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Italian Pages 331 Year 2010
ITINERARI
FRANCO MAZZEI VITTORIO VOLPI LA RIVINCITA DELLA MANO VISIBILE Il modello economico asiatico e l’Occidente
Copyright © 2010 EGEA Università Bocconi Editore Impaginazione e redazione: ITG, Torino Copertina: mStudio, Milano Tutti i diritti riservati. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, legge 22 aprile 1941, n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale, o comunque per uso diverso da quello personale, possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da: AIDRO – Associazione Italiana per i Diritti di Riproduzione delle Opere dell’Ingegno Corso di Porta Romana, 108 – 20122 Milano [email protected] – www.aidro.org EGEA S.p.A.
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via Salasco, 5 – 20136 Milano tel. 02-5836.5751 – fax 02-5836.5753 www.egeaonline.it [email protected] Prima edizione: gennaio 2010 ISBN 978-88-8350-115-9 Stampa: Mediascan, Milano
Indice
Introduzione Una complessa relazione pendolare Note PARTE PRIMA IL CAPITALISMO AL PLURALE 1. L’accumulazione fordista Note 2. Crisi dello stato e rivincita del mercato Note 3. Toyotismo Note 4. Il capitalismo anglosassone Note
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5. Germania e Giappone: due paesi un capitalismo? Note 6. Il capitalismo socialista cinese Note 7. Il polo confuciano e lo stato sviluppista Note PARTE SECONDA IL MONDO CONFUCIANO 8. La Cina Tre interrogativi La Cina e la globalizzazione Il neo-sinocentrismo Un gigante commerciale Aspetti della crescita cinese Il vantaggio competitivo cinese Le tesi dei sinopessimisti La mancata «quinta modernizzazione» Dinamiche geopolitiche e sistemiche La Cina e la Terza Grande Crisi Note
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9. Il gigante dimenticato IL GIAPPONE – DALLA CENERE ALL’ALTARE Sconfitta, olocausto atomico e ricostruzione La Guerra Fredda, la Guerra di Corea e la «dottrina Yoshida» Il periodo dell’alta crescita (1955-73) Il triangolo di ferro. La mano invisibile e il modello politico giapponese Il trionfatore degli anni Settanta. La seconda economia mondiale Gli anni Ottanta. Il Giappone ancora in crescita ma a due passi dal baratro UN DECENNIO PERDUTO? Il decennio perduto Uno scenario critico La bolla finanziaria Un paese normale, con un’economia più lenta PRESENTE E FUTURO Stato attuale dell’economia Esportazioni Consumi interni e demografia La curva di Smiley Le sfide da affrontare
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Alcuni problemi sul tavolo Burocrazia e politica La società Il Giappone e l’Asia Note 10. Il paese della «calma del mattino»: la Repubblica di Corea La storia recente La ripresa e la ricostruzione La pianificazione industriale La Repubblica di Corea oggi 11. Un’isola sviluppista REPUBBLICA DI CINA – TAIWAN La storia recente Lo sviluppo economico Gli ultimi 10 anni Presente e futuro Note La Rivincita Della Mano Visibile Circa l’autore
Introduzione
Una complessa relazione pendolare Una delle prime distorsioni che la crisi scoppiata negli Stati Uniti nel 2007 ha messo in luce è l’enorme spazio che la sfera finanziaria ha finito con l’occupare nelle economie contemporanee e, soprattutto, il suo affrancamento dal controllo politico. È stato da più parti autorevolmente spiegato che la dinamica che ha portato tecnicamente alla finanziarizzazione dell’economia, nel senso che il funzionamento dell’economia reale è subordinato alla finanza speculativa a prescindere dalla congiuntura, poggia su tre pilastri: la de-regolamentazione, la de-intermediazione e la titolarizzazione o cartolarizzazione1. Lasciando agli specialisti l’analisi di questo fenomeno, quel che preme sottolineare è che i governi, sia per eccesso di ideologia neoliberista sia per miope pragmatismo, a lungo hanno tollerato o addirittura visto di buon occhio questo processo che ha portato alla marginalizzazione del ruolo dello Stato a vantaggio del Mercato.
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Ronald Dore, uno dei maggiori nipponisti europei del dopoguerra, in una serie di saggi fra cui Financialization of the Global Economy, esaminando in termini più generali l’evoluzione del capitalismo contemporaneo con un approccio istituzionalistico, ha individuato come sua principale connotazione per l’appunto la finanziarizzazione o, meglio, marketization plus financialization2. In particolare, egli ha sottolineato i due fattori principali che hanno portato alla situazione attuale. In primo luogo, le politiche neoliberiste aventi come obiettivo il conseguimento della competitività attraverso una serie di strumenti, quali la deregolamentazione, l’incoraggiamento dell’iniziativa privata, la mistica del laissez-faire, ovvero la fiducia nella naturale efficienza dell’allocazione del mercato. In secondo luogo, il crescente peso del settore finanziario con conseguente sviluppo di un’economia speculativa. Il tentativo di sostenere la crescita a ogni costo, anche in situazioni sfavorevoli, ha spinto alla somministrazione di dosi sempre più pesanti di dopante finanziario utilizzando gli strumenti sopra elencati, soprattutto una diffusa precarizzazione della forza-lavoro e l’invenzione di sofisticati strumenti finanziari, tra cui i famigerati «derivati». In questo modo, si è creata una montagna di derivati basati su altri derivati, a loro volta basati su altri derivati… Alla fine, l’organismo non ha retto e la bolla è scoppiata; così, dopo circa tre decenni di deregulation finanziaria e di latitanza dello Stato, il mito di un Mercato che si autoregola su scala
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mondiale si sta dissolvendo sotto i nostri occhi come neve al sole. Fuori discussione è la gravissima responsabilità dei governi, soprattutto degli Stati Uniti, che colpevolmente hanno lasciato largo spazio all’ingegneria finanziaria e consentito l’espansione tentacolare di un sistema bancario fantasma. Questo, sfuggito a ogni controllo, ha creato quella bolla speculativa il cui scoppio ha innescato la crisi nel cuore dell’estate 2007 gettando sulla strada centinaia di migliaia di famiglie del Texas, della Florida…, famiglie dal reddito modesto e non in grado di rimborsare il prestito immobiliare concesso loro con incosciente disinvoltura. La crisi non si è fermata alla questione dei prestiti cosiddetti «subprime»: nel 2008 il credit crunch si è trasformato in crisi finanziaria, scuotendo dalle fondamenta il sistema finanziario internazionale, e nel 2009 questa diventa globale colpendo profondamente l’economia reale, non tanto quella dei paesi cosiddetti emergenti, come la Cina, quanto l’economia dei vertici del vecchio triangolo economico mondiale: Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone. Già duramente provato dagli effetti devastanti della bolla speculativa mobiliare e immobiliare scoppiata agli inizi degli anni Novanta proprio mentre era al culmine della sua potenza industriale e commerciale, il paese del Sol Levante sembra oggi il più vulnerabile anche se, in realtà, come vedremo, non manca di preziosi atouts.
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Comunque sia, fin dall’inizio era apparso evidente che la crisi non era solo finanziaria, come lo era stata invece quella asiatica. Quest’ultima, innescata nel 1997 in Thailandia dai duri colpi che il bath subiva da parte della grande speculazione internazionale (hot money), in breve tempo si estese a tutto il Sud-est asiatico e alla Corea del Sud, nonostante questa vantasse ottimi fondamentali economici, per poi allargarsi all’America Latina e alla Russia. La crisi di oggi appare molto più complessa e profonda, più simile alla Grande Crisi del 1929 e a quella della Stagflation degli anni Settanta. Come ha sottolineato Andrew Gamble3, negli ultimi cent’anni ci sono state molte bolle, molte recessioni ma solo due crisi del capitalismo generalizzate, sotto forma di periodi prolungati di impasse politico, economico e ideologico: la prima negli anni Trenta, che segnò l’affermarsi di un approccio keynesiano-fordista favorevole a un intervento decisivo dello Stato nei processi economici; la seconda negli anni Settanta, che portò alla rivoluzione conservatrice neoliberista degli anni Ottanta e al boom degli anni Novanta. Questa seconda grande crisi è avvenuta in nome della rivincita del Mercato, con un modello di crescita basato sulla deregolamentazione del mercato finanziario e qualificato casino capitalism da Susan Strange, una delle fondatrici dell’International Political Economy (IPE). Forse ora siamo entrati nella Terza Grande Crisi, le cui radici andrebbero ricercate per l’appunto nel modo in cui è stata risolta la grande crisi della Stagflation.
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La nostra tesi si articola in due punti. Primo, questa crisi non è un affare congiunturale, non è semplicemene un’altra bolla, ma una crisi sistemica ed è particolarmente complessa per due specifiche contingenze. Innanzitutto, essa s’incrocia – come vedremo tra breve – con tre grandi sfide che all’inizio del nuovo millennio l’uomo deve affrontare a livello globale; nello stesso tempo, essa s’inquadra in una fase di trasformazione epocale del Sistema Internazionale: la fine del predominio dell’Occidente. Il secondo punto, di natura epistemologica, implica superamento dell’opposizione «Stato/Mercato» a favore di un approccio win-win (a somma positiva), che combinato con lo sforzo di dar fronte alle tre sfide globali dovrebbe portare, normativamente, a un mutamento radicale del nostro modello di sviluppo da una dimensione essenzialmente quantitativa a una dimensione più qualitativa, pur senza gli eccessi prospettati dai sostenitori dello slogan frugalité, ecologie, decroissance4. L’assunto teorico di partenza della nostra analisi è che questa crisi, oltre a evidenti fattori perturbanti di origine esterna, ha cause essenzialmente di natura endogena. Al contrario, dopo il lungo boom del dopoguerra in cui dominante era stato il keynesismo, negli ultimi decenni gli studiosi hanno visto in prevalenza il capitalismo riduttivamente come «economia di mercato», concentrando le loro riflessioni sulle condizioni che consentono ai mercati un equilibrio economico stabile ed efficace senza il bisogno di interventi esterni, a
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cominciare da quelli dello Stato considerato elemento perturbatore. Pertanto, secondo questa impostazione ideologica neoliberista, che esaspera la contrapposizione del Mercato (la «mano invisibile» di Adam Smith) nei confronti dello Stato (la «mano visibile» della burocrazia) e che ha contrassegnato la rivoluzione conservatrice degli anni Ottanta segnatamente in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, le crisi non possono che essere dovute a perturbazioni temporanee ed eccezionali provocate da fattori esogeni e in primo luogo da interventi dello Stato. Tuttavia, a causa dei profondi mutamenti degli ultimi anni e soprattutto dopo lo scoppio della crisi nel 2007, è mutato nuovamente lo scenario; e un numero crescente di studiosi (tra questi non pochi esponenti dell’ortodossia neoliberista) e di politici è stato spinto a rivalutare il ruolo dello Stato. Secondo dati della Banca d’Inghilterra, nell’estate 2009, cioè a due anni dal ritorno della mano pubblica nell’economia, gli interventi anti-crisi a carico degli Stati assommano a circa un terzo del Pil mondiale. Più in generale, in questo moto pendolare tra Stato e Mercato5 si tende, nella fase attuale, a rivedere il capitalismo come una struttura esposta a trasformazioni permanenti, dando così nuova rilevanza alla componente per così dire sistemica della Crisi.
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Un rilievo particolare al ruolo dello Stato e più in generale alla funzione delle istituzioni politiche e sociali è dato dagli studiosi che si ispirano all’approccio istituzionalista, imperneato sul principio-cardine che nessuna economia può funzionare in assenza di un quadro istituzionale adeguato6, e ancor più dagli esponenti della cosiddetta «scuola della regolazione», che ha come oggetto di ricerca non solo il funzionamento ma anche (e forse soprattutto) le crisi del capitalismo, ovvero le rotture delle regolarità di un sistema economico nelle sue tendenze di lungo periodo7. Sorto in Francia negli anni Settanta, sullo sfondo di conflitti per la riforma del sistema dei pagamenti del mondo occidentale a seguito della sospensione della convertibilità del dollaro, della crisi petrolifera e dell’affermarsi del Giappone e della Germania come potenze economiche fortemente competitive nei confronti degli stessi Stati Uniti, il pensiero regolazionista cercava di spiegare la rottura (ritenuta irreversibile) del modello di crescita proprio della Grande Prosperità, o dei «trent’anni gloriosi» come i francesi amano definire il più lungo boom economico del Novecento che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla prima crisi petrolifera, agli inizi degli anni Settanta. Pur senza aderire ai presupposti ideologico-teorici di questa scuola, presentata al lettore italiano da uno dei suoi fondatori, Robert Boyer, con un volume apparso in questa stessa collana8, ci appare utile euristicamente accettarne la
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prospettiva di fondo che implica sia una rivalutazione dell’aspetto politico della economia, segnatamente del ruolo dello Stato in senso lato, sia un recupero della dimensione storica, vale a dire l’evoluzione dei modi di sviluppo. Rinviando al succitato testo di Boyer per gli opportuni approfondimenti sulla teoria regolazionista, in questa sede ricordiamo che il modo di sviluppo è dato dalla congiunzione di un determinato regime d’accumulazione e di un corrispondente modo di regolazione. In concreto, questo è definito da cinque forme istituzionali fondamentali, per la codificazione delle quali essenziale è il ruolo dello Stato: il regime monetario; il mercato inteso come costruzione sociale (quindi la forma concorrenziale vigente); la forma del rapporto salariale; la forma dello Stato; infine, il rapporto con sistema economico internazionale. Ne consegue che la forma «concorrenziale» è solo una delle cinque forme istituzionali che regolano le basi di un’economia capitalistica. Quando fra queste cinque forme istituzionali si raggiunge un equilibrio (che comunque è dinamico e modificabile per effetto di interventi esogeni), allora si crea un modo di regolazione. A sua volta, un regime di accumulazione si crea sopra le forme istituzionali quando, nel medio periodo, si raggiunge un opportuno grado di compatibilità tra produzione, distribuzione del reddito e genesi della domanda. Va rilevato, infine, che le forme istituzionali variano da paese a paese e a seconda dei periodi storici.
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Secondo Boyer, il capitalismo occidentale avrebbe conosciuto negli ultimi due secoli cinque regimi d’accumulazione sfociati in genere in crisi strutturali, di cui l’ultima è quella che l’economia mondiale sta attualmente attraversando (corrispondente alla terza Grande Crisi secondo la genealogia delle crisi che abbiamo ripreso da Andrew Gamble)9. A questi cinque regimi – da quello «estensivo a regolazione concorrenziale» della seconda metà del XIX secolo a quello «intensivo con consumo di massa» (fordista) dei gloriosi trent’anni, a quello «trascinato dalla finanza» proprio degli ultimi due decenni – corrisponderebbero altrettanti modi di regolazione da parte dello Stato. In definitiva, la crisi scoppiata nell’estate 2007 negli Stati Uniti sarebbe nello stesso tempo crisi del modo di regolazione, causata in primo luogo dalla finanziarizzazione cui si è accennato all’inizio, e crisi del regime di accumulazione, provocata da una dilatazione non più sostenibile d’accesso al credito, che ha bloccato la crescita dei consumi basata essenzialmente sulla moltiplicazione di sofisticati prodotti finanziari. Per il superamento della crisi sarebbe necessario che lo Stato non si limitasse a svolgere il ruolo di prestatore e di compratore di ultima istanza, ma dovrebbe promuovere un nuovo modello che privilegi l’innovazione tecnologica e organizzativa in modo da «dare impulso a compromessi che permettano l’emergere di una [nuova] configurazione di
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forme istituzionali che si sostituisca a quella dominata dalla finanza»10. Il profondo mutamento avutosi in questi ultimi anni nella concezione del capitalismo è certamente dovuto al ripetersi di recessioni e di crisi, da quella asiatica del 1997, a quella del «dot.com» dell’inizio del nuovo secolo, alla crisi dei prestiti subprime di oggi: crisi che hanno spinto da una parte a mettere in dubbio l’efficienza dei mercati e «la razionalità delle anticipazioni» e dall’altra a ridare credibilità allo Stato in qualità di garante del funzionamento del sistema finanziario e, più in generale, dello sviluppo. Tuttavia, non bisogna sottovalutare altri fattori, come i cambiamenti verificatisi nel sistema internazionale (la quinta delle forme istituzionali sopra elencate), e fra questo particolare rilevanza per la nostra analisi assumono le mutate condizioni della geoeconomia mondiale con l’affermarsi di nuove potenze emergenti.
È ormai un dato largamente accettato che il perno dell’economia mondiale si sia spostato dall’Occidente in Asia, segnatamente nell’Estremo Oriente, che dal punto di vista geoculturale si identifica con l’Asia confuciana. Questa è costituita da tutti i paesi che storicamente sono stati influenzati dalla civiltà sinica: un’antica e gloriosa civiltà nata nel bacino del Fiume Giallo e sviluppatasi a macchia d’olio in tutto il
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territorio cinese e, in tempi e modi diversi, irradiatasi nei paesi vicini11. Il mondo confuciano (o «sinico») comprende tutta l’Asia di Nord-est: quindi, oltre alla Cina continentale e alle sue marche marittime, anche la penisola coreana e l’arcipelago giapponese, e inoltre due Stati sinizzati del Sudest, il Vietnam e Singapore. Un potente elemento di unificazione areale è stata la scrittura ideografica cinese, come lo sono stati il latino per il mondo romano cristiano e l’arabo classico per il mondo islamico, ma con importanti differenze. La prima differenza è data dal fatto che l’influenza della cultura cinese è avvenuta in primo luogo attraverso il suo particolare tipo di scrittura, cioè uno strumento che di norma è «richiesto» come prestito culturale, e non per mezzo della lingua, che in genere è una riforma «imposta» come strumento di dominio, come è avvenuto originariamente con il latino che ha veicolato in Europa le basi della nostra civiltà. Inoltre, a differenza delle scritture alfabetiche o sillabiche, quella cinese, essendo ideografica, veicola non meri suoni e grafemi, ma direttamente idee, pensiero, valori. In definitiva, la Corea e il Giappone hanno cominciato non solo a leggere e scrivere, ma anche a pensare in cinese. Un secondo importante fattore omogeneizzante è stato il Confucianesimo, sorto in Cina circa duemila e cinquecento anni fa e diffusosi in tutti in paesi del mondo sinico, con gli opportuni adattamenti sulla base dei substrati culturali
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esistenti, come lo Shintoismo in Giappone e lo Sciamanesimo in Corea13. In parte veicolato proprio dalla scrittura ideografica, il Confucianesimo, come vedremo più approfonditamente tra breve, è un codice di norme morali che mira ad assicurare l’ordine e il buon funzionamento della società o del gruppo, guidando in modo gerarchico e armonioso le relazioni umane a vari livelli: tra gli individui, all’interno della famiglia, del villaggio, tra governante e governati. Nonostante i profondi e ripetuti cambiamenti verificatisi nel corso di questi venticinque secoli e i tentativi di sradicamento dalle abitudini popolari fatti soprattutto nei primi trent’anni di Comunismo, il Confucianesimo resta alla base della cultura cinese di oggi e delle relazioni interpersonali14. Lo stesso vale, in misura diversa, per gli altri paesi dell’area sinica. A questo riguardo, è interessante rilevare che non esiste in tutta l’Asia confuciana un termine corrispondente a «confucianesimo»: gli aderenti a questa dottrina (o religione, nell’accezione molto lata usata da Max Weber) sono semplicemente chiamati ju, cioè «letterati», il cui significato originario è «persone deboli», vale a dire uomini di penna (o meglio di pennello) più che di spada. Tuttavia, con l’affermarsi del sistema burocratico in Cina all’inizio della dinastia Song (960-1279), sono stati proprio questi «letterati» diventati anche «burocratici» a costituirne per più di un millennio la classe dominante, legittimata dal merito (i funzionari imperiali venivano selezionati attraverso un rigido sistema di esami
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basati sulla conoscenza dei classici del Confucianesimo e quindi sulla interiorizzazione dei suoi valori) e non da fattori ascrittivi, in base alla nascita, come per esempio in Europa grosso modo fino alla Rivoluzione Francese15. Dal punto di vista geoeconomico, per le ragioni che vedremo in seguito, quest’area è molto più vasta e nella pubblicistica è spesso indicata come «Asia dinamica»: oltre all’Asia confuciana, essa si estende a tutto il Sudest asiatico culturalmente indianizzato e/o islamizzato e, oggi, alla stessa India. È interessante rilevare che, soprattutto negli anni Ottanta e Novanta, sono stati proprio i leader dei paesi non sinizzati del Sud-est asiatico (il carismatico ex primo ministro malese Mahathir in primo luogo16) a indicare come modello di sviluppo il Giappone in nome dei controversi «valori asiatici» (sostanzialmente confuciani). Significativamente, i due slogan più diffusi in Estremo Oriente erano: «Look at East», guarda a Oriente e non a Occidente, e «l’Asia che sa dire di no» (naturalmente agli Stati Uniti)17. Comunque sia, è proprio nell’Asia confuciana di Nordest, che tra l’altro vanta le tre maggiori economie dell’immensa regione (Giappone, Cina e Corea del Sud, con un Pil combinato pari al 16 per cento di quello mondiale), che negli ultimi decenni si è registrata una crescita straordinaria guidata dal cosiddetto «stato sviluppista», una forma di Stato che per funzioni e struttura ha le sue radici nella tradizione confuciana. Incarnato prima dal Giappone, che ne è stato il
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prototipo, poi fatto proprio dalle cosiddette «tigri asiatiche» (Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong e Singapore) e oggi dalla Cina, lo stato sviluppista è stato teorizzato agli inizi degli anni Ottanta dal sinologo e pubblicista americano Chalmers Johnson con riferimento al ruolo centrale e decisivo svolto nello sviluppo economico del Giappone del dopoguerra dal famoso (o famigerato, a seconda dei punti di vista) MITI (Ministero dell’Industria e del Commercio Internazionale del Giappone), oggi METI (Ministero dell’Economia e del Commercio Internazionale)18. Johnson è considerato (anche se egli ha sempre respinto questa etichetta) «il padre del revisionismo», cioè di quella scuola – diffusa negli anni Ottanta-Novanta in Estremo Oriente e in America – che, in opposizione all’ortodossia neoliberale come insegnata negli Stati Uniti, sostiene di «svelare, nel sistema economico giapponese e in quello dei paesi vicini che hanno costruito la propria politica industriale sul modello giapponese, dati che sfuggono alle leggi supposte universali della teoria economica classica»19. Come si vedrà in seguito, questi dati riguardano essenzialmente tre fattori che effettivamente hanno poco a che fare con la «mano invisibile»: il contesto storico, il condizionamento culturale e il volontarismo politico. Lo stato sviluppista è una forma di Stato fortemente interventista in economia (o addirittura dirigista, se le circostanze lo richiedono) il cui obiettivo prioritario è, per l’appunto, lo sviluppo del Paese. Tra le sue connotazioni specifiche, che
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esamineremo in seguito, ai fini della nostra analisi particolare rilievo assume la relativizzazione dell’opposizione (o meglio la collaborazione) tra Stato e Mercato. È noto che nel mondo confuciano alla logica occidentale dell’«o…o» («essere o non essere», tertium non datur) si preferisce quella più accomodante dell’«e…e» (Stato e Mercato). Per gli estremorientali il dilemma amletico non è poi un così grande problema, proprio perché nel mondo sinico al posto del dilemma può funzionare un «tetralemma». Non deve quindi stupire più di tanto se oggi i leader cinesi considerano il proprio paese «comunista ma anche capitalista» e se la legittimità a governare al Partito Comunista Cinese deriva – paradossalmente per la nostra logica – dal successo delle sue riforme capitalistiche. Den Xiaioping, il Piccolo Timoniere, agli inizi degli anni Novanta definì ufficialmente «economia socialista di mercato» il modello di sistema economico che si intendeva costruire con il programma di «riforme e apertura» lanciato nel 1978 e consistente, in pratica, nell’inserire la Cina nella rete del capitalismo globale. Ma per Deng (e i suoi successori) l’inserimento dovrebbe avvenire senza alterare l’attuale struttura del sistema politico centrato sul partito unico, consapevole (come forse lo era anche Gorbachev, ma non Yeltsin) che nei paesi comunisti (segnatamente in quelli confuciani), in assenza di una «società civile», è il Partito Comunista l’unica forza politica in grado di garantire la transizione a un’economia di mercato20.
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Questa logica del but also (per usare un’espressione della antropologa americana Ruth Benedict, autrice di quel gioiello della letteratura antropologica che è Il crisantemo e la spada), applica con molta tolleranza il principio aristotelico di non contraddizione («è impossibile che la stessa cosa sia e nello stesso tempo non sia») e, pertanto, attenua di molto l’opposizione stato/mercato, burocrazia/imprenditore, mano visibile/ mano invisibile. Certo, gli ossimori non mancano nemmeno da noi, basti pensare – per citarne uno divenuto proverbiale – alle convergenze parallele, la formula esemplificativa della politica di centro-sinistra consistente nella convergenza di forze politiche parallele, cioè senza punti di contatto. Forse non a caso l’invenzione di questo geniale ossimoro è attribuita allo statista salentino Aldo Moro, il più «levantino» (per nascita) e il più «orientale» (dal punto di vista della sua epistemologia) dei leader politici dell’Italia postbellica. A questo riguardo, riteniamo interessante anche ricordare che a ossimori sono ricorsi due grandi studiosi occidentali dell’Estremo Oriente contemporaneo: il già citato Ronald Dore ha introdotto la nozione di «rigidità flessibili» (flexible rigidities) per cercare di spiegare agli Occidentali le specificità del capitalismo nipponico negli anni Settanta e Ottanta21; e Franz Shurmann, autore di una delle analisi sociologiche più brillanti della Rivoluzione Culturale cinese, per definire il pensiero di Mao (il celebre «Mao Tsetung-pensiero») non ha trovato migliore espressione di «ideologia
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pratica» (opposta alla «ideologia pura» rappresentata dal marxismo-leninismo)22. In realtà, questa «elasticità» della logica non era del tutto estranea al pensiero dei padri fondatori del liberalismo economico, a cominciare da Adam Smith come vedremo tra breve, che in definitiva erano molto meno parmenidei (e più eraclitei) dei loro epigoni del Novecento, un secolo – come ben sappiamo – fin troppo ideologizzato e impregnato di valori assolutisti e universalisti. Bisogna però subito aggiungere che oggi, in termini generali, si delinea una nuova convergenza da parte del pensiero occidentale verso un’epistemologia più interpretativa che esplicativa e verso un’ontologia meno oggettivistica, meno sostanzialistica, anche senza gli eccessi soggettivistici di certe posizioni postmoderniste. Del resto, oggi si ammette che – per esempio, in geometria iperbolica (già studiata nel XVIII secolo dal gesuita italiano Giovanni Girolamo Saccheri, inconsapevole padre della «geometria non-euclidea» – due rette parallele passano incontrandosi all’infinito. In definitiva, quel che sommessamente si vorrebbe suggerire in questa sede è un pluralismo di punti di vista che possa in qualche ammorbidire il monismo delle posizioni neoliberali senza però cadere nell’estremo opposto.
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In effetti, al di là della logica particolarmente elastica e, quindi, della banalizzazione dell’ossimoro, quel che più conta per comprendere la non polarizzazione tra Stato e Mercato nel modello di stato sviluppista confuciano è la concezione ontologica delle culture del mondo sinico: una concezione organicistica di un mondo »fluido dall’eterno ritorno». Un detto popolare in Cina così recita: wuji bifan, le cose, una volta raggiunto il punto estremo, si muovono necessariamente in senso opposto. Si tratta di culture molto lontane dal dualismo ontologico occidentale, che costituisce la connotazione specifica della nostra tradizione filosofica da Platone (o meglio, da Parmenide) a oggi, secondo cui tra uomo e Dio, tra uomo e natura, tra mito e logos, tra anima e corpo, tra res cogitans e res extensa esiste una frattura netta e non un continuum come invece nel mondo sinico23. I due principi dialettici con cui in cui si realizza il principio ontologico di base, il Tao (letteralmente «la via»), sono yin principio femminile (rappresentante il lato ombroso della montagna, il freddo, la ritrazione, i lavori domestici…) e yang principio maschile (il lato soleggiato del monte, il caldo, l’espansione, i lavori dei campi…). Questi due principi sono sì opposti ma possono convivere in pace. Nell’Asia confuciana, la divisione yin e yang è come la divisione tra la notte e il giorno, tra il maschio e la femmina, tra la luce e le tenebre, cioè tra forze che non si escludono a vicenda ma che sono complementari, che si alternano e si equilibrano tra loro. Quindi, la notte esiste in quanto esiste il
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giorno, il maschio perché esiste la femmina e – parafrasando Adam Smith – il Mercato esiste perché esiste lo Stato24. Più in generale, possiamo dire che il Confucianesimo, che nella storia della cultura cinese rappresenta ciò che gli antropologi anglosassoni definiscono la Grande Tradizione (diciamo l’elemento yang), esiste perché esiste il suo opposto: il Taoismo, ovvero la Piccola Tradizione, l’elemento yin. Il Confucianesimo enfatizza l’importanza dell’armonia (he), dell’ordine sociale che nello stesso tempo è anche morale: un ordine consistente in un sistema gerarchizzato sulla base delle «cinque relazioni» (sovrano-popolo, padre-figlio, maritomoglie, fratello maggiore-fratello minore, amico-amico). Da queste relazioni derivano regole morali di tipo comunitaristico, che ubbidiscono non tanto alla coscienza individuale, che è scarsamente sviluppata, ma al giudizio della società, del gruppo d’appartenenza. Si sa che più si va verso Oriente e più l’individuo sembra dissolversi nella sua appartenenza a una comunità, e sempre meno rilevante diventa il «cogito cartesiano», cioè la pretesa di un individuo di poter distinguere il vero dal falso, il buono dal cattivo grazie semplicemente alla sua facoltà individualistica di ragionare. Ne consegue che la sanzione per la violazione della norma non è il senso di colpa (e quindi il rimorso, come in Occidente) ma la vergogna (la riprovazione sociale). Questo atteggiamento, per forza di cose tendente al conformismo inteso positivamente come tensione morale per
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garantire l’armonia del gruppo, spinge il confuciano a una partecipazione sociale attiva giocando al meglio il proprio ruolo (di sovrano o di suddito, di padre o di figlio ecc.), ed è definito in cinese con l’espressione «entrare nella società» (rushi). Al contrario, il Taoismo enfatizza la relazione armoniosa tra il singolo uomo e la natura, promuovendo l’idea di «non-azione» (wuwei), di passività nei confronti della vita sociale in ogni suo aspetto. Questo atteggiamento, per cui il taoista cerca la saggezza adattandosi al grande modello della natura, il Tao, e non a una società creata dall’uomo, è detto in cinese «uscire dalla società» (chushi). Da notare che mentre Confucio usava il termine tao in senso lato per indicare il sistema sociale da lui promosso, i taoisti invece lo usavano con una valenza ontologica: il Tao è «marmo non scolpito», è «non-essere senza nome e senza forma», non conosce distinzione tra grande e piccolo, tra vita e morte, tra buono e cattivo… Per divenire uno con il Tao e «raggiungere la tranquillità nella lotta», è necessario superare le distinzioni, che sono fonte di ogni male e di ogni errore. A questo fine bisogna seguire la dottrina del wuwei: «non fare niente, e non c’è niente che non sarà fatto». Si osservi che la non-azione dei taoisti non è propriamente inazione, ma piuttosto un atteggiamento di abbandono alla natura. Evidenti sono le divergenze sul piano politico tra queste due tradizioni culturali. Allo Stato interventista e paternalista del burocrate-confuciano (il mandarino) si contrappone lo
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Stato inattivo dei taoisti, per i quali l’ideale politico è decisamente passatista, basato su un primitivismo anarchico: «uno Stato piccolo al punto da potersi udire il canto dei galli e l’abbaiare dei cani dello Stato vicino» e un governo avente come obiettivo «vuotare la testa degli uomini e riempirne lo stomaco». In Cina, il ruolo economico dell’apparato governativo è stato ampiamente e aspramente dibattuto nel corso della sua lunga storia. Si pensi che già nell’81 a.C. ebbe luogo presso la corte imperiale una sorta di workshop, diremmo oggi, per esaminare l’opportunità del monopolio statale su prodotti fondamentali come il ferro (il cui controllo tra l’altro aveva favorito militarmente lo stato di Qin nella lotta contro gli altri «Stati combattenti» consentendogli di unificare il paese e fondare l’Impero nel 221 a.C.) e il sale, elemento essenziale nella dieta cinese a base di cereali25. Le conclusioni di questa conferenza, peraltro contrarie a un politica monopolistica da parte dello Stato, una generazione dopo furono oggetto di una celebre pubblicazione dal titolo Yan tie lun (Discorsi sul sale e sul ferro). Naturalmente, Confucianesimo e Taoismo – ma lo stesso vale in qualche misura per Confucianesimo e Shintoismo in Giappone come per Confucianesimo e Sciamanesimo in Corea – condividono elementi fondamentali, fra cui l’ontologia organicistica, l’intramondanità, la mancanza di escatologia e di redenzionalità (secondo Max Weber, il
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Confucianesimo è l’unica religione universale a-redenzionale), un’etica comunitaristica e accentuatamente ritualistica; il principio del «giusto mezzo» (zhong yong) per cui si cerca di trovare un equilibrio nella vita e l’armonia tra società e natura. In conclusione, Confucianesimo e Taoismo si equilibrano a vicenda: il burocrate-letterato cinese, il mandarino che per definizione è confuciano, può essere anche taoista, come in Giappone sul piano religioso un individuo può essere nello stesso tempo shintoista e buddhista e qualche volta anche cristiano26. Un buon esempio del bilanciamento degli opposti è dato dall’ideogramma cinese che si legge ming: esso significa «chiaro», «luminoso» ed è composto da due ideogrammi semanticamente opposti indicanti rispettivamente il «sole» e la «luna». Si dice che i cinesi siano confuciani in periodi di stabilità politica e di successo personale e che cerchino invece nel Taoismo sicurezza e consolazione in periodo di turbolenze politiche e di minor successo sul piano personale: è questa certamente una generalizzazione (anche molto rozza), ma che, come molte generalizzazioni, contiene una buona dose di verità27. Come abbiamo già ricordato, nella civiltà occidentale, sia nella tradizione cristiana che in quella del cosiddetto Progetto Illuministico basata sulla razionalità e sulla scienza moderna, netta è la divisione tra bene e male, in lotta mortale l’un contro l’altro. Come annota Zhao Tingyang, uno dei maggiori filosofi cinesi contemporanei, il concetto di «lotta decisiva» è
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estraneo alla tradizione sinica. Sia il Confucianesimo sia il Taoismo non conoscono questa idea della strenua opposizione, della lotta tra Dio e Satana, tra credenti e pagani, né quella della resa finale dei conti, del Giudizio universale. Le due tradizioni, entrambe prive di escatologia e dell’idea del peccato e profondamente intramondane, sono contrapposte sì, ma mirano in cooperazione tra loro alla realizzazione di due obiettivi fondamentali: l’armonia sociale e la saggezza individuale. Partendo da queste premesse, Zhao, sostenitore di un approccio a somma positiva (win-win), cerca di andare al di là della cultura «kantiana», che, a differenza di quella «hobbesiana» e «lockiana», considera l’Altro come «amico» e non come un nemico o un rivale. Il filosofo cinese propone, quindi, una «quarta cultura» basata sull’armonia (he) e sulla cooperazione, che sono i valori fondamentali della tradizione sinica, e non sulla nozione occidentale di conflitto che implica un approccio a somma zero (win-lost), tipico dell’Illuminismo ma anche del Cristianesimo. In effetti, per Zhao anche la cultura kantiana, una delle massime espressioni dell’approccio cooperativo della tradizione europea, ha un forte limite in quanto «non fa del tuo nemico un amico», principio questo che è invece alla base della nozione di tianxia, letteralmente «tutto ciò che sta sotto il cielo», idea che è il cuore della dottrina dello studioso cinese28. Secondo la tradizione politologica cinese, infatti, la nozione di tianxia implica un impero potenzialmente
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universale da cui si irradiano i valori della civiltà: le sue frontiere, infatti, sono costituite da isobare culturali per cui ogni popolo, indipendentemente dalla lingua, dalla etnia e dalla religione, può farne parte se accetta i suoi valori culturali (intramondani e per di più relativi, cioè validi caso per caso). Questo impero potenzialmente universale, che per alcuni aspetti ricorda la res publica christiana del Medioevo europeo, si sviluppa intorno al «Paese del Centro» (Zhongguo), che è un’entità statale governata per «mandato del Cielo» (tianming) dall’Imperatore, detto appunto il «Figlio del Cielo». Se il sovrano non governa correttamente dal punto di vista dell’etica comunitaristica, allora «perde il mandato» (geming), perde cioè la legittimità a governare e il popolo ha diritto alla «rivoluzione», che significativamente oggi in cinese si dice per l’appunto geming29. En passant ricordiamo che questa teoria del «mandato celeste», che in pratica teorizza il diritto del popolo alla rivoluzione, fu elaborata dal filosofo confuciano Mencio, vissuto più di un millennio prima di Locke! Purtroppo di ciò non si trova traccia nei nostri manuali di Storia delle dottrine politiche.
Tornando alla crisi che stiamo attraversando, essa andrebbe quindi collocata in una cruciale fase di transizione di un processo pendolare che in meno di cent’anni ha visto per ben tre
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volte capovolto il rapporto tra «mano invisibile» del Mercato e «mano visibile» dello Stato e in un’ulteriore svolta del liberalismo economico nel suo legame con la politica. Come è noto, l’economia liberale classica, formulata principalmente dagli autori inglesi (da Locke a John Stuart Mill), esercitò un’influenza preponderante nelle relazioni economiche internazionali tra il 1750 e la Prima Guerra Mondiale, grazie alla supremazia dell’Impero britannico, che nella gestione del Sistema Internazionale del tempo svolgeva il ruolo di balancer nel garantire lo status quo in caso di minaccia da parte di eventuali potenze «revisionistiche» (come la Francia napoleonica o la Germania Gueglielmina). È in questa fase che divenne dominante, anche dal punto di vista teorico, il liberalismo economico, che ha come classici Smith, Ricardo, Pareto, Walras… Nato come espressione della borghesia in ascesa, si è affermato in opposizione al mercantilismo, che invece era sostenuto da studiosi, come il tedesco F. List, favorevoli a politiche protezionistiche, usate come contromisure al liberalismo dei paesi economicamente più avanzati e destinate a rafforzare il potere degli Stati nazionali «ritardatari», late comers, come la Germania di Bismarck ma anche l’Italia (ricordiamo le misure protezionistiche della Sinistra storica) e il Giappone. Si tratta di paesi (soprattutto il Giappone) il cui capitalismo ha avuto una nascita per così dire «incestuosa» o, per dirla in termini marxiani, ha avuto
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un’accumulazione originaria «dall’alto» e il cui sviluppo necessitava della «calda protezione dello Stato»30. In termini generali, il liberalismo mira alla gestione ottimale di un’economia di mercato per realizzare tre obiettivi: l’efficienza produttiva, la crescita economica dello Stato e la massimizzazione del benessere individuale. Il suo assunto di fondo è che le relazioni sono regolate da leggi economiche, cioè dal mercato, dalla «mano invisibile” che trasforma l’egoismo dei singoli in benessere collettivo senza interferenze politiche (senza l’intervento dello Stato). Fu la Grande Crisi del 1929 con la conseguente depressione degli anni Trenta la causa principale dell’abbandono di questa dottrina a favore di un liberalismo elaborato da John Maynard Keynes e dai suoi discepoli e dalla mainstream etichettato come «eterodosso». Keynes sosteneva la necessità di un significativo intervento dello Stato nel processo economico, anche attraverso una regolamentazione delle forze del mercato, al fine di attenuare squilibri, disuguaglianze, crisi. In particolare, secondo Keynes, il sistema capitalistico non tende verso un equilibrio di piena occupazione, ma lo Stato può porvi rimedio mediante appropriate politiche fiscali e monetarie finalizzate ad accrescere la domanda aggregata31. Come reazione al rinascente nazionalismo/mercantilismo (individuato come una delle cause della Prima e della Seconda Guerra Mondiale) e al diffondersi del marxismo, nel dopoguerra il keynesismo divenne il modello dominante, e
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tale rimase per tutti i gloriosi trent’anni. Questo periodo, durante il quale l’Occidente aveva avuto l’illusione d’aver definitivamente sconfitto tre terribili nemici dell’uomo, la scarsità delle risorse, la disoccupazione e il ciclo economico, fu caratterizzato da un’accumulazione di tipo «fordista», come vedremo, con un diffuso e incisivo intervento dello Stato in campo economico, intervento che «keynesianamente» andava ben al di là delle funzioni tradizionalmente attribuite allo Stato. La pubblica amministrazione, oltre a incoraggiare l’efficienza ponendo rimedio ai fallimenti di mercato (come inquinamento, situazioni monopolistiche ecc.) e a promuovere l’equità redistribuendo il reddito a favore dei meno abbienti con strumenti fiscali e con la spesa pubblica, a partire dallo sviluppo della macroeconomia negli anni Trenta ha avuto anche il ruolo di favorire la crescita economica e di stabilizzare il sistema. In breve, attraverso la leva monetaria e quella fiscale lo Stato può influenzare i livelli di produzione, occupazione e inflazione32. In effetti, la crescita economica senza precedenti dell’Occidente (Giappone compreso) durante i gloriosi trent’anni deve molto all’applicazione con successo della lezione keynesiana da parte delle pubbliche amministrazioni. Tuttavia, nel corso degli anni Settanta cambia nuovamente lo scenario: di fronte a gravi difficoltà economiche insorte (crescita dell’inflazione coesistente con la stagnazione economica e conseguente aumento della disoccupazione:
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stagflation), diventano sempre più numerosi coloro che guardano con scetticismo alle capacità della «mano visibile» di stabilizzare il sistema. È la Seconda Grande Crisi. Screditato il keynesismo, si afferma un orientamento composito, da molti definito come neoliberalismo, di cui due sono i filoni teorici più importanti. Il primo è costituito dalla cosiddetta Scuola di Chicago, i cui esponenti sono economisti associati all’omonima Università (Frank Knight, Henry Simons e Milton Friedman, insieme con l’economista austriaco Friedrich Hayek). Paladini della libertà individuale in politica e in economia (e per questo definiti da alcuni «economisti libertari») e dello Stato minimo, essi sottolineano come la programmazione e l’intervento pubblico non solo ledono le libertà personali ma la stessa efficienza economica33. Il secondo gruppo va sotto il nome di Scuola delle aspettative razionali, fondata all’inizio degli anni Settanta da Robert Lucas sempre dell’Università di Chicago e da Thomas Sargent della Stanford University, secondo cui le politiche sistematiche non possono porre rimedio ai cicli economici. Pertanto, le pubbliche amministrazioni, anziché intervenire per cercare di regolare ogni oscillazione del ciclo economico, dovrebbero assumere un atteggiamento passivo in campo fiscale e monetario. Agli inizi degli anni Ottanta, Margaret Thatcher in Inghilterra e Ronald Reagan negli Stati Uniti adottarono estesamente politiche economiche ispirate dal neoliberalismo,
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smantellando tra l’altro il welfare state. In particolare, l’amministrazione Reagan fece proprie la concezione «libertaria» della Scuola di Chicago e quella delle scelte razionali nella convinzione che uno Stato minimo avrebbe promosso congiuntamente libertà individuale e crescita economica. Un Rapporto elaborato nel 1982 dall’Ufficio del presidente Reagan, dopo aver sottolineato la stretta relazione tra libertà politica e libertà economica, affermava che «le condizioni economiche delle economie di mercato sono generalmente superiori a quelle delle nazioni… in cui lo Stato ha il ruolo dominante»34. L’assegnazione del Nobel per l’Economia nel 1976 a Milton Friedman, fondatore della scuola monetarista e spesso definito l’anti-Keynes, può esser visto come un segno della rivincita del Mercato sullo Stato (e sulla Fabbrica che, come vedremo, era al cuore dell’accumulazione fordista). Due anni prima, nel 1974, il premio era stato attribuito congiuntamente a due esponenti rappresentanti scuole contrapposte: Gunnar Myrdal, un economista «eterodosso», e Friedrich von Hayek, paladino del mercato. Nello stesso periodo, il Mercato cominciava a essere «riscoperto» financo nei paesi del cosiddetto socialismo reale, a cominciare dalla Cina che nel 1978 inizia «la marcia verso il capitalismo socialista» con il lancio da parte di Deng Xiaoping del programma «apertura e riforme», gaige kaifang. Intanto, in Occidente con la cosiddetta «rivoluzione conservatrice» l’economia si affrancava dalla politica.
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Già verso la fine del XIX secolo Marshall, uno dei padri della moderna teoria economica, aveva sostituito l’espressione political economy semplicemente con economics restringendo grandemente il campo della scienza economica, che finì con il diventare una scienza empirica esente da giudizi di valore. La separazione dell’economia dalla dimensione politica fu in qualche modo formalizzata da Pareto con la nozione di efficienza allocativa, che in pratica sostituì normativamente la negoziazione al conflitto. La formalizzazione fatta da Pareto fu insegnata a generazioni di studenti (anche se in alcuni paesi dell’Europa continentale, come l’Italia, ma soprattutto in Giappone non mancò una dura resistenza) e l’economia politica finì con l’essere in qualche modo «rimossa» trovando rifugio presso studiosi «eterodossi» che non sottovalutavano l’esistenza dei conflitti economici e politici. Semplificando, possiamo dire che alle dicotomie «mano visibile/mano invisibile» e «Stato/Mercato» si sovrappone la contrapposizione «economia politica/scienza economica». Bene, come s’è già accennato, ora, in conseguenza anche della Terza Grande Crisi, la situazione è ancora una volta mutata con il prepotente «ritorno dello Stato»: l’assegnazione del Nobel per l’Economia nel 2008 proprio a Krugman, da molti definito un «neo-keynesiano», può essere vista come un segno che il vento è effettivamente cambiato. In realtà, per Adam Smith l’economia rientrava integralmente nella dimensione politica e la stessa sua dottrina della
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«mano invisibile» è alquanto controversa. Come è noto, la mano invisibile è una metafora a cui Adamo Smith nei suoi scritti ha fatto ricorso tre volte, per indicare che nel libero mercato35 ogni individuo, pur perseguendo il proprio interesse, viene come guidato da una mano invisibile a conseguire un risultato che è migliore per tutti. In pratica, la ricerca egoistica dell’interesse individuale (i «guadagni relativi» diremmo oggi) si trasforma in interesse dell’intera società («guadagni collettivi»). Naturalmente, questa straordinaria proprietà del mercato funziona in presenza della concorrenza perfetta e in assenza di fallimenti di mercato. Alla metafora della «mano invisibile» Smith ricorre per la prima volta nei Saggi filosofici36, in cui egli sostiene che nell’antichità pagana gli eventi «irregolari» della natura venivano attribuiti all’azione degli dei, mentre quelli regolari erano visti «come conseguenza necessaria della loro natura, e non si ricorreva all’intervento della mano invisibile di Giove». Nella controversa Teoria dei sentimenti morali37, scritta dopo circa un decennio, afferma che i ricchi «a dispetto del loro naturale egoismo e della loro naturale rapacità […] sono condotti da una mano invisibile a fare quasi la stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita che sarebbe stata fatta se la terra fosse stata divisa in parti uguali tra tutti i suoi abitanti, e così, senza volerlo, senza saperlo, fanno progredire l’interesse della società, e offrono mezzi alla moltiplicazione della specie». Ma aggiunge che il «principio di simpatia», che
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ne è alla base, non rende tutti gli uomini virtuosi. Infine, nella Ricchezza delle nazioni (1776), Smith allarga il discorso spiegando tra l’altro come la mano invisibile, questo deus ex machina, non operi efficacemente anche sui mercanti e sui produttori di merci38. A questo punto preme sottolineare, come già mostrato in altre sedi39, che l’idea di una «mano invisibile», che storicamente si fa risalire allo stoicismo dell’antichità, non è affatto un’esclusiva del pensiero europeo. Secondo alcuni studiosi, infatti, Adam Smith nella teorizzazione del laissez-faire si sarebbe in qualche modo indebitato con la tradizione taoista cinese, tramite la mediazione dei fisocratici francesi e segnatamente di Quesnay, uno dei maggiori sinofili del tempo e noto come il «Confucio d’Europa», con il quale ebbe contatti durante la sua visita in Francia. Detto in breve, l’espressione francese laissez-faire, tradizionalmente attribuita al mercante Legendre nella sua risposta a Colbert40, sarebbe stata modellata sul principio base del Taoismo, il wu-wei, «non agire»41. Come sappiamo, sulla base di questo principio taoista lo Stato deve essere passivo, mentre per i confuciani lo Stato è paternalisticamente interventista; ma sappiamo anche che nel mondo sinico, per le specificità ontologiche e logiche cui si è sopra accennato, nella pratica politica le due nozioni di Stato non si escludono: lo Stato paternalistico-interventista d’ispirazione confuciana convive con lo Stato inattivo basato sul principio taoista del wu-wei. Ne consegue che il potente
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burocrate del MITI non si contrappone affatto all’imprenditore, ma collabora con lui servendosi delle sue antenne nel fare le scelte di politica economica. In questo modo, si può sfuggire all’idea che il rapporto tra Mercato e Stato sia un gioco a somma zero, puntando nel contempo – come del resto suggeriscono anche alcuni studiosi istituzionalisti occidentali – al superamento della dicotomia Stato/Mercato e a un coordinamento generale della società (civile o associativa che sia) e a ogni livello (nazionale, internazionale o transnazionale)42. A questo riguardo è interessante sapere che ancora oggi il termine sino-giapponese per «economia» è keizai, abbreviazione di un’antica espressione keikokusaimin che significa «buona amministrazione del paese – sollievo delle sofferenze del popolo». Quindi, «non si tratta di una scienza esatta, neutra, che stabilisce leggi al fine di iscrivervi fatti osservabili, bensì di una politica amministrativa, decretata da regole morali e finalizzata alla gestione del bene comune»43. Tornando al tema centrale della nostra analisi, come abbiamo già accennato la crisi sistemica che stiamo attraversando, già di per sé grave, è resa ancor più complessa da una duplice congiuntura: dal suo cumularsi ad altre tre sfide globali e dal verificarsi in radicale mutamento strutturale del Sistema Internazionale. Per quanto riguarda le sfide, c’è innanzitutto, la minaccia ambientale provocata da un tipo di sviluppo ritenuto da molti non più «sostenibile» (o
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«durevole», come preferiscono dire gli anglosassoni); seguono la crescente iniquità sociale, che ha assunto dimensioni insopportabili moralmente e inaccettabili politicamente; infine, la gestione della diversità culturale, che le Nazioni Unite hanno dichiarato «patrimonio comune dell’umanità», e quindi da salvaguardare non meno della biodiversità. La specifica drammaticità di questa crisi economica è data non solo dal suo combinarsi con queste tre criticità di carattere globale (ambientale, sociale e culturale), ma anche dal verificarsi in una fase di mutazione del Sistema Internazionale che pone fine a una struttura secolare: dall’egemonia occidentale, consolidatasi già al tempo della rivoluzione industriale, all’emerge di un sistema policentrico44. Questo mutamento, oltre che ai problemi concernenti la «polarità» del sistema (che è una nozione neorealista, riguardante la distribuzione del potere tra le grandi potenze), appare sensibile ai processi spesso drammatici connessi con l’«identità», che invece è un concetto costruttivista secondo cui il comportamento di un attore internazionale è plasmato da idee condivise45. Al di là di ogni retorica e di un facile ottimismo, noi siamo convinti che la consapevolezza della drammaticità di questa epocale congiuntura potrebbe permetterci di trasformare la minaccia incombente in un’opportunità da cogliere per realizzare un radicale cambiamento del modello di sviluppo e ancor prima del nostro mindset. Ed è sulla base di questa profonda convinzione che vorremmo presentare alcune riflessioni
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riguardanti specificamente l’evoluzione storica di questo complesso rapporto tra Mercato e Stato, tra «mano invisibile» e «mano visibile», con riferimento alla diversa evoluzione – rispetto all’Occidente – che esso ha avuto nell’Asia Confuciana.
Come recentemente ha sottolineato il pubblicista cinese Zhu Yuan su China Daily, commentando la traduzione in cinese del saggio del prof. C. Mantzavinos Individuals, Institutions, and Markets (pubblicato nel 2001)46, il continuo alternarsi di regolamentazione e deregolamentazione da parte dei governi occidentali, e degli Stati Uniti in particolare, rivela che esiste effettivamente un problema intrinseco nella relazione tra mano visibile e mano invisibile; tuttavia, come abbiamo già accennato, si sta delineando una convergenza verso una visione non più alternativa della relazione tra i due elementi e, più in generale, verso una concezione meno rigida di capitalismo. Partendo da questa premessa, nella prima parte della trattazione, avente carattere più teorico, ci si soffermerà sulla pluralità del Capitalismo, evidenziando le connotazioni nelle sue varianti più significative, da quella «liberale» anglosassone a quella «sociale» dell’Europa continentale, a quella «socialista» cinese, nonché alle specificità del moderno «Stato sviluppista» confuciano, che ha guidato la straordinaria
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crescita dell’«Asia dinamica». Un modello di Stato che, come abbiamo visto, affonda le sue radici proprio nel pensiero e nella pratica politica del mondo sinico e che combina l’interventismo paternalistico proprio della concezione politica confuciana con lo «Stato inattivo» della teoria taoista del wu-wei. Nella seconda parte, fondamentalmente analitica, si presenterà l’analisi della Cina, la quale avendo ereditato dal Giappone il testimone dello sviluppo asiatico nel corso degli anni Novanta, oggi funge da locomotiva dell’economia globale. Maggiore beneficiario della globalizzazione, l’Impero del Centro pare stia cogliendo l’opportunità offerta dalla Terza Grande Crisi per riequilibrare la struttura del proprio sistema economico, da una parte riducendo l’eccessiva dipendenza dalle esportazioni e dall’altra potenziando la debole domanda interna e allargando il raggio della crescita economica finora essenzialmente limitata alla ricca e sovrappopolata Cina costiera. Segue l’evoluzione economica del Giappone, che ha incarnato il prototipo dello Stato sviluppista e che con ripetute ondate ha trainato le economie dei paesi dell’Estremo Oriente (sia del Nord-est sia del Sud-est) verso una crescita che ha modificato profondamente i rapporti tra i vertici del triangolo economico mondiale a vantaggio della relazione transpacifica. Ci si soffermerà sulle difficoltà che il Paese del Sol Levante, classico stato-nazione a differenza della Cina che è un «paese-continente», ha nell’indossare la «camicia di forza
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dorata» della globalizzazione nonché sui suoi specifici atouts. Chiudono questa parte alcune riflessioni sulla Corea del Sud e Taiwan, le due maggiori «tigri aiatiche» già ex colonie dell’Impero nipponico. Per far fronte a questa complicata e diffusa situazione di crisi in cui pare intrappolato il Pianeta, di cui l’aspetto finanziario è solo un aspetto, «che fare»? Lasciamo al lettore la risposta a questo interrogativo. Il nostro obiettivo è di farne interiorizzare, appunto, la complessità. Il grande storico comparativista del Novecento, Arnold Toynbee, sosteneva che le singole civiltà muoiono se non riescono a dare risposte adeguate alle grandi challanges che di volta in volta si presentano. Dalla risposta che sapremo dare a questa epocale congiuntura di criticità globali dipende l’evoluzione non di una singola civiltà ma della Civiltà. Note 1. Sulla crisi, vedi A. Gamble, The Spectre at the Feast – Capitalist Crisis and the Politics of Recession, Palgrave McMillan, Basingstone and New York, 2009; G. Amato (a cura di), Governare l’economia globale nella crisi e oltre la crisi, Passigli, Firenze, 2009; J.-P. Pagé, Penser l’après-crise. Tout est à construire, Autrement, Paris, 2009; M. Aglietta, La crise. Purquoi en est-on arrivé là? Comment en sortir?, Michalon, Paris, 2008; G. Soros, The New Paradigm for Financial Markets: The Credit Crisis of 2008 and What it Means, Public Affairs, London, 2008; P. Gowan. «Crisis in the Heartland», New Left Review, n. 55 (2009); A. Volpi, Una crisi, tante crisi. Il crollo della finanza e la malattia del mercato, BFS, Pisa, 2009; D. Archibugi, The Global Commonwealth of Citizen: Toward Cosmopolitan Democracy, Princeton University Press, Princeton, 2008; P. Krugman, The Return of Depression Economics, Penguin, London, 2008; P. Artus, J.-P. Betbèze, C. de Boissieu e G. Capelle-Blancard, La crise des subprimes, Rapport du CAE n. 78, La Documentation Francaise, Paris, 2008. 2. R. Dore, «Financialization of the Global Economy», Industrial and Corporate Change, dicembre 2008 (trad. it, in Stato e Mercato, n. 3, dicembre 2008 con commenti di Barba
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Navaretti e Brigantini); Idem, Stock Market Capitalism, Welfare Capitalism: Japan and Germany versus the Anglo-Saxons, Oxford University Press, Oxford, 2000 (trad. it. Capitalismo della borsa o capitalismo del welfare?, il Mulino, Bologna, 2001). Vedi anche G.A. Epstein (a cura di), Financialization and the World Economy, Edward Elgar, Cheltenham-Northampton, 2005. 3. A. Gambe, op. cit., p. 10. 4. Vedi «Décroissance, frugalité, ecologie... C’est le moment de changer», Courrier International, n. 594, 18 febbraio 2009. 5. Sulla oscillazione tra mano visibile e mano invisibile nell’ottica derivante da «illusione/delusione», vedi A.O. Hirschman, Exit, Voice, and Loyalty: Responses to Decline in Firms, Organizations, and States, Harvard University Press, Cambridge, 1970. 6. L’approccio istituzionalista prende l’avvio dai lavori seminali di Coase sui costi di transazione e si sviluppa in più scuole (teoria dei costi di transazione, teoria dei contratti incompleti e teoria dell’agenzia), fondando il concetto di istituzione essenzialmente sull’idea di «regola». Questa sorge per disciplinare il comportamento degli agenti e minimizzare i costi di transazione: è dunque basata essenzialmente su un principio di convenienza economica. Pertanto, l’istituzionalismo, nella sua accezione più stretta, si differenzia dalla scuola della regolazione, di cui diremo tra poco, in quanto quest’ultima ritiene che le forme istituzionali emergano da conflitti sociali e passino attraverso la sfera politica e il riconoscimento legislativo per aver un impatto sulla dinamica economica. Per un’introduzione al pensiero istituzionalista (in senso lato), può essere utile il lavoro di M. Aoki (Fondements d’une analyse institution-nelle comparée, Albin Michel, Paris, 2006), che insiene a B. Amable è uno dei teorici della «complementarietà istituzionale» che indaga sui legami tra istituzioni che si rafforzano vicendevolmente. Per un’apertura dell’approccio istituzionalista a «tutte le scuole non ortodosse in economia», vedi il testo di Alain Caillé (sottoscritto da Robert Boyer, Olivier Favereau e altri) «Verso un’economia politica istituzionalista», in Revue du MAUSS permanente, 9 settembre 2008 (la traduzione italiana è di F. Fistetti). http://www.journal-dumauss.net/spip.php?article352. Cogliamo qui l’occasione per ringraziare la dott.ssa Elina De Simone per le osservazioni e i preziosi consigli che ci ha dato relativi alla storia del pensiero economico occidentale, un terreno per noi estremorientalisti particolarmente scivoloso; omissioni ed errori sono ovviamente nostri. 7. R. Boyer, Fordismo e postfordismo. Il pensiero regolazionista, Università Bocconi Editore, Milano, 2007, con un’ampia introduzione di A. Fumagalli e S. Lucarelli (la versione rivista dell’introduzione è stata presentata con il titolo La finestra di fronte: la théorie de la régulation vista dall’Italia come saggio del Dipartimento di economia politica e metodi quantitativi dell’Università degli studi di Pavia, settembre 2007, ed è disponibile in rete); D. Rodrik, Nations et mondalisation. Les stratégies nationales de développement dans un monde globalisé, La Découverte, Paris, 2008. 8. R. Boyer, op. cit. 9. I cinque regimi di accumulazione sono:
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1. «Estensivo a regolazione concorrenziale», seconda metà del XIX secolo: è caratterizzato da una organizzazione produttiva basata sulla grande manifattura e da un rapporto salariale di tipo concorrenziale; la partizione del valore aggiunto è regolata dall’«esercito di riserva»; infine, la domanda sociale è composta da contadini, borghesia e spese pubbliche. 2. «Intensivo senza il consumo di massa», periodo tra le due guerre mondiali: organizzazione produttiva di tipo tayloristico, poi con catena di montaggio; rapporto salariale concorrenziale malgrado la crescita dei salari; partizione del valore aggiunto a beneficio del profitto; la domanda sociale è costituita in misura crescente dai salariati. 3. «Intensivo con consumo di massa», «1945-1975» (i «gloriosi trent’anni»): organizzazione della produzione di tipo «fordista»; «compromesso social-democratico»; partizione del valore aggiunto stabilita ex ante; ruolo motore svolto dalla domanda dei salariati. 4. «Estensivo e inegualitario», dagli anni Ottanta alla metà circa degli anni Novanta: riduzione dei guadagni di produttività e terziarizzazione; il rapporto salariale caratterizzato da decentramento; individualizzazione e impoverimento delle forme collettive; composizione della domanda sociale stratificata sulla base del reddito e legata alle competenze.
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5. «Finanziarizzato», dalla metà degli anni Novanta al 2007: delocalizzazione alla ricerca di valore azionario; rapporto salariale con una duplice connotazione: flessibilità dell’impiego e della remunerazione e finanziarizzazione della copertura sociale; in relazione alla spartizione del valore aggiunto si osserva una riduzione della parte salariale e la captazione accresciuta da parte della finanza; domanda sociale, infine, condizionata dall’accesso al credito anche per i meno ambienti. Vedi R. Boyer, «Régulation et crise du capitalisme: le rôle de l’Etat et des institutions», Le capitalisme: mutaions et diversité, Cahiers francais, La documentation Francaise, n. 349, marzo-aprile 2009. 10. Ibidem. 11. Per una buona introduzione storica all’Estremo Oriente, ancora utile è E.O. Reischauer e J.K. Fairbank, Storia dell’Asia Orientale. 1. La grande tradizione, Einaudi, Torino, 1974. 12. In Giappone, il substrato è costituito dallo Shintoismo, religione autoctona dei nipponici. È una religione animistica che sacralizza la natura sotto forma di kami, è priva di escatologia ed è semplicistica dal punto di vista etico. Al vertice del pantheon schintoista c’è Anaterasu (la Dea del Sole), che è venerata come antenata del Tennō, il quale – in quanto massimo sacerdote shintoista – rappresenta il paradigma della specificità culturale del «paese degli Dei» (Kami no kuni). A differenza dell’Imperatore cinese, la cui legittimità è basata su valori meritocratici, il sovrano nipponico, discendente della più antica dinastia del mondo ancora regnante, «regna ma non governa». 13. In Corea, il Confucianesimo si combina con lo Sciamanesimo, che rappresenta un importante substrato culturale. In effetti, la Corea ha creato una sintesi originale tra Confucianesimo e influenze siberiane. Lo Sciamanesimo è un insieme di pratiche magico-religiose incentrate sullo sciamano, una specie di sacerdote che esercita in stato di trance le proprie funzioni a servizio della comunità (tra cui quelle terapeutiche, ma anche quella di accompagnare le anime nel regno dei morti). 14. Sulla rivalutazione del Confucianesimo nella Cina di oggi, vedi D. Bell, China’s New Confucianism: Politics and Everyday Life in a Changing Society, Princeton University Press, Princeton, 2008.
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15. Reishauer e Fairbank, op. cit., p. 82. 16. Lo stesso Mahathir nel 1991 propose l’istituzione dell’organizzazione regionale nota come EAEG (East Asian Economic Grouping), da cui erano escluse le potenze «bianche» del Pacifico; come è noto il progetto fallì soprattutto per le pressioni fatte dagli Stati Uniti sul Giapppone. 17. Sulla scia del bestseller di Ushihara Shintarō, «No» to ieru Nippon (trad. ingl. Frank Baldwin, Japan That Can Say No, Simon &Schuster, New York, 1991), sono stati pubblicati vari opuscoli del tipo L’Asia che sa dire di no, La Cina che sa dire di no. Vedi F. Mazzei e V. Volpi, Asia al centro, Università Bocconi Editore, Milano, 2006. 18. C. Johnson, MITI and Japanesae Miracle: The Growth of Industrial Policy, Tuttle, Tokyo, 1986; Idem, Japan. Who Governs? The Rise of the Developmental State, Norton & Company, New York, 1995; D. Williams, Japan: Beyond the End of History, Routledge, London, 1994. F. Mazzei, «Geoecononia e geocultura dell’Asia Orientale», Politica Intenazionale, IPALMO, Roma, 1998. 19. B. Stevens, Le nouveau capitalisme asiatique – Le modèle japonais, Academia Bruylant, Louvain, 2009, p.11. Vedi anche D. Williams, op. cit. 20. Vedi F. Mazzei, «A trent’anni dalla morte di Mao», Politica Internazionale, IPALMO, Roma, 2008. 21. R. Dore, Flexible Rigidities – Industrial Policy and Structural Adjustment in the Japanese Economyy 1970-80, tradotto in italiano con il curioso titolo Bisogna prendere il Giappone sul serio, il Mulino, Bologna, 1990. 22. F. Schurmann, Ideologia, organizzazione e società in Cina dalla liberazione alla rivoluzione culturael, Il saggiatore, Milano, 1972. 23. Per un approfondimento, si rinvia ad Asia la centro, cit., in particolare al cap. 3. 24. Usati come ideogrammi autonomi, yang indica «ciò che appare», ovvero un atteggiamento formale, esterno, mentre yin indica «ciò che è effettivo», l’atteggiamento profondo. Questa polarità corrisponde all’espressione antropologica giapponese honne-omote. È interessante rilevare che è pratica abbastanza frequente oggi in Cina che, in caso di joint-venture con una società straniera, si stipulino due diversi accordi: uno «yang» per soddisfare le esigenze della cavillosa burocrazia cinese e uno «yin», più «confidenziale» che esprime i punti effettivamente concordati tra le parti. A questo riguardo, nella letteratura specializzata, celebre è l’accordo concluso tra la francese Danone e la società cinese Wahaha. Vedi Zhan Haihua e Geogg Baker, Think Like Chinese, The Federation Press, Annandale, 2008, p. 16. È appena il caso di rilevare che la «dialettica yin-yang» è sostanzialmente diversa dalla dialettica hegeliana, in cui la tesi è seguita dall’antitesi che si risolve nella sintesi: quindi, una dialettica «conflittuale» nel senso che l’obiettivo ultimo del ragionamento deve risolvere la contraddizione. La dialettica orientale invece usa la contraddizione per comprendere le relazioni tra gli oggetti o eventi, per trascendere o integrare apparenti opposti. 25. E.O. Reischauer e J.K. Fairbank, op. cit., p. 138.
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26. Sul tema della pluriaffiliazione religiosa in Asia Orientale e segnatamente in Giappone, si rinvia ad Asia al centro, cit. 27. Come evidenziato dall’espressione d’uso comune in Cina «Rushidao» (Confucianesimo, Buddhismo e Taoismo), anche il Buddhismo ha avuto un ruolo importante nell’evoluzione della civiltà sinica, soprattutto in Giappone e in Corea. Introdotto in Cina durante il primo secolo dell’era cristiana, ha avuto ampia diffusione solo nel periodo del cosiddetto «medioevo» o della divisione (dalla caduta della dinastia degli Han Posteriori, 220 d.C., alla riunificazione a opera della dinastia Sui, 581-618) e durante la dinastia Tang (618-907). Comunque sia, dal punto di vista del mindset del popolo cinese, il Buddhismo ha avuto un ruolo nient’affatto secondario. 28. Secondo Zhao, l’idea di armonia nasce dalla constatazione che spesso le differenze portano al conflitto. Per contrastare questa tendenza, vi sono due tipi di strategia. La prima consiste nel distruggere le differenze (idea errata perché non esiste vita senza diversità); la seconda consiste nel mantenere le differenze e nel creare un rapporto di cooperazione nel segno del reciproco vantaggio. La conclusione di Zhao è duplice: regnando sovrana l’interdipendenza, ogni cosa dipende dalle altre, per cui la coesistenza è essenziale all’esistenza; la strategia dell’armonia, da lui proposta e qualificata come «miglioramento in senso confuciano», potrebbe definire quei problemi che il principio di Pareto non è riuscito a risolvere. Vedi Zhao Tingyang, «Tutto-sottoil-cielo: così i cinesi vedono il mondo», Limes (Il marchio giallo), 4/2008. Per una approfondita analisi della cultura strategica in Cina, si veda l’eccellente rapporto di A. Scobell, China and Strategic Culture, Report of Strategic Studies Institute, U.S. Army War College, May 2002, in cui analizza le due maggiori tradizioni della strategia cinese, quella che si rifà a Confucio e a Sun Zi e quella ispirata al realismo politico (o parabellum), tradizioni che l’autore vede non in contrapposizione ma in continuo processo interattivo il cui risultato culmina in una strategia che egli definisce «culto cinese della difesa». 29. Il cinese ha un terzo livello identitario, quello etnico (in quanto membro dell’etnia han, che costituisce più del 90 per cento della popolazione della RPC), che si aggiunge quindi al livello universalistico-culturale del tiannxia e a quello politico-statale dello zhongguo. 30. F. Mazzei, Il capitalismo giapponese. Gli stadi di sviluppo, Liguori, Napoli, 1979. 31. Forse la frattura tra l’impostazione pre-1929 e quella keynesiana, in termini di intervento pubblico, andrebbe ancor più relativizzata quanto meno dal punto di vista finanziario, essendo possibile individuare nel periodo precedente almeno tre fasi distinte: dalla finanza neutrale, in cui lo Stato deve preoccuparsi che il bilancio pubblico sia in pareggio e non deve incidere sulle autonome scelte dell’economia privata; alla finanza funzionale, in cui lo Stato interviene per modificare tendenze di lungo periodo e per incidere su alcuni settori come l’istruzione, la difesa; e infine alla finanza congiunturale, dove lo Stato influenza i cicli economici di breve periodo attraverso politiche «stop and go». Si è altresì consapevoli che esistono varie interpretazioni del keynesismo, fra cui quella di bastardo secondo la definizione di Joan Robinson, la Ribelle di Cambridge, in quanto tentava di conciliare le innovazioni keynesiane con l’ortodossia di Marshall. 32. P.A. Samuelson e W.D. Nordhaus, Economia, Zanichelli, XIV ediz., Bologna, 1993, p. 49.
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33. M. Friedman, Capitalism and Freedom, The University of Chicago Press, Chigaco, 1962. 34. Economic Report of the President, Government Printing Office, Washington D.C., 1982, pp. 27-28. 35. Per una valutazione critica dei teoremi basati sulla «mano invisibile», vedi H.E. Scarf, An analysis of markets with a large number of participants, Princeton University Conference Paper, Princeton, 1962; A.K. Sen, «The Impossibility of a Paretian Liberal», Journal of Political Economy, n. 78, 1970. 36. Nella sezione III-2 Storia dell’astronomia, sez. III-2, scritta probabilmente verso la metà del XVIII secolo e pubblicata postuma. 37. BUR Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2001, pp. 375-376. Vedi E. Rothschild, Economic Sentiments. Adam Smith, Condorcet, and the Enlightenment, Harvard University Press, Cambridge, 2002. 38. «Ogni individuo si sforza di impiegare il suo capitale il più vicino possibile a sé [...] ogni mercante all’ingrosso preferisce naturalmente il commercio interno a quello estero, e il commercio estero di consumo a quello di trasporto [cioè all’acquisto di beni in alcuni paesi per poi trasportarli e rivenderli in altri paesi]. Nel commercio interno, il suo capitale non è mai così lontano quanto lo è invece spesso nel commercio estero di consumo [...] Ma è già stato dimostrato che un capitale impiegato nel commercio interno mette necessariamente in moto una quantità di attività produttiva interna maggiore [...] A parità o quasi di profitti, quindi, ogni individuo è naturalmente incline a impiegare il suo capitale in modo tale che offra probabilmente il massimo sostegno all’attività produttiva interna e dia un reddito e un’occupazione al massimo numero di persone del suo paese. [...] Quando preferisce il sostegno all’attività produttiva del suo paese [...] egli mira solo al suo proprio guadagno ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in molti altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue intenzioni.» Libro IV, Cap. II, Mondadori, Milano, 1977, pp. 442-444. 39. Vedi F. Mazzei, «La transizione Tokugawa-Meiji. Dibattito interpara-digmatico e approccio ermetico», in Studi in onore di Luigi Polese Remaggi, Dipartimento di Studi Asiatici, Università degli Studi di Napoli «L’Orientale», Series Minor, LXIX, 2005. 40. Secondo Keynes (La fine del laissez-faire, 1926), la massima del laissez-faire è tradizionalmente attribuita al mercante Legendre nella sua risposta a una richiesta di Jean Baptiste Colbert. Alla domanda di Colbert «Que faut-il faire pour vous aider?», Legendre avrebbe risposto «Nous laisser faire». Lo stesso Keynes aggiunge che il primo scrittore che usò questa espressione fu, verso il 1751, ex ministro di Luigi XV D’Argenson: «Laissez faire, telle devrait etre la devise de toute puissance publique, depuis que le monde est civilisé». 41. Sull’argomento esiste ormai una discreta letteratura, anche se non sempre di prima mano. Vedi V. Pinot, La Chine et la formation de l’esprit philosophique en France 1640-1740, Librairie Orientaliste Paul Geuthner, Paris, 1932; E. Schorer, L’influence de la Chine sur la genèse et le development de la doctrine physiocrate, Domat-Montchrestien, Paris, 1938; L.A. Maverick, Chinese Influences upon Quesnay and Turgot, Society for Oriental Studies, Claremont, April 1942; C. Gerlach, Wu-Wei in Europe. A Study of Eurasian Economic Thought,
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Working Paper No. 12/05, March 1995, Department of Economic History, London School of Economics; J.J. Clarke, Oriental Enlightenment: the Encounter Between Asian and Western Thought, Routledge, New York and London, 1997; K. McCormick, «Sima Qian and Adam Smith», Pacific Economic Review, N. 4-1, 1999; Idem, «The Tao of Laissez-Faire», Eastern Economic Journal, 25-3, Summer 1999; E.G. Singerland, Effortless Action: Wu-wei as Conceptual Metaphor and Spiritual Ideal in Early China, Oxford University Press, Oxford, New York2003. Si veda anche il controverso volume di John M. Hobson, The Eastern Origins of Western Civilisation, Cambridge University Press, Cambridge, 2004. 42. Vedi A. Caillé, «Verso un’economia politica istituzionalista», cit. 43. Stevens, op. cit., p. 35. 44. P.S. Golub, «De l’hégemonie occidentale au polycentrisme», L’Atlas 2010, Monde diplomatique, Armand Colin, Paris, 2009, p.10. 45. Vedi B. Buzan, Il gioco delle potenze. La politica mondialde nel XXI secolo, UBE, Milano, 2006; F. Mazzei, World Politics, Pres. PP, Sc.-Pol. UNO, Napoli, 2009. 46. China Daily, August 26, 2009, p. 8.
PARTE PRIMA Il capitalismo al plurale
1. L’accumulazione fordista
Anche la crisi scatenata dal crack di Wall Street del 1929 all’inizio sembrava solo finanziaria; ma ben presto manifestò i suoi devastanti effetti socioeconomici e, divenuta politica, gradualmente si estese a macchia d’olio ma non con la rapidità della crisi attuale. Come è noto, della Prima Grande Crisi sono state date diverse spiegazioni. Per la maggior parte degli economisti vicini alle posizioni di Friedman, la Grande Depressione fu causata da scarsa liquidità: in pratica, il cattivo funzionamento del libero mercato (vale a dire la sua incapacità di autoregolarsi) sarebbe dovuto a una causa esogena, in concreto alla severa ed errata politica deflazionistica seguita dal governo di Washington. Al contrario, per analisti di formazione marxista la crisi fu causata essenzialmente dal sottoconsumo, determinato dalla riduzione dei salari, riduzione resasi necessaria per liberare sufficientemente profitto e ammortizzare gli investimenti crescenti (pena la fine del capitalismo). Da parte sua Keynes vi vide la combinazione di una crisi del credito e di una crisi della domanda, che lo Stato
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poteva risolvere con una spending policy: favorire l’aumento dei salari e la riduzione dei tassi d’interesse indispensabile per sostenere gli investimenti. Ben diversa fu la risposta data alla crisi dai paesi democratici (gli Stati Uniti in primo luogo con il New Deal di Roosevelt, Inghilterra, Francia) da quella autoritaria dei paesi cosiddetti «revisionisti», desiderosi di modificare a loro vantaggio lo status quo del sistema internazionale, come la Germania, l’Italia e il Giappone. Questi ultimi, tutti latecamers, erano all’interno caratterizzati da un ritardo della dimensione politica rispetto all’evoluzione economica, che era stata accelerata dall’intervento dello Stato, particolarmente attivo fin dalla fase dell’accumulazione originaria. Comunque sia, in entrambi i casi si procedette a una vasta regolamentazione in cui decisivo fu il ruolo svolto dallo Stato (democratico nel primo caso, autoritario se non totalitario nel secondo). Il capitalismo tra le due guerre mondiali, in forte contrasto con il periodo della prima globalizzazione (esauritasi già nel 1914), fu caratterizzato quindi da un crescente intervento statale. Come ha ricordato recentemente Jean-Charles Asselain1, questo fu dovuto a molteplici fattori: la necessità di rispondere alle richieste di protezione sociale avanzate con forza crescente dai sindacati operai; il dover far fronte alle conseguenze fisiche e finanziarie della guerra; il processo di concentrazione delle imprese, che, già in atto da tempo, le
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allontanava sempre più dal modello concorrenziale. Quest’ultimo processo è ben visibile – ed è ampiamente studiato – in Giappone con il passaggio dalla fase del capitalismo industriale allo stadio del capitalismo finanziario con il consolidarsi degli zaibatsu, avvenu-to già verso la fine del primo decennio del Novecento, e successivamente, con il militarizzarsi del Paese negli anni Trenta, con l’affermarsi di una configurazione capitalistica che alcuni teorici hanno denominato «Capitalismo Monopolistico di Stato» (STAMOKAP)2. Comunque sia, è con la crisi del 1929 che lo Stato amplia il raggio delle sue responsabilità, salvando dal fallimento banche e imprese e dilatando il settore della cosiddetta economia mista. Quel che va messo in rilievo è che ancor prima dell’adozione della teoria keynesiana come strategia di rilancio dell’economia, notevole era già il peso relativo delle spese pubbliche3. D’altra parte, sei anni dopo il New Deal l’industria americana non era ancora riuscita a recuperare stabilmente il livello produttivo pre-1929. In effetti, oggi sappiamo che Roosvelt e il suo celebre brain trust fecero fronte alla crisi più con pragmatismo che con un deliberato approccio politico «macroeconomico». Alcuni studiosi (segnatamente gli esponenti della Scuola austriaca) tendono a ridurre l’impatto del New Deal; del resto, ricerche condotte all’Istituto Orientale di Napoli (oggi Università degli Studi di Napoli «L’Orientale») negli anni Settanta hanno mostrato che la risposta alla crisi da parte del Giappone fu «keynesiana ante-
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litteram» . A questo riguardo, non è mera curiosità rilevare che in Giappone la crisi finanziaria scoppiò nel 1927, precedendo di qualche anno quella americana: del resto, in Giappone la crisi attuale ha avuto un prologo nel cosiddetto «decennio perduto», come è stata da alcuni politici e analisti battezzata la lunga crisi che ha travagliato il Giappone negli anni Novanta, a seguito dello scoppio di una spaventosa bolla speculativa. Più in generale, nel periodo tra le due guerre e soprattutto alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale furono i paesi revisionisti late-comers (soprattutto Giappone e Germania) a perseguire la via di una crescita sostenuta, basata sull’industria bellica e sugli interessi capitalistici. Infine, è appena il caso di ricordare il ruolo dello Stato in Unione Sovietica e, durante la Guerra Fredda, negli altri paesi socialisti a cominciare dalla Repubblica Popolare Cinese, proclamata il 1° ottobre 1949 nella Piazza Tiananmen da Mao Zedong, vittorioso sul Guomindang di Chiang Kai-shek. A partire dal 1945 e per tutti i gloriosi trent’anni, lo Stato ha avuto un ruolo decisivo anche nel processo di crescita delle democrazie occidentali, compreso il Giappone, che dopo la Seconda Guerra Mondiale, abbandonata l’Asia, divenne parte dell’Occidente inteso come alternativa politica all’Oriente socialista. In questo periodo, dominante fu un particolare modello di organizzazione della produzione, di accumulazione del capitale e di regolazione in cui la mano visibile
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ha una funzione determinante: un modello virtuoso genericamente definito «fordista» e – in quanto modello di accumulazione – teorizzato relativamente tardi verso la fine degli anni Settanta dalla «scuola della regolazione» francese, su cui ci siamo già soffermati. In realtà, il termine fordismo ha una bivalenza semantica che va chiarita. In senso stretto, fordismo indica il modo di organizzare la produzione di massa standardizzata in un settore complesso come quello dell’automobile e rappresenta per così dire l’archeologia del pensiero aziendale. Basandosi sull’«organizzazione scientifica del lavoro» teorizzata da Taylor5, Henry Ford sviluppò una forma di organizzazione produttiva particolarmente efficace ma disumanizzante, come incisivamente illustrato da Chaplin nel film Tempi moderni. Già qualche anno prima della Grande Guerra, Henry Ford nel suo stabilimento aveva introdotto su larga scala la catena di montaggio nonché la standardizzazione (e intercambiabilità) di alcuni componenti, contribuendo alla grande espansione dell’industria americana. Si pensi che il mitico modello «T» (il ventesimo progetto dell’azienda), la cui produzione ebbe inizio nel 1908, dominò il mercato fino al 1927 vendendo circa 15 milioni di vetture. Il modello produttivo fordista era fondamentalmente basato sulla crescita, anzi sull’ossessione della crescita, identificando strettamente sviluppo e crescita quantitativa e come tale si consolida nei decenni successivi estendendosi in
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Europa . Semplificando, esso ha le seguenti quattro caratteristiche di fondo. • Illimitatezza della domanda: si parte dalla convinzione keynesiana (ma che è propria della logica della produzione di massa del Novecento) che il mercato sia potenzialmente «infinito», in continua espansione. Il presupposto è che per un’industria il limite all’espansione sia costituito dalla capacità produttiva data dai fattori di produzione, soprattutto impianti e forza lavoro. Ne consegue il primato assoluto della produzione su ogni altra caratteristica sociale, e quindi la centralità sociale della fabbrica, la quale decide che cosa produrre, quanto produrre, tempi e metodi di produzione. Più in generale, la fabbrica estende la propria razionalità (e i suoi problemi) alla società nel suo insieme. Su questo sfondo, si comprende la tendenza alle dimensioni elefantiache della fabbrica fordista e alla ossessiva centralizzazione di tutte le operazioni produttive. • Standardizzazione ed economia di scala: l’adozione della catena di montaggio e la standardizzazione di pezzi intercambiabili, facendo aumentare i volumi produttivi e quindi riducendo i costi, consentono un aumento dei salari. A questo riguardo, celebre è lo slogan della Ford: «five dollars a day!», un salario quasi doppio rispetto a quello normalmente concesso a quel tempo dalle altre società automobilistiche. Tutto ciò spinge la fabbrica fordista, oltre al
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gigantismo degli impianti, alla concentrazione di tutte le operazioni produttive e alla verticalizzazione dell’organizzazione (fino a 14 livelli decisionali!) al punto da assumere talvolta alcuni aspetti militareschi. • Antagonismo tra forza lavoro e capitale: la fabbrica fordista ha struttura duale, in cui si scontrano interessi contrapposti: da una parte si cerca di massimizzare l’appropriazione di lavoro, dall’altra di ridurne al minimo l’erogazione. • Territorializzazione del capitale e del lavoro: la grande fabbrica fordista è saldamente ancorata al territorio e poco aperta internazionalmente. Riassumendo, il fordismo, in quanto modello produttivo, partendo dal presupposto che la domanda è potenzialmente illimitata, per far profitti punta sulla quantità, sul volume grazie a economie di scala, per cui «più si produce e più si abbassano i costi di produzione». In breve, è un circolo virtuoso:
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La centralità della fabbrica è rivelata anche dalla formazione del prezzo che è dato da: costi (variabile indipendente) + profitto (variabile dipendente) Il fordismo non va visto solo come un modo di organizzare la produzione industriale ma, in senso lato, come un paradigma economico e tale lettura è oggi predominante nella cultura socioeconomica. Gramsci nei Quaderni del carcere scriveva che il fordismo aveva aperto una nuova era nella storia del capitalismo, coinvolgendo la società nel suo complesso, al punto da creare un nuovo tipo di lavoratore e di uomo. In questa seconda accezione, il fordismo coincide grosso modo con l’interpretazione estensiva datane dalla scuola regolazionista francese: il fordismo come un paradigma complesso che al modello tecno-produttivo di tipo fordista-
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taylorista come sopra delineato innesta altre due connotazioni. È innanzitutto un regime di accumulazione in cui l’economia di scala fa aumentare i profitti abbassando i costi, e il consumo di massa è garantito da una parziale distribuzione a tutti i lavoratori degli utili generati dalla maggior produttività. In secondo luogo, è un modo di regolazione7 politica, sociale ed economica in grado di gestire non solo i conflitti centrati sulla fabbrica mediante la negoziazione tra le parti sociali, ma anche un sistema di sicurezza sociale (welfare state) e un insieme coerente di politiche di tipo keynesiano a sostegno dello sviluppo mediante l’allargamento della domanda. Sia la regolazione sociale ed economica sia la negoziazione politica tra le parti avvengono sotto la tutela dello Stato «keynesiano», che avendo appreso la lezione della Prima Grande Crisi sostiene la domanda quando questa è debole e nello stesso tempo garantisce il cosiddetto «compromesso socialdemocratico», agendo da arbitro tra le due grandi forze sociali che strutturano la fabbrica. Secondo i regolazionisti, è proprio questo compromesso fordista all’origine della lunga crescita dei gloriosi trent’anni. In pratica, esso garantisce alle forze del capitale l’ordine sociale in cambio della sottrazione di una parte dei profitti, e a quelle del lavoro la stabilità dell’impiego, la progressione dei salari che attraverso l’indicizzazione sottrae parte del frutto dell’aumento della produttività (rendendo in qualche modo la distribuzione del reddito non-concorrenziale) e un sistema –
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non di rado molto sofisticato – di sicurezza sociale in cambio dell’accettazione della rigida organizzazione taylorista del lavoro. Curiosamente, Ford, che odiava i sindacati, era antisemita ed era affascinato dalla figura di Hitler, non era affatto un fordista in questa accezione; e, a meno di un improbabile ripensamento in articulo mortis, si starà ancora rivoltando nella tomba. Note 1. J.-C. Asselain, «Le destin du capitalisme: des origines au XXe siècle» in Le capitalisme: mutations et diversité, Cahiers francais n. 349, Mars-avril 2009. 2. F. Mazzei, Il capitalismo giapponese – Gli stadi di sviluppo, Liguori, Napoli, 1979. 3. Jean-Charles Asselain, op. cit., p. 7. 4. F. Mazzei, op. cit. 5. Sull’ambigua nozione di «taylorismo», divenuto sinonimo di uniformità e rigidità, si rinvia a R. Boyer e M. Freyssenet, Oltre Toyota – I nuovi modelli produttivi, EGEA, Milano, 2005, in cui è analizzato come modello produttivo autonomo (basato sulla strategia della «diversità e della flessibilità»), contrapposto ai modelli woollardista, fordista (strategia del volume) e sloanista (strategia del volume e della diversità). Sull’evoluzione del termine, vedi in particolare p. 52. 6. La quantità è riferita non solo alla produzione nel suo insieme ma anche alla tendenza elefantiaca dello sviluppo degli stabilimenti. 7. Ricordiamo che nella letteratura economica il termine «regolazione» è usato in due accezioni. La prima è quella usata, appunto, dalla teoria francese della regolazione, che in definitiva può essere vista come l’analisi delle trasformazioni di lungo periodo dei capitalismi. Nella seconda accezione, «regolazione» traduce il termine anglosassone regulation e indica la normale attività di regolamentazione dello Stato. Vedi R. Boyer, «Régulation et crises du capitalisme…», cit., p. 13.
2. Crisi dello stato e rivincita del mercato
Proprio quando gli esponenti della scuola della regolazione teorizzavano il «fordismo» nella seconda accezione, questo modo di accumulazione e di regolazione era già in una crisi profonda. Improvvisamente (si fa per dire, in quanto i segni premonitori non erano mancati), il circolo virtuoso si era trasformato in un circolo vizioso. Agli inizi degli anni Settanta, grosso modo in coincidenza con la prima crisi petrolifera, il Mercato, divenuto esigente e sparagnino, tendeva a sostituirsi alla fabbrica come centro della società stabilendo cosa, quanto e come produrre. Il mutamento coinvolge il fordismo in entrambe le accezioni: in quanto modello tecno-produttivo (la fabbrica di tipo fordista-taylorista) e in quanto modello di accumulazione e metodo di regolazione. Il cambiamento, che si realizza in modi e tempi molto diversi nei singoli paesi, ha riflessi di grande momento su molteplici aspetti della società che trascendono quelli specifici della fabbrica: dal modo di organizzare il consenso politico (a questo riguardo, l’aspetto più significativo è la crisi delle grandi organizzazioni delle forze
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popolari, a cominciare dai sindacati operai) allo smantellamento progressivo dello Stato assistenziale. È la Seconda Grande Crisi, la crisi della stagflation, che, con la vittoria della rivoluzione conservatrice nei paesi della cosiddetta «anglosfera» (segnatamente negli Stati Uniti e in Inghilterra) come vedremo, provoca un ribaltamento anche sul piano teorico con l’affermarsi dei «libertari» di Chicago e della scuola delle aspettative razionali. Dominante non è più il keynesismo ma il monetarismo, l’«economia dell’offerta» (supply side economy), i cui esponenti lanciano una dura offensiva contro la mano visibile, considerata opprimente, fonte di corruzione e d’inefficienza, inutilmente macchinosa e dispendiosa. In questo cambiamento è coinvolto il mondo accademico e financo l’ordinamento dell’Università italiana, in cui il tradizionale insegnamento di «economia politica» (come appunto la intendeva Adam Smith che recentemente pare sia riparato in esilio volontario a Pechino!1), è sostituito semplicemente con «economia». Come già ricordato, l’assegnazione del Nobel del 1976 a Friedman può essere interpretato come un segno della vittoria ideologica dell’ultraliberalismo sul keynesismo, ma anche il prevalere della «scienza economica» paretianamente depoliticizzata sull’«economia politica». Quel che più conta, con la fine dei gloriosi trent’anni cambiarono le policies delle maggiori democrazie occidentali: in Gran Bretagna si affermò il tatcherismo, negli Stati Uniti la
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reaganomics. La prima e la più illustre vittima di questa rivoluzione silenziosa ma dolorosissima – ripetiamolo – fu lo «Stato-provvidenza». Questa profonda trasformazione poggia su mutamenti geopolitici e geoeconomici. È in questi anni che negli Stati Uniti fa la sua apparizione la dottrina del «declinismo» dell’egemonia americana, di cui uno dei primi e più celebri teorizzatori è stato Paul Kennedy, autore del celebre saggio Ascesa e declino delle grandi potenze2, seguito dal sinologo e pubblicista Chalmers Johnson, che come abbiamo visto è stato il primo teorizzatore dello «stato sviluppista»3. I segni più evidenti del declinismo americano, nel senso dell’incapacità di Washington di garantire il funzionamento dei «regimi internazionali» nella accezione di Krasner4, sono molteplici: la sconfitta della Guerra del Vietnam, che crea una profonda lacerazione morale nell’animo della nazione americana; la prima crisi petrolifera, che rivela l’incapacità della Superpotenza occidentale di controllare una risorsa strategica cruciale per lo sviluppo capitalistico; la dichiarazione della sospensione della convertibilità del dollaro fatta dal presidente Nixon il 15 agosto 1971, con cui si riconosce il fallimento del sistema di Bretton Woods creato nel 1944; infine, la creazione nel 1975 in Francia del G5 (membri fondatori: Stati Uniti, Germania, Giappone, Francia e Inghilterra) che evidenzia la necessità per Washington di avvalersi della collaborazione delle altre grandi democrazie industriali per
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gestire issues come la concertazione macroeconomica. Divenuto nel 1986 (con il Vertice di Tokyo) G7 con l’ingresso dell’Italia e del Canada, e nel 1994 (con il Vertice di Napoli) di fatto G8, questo Summit, con una credibilità oggi ridotta al minimo, è in via di trasformazione: verosimilmente in G2 (USA-RPC) passando per il G20. Data di nascita del G2 può essere considerata il 4 dicembre 2008, giorno in cui a Pechino si sono incontrati il vice-premier cinese Wang Qishan e il Segretario al Tesoro Henry Paulson in occasione del Quinto SED (Sino-US Strategic Economc Dialogue)5. In termini concreti, si contestava l’egemonia degli Stati Uniti, non più in grado di garantire l’equilibrio dell’economia capitalista. In particolare, erano messi in discussione: • l’equilibrio monetario e finanziario con la fine della non convertibilità del dollaro; • l’equilibrio energetico con gli incontrollabili shock petroliferi dagli effetti devastanti per le economie dell’Occidente (a parte il Giappone che supera brillantemente la seconda crisi petrolifera); • l’equilibrio della concorrenza internazionale con l’entrata in scena dei nuovi paesi industrializzati: al Giappone, con il seguito di Tigri e Tigrotti, successivamente si sarebbero affiancati due giganti demo-grafici che già nel passato precoloniale erano state grandi potenze economiche, la Cina e l’India.
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Dal punto di vista geopolitico, il presidente Ronald Reagan dovette far fronte a una serie di crisi: • politico-istituzionale (la vergogna del Watergate); • militare (la sconfitta in Vietnam); • diplomatico-strategica (la vittoria dei sandinisti in Nicaragua e, soprattutto, dei khomeinisti in Iran); • energetica (la crisi petrolifera seguita alla Guerra del Kippur); • economica (la stagflation già ricordata). En passant, rileviamo che in parte diverse ma non meno pesanti sono le sfide che oggi ha di fronte Barack Obama: l’errore irakeno (ammesso dallo stesso Bush J.), il pantano afghano, le stimmate della questione israelo-palestinese; l’esclation orizzontale del terrorismo islamico; si aggiungano gli inquietanti problemi energetici inseriti nel contesto dei cambiamenti climatici, e soprattutto il fallimento delle politiche neoliberiste (anche questo candidamente ammesso dall’ineffabile ex presidente) con conseguente crollo finanziario epocale, le cui ripercussioni sociali non sono ancora del tutto dispiegate. Non si può sapere dove porterà la probabile uscita dal neoliberismo; comunque sia la fine della sua versione «bushista» è in genere considerata, in sé, una cosa «degna, equa e salutare».
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Come abbiamo visto, la crisi del fordismo-taylorismo era solo un aspetto dei mutamenti ben più profondi ed estesi: in relazione ai cambiamenti macrosociali e in particolare alla struttura del capitalismo, insieme alla centralità della fabbrica veniva meno anche il ruolo regolatore dello Stato. In breve, si esauriva il cosiddetto compromesso socialdemocratico garantito dalle pubbliche amministrazioni, con conseguente perdita di potere contrattuale da parte delle grandi organizzazioni sociali, sindacati e partiti popolari (espressione del movimento operaio), nonché delle burocrazie deputate alla gestione e al controllo delle spese pubbliche, a vantaggio del Mercato ritenuto in grado di autoregolarsi. Come s’è detto, tra le vittime più illustri (e dolorose) va annoverato lo Statoprovvidenza, che viene smantellato con metodicità e spesso in maniera spietata. Più in generale, soprattutto dopo la fine del bipolarismo e con la crescente universalizzazione delle strutture tecno-economiche, lo Stato-nazione appare soggetto a una duplice erosione: dall’alto a opera di nuovi attori transnazionali creati dalla globalizzazione e galvanizzati dalla regionalizzazione del mondo e, in misura minore, sopranazionali come per esempio la Commissione dell’UE; dal basso a causa di crescenti spinte e tendenze localiste, leghiste. Varie, naturalmente, sono le cause della Seconda Grande Crisi, ma due vanno sottolineate in questa sede: l’eccessiva indicizzazione (e, più in generale, regolazione) e la
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globalizzazione, con conseguente trasformazione del salario da elemento determinante della domanda (in quanto più alto è il salario, maggiore è la domanda) a fattore competitivo dell’impresa, che – all’opposto – è avvantaggiata dal basso costo del lavoro6. In definitiva, in quegli anni Settanta e Ottanta si è verificato un vero e proprio cambiamento sistemico che, con la crescente deregolamentazione, a cominciare dal nesso salariolavoro e dai mercati finanziari, ha posto le basi per il boom degli anni Novanta e per la futura globalizzazione, creando nello stesso tempo le premesse sia per il ristabilimento del dominio globale del settore finanziario statunitense sia per la formazione della «economia della bolla» che avrbebe portato alla Terza Grande Crisi. Alla situazione generalizzata di crisi degli anni Settanta, negli Stati Uniti e in Europa (o almeno in parte di essa) si risponde, quindi, con politiche basate su una esasperata ideologia neoliberista e una concezione ultra-individualistica. L’obiettivo specifico è ridurre (se non eliminare) le istanze solidaristiche, ritenute dannose per lo sviluppo, e combattere lo Stato, considerato inefficiente e corrotto. E non è mancato chi, alla fine degli anni Novanta, parlava di Stato «criminogeno»7. In concreto, le potenze capitalistiche, soprattutto della cosiddetta «anglosfera», hanno sostanzialmente risposto in quattro modi:
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• deregolamentando; • privatizzando; • riducendo le tasse; • liberalizzando in modo crescente i flussi economici, soprattutto dopo la fine del bipolarismo. Dal punto di vista sociale, una delle conseguenze più pesanti è la frantumazione del rapporto salariale, che costituisce uno dei principali componenti di un regime di accumulazione e più in generale una delle istituzioni fondamentali del capitalismo8. Come abbiamo visto, nel regime fordista questo rapporto era caratterizzato dalla spartizione dei guadagni della produttività codificata e stabilita ex ante, cui faceva riscontro un mercato del lavoro particolarmente rigido. Con la crisi della fabbrica fordista e, soprattutto negli anni Ottanta, con lo sviluppo delle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione, in conseguenza della crescente apertura delle economie nazionali e dell’innovazione degli strumenti finanziari, questo solido rapporto – come vedremo tra breve – si frantuma dando origine a una vasta e particolarmente variegata gamma di rapporti salariali con crescente prevalenza di forme precarie. In relazione al periodo che stiamo esaminando si è spesso parlato di «postfordismo». Questo sarebbe basato sui seguenti fattori principali:
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• l’internazionalizzazione dei processi produttivi (come abbiamo visto, il fordismo era caratterizzato da una limitata apertura internazionale); • la globalizzazione (per cui le multinazionali tendono a trasformarsi in trasnazionali con strategie di marketing di tipo «geocentrico»9); • la crescente ineguaglianza distributiva; • la finanziarizzazione. Varie «utopie» sono state elaborate dagli studiosi nella ricerca di un rapporto salariale postfordista soddisfacente dal punto di vista sociale e nello stesso tempo in grado di dare impulso a un nuovo regime di crescita. Ricordiamo in primo luogo «l’economia della spartizione» avanzata da tempo dall’economista Martin Weitzan per combattere la stagflation e segnatamente la disoccupazione: una visione centrata non sull’organizzazione ma sulla forma di remunerazione. Secondo Weitzan, che considera la remunerazione fissa «un residuo barbarico», allo scopo di favorire il pieno impiego, il salario dovrebbe essere «flessibile», basato sulla condivisione dei profitti dell’impresa (profit sharing wage): in pratica, dovrebbe essere composto da una parte fissa, corrispondente a un «salario d’assunzione» ridotto, e da una parte indicizzata sui profitti dell’impresa10. È un sistema che ricorda un po’ il sistema salariale giapponese, in cui effettivamente il bonus concesso due volte all’anno e basato sui profitti ottenuti
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dall’azienda rappresenta una quota relativamente alta dell’ammontare complessivo della retribuzione11. Altre proposte riguardano il ritorno alla flessibilità esterna dei mercati del lavoro, che favorirebbe non solo i livelli occupazionali ma anche l’innovazione e la crescita; il lavoratore che diventa «imprenditore di sé» o il salariato che diventa azionista… Come annota Boyer, nessuna di queste ipotesi è riuscita a imporsi12. Negli anni Ottanta, una soluzione alla crisi del fordismo, inteso come modello produttivo, l’Occidente credette di trovarla nel toyotismo. Ed è sulla soluzione toyotista che ora ci soffermiamo per poi accennare alla varietà dei capitalismi, segnatamente alla distinzione tra il capitalismo liberale anglosassone e capitalismo sociale renano (continentale), cui è assimilato quello nipponico, nonché alla specificità del capitalismo socialista della Repubblica Popolare Cinese. Note 1. G. Arrighi, Adam Smith a Pechino – Genealogia del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano, 2008. 2. Vedi P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi pontenze, Garzanti, Milano, 1994, in cui è sostenuta la tesi secondo la quale il declino degli Stati Uniti sarebbe dovuto largamente alla politica di «iper-espansionismo imperiale», in pratica agli eccessivi oneri militari assunti da Washington durante la Guerra Fredda. 3. Più recentemente Johnson, riprendendo le argomentazioni di P. Kennedy, ha sostenuto la tesi del «contraccolpo» (blowback). Secondo questa tesi – avanzata prima dell’11 settembre 2001 – gli Stati Uniti si starebbero avviando al declino non solo perché anche dopo la fine della Guerra Fredda stanno continuando ad allargare pericolosamente la loro sfera d’influenza, imponendo la globalizzazione con le proprie regole, con le nuove tecnologie e alle proprie condizioni, ma anche a causa dei tanti contraccolpi determinati da precedenti interventi «insensati» fatti un po’
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ovunque in tutto il mondo, interventi che puntualmente si ritorcono contro (si pensi all’assistenza data a suo tempo a Saddam Hussein o allo stesso bin Laden). 4. «Principi, norme, regole e procedure decisionali, che possono essere sia impliciti sia espliciti, su cui convergono le aspettative degli attori in un determinato settore.» Vedi S.D. Krasner, «Structural Causes and Regimes Consequences: Regimes as Intervening Variables», International Organization, 36/2, 1982, pp. 185-205 (trad. it. «Cause strutturali e conseguenze del concetto di regime», in L. Bonanate e C.M. Santoro, a cura di, Teoria e analisi nelle relazioni internazionali, il Mulino, Bologna, 1990, p. 137); F. Mazzei, Relazioni Internazionali – Teorie e problemi, L’Orientale Editrice, Napoli, 2005, pp. 118-121. 5. Nei due giorni di riunione a Pechino nel quadro dell’ultimo dialogo strategico dell’amministrazione Bush, responsabili cinesi e statunitensi hanno messo l’accento sulla necessità di collaborare per superare la crisi finanziaria attuale, stimolare la crescita economica e resistere alle tentazioni protezionistiche. Al termine dei lavori, Paulson ha espresso «apprezzamento» per l’impegno della Cina a far fronte alla recessione internazionale incrementando la domanda interna e riducendo le proprie esportazioni. 6. Vedi Boyer, Fordismo e Postfordismo… cit. 7. G. Tremonti, Lo Stato criminogeno. La fine dello Stato giacomino. Un manifesto giacobino, Laterza, Bari, 1998, in cui l’analisi ha come facies l’estrema diffusione in Italia della corruziona e dei reati di massa. 8. Vedi R. Boyer e Y. Saillard (a cura di), Théorie de la régulation. L’Etat des savoirs, La Découvert, Paris, 2002. 9. Mentre nelle tradizionali multinazionali (MN) il management è di tipo etnocentrico o policentrico, nel TN prevale il geocentrismo: le decisioni più importanti sono basate sugli interessi dell’azienda, senza accordare priorità su base nazional-culturale. Pertanto, di norma la strategia è di tipo transnazionale, il vantaggio competitivo deriva dall’efficienza e apprendimento globali e dalla migliore utilizzazione delle potenzialità locali, mentre sono valorizzate le diversità culturali, cercando di promuovere integrazione e una meta-cultura condivisa. Vedi Mazzei, World Politics, cit. 10. Vedi M.L. Weitzman, The Share Economy: Conquering Stagflation, Harvard University Press, London, 1984 (trad. it. L’economia della partecipazione. Sconfiggere la stagflazione, Laterza, Bari, 1985, in cui per combattere la stagflation introdusse, appunto, un sistema salariale alternativo. 11. Vedi T. Ito, L’economia giapponese, Egea, Milano, 1995. 12. R. Boyer, «L’hétérogénéité des relationes salariales contemporaines et ses conséquences», Paris 3-6 maggio 2006, Cahiers francais, riprodotto in Le capitalisme: mutations et diveristé, cit, «Du rapport salarial fordiste à la diversité des relations salariales», pp. 23-28. Anche il ministro del welfare italiano Maurizio Sacconi ha parlato di possibili forme di azionariato dei lavoratori, con una condivisione degli utili di impresa e una rappresentanza nel collegio sindacale,
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suscitando interesse e perplessità. Più recentemente il ministro Tremonti ha esaltato il valore sociale ed etico del «posto fisso» (Corriere della Sera, 20 ottobre 2009).
3. Toyotismo
Per toyotismo si intende il modello di organizzazione del lavoro applicato alla Toyota, al quale l’Occidente ha iniziato a guardare con crescente interesse dopo aver a lungo dibattuto sulla crisi del modello di produzione di massa (fordismo) e sul superamento della organizzazione scientifica del lavoro (taylorismo). Sulla base di questo modello, noto nella letteratura specialistica occidentale anche come «ohnoismo» (dal nome dell’ingegnere Ohno della Toyota che ha teorizzato il modello), verso la metà degli anni Ottanta un gruppo di ricercatori del MIT ha concettualizzato la lean production, «produzione snella», flessibile, cioè priva di grassi, di sprechi. Per avere un’idea della produttività della Toyota in termini comparativi è sufficiente ricordare che alla fine degli anni Ottanta, la casa giapponese produceva 56 vetture per dipendente, contro le 16 della Chrysler e le 12 della Ford1. La presentazione convenzionale del toyotismo parte in genere dalla crisi del fordismo, un modello produttivo che s’era rivelato virtuoso per tre decenni ma che appare inefficiente nelle condizioni di mercato proprie degli anni Settanta.
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Nelle nuove condizioni di mercato «finito», limitato e nel contempo sempre più sofisticato e competitivo, l’Occidente scopre il modello giapponese, il toyotismo. Questo modello di organizzazione della produzione ha come presupposto, per l’appunto, la domanda limitata e ha come obiettivo produrre beni diversificati, di buona qualità e a basso prezzo. Come abbiamo visto, in condizioni di «austerità» e di «inflazione+recessione» è il mercato (e non la fabbrica) che determina struttura e scelta della produzione: il potere decisionale passa dal vertice dell’apparato produttivo al «cliente»; e la fabbrica, perduta la propria autonomia decisionale (e centralità sociale), deve imparare, come scrive Revelli, a «vibrare all’unisono» con la volubilità e i capricci del mercato2. In breve, l’egemonia passa dalla fabbrica al mercato. Capovolto il rapporto, la fabbrica fordista non può più funzionare: rinunciando alla bella razionalità weberiana (geometrica, sinottica), in cui tutto è predisposto e programmato dall’alto, essa deve attrezzarsi per operare «caso per caso» (pragmaticamente, flessibilmente), per essere in grado di mutare istante per istante l’organizzazione delle risorse umane, l’uso dei macchinari e delle scorte a seconda della quantità e della qualità dei beni richiesti dal mercato. «Che fare per aumentare la produttività quando le quantità non aumentano?» La risposta di Ohno è un modo di produzione, oltre che flessibile, estremamente efficiente che alla riduzione dei costi aggiunge l’alta qualità. In primo
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luogo, è una produzione a sei zeri: zero ritardi, zero difetti, zero stock (scorte), zero tempi morti di produzione, zero cartacce (intralci causati dalle strutture burocratiche), zero sovrapproduzione (il che implica una profonda conoscenza della rete commerciale e del mercato). Insomma, una vera e propria «caccia agli sprechi» di qualsiasi natura, che, tradotta nel concetto di just-in-time (JIT), è considerata uno dei due principi fondamentali («pilastri» per usare la terminologia di Ohno) del modello: si tratta di produrre just solo ciò che è necessario, e di farlo in time, né prima né dopo.
Caratteristiche della fabbrica toyotista • Minima: «frugale», funzionante senza personale in esubero e con macchinari avanzati tecnologicamente ma possibilmente semplici, perfettamente conoscibili dal personale e pienamente utilizzati. • Flessibile: adattabilità permanente delle risorse umane e materiali ai bisogni cangevoli della produzione. • Trasparente: l’apprendimento diretto delle informazioni consente una gestione estremamente semplificata della produzione in cui sprechi e difetti sono immediatamente rilevabili, come in un «tubo di cristallo».
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In senso stretto, il JIT equivale quindi a «zero ritardi», implicando che siano rispettati tutti gli zeri sopra elencati e, più in generale, che sia considerato spreco (muda) tutto ciò che non contribuisce direttamente ad accrescere la produzione o il valore del prodotto. Come vedremo, sono le scorte a essere utilizzate come principali rivelatori degli sprechi (disfunzioni, ritmo di produzione inadeguato ecc.), mentre nel fordismo si tendeva a tenere scorte in eccedenza in base al principio, certamente comodo e rassicurante ma sprecone, del just-in-case3. Questa flessibilità consente alla fabbrica di accettare il prezzo imposto dal mercato (che quindi è una variabile indipendente), e per ottenere profitti non può che ridurre i costi di produzione.
Formazione del profitto nel toyotismo: prezzo (var. ind.) – costi (var. dip.) Nelle imprese tradizionali di norma il prezzo è determinato sommando ai costi (considerati una variabile indipendente) l’utile desiderato (variabile dipendente): in pratica, è il management che decide il prezzo, partendo dai costi. Al contrario, nel toyotismo l’utile è determinato sottraendo i costi dal prezzo di vendita, il quale, in definitiva, è stabilito dai consumatori in base alle loro
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«scelte». Ne consegue che il profitto dipende dalla compressione dei costi di produzione che si riesce a ottenere. In siffatto contesto organizzativo, il just-in-time condiziona direttamente la gestione delle risorse umane sotto vari aspetti. In primo luogo, attraverso la flessibilità della manodopera, che non significa di per sè licenziamento in caso di esubero ma accentuata mobilità intra-aziendale (sia di tipo occupazionale sia di tipo geografico) e variabilità dell’orario di lavoro al fine di ottimizzare l’allocazione uomini-macchine. Altre implicazioni di rilievo sono: la formazione continua e polivalente del dipendente e la forte partecipazione collettiva alla vita aziendale. A questo riguardo va ricordato da una parte che la kaisha giapponese è qualcosa di più della nostra impresa: è un microcosmo di cui le famiglie dei dipendenti sono le cellule4. D’altra parte, in Giappone il lavoro (shigoto) non è inteso come maledizione o una forma di sfruttamento, e nemmeno come ricerca della riuscita individuale, bensì come coinvolgimento etico in un progetto collettivo. Ne derivano non solo una scarsa distinzione tra «lavoro/nonlavoro» (il leasure inteso quindi come «altro» del lavoro, non come sua negazione), ma anche – e soprattutto – un peculiare sistema di relazioni industriali fondate sui cosiddetti «tre attrezzi sacri» (impiego a vita, carriera basata sull’anzianità di servizio e sindacalismo aziendale), sistema oggi in profonda
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trasformazione per far fronte alla nuova divisione internazionale del lavoro imposta dalla globalizzazione. Tornando al toyotismo, la flessibilità della fabbrica è ottenuta anche con l’introduzione nelle linee di produzione dell’aiuto di dispositivi meccanici e organizzativi, legati all’esecuzione del lavoro umano e definiti per l’appunto da procedure di «autoattivazione» (jidôka), che è il secondo «pilastro» del toyotismo. In questo modo, si viene a creare una profonda identificazione tra lavoratore e le sue mansioni e un particolare rapporto uomo-macchina che consente l’intervento immediato del lavoratore, che si «autoattiva» per correggere immediatamente eventuali errori, fermando, se necessario, la stessa catena di montaggio anziché aspettare la fine del processo per ispezionare il prodotto finito5. Condizione necessaria a tal fine è la polivalenza o multifunzionalità degli operatori (e la conseguente creazione di posti polivalenti), il che dovrebbe assicurare non solo un’alta qualità della produzione ma anche la costante adattabilità alla differenziazione dei prodotti. Ne deriva la de-specializzazione degli operai, che si trasformano non in operai parcellizzati ma in plurioperai, in lavoratori multifunzionali. Per esemplificare le differenze tra i due modelli su questo punto, può essere utile fare ricorso al ciclo per il controllo della qualità noto come «PDCA», elaborato da Deming, cui si deve l’introduzione in Giappone del «controllo della qualità» su basi statistiche, con una serie di seminari da lui tenuti tra il
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1950 e il 1952. Nel ciclo «PDCA», la funzione D (esecuzione) è nettamente separata dalle funzioni P (programmazione) e C (controllo), funzioni quest’ultime spettanti in generale ai quadri e comunque sia a membri dell’azienda diversi dagli «esecutori». Tradizionalmente, la funzione C è di solito, in questo sistema, assicurata dagli ispettori della qualità. Pertanto, l’esecutore-operaio (funzione D) è totalmente tagliato fuori dalle funzioni di gestione e di controllo della produzione. In effetti, come abbiamo visto, la divisione del lavoro di tipo tayloristico tende a ostacolare lo sviluppo di forza lavoro «multifunzionale», in grado cioè di svolgere funzioni diversificate. Al contrario, nel toyotismo le funzioni non sono statiche. In Giappone, nelle cui organizzazioni prevale una concezione «policronica» del tempo e il principio della indifferenziazione dei ruoli (cui fa da contrappeso la rigidità dei ranghi), il dipendente per definizione tende a essere un generalista, avendo un’accentuata job-rotation e svolgendo una pluralità di funzioni. Per riprendere il ciclo di Deming, per il dipendente, D e C non sono funzioni distinte, nel senso che, come già accennato, il dipendente, per il principio dell’«autoattivazione», può interrompere il flusso produttivo per segnalare (eventualmente attraverso un particolare dispositivo detto andon) difetti e anomalie che nella tradizionale fabbrica fordista sono rilevati e corretti in fase di verifica e di collaudo. In siffatte condizioni, il dipendente deve essere in grado di decidere autonomamente, di «autoattivarsi»: deve
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avere «la capacità inventiva dei vecchi artigiani e, nello stesso tempo, disporre di elementari cognizioni di matematica, fisica e statistica». Uno dei segreti dell’impresa nipponica sta proprio nella notevole capacità intellettuale che l’operaio (peraltro abituato al lavoro di gruppo, perché molte funzioni vanno svolte dalla squadra, in team) manifesta nel risolvere problemi, anche quelli posti dall’innovazione tecnologica, naturalmente in collaborazione con gli ingegneri. In definitiva, in questo modello, che da una parte presuppone relazioni industriali di tipo familistico e armoniose (e non contrattuali e conflittuali) e dall’altra impone il superamento della divisione burocratica del lavoro di tipo tayloristico, effettivamente il dipendente si sente dal punto di vista psicologico pienamente coinvolto nella produzione, anche nella sua fase decisionale.
Il ciclo «PDCQ» (Deming) • P sta per PLAN (progettazione) • D sta per DO (esecuzione) • C sta per CHECK (controllo) • A sta per ACTION (correzione dei difetti)
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Questa rivoluzione sul piano dell’organizzazione non può non avere riflessi su quello tecnologico; e ciò che meglio esprime il ribaltamento di prospettiva rispetto al modello fordista è il kanban. Si tratta di un sistema semplice e decentrato di gestione dei flussi di informazione e della produzione, consistente nel segnalare alla stazione di lavoro precedente la richiesta di una determinata quantità di materiali, pezzi e semilavorati, istante per istante. Questo sistema di gestione dei flussi di informazione combinato con il principio del JIT fa sì che nel toyotismo – come s’è già accennato – la produzione sia «tirata» («sistema pull») a valle dalle variazioni di mercato, mentre nel fordismo vige il «sistema push» (la produzione è «spinta» dall’alto). La comunicazione all’interno dell’impresa, quindi, non ha origine dal vertice, cui, secondo il modello tradizionale, sarebbe spettata la decisione su volumi e tempi di produzione per ogni reparto, per estendersi gradualmente alla periferia secondo il ciclo lavorativo e la catena gerarchico-burocratica. Nel toyotismo, le informazioni vanno «all’incontrario» (per usare l’efficace titolo di un saggio di Coriat): hanno origine dai segmenti periferici, dai segmenti finali del ciclo, percorrendo il cammino a ritroso da valle a monte, «usando il linguaggio concreto della produzione, utilizzando cioè come medium il movimento dei materiali». Sappiamo che il sogno di Taylor era eliminare ogni porosità della giornata lavorativa, ogni gesto inutile del singolo
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lavoratore, attraverso il principio one best way secondo cui vi è un solo modo «cronometricamente ottimale» per compiere ogni singola operazione. L’operaio, pertanto, è inchiodato al suo posto di lavoro per compiere mansioni sempre più specializzate, parcellizzate, standardizzate. Nella realtà policronica della fabbrica toyotista, questo principio tayloristico non ha alcun senso; semmai può valere per l’intera organizzazione di ciascun settore produttivo (non per il singolo operaio). In definitiva, il fine principale del just-in-time, e conseguentemente del metodo kanban, è proprio quello di rilevare anche «visivamente» le sacche residue d’inefficienza aziendale. Il kanban, oltre a gestire i flussi informativi interni, opera come un supermarket (utilizzare al massimo lo spazio espositivo garantendo la disponibilità del maggior numero possibile di prodotti). È in definitiva uno strumento di controllo gestionale diretto a rendere «trasparente» il sistema-fabbrica, proprio come il cronometrista di Taylor aveva il compito di rendere «trasparente» il lavoro del singolo operaio. In altre parole, esso serve a far venire a galla le sacche di «grasso» dell’organizzazione aziendale per eliminare sprechi ed eccedenze, consentire un migliore rapporto lavoro-macchine e una più elastica distribuzione e, soprattutto, una migliore valorizzazione delle risorse umane. Oltre a eliminare ogni sorta di «spreco» (muda), altri obiettivi del Toyotismo sono la rapidità e la precisione. Ohno
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elimina le figure improduttive, i controllori degli altri, quei ruoli gerarchici che il taylorismo aveva creato al punto da rendere le fabbriche simili a caserme. Inoltre, la fabbrica toyotista tende all’armonia e non al conflitto, il nemico principale essendo proprio la conflittualità, individuale e tra gruppi: nella retorica industriale Toyota, il concetto di lotta di classe non ha mai trovato spazi. La fabbrica è vista come un modello armonico e il sindacato viene inglobato in organismi conciliativi.
Toyotismo in breve Sistema di produzione per ottenere prodotti di ottima qualità, diversificati, a bassi costi e in tempi brevi attraverso l’eliminazione degli sprechi (muda). Presupposto: domanda limitata (il mercato è esigente e sparagnino). Problema: come aumentare la produttività quando non aumentano le quantità? → Una fabbrica minima («frugale»), flessibile (adattabile), trasparente («come un tubo di cristallo»).
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Il Toyotismo, sviluppatosi sulla base della tensione propriamente nipponica detta kaizen («miglioramento continuo»), ha due pilastri: 1. il just-in-time (JIT), applicato alla Toyota già negli anni Cinquanta e diffusosi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti negli anni Settanta; 2. il jidōka (autonomazione o automazione umana). Un altro principio fondamentale del toyotismo è il kaizen (miglioramento continuo). Si tratta di una particolare tensione per il miglioramento continuo che caratterizza le organizzazioni nipponiche e che affonda le sue radici nella profonda tradizione culturale del popolo giapponese: una cultura particolaristica attrezzata storicamente a rispondere alla sfide poste dalla natura (terremoti, tsunami…) e dalla storia (la vicinanza della civiltà cinese) e caratterizzata da una forte inclinazione al lavoro comunitaristico oltre che dalla preferenza per la ricerca induttiva orientata alla pratica più che ai modi deduttivi orientati alla teoria. Le dimensioni del kaizen sono molteplici: pratiche quotidiane di miglioramento (circoli di controllo della qualità, CCQ); attività approfondite svolte da specialistici e tecnici; con riferimento alla kaisha nel suo
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insieme, il kaizen tende a confondersi con Total Quality Management (TQM). Il TQM può essere definito come una strategia organizzativa del business che ne massimizza la competitività attraverso il continuo miglioramento della qualità dei suoi prodotti, dei dipendenti, dei processi e ambienti accrescendo la soddisfazione del cliente6. Esso deriva dalla nozione di «Controllo della qualità Totale», elaborata per la prima volta da A. Feigenbaum nel 1951. Significativi sono stati i contributi di W. Edward Deming, Joseph Juran, Phikip B. Crosby e Kaoru Ishikawa. Le sue caratteristiche essenziali in Giappone sono indicata di seguito. • La strategia è guidata dal cliente (costumer driver): i customer esterni definiscono la qualità del prodotto o del servizio, mentre i costumer interni definiscono la qualità delle persone, dei processi e l’ambiente associati ai prodotti o ai servizi. • È una strategia olistica: concernente tutti i livelli della performance manageriale, per questo denominata in un primo tempo in Giappone Company-wide quality control. • Importante è l’empowerment: in relazione al processo decisionale, l’empowerment dei dipendenti consiste nel dare agli individui e ai gruppi risorse, pinformazioni e autorità di cui hanno bisogno per sviluppare idee e realizzarle concretamente.
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• La competitività è basata più sulla qualità che sul prezzo: la perfezione – in quanto totale soddisfazione del cliente – è uno standard che va vigorosamente perseguito. • La qualità è compito di tutti e non del solo Dipartimento del Controllo della Qualità. • Riconoscimento ai dipendenti meritevoli in termini di prestigio e funzioni all’interno del gruppo (in Giappone si evitano premi in moneta). • Uso di strumenti statistici, costante verifica e innalzamento degli standard. • Enfasi sull’istruzione per tutti i dipendenti, dagli alti manager ai colletti blu. Il training non è un costo giacché produce risparmio. • Infine, un diffuso sistema di specifiche strategie manageriali, come i circoli di controllo della qualità (CCQ), che contribuiscono efficacemente al kaizen. In effetti, il controllo della qualità è diventato una delle maggiori funzioni del moderno management. Tra le varie tecniche usate, una molto comune e specifica è appunto quella già citata dei CCQ, molto diffusi in Giappone, che sono gruppi di lavoratori che si incontrano regolarmente, su base volontaria, per discutere come migliorare la qualità del loro lavoro. Ricerche empiriche hanno dimostrato che l’uso dei CCQ da parte delle imprese nipponiche ha contribuito in modo significativo al miglioramento della loro performance. Una volta
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stabiliti gli obiettivi di qualità, la responsabilità del loro raggiungimento ricade proprio sui circoli, ai quali il management fornisce assistenza di supporto e, naturalmente, i dati raccolti sui difetti di produzione (mentre negli Stati Uniti di norma tutto ciò è riservato al medio e alto management)7. Prima di concludere su questo modello, vi sono altri due aspetti che devono essere evidenziati. Il principio one best way nel toyotismo, oltre a essere riferito all’intero reparto o all’impresa nel suo complesso, è anche indefinitivo, dinamico e sempre migliorabile, perché ha un limite mobile cui tendere per successive e incessanti innovazioni, in generale realizzate a piccoli passi. È questa tensione per il continuo miglioramento (propria della «sindrome del secondo», che caratterizza l’ethos dei giapponesi) della produzione in termini di costi e di qualità che esprime il termine giapponese kaizen, entrato ormai a far parte del comune lessico manageriale occidentale. Ma anche sotto un altro aspetto, non meno importante, il kaizen si differenzia dallo one best way di Taylor: quest’ultimo impone soluzioni per via gerarchica, invece il kaizen è essenzialmente un processo bottom-up, che coinvolge l’intera azienda attraverso un processo di comunicazione omnidirezionale, discussioni di gruppo, circoli di qualità o semplici suggerimenti dati dal singolo dipendente al proprio padrino aziendale (oyabun), magari la sera tra una canzone e una bevuta nel solito localino di karaoke, non lontano dalla kaisha, che non è una semplice «impresa» ma è
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una sorta di famiglia allargata, un vero e proprio microcosmo socioeconomico. Note 1. Per questa sezione ci siamo basati su F. Mazzei, «La dimensione culturale del lavoro in Giappone», Parolechiave – Lavoro, nn. 14/15, 1997, in particolare il paragrafo «Un’esemplificazione: il lavoro nel toyotismo», pp. 168-177; Asia al centro, cit. Vedi pure T. Ohno, Lo spirito Toyota, Einaudi, Torino, 1993; G. Bonazzi, Il tubo di cristallo. Modello giapponese e fabbrica integrata alla Fiat auto, il Mulino, Bologna, 1993; R. Boyer, Oltre Toyota, cit.: P. Bardelli, Le modèle de production flexible, PUF, Paris, 1996. 2. Vedi «Introduzione» di M. Revelli a T. Ohno, op. cit. pp. XI-XLIV. 3. Il just-in-time in senso stretto è un complesso di tecniche e di concetti che mirano ad accrescere il valore aggiunto attraverso una perfetta gestione dei flussi logistici, segnatamente delle scorte che devono pervenire al tempo giusto, al posto giusto e nella quantità giusta, e, più in generale, a una produzione a «6 zeri». In senso lato, esso è un complesso sistema: • di pull production, cioè di una produzione «tirata» a valle dalla domanda (non «spinta» dall’alto, push production); • di Tkt time (un numero di riferimento usato per cercare di far coincidere il tasso di produzione col tasso di vendite); • infine, riguarda l’intero flow (progressivo raggiungimento dei compiti lungo tutta la corrente del valore, in modo che non ci siano fermi, ritardi ecc.). 4. Vedi Pierre Bardelli, op. cit., pp. 44 e 87; Asia al centro, cit. Da rilevare che, in linea di massima, i medesimi principi valgono anche per le piccole società fornitrici o sub-fornitrici, che in situazioni normali rispetto all’impresa-madre non sono affatto in posizione di subalternità e di diffidenza reciproca, ma di fiducia, di collaborazione e di rapporti a lungo termine. Tuttavia, in caso di recessione sono le prime a subirne gli effetti. 5. In altre parole, il principio dell’autoattivazione consente un accoppiamento del lavoro umano con i meccanismi delle macchine tale da permettere un funzionamento flessibile che escluda scarti e difetti. 6. Secondo la definzione dell’ISO (International Organization for Standardization), il TQM è «a management approach for an organization, centered on quality, based on the participation of all its members and aiming at long-term success through customer satisfaction, and benefits to all members of the organization and to society». Vedi F. Mazzei, Japanese Management, pres. PP, Master ICE, Venezia, 2009. 7. Può essere utile l’elencazione di nuove credenze basata sull’esperienza nipponica (in corsivo) che si sono sostituite ai vecchi miti relativi alla qualità (in tondo).
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• Responsabile della qualità è il Dipartimento di Controllo della Qualità/La qualità è compito di tutti → approccio olistico. • Il training è costoso/Il training produce risparmio. • È umano fare errori/La perfezione – misurata dalla totale soddisfazione del cliente – è uno standard che va perseguito. • Vanno considerati solo i difetti maggiori/Nessun difetto è accettabile. • Il miglioramento della qualità impiega tempo/La qualità fa risparmiare tempo. • I programmi di qualità sono meglio orientati verso settori manifatturieri/Sono importanti in tutte le aree, compresi i servizi e gli apparati amministrativi. • I rifornitori devono essere competitivi sul prezzo/Devono essere competitivi sulla qualità.
Vedi F. Mazzei, Japanese Management cit.
4. Il capitalismo anglosassone
Negli ultimi decenni si è molto discusso sulla «pluralità» o meno del capitalismo. Molti studiosi, rifacendosi a una celebre affermazione di Braudel, ritengono che, in effetti, il capitalismo si realizzi in modelli diversi sulla base di fattori quali il tipo di crescita, il regime d’accumulazione e di spartizione del valore aggiunto e, soprattutto, a seconda delle specificità storiche dei singoli paesi. Sulla base del contributo pionieristico di Michel Albert a questo dibattito1 e successivamente dei lavori di coloro i quali si riconoscono nella corrente nota come «varietà di capitalismi» (varieties of capitalism»), oggi la principale distinzione è tra il capitalismo liberale anglosassone (o meglio dei paesi anglofoni: Stati Uniti, Regno Unito, Irlanda, Australia) e quello sociale dell’Europa continentale, di cui esistono molte varianti ma il cui tipoideale è considerato il capitalismo cosiddetto «renano», connotato da un significativo intervento dello Stato nei processi socioeconomici. Secondo Albert, nel modello renano sarebbe compreso anche quello giapponese e perciò noto anche come modello germano-nipponico2.
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Ronald Dore, inseritosi per tempo in questo dibattito, ha fatto propria la stilizzazione nei due modelli: il modello anglosassone, più riconducibile al libero mercato, e quello renano-giapponese, connotato da un ruolo più esteso e incisivo svolto dalle istituzioni politiche e sociali. Tuttavia, l’insigne studioso e fine orientalista s’era guardato bene dal contrapporre frontalmente un «capitalismo della borsa» a un «capitalismo del welfare», sottolineando la tendenza dei due modelli a sovrapporsi e talvolta a convergere. Anche se a quel tempo era diffusa la convinzione nel mondo accademico che, data l’indubbia migliore perfomance del capitalismo statunitense, la convergenza verso il modello anglosassone fosse irreversibile, la sua preferenza era per la seconda opzione. Recentemente Dore è tornato su questi temi, evidenziando i limiti del capitalismo anglosassone «finanziarizzato» e rispolverando un tema fortemente dibattuto nel corso degli anni Ottanta sia in Europa sia in Giappone, la «riforma delle strutture» (in giapponese shakai-kōzō)3. Alla fine dei gloriosi trent’anni, le economie capitalistiche che fino ad allora si erano rilevate più solide (la giapponese e la tedesca) erano caratterizzate da una quota di aziende pubbliche relativamente alta, da una politica assistenziale particolarmente generosa e da un’estesa regolazione pubblica tendente a mantenere il pieno impiego. Tuttavia, già verso la fine degli anni Ottanta e soprattutto nel decennio successivo, indebolitesi l’economia tedesca, anche per effetto della
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riunificazione, e quella giapponese, in seguito allo scoppio della bolla speculativa, il modello economico di riferimento era diventato quello anglosassone, rivitalizzato dalle forze transnazionali prodotte dalla crescente globalizzazione e dalla fine dell’esperienza comunista. A ciò faceva riscontro un indebolimento dello Statonazione, che non era più l’indiscusso attore nello scacchiere internazionale, essendo peraltro la sua sovranità, come abbiamo visto, erosa sia dall’alto sia dal basso4. Indubbiamente, nell’ultimo decennio del secolo scorso le economie degli Stati Uniti e della Gran Bretagna apparivano più dinamiche rispetto a quelle dell’Europa continentale segnate da una crescita debole, da un andamento del tasso di disoccupazione preoccupante e, nel caso del Giappone, anche da una sconcertante deflazione. Semplificando, cinque sono le principali specificità del modello angloamericano: • accentuata connotazione ideologica di tipo neoliberista;
• rivalutazione della figura dell’imprenditore e svalutazione del ruolo del burocrate; • grande flessibilità del mercato del lavoro con forme esasperate di precarietà; • spese pubbliche ridotte al minimo; • forte capacità d’innovazione.
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Inteso come modello ideale, il capitalismo anglosassone si basa saldamente sull’ideologia neoliberalista, che insiste da una parte sulla responsabilità individuale, senza poter contare sullo Stato o sulla società nel suo insieme, e dall’altra sul libero gioco dei mercati – la «mano invisibile» – che porta automaticamente a un equilibrio economico soddisfacente. Pertanto, lo Stato ha una funzione minimale: in pratica, il ruolo della pubblica amministrazione è ridotto ai tre settori della giustizia, dell’ordine pubblico e della difesa, giacché un suo più ampio intervento potrebbe falsare l’equilibrio del mercato. «Certamente, il mercato genera imperfezioni, ma l’intervento pubblico rischia d’aggravare la situazione, non essendo lo Stato il garante dell’interesse generale ma un mezzo per i governanti e le burocrazie di perseguire i loro interessi personali.» In definitiva, «la politica macroeconomica deve essere automatica (equilibrio budgetario e crescita della massa monetaria a un tasso fisso)»5. La rivoluzione conservatrice, ispirata da Reagan negli Stati Uniti e da Tatcher in Gran Bretagna e fondata su deregolamentazione e privatizzazioni, segna la vittoria dell’ultra-liberalismo sulle politiche interventiste e regolatrici dello Stato miranti alla redistribuzione del reddito. Secondo Mathieu e Sterdyniak, essa è stata resa possibile dall’indebolimento del sindacalismo, da una nuova alleanza tra azionisti, imprenditori, vertici della burocrazia e strati sociali alti del salariato moderno (i cosiddetti «quadri» delle grandi imprese
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e del settore finanziario) allo scopo di combattere i salariati dei settori tradizionali. Un’espressione del mutamento in questo senso, in Italia, può essere considerato il successo della celebre «marcia dei quarantamila della FIAT» (14 ottobre 1980). La rivoluzione, inoltre, è stata facilitata «dalla globalizzazione (che permette al capitale d’arbitrare tra le classi operaie di differenti paesi), dalla de-industrializzazione (che indebolisce la sinistra) e dalla immigrazione (che segmenta le classi popolari)»6. Rileviamo, infine, che l’affermarsi del capitalismo liberale su scala mondiale negli ultimi due decenni è stato favorito certamente dall’apertura delle economie ma anche dalle politiche perseguite da potenti organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, che hanno imposto ai paesi in via di sviluppo le condizioni-capestro del Consensus di Washington: vale a dire, una strategia di sviluppo basata sull’apertura finanziaria e commerciale, sulla deregolamentazione, sulle privatizzazioni, sullo Stato minimo… «Il FMI ha rinunciato a gestire i tassi di cambio che, abbandonati ai mercati, hanno fluttuato disordinatamente. Non c’è alcun organismo che abbia il compito di gestire l’equilibrio macroeconomico. Gli organi di controllo del sistema finanziario sono rimasti corporativi e scarsamente efficienti, permettendo alle bolle di gonfiarsi e alle innovazioni finanziarie d’indebolire il sistema. I paradisi fiscali hanno così potuto prosperare a vantaggio
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delle grandi imprese e delle istituzioni finanziarie dei paesi dell’OCE»7. Del resto, non solo l’OCSE ma la stessa Commissione Europea si è convertita alla dottrina liberista, per cui il modello sociale europeo, che avrebbe potuto costituire un’alternativa al modello liberale, non è stato difeso a livello comunitario e più in generale dai gruppi sociali dominanti. Con buona pace di Joseph Schumpeter, nel corso dei «gloriosi trent’anni» l’imprenditore era poco presente nell’analisi economica. In effetti, il capitalismo di quel periodo era basato sulle grandi imprese (spesso a partecipazione statale), mentre era messo in secondo piano l’imprenditore, visto come il «padrone», rappresentante dell’autorità, di una forma di organizzazione industriale ormai superata. Con la rivoluzione conservatrice degli anni Ottanta, l’imprenditore ridiviene figura centrale del capitalismo, visto positivamente come innovatore, agente del cambiamento8. Due caratteristiche del modello anglosassone vanno sottolineate per le pesanti ripercussioni sul piano sociale. Innanzitutto un mercato del lavoro particolarmente flessibile: secondo dati dell’OCSE, gli Stati Uniti sono il paese in cui la protezione dell’impiego è la meno garantita, seguiti dal Regno Unito e dall’Irlanda; in secondo luogo, la crescente disuguaglianza sociale e l’alto tasso di povertà, a causa dello smantellamento dei sistemi di welfare e dalle nuove politiche del lavoro. Indubbio punto di forza del modello anglosassone è, invece, la capacità di integrare in tempi rapidi le
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innovazioni produttive, grazie anche alla flessibilità del mercato del lavoro. All’inizio degli anni Ottanta, la rivoluzione conservatrice (o controrivoluzione neoliberale, secondo alcuni) lanciata da Ronald Reagan e da Margaret Thatcher ha, quindi, rivificato il modello anglosassone. In questo modello, oltre alla deregolamentazione, alle privatizzazioni, alla riduzione delle tasse e all’apertura internazionale dei mercati, particolare enfasi è data alla liberalizzazione finanziaria e, come si è già sottolineato, alla flessibilità del mercato del lavoro. Le economie dei paesi anglofoni incarnano questo modello e appaiono come quelle che maggiormente beneficiano della «camicia di forza dorata» della globalizzazione. Negli Stati Uniti, la politica neoliberista di Reagan ha continuato nonostante la vittoria dei Democratici guidati da Bill Clinton, il quale ha perseguito nella deregolamentazione finanziaria e nel tenere al minimo le spese pubbliche e sociali, limitandosi ad aumentare leggermente la pressione fiscale sui ceti più ambienti. Analogamente in Inghilterra, la vittoria di Tony Blair nel 1997 non segna una svolta decisiva rispetto all’eredità lasciata da Margaret Tatcher: la cosiddetta «terza via», in pratica, teorizzava la rinuncia alla svolta sul presupposto del primato del Mercato sullo Stato, per cui «la sinistra deve accettare le leggi di mercato e ridurre le spese pubbliche». Obama sembra intenzionato, invece, a imprimere una svolta, democratici conservatori permettendo.
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In effetti, oggi il panorama appare ancora una volta mutato. A causa del ripetersi delle crisi e della conseguente sfiducia (se non rigetto) nei confronti del modello anglosassone, la fede nel carattere ottimale e stabilizzatore del mercato vacilla fortemente, mentre i governi intervengono sempre più massicciamente per salvare banche e imprese industriali in difficoltà. Intanto, si sta formando un nuovo consenso, sia sul piano teorico sia su quello politico-pratico, contrario alla tesi della «convergenza ineluttabile» verso un modello di capitalismo presunto superiore agli altri, e favorevole invece alla tesi della pluralità del capitalismo nonché a una nuova rivalutazione del ruolo dello Stato. Ripetiamolo, ciò che ha dato un colpo decisivo all’egemonia del modello angloamericano, e quindi al primato del Mercato sullo Stato, è la crisi scoppiata nel 2007, che può essere a ragione definita crisi della globalizzazione finanziaria e del liberalismo liberale. «Provocata dallo scoppio delle bolle finanziaria e immobiliare e dagli eccessi dell’indebitamento delle famiglie, essa rimette in causa le molle della crescita dei paesi anglosassoni e distrutto le fondamenta teoriche della finanza mondiale come anche le giustificazioni delle ineguaglianze dei salari. L’intervento pubblico e la governance mondiale appaiono necessarie più che mai»9. In definitiva, la crisi scoppiata nel luglio 2007 può essere vista come il frutto del fallimento di questo modello di capitalismo, che tra l’altro ha comportato una serie di squilibri
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molto pesanti sul piano sociale, una crescita fortemente ineguale, pompata da strumenti finanziari «innovativi» e basata in gran parte sull’indebitamento. Note 1. M. Albert, Capitalisme contre capitalisme, Seuil, Paris, 1991. 2. Per questo tema, ci siamo basati essenzialmente su C. Mathieu e H. Sterdyniak, «Forces et faiblesses du capitalisme anglo-saxon», in Le capitalsime: mutations et diversité, cit., pp. 36-64. 3. R. Dore, Finanza pigliatuttto, il Mulino, Bologna, 2009. 4. M. Gabel, «Les capitalismes en Europe continentale», in Le capitalisme: mutations et diversité, cit., p. 45. 5. Ibidem, p. 36. 6. Ibidem, p. 37. 7. Ibidem, p. 44. 8. Questo ritorno dell’imprenditore nel proscenio economico è legato ai grandi cambiamenti strutturali degli anni Ottanta, come la liberalizzazione dell’economia e lo sviluppo della finanza, i mutamenti tecnologici, il riorientamento della politica sociale. Vedi Boutillier e Uzunidis, op. cit., p. 19. 9. «Forces e faiblesses…» cit., p. 37.
5. Germania e Giappone: due paesi un capitalismo?
Come abbiamo visto, sulla scorta di Michel Albert molti studiosi ritengono che due siano i modelli fondamentali di capitalismo: il capitalismo angloamericano liberale, che è orientato verso il mercato (market oriented), e il capitalismo sociale renano, ideal-type del capitalismo dell’Europa continentale ma anche del Giappone, che invece è relationship oriented. Inoltre, mentre il primo è outsider model, nel senso che l’influenza maggiore sulle grandi decisioni dell’impresa è esercitata da soggetti non direttamente coinvolti nella gestione, il secondo è invece insider model, in quanto l’influenza decisiva spetta a soggetti coinvolti direttamente nella gestione del business. Più in generale, il modello angloamericano è proiettato verso gli stockholder, quello germano-nipponico verso gli stakeholder. In effetti, nell’impresa del modello renano esiste un nocciolo duro, costituito da azionisti stabili (banche, investitori finanziari ecc.) che controllano la quota maggiore di capitale, e da una moltitudine di piccoli azionisti che possiedono la parte
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di capitale effettivamente trattabile sul mercato. Una terza, seppur minore, componente degli stakeholder è costituita dai lavoratori, attraverso i loro rappresentanti sindacali nel Consiglio d’Azienda e in altri organi dell’impresa. Data questa particolare struttura, è difficile che un singolo azionista disponga della maggioranza assoluta delle azioni; pertanto, in mancanza di un azionista di riferimento, particolare rilevanza assume la figura del manager che opera con l’obiettivo di massimizzare il valore dell’azienda. Pertanto, di norma al profitto immediato richiesto dagli azionisti dell’impresa americana si preferisce un incremento valoriale aziendale di lungo periodo. Questo modello di capitalismo poggia su istituzioni che sono al di fuori del mercato: innanzitutto lo Stato, ma anche le banche pubbliche, le organizzazioni padronali, i sindacati, il sistema di sicurezza sociale. In confronto con lo Stato dei paesi anglosassoni, lo Stato renano si caratterizza per la vasta gamma dei suoi interventi, che vanno ben al di là della risoluzione dei fallimenti di mercato. Interventi che favoriscono prospettive di lungo termine nelle decisioni economiche relative anche alla sfera dell’impresa privata, concepita come una comunità che associa lavoro e capitale. «Il modello di cogestione traduce questa volontà» e la Mitbestimmung tedesca è «il perfetto esempio di una gestione consensuale [o co-determinazione] tra i diversi interessi che si creano in seno all’azienda»1.
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Come scrive Markus Gabel , il capitalismo renano è basato su una logica di cogestione triadica: tra impresa, banca di riferimento e sindacato; e questo consente un elevato grado di coesione sociale e in certo senso la perpetuazione di una connotazione fordista, seppure attenuata dal fatto che non si può più contare sull’automatismo delle garanzie che l’intesa tra capitale e lavoro consentiva. Altro elemento centrale del modello renano (soprattutto nella variante tedesca, ma anche nel capitalismo nipponico) è il cruciale ruolo delle banche, in particolare nel finanziamento delle imprese, nel garantire stabilità al capitale a rischio, nell’impedire scalate ostili. In effetti, come sostiene Boyer, il ruolo delle banche non è solamente quello di un detentore di informazioni strategiche ma soprattutto quello di un garante degli interessi di lungo termine. Minore rilevanza hanno i mercati azionari, dalla taglia relativamente modesta. Nella gestione dell’impresa, «pesante» è invece il ruolo del personale: si pensi alle potenti organizzazioni sindacali tedesche e, per quanto riguarda il Giappone, al forte impegno che lega il lavoratore giapponese alla kaisha e al fondamentale ruolo di mediazione esercitato dal «sindacato aziendale», che insieme all’impiego a vita e alla carriera basata sull’anzianità di servizio costituisce uno dei «tre attrezzi sacri» del sistema nipponico di relazioni industriali. Altre due caratteristiche del modello renano sono il corporativismo, data l’ampiezza dell’azione di potenti forze
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corporative in esso operanti , e l’essere fondamentalmente collaborativi. Non vanno sottovalutate le mutazioni in atto. Innanzitutto, si rileva uno sviluppo del mercato azionario e un accresciuto potere degli azionisti rispetto al controllo esercitato dalle istituzioni bancarie; in secondo luogo, c’è stata un’evoluzione della normativa relativa ai mercati finanziari e al takeover. Naturalmente, come il modello liberale anche quello renano ha elementi di forza e punti deboli, che sono legati essenzialmente all’andamento di due fattori: al maggiore o minore intervento dello Stato in economia e al grado di estensione del sistema di sicurezza sociale. Donde il successo variabile del modello renano: maggiore durante gli anni Settanta e Ottanta, decisamente minore negli anni Novanta e ai primi anni del nuovo secolo, durante i quali era il modello angloamericano quello dominante.
Caratteristiche del modello renano • Ruolo preminente dello Stato e di altre istituzioni estranee al mercato. • Cogestione triadica tra impresa, banca e sindacato. • Rilevanza delle banche, che garantiscono stabilità al capitale di rischio e impediscono scalate ostili ecc.
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• Poco sviluppato il mercato azionario, «pesante» il ruolo del personale nella gestione dell’impresa. • Modello fondamentalmente collaborativo4. Il modello di capitalismo renano è diffuso nel continente europeo in numerose varianti, ma è il capitalismo «consensuale» tedesco a esserne il paradigma. Questo poggia sulla dottrina – invero un po’ ambigua – della «economia sociale di mercato» (soziale Marktwirtschaft), i cui fondamenti furono enunciati nel 1949 dai padri fondatori del modello tedesco: Wilhelm Röpke, Walter Euken e Alfred Müller-Armack. «L’ambizione della soziale Marktwirstschaft è quella di costruire e garantire un ordine concorrenziale che offra opportunità per tutti gli agenti economici e benessere per il massimo delle persone. Dato che lo Stato è obbligato – attraverso la costituzione tedesca – a garantire l’ordine concorrenziale, l’eterna opposizione tra Stato e Mercato è così trasformata in elemento costruttivo – ciò che differenzia la soziale Marktwirtschaft dagli altri modelli di capitalismo»5. In breve, effettivamente il modello renano si caratterizza per una forte tendenza al consenso nelle questioni politiche ed economiche. È in questa cultura di consenso e di coesione sociale che il modello di cogestione (Mitbestimmung) gioca un ruolo di regolazione centrale nelle relazioni capitale/ lavoro. All’associazione di tutte le parti coinvolte nella
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decisione all’interno dell’impresa, corrisponde un diffuso senso di corresponsabilità. Come detto, questo modello di capitalismo è diffuso nel continente europeo in numerose varianti, che persistono nonostante due fattori di per sé omogeneizzanti: il progredire della integrazione europea e la globalizzazione, che è percepita come una forza che spinge verso la reductio ad unum dei capitalismi. Le principali varianti identificate dagli specialisti sono: tedesca, nordica, mediterranea, postsocialista. Tuttavia esso ha la sua specificità al Centro e al Nord Europa: Germania in primis, poi Svizzera, Austria, Paesi Bassi, Danimarca, Svezia, Finlandia. Difficile appare la collocazione del capitalismo italiano in questo contesto: pur condividendo alcuni elementi del modello renano (in particolare, il ruolo delle banche e il ruolo dell’impresa, soprattutto delle PMI), esso appare più vicino al «capitalismo mediterraneo»6. Questa variante, che s’estende a Grecia, Spagna e Portogallo, sarebbe caratterizzata essenzialmente dalla «complementarietà tra una protezione sociale meno sviluppata rispetto al modello renano e un alto livello di regolamentazione dei mercati di beni, di servizi e segnatamente del lavoro»7. Nella fase attuale di «ritorno dello Stato» determinato dallo scoppio della Terza Grande Crisi, particolare rilievo assume il capitalismo sociale dei paesi nordici (Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia) per come ha saputo far fronte
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alle difficoltà sorte negli ultimi decenni (aumento della disoccupazione, debolezza del credito…). Fondato sulla omogeneità salariale, su un settore privato dinamico, su numerose imprese pubbliche e su una varietà di servizi sociali pubblici, esso ha superato questi ostacoli adottando la strategia della «flessicurezza», che combina una grande facilità di licenziamento per le imprese (flessibilità) con indennità e assistenza per i salariati disoccupati, peraltro assieme a una generosa offerta di formazione (sicurezza)8. Comunque sia, nonostante la tendenza verso la flessicurezza, il modello nordico preserva il suo carattere socialdemocratico: prova ne è il ruolo economico dello Stato che è il più attivo del continente europeo. Bruno Amable, uno dei teorici della «complementarietà istituzionale», cerca di superare la classificazione dei capitalismi basata sulla opposizione binaria proposta da Michel Albert (capitalismo angloamericano/capitalismo germanonipponico) e a quella proposta da Hall e Soskiced nel 2001 (economie di mercato liberali/economie di mercato coordinate, EML/EMC) perché considerate troppo riduttive per rendere la complessità del reale9. Egli propone di distinguere i capitalismi sulla base delle specificità ma anche delle reciproche complementarietà di cinque aree istituzionali: la concorrenza sul mercato dei prodotti, il nesso salario-lavoro, il settore della intermediazione finanziaria e la corporate governance, la protezione sociale, il settore dell’istruzione. Tenendo conto principalmente delle prime due aree istituzionali,
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egli identifica i seguenti cinque modelli ideali di capitalismo: il capitalismo fondato sul mercato (corrispondente al capitalismo angloamericano di Albert); il capitalismo euro-continentale (vicino al modello renano), il capitalismo socialdemocratico, il capitalismo mediterraneo e il capitalismo asiatico. Secondo Amable, i principali elementi caratterizzanti il modello asiatico sono indicati di seguito. Per quanto riguarda la prima area istituzionale (concorrenza sul mercato): importanza della concorrenza in relazione sia ai prezzi sia alla qualità, ampio coinvolgimento dello Stato, difesa nei confronti di concorrenti o investitori stranieri, infine importanza delle grandi aziende. Per quanto riguarda il nesso salario-lavoro: alta protezione dell’impiego, limitata flessibilità esterna, mercato del lavoro duale, salari tendenzialmente basati sull’anzianità di servizio, relazioni industriali di tipo cooperativo, importanza dei sindacati, decentramento della contrattazione salariale10. Non manca chi intravede anche un modello di «capitalismo dei paesi emergenti». A questo riguardo ci sembra utile accennare al capitalismo indiano, sovente assimilato a quello cinese, di cui ci occuperemo in una specifica sezione. In realtà, rilevanti sono le differenze. A parte l’eredità coloniale britannica che ha dotato l’India di un apparato istituzionale «democratico» stabile, del tutto diverso è il modello di sviluppo: il capitalismo «molecolare» indiano, in cui small is beautiful, rispetto a quello cinese in cui big is wonderful, è
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basato sul mercato interno più che sulle esportazioni, sui consumi più che sugli investimenti, sui servizi ad alta tecnologia più che sull’industria11. Inoltre, come sottolinea Boyer, mentre in Cina il regime di accumulazione è basato sulla ricerca di rendimenti di scala grazie alla produzione di massa, «la dinamica indiana risulta dalla congiunzione di tre regolazioni». La prima è quella tradizionale del mondo contadino, il cui obiettivo è la sopravvivenza di fronte alle imprevedibili calamità naturali legate soprattutto al capriccioso clima monsonico. All’estremo opposto abbiamo la regione di Bangalore, caratterizzata da un felice inserimento dell’economia della conoscenza in un contesto fortemente internazionalizzato. A questo riguardo è appena il caso di ricordare che l’India è oggi la patria mondiale dell’outsourcing, dei servizi moderni, come i call center, il software, i grandi studi di consulenza fiscale e amministrativa, di analisi chimiche e biogenetiche. Tra questi due estremi abbiamo «un settore manifatturiero dominato dagli oligopoli che da lungo tempo lo Stato protegge dalla concorrenza internazionale». Secondo la maggioranza degli studiosi comparativisti, il capitalismo giapponese sarebbe una variante – seppur originale – del capitalismo renano. In effetti, con quello tedesco condivide non poche connotazioni, a cominciare dal ruolo dello Stato e dal carattere comunitaristico e consensuale dell’impresa per finire all’importanza del ruolo delle banche e
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della figura del manager, agli stretti legami tra azienda, soustraitans e distributori. Nonostante questi e altri elementi in comune tra le due economie, entrambe coordinate su base corporativistica e non organizzate secondo relagolazioni di mercato, esistono specificità del capitalismo nipponico sulla base di fattori quali il contesto storico, il quadro culturale, la politica industriale, la struttura organizzativa (si pensi al particolare sistema di relazioni industriali), specificità condivise in larga parte dagli altri paesi capitalisti del Mondo Sinico come la Corea del Sud, Taiwan e la stessa Cina. Pertanto si ritiene più utile stilizzare il capitalismo nipponico come il prototipo del modello che nella Introduzione abbiamo definito «Stato sviluppista confuciano»12.
Sistema giapponese di relazioni industriali I tre attrezzi sacri. • Impiego a vita. Contratto implicito che impegna moralmente l’azienda a non licenziare e i dipendenti alla massima lealtà. Minima mobilità inter-aziendale e alta mobilità intraziendale. Reclutamento tramite la scuola e formazione continua. • Carriera basata sull’anzianità di servizio presso la stessa azienda.
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• Sindacato aziendale, cooperativo. (Modello in profonda trasformazione in seguito allo scoppio della bolla speculativa e alla crisi in corso) Si è già accennato all’origine «incestuosa» del capitalismo giapponese13. Esso, infatti, è nato nella seconda metà del periodo Tokugawa (1600-1868) «dal basso», cioè nelle campagne in seguito alla «dissociazione contadina», al progredire del putting-out system, alla formazione di «profitto embrionale» e, quindi, attraverso un’accumulazione originaria del capitale che possiamo definire di tipo classico14. Tuttavia, verso la metà del XIX secolo, dovendo far fronte alla sfida imperialistica delle potenze occidentali, il governo shogunale prima e imperiale dopo la Restaurazione Meiji del 1868 interviene con forza imprimendo al processo una sterzata «dall’alto». In questo modo, il capitalismo giapponese, sviluppato «in serra» sotto la calda e premurosa protezione di uno Stato fortemente interventista, si consolida in appena tre decenni con caratteristiche che in larga parte ritroveremo nell’economia giapponese ricostruita del secondo dopoguerra15. La prima caratteristica, comune peraltro agli altri paesi late-comers nello sviluppo capitalistico (come la Germania e l’Italia), è il ruolo determinante dello Stato, specialmente nel
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settore finanziario e nelle industrie strategico-militari, che costituì l’elemento catalizzatore del processo di consolidamento del capitale industriale. Nel settore privato, preminente era il capitale monopolistico, rappresentato dai quattro grandi zaibatsu (Mitsui, Mitsubishi, Sumitomo e Yasuda). Com’è noto, gli zaibatsu erano grandi gruppi olipolistici la cui nascita fu favorita da una spietata deflazione imposta dal Ministro delle Finanze Matsukata tra gli anni 1881-86. Questi gruppi erano centrati intorno a una «famiglia» che, tramite una holding (in giapponese honsha), orientava e controllava le tante imprese industriali e commerciali affiliate, di cui essa possedeva la maggioranza azionaria. Gli zaibatsu furono smembrati (parzialmente) con una delle prime riforme imposte dagli americani subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, perché ritenuti corresponsabili della politica espansionistica e militaristica del Giappone. In realtà, almeno fino agli anni Trenta cioè fino alla militarizzazione del Governo, essi furono strenui difensori del sistema parlamentare e di una politica estera basata sul concerto delle nazioni con la nota «diplomazia di Shidehara». Dalle ceneri ancora calde degli zaibatsu sono nati gli odierni keiretsu, gruppi di «imprese allineate» formalmente indipendenti: privi della holding e con una proprietà polverizzata, essi sono caratterizzati da possesso azionario incrociato allo scopo di aggirare i limiti imposti dalla Legge Anti-trust voluta dagli occupanti americani. Altri
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elementi caratterizzanti i keiretsu sono indicati nel riquadro che segue.
Keiretsu Gruppi di imprese formalmente indipendenti ma di fatto coordinate strettamente tra loro. I principali keiretsu sono orizzontali (Mitsui, Mitsubishi, Sumitomo, Sanwa) e hanno i seguenti meccanismi di integrazione: • partecipazioni azionarie incrociate; • associazione dei presidenti (shachō-kai); • una main bank e una trading company per ciascun keiretsu; • scambi di dirigenti; • one-set principle (di norma, una sola azienda per ogni settore al fine di scongiurare lotte interne al gruppo). I keiretsu verticali, nati nel dopoguerra (Sony e Honda), si occupano della produzione e della distribuzione di un determinato prodotto in un determinato settore.
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Dopo lo scoppio della bolla speculativa, per far fronte alla crisi i keiretsu sono stati profondamente ristrutturati attraverso «grandi fusioni» (per esempio, tra Mitsui e Sumitomo) e l’immissione di capitali esteri (capitali francesi alla Nissan in crisi). Agli albori del capitalismo nipponico, il settore agricolo era dominato dal sistema dei «proprietari terrieri parassiti» (kisei-jinushi), latifondisiti non coltivatori, la cui rendita fondiaria depositata nelle banche locali si trasformava in «capitale», che di norma era investito nelle aziende della filatura del cotone e della dipanatura della seta, i veri settori trainanti della prima rivoluzione industriale giapponese. Il modello di crescita del Giappone, fin dal periodo Meiji (1868-1912), sembra poggiare sui seguenti tre «pilastri» che, con alcune modifiche, perdureranno nella seconda metà del XX secolo: • uno stato dirigista: a questo riguardo, esempi significativi sono la «deflazione Matsukata», che come accennato consentì la formazione di grandi conglomerati oligopolistici nel periodo Meiji, e le «direttive» del MITI nel secondo dopoguerra; • un’economia duale: da una parte i grandi gruppi (zaibatsu, poi keiretsu) e dall’altra un esercito di PMI; • un sistema finanziario rigidamente regolamentato: preferenza per il credito bancario (a buon mercato), con
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abbondanza di risparmio (come di norma avviene in tutte le società confuciane). Per quanto riguarda il primo punto, è necessario precisare che in questa fase lo Stato giapponese è certamente interventista, anzi dirigista, ma non è ancora «sviluppista». Infatti, il programma politico lanciato dai riformatori Meiji e portato avanti successivamente dai partiti politici al potere durante la cosiddetta «Democrazia Taishō»16 (nel secondo e terzo decennio del secolo) e ancora più dai governi militari degli anni Trenta e Quaranta, fu «paese ricco-esercito forte» (fukokukyōhei)17, un programma mercantilista (alla List) in cui lo sviluppo economico non è l’obiettivo prioritario ma subordinato alla potenza militare. Scopo finale era, infatti, evitare di diventare una semicolonia come accaduto alla Cina, e possibilmente diventare una potenza imperialista sul modello di quelle europee, come poi di fatto avvenne con l’annessione di Taiwan e della penisola coreana. «Sviluppista» in senso stretto lo Stato giapponese lo diventerà dopo l’olocoausto atomico, allorché, affidata di fatto la gestione della politica estera a Wasghington, esso concentrerà le energie del paese per la crescita e la conquista non più di territori ma di mercati. Fin dalle sue origini, la struttura del capitalismo giapponese presenta un doppio squilibrio: ritardo dello sviluppo agricolo rispetto a quello industriale nel suo complesso, e
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debolezza dell’industria pesante (a eccezione del settore strategico, gestito dallo Stato) nei confronti dell’industria estrattiva e tessile. A questo doppio squilibrio può essere correlato l’atteggiamento bifronte assunto già in questo periodo dal Giappone nelle sue relazioni con gli altri paesi, contenente in embrione quegli antagonismi che avrebbero spinto Tokyo alla Guerra del Pacifico: forte dipendenza economica e politica dalle potenze occidentali (Inghilterra e Stati Uniti) e aggressività verso i deboli paesi dell’Asia Orientale (Corea, Taiwan, Cina). Secondo alcuni studiosi, specie di formazione marxista, i governi giapponesi del periodo Meiji avrebbero dovuto perseguire una politica di allargamento della domanda interna e di redistribuzione del reddito, anziché imitare l’imperialismo occidentale aggredendo i paesi vicini. C’è da chiedersi come realisticamente i governanti giapponesi avrebbero potuto allargare la domanda interna, date le oggettive condizioni socioeconomiche del Giappone da una parte e i pesanti condizionamenti posti dalle potenze occidentali dall’altra: l’alternativa, come s’è detto, era la semicolonizzazione del paese. Dal punto di vista economico, la Prima Guerra Mondiale fu per il Giappone una fortuna inaspettata (come lo sarebbe stata la guerra di Corea all’inizio degli anni Cinquanta) in quanto permise la transizione dalla monoesportazione di prodotti primari all’esportazione di manufatti più elaborati. Fino
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alla Grande Crisi del 1929, che il Giappone superò prima dell’Occidente, l’economia giapponese era relativamente aperta, e indubbi furono i progressi economici registrati a quel tempo. La crescita fu costante, anche se tutto sommato non particolarmente brillante: dal 1887 al 1930 il tasso medio di crescita fu un rispettabile 3 per cento. Il secondo e il terzo decennio fu il periodo della «democrazia Taisho», caratterizzata da governi partitici e da una politica estera basata sul concerto delle nazioni: un’esaltante stagione di grande apertura alla cultura occidentale, conclusasi prematuramente sotto i colpi incrociati della sinistra militante e, soprattutto, della destra militaristica. Con l’avvento dei governi militari agli inizi degli anni Trenta, il paese «rientra in Asia»: si rinchiude nel più angusto particolarismo culturale, sprofondando nella «valle oscura» (kurai tanima) che lo avrebbe condotto all’immane disastro della Guerra del Pacifico18. In campo economico, durante la fase del militarismo si ebbe un triplice movimento: la creazione di un’industria pesante di grande ampiezza per finalità essenzialmente belliche (con l’istituzione dei cosiddetti «nuovi zaibatsu», a capitale largamente statale); l’aumento del tasso di crescita a circa il 5 per cento annuo; l’impoverimento assoluto della popolazione. Per quanto riguarda i rapporti con l’estero, il prosieguo dell’irresistibile avanzata nipponica sul continente è ben noto: la costituzione dello stato fantoccio del Manchukuo (1931), la
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feroce aggressione alla Cina su vasta scala a partire dall’incidente del Ponte di Marco Polo, nel 1937, il temerario attacco di Pearl Harbour nel 1941, la conquista nel giro di pochi mesi di buona parte del Pacifico. Ancor più noto è il suo tragico epilogo: l’olocausto atomico di Hiroshima e Nagasaki, l’«insopportabile» resa senza condizioni al nemico e l’occupazione straniera, la prima nella storia bimillenaria dell’arcipelago. In questo primo mezzo secolo di attiva presenza nel proscenio internazionale, il Giappone fu responsabile di immani sofferenze e terribili eccidi nei confronti dei popoli vicini facenti parte della medesima civiltà sinica. Il suo dominio fu impietoso: massacri (Nanchino), esperimenti biologici sui prigionieri di guerra cinesi, «donne conforto» per lo più coreane. Obiettivo era la «giapponesizzazione» delle colonie, particolarmente di Taiwan (dove dal 1937 fu abolito l’uso del cinese) e della Corea, considerata un piccolo Giappone da far crescere: si voleva la trasformazione dei fieri coreani in fedeli sudditi del Tennō imponendo perfino la nipponizzazione di nomi e toponimi. Alla repressione culturale si aggiungeva un duro sfruttamento economico, sottomettendo gran parte della Cina e del Sud-est asiatico con il programma panasiatico della «Sfera di Coprosperità della Grande Asia Orientale». In pratica si cercava di unificare l’Asia Orientale (8 milioni di kmq e 450 milioni di abitanti con le più ricche fonti di materie prime e di
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derrate tropicali) analogamente a quanto Hitler tentava di fare in Europa. Il tentativo fallì anche in Asia, ma contribuì in maniera decisiva a dissolvere il dogma della superiorità occidentale, creando così le premesse per la futura decolonizzazione. Va aggiunto che il Giappone già in questa fase svolse il ruolo di precursore dell’industrializzazione e della rinascita dell’Asia: colonizzando e trasformando l’economia di Taiwan e della Corea, creava le precondizioni per il futuro sviluppo del Polo confuciano e, segnatamente, delle due principali «tigri asiatiche». Le caratteristiche dello Stato sviluppista confuciano, di cui quello giapponese è l’ideal type quanto quello renano lo è del capitalismo dell’Europa continentale, saranno illustrate nel capitolo seguente, mentre l’evoluzione dello sviluppo economico del Giappone nel dopoguerra, dall’olocausto atomico all’impatto della Crisi in atto, sarà esaminata in maniera analitica nella Parte Seconda. Note 1. M. Gabel, «Les capitalismes en Europe continental», cit., p. 46, con cui siamo fortemente indebitati per questa sezione. Si veda anche G. Costa e M. Gianecchini, Risorse umane: persone, relazioni e valore, McGraw-Hill, Milano, 2005. 2. M. Gabel, op. cit. 3. In questo senso, il capitalismo francese può essere ricompreso nel modello renano (Ibidem, p. 46). 4. Vedi D. Pittino e A. Moretti, Modelli di capitalismo a confronto (users. uniud.it/moretti/ EGI1/ EGI1-lez16mod-capit.pdf) 5. M. Gabel, op. cit., pp. 47-48, corsivo nostro.
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6. Tra le specificità del capitalismo italiano sottolineiamo il peso elevato delle PMI in relazione al Pil, caratterizzate da una gestione familiare e da un imprenditore che nello stesso tempo è anche proprietario e dirigente. Nelle grandi società private, la proprietà tende a essere concentrata prevalentemente nelle mani di una famiglia. Nell’insieme, rilevante è la presenza dello Stato e degli Enti Locali. Poco sviluppata è la public company di tipo anglosassone; di norma, le banche non partecipano direttamente al controllo delle imprese. Vedi D. Pittino e A. Moretti, Modelli di capitalismo a confronto, cit. 7. M. Gabel, op. cit., p. 49. È stato teorizzato anche un «capitalismo di territorio» nel triangolo produttivo postfordista del «Grande Nord d’Italia», in cui si è andati oltre la fabbrica diffusa e i distretti locali, mettendo al lavoro pezzi di comunità locali: dalla famiglia all’impresa fino alle autonomie territoriali. In questo modello, il territorio si fa motore dello sviluppo anche attraverso il protagonismo di medie imprese, che con una forma di capitalismo a grappolo si qualificano ormai come autentico architrave del modello italiano (vedi Aldo Bonomi di cui segnaliamo Il rancore, Feltrinelli, Milano,2 008). 8. Al fine di mantenere la coesione sociale, il livello dei salari è fissato da un sistema di negoziazioni coordinate fondato sulla solidarietà (compressione della scala sociale) e il vantaggio che esso dà alle imprese più produttive. In questo modo, di fatto si facilita l’inserimento dei giovani nella vita attiva. Vedi Gabel, op. cit. 9. B. Amable, The diversity of Modern Capitalism, Oxford University Press, Oxford, 2003. 10. B. Amable, op. cit., p. 102 e segg.; Idem, «Capitalisme et mondialization: convergence des modéles?», in Le capitalisme mutations et diversité, cit., p. 59 ; Boyer, op. cit., p. 56. 11. Vedi Asia al centro cit., cap. 9 («La via indiana»). 12. Denominazioni alternative sono «capitalismo dirigista», «capialismo nazionalista», «capitalismo pan-asiatico», «capitalismo nippo-asiatico». 13. Questo tema è sviluppato in F. Mazzei, «La specificità della transizione giapponese», in M. Dobb, R. Hilton, E. Hobsbawn, F. Mazzei e I. Wallerstein, Dal feudalesimo al capitalismo, Liguori, Napoli, 1986. 14. F. Mazzei, «Profitto embrionale e differenziazione contadina nel Giappone Tokugawa», Il Giappone, XVI, 1978. 15. Vedi F. Mazzei, Il capitalismo giapponese, cit.; utile può esserer anche Idem, Lo sviluppo del Giappone e l’Occidente, Roma, Fahrenheit 451, 1997, p. 36 ss. 16. Così chiamata dal nome del regno del successore dell’imperatore Meiji, Imperatore Taishō 1912-1926. 17. Espressione ripresa dalla tradizione politica cinese, fu guo qiang bing. 18. Per un’analisi del Giappone degli anni Trenta e per la questione del fascismo giapponese, ricordiamo il saggio del collega e amico, lo yamatologo F. Gatti, che prematuramente ci ha lasciati, Il fascismo giapponese, Franco Angeli, Milano, 1983. Per un’analisi del clima intellettuale, si veda M. Maruyama, Le radici dell’espansionismo: ideologie del Giappone, Ed. Fondazione Agnelli, Torino, 1990.
6. Il capitalismo socialista cinese
Esiste un capitalismo cinese? La maggior parte dei sinologi risponde affermativamene1. Marie Claire Bergère sostiene non solo che la Cina abbia già risolto i maggiori problemi della sua transizione al capitalismo, avendo abbandonato gli strumenti che una volta usava nella gestione di una economia pianificata, ma anche che oggi appare impensabile che questo processo possa essere bloccato, cosa che invece era possibile nel 1989 dopo la crisi politica di Tiananmen, quando i conservatori riportarono in auge per due anni l’ortodossia comunista. La svolta decisiva si ebbe con il celebre «viaggio a Sud» effettuato da Deng Xiaoping nel 1992, cui seguì l’adozione da parte del PCC del progetto di fare della Cina una «economia socialista di mercato». In effetti, l’economia cinese presenta gli elementi essenziali che secondo la Banca Mondiale caratterizzano un sistema capitalistico, anche se in misura e con modalità molto diverse rispetto alle economie occidentali: la proprietà privata dei mezzi di produzione; la libera concorrenza e la libertà di scambi; il mercato del lavoro; la ricerca del profitto come
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motivazione dell’attività economica . Rimangono irrisolti, come vedremo, gravi e complessi problemi in relazione soprattutto al deficit democratico e alla credibilità del suo sistema giuridico. Lo sviluppo del settore privato è avvenuto in due fasi. La prima inizia nel 1978 con il lancio del progetto di «riforme e apertura» di Deng: punto di partenza della liberalizzazione economica grazie al successo ottenuto dal programma di decollettivizzazione dell’agricoltura con il definitivo smantellamento delle comuni popolari. A questo ambizioso programma, definito una vera e propria «rivoluzione silenziosa»3, si affianca una politica prima di tolleranza e poi d’incoraggiamento e incentivazione nei confronti delle piccole imprese private, spuntate come funghi nelle campagne. La seconda fase ha inizio con il summenzionato «viaggio a Sud» di Deng nel 1992, allorché la privatizzazione è estesa al settore statale: le piccole imprese sono per lo più acquistate dagli amministratori locali, mentre le grandi imprese di Stato (SOEs) sono «aperte» agli investimenti diretti esteri (IDE). Secondo dati raccolti da Françoise Lemoine4, il settore privato già nel 1998 ammontava al 50 per cento circa del Pil, e cinque anni dopo ai due terzi (68 per cento). Relativamente più leggero è il peso del settore privato nell’industria: 48 per cento nel 1998, cresciuto al 61 per cento nel 2003. È, poi, leggerissimo nelle grandi imprese industriali, come pure nei
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trasporti e nelle telecomunicazioni, per non parlare del settore bancario. Due sono le date importanti per quanto riguarda la protezione della proprietà privata, che peraltro già la Costituzione del 1982 riconosceva sotto forma di imprese individuali (con meno di otto dipendenti) con il compito di essere complementari al settore statale. Nel 1999, una revisione costituzionale riconosce alle imprese private il ruolo di componenti essenziali dell’economia, mentre l’inviolabilità è garantita con un nuovo emendamento costituzionale del 2004. La liberalizzazione del commercio (all’ingrosso e al dettaglio) e dei prezzi ha luogo già negli anni Ottanta. La residua (e cospicua) regolamentazione riguarda per lo più i prezzi dei servizi pubblici (trasporti, telecomunicazioni) e dei prodotti energetici, come del resto avviene in molte economie occidentali. Comunque sia, oggi più del 90 per cento dei prezzi al dettaglio nel settore industriale e l’80 per cento dei prezzi agricoli sono determinati dal mercato. Par quanto concerne il mercato del lavoro, la sua principale connotazione è indubbiamente il carattere duale: da una parte c’è un settore formale e «organizzato», che riguarda essenzialmente i dipendenti regolari legati con un contratto alle grandi imprese urbane, e un settore informale «non organizzato», costituito da circa 130 milioni di operai per lo più provenienti dalla Cina povera dell’interno, che lavorano nella ricca e sovrappopolata Cina costiera senza contratto e
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senza protezione sociale e con un salario che è inferiore alla metà di quello dei lavoratori organizzati. Il successo straordinario delle industrie esportatrici cinesi è dovuto essenzialmente a questo esercito di precari, che per di più sono i primi a pagare i costi della crisi. Il nuovo codice del lavoro, varato nel 2008, abolisce questo settore imponendo l’obbligo del contratto; ma forti sono le resistenze alla sua applicazione. Anche l’ultimo requisito sembra essere soddisfatto: la ricerca del profitto come motivazione economica. Come è noto, lo slogan più diffuso in Cina è «arricchitevi!»: parola d’ordine lanciata nel 1982 ma che acquistò rilevanza nazionale dieci anni dopo in occasione nel viaggio di Deng a Sud. E non mancò chi allora definì il sistema politico cinese «mercato-leninismo»5. Comunque sia, sollevare la questione del capitalismo cinese è pertinente proprio per il suo carattere ibrido, per le sue accentuate specificità a cominciare dal ruolo dello Stato che continua a orientare lo sviluppo economico e le scelte settoriali. Ma questo avviene anche nell’economia giapponese, e nessuno ne nega il compiuto carattere capitalistico. In effetti, dal punto di vista degli stadi di sviluppo, il capitalismo cinese di oggi può corrispondere in un certo senso al capitalismo industriale del Giappone Meiji, ma con una differenza importante: mentre nel Giappone Meiji, come del resto nelle strategie mercantilistiche della Corea del Sud e della stessa Europa in uno stadio di sviluppo paragonabile a quello della Cina di oggi, si cercò di impedire investimenti
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esteri massicci, Pechino ha spalancato le porte agli IDE, creando a questo scopo, tra l’altro, zone economiche speciali (ZES). Questa diversità può essere vista come un vincolo imposto dalla globalizzazione, vincolo che la dirigenza cinese ha saputo trasformare in un’efficace leva per lo sviluppo. Qualche studioso, s’è chiesto se sia possibile un capitalismo senza capitalisti. A differenza di quanto avvenuto in Occidente, in Cina (come del resto in Giappone) non c’è stata una rivoluzione borghese, e il capitalismo non è figlio della borghesia. Secondo la tradizione confuciana, i mercanti (in genere ricchi ma socialmente disprezzati), che in qualche modo possono essere assimilati ai nostri «borghesi», costituivano l’ultimo gradino della stratificazione sociale, al di sotto dei funzionari-letterati (élite dominante), dei contadini (rispettati perché produttori per eccellenza ma tenuti in miseria) e degli artigiani (considerati un po’ produttori e un po’ sfruttatori). Se, come s’è detto, il capitalismo giapponese ha una nascita incestuosa, la nascita di quello cinese è anche illegittima avendo come padre lo Stato comunista e come madre la burocrazia confuciana (con buona pace di Karl Marx e di Max Weber6). È lo Stato, infatti, che dall’alto ha imposto l’accumulazione a marce forzate e con ripercussioni sociali terribili, creando in questo modo una frattura netta con il passato maoista, analogamente a come aveva fatto cent’anni prima lo Stato Meiji che, rompendo con il passato feudale-
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samuraico, apriva il Giappone alla tecnologia occidentale conservando però gelosamente i valori della tradizione. La Cina, quindi, come il Giappone non ha una borghesia come «classe antagonista», ha però i capitalisti. Nell’Impero del Centro, «i germi del capitalismo», per usare un’espressione di moda nella sinologia degli anni Settanta, sono già rintracciabili nell’XI secolo, durante la dinastia Song (960-1279), che segnò il passaggio definitivo da una società aristocratica a una società «burocratica», gestita dai funzionari-letterati reclutati sulla base di un complesso sistema di esami statale. Dal punto di vista economico, si combinava la risicoltura intensiva con i traffici commerciali. I «germi» diventarono ben evidenti durante la dinastia dei Ming (1368-1662): sviluppo di manifatture imperiali, costituzione di un solido ceto mercantile, grandi correnti commerciali, diffusione di imprese rurali e, soprattutto, l’affermarsi di una società «aperta» in cui i quattro ordini (o stati) sociali non erano chiusi ma consentivano la mobilità sociale, che – è bene ricordarlo ancora una volta – di norma era preclusa sia in Europa prima della Rivoluzione francese sia in Giappone prima della Restaurazione Meiji del 1868. Nel 1500, secondo recenti ricerche condotte anche in Occidente, la Cina era la maggiore potenza economica del mondo, seguita dall’India e poi dall’Europa nel suo insieme. Per il sinofilo Quesnay, che come si è visto è considerato mediatore tra il «wu-wei» taoista e il laissez-faire di Adam
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Smith, l’Impero del Centro rappresentava «ciò che l’Europa sarebbe potuta diventare se i suoi Stati si fossero riuniti sotto un unico sovrano»7; lo stesso Smith, come vedremo, considerava il mercato cinese il più vasto del mondo8. Il declino della Cina e la parallela rapida ascesa dell’Europa, divenuta in poco tempo centro del mondo per potenza, ricchezza e scienza (movimento parallelo che Ken Pomeranz ha definito «la grande divergenza»9), precedono la prima Guerra dell’Oppio (1843). Ai primi decenni del XIX secolo, lo Stato Imperiale, già in decadenza, è indebolito ulteriormente dalle rivolte interne e, soprattutto, dalle potenze coloniali europee alle quali, alla fine del secolo, si unisce il Giappone (Guerra Sino-giapponese del 1894-95). La debolezza dello Stato Imperiale è considerata una delle cause dell’insuccesso del primo grande tentativo di modernizzazione fatto dai riformatori cinesi su imitazione della Restaurazione Meiji10. Dopo l’avvento della Repubblica nel 1912, la Prima Guerra Mondiale rappresentò un potente stimolo per lo sviluppo permettendo l’emergere di grandi imprese: «un’età d’oro» che durò fino al colpo di stato di Chiang Kai-shek nel 192711. Nel successivo «decennio di Nanchino» (1927-37), si ebbe una forma di capitalismo di stato basato sull’alleanza tra il regime nazionalista di Chiang e i capitalisti, alleanza che portò a una ragguardevole crescita del settore pubblico, all’inquadramento del settore privato, allo sviluppo delle
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industrie pesanti e al controllo sulle banche. Questo processo fu bloccato dall’aggressione nipponica, mentre la successiva guerra civile tra i comunisti di Mao e i nazionalisti del Kuomingtang disorganizzò la vita economica: in particolare, «la corruzione nell’entourage di Chiang Kai-shek, il saccheggio delle banche, il fallimento della privatizzazione delle imprese recuperate dai giapponesi o dai loro collaboratori, tutto ciò portò alla rottura tra capitalisti e il regime nazionalista»12 e, quindi, alla fine del capitalismo di stato. Conclusosi il «secolo dell’umiliazione» con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 e superato il trauma della Rivoluzione Culturale, negli ultimi tre decenni il volto della Cina e la sua posizione nella comunità internazionale sono profondamente mutati. In particolare, la struttura della società si è notevolmente differenziata, con l’affermarsi di élite moderne che però in larga misura devono la loro ascesa sociale al Partito o all’essere membri della burocrazia. Significativamente, il 90 per cento dei «nuovi ricchi» cinesi è figlio di alti funzionari; nello stesso tempo va notato che nel 2005, tra 2900 membri dell’Assemblea Nazionale del Popolo ben 200 erano uomini d’affari13. Questa nuova élite economica composita, creata dal regime in larga parte per trasformazione di ex burocrati, in realtà ha ben poco di «borghese»: essa è costituita da manager legittimati dalla loro competenza in campo economico ma sensibili all’arbitrio del potere e, in ogni caso, non portatori di
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valori propri. Nelle parole di Bergère, essa rappresenta una borghesia «consenziente»14 in un capitalismo dominato dallo Stato. Secondo alcuni studiosi15, la sfiducia del regime nei confronti di questa nuova classe imprenditoriale, sfiducia che come abbiamo visto affonda le radici nella tradizione confuciana, sarebbe dimostrata anche dal fatto che essa abbia «aperto» prima e in misura più ampia agli investitori stranieri, segnatamente ai cinesi d’oltremare (la potente «diaspora cinese»), che non agli investitori privati nazionali. Quindi, la Cina non ha una borghesia, come non ha una «società civile» per la semplice ragione che è estranea alla tradizione sociopolitica sinica la nozione stessa di civis16; ha però i capitalisti e ha pure un mercato. Un altro mito storiografico da sfatare è che il mercato sia un’invenzione occidentale: come già ricordato, lo stesso Adam Smith, che pure aveva un atteggiamento equilibrato tra i sinofili come Quaesnay, Voltaire e Leibniz, che guardavano alla Cina con ammirazione, e i sinofobi come Montesquieu, Rousseau e Diderot, che al contrario consideravano la Cina negativamente per il suo dispotico regime politico, affermava che il mercato cinese non era forse «inferiore per estensione al mercato di tutti i vari paesi europei presi complessivamente»17. Ancora più numerosi sono gli analisti che si chiedono se sia possibile un capitalismo senza la democrazia rappresentativa ovvero con un sistema normativo istituzionale inadeguato, e se i tanti problemi, su cui insistono alcuni
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«sinopessimisti», non possano addirittura mettere in pericolo il successo del programma di riforma varato nel 1978. Sul deficit democratico, ovvero sulla mancata «quinta modernizzazione», e sulle tante criticità (sicurezza sociale, sistema bancario, governance delle SOEs ecc.) e sulla vasta gamma di vulnerabilità (sociali, ambientali, sanitarie ecc.) ci si soffermerà nella seconda parte di questo volume. Qui è sufficiente rilevare che, contrariamente a un’opinione diffusa, il PCC non è un ostacolo alla transizione capitalista, ma – paradossalmente, almeno per noi occidentali – ne è il catalizzatore, l’attore-chiave. D’altra parte, il Partito forse non ha avuto scelta: dopo il tentativo dei primi anni di introdurre elementi di flessibilità e autonomia nell’organizzazione del sistema economico senza però rompere con il sistema socialista, apparve evidente che «per ironia della sorte, il capitalismo era la sola alternativa che permetteva al PCC di rimanere al potere… In cambio della continuità della dittatura del Partito, il capitalismo avrebbe offerto a diversi settori della società un minimo di patto politico, basato sulle possibilità di arricchimento personale e sullo sviluppo del potere economico rispondente alle aspirazioni nazionalitiche dell’élite e di gran parte della popolazione»18. Un’altra idea errata diffusa in Occidente attribuisce l’ascesa economica della Cina a una presunta conversione al neoliberalismo: al contrario, come enfatizzato da Stigliz, il successo della Cina è dovuto semmai alla capacità di Pechino di non aderire al Washigton
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Consensus, rendendosi essa stessa promotrice – come vedremo – di un Consensus alternativo19. Concludiamo questo capitolo sottolineando la rilevanza delle numerose e significative specificità del capitalismo cinese, le quali, secondo Marie Claire Bergère, più che disfunzioni rispetto a un modello ideale di capitalismo, dovrebbero essere considerate specifiche di una varietà autonoma di capitalismo. Tenendo conto che queste specificità in larga parte sono condivise dalle esperienze economiche degli altri paesi capitalisti confuciani come Giappone, Corea del Sud e Taiwan, si ritiene euristicamente utile inserire anche il capitalismo socialista cinese nel paradigma più generale dello «Stato sviluppista confuciano». Note 1. Vedi M.C. Bergére, Capitalismes et capitalistes en Chie, Paris, 2007; F. Lemoine, Economie de la Chine, La Decouverte, Paris 2006; Idem, «Y a-t-il un capitalisme chinois?», in Le capitalisme: mutations et diversité cit., che ci è stato particolarmente utile. Ricco di stimoli anche l’articolo «The Emergence of Capitalism in China: An Historical Perspective and its Impact on the Political System», Social Research, March 22, 2006 di Jean-François Huchet, direttore dell’Istituto Francese di Ricerche sulla Cina Contemporanea (CEFC), Hong Kong. 2. Lemoine, op. cit., p. 51. 3. C. Albert, «Chine: le décollage alimentaire», Etudes Rurales, nn. 99-100 (dicembre 1985). Vedi anche F. Gipouloux, F., La Chine du 21e siècle. Une nouvelle superpuissance?, Armand Colin, Paris, 2005. 4. Ibidem, p. 52. 5. E. Wright, «To Be Rich is Glorious», World Press Review, 41/7, 1994, cit. in G. Arrighi, op. cit. p. 27. 6. Non ritengo che Marx si sarebbe meravigliato più di tanto, se si tiene conto delle risposte che egli diede ai rivoluzionari russi, fra cui Vera Zasulich, esuli in Svizzera. Vedi Il Capitalismo giapponese cit. Per alcune riflessioni sulla posizione di Weber circa la nascita del capitalismo in
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Giappone, può essere utile F. Mazzei, «Etica economica spirito del capitalismo nella modernizzazione del Giappone», Il Giappone, 1982. 7. F. Quesnay, «Despoting in China», in F. Schurmann e O. Schell (a cura di), Imperial Cina, Vintage, New York, 1969 (trad. it. Cina 3000 anni, Gerardo Casini Editore, Roma, 1968). 8. Smith considerava il percorso di sviluppo seguito dalla Cina «naturale» perché basato sul commercio interno, e lo contrapponeva a quello «innaturale» europeo, basato sul commercio estero. 9. K. Pomeranz, The Great Divergence: China, Europe and the Making of the Modern World Economy, Princeton University Press, Princeton, 2001 (trad. it. La grande divergenza: la Cina, l’Europa e la nascita dell’economia mondiale moderna, Bologna, il Mulino, 2004). 10. Vedi Mazzei e Volpi, Asia al centro, op. cit. 11. M.C. Bergère, op. cit. 12. Ibidem. 13. Lemoine, «Y a-t-il un capitalisme chinois?», cit., p. 54. 14. M.C. Bergère, op. cit. 15. Y. Huang, Selling China, Foreign Direct Investiments during the Reform Era, Cambridge University Press, Cambridge, 2003, cit. da Lemoine, op. cit., p. 54. 16. Per un approfondimento su questo punto si rinvia ad Asia al centro, cit. 17. A. Smith, Indagine sulla natura e ler cause della ricchezza delle nazioni, ISEDI, Milano, 1973, p. 675, cit. in Arrighi, op. cit., p. 16. 18. J.F. Huchet, op. cit. Tra i fattori predisponenti la transizione al capitalismo, rispetto all’Unione Sovietica, l’autore indica innanzitutto la minore durata del regime comunista (solo un quarto di secolo) e le conseguenze inintenzionali dell’eredità maoista, vale a dire lo sviluppo incompleto (e atipico) del socialismo imposto da ciò che, secondo B. Naughton, aveva generato un’economia «per metà anarchica e per metà pianificata» (B. Naughton, Growing out of the Plan: Chinese Economic Reform, 1978-1993, Cambridge University Press, Cambridge, 1995). 19. Rileviamo in particolare che il superamento del Maoismo ha facilitato l’affermarsi di un «managment macroeconomico de-ideologizzato», che ha consentito a Pechino di rimanere sorda alle sirene del Washington consensus e agli apologeti del neoliberalismo, come già sottolineato da Stiglitz (Globalization and Its Dicontents, W.W. Norton, New York, 2002, trad. it. La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino, 2006).
7. Il polo confuciano e lo stato sviluppista
Come s’è detto, escludendo la parte indianizzata e islamizzata, l’Estremo Oriente in senso geoculturale coincide sostanzialmente con il Mondo Confuciano, cioè con un’area che comprende tutti i paesi che sono stati profondamente influenzati dalla civiltà cinese: la Cina e le sue proiezioni esterne (Hong Kong, Taiwan e Singapore), la penisola coreana, l’arcipelago giapponese e un paese del Sud-est asiatico, il Vietnam. Abbiamo visto anche che in senso geoeconomico la nozione di Estremo Oriente – e in senso lato di Polo confuciano – è più vasta, travalicando i confini della civiltà sinica propriamente detta, includendo anche il Sud-est asiatico indianizzato/islamizzato: la penisola indocinese, la penisola malese, l’arcipelago indonesiano e, secondo alcuni, le Filippine1. Questa estensione della nozione di Polo confuciano (un po’ forzata invero) all’Asia Sud-orientale è giustificata da numerosi fattori. Innanzitutto, bisogna tener presente che in questi paesi opera una numerosa e attiva «diaspora» di cinesi: 7,5 milioni in Indonesia, 6,5 milioni in Thailandia, 4 milioni
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nelle Filippine, più di 5,5 milioni in Malaysia (pari a più di un terzo della popolazione), 1,5 milioni in Vietnam, 2,8 milioni a Singapore (75 per cento della popolazione). Ma più del dato demografico in sé, particolarmente significativo è il ruolo svolto dai cinesi d’oltremare sia nelle economie di questi paesi sia nel panorama geostrategico della regione in quanto Pechino tende a considerare la diaspora parte integrante della «Grande Cina», la cui frontiera tradizionalmente era una nozione più culturale che territoriale. Va anche ricordato che alla diaspora è dovuta una quota rilevante degli investimenti esteri che sono affluiti nella RPC soprattutto negli anni Ottanta. In secondo luogo, bisogna tener conto dell’accentuato ecclettismo geoculturale del Sud-est asiatico, causato dalla sovrapposizione di molteplici influenze prodottesi nel corso dei secoli: nella complessa stratificazione culturale della regione, infatti, evidenti e significativi sono gli effetti prodotti dalla sinizzazione, dall’induizzazione, dall’islamizzazione e infine dal colonialismo occidentale. Ma l’elemento forse più importante di omogeneizzazione geoeconomica va ricercato nel fatto che le grandi potenze confuciane del Nord-est, Giappone prima e Cina poi, sono state non solo forza trainante ma anche modello di riferimento per lo sviluppo economico dell’intera area, donde il già ricordato slogan Look at East (guardare al Giappone, non all’Occidente) come pure il dibattito sugli Asian values, considerati da alcuni intellettuali e
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politici asiatici come la base su cui costruire il «panasiatismo», vale a dire la possibilità di un’unità dell’Asia che, di fronte all’Occidente, è alla ricerca di una propria identità. Il panasiatismo è nato in Giappone tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo come rigetto di un mondo imposto all’Asia dalle potenze imperialistiche di un Occidente visto come materialistico, individualistico, e minaccioso, insomma come l’opposto dell’Oriente caratterizzato da valori quali il comunitarismo, il senso della famiglia e del lavoro, tutti valori che si ritrovano nel Confucianesimo. Pioniere del panasiatismo può essere considerato lo scrittore giapponese Okakura Kakuzō (1862-1913): nel Risveglio del Giappone (1904) egli esalta la semplicità della vita in Asia, rappresentata dal monaco indiano, dal contadino cinese e dal guerriero giapponese. Un’Asia che non è disposta a sacrificare la propria identità culturale e il proprio senso estetico alla moderna tecnologia2. È sullo sfondo di questo panasiatismo che il Giappone, sospinto da ambizioni egemoniche, si autoassegna il compito di restituire «l’Asia agli asiatici» liberandola dal gioco coloniale occidentale. Anche in Cina, a parte il tradizionale panasiatismo sinocentrico sempre riaffiorante, non manca chi ritiene che l’Asia abbia una propria distinta cultura. Sun Yat-sen, il padre della Repubblica cinese, riprendendo l’antica teoria politologica menciana, chiama questa cultura «la via del Re», Wandao,
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basata su un governo benevolente e un approccio «armonico». Questa concezione politica, che ricorda la «quarta cultura di Zhao» di cui si è parlato nell’Introduzione, si contrappone alla «via dell’Egemone», Padao, basata sull’uso della forza e su un approccio a somma zero; e per questo condannata dai confuciani. Per Sun, «l’unità dell’Asia passa attraverso l’integrazione delle diverse religioni, credenze, nazioni e società. Essa nasconde una dinamica socialista che s’oppone al capitalismo e all’imperialismo, e porta a un nuovo tipo di internazionalismo»3. Anche in Occidente esiste una concezione in qualche modo panasiatica: è la nozione di «schiavità generale», o «modo di produzione asiatico», elaborata da Marx ed Engels sotto l’influenza degli economisti inglesi (da Adam Smith a Richard Jones a Hohn Stuart Mill), nozione poi ripresa da Karl Wittfogel in un saggio molto discusso dal titolo Dispotismo orientale pubblicato nel 1957. Due anni prima, alla Conferenza di Bandung c’era stata una fugace apparizione del panasiatismo o meglio dell’afro-asiatismo, in cui si estrinsecava la volontà d’indipendenza rispetto alle due superpotenze da parte dei paesi cosiddetti «non-allineati». Un vero rinnovamento nel pensiero panasiatico si è avuto con la proposta dei «valori asiatici» fatta da leader dei paesi del Sud-est asiatico, come Lee Kuang Yew (primo ministro di Singapore dal 1959 al 1991) e il già menzionato Mahatir Bin Mohammed, primo ministro malese dal 1981 al 2003. E
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questo è avvenuto nella seconda metà degli anni Ottanta, allorché il Giappone trainava verso lo sviluppo le «tigri asiatiche di seconda generazione» (Malaysia, Thailandia, Indonesia, Filippine). Da tempo ormai questa regione economica, che in senso lato definiamo «confuciana», si è affermata come il più dinamico dei vertici del triangolo economico mondiale, il che ha determinato uno spostamento del baricentro della geoeconomia del pianeta dall’«antico mondo» europeo all’«altro mondo» asiatico, o meglio dall’Occidente all’Estremo Oriente, soprattutto grazie alla crescita straordinaria del Giappone e poi della Cina4. Ne consegue la formazione di un’area economica sinocentrica, avendo Pechino idealmente preso da Tokyo il testimone dello sviluppo confuciano. Era fin troppo ovvio che anche il «miracolo economico» di questa regione fosse destinato a trovare intoppi e/o a esaurirsi. Ma, nonostante la grave «crisi asiatica» iniziata nell’estate 1997 in Thailandia e il lungo tunnel della crisi imboccato dal Giappone agli inizi degli anni Novanta, la crescita è continuata e le previsioni sono ottimistiche. È convinzione diffusa che in breve tempo l’Asia Orientale produrrà una quota del Pil mondiale pari a quella degli altri due vertici del triangolo economico5. Questo ottimismo è confortato dalle previsioni del FMI e della Banca Mondiale, grazie – ripetiamolo – soprattutto alla straordinaria perfomance della Cina che, come vedremo nella Parte Seconda, sta cercando di eliminare
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alcune distorsioni del proprio sistema economico usando la Terza Grande Crisi come leva.
Tradizione politologica cinese Tradizione taoista: «Non-agire» (wuwei) → laissez-faire? Tradizione confuciana: Via del re (wandao) → «Valori asiatici» Contrapposta alla Via dell’egemone (padao) → legismo/totalitarismo
Le visioni dell’Occidente: Dopo la sinofilia di Voltaire e dei fisiocratici, prevale la tesi negativa della immobilità della Cina e del dispotismo orientale → «modo di produzione asiatico» Oggi, rivalutazione dello stato confuciano: → teoria dello stato sviluppista confuciano.
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Lo sviluppo della regione è avvenuto in tre distinte ondate. Nella prima fase, iniziata negli anni Settanta, il Giappone ha trainato verso lo sviluppo le cosiddette «quattro tigri asiatiche», o NIEs (Newly Industrialized Economies): Corea del Sud e Taiwan (entrambe già colonie giapponesi), Hong Kong e Singapore (già colonie inglesi). Nella seconda fase, è stata la volta di importanti paesi del Sud-est asiatico (le NIEs di secondo generazione: Thailandia, Malaysia, Indonesia, Filippine); infine la Cina, cui poi si è aggiunta l’India. Come spiegare questo straordinario sviluppo integrato? Le spiegazioni date dagli studiosi possono essere raggruppate in due paradigmi contrapposti. Il primo è basato sull’approccio neoclassico, che privilegia l’importanza del Mercato, la «mano invisibile», in grado di lanciare i «segnali giusti» (getting basic rights): apertura al mercato mondiale, non distorsione dei prezzi, ampio spazio al settore privato ecc. In questo contesto lo Stato è semplice arbitro delle regole nella rivalità tra interessi privati. Il secondo approccio, che possiamo definire culturalistico, pone in rilievo il ruolo della «mano visibile» e i caratteri specifici della regione, enfatizzando quelli di natura culturale. In questo secondo approccio, particolare importanza è attribuita al ruolo dello Stato confuciano, che – come sappiamo – è interventista in quanto organizzatore dell’interesse comune (al quale l’interesse privato è suborditato), identificato oggi per l’appunto nello sviluppo economico del Paese. Ricordiamo che nella
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tradizione sinica il «pubblico» (in giapponese watakushii, shi) ha la preminenza sul «privato» (oyake, kō), come del resto avveniva nel contesto greco da cui ha avuto origine l’ideale democratico6. L’assunto teorico della prospettiva analitica neoclassica è il principio del vantaggio comparato come fattore di cooperazione, un «vantaggio comparato per stadi», cioè sfasato nel tempo tra le economie della regione. Molti studiosi sostengono che la strategia EOI (Export Oriented Industrialization, contrapposta a ISI, Import Substitution Indutrializazion) adottata in fasi diverse da paesi dell’Asia Orientale ha messo in moto un processo d’integrazione economica secondo un modello esplicativo noto con la metafora del «volo delle anatre selvatiche» e teorizzato originariamente negli anni Trenta dall’economista giapponese K. Akamatsu con riferimento al ruolo economico di Tokyo nello sviluppo della «Grande Asia Orientale». Come si evince dalla Figura 7.1, in siffatto modello il baricentro della produzione si sposta gradualmente lungo due traiettorie: una geografica da Nord a Sudest, dal Giappone alle Filippine via Thailandia; e l’altra tecnologica, cioè dai settori a basso valore aggiunto e ad alta intensità di manodopera (per esempio, quello tessile e calzaturiero) a settori a capitale sempre più intensivo e, successivamente, ad alta tecnologia: siderurgia, auto, cantieristica, poi petrolchimica (materiali sintetici), quindi ottica, elettronica, telecomunicazioni,
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robotica, computer e microprocessori; infine, la ricerca più avanzata (biotecnologie, spazio, nucleare, cosmesi, informatica e, nel nuovo secolo, nanotecnologie, genoma umano, engineering). In testa alla formazione di volo troviamo il Giappone, il più avanzato tecnologicamente e con il più alto costo del lavoro. Seguono le «quattro tigri» o NIEs, pronte a occupare settori produttivi lasciati liberi dal capofila; a loro volta, le «tigri» lasciano le produzioni considerate non più competitive sul mercato ai «tigrotti» (o «anatre ritardatarie»), in cui il costo della manodopera è più basso; si tratta, in genere, di componenti o di prodotti «maturi», in altre parole di produzioni che essendo ormai standardizzate non richiedono tecnologie particolarmente complesse. Semplificando, possiamo affermare che la posizione occupata da ciascuna economia nella formazione di volo è determinata da due fattori essenziali: il livello dello sviluppo tecnologico e il costo della manodopera.
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Figura 7.1 Il volo delle anatre selvatiche.
La straordinaria crescita della Cina, in concomitanza con la crisi del Giappone da una parte e l’infittirsi della rete transnazionale prodotta dalla globalizzazione dall’altra, hanno avuto l’effetto di modificare sensibilmente rapporti e gerarchia nell’Asia Orientale, scompigliando «il volo delle anatre», e, più in generale, nell’intero sistema economico globale. In
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effetti, oggi questo modello esplicativo appare quanto meno obsoleto. L’interpretazione culturalista alternativa, elaborata negli anni Ottanta, ha la sua più nota espressione nella teoria dello «stato sviluppista confuciano». Abbiamo visto che essa trae ispirazione dall’esperienza del Giappone, che in quegli anni era al massimo della sua potenza industriale e commerciale e il cui sviluppo era avvenuto sotto l’attenta regia dei burocrati del MITI; il modello poi si era esteso a tutti i paesi confuciani che avevano adottato una strategia EOI. Secondo questa interpretazione, i cosiddetti Asian values sono un fattore esplicativo rilevante – anche se ovviamente non esclusivo – dello sviluppo economico dell’Asia Orientale. Questo modello di capitalismo presenta tutte le caratteristiche che Bruno Amable ha indicato come specifiche nel modello da lui definito «asiatico»7. Ciò che differenzia il modello «sviluppista» è la sua forte connotazione storico-culturale, avendo come fattore dominante una particolare forma di Stato interventista/dirigista che non rinnega affatto il Mercato. Esso ha le sue radici nello stato confuciano-taoista proprio della tradizione imperiale cinese su cui ci siamo soffermati nell’Introduzione. Si pensi ai dibattiti sui «monopoli statali del sale e del ferro» che hanno costellato la lunga storia della Cina. Questo modello è molto vicino al «capitalismo nippo-asiatico» teorizzato in un recentissimo saggio da Bernard Stevens8, docente di filosofia giapponese all’Università di
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Lovanio, sulla base dei contributi del politologo Maruyama Masao (maitre à penser dei «progressisti» giapponesi dell’immediato dopoguerra)9 oltre che degli economisti «revisionisti» americani. Lo stato sviluppista confuciano si caratterizza innanzitutto per avere un obiettivo prioritario: lo sviluppo del paese. Inoltre è uno strong State, uno «stato forte» nel senso che nel perseguimento del proprio obiettivo è capace di una notevole autonomia nei confronti dei gruppi forti, dei potentati economici nazionali e transnazionali. Pertanto, «forte» non significa necessariamente autoritario: a Singapore e in Cina lo è, ma non lo è in Giappone e nemmeno nella Corea del Sud che fino agli anni Ottanta era governata da militari. Un’altra connotazione dello stato sviluppista è il ruolo preminente della burocrazia, che è elitaria, colta, efficiente, leale, di origine «samuraico-mandarina» (per cui basta il sospetto di aver tralignato per indurti alle dimissioni, a una sorta di «suicidio sociale»). A questo riguardo, va ancora una volta sottolineata la stretta collaborazione tra Stato e Mercato, che – more sinico – non sono opposti ma complementari come yin e yang. In questo modello, l’amministrazione statale non è di per sé ostile al settore privato: anzi, essa ha grande rispetto per gli imprenditori con i quali persegue un approccio negoziale win-win.
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Caratteristiche dello Stato sviluppista • Lo sviluppo del paese come obiettivo prioritario. • Stato «forte». • Strategia EOI. • Burocrazia elitaria, colta, efficiente, di tradizione samuraicomandarina. • Cooperazione tra Stato e Mercato. Secondo i «razionalisti», sostenitori dell’approccio neoclassico, invece questo eccezionale sviluppo può essere spiegato con i principi generali dell’economia, con la razionalità economica, senza dover ricorrere a ipotesi «culturalistiche». Come già sostenuto in altra sede10, entrambi gli schieramenti dicono solo mezze verità, giacché ci appare davvero difficile poter spiegare questo complesso fenomeno con una monocausa (o con un’astratta competizione di mercato o solo con la cultura). Entrambe le tesi sono euristicamente utili a condizione che non siano estremizzate: in particolare, che da una parte si abbia consapevolezza dei limiti oggettivi dell’analisi economicistica (e soprattutto del principio della razionalità dell’homo oeconomicus, specie se applicato in contesti culturali estranei alla civiltà occidentale) e dall’altra si eviti di cadere nel determinismo culturale.
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Anche il modello confuciano di capitalismo ha le sue varianti, che dipendono dal modo in cui concretamente la tradizione confuciana è coniugata con le specifiche tradizioni locali (Taoismo in Cina, Shintoismo in Giappone, Shamanesimo in Corea) e, in definitiva, come la Grande Tradizione viene di fatto interpretata11. In Cina la virtù confuciana più importante è la pietà filiale, mentre in Giappone è la lealtà verso il superiore. Questo spiega perché in Cina i rapporti familiari pervadano ogni aspetto dell’esistenza. Al contrario in Giappone pervasivo è uno pseudo-familismo, inteso come un insieme di rapporti pseudoparentali, rituali come quello tra il samurai e il suo «signore», e oggi tra studente e professore, tra dipendente e capoufficio. Proprio questa diversa connotazione dell’etica confuciana determina una delle principali differenze tra il capitalismo giapponese, che è di tipo maggiormente «comunitaristico», e quello familistico cinese che può essere definito «capitalismo delle reti familiari». Ancora diverso è il capitalismo coreano, che può qualificarsi come «patrimonialistico»12. A Taiwan, a Hong Kong e nei sempre più numerosi e vasti settori di mercato della Cina, non esistono gruppi privati di imprese particolarmente sviluppati, estesi e potenti paragonabili ai keiretsu nipponici o ai chaebol coreani, che strutturalmente sono più simili agli zaibatsu del Giappone prebellico. L’unico forte legame che unisce queste imprese cinesi è di natura familiare, parentale. I membri della famiglia
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proprietaria accentrano il potere in più imprese svolgendo ruoli direttivi. Le imprese fanno frequentemente ricorso a subfornitori, ma con contratti di breve e medio periodo, il che significa che non vi si sviluppano reti stabili di imprese satelliti.
Tipologia del capitalismo confuciano • Capitalismo comunitaristico giapponese basato sui keiretsu. • Capitalismo patrimonialistico coreano basato sui chaebol. • Capitalismo cinese basato sulle «reti familiari».
Note 1. F. Mazzei, «Geoeconomia e geocultura dell’Asia orientale», Politica Internazionale, IPALMO, nn. 3-4, maggio-agosto 1998. 2. Questi ideali sono esaltati in una sua opera ancora più celebre, Il libro del te, 1906; vedi R.-E. Dagorn (a cura di), Géopolitique ASIE, Nathan, Paris, 2008, p. 86. 3. Ibidem. 4. C. Chancel, E.-C. Pielberg e C. Tellenne, L’Autre Monde. Géopolitique de l’Asie méridionale et orientale, PUF, Paris, 2005. 5. M. Galluppi e F. Mazzei (a cura di), Campania e Cina. L’economia campana e il commercio globale, ESI, Napoli, 2004.
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6. B. Stevens evidenzia il parallelismo tra la variabile «pubblico/privato» del mondo sinico e la variabile di hegeliana memoria «Sittlichkeit/Moralitat» (moralità oggettiva/moralità soggettiva), rilevando che la Grecia del tempo «non avendo ancora incontrato la moralità soggettiva (la coscienza interiore), era ben lontana dall’individualismo dell’Europa moderna», i cui eccessi sono così spesso criticati dagli asiatici (B. Stevens, op. cit., p. 94). 7. Secondo Amable, le caratteristiche del «modello asiatico» sono le seguenti:
• stretta relazione tra governo e mondo economico attraverso «direttive» ministeriali e rapporti informali (come quello dell’amakudari in Giappone); • un particolare sistema finanziario, caratterizzato da legami di lungo termine tra banche e imprese; • rapporto cooperativo tra management e lavoro; • riluttanza a considerare la concorrenza perfetta sul mercato dei beni come più efficiente della «concorrenza guidata»; • un modello strategico di integrazione nell’economia mondiale, lasciando il settore finanziario e quello scientifico al riparo dalla concorrenza straniera. Vedi B. Amable, The diversity of Modern Capitalism, Oxford University Press, Oxford, 2003, pp. 84-85. 8. Secondo Stevens (op. cit., p. 19), il capitalismo «nippo-asiatico» è definibile non solo con (1) regole di comportamento economico (rilevabile con lo studio empirico dei «fatti»), ma egualmente con (2) principi teorici di base, con (3) scelte e convinzioni politiche condizionate da una tradizione storica diversa da quella che ha dato origine alla democrazia pluralista, infine con (4) una diversa concezione del mondo e della società (sul piano della cosiddetta filosofia implicita del sistema). 9. Su Maruyama, vedi F. Mazzei, Japanese Particularism… cit. 10. Asia al centro, cit. 11. In relazione all’applicazione che di questo sistema di valori viene fatta nei singoli paesi confuciani, preliminarmente va detto che una delle principali specificità condivise da tutte le società del Mondo Sinico è la particolare struttura del gruppo, che condiziona in misura significativa la
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performance a livello politico e socioeconomico. A differenza di quanto avviene in Occidente, esso tende a formarsi su linee verticali e non orizzontali, privilegiando il «luogo di «appartenenza» (la ditta, l’università, l’ufficio presso cui si lavora) anziché la «qualifica» personale (metalmeccanico, ingegnere, professore). All’interno del gruppo, le relazioni interpersonali tendono confucianamente a essere rigidamente gerarchiche ma nello stesso tempo armoniche. Nelle società confuciane è il rango occupato nella struttura del gruppo che dà identità sociale al singolo (donde il forte senso comunitaristico). In siffatto contesto culturale, il processo decisionale è basato sul consenso e nei limiti del possibile si evitano rapporti di tipo conflittuale (a somma zero o negativa), preferendo approcci win-win (a somma positiva) per cercare di «non far perdere la faccia» all’altro, che nel mondo confuciano è la cosa peggiore che socialmente possa verificarsi. 12. Come ricorda lo stesso Amable, molti autori sostengono che non esiste un modello autonomo «asiatico» a causa delle forti differenze esistenti tra le stesse tre maggiori economie capitalistiche dell’Asia Orientale, che pertanto vengono inserite in modelli già esistenti, per cui il Giappone è assimilato alla Germania, la Corea alla Francia e Taiwan all’Italia (Ibidem, p. 84). Su tematiche concernenti il capitalismo dell’Asia di Nord-Est, vedi L. Tomba (a cura di), East Asian Capitalism Conflicts, Growth and Crisis, Fond. G. Feltrinelli, Milano, 2002; per quanto riguarda il Vietnam, vedi P. Masina, Vietnam’s Development Stategies, Routledge, New York, 2009. 13. Come ricorda lo stesso Amable, molti autori sostengono che non esiste un modello autonomo «asiatico» a causa delle forti differenze esistenti tra le stesse tre maggiori economie capitalistiche dell’Asia Orientale, che pertanto vengono inserite in modelli già esistenti, per cui il Giappone è assimilato alla Germania, la Corea alla Francia e Taiwan all’Italia (Ibidem, p. 84).
PARTE SECONDA Il mondo confuciano
8. La Cina
Tre interrogativi Perché la Cina si muove a pieno agio nei vortici della globalizzazione traendone i massimi vantaggi, mentre vi annaspa il Giappone? Avrà successo il programma imposto dal «Piccolo Timoniere», Deng Xiaoping, nel 1978 di inserire la Cina comunista nella rete del capitalismo globalizzato, o invece fallirà non riuscendo a superare le tante contraddizioni e vulnerabilità prodotte da una crescita oltremodo accelerata? Infine, quali effetti produrrà sul capitalismo socialista cinese la Terza Grande Crisi? Anche in riferimento al possibile decoupling (disaccoppiamento) dall’economia occidentale e specificatamente statunitense? In questo capitolo, si esporranno delle riflessioni sui problemi che questi tre interrogativi sollevano1. La Cina e la globalizzazione Come abbiamo già visto, a trent’anni dalla morte di Mao la Cina è comunista ma anche2 capitalista e, soprattutto,
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risponde con efficacia alla sfida della globalizzazione Questo «favoloso» trentennio postmaoista, che in qualche modo può paragonarsi ai «gloriosi trent’anni» del dopoguerra europeo e giapponese, è periodizzato in tre fasi dal sinologo francese Thierry Sanjuan3. • Il periodo della transizione postmaoista (1978-92): inizia con il lancio del programma di «apertura e riforme» e si conclude con il noto «viaggio a Sud» del Piccolo Timoniere, che chiude la crisi aperta con «la repressione di Tiananmen» del 1989. In questo periodo si pone la questione di una specifica via cinese che combini regime comunista ed economia di mercato. • Il periodo della rifondazione (1992-2001): ha come slogan «economia socialista di mercato» ed è caratterizzato da uno sviluppo urbano particolarmente accelerato, segnatamente nella Cina costiera, e dall’acuirsi delle disuguaglianze sociali e regionali; si conclude con l’ammissione della Cina all’OMC. • La fase attuale vede la Cina, sempre più integrata nella globalizzazione capitalistica, come una potenza in rapida ascesa. Essa articola la propria posizione di potenza mondiale emergente come promotrice di uno «sviluppo pacifico» favorendo la crescita di un regionalismo asiatico, mentre sul piano politico interno il PCC di fatto assume le connotazioni di un partito nazionalista.
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L’Impero del Centro – concluso ormai il «lungo secolo dell’umiliazione», causata dal semicolonialismo e dalla frammentazione politica interna, e superato il trauma della Rivoluzione Culturale – sembra essere a pieno agio nei vincoli imposti dalla «camicia di forza dorata» della globalizzazione. Indubbiamente, al successo dell’ambizioso programma lanciato appena due anni dopo la morte di Mao (1976), ha contribuito la coraggiosa svolta impressa dal Piccolo Timoniere, che alla strategia maoista «contare sulle proprie forze» sostituisce la strategia dell’apertura al mondo esterno (come sappiamo, l’opzione EOI è uno dei presupposti per una politica di tipo «sviluppista»). Per quanto riguarda la politica interna, al pauperismo di Mao, Deng sostituisce lo slogan «arricchirsi è glorioso». Ma c’è anche un fattore esogeno favorevole che non va sottovalutato: la globalizzazione. Questa non solo si è rivelata una leva gigantesca che ha portato in Cina ciò che a essa mancava: capitali e tecnologia, ma fornisce alla RPC anche il carburante della sua crescita, vale a dire i mercati dei paesi ricchi e le risorse naturali dei paesi in via di sviluppo. Il take-off dell’economia cinese è stato verticale, ma proprio la velocità dello sviluppo ha prodotto gravi squilibri e contraddizioni interne. Generalizzando, possiamo dire che lo sviluppo accelerato ha diviso l’immenso territorio in «tre Cine».
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• La Cina costiera, ricchissima e popolatissima: grazie alla creazione di zone economiche speciali (ZES) è diventata meta privilegiata di IDE provenienti in primo luogo dalla ricca diaspora cinese del Sud-est asiatico e da Taiwan, poi dal Giappone e dall’Occidente. • La Cina mediana (altitudine media superiore ai mille metri): povera e ancora poco sviluppata, che fornisce manodopera alla Cina costiera. • La Cina occidentale (altitudine media superiore ai 4000 metri): scarsamente popolata ma ricca di materie e di grande rilevanza geostrategica, con regioni autonome sedi di importanti minoranze etniche con tendenze secessionistiche: il Tibet e lo Xinjiang, quest’ultimo abitato dagli uiguri, una popolazione turcofona di religione musulmana. Queste regioni, come le altre regioni autonome (la Mongolia Interna e la Manciuria) svolgono la funzione geopolitica di «regioni-cuscinetto», il cui controllo da parte di Pechino è ritenuto irrinunciabile per la sicurezza delle province storiche cinesi (con popolazione di etnia han, che rappresenta circa il 92 per cento dell’intera popolazione). Al contrario della Cina, il Giappone ha grosse difficoltà ad accettare i vincoli imposti dalla globalizzazione. Dopo essere stato per più di un decennio la locomotiva dell’economia mondiale, agli inizi degli anni Novanta il Sol levante è piombato in una profonda crisi da cui solo oggi sembra uscito,
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trainato proprio dalla straordinaria crescita cinese. Significativamente, oggi il primo partner commerciale di Pechino non è più Washington ma Tokyo. Come si è cercato di dimostrare in altra sede4, la diversità della risposta data dalla Cina e dal Giappone alla sfida della globalizzazione è principalmente dovuta a fattori di natura geoculturale. La Cina, un paese-continente, fin dagli albori della sua storia si è considerata il Centro del Mondo (sinocentrismo), da cui s’irradiano valori che tutti possono far propri (sinizzandosi), indipendentemente dall’etnia, dalla lingua, dalla religione. La Cina, come l’Occidente, ha una cultura universalistica ed è questo universalismo che oggi favorisce l’accettazione delle regole della globalizzazione economica con le sue complesse reti transnazionali, mentre questo stesso universalismo si era rivelato un forte ostacolo nel rispondere con efficacia alla sfida modernizzante del XIX secolo. Va sottolineato che la sfida era lanciata da potenze culturalmente universalistiche (eurocentrismo) ma politicamente espressioni di un sistema internazionale «vestfaliano» (di «Statinazione»): un sistema «orizzontale» (quindi, l’opposto del sistema internazionale «gerarchico» sinocentrico) di cui la globalizzazione, in quanto creatrice di rapporti trasnazionali, ne è in qualche modo il superamento. In breve, nella seconda metà dell’Ottocento – in una fase in cui la «grande divergenza» era a uno stadio avanzato – l’universalismo della Cina ormai in
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declino si scontrava con l’universalismo dell’Europa, che invece era nel pieno della sua potenza militare ed economica. Al contrario, il Giappone, stato-nazione da sempre e quindi ben predisposto ad accettare le regole di un sistema internazionale vestfaliano, grazie anche al suo particolarismo culturale, fu in grado di dare una risposta pronta ed efficace alla sfida della modernizzazione; ironia della sorte, oggi, quello stesso particolarismo lo rende impreparato a navigare nel mare aperto della globalizzazione. Si dice che la Cina raramente lasci indifferenti. E come può lasciare indifferenti un paese che è più grande dell’Europa dagli Urali all’Atlantico, che è la nazione più popolosa del mondo, che è una potenza in rapida ascesa in termini economici continuando ad avere tassi di crescita eccezionalmente elevati nonostante la grave crisi che attanaglia il Pianeta? Ormai la Cina è l’officina del mondo, è la seconda potenza economica per Pil espresso in PPA (parità di potere d’acquisto), è la seconda potenza commerciale dietro gli Stati Uniti, avendo superato prima il Giappone e poi la Germania; ha il primato (strappato agli Stati Uniti) come meta di investimenti diretti all’estero (IDE) detiene larga parte dei Buoni del Tesoro degli Stati Uniti… Ma la Cina è una potenza in rapida ascesa anche dal punto di vista politicomilitare: è membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dispone del terzo arsenale nucleare, dell’esercito
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più numeroso, di una flotta militare rimodernata a seguito del riorientamento della sua geopolitica in senso marittimo. Si dice anche che la Cina sia immensa. Ma l’immensità della Cina non è solo territoriale (il Canada ha una superficie superiore a quella della Cina), bensì multidimensionale in quanto comprende tutti e tre i fattori essenziali che costituiscono una civiltà: oltre al territorio di cui s’è detto, il tempo (la sua storia multimillenaria) e l’uomo (la sua demografia elefantiaca). Ma soprattutto va sottolineato che quella cinese è l’unica tra le grandi civiltà (mesopotamica, egiziana, della Valle dell’Indo ecc.) a vantare uno sviluppo ortogenetico: uno sviluppo di più di quattromila anni senza soluzione di continuità.
La Cina nuovo centro manifatturiero del mondo Due profonde mutazioni sono all’opera nel settore industriale: • un vigoroso sviluppo rurale non agricolo; • una riduzione delle SOEs (le imprese statali) a vantaggio di un potente settore cooperativo e di un settore privato, nazionale e straniero.
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Questi settori, funzionando secondo l’economia di mercato, impiegano il 30 per cento dei salariati e producono il 70 per cento della produzione industriale totale delle città. Vari analisti e istituti di ricerca si sono chiesti come evolverà il prodotto lordo dei principali paesi nei prossimi trent’anni, supponendo che la velocità della crescita dei singoli paesi sia uguale a quella registrata nel periodo 1990-2003. Secondo le previsioni fatte dalla Goldman Sachs, il 2040 sarà per Washington l’annus horribilis, giacché in quell’anno la Cina dovrebbe superare in Pil gli Stati Uniti. Ancora più sbalorditive sono le previsioni degli analisti della Banca Mondiale: l’economia cinese prima del 2020 supererà quella giapponese, nel 2025 incrocerà l’UE e nel 2035 (cioè 5 anni prima delle previsioni della Sachs) raggiungerà le dimensioni degli Stati Uniti5. In realtà, queste previsioni (basate sul principio «se… allora») sembrano già peccare di pessimismo nei confronti della Cina. Infatti, si dà per certo che Pechino supererà per Pil Tokyo non nel 2015 ma probabilmente tra qualche mese… e che l’annus orribilis per Washington verrà certamente anticipato e non di poco. Eppure, lo storico non dovrebbe meravigliarsi più di tanto; infatti già nel 1500 la Cina era la maggiore potenza economica, seguita dall’India, dall’Europa nel
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suo insieme e dal Giappone. Secondo queste previsioni, nel 2050, la graduatoria sarà la stessa di cinque secoli fa: back to the future, si tornerà al passato con un’unica variante, cioè l’inserimento degli Stati Uniti al secondo posto, dietro la Cina. Queste previsioni si basano sull’ipotesi che la crescita della Cina non rallenti. Ma anche se ciò avverrà (e difatti sta già avvenendo: come effetto immediato della Crisi, il tasso di crescita si è abbassato notevolmente, analogamente a quanto avvenne in Giappone agli inizi degli anni Settanta, dopo la prima crisi petrolifero), il risultato finale non cambierà molto. Quasi tutti gli analisti concordano nel ritenere che in ogni caso la crescita cinese non può più essere considerata come un affare interno cinese perché essa continuerà a incidere fortemente su fattori essenziali dell’economia mondiale6. Il neo-sinocentrismo Il fenomeno geopolitico più importante dell’Asia Orientale agli inizi del nuovo millennio è certamente la formazione di un nuovo sinocentrismo: la Cina, avendo optato per una diplomazia «neo-bismarckiana», mira alla formazione di un regionalismo asiatico, formazione facilitata dal graduale «rientro in Asia» da parte del Giappone. Dopo l’olocausto atomico, il Giappone era di nuovo uscito dall’Asia per entrare nel «West» democratico, capitalista e anticomunista: un West che così connotato oggi non ha più alcun senso. Come
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sappiamo, il regionalismo asiatico è molto diverso da quello europeo, indubbiamente meno avanzato, ma non per questo inefficace: è aperto e non chiuso, istituzionalmente flessibile e non rigido, soprattutto è acefalo (non c’è una Bruxelles asiatica). Dal punto di vista geoeconomico, come s’è detto, è ormai opinione largamente accettata dagli analisti che la straordinaria crescita dell’economia cinese rappresenti il fatto strutturale più rilevante dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. In un ventennio, dal 1985 al 2005, la Cina ha mutato la geoeconomia mondiale: infatti la quota dell’area cinese sul prodotto lordo mondiale (espresso in $ costanti 1995, corretto per PPA) è triplicata, passando dal 4,8 al 12,7 per cento e superando quella del Giappone, che al contrario si è ridotta sensibilmente essendo scesa dal 14,6 a 11,7 per cento. Nello stesso periodo, anche le quote degli Stati Uniti e dell’UE sono leggermente diminuite. In breve, la quota cinese è l’unica a essere cresciuta durante l’ultimo ventennio. Appare evidente che si sta rapidamente formando un’area economica asiatica centrata sulla Cina, che possiamo denominare «Asia dinamica» per il suo prolungato alto tasso di crescita. Essa è costituita non solo dal mondo sinico (la Cina con le sue marche marittime e i paesi influenzati dalla sua cultura: Giappone, Corea del Sud e Vietnam), ma anche da tutto il Sud-est asiatico indianizzato/islamizzato, cui oggi si aggiunge l’India, che sta diventando l’ufficio del mondo per la sua forte
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crescita abbinata allo straordinario sviluppo del suo settore informatico7. Tre sono i principali fattori di questo mutamento geoeconomico. In primo luogo, lo spostamento del baricentro dell’economia mondiale dall’Occidente al Polo Confuciano con conseguente rivalutazione della relazione transpacifica rispetto a quella transatlantica che ne risulta indebolita (purtroppo molto più debole è la relazione euroasiatica, anche se gli scambi commerciali tra la Cina e l’UE complessivamente figurano al primo posto). In secondo luogo, il crescente peso della Cina in termini di Pil; infine, la sua centralità nei flussi commerciali (oltre che finanziari) all’interno di questa vasta area. Ne consegue un mutamento gerarchico all’interno della regione: al vertice non c’è più il Giappone ma l’area cinese, che comprende la Cina continentale, Hong Kong, che anche sotto la sovranità di Pechino continua ad avere un proprio autonomo ordinamento, e Taiwan. Il mutamento appare evidente se si pensa che dal 1980 al 2002 la percentuale dell’area cinese sul prodotto lordo della regione è più che raddoppiata (dal 19,6 al 41,5 per cento) mentre quella del Giappone nello stesso periodo è precipitata dal 45,3 al 23,1 per cento8. Significativamente, nel 2006 l’Asia orientale (esclusa quindi l’India) ha creato più nuova ricchezza di qualsiasi altra regione: infatti, mentre il vertice asiatico del triangolo economico mondiale con il 20,15 del Pil mondiale ha prodotto il
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27,2 per cento della nuova ricchezza, l’America del Nord con il 30,5 per cento del Pil mondiale ha prodotto solo il 25,3 per cento. Ancor meno brillante è stata la performance dell’Europa occidente: con il 29,9 per cento del Pil mondiale, ha creato solo il 20,3 per cento della nuova ricchezza complessiva. Come s’è detto, il terzo fattore della formazione della nuova area economica sinocentrica è la crescita del commercio (soprattutto intrasiatico), che ha come fulcro la Cina. Negli ultimi 25 anni il commercio cinese è aumentato mediamente del 15 per cento l’anno, esportando prodotti a lavoro intensivo (tessili, giocattoli, calzature) e a basso valore aggiunto, anche se la situazione sta rapidamente mutando. Nel 2003, pur escludendo i valori di Hong Kong, la Cina si è classificata seconda potenza commerciale, dopo Stati Uniti. Nel frattempo, è diventata la prima meta di IDE, superando addirittura gli Stati Uniti. Tuttavia, il livello di IDE pro capite è ancora relativamente basso, appena un quarto di quello del Brasile; inoltre, in parte non trascurabile si tratta di investimenti «sinocinesi», cioè rientrati via Hong Kong. Questo vuol dire che i margini di crescita degli IDE sono ancora enormi. Un gigante commerciale Indiscutibilmente, già alla fine degli anni Novanta la Cina era un gigante commerciale, con attivi crescenti, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti. La struttura della sua bilancia
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commerciale è complessivamente asimmetrica: secondo alcuni analisti, essa rivela una sorta di «schizofrenia», che a nostro parere invece risponde a una fredda logica politica. La Cina registra surplus di dimensioni sempre maggiori nel commercio con gli Stati Uniti, come pure con l’Unione Europea e gli altri paesi avanzati dell’Occidente; al contrario, la bilancia commerciale cinese nei confronti dei principali paesi asiatici è caratterizzata da deficit (nei confronti del Giappone è sostanzialmente in pareggio). In altre parole, dagli scambi con i paesi ricchi dell’Occidente i cinesi ottengono valuta pregiata (dollari ed euro), che passano ai vicini paesi asiatici in cambio soprattutto di materie prime e semilavorati ma, sempre più frequentemente, anche di prodotti di consumo e di investimenti, rafforzando così ancor più la propria centralità nella regione. Più recentemente Pechino sta rafforzando i rapporti con i paesi dell’Africa, della quale è diventata il secondo partner commerciale, dopo gli Stati Uniti: lo scambio bilaterale sino-africano nel 2008 ha superato i 100 miliardi di dollari, mentre nel 1997 era appena di 5 miliardi!9.
Una grande potenza commerciale ancora in transizione
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Nonostante gli straordinari successi, la Cina è ancora una potenza commerciale in «transizione». Principali carenze nella struttura del commercio estero cinese: • forte dipendenza per materie prime e alimentari; • ritardo nelle alte tecnologie; • debolezza nel settore dei servizi. Gli eccedenti commerciali sono bilanciati, ma solo in parte, dalla crescente bulimia di materie prime, idrocarburi ecc. La Cina è ormai il primo paese importatore di cemento, di carbone, d’acciaio, di alluminio e di nickel…, e il secondo importatore di petrolio. I suoi acquisti di materie prime hanno provocato sul mercato globale una vera esplosione dei prezzi, facendo impennare in particolare quello del petrolio. La rottura dell’equilibrio energetico interno può essere collocata all’inizio del secolo quando il consumo di energia ha cominciato ad aumentare più velocemente del Pil. Questo sta determinando una crescente dipendenza energetica che spinge Pechino a una presenza particolarmente attiva sulla scena internazionale. Secondo non pochi studiosi, la crescente domanda di fonti energetiche potrebbe essere il tallone d’Achille del colosso asiatico: si prevede, in effetti, che nel
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2030, l’80 per cento della domanda di energia cinese dovrà essere importata. Oltre alla dipendenza per materie prime e alimentari, altre carenze per cui la Cina tutto sommato può considerarsi ancora una potenza commerciale in transizione sono il ritardo nelle alte tecnologie, nonostante recentemente Pechino abbia fatto importanti investimenti in R&S, e una debolezza nel settore dei servizi (solo Hong Kong e Singapore presentano eccedenti notevoli). Uno dei temi più discussi (e complessi) nell’ambito del dibattito sul rapporto tra crescita della Cina e globalizzazione è se questa – intesa come progressiva integrazione dei mercati, dei beni e dei servizi – promuova convergenza sociale o al contrario contribuisca ad aumentare la disuguaglianza tra i paesi ricchi e i paesi poveri10. Vediamo ora come l’esperienza cinese si colloca in questo contesto. Nello studio della disuguaglianza tra i paesi dell’intero pianeta, in genere ci si basa sui redditi medi pro capite degli Stati, indipendentemente dalla numerosità delle rispettive popolazioni. Il risultato di questo approccio è una curva a U della disuguaglianza mondiale nell’ultimo mezzo secolo: prima una riduzione e poi negli ultimi due decenni un aumento, pur con forti diversità regionali. Tuttavia, se i redditi pro capite medi vengono ponderati, cioè pesati sulla base della numerosità demografica del singolo paese, si ha il risultato opposto: la diseguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri sembra ridursi negli ultimi due decenni, grazie proprio
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al «peso» della Cina e dell’India, entrambi giganti demografici con alti tassi di crescita economica11. Le vaste ricerche condotte da Isabelle Bensidoun confermano questo dato. L’indice di Theil della diseguaglianza internazionale dalla fine degli anni Settanta al 1998 scende da 0,62 circa a 0,47; ora, se dal calcolo si esclude la Cina, l’indice durante lo stesso periodo sale quasi costantemente, da 0,5 circa a 0,57. Ma se la «miracolosa» e duratura crescita della Cina ha avuto un impatto notevole nel ridurre la disuguaglianza mondiale, al contrario – come vedremo – essa sta facendo crescere, e in misura preoccupante, le diseguaglianze di reddito al suo interno. Aspetti della crescita cinese La straordinaria crescita cinese è dovuta non tanto alla domanda interna, quanto agli investimenti sostenuti da un risparmio che, come in tutte le società confuciane, è particolarmente elevato. Negli ultimi decenni, il risparmio si è assestato sul 40 per cento circa del Pil12. In Cina, le piccole imprese risparmiano perché hanno difficoltà ad accedere al credito e le grandi imprese (per lo più appartenenti allo Stato) perché non devono pagare dividendi all’azionista di riferimento; ancor più parsimoniose sono le famiglie (in primo luogo urbane), che risparmiano anche per far fronte alla mancanza di protezione sociale. In breve, più si
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produce, più si risparmia, ma la situazione potrebbe presto cambiare per effetto della Crisi. Nel 2003, il rapporto investimenti/Pil era del 41,4 per cento, con un ruolo importante svolto dal settore immobiliare. In termini generali, si può dire che la crescita cinese sia di tipo «estensivo», nel senso che non è dovuta al miglioramento della produttività delle unità esistenti ma all’aggiunta di ulteriori unità produttive, soprattutto nuova forza-lavoro. Su questa interpretazione della crescita cinese ha insistito in particolare Paul Krugman, secondo cui essa sarebbe il risultato non di un aumento della produttività bensì della riallocazione del lavoro e di altri fattori di produzione da settori a bassa produttività (come l’agricoltura) verso settori più produttivi (come quello manifatturiero o dei servizi). Questo vuol dire che scemate le migrazioni di milioni di contadini dalla Cina interna, povera e arretrata, verso la Cina costiera, ricca e sovrappopolata, la crescita potrebbe arrestarsi con ripercussioni drammatiche per gli assetti interni ma anche per l’economia mondiale13.
Caratteristiche della crescita cinese Crescita basata sugli investimenti sostenuti da un risparmio elevato, con debole domanda interna dovuta a
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una migliore riallocazione del lavoro, piuttosto che a un aumento della produttività
Crescita «estensiva» ancora fortemente finanziata dal credito delle banche statali che captano l’abbondante risparmio: massime beneficiarie le SOEs. L’attuale crescita cinese, oltre a essere trainata più dagli investimenti che dal consumo (contrariamente a quanto avviene in India), è anche finanziata dal credito delle banche, che captano l’abbondante risparmio. Nonostante sia innegabile che oggi il motore della crescita siano le imprese private, che realizzano all’incirca la metà della produzione industriale del Paese, il sistema finanziario è ancora quasi integralmente di proprietà dello Stato, gestito per lo più con logiche politico-clientelari, di cui beneficiano soprattutto le SOEs. François Gipouloux, fine sinologo ed economista, sottolinea il seguente circolo vizioso della crescita cinese14. Il mancato rigore nel finanziamento da parte delle banche genera un aumento irrazionale di capacità di produzione; la supercapacità nelle imprese ha per conseguenza un declino della produttività; il debole tasso d’utilizzazione delle
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capacità di produzione e il livello di stock elevati comportano una pressione verso il basso sui prezzi, che in cambio provoca la degradazione della redditività delle imprese. Generalizzando forse un po’ troppo, possiamo dire che il modello di crescita cinese è contrassegnato da una sovrapproduzione generata dai troppi investimenti e assorbita dalle esportazioni nei paesi ad alto consumo, segnatamente negli Stati Uniti.
Circolo vizioso dell’economia cinese
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Il vantaggio competitivo cinese Come spiegare lo straordinario successo commerciale della Cina nel mercato globalizzato di oggi? Sul piano geoculturale, la risposta l’abbiamo giù data: nel rispondere alla sfide della globalizzazione, fattore predisponente è il suo universalismo culturale soft (perché basato su valori relativi e non assoluti), che come abbiamo visto si era rilevato invece
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svantaggioso di fronte alla sfida modernizzante lanciata nella seconda metà del XIX secolo dalle grandi potenze europee «vestfaliane». Sul piano strettamente economico, sia in campo accademico sia nei mass-media, da tempo si dibatte sull’individuazione del fattore principale della competitività del «made in China». Secondo alcuni analisti, esso va ricercato in una riserva di manodopera a basso costo e quasi inesauribile; altri, soprattutto americani, privilegiano come fattore esplicativo della competitività dei prodotti cinesi la sottovalutazione del Renminbi (RMB) o yuan. Nel 2002, Judith Banister ha condotto una vasta ricerca sul costo del lavoro in Cina coinvolgendo circa cento milioni di lavoratori del settore manifatturiero; quindi, ha fatto una comparazione con il costo del lavoro in altri trenta paesi15. Da questa ricerca risulta che in Cina il salario orario medio dei lavoratori urbani (un po’ meno di un terzo di tutti gli intervistati) era di 1,06 dollari; quello dei restanti 70 milioni di lavoratori (residenti in località suburbane e rurali) era meno della metà: 0,45 dollari. La media complessiva era quindi 0,64 dollaro/ora, corrispondente a circa il 3 per cento del salario orario medio americano e al 26 per cento del salario di un operaio messicano. Va però notato che in PPA i 64 centesimi di dollaro del costo orario del lavoro diventano 2,96 dollari e che il salario mensile di un operaio cinese varia notevolmente a seconda delle regioni. Per fare qualche esempio: 339 dollari a Shenzhen, 260 a Shanghai, 151 a Dalian. La
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McKinsey ha fatto una comparazione con la situazione italiana, da cui risulta che il costo del lavoro specializzato cinese sarebbe sette volte inferiore rispetto all’Italia, e quello di un operaio non specializzato addirittura trenta volte16. Il problema della competitività cinese è reso più complesso in Italia e in altri paesi dell’Europa meridionale non solo perché ha colpito pesantemente alcuni settori manifatturieri (tessile, calzaturiero ecc.) ma anche perché è legato alla controversia sulla concorrenza cosiddetta «asimmetrica» e «sleale» di Pechino e alle accuse di contraffazione e di pirateria, con la violazione dei diritti di proprietà intellettuale, e più in generale alle accuse di dumping sociale. Sulla base di queste accuse, da più parti si chiede alla Cina di adeguare le condizioni di lavoro a standard internazionali17. Indubbiamente bisogna tutelare le nostre produzioni e impedire che prodotti contraffatti, difettosi o adulterati entrino nel nostro Paese, combattendo con severità la contraffazione e la pirateria, cosa che in Cina non è facile anche per ragioni culturali18. Nello stesso tempo però è necessario tener presente che la Cina, che nonostante la straordinaria crescita di questi ultimi trent’anni continua a essere un paese povero e che per vincere la povertà deve fare affidamento sul più importante vantaggio comparato di cui dispone: il basso costo del lavoro. «Pretendere che i paesi poveri abbiano condizioni di lavoro eguali a quelle dei lavoratori occidentali se è moralmente lodevole, economicamente è un nonsense.»
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Come s’è detto, molti analisti ritengono che la sottovalutazione del RMB sia uno dei fattori decisivi del successo delle esportazioni cinesi e, quindi, del deficit commerciale americano. Ancorato al dollaro americano nel 1994 con il cambio fissato a 8,28 RMB, lo yuan, sotto pressioni di Washington, è stato rivalutato del 2,1 per cento nel luglio 2005 e ha apportato successivamente ritocchi, prevedendo una grossa rivalutazione nei prossimi anni, anche perché la Cina si sta facendo promotrice di una radicale riforma del sistema monetario. A questo riguardo, nel marzo 2009 il Governatore della Banca Centrale della Repubblica Popolare Cinese ha prospettato l’istituzione di una moneta mondiale (global currency) svincolata da qualsiasi rapporto con un’entità statale emittente. Questa dichiarazione va messa in relazione con la preoccupazione espressa dal premier cinese Weng Jiabao qualche giorno prima concernente la crescita del debito pubblico americano, largamente finanziato – come sappiamo – da Pechino che detiene Buoni del Tesoro americano per un valore complessivo di 1,7 trilioni di dollari. In altre parole, i cinesi cominciano a temere un possibile collasso del dollaro con la conseguenza di vedere polverizzati i loro Treasury Bonds. La strategia di Pechino appare ora chiara: puntare alla costituzione di una moneta mondiale svincolata dalla sovranità statale e affidata al controllo del Fondo Monetario Internazionale (FMI), opportunamente rinnovato e potenziato.
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Oggi la proposta più accreditata è quella avanzata qualche anno fa dal premio Nobel Ernest Mundell, che punta alla costituzione di una moneta internazionale «paniere» (basket currency) costituito dalle monete più forti, tra cui dollaro, euro e yen19. Al contrario, il Governatore della Banca Centrale della RPC ritiene che la migliore soluzione sarebbe la moneta mondiale a suo tempo proposta da Keynes, il BANCOR; ma, consapevole dell’impossibilità di realizzarla in tempi brevi, egli punta sulla riforma dei diritti speciali di prelievo (DSP, in inglese Special Drawing Right), istituiti nel 1969 per individuare uno strumento di liquidità internazionale alternativo al dollaro e la cui gestione è affidata alle autorità del FMI. Come è noto, i DSP sono particolari unità di conto, il cui valore è basato su un paniere costituito dalle cinque principali valute (secondo i seguenti pesi: 45 per cento dollaro USA, 29 per cento euro, 15 per cento yen, 11 per cento sterlina inglese) e sono assegnati a ciascuno dei paesi aderenti al FMI in proporzione alle loro quote di partecipazione. Il principio che ha ispirato l’istituzione dei DSP è che la creazione e la gestione della liquidità internazionale debbano essere governate da istituzioni internazionali. In breve, in linea con la proposta iniziale di Keynes, il FMI dovrebbe diventare una sorta di stanza di compensazione autonoma dotata di una propria unità di conto, i DSP appunto, utilizzata esclusivamente per le transazioni internazionali. In questo modo la Cina potrà assumere un ruolo determinate nel sistema monetario
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internazionale, tra l’altro internazionalizzando la moneta nazionale (il RMB o yuan) evitando nel contempo i temuti pericoli derivanti dalle incertezze del mercato dei cambi.
La competitività cinese è basata sui bassi salari, o sullo yuan sottovalutato? Il salario orario medio di un cinese è di 0,64$, ovvero 2,96$ in PPA: pari al 3 per cento di un operaio di un americano e al 26 per cento di uno messicano. Lo yuan dopo il 1994 è legato al dollaro: 1 $ = 8,28 RMB, attualmente 1 $= …? La sottovalutazione dello yuan è tra il 15 e il 30 per cento, per cui il tasso di cambio dovrebbe essere tra 5,70 e 6,90 RMB per 1 $. Ma lo yuan di quanto è sottovalutato? Su questo punto non c’è accordo tra gli studiosi: la sottovalutazione è compresa – a seconda degli studi – tra il 15 e il 30 per cento, per cui il tasso di cambio dovrebbe essere tra 5,70 e 6,90 RMB per 1 $. Da parte sua, Pechino per mantenere stabile il cambio, quando la
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moneta americana appare debole, compra dollari, utilizzando le ingenti riserve ottenute dai continui e crescenti eccedenti commerciali e dai flussi di IDE, riserve che negli ultimi mesi hanno superato perfino quelle del Giappone. Con tali riserve Pechino sottoscrive Buoni del Tesoro degli Stati Uniti, finanziandone così il deficit. Peraltro, lo stesso fanno il Giappone, Corea del Sud e Taiwan20.
Correnti politiche in Cina La Nuova Sinistra, favorevole a una forma di capitalismo sociale caratterizzato da un sostanziale aumento della domanda interna, da una rete di welfare in modo da ridurre l’iniquità sociale e da attenzione al problema della sostenibilità ambientale. Più in generale, auspica una democrazia che trascenda quella liberale e quella socialista, con profonde radici nella tradizione nazionale e sotto la guida del PCC. I Neo-Comms, cugini dei neo-cons americani: neocomunisti che vogliono usare la modernizzazione delle forze militari, la diplomazia culturale e il diritto internazionale per affermare la potenza della Cina nel mondo.
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La Nuova Destra, secondo cui la libertà in Cina si avrà solo quando il settore delle imprese statali (SOEs) sarà smantellato ed emergerà una nuova classe di «proprietari» attiva politicamente. (Elaborazione sulla base di M. Leonard, What does China think?, London, 2008) Quindi i paesi confuciani, con la Cina in testa, sono i maggiori finanziatori del deficit statunitense. Questo finanziamento permette agli americani di mantenere i tassi d’interesse a un livello debole e, dunque, di sostenere il consumo e quindi l’acquisto di una maggiore quantità di prodotti importati dalla Cina, aiutando così Pechino a creare nuovi posti di lavoro. Ma non sono pochi coloro che anche all’interno della Cina criticano questa politica del governo, che a loro avviso dovrebbe cessare di prestare agli Stati Uniti il prezioso risparmio dei suoi cittadini a bassi tassi, utilizzandolo invece per migliorare la vita dei cinesi con riforme istituzionali e investimenti nel capitale umano e fisico (capacità produttive, infrastrutture ecc.) e welfare. In breve, soprattutto dagli esponenti della cosiddetta New Left si chiede che il Governo utilizzi la sovrapproduzione in politiche redistributive21. La
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Terza Grande Crisi, come vedremo tra breve, ha l’effetto di rafforzare questa richiesta. Come mai «il povero finanzia il ricco»? Perché il governo cinese non rivaluta in tempi brevi e in misura significativa lo yuan? In realtà, la scelta di Pechino di favorire le esportazioni (tenendo sottovalutato lo yuan) è finora apparsa in qualche modo obbligata. Nella strategia «sviluppista», l’obiettivo strategico e strutturale prioritario è assorbire nel settore manifatturiero e terziario la manodopera eccedentaria delle campagne (quasi duecento di milioni di persone) che vive alla soglia della povertà. Va ricordato che l’agricoltura cinese ancora oggi assorbe il 50 per cento circa della forza-lavoro, mentre dà solo il 15 per cento del Pil. Secondo la Banca Mondiale, nel 2002 ottantotto milioni di cinesi delle campagne disponevano di meno di un dollaro al giorno. Per raggiungere questo titanico obiettivo è necessario aumentare incessantemente la produzione e, quindi, le esportazioni in settori a forte intensità di lavoro; e a tal fine si è ritenuto opportuno mantenere sottovalutato lo yuan, attirando così IDE, a danno peraltro di altri paesi poveri concorrenti. In questa situazione anche gli Stati Uniti avrebbero il loro vantaggio: un livello di vita più elevato, grazie appunto al massiccio acquisto di Buoni del Tesoro da parte dei paesi dell’Asia Dinamica e in primo luogo della Cina. Approfondiremo tra breve questo strano rapporto di interdipendenza tra Washington e Pechino definito da alcuni studiosi chain-gang,
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dopo aver esaminato i pesanti costi sociali interni prodotti dall’ingresso della Cina nella globalizzazione capitalistica. Le tesi dei sinopessimisti A parte gli effetti della Terza Grande Crisi, oggi alla dirigenza cinese si presenta una lunga serie di problemi cruciali: dalla complessa riconversione delle SOEs al fabbisogno crescente di energia e di materie prime22, alla necessità di meglio garantire la sicurezza del diritto di proprietà e l’affidabilità dei contratti, nonostante gli indubbi progressi fatti in questo campo23. Preoccupano soprattutto i pesantissimi costi sociali, culturali e ambientali dell’immissione della Cina nella globalizazione capitalistica. Questi costi sono enfatizzati da alcuni studiosi e pubblicisti «sinopessimisti», che da tempo delineano scenari catastrofici sul futuro della Cina24. Le tesi pessimistiche si basano su alcune variabili interne ed esterne. Per quanto riguarda le variabili interne, due sono le principali. Innanzitutto, il pericolo di una frattura territoriale interna a causa del rafforzarsi di tendenze centrifughe, soprattutto nelle due regioni autonome a rischio, da sempre fonte di preoccupazioni geopolitiche: il Tibet e lo Xinjiang. La seconda variabile interna concerne il possibile fallimento della politica di liberalizzazione in atto, che tra l’altro delegittimerebbe politicamente il Partito Comunista Cinese. A questo riguardo, si sottolineano l’acuirsi degli squilibri socioeconomici a livello regionale, il progressivo collasso
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dello Stato centrale e conseguente pauperizzazione del ceto burocratico, lo smantellamento del settore pubblico, la crescita della disoccupazione, il venir meno degli ammortizzatori sociali, la corruzione diffusa, l’affarismo dell’Esercito Popolare di Liberazione, il degrado ambientale. Preoccupano soprattutto le crescenti disuguaglianze di reddito. Secondo l’Accademia Cinese delle Scienze, il rapporto tra il reddito pro capite delle zone urbane e quello delle zone rurali è di 6 a 1, con punte estreme di 14 (Shanghai) a 1 (provincia di Guizhou). Nella stessa ricca Cina della costa si accentua la contrapposizione tra i xingui (i «nuovi ricchi») e i xiagang (coloro che sono «discesi dal posto di lavoro»), cioè i dipendenti delle SOEs licenziati perché in esubero. Con il diffondersi del settore privato e con il crollo dell’istituto del danwei («unità di produzione» con cui la SOEs assicurava ai suoi dipendenti oltre al lavoro l’alloggio gratuito e altri benefici), il sistema di welfare non ha retto. Si calcola che attualmente coloro che godono di una qualche copertura sociale siano solo 250 milioni di lavoratori urbani; ne sono esclusi i dipendenti del settore privato e lo sterminato esercito di contadini. Da questo scenario emerge la possibilità di una frattura tra la «Cina blu» (la Cina costiera, con redditi pro capite mediamente doppi rispetto al resto del paese e con un’accentuata riduzione della natalità) e la «Cina gialla» (la Cina povera dell’interno e dei margini frontalieri dell’Ovest). Questa frattura interna potrebbe portare o al distacco della zona costiera
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dal resto del Paese, per la sua aspirazione a una zona di scambio intrasiatico, o a una profonda recessione demografica nelle province orientali del Paese, con conseguenze socioeconomiche particolarmente gravi. Dalla combinazione di queste due derive potrebbero derivare pericolose forme d’instabilità politica. A tutto ciò si aggiunga l’ipercentralizzazione del Paese, che come sappiamo ha profonde radici nella tradizione geopolitica cinese. Ma proprio il forte richiamo alla «centralità» potrebbe far da argine a una prevedibile devoluzione del potere e della ricchezza, devoluzione che in Cina ha tre principali direttrici: dallo Stato alle corporations, dal centro alle province, dalle élites alle masse frammentate»25. Né va sottovalutato il degrado ambientale e igienico-sanitario (SARS, AIDS, influenza aviaria ecc.)26. La Cina è il secondo produttore mondiale di gas a effetto serra, superata solo dagli Stati Uniti, ha sette tra le dieci città più inquinate del mondo e ha tre fiumi su cinque gravemente inquinati, mentre scarseggia pericolosamente l’acqua potabile.
Vulnerabilità • Eccesso di investimenti, sottosviluppo del capitale, sottovalutazione dello yuan e crescita «estensiva» (Krugman).
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• Bulimia di prodotti energetici. • Crescenti «fratture» e disuguaglianze socioeconomiche tra regioni, tra città e campagna, nelle città… • Degrado igienico-sanitario e ambientale. La mancata «quinta modernizzazione» C’è, infine, il problema politico, la mancata realizzazione della cosiddetta «quinta modernizzazione»: in effetti, alla liberalizzazione economica non s’accompagna affatto quella politica. Questo gap tra crescita economica accelerata e deficit democratico era stato teorizzato già nel 1987 da Deng Xiaoping: «La democrazia può svilupparsi solo gradualmente, e noi non possiamo copiare i sistemi occidentali. Se lo facessimo sarebbe un disastro. La nostra costruzione socialista può essere realizzata solo sotto una leadership, in modo ordinario e in un ambiente di stabilità e unità»27. Sul possibile futuro democratico della Cina, tra gli studiosi prevale un cauto ottimismo: la tesi più diffusa è che la Cina non è uno stato di diritto ma si avvia ormai a essere uno stato di leggi. Ma anche su questo terreno non mancano i pessimisti secondo i quali la Cina, nella migliore delle ipotesi, starebbe costruendo sì una democrazia ma «all’asiatica», cioè gestita da un potere fortemente autoritario e socialmente inegualitaria28.
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La tesi di Deng non si discosta molto da quella di F. Zakaria, già direttore di Foreign Affairs, secondo cui i paesi del cosiddetto Terzo Mondo che instaurano istituzioni democratiche senza un adeguato sviluppo economico spesso finiscono preda di feroci dittature e per di più vedono peggiorare le proprie condizioni economiche29. Questa tesi per cui la democrazia avrebbe come precondizione lo sviluppo economico ha – come abbiamo visto nelle pagine precedenti – la conferma nell’esperienza dei paesi confuciani con economia sviluppata: non solo il Giappone ma anche la Corea del Sud e Taiwan dove, nel giro di pochi lustri con la crescita economica sostenuta e di lungo periodo, si sono radicate istituzioni democratiche. Quindi, anche sotto questo aspetto la Cina ha tutte le connotazioni del modello di «Stato sviluppista», modello che invece in Giappone oggi non ha più senso, essendo ormai il Sol Levante entrato in una fase per così dire di «de-industrializzazione postsviluppista» (che è poi forse la causa principale della sua lunga crisi). Nello stesso tempo va però sottolineato che in Cina il potere è ancora esercitato con metodi duri, a volte spietati, dal PCC che continua a essere una possente e gigantesca macchina amministrativa e poliziesca, che reprime ogni organizzazione che possa sfuggire al suo controllo sia che si tratti di organizzazioni religiose (come la Chiesa cattolica o la setta Falun Gong) o di formazioni politiche (sindacali, imprenditoriali ecc.). Ma quel che più conta è che negli ultimi
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anni, parallellamente alla crescita economica, si avvertono da una parte un rafforzamento delle autonomie delle comunità territoriali o – per usare un’espressione cara agli intellettuali della New Left – dei «movimenti di base», dall’altra un’attenuazione del controllo del Partito sulla società e sull’economia (si pensi, per esempio, all’apertura del PCC ai «capitalisti»). In definitiva, nella Cina ormai «demaoizzata», il PCC – conformemente al modello teorico dello «stato sviluppista» – ha radicalmente mutato i suoi valori normativi di base: nella politica interna, lo sviluppismo si è sostituito alla lotta di classe, e in politica estera l’economicismo (neomercantilismo) è subentrato alla lotta antimperialista. Oggi anche i cinesi non comunisti vedono il PCC come un male minore e, secondo recenti indagini demoscopiche, lo slogan più diffuso sembra essere: «Arricchiamoci ora, protesteremo dopo». La «ciotola di ferro» (alloggio, cibo, scolarizzazione e funerali garantiti a tutti) di memoria maoista è ormai uno sbiadito ricordo del passato30. Dinamiche geopolitiche e sistemiche I sinopessimisti insistono anche su due variabili esterne. La prima, di carattere regionale, riguarda la situazione geopolitica, vale a dire i rapporti della Cina con i suoi vicini. Per quanto riguarda i rapporti nippo-cinesi, è sufficiente rilevare che alla fase di «disgelo (yūhyō in giapponese) di qualche anno fa è subentrata una fase di «futuro armonioso»
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tra i due paesi, anche se le ferite delle atrocità commesse dal Giappone militarista non sono ancora del tutto rimarginate. Comunque sia, la relazione sino-giapponese è talmente migliorata che non di rado nella pubblicistica internazionale si parla di un «G2 asiatico». A ciò si aggiunga che, con l’adozione da parte di Pechino di una politica «neo-bismarckiana», si è approfondita la cooperazione con i paesi del Sud-est asiatico attraverso il potenziamento delle strutture regionalistiche (si pensi all’ASEAN+3 e agli sforzi attualmente in corso per il progetto ambizioso di una «Comunità dell’Asia Orientale») e sono migliorati anche i rapporti con le altre due grandi potenze asiatiche, che erano ostili durante il bipolarismo, India e Russia. La seconda variabile esterna è di natura sistemica e riguarda essenzialmente il rapporto di Pechino con Washington, in quanto tale rapporto investe la posizione della Cina nel sistema internazionale. Detto in breve, la Cina è una potenza «revisionistica», quindi challenger dell’Iperpotenza, o persegue una politica che mira semplicemente ad allargare la propria sfera d’influenza senza la pretesa di cambiare la polarità del sistema internazionale? Abbiamo già accennato al rapporto simbiotico di natura economica che almeno fino a ora ha legato la Cina agli Stati Uniti: sovraproduzione cinese e sovraconsumo americano, per cui gli Stati Uniti comprano prodotti cinesi e la Cina compra Buoni del Tesoro americano. Questa complessa relazione, definita dagli economisti della
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Banca Mondiale «squilibrio macroeconomico globale», è stata da altri interpretata come una sorta di «incatenamento»: i due paesi sarebbero legati tra loro alle caviglie come condannati ai lavori forzati (chain gang), incatenati l’un l’altro e quindi impossibilitati a muoversi autonomamente31. Quali sono gli effetti di questo specifico rapporto tra le due grandi potenze sul sistema internazionale? Per poter rispondere a questa domanda dovremmo sapere, appunto, se la Cina sia (come molti a Washington ancora credono) effettivamente una «potenza challenger» nei confronti degli Stati Uniti. La convinzione più diffusa in Asia come nelle cancellerie europee, invece, è che in questa fase la Cina non abbia alcun interesse a modificare lo status quo, e quindi a essere una potenza revisionistica. La Cina, non solo dal punto di vista economico ma anche per quanto riguarda gli aspetti strategici, non è stata mai così «tranquilla» e sicura come lo è oggi: il secolo dell’umiliazione è ormai passato e, dopo trent’anni, gli effetti della Rivoluzione Culturale maoista sono ben assorbiti32. Per comprendere la posizione strategica di Pechino può essere utile la storia (vera) che circola oggi in Cina. Sette secoli prima di Cristo, in Cina una dozzina di Stati combattevano per l’egemonia; dopo tre secoli di guerre, sopravvissero sette Stati, di cui uno era una superpotenza: lo Stato di Qin. Due celebri strateghi, Zhang Yi e Su Qin, proponevano alle cancellerie dei sette Stati due opposte visioni del mondo:
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il primo (favorevole all’unipolarismo, diremmo oggi) sosteneva un sistema dominato dalla superpotenza; l’altro stratega, che era invece favorevole a un sistema mulpipolare e basato su un approccio cooperativo, proponeva un fronte comune dei sei Stati per resistere alla supremazia di Qin. Il seguito è noto: lo stratega Su Qin non riuscì a convincere i sei Stati a fare fronte comune, mentre Zhang Yi seppe indurli a rompere l’alleanza contro i Qin, dal quale a uno a uno furono conquistati. Il risultato fu la riunificazione del Paese e la donazione dell’Impero del Centro a opera dei Qin. Molti studiosi cinesi di relazioni internazionali vedono in quest’epoca una prefigurazione alla situazione del mondo di oggi: da una parte sei grandi potenze (UE, Gran Bretagna considerata come potenza distinta, Russia, India, Cina e Giappone), e dall’altra gli Stati Uniti. «Per i sostenitori della linea di Su Qin, l’egemonia e l’unilateralismo dell’America sono inaccettabili e la Cina dovrebbe appoggiarsi sugli altri partner per creare un mondo multipolare. Per i sostenitori della linea di Zhang Yi al contrario Pechino non ha né i mezzi né la volontà di sfidare Washington. Il suo interesse sta quindi in una similalleanza con l’iperpotenza per garantire la pace e lo sviluppo economico»33. Questo rapporto molto confuciano di «similalleanza» potrebbe spiegare l’impressione di ambiguità (o indecisione) strategica da parte di Pechino, rilevata criticamente da numerosi osservatori occidentali.
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L’allora presidente Jiang Zemin, nel discorso tenuto nel novembre 2002 al XVI Congresso del PCC, evitò – con sorpresa di molti osservatori – di lanciare agli Stati Uniti l’abituale accusa di «egemonismo», e da allora il governo di Pechino ha cercato di mostrarsi più come una forza di proposizione che di opposizione, nel senso di evitare «giochi a somma zero» favorendo soluzioni «a somma positiva» (strategie win-win, in cinese shuangying). Come sottolinea, Jean-Pierre Cabestan, con la presidenza di Hu Jintao si è accentuato «questo discorso apparentemente diseologizzato e centrato sui concetti di ispirazione confuciana, come la ricerca dell’armonia (hexie) della “unione senza uniformità” (he er bu tong), come pure la promozione della cultura dell’armonia e della cooperazione (hehe wenhua)»34. Vediamo schematicamente, tenendo conto degli effetti della Crisi in atto, la posizione che oggi la Cina occupa nello scacchiere mondiale, rispettivamente a livello regionale (nell’ambito dell’Asia Orientale e Meridionale), internazionale (nei rapporti interstatali) e, infine, globale (nella complessa rete trasnazionale prodotta dalla globalizzazione). A livello regionale, la Crisi, che ha come effetto secondario quello di rafforzare i rapporti intrasiatici, di fatto sta accelerando i due fenomeni geopolitici più significativi dell’Asia Orientale e Meridionale all’alba del nuovo secolo.
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• Il «rientro» del Giappone in Asia, e segnatamente nel mondo «sinico», da cui era «uscito» dopo l’olocausto atomico. Oggi il Giappone si sente a disagio in un «Occidente» che, avendo perso il suo carattere politico distintivo proprio della Guerra Fredda (difensore della democrazia rappresentativa e dell’economia di mercato), ha assunto una connotazione essenzialmente di tipo culturale. • Una nuova «centralità» della Cina in Estremo Oriente. Come più volte accennato, la Cina negli ultimi anni ha adottato una strategia che può essere definita «neo-bismarckiana» in quanto mira ad affermare la propria sfera di influenza ma con un approccio diplomatico soft nei confronti sia dei paesi vicini (compresi i nemici tradizionali: Giappone, Vietnam, India e Russia) sia dell’iperpotenza con la quale, come sappiamo, è legata da un forte legame di interdipendenza economica (chain-gang). Questi due fenomeni, a loro volta, ne favoriscono un terzo: la «regionalizzazione dell’Asia orientale», peraltro già in atto da tempo. Tra le nuove idee germinate in Asia dalla Terza Grande Crisi, va segnalato l’impegno preso dall’ASEAN+3 (i dieci paesi dell’Associazione del Sud-est Asiatico più le tre maggiori potenze economiche dell’Estremo Oriente: Giappone, Cina e Corea del Sud) di creare un Fondo Monetario Asiatico su modello del FMI, che dovrebbe diventare operativo già entro
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febbraio 2010. L’obiettivo è proteggere la regione dagli effetti dell’attuale crisi finanziaria e di prevenirne in futuro. La proposta è stata significativamente lanciata da Pechino proprio alla vigilia dell’ASEM, il Forum che ogni due anni riunisce i capi di stato o di governo dei paesi europei e dell’Asia orientale (quindi l’unica grande organizzazione internazionale che escluda gli Stati Uniti, colpevolmente mortificata dall’Europa). L’attenzione che all’ultima edizione è stata data è dovuta proprio alla preoccupazione per la Crisi che attanaglia i governi europei, i quali (con qualche eccezione) molto gradualmente e a gran fatica stanno prendendo coscienza che il perno della geoeconomia mondiale si è ormai spostato nel mondo confuciano. Va ricordato che l’idea di un Fondo Monetario Asiatico era stata formulata dal Giappone già nel 1997, al tempo della «crisi finanziaria asiatica», proposta affossata in malo modo dagli Stati Uniti35. A livello internazionale (inter-statale), Pechino persegue una politica estera a tutto campo, proponendosi come modello per i paesi in via di sviluppo, specie dell’Africa. Questi, infatti, al Washington Consensus con il suo rigido e il più delle volte drammatico patto-capestro di «condizionalità», sembrano preferire il Beijing Consensus, anche se alcuni studiosi ne rifiutano la teorizzazione. Di fatto, questo con il suo approccio graduale e pragmatico alle riforme incoraggia l’intervento dello Stato nell’economia per promuovere lo sviluppo, sostenere l’innovazione, proteggere la proprietà
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pubblica senza dover prestare particolare attenzione alla good governance (trasparenza, democrazia, diritti umani…). In effetti, per molti anni i paesi in via di sviluppo si sono trovati in difficoltà con la filosofia del «mondo piatto» del Consenso di Washington. E solo di recente hanno una valida alternativa nel combinare graduali riforme economiche con il controllo dello Stato e le priorità sociali del «Capitalismo socialista del Fiume Giallo». Nelle parole di un analista africano, dopo vent’anni di esasperanti e fallimentari riforme basate su «aggiustamenti strutturali» imposti dal Washington Consensus, oggi «la Cina rappresenta la speranza che sia possibile un altro mondo in cui il pane viene prima della libertà di voto»36. In Occidente, tuttavia, in genere si tende a valutare la crescente presenza cinese in Africa non come un tentativo di liberarla dal sottosviluppo attraverso uno sforzo di «solidarietà Sud-Sud»37, ma al contrario come un modo di conquistarla, di «vassallizzarla», cioè di renderla un territorio «tributario» nel rinascente neo-sinocentrismo. In altre parole, l’obiettivo di Pechino sarebbe quello di sfruttarne le ingenti risorse naturali per far fronte alla bulimia di materie prime, anteponendo i propri interessi economici a considerazioni sull’ambiente e sui diritti umani. E non mancano analisti che accusano la Cina di neoimperialismo, per certi versi peggiore di quello occidentale del passato. Si spiegherebbe così il tentativo in atto da parte di Pechino di aprire all’estero una serie
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di Hubs Economici Speciali, che fungerebbero da nuovi «tributari del Fiume Giallo»: come il Metals Hub in Zambia (per l’approvvigionamento di rame, cobalto, diamanti, uranio e stagno); il Trading Hub nelle isole Mauritius (che fornirebbe agli uomini d’affari cinesi l’accesso agli Stati del Mercato Comune dell’Africa Orientale e Meridionale, che s’estende dalla Libia allo Zimbabwe, nonché l’accesso all’Oceano Indiano e ai mercati dell’Asia Meridionale); ancora lo Shipping Hub (da localizzarsi eventualmente in Tanzania, a Dar es Salaam)38. È effettivamente difficile considerare gli obiettivi strategici perseguiti da Pechino in Africa nell’ambito di un programma di «solidarietà Sud-Sud»; ma è anche difficile negare che questi stessi obiettivi ben s’inquadrano in un approccio di tipo realistico che di fatto è perseguito da tutte le grandi potenze. Semplicemente, la presenza di Pechino in Africa va vista nel quadro dell’espansione del capitalismo socialista cinese; e a questo fine indubbiamente il «continente nero», dove le regole relative all’ambiente, al lavoro e alla trasparenza sono poco severe, appare la regione ideale per l’internazionalizzazione delle sue imprese. Gli africani sono consapevoli delle trappole della presenza cinese e che questa rappresenta un freno alla democrazia; ma sono anche consapevoli che è grazie a essa che il Continente è stato trainato nella globalizzazione capitalistica, evitandone la marginalizzazione che appariva inevitabile con l’abbandono da parte
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dell’Occidente. Come ha sottolineato Jean-Léonard Touadi, «per i sostenitori dell’urgenza di creare uno spazio eurafricano, la lezione cinese dovrebbe rappresentare una sfida da raccogliere e da vincere alle porte di casa, porte che si colorano di un giallo sempre più intenso, anno dopo anno»39. La crescita di prestigio di Pechino a livello internazionale è apparsa fin troppo evidente ai summit del G20 che, al di là dei risultati concreti (scarsi), hanno riconosciuto il nuovo status della Cina fra le grandi potenze assestando un colpo alla residua credibilità politica del G8. Del resto, come già detto, in molti hanno visto nel Quinto incontro sino-americano dello Strategic and Economic Dialogue (SED), svoltosi il 4 e il 5 dicembre a Pechino, una prefigurazione di un futuro G2: in breve, nel giro di pochi anni si sta passando dal G8 al G2 via G20. A livello globale, infine, la Cina – vero e proprio «statocontinente» – con la sua tradizionale vocazione «universalistica» derivantegli dalla classica dottrina del Tianxia – è la grande beneficiaria della transnazionalizzazione prodotta dalla globalizzazione economica. Ma il nuovo Impero del Centro, mentre gode dei vantaggi economici della globalizzazione, dal punto di vista politico, è strenuo sostenitore di un ordine politico vestfaliano, della domestic jurisdiction: insomma, Pechino si è assunto il ruolo di cane di guardia della sovranità statale e della non interferenza negli affari interni, il che indubbiamente costituisce un problema
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soprattutto per noi europei, entrati – dopo due spaventose guerre fratricide – in una fase storica che possiamo considerare ormai post–vestfaliana grazie a quell’atto di volontarismo storico che è la creazione dell’Unione Europea. La Cina e la Terza Grande Crisi La Grande Crisi scoppiata negli Stati Uniti nell’estate 2007 ed estesasi velocemente a macchia d’olio in tutto il pianeta, pur avendo colpito la Cina ma in misura minore rispetto all’Europa, sta spingendo la «quarta generazione» oggi al potere (guidata da Hu Jintao) a prendere una serie di iniziative che potrebbero trasformare la stessa struttura del sistema economico cinese e nel contempo rafforzare ulteriormente la posizione non solo geoeconomica ma anche geopolitica di Pechino nello scacchiere internazionale. Il principale e immediato effetto della Crisi è stato un drastico calo delle esportazioni cinesi, segnatamente negli Stati Uniti che sono la principale meta dei flussi commerciali cinesi. Ne è conseguito un significativo abbassamento del tasso di crescita che nel giro di circa due anni sembrava essersi quasi dimezzato. Va aggiunto che al momento in cui compiliamo queste note (ottobre 2009), esso è risalito in misura significativa, al 9 per cento circa: secondo la spiegazione data unanimamente dagli analisti, questa risalita è dovuta a un aumento dei consumi interni. In effetti, la Crisi, rendendo meno dipendente l’economia cinese dalle
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esportazioni, sta favorendo un significativo allargamento della domanda interna, come peraltro richiesto con forza dalla New Left, che come sappiamo è una delle tre principali scuole di pensiero che caratterizza il dibattito politico in Cina negli ultimi anni. Quel che va sottolineato è che queste due tendenze (riduzione della dipendenza dalle esportazioni e aumento dei consumi) figuravano già tra i dieci obiettivi del XI piano quinquennale (2006-10): in particolare, l’VIII obiettivo («fare della domanda interna l’asse strategico di un’economia aperta») e il I obiettivo che così recita: «Passare da un’economia pilotata dal credito, dal lavoro e dalle risorse naturali a un’economia guidata dall’innovazione tecnologica e dal capitale umano». Ed è in questo contesto che va inquadrato il massiccio piano di interventi lanciato dal governo di Pechino, un megaprogetto che ha pochi precedenti nella storia del capitalismo e che suscita qualche dubbio in merito alla sua piena realizzazione. In realtà, il primo ministro Wen Jiabao già nel marzo 2006 (quindi prima dello scoppio della Terza Grande Crisi) aveva affermato che la crescita del paese doveva puntare sulla qualità, considerando il 7,5 per cento un tasso ragionevole, e sull’aumento della domanda interna stimolando i consumi. Sulla stessa linea, il Consiglio di Stato ha identificato i settori in sovrapproduzione (coke, carburo di calcio, siderurgia, ferroleghe e alluminio) e altri quattro in superproduzione acuta (carbone, produzione di elettricità,
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cemento e fibre tessili). Il successo della politica di sostegno per superare la crisi è facilitato dal fatto che in Cina, a differenza per esempio dell’Italia, il debito pubblico è pressoché inesistente. Tre sono le principali dinamiche programmatiche, fra loro strettamente connesse e (ripetiamolo) coerenti con il succitato piano quinquennale. • Far fronte alle conseguenze immediate della Crisi (forte riduzione delle esportazioni) mantenendo la crescita stabile a un tasso meno elevato, come del resto avvenne in Giappone agli inizi degli anni Settanta sotto gli effetti congiunti del «Nixon shock» (la dichiarazione di non convertibilità del dollaro) e la prima crisi petrolifera; il tasso di crescita del Giappone all’inizio degli anni Settanta scese bruscamente al 4-5 per cento dopo un lungo periodo di «alta crescita». • Allargare la domanda interna con un aumento dei consumi, con conseguente riduzione della propensione al risparmio (particolarmente alto negli ultimi decenni, come in genere in tutte le economie confuciane), unitamente a un ulteriore allentamento della politica monetaria. • Estendere l’area di sviluppo dalla zona costiera (ricca e iperindustrializzata) verso Ovest, cioè verso le regioni meno sviluppate dell’interno, soprattutto la Cina centrale ma anche la Cina occidentale che comprende le due
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regioni autonome «ad alta vulnerabilità geopolitica» per la presenza di forti minoranze indipendentiste (i tibetani e gli uiguri). Di conseguenza, rispetto all’attuale divisione internazionale del lavoro, la Cina si collocherebbe in una nuova posizione caratterizzata da un più alto livello tecnologico e da una minore intensità di manodopera. In questo modo, la crescita dell’economia cinese potrebbe ridurre il suo carattere «estensivo», sottolineato negativamente da Paul Krugman, a vantaggio di una connotazione per così dire più intensiva. Nello stesso tempo, si attenuerebbero le spaventose disuguaglianze sociali e regionali, riducendo il pesante deficit di welfare. A Pechino si tende a vedere la crisi in corso come una duplice opportunità. In primo luogo, per ridurre la dipendenza dell’economia nazionale dalle esportazioni con un allargamento della domanda interna, e in questo modo aumentare anche la capacità di resistenza ai rischi esterni. In secondo luogo, per ridurre le ormai insostenibili distorsioni socioeconomiche e più in generale le tante vulnerabilità interne (degrado ambientale, sanitario…), distorsioni e vulnerabilità su cui insistono i «sinopessimisti». Tutto ciò potrebbe contribuire a ridurre in Cina il deficit democratico del sistema politico, oggi non è più totalitario ma fortemente autoritario. Come conclusione, possiamo dire che, nell’attuale sistema internazionale in cui l’Iperpotenza presenta forti segni di
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«declinismo» a prescindere anche dalla Crisi, e tenendo conto della svolta che il presidente Obama sta cercando di imprimere alla politica estera degli Stati Uniti, la Cina oggi non può essere considerata una potenza «revisionistica». Al contrario, oggi la Cina, nonostante permangano gravi contraddizioni e pericolose vulnerabilità, appare: • geopoliticamente una potenza tranquilla, sicura delle sue frontiere; • geoeconomicamente una potenza pienamente soddisfatta, in rapida ascesa (fast rising power); • geoculturalmente una potenza sicura di sé, che guadagna punti anche in termini di soft power soprattutto presso i paesi emergenti e in via di sviluppo. È opinione diffusa tra gli analisti, orientali e occidentali, che la Cina – attore decisivo sia a livello sistemico (→ G2, secondo la tesi di un potenziale condominium sino-americano) sia a livello regionale (→ G2 asiatico) – possa contribuire non solo al superamento della Terza Grande Crisi ma anche ad affrontare con efficacia le tre sfide globali che rendono ancora più drammatica l’attuale congiuntura economica: la crescente iniquità sociale, la sempre più problematica sostenibilità ambientale e la gestione della diversità culturale.
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Note 1. Per l’approfondimento dei vari temi trattati in questa sezione e per la relativa bibliografia, si rinvia a F. Mazzei, «A trent’anni dalla morte di Mao» cit. 2. Sulla logica «yin-yang», oltre a quanto detto nelle pagine precedenti, vedi A. Chieng, La pratica della Cina – Cultura e modi di negoziare, O barra O edizioni, Milano, 2007, pp. 96-98; F. Jullien, Strategie del senso in Cina e in Grecia, Meltemi Editore, Roma, 2004. 3. Vedi T. Sanjuan, «Comprendre la Chine contemporaine par les mots des sciences socials», in Chine, nouveux enjeux géopolitiques, numero 125 (2007) di Hérodote – revue de géographie et de géopolitique, p. 7; F. Mazzei, op. cit. 4. È la tesi di fondo di Asia al centro, cit., cui si rinvia per un approfondimento. 5. Goldman Sachs, Global Economics paper No. 99, October 2003, dati riportati in Cindia: la sfida del secolo, numero speciale di Limes, n. 4, 2005, p. 8. 6. Mazzei e Volpi, op. cit., pp. 183-84. 7. Si tratta beninteso di un’area che risponde alle caratteristiche del regionalismo asiatico. Vedi F. Mazzei, «Geeconomia e geocultura dell’Asia Orientale», Politica Internazionale, IPALMO, nn. 3-4, maggio-agosto 1998; F.M. Greco, «Prove di integrazione in Asia orientale», Limes, novembre 2006. Sull’evoluzione in corso, vedi N. Lanna, «Il rientro in Asia del Giappone e le sfide del multilateralismo regionale: dalla Eas Asian Economics Cancus alla Comunità dell’Asia Orientale«, in Scritti in onore di Adolfo Tamburello, Dipartimento di Studi Asiatici Università degli Studi di Napoli «L’Orientale», in corso di stampa. 8. Vedi M. Deaglio et al., Il sole sorge a Oriente, Guerini e Associati, Milano, 2005. 9. Non può non stupire la vertiginosa progressione del commercio sino-africano, cresciuto del 294 per cento tra il 2003 e il 2007; ed è comprensibile che ciò susciti in Europa inquietanti interrogativi sulla natura della presenza di Pechino nel «Continente dimenticato». In realtà, quel che dovrebbe più stupire maggiormente è il fatto che ancora oggi – nonostante questa straordinaria progressione – solo il 10,3 per cento delle esportazioni africane è destinato alla RPC, contro il 40 per cento destinate all’UE. L’Africa non rappresenta che il 4,1 per cento del commercio della Cina Popolare nel 2008. Comunque sia, per la Cina, l’Africa è un sicuro sbocco per la sua possente industria manifatturiera; ma soprattutto è diventata un vero e proprio serbatoio di materie prime, come idrocarburi e minerali indispensabili alla sua crescita economica. 10. Vedi I. Bensidoun, «L’imbrolio des inégalités», in CEPII, L’Économie mondiale, La Découverte, Paris, 2004. 11. Vedi F. Mazzei, «A trent’anni dalla morte di Mao» cit. 12. Sull’argomento, vedi Gipouloux, La Chine du 21e siècle. Une nouvelle superpuissance?, Armand Colin, Paris, 2005. 13. A conclusioni simili giunge Will Hutton, che è particolarmente critico dell’attuale situazione economica cinese: il «corporativismo leninista», come egli definisce l’attuale politica economica
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della RPC, impedirebbe lo sviluppo delle imprese private e delle istituzioni indispensabili per una effettiva e duratura crescita dell’economia. In effetti, le SOEs, imprese statali per lo più improduttive e quasi sempre fortemente indebitate, dominano ancora la produzione nel suo insieme. Vedi W. Hutton, The Writing on the Wall: China and the West in the 21st Century, Little Brown, Londra, 2007. 14. F. Gipouloux, op. cit., p. 44. 15. J. Banister, Manufacturing Employment and Compensation in China, US Department of Labour, 2004; E. Lett e J. Banister, «Labor Costs of Manufacturing Employees in China: An Update to 2003-04,» Monthly Labour Review, November 2006, pp. 40-45; Gipouloux, op. cit., pp. 188-189. 16. Mazzei e Volpi, op. cit., p. 174. 17. Dal 1995 la legge ha ridotto la settimana lavorativa da 50 a 44 ore su 5 giorni lavorativi, con 2 settimane di ferie pagate all’anno e straordinari remunerati con un aumento del 50 per cento. Tuttavia, si tratta di disposizioni difficilmente rispettate. 18. Vedi M. Weber (a cura di), La Cina non è per tutti, Olivares, Milano, 2005. 19. Questa moneta dovrebbe essere istituita secondo un percorso simile a quello che ha caratterizzato la nascita dell’euro: individuate bande di oscillazione controllate tra le monete aderenti, si giungerebbe poi all’istituzione dell’INTOR, una moneta paniere mondiale basata per il 50 per cento sulle cinque divise più forti (il cui peso sarebbe così ripartito: 22,5 per cento dollaro USA, 14,5 per cento euro, 7,5 per cento yen, 5,5 per cento sterlina inglese) e per il 50 per cento legata all’oro. In questo modo, l’INTOR sarebbe sostanzialmente controllata dai paesi con maggior peso economico e quindi ricondotta agli interessi di specifiche sovranità nazionali. Sul piano Keynes e le proposte cinesi, vedi S. Rossi, «Oltre il dollaro», La Cina spacca l’Occidente, quaderno speciale di Limes, 4/2009. 20. Dopo Cina e Giappone, al terzo posto si colloca il Regno Unito. 21. A questo riguardo il sociologo filippino Walden Bello scrive: «Il governo cinese potrebbe mitigare gli effetti di un eccesso di capacità produttiva espandendo il potere d’acquisto popolare attraverso una politica di redistribuzione dei redditi e delle risorse. Fare questo significherebbe probabilmente rallentare la crescita, ma anche avere maggiore stabilità interna e globale. Questo è ciò che consigliano i cosiddetti intellettuali della Nuova Sinistra cinese e analisti politici. Le autorità cinesi, tuttavia, hanno scelto evidentemente di continuare con la vecchia strategia di dominare i mercati mondiali sfruttando la manodopera a basso costo del paese. […] A parte gli effetti politici potenzialmente destabilizzanti di una distribuzione regressiva dei redditi, […] la crisi globale di sovrapproduzione peggiorerà se la Cina continuerà a svendere la sua produzione industriale su mercati mondiali le cui scelte sono dettate da una crescita lenta». Vedi W. Bello, «Economia della Chain Gang – La strana relazione economica tra Cina e Usa», tratto da Foreign Policy In Focus 3 November 2006 (http://www.zmag.org/italy/bello-economiachaingang.htm). 22. R. Perelman, «L’énergie, talon d’Achille de la croissance chinoise», Futuribles, n. 296, avril 2004, pp. 33-41 ; F. Mazzei, «Stato e società in Cina…» cit.
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23. Per una breve rassegna della legge in oggetto, vedi V. Magliaro, «Dalla Collettivizzazione alla Proprietà privata», Cina aperta, Associazione Italia/ Cina, Anno II, n. 4, 15 aprile 2007. 24. Y. Guermond, La Chine, Belin, Paris 2007, pp. 140-46. Si veda anche Mazzei, «A trent’anni dalla morte di Mao…» cit. 25. Mazzei, op. cit. 26. F. Obringer, «La croissance économique chinoise au péril de l’environnement: une difficile prise de coscience», in Chine, nouveux enjeux géopolitiques, numero 125 (2007) di Hérodote – revue de géographie et de géopolitique, pp. 95-104; Li Si-ming e Wong Koon-kwai, «Urbanisation et risques environnementaux dans le delta de la riviére de Perles», in ibidem, pp. 105-26. 27. Deng Xiaoping, Problemi fondamentali della Cina, 1987, cit. in F. Mazzei, World Politics, Pres. PP, Dc. Pol-UNO, Napoli, 2009. 28. Gentelle, Chine: un continent… et au delà cit.; B. Gilley, China’s Democratic Future: How It Will Happen and Where It Will Lead, Columbia University Press, New York, 2005. Andrew J. Nathan ha classificato le posizioni dei esperti in tre gruppi: i sostenitori del collasso del regime comunista, coloro che credono nella futura democratizzazione del sistema, i pessimisti per i quali l’attuale autoritarismo è destinato a durare, vedi A. J. Nathan, «Present and the Stagnation», Foreign Affairs, luglio-agosto 2006. Secondo James Man (The China Fantasy), la Cina seguirà una «terza via»: continuerà la sua crescita economica mantenendo però un regime autoritario, in quanto la classe media, che negli altri paesi asiatici costituisce l’avanguardia della democrazia, sarebbe un ostacolo al cambiamento. 29. F. Zakaria, The Future of Freedom: Illiberal Democracy at Home and Abroad, Aprile 2003. Si veda pure S.N. Eisenstadt, Paradossi della democrazia – Verso democrazie liberali?, il Mulino, Bologna, 2002, in cui si sostiene che la democrazia, «dal carattere più eralicliteo che parmenideo», cioè più figlia del divenire che dell’essere, è già in sé portatrice di un paradosso, in quanto è in costante superamento delle regole del gioco esistenti ottenuto però con quelle medesime regole. «Un equilibrio sempre sotto sforzo, che non si può accontentare di se stesso, che si affina e si riassesta proprio a seguito delle sfide lanciate dai vari movimenti di protesta, a patto che possano essere incorporati e che si lascino incorporare. Non tutte le esperienze di democrazia concreta tuttavia, per ragioni storiche, culturali, identitarie, religiose, sono, o sono state, in grado di integrare nuove rivendicazioni e la globalizzazione rischia di irrigidire ulteriormente i già fragili regimi democratici.» Vedi Mazzei, op. cit. 30. Ibidem. 31. Come ha osservato Walden Bello (op. cit.), «questa relazione sta prendendo sempre più la forma di un circolo vizioso. Da un lato, la pericolosa crescita cinese dipende in misura sempre maggiore dalla capacità dei consumatori americani di continuare a consumare gran parte dell’output della produzione cinese determinato dagli eccessivi investimenti. D’altra parte, l’alto tasso di consumi americano dipende dai prestiti di Pechino, nei settori pubblici e privati statunitensi.» In questo processo di trasformazione è intervenuta la Crisi sui cui effetti in Cina ci soffermeremo tra poco.
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32. Come sottolineato in Asia al centro (cit.), due sono le ossessioni geopolitiche tradizionali della Cina: paura di smembramento territoriale; timore delle invasioni straniere. Espressione di questa duplice vulnerabilità può essere considerata la Grande Muraglia. Oggi, è sulla base di queste due ossessioni che il PCC punta sul nazionalismo per ottenere il consenso politico. 33. Zheng Ruolin, La revue pour l’intelligence du monde, n. 10, Sept./Oct 2007, p. 136. 34. J.-P. Cabestan, «La politique étrangère chinoise: une Chine sans ennemis n’est pas forcément une Chine rassurante», in Chine, nouveux enjeux géopolitiques, numero 125 (2007) di Hérodote – revue de géographie et de géopolitique, p. 15, virgolettatura nostra. Vedi anche F. Mazzei, «Nuova centralità della Cina e “rientro” del Giappone in Asia», Politica Internazionale, gennaio/ giugno 2004. 35. Il Fondo Monetario Asiatico avrebbe dovuto fornire ai paesi della regione in crisi gran parte delle liquidità necessarie. La proposta – come è noto – fu malamente affossata dagli Stati Uniti, timorosi che la creazione di un organismo finanziario regionale sotto l’egida della seconda potenza economica mondiale potesse in qualche modo fare concorrenza al FMI, che è uno dei maggiori strumenti globali della supremazia americana. Fu quindi fatto intervenire il FMI, con il suo abituale pacchetto di inesorabili politiche di aggiustamento strutturale destinate a salvare i creditori, ad aprire settori protetti dell’economia e a comprimere la domanda interna. 36. Vedi F. Manji e St. Marks (a cura di), African Persspectives on China in Africa, Fahamu, Cape Town, 2007. 37. Come nel caso della celebre ferrovia Tanzam, costruita dalla Cina tra il 1970 e il 1975 per unire Tanzania e Zambia. 38. M. Leonard, op. cit. 39. J.-L. Touadi, «Soccorso giallo. La crisi battezza Cinafrica», La Cina spacca l’Occidente, numero sociale di Limes, 4/2009, p. 82.
9. Il gigante dimenticato
IL GIAPPONE – DALLA CENERE ALL’ALTARE
Sconfitta, olocausto atomico e ricostruzione Le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945, con la tragedia umana dell’olocausto nucleare che ne seguì, posero drammaticamente fine al sogno giapponese di una «Grande area di coprosperità dell’Asia orientale» sotto l’egida di Tokyo. La resa incondizionata dell’imperatore Shōwa il 15 agosto successivo evitò la distruzione completa del paese da parte dei bombardieri americani e impedì l’esecuzione di altri massacri della popolazione. La voce flebile e tremante dell’imperatore, in un linguaggio quasi incomprensibile ai comuni giapponesi, invitò dagli altoparlanti, serviti per la propaganda politica i sudditi a «sopportare l’insopportabile». Fu uno shock drammatico per un paese già prostrato e alla fame. I giapponesi dovevano anche prepararsi ad affrontare l’invasione straniera, un’esperienza sconosciuta nella storia millenaria dell’Impero del Sol Levante1.
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Il sogno degli uomini dei feudi (han) di Chōshū e Satsuma, che nella seconda metà del XIX secolo era stato determinante per la fine dello shogunato Tokugawa dando l’avvio al Giappone moderno, sembrava svanito nell’immensa catastrofe. Dalla tragedia di una nazione distrutta materialmente e moralmente, con la sua potenza industriale ed economica a pezzi, nacque tuttavia un paese nuovo pronto, ad aprirsi al mondo e a imparare la convivenza con gli altri popoli e con le diversità presenti sul pianeta. I problemi sul tavolo che l’occupazione alleata, in un primo tempo, e i governanti locali, in seguito, dovettero affrontare erano enormi: milioni di persone erano rientrati dalle ex colonie e dai territori d’oltremare occupati. Ad attenderli c’erano soltanto fame e miseria. Le vittime della guerra erano state 1.850.000, un terzo delle quali perite sotto i bombardamenti americani. Soltanto le due bombe atomiche avevano causato più di 300.000 morti. Il 40 per cento delle aree urbane era distrutto e oltre 2,2 milioni di case erano state bruciate e rase al suolo. La produzione industriale si era ridotta a un terzo rispetto a quella del 1930. Nella disgrazia, però, si erano verificate anche delle circostanze favorevoli. I sovietici, nemici tradizionali dei giapponesi, violando il patto di non aggressione sottoscritto con il Ministro degli esteri Matsuoka nel 19412, avevano invaso le Curili meridionali, un gruppo di quattro isole che oggigiorno i giapponesi classificano come «i territori del nord» e di cui
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reclamano la restituzione come precondizione per la firma del trattato di pace con la Russia. Fortunatamente, grazie all’intervento degli Alleati, erano stati fermati prima che essi si avviassero verso Tokyo, certamente con l’intenzione di dividere il paese come era successo in Germania, mantenendo sotto il loro controllo tutta la parte a nord della capitale. Una replica di Berlino e della divisione della Germania fra Est e Ovest sarebbe stato un evento fatale per il futuro del Giappone. L’occupazione degli Alleati, di fatto americana, fu guidata dalla mano ferma, illuminata e generosa di Douglas MacArthur, «lo shōgun americano», al quale il Giappone deve molta riconoscenza. Infatti, fu lui che difese l’integrità nazionale del paese, impose riforme strutturali e aiutò efficacemente la ricostruzione dell’economia. Rivedendo il film «Il Sole» del regista russo Sokurov3 ci si può rendere conto della drammaticità degli eventi del periodo e della difficoltà anche per gli americani di comprendere un contesto culturale come quello giapponese così diverso dal proprio. Ciononostante MacArthur e i suoi consiglieri capirono che l’importanza dell’Imperatore del Giappone non risiedeva nel potere politico da lui esercitato bensì nella simbolicità della sua figura. Alle proposte, perciò, dei falchi del Congresso americano che proponevano processo, condanna e, forse, impiccagione per l’Imperatore, il generale americano reagì con conoscenza di causa e vinse la sua battaglia. Aveva concluso,
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come scrive nelle sue Memorie, che il Tennō era il «primo gentiluomo giapponese», evitando così una probabile lotta senza quartiere e la rivolta civile. I primi obiettivi di MacArthur erano la democratizzazione e la smilitarizzazione del Giappone. A questo fine, mise in cantiere e portò a compimento riforme di portata eccezionale, in primo luogo una radicale riforma agraria che pose fine al latifondismo di «proprietari parassiti» (kisei-jinushi) e, vendendo sottocosto ai contadini la terra espropriata, in soli quattro anni creò una solida classe di piccoli proprietari terrieri. Nel 1947 fu varata la nuova Costituzione «democratica», scritta originariamente in inglese da collaboratori di MacArthur, basata su tre principi fondamentali: la sovranità dei cittadini, cui è riconosciuta una lista (particolarmente lunga per quel tempo) di diritti; la clausola pacifista (art. 9 con cui il Giappone rinuncia non solo alla guerra come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali ma anche a regolari forze armate); il ruolo dell’Imperatore ridotto a mero «simbolo» dell’unità nazionale e quindi privato di qualsiasi effettivo potere politico. La riforma della scuola, che portò da sei a nove anni l’istruzione obbligatoria, ebbe come scopo primario l’insegnamento dei valori democratici, ponendo l’accento sui doveri e diritti dei cittadini in una nuova società democratica. Il nuovo codice civile cambiò il concetto di famiglia, allineandolo a quello dell’Occidente.
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Il diritto commerciale, modellato su quello americana, introdusse il concetto della corporate democracy. Gli occupanti americani imposero lo smembramento dei grandi complessi industriali integrati – gli zaibatsu – e l’approvazione di una legge antimonopolio per porre fine ai monopoli o oligopoli, favorendo il modello del mercato e della concorrenza. Ciò comportò una «purga» del management e della burocrazia giapponese. In aggiunta ai militari – a questo riguardo si ricorderà il Tokyo saibansho4, il tribunale di Tokyo contro i criminali di guerra sul modello di quello di Norimberga – furono quindi rimossi dalla scena alti dirigenti della burocrazia e migliaia di manager di banche e grandi imprese. La nuova Costituzione istituì un sistema parlamentare bicamerale di democrazia rappresentativa, lasciando ampio spazio all’opposizione, con la «liberalizzazione» dei partiti di sinistra e dei sindacati operai, che già nel 1949 superavano i sette milioni d’iscritti. In pochi anni, era nato un paese nuovo, strutturato su un modello democratico, aperto al mercato, garante dei diritti civili. In una società conservatrice e governata da burocrati e militari, s’era inserito, grazie alla estromissione dei vecchi quadri dirigenti, un management molto giovane, meno compromesso con il passato.
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La Guerra Fredda, la Guerra di Corea e la «dottrina Yoshida» La fine degli anni Quaranta segna un’intensificazione del confronto USA-URSS. La rivalità tra le due superpotenze non assume la forma di scontro militare diretto, ma si manifesta con un irrigidimento, muro contro muro, delle due superpotenze emerse vittoriose dalla Seconda Guerra Mondiale: è la gestione bipolare del Sistema Internazionale con la sua spietata strategia della Guerra Fredda. Dal 1947, l’attenzione della politica estera americana, allo scopo di difendere le proprie posizioni in Estremo Oriente nell’ambito della strategia del contenimento, è puntata sul Giappone come alleato. L’America ha bisogno di una base amica per imporre la propria egemonia sull’Asia marittima e contenere quella continentale orientata verso l’Unione Sovietica. A tal fine, bisognava promuovere velocemente la rinascita economica del Giappone e, in pari tempo, rimettere sotto controllo la situazione politica che incominciava a navigare in acque tempestose. Le opposizioni e i sindacati, infatti, una volta affrancati dall’oppressione politica del regime militarista, avevano avuto «carta bianca» per conquistare posizioni e influenza. La posizione ufficiale degli americani nei confronti dei sindacati (e dei partiti della sinistra), tuttavia, si modificò gradualmente da «incoraggiamento e tolleranza» in «opposizione». Il loro entusiasmo per lo scioglimento degli
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zaibatsu divenne prima tiepido per poi raffreddarsi del tutto. I politici conservatori giapponesi, la burocrazia e il business del Giappone, vista l’opportunità’ e l’incoraggiamento, ritornarono ad avere piena libertà d’iniziativa: la chiesa era ritornata al centro del villaggio! Nel 1948, il Programma di stabilizzazione economica pose le premesse per una veloce ripresa e già l’anno successivo l’inflazione ritornò a essere sotto controllo. Il kamikaze, o vento divino, – lo «stellone dei giapponesi» – ricominciò a mostrare il suo volto propizio con lo scoppio del conflitto fra le due Coree nel 1950. L’industria giapponese divenne la principale fonte di approvvigionamento per gli eserciti delle Nazioni Unite e nelle casse di Tokyo cominciarono ad affluire capitali, profitti e preziosissima divisa estera, indispensabili per l’acquisto di materie prime e tecnologie di processo fondamentali per lo sviluppo del paese. Si stima che il Giappone abbia ricavato dal conflitto coreano oltre 2 miliardi di dollari di aiuti da parte degli Stati Uniti e dagli Alleati: un’inaspettata manna dal cielo che creò le premesse per un avvenire brillante per l’economia del Sol Levante. Questa fortuna arrivò in un momento critico della congiuntura economica. Come stava avvenendo in Europa, ove avevano inizio i «gloriosi trent’anni», il GHQ – il quartier generale alleato – aveva supportato la manovra keynesiana di stimolo dell’economia mediante investimenti statali. Tuttavia questa misura stava causando un’alta inflazione e la creazione di un deficit di
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bilancio pericoloso. Le pronte direttive del GHQ di mettere in atto politiche anti-inflazionistiche e una maggiore disciplina fiscale furono quindi tempestive ed efficaci, al punto che nel 1956 il Pil era superiore a quello del 1930. Così, dopo dieci anni di grandi sacrifici, di duro lavoro e molta fortuna, il paese stava riemergendo come la fenice dalle ceneri e aveva creato le premesse di un miracolo economico senza precedenti. L’occupazione americana ebbe termine nel 1952, sulla base del Trattato di Pace di San Francisco firmato nel 1951 contestualmente al Trattato di Sicurezza Nippo-Americano (Anpō Jōyaku), con cui tra l’altro il Giappone offriva basi militari agli Stati Uniti ottenendo in cambio protezione militare. Tokyo riuscì, tuttavia, ad avere carta bianca in campo economico, campo in cui gli Stati Uniti si dimostrano per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta particolarmente generosi e tolleranti (in termini di protezionismo, di cambio dello yen)5. La politica estera attuata dal Giappone nel dopoguerra, nata dal «doppio trattato di San Francisco del 1951», è nota come «dottrina Yoshida», dal nome del primo ministro Yoshida Shigeru, il De Gasperi giapponese. Frutto della Guerra Fredda, questa dottrina può essere riassunta nei seguenti quattro principi:
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• antimilitarismo: basato sull’art. 9 della Costituzione mackarturiana ma ben presto interiorizzato dal popolo giapponese; • bilateralismo: relazione speciale con Washington; • astensionismo: atteggiamento passivo (non «proattivo») in politica estera, che di fatto venne delegata a Washington, da cui l’arcipelago dipendeva in materia di sicurezza sulla base del «sistema del ’51 di San Francisco»; • economicismo: la nuova strategia mira alla conquista di mercati e allo sviluppo economico, obiettivo prioritario dello «Stato sviluppista», e non più alla conquista territoriale. Il periodo dell’alta crescita (1955-73) Dal 1955 in poi, la crescita dell’economia giapponese fu sorprendente. Nulla di simile si era visto nel passato. Ininterrottamente, per ben diciotto anni, il Pil crebbe a un ritmo del 10 per cento. Si trattò di un’espansione programmata e con obiettivi ben definiti da parte della «mano visibile», secondo la scala tecnologica della metafora del «volo delle anatre selvatiche». In primo luogo ci furono gli investimenti nel settore tessile e nell’industria leggera; poi, nella seconda metà degli anni Cinquanta, seguì l’industria pesante: acciaio, edile, macchinari importanti. All’inizio degli anni Sessanta
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cominciarono ad affermarsi le auto, l’elettronica e il settore delle macchine di precisione. Lo sviluppo industriale di tipo EOI (Export Oriented Industrialization) era congeniale alla situazione giapponese perché consentiva di esportare e ricavare divisa estera per pagare le materie prime di cui il paese era privo e le tecnologie necessarie allo sviluppo. Dalla metà degli anni Sessanta, il Made in Japan incominciò a farsi notare in tutti i mercati mondiali. Un supporto formidabile nello sviluppare tali mercati il Giappone lo trovò nelle famose sogo shosha, le grandi trading company – spin off dei vecchi zaibatsu e come abbiamo già visto elementi essenziali dei nuovi keiretsu: le loro antenne erano attive in tutti i mercati con una presenza capillare di migliaia di esperti presenti in tutto il mondo. A tutto questo si aggiungevano una conoscenza dei mercati straordinaria, una robusta capacità di investimenti diretti o in joint-venture con i produttori, finanziamenti illimitati dalle banche giapponesi con l’incoraggiamento della burocrazia. Nomi come Mitsubishi Shoji, Mitsui Bussan, C. Itoh, Sumitomo diventarono presto marchi di eccellenza e giocarono un ruolo vitale nel supportare non solo le esportazioni ma anche nel portare verso il Sol Levante materie prime, idee e prodotti da tutto il mondo. Agli stessi gruppi sono debitori del loro successo in Giappone anche tutti i grandi marchi italiani della moda, dei macchinari e degli alimentari.
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Nel 1960, rinnovato il Trattato di Sicurezza Nippo-americano nonostante una massiccia e violenta opposizione popolare, si chiude in Giappone il cosiddetto «periodo della politica» dominato dagli intellettuali progressisti e inizia quello dell’economia6. Il nuovo primo ministro Ikeda lancia il progetto di raddoppiare il Pil in dieci anni, che invece viene realizzato in appena sette anni. In effetti, già nel 1968 il paese era pronto a tagliare il primo grande traguardo: l’oikoshi – il sorpasso – della possente economia tedesca fu una grande vittoria per i giapponesi. Il Sol Levante era la seconda potenza economica dell’Occidente. Il boom economico favorì una grande espansione dei consumi e l’arrivo, grazie anche alla piena occupazione, del benessere, dell’household income, degli stipendi un’opulenza mai gustata prima si riversò nelle case dei giapponesi. Nuovi prodotti, frigoriferi, lavatrici, macchine da cucire, televisori, condizionatori d’aria, sistemi audiovisivi riempirono letteralmente le abitazioni dallo spazio contenuto e, perlomeno nelle grandi città, contribuirono a rendere la vita più gradevole. Si stava affermando una situazione di yutakasa, di benessere. La distribuzione e la grande distribuzione raggiunsero i livelli dei paesi più sviluppati. Si poteva assistere a una vera rivoluzione nei department store modellati su quelli delle metropoli americane, ma adattati al gusto e alle necessità locali: beni provenienti da ogni parte del mondo erano ormai a disposizione di tutti. E il benessere era equamente distribuito: il
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divario di stipendio a pari livello di anzianità dei lavoratori, contrariamente all’Occidente, era molto contenuto. Il lavoro fisso e le promozioni per anzianità di servizio erano il necessario corollario a un sistema ugualitario: quasi tutti avevano la sensazione di appartenere alla «classe media», un concetto alieno mutuato dall’Occidente ma che soddisfaceva le aspirazioni e la cultura del luogo. A questo punto vengono spontanee le domande: ma com’è stato possibile in così breve tempo raggiungere tali straordinari risultati? Com’è stato possibile questo «grande balzo in avanti»? Quali sono le principali ragioni di questo successo, di questa grande rivincita economica nei confronti dell’Occidente? E a queste domande sui motivi del miracolo economico giapponese pensiamo si possa rispondere sinteticamente con una specie di decalogo che però non necessariamente rispetta un ordine specifico. • Sicuramente, nella sfortuna della tragica sconfitta bellica possiamo riscontrare due importanti eventi favorevoli al Giappone, cui si è già accennato. Anzitutto ci fu la decisione degli Alleati di fermare i russi alle Curili meridionali, e ciò contribuì ad avere un’occupazione praticamente americana, di carattere benevolo, che spalancò le porte al mercato e alla tecnologia occidentale. Poi ci fu la guerra di Corea che stimolò l’economia proprio nel
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momento in cui debito pubblico e inflazione stavano mettendo in difficoltà l’ancora fragile ripresa economica. • Le riforme democratiche dell’occupazione alleata – riforma politica, del lavoro, della scuola, del sistema agrario – furono un fatto epocale, anche se forzato dalla solita gaihatsu o pressione dall’esterno, che aiutò a superare la resistenza degli ultraconservatori giapponesi pronti sempre a rimandare le innovazioni sine die. • Un altro fattore importante fu la cosiddetta «dottrina Yoshida», che riduceva la quota del bilancio statale destinata alla difesa militare, e all’Anpo Jōyaku, il trattato di sicurezza nippo-americano, che dava ampia copertura militare al Giappone a fronte di qualsiasi attacco esterno. Tutto questo permise al paese di focalizzarsi su obiettivi economici e indirizzare tutte le sue forze in questa direzione. • La rapida innovazione tecnologica, dovuta largamente alla generosità americana, giocò un ruolo determinante. Come già scriveva Fosco Maