alcuni frammenti che Knut Kleve (1989) ha identificato come provenienti dal De rerum natura (cfr. FIG. p). Che una copia del poema fosse presente nella biblioteca allestita dall'epicureo Filodemo era stato sospettato e sperato fin dall'Ottocento, ma l'ipotesi venne considerata come una congettura avventata. Non sorprende dunque che anche il ritrovamento di Kleve sia stato vivacemente contestato 84 • La scoperta era di tale importanza che la polemica tra sostenitori e denigratori si è protratta per anni 8S, anche se un autorevole papirologo, Dirk Obbink (2.007 ), ritiene che i frammenti non possono che appartenere al De rerum natura e che dunque una copia del poema era probabilmente conservata negli scaffali della biblioteca di Filodemo. I frammenti identificati appartengono ai libri I, Il, III, IV e v, cosa che lascia intendere che l'esemplare della Villa fosse completo. L'affannosa e appassionata ricerca dell'archetipo del testo lucreziano che ha accompagnato, dal Lachmann in poi, le ricerche filologiche sembra dunque essere giunta a un nuovo importante traguardo: anche se i piccolissimi frammenti ritrovati tra gli scarti dei papiri combusti non possono certo offrire informazioni utili a risolvere le miriadi di dubbi che si sono accumulati nei secoli di trasmissione del testo, essi potrebbero nondimeno aggiungere preziosissime indicazioni sulla sua genealogia. Anche se è forse ancora presto per poter valutare al meglio la portata del ritrovamento di Kleve e il suo significato per la diffusione del De rerum natura nell'area campana del I secolo a.C., Gigante ha ipotizzato che Filodemo possa aver letto Lucrezio pochi anni dopo la morte del poeta; secondo lo studioso, la presenza nella biblioteca della Villa costituirebbe una prova del fatto che il De rerum natura sia stato effettivamente pubblicato, o che comunque possa essere circolato, così come sostiene ora anche Flores. Secondo Obbink, l 'esemplare del

84. In modo particolarmente vigoroso da Capasso (l003). La critica di Capasso è stata appoggiata da Warren (lOos). Tra coloro che, al contrario, hanno convalidato la scoperta spiccano gli autorevoli riconoscimenti di Martin Ferguson Smith nella sua riedizione dell'edizione Loeb del De rerum natura (199l) e di Enrico Flores nella sua citata edizione del poema lucreziano. Bs. La storia della polemica è ricostruita con ironia dallo stesso Kleve nel suo recente saggio Kleve (lOil).

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

FIGURA 3·7 Frammento di papiro attribuito da Knut Kleve a una copia del De rerum natura proveniente dalla biblioteca della Villa dei Papiri. I frammenti di testo, su due linee, si riferiscono ai due versi v, 1301 e v, 1409 e sono stati ricostruiti da Kleve nel modo seguente: «et quam falciferos armaTUM.ESCendere currus l et numerum servare genus didicere neqUE HILO »; Biblioteca Nazionale di Napoli- Brigham Young University (Provo, Utha, USA)

Fonte: su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

De rerum natura potrebbe essere stato utilizzato come testo propedeutico alla lettura del Peri physeos di Epicuro, di cui esistevano tre copie tra i papiri della Villa. Con la scoperta di Kleve, risulta avvalorata l'ipotesi, precedentemente illustrata, che Lucrezio si sia effettivamente recato sul litorale campano e abbia frequentato la Villa dei Papiri. Il De rerum natura ebbe immeditata diffusione e conobbe da subito imitatori, come l'autore del poema Aetna, ed estimatori, come Catullo e Virgilio. Non si conoscono le vicende editoriali del testo 86 , se si eccettua un accenno, contenuto in una tarda testimonianza, a un'edizione ad opera del grammatico Valerio Probo (1 secolo d.C.) 87• Le vicissitudini del De rerum natura nei secoli successivi, sino all'apparizione della prima edizione a stampa, saranno oggetto di una breve trattazione nell'ultimo capitolo.

86. Ma vedi ora l'ottima ricostruzione di Butterfìeld (2.013). 87. Il testo è riportato in Appendice, p. 2.67.

4

La scienza dei semi

4·1

Le forme degli atomi tra fisica e geometria Dunque elementi dissimili per forma s'adunano in una sola compagine e le cose sono formate di semi commisti (permixto semine). Nei miei stessi versi sparse ovunque tu vedi molte lettere comuni a molte parole, eppure devi ammettere che versi e parole sono, fra loro, composti di lettere diverse, non perché solo poche lettere comuni vi corrano, né mai due parole risultino di lettere tutte uguali, ma perché non sono tutte eguali fra loro. Così nelle altre cose i primi elementi, sebbene in gran parte siano comuni a molte cose, tuttavia possono costituire complessi differenti tra loro; a ragione dunque si dice che di atomi diversi sono formati il genere umano, le messi e gli alberi lieti'.

Riprendendo una fortunata analogia tra atomi e lettere risalente a Democrito\ Lucrezio sviluppò a più riprese alcuni elementi che sembravano fornirgli un' immagine assai efficace per la filosofia della materia da lui proposta, tesa a spostare il centro della costituzione del mondo dai singoli atomi alle molecole e alle loro combinazioni3. Il passo citato in effetti servì a dimostrare a Lucrezio che i corpi sono formati dal mescolarsi e combinarsi di insiemi di atomi di diversa natura, le cui differenti forme, proporzioni, disposizioni e ordini danno luogo ali' infinita varietà di corpi percepibili attraverso i sensi.

1. Lucr. II, 686-699: «Dissimiles igitur formae glomeramen in unum l conveniunt et res permixto semine constant. l Quin edam passim nostris in versi bus ipsis l multa elementa vides multis communia verbis, l cum tamen inter se versus ac verba necesse est l confìteare alia ex aliis constare elemencis; l non quo multa parum communis littera currat l aut nulla inter se duo sint ex omnibus isdem, l sed quia non vulgo paria omnibus omnia constant. l Sic aliis in rebus item communia multa l multarum rerum cum sint primordia, longe l dissimili tamen inter se consistere summa l possunt; ut merito ex aliis constare feratur l humanum genus et fruges arbustaque laeta >>. l. Su questa analogia, cfr. Dionigi (lOos). 3· Cfr. anche Lucr. 1, 8l3-8l6; II, IOJ3-IOll.

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Pur non essendo in grado di descrivere nei dettagli come fossero le forme di questi enti elementari, Lucrezio pensava che la varietà dei corpi fosse il risultato della combinazione di molecole costituite da atomi di forme differenti. Benché il numero degli atomi fosse ipotizzato come infinito, le loro forme erano limitate, come il numero delle lettere, e consentivano di dare ragione delle qualità macroscopiche dei corpi: Inoltre la luce attraversa il corno [materiale trasparente delle lanterne], ma la pioggia è respinta. Per quale ragione, se non perché i corpi della luce sono più piccoli di quelli di cui si compone l'acqua? E in un istante vediamo scorrere il vino per il colatoio, ma l'olio indugia lento, certo perché è formato di elementi più grossi o più uncinati e più intricati fra loro[ ... ] Ti è facile così riconoscere che d'atomi lisci e rotondi sono le sostanze che toccano gradevolmente i sensi, mentre tutte quelle che sembrano amare e aspre sono intessute di corpuscoli più uncinati, e per questo sogliono lacerare le vie dei nostri sensi e, nell'entrare, far violenza al corpo 4 •

Poco oltre, Lucrezio precisa ulteriormente la relazione tra la varietà delle forme atomiche e la struttura dei corpi macroscopici: Ci sono anche degli atomi che non si possono a ragione pensare lisci, né al tutto uncinati con aculei contorti, ma piuttosto con lievi spigoli poco sporgenti, che possono solleticare più che offendere i sensi; tali sono la feccia del vino e il sapore dell'enula. Che infine il fuoco ardente e la gelida brina con atomi in diverso modo dentati pungano i sensi, a noi palesa il contatto dell'uno e dell'altra.[ ... ] Devono certo comporsi di atomi lisci e rotondi le cose liquide che hanno consistenza fluida l.

Come risulta evidente, Lucrezio non si dilunga molto sulla definizione del tipo e della quantità di queste forme, limitandosi a stabilire che ci possono essere 4· Lucr. Il, 389-407: «Praererea lumen per cornum rransir, ar imber respuirur.Quare, nisi luminis illa minora l corpora sunr guam de quibus esr liquor almus aquarum? l Er quamvis subiro per colum vi n a videmus l perfluere, ar contra rardum cuncrarur olivum, l aut quia nimirum maioribus esr elemenris l aur magis hamaris imer se perque plicaris [... ]. Ur facile agnoscas e levibus argue rurundis l esse ea guae sensus iucunde rangere possunr, l ar contra guae amara argue aspera cumque videnrur, l haec magis hamaris imer se nexa ceneri l proprereaque solere vias rescindere nosrris l sensibus inrroiruque suo perrumpere corpus». s. Lucr. 11, 4l6-4sl: «Sunr eriam guae iam nec levia iure puranrur l esse neque omnino flexis mucronibus unca, l sed magis angellis paulum prosranribus, l ririllare magis sensus guam laedere possinr, l fecula iam quo de genere est inulaeque sapores. l Denique iam calidos ignis gelidamque pruinam l dissimili dentata modo com pungere sensus l corporis, indicio nobis est racrus urerque. l [... ] Illa quidem debenr e levibus argue rurundis l esse magis, fluvido guae corpore liquida constane».

134

4· LA SCIENZA DEI SEMI

FIGURA 4.1 Primo tentativo di visualizzazione delle forme degli atomi lucreziani. Da un manoscritto del 1507 di Francesco Bernardino Cipelli, detto anche Cipellario (1481-post 1543) recentemente studiato da Ada Palmer (2.014); Piacenza, Biblioteca Passerini Landi, Cod. H· Fol. 1oor. Cipellario, che aveva anche scritto un trattato, rimasto inedito, di geometria pratica, sembra voler assimilare le forme qualitative esposte da Lucrezio alle più familiari e scolastiche figure geometriche

t

'")."f'IJIIJt(

~TJt,arl.«t'U

rh'> (cfr. Epicuro, 2.002., fr. 2.67 Usener). 10. 11.

I39

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

te la materialità e, soprattutto, la sua qualità di formare le cose visibili, sia quelle inorganiche sia quelle viventi. I termini atomus e individuum rispondevano esclusivamente al primo requisito, lasciando in ombra tutte le innovazioni apportate da Epicuro al concetto tradizionale di atomo. Fu per questa ragione, nonché per seguire l'invito di Epicuro alla precisione del linguaggio ftlosofico, che Lucrezio decise di designare i primi costituenti della materia con i termini semina rerum, primordia,genitalia corpora, exordia, radices ecc. Fedele alla dottrina epicurea che investiva i sensi del primato gnoseologico, attribuendo loro la funzione di guidare la conoscenza al vero, Lucrezio volle designare l'atomo con termini che potessero aiutare a comprenderne proprietà fisiche e biologiche. Proprio perché l'assunto dell'atomismo proiettava proprietà materiali a delle entità che di fatto restavano impercettibili alla vista, occorreva mostrare tali entità attribuendo loro nomi che evocassero processi reali. li termine semina rerum, che Lucrezio utilizza con grande frequenza insieme aprimoridia, è oltremodo significativo (cfr. TAB. 4.1).

TABELLA 4.I

Termini usati da Lucrezio per designare il concetto di atomi Occorrenze nel De rerum natura

Termini

corpora'

I, 684, 688, 799 Il, II7, 2I7, 226, 244, 390, 468, 712, 739, III3

corpora prima

corpora caeca corpora materiai

corpora genitalia

III, I8o, I9S, 205, 280, 426 rv, 67, 184, 217, 622, 6s9. 86o VI, 227, 302, 308, 347, 3SO, 3SI, 451, 471, 487, 88s, 923, IOI3 1, 61, I71, SIO, s38 Il, 96, 486, 589, 843, IO II III, 438 v, 449 I, 277, 328 II, 714-715 l, 249, 9SI-9S2, 997 Il, 142-143> 73S-736, 737·738, 963·964, 1002-1003, IOS7 III, 809-810 I, s8, 167 II, 62-63 (genitalia materiai corpora), 548

1. Lucrezio impiega frequentemente lo stesso termine con significati differenti; per limitarci al 1 libro, si vedano i versi seguenti: 112, 167, 196, 215, 269, 320, Js6, 381, 384, 386, 391, 420, 427, 445, 483,521, 526, 552, s66, 579, 616, 675,

678,862,867,874,917,997, IOIS, I06j, 1077, I08j, II08, III I.

(segue)

I40

4· LA SCIENZA DEI SEMI

TABELLA 4.1

Occorrenze nel De rerum natura

Termini

corpuscula

II, IS3. S2.9

(corpuscula materiai)

IV, 199,899 VI, 1063

elementa 1

I, 82.7 II, 393, 411, 463, 981 III, 2.44, 374 IV, 941 (elementa prima) v, 4s6. S99 VI, 312., 330, 3S4• 494• S34, 1009, 1012.

exordial

III, 380 (exordia prima) v, 6n (exordia prima)

exordia rerum

II,333 III, 31 IV, 4S• 114 n, 3Ss VI, no, n6 (jìgurae primae) I, 1041 Il, 939 II1,967 IV, 2.8 III,708 IV, 2.61, n6 6

figurae materies4

ordiaprima particula, particulael primordia

primordia rerum

ns.

'· 182., 54 s. 548, 6o9, 789, S1s, 817,847,848,908- n, 1s7. 16s. 2.s3. 396.414,476.s6o,7so.96h979 m, 2.36, 2.62., 372., 392., s68, 92.4 IV, 41, III, 12.0, S31, S44• 12.2.0 VI, 2.3S• 871, 1006 '· ss. 2.10, 2.68, 483, 4Ss. so1, s7o, s92., 712., 7S3· 76s. sz.s, 918, 102.1

n, so, 84, 12.1, 133· 1n, 309,379.479, s2.3, s67, 6s3. 696,796, Ss4. 883, 916,1007 v, 187, 19S· 419, 42.2.

primordia caeca

l, IliO

1. Usaco con significato differente nei versi seguenti: l, 81, 197. 814, 913; Il, 689, 691. 3· Usato con significato differente in Il, 1061. 4· Usato con significati differenti nei versi l, 171, 103, 139, l4S· HS. 471, s18, S40, S47. 633, 994; Il, 68, 769, 949, 1067; V, 170; VI, 636, 1061 1069. S· Usato con significati differenti nei versi 11, 833; 111, 66s.

6. Il riferimento agli atomi è solo probabile.

(segue)

141

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

TABELLA

4.1

Termini

Occorrenze nel De rerum natura

principia

Il, I p., 138, 2.93· 443· 472., s8?, 72.2., 732., 757· 974 III, 318, 331, 42.7 IV, 534, 552., 667, 699, 943 v, 184,437

principia rerum

l, 1047 II, 789

no, 8rs, 861, 86?, 947.

principiorum corpora l, 992.-993 II, 2.97-2.98, 969-970

radices 7 semina 8

semina rerum

n, 103 VI, 695 r, 16o (?), 169, 2.2.1, 614, 895,902. rr, 2.84, 419, 439, 481, 497, s8s, 687, 72.5, 733, 76o, 773, 776, 988, 990, 1054, 1070, uo8 III, 12.7, 187, 2.17, 2.2.6, 2.30, 393, 496, 713, 72.7, 857 IV, 330, 334, 644, 648, 649, 715, 12.15 v, 66o, 668, 8sz. VI, 160, 182., 2.01, 2.06, 2.13, 2.17, 2.72., 2.76, 316, 343, 444, 497, 507, 52.0, 672., 841, 863, 867, 876, 884, 896, 1003 I, 59, 176, 501 II, 678, 755, 833, 1059, 1072. v, 916 vr, 662. (multarum), 789 (multarum), 1093 (multarum)

Concilium materiai l, S16·S17 (aggregato di materia) Glomeramina 9

rr, 454 (Giussani =molecole)

7- Secondo Boyancé (1985 p. •~3), Lucrezio avrebbe derivato il termine da Empedocle; cfr. anche Alfieri (1979. pp. us-6). 8. Usato con significato differente nei versi seguenti: I, 189, ~o6; Il, 708, 8~4. 991; Ili, 746, 750; IV, 1031, 1034, 1038, 1045, 1~08, 1~11, ll~S. IU7, IU9, 1~38, 1~40, 1~47, 1~57, 1~58, 1261, 1~67, 1~73; V, 865,890. 9· L'identificazione di Giussani (in Lucrezio, 1896-98) è molto dubbia. Con altro significato appare lo stesso termine in v, 7~6.

N ella terminologia specifica dell'atomismo potrebbe rientrare anche simulacra, con cui il poeta traduce efficacemente gli eidola di Epicuro, ovvero quelle pellicole sottilissime che, staccandosi continuamente dagli oggetti, penetrano negli occhi generando la visione della realtà. Il lemma usato da Lucrezio con maggior frequenza per designare gli atomi è quello di "seme". Due sono le principali ragioni che indussero il poeta latino a

4· LA SCIENZA DEI SEMI

usare un termine tratto dali' agricoltura•~. In primo luogo, la familiarità della cultura romana con l'agricoltura, perno e motore della propria civiltà, rendeva il termine semen particolarmente adatto a introdurre un concetto fìlosofico astratto. Per quanto apparentemente piccolo, il seme si trova alla base della formazione delle piante e degli organismi, di cui è la prima matrice: trasposto nel mondo dell'infinitamente piccolo, l'esempio tratto dalla seminagione risultava essere calzante anche per l'atomo che, aggregandosi con altri atomi, forma corpi macroscopici, anche molto grandi, secondo leggi necessarie. Le varietà dei corpi che gli atomi vengono formando sono dovute, al pari delle semine, alla varietà delle forme degli atomi stessi e dalle loro combinazioni. Anche in questo caso l'analogia con i semi impiegati dagli agricoltori forniva una fortissima prova all'argomento usato da Lucrezio: i semi di piante diverse, ad esempio, sono così piccoli da sembrare a prima vista identici, ma - come ben sapevano i contadini esperti - sono proprio le differenze impercettibili a stare alla base della generazione di piante, fiori e frutti completamente differenti tra loro; allo stesso modo, le differenze minime degli atomi danno ragione della diversità di tutte le cose presenti nell'universo. La seconda ragione che ha indotto Lucrezio a ricorrere al termine semina rerum, complementare alla prima, va ricondotta alla sua visione della natura, dominata dal mondo organico. L'inno a Venere, che apre il poema, serve a mettere in risalto il ruolo giocato dalla daedala tellus (I, 7), la terra industriosa e creatrice che, al pari di una madre, feconda e inonda il mondo con i frutti della propria creazione. La terra viene considerata da Lucrezio come un immenso organismo vivente e sono molte le circostanze in cui questa analogia aiuta a spiegare i fenomeni naturali più diversi. L'identificazione della materia generatrice (genitalis materies: I, 632-633) con la natura creatrice (rerum natura creatrix: I, 629) è evocata da Lucrezio in numerosi passi, volti a sottolineare l' immensa forza vitale insita nelle aggregazioni atomiche. Proprio in virtù di questa visione organicistica della natura, Lucrezio si serve del termine semina per indicare gli atomi epicurei e sottolineare un aspetto che, almeno per quanto ne sappiamo, Epicuro aveva subordinato ali 'uso di una nomenclatura tecnica in larga misura debitrice alle definizioni democritee. L'atomo lucreziano in effetti indica un processo, almeno in potenza, di generazione della realtà: non è un caso che il poeta ricorra quasi sempre al plurale, facendo riferimento ali' interazione di più atomi. Nel De rerum natura gli atomi, più

12.. Epicuro usa il termine di spermation e non è impossibile che ai tempi di Lucrezio semen designasse anche la traduzione di "sperma~

143

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

che entità individuali, sono caratterizzati dalla tendenza a combinarsi e a formare nuovi corpi: ma su questo avremo modo di tornare più avanti. Certamente, non deve sfuggire il farro che anche Anassagora aveva usato il termine spermata, che viene ripreso successivamente in qualche passo da Epicuro'l. Lucrezio ne era sicuramente a conoscenza, ma conferisce a questa parola un significato nuovo e almeno in parre differente rispetto a quello dei suoi predecessori: i semina rispondono per lui all'esigenza di ricondurre la visione atomistica dell'universo alla realtà concreta del mondo agricolo, andando incontro felicemente all'esigenza filosofica di ricomporre sinteticamente il mondo materiale, senza ricorrere ad astrazioni destinate a fare degli atomi entità estranee ai fenomeni che dovevano spiegare. L'aroma per Lucrezio doveva essere un ente non solo reale, ma anche concreto: tale qualità poteva essere conferita solo adottando una definizione tratta da un mondo -·quello agricolo - che fosse capace di sottintendere, sia pur metaforicamente, la sua natura generatrice. Per definire gli atomi Lucrezio usa spesso anche l'espressione primordia rerum, che indica in primo luogo i processi potenziali innescati dalle loro combinazioni. Primordia ("inizi")' 4 , è un termine che richiama esplicitamente un processo temporale, poiché se esistono gli "inizi" devono anche e necessariamente seguire gli stadi successivi della materia, scanditi, come vedremo, dall'azione incessante del moto atomico. Il concetto di priorità assume anche una funzione polemica rispetto alle teorie che ponevano all'origine delle cose i quattro elementi. Anche se per Epicuro e Lucrezio l'atomo è immutabile ed eterno, il suo perenne moro lo porta a combinarsi con altri aromi, dando luogo così a continui processi di alterazione della materia. Gli aromi sono di per sé immutabili, ma i corpi a cui danno origine sono soggetti a una trasformazione costante. Le felici scelte terminologiche introdotte da Lucrezio rivelano i progressi del!' atomismo rispetto al corpuscolarismo dei fisiologi presocratici, in particolare Empedocle e Anassagora. Per spiegare contemporaneamente la varietà delle cose e l'immutabilità ed eternità dell'essere, i filosofi presocratici avevano supposto una pressoché infinita varietà di corpuscoli, un tipo diverso per ogni cosa: il sangue era composto di particelle di sangue, le ossa erano composte di particelle di ossa, e così via. Chiaramente, tale ricostruzione non dava conto q. Nella Lettera a Erodoto (38), Epicuro parla addirittura di "semi generatori": con questa espressione egli intendeva però degli aggregati di atomi e non, come sembra invece fare Lucrezio in diversi passi, gli atomi stessi. I 4· Cfr. anche Lucr. IV, 2.8, dove si parla di ordia prima.

I44

4· LA SCIENZA DEI SEMI

della causa delle trasformazioni e dei cambiamenti della materia, e anche seriusciva a dimostrare l'immutabilità e la conservazione dell'essere nel suo insieme, lasciava senza spiegazione le variazioni continue visibili nell'esperienza quotidiana, tra cui la dissoluzione e la morte. Per rendere questa contraddizione più apparente che reale, i Presocratici, seguiti da Democrito, avevano destituito i sensi di valore conoscitivo, attribuendo loro la principale causa degli errori della ragione. Viceversa, per Epicuro e Lucrezio i sensi rappresentano i soli veicoli per accedere alla conoscenza, ed eventuali contraddizioni tra ciò che si percepisce e ciò che si pensa vanno risolte sempre a favore delle percezioni. Le prove dell'esistenza degli atomi, dunque, dovevano poggiare su assunti che ne mostrassero la corrispondenza con le percezioni e non, come aveva fatto invece Democrito, attraverso una concatenazione di ragionamenti astratti. Diversamente dalle ricostruzioni presocratiche a cui abbiamo appena fatto riferimento, la dottrina epicurea prevedeva un numero finito di forme atomiche che, combinandosi tra loro a causa del moto, davano vita alla varietà delle cose, conservando l'unità complessiva della materia. Per questo, Lucrezio nel I libro stabilisce che nulla può essere creato dal nulla (nil posse creari l de nihilo, I, rss-rs6) senza l'azione generatrice dei semi delle cose. Questo principio, accompagnato dal corollario che nulla può dissolversi nel nulla, implicava che non era più necessario spiegare la creazione ricorrendo all'intervento degli dèi o a contraddittorie ipotesi filosofiche, e parallelamente conduceva alla conclusione che tale creazione non avviene ali' improvviso, ma attraverso una scansiane temporale necessaria. La trasformazione nel tempo avviene attraverso il moto degli atomi che, scontrandosi perennemente, formano la molecola che Lucrezio chiama concilium genitale (I, r82.-r83), sottolineando così ancora una volta la natura generatrice e organica di questi insiemi di atomi. Dalla combinazione dei concilia si formano quindi dei composti di diversa densità di materia, textura e mixtura, che solo una forza (vis) impressa dal moto atomico ha il potere di disgregare (I, 2.38).

4·3

Un mondo di molecole Come spesso gli accade, Lucrezio cerca di spiegare un fenomeno organico macroscopico assai comune, come ad esempio quello della nutrizione, al fine di rendere comprensibile l'azione invisibile degli aromi. Il corpo umano necessita di alimenti specifici e molto vari, senza i quali non sarebbe possibile il nostro I45

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

sostentamento. Come è possibile, si domanda allora Lucrezio,la trasformazione degli alimenti solidi e liquidi che avviene all'interno del nostro corpo? Poiché senza dubbio noi ci sostentiamo e nutriamo di certe sostanze, e di certe sostanze altri ed altri esseri. Appunto perché molti principi. comuni in molti modi in molte cose, nelle cose sono commisti, per questo i vari esseri si nutrono di sostanze diverse. E spesso importa molto, i medesimi principi con quali altri e in che posi tura siano combinati e quali impulsi a vicenda imprimano e ricevano' 1.

Gli atomi che compongono gli elementi della terra e tutte le cose sono mescolati tra loro in modo diverso: ciò rende possibile la varietà dei corpi, che sarebbe altrimenti impossibile, e spiega parallelamente il motivo per cui l'uomo predilige nutrirsi di certi cibi che, al contrario, vengono considerati indigesti da altri animali. La differente configurazione atomica dei nostri organi agevola la digestione di alcuni alimenti che, per la loro figura molecolare, si prestano a essere assorbiti senza difficoltà e forniscono al nostro corpo gli alimenti necessari al suo sostentamento. L'attenzione del poeta si concentra dunque su questi aggregati (mixta), composti da atomi di forme differenti, che si combinano in molti modi (multis modis) e quantità differenti tra loro: anche se le forme atomiche elementari sono poco numerose, la varietà dei composti è pressoché infinita, poiché, variando la posizione e la quantità di un tipo di atomo in un dato composto, avremo la formazione di una sostanza completamente diversa. Per far comprendere quale tipo di variazione implica il cambiamento di disposizione degli atomi, Lucrezio si serve di una felice metafora, paragonando gli atomi alle lettere dell'alfabeto: Perché gli stessi elementi costituiscono il cielo, il mare, le terre, i fiumi, il sole, gli stessi le biade, gli alberi, i viventi, ma si muovono mescolati con gli altri e in modo diverso. Anzi, nei miei stessi versi sparse ovunque vedi molte lettere comuni a molte parole, eppure devi ammettere che versi e parole distano fra loro per senso e per tempra di suono. Tanto potere hanno le lettere, solo a mutarne l'ordine!' 6

1). Lucr. I, 8ll-816: «Adiutamur enim dubio procul atque alimur nos l certis ab rebus, certis aliae atque aliae res. l Nimirum quia multa modis communia multis l multarum rerum in rebus primordia mixta l sunt, ideo variis variae res rebus aluntur. Nimirum quia multa modis communia multis l multarum rerum in rebus primordia mixta l sunt, ideo variis variae res rebus aluntur». 16. Lucr. I, 82.0-82.7: «Namque eadem caelum mare rerras flumina solem l constituunt, eadem fruges arbusta animantis, l verum aliis alioque modo commixta moventur. l Qui n etiam

4· LA SCIENZA DEI SEMI

L'analogia tra atomi e lettere verrà re suscitata in epoca moderna dai chimici di fede newtoniana, tutti attenti lettori di Lucrezio. È interessante a questo riguardo citare almeno il caso diJames Keill che, per spiegare la causa della formazione del sangue e di altri fluidi organici, così scriveva: Pochi diversi tipi di particelle variamente combinate produrranno una grande varietà di fluidi, alcuni di un tipo solo, altri di due, tre o più. [... ] Se supponiamo solamente cinque tipi di particelle nel sangue, e li chiamiamo a, b, c, d, e, le loro diverse combinazioni, senza variare le proporzioni nelle quali si combinano, saranno le seguenti:

ab: ac: ad: ae: be: bd: be: cd: ce: de: abc: ade: bdc: bde: bee: dee: abcd: abc: acde: abd: bcde: abcde: Ma non determinerò se ve ne siano di più o di meno nel sangue' 7•

Per quanto influente, l'accostamento tra atomi e lettere non può considerarsi come una descrizione esauriente della visione lucreziana. Le lettere, infatti, possono aggregarsi solo orizzontalmente e disporsi secondo un ordine (ordo ), mentre gli atomi, dotati di uncini e altre forme materiali, possono cambiare la loro posizione (positura) in tutte le direzioni, combinandosi con altri atomi e formando così un corpo solido. Per questa caratteristica di cambiare posizione rispetto a sé stesse, le aggregazioni degli atomi possono facilmente spiegare quelle che noi definiamo come "reazioni chimiche": gli atomi coinvolti sono gli stessi, ma danno vita a sostanze differenti, a seconda del loro peso e del tipo di legame a cui sono soggetti. Per Lucrezio, dunque, la variazione quantitativa delle molecole di un composto è la causa principale dei cambiamenti qualitativi delle cose che vediamo. La ragione delle differenze tra animali, vegetali, minerali, cielo, etere e terra è passim nosrris in versibus ipsis l multa elementa vides multis communia verbis, l cum tamen imer se versus ac verba necessest l confìteare et re et soni tu distare sonanti. l Tanrum elemenra queunr permutato ordine solo>>. Su questo passo si veda il citato studio di Dionigi (20os). 17. «A few differenr sorrs of parricles variously combined, will produce great variety of fluids, some may have only one sort, some three, or more. [... ] If we suppose only fìve differenr sorts of parricles in the blood, and cali them a, b, c, d, e, their severa! combinations, without varying the proporrions, in which they are mixt will be these following: ab: ac: ad: ae: l be: bd: be: cd: l ce: de: abc: ade: l bdc: bde: bee: dee: l abcd: abc: acde: abd: l bcde: abcde. Butwhether there are more or fewer in rhe blood, I shall not determine>>; Keill (1708, pp. 61-1). Ho esaminato l'influenza di Lucrezio sulla chimica moderna in Beretta (z.oo7). 147

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

semplicemente nella disposizione e nella quantità che determinano l'aggregazione delle molecole che compongono questi corpi. Proprio come nella chimica, ciò che importa è il legame o rapporto che sussiste tra gli atomi. L'idea di Anassagora secondo cui la realtà sarebbe formata dalle cosiddette "omeomerie", vale a dire particelle uniformi presenti in tutte le materie, non solo era in contraddizione con la percezione sensibile della varietà delle cose naturali, ma costituiva anche la prova dell'impossibilità di ridurre la complessità della natura a principi unitari. Per questa ragione, richiamandosi al potere dell'analogia tra lettere e atomi, Lucrezio si rifiutò di tradurre in latino il termine homeomeria: per lui si trattava di un termine privo di significato e portatore di un'ipotesi estranea alla realtà microscopica che pretendeva di descrivere' 8• In opposizione ai filosofi che tendevano a ridurre i principi costitutivi della materia, Lucrezio tese a moltiplicarli, anche se entro un numero finito, e soprattutto a concentrare la propria attenzione sui loro possibili rapporti e i relativi effetti a livello macroscopico.

4·4

Il vuoto Le principali scuole filosofiche del!' antichità avevano negato con decisione l'esistenza del vuoto. Il mondo doveva essere pieno di materia, di consistenza e solidità più o meno grandi, perché ammettere il vuoto significava, da un punto di vista logico, ammettere la negazione stessa dell'essere. Aristotele, nella disamina delle opinioni intorno al vuoto, riporta un argomento di Melissa - diretto contro gli atomisti- secondo cui l'universo è immobile: se, infatti, si muovesse, sarebbe necessaria[ ... ] l'esistenza del vuoto, ma il vuoto non è nel novero degli emi (Arist. ph. 2.I3b).

Dal momento che l'universo è privo di vuoto e il vuoto è la condizione del moto, l'universo è immobile. Tale argomento andava contro la posizione di Democrito e Leucippo, i quali avevano spiegato il moto dei corpi proprio con la presenza del vuoto. A questo proposito bisogna tuttavia ammettere che le tracce lasciate dai primi atomisti sono troppo frammentarie perché sia possibile stabilire con certezza il contenuto preciso delle loro teorie sul vuoto. Per di più, le poche infor18. Lucr. I, 830-833. Su questo passo si veda Sedley (1998, pp. 48-9 ).

4· LA SCIENZA DEI SEMI

mazioni a nostra disposizione ci sono trasmesse soprattutto dalle opere di Aristotele, che elabora sempre una critica molto selettiva delle fonti presocratiche, finalizzata più a mostrare la cogenza argomentativa delle proprie posizioni che a illustrare con obiettività quelle degli avversari. In particolare, nel caso della discussione sul vuoto, Aristotele doveva dimostrare l'impossibilità logica e fisica di un universo che contemplasse la presenza del vuoto e rimpiazzarlo con il suo concetto di "luogo", ovvero di un ente dipendente dalla materia (ibid.: cfr. Sedley, 1982, p. 179 ): tale dispositivo gli permetteva di superare il paradosso in cui era caduto Mel isso e di ammettere l'esistenza di uno spazio in cui fosse possibile il movimento dei corpi, senza però caratterizzarlo come vuoto. Com'è noto, questa assunzione filosofica condizionò tutta l'organizzazione teorica della concezione aristotelica del moto dei corpi, che non ammetteva al suo interno l'idea di un moto indipendente dal mezzo materiale. Leucippo e Democrito, al contrario, pensavano che il vuoto non solo esistesse, ma che fosse in qualche modo la principale ragione del movimento degli atomi e dei corpi. Questa posizione è ben sintetizzata da Lucrezio: Esiste dunque il vuoto, spazio intangibile e vacuo' 9 • Se non ci fosse, in nessun modo le cose potrebbero muoversi; la funzione che è propria dei corpi, opporsi e resistere, agirebbe in ogni istante su tutte le cose: nulla dunque potrebbe avanzare, perché nessun corpo offrirebbe un inizio di cedimento. Ora invece per i mari e le terre e le altezze del cielo molti corpi in mille modi e con ritmo diverso vediamo muoversi davanti ai nostri occhi: ma se il vuoto non fosse, non tanto sarebbero privi del moto irrequieto, quanto non sarebbero mai nati, perché da ogni parte la materia giacerebbe compressa' 0 •

Per contro, se si fosse ammesso un mondo pieno, non sarebbe stato possibile concepire il movimento secondo un modello meccanico e, di conseguenza, spiegare i motivi per cui alcuni corpi si muovono e altri stanno in quiete. Convinto che i fondamenti della materia fossero il movimento e il cam-

19. Per designare il vuoto, Lucrezio si serve dei seguenti termini: locus, lucus ac spatium, vacuum, vacuum inane, inane vacansque, spatium, vacuum spatium, intactile, intactum, intactus focus. lO. Lucr. I, 334-34s: «Quapropter locus est imactus inane vacansque. l Quod si non esset, nulla ratione moveri l res possent; namque officium quod corporis exstat, l officere atque ohstare, id in omni tempore adesset l omnibus; haud igitur quicquam procedere posset, l principium quoniam cedendi nulla daret res. l At nunc per maria ac terras sublimaque caeli l multa modis multis varia catione moveri l cernimus ante oculos, quae, si non esset inane, l non tam sollicito motu privata carerem l quam genita omnino nulla ratione fuissem, l undique materies quoniam stipata quiesset ».

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biamento, Aristotele risolse questa aporia ricorrendo alla teoria dei "luoghi naturali", secondo la quale i corpi gravi tendono a muoversi verso il basso perché il loro luogo naturale è il centro della terra, mentre i corpi lievi tendono verso l'alto per raggiungere il loro luogo naturale, cioè la regione del fuoco e quella dell'aria (Arist. ph. 193a). L'ipotesi aristotelica era del tutto coerente con la sua concezione della materia, che prevedeva un mondo pieno e continuo, costituito dai quattro elementi (acqua, aria, terra e fuoco) e dai loro predicati qualitativi. In questo modo, logica (teoria dei luoghi naturali) e percezione coincidevano, garantendo sia la regolarità della conoscenza che la sua obiettività. La principale difficoltà di questa spiegazione risiedeva nel fatto che, se si asserisce che un corpo si muove perché naturalmente attratto dal proprio luogo naturale, la causa dell'impulso di questo moto rimane occulta. Nell'affrontare la questione del vuoto, Epicuro, oltre a riprendere le riflessioni che in proposito aveva elaborato Democrito, poteva rimuovere tutte le obiezioni avanzate da Aristotele nella Fisica e nelle altre opere in cui aveva trattato del moto dei corpi e delle aporie dell'atomismo 21 • Contro il persuasivo sensismo della fisica aristotelica, Epicuro sapeva che - diversamente da Democrito - avrebbe dovuto contrapporre una concezione del vuoto compatibile con le sensazioni e, contemporaneamente, efficace nella spiegazione del moto dei corpi. È dunque sul piano dell'osservazione dei fenomeni macroscopici che Epicuro, e di conseguenza Lucrezio, arrivano a formulare l'esistenza del vuoto. Ali' interno della logica epicurea, è ovvio che non si può dare il movimento di un corpo in uno spazio occupato da altri corpi. Per rendere evidente il concetto di spazio inteso come totale assenza di materia, Lucrezio scrive che il vuoto (inane) è il luogo intangibile (focus intactus) nel quale è assente la materia (1, 334). Il vuoto non è dunque una negazione dell'essere, ma il luogo dove l'essere è assente. Tale definizione era comunque contrastante rispetto a quelle proposte dalle principali scuole filosofiche che, pur riconoscendo lo spazio come una categoria necessaria alla corretta comprensione del moto, attribuivano a questa categoria una materialità indiretta e conferivano al luogo e all'estensione qualità immanenti alla materia. Gli atomisti, all'opposto, credevano che il vuoto fosse un'entità autonoma e per definizione rivelasse l'assenza di materia. Se le

2.1. Ettore Bignone (1973) ha mostrato come Epicuro avesse ben presente l'opera di Aristotele e la sua polemica contro le posizioni precedenti. Su questo tema, si vedano ora le riflessioni approfondite di Asmis (1984, pp. 2.41 ss.). ISO

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cose materiali sono tutto ciò che è possibile toccare e percepire, il vuoto è per sua natura intangibile. Al pari degli atomi, il vuoto è l'unico ente ali' interno della filosofia epicurea dotato di un'esistenza autonoma, mentre tutte le qualità- sia accidentali che primarie - dei corpi e il tempo possono sussistere solo in relazione agli atomi e al vuoto. L'universo, dunque, è costituito solo da corpora e inane,: Non c'è nulla, oltre a questi, che eu possa dire separato dalla materia e distinto dal vuoto, e che si scopra formare quasi una terza natura. Tutto ciò che esiste dovrà essere in sé qualcosa: se ammetterò un contatto per quanto lieve e sfuggente, d'un contributo grande o anche piccolo, purché ci sia, accrescerà l'insieme dei corpi e s'aggiungerà alla loro somma. Ma se sarà intangibile, perché da nessun lato potrà impedire a un corpo che passa di attraversarlo, certo sarà quello che chiamiamo il libero vuoto 13 •

L' intangibilità del vuoto assicura ai corpi la possibilità del movimento, favorendo contemporaneamente la differenziazione interna della materia in atomi e molecole di diverse forme. Invece di ricorrere a una materia indifferenziata o quadripartita negli elementi aristotelici, Epicuro e Lucrezio pensano al vuoto come all'unico luogo che rende possibile, attraverso le collisioni degli atomi, la formazione dei corpi naturali. La netta distinzione tra materia e vuoto permetteva inoltre a Lucrezio di stabilire con maggiore precisione due caratteristiche fondamentali degli atomi, vale a dire la loro compattezza (soliditas: l, sro) e la loro indivisibilità (simplicitas: l, 548). Dove ci sono gli atomi non ci può essere vuoto e, viceversa, la presenza del vuoto esclude l'esistenza di materia; gli atomi, in quanto parti indivisibili e indistruttibili della materia, sono particelle piene, mentre il vuoto, per converso, rappresenta lo spazio privo di materia ove, liberamente, si muovono gli atomi. L' intangibilità del vuoto era coerente con quanto viene percepito nel mondo macroscopico, ove i corpi si muovono con una facilità tanto maggiore, quanto più assoluta è l'assenza di ostacoli materiali che si frappongono alloro movimento. In questo modo, nella fisica epicurea esposta da Lucrezio, la quantità del moto è inversamente proporzionale alla quantità di materia. u. Su questo passo vedi il pertinente commento di Sedley (1982, pp. 189-90 ). 23. Lucr. I, 430-439: «Praeterea nil est quod possis dicere ab omni l corpore seiunctum

secretumque esse ab inani, l quod quasi tertia si t numero natura reperta. l Nam quodcumque erit, esse aliquid debebit id ipsum l cui si cactus erit quamvis levis exiguusque, l augmine ve! grandi ve! parvo denique, dum sit; l l corporis augebit numerum summamque sequerur; l sin intactile eri t, nulla de parte quod ullam l rem prohibere queat per se rransire meantem, l scilicet hoc id erit, vacuum quod inane vocamus». ISI

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Un altro argomento capace di dimostrare induttivamente l'esistenza del vuoto era costituito dalla constatazione che corpi composti da materie diverse sono dotati di differente peso specifico. Lucrezio osserva che, a parità di massa, i corpi (ad esempio, un gomitolo di lana e un corpo di piombo) sono dotati di peso differente: Perché vediamo dei corpi pesare più di altri corpi, sebbene non abbiano forma più grande? Se altrettanta materia c'è in un globo di lana quanta in uno di piombo, è giusto che pesi altrettanto, perché è proprio della materia premere ogni cosa al basso, mentre la narura del vuoto è esente da peso. Dunque ciò che egualmente è grande e appare più leggero dichiara per certo d'avere in sé più di vuoto; al contrario l'oggetto più grave rivela che è in lui più materia e che ha dentro molta minor parte di vuoto. Esiste dunque certo, mescolato nei corpi, quel che cerchiamo con acuto ragionare e che diciamo vuotol 4 .

Questa distinzione tra corpi radi e densi, con il riferimento alla loro pesantezza relativa, era stata forse introdotta già da Democrito, il quale, pur non attribuendo al peso la principale ragione del moto dei corpilS, aveva forse riconosciuto negli atomi differenze di pesol6• Per Democrito, dunque, il peso serviva a chiarire le differenti forme degli atomi, anche se poi questi ultimi, considerati isolatamente, rimanevano delle entità geometriche; nel sistema di Epicuro, per contro, gli atomi erano concepiti come enti meccanici. Inoltre, il peso specifico dei corpi serviva a Epicuro e Lucrezio per spiegare come, dal movimento delle molecole e dai loro scontri/incontri, si potesse generare solo un numero finito di corpi: questa concezione prevedeva infatti che la combinazione tra molecole differenti fosse determinata dal peso e non, come credevano i sostenitori di altre filosofie naturali, dall'attrazione, dalla simpatia, o da altre cause occulte.

2.4. Lucr. I, 358-369: «Denique cur alias aliis praestare videmus l pondere res rebus nihilo maiore figura? l Nam si tanrundemst in lanae glomere quantum l corporis in plumbo est, tantundem pendere par est, l corporis officiumst quoniam premere omnia deorsum, l contra aurem natura manet sine pondere inanis. l Ergo quod magnumst aeque leviusque videtur, l nimirum plus esse si bi declarat inanis; l ar contra gravius plus in se corporis esse l dedicar et multo vacui minus inrus habere. l Est igitur nimirum id quod rarione sagaci l quaerimus admixrum rebus, quod inane vocamus>>. 2.5. Plurarco tuttavia nega che Democrito concepisse gli atomi come dorati di peso: cfr. Epicuro (2.002., fr. 2.75 Usener). 2.6. Tale resi, accompagnata da un'impressionante documentazione, è sostenuta nella monografia di O'Brien (1981). IS2

4· LA SCIENZA DEI SEMI

4·5

Il moto L'importanza della definizione del concetto di moto costituisce dunque l'asse intorno a cui s'impernia tutto il sistema epicureo, e non è un caso che Lucrezio ne parli immediatamente dopo aver presentato le caratteristiche degli atomi,?. Come gli atomi sono impenetrabili e immutabili, così il moto elementare quello appunto degli atomi - è dotato di velocità assoluta e, dal momento che gli atomi sono sempre in movimento, la loro velocità è assoluta. Tali condizioni cambiano solo quando gli atomi si scontrano e combinano tra di loro, generando il movimento delle cose (rerum motus: II, 81): esso, a seconda della densità degli aggregati atomici, sarà più o meno veloce, ma comunque inferiore a quello assoluto. La velocità degli aggregati atomici dipende non solo dalla loro composizione interna, che li rende più o meno pesanti, ma anche dal mezzo dentro il quale si muovono. Alcuni atomi si muovono incessantemente e liberamente nel vuoto (per inane vagantur: II, 109 ), ma la maggior parte di essi, a causa della figura delle molecole in cui si trovano combinati, è costretta a muoversi entro intervalli molto più ristretti. Quando le molecole contengono maggiori quantità di vuoto, gli atomi danno vita a corpi rarefatti come l'aria o la luce del sole

(n, 107-108). Occorre dunque tenere distinti il moto atomico, quello cioè che appartiene all'atomo e che gli imprime una velocità infinita, e il moto dei corpi fisici, che invece dipende dalla massa dei corpi stessi e dagli ostacoli che vengono incontrati in altri corpi macroscopici. L'apparente quiete dei corpi, infatti, non è altro che il risultato, più o meno provvisorio, dell'annullarsi dei moti atomici che compongono un dato corpo; una volta che si è rotto l'equilibrio che li ha temporaneamente immobilizzati, essi possono tornare a muoversi e a combinarsi nuovamente. Anche quando un corpo che noi osserviamo appare in quiete, gli atomi che lo compongono continuano a muoversi, sia pure entro uno spazio limitatissimo e secondo un movimento che, utilizzando una terminologia moderna, potremmo definire "vibratorio" (Epicur. epist. ad Herod. 43). I corpi macroscopici si mettono in movimento perché gli atomi che li compongono e i loro relativi moti si dirigono vettorialmente in un'unica direzione: tanto maggiore sarà la velocità del corpo, quanto più numerosi saranno gli ato-

2.7. La relazione tra la definizione lucreziana del moto e degli atomi è stata trattata da Carlo Giussani in Lucrezio (1896-98, vol. I, pp. u8-9).

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mi che partecipano al moto vettoriale. È per questa ragione che, secondo Lucrezio, la quantità di moto presente nell'universo è sempre la stessa; così come vi è una quantità di materia che, pur in continua trasformazione, rimane la stessa per l'eternità, allo stesso modo la quantità di moto prodotta dagli atomi (primordia), dalle molecole (concilia) e dai corpi (res) rimane identica, indipendentemente dai continui urti, combinazioni e dissolvimenti a cui vanno incontro le parti costitutive della materia. Del resto, la conservazione del moto nell'universo era implicita nella definizione epicurea dell'atomo come entità impenetrabile e indistruttibile. A dispetto dei continui urti subiti, infatti, gli atomi non possono assorbire alcuna quantità aggiuntiva di moto, che di conseguenza deve trasmettersi da un corpo all'altro senza che venga alterata la quantità complessiva. Ciò non significa, naturalmente, che Lucrezio avesse chiaro il moderno principio secondo cui, durante l'urto tra due atomi, vi è un trasferimento quantificabile di moto. L' apprezzamento lucreziano di tale fenomeno era puramente qualitativo, mentre la spiegazione contenuta nella legge newtoniana è fisico-matematica~ 8 • Lucrezio affronta sistematicamente la questione del moto degli atomi nella prima parte del n libro del De rerum natura~ 9 • Dopo un breve passo introduttivo, nel quale viene denunciata con forza la tendenza a guardare al lusso e alla ricchezza come alle principali guide della propria esistenza, Lucrezio passa a considerare come il moto atomico degli atomi generatori (genitalia corpora) costituisca una delle principali cause della creazione delle cose. Tale ciclo di causa ed effetto viene descritto da Lucrezio come corroborato da prove evidenti: Tutto scorgiamo quasi fluire nel lungo corso del tempo finché vecchiaia lo sottrae al nostro sguardo, mentre la somma si vede restare immutata, perché gli atomi che si staccano da ogni cosa diminuiscono quella da cui si allontanano, ma dove vanno donano accrescimento, e l'una fanno invecchiare,!' altra invece fiorire, né si fermano in questa. Così la somma di tutte le cose si rinnova sempre, e i mortali vivono d'un mutuo scambio. Alcune specie s'accrescono, altre declinano, in breve spazio si mutano le generazioni dei viventi e simili a corridori si trasmettono la fiaccola della vital 0 •

l8. Su questo punto si veda Konstan (1979. p. 397 ). l9. Su questo rema il miglior contributo è quello, magistrale, di Fowler (lOOl). 30. Lucr. II, 68-79: «Et quasi longinquo fluere omnia cernimus aevo l ex oculisque verusta·

tem subducere nosrris, l cum ramen incolumis videatur summa man ere l propterea quia, quae decedunt corpora cuique, l un de abeunt minuunt, quo venere augmine donant, lilla senescere ar haec contra florescere cogunt, l nec remorantur ibi. Sic rerum summa novarur l semper, et inter se morrales mutua vivunt. l Augescunt aliae gentes, aliae minuuntur, l inque brevi spario murantur saecla animantum l et quasi cursores virai lampada tradunt». IS4

4· LA SCIENZA DEI SEMI

Il motore di queste alternanze è dovuto allagravitas atomica (n, 84), cioè al peso degli aromi, ed è proprio qui che l'atomismo epicureo inizia a differenziarsi in modo netro da quello di Leucippo e Democrito. Secondo Democrito, infatti, gli aromi si muovevano per l'impulso causato da continui urti e collisioni, ma la causa generale, come giustamente aveva criticato Aristotele, non veniva spiegata. Epicuro, consapevole di questa aporia, introduce il concetto di peso (pondus: II, 88;gravitas). La scelta di Lucrezio di designare il peso dei corpi, in primo luogo, attraverso il sostantivo pondus alludeva all'operazione di pendere, cioè di sospendere un corpo sul piatto di una stadera e verificarne il peso (cfr. FIGG. 4.2-4.3). In effetti il termine pondus designa il peso di una libbra e, più in generale, la misura del peso. Come è stato giustamente osservato da Montserrat (I999· pp. 4-5), il peso così concepito non viene identificato immediatamente con il moro di caduta verso il basso, ma più precisamente come una forzal', più o meno grande, che esercita una pressione. Cicerone si rese conto dell'importanza centrale di questa proprietà degli atomi epicurei, che aggiungeva un predicato credibile al vago concetto di "forza d'urto" che Democrito aveva usato per spiegare il moto atomico (Cic.Jat. 23). Considerare il peso come una forza interna agli atomi, che li spinge verso il basso, permetteva di spiegare come mai, nel vuoto, corpi di peso differente si muovano alla stessa velocità: dal momento che il vuoto non esercita alcun ostacolo alla pressione, le molecole, indipendentemente dalla loro massa, si muovono con la stessa, massima velocità. Sono numerosi i passi nei quali Lucrezio si dilunga sulle proprietà del peso come causa del moto dei corpi. Abbiamo già affrontato la sezione del libro I in cui il poeta mostra come le differenze di peso tra i corpi siano dovute alle diverse quantità di vuoto che essi contengono, e come il peso di un corpo non sia che il risultato della somma del peso degli atomi che lo compongono (1, 358-367 ). L'introduzione del concetto di peso atomico risolveva felicemente l'aporia che caratterizzava l'atomismo democriteo, ma al tempo stesso rendeva difficile spiegare come sia possibile che gli atomi, trasportati dal loro peso, si muovano verso il basso, quando lo spazio è infinito e dunque privo di punti di riferimento che possano precisare la direzione del loro moto. A questa obiezione aveva risposto Epicuro nella Lettera ad Erodoto, relativizzando i concetti di alto e basso:

31. È lo stesso Lucrezio che associa il termine vis a pondus (I, 1078), anche se certamente con vis egli non indica ancora il concetro moderno di forza ma, più limitatamente, il vigore e l'impulso impresso al corpo.

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

FIGURA

4.2.

Cippo sepolcrale di salumaio o macellaio con bilancia e altri arnesi del mestiere (11 sec. d.C.); Portogruaro, Museo Nazionale Concordiese

FIGURA

4·3

Peso di stadera romana (m sec. d.C.), ubicazione ignota

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Quando si parli dell'infinito, non devono intendere l'alto e il basso nel senso dei due valori estremi. Sappiamo bene che lo spazio al di sopra della nostra testa, rispetto al punto in cui ci troviamo, conduce all'infinito e che questo spazio- o, al caso, lo spazio al di sotto di un punto preso in considerazione, se portato ali' infinito - non ci apparirà mai essere, allo stesso tempo "al di sotto" e "al di sopra" rispetto allo stesso punto, cosa ch'è impossibile a concepirsi (Epicur. epist. ad Herod. 6o ).

È il punto di vista dell'osservatore, dunque, a definire la direzione del moto gravitazionale verso il basso. Come conclude Lucrezio nel libro I, l'universo è privo di centro e non è pertanto possibile che le cose si muovano verso una direzione precisa o, come volevano alcuni, verso un ipotetico centro: la direzione degli atomi non può che essere relativa al punto di osservazione (I, 1079-1082.). Un altro aspetto innovativo della teoria epicurea del moto atomico mirava a spiegare la causa dell'accelerazione. Durante il moto di caduta rettilinea, le molecole possono subire, sempre in virtù della forza impressa dal peso, un'accelerazione (cfr. Montserrat, 197 9, pp. I I -2.). N el VI libro, Lucrezio spiega questo fenomeno, riferito all'esempio del fulmine: Tutti i corpi pesanti tendono sempre per natura al basso; se poi s'aggiunge un urto, la velocità raddoppia e quell'impeto cresce a tal punto, che più violento e più rapido dissolve con i suoi colpi ogni ostacolo che l'attarda, e prosegue il cammino. Infine, poiché viene con lungo slancio, deve acquistare in ogni attimo velocità, che cresce nell'andare e aumenta la forza gagliarda e dà potenza all'urto: perché fa che i suoi elementi, quanti sono, tutti in un gruppo muovano in linea retta quasi verso un sol punto, tutti nellor tragitto sospingendoli entro quel corso 3'.

Anche se sarebbe improprio associare questo passo lucreziano al moto rettilineo uniformemente accelerato della fisica moderna, possiamo ben comprendere i motivi per cui i lettori della prima età moderna vi abbiano scorto una valida alternativa alla concezione del moto aristotelico, che poteva essere - e in effetti fu- sviluppata su basi matematiche. Del resto, il principale obiettivo della spiegazione lucreziana era di ricondurre il moto del fulmine all'azione accelerata degli atomi e offrire così un argomento razionale contro la mitologia.

3l. Lucr. VI, ns-Hs: «Deinde, quod omnino natura pondera deorsum l omnia nirunrur, cum plagast addita vero, l mobilitas duplicatur et impetus ille gravescit, l ut vehementius et citius quaecumque moranrur l obvia discutiat plagis itinerque sequarur. l Denique quod longo venit impete, sumere debet l mobilitatem etiam atque etiam, quae crescit eundo l et validas auget viris et roborat ictum; l nam facit ut quae sinr illius semina cumque l e regione locum quasi in unum cuncta ferantur, l omnia coniciens in eum volvenria cursum».

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Per Lucrezio, in sintesi, il moto degli atomi è determinato dal peso, che gli imprime una direzione verso il basso, dagli urti con altri atomi, che li fanno muovere in tutte le altre direzioni, e dalla combinazione di peso e urti, che imprimono loro un'accelerazione. Proprio grazie agli urti si poteva spiegare il moto di alcuni corpi verso l'alto: la densità di aggregati atomici particolarmente densi comporta che alcuni atomi vengano spremuti fuori dagli elementi; così ad esempio, all'origine del mondo, si sarebbe formata l'acqua salata, fuoriuscita dalla densa crosta terrestre (v, 487 ). Peso e urti tuttavia non erano sufficienti a spiegare tutti i fenomeni cinetici contemplati dalla fisica epicurea: a questo scopo Epicuro introdusse un nuovo tipo di movimento atomico, che prevedeva la possibilità, in un luogo e in un tempo indeterminati, di declinare rispetto al moto rettilineo verso il basso. Il moto rettilineo non era infatti sufficiente a spiegare la formazione dei corpi e dell'universo, poiché, come abbiamo visto, gli urti causavano comunque una continua modificazione dei moti verso il basso, ed è anzi proprio in virtù degli effetti degli urti che erano possibili i moti ascensionali e la formazione di numerosissime sostanze. Tuttavia, se fino a questo punto del poema la teoria del moto di Lucrezio appariva fondata da un punto di vista fisico, l'introduzione del concetto di clinamenH (o declinazione atomica) è stata vista da molti interpreti, in primis da Cicerone (jàt. XLVI; nat. deor. I, 69 ), come una dimostrazione dello scarso valore scientifico dell'atomismo epicureo. Ci troviamo qui di fronte a uno dei concetti chiave della fisica epicurea, strettamente connesso alla questione della libertà individuale all'interno di un mondo dominato dall'eterno movimento degli atomi. La questione era di fondamentale importanza, in quanto i sensi confermavano che la libertà di prendere una decisione piuttosto che un'altra era non solo possibile, ma frequentissima; ed è probabilmente anche per questa ragione che Democrito, al fine di salvare una concezione determinista della natura, così efficace per spiegare scientificamente le cause di così tanti fenomeni, aveva screditato senza mezzi termini il valore conoscitivo dei sensi e delle sensazioni. Per Epicuro, al contrario, i fenomeni del mondo fisico dovevano essere compatibili con le nostre percezioni e le nostre azioni: i sensi ci servono proprio per verificare sperimentalmente la validità delle idee sul mondo fisico. Lucrezio pertanto, dopo essersi dilungato su come il peso degli atomi ne influenzi il loro moto verso il basso, aggiunge:

H· Lucr. II, 2.92.: questa è l 'unica occorrenza del lemma clinamen.

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FIGURA 4·4

Moto atomico rettilineo, clinamen e formazione di molecole

clinamen

---o-----.

I corpi primi, quando in linea retta per il vuoto sono trascinati in basso dal proprio peso, in un momento del tutto indefinito e in un punto incerto, deviano un po' dal percorso, quel tanto che basta per dire che è mutato il movimento 34 •

La deviazione del moto degli atomi dalla linea retta era dunque la minima possibile e avveniva spontaneamente, senza una causa precisa (cfr. FIG. 4.4). Come giustamente ha osservato Giussani (in Lucrezio, 1896-98, vol. I, p. 125), la spontaneità della deviazione del moto non deve essere interpretata come un atto derivante da una volontà, poiché gli atomi sono del tutto privi di coscienza. Tuttavia- questo è il nucleo dell'argomento di Lucrezio- l'uomo esperisce quotidianamente la libertà e la spontaneità delle proprie scelte e, di conseguenza, il modello interamente deterministico del movimento atomico immaginato da Democrito si rivela insufficiente, lasciando insoluta la spiegazione di tutti gli atti che avvengono per effetto della volontà e che dunque non possono essere 34· Lucr. II, 2.16-2.2.0: «Illud in his quoque te rebus cognoscere avemus, l corpora cum deorsum rectum per inane feruntur l ponderibus propriis, incerto tempore ferme l incertisque locis spatio depellere paulum, l tancum quod momen mutatum dicere possis>>.

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

prevedi bili o assegnati alle leggi che regolano la caduta rettilinea degli atomi. In altre parole, il peso come forza motrice del movimento differenziato degli atomi non poteva dar conto della spontaneità degli atti volitivi, poiché, a parità di peso, la posizione e il moto degli atomi relativi a una data azione sarebbe stata la stessa, determinando così una negazione di quella libertà che invece era dimostrata dali' esperienza. La ragione profonda che stava alla base della scelta di introdurre la declinazione degli atomi era legata, dunque, all'obiettivo di Epicuro di spiegare tutti i fenomeni, compresi quelli psicologici, attraverso il movimento degli atomi. Se non si ammettesse la declinazione, infatti, non sarebbe possibile accettare l'esistenza del libero arbitrio: ma, siccome l'esperienza quotidiana mostra che alcune scelte dell'uomo e degli animali sono il frutto di decisioni libere e spesso arbitrarie, i movimenti atomici che ne provocano gli effetti devono essere spontanei e altrettanto imprevedibili. La volontà viene dunque spiegata come l'effetto del clinamen, cioè di un'impercettibile deviazione dalle leggi naturali (jòedera naturai) che regolano, in modo causale e deterministico, i fenomeni naturali. La deroga che Lucrezio sembrava introdurre rispetto alle leggi della causalità era giustificata sia dali' esperienza sensoriale, sia dalla possibilità logica che i moti degli atomi potessero essere diversi da quello rettilineo. Inoltre, con questo espediente Lucrezio era in grado di ancorare al movimento degli atomi tutta un serie di fenomeni, quelli legati alla coscienza, che i filosofi della natura a lui precedenti erano stati costretti a spiegare ricorrendo a ipotesi metafisiche o comunque completamente differenti rispetto a quelle utilizzate per spiegare i fenomeni naturali. Secondo Lucrezio, quindi, la natura era governata sia da leggi fisse e riconducibili al movimento meccanico degli atomi, sia da un "principio di spontaneità" che era anch'esso, come il peso, immanente all'atomo. Il fatto che la declinazione degli atomi fosse senza causa apparente non poteva essere considerato, come invece sosteneva Cicerone (jat. x, 2.2.), un argomento sufficiente per scartare la logica scientifica della spiegazione, perché, come gli atomi democritei si muovevano senza causa, per l'eternità, così anche le declinazioni degli atomi epicurei erano eterne e dunque rappresentavano una parte costitutiva della "catena causale".

4·6 Atomi e molecole Nei paragrafi precedenti abbiamo delineato i tratti caratteristici degli atomi lucreziani e descritto le principali spiegazioni che il poeta volle dare a proposiI6o

4· LA SCIENZA DEI SEMI

to delle cause della formazione dei corpi e delle loro differenti strutture. I corpi sono costituiti da insiemi di atomi che, unendosi tra loro, li rendono più o meno solidi. La densità di tali composti, lo abbiamo già segnalato, è determinata dalla maggiore o minore presenza di vuoto, ma la solidità di un corpo è l' effetto di un'altra forza, che permette ai legami molecolari di essere più o meno o soggetti al dissolvimento. Diversamente da Democrito, che aveva concentrato la propria attenzione sulla natura degli atomi singolarmente presi, Lucrezio fa quasi sempre riferimento alla struttura della materia partendo dal livello molecolare (Bailey, 1928, pp. 345-6). Questa preferenza trova una conferma nel fatto che il poeta, parlando degli atomi, solo raramente utilizza il singolare, e nell'attenzione che viene prestata alle trasformazioni subite dai concilia e alla loro consistenza materiale. Del resto, la scelta lucreziana di tradurre liberamente il concetto epicureo di atomo, incentrato sulla proprietà individuale di essere indivisi bile, con il termine semina, mette volutamente in risalto la proprietà generativa dei molti semi che, spinti all'unione e alla combinazione, sono i vitalia rerum capaci di generare i corpi e il processo della crescita. Mentre per Democrito l'atomo, al pari del punto geometrico, è l'architrave del sistema filosofico, per Lucrezio il fondamento ontologico della realtà è costituito dagli atomi combinati in molecole. Per spiegare la complessità del tessuto materiale dei corpi e dare una ragione plausibile della loro varietà occorreva andare oltre le differenze tra gli atomi, che abbiamo visto essere limitate, individuando la vera architettura della materia in un livello successivoH. I fenomeni interessanti, infatti, sembrano svilupparsi solo quando gli atomi si trovano combinati in concilia. Anche se il concetto di concilia non può essere automaticamente tradotto con "molecole", gli aggregati a cui fa riferimento Lucrezio sono degli enti regolati da leggi che si avvicinano al concetto moderno più di quanto alcuni filologi sono stati disposti ad arnrnettere 36 • Per Leucippo e Democrito i legami tra i corpi erano determinati dalle forme degli atomi, ed erano solo queste ultime a decidere la consistenza del composto: nel momento in cui le forme di alcuni atomi sono particolarmente compatibili, urtandosi durante il loro moto incessante, per restare in equilibrio tendono a combinarsi in un corpo composto. Se le forme sono costituite in prevalenza di atomi dotati di uncini, il corpo formato è caratterizzato da una maggiore solidità. Tale solidità va in frantumi, portando il corpo al dissolvimento, nel momento in cui un altro corpo urta violentemente il tessuto materiale che tiene

3S· Su questo tema si veda Bogaard (197s). 36. Su tutti, cfr. Bailey (19l8, p. 341); opposta è l'opinione di Sambursky (1956, p. 198).

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

legati gli atomi. La resistenza materiale del corpo solido dipendeva, per Democrito, dalla forza con cui gli atomi riescono a legarsi gli uni con gli altri, e questa forza è determinata esclusivamente dalla forma degli atomi stessi: la struttura di una materia composta era per il fìlosofo di natura meccanica e la sua solidità era l'effetto dell'architettura complessiva dei legami instaurati tra gli atomi. Per Lucrezio questa spiegazione non era sufficiente. A suo giudizio, infatti, la consistenza di un dato composto è determinata non solo dal peso degli atomi, ma anche dalla maggiore o minore presenza di vuoto. Abbiamo inoltre visto che gli atomi sono in continuo movimento e che il moto vibratorio rimane inalterato, anche quando questi si aggregano in un composto. All'interno del composto, i moti atomici possono convergere tutti in una medesima direzione, facendo muovere il corpo di cui sono i costituenti, oppure muoversi in direzioni opposte, mantenendo il corpo in quiete. Di conseguenza, il legame degli atomi è determinato più dal loro peso e moto, che non dalla loro forma: la struttura delle molecole prevede un equilibrio dinamico (e non più solo meccanico) degli atomi costituenti, che permette di spiegare come in alcune circostanze l'urto di un corpo esterno contro la molecola ne danneggi temporaneamente la struttura senza conseguenze irreversibili, tanto che rimane sempre possibile ripristinare lo stato originario del tessuto materiale. Si tratta di una situazione assimilabile a quella delle ferite: affinché sia possibile ricostituire un tessuto lacerato, occorre che i legami tra gli atomi siano sufficientemente flessibili ed elastici, e questa elasticità è assicurata dal moto costante degli atomi, grazie al quale è possibile ricostituire il legame originario in seguito alla lacerazione, sempre che quest'ultima non sia così profonda da rendere impossibile una ricomposizione. Per Lucrezio, dunque, la struttura materiale di un dato corpo è composta da un insieme di atomi, il cui moto e peso concorrono a renderla più o meno flessibile. La solidità di questo tessuto materiale non può essere considerata come la semplice somma aritmetica delle sue parti, ma possiede delle qualità proprie, la cui complessità molecolare, proprio perché fondata sull'esame dei fenomeni biologici, è irriducibile alla semplicità dell'atomismo democriteo. Il modello molecolare a cui Lucrezio si era ispirato trovava la sua ragion d'essere in una visione del mondo organicistica, dominata da impulsi e forze vitali. L'idea che la materia fosse costituita da molecole in continuo movimento era del resto coerente con la visione cosmologica lucreziana, secondo cui tutti i corpi, come quello umano, tendono alla crescita e al dissolvimento. La stabilità dei legami atomici forniva la ragione della struttura dei composti, ma gli urti a cui tale struttura era costantemente soggetta e il moto dei suoi atomi costitutivi consentivano di dare ragione del cambiamento e dell'inesorabile dissolvimento dei corpi.

4· LA SCIENZA DEI SEMI

Sulla base della limitata varietà di forme conferite agli atomi, Lucrezio dava conto della complessità della materia ricorrendo all'ipotesi che la costituzione e l'accrescimento dei corpi solidi fossero generati dalle differenti disposizioni degli atomi. Una stessa combinazione di atomi poteva dare luogo, semplicemente cambiando disposizione, a corpi affatto diversi: certo quando avrai sperimentato tutte quelle parti di un unico corpo, collocandole in alto e in basso trasmurandole (transmutans) da destra a sinistra, per vedere quale forma esteriore dia a tutto il corpo ciascuna disposizione .. .J7.

A differenza delle sillabe, che possono essere disposte solo in sequenze orizzontali, gli atomi che compongono le cose possono aggregarsi secondo un'architettura tridimensionale, che consente di ampliare enormemente le possibilità combinatorie. È sintomatico che, in questo contesto, che oggi ci appare eminentemente chimico, Lucrezio introduca il concetto di trasmutazionel 8 ; il termine trasmuto, che sembra comparire qui per la prima volta, spiega come un insieme di atomi possa dare luogo, a seconda dei diversi modi del loro aggregarsi, a corpi del tutto differenti. Lucrezio sembra attribuire al termine un significato tecnico che ricomparirà nelle opere degli alchimisti rinascimentali, per cui la trasmutazione è la possibilità che una data sostanza (per esempio il piombo) venga trasformata in un'altra (l'oro) attraverso complesse procedure sperimentali. Per Lucrezio, tuttavia, la trasmutazione, più che l'effetto di una sperimentazione dai connotati oscuri, era una caratteristica legata alla struttura molecolare dei corpi che, in determinate condizioni, può subire dei cambiamenti nella disposizione interna degli atomi, senza che la natura e il numero di questi ultimi cambi. Altrettanto originale è l'uso lucreziano del termine "misto" (permixtum), oltre che il ruolo concettuale che il poeta gli attribuisce nella spiegazione della dinamica delle combinazioni atomiche. In contrasto con la teoria aristotelica dei quattro elementi e con le dottrine "riduzionistiche" dei Presocratici, Lucrezio parte dal presupposto che la materia si trovi, nella maggior parte dei casi, sotto forma di aggregati molecolari e "misti". Anche se gli atomi volteggiano nel vuoto, il loro isolamento è solo temporaneo, poiché la loro tendenza prevalen37. Lucr. II, 487-489: «Nempe ubi eas partis unius corporis omnis, l summa argue ima locans, rransmurans dexrera laevis, l omnimodis expertus eris etc.». Mi pare meno corretta la traduzione del Bailey (in Lucrezio, 1947, vol. II, p. 884), condizionata forse dalla lettura di Carlo Giussani, che rende il verso 488 in questo modo: «Placing them at top and bottom, transjèrringrighr to left>> (corsivo mio). 38. Il termine venne poi usato dal medico stoico Filomeno (m sec. d.C.) con lo stesso significato.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

te, causata dalla perenne combinazione dei moti rettilinei e inclinati, è quella di aggregarsi nelle molecole e generare i corpi, che di conseguenza sono sempre costituiti da miscugli di atomi: Nulla c'è, fra le cose di natura visibile, che sia formato d'un solo genere di elementi, niente che non consista d'una mescolanza di semi (permixto semine constet); e ogni cosa che in sé possiede più forze e proprietà, mostra di contenere più specie e varie forme di elementil9.

Questo è, per Lucrezio, un punto di cruciale importanza: rivendicando la complessità dell'architettura della materia atomica, egli può infatti spiegare alcuni fenomeni, come ad esempio il passaggio dal mondo inorganico a quello organico e viceversa, senza essere costretto a ricorrere a concetti metafisici. Gli atomi si risolvono nelle aggregazioni e, senza perdere la loro individualità, danno forma a tutti i corpi disponendosi in modi diversi. È il caso di segnalare, alla luce della sua importanza nella storia della chimica, la differenza della definizione lucreziana di "misto", rispetto a quella di Aristotele, il quale vedeva nella mixis una nuova sostanza, irriducibile ai suoi ingredienti costitutivi. Si legga ad esempio questo passo del De generatione et corruptione (327a): Secondo alcuni è impossibile che una cosa si mescoli a un'altra diversa: se le cose che si sono mescolate sussistono ancora, allora non si sono mescolate; se una delle sue componenti è stata distrutta non si sono mescolate, ma una esiste e l'altra non esiste più.

È per questa ragione che, come ha acutamente rilevato Elisa Romano (1998, pp. 122-3), Aristotele e Teofrasto preferivano studiare le trasformazioni qualitative della materia, partendo dall'osservabilità empirica delle reazioni e dei cambiamenti. Non è chiaro se Lucrezio avesse compreso il processo chimico grazie al quale le sostanze, combinandosi durante una reazione, si dissolvono: tuttavia, l'attenzione che egli pose sulla struttura molecolare della materia indica certamente un importante cambiamento nella teoria atomica tradizionale. Ciò emerge con chiarezza dalle parole di Alessandro di Afrodisia, che così commentava la dottrina epicurea: 39· Lucr. II, s8r-s88: «Illud in his obsignarum quoque rebus habere l convenir et memori mandarum mente tenere, l nil esse, in promptu quorum natura videtur, l quod genere ex uno consistat principiorum, l nec quicquam quod non permixto semine constet. l Et quodcumque magis vis multas possidet in se l atque potestates, ita plurima principiorum l in sese genera ac varias do ce t esse figuras >>.

4· LA SCIENZA DEI SEMI

Epicuro, per parre sua, volendo evitare di seguire gli asserti di Democrito, vuole seguire quanti affermano che la commistione ha luogo per accostamento degli individui mescolati, affermando anch'egli che le commistioni avvengono per accostamento di alcuni corpi, ma senza che gli stessi corpi che vengono mescolati si mantengano inalterati nella divisione, bensì afferma che essi si risolvono negli elementi e negli atomi. Ora, ciascun composto risultante da questi ultimi, in qualche modo, era in precedenza l'uno vino l'altro acqua, l'altro ancora miele, e un altro, poi, qualche altra sostanza; quindi, in virtù di un cerro accostamento reciproco di questi corpi dai quali sono derivate le mescolanze, si forma il corpo composto, in quanto si mescolano non acqua e vino, bensì gli atomi produttori di acqua, per così dire, con quelli produttori di vino, e sostiene che la commistione abbia luogo sia per dissoluzione sia per genesi di alcuni corpi: infatti la scomposizione di ciascun corpo negli elementi e la composizione dei corpi a partire dagli elementi sono rispettivamente la dissoluzione e la genesi (Epicuro, 2002, fr. 290 Usener).

L'attenzione prestata da Lucrezio ai "misti" è dunque una conseguenza del tentativo di riportare la definizione della natura atomica all'esperienza quotidiana. Mentre per gli Aristotelici i "misti" erano costituzionalmente diversi dalla somma dei loro costituenti, per Lucrezio la composizione atomica della materia consentiva di concepire la reversibilità delle combinazioni molecolari e di guardare a tutte le composizioni e dissoluzioni dei corpi come a reazioni di aggregazione e scomposizione atomica ripeti bili all' infinito 40• Se lo scambio di materia è perennemente scandito dal cambiamento, la somma della materia soggetta a tutte queste infinite reazioni rimane eternamente la stessa. Anzi, l'assunto lucreziano secondo cui nulla si crea e nulla si distrugge ne usciva rafforzato, andando a identificarsi con quell'atomismo chimico che presiedeva alla composizione e alla dissoluzione dei corpi: se qualcosa fosse andato perduto, il mondo si sarebbe estinto, mentre se fosse stata possibile la creazione spontanea di qualcosa dal nulla, la regolarità dei fenomeni naturali percepita quotidianamente dai sensi sarebbe stata impossibile. Secondo Lucrezio, dunque, l'equilibrio tra nascita e distruzione, unicamente alla regolarità dei fenomeni naturali, dimostrava l'invisibile costanza dell'azione degli atomi e delle loro aggregazioni.

40. È strano che un attento studioso di storia della chimica come Pierre Duhem abbia sostenuto che la concezione del "misto" sostenuta da Lucrezio fosse decisamente più lontana dal concetto moderno di chimica rispetto alla teoria aristotelica della materia: cfr. Duhem (198s. pp. n-s).

I6S

s Vedere è sapere

S·I

Sensi e fenomeni La concezione epicurea, secondo la quale tutte le sensazioni sono vere, è stata spesso considerata come la manifestazione di un empirismo estremo, su cui difficilmente si sarebbe potuto costruire un metodo scientifico coerente e competitivo rispetto a quelli elaborati dagli Aristotelici e dagli Stoici'. In realtà, la scelta di privilegiare la conoscenza basata sulle sensazioni è la conseguenza di criteri epistemologici assai sofisticati, che permettevano agli Epicurei di dimostrare l'esistenza e l'origine di tutti i fenomeni naturali sulla base di due entità di fatto impercettibili, gli atomi e il vuoto. Il procedimento che consentiva di superare questo apparente paradosso risiedeva in un elaborato sistema di verifica, per cui le teorie scientifiche erano considerate vere se risultavano coerenti con i fatti osservabili e potevano perciò essere "dedotte" dai fenomeni 2 • L'osservazione dei fenomeni non era dunque un atto passivo, ma il frutto di un constante confronto con le sensazioni e le loro cause immanenti, i cui meccanismi regolatori però, essendo invisibili, potevano solo essere ipotizzati. La costruzione dell'ipotesi atomistica, così come l'abbiamo esposta nel capitolo precedente, è la sintesi che permetteva a Epicuro e Lucrezio di giungere a una perfetta simbiosi tra il mondo delle sensazioni e la spiegazione delle loro cause. In tale sintesi, gli esempi di sensismo estremo che inducono a prendere posizioni apparentemente paradossali (come quella relativa alle dimensioni del sole) sono rare e, come abbiamo visto nel CAP. 2, possono essere interpretate

1. Nella sua imporrante monografia Asmis (1984) ha mostrato come tale deduzione si basi su di una lettura superficiale dell'epistemologia epicurea. 2.. lvi, p. 12.: questo modello epistemologico sarebbe stato ripreso, in epoca moderna, da lsaac Newcon; cfr. Baroncini (1981).

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5· VEDERE È SAPERE

diversamente rispetto alle letture che ne hanno dato coloro che vedono nel sensismo di Epicuro una dottrina anti-scientifica per definizione\ L'importanza gnoseologica della verifica sensoriale implica un'attenzione nei confronti dei metodi osservativi e della realtà fenomenica che, eccezion fatta per Aristotele, fu assai rara nella scienza antica 4 • Anche Epicuro, come Aristotele, fu piuttosto critico nei confronti di linguaggi tecnici, come quello della matematica, che comportavano l'astrazione dalla realtà fisica. Ma, più che rigettare la matematica in quanto tale, egli rifiutava di sostituire l'evidenza dei sensi con la dimostrazione logica di un fatto. Privilegiare la conoscenza empirica non significava tuttavia affidarsi ciecamente ali' autorità dei sensi. Lucrezio, infatti, pur concentrando la propria attenzione sui cinque sensi (III, 62.6), considerava la mente come un organo percettivo aggiuntivo e separato, capace di organizzare e sintetizzare autonomamente quanto avviene a livello sensoriale. Ali' interno di tale concezione, la mente potrebbe essere definita come un meta-senso, che subisce ed elabora le percezioni provenienti dagli oggetti esterni (m, 98). Attraverso questa distinzione, Lucrezio era in grado di spiegare perché la verità della percezione sensibile è soggetta a subire distorsioni nella fase di elaborazione dei dati: questi errori occorrono quando le sensazioni non sono sufficientemente intense, o quando, come nel caso dei sogni e delle allucinazioni, la mente non è in condizione di passare al setaccio i dati sensoriali e di distinguerne le matrici (cfr. FIG. 5.1). È il IV libro del De rerum natura l'arena in cui Lucrezio esamina le proprietà dei sensi (Iv, 2.39-82.2.) e, seguendo uno schema gerarchico, passa a considerare le proprietà di ciascuno e la loro funzione nei processi conoscitivi 5• Pur credendo che tutte le nostre sensazioni avvengano attraverso il contatto tra i nostri organi sensoriali e gli atomi emessi dal mondo esterno, il poeta rinuncia a trattare analiticamente il tatto insieme agli altri sensi, poiché- come è stato recentemente osservato- questo rappresenta per lui il senso nella sua generalità6• In effetti, consapevole dell'importanza centrale attribuita da Epicuro a questo senso, Lucrezio aveva esaminato la natura del tatto già nel II libro del poema (vv.

3· Si ricordino, al proposito, le posizioni di Koyré e Dreyer citate nel CAP. l. 4· Sulle differenze nei confronti dell'osservazione e dell'esperimento nelle filosofie naturali antiche, si vedano i seguenti studi: Zubov (1959); Lejeune (1957 ); Stiickelberger (1974); von Staden (1975); Allen (loo4). 5· Lucrezio si occupa nell'ordine di vista (Iv, 46- l39 [sui simulacri] e l39·5l1), udito (Iv, Sl4-614), gusto (Iv, 615-67l), olfatto (Iv, 673-7l1) e mente (Iv, 7n-8n). 6. «Nella dottrina epicurea le sensazioni si compendiano tutte nel tactus, che è sinonimo di sensus in generale» (Piazzi, l005, p. Il8).

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

FIGURA S·I

Sogni e allucinazioni in un'incisione dell'edizione di Michael Maittaire del De rerum natura (Londra I713)

435-441), distinguendo tre tipi di sensazione tattile: la sensazione causata dal contatto con oggetti esterni, quella provocata dal movimento interno al nostro corpo e, infine, quella dovuta ali 'urto di oggetti esterni, i cui effetti si propagano al nostro interno ben oltre il punto di contatto, provocando sensazioni di dolore o piacere capaci di diffondersi in tutto il corpo. Tutti gli altri sensi erano per Lucrezio una variazione del tatto. Mentre era relativamente semplice dimostrare questo assunto per il gusto, l'odorato e l'udito, per la vista questo poteva essere fatto con successo solo introducendo una teoria della visione interamente nuova (Asmis, 1984, pp. us-40 ). Tale innovazione era di centrale importanza, perché il poeta attribuiva alla vista un ruolo privilegiato nel processo conoscitivo della realtà esterna. In effetti, è caratteristico di Lucrezio lo sforzo ricorrente di ribaltare il tradizionale scetticismo dei filosofi presocratici e di Platone nei confronti della vista, ricorrendo assai spesso al verbo videre come affidabile guida per l'illustrazione della dottrina atomica. Può sembrare paradossale che vengano frequentemente usati i verbi videre e cernere per illustrare le proprietà e gli effetti degli atomi, per loro natura invisibili, ma l'assunto che attribuisce alla mente l'elaborazione di dati che colpiscono i sensi, alla base dei quali ci sono i movimenti atomici, autorizza Lucrezio a rendere visibili le dinamiche che regolano gli eventi del mondo infinitamente piccolo, in virtù di analogie con quanto accade nel mondo fenomenico. Ma vediamo più da vicino il suo modo di procedere. Lucrezio è pienamente consapevole che «gli occhi non possono distinguere i primi elementi» 7, ma 7·

Lucr. 1, 2.68: «Nequeum oculis rerum primordia cerni».

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S· VEDERE È SAPERE

questo limite è comune anche a fenomeni naturali macroscopici, di cui non è possibile dubitare. Il vento che spazza i mari, le terre e le nubi, gli odori che percepiamo senza che ne distinguiamo le matrici materiali, le vampe di caldo e di freddo, la vaporizzazione dell'acqua e tanti altri fenomeni mostrano incontestabilmente l'azione invisibile della materia e, per analogia, l'esistenza degli atomi e delle molecole che ne dirigono l'azione. C'è poi un altro modo attraverso cui la vista può condurre a vedere il sostrato atomico della materia. Esistono infatti in natura degli animali così piccoli che un terzo del loro corpo non si può in nessun modo vedere 8 ,

e che dunque lasciano immaginare alla mente la composizione delle loro parti più sottili, le quali per forza di cose devono avere forma atomica. È dunque a partire dall'attenta indagine osservativa che Lucrezio suggerisce, per analogia, di giungere a "vedere" l'atomo: si tratta di una procedura che, con l'invenzione del microscopio nei primi anni del XVII secolo, fece credere a molti naturalisti che la verifica sperimentale dell'atomismo fosse a portata di mano. In questo modo la vista aveva assunto nel processo conoscitivo una funzione privilegiata, decisamente superiore rispetto alle teorie gnoseologiche precedenti. L'importanza attribuita dai filosofi greci al pensiero e alla speculazione aveva infatti consentito di elevare la conoscenza a un grado di astrazione prima di allora sconosciuto e, contemporaneamente, aveva generato un sentimento di scetticismo nei confronti delle nozioni ricavate dall'esperienza quotidiana e dai sensi. Solo la contemplazione e il ragionamento potevano guidare efficacemente l'intelletto verso la conoscenza dei fenomeni naturali. Proprio a causa di questo atteggiamento nei confronti della realtà fenomenica, i filosofi greci attribuirono ai sensi, e in particolare alla vista, un ruolo decisamente subordinato rispetto alla ragione. Il primo a conferire alla ragione astratta lo scettro del comando fu il filosofo presocratico Parmenide, il quale invita il saggio a non lasciare che l'abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa, lungo questa via, a usare l'oc-

chio che non vede e l'udito che rimbomba di suoni illusori.

Il sapiente deve invece

8. Lucr. IV, 116-117: «Primum animalia sunt iam partim tantula, quorum l tenia pars nulla possit ratione videri ».

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

giudicare collogos la pugnace disamina che io ti espongo (Parm. fr. 294; corsivi miei). L'occhio, dunque, come l'udito, è un veicolo di illusioni fallaci, che inducono il volgo a trarre delle conseguenze errate a partire dalle sole apparenze. È invece la ragione- illogos appunto- che, prescindendo dai sensi della vista e dell'udito, riesce a raggiungere la verità. Platone, come è noto, sosterrà la medesima posizione, sviluppando ulteriormente la filosofia di Parmenide nella sua complessa dottrina delle idee. È significativo che anche tra quei Presocratici che ammettevano il valore della conoscenza sensibile, fosse diffuso un forte scetticismo a proposito dell' affidabilità della vista. Per Democrito, ad esempio, che come Epicuro e Lucrezio credeva che la materia fosse composta da atomi e vuoto, la vista era solo di ostacolo, poiché era impossibile vedere gli atomi e il vuoto se non facendo astrazione da quanto percepito attraverso i sensi. Contrariamente ai suoi predecessori, Aristotele ebbe una posizione molto più sfumata circa i modi attraverso i quali si può giungere alla piena conoscenza della natura. Nella sua opera biologica Sulla generazione degli animali, ad esempio, lo Stagirita ammetteva l'osservazione empirica come uno strumento indispensabile di conoscenza. Si veda ad esempio quanto egli scriveva a proposito della riproduzione delle api: Sulla base del ragionamento [logos ]la riproduzione delle api sembra svolgersi in questo modo, e anche sulla base di quello che sembrano i fatti. Ma i fatti non sono stati compresi a sufficienza, e se anche mai lo saranno, si dovrà dare più credito all'osservazione che ai ragionamenti astratti, e questi ultimi dovranno essere accettati solo se in accordo con ciò che appare9. In molti altri passi delle opere di Aristotele si trovano espressioni come "noi vediamo" o "si vede", con le quali egli sembra confermare il ruolo centrale dell'osservazione e quindi della vista; tuttavia, come ha mostrato Lloyd, nella maggior parte dei casi queste espressioni non designano realmente una conoscenza acquisita attraverso la facoltà visiva, ma il risultato dell'interpretazione logica di un fatto. L'atteggiamento prevalentemente negativo, o nel migliore dei casi ambiguo, dei filosofi greci nei confronti della vista era dovuto in parte alla scarsa conoscenza dei meccanismi della visione e della fisiologia dell'occhio, in parte

9· Arist. GA 76ob. Sull'ambiguità dell'uso aristotelico del concetto di esperienza e della facoltà visiva, si veda il terzo capitolo dell'opera di Lloyd (1979). I70

5· VEDERE È SAPERE

all'indiscutibile variabilità a cui è soggetta la vista rispetto agli altri sensi. Le illusioni ottiche, infatti, sono molto più frequenti degli errori originati dagli altri sensi: in effetti la vista- come in misura diversa l'udito- non viene stimolata dal contatto diretto di altri corpi, ma è una facoltà che si manifesta da un lato sotto forma di un'azione attiva (appunto l'atto di vedere e di dirigere l'osservazione su un determinato fuoco), dall'altro di un'azione passiva (la ricezione delle immagini, che evidentemente provengono dall'esterno dell'occhio e vengono elaborate a livello retinico ). A partire da questa intrinseca complessità, non è dunque sorprendente che i filosofi greci abbiano affrontato il tema della visione con grande cautela. Malgrado le difficoltà, o forse proprio a causa di esse, l'approfondita riflessione dei filosofi greci su questo tema diede vita a quattro modelli differenti di teorie della visione 10 , che possono essere schematizzati come segue: 1. la visione è resa possibile dall'emissione di un raggio luminoso dall'occhio verso l'oggetto (scuola pitagorica ed Euclide); 2.. la visione è possibile grazie all'emissione di un'immagine materiale da parte dei corpi, che riesce ad attraversare le tuniche dell'occhio e a fissarne un' immagine che riproduce, in scala più piccola, l'originale (Leucippo, Democrito); 3· la visione è frutto della combinazione tra due tipi di emissioni convergenti: una dall'occhio all'oggetto e l'altra dall'oggetto all'occhio (Empedocle e Platone)u; 4· la visione è generata dalla sensazione che nasce dal movimento suscitato dal corpo sensibile nel mezzo intermedio, vale a dire la luce (Aristotele). La teoria dell'emissione del raggio visivo dall'occhio all'oggetto ( 1) fu quella che riscosse maggiore credito durante l'antichità e il Medioevo, probabilmente a causa della sistemazione geometrica conferi tale da Euclide nel suo trattato di ottica. È ad ogni modo importante rilevare come, sia pur con accenti e modalità differenti, in tutte e quattro le teorie fosse presente la consapevolezza dell'importanza centrale della luce durante il processo di percezione visiva. Solo Aristotele, tuttavia, dimostrò che non si dà visione senza la luce e che, pertanto, per comprendere il meccanismo della vista è necessario privilegiare l'esame del mezzo trasparente - o del diafano, per utilizzare la sua terminologia che permette la propagazione dei raggi luminosi. 10. Sulle teorie della visione nell'antichità, cfr. Hirschberg (1977); Magnus (1998); Potestà

(z.ooz.). 11. Ronchi (1983, p. 13), non concorda sulla scelta di includere tra i sostenitori di questa teoria anche Platone, la cui posizione sarebbe a suo giudizio molto più simile a quella aristotelica.

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Questo dato si rivela particolarmente interessante, visto che anche Lucrezio era convinto che la visione fosse possibile solo attraverso la luce, e che la propagazione della luce stessa fosse condizionata dalla trasparenza dello spazio intermedio. Certamente consapevole dell'originalità della propria posizione, volta a ribaltare la stragrande maggioranza delle opinioni precedenti, il poeta dedica quasi la metà del IV libro ai fenomeni legati alla visione (Iv, 46-521). Nella prima parte della trattazione (Iv, 46-238), egli si sofferma a definire la natura dei simulacri, che sono a suo giudizio la causa prima della visione. Studiando la peculiare capacità degli atomi (di luce?) di passare attraverso mezzi trasparenti e di dare vita alle immagini (simulacra), Lucrezio così scrive: Diciamo ora con quale facilità, con quale leggerezza si formino queste immagini e, come un flutto inesauribile, non smettano mai di staccarsi dai corpi[ ... ]. Elementi superficiali sgorgano e si irraggiano senza tregua da tutti gli oggetti. Se incontrano corpi porosi, come il vetro, li attraversano, ma se urtano contro le asperità della roccia, o contro del legno, vi si lacerano, senza poter produrre l' immagine' 2 •

A queste caratteristiche, Lucrezio aggiungeva che i simulacri sono corpi leggerissimi e dotati di una velocità rapidissima, pari a quella della luce, proprio perché costituiti del medesimo tessuto materiale. La trasmissione del simulacro è analoga a quella della luce e il passo richiama la questione sollevata da Aristotele per spiegare il fenomeno della visione. Del resto, che Lucrezio - nell'atto di descrivere le proprietà dei simulacriavesse bene in mente Aristotele, può essere evinto da un altro passo del libro IV, dove, nel passare in rassegna le differenze tra la propagazione dei suoni e quella delle immagini, scrive: La voce può attraversare senza danni i canali sinuosi dei corpi, e i simulacri vi si rifiutano, perché si spezzano se non viaggiano per condotti rettilinei, come quelli del vetro che ogni immagine riesce ad attraversare col suo volo'l.

Il. Lucr. IV, 143-149: «Nunc ea guam facili et celeri ratione genantur l perperuoque fluant ab rebus lapsaque cedant l [... ].l Semper enim summum quicquid de rebus abundat l quod iaculentur. Et hoc alias cum pervenir in res, l transit, ut in primis vitrum; sed ubi aspera saxa l aut in materiam ligni pervenir, ibi iam l scinditur ut nullum simulacrum recidere possit ». q. Lucr. IV, 599-603: «Nimirum quia vox per flexa foramina rerum l incolumis transire potesr, simulacra renutant. l Perscinduntur enim, nisi recta foramina tranant, l qualia sunt vitri, species qua transvolat omnis>>.

5· VEDERE È SAPERE

Queste parole possono essere messe a confronto con il seguente passo, tratto dai Problemi di Aristotele: Perché l'aria attraversa i solidi, pur essendo più densa della luce? Forse perché la luce si muove soltanto in linea retta? Per questo il raggio visuale non vede attraverso i corpi porosi, per esempio attraverso la pietra pomice, poiché i pori sono disposti in modo sfasato, mentre non è così per il vetro (Arist. Pr. 939a).

Si veda inoltre un secondo passo, nel quale Aristotele si interroga a proposito dei motivi per i quali la vista, a differenza della voce, non attraversa la maggior parte del corpi solidi: Nei liquidi gli occhi riescono a vedere - i suoni invece non sono percepiti o lo sono appena [... ], perché i pori sono piccoli, fitti e allineati. Per questo motivo, si vede attraverso il vetro, anche se è compatto, ma non attraverso fusti di ferula, anche se sono un materiale rado (Arist. Pr. 9os b).

Alla luce delle analogie evidenti, appare probabile che i passi del De rerum natura precedentemente descritti abbiano preso spunto dalle riflessioni aristoteliche: e tuttavia, il sistema epicureo di cui Lucrezio si fa portavoce rivela l'ambizione di sostituire la filosofia peri patetica con un'alternativa sensista altrettanto rigorosa e onnicomprensiva. L'aspetto più importante della teoria epicurea della visione è costituito dali' assunto secondo cui la vista nasce grazie ai simulacri, emanazioni che si staccano dai corpi in flusso continuo e si spandono in ogni direzione intorno, né tregua né riposo è mai consentito al fluire, perché in ogni istante sentiamo, e sempre ci è dato di vedere, odorare e udir suonare ogni oggetto 14 •

La permanenza di un'immagine nella nostra pupilla è dovuta alla sequenza continua dei simulacri, che vengono emessi dai corpi che stiamo osservando: quanto più il corpo è vicino, tanto più nitida sarà la nostra percezione, che invece, con l'aumentare della distanza, sarà progressivamente disturbata dal frastagliarsi e dallo sfìlacciarsi dei simulacri, fino a generare delle vere e proprie illusioni ottiche. Lo sforzo di Lucrezio di attribuire alla vista una funzione puramente 14. Lucr. IV, 2.l5-ll9 (=VI, 935-939): «Usque adeo omnibus ab rebus res quaeque fluenrer l ferrur et in cunctas dimittirur undique partis l nec mora nec requies inrerdarur ulla fluendi, l perperuo quoniam sentimus et omnia semper l cernere odorari licet et sentire sonare>>.

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passiva mirava non solo a dimostrare la struttura atomica della realtà percepita, ma anche e soprattutto a valorizzare il fondamento oggettivo della percezione visiva. I simulacri, entrando nell'occhio, lasciano un'impronta materiale e fedele della realtà. Ma anche quando i simulacri ci fanno apparire in sogno una persona correre o ballare (Lucr. IV, 766 ss., 786 ss.), la loro azione non è meno reale. Ciò avviene per una rapidissima successione di imagines rappresentanti la serie regolare dei succedenti si momenti ed atteggiamenti del ballo e della corsa, proprio come avviene col cinetoscopio o col cinematografo. La spiegazione però non calza bene al caso nostro, perché in sogno noi ci illudiamo di veder sempre la medesima persona, materialmente identica, che si muove. Ci accostiamo un pò meglio se pensiamo alla visione in sogno di una cascata. Come vediamo una cascata vera noi vediamo il continuo rinnovarsi dell'acqua, così lo vediamo nel cinetoscopio, così, nel cinetoscopio mentale di Epicuro.' 5

La calzante analogia proposta da Giussani tra la successione delle immagini di una proiezione cinematografica, un'invenzione ai suoi tempi nuovissima, e i simulacri di Lucrezio, sottolinea la funzione passiva della vista che, al pari della platea di un cinema, registra fedelmente gli accadimenti che si svolgono davanti al suo sguardo. Naturalmente, una simile teoria della visione era destinata ad andare incontro a difficoltà di ogni genere, tanto che in non poche spiegazioni, e in particolar modo in quelle relative alla natura delle immagini specchiate, essa si trovava di fronte a un compito impossibile. Tuttavia, l'assunto che tutti i sensi non siano altro che variazioni del tatto, e che la conoscenza percettiva avvenga sempre attraverso il contatto con flussi di atomi, aveva reso necessaria una nuova interpretazione delle funzioni della facoltà visiva. In effetti secondo Lucrezio tutti e cinque i sensi - ai quali egli riconosce comunque proprietà e funzioni differenti (Iv, 489-493)- sono caratterizzati da una comune matrice atomica: Infatti anche la voce e il suono si devono riconoscere di essenza corporea, perché possono colpire i sensi' 6 •

Le asperità e le tonalità del suono sono ricondotte alla differente configurazioCarlo Giussani in Lucrezio (1896-98, vol. I, p. 2.37 ). Lucr. IV, 52.6-52.7: «Corpoream quoque enim constare fatendumst l et sonirum, quoniam possunt impellere sensus». 15.

16.

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5· VEDERE È SAPERE

ne degli atomi e degli organi ricettori. Per lo stesso motivo, relativamente alla sfera del gusto, un medesimo alimento può rivelarsi sgradevole e amaro per alcune specie animali, dolce e gustoso per altre (Iv, 633 ss.). Analogamente, gli odori provocano sensazioni differenti a seconda della configurazione fisiologica dei ricettori, che reagiscono in modo differenziato all'inalazione degli stessi agglomerati atomici. Le varietà delle percezioni odorifere sono moltiplicate, inoltre, dalle differenze delle strutture molecolari, che stanno alla base di una varietà pressoché infinita di odori e profumi' 7• Le forme degli atomi e dei sensori servivano dunque a Lucrezio per dare un fondamento materiale alla teoria epicurea, in base alla quale i sensi costituiscono la base della vera conoscenza. Tuttavia, come già abbiamo accennato, il poeta non concepisce la conoscenza come una semplice impressione di impulsi atomici sui nostri sensi, ma chiama in causa diversi fattori - come ad esempio la distanza dall'oggetto percepito - che, a causa dei frequenti errori di interpretazione relativamente a ciò che sentiamo, rendono necessario l'intervento della mente e del ragionamento. Il sensismo epicureo dunque non è puramente passivo, ma implica un processo conoscitivo complesso, attraverso il quale i dati sensoriali vengono elaborati. Il dato fondamentale della gnoseologia epicurea è che il processo di elaborazione è vero solo nel momento in cui riesce a collegare le sensazioni alle loro cause molecolari.

S·2 Osservazioni personali ed esperimenti L'importanza che Lucrezio attribuisce all'evidenza empirica si coglie anche nella frequente ricorrenza, nel corso del poema, di espressioni (come per esem-

17. Curiosamente, la teoria molecolare dell'odore esposta da Lucrezio è stata ripresa alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso dal chimico scozzese Moncrieff (1951), e quindi sviluppata nei due decenni seguenti dal biochimico inglese John E. Amoore, che in diversi lavori cercò di classificare gli odori sia sulla base della struttura molecolare delle materie odorifere sia su quella della configurazione anatomica dei ricettori (Amoore, 1970 ). La storia di questa teoria moderna è stata ricostruita, in un altro articolo, dallo stesso Amoore (1964), che ne riconosce esplicitamente le origini nel De rerum natura: « The steric theory of odor is that air-borne molecules are smelled when they fì.t imo certain complemenrary receptor sites on the olfactory nervous system. The idea goes back to Lucretius, buti t did not receive the attention it deserved unti!, dozens of other theories having been suggested an d rejected, it was reformulated in modern terms by Moncrieff in 1949. The rejuvenated theory was attractive because it explained, in a generai way, so many of the characteristic phenomena of olfaction » (i vi, p. 457 ).

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

pio ante oculos videtur: I, 332. e 998) finalizzate a mettere i propri lettori davanti a concetti e dati osservabili. Non a caso, Lucrezio se ne serve anche quando parla della natura dei colori, spiegando perché essi non possano essere percepiti senza l'ausilio della vista, anche se il loro sostrato atomico rimane invisibile (11, 731 ss.). Ma in che misura la frequenza degli appelli lucreziani all'evidenza visiva segnala una effettiva consapevolezza, da parte del poeta, della valenza scientifica dell'osservazione guidata dei fenomeni naturali, e non costituisce invece un usurato dispositivo retorico per corroborare una teoria che, nei suoi fondamenti, elude il visibile? Non è possibile dare una risposta esauriente a questa domanda senza prima verificare se sia possibile riconoscere a Lucrezio un'autonomia "scientifica" nella trattazione dei principi della filosofia naturale epicurea' 8• Come abbiamo visto nel CAP. 3, il De rerum natura mette in mostra molti riferimenti relativi all'esperienza personale del suo autore, ed è dunque impossibile guardare senza perplessità al ritratto di Lucrezio come un compendiatore "fondamentalista" della filosofia epicurea recentemente delineato da David Sedley (1998, pp. 62.-93). Questa posizione, finalizzata a distinguere nettamente tra le qualità del poeta e i contenuti della dottrina esposta nei suoi versi, ha per corollario la valutazione negativa della filosofia naturale lucreziana. Si tratta di una visione dell'opera di Lucrezio tutt'altro che nuova: già nel 1962. Stahl sosteneva che il carattere anomalo e non originale delle parti scientifiche del poema di Lucrezio ci induce a concludere che, per valutare la sua importanza, è indispensabile giudicarlo come poeta e non come scienziato (Stahl, I974• p. III).

Questi giudizi, piuttosto radicali, sono assai diffusi e indubbiamente giustificati, almeno in parte, dal fatto che in molti passi del De rerum natura Lucrezio non fa altro che ricalcare il contenuto delle opere di Epicuro. Tuttavia, è difficile non riconoscere nel poema una certa propensione a esprimere valutazioni ed esperienze che non possono essere ricondotte a Epicuro, a meno di non voler presupporre a priori - e dunque, in modo arbitrario - una dipendenza da opere perdute. Ci sono però troppi indizi che invitano a leggere il De rerum natura sotto una luce diversa. È stato giustamente osservato che, a differenza degli altri seguaci di Epicuro, Lucrezio ha incentrato il proprio poema prevalentemente 18. Un tentativo in questa direzione è presente nel bel saggio di Jean Bayet, Lucrùe devant la pensée grecque, in Id. (1967, pp. 11-84).

5· VEDERE È SAPERE

sulla scienza della natura: l'etica è relegata per contro a un ruolo subordinato e molti dei suoi temi centrali non vengono affrontati (Boyancé, 1985, p. 119 ). Nel nr libro Lucrezio invita a studiare la fisica epicurea, quasi che questa possa sostituire efficacemente qualsiasi altra attività. Se l'uomo fosse consapevole della causa dei mali che lo angustiano, sostiene il poeta, lascerebbe tutte le sue occupazioni e si studierebbe di conoscer prima la natura del tutto 9. 1

Che la fìlosofia della natura costituisse, nell'ottica di Lucrezio, la chiave per l'affermazione della nuova morale epicurea, è un concetto che è stato sottolineato in più occasioni 20 ; tuttavia, che tale disciplina potesse costituire per il poeta qualcosa di più che un mero strumento attraverso cui raggiungere l'agognato fine della voluptas, è cosa che gli storici hanno per lo più respinto, sulla base del fatto che la scienza romana non poteva essere originale. Si è così finito per sommergere tutti gli spunti personali presenti nel poema, che come vedremo non sono pochi, riconducendoli a ipotetiche matrici greche. Lo spirito investigativo che animava Lucrezio, guidandolo nelle sue numerose escursioni originali nel mondo delle discipline naturalistiche, e la notevole cultura scientifica che numerosi studi recenti hanno messo in rilievo 21 , non erano certo compatibili con l'immagine ricorrente di un intellettuale paralizzato da un pessimismo angoscioso, causato dallo sguardo disperato rivolto alle infelici sorti dell'umanità. Se è vero che la visione scientifica e anti-provvidenzialistica della natura non poteva certo infondere una fede incrollabile verso il migliore dei mondi possibili, quale era ad esempio quella che animava i seguaci della Stoà, è però altrettanto vero che la fiducia nella spiegazione razionale dei fenomeni prospettava per l'uomo la possibilità di guardare alla propria esistenza entro una prospettiva illuminata dalla verità. Liberato dai timori della morte, emancipato dalla tirannide del provvidenzialismo stoico o del rigido meccanicismo determinista di Democrito, forte della conoscenza delle cause dei fenomeni naturali, l'uomo lucreziano poteva guardare con serenità ai flutti dentro i quali vedeva immersa, in alterne vicende,la propria esistenza. La lotta contro l'illusione superficiale che la vita fosse priva di dolori e di

19. Lucr. III, 1072.: «Namram primum smdear cognoscere rerum>>.

Si veda per esempio Boyancé (1985, pp. 18 ss.). 2.1. Schrijvers (1999, pp. 48-50 ), ad esempio, ha dimosrraro che Lucrezio aveva presenre le

2.0.

opere biologiche di Arisrorele e che aveva probabilmenre !erro anche i Problemi meccanici arrribuiri allo Sragirira.

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angosce, e la coscienza del fatto che essa fosse necessariamente destinata a un termine, non può certo considerarsi come l'effetto di una visione pessimistica. La conoscenza delle cause, infatti, permetteva di superare tali sensazioni dolorose, mettendo la vita e la morte sullo stesso piano dei fenomeni naturali. Lucrezio non compie questa equazione riducendo la vita alla fisica e abbracciando così un arido meccanicismo; anzi, proprio perché consapevole della complessità della psicologia umana e dei fenomeni biologici, il poeta considera la vita come il modello e il punto di partenza attraverso il quale spiegare tutti i fenomeni naturali. È proprio questo tentativo di "riduzionismo" atipico che rende l'opera di Lucrezio particolarmente affascinante e originale. Che la predilezione di Lucrezio per i fenomeni naturali non sia casuale, è dimostrato dai numerosissimi riferimenti a osservazioni, esperienze ed esperimenti che il poeta innesta nel suo poema, al fine di corroborare la sua trattazione dei principi filosofici della dottrina epicurea. Visto che Lucrezio è pressoché l 'unico, tra i seguaci di Epicuro, a servirsi in forma così sistematica di argomentazioni tratte dall'osservazione diretta o mediata dei fenomeni naturali, siamo indotti a credere che ciò rappresenti, almeno in alcuni punti, il suo contributo originale alla dottrina del maestro. Oltre alle osservazioni - alcune delle quali, come abbiamo visto nel CAP. 3, sono riconducibili certamente alla sua epocaLucrezio fa riferimento a degli esperimenti e a dei dispositivi tecnici particolari, utilizzandoli come modelli per spiegare la teoria atomica. Un selezione di alcuni esempi può permetterei di cogliere meglio il tratto "personale" della sua esposizione. Per dimostrare l'infinità dell'universo, nella parte finale del 1 libro Lucrezio propone un interessante esperimento mentale, desunto da Archita diTaranto: E poniamo ora che sia limitato tutto lo spazio: se uno corresse al suo termine, alla riva estrema, e scagliasse un dardo volante, vuoi tu che questo, vibrato con forza gagliarda, vada dove è stato lanciato e voli lontano, o credi che qualche cosa lo ostacoli e gli si opponga? Una di queste due ipotesi è necessario che tu ammetta e scelga. Ma l'una e l'altra ti preclude ogni scampo e ti costringe a riconoscere che l'universo si estende senza confine, (cfr. FIG. s.z.).

2.2. Lucr. I, 968-976: «Praererea si iam fini rum consriruarur l omne quod est sparium, siquis procurrar ad oras l ulrimus extremas iaciarque volatile relum, l id validis urrum conrortum viribus ire l quo fuerit missum mavis longeque volare, l an prohibere aliquid censes obsrareque posse? l Aherurrum farearis enim sumasque necessest. l Quorum urrumque cibi effugium praecludir et omne l cogir ur exempta concedas fine parere».

S· VEDERE È SAPERE

FIGURA

p.

Un'originale interpretazione visiva del paradosso di Archita illustrata in una celebre incisione pubblicata da Camille Flammarion nel1888

Più avanti, per dimostrare la reale presenza di atomi invisibili, Lucrezio invita il lettore a osservare con attenzione un fenomeno legato alla luce: Tu guarda attento, ogni volta che raggi filtranti infondono la luce del sole nel buio delle stanze: vedrai sospesi nel vuoto molti corpi minuti mischiarsi in mille modi proprio nella luce dei raggi, e come in questa guerra eterna muovere assalti e battaglie scontrandosi a torme senza conceder mai tregua, scompigliati da rapidi congiungimenti e dissidi. Di qui puoi intendere quale sia l'eterno agitarsi dei primi elementi nell' immenso vuoto, per quanto piccola cosa può dare un'immagine di grandi fatti e una traccia di loro conoscenzall. 2.3. Lucr. II, 114-12.2.: «Contemplator enim, cum solis lumina cumque l inserti fundunt radii per opaca domorum: l multa minuta modis multis per inane videbis l corpora misceri radiorum lumine in ipso l et velut aeterno certamine proelia pugnas l edere turmatim certantia 179

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Questa bella visione del caotico moto degli atomi, oltre a offrire al lettore un'evidenza empirica efficace di ciò che accade alla materia a livello microscopico, illustra nel modo più convincente la natura spontanea e variegata dei moti atomici e, forse, del clinamen (cfr. FIG. 5.3). In analogia con gli argomenti utilizzati per spiegare il concetto di massa, che viene ricondotto alla presenza di diverse quantità di vuoto nei corpi (ad esempio un gomitolo di lana e una palla di piombo), Lucrezio mostra la differenza delle forme atomiche facendo ricorso a fenomeni empirei ben noti, ma di difficile interpretazione teorica: E in un istante vediamo scorrere il vino per il colatoio, ma l'olio indugia lento, certo perché è formato di elementi più grossi o più uncinati e più intricati fra loro.. ! 4 •

E ancora, la dipendenza dell'anima dal corpo viene mostrata da Lucrezio prendendo a esempio una descrizione della dissezione di un serpente, che pare il frutto di un esperimento eseguito personalmente: Se d'un serpente con la lingua vibrante, la coda minacciosa e il lungo corpo eretto, vorrai scindere in molte parti col ferro, vedrai tutti i pezzi recisi, per lo strazio della viva ferita, torcersi ognuno e spruzzare la terra di sanie, e la parte anteriore volgersi e cercar con la bocca sé stessa per stringersi in un morso, trafitta dal dolore bruciante della ferita. Diremo che in tutti quei brani ci sono anime intere ?li

In un altro passo, ancora per offrire una dimostrazione dell'intimo legame esistente tra corpo e anima, Lucrezio rivela un'insolita conoscenza dell'anatomia dell' occhiol 6 : se lacerato intorno l'occhio resta illesa la pupilla, rimane integra la facoltà della vista, purché tu non guasti tutto il globo dell'occhio e intorno non recida la pupilla e la lasci

nec dare pausam, l conciliis et discidiis exercita crebris; l conicere ur possis ex hoc, primordia rerum l quale sir in magno iactari semper inani>>. l4. Lucr. n, 391-394: «Et quamvis subito per colum vina videmus l perfluere; at contra tardum cunctatur olivum, l aut quia n imi rum maioribus est elementis l aut magis hamatis imer se perque plicatis etc.>>. lS. Lucr. III, 6s7-66s: «Quin etiam tibi si lingua vibrante minanti l serpemis cauda procero corpo re turrumquet l si t libitum in multas partis discidere ferro, l omnia iam sorsum cernes ancisa recenti l vulnere tortari et terram conspargere tabo, l ipsam seque retro partem petere ore priorem l vulneris ardenti, ut morsu premar icta dolore. l Omnibus esse igitur rotas dicemus in illis l particulis animas? >>. l6. Per una più ampia contestualizzazione, cfr. Beretta (loo4b). ISO

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FIGURA 5·3 Lucrezio mentre scrive il poema attingendo ai testi di Empedocle ed Epicuro; sul davanzale della finestra c'è un modello dell'universo che introduce lo spazio retrostante ove si possono distinguere degli atomi svolazzanti e, ben visibile sotto le nubi, la parola casus. Incisione dell'edizione di Michael Maittaire del De rerum natura (Londra 1713)

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isolata; perché anche questo non potrà accadere senza la rovina d'entrambi. Ma se quell'esile porzione in mezzo all'occhio è intaccata, subito dilegua la luce e l'oscurità sopraggiunge, benché sia incolume in ogni altra parte il lucido globo 17•

Per mostrare invece la velocità con cui si muovono i simulacri, Lucrezio adduce come "prova evidente" la seguente osservazione: Appena si espone al sereno una tersa spera d'acqua, subito, quando il cielo è stellato, rispondono luminosi nel!' acqua gli astri raggianti del firmamento. Non vedi in quanto breve istante l'immagine dalle rive del!' etere cada sulle sponde terrene ?18

Per sottolineare poi le differenti proprietà ottiche degli specchi, il poeta romano fa riferimento al caso degli specchi semi-cilindrici (latuscula speculorum), attraverso i quali diveniva possibile, grazie a una doppia riflessione dei simulacri, ricevere l'immagine corretta, e non più rovesciata come nel caso degli specchi piani (Iv, 3II-317 ). Considerando la diffusione di specchi di vetro in tarda epoca repubblicana (Beretta, 2004a, pp. 1-30, in part. p. 8), è difficile pensare che Lucrezio possa aver richiamato un'esperienza tratta da fonti epicuree, e che non si sia basato invece su di un'osservazione diretta. Molte delle illusioni ottiche ricordate da Lucrezio - torri quadrate che a distanza sembrano rotonde (Iv, 354-356), la nave che pur muovendosi pare ferma(Iv, 387-388), la pozzanghera apparentemente profonda(Iv, 414-416) e altre ancora - sembrano derivare da fonti letterarie, visto che vengono liquidate con inconsueta fretta. Diverso è forse il caso dell'esempio seguente, che secoli più tardi avrebbe attratto l'attenzione di Leonardo (Beretta, 2.010), che vi intravide un'anticipazione della regola delle prospettiva e cercò addirittura di rappresentarlo in uno dei suoi disegni (cfr. FIG. 5.4): Il passo lucreziano è effettivamente molto interessante e val la pena citarlo per esteso: Un portico, sebbene abbia un tracciato uniforme e si regga poggiato da cima a fondo su eguali colonne, pure, se quant'è lungo si guarda da un estremo, a poco a poco si 2.7. Lucr. 111, 408-41S: « Ut, lacerato oculo circum si pupula mansit l incolumis, star cernundi vivata potestas, l dummodo ne totum corrumpas luminis orbem l et circum caedas aciem solamque relinquas; l id quoque enim sine pernicie non fìet eorum. l At si ranrula pars oculi media illa peresa est, l occidit extemplo lumen tenebraeque sequunrur, l incolumis quamvis alioquist splendidus orbis>>. 2.8. Lucr. IV, 2.09-2.13: «Hoc etiam in primis specimen verum esse videtur l quam celeri motu rerum simulacra ferantur, l quod simul ac primum sub diu splendor aquai l ponitur, extemplo cado stellante serena l sidera respondent in aqua radiantia mundi>>.

S· VEDERE È SAPERE

FIGURA 5·4 Il disegno di Leonardo, tratto dal Manoscritto F della Bibliothèque de l' lnstitut di Parigi, fol. 6r

o

o

stringe nel vertice d'un cono sottile, unendo il tetto al suolo e il lato destro al sinistro, finché si affila nella punta oscura d'un cono' 9 •

Anche in questo caso siamo autorizzati a immaginare che Lucrezio stia istituendo un riferimento agli sforzi compiuti dai pittori contemporanei che tentavano di rendere, sia pur empiricamente, le visioni prospettiche dei paesaggi che caratterizzano la pittura del II stile degli affreschi pompeiani. Abbiamo poi già avuto modo di sottolineare nel CAP. 3 come Lucrezio paragoni la struttura dell'universo ad una macchina (machina mundi: rv, 96), dimostrando più di una volta di essere a conoscenza di alcuni dei congegni meccanici normalmente utilizzati ai suoi tempi. Un esempio di questo genere ricorre anche nel v libro, per illustrare la causa dei mori dei corpi celesti:

2.9. Lucr. IV, 42.6-431: «Porticus aequali quamvis est denique ductu l stansque in perpetuum pari bus suffulta columnis l longa tamen parte ab su m ma cum tota videtur, l paularim trahit angusti fastigia coni, l tecta solo iungens atque omnia dextera laevis l donec in obscurum coni conduxit acumen ».

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Prima di tutto, se ruota la grande sfera del cielo, si deve dire che l'aria preme ai due estremi del!' asse, e dali' esterno la trattiene da entrambe le parti; quindi altra aria fluisce sopra il cielo e fa forza in quel senso, in cui ruotano sfavillando gli astri del mondo eterno; o altra aria scorre sotto, che in senso opposto trascina la sfera, come vediamo i fiumi volgere ruote e secchie 30•

Il modello meccanico della ruota ad acqua, sulla cui base nel I secolo a.C. si costruirono i mulini in prossimità dei fiumi, viene descritto nell'opera di Vitruviol1 (cfr. FIG. s.s). Forse anche il riferimento alle esalazioni mefitiche provenienti dalle miniere di Scaptensula in Tracia (vi, Sos-810) sono, al pari della descrizione dell'esperimento con l'anello magnetico di Samotracia (cfr. CAP. 3), frutto dell'osservazione diretta del poeta. I passi che abbiamo fin qui riportato sono sufficienti, io credo, a rivelarci il grado di attenzione e di curiosità che Lucrezio rivolge all'osservazione dei fenomeni naturali. È proprio il ricorso all'esperienza e all'evidenza sperimentale a differenziare l'opera del poeta romano da quelle degli altri seguaci del Giardino, i cui argomenti ruotano invece prevalentemente intorno alla logica dell'argomentazione filosofica. Se, da un lato, è stato possibile sottovalutare il valore scientifico dell'opera di Epicuro proprio per il ricorso del filosofo a un linguaggio tecnico volutamente distante da quello delle discipline scientifiche, dall'altro non si può fare a meno di notare la preponderanza della filosofia naturale nell'opera di Lucrezio: si tratta in effetti di un aspetto che conquistò i lettori della prima età moderna, trasformando l'atomismo filosofico di Epicuro in una potentissima ipotesi scientifica (Beretta, 2003). Certamente, anche in Lucrezio la ricerca scientifica era finalizzata alla felicità dell'uomo e alla sua definitiva emancipazione dai timori causati dalla religione, ma questo obiettivo etico, sicuramente presente, viene spesso lasciato sullo sfondo per far posto a una curiosità scientifica verso alcuni fenomeni, come il recente diffondersi dell'elefantiasi (vi, m4) e delle malattie epidemiche (vi, 1090 ss.), che erano nuovi e dunque richiedevano delle parziali modifiche alla dottrina epicurea (cfr. FIG. 5.6). L'importanza assunta nel De rerum natura dall'osservazione diretta dei 30. Lucr. v, 510-516: «Principio magnus caeli si vortirur orbis, l ex utraque polum parti premere aera nobis l dicendum est extraque tenere et claudere urrimque; l inde alium supra fluere atque intendere eodem l quo volvenda micant aeterni sidera mundi; l aut alium subter, contra qui subvehat orbem l ut fluvios versare rotas atque haustra videmus». 31. Vitr. x, 5· Secondo Li.ick (1932., p. 2.6), questa novità sarebbe derivata dalla lettura di fonti epicuree contemporanee e non sarebbe, come crede invece Bailey (in Lucrezio, 1947, pp. 2.7-8), l'effetto dell'osservazione diretta.

5· VEDERE È SAPERE

FIGURA 5·5 Ruota con secchi per mulino ad acqua. Vitruvio, De architectura (Como 152.1)

fenomeni consente di spiegare il tono ammirato con cui Lucrezio si riferisce all'opera di Empedocle. La critica si è spesso interrogata sui motivi che possono aver spinto Lucrezio a esaltare Empedocle come un uomo di stirpe divina, che con i suoi canti sulla natura era stato capace di rivelare «luminose scoperte» 3>. Naturalmente, tale ammirazione è stata frequentemente associata- e con ragione- alla forza fìlosofìca che Empedocle è riuscito a conferire al verso poeti32.. Lucr. I, 716-732.. Per una ricognizione della letteratura recente su Lucrezio ed Empedocle, cfr. Piazzi (2.005, pp. 42.-53). 185

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

FIGURA 5.6 La peste ad Atene nell'incisione pubblicata nell'edizione Londinese del De rerum natura del I712.

co, rendendolo capace di descrivere scientificamente le leggi che presiedono alla regolazione dei fenomeni naturali. C 'è tuttavia un altro aspetto del fìlosofo agrigentino che, come ha notato Ettore Bignone nel lontano 1916, aveva suscitato presso Lucrezio un entusiasmo incondizionato. Si tratta dal fatto che Empedocle, come Alcmenone, vede dei limiti alla conoscenza, e come lui la scruta sulla norma dell'esperienza: come lui studia le differenze individuali della sensazione, è un fisiologo indagato re e curioso, un alcmeonide nello stesso senso di Aristotele scienziato (Bignone, I9I6,

p.

70).

Diversamente dai suoi predecessori monisti, Empedocle aveva indirizzato il proprio sguardo indagatore allo studio analitico dei fenomeni legati all'esperienza e al mondo delle tecniche. Così, nel rivelare i meccanismi della combinazione dei quattro elementi e i meravigliosi effetti della loro compenetrazione, I86

S· VEDERE È SAPERE

egli aveva utilizzato il paragone della tavolozza dei pittori e della mescolanza dei quattro colori primari, con cui è possibile creare le immagini di ogni cosa naturale (DK 23; cfr. Empedocle, 2002, p. 35). Allo stesso ftlone sono riconducibili anche l'attenzione dedicata a un fenomeno locale come i fuochi sotterranei (D K 54, fr. 28; cfr. Empedocle, 2002, p. 37 ), che probabilmente discendeva dall'osservazione dei fuochi vulcanici siciliani (di cui, come abbiamo visto, parla anche Lucrezio in n, 592), l'analogia del mare con il sudore, ripresa da Lucrezio in due passi (n, 465 e v, 487-488), e l'osservazione - certamente diretta - del conseguente fenomeno della formazione del sale marino sotro I' azione essiccante del calore del sole 33 • Altrettanto interessante è la spiegazione del meccanismo della respirazione, che viene interpretata come un'alternanza di aria e sangue nei condotti interni del corpo (DK 100, fr. 90; cfr. Empedocle, 2002, p. 71), ed è ricondotta al modello idrodinamico di una clessidra ad acqua. Il fascino e la funzione teorica di tutti questi aspetti sperimentali della ftlosofia di Empedocle non potevano sfuggire a Lucrezio, impegnato nel suo immane sforzo di spiegare l'azione invisibile degli aromi con prove che, nel caso dei fenomeni più complessi, dovevano necessariamente fare ricorso a esperimenti. La mera osservazione della natura, infatti, non era sufficiente a dimostrare l'esistenza degli atomi: per quesro, Lucrezio è spesso costretto a forzare i limiti dell'osservazione sensibile, portandola al confine di quel mondo invisibile di cui vuole rivelare l'esistenza. In questa esplorazione, egli non poteva non trovare nell'opera di Empedocle e nei suoi richiami all'indagine sperimentale un'inesauribile fonte di ispirazione. Anche se, naturalmente, Lucrezio non condivideva di Empedocle quella vena misticheggiante che, dietro un linguaggio spesso allusivo, rivelava la finalità religiosa del poema della natura, assolutamente incompatibile con lo scopo emancipatore del De rerum natura. Laddove per Empedocle i fenomeni empirici e gli esperimenti dovevano rivelare il potere universale e cosmico di Amore e Odio, per Lucrezio essi costituivano degli strumenti attraverso i quali superare la soglia del visibile e giungere al sostraro della materia.

33· DK ss e s6, fr. 105 e 106 (cfr. Empedocle, lOOl, p. 79). In quest'ultimo esempio è notevole l'analogia, che ricorre anche in Lucrezio, tra un fenomeno inorganico, la produzione del sale, e uno organico, la sudorazione e la conseguente produzione dei sali.

6

Il nuovo ordine dell,universo

6.1

Gli atomi e il cosmo Dopo aver esposto nei primi quattro libri la costituzione fisica della materia e l'origine delle sensazioni e della conoscenza, nel v Lucrezio passa a occuparsi della cosmologia (v, 449-770 ). La sua esposizione rivela una certa difficoltà ad affrontare temi relativi all'astronomia1 e a seguire i complessi ragionamenti che avevano ispirato Epicuro e i suoi seguaci nel criticare i fondamenti dell'astronomia di Eudosso e della sua scuola. Come abbiamo visto nel CAP. 1, le conoscenze astronomiche accumulate dai Romani nel corso del I secolo a.C. erano state tali da aver consentito la riforma del calendario e l'acquisizione di nuove conoscenze tecniche nell'ambito della geografia e della cartografia, a cui forse si devono aggiungere alcuni complessi strumenti astronomici, come il planetario di Archimede o il meccanismo di Anticitera, di cui si era finalmente in grado di apprezzare il valore scientifico. La maggior parte di queste conoscenze proveniva dalla Grecia e dalla tradizione babilonese, ma è ovvio ammettere che questa evidente sensibilità dei Romani, nei confronti di una disciplina come l'astronomia, rappresenti un segnale rivelatore dell'interesse che lo studio del cielo stava suscitando. La diffusione a Roma della dottrina pitagorica, dovuta soprattutto all'opera di Nigidio Figulo, sottolineava il legame sussistente tra lo studio degli astri e la religione, un aspetto verso il quale i cittadini romani erano da sempre particolarmente sensibili. In misura ancora maggiore, il successo a Roma della dottrina stoica dipese soprattutto dalla loro peculiare concezione degli astri. Gli Stoici credevano infatti che, sulla base dell'osservazione del movimento delle

1. Leon (1938, pp. 163-76), ha descritto la posizione di Lucrezio come «childish theorizing» e «unscientifìc and prosaic». Le stesse posizioni si ritrovano, pur con giudizi più sfumati, nella maggior parte dei commenti critici a questa parte del poema.

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orbite dei pianeti, i quali erano considerati come entità divine, fosse possibile divinare gli avvenimenti futuri. La divinazione, che dai tempi degli Etruschi aveva conquistato Roma fino a diventare il fulcro delle più importanti decisioni politiche, aveva avuto un nuovo impulso- su basi più razionali e scientifiche, e quindi più confacenti al progresso culturale della Repubblica- grazie proprio all'opera degli Stoici. La fusione tra astronomia e astrologia promossa dagli Stoici e dai Pitagorici andò così a innestarsi in modo efficace sulle antiche dottrine divinatorie dei Romani, offrendo nuovi strumenti per assicurarne un fondamento razionale. Lucrezio dovette guardare con estremo scetticismo, se non addirittura con disprezzo, alla confusione tra astrologia e astronomia, tra divinazione e studio degli astri, vedendo in essa uno strumento attraverso il quale l'uomo veniva allontanato artificiosamente dalla conoscenza reale dei fenomeni e quindi condannato a un destino già scritto, rigidamente determinato dalla provvidenza divina. Gli aspetti religiosi e finalistici dell'astronomia ellenistica, e di quella romana in particolare, rendevano insostenibili, agli occhi di Lucrezio, le premesse metodologiche sulle quali si reggeva questa disciplina. Tuttavia, se queste ragioni possono dare conto dello scarso interesse manifestato dal poeta per l'astronomia, non fu solo l'intento polemico contro la scuola stoica a giustificare il suo atteggiamento negativo. Lucrezio, in continuità con il suo modello greco, era tenuto ad affrontare questo tema per mostrare la coerenza comprensiva dell'atomismo epicureo; tuttavia, non poteva qui ricorrere, come aveva fatto con la spiegazione dei fenomeni fisici e psichici affrontati nei libri precedenti, agli stessi procedimenti dimostrativi. I fenomeni astronomici riguardano infatti dei corpi lontanissimi, la cui percezione avviene solo grazie alla luce emessa dagli astri. L'analogia, che con tanto successo Lucrezio aveva utilizzato per mostrare la relazione tra un fenomeno fisico e il suo sostrato atomico, diventava assai complessa e comunque molto più astratta se utilizzata per descrivere degli enti percepiti in modo molto più debole rispetto ai corpi terrestri. Nonostante questa difficoltà, la forza dell'intuizione di fondo, secondo cui la materia e le leggi che regolano la fisica terrestre sono identiche a quelle che governano la formazione e il movimento degli astri, rendeva il tema di questo libro di cruciale importanza: è proprio sulla base delle evidenze e degli argomenti che Lucrezio vi avrebbe apportato, infatti, che la visione dell'universo finalista e pitagorica avrebbe potuto finalmente essere sostituita con una concezione razionale ed esclusivamente scientifica. A conferma di questo intendimento generale il poeta, riassumendo il contenuto dei libri precedenti, sottoli-

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nea fin da subito che il mondo è sottoposto - come tutto il resto - alle inesorabili leggi del tempo (v, 57-58) e che tutta la materia che costituisce il cielo, la terra, il mare, gli astri, il sole e la luna è destinata a morire (v, 65-70): le stesse leggi del moto degli atomi che hanno portato alla loro generazione, li condurranno inesorabilmente anche all'estinzione. Così, nello studio del corso del sole e delle fasi della luna, il poeta promette di dimostrare che gli astri non si muovono per favorire il destino dei mortali o per delle leggi che sono state stabilite dagli dèi, ma per cause naturali e a essi immanenti (v, 76-SI). Il grande meccanismo del mondo (moles et machina mundi: v, 96), che ha funzionato per un tempo così lungo, è anch'esso destinato, in brevissimo tempo, a scardinarsi e perire. Questa bellissima immagine della macchina del mondo, che secoli dopo sarebbe stata ripresa per costruire l'immagine meccanicistica dell'universo, si opponeva all'anima mundi degli Stoici e a tutte quelle concezioni filosofiche che attribuivano al cosmo una trascendenza irriducibile al mondo materiale. Per contro, Lucrezio dimostrava che il cosmo è costituito esclusivamente di materia e che la sua struttura è complessa quanto quella di una macchina. L'origine del concetto di macchina con riferimento all'universo sembra riconducibile ad Anassagora, il quale, preoccupato di sottrarre alla provvidenza e all'intervento divino l'atto della creazione del cosmo, ricorre all'intelletto come a una macchina teatrale per spiegare la costruzione del mondo e di fronte alla difficoltà di spiegare per quale ragione esso esista di necessità, allora lo chiama in causa, ma negli altri casi in tutto piuttosto che nell'intelletto coglie la causa di quello che accade (Arist. Metaph. I, 4, s [98sa]).

Anche in Lucrezio l'uso della metafora meccanicistica m irava a scardinare l' impianto teologico della cosmologia tradizionale, conferendo alla ragione umana il ruolo di rivelarne i misteri senza ricorrere ad argomenti metafisici o teleologici. Allo stesso tempo, però, la sconfinata figura dell'universo induceva Lucrezio a volgere lo sguardo, con partecipata compassione, ai dubbi e alle angosce che spingevano i suoi simili a riconoscervi l'impronta divina: Quando solleviamo lo sguardo agli spazi celesti del vasto mondo, e più in alto all'etere fino di tremule stelle, e ci sovviene delle vie del sole e della luna, allora nel peno da altri mali oppresso anche questa angoscia comincia a ergere il capo ridesto, che non ci sia forse su noi un potere immenso dei numi, che con vari moti volga i fulgidi astri. Difetto di raziocinio assilla la mente, dubbiosa se mai ci sia stata un'origine prima del mondo e, insieme, se ci sia un termine fino a cui le mura del mondo e i loro taciti moti possano reggere a questo travaglio, o se, dal volere divino dotati di esistenza eterna,

6.

IL NUOVO ORDINE DELL'UNIVERSO

possano, trascorrendo per l'infinita distesa del tempo. disprezzare le forze imperiose di un'età immensa l..

Sarebbe errato leggere questo passo come una concessione alla religione l: si tratta piuttosto di una vera e propria esaltazione della ragione umana, e dell'invito a superare le pigre spiegazioni provvidenzialistiche e a esplorare con entusiasmo e curiosità i fenomeni dell'universo, fino a dominarne i più reconditi misteri. Il riferimento di Lucrezio alla divinità dunque sottintendeva un elogio della ragione, che - come attestano i proemi del De rerum natura dedicati a Epicuro e gli elogi di Lucrezio a Empedocle e Democrito - poteva per lui assumere la potenza attribuita alle divinità e permettere ali 'uomo di guardare al cielo senza timore, collegandone gli eventi ai fenomeni naturali del mondo sublunare.

6.l I corpi celesti In analogia con tutti i mondi presenti nell'universo, anche il nostro- secondo Lucrezio - si sarebbe formato quando dal caos dei moti originari gli atomi più pesanti si sono agglomerati verso il basso, creando la terra e il mare, e quelli più leggeri, espulsi verso l'alto dalla crescente densità della terra, hanno generato l'etere e i corpi celesti, enti composti principalmente di fuoco. La prima questione da risolvere, studiando i corpi celesti, era quella di comprendere la causa del loro movimento. Data la complessità dell'argomento e la difficoltà di rapportare tali movimenti alle nostre percezioni, Lucrezio - come già aveva fatto Epicuro - fece ricorso alle cosiddette "spiegazioni molteplici". Questo approccio non solo non era sorprendente, visto che Epicuro aveva criticato l'artificiosità dell'uso degli strumenti e dei modelli geometrici, ma era anzi coerente con l'obiettiva difficoltà di individuare un'analogia col mondo fisico che potesse ricondurre i moti delle orbite, lontane dalla nostra vista, a quello dei corpi terresti. l. Lucr. v, ll04-Ill7: «Nam cum suspicimus magni caelesria mundi l tempia super srellisque micanribus aerhera fìxum, l er venir in menrem solis lunaeque viarum, l runc aliis oppressa malis in pecrora cura lilla quoque expergefacrum capur erigere infìr, l nequae forre deum nobis inmensa poresras l sir, vario moru guae candida sidera verser. l Temprar enim dubiam menrem rarionis egesras, l ecquaenam fuerir mundi geniralis origo, l er simul ecquae sir fìnis, quoad moenia m un di l et taciti morus hunc possinr ferre laborem, l an divinirus aererna donata salme l perpetuo possinr aevi labenria rracru l immensi validas aevi conremnere viris ». 3· Questa è invece l'interpretazione proposta da Bailey in Lucrezio (1947, vol. I, p. 17 ). 191

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

FIGURA 6.1

Rappresentazione settecentesca dell'infinità dei mondi

Fonte: Wright (1790).

Dal momento che i mondi nell'universo sono infiniti (cfr. FIG. 6.r), le cause delle loro rispettive origini possono essere più d'una: anche perché i mondi non nascono tutti nello stesso momento e da una stessa causa, come sarebbe successo se si fosse ammesso che il tutto sia stato creato da un ente divino. Al contrario, i mondi si formarono in tempi diversi e, di conseguenza, secondo modalità diverse. Il tempo in Lucrezio non è dunque un'entità neutrale e assoluta, ma costituisce una categoria capace di condizionare profondamente gli eventi naturali. A questo occorre aggiungere che i mondi possono assumere forme differenti (Diog. Laert. x, 74), e questa caratteristica può essere spiegata solo facendo ricorso a cause diverse. In altre circostanze poi uno stesso fenomeno celeste 192.

6. IL NUOVO ORDINE DELL'UNIVERSO

è talmente lontano dai nostri sensi, che affìdarsi a spiegazioni multiple diventa necessario, pena la necessità di fare appello ad assunzioni dogmatiche o metafìsiche. In conclusione: delle molteplici cause enumerate per spiegare questi fenomeni celesti, solo una è effettivamente quella giusta, ma l'impossibilità di ricondurle alle nostre percezioni in modo univoco le rende tutte solo plausibili e probabili. Le cause dei movimenti dei corpi celesti sono, secondo Lucrezio, tre, tutte plausibili e conformi alle apparenze (v, so9-533). In primo luogo, egli ipotizzava che il movimento potesse essere causato da un fuoco collocato ali' interno delle stelle, capace di produrre la forza motrice necessaria a mantenere il loro moto costante 4 ; la seconda causa potenziale veniva individuata in correnti atmosferiche esterne, che avrebbero spinto i pianeti dentro le loro orbiteS; la terza, e più bizzarra, prevedeva che i corpi celesti si muovessero di concerto, come un gregge in cerca del cibo, alla ricerca delle particelle di fuoco necessarie a mantenerli temporaneamente in vita 6. È interessante notare come questa terza spiegazione, introducendo un'analogia con il mondo animale, rappresentasse di fatto una concessione alla visione stoica, secondo cui i corpi celesti devono essere considerati come entità animate. Stranamente Lucrezio mostra di ignorare una quarta causa, riportata da Epicuro (Diog. Laert. x, 92.), secondo cui i corpi celesti si muoverebbero a seguito dell'impulso ricevuto dagli atomi in movimento nell'atto della loro generazione. Dopo aver discusso dei moti degli astri, Lucrezio - probabilmente riprendendo l'ordine della materia dato da Epicuro nel suo trattato sulla natura- passa a considerare la terra e la sua posizione nel cosmo 7• La terra non è un corpo sferico, ma un disco dotato di un certo spessore, sospeso nell'aria, e collocato al centro del mondo. La densità materiale del disco diminuisce progressivamente nella parte inferiore, rarefacendosi fino a trasformarsi nell'atmosfera su cui poggia il disco terrestre. Malgrado la sua pesantezza, la terra galleggia sull' atmosfera, composta di particelle più leggere, perché sono entrambe parti di un unico insieme. Per spiegare questo fenomeno apparentemente paradossale, Lucrezio ricorre come al solito a una metafora tratta dalla biologia, paragonando la terra

4· Questa ipotesi è conforme all'opinione di Anassimandro, secondo cui le stelle erano delle ruote di fuoco. s. Questa possibilità è derivata invece da Anassimene. 6. Come molte altre ipotesi riguardanti le questioni astronomiche, questa possibilità è riconducibile alla fìlosofìa di Eraclito. 7· Lucr. v, 534-563. Per una discussione sulle fonti, cfr. Bailey in Lucrezio (1947, vol. 111, pp. 1402. ss.).

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al corpo dell'uomo che è sostenuto dalla «tenuissima potenza dell'anima, perché gli è saldamente congiunta e fusa in unità» 8• Anche se molti altri filosofi della natura antichi avevano sostenuto, con Epicuro e Lucrezio, che la terra fosse piatta, l'importanza di alcuni argomenti utilizzati dal poeta romano per difendere questa ipotesi è stata amplificata da alcuni studiosi, col fine di mostrare l'intrinseca debolezza scientifica del sistema epicureo. In particolare, ciò si è verificato a proposito dell'argomento per assurdo, secondo cui, se si ammettesse la sfericità della terra, uomini e animali residenti al Polo sud camminerebbero capovolti e non, come sarebbe naturale aspettarsi, sprofondare dalla terra negli abissi del cielo 9• In realtà, come ha ben visto David Furley (1996, pp. 120-1), la forma della terra doveva essere piatta per salvare la concezione epicurea del moto rettilineo verso il basso degli atomi, mentre ogni altra alternativa avrebbe presupposto l' introduzione del concetto di attrazione. Abbiamo avuto modo di osservare come Epicuro, nel considerare le dimensioni del sole, avesse bene in mente le opere degli astronomi (e in particolare di Eu dosso) e come, nel criticarle, egli non avesse sostenuto alcuna opinione precisa circa le sue reali dimensioni. Lucrezio al contrario, probabilmente interpretando in modo scorretto il testo del maestro 10 , sembra intendere che le dimensioni del sole e della luna, in conformità con quanto ci trasmettono i sensi, siano modeste (v, 564-591). Questa errata interpretazione, più che segnalare una lettura inesatta o superficiale dell'originale epicureo, mette in evidenza la scarsa competenza di Lucrezio in un ambito, quello dell'astronomia, che non sembra dominare con altrettanta sicurezza rispetto ad altre discipline, come la fisica e le scienze della vita, che avevano invece attratto la sua attenzione. L'argomento viene introdotto nel modo che segue: Né la ruota del sole né il suo calore possono essere molto maggiori o minori di quel che accade ai nostri sensi". 8. Lucr, v, ss6-ss8: «Nonne vides etiam quam magno pondere nobis l sustineat corpus tenuissima vis animai l propterea qui a ram coniuncta acque un iter apra est?». 9· Lucr. l, ro6l-1063: «E terris in !oca caeli l recidere inferiora». In generale, cfr. I, JOSl1067. 10. Sedley (1976, pp. so-r). Su questo specifico rema, si veda anche l'originale interpretazione di Diels (19lo ). 11. Lucr. v, s64-s6s: «Nec nimio solis maior rora nec minor ardor l esse potest, nostris qua m sensi bus esse videtur >>.

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6. IL NUOVO ORDINE DELL'UNIVERSO

Poco più avanti, però, Lucrezio incontra grandi difficoltà per spiegare come un astro così piccolo possa emettere tanta luce da colmare, inondandoli, tutti i mari e le terre e il cielo, e diffondere su tutte le cose il caldo suo alito ...

Per risalire alla causa di questo strano fenomeno, Lucrezio offre tre spiegazioni possibili: r. il sole emette gli atomi del calore e della luce e, benché le dimensioni del pianeta siano, relativamente al fenomeno dell'illuminazione e del riscaldamento percepiti, molto piccole, al pari di un ruscello che diventa fiume, l' incremento del momento comporta l'aumento progressivo della forza dell'emissione; 2. il sole produce una quantità insufficiente di calore, ma l'atmosfera circostante, combinandosi con le particelle di calore e di fuoco, contribuisce ad alimentare ed espandere la sua azione; 3· il sole contiene al suo interno una quantità di calore che non è visibile'~. Dopo questa parentesi sulla natura fisica del sole, Lucrezio passa a illustrare il moto annuale del sole, le fasi della luna e il movimento dei pianeti lungo lo zodiaco (v, 614-649). In primo luogo, il poeta spiega- riassumendo in modo superficiale e incompleto alcune opinioni di Democrito ed Epicuro' 4 - in che modo l'orbita del sole si muova, nell'arco di un anno, dalle regioni estive del Tropico del Cancro a quelle del Tropico del Capricorno (inverno), per tornare poi al punto di partenza e completare il proprio ciclo cinetico. Tra le spiegazioni possibili per questa oscillazione, Lucrezio sembra incline a preferire quella offerta da Democrito: Prima di tutto sembra che possa esser vero ciò che afferma il giudizio dell'uomo venerando, Democrito: quanto più vicine alla terra sono le stelle, tanto meno possono essere trascinate col vortice del cielo. La sua rapida forza impetuosa diminuisce e si perde più in basso, e per questo il sole a poco a poco s'attarda con le ultime costellazioni, perché è molto inferiore alle fervide stelle' 5•

12. Lucr. v, 592-s9s: «IIlud item non est mirandum, qua ratione l tantulus ille queat tantum sol mittere lumen, l quod maria ac terras omnis caelumque rigando l compleat et calido perfundat cuncta vapore>>. Sull'argomento nel suo complesso, cfr. v, 592·613. 13. Alla metà dell'Ottocento questa ipotesi è stata interpretata come un'anticipazione della teoria sulla radiazione del calore. 14. Giussani in Lucrezio (1896-98, vol. IV, pp. ?s-6). 15. Lucr. v, 621-628: «Nam fieri ve! cum primis id posse videtur, l Democriti quod sancta viri sententia poni t, l quanto quaeque magis sint terram sidera propter, l tanto posse minus cum

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LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Anche se, secondo Giussani (in Lucrezio, I886-98, vol. IV, p. 78), Lucrezio non avrebbe mai approvato una dottrina che non fosse stata avvallata da Epicuro, il tono altamente elogiativo nei confronti di Democrito, così come il fatto di aver ignorato tre delle quattro possibili cause dei movimenti enumerate nella Lettera a Pitocle di Epicuro, sembrano indicare chiaramente una scelta del poeta, deliberatamente autonoma, di seguire un percorso interpretativo diverso da quello solcato dal maestro. L'arrivo dell'oscurità alla fine del giorno è spiegato da Lucrezio con la curiosa ipotesi che il fuoco emesso dal sole si estingua progressivamente, in quanto esausto dopo il moto diurno, oppure sulla base del fatto che la forza che rende possibile la sua apparizione all'alba è la stessa che alla fine della giornata lo fa scomparire (v, 650-655). Alla base della prima spiegazione c'è la possibilità che la durata della vita del sole sia di circa dodici ore, e che dunque ogni giorno sorga un nuovo sole. Le infelici analogie utilizzate da Lucrezio per rafforzare la plausibilità di questa spiegazione sono prese, ancora una volta, dal mondo vivente: il sole rinasce ogni giorno secondo leggi non dissimili da quelle che regolano il costante rinnovarsi delle stagioni e della vegetazione; i denti dei bambini cadono e si riformano e, allo stesso modo, i fenomeni meteorologici si rinnovano continuamente in sequenze che non possono non essere ricondotte alla regolarità delle leggi naturali, che evidentemente devono governare anche i fenomeni celesti. I motivi per cui le notti e i giorni possono essere più o meno lunghi con il variare delle stagioni sono spiegati da Lucrezio sulla base di due possibili cause (v, 680-704): secondo la prima, adottata dagli astronomi, il corso del sole durante l'inverno sarebbe prevalentemente sotto la terra, che ne nasconderebbe così una parte, mentre d'estate si muoverebbe al di sopra della terra e sarebbe pertanto interamente visibile; nel caso invece si fosse abbracciata l'ipotesi della nascita quotidiana di un nuovo sole, Lucrezio credeva che il fuoco che ne costituiva il nucleo materiale si aggregasse più o meno velocemente a seconda delle stagioni. La spiegazione relativa alle fasi della luna ricalca le quattro possibilità offerte in proposito da Epicuro nella Lettera a Pitocle, ma in aggiunta Lucrezio mostra di conoscere anche dei contributi più recenti rispetto alla pubblicazione delle opere del maestro (v, 705-750 ). In sintesi: r. la luna è un astro provvisto di un'orbita inferiore rispetto a quella del sole: essa ne riceve una illuminazione tanto più forte, quanto maggiore è la sua di-

cadi turbine ferri. l Evanescere enim rapidas illius et acris l imminui supter viris, ideoque relinqui l paulatim solem cum posterioribu' signis, l inferior multo quod sit quam fervida signa».

6. IL NUOVO ORDINE DELL'UNIVERSO

FIGURA 6.2

Orologio solare del tipo di quelli ideati da Beroso rinvenuto negli scavi di Pompei ed Ercolano

Fontt: Piroli (1794-1807 ).

stanza da esso (luna piena). Questa dottrina, tiene a specificare il poeta, è quella sostenuta dagli astrologi; 2. la luna è illuminata da una luce proveniente dali' interno della sua sfera, ma è accompagnata da un corpo opaco invisibile che si frammette tra la terra e la luce durante le sue fasi; 3· solo una parte della luna è luminosa: durante le sue fasi, si passa dall'illuminazione di una parte fino alla piena visibilità del disco luminoso; 4· come nel caso del sole, anche in questa circostanza Lucrezio ipotizza che sia possibile la nascita periodica di una nuova luna, di forma ogni volta differente. Che la luna fosse un corpo luminoso solo per metà era una teoria che, secondo quanto ci attesta Vitruvio (rx, 2, r-2), venne introdotta a Roma nelnr secolo a.C. dall'astronomo caldeo Beroso (cfr. FIG. 6.2): essa non può essere dunque ricondotta direttamente ali' opera di Epicuro. Lucrezio mostra anche di essere al corrente delle polemiche sorte tra astronomi greci e babilonesi (v, 720730 ), riconducibili con ogni probabilità alla diffusione a Roma della dottrina di Be roso e alle reazioni che essa suscitò nell'ambito della cultura scientifica di matrice greca. Ciò nonostante, l'idea che Lucrezio possa aver sviluppato auto197

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nomamente una scelta di fonti diversa dalla canonica epicurea è stata talmente censurata, che si è preferito ricondurre la sua particolare teoria all'opinione di Eraclito, secondo cui la luna avrebbe forma di bacile (la parte concava, luminosa, è piena di fuoco, mentre la superficie esterna è opaca; cfr. Leon, 1938, p. 172.). Anche se, relativamente a questa ipotesi, Lucrezio non specifica la forma della luna, in tutti gli altri passi in cui parla del satellite terrestre risulta chiaro che egli avesse in mente un corpo sferico o discoidale. Il libro v prosegue quindi con una trattazione del fenomeno delle eclissi, che rappresenta il passaggio più importante dal punto di vista della dottrina generale (v, 751-770 ). Per quanto riguarda l'eclisse di sole' 6 , Lucrezio avanza tre spiegazioni complementari: 1. l'eclissi è causata dali' interposizione della luna tra il sole e la terra. Questa ancora una volta è l'opinione degli astronomi: tuttavia, Lucrezio si domanda polemicamente perché sia necessario affidarsi ciecamente alla competenza tecnica degli specialisti, quando lo stesso fenomeno può essere spiegato con argomenti diversi e altrettanto plausibili (v, 753-757 ); 2.. l'eclissi è dovuta all'interposizione di un terzo corpo, non meglio identificato, fra terra e sole (e questo darebbe meglio conto della relativa irregolarità del fenomeno); 3· l'eclissi è causata da un temporaneo spegnimento del fuoco che, provenendo dal sole, illumina la terra. Sebbene il De rerum natura offra una ricostruzione dei fenomeni astronomici regressiva rispetto alle conoscenze scientifiche accumulate dagli scienziati greci, è comunque interessante notare come Lucrezio dimostri di essere informato delle principali correnti di pensiero che avevano animato il dibattito su questi temi anche dopo la morte di Epicuro. Certamente, come è stato sottolineato da numerosi filologi, quando si tratta di descrivere fenomeni cosmologici che sfuggono alla percezione sensibile, Lucrezio preferisce fare affidamento sui filosofi della natura presocratici. Questa scelta è l'effetto della polemica di Epicuro contro la scuola di Eudosso e l'uso artificioso di modelli e strumenti tesi alla rappresentazione del cosmo. Anche molti Presocratici avevano fatto ricorso a dei modelli dell'universo, ma il loro approccio, all'opposto di quello di Platone e dei suoi allievi, partiva dali' osservazione dei fenomeni naturali percepibili per risalire alle cause occulte dei movimenti degli astri. L'analogia del movimento degli astri con fenomeni od operazioni familiari e quotidiane, dunque, era il Leitmotiv che rendeva le fonti presocratiche più funzionali alla filo-

16. Con argomenti analoghi vengono spiegate da Lucrezio le eclissi di luna.

6. IL NUOVO ORDINE DELL'UNIVERSO

sofia epicurea rispetto ai trattati tecnici degli astronomi ellenistici. Non a caso, Lucrezio si preoccupa di informare il lettore che questa scelta non era l'effetto della sua ignoranza su questi temi: al contrario, sono molti i passi in cui il poeta riprende la terminologia tecnica della traduzione ciceroniana dei Fenomeni di Arato, attingendo così a quella tradizione scientifica astronomica con la quale si rapporta in modo critico nel corso di tutta l'opera (Giussani in Lucrezio, I896-98, vol. IV, pp. 77-8; Gee, 2.0I3). Il valore rivoluzionario della cosmologia lucreziana non va dunque cercato nelle disamine, spesso errate, dei fenomeni astronomici, o nelle spiegazioni fantasiose e immaginifiche delle eclissi, ma piuttosto nello sforzo di ricondurre tali fenomeni a una sola fisica e di fondere, all'interno di un unico metodo epistemologico, l'indagine sul mondo celeste e quella sul mondo sublunare. L'obiettivo di questa sintesi, ripresa solo in epoca moderna nelle opere di Galileo, Descartes e Newton, mirava a ricondurre le leggi dell'universo su un territorio dominabile dalla ragione umana.

6.3 Le nuove leggi del cosmo Critici nei confronti del rigido determinismo dell'atomismo democriteo e in costante polemica contro l'etica provvidenzialistica degli Stoici, gli Epicurei compresero fin dal principio l'insidia che si annidava nella definizione del concetto di legge naturale. Nella Lettera a Pitocle, dopo aver enucleato la dottrina delle spiegazioni molteplici, particolarmente adatta a spiegare i fenomeni astronomici e tutti i fenomeni naturali lontani dalla percezione sensibile, Epicuro aggiungeva: Non bisogna, infatti, studiare la natura secondo assiomi vuoti e leggi arbitrarie, ma secondo quanto esigono i fenomeni (Epicur. epist. ad Pyth. 86).

La conoscenza degli astri, secondo Epicuro, non poteva passare dalla loro artificiosa matematizzazione, dietro cui egli intravedeva il superstizioso perdurare delle credenze mitologiche, ma doveva avvenire solo attraverso spiegazioni in sintonia con i fenomeni e le nostre percezioni. Le opinioni qualitative di Epicuro sulle dimensioni e sui moti degli astri furono oggetto di critiche serrate da parte degli Stoici e, anche se ne abbiamo notizia solo attraverso alcune allusioni contenute nei frammenti di Posidonio, il pungente sarcasmo di Cicerone e le non meno sprezzanti critiche di Cleomede, è chiaro che il tema delle leggi naI99

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

rurali e della loro funzione nella spiegazione dei fenomeni celesti costituiva uno dei nodi principali della controversia tra Stoici ed Epicurei (cfr. Beretta, 2.012.). Quando compose il De rerum natura, Lucrezio aveva ben presenti le obiezioni che gli Stoici avevano mosso all'epicureismo (cfr. Gee, 2.013, in part. capitoli 7 e 8). Se, da un lato, non sappiamo nulla a proposito di una sua eventuale conoscenza dell'opera di Posidonio, suo contemporaneo, dall'altro non mi sembra possibile che Lucrezio non conoscesse a fondo gli argomenti polemici di Cicerone, al quale si era certamente ispirato riprendendo alcuni versi della traduzione dei Fenomeni di Arato: di certo, dunque, egli non poteva ignorare le opinioni che avevano ispirato l 'Arpinate in una delle più feroci e sistematiche campagne di discredito mosse contro la setta epicurea. Al centro della polemica, come è noto, vi erano due visioni dell'universo diametralmente opposte: per gli Accademici e per gli Stoici il cosmo era retto dalla provvidenza divina, mentre per gli Epicurei esso era governato dal movimento spontaneo degli atomi. Per i primi Dio era il garante dell'armonia dell'universo, laddove per i secondi la struttura atomica della natura era la prova dell'assenza degli dèi nei destini del cosmo e la principale ragione per liberarsi dai timori causati dalle credenze religiose. All'inizio del v libro del De rerum natura, dopo aver ricordato i meriti quasi divini delle scoperte di Epicuro, Lucrezio precisa il contenuto del libro nel modo seguente: Le sue orme io calcando, mentre seguo i suoi ragionamenti e insegno con le mie parole in forza di quali principi (quo foedere) tutte le cose siano state create, come debbano in essi restar salde e non possano infrangere le ineluttabili leggi (leges) del tempo... ' 7•

In questo interessantissimo passo, Lucrezio usa il concetto dijòedus per designare il principio regolatore delle cose e quello di leges per designare i limiti, segnati dall'inesorabile passaggio del tempo, che non si possono valicare. L'uso del terminejòedus (e del nessoJòedera naturai, di cui parleremo più diffusamente in seguiro) è abbastanza inconsueto' 8, visto che il suo etimo, piuttosto che 17. Lucr. v, ss-s8: «Cuius ego ingressus vestigia dum rationes l persequor ac doceo dictis, quo quaeque creata l foedere sint, in eo quam sit durare necessum l nec validas valeant aevi rescindere leges, l etc.». 18. Cfr. Pigeaud (1981, pp. 148-9). Un'interpretazione originale, ma che giunge a esiti completamente diversi da quelli qui proposti, è quella di Asmis (2.0o8). La Asmis, sviluppando criticamente una tesi sostenuta da Davi d Sedley, sostiene che l'uso difoedus da parte di Lucrezio discende dall'intenzione di rendere la filosofia della natura di Epicuro ancor più dipendente dall'etica di quanto non avvenisse nella dottrina originale. 2.00

6. IL NUOVO ORDINE DELL'UNIVERSO

designare una legge imposta dall'alto, indica un vincolo che nasce dalla natura stessa delle cose, ponendo le loro relazioni e i loro rapporti causali in una successione che le rende contemporaneamente tutte cause ed effetti di un processo il cui svolgimento viene scandito dal tempo. In effetti, la natura di Lucrezio è segnata dalla presenza e dall'azione plasmatrice del tempo, dal costante cambiamento che non può essere controllato né tantomeno rispondere a una volontà divina. Eppure, e Lucrezio ne era ben consapevole, non era possibile sostituire l'ordine cosmologico degli Stoici con l'anarchia del caso, senza con questo rischiare di far soccombere l'universo nel caos e spalancare così le porte alla scepsi. In coerenza con quanto sostenuto in precedenza, Lucrezio risponde a questa potenziale obiezione poco oltre i versi appena citati: Inoltre il corso del sole e i movimenti della luna spiegherò con qual forza diriga la natura che li governa; perché non ci avvenga di credere che liberi, spontaneamente, fra il cielo e la terra percorrano le loro orbite perenni, aiutando compiacenti la crescita delle biade e degli animali, né pensiamo che ruoti no per qualche disegno divino' 9 •

Dunque è la natura stessa, cioè il movimento degli atomi nel vuoto, a guidare nelle loro orbite gli astri, che non solo non rispondono a volontà divine e non influiscono in alcun modo sul destino del nostro mondo, ma, come tutto il resto, sono anche destinati a perirew. Quello che è importante sottolineare ancora una volta è come il mondo per Lucrezio sia governato dalla natura, che altro non è se non un foedus tra le parti (gli atomi), che concorrono, attraverso un perenne movimento ali' aggregazione e dissoluzione dei corpi, alla nascita e alla morte, al costante e infinito cambiamento dell'universo. Dal punto di vista giuridico, ilfoedus è un legame che nasce e diviene vincolante solo in seguito a una 19. Lucr. v, 76-81: «Praererea solis cursus lunaeque mearus l expediam qua vi flectat natura gubernans; l ne forte haec imer caelum rerramque reamur l libera sponre sua cursus lustrare perennis l morigera ad fruges augendas acque animanris, l neve aliqua divum volvi ratione putemus». lo. Non sorprende dunque che, presagendo l'orrendo schianto a cui andrà incontro il mondo al suo termine, al v. 107 Lucrezio sostituisca il governo della natura con quello della fortuna. Secondo Munro (in Lucrezio, 1866, vol. II, p. S7S) fortuna e natura sarebbero sinonimi, mentre Bailey (Lucrezio, 1947. vol. 111, p. l Hl) contesta questa equazione, ipotizzando che Lucrezio usasse le due immagini in contesti distinti, l'uno per sottolineare gli aspetti necessari e deterministici della causalità, l'altro per mettere in evidenza le eccezioni a questa cornice. Un utile approfondimento sul significato da attribuire a queste immagini e alloro legame con ifoedera naturai si trova nel commento di Leonard e Smirh: Lucrezio (194l, pp. 2o8 e 6s2). 2.0I

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

libera scelta, mentre la legge è per definizione prescrittiva e trascende gli individui a cui impone le proprie regole". È su questa differenza fondamentale che si dipanano i contrasti tra la fisica epicurea e quella stoica. Tuttavia, per una filosofia della natura che aveva come obiettivo primario quello di proporsi come fondamento antologico dell'etica, questo quadro non era ancora sufficientemente tranquillizzante: per questo occorreva individuare un ordine, naturalmente immanente alla natura delle cose, capace di rivelarne il senso recondito e soprattutto la catena causale. Lucrezio, se da un lato rifiutava sia il determinismo troppo rigido di Democrito sia quello provvidenzialistico degli Stoici, dall'altro non poteva accettare che nella scienza della natura da lui proposta i legami tra le cose potessero essere del tutto casuali. Nel I libro del De rerum natura, al fine di dare conto della varietà non infinita delle specie viventi, a fronte del numero infinito di atomi presenti nell'universo, il poeta si esprime così: Infine, poiché è assegnato alle cose conforme alla specie un termine di crescita e di conservazione della vita, e da leggi di natura risulta sancito ciò che ognuna possa e ciò che non possa, e niente si muta, anzi tutte le cose sono così stabili, che i vari uccelli nel succedersi delle generazioni mostrano tutti sul corpo le screziature della loro specie, devono anche- è certo- avere un corpo di materia immutabile».

Si tratta di un passo delicato, perché viene solitamente interpretato come la dimostrazione della fede fissista di Lucrezio (cfr. anche v, 923-924). Come abbiamo avuto già modo di mettere in evidenza, il concetto di legge naturale così come interpretato da Aristotele e sviluppato dagli Stoici - presupponeva una rigidità pressoché assoluta dei rapporti causali tra i fenomeni naturali. In Lucrezio invece, come abbiamo visto, la fortuna e il fato che governano la natura non impongono una legge, ma piuttosto ne sono esse stesse l'effetto. Nel caso specifico del passo appena citato, mi sembra che il poeta voglia chiarire come gli atomi, avvicendandosi nei loro moti aggregativi, non formino degli

li. Sul contesto giuridico della nozione di "legge di natura" in Lucrezio, si veda il saggio di Schiesaro (loo7a). Sul concetto di legge naturale in Lucrezio, c&. Long (1977), Droz-Vincent (1996), Asmis (l0o8). ll. Lucr. r, s84-S9l: «Denique iam quoniam generarim reddira fìnis l crescendi rebus constar vitamque tenendi, l et quid quaeque queanr per foedera naturai, l quid porro nequeant, sancitum quandoquidem extat, l nec commutatur quicquam, quin omnia constane l usque adeo, variae volucres ut in ordine cuncrae l ostendanr maculas generalis corpore inesse l inmurabilis mareriae quoque corpus habere l debenr nimirum».

202

6. IL NUOVO ORDINE DELL'UNIVERSO

organismi a caso, ma assicurino la successione e la regolarità della genealogia delle specie viventi. In sintesi, Lucrezio sta dunque spiegando il meccanismo della trasmissione dei geni di una stessa specie. Che tale trasmissione possa però subire, in un lungo periodo di tempo, piccoli ma significativi cambiamenti, il poeta lo dichiara senza mezzi termini nel v libro, allorché, illustrando l'evoluzione della specie umana, mette in risalto le differenze biologiche tra l'uomo primitivo, che presenta una corporatura più robusta, e l'uomo civilizzato. Ancora, sempre nel libro v, egli rileva come la natura stessa, operando l'innesto di diverse specie vegetali da cui si generano ibridi, giustifichi l'emulazione, altrettanto naturale, che gli uomini hanno praticato attraverso lo sviluppo dell'agricoltura. L'innesto naturale non è infatti altro che la creazione di nuove specie naturali (cfr. CAP. 7 e Beretta, 2.oo8a). Lungi dal considerare Lucrezio come un precursore dell'evoluzionismo, il mio scetticismo a proposito del suo preteso rigido fissismo riguarda proprio il concetto di legge naturale, di quella regolarità interna alle cose che egli rifiutando che essa possa venire imposta come un'autorità metafisica- considera come un vincolo fisico immanente al movimento degli atomi. Gli atomi, come apprendiamo nel II libro, certamente si muovono in linea retta, ma, in un momento indeterminato del tempo e in un punto indeterminato dello spazio, deviano di una parte minima, dando luogo al libero arbitrio e soprattutto alla formazione delle cose. Mi pare difficile conciliare la rigidità delle leggi naturali, così come esse venivano intese da Aristotele e dagli Stoici, con il principio, assolutamente fondamentale, della deviazione spontanea del moto atomico. Ovviamente Lucrezio si muoveva su un terreno scivoloso, in costante tensione tra la necessità di spiegare in modo causale la realtà fenomenica e l' esplorazione di un universo improvvisamente spalancato su un infinito pieno di incognite, la cui struttura informe e complessa rendeva necessario proiettare sull'investigazione della natura un ruolo e una responsabilità senza precedenti. Questa tensione viene esplicitata con grande chiarezza subito dopo l'enunciazione del moto atomico inclinato: Infine, se ogni moto è sempre legato con altri e dall'antico moto nasce il nuovo secondo un ordine certo, né col declinare i principi creano un inizio di movimento che spezzi i decreti del fato, sì che da tempo infinito causa non segua a causa, donde ha origine sulla terra per i viventi questa libera volontà, donde viene, dico, questa volontà avulsa dai fati per cui procediamo ciascuno dove il piacere ci guida e, come i principi, deviamo 2.03

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

nel muoverei non in un attimo certo né in un punto certo dello spazio, ma solo quando lo comporta la mente ?l l

La risposta ovviamente risiede nel moto degli atomi. Anche se sembra impossibile rompere ifoederafoti> 4 che legano la catena della causalità naturale, i moti atomici possono spiegare quel fenomeno decisamente avulso dal fato che è costituito dalla volontà e dalla possibilità di scegliere le proprie azioni in modo spontaneo e imprevedibile. Per non rompere una catena causale immanente ai fenomeni ricorrendo a spiegazioni metafisiche, diventa necessario per Lucrezio includere in tale catena un certo grado di imprevedibilità, che sia capace di dare conto di tutti quegli eventi che il rigido determinismo del!' atomismo democriteo non poteva spiegare se non attraverso la loro espulsione dal mondo dell'indagine scientifica. In questo senso il terminefoedus, come hanno sottolineato diversi interpreti (Fowler, 2002, p. 377 ), va considerato come un sinonimo sia del legame che regola le aggregazioni atomichel 1, sia- più in generale- di quell'insieme di effetti naturali la cui regolarità segue un ordine certo. In entrambi i casi la causalità è immanente ai fenomeni naturali, così come prescritto da Epicuro nella Lettera a Pitocle. Nell'universo di Lucrezio, dunque, necessità e contingenza sembrano coesistere, ed è anzi grazie alloro interagire che diviene possibile concepire interamente ex novo il cosmo tradizionalel6 , liberandolo da quell'ordine costrittivo impostogli dalla creazione divina. Come all'universo epicureo manca l'atto della creazione, così alle leggi che ne regolano l'evoluzione manca il legislatore. Lo svolgersi dei foedera naturai non è tanto da ricercarsi nella manifestazione della provvidenza divina e di qualche altro potere sovrannaturale, ma in un processo interno di concause. Questo processo sembra contravvenire al dogma della ricerca naturalistica, 23. Lucr. II, 251-260: «Denique si semper motus conectitur omnis l et vetere exoritur novus ordine certo l nec declinando faciunt primordia morus l principium quoddam quod fati foedera rumpat, l ex infinito ne causam causa sequatur, l libera per terras unde haec animanti bus exstat, l un de est haec, inquam, fatis avulsa voluntas l per quam progredimur quo ducit quemque voluptas, l declinamus item motus nec tempore certo l nec regione loci certa, sed ubi ipsa rulit mens?>>. 24. Su questo si veda in particolare Fowler (2002, pp. 342-3 e 377-81). 25. Questo significato appare evidente in VI, 906-909, dove, a proposito delle proprietà della calamita Lucrezio scrive: «Quod superest, agere incipiam quo foedere fìat l naturae,lapis hic ut ferrum ducere possit, l quem Magneta vocant patrio de nomine Grai, l Magnetum quia fìt patriis in fìnibus ortus >>. 26. Sul rapporto tra necessità e contingenza nella leggi naturali, sono ancora fondamentali le pagine del filosofo Emile Boutroux (1893; 1908). 2.04

6. IL NUOVO

ORDINE DELL'UNIVERSO

già presente nei Greci, secondo il quale la scienza si acquisisce solo superando la fallacia dei sensi e, grazie all'astrazione da essi, la ragione può giungere a una conoscenza certa. Questo è in effetti il punto di partenza di Democrito, che contrappone la conoscenza vera a quella convenzionale che scaturisce dai sensi. La confutazione di questo principio è per contro il cardine intorno al quale ruota tutta la fisica epicurea: i sensi non sono fallaci, perché rientrano nel processo causale della natura e partecipano dei patti che li legano, come tutto il resto, al sostrato atomico. Fallaci sono invece i giudizi che, allontanandoci dalla natura, vengono costruiti in modo artificioso e, come avviene per le leggi, disegnano un universo immaginario. Prima di concludere l'esposizione del punto di vista di Lucrezio sul concetto di legge naturale, non appare superfluo insistere ancora sulla dottrina delle spiegazioni molteplici, che a molti interpreti è apparsa come una manifesta debolezza della filosofia naturale epicurea1 7. Secondo Lucrezio i fenomeni astronomici e, in qualche misura, anche quelli meteorologici, quelli cioè che sono più lontani dai nostri sensi, possono avere più di una causa plausibile. Per la scienza naturale antica questo approccio costituiva una vera e propria eresia poiché, dai Presocratici ad Aristotele, la missione principale della filosofia naturale era quella, riduzionistica, di risalire a pochi principi da cui far discendere tutti i fenomeni. Certamente, anche in Epicuro e in Lucrezio ci sono i principi, ossia gli atomi che si muovono nel vuoto, ma- come si è visto -le loro combinazioni rendono i fenomeni naturali estremamente complessi e l'interesse del naturalista, concentrandosi sulle infinite combinazioni di concilia, delinea una nuova corrispondenza tra le cause nascoste dei fenomeni e la ricchezza del mondo percepito dai sensi, conferendo così all'osservazione empirica un ruolo gnoseologico privilegiato. L'universo, perdendo la sua natura sferica, si apre allo spazio infinito; i mondi, anch'essi infiniti, muoiono e rinascono; l'uomo, soggetto a evoluzione, è destinato a estinguersi e, laddove si verifichino le condizioni iniziali che si presentarono sulla terra al momento della sua comparsa, a rinascere. Tutto è soggetto a un costante avvicendamento di aggregazioni e dissoluzioni che, proprio per la complessità implicita nell'organizzazione dell'universo, non può essere ridotto alle leggi universali, ma solo compreso entro quelle, più reali, che legano i fenomeni stessi. In questo quadro è perfettamente logico che, allontanandoci da ciò che osserviamo, le ragioni di molti fenomeni possano avere più di una causa.

2.7. Su questo tema cfr. Hardie (2.oo8). 205

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

6.4 Le leggi scientifiche Le ambiguità emerse nel mondo antico nel rapporto tra legge e natura si riverberarono, senza particolari cesure e discontinuità, anche nella tradizione scientifica moderna, dentro la quale, dopo la riscoperta rinascimentale dei classici, si riaprì la controversia sul significato da attribuire alle leggi naturali nei termini delineati da Lucrezio. Il conflitto tra legge descrittiva e legge prescrittiva che si era aperto tra Epicurei e Stoici in età ellenistica riprese vigore nel Seicento, quando gli scienziati, persuasi delle potenzialità illimitate della scienza naturale, incominciarono a mettere in discussione il dogma di un universo governato da Dio secondo leggi gerarchicamente definite. Il cosmo immaginato da Descartes, al contrario, era come un orologio meccanico, a cui certamente Dio aveva dato l'avvio, ma il cui funzionamento era esclusivamente vincolato alle leggi del moto che inerivano all'estensione della materia presente nell'universo. Leggi che, come quelle di Keplero e di Newton, raggruppavano in un unico enunciato un numero esteso di fenomeni, rendendo così evidente il ruolo di legislatore che lo scienziato stava avocando alle proprie prerogative. Il recupero della tradizione antica, con un'esplicita preferenza per quella epicurea, era tuttavia guidato da una visione pragmatica della funzione delle leggi scientifiche, tanto che già a partire dal Settecento il termine "legge" veniva spesso sostituito con quello, meno ambiguo, di principio. E fu probabilmente questo pragmatismo che, col tempo, contribuì a cancellare le tracce del conflitto di cui ho brevemente ricostruito i lineamenti principali. Per ognuno di noi è ovvio infatti che quando enunciamo la legge di Newton non ci esponiamo più a formulare un giudizio sulla struttura e sull'organizzazione generale dell'universo, ma ci limitiamo a rievocare con una formula sintetica i rapporti quantitativi che intercorrono tra due masse di materia poste a una distanza data. Come il percorso teorico che ha condotto alla loro formulazione, queste leggi scientifiche sono il frutto di una filosofia della scienza che si è definitivamente liberata dal dogmatismo prescrittivo delle verità universali ed eterne. Anche la scienza, come tutte le altre manifestazioni della creatività umana, è divenuta consapevole della fecondità del proprio convenzionalismo. Così la costante tensione tra verità e convenzione, tra natura e legge, che Democrito aveva cercato di risolvere privilegiando il rigore deduttivo della verità, costituisce ancora la base della ricerca scientifica moderna.

2.06

7

Evoluzione e progresso

A più riprese, durante il secolo scorso, gli storici e i filologi hanno sostenuto pur con grande prudenza - la tesi secondo cui alcuni filosofi greci avrebbero avuto coscienza del progresso storico delle conoscenze, indicando in questa consapevolezza uno degli aspetti della loro superiorità nei confronti dei pensatori romani. Tale giudizio di valori riposa in effetti sulla convinzione, intorno alla quale si è registrata un'insolita concordanza di opinioni, che la cultura latina sia stata caratterizzata da una congenita resistenza al nuovo. Questa tendenza reazionaria è stata sottolineata nel 1939 da Ronald Syme, in un passo che, con il passare del tempo, ha conquistato un'autorevolezza priva di scalfiture: I Romani, presi come popolo, erano dominati da una particolare venerazione per l' autorità, i precedenti, la tradizione, e insieme da una radicata avversione per ogni mutamento, a meno che il mutamento non potesse dimostrarsi in armonia col costume avito, col mos maiorum. Mancando ancora una qualsiasi fede nel progresso, che non era ancora stata inventata, i Romani guardavano alla novità con sfiducia e avversione. La parola novus suonava male (Syme, 1961, p. 317 ).

Pur offrendo un quadro molto più sfumato e ricco di suggestioni, Elisa Romano ha recentemente confermato «che a Roma il concetto, l'idea stessa di novità fosse male accettata» (Romano, 2005, p. 20) e che la sollecitazione a prendere atto della necessità dei cambiamenti si verificò solo in momenti di profonda trasformazione politica, come ad esempio il traumatico passaggio dalla Repubblica all'Impero, vissuto alla stregua di una vera e propria crisi di identità culturale. Significativamente, la Romano individua in Lucrezio l'unica eccezione alla tendenza di fondo, consistente nel guardare alle res novae come a delle insidie alla tradizione e all'ordine costituito. In effetti, tra tutti gli autori antichi che hanno lasciato traccia concreta di una filosofia della storia guidata dall'idea di un'evoluzione progressiva degli evenri, Lucrezio è certamente il più esplicito, sia per i numerosi riferimenti in questo senso contenuti nel De rerum natura, sia soprattutto per l'uso di termi107

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

ni che inequivocabilmente esprimono il concetto di progresso storico. Ciò nonostante, è una questione ancora aspramente dibattuta se Lucrezio abbia effettivamente sostenuto con convinzione l'idea che la storia umana sia un' evoluzione progressiva di eventi: considerando l'ampiezza della letteratura che si è sueceduta su questo tema negli ultimi sessant'anni', non può certo essere questa la sede per riassumere - anche solo a grandi linee - le ricchissime sfumature presenti in questi studi, nei quali una lettura di tipo ideologico si è spesso sovrapposta ali' interpretazione contestuale del poema. Per comprendere appieno la posizione di Lucrezio a proposito del progresso, non è possibile prescindere da un'attenta lettura di tutto il libro v, evitando di concentrare l'attenzione unicamente - come di norma viene fatto - sui versi conclusivi. Occorre inoltre tenere conto del significato che questo libro riveste ali' interno dell'intera architettura del poema e del suo disegno filosofico generale. Solo così, io credo, è possibile superare alcune interpretazioni erronee, eppure ricorrenti presso gli studiosi: come quella relativa alla profezia- annunciata a Memmio all'inizio del libro (v, 95-96 e 104-106)- di un imminente crollo della macchina del mondo causato da un terremoto di immane forza distruttiva, che è stata indicata come una dimostrazione del pessimismo cosmico che pervaderebbe il poema; oppure quella concernente la rappresentazione della terra, descritta da Lucrezio «come una donna sfinita dalla vecchiezza» (v, 82.7 ), che ha spesso suscitato un'impressione di irreversibile decadenza, a causa del nostalgico richiamo a una fecondità idilliaca ormai irrimediabilmente perduta. E tuttavia la presenza di queste immagini, del resto ricorrenti anche in altri passi del De rerum natura, non solo non sono incompatibili con l 'ottimismo di fondo della filosofia epicurea, ma ne costituiscono anzi una delle ragioni dottrinali più profonde. Infatti, l'emancipazione dalle paure e dai terrori della religione avviene solo nel momento in cui si dà una ragione scientifica, naturalistica e immanente della morte. L'alternarsi di vita e di morte, che Lucrezio ha descritto nei libri precedenti come l'effetto della combinazione e della dissoluzione degli atomi e dei concilia, rende necessario, a livello macroscopico, parlare della morte e della dissoluzione dei mondi, e quindi anche della nostra terra, come inevitabili conseguenze di questa emancipazione filosofica. Vita e morte, evoluzione e dissoluzione si intrecciano l'una nell'altra in un connubio la cui dinamica è rivelata dalla loro struttura molecolare e il cui risultato finale, rap1. L'ultimo libro, in ordine di apparizione, con una bibliografia esaustiva sull'argomento è quello di Campbell (2.003). I contributi più imporrami tra quelli che sottolineano l'originalità della posizione di Lucrezio e la sua particolare idea di progresso sono: Nethercur (1967 ); Furley (1978).

2.08

7· EVOLUZIONE E PROGRESSO

presentato dalla solidità degli atomi che ne costituiscono l'essenza, è destinato a produrre sempre la medesima quantità di materia. In questo quadro di equilibrio dinamico, la morte o la prossimità della fine sono dei tipici eventa, delle qualità transitorie della materia che, come quelle della vita, sono necessariamente e perennemente destinate a cambiare. Il cambiamento dei fenomeni naturali infatti è spiegato da Lucrezio, e più in generale dalla filosofia atomistica, attraverso il perpetuo moto degli atomi. La possibilità di conoscere tali cambiamenti e di ancorarli a una concezione comprensiva e razionale della natura è stata assicurata, nei primi due libri del De rerum natura, dalla descrizione delle forme degli atomi, dei loro moti, dei loro pesi e della loro combinazioni. L'atomo dunque è il fondamento microscopico immanente alla materia, che rende conto di ciò che le altre filosofie della natura, in primis quella aristotelica, erano costrette a spiegare risalendo a un fondamento antologico, trascendente e immutabile. Nella dottrina epicurea l'atomo, anche se a livello individuale è immutabile ed eterno, sprigiona la sua essenza reale solo a contatto e in combinazione con altri atomi, esplicitandosi nel moto e nel peso che gli è specifico e generando così costanti e spesso imprevedibili variazioni. È a partire dalle aggregazioni molecolari che si delineano i caratteri del cosmo epicureo. Il v libro del De rerum natura è dedicato, come abbiamo visto, all'origine dell'universo e del mondo, ed è naturale che Lucrezio chiudesse questi temi volgendo la propria attenzione alla storia della civiltà. Storia della natura e storia della cultura convergono in un unico disegno, dove non c'è più spazio per il provvidenzialismo divino o la teleologia aristotelica e l'evoluzione del tempo è scandita dall'inesorabile processo di avvicendamento, dissoluzione e rigenerazione degli atomi. Consapevole dell'eccezionale novità di questo messaggio, Lucrezio richiama nel proemio (v, 1-17) la maestà e la potenza di ingegno che hanno reso possibili queste nuove e quasi divine scoperte (reperta), che, se accostate a quelle antiche come l'agricoltura e la viticoltura, segnano un progresso decisivo per la civiltà umana. Superando i risultati conseguiti nelle arti, che comunque Lucrezio assume come il termine di paragone da cui prendere le mosse, l'insegnamento di Epicuro aveva svelato la profonda ragione delle cose (sapientia), conducendo lo spirito umano dalle tenebre più profonde a un porto tranquillo rischiarato dalla luce. L'acquisizione della conoscenza, o per meglio dire della via per raggiungerla, era dunque una scoperta relativamente recente, che per Lucrezio segnava un cruciale momento di passaggio e di evoluzione culturale. Dopo aver dimostrato la caducità e la mortalità del mondo e la necessità della formazione di nuovi aggregati e di nuovi mondi, Lucrezio collega il destino dell'universo a quello 2.09

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

della storia umana, associando le sorti dell'uomo a quelle del cosmo e, contemporaneamente, rifiutando l'ideale classico della ciclicità della storia: Se non ci fu nascita né principio della terra e del cielo, e sempre esistettero eterni, perché di là dalla guerra tebana e dallo sterminio di Troia altri poeti non cantarono anche altre vicende? Dove mai disparvero tante imprese di eroi? Perché in nessun luogo fioriscono affidate ali' eterno ricordo della fama? Davvero, io credo, il mondo è nella prima giovinezza, e recente è la natura del cielo né ebbe origine in tempi lontani. Per questo anche oggi certe arti s'affannano e progrediscono (augescunt) ancora; solo ora sono stati aggiunti alle navi molti strumenti, da poco i musicisti hanno creato melodiosi accordi'. E questa filosofia della natura appena ieri è stata scoperta, e primo tra tutti ora sono io apparso capace di volgerla nella lingua dei padri 3•

La storia umana è dunque per Lucrezio un fenomeno caratterizzato dal progresso, tanto che la registrazione scritta degli eventi che l'hanno segnata e la conseguente nascita della memoria collettiva sono, a suo giudizio, acquisizioni relativamente recenti, non anteriori a Omero. Il mondo stesso, per quanto destinato alla dissoluzione, mostra ancora, nei progressi delle arti e della filosofia naturale epicurea appena scoperta, i segni di una vitalità in rapida evoluzione 4 • Diventa più chiaro qui il disegno del poeta e la consequenzialità dell'inizio apparentemente pessimistico del libro V: a fronte della vecchiezza e della sterilità della terra, l'uomo è stato costretto a sviluppare delle arti che favorissero, attraverso il lavoro e la tecnica, l'introduzione di nuovi mezzi di sostentamento. È da queste arti utili che sembra sorgere il bisogno di sviluppare nuove tecniche, come per esempio la musica, legate alla conoscenza. Lucrezio, che con orgoglio si presenta come il primo portavoce latino della 2.. Giussani, in Lucrezio (1896-98, vol. IV, p. 39), pensa che Lucrezio faccia riferimento, rra le altre, al!' invenzione dell'organo idraulico. 3· Lucr. v, 32·4-337= «Praeterea si nulla fuit genitalis origo l terrarum et cadi semperque aeterna fuere, l cur supera bellum Thebanum et funera Troiae l non alias alii quoque res cecinere poetae? l Quo tot facta virum totiens cecidere neque usquam l aeternis famae monimentis insita florent? l Verum, ut opinor, habet novitatem summa recensque l naturast mundi neque pridem exordia cepit. l Quare etiam quaedam nunc artes expoliuntur, l nunc etiam augescunt; nunc addita navigiis sunt l multa, modo organici melicos peperere sonores. l Denique natura haec rerum ratioque repertast l nuper, et han c primus cum primis ipse reperrus l n un c ego sum in parrias qui possim vertere voces ». 4· Lucrezio è piuttosro ambiguo relativamente alla prossimità di questo evento che, nell'ambito dell'atomismo, rientra nell'ordine delle cose necessarie. Nel libro n (vv. uso e ss.) egli descrive il mondo come ormai in declino e prossimo alla distruzione, e anche nel libro v (vv. 82.6-836) sottolinea la presente sterilità della terra rispetto a epoche precedenti, annunciando a Memmio l'imminente crollo della machina mundi (vv. 95-96). 210

7· EVOLUZIONE E PROGRESSO

FIGURA 7.1

Veritas filia temporis. Incisione francese del 1773 che illustra i versi di Lucrezio v, 1448-1457

·

us & l.mp.i&-:rro ..Gmul oxpcrr.it;mti:\ ))R\lb.ti:m docuit pcdetcnti..ot prop->. 9· Lucr. v, 92.3-92.4: «Et omnes 10.

213

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

frumento fosse causata dall'intervento artificiale dell'uomo attraverso la battitura dei chicchP'. Anche la preistoria e la storia dell'uomo offrono per Lucrezio una dimostrazione di questo trasformismo biologico. L'uomo primitivo, infatti, era stato munito dalla terra di una corporatura robusta, costrutta dentro l'ossa più grandi e più salde, con nervi robusti connessa attraverso le carni, non facile a esser domata dall'arsura e dal gelo, né da insolito cibo né da malore del corpo 1 l.

Proprio per le loro caratteristiche biologiche particolarmente adatte a resistere a condizioni difficili, gli uomini primitivi erano «simili a belve errabonde» (v, 932.) e vivevano, privi di qualsiasi tipo di ausilio tecnico, solo seguendo l'istinto, «fidando nel vigore prodigioso delle mani e dei piedi» (v, 966). Quando le forze venivano meno, simili a irsuti cinghiali, stendevano nude in terra le membra silvestri [ ... ] avvolgendosi intorno di foglie e di rami 14 •

La condizione di questi miseri uomini, alla mercé delle più disparate avversità, era resa sopportabile dalla mancanza di coscienza degli eventi e dali' ignoranza, che rendeva ancora impossibile immaginare una competizione con la forza dirompente della natura. Con la scoperta del fuoco, i corpi freddolosi non seppero più sopportare l'inverno a cielo scoperto 1s.

L'uomo fu capace di questa scoperta casualmente: o è stato il fulmine a far divampare le fiamme e mostrare la propagazione del calore attraverso la fiamma, o è stato lo sfregamento dei rami degli alberi. Il risultato non cambia: 12.. Thphr. hist. plant. II, 13, 3· È significativo osservare che anche Plinio (nat. xvn, 2.3-2.4), nel sottolineare l'importanza dell'innesto nella storia dell'agricoltura, ne rileva le origini naturali. 13· Lucr. v, 92.5-930: «Et genus humanum multo fuir illud in arvis l durius, ur decuir, rellus quod dura creasser, l et maioribus et solidis magis ossi bus inrus l fundarum, validis aprum per viscera nervis, l nec facile ex aestu nec frigore quod capererur l nec novi rare cibi nec labi corporis ulla ». 14. Lucr. v, 970-972.: «Saerigerisque pares subus silvesrria membra l nuda dabanr rerrae [ ... ], l circum se foliis ac frondibus involvenres ere.>>. 15. Lucr. v, IOIS-1016: «lgnis enim curavir, ur alsia corpora frigus l non ira iam possent caeli sub regmine ferre >>.

2.I4

7· EVOLUZIONE E PROGRESSO

L'una o l'altra di queste due cause può aver dato il fuoco ai mortali. Poi a cuocere il cibo e ammorbidirlo al calar della fiamma insegnò il sole' 6 •

L'appropriazione del fuoco comportò dunque un cambiamento progressivo nella morfologia biologica dell'uomo, il quale, perdendo la tempra originaria, non poteva più vivere- pena l'estinzione- come gli altri animali. Non è dunque la natura ad aver impresso all'uomo una particolare evoluzione, ma è stata la scoperta del fuoco, con la conseguente possibilità di riprodurlo artificialmente, che segnò secondo Lucrezio l'evoluzione biologica, ancora prima di quella culturale, dell'uomo. La debolezza della costituzione, ammorbidita dal calore del fuoco, spinse l'uomo primitivo a costruirsi capanne, a proteggere il corpo dalle intemperie con pelli di animali e a riconoscersi come un animale sociale. Allora i vicini presero anche a stringere amicizia fra loro, non volendo più nuocere né ricevere offesa, e raccomandarono al rispetto i fanciulli e le donne, a balbettii significando con la voce e col gesto ch'era giusto che tutti avessero pietà dei deboli. Non del tutto, è vero, si poteva raggiunger l'intesa, ma gran parte degli uomini osservavano pienamente gli accordi [lòedera]; o tutto il genere umano già allora sarebbe andato distrutto, né la genitura avrebbe protratto fino a oggi la discendenza' 7•

L'evoluzione sociale dunque divenne un presupposto per la sopravvivenza della specie, ma tale evoluzione diveniva effettivamente possibile solo se la necessità di regolare i rapporti di una comunità poteva essere espressa attraverso il linguaggio. In polemica contro Platone e tutti i fìlosofì che avevano sostenuto l'origine innata delle parole, Lucrezio (v, 1029) riprende in questo punto la teoria di Democrito (fr. m, 654 DK), secondo cui i nomi delle cose erano plasmati dali' utilitas, tanto che - analogamente a quanto accadeva negli altri animali l'uomo aveva elaborato un linguaggio capace, attraverso l'emissione di suoni, di assecondare i bisogni ed esprimere stati psicologici diversi (v, wso-1061). Il fuoco dunque aveva dato origine a un nucleo familiare che, riunendosi intorno al focolare, aveva indotto l'uomo alla necessità di una vita sociale regolata da una forma di comunicazione sempre più elaborata. A seguito di que-

16. Lucr. v, I!OI-1103: «Quorum utrumque dedisse potest mortalibus ignem. l lnde cibum quoquere ac flammae mollire vapore/ sol docuit etc.>>. 17. Lucr. v, 1019-102.7: «Tun c et amicitiem coeperunt iungere avemes l finitimi imer se nec laedere nec violari, l et pueros commendarunt muliebreque saeclum, l voci bus et gestu cum balbe signifìcarent l imbecillorum esse aequum misererier omnis. l Nec tamen omnimodis poterat concordia gigni, l sed bona magnaque pars servabat foedera caste; l aut genus humanum iam tum foret omne peremptum l nec potuisset adhuc perducere saecla propago>>.

215

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

sto primo e cruciale passo, l'evoluzione dell'uomo si trasforma in storia della civiltà: E più di giorno in giorno, quelli che eccellevano per ingegno e per vigore d'animo, insegnavano loro a trasformare il vitto e la vita di prima con nuovi strumenti e col fuoco. I re cominciarono a fondare città e innalzare fortezze, per servirsene essi stessi come difesa e rifugio, e divisero il bestiame e i campi, e li assegnarono a ciascuno secondo la bellezza, la forza e l'ingegno' 8•

Sembra dunque che Lucrezio attribuisse una funzione di particolare rilievo all'ingegno, che consentì ai primi uomini civilizzati di estendere le applicazioni del fuoco e di realizzare nuove scoperte che, in virtù della loro utilità sociale, li investiva del comando delle comunità. Le scoperte tuttavia non erano tutte egualmente positive: ricorrendo a un motivo classico della letteratura filosofica del tempo, Lucrezio individua nella scoperta dell'oro l'origine dell'avidità umana e la conseguente corsa, mossa dall'invidia invece che dall'ingegno, ad allargare i propri poteri e, con la guerra, i propri confini. E tuttavia anche la guerra, eco dell'origine ferina dell'uomo, era stata addomesticata con l'introduzione della legge, grazie alla quale il genere umano, stanco di vivere con la violenza,[ ... ] si piegò volentieri alle leggi e alla giustizia inflessibile'9.

Le leggi, come il linguaggio e le altre scoperte, nacquero dunque dal bisogno e da circostanze contingenti. A questo punto Lucrezio illustra l'origine delle religioni, che allo stesso modo viene ricondotta alle condizioni primitive dell'uomo. Secondo l'interpretazione proposta dal poeta, infatti, la ricorrente presenza dei simulacri divini nei sogni e nell'immaginazione aveva convinto gli uomini dell'es_istenza degli dèi, inducendoli ad attribuire loro l'origine del mondo e di tutti quei fenomeni naturali che, come i fulmini, si presentavano con regolarità, incutendo timore e paura. Si trattava dunque di una proiezione causata da un difetto di discernimento (v, I2II), che poteva essere superata solo attraverso

18. Lucr. v, IIOS-IIIl: «lnque dies magis hi victum vitamque priorem l commutare novis monstrabant rebus et igni l ingenio qui praestabant et corde vigebant. l Condere coeperunt urbis arcemque locare l praesidium reges ipsi si bi perfugiumque, l et pecus atque agros divisere atque dedere l pro facie cuiusque et viribus ingenioque; l nam facies multum valuit viresque vigebant >>. 19. Lucr. v, 114S-1147: «Nam genus humanum, defessum vi colere aevum, l[ ... ] sponte sua cecidi t sub leges artaque iura >>.

2.I6

7· EVOLUZIONE E PROGRESSO

una nuova filosofia della natura, quella epicurea, del tutto scevra da pregiudizi e attenta a riconoscere l'intrinseca complessità e casualità del cosmo. Come ha acutamente osservato John Masso n, la critica che Lucrezio muove alla religione è funzionale alla necessità di un cosmo in costante evoluzionew. Se, infatti, si negavano la creazione divina del cosmo, il suo ordine teleologico e la sua struttura eterna, era giocoforza necessario riconoscervi una costante evoluzione e, nell'ambito della storia umana, un progresso permanente. E tuttavia, come si è già accennato, tale progresso non poteva automaticamente considerarsi come un vettore di valori positivi, poiché in molti casi l'uomo - e Lucrezio ne offre una spietata disamina, quando parla dei progressi della metallurgia- non aveva usufruito delle scoperte realizzate per allargare gli orizzonti della conoscenza, ma si era lasciato abbagliare dalla cupidigia e dall'invidia, ricorrendo alla violenza che ne costituiva l'effetto naturale. L'utilità, che per Lucrezio costituisce il principale motore del progresso, era ugualmente influente sia per le scoperte che conducevano al vizio, sia per quelle che favorivano la crescita della conoscenza e della felicità. Tuttavia, le modalità di accumulazione della conoscenza erano completamente differenti. Nella sfera del mondo materiale, ormai lontano dai bisogni primari che avevano accompagnato i primi uomini nelle loro conquiste tecniche, gli oggetti venivano sostituiti a seconda del capriccio e il progresso diveniva così più illusorio che reale. Scrive Lucrezio al proposito: 111 etafisici

Quel che è in nostro possesso, se prima non abbiamo conosciuto niente di più gradevole, sopra ogni cosa ci piace e sembra prezioso, ma per lo più una scoperta successiva c migliore lo distrugge, e muta il nostro sentire riguardo a ogni cosa ch'è stata. Così vennero in odio le ghiande, così vennero abbandonati quei giacigli sparsi d'erba e coperti di fronde. Così anche sprezzata la veste di pelle ferina [... ]. Così il genere umano si travaglia senza alcun frutto e invano sempre, e tra inutili affanni, consuma la vita, certo perché non conosce un limite al possesso .. !'.

Queste scoperte si succedevano senza lasciare traccia del loro passato e della

2.0. «Bur where religion is ignored, any rheory of rhe world must be based on a belief in Evolurion, in a slow progress upward from a primitive chaos>> (cfr. Masson, 1909, p. 12.0 ). 2.1. Lucr. v, 1412.-1433: «Nam quod adest praesto, nisi quid cognovimus ante l suavius, in primis piacer et pollere viderur, l posreriorque fere melior res illa reperta l perdit et immurar scnsus ad pristina quaeque. l Si c odium coepit glandis, sic illa relicta l strata cubilia sunt herbis et frondibus aucra. l Pellis item cecidit vestis comempta ferina. [... ] Ergo hominum genus in cassum frustraque laborat l semper et curis consumi t inani bus aevum, l nimirum quia non cognovit quae sit habendi l fìnis etc.>>.

2.17

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

loro ragione profonda, vale a dire - come Lucrezio dice chiaramente all'inizio della sua ricostruzione - l'ingegno. Diversamente da quanto si è spesso pensato leggendo questo passo, Lucrezio non critica le tecniche e il progresso tecnologico in quanto tali, ma denuncia piuttosto con tono sferzante l'assenza di un fondamento teorico che ne regoli le applicazioni e le ragioni filosofiche e morali. Una volta raggiunto un certo stadio di sviluppo, il bisogno da solo non è più sufficiente ad assicurare all'uomo il progresso reale della conoscenza e della civiltà. Per superare questa crisi e rimettere in collegamento diretto la vera natura dell'uomo con i suoi bisogni reali e necessari, Lucrezio invoca il potere rivoluzionario della nuova filosofia. La filosofia emancipatrice di Epicuro, infatti, non è una filosofia morale, ma un'etica fondata sulla corretta conoscenza della natura, che è in costante e necessaria evoluzione e quindi aperta a esiti spontanei e imprevedibili: negare legittimità al progresso della storia umana sarebbe dunque in contraddizione con il sistema del maestro. Ma perché tale progresso abbia una connotazione positiva, occorre averne coscienza e apprezzarne non solo l'origine utilitaristica, ma anche e soprattutto la sua valenza culturale. È entro questa cornice di giustificato ottimismo che Lucrezio chiude il libro v: Navi e colture dei campi, mura, leggi, armi, vie, vesti, e ogni invenzione di tale genere, e anche tutti i premi e le delizie della vita, canti, pitture, statue rifinite con arte, li insegnò a poco a poco il bisogno (usus) e insieme il travaglio della mente (experientia mentis) operosa che muove un passo dopo l'altro. Così a mano a mano il tempo manifesta ogni cosa e il ragionamento la sospinge verso le spiagge della luce. Infatti nel loro cuore vedevano una cosa trar luce dall'altra, finché con le arti giunsero al vertice estremon.

Il bisogno, che rappresenta la traccia ineludibile della nostra origine primitiva, viene guidato ora dalla experientia mentis, una qualità che si è delineata nel momento in cui l'uomo ha conquistato la propria storia, diventandone il consapevole protagonista. In questa autocoscienza, insieme biologica e filosofica, le scoperte realizzate nelle arti e nelle tecniche hanno fissato i lumi da cui trarre le indicazioni per progredire in un cammino che, indipendentemente dall' inevitabile fine del tutto, costituisce la base dell'emancipazione umana. 2.2.. Lucr. v, 1448-1457: «Navigia acque agri culruras moenia leges l arma vias vesris cerera de genere horum, l praemia, delicias quoque virae fundirus omnis, l carmina, picruras er daedala signa polira l usus et impigrae simul experienria menris l paularim docuir pederemprim progredienris. l Sicunum quicquid paularim prorrahir aeras l in medium ratioque in luminis erigi t oras; l namque alid ex alio clarescere corde videbanr, l arri bus ad summum donec venere cacumen>>.

li8

8

Scienziati editori del De rerum natura

8.I

Dal Medioevo al Rinascimento fiorentino Come abbiamo avuto modo di vedere, il De rerum natura godette in età imperiale di una notevole fortuna e, nonostante gli attacchi dei primi Padri della Chiesa, l'ammirazione per l'estro poetico di Lucrezio assicurò al poema un destino più fortunato rispetto a quello che toccò alle opere di Epicuro e degli altri suoi seguaci'. Se i rari riferimenti durante il periodo tardoantico lasciano credere che il poema fosse progressivamente caduto nell'oblio, già a partire dalla fine del VI secolo si assiste a un nuovo periodo di circoscritto interesse, che trova espressione ad esempio nelle opere di Isidoro di Siviglia e di Beda il Venerabile>. Questi timidi segnali di risveglio 3 culminarono, nel IX secolo, con la realizzazione di alcune copie del poema che si sono conservate fino ai nostri giorni: tra di esse, i due codici più importanti sono i cosiddetti Oblongus e Quadratus, così chia-

1. Butterfìeld (2013) e Gatzemeier (2.013). 2.. lsidoro pubblicò un'opera dal titolo De natura rerum e, nelle Etymologiae (xm, 2.), dedicò un resoconto all'atomismo tratto da Lucrezio, tra l'altro citato in più occasioni. Anche Beda scrisse un'opera intitolata De natura rerum, nella quale è dato cogliere qualche eco lucreziana nei capitoli dedicati ai terremoti e all'incendio dell'Etna. Echi di Lucrezio, pur indiretti, 'Ono stati individuati anche nel!' opera De rerum naturis (nota anche con il titolo di De universo) di Rabano Mauro. 3· È per vari aspetti superata l'idea che Lucrezio fosse noto solo frammentariamente agli amori tardoantichi e medievali. Oltre a imitatori attenti come Lattanzio e Arnobio, vi furono alcuni lettori del poema anche in epoca carolingia, il periodo a cui risalgono i codici più antichi: oltre ai contributi di Gatzmeier (2013) e Butterfìeld (2013), cfr. Fleischmann (1971), Reynolds, Wi!son (1974, pp. 89-91), Jones (1992.), Solaro (2000, pp. 9S-I2.2.). In un recente contributo, Reeve (2.007, pp. 20s-13) sostiene che, a partire dal x secolo fìno alla sua riscoperta nel1417, il poema lucreziano sia rimasto sconosciuto nella sua interezza. Per la diffusione del De rerum 11 •1lura, si veda Hadzsits (193s) e Piazzi (2009). 219

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

m ati per la loro forma, entrambi conservati presso la Biblioteca Universitaria di Leida4. Il più antico dei due manoscritti, l' Oblongus, fu copiato presso la scuola palatina di Carlo Magno intorno ai primi anni dell'Ottocento. Accanto a questi due manoscritti, a cui tutti i Hlologi e i codicologi fanno riferimento per la ricostituzione del testo, si segnalano per la loro importanza altri due codici, che contengono dei frammenti del De rerum natura: si tratta delle Schedae Gottorpienses e delle Schedae Vindobonenses, anch'esse risalenti al IX secolo e conservate rispettivamente nella Biblioteca Reale di Copenhagen e nella Biblioteca Nazionale di Vienna. Benché non vi siano tracce di altri codici del De rerum natura per il periodo compreso tra il IX e l'inizio del xv secolo, alcuni studiosi hanno tentato - non senza qualche forzatura - di dimostrare che il poema fosse comunque in circolazione, sulla base di echi lucreziani che sarebbe possibile individuare nelle opere di Dante, Petrarca e Boccaccios. Tuttavia, anche ammettendo che in quel periodo circolassero delle copie del poema, il messaggio contenuto nel De rerum natura era certamente troppo alieno rispetto alla cultura medievale per poter attrarre l'attenzione e l'apprezzamento degli intellettuali dell'epoca. Le critiche rivolte da Lucrezio alla religione e al provvidenzialismo, la sua audace concezione della mortalità dell'anima, l'idea di un cosmo informe, infinito e popolato da innumerabili mondi, erano tutti principi che, in un contesto dominato dalla Scolastica e dall'ordinamento ecclesiastico, non potevano che suscitare una spontanea avversione. La riscoperta rinascimentale di Lucrezio suscitò una reazione ben diversa. Un nuovo manoscritto del poema venne rintracciato nel 1417 dall'umanista Poggio Bracciolini 6 , in una biblioteca - rimasta senza nome - non lontana dalla città di Costanza 7, allora sede conciliare, dove il fiorentino vestiva i panni di segretario apostolico. Dopo una lunga e laboriosa trattativa, nella primavera del 1418 Poggio riuscì a ottenere una copia del manoscritto e a portarla a

4· I due codici sono conservati a Leida a partire dal 1688, anno in cui gli eredi dell'umanista e scienziato olandese lsaac Vossius li vendettero insieme ad altri preziosi codici e libri provenienti dalla sua biblioteca privata. S· Per una breve rassegna di questi studi si veda Piazzi (2009, pp. 72-9 ). 6. Sulla figura di Poggio si veda il bel saggio, da leggere però con molte riserve, di Greenblatt (2011). Per una ricostruzione rigorosa e affidabile, si veda il contributo di Flores (r98o). 7· Enrico Flores (in Lucrezio, 2002-09, vol. I, p. 25) sostiene che «Poggio ha trovato il testo di Lucrezio a Murbach, abbazia che si trovava poco a nord di Basilea, e distrutta durame laRivoluzione francese. Furono distrutte anche le pergamene, e fra queste anche il manoscritto di Lucrezio, probabilmente di fine VIli sec. (certo antecedente all' Oblongus e al Quadratus ), che Poggio aveva trovato». Questa ipotesi è contestata da Reeve (2005). 2.2.0

8. SCIENZIATI EDITORI DEL DE RERUM NATURA

Firenze, dove la affidò all'amico Niccolò Niccoli perché ne ricavasse a sua volta una copia8• Solo nel 1437 la copia manoscritta del Niccoli venne finalmente rerminata9 , assicurando una prima diffusione del testo lucreziano e divenendo la base per tutte le copie manoscritte commissionate negli anni successivi. Tra il 1437, anno della morte di Niccolò Niccoli, e I' inizio del Cinquecento, la presenza di Lucrezio fu particolarmente importante nei circoli degli umanisti fìorentini' 0 •

8.2 Poesia e scienza prima di Gassendi Già dalla sua prima immediata diffusione, negli anni Trenta del xv secolo, il De rerum natura esercitò una notevole influenza sul pensiero scientifico europeo, fornendo molti argomenti e idee che, inizialmente usati nella lotta contro l'arisrotelismo, vennero poi presentati come i fondamenti del!' atomismo scientifico e, infine, come delle geniali anticipazioni della fisica moderna. Da molti punti di vista la riscoperta di Lucrezio rappresentò una vera e propria scoperta scientifica da cui uscì rafforzata la convinzione che l'atomismo potesse avere delle feconde applicazioni nell'investigazione di molti fenomeni naturali. Inoltre, trattandosi di un poema e non di un trattato scientifico o filosofico, il De rerum natura presentava un'ambiguità di fondo che si rivelò immediatamente di grande utilità: senza arrogarsi il compito di offrire una refutazione puntuale della tìsica aristotelica, Lucrezio illustrava una concezione del mondo alternativa sotto forma di immagini poetiche di grande fascino ed eleganza, rendendo così difficile separare la forma dal contenuto. Nonostante il dogma nella mortalità dell'anima e le feroci critiche mosse da Lucrezio contro la religione, fu proprio questa doppiezza dell'opera che, per tutto il periodo della controriforma, la salvò dalle maglie della censura e ne favorì un'ampia circolazione tra gli scienziati". La sorprendente popolarità di un testo di poesia in ambiti disciplinari

8. Solo nel 1434 la copia venne restituita al legittimo proprietario. Sulle vicende dei codi· ci fiorentini e italici, si veda Reeve (1980). 9. Oggi il manoscritto è conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze ',:\!s.

XXXV.30 ).

10. Per quanto riguarda la diffusione di Lucrezio a Firenze durante il Rinascimento, si vedano i notevoli contributi di Brown (lOol; lO IO). Si vedano inoltre la dissertazione dottorale di Goddard (1991) e gli studi di Cambino Longo (l004), Prosperi (loo4), Beretta (lO IO), Pas· "limante (lOII) e Palmer (lo14). 11. Sull'influenza di Lucrezio sulla scienza moderna esistono molti saggi utili, ma nessuno 221

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

che, come vedremo, miravano a risolvere problemi scientifici molto circoscritti e concreti, mostra che l'ambiguità, in perenne sospensione tra la fìlosofia della natura di Epicuro e l'immaginario letterario, venne sciolta dai naturalisti della prima età moderna a tutto favore della prima. Quando si affronta un tema complesso e fìlologicamente delicato quale quello della diffusione di un classico in un ambito disciplinare che, almeno in apparenza, non gli è proprio, si corrono due rischi entrambi molto insidiosi. Il primo, e più grave, è quello di scambiare la retorica ammirazione per un autore classico per una dipendenza dottrinale, il secondo, simmetrico rispetto al primo, è di concedersi l'ingenuità di credere effettivamente che tali autori possano aver anticipato idee e scoperte effettuate oltre un millennio dopo la loro morte. Nel nostro caso specifico, un'ulteriore difficoltà è determinata dall'enorme e ininterrotta popolarità goduta da Lucrezio tra gli scienziati a partire dal Rinascimento. Per evitare, almeno in parte, questi pericoli, ho preferito seguire l'influenza di Lucrezio esaminando le principali edizioni del De rerum natura che videro un coinvolgimento diretto o indiretto di filosofi naturali e scienziati e illustrarne la diffusione sulla comunità scientifica loro coeva. In alcuni casi particolarmente rilevanti, ho preso in esame anche alcune imitazioni del poema lucreziano. Naturalmente, sono consapevole che dal Rinascimento, per tutto il Seicento e buona parte del Settecento, una netta distinzione tra uomo di lettere e scienziato è storicamente discutibile, ma spero che la contestualizzazione dei testi presi in esame faccia emergere con chiarezza come il De rerum natura sia stato letto e studiato da molti intellettuali più come testo scientifico che come opera letteraria. Già nell' editio princeps, stampata a Brescia tra il1472. e il1473, Tommaso Ferrando' 1 rilevava nel colophon la valenza scientifica del poema Lucreziano: Essendo pervenuto tra le mie mani un unico esemplare di Lucrezio, ho esitato sull'eventualità di una sua pubblicazione a stampa, dal momento che, sulla base di un unico

studio complessivo paragonabile al lavoro incentrato sull'influenza letteraria di Hadzsits (1935). Solo fare un elenco degli scienziati traduttori, commentatori e imitatori di Lucrezio potrebbe facilmente riempire un secondo volume dell'opera di Hadzsits. Nelle note che seguono ho citato alcuni dei numerosi studi monografìci relativi a questa diffusione. Il recente volume The Cambridge Companion to Lucretius a cura di Stuart Gillespie e Philip Hardie (2.007 ), contiene due saggi con riferimenti alla diffusione di Lucrezio in ambito scientifico: cfr. Johnson, Wilson (2.007) e Haskell (2.007 ); per la prima fase della diffusione dell'opera di Lucrezio, soprattutto nell'ambito della scienza fiorentina, mi sia consentito rimandare a Beretta (2.010). 12.. Su Ferrando e l'editio princeps cfr. Rhodes (1984), Baldacchini (1996) e la mia introduzione a Lucrezio (2.015). 2.2.2.

8. SCIENZIATI EDITORI DELDERERUM NATURA

manoscritto, era difficile emendare le parti che erano state tralasciate a causa della negligenza del copista; tuttavia, allorché - pur avendolo cercato con cura - non sono stato in grado di rinvenire un secondo esemplare, mosso da questa stessa difficoltà ho deciso, anche a partire da un unico esemplare, di mettere a disposizione di molti studiosi un libro tanto raro, dal momento che sarà più facile correggere pochi passi o sulla base di un secondo manoscritto scovato da qualche parte, oppure sulla base della personale applicazione e diligenza, che se non si disponesse del volume nella sua interezza. Tanto più che il nostro Lucrezio, lontano dalle favole che dilettano le «menti vuote» (come le definisce

il poeta)'l, tratta profondissime questioni relative alla natu-

ra delle cose con tanta acutezza di ingegno e tanta gradevolezza di parole, che tutti i poeti successivi - e in modo particolare Virgilio, il principe dei poeti - nelle loro descrizioni lo imitano a tal punto da ricavarne a volte, con le medesime parole, tre o più versi' 4 .

Dopo le tre edizioni del testo del poema apparse nel xv secolo (1473, 1486 e 1496), Geronimo Avancius pubblicava a Venezia nel1soo la prima edizione Aldina introducendo le prime significative correzioni e nel15II, per la cura di Giovan Battista Pio, usciva a Bologna dai torchi di Girolamo Benedetti, tipografo di Niccolò Leoniceno, Berengario da Carpi e Alessandro Achillini, la prima edizione corredata da un ricco ed erudito commento non privo di numerose associazioni tra il testo lucreziano e fenomeni naturali, quali il terremoto, di cui lo stesso Pio era stato testimone (Passannante, 2012). 13. Probabilmente il riferimento è a Verg.georg. III, 3-s: «Cerera quae "vacuas" renuissem carmine "memes", l omnia iam volgara: quis aut Eurysrhea durum l aut inlaudari nescir Busiridis aras ?».Cfr. in proposito Serv. ad ed. VI, 41: «HINC LAPIDES PYRRHAE l(ACTOS) quaestio est hoc loco: nam relictis prudenti bus rebus de mundi origine, subito ad fabulas rransitum feci t. Sed dicimus, aut exprimere eum voluisse sectam Epicuream, quae rebus seriis semper inserir voluprates; aut fabulis plenis admiradonis puerorum corda mulceri: nam fabulae causa delecrationis inventae sum, ur ipse edam in georgicis docer dicens (111, 3) cerera quae vacuas tenuissem carmina memes; ad georg. III, 3: CETERA QVAE VACVAS T(ENVISSENT) C(ARMINE) M(ENTES) hoc est fabulae, quae delecrarioni esse poreram, er occupare memes curis soluras, iam descriprae a mulris in omnium ore versamur». 14. «LUCRECII unicum meas in manus cum pervenisset exemplar, de eo imprimendo hesiravi, quod erar difficile unico de exemplo quae librari i essem praererita negligentia illa corrigere; verum ubi alterum perquisitum exemplar adinvenire non potui, hac ipsa motus difficultate unico etiam de exemplari volui librum quam maxime rarum communem mulris facere studiosis: siquidem facilius eri t pau ca !oca vel alicunde altero exemplari exrricato vel suo studio castigare er diligemia, quam integro carere volumine. Preserrim cum a fabulis quae "vacuas" (ur inquit poera) delectam "mentes" remotus Lucrerius noster de rerum natura quaesriones rracrer acurissimas ramo ingenii acumine ranroque lepore verborum ur omnes qui illum securi poerae sunr ~um ira suis in descriprionibus imirenrur et Virgilius praeserrim poerarum princeps ur ipsis cum verbis rria imerdum et amplius merra suscipianr >>.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Il padre di Girolamo Benedetti, Giovanni Antonio, fondatore della tipografia, nel 1504 aveva pubblicato un interessante opuscolo del matematico e umanista fiorentino Raffaele Franchi (noto sotto il nome di Francus) intitolato In Lucretium paraphrasis cum appendicem de animi immortalitatem. Nella prima parte di questo rarissimo libretto Franchi, che era lettore di logica presso l'Università di Bologna, illustrava alcuni temi cosmologici del De rerum natura innestandoli nell'emergente discussione filosofica che da più parti si andava affacciando. Sulla base di queste coincidenze è possibile che l'edizione di Pio sia stata sollecitata anche dalla lettura dell'opera di Franchi. Nel 1512.l'umanistalombardo Pier Candido Decembrio pubblicava a Firenze un'edizione del testo che, rifacendosi alle correzioni dell'amico umanista napoletano Giovanni Pontano e a quelle di Michele Marullo, manifestava la connessione tra il contenuto del poema e un circolo di studiosi con interessi scientifici. Nel 1515 usciva per i tipi di Aldo Manuzio la celebre edizione a cura di Andrea Navagero, un colto umanista legato da intima amicizia al medico Veronese Girolamo Fracastoro che, se anche non sembra aver avuto alcun ruolo in questa edizione, fu uno dei primi scienziati ad appropriarsi dello stile e della dottrina lucreziana per spiegare, nel 1530, il contagio a distanza della sifilide, mettendo così in discussione la teoria ippocratica e galenica delle epidemie 1s. Durante lo stesso periodo anche degli umanisti con interessi scientifici per lo più eruditi come Antonio della Paglia, eretico meglio noto sotto il nome di Aonio Paleario, Giovanni Pontano e Scipione Capece, prendendo esplicitamente Lucrezio come loro modello, pubblicarono diversi poemi didascalici dedicati all'astrologia, alla meteorologia e ad altri argomenti naturalistici. Nel suo De principiis rerum, pubblicato a Napoli nel 1534 e ristampato ben cinque volte durante il XVI secolo, Capece, dopo aver descritto nel dettaglio i principi della filosofia atomistica di Lucrezio, criticava la teoria dei quattro elementi di Aristotele, sostenendo l'aria come principio generatore. L'umanista napoletano avanzava anche delle riserve sulla corruttibilità delle comete e la teoria aristotelica delle sfere. Pur rifiutando gli esiti materialistici del De rerum natura e la dottrina della mortalità dell'anima Capece, conscio delle notevoli innovazioni contenute nella dottrina epicurea, si era servito di Lucrezio per delineare una filosofia della natura diversa, il cui linguaggio era direttamente riconducibile ai semina, gli exordia e i primordia rerum del suo modello. Dello stesso tenore, pur manifestando un maggior sincretismo, è il trattacella De elementis et eorum mixtionibus libri quinque (Parigi 1548), composto

IS.

Ho affrontato la relazione tra Fracastoro e Lucrezio in Beretta (z.oo3).

2.2.4

8. SCIENZIATI EDITORI DEL DE RERUM NATURA

dall'influente cardinale Gas paro Contarini, autore in odore di eresia per aver lasciato non pochi spiragli a un accordo con i riformatori luterani. In quest'operetta, pubblicata postuma, Contarini riprendeva la teoria dei misti discussa da Aristotele nel De generatione et corruptione e la combinanava con il corpuscolarismo democriteo e lucreziano, rivelando come Aristotele avesse lasciato ampi margini di interpretazione nella sua dottrina sulla composizione ultima della materia e come tali lacune potessero essere felicemente riempite ricorrendo alla spiegazione che della struttura della materia avevano dato autori, come Lucrezio, che fino ad allora non avevano goduto di alcun credito scientifico. Nonostante l'importanza culturale di questi tentativi, fu solo alla fine del secolo che Lucrezio incominciò ad affascinare in modo più capillare la curiosità di coloro che, insoddisfatti della filosofia della natura di Aristotele, trovarono nell'atomismo una nuova chiave di lettura dei fenomeni naturali. La critica lucreziana alle cause finali e alla conseguente istanza provvidenzialistica che aveva reso necessaria in epoche recenti la subordinazione dell'indagine naturale alla teologia, lo sgretolamento dei confini di un cosmo ormai del tutto insufficiente a contenere la curiosità naturale, l'intima connessione posta da Lucrezio tra il sostrato atomico della materia e la costante verifica osservativa o sperimentale volta alla sua dimostrazione empirica, l'uso costante, infine, del!' analogia quale metodo di indagine privilegiato dal poeta non erano che alcuni temi che si prestarono immediatamente a guidare gli sforzi che i naturalisti della fine del XVI secolo stavano compiendo per indagare la natura su basi interamente nuove. Sul piano culturale molti temi affrontati da Lucrezio sembravano prestare il fianco a una reazione repressiva da parte della Chiesa. Anche se il poema sarebbe ufficialmente entrato nel!' Indice dei libri proibiti solo nel 17I8, le autorità ecclesiastiche, a partire dal sinodo fiorentino del 1S17, avevano preso alcuni provvedimenti blandamente restrittivi, sufficienti tuttavia a impedirne la stampa su territorio italiano tanto che, dopo il notevole successo editoriale delle prime edizioni, tra il 1S1S e il 1647 il De rerum natura conosceva una rinnovata fortuna solo grazie alle edizioni straniere, entrambe commentate e più volte ristampate, di Denys Lambin (1s63-1s64) 16 e di Obert van Giffen (1s6s-1s66) 17•

16. Lucrezio (1563). Il copioso commento di Lambin dispiegava una pertinente esplicazione del testo e offriva ai lettori rinascimentali la prima guida efficace all'atomismo antico. Tra le altre cose Denys Lambin pubblicò anche l'edizione integrale delle opere di Cicerone e Orazio, c l'amicizia stretta con il filosofo e matematico Pierre Le Ramée (Petrus Ramus) assicurò una prima penetrazione di Lucrezio nei circoli scientifici del Collège Royal di Parigi. 17. Lucrezio (1566). L'edizione di van Giffen riporta alla carta 18v un epigramma del medico loannis Griopii Decani, altrimenti ignoro, e uno del medico Hadrianus Junius, erudito e 2.2.5

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Sul finire del XVI secolo il gesuita Antonio Possevino, pur rilevando la manifesta empietà di alcuni passi del m e IV libro del De rerum natura, non riteneva di dissuadere la gioventù cattolica dalla lettura di un testo classico così importante (Possevino, 1593, vol. II, p. 432. ), tanto lontana era ancora l'idea che da quest'opera si potessero trarre gli strumenti per distruggere i fondamenti filosofici della dottrina ecclesiastica. Fu forse solo con l'opera di Giordano Bruno che divenne pienamente evidente la forza dirompente dell'atomismo e la sua efficacia teorica nel generare una cosmologia che era contemporaneamente opposta a quella di Aristotele e compatibile con il copernicanesimo (Redondi, 1983, pp. 70 ss.). Il tragico epilogo della persecuzione delle dottrine di Giordano Bruno non solo non spense l'interesse per le dottrine di Democrito, Epicuro e Lucrezio, ma nei primi decenni del XVII secolo l'atomismo acquisì nuova linfa, tanto che si moltiplicarono rapidissimamente i filosofi naturali impegnati a chiarire, commentare e riassumere gli scritti degli atomisti antichi. Nel1619 Nicholas Hill, sotto l'influsso di Bruno, pubblicava una raccolta di testimonianze su Democrito ed Epicuro che palesava un'attenta lettura del De rerum natura (Hill, 1619). Un tentativo analogo di rivalutare l'atomismo classico attualizzandone i contenuti fu quello contenuto nell'opuscolo Democritus reviviscens' 8, pubblicato nel1646 da Jean Chrysostome Magnen, professore di medicina all'Università di Pavia. Come ha giustamente sottolineato Ugo Baldini, in questo scritto, orientato rispetto a Hill a una più cauta adesione all'atomismo epicureo, le riflessioni erano più di carattere filosofico e ancora non adombravano l'intenzione di applicare i principi a precise questioni scien-

umanisra, aurore di un forrunaro libro di emblemi. L'edizione inoltre riportava una traduzione e l'originale delle opere di Epicuro (pp. l3S·98), il testo greco della descrizione della peste di Atene di Tucidide (pp. 470·3) e un ricchissimo «Index, seu conlectanea potius, in quibus vocabula prisca, ac dictionis elegantiores commemorantur; & adducris aliorum scriprorum testimoniis, saepe explicantur» (pp. l99-468). Prodotta esplicitamente per competere con l'edizione di Lambin, quella di Giffen, pur ostentando un'apparente erudizione, è meno incisiva nell'esplicazione delle dottrine scientifiche. Come poi ha dimostrato Munro (Lucrezio. 1866, vol. 1), Giffen "saccheggiò" l'edizione di Lambin facendo proprie molte delle lezioni dell'umanista francese senza menzionarne l'aurore, e la sola ragione del suo successo fu dovuto alla sintesi che seppe portare al commento e, forse, alla splendida composizione tipografica realizzata da Plantin. Lambin reagì al plagio nell'edizione, aggiornata e aumentata, deliS70 con una decisa ed efficace difesa. 18. Magnen (1646). Qualche anno prima un altro medico francese, Claude Bérigard, di stanza a Pisa, aveva pubblicato un curioso opuscolo (Bérigard, 1643) nel quale, pur adottando l'atomismo e citando spesso Lucrezio, negava con fermezza le conseguenze incompatibili con l'arisrotelismo, in primis l'esistenza del vuoto. Sull'atomismo, in verità più fìlosofico che scientifico, professato da questi due autori vedi l'ancora utilissimo saggio di Baldi n i (1977 ).

22.6

8. SCIENZIATI EDITORI DEL DE RERUM NATURA

rifiche e tanto meno sperimentali (Baldini, I977· pp. 43-ss). Tra la pubblicazione del testo di H ili e quella di Magnen, si fece tuttavia largo l'idea di riprendere la principale fonte dell'atomismo classico, ovvero il De rerum natura, sostituendo l'approccio fllologico ed erudito che aveva caratterizzato le edizioni commentare di Pio, Lambin e van Giffen con una lettura che tenesse conto delle applicazioni che l'atomismo stava conoscendo in numerosi ambiti della scienza moderna, dalla chimica alla fisica, dalla medicina alle scienze della vita. Questo progetto, come ha ben mostrato Pietro Redondi' 9, vide nell'Accademia dei Lincei un contesto particolarmente favorevole. Nel 1616, Federico Cesi presentò al giovane duca Virginio Cesarini, un autorevole socio del consesso accademico, Galileo e - probabilmente su sua ispirazione - si immerse in ricerche chimiche volte all'analisi della struttura intima della materia e dei misti, adottando una filosofia corpuscolare (Redondi, 1983, pp. 114-s). Non molto tempo dopo Cesarini incominciava a lavorare a un commento in versi al De rerum natura, uno scritto di cui si sono rapidamente perse le tracce e i cui contenuti sono quasi del rutto ignoti. Tuttavia, che l'atmosfera fosse favorevole a queste ricerche lo dimostra il caso di un medico di professione, Vicenza Alsario della Croce, professore di medicina pratica presso la Sapienza a Roma che, secondo Allacci, intorno al 1632 aveva pronto uno scritto intitolatoAdLucretii libros de Natura, Commentarius Iatro-physicus (Allacci, 1633, p. 251). Prolifico autore di resti medici oggi dimenticati quanto il suo autore, Alsariow aveva pubblicato nel 1632 un interessante resoconto dell'eruzione del Vesuvio avvenuta l'anno precedente (Della Croce, 1632). In questo opuscolo, dopo aver descritto il terremoto successivo all'eruzione, Alsario appoggiava senza riserve l'opinione di Lucrezio circa la natura del fulmine (ivi, pp. 124-6 e 153-5) e, pur senza aderire al corpu-

19. Redondi (1983). È interessante notare che la celebre Accademia degli Umoristi, fondata a Roma, come quella dei Lincei, nel1603, e che avrebbe annoverato tra i suoi membri molti 1cienziati tra cui anche illinceo Virginio Cesarini, aveva fatto proprio il motto rediit agmine dulci tratto dal VI libro (v. 639) del De rerum natura. È utile poi ricordare che illinceo Johann Faber aveva nella sua biblioteca un'edizione in 4° (con tutta probabilità quella Lambiniana del 1570) del De rerum natura: sulla biblioteca di Faber cfr. De Renzi (1993). 20. Sono scarse le notizie su questo medico di origine genovese. Nato nel1s76, dopo aver esercitato la professione medica a Bologna e Ravenna, giunse a Roma per insegnarvi medicina presso La Sapienza, divenire medico di papa Gregorio xv e cameriere di Urbano VIII. Non se ne conosce la data di morte anche se era ancora vivo nel 1632. È di questo periodo la sua nomina ad archiatra o medico del granduca di Toscana Ferdinando II, dal che si deduce un suo soggiorno a Firenze. Su Alsario la biografia migliore è ancora quella di Mazzuchelli (1753-63, vol. l, pp. 178 ss.). Sul soggiorno fiorentino e altre notizie vedi Targioni Tozzetti (1780, vol. III, pp. 140-50 ). 227

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

scolarismo, citava il De rerum natura in numerosissimi altri contesti 11 , conferendo al poema un'autorità scientifica superiore a quella degli altri testi classici. Il medico genovese doveva aver avuto qualche relazione con Virginio Cesarini e la corrispondenza lincea attesta dei tentativi di Giovanni Faber di succedergli nella cattedra medica alla Sapienza (Gabrieli, I996, pp. 843, 847-54). Il tentativo di recuperare l'opera di Lucrezio in ambito scientifico da parte di Alsario non discendeva, diversamente da quello linceo, da un'adesione all'atomismo ma, più prudentemente, dall'esigenza di allargare lo spettro delle fonti usate dagli scienziati di fede aristotelica. Il suo commento a Lucrezio, comunque, doveva essere abbastanza conosciuto perché Gabriel Naudé ne accennava a Pierre Gassendi in una lettera della primavera del 1632, dove, tra le altre cose, lo informava che per non interferire con il grandioso progetto di edizione delle opere di Epicuro intrapreso dal filosofo di Digne, Alsario avrebbe volentieri desistito dal porcari o a termine e dal render! o pubblico. La risposta di Gassendi mostrava che l'idea di commentare ex novo Lucrezio era ormai nell'ariau, e alla fine della risposta a Naudé invitava il suo intermediario a metterlo in contatto con Alsario. La lettera di Naudé però doveva essere l'ultima testimonianza relativa al progetto romano e del commento di Alsario si sono da allora perse le tracce. È nel solco di questi tentativi di sintesi eclettica, tutt'altro che episodici come abbiamo visto, che va interpretata l'edizione illustrata del De rerum natura pubblicata a Firenze nel 1647 dal medico Giovanni Nardi (cfr. FIG. 8.1). Era questa, dopo quella aldina del ISIS, la prima edizione del testo Lucreziano ad apparire sul suolo italiano' 3 ed era anche la prima in assoluto a essere curata da uno scienziato e non da un umanista. 2.1. Curiosamente. in un frangente Alsario (1632., p. 168) citava la refutazione di Lucrezio dell'Ade e dell'Inferno. 2.2.. «Superest, ut indicem paucis quid lucis videarur Lucretio ex meis illis qualibuscumque lucubrationibus affulsurum. Id scilicet enixè rogas, quòd res si t praeserrim futura, pergrata Carissimo Viro Alsario à Cruce, bene meriruro novis Commentariis de Lucretiana Philosophia. Faciam ergo ingenuè, sed prius testatus me nullas meas nugas tanti lucere, ut putem illas cum vigiliis, tam docti Viri comparandas. Tu me scilicet rubore suffundis, ac penè dicam, enecas, cum scribis illum ab instituto, si ego quidem credam mea suffìcere posse, Poetae intelligendo, destiturum. Quasi verò non ego potius retrahere pedem ab incoepto debeam, quam ut ille ab opere laudatissimo absterreatur?>> (Gassendi, 16s8, vol. VI, p. 49). 2.3. Va menzionata tuttavia la parafrasi del poema e della dottrina lucreziana pubblicata dal giurista Girolamo Frachetta (1s89). Indipendentemente dallo scarso numero di edizioni apparse in Italia, il poema continuò a essere letto avidamente sia da scienziati sia da letterati. Per quanto riguarda la diffusione del poema tra iletterati si veda il recente studio di Prosperi (2.004). Sull'edizione di Nardi si veda il breve saggio di La Brasca (1999). 2.2.8

8. SCIENZIATI EDITORI DEL DE RERUM NATURA

FIGURA 8.1

Frontespizio dell'edizione fiorentina del I647, a cura del medico Giovanni Nardi, la prima ad apparire in Italia dopo l'Aldina del ISIS

D lOA.NN1S N A.R DII

· Fiorentini.

A causa delle curiose tavole in rame raffiguranti le mummie e i sarcofaghi della collezione egizia dei Medici, questa edizione viene considerata più per il pionieristico approccio all'archeologia egizia che per il valore fìlologico o per la pertinenza dei densi e verbosi commentari. In questo sembra aver nuociuto, oltre la sua notevole rarità, il giudizio spregiativo formulato alla fìne del XVII secolo da Thomas Creech 2 4, la cui influenza ha indotto anche uno studioso solitamente attento come Gordona segnalare l 'opera solo per la curiosità delle tavole (Gordon, 1985, p. 88). In realtà questa edizione contiene molte digressio24. Creech infatti si riferisce a Nardi come ad un «sexagenarius de ponte dejiciendus» (citato da Gordon, 198s, p. ?s). 2.2.9

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

n i che mettevano sistematicamente in relazione il testo lucreziano con dottrine scientifiche moderne. Nel commento al I libro, infatti, Nardi dedicava una delle sue numeroseAnimadversiones agli scritti del medico tedesco Daniel Sennert il quale aveva estensivamente usato il concetto lucreziano di semen combinandolo con la dottrina aristotelica delle forme sostanziali, un compromesso escogitato da molti naturalisti del tempo per spiegare l'insorgere e il diffondersi delle malattie senza ricorrere alla teoria galenica degli umori 1 s. Ma è il commento al VI libro e alla descrizione lucreziana della peste che costituisce il principale motivo di interesse di questa edizione e non solo per la dettagliata ricostruzione dell'epidemia di peste scoppiata a Firenze nel 1630, un evento che aveva sollevato un'aspra controversia scientifica tra i medici toscani, ma anche e soprattutto per il tentativo di Nardi di attribuire un'attualità scientifica alla spiegazione atomistica del diffondersi dei morbi contagiosi e, più in generale, dei fenomeni atmosferici 16• La spiegazione lucreziana della peste di Atene costituì un modello per altri medici e scienziati europei come attesta la pubblicazione nel 1659 da parte del futuro segretario della Royal Society di Londra Thomas Sprat di un fortunato libretto, a cui aveva tra l'altro collaborato anche Thomas Hobbes, e che sarebbe stato ristampato molte volte prima della fine del secolo, contenente una traduzione dei passi di Tucidide e Lucrezio relativi alla diffusione delle epidemie 17• Pietro Redondi ha espresso un giudizio essenzialmente negativo su Nardi, sottolineando come le critiche che quest'ultimo aveva mosso contro l'atomismo contemporaneo erano l'effetto di una pervicace difesa di retroguardia dell'aristotelismo (Redondi, 1983, pp. 383-4). Se l'appartenenza di Nardi alla setta aristotelica non è in discussione, è altrettanto vero che la sua edizione di Lucrezio aveva radicalmente murato la tradizione erudito-filologica precedenl S. Lucrezio (1647, pp. 3S-7 ). Sull'atomismo edenico di Daniel Sennerr cfr. Stiickelberger (197l, pp. 14-7), Meinel (1988), Clericuzio (lOoo, pp. l3-n), Hirai (lOos). l6. Il commento di Nardi, di oltre 100 pagine (Lucrezio, 1647, pp. Sl4-6l7 ), è sfuggito a Gordon (198s) ma non ai contemporanei del medico fiorentino. Su Nardi, il suo commento e la controversia medica sulla peste del 1630 cfr. Targioni Tozzetti (1780, vol. I, pp. 3S3·s, vol. m, pp. l9-31, 130-46 e pp. 164-73). È interessante notare l'amicizia che legò Nardi al medico lusitano Estevao Rodrigues de Castro il quale, come rilevato da Redondi (1983), sembra aver influenzato Galileo nella sua scelta di esprimersi apertamente a favore dell'atomismo ne Il Saggiatore (16l3). Come Nardi anche de Castro era un sostenitore dell'aristotelismo e la sua parziale concessione all'atomismo qualitativo di Lucrezio è da inquadrare nel sincretismo scientifico che, come abbiamo visto nel caso di Alsario della Croce, stava caratterizzando le opere di molti alrri medici. l?. Sprat (16s9). Stante la prefazione Hobbes aveva tradotto Tucidide. Non mi sono chiari i motivi per cui Gordon (198s) abbia eliminato la selezione di Sprat dalla bibliografia lucreziana. 230

8. SCIENZIATI EDITORI DEL DE RERUM NATURA

re e partecipava di una tensione culturale legata, almeno indirettamente, alla scuola galileiana. Non è poi di secondaria importanza il fatto che Nardi fosse sraro allievo del celebre Girolamo Mercuriale, il quale aveva più volte usato Lucrezio nelle sue opere mediche. In una lettera a Vincenzo Renieri del 2.7 aprile 1647 Evangelista Torricelli annunciava: «gli do nuova che sabbato sera si finì in mia presenza la stampa del Lucrezio commentato dal S.r Medico Nardi» (Galluzzi, Torrini, 1975, vol. I, p. 36I). La stampa di Lucrezio, come di tutte le opere scientifiche di Nardi, era srara curata da Amadore Massa, già tipografo sia delle opere geometriche di Evangelista Torricelli (1644) sia di un'opera astronomica di Renieri (1639), e dunque non estraneo alla scuola galileiana. Del resto l'aristotelismo di Nardi si era ormai edulcorato, come quello di Alsario qualche anno prima, con i principi della nuova fìlosofia naturale. L' ispirazione lucreziana si era già manifestata in un breve scritto intitolato De igne subterraneo physica prolusio (Firenze 1641), nel quale Nardi aveva ipotizzato la presenza pervasiva di un fuoco sotterraneo capace di generare la maggior parte dei fenomeni geologici conosciuti, comprese le maree 28 , e la cui causa veniva ricondotta anche ali' azione del moto degli atomi. Questo opuscolo, tra l'altro, aveva attirato l'attenzione del vecchio Galileo il quale, contro quanto ne pensavano alcuni sui discepoli, ne aveva ammirato l'ingegno dell' autore 2 9. Che l'edizione di Lucrezio di Nardi avesse pretese di essere apprezzata anche da chi si dedicava a studi naturalistici e medici era del resto sottolineato dalle dediche al naturalista e collezionista linceo Cassiano Dal Pozzo (in apertura del libro v) e al medico Baldo Baldi, archiatra di Urbano VIII. Non sorprende dunque che il libro suscitasse ben più di qualche curiosità tra i seguaci di Galileo, i quali finalmente potevano accedere a un'edizione del testo lucreziano stampata nella città dove la controversia sull'atomismo scientifico, nonostante la condanna di Galileo, e la vigile censura delle autorità ecclesiastiche, era tutt'altro che spenta. L'edizione di Nardi, che, è bene sottolinearlo, anticipava di due anni 28. Anni prima, nel 1631, a Firenze aveva pubblicato forse il primo tranato dedicato al lane e ai suoi derivati (Lactis physica analisys), opuscolo corredato di un frontespizio illustrato da Stefàno Della Bella, artista impiegato anche da Galileo. Nardi è autore pressoché sconosciuto, ma cfr. le utili ricostruzioni datene da Targioni Tozzeni (1780, vol. I, pp. 3s6-7 e vol. III, pp. !64-73). 29. Galileo (1968, vol. XVIII, p. 316). Nella sua opera pubblicata postuma intitolata Noctes gcniales (Bologna 16ss. p. 276), Nardi, professandosi aristotelico, criticò Galileo, senza argomenti particolarmente originali, accusandolo anche di plagio per la scoperta del telescopio da lui attribuita a Della Porta.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

!'"edizione" ben più celebre di Pierre Gassendi, avrebbe esercitato una notevole influenza soprattutto in ambito medico. Mi pare più che probabile, a questo riguardo, che anche Giovanni Alfonso Barelli, un seguace di Galileo e, dopo Torricelli, forse il più autorevole scienziato italiano, avesse avuto per le mani questa particolare edizione quando, nel 1649, decideva di prendere in esame, in un breve scritto intitolato Delle cagioni de le febbri maligne di Sicilia, le principali cause di alcune febbri contagiose che avevano afflitto, con particolare violenza, le città di Palermo e Messina nel 1647 e 1648~ 0 • Lo scritto di Borelli si caratterizzava per una marcata vis polemica. Borelli, infatti, manifestava il suo disappunto per le spiegazioni, saldamente ancorate alla tradizione medica galenica e ippocratica, che del fenomeno avevano dato i professori di medicina siciliani. Contrario ali' ipotesi che le febbri pestilenziali potessero essere causate da una trasmutazione dell'aria atmosferica e dal conseguente disgregarsi dell'equilibrio degli umori, Borelli sferrava un attacco ancor più feroce contro la teoria che associava lo scoppio del contagio con i principi dell'astrologia giudiziaria. I segni premonitori del contagio, sia che si presentassero sotto forma di comete, sia che si manifestassero grazie a particolari congiunzioni planetarie, venivano derisi da Borelli con lo stesso sarcasmo col quale Lucrezio, forse con in mente il teleologismo degli stoici, aveva ricondotto queste credenze alla pura e semplice superstizione. Lucrezio veniva finalmente citato nella terza e ultima parte dell'opera dedicata alla spiegazione delle cause del diffondersi delle febbri siciliane. Il loro insorgere non andava attribuito «all'intemperie dell'aria cagionata dalle prime qualità elementari» e dal loro corrompersi, quanto piuttosto all'esalazione dalla terra di alcune particelle morbose: Ponghiamo che nel cielo della Sicilia (per disgraria) dalle miniere di essa, o da altre cose velenose, o d'altrove, si siano radunare, e trattenute per la gran serenità de' tempi passati, in copia notabile l' esalationi velenose (le quali per l'avvenire chiameremo, ad imitarione di Lucrerio, Semi di Pestilenza) non di estrema malignità, ma solamente atte a produrre negli huomini febbri maligne, simili alle nostre: e che questi dissipati in varij fragmenci dall' agitatione dei venti, vengano così disseminati e sparsi per aria, ad occupare buona parre del cielo della Sicilia e del mare che la circonda; & che in questo stato sopragiunga o una furiosa di pioggia, o pure il semplice freddo della notte; sarà egli necessario che i detti semi di pestilenza si comprimano, s'abbassino arrivando a toccare il suolo, diffondendosi per campagne e città (Barelli, I649, p. rr3).

30. Borelli (1649). Su questo importante scritto si vedano Baldini (1974) e Trabucco

(lOoo). 232

8. SCIENZIATI EDITORI DEL DE RERUM NATURA

Questo passo rievocava da vicino quei versi 662.-664 del libro VI del De rerum natura nei quali Lucrezio ammetteva la possibilità che dalle esalazioni della rerra si disperdevano nell'atmosfera elementi morbosi, ma Barelli aveva anche renuro conto dell'ampio commento di Nardi al fenomeno della peste e delle malattie contagiose. La varietà delle pestilenze poteva essere così spiegata ricorrendo alla varietà delle esalazioni morbose e dei loro aromi costitutivi. Per ristabilire lo stato di sanità Borelli proponeva l'uso, avversato dai medici accademici, di derivati dello zolfo, mostrando una sorprendente familiarità con le opere chimiche di Jean Béguin, Andreas Libavius e Oswald Croll. Approfondire l'interesse di Borelli per la chimica paracelsiana potrebbe essere utile per comprendere la sua ammirazione per Lucrezio. I chimici infatti furono i primi ad abbracciare la dottrina della differenza qualitativa, e dunque terapeutica, delle particelle elementari che componevano i corpi misti, adottando, non sempre consapevolmente, l'opinione di Lucrezio secondo cui la materia è composta da aromi di natura, figura e disposizione differenti3 1• I semi di Lucrezio servivano a Borelli non solo per distruggere le spiegazioni classiche sul contagio, ma anche per interpretare le più recenti acquisizioni della fisiologia. Sulla base delle opere mediche di Santorio e Harvey, lo scienziato napoletano superava la teoria galenica degli umori affermando, seguendo Lucrezio, che l'essere vivente non era costituito da altro che da particelle in movimento. Inoltre, pur accettando la scoperta di Harvey sulla circolazione del sangue, ne dava una spiegazione che vale la pena di riportare: Hor in quesro giro [cioè la circolazione sanguigna] occorre che per l'impulso conferito al sangue dal dibattimento delle arterie, scappino via dai pori e dalle estremità di esse innumerabili particelle, che nel sangue erano contenute; le quali con l'impeto ricevuto, i nsi nuandosi negli spari rimasti vacanti dopo la traspirarione d'altre particelle, vengono con artificio maraviglioso a conservare questo flusso e reflusso di parti, o quel movimento nel quale consiste la conservatione e la vita dell'animale (i vi, p. IS9 ).

L'insorgere di patologie, come il coagularsi del sangue, veniva dunque spiegato da Borelli attraverso l'ipotesi dell'alterazione del moro corpuscolare. Inoltre, il ricorso a un modello atomistico-meccanico gli permetteva di considerare la patologia non più come un generale sconcerto umorale afferente a tutto l'organismo, ma più precisamente come una lesione locale e circoscritta. Nel caso considerato, Borelli, attraverso la dissezione di alcuni cadaveri, aveva sta~I. Ho affrontato questo tema in Beretta

(lO O?).

2.33

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

bilico che i semi di pestilenza delle febbri siciliane avevano leso solo alcune parti del corpo, segnatamente i polmoni, lasciando inalterato il resto degli organi interni. Lo sforzo di Barelli di usare l'atomismo lucreziano per costruire una biologia meccanicistica trovò numerosi seguaci ed entusiasti sostenitori. In primis Marcello Malpighi il quale, in una nota autobiografica rimasta a lungo inedita, ammetteva che era stato proprio Barelli a introd urlo a quella «Hl o sofia libera e democritica» 3' che lo avrebbe aiutato, a partire dagli anni Sessanta, a comprendere la struttura microscopica delle parti anatomiche. Altri due allievi di Barelli, i medici Carlo Fracassati e Lorenzo Bellini, avrebbero esaminato la struttura anatomica della lingua e gli organi del gusto richiamandosi ancora più esplicitamente alla dottrina lucreziana. Per questi medici l'ipotesi atomista, che grazie al microscopio sembrava poter essere rapidamente confermata empiricamente, aveva due vantaggi: da un lato forniva una spiegazione meccanica della fisiologia degli organi anatomici; dall'altra, sull'onda della diffusione dei rimedi iatrochimici, trasformava in una pratica terapeutica l'idea di poter intervenire con dei principi attivi tratti da sostanze chimiche particolari nella ricostruzione di tessuti malati che si credevano costituiti da particelle dotate di un numero finito di forme.

8.3 L'"edizione" di Gassendi La tendenza ali' attualizzazione scientifica del De rerum natura diventò evidente nella monumentale edizione della vita e delle opere di Epicuro pubblicata a Lione da Pierre Gassendi (1649 ). In quest'opera il filosofo di Digne si proponeva di riabilitare la figura di Epicuro mostrando non solo il valore etico del suo pensiero, ma anche rivelando l'attualità del suo approccio alla scienza e valorizzando, reinterpretandola in senso sperimentalista, la combinazione dell' atomismo qualitativo di Lucrezio al sensismo. Questo ambizioso programma era sostenuto dal non meno audace tentativo di neutralizzare il materialismo ateo e anti-provvidenzialista di Epicuro e di renderlo perfettamente compatibile con la fede cattolica. Alla luce di studi recenti (Gemelli, 2002), sembra che l'ispiratore di questa iniziativa sia stato il fisico olandese lsaac Beeckrnan, già interlocutore privile32.. Nozze Boschi Tomba (1902., p. 13). Sull'atomismo di Malpighi si veda G6mez L6pez (1997a), con una bibliografia aggiornata sull'argomento. 234

8. SCIENZIATI EDITORI DELDERERUM NATURA

"iato di Descartes, attentissimo lettore di Lucrezio e autore del quale apprezzava le originali spiegazioni di fenomeni, in primis il moto dei corpi, che stavano interessando tutti quanti non volevano più riconoscere alla fisica aristotelica la chiave esclusiva per comprenderli. Gassendi aveva incontrato Beeckman nel 1 62.9, quando il suo progetto era solo agli inizi e solo poco tempo dopo era in grado di delineare con chiarezza il profilo del suo Opus magnus. Nelle oltre 2..ooo pagine che compongono i tre volumi dedicati all'esposizione della filosofia di Epicuro pubblicati nel 1649, Gassendi aveva basato la sua disamina su una approfonditissima rilettura di Lucrezio, un autore che arrivò presto a conoscere a memoria e di cui più di ogni altro suo predecessore esaltò il valore filosofico e scientificon. La lettura di Lucrezio era comunque strumentale alla piena comprensione e riabilitazione della filosofia di Epicuro, ed è per questa ragione che Gassendi decise di smembrare i versi del De rerum natura adattandoli alla tripartizione epicurea della filosofia in canonica, fisica ed erica. Quello che è sfuggito agli studiosi è che nella sua meticolosa ed eruditissima opera di ricostruzione, Gassendi di fatto utilizzò quasi tutto il De rerum natura e che la Vita del 1649 e, in misura leggermente inferiore, la versione ampliata e modificata del 1658 34 possono essere considerate delle vere e proprie edizioni critiche del poema lucreziano. È sorprendente che questo evento editoriale sia sfuggito agli storici poiché lo stesso Gassendi, in una lettera dell' 11 maggio 1632. indirizzata a Gabriel Naudé, manifestava apertamente le sue intenzioni dichiarando che, per spiegare il significato delle massime di Epicuro, tutto Lucrezio sarebbe stato riversato nell'opera e la redistribuzione dei versi del poema avrebbe seguito l'ordine della filosofia del Giardino 3s. Dunque, oltre a ciò che rimaneva dell'opera di Epicuro, sostanzialmente le lettere pubblicate del x libro delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, Gassendi aveva aggiunto anche un'edizione ragionata 36 e ampiamente commentata del De rerum natura. Se l' ordio

H· Taussig (l0o2.). È interessante notare che Gassendi non conosceva il greco e dunque nel suo commento si era principalmente affidaro alle fonti latine e all'aiutO che gli veniva prestato da amici ed eruditi. 34. Pierre Gassendi, Syntagma philosophicum [. .. ] pars prima-tertia in Gassendi (r6s8, voli. I-II). Sulla presenza di Lucrezio nel Syntagma si veda Wolff (1999). 3S· Riferendosi alla differenza di merodo nell'uso del poema rispetto a quella di Alsario, Gassendi così scriveva a Naudé: «Sed erit forte, quod uterque in eodem campo decurramus, cum ille Lucretium ex serie contextus interpretatus sit, ipse methodo paullo immurata Lucretium producturus sim, ad explicationem, confìrmationemque placirorum Epicureorum hinc lotus quidem Lucretius in opellam mean transferetur; sed carminum ordo mihi perturbarus, planeque varius fururus est» (corsivi miei): Gassendi (r6s8, vol. VI, pp. 49-so ). ~6. Il nome di Gassendi però è assente dalle bibliografie lucreziane (cfr. Gordon, 198s).

2.35

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

ne particolare dato ai versi del poema lucreziano 37 invitava a una lettura nuova, l'opera di Gassendi rivelava un'altra peculiarità che avrebbe attratto l' attenzione dei suoi contemporanei e in particolare degli scienziati. Lucrezio da solo, infatti, non era sufficiente a dimostrare la validità dei fondamenti teorici della filosofia epicurea e, soprattutto per quanto riguardava temi inerenti la fisica, Gassendi apriva delle digressioni tese a dimostrare come gli esperimenti prodotti dalla scienza a lui contemporanea avessero fornito delle inconfutabili prove empiriche della composizione atomica della materia, del moto degli atomi e, non da ultimo, dell'esistenza del vuoto. Così, dopo aver riportato i versi di Lucrezio sul moto degli atomi nel vuoto e il ruolo del peso nel moto di questi attraverso mezzi più o meno densi (n, 225-242), Gassendi aggiungeva un'approfondita appendice intitolata De nupero esperimento circa inane coacervatum (Gassendi, 1649, vol. I, pp. 424-45) nella quale dava conto dei recenti esperimenti di Torricelli sul vuoto, e un'altra, ancora più lunga, intitolata De aequalitate motus atomorum ipsis concretionibus (ivi, pp. 445-94), ove esaminava le più recenti teorie sul moto dei corpi, in primis quella di Galileo, giungendo a formulare con maggior chiarezza rispetto ai suoi contemporanei il principio di inerzia (Pav, 1966) (cfr. FIG. 8.2). I due temi principali che durante il Seicento misero in discussione i cardini della fisica aristotelica erano, come noto, la questione del vuoto e la reinterpretazione della natura del moto dei corpi, ed entrambi questi temi rappresentavano la parte costitutiva dell'atomismo lucreziano. Nel De rerum natura, infatti, gli atomi si muovono nel vuoto di moto prevalentemente rettilineo e la quantità di moto nell'universo rimane costante. Il vuoto in Lucrezio è la condizione del movimento e il suo esame dei moti è dunque conseguente all'esistenza del vuoto, così come la concezione del moto di Aristotele era l'effetto del cosiddetto horror vacui. Nella prima metà del Seicento si innescò, a seguito della scoperta di Evangelista Torricelli della pressione atmosferica, una nuova discussione, non più filosofica, sull'esistenza del vuoto. L'esito sensazionale degli esperimenti sul

Munro (Lucrezio, 1866, vol. 1) dava del Syntagma il giudizio seguente: « The two flrsr of his huge folios are given ro this philosophy [epicurean], and a large portion of them ro the exposition ofLucretius. Much that is curios may be gathered from them [... ]; but, ro say the rrurh, l have not found much ro my purpose in them>>. 37· Sono molteplici i passi delle Animadversiones (Gassendi, 1649) nei quali Gassendi cita nella stessa pagina versi lucreziani provenienti da libri diversi del De rerum natura (si vedano ad esempio, per limitarci al solo I volume, le pp. Il9, l66, l89, l9l, 494. SOl, 537, 66o, 708, 7l8 e 739)-

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FIGURA 8.2

Vignetta incisa nel primo volume dell'edizione fiorentina delle opere di Gassendi (1727). L'incisione mette in risalto il barometro torricelliano, il telescopio e il compasso di Galileo, srrumenti che Gassendi aveva messo in relazione con l'opera di Lucrezio

vuoto, realizzati con lo strumento divenuto poi noto con il nome di barometro, venivano entusiasticamente annunciati in una lettera datata 11 giugno 1644 a Michelangelo Ricci, il quale, come molti suoi contemporanei, ne intuì immediatamente la portata teorica e, nella sua sollecita risposta del 18 giugno, così scriveva a Torricelli: Fu opinione degli epicurei che non solo il vacuo naturalmente si potesse dare, ma che in effetti si ritrovassero nel mondo molti spazi vuoti, come V.S. si ricorderà d'aver letto presso Lucrezio. [... ] Il modo con che V.S.le esperienze ha fatte in riprova del vacuo, cioè del salire le cose gravi contro sua naturale inclinazione, io lo giudico tanto più buono dell'altro [di quello adottato dai teologi per confutarne il fondamento]. quantoché con questo ci conformiamo alla semplicità della natura nelle opere sue ( Galluzzi, Torrini, 1975, p. 125)1 8. 38. La

stessa associazione tra l'esperimento torricelliano e gli argomenti adottati da Lucre2.37

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

Torricelli, nella sua risposta, lasciò cadere l'argomento e possiamo ben comprendere i motivi per cui non si avventurasse a esprimere pubblicamente un'opinione favorevole per una dottrina pericolosa come l'atomismo. Sappiamo però che in privato il testo di Lucrezio non doveva essergli stato del tutto indifferente, per aver atteso agli ultimi atti della stampa dell'edizione di Lucrezio con il commento di Nardi del 1647 (ivi, p. 361) e averla poi acquisita poco prima di morire (ivi, p. 476). Scevro da questo tipo di remo re, l'inserimento di Gassendi dell' esperimento torricelliano nel commento a Epicuro inquadrava questo sensazionale risultato dentro il perimetro dell'atomismo lucreziano, conferendogli una portata ideologica ben maggiore di quella che il suo autore sarebbe stato pronto a concedergli. Altri passi del testo di Lucrezio dedicati alle proprietà della calamita, alle parti degli animali, alla generazione biologica, ai fenomeni meteorologici e alla composizione chimica dei corpi erano egualmente usati da Gassendi per mostrarne il valore anticipatore sui risultati ottenuti dalla scienza sperimentale a lui contemporanea e, allo stesso tempo, per sottolineare la superiorità scientifica dell'atomismo rispetto alla filosofia della natura aristotelica. Tali sorprendenti risultati, inoltre, si innestavano in un'etica che, diversamente da quanto era stato ingiustamente sostenuto dai detrattori di Epicuro, era perfettamente compatibile con i principi della fede cristiana. Nonostante la non facile organizzazione dell'opera, spesso prolissa e di non facile lettura, le Animadversiones39 e la successiva edizione del Syntagma, pubblicato nella collezione delle opere del 1658, conobbero una fortuna immediata, tanto che nel 172.7, quando Lucrezio era entrato già da dieci anni nell'Indice dei libri proibiti, appariva a Firenze, senza incorrere in alcuna forma di censura, una seconda edizione delle opere (Gassendi, 17l7 ). Forse non ci si era avveduti, allora come oggi, che il Syntagma conteneva un'edizione, pur sui generis, del De rerum natura. Eppure, la diffusione di Lucrezio, il suo significato scientifico e la sua attualità nella lotta dei novatores contro Aristotele appariva nell'edizione di Gassendi molto più evidente di quanto lo fosse stato nelle edizioni rinascimentali.

zio per dimostrare l'esistenza del vuoto veniva sottolineata dallo scienziato francese François du Verdus: ivi, p. 140. 39· Stampare ben tre volte nel Seicento.

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8.4 Lucrezio alla conquista della scienza Una ragione non secondaria al successo riscosso dali' opera di Gassendi risiedeva, rra l'altro, nell'aver disinnescato le istanze eterodosse del poema lucreziano, introducendo l'ipotesi che gli aromi fossero srari creati da Dio. In quesro modo l' aromismo divenrava compatibile con i principi della teologia e parzialmenre immune dalle insidiose censure che provenivano dai gesuiti. È significativo a questo riguardo che il rradurrore di Gassendi in inglese, il medico Walrer Charleron, avesse pubblicaro nel 1652. una refurazione atomista dell' ateismo 40 e, due anni dopo, la prima sinresi del pensiero di Epicuro fedelmenre impronrara alla srraregia di Gassendi (Charleron, 1966). L'opera di Gassendi fornì l'occasione a molti altri naturalisti europei di attualizzare Epicuro e individuare, spesso con non piccole forzature, i punri di contatro tra l' aromismo classico e il corpuscolarismo cartesiano. I tempi erano dunque maturi perché anche Lucrezio venisse reinterpretaro da altri scienziati e naturalisti, e l'Inghilterra fu il paese dove, a seguito dell' immediata diffusione delle opere di Gassendi, ci si cimentò in questa impresa con importanti risultati. Del resto, il contesro britannico era da tempo ricettivo nei confronti dell'atomismo poiché la diffusione di Lucrezio aveva già conosciuto un notevole impulso con l'opera di Francis Bacon (Gemelli, 1996). Il contatro della cultura inglese con Gassendi, inoltre, era stato diretto e molro precoce. Il cosiddetto circolo di Newcasde, un gruppo di naturalisti e filosofi inglesi - tra cui spicca il nome di Thomas Hobbes - che ruotava intorno a William Cavendish, duca di Newcasde, e che negli anni Quaranta si era rrasferiro a Parigi, aveva intrattenuto una fitta rete di scambi fìlosofici e scientifici con Gassendi e altri scienziati francesi 4 '. Molti erano i medici e i naturalisti in contatro con il gruppo e tra questi, oltre a Charleton e Kelnem Digby, si segnala John Evelyn, uno dei fondatori nel 166o della Royal Society e, nel r6s6, autore della traduzione inglese, corredata di un ampio commento, del primo libro del De rerum natura (cfr. FIG. 8.3). Riconosciuro il proprio debito all'edizione di Gassendi 41 e alle opere di Charleron, Evelyn richiamava l'arren-

40. Charleron (1652.). Il tentativo di Charleron era sraro preceduro da Henry More (1646), il quale aveva cercaro di conciliare l'aromismo epicureo con la donrina plaronica in un poema di impronta lucreziana. 41. Su questo gruppo e la sua adesione all'atomismo scientifico vedi Kargon (1966) e Clucas (1994). 42.. L'edizione runavia venne preparata sul teseo larino di Denys Lambyin del1S70.

239

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FIGURA 8.3 Frontespizio della traduzione diJohn Evelyn del I libro del De rerum natura (1656)

zio ne sull'affinità di alcuni passi del poema latino con la filosofia della natura di Bruno e Descartes 43 • Per un credente come Evelyn la convincente neutralizzazione da parte di Gassendi e Charleton del materialismo eterodosso lucreziano consentiva di appropriarsi di una dottrina, quale l'atomismo, che sembrava 43· Lucrezio (1656). Per i passi su Descartes cfr. le pp. 114, 133 e 172, per quello su Bruno p.

120.

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condurre le scienze sperimentali a risultati sempre più innovativi e sorprendenti. Tuttavia, consapevole delle ambiguità contenute nel testo, nella prefazione alla propria traduzione Evelyn respingeva come detestabili le opinioni di Lucrezio sulla religione e la mortalità dell'anima, e anche laddove confermava, sulla scia degli esperimenti di Gassendi, l'esistenza del vuoto, lo identificava con il caos descritto nel libro della Genesi (Lucrezio, 1656, p. 170) Benché Evelyn avesse terminato anche i libri II-VI della sua craduzione 44 , non sono chiari i motivi per i quali rinunciò alla loro pubblicazione: forse l'entusiasmo manifestato dai seguaci della dottrina lucreziana nella loro lotta contro l' aristotelismo dovette contribuire a farlo recedere da quello che gli sembrava un contributo troppo esplicito a favore di una concezione scientifica radicalmente nuova e fortemente critica nei confronti di qualsiasi forma di finalismo provvidenzialistico4s. Come è stato opportunamente osservato, le annotazioni di Evelyn erano comunque più pertinenti e perspicue di quelle, pur destinate a diventare canoniche, di Thomas Creech 46 . L'attenzione di Evelyn infatti, piuttosto che rivolgersi a redimere questioni di carattere filologico, era orientata a svelare il significato dei numerosissimi passi del poema che richiedevano competenze scientifiche e che solo un naturalista immerso nel dibattito che stava investendo la filosofia della natura poteva spiegare in modo soddisfacente. Come già aveva mostrato Gassendi, tale operazione non poteva essere neutrale, e la pubblicazione di una così esplicita e documentata riabilitazione di Lucrezio si calava nella battaglia che i sostenitori dell'atomismo stavano muovendo contro la tradizione scolastica. Anche se Evelyn, interrompendo la sua traduzione, si ritirava prudentemente dalla lotta, molti autorevoli membri della Royal Society, da Boyle a Newton, da Sprat a Hooke, rivalutarono l'opera di Lucrezio facendola entrare legittimamente nel pantheon delle auctoritates della nuova scienza sperimentale.

44· I manoscritti di questi libri sono oggi conservati presso la Brirish Library di Londra. 45· Che questa fosse la percezione comune lo dimostrano i versi che l'amico poeta Edmund

Waller volle dedicare «To his Worrhy Friend Maisrer Evelyn, upon his Translarion ofLucrerius: Lucrerius wirh a Srork-like fare l Born an d rranslared in a Stare, l Comes ro proclaim in English Verse l No Monarch rules the Universe; l But chance and Atoms make this ali... » (da Lucrezio, 16s6. p. 3: corsivi miei). 46. « The notes [by Creech] are h ostile an d uninrelligenr, displaying far less undersranding ofLucrerius rhan Evelyn's notes do» (Harrison, 1934. p. 64). Estremamente critico nei confronti della versione di Evelyn fu invece il medico John Mason Good che nel ISo; scriveva un giudizio lapidario: «no one who is acquainred wirh his version, will regrer rhar ir did nor exrend furrher» (in Lucrezio, 18o;, vol. I, p. x). 241

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s.s Lucrezio ali' Indice Di poco successiva alle edizioni di Gassendi ed Evelyn se ne segnala un'altra ad opera di uno scienziato, ancora una volta italiano, destinata a divenire la più celebre del XVII secolo. Alessandro Marchetti fu uno degli allievi prediletti di Giovanni Alfonso Barelli che, come abbiamo visto, era stato protagonista nel risvegliare, intorno alla metà del secolo, un diffuso interesse per l'atomismo. È probabile che sia stato proprio Barelli a spingere il suo scolaro, alla fine degli anni Cinquanta, a tradurre il De rerum natura in italiano, un'impresa ancora mai tentata 47• Nel I659, non ancora laureato, Marchetti si era distinto per la pubblicazione, oggi andata perdura, di una difesa ex professo di settanta conclusioni filosofiche dirette contro Aristotele e accolte benignamente da Leopoldo de' Medici, attivo mecenate della scienza galileiana e, in particolare, dell'Accademia del Cimento. Anche se Marchetti non fu membro dell'illustre consesso accademico, partecipò su invito di Barelli e del granduca alle riunioni informali che, di quando in quando, si svolgevano a Pisa. Nel1667 Marchetti otteneva a 34 anni la cattedra di filosofia ordinaria presso l'Università di Pisa. Benché non avesse ancora pubblicato alcuna opera scientifica di rilievo, la sua reputazione sembrava p re figurargli una carriera brillante. In quello stesso anno però l'atmosfera culturale toscana, fino ad allora ancora relativamente favorevole al sostegno dei galileiani, doveva subire i primi segnali di irrigidimento. La pubblicazione dei Saggi di naturali esperienze sanciva infatti l'ultimo atto dell'Accademia del Cimento, e, dopo i dissidi emersi con Vincenzo Viviani, Barelli lasciava Pisa per fare ritorno alla natia Messina. Con la dipartita di Barelli i sostenitori del!' atomismo, quasi tutti concentrati nell'ateneo pisano, si rivolsero a Marchetti per continuarne l'opera e il giovane galileiano, senza perdere tempo, si impegnò a rendere ulteriormente esplicito e visibile l'atomismo scientifico del comune maestro. Già dal1664 aveva comin-

47· Tuttavia Tiraboschi (182.4, vol. VII, p. 1797) riporta la seguente testimonianza, ripresa anche da Gordon (198s): «Una traduzione di Lucrezio in versi sciolti avea intrapresa Gianfrancesco Muscertola, lodata in una sua lettera dal Minturno (Min. Lett. I.S, lett. 7 ), che sol ne riprende il troppo saper di latino. Ma ella non venne a luce». Di Muscettola si sa solo che era originario di Napoli e secondo un suo contemporaneo aveva fatto prova di essere «un uomo di belle lettere, ma di pronto e mordace ingegno» (Castaldo, 1769, p. 71). La traduzione di Muscettola sembra dunque abbia avuto origine nel contesto napoletano. Su Marchetti e la sua traduzione vedi Saccenti (1966), Galluzzi (199s). Beretta (2.0o9b) e Costa (2.012.).

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ciato la traduzione del De rerum natura per portarla a termine, almeno nella sua prima stesura, tre anni dopo. L'8 gennaio del1667 Marchetti scriveva al principe Leopoldo per sollecitare la stampa del Lucrezio e di un'opera di meccanica dal promettente titolo Galileo ampliato 48• L'anno successivo inviava al granduca Ferdinando II una Lettera nella quale si ricerca donde avvenga che alcune perette di vetro, rompendosi loro il gambo, tutte si stritolino 49 ove, per spiegare la particolare solidità di alcuni vetri donati al granduca, le cosiddette lacrime di vetro, si rifaceva direttamente all'atomismo di Lucrezio, stabilendo la differente natura tra i minimi di fuoco o minimi ignei (definizione tratta dai lucreziani minima ignis) e quelli del vetro. Ricorrendo alla differente forma, figura e disposizione degli atomi, Marchetti dava una spiegazione corpuscolare della causa della sorprendente resistenza del vetroso. Nel1667, a poco meno di un anno dalla sua nomina a professore di logica a Pisa, Marchetti aveva dunque cercato di diffondere, attraverso diversi canali, i contenuti del De rerum natura adattandoli ai progressi della scienza galileiana. Sono di questi anni gli appunti, rimasti inediti, di alcune lezioni relative alla struttura della materia, nei quali lo scienziato toscano sosteneva che: 1.la materia era composta da un numero infinito di particulae la cui aggregazione si reggeva sul principio lucreziano secondo il quale nihil ex nihilo jìt; 2. gli atomi si muovevano sì in linea retta, ma, scontrandosi, potevano dare luogo a moti diversi (spiegazione meccanica del clinamen); 3· il moto degli atomi era causato da una forza interna alla loro struttura (Lucrezio e Barelli); 4· gli atomi si muovevano nel vuoto, rivalutato da Marchetti contro gli argomenti plenisti addotti da Bérigard e Descarres; s. i misti, cioè i corpi, si dovevano risolvere,

48. «Oltre all'operuccia del mio Lucrezio già nora molro bene aii'A.V.R., mi trovo ad aver composro in diversi tempi un rranarello di matematica intorno alle resistenze de' corpi duri all'essere spezzati; nel quale non è sraro altro l'intento mio principale, che l'estendere ed ampliare ... il nostro sempre ammirabile Galileo» (in Saccenti, 1966, p. 41). L'opera di Marcheni prese poi il più cauro tirolo di De resistentia solidorum. 49· Pubblicata però solo nel 1677. A quesro proposiro Targioni Tozzerri (1780, vol. 1, p. 2.s8) scrive: «Qui è il luogo di notare, che il granduca [Ferdinando 11] essendogli stare mandare di Brussels nel 1662., e da Amburgo, quelle famose gocciole di vetro, che rotte in qualsiasi parre tune quante si srrirolino, stare vedute in Francia fino del 16s6, ordinò a diversi filosofi della sua Corre, che vi facessero sopra delle osservazioni, per rintracciare la cagione di quel mirabile fenomeno». so. Sulla lettera di Marcherei e, più in generale, sul dibarriro intorno alla natura delle lacrime vitree vedi G6mez L6pez (1997b, pp. 17s-6).

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attraverso l'analisi chimica, negli atomi differenti che entravano nella loro composizione. Le lezioni di Marchetti avevano scatenato la reazione di Giovanni Maffei, professore di filosofia a Pisa, il quale, alla fine del1669, denunciava, in una lunghissima lettera indirizzata al granduca, le insidie materialiste della filosofia di Democrito. Al fine di porre al bando l'insegnamento dell'atomismo dall'ateneo pisano, la denuncia di Maffei 11 ricorreva, tra le altre cose, all'autorità ecclesiastica richiamando l'attenzione del sovrano sulle decisioni del concilio Lateranense, celebrato da Leone x nel I SI?, che esplicitamente condannavano l'opera di Lucrezio 11 • All'attacco di Maffei Marchetti rispose all'inizio del167o con una lunghissima lettera, indirizzata al cardinale Leopoldo, significativamente intitolata

Risposta dei filosofi ingenui e spassionatifolsamente detti democritici alle obiezioni e calunnie de' peripatetici, nella quale ricordava che Aristotele stesso «lasciò scritto che i sensi erano il fondamento d'ogni discorso e che l'esperienza d'ogni cosa era maestra» e che l'insegnamento della nuova filosofia era stato non solo incoraggiato, ma anche adottato da Leopoldo e Ferdinando e che, in più di un'occasione, al fine di redimere questioni scientifiche, i sovrani avevano chiamato a corte Marchetti, Barelli, Bellini, Fracassati e Rossetti e non i peri patetici. «Dal che si può dedurre che la nostra filosofia e il nostro modo di professarla gli sia piaciuto più d'alcun altro» sJ. La polemica fu chiusa, forse con l'intervento mediatore di Francesco Redi, senza alcuna conseguenza apparente. Tuttavia, l'appoggio di Leopoldo alla stampa della traduzione marchettiana di Lucrezio veniva revocato. Inizialmente Leopoldo suggeriva a Marchetti di purgare il poema dai passi più empi, ma nel1673 lo intimava a non stamparlo assicurandogli che la copia manoscritta custodita nella biblioteca granducale non avrebbe vanificato il lavoro. È difficile comprendere come un poema che aveva passato indenne tutte le censure della Controriforma venisse ora tanto osteggiato da chi aveva dato vita all'Accademia del Cimento. Secondo Marchetti dietro alla decisione di Leopoldo c'erano

Pubblicata in Galluzzi (199). pp. 1325-n). La condanna però era circoscritta al seguente punto: «Prohibet legi in scholis puerorum opera lasciva, & poemata Lucretii. Ut nullus de caetero ludi magister audeat in scholis suis exponere adolescenti bus poemata, aut quaecumque alia opera lasciva & impia: quale est Lucretii poema, ubi animae mortalitatem totis viri bus ostendere nititur; contrafaciemes excommunicari, & in ducatis decem, carceribus stancharum applicandis, condemnari» (ci t. in Mansi, 1902, p. 270). Sul significato di questa condanna si veda Hilgers (1904, p. 396). )3. La risposta di Marchetti è pubblicata in Galluzzi (1995. pp. 1334-44). )I.

)2.

2.44

8. SCIENZIATI EDITORI DEL DE RERUM NATURA

i "cattivi uffìzi" di Vincenzo Viviani che, da segretario di Galileo, era divenuto amico dei gesuitil4. Per superare degli ostacoli che sembravano orami insormontabili, Marchetti decise allora di ricorrere, attraverso la mediazione di Antonio Magliabechi, all'autorità del nuovo granduca, Cosimo III de' Medici. La natura apparentemente malleabile e facilmente influenzabile del nuovo sovrano sembrava aprire nuovi spiragli perché la questione si risolvesse con la bramata concessione. Prima di procedere a nuova richiesta Marchetti si risolse di dedicargli la traduzione e di premettere una nota in cui si condannava con decisione l'empia filosofia degli epicurei. Questi espedienti però ancora non bastarono a convincere Cosimo III il quale, nel 1673, poneva come condizione per la pubblicazione l'approvazione della Sacra Congregazione di Roma. Come ci si doveva aspettare, dalla capitale il responso fu negativo. La mancata pubblicazione della traduzione marchettiana non ne impedì d'altra parte una notevole diffusione. Decine di copie circolarono manoscritte in tutta Italia suscitando grande interesse sia tra gli scienziati che tra i letterati e i filosofi. Borelli, Redi, Magalotti, Del Papa, Bellini, Rossetti, Michelangelo Ricci, Leonardo di Capua ne ebbero quasi certamente una copia, ma la diffusione deve essere stata molro più capillare di quanto lascino intendere i numerosi manoscritti ricopiati. La regina Cristina di Svezia, impegnata a sostenere i novatores della scienza sperimentale, sembra che avesse preso anche Marchetti sotto la sua protezione, favorendo così la diffusione del Lucrezio pro ibiro anche nella capitale della Controriformass. Ulteriori preziose testimonianze su tale diffusione ci vengono da due importanti provvedimenti giudiziari deliberati per impedire la diffusione dell'atomismo in Italia. Il 10 ottobre del 1691, su ordine di Cosimo III veniva ordinato che «da n iuno dei Professori della sua Università di Pisa si legga né si insegni, pubblicamente né privatamente, in scritto o in voce, la filosofia democritica ovvero degli aromi, ma solo l'aristotelica: e chi in modo alcuno contravvenisse alla volontà dell 'A.S. s'intenda ipso facto licenziato dalla cattedra che tiene». Quasi contemporaneamente (1688), a Napoli, alcuni seguaci della locale

S4· Sugli intrighi tramati da Viviani contro Marcherri si veda la ricca documentazione pubblicata da Saccenti (1966, pp. 4l-7 ). SS· Arckenholtz (17SI-6o, vol. IV, pp. so e lSI·s). Su Cristina e la scienza cfr. Clericuzio, Conforti (1997 ). Vale la pena sottolineare che una delle opere scientifiche dedicate a Cristina, il poema La luce di Michele Milan i (Amsterdam 1698) riprendeva in versi l'ipotesi corpuscolare di Lucrezio per spiegare la natura della luce. Milan i era un accademico umorista e, come abbiall1o visto, l'accademia romana aveva preso come motto un verso lucreziano.

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Accademia degli Investiganti venivano chiamati dall'autorità ecclesiastica a difendersi dalla gravissima accusa di ateismo. Il processo, durato quasi dieci anni, si chiudeva nel 1697 con l'abiura dei principali accusati, ma quello che ci interessa sottolineare è, anche in questo caso, il ruolo, non secondario, della traduzione marchettiana di Lucrezio. Il 15 febbraio del 1693, l'arcivescovo di Napoli Giacomo Cantelmo ammoniva i suoi fedeli «della necessità indispensabile di fuggire, come mostri velenosi, i libri infetti d'eresie e di infame ateismo, e specialmente l'empio Lucrezio traslato, per arte del demonio, in metri italiani, purtroppo applaudito». Tanto acclamato che alcuni accusati ammisero al tribunale dell'Inquisizione di essere divenuti atei solo dopo aver letto la traduzione di Marchetti 16 • Le persecuzioni contro i napoletani non furono senza conseguenze, tanto che anche a Roma, a partire dal 1690, la vigilanza contro i medici che avevano manifestato simpatie per l'atomismo si inasprì al punto da sfociare nella persecuzione. Divenne ormai chiaro a tutti i naturalisti italiani che non bastava più addurre il cattolicesimo di Gassendi quale argomento per poter difendere la legittimità di una dottrina ormai considerata eretica 57• Nel 1713 si annunciava, a Napoli, la stampa della traduzione che, quasi certamente, doveva esser stata in preparazione da tempo ma che probabilmente non vide mai la luce 18 • Nel 1717, esattamente quattro secoli dopo la scoperta di s6. Su questa vicenda e la documentazione annessa si veda Osbar (1974). A Osbar è sfuggito che nel 1693 veniva stampata a Napoli un'edizione dell'opera lucreziana: Lucrezio (1693). Sarebbe interessante indagare su li'origine di questa edizione, che riproduce il testo dell'edizione ad usum Delphini del 168o e che non lascia trapelare nulla delle persecuzioni contro gli atomisti italiani. Quel che si può succintamente dire è che lo srampatore, Antonio Bulifon, aveva pubblicato opere di Giovan Battista della Porta, Leonardo di Capua, Marco Aurelio Severino e di altri sostenitori del rinnovamento culturale napoletano. La data poi di pubblicazione coincide, inoltre, con la messa all'Indice, su richiesta dei Gesuiti, dello scritto di Leonardo Di Capua, Parere[. .. } divisato in otto ragionamenti nei quali partitamente narrandosi l'origine ed il progres· so della medicina, l'incertezza della medesima si manifèsta (1681). Sull'atomismo scientifico a Napoli si veda Borrelli (lOoo). S7· Sul caso romano si veda Donato (2003). In che misura la traduzione di Marcherei fosse circolata negli ambienti scientifici romani non è dato di sapere, anche se è altamente significati· vo che la regina Cristina di Svezia, dopo aver promosso la pubblicazione postuma dell'opera di Borelli De motu animalium (168o-81), avesse tenuto una corrispondenza, oggi perduta, anche con Marchetti. Data l'importanza, pur intermittente, dell'Accademia scientifica promossa dalla regina nel tutelare gli scienziati romani nella loro autonomia di ricerca, è possibile che Marchet· ti abbia avuto un ruolo non del tutto secondario anche nelle vicende romane. sS. In una lettera di Antonio Vallisnieri ad Antonio Conti datata 21 novembre 1713 si legge infatti: «Sempreppiù si incalza la lire tra i fiorentini e un certo Sig. Ferrari di Lucca, ed il Bertini scrive, e si veggono bellissime critiche, che daranno novità mediche al Giornale. Le liti

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FIGURA 8.4 Frontespizio della traduzione italiana del De rerum natura (Londra 1717 ),la prima edizione dell'opera lucreziana a entrare, nel1718, nell'Indice dei libri proibiti

DI TITO LUCREZIO CARO DELLA NATURA DELLE COSE LIBRI SEI. TRA DO T T I '

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Bracciolini del primo codice manoscritto, la prima traduzione italiana di Lucrezio veniva pubblicata a Londra per i tipi di John Pickards9 • Marchetti era sono se l'olio di mandorle dolci convenga nelle febri,l' aciaio nell'idropisia, il latte nel mal caduco etc. Non si sono mai empiuce le cattedre nuove. Io voleva tirare in quella della Matematica il S.r Alessandro Marchetti, ma non ha potuto disimpegnarsi. Hanno stampata a Napoli la sua traduzione di Lucrezio» (cit. in Conti, 1973, p. 383). S9· L'ipotesi proposta da alcuni storici (cfr. Ferrone, 1982, pp. 465-7) che l 'edizione del 1717 fosse in realtà stampata a Napoli e, per di più, dall'editore Lorenzo Ciccarelli, proprietario di una "stamperia segreta", il quale nel1710 aveva dato alle stampe un'edizione pirata del Diaologo di Galileo, è priva di fondamento. Sarebbe stato sufficiente, per accorgersene, un

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morto nel 17I4 e fu solo grazie al poeta Paolo Rolli, residente a Londra, che fu possibile aggirare le numerose proibizioni e censure italiane. Non per molto però, perché poco dopo esser stato pubblicato, nel 1718, il De rerum natura tradotto veniva inserito, per la prima volta, nell' Index librorum prohibitorum 60 (cfr. FIG. 8.4). I motivi che indussero le autorità civili ed ecclesiastiche a deliberare misure repressive così restrittive erano da ricercarsi nella crescente importanza fùosofica dell'atomismo lucreziano in ambito scientifico.

8.6 Newton, Lucrezio e l'Illuminismo Per obiettivi e contenuto, la traduzione di Marchetti si rifaceva alle opere di Gassendi 6 ' con l'intento di recuperare l'atomismo qualitativo di Lucrezio e, principalmente, le sue applicazioni nell'ambito della medicina, della teoria della materia e dei fenomeni di fisica sperimentale, lasciando in secondo piano quei confronto tra le vistose differenze tipografiche presenti nelle due opere e, contemporaneamente, la conformità dei caratteri dell'edizione di Rolli con tutte le altre opere pubblicate dall'editore londinese Pickard. Tra il 1716 e il 1738, Pickard, su sollecitazione di Rolli, aveva pubblicato opere di Ariosto, Guarini, Berni, Salvini, Lami e dello stesso Rolli. Inoltre, che la traduzione di Marchetti fosse stata stampata a Londra era cosa nota agli addetti ai lavori. Rolli infine non aveva legami che saltuari con l'Italia, e non si vede perciò il motivo per cui si fosse dovuto imbarcare in un'impresa tanto laboriosa quanto pericolosa quale quella di pubblicare un libro sul quale si era accesa un'attenta vigilanza da parte delle autorità ecclesiastiche italiane quando la medesima operazione poteva farsi con facilità e profitto nella sua città di residenza. 6o. Lettera dell'erudito fiorentino e bibliofilo Anton Francesco Marmi (166s-1736) a Pier Caterina Zeno del 3 dicembre 1718: «con più strepitosa proibizione di quella usata da codesta saviissima Repubblica è stata da Roma interdetta la lettura della traduzione di Lucrezio del nostro Alessandro Marchetti, e con ragione, poiché in Napoli anni sono la volevano pubblicare, e io l'impedii, e mi fu scritto che alcuni divennero ateisti per leggerla nel manoscritto, e fu creduto che la setta qui vi allignata abbia avuto principio da questo libro, ma il maggior torto al Marchetti lo ha fatto il Rolli editore, e vi viene anche aserito da un prelato, che fu impedito, non ha gran tempo, che si stampasse in Olanda>> (cit. in Generali, 1990, p. 173). Significativamente, la traduzione veniva messa al bando anche nelle sue eccessive edizioni. 61. Marchetti stesso, infatti, ampliando la sua traduzione, includeva a metà del v libro i versi seguenti: «E finalmente l questa stessa cagione e questa stessa l Natura delle cose, ancorché molto l Sia che già fu trovata, ornai del tutto l Quasi sepolta in sempiterno obblio, l Pur di fresco è risorta, e viepiù vaga, l E più bella che mai per le immortali l Opere del Gran Gassando onore e lume l del bel Paese ove la Senna inonda>> (Lucrezio, 1717, p. 270 ). A metà del I libro (ivi, p. 36) Marchetti aveva fatto un analogo onore al suo maestro Borelli.

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te m i cosmologici intorno alla natura dell'universo che erano ancora troppo controversi e, come ci si ricordava ancora bene, erano costati la vita a Giordano Bruno. Tuttavia, il successo, almeno nei paesi protestanti, della neutralizzazione gassendiana dei contenuti eterodossi del poema permetteva a molti autori di aspirare alla costruzione di un nuovo atomismo, pienamente cristiano, capace di fornire una spiegazione della struttura intima dell'universo. Complementare a questo recupero, le opere di Galileo e Descartes avevano fatto nascere l'esigenza di abbandonare l'atomismo delle qualità e di individuare una base quantitativa e matematica che potesse assicurare alla dottrina lucreziana una scientificità che, al momento, sembrava ancora ancorata a una logica fenomenica non troppo distante dal sensismo aristotelico. Tra questi autori quello che più di tutti dette un impulso duraturo a questa tendenza fu lsaac Newron (Guerlac, I977) il quale, anche se non ebbe un ruolo diretto nella pubblicazione di una nuova edizione del De rerum natura, contribuì indirettamente a fornire nuove interpretazioni filologiche di alcuni passi cruciali del poema che vennero fatte proprie dai filologi suoi contemporanei. Nella tormentata vicenda relativa alla pubblicazione del capolavoro della rivoluzione scientifica, i Philosophiae Naturalis principia mathematica (I687 ), Newton evitò accuratamente di rivelare al lettore le ricerche storico-filologiche che stavano alla base dell' opera62 • Un indizio evidente dell'importanza attribuita a Epicuro e a Lucrezio però è già presente nell'ode In viri praestantissimi D. Isaaci Newtoni opus bocce matematico-physicum speculi gentisque nostrae decus egregium che l'astronomo Edmund Halley, il finanziatore dell'opera, aveva anteposto ali' incipit, e in cui vi si parla delle leges introdotte dal Crea tar per regolare il moto dei primordia rerum e dove si ritrae Newron allo stesso modo in cui Lucrezio aveva rappresentato Epicuro nei suoi proemi (Albury, I978). Nella corrispondenza dello scienziato inglese l'adesione ali' atomismo lucreziano si era manifestata più esplicitamente. La legge di inerzia, già intuita da Descarres 6 l, veniva ripresa da Newron ( Cohen, 1964) il quale, in una nota del 1684 destinata a essere pubblicata nei Principia, così scriveva:

62.. Come illustraro da Casini (1984). 63. Nel1644, nella seconda parta dei Principia philosophiae, Descartes aveva infatti stabilito che: «Prima !ex naturae: quòd unaquaeque res, quantum in se est, semper in eodem statu pnseveret; sicque quod seme! movetur, semper moveri pergat» (Descartes, 1996, vol. 8, p. 62.). Si tratta appunto della prima legge del movimento nota come principio di inerzia. Che l'enunciazione di questo principio derivasse direttamente da Lucrezio lo si evince dall'uso che Descartcs fa dell'espressione quantum in se est che è quella che usa il poeta laùno al verso 190 del secon-

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Tutti questi antichi conoscevano la prima legge che attribuisce agli atomi di un vuoto infinito un moto rettilineo, estremamente rapido e perpetuo perché privo di resistenza. Questa è l'opinione di Lucrezio 64 quando dice che la luce del sole è rapidissima e tuttavia impedita nel suo moto 6 S.

Tra il1693 e il I 694 Newton, in preparazione di una seconda edizione dei Principia, scrisse gli scoli i classici 66 nei quali intendeva finalmente mostrare l'antica prisca sapientia che aveva ispirato le principali proposizioni del suo lavoro, e dove giungeva alla conclusione che «la filosofia di Epicuro e Lucrezio [era] antica e vera, ma erroneamente interpretata dagli antichi come ateistica» 67• I fondamenti di tale filosofia erano da ricondurre alla struttura corpuscolare della materia, alle leggi che regolavano il moto degli atomi e allo spazio i cui connotati richiamavano il vuoto lucreziano. Avvertito dall'amico Richard Bencley (Hine, 1995, p. 72.8), uno dei più illustri filologi di Oxford, dei pericoli insiti nella dottrina epicurea, Newton decise alla fine di non pubblicare le sue note su Lucrezio. Nella sua celebre Boyle Lecture del maggio 1692. intitolata A Confutation ofAtheism from the Origin and Frame ofthe World, Bendey ( I838, pp. II9-2.0o) avrebbe poi distinto l'atomismo newtoniano da quello, ai suoi occhi molto più pericoloso, di Thomas Hobbes e degli altri filosofi epicurei. Inoltre, sollecitato dal fecondo scambio epistolare avuto con Newton, Bendey incominciò a pensare a una nuova edizione di Lu-

do libro dove scrive che «i corpi pesanti, per quanto sta in loro [e cioè senza che intervengono cause esterne a deviarne la traiettoria], sono tutti trascinati verso il basso». Anche la terza legge enunciata nei Principia, quella tesa a stabilire «quando e come il movimento di ogni corpo possa essere accresciuto e diminuito dall'urto con altri» risultava nell'assunzione della conservazione della quantità moro, un principio che sembra richiamare i versi 2.96-2.97 del secondo libro del De rerum natura dove Lucrezio, dopo aver stabilito l'immutabilità della materia, sembra sostenere l'immutabilità della quantità di moto presente nell'universo. Su questo si veda Hine (I995). 64. «Ma quel caldo che il sole irradia e quel lume sereno non traversano il libero vuoto: perciò [gli atomi] son costretti a procedere più lenti, mentre quasi fendono l'aria>> ( «at vapor is, quem sol mittit,lumenque serenum l non per inane meat vacuum; quo tardius ire>>; Lucr. Il, 150-151). 65. «Legem primam agnoverunt antique quotquot atomis in vacuo infinito motum rectilineaum longe velocissimum & perpetuum ob resistentiae defectum tribuerunt quam sententiam Lucretius cum dixerat lucem solis celerrime moveri & tamen in progressu suo impediri>> (Newton, 1978, p. 309). 66. L'edizione integrale di queste note inedite è in Casini (1984). 67. «Epicuri et Lucretii philosophia est vera et antiqua, perperam ab illis ad Atheismus detorta>> (da Newton, 1959-77. vol. III, p. 335).

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crezio che, per ragioni probabilmente simili a quelle che indussero il grande scienziato alla prudenza, non vide mai la lucé 8• Anche n eli' Opticks, malgrado Lucrezio non venisse citato, la filosofia della materia espressa da Newton era debitrice su punti di cruciale importanza all'atomismo antico 6 9. Come non pensare a Lucrezio infatti quando, nella Qy-ery 31, si legge: Mi sembra probabile che Dio al principio del mondo abbia formato la materia di particelle solide, compatte, dure, impermeabili e mobili, dotate di date dimensioni e figure, di date proprietà e di date proporzioni rispetto allo spazio 70 •

Come già aveva fatto Gassendi, anche Newton intendeva neutralizzare la componente eterodossa e antifinalistica di Lucrezio, attribuendo a Dio la creazione degli atomi e dello spazio, distinguendo la materia dalla forza di gravità ( immateriale) che l'aveva messa in movimento e accogliendo l'idea di una provvidenza divina nel disegno armonioso dell'universo. E tuttavia, pur all'opposto di ogni sentimento epicureo, era costretto suo malgrado a riconoscere il valore scientifico del poema su alcuni punti centrali della sua fisica. Il risultato culturale di questa tormentata adesione non tardò a farsi sentire, tanto che Voltaire, di ritorno dal suo esilio in Inghilterra, nella XIV delle sue Lettere inglesi (1734), dichiarava: Un francese che arriva a Londra si accorge che le cose sono molto cambiate, in filosofia come in tutto il resto. Ha lasciato il mondo pieno e lo trova vuoto 7 '.

68. Le sue brillanti annotazioni al poema, per lungo tempo rimaste inedite, vennero pubblicate in appendice al IV volume dell'edizione di Wakefìeld: Lucrezio (1813, vol. IV, pp. 403-68). 69. Si pensi alla natura corpuscolare della luce. 70. «It seems probable co me, that God in the Beginning form'd Matter in solid, massy, hard, impenetrable, moveable Particles, of such Sizes and Figures, and with such other Properries, an d in such Proportion co Space, as most conduced co the End for which h e form' d them » (Newton, 1979, p. 400). 71. «Un Français qui arri ve à Londres trouve !es choses bi en changées en philosophie co mIlle dans tout le reste. Il a laissé le monde plein, il le rrouve vide» (Voltaire, 1877-8s, p. Il?). È significativo che Voltaire prendesse le difese di Lucrezio in un dialogo, composto nel 17s6, intitolato Dialogues entre Lucrece et Posidonius. Alla voce Poetes del suo famoso Dictionnaire philosophique Voltaire non era altrettanto generoso e così scriveva: «Lucrèce était un misérable physicien, et il avait cela de commun avec toute l'antiquité. La physique ne s'apprend pas avec de l'esprit; c'est un art que l'on ne peut exercerqu'avec des instruments et !es instruments n'avaient pas encore été inventés. Il faut des lunettes, des microscopes, des machines pneumatiques, des baromètres etc., pour avoir quelque idée commencée des opérations de la nature. Descartes n 'en sava it guère plus que Lucrèce, lorsque ses clefs ouvrirent le sanctuaire; et on a fai t cent fois plus

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ncontenuto del poema non aveva mancato di attirare l'attenzione dei seguaci di Newton e, forse, di stimolare nuove edizioni del De rerum natura 7 nmatematiL.

co ginevrino Nicolas Fatio de Duillier che, insieme a Bencley, avrebbe dovuto essere uno dei curatori della nuova edizione dei Principia, aveva composto un poema, a imitazione di Lucrezio, dedicato alla causa della gravità73 • Le carte di Fatio, dopo varie vicissitudini, finirono nelle mani del fisico ginevrino GeorgesLouis Le Sage che, nel 17 84, pubblicava una memoria intitolata emblematicamente Lucrece Newtonien (Le Sage, 1784, pp. 404-32) nella quale, riprendendo delle suggestioni che gli venivano dalla lettura del poema, esordiva nel modo seguente: Mi propongo di far vedere che se i primi Epicurei avessero avuto sulla Cosmografia delle idee altrettanto buone di quelle di molti dei loro contemporanei, ai quali essi non prestavano alcuna arrenzione; e, sulla geometria, una parre delle conoscenze che erano già comuni; ebbene, essi avrebbero molto probabilmente scoperto senza fatica la legge della Gravità universale e la sua Causa meccanica. Legge la cui scoperra e la cui dimostrazione costituiscono la maggior gloria del più grande genio che sia mai esistito; e Causa che, dopo esser stata per così lungo tempo l'ambizione dei più grandi Fisici, è ora la disperazione dei loro successori. Così che, per esempio, le famose regole di Keplero, scopene meno di due secoli or sono, non sarebbero state se non corollari particolari e ine-

de chemin depuis Galilée, meilleur physicien que Descarces, jusqu'à nos jours, que depuis le premier Hermès jusqu'à Lucrèce, et depuis Lucrèce jusqu'à Galilée>>. Nella stessa opera si veda anche l'articolo Atomes. 72.. Nel 1713 l'edizione londinese di Michael Mairraire (Lucrezio, 1713) era dedicata al medico bibliofilo inglese Richard Mead e illustrata con un bel frontespizio, sulla traccia di quello apparso quasi trent'anni prima nella celebre edizione di Thomas Creech, o ve appare Lucrezio mentre scrive il poema attingendo ai resti di Empedocle ed Epicuro e sul davanzale della finestra c'è un modello dell'universo che introduce lo spazio rerrosrante ove si possono distinguere degli atomi svolazzanti e, ben visibile sotto le nubi, la parola casus. Su Maitraire e questa edizione si veda il saggio di Lelièvre (1956). Richard Mead, amico e medico personale di Newton, aveva serino un trattato direttamente influenzato dalla fisica celeste di Newton intitolato De imperio Solis ac Lunae in corpora humana & morbis inde oriundis (1704) e uno nel quale sosteneva la diffusione corpuscolare dei contagi intitolato A short discourse concerning pestilential contagion, and the methods to be used to prevent it (172.0 ). 73· «l did write in Imitation ofLucretius a Latin Poem wherein I explained the Cause of Gravity, after I had sem in prose to their Secretary a generai Idea of that Theory of mine. To this first Letter I had a very kind Answer. But to my Letter sem with the Poem, much shorcer and much more imperfect than it is now, I had no Answer at ali: I suppose because of some free Expressions, which probably they were offended at. For I gave them their fulllibercy to dispose of their Recompense as they pleased; and spoke freely about their Solemn Invitations to the Learned of ali Nations whatsoever; when I knew their Recompenses were reserved in petto, for them that would favour Cartesianism most>>. Lettera del 2.0 agosto 1730 pubblicata in The Newton Project (www.newtonproject.sussex.ac.uk).

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vitabili delle illuminazioni generali che quegli antichi Filosofi avrebbero potuto (senza alcuna fatica) porre entro il meccanismo propriamente detto della natura. Conclusione che può applicarsi pure alla Legge di Galileo sulla caduta dei gravi sublunari, la cui scoperta è stata ancora più tardiva e più contestata: e questo perché le esperienze su cui tale scoperta si fondava conducevano a dei risultati che erano necessariamente imprecisi e che consentivano, grazie all'ampiezza di tale imprecisione, di interpretare quelle stesse esperienze in modi compatibili con diverse ipotesi; e pertanto non ci si stancava di opporsi a quella Legge: mentre, al contrario, le conseguenze dell'urto degli Aromi non avrebbero potuto che essere concordemente e univocamente favorevoli al solo principio vero (delle Accelerazioni eguali in Tempuscoli uguali) (ivi, pp. 404-5).

Le Sage sviluppava una teoria atomica assai originale, supponendo che le particelle elementari fossero dotate di elasticità e di una quantità di energia gravitazionale costante. Queste particelle, entrando in collisione con altri corpi, perdevano la velocità originaria e con essa subivano una progressiva perdita di energia. Seguendo lo spunto antropomorfico di Lucrezio secondo cui l'universo era destinato all'invecchiamento e alla morte (v, 64-90 ), Le Sage ne dava una traduzione fisica il cui significato scientifico sarebbe stato apprezzato poco meno di un secolo dopo da Lord Kelvin nella sua teoria cinetica dei gas. Verso la fine del secolo, l'attenzione dei seguaci di Newton per Lucrezio ebbe un esito editoriale nell'edizione pubblicata a Bassano nel 1788 dal tipografo Remondini (Lucrezio, 1788). Pur riproducendo il testo dell'edizione seicentesca di Michel Fay e alcune note di Giovanni Nardi, il testo era stato controllato, poco prima di morire, dal fisico Ruggiero Giuseppe Boscovich 74 il quale, come è noto, vedeva negli atomi dei centri di forza capaci di trasformare massa in energia. Boscovich aveva collaborato con Remondini, che aveva già stampato la collezione in cinque volumi delle sue opere nel 1785, anche per la pubblicazione del suo trattato Theoria Philosophiae naturalis (Bassano 1787 ), e laristampa di Lucrezio sembra essere l'effetto di una campagna editoriale studiata nel dettaglio. Nel 1760, quando era ancora un gesuita, Boscovich aveva pubblicato, dedicandolo alla Royal Society di Londra, un poema latino in esametri in sei libri sulle macchie solari e i crateri della luna che pullula di imitazioni del De rerum 74. Sul ruolo di Boscovich in questa edizione si veda Gordon (198s, pp. 301-3). L'edizione di Remondini però non è riportata nel recente Catalogo delle opere a stampa di Ruggiero Giuseppe Boscovich (17II-17S7 ), a cura di Edoardo Proverbio (Accademia Nazionale delle Scienze detta dei XL, Roma 2.007 ). Remondini si era distino per aver pubblicato diverse opere di stampo ncwroniano: oltre alla collezione delle opere dello stesso Boscovich (178s, s voli.), aveva pubblicato opere di s' Gravesande, Bailly e Benjamin Martin.

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natura 7 s. Il signifìcaro di Lucrezio per Boscovich era, come era già stato per Newton, Fati o e Le Sage, funzionale a una reinterpretazione del!' atomismo entro la nuova cornice, interamente basata sulla matematica, della meccanica celeste. Per quanto lontano fosse dall'atomismo di Lucrezio, Boscovich aveva sentito l'esigenza di presentare la propria dottrina come la naturale evoluzione di nozioni e concetti contenuti nel De rerum natura. Gli ammiratori di Lucrezio non si trovavano solo tra i seguaci di Newton. Durante il Settecento non mancarono scienziati di diversa formazione che furono coinvolti nell'edizione del poema76 • Nel 1768 usciva a Parigi, per iniziativa del Barone d' Holbach, la traduzione francese del De rerum natura realizzata da Lagrange, precettore dei figli del barone, e commentata da Denis Diderot e Naigeon 77 • L'edizione si inseriva in un programma promosso dal Barone di pubblicare i classici della scienza latina e, dopo Lucrezio, Lagrange avrebbe anche iniziato la traduzione delle Natura/es quaestiones di Seneca, portata a termine nel 1778 dallo stesso d'Holbach con l'ausilio di due scienziati quali Desmarets e Darcet (Naville, 1942., pp. 12.3-5). Quando veniva pubblicata la traduzione di Lucrezio, il barone d' Holbach non era ancora il celebre aurore del Systeme de la nature, apparso anonimo nel 1770 e per decenni attribuito a Mirabaud, ma era universalmente noto come uno dei più prolifici collaboratori dell'Encyclopédie, con ben 42.7 articoli 78 prevalentemente dedicati alla geologia, alla mineralogia e alla chimica. Fin dal suo

7S· Boscovich (1760). Boscovich era stato ispirato nell'uso del modello lucreziano dal suo conterraneo, il ragusano Benedetto Stay il quale, nel1744, aveva pubblicato a Venezia un fortunato poema in sei libri (1744) teso alla descrizione del sistema fisico di Descartes. Nel poema di Stay, dichiaratamente lucreziano nello stile, veniva anche descritto il sistema di Newron. Un recupero "poetico" e lucreziano di Copernico veniva proposto ancora nel1777 dal gesuita Camillo Carulli (1777 ). Su Boscovich e Stay cfr. Russell (1989, specialmente alla p. 384). Sulla poesia didascalica dei gesuiti si veda lo studio di Haskell (2.003). 76. Garth (1714); l'edizione originale latina di questo scritto, che non ho ancora potuto vedere, porta il titolo Epitaphium Lucretii Editionis (London?, 1711). La dedica doveva servire d'introduzione a un'edizione del De rerum natura che, tuttavia, non vide mai la luce, forse per l'imminente pubblicazione dell'edizione curata da Maittaire. Samuel Garth era un membro di spicco del Royal College of Physicians e aveva scritto un poema satirico in sei canti intitolato Despensary contro la corporazione dei farmacisti.l19 maggio 1700 Garth aveva tenuto un'orazione funebre per John Dryden che alla fine del secolo precedente si era cimentato nella traduzione inglese di Lucrezio. 77- Hocke (1935. pp. 146-s1); Naville (1942., pp. 12.3-s). 78. Lough (1968, pp. 111-2.2.9 ).li Lough ha aggiornato i dati riportati da Naville attribuendo a d' Holbach oltre 450 articoli apparsi senza la sigla ( ---) prescelta dal filosofo materialista.

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8. SCIENZIATI EDITORI DEL DE RERUM NATURA

arrivo a Parigi nel I748 d'Holbach aveva manifestato per queste scienze un vivace interesse e avrebbe raccolto nel suo celebre salon un animato gruppo di chimici e geologi che si erano distinti per la loro fede materialista ed eterodossa. A queste riunioni, partecipavano tra gli altri anche Gabriel François Venel, aurore delle voci chimiche dell'Encyclopédie, i farmacisti Augustin Roux e Jean Darcet, tutti allievi di Guillaume-François Rouelle e sostenitori del materialismo. Negli anni Sessanta d'Holbach aveva anche promosso una sistematica campagna di diffusione e traduzione di opere chimiche e metallurgiche di aurori svedesi e tedeschi, mostrando i progressi notevolissimi realizzati in queste scienze e favorendo l'insorgere in Francia di un serrato dibattito, connotato di notevole spessore teorico, sulla composizione chimica della materia. Non è possibile comprendere il significato della pubblicazione del Systeme de la nature se non si mette in relazione questo interesse scientifico con l'istanza filosofica, esplicitata con la traduzione del De rerum natura del 1768, di dare un indirizzo materialista alle ricerche di chimica e geologia. Tale esigenza si combinava anche con la consapevolezza dei limiti manifestati da una visione esclusivamente meccanicistica dell'universo e dal desiderio di trovare n eli' idea di auto-organizzazione della materia, derivata dalla chimica di Georg Ernst Stahl, un nuovo fondamento capace di spiegare anche i fenomeni legati al vivente. La sovrapposizione della chimica stahliana alla fisica meccanicistica veniva sintetizzata da d'Holbach nel passo seguente: Riconosciamo dunque che la materia esiste da sé stessa, agisce con la sua propria energia c non si annienterà mai. Diciamo che la materia è eterna e che la natura è stata, è e sarà sempre occupata nel produrre, nel distruggere, nel fare e disfare, nel seguire le leggi che risultano dalla sua esistenza necessaria. Per tutto ciò che fa, la natura ha bisogno solo di combinare elementi e materie essenzialmente diverse, che si attirano e si respingono, si urtano o si uniscono, si allontanano o si avvicinano, si tengono insieme o si separano. È così che essa fa nascere piante, animali, uomini, esseri organizzati, sensibili e pensanti, come esseri sprovvisti di sentimento e di pensiero. Tutti questi esseri agiscono nella loro rispettiva durata secondo le leggi invariabili, determinati dalle loro proprietà, dalle loro combinazioni, dalle loro analogie e dalle loro dissomiglianze, dalle loro configurazioni, dalle loro masse, dai loro pesi 79 •

79. «Reconnoisons dane que la matière existe par elle-mème, qu'elle agir par sa propre énergie et qu'elle ne s'anéamira jamais. Disons que la matière est éternelle, et que la nature a été, ~st et sera roujours occupée à produire, à détruire, à faire, età défaire, à suivre des lo ix résultantes de son existance nécessaire. Pour tout ce qu'elle fai t elle n'a besoin que de combiner des élémens ~t des matières essemiellement diverses qui s'attirent et se repoussent, se choquem ou s'unissent, ''doignem ou se rapprochem, se tiennent assemblées ou se séparem. C'est ai n si qu 'elle fai t

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L'enfasi vitalista che Lucrezio aveva dato ali' atomismo epicureo dotandolo, con l'uso del felice termine di semen, di una nomenclatura biologica fu certamente un aspetto non secondario della rivalutazione e reinterpretazione che ne diedero d'Holbach e Diderot. Se la rivalutazione di Lucrezio da parre di questi due autori si inseriva in una polemica contro la meccanica newtoniana e la conseguente introduzione nella fisica di un concetto, la forza di gravità, impropriamente distinto dalla materia80 , un interessante tentativo di mediazione tra le posizioni di Newton e quelle di Stahl si manifestò nel corpuscolarismo del chimico russo Mikail Vasil'evich Lomonosov il quale, influenzato in più punti della sua teoria, si cimentò intorno al 1750 nella traduzione dei versi relativi all'origine dei metalli del v libro del De rerum natura (vv. 1241-1257) (Lomonosov, 1954, pp. 441 e 696). Tentativo di recupero dello stesso tenore fu il poema giovanile composto da Alessandro Volta, in stile lucreziano, dedicato a fenomeni chimici ed elettrici 8'. Sulla scia di questi autorevoli contributi, non può dunque sorprendere che nelle scienze della vita e nella medicina Lucrezio rappresentò un modello del pensiero illuminista e frequentissime furono le imitazioni81. Emblematicamente il secolo si chiudeva, nel 1799, con la traduzione in inglese del medico John Mason Good, amico di Gilbert Wakefìeld, ed entusia-

éclore des plantes, des animaux, des hommes; des etres organisés, sensibles et pensants, ainsi que des etres dépourvus de sentiment et de pensée. Tous ces etres agissent pendant le tems de leur durée respective suivant des loix invariables, dérerminées par leurs propriétés, leurs configurations,leurs masses,leurs poids etc.» (d'Ho lbach, 197S, p. 496). So. «Si l'on eùt observé la nature sans préjugé, on se seroit depuis long-tems convaincu que la matière agit par ses propres forces, et n'ai besoin d'aucune impulsion extérieure pour etre mise en mouvement» (d'Holbach, 1990, vol. 1, p. s6). SI. Alessandro Volta (1966, pp. 119-35); si veda anche Zanino Volta (1S99). Sl. Pur essendo pubblicata alla fine del secolo precedente, l'opera di Bernard Le Bouyer de Fontenelle Entretiens sur la pluralité des mondes (16S6) esercitò un'enorme influenza per tutto il Settecento. Oltre alle citate opere di Stay, d'Holbach e Boscovich, alcuni ulteriori esempi di imitazioni da parte di scienziati sono: Hebenstreit (1739), Flemyng (1740 ), Maupertuis (1746), La Mettrie (•?SI), Geoffroy (1771), Peyrard (1793), Darwin (1So3), pubblicato postumo e composto un decennio prima. Tra le imitazioni va annoverato anche il poema anti-lucreziano del cardinale Polignac ( 174 7). In questo poema di enorme successo, tradotto in francese e in italiano, Polignac refurava, come già aveva fatto Stay, il credo epicureo difendendo una concezione della fisica cartesiana, e il De rerum natura vi veniva confutato quasi verso per verso. L'opera di Polignac non era la prima del genere, poiché già nel 1704 il matematico gesuita Tommaso Ceva aveva pubblicato a Milano un poema in esametri intitolato Philosophia novo-antiqua nel quale aveva cercato di confutare, imitandolo, Lucrezio. Agli inizi del secolo successivo un deciso cambiamento di rotta, teso alla rivalutazione in ambito medico, chimico e biologico, si manifestò nell'opera del medico francese Rochoux (1S31), ove le più recenti ricerche scientifiche venivano ricondotte all'atomismo biologico di Epicuro e Lucrezio.

8. SCIENZIATI EDITOIU DEL DE RERUM NATURA

FIGURA

8.5

Incisione del sacrificio di Ifigenia pubblicata a fianco del frontespizio della traduzione inglese di Lucrezio diJames Mason Good (x 8os)

sta aderente della Hlosofia naturale atomistica e newtoniana. La traduzione vedeva la luce a Londra nel I 8os in due eleganti volumi in 4° sotto il titolo di The Nature ofThings: a Didactic Poem e il suo autore non mancava di sottolineare, con un notevolissimo apparato di note, l'attualità scientifica e filosofica di una dottrina che ormai non aveva più nulla di empio 83 (cfr. FIG. 8.s). 83. Il primo volume esordiva così: « There is no poem, within the circle of the ancient Classics, more entided to attention, rhan rhe "Nature ofThings", by Titus Lucrerius Carus. lr unfolds ro us rhe rudiments of rhar philosophy which, under rhe plasric hands ofGassendi and Newron, has, ar lengrh, obrained an eternai rriumph over every orher hyporhesis of rhe Grecian schools >> (Lucrezio, 18os, vol. l, p. 1).

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

8.7

Dalla filologia alla scienza e ritorno Durante il xrx secolo, nonostante la straordinaria influenza esercitata dall'edizione del De rerum natura di Karl Lachmann pubblicata a Berlino nel r8so e dalla scientificità che assunse il metodo fìlologico ivi proposto, non mancarono, anche da parte di insigni classicisti, nuovi tentativi di attualizzazione scientifica del poema. Questo fu il caso della celebre edizione curata da Hugh A. J. Munro la cui storia si accompagna con gli sviluppi di una delle più importanti teorie scientifiche della seconda metà dell'Ottocento. In apertura del congresso dei fisici tenutosi nel r884 a Montreal, Lord Kelvin dichiarava: La teoria cinetica dei gas, oggi così ben conosciuta, costituisce un passo talmente importante sulla via della spiegazione, mediante il moto, di proprietà della materia che sono apparentemente di tipo statico, che risulta pressoché impossibile il saper prevedere [... ]le caratteristiche di una teoria completa della materia in cui tutte le proprietà di quest'ultima siano viste come semplici attributi del movimento. Se dobbiamo cercare le origini di questa concezione, dobbiamo allora andare all'indietro sino a Democrito, Epicuro e Lucrezio. Ma allora, almeno questa è la mia impressione, possiamo compiere, senza alcuna perdita, un balzo di r.Soo anni 84.

Nell'estate del 1871 Kelvin aveva ricevuto daJames Clerk Maxwell una manoscritto intitolato On the history ofthe kinetic theory ofgases nel quale veniva riconosciuto in alcuni punti essenziali il debito della nuova teoria alla concezione di Lucrezio sul movimento degli atomi nel vuoto (Maxwell, 1990-2002, vol. n, pp. 654-5). In effetti, la teoria cinetica dei gas, almeno nelle modalità sviluppate da Maxwell, doveva qualcosa alla lettura e rielaborazione del De rerum natura8s. In una lettera del febbraio r866 al celebre fìlologo inglese Munro, curatore di una fortunata edizione e traduzione del De rerum natura di cui era appena

84. « The now well known theory of gases is a step so importane in che way of explaining seemingly stati c properties of matter by motion, rhar it is scarcely possible to help anticipating in idea che arriva! at a complete rheory of matter, in which ali ics properries will be seen to be merely attribures of motion. If we are to look for che ori gin of rhis idea, we must go back to Democritus, Epicurus and Lucretius. We may then, I believe, without missing a single step. skip 1.8oo years» (Thomson, 1889, vol. I, p. 2.18). 8s. In gioventù Maxwell aveva letto Lucrezio nell'edizione di Wakefìeld (Lucrezio, 1813) e, già a partire dal 1848-49. aveva utilizzato alcuni passi per illustrare la moderna concezione sulle proprietà della materia e del vuoto. Maxwell (1990-2.002., vol. I, pp. 110-3).

8. SCIENZIATI EDITORI DELDERERUM NATURA

uscita a Cambridge la seconda edizione (Lucrezio, 1866), Maxwelllo interrogava sulla correttezza della sua interpretazione di alcuni passi del poema che gli

sembravano indicare la vera fìliazione storica della teoria cinetica dei gas: Il moto delle particelle, volando in tutte le direzioni come granelli di polvere tra i raggi di sole e causando, attraverso gli urti, il moto dei corpi più grandi, è legato all'esposizione delle teorie di Democrito e Lucrezio, ma la natura degli urti e la deviazione prodotta nella traiettoria delle particelle sono descritte in una lingua che dobbiamo interpretare alla luce delle concezioni fisiche dell'età dell'autore, cioè a dire, dobbiamo liberarci di qualsiasi concetto fisico distinto che le sue parole possono suggerirei. È questo un modo di dire troppo severo di un classico abile e intelligente? In particolare, gli atomi di Lucrezio sono dotati di uno stesso moto originario nella stessa direzione (verso il basso) e ugualmente accelerati (lib. II, 238, 239) 86 , eccezion fatta quando deviano e solo ed esclusivamente in questa circostanza entrano in collisione tra loro (v. 88 220 &c.) 87, mentre (al v. 90 ) « spatium sin e fine modoque est». Queste parole sono una tale buona illustrazione della teoria moderna (al v. 100 lib. II &c.) 89 che sarebbe un peccato se significassero qualcosa di diverso. I grandi intervalli tra le collisioni nell'aria infatti sono circa 1/400.000 di pollice, ma sono grandi se paragonati ad altri mezzi 90 •

86. «Perciò tutte le cose per l'immobile vuoto devono essere trascinate con eguale rapidità da pesi ineguali» ( «omnia qua propter debent per inane quietum l aeque ponderibus non aequis concita ferri»; Lucr. II, 238-239). 87. Una piccola deviazione «che basta per dire che è mutato il movimento>> ( «tantum quod momen mutatum dicere possis>>; Lucr. II, 220). 88. «Lo spazio è senza fine e misura>> ( « sine fine modoque>>; Lucr. II, 90) e per questo gli aromi si muovono senza sosta. 89. «Quelli che in più ristretta compagine entro esigui intervalli si scontrano e balzano via, impacciati dalle loro stesse figure intricare, formano le radici robuste della pietra e le rudi masse del ferro e le altre cose simili a queste. Gli altri atomi, che vagano anch'essi per il grande vuoro, in piccolo numero saltano lontano e lontano rimbalzano a grandi intervalli>> («et quae cumque magis condenso conciliatu l exiguis intervallis convecta resultant, l indupedita suis perplexis ipsa figuris, l haec validas saxi radices et fera ferri l corpora constituunt et cetera genere horum. l paucula quae porro magnum per inane vagamur, l cetera dissiliunt longe longeque recursant l in magnis intervallis>>; Lucr. II, 100-107 ). 90. «The motion of particles flying about in ali directions, like mores in a sunbeam, and causing by their impact the motion of larger bodies is to be bound in the exposition of the theories ofDemocritus by Lucretius, but the nature of the impacts and the deviation produced in rhe path of the particles are described in language which we must get rid of every distinct physical idea which his words may have suggested to us. Is rhis saying too severely about a clever an d inrelligent ancient? In particular have the Lucretian atoms an originai motion ali the same and in the same (downward) direction an d equally accelerateci (lib. II, 2.38, 2.39) except insofar as they deviate, and so an d only so come imo collision (v. 2.2.0 &c.) whereas (at v. 90) spatium sine fìne modo que est [space is without end and limit]. The words are such a good illustration of the modern theory atv.Joo lib. II &c. that it would bea pityifthey meant somethingquite different.

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Dunque, benché Maxwell fosse pienamente consapevole dei pericoli insiti nel paragone tra il pensiero di un autore classico e la cultura contemporanea, le affinità della sua teoria con alcuni passi del De rerum natura erano troppo affascinanti per essere passate sotto silenzio. Il passo citato in effetti è rivelatore, anche se non chiarisce se la possibile corrispondenza tra il De rerum natura e la teoria di Maxwell aveva un valore scientifico rilevante o rappresentava piuttosto un dispositivo retorico e culturale per rafforzare il valore persuasivo della teoria stessa. Nel XIX secolo, un periodo nel quale la scienza conosce la sua definitiva affermazione professionale e istituzionale, avremmo dovuto aspettarci che gli scienziati non sentissero più il bisogno o la necessità di trovare l'ispirazione nei versi di un poema composto quasi due millenni prima, mentre è chiaro che le posizioni di Kelvin e Maxwell erano condivise da molti altri scienziati loro contemporanei9'. Non mi risultano altre edizioni del poema in cui gli scienziati furono coinvolti nella stessa misura, anche se va almeno menzionata la celebre edizione tedesca del De rerum natura curata da Hermann Diels, che fu non solo uno dei più grandi filologi del tempo ma anche un attento storico della scienza antica. Il secondo volume di questa edizione reca una breve introduzione di Albert Einstein9', nella quale si celebra l'atomismo di Lucrezio e se ne esalta l'intuito scientifico anticipatore. Una breve nota merita anche l'edizione dei frammenti di Democrito, del 1948, a cura del matematico Federigo Enriques 93 , che riapri-

Thegreat intervals between the collisions in air are in fact about 1/400.000 of an inch but they are great compared to those in other media» (Maxwell, 1990-lOOl, vol. II, p.lSI). 91. Nel1867 il fisico inglese FlemingJenkin scrisse una lunghissima recensione della seconda edizione dell'edizione del poema di Munro (1866) con il titolo Lucretius and the atomic theory (in Jenkin, 1887, pp. I77-li4) nella quale riportava un fitto elenco delle anticipazioni scientifiche di Lucrezio. Uno dei fondatori di "Nature~ il fisico John Tyndall, riteneva che Lucrezio con la sua dottrina dei primordia rerum avesse anticipato, astraendo dall'esperienza, le teorie molecolari delle scienze della vita: Tyndall (1874). Nel1870 il fisico francese Frédéric André pubblicava un lungo saggio sulla fisica di Lucrezio, mettendone in risalto gli aspetti anticipatori dell'atomismo moderno, nell'edizione della traduzione francese curata da Ernest Lavigne, CEuvres complùes de Lucrece (Hachette, Paris 187o); nel187l,la rivista simbolo del posicivismo, "La philosophie positive" (1876, n. 8, pp. 469-80 ), curata da Émile Limé, anticipava alcuni estratti della nuova traduzione francese di André Lefevre pubblicata nella sua interezza nel1876. 9l. Lucrezio (I9l3-l4, vol. n, pp. VIa-vib). Su questa edizione cfr. Rosler (1999). 93· Enriques, Mazziotti (1948). L'opera appariva dopo la morte di Enriques con una prefazione del matematico e storico Guido Castelnuovo. La pubblicazione di questa raccolta costituiva il punto culminante dello sforzo di Enriques, iniziato già negli anni Trenta, di individuare l60

8. SCIENZIATI EDITORI DEL DE RERUM NATURA

va il dibattito intorno al rapporto tra atomismo fisico e atomismo geometrico sollevato da un celebre saggio di Luria (1933). Significativamente, al fine di mostrare l'affinità della scienza moderna con l'atomismo classico, Enriques affiancava i frammenti del filosofo greco a citazioni tratte dalle opere di Galileo, Gassendi, Descartes, Leibniz e altri protagonisti della rivoluzione scientifica. L'attenzione prestata da scienziati di professione al contenuto del poema non si limitava certamente alle edizioni che abbiamo enumerato. In realtà l'esigenza di invadere un campo non loro e cimentarsi n eli' ardua impresa di curare un testo difficilissimo nasceva in primo luogo dali' interesse diffusissimo tra gli scienziati di appropriarsi e sviluppare alcuni temi specifici del De rerum natura che sembravano particolarmente fecondi. Accanto ai principi generali dell' atomismo, la lotta contro il finalismo, la difesa della ragione e la critica ali' autoritarismo della metafisica e della religione, tutti temi in sintonia, anche se non tutti contemporaneamente, con la scienza moderna, v'erano molte singole osservazioni che, se approfondite, rivelavano nuove vie di indagine o, così almeno venivano percepite, straordinarie anticipazioni di dottrine moderne. In tutti gli ambiti disciplinari ci fu un'appropriazione massiccia e, in molti casi, creativa. Durante i primi decenni del secolo scorso la passione per gli atomi antichi conobbe infatti nuove fortune. Le nuove e rivoluzionarie scoperte introdotte dalla meccanica quantistica e dalla teoria della relatività offrirono freschi spunti ermeneutici attraverso i quali leggere con nuovi occhi il poema lucreziano. Un sintesi rivelatrice di questo approccio ci viene dal fisico inglese E. N. da Andrade, già autore di un fortunato libro intitolato The Atom, il quale pubblicava nel 1928 un saggio intitolato The Scientijìc Signifìcance ofLucretius. Il saggio veniva inserito nel secondo volume di una ristampa dell'edizione del De rerum natura curata da Munro (cfr. FIG. 8.6), filologo che abbiamo visto era stato contattato nel x866 da Maxwell in merito a una questione attinente la teoria cinetica dei gas. In primo luogo Andrade dissuadeva il lettore dal credere, come la maggior parte dei suoi contemporanei, che l'opera di Lucrezio andasse apprezzata solo «per i suoi meriti di poeta e non per le sue concezioni di fisico» (in Lucrezio, 1928, vol. 11, p. v). Se, al contrario, si fosse prestata maggiore attenzione alla concezione scientifica del poeta latino ci si sarebbe trovati di fronte «a delle precise e sorprendenti anticipazioni delle teorie moderne». Qui An d rade espo-

nelle dottrine scientifiche dell'antica Grecia gli elementi di quelle moderne e contemporanee. Persuaso dell'unità atemporale della ragione scientifica, Enriques individuava così nell'atomismo antico il prodromo della rivoluzione scientifica moderna.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DI LUCREZIO

8.6 Frontespizio della ristampa della quarta edizione di Munro (Lucrezio, I92.8), arricchita dell'introduzione sull'attualità scientifica di Lucrezio del fisico Andrade FIGURA

T. LUCRETI CARI DE RE RUM N .A.TURA LIBRI SEX WITH NOTES AND A TRANSLATION

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VOLUME II: EXPLL,ATORY NOTES Wl'fEI Alt TY'l'Jl0t)'OCPI'{'JRT 188AT ON TH~ fJOl'ISl'IYlO !IIC:f'ITlCANCi: OJ' LCCJlt1'1'01

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ne un lungo elenco di precorrimenti cominciando con l'asserire che «Lucrezio ha postulato la conservazione della materia. Ha considerato la radiazione come una specie di materia, e perciò non incontrerebbe problemi con le nostre moderne questioni einsteiniane sull' interrelazione tra massa ed energia radiante». Riprendendo la tesi sostenuta da alcuni filologi secondo cui gli atomi di Lucrezio erano composti da particelle più piccole prive di dimensioni, da lui designate con il termine minima partes, Andrade stabilisce una corrispondenza tra questi e gli elettroni «di cui è costituito il nostro atomo del xx secolo». L'introduzione di Andrade all'edizione del De rerum natura non era una mera manifestazione di interesse da parte di uno scienziato per la letteratura,

8.

SCIENZIATI EDITORI DEL DE RERUM NATURA

ma si innestava in un revivallucreziano ben più vasto e significativo. Nel I928, ad esempio, appariva su "Nature" un articolo dello zoologo scozzese D'Arcy W. Thompson sul significato anticipatore del poema latino nella biologia9 4 • Il movimento degli atomi in tutte le direzioni (n, So), veniva guardato da alcuni fisici entusiasti come l'anticipazione del moto browniano e delle scoperte realizzate 2000 anni dopo da «Smolouchowsk.i, Einstein e Perrin» 9s. Il premio No bel per la fisica William Henry Bragg pubblicava nel I925 il testo delle lezioni sull'atomismo tenute alla Royal lnstitution ispirandosi, fin dal titolo, al De rerum natura9 6• Anche quelle ipotesi scientifiche che fino ad allora erano state considerate come degli errori grossolani di Lucrezio venivano rivalutate alla luce della nuova fisica. Così, l'ipotesi del clinamen, cioè della possibilità degli atomi di deviare dalla traiettoria del moto rettilineo, veniva reinterpretata alla luce dei progressi della meccanica quantistica e, in modo particolare, come l'anticipazione del principio di indeterminazione. Questo assunto, introdotto da Werner Heisenberg, spiegava il moto apparentemente spontaneo durante la disintegrazione del nucleo di atomi di alcune sostanze radioattive e stabiliva conseguentemente che non era possibile conoscere simultaneamente posizione e quantità di moto di un dato oggetto con precisione arbitraria97. Benché i fisici atomici fossero consapevoli dell'enorme differenza tra una fisica qualitativa quale quella presentata nel De rerum natura e il sofisticato sostrato matematico e strumentale che aveva assicurato alla nuova meccanica di rivoluzionare la concezione

94· «Only yesterday Crum Brown used to describe to us beginners the carbon atom, with its litde hooks or "hands"- as Kekulé's flash ofinsight had conceived it. As for the smooth round atom to which Lucretius attributed the fluidity of a fluid, they come pretty near to Dr. Harold Jeffrey's brand-new concept of the structure of a liquid, as formed of "units perhaps roughly spherical" and mobile on one another (... ] The hereditary germplasm ofWaismann and Darwin's "pangenesis" are no other than the Lucretian docrrine of "primoridia~ which, variously combined,lurk h id within the parent's body an d are handed on from father to son » (Thompson, 19l8). Sull'influenza di Lucrezio sulla moderna biologia si veda anche il saggio di Needham (19l9). 9S· Valivov (1948, p. 30 ). La continuità tra l'atomismo classico e la teoria atomica moderna è contenuta, sia pur con accenti diversi, nei seguenti contributi storici: Lasswitz (19l6), Van Melsen (19Sl), Pullman (1995). 96. Bragg (1948). Pur denunciando alcuni limiti strutturali dell'atomismo qualitativo di Lucrezio rispetto ai risultati della fisica atomica, Bragg non rinunciava, fin dalle prime pagine del suo testo, a riconoscere nel De rerum natura un testo di ispirazione. 97· «!t would be a crude error to see in Epicurus and Lucretius precursors of quantum mechanics; yet it is impossible to consider this degree in which the antique idea coincides with the modern one as altogether forruitous» (Heisenberg, 1989, p. 38).

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atomica tradizionale, sono frequentissimi i richiami alla continuità delle nuove idee sugli atomi e il loro moto e I' atomismo antico, tanto che Heisenberg, sottolineando la necessità di superare le concezioni democritee che secondo lui non facevano che confondere le idee, riconosceva che era «estremamente difficile liberarsi dalla tradizione» 98 , ancora considerata come un'autorevole fonte di idee da Erwin Schrodinger99 e altri fisici contemporanei. Ancora nel Novecento dunque era diffusa I' inclinazione a leggere il De rerum natura non tanto come un'opera letteraria di straordinaria ricchezza poetica, ma come una fonte di idee e teorie scientifiche. È difficile per uno storico della scienza stabilire i motivi della longevità scientifica del De rerum natura e ancora più difficile precisare se questo peculiare modo di leggere il poema sia stato un totale travisamento del suo contenuto o, come credevano gli scienziati, la rivelazione del suo recondito significato. A questa rivelazione non era forse estranea la vena ispirata di Lucrezio che, come ho cercato di mostrare nella parte centrale di quest'opera, sembrava orbitare con particolare insistenza sulla spiegazione atomistica'dd-fenomeni naturali. Quello che qui preme sottolineare è che l'appropriazione di Lucrezio da parte degli scienziati rivela il carattere multiforme e interdisciplinare della cultura scientifica, mettendo in evidenza un volta di più l'inadeguatezza di chi guarda ancora oggi alla scienza della natura come una forma del sapere arido, specialistico e avulso dal proprio contesto culturale.

98.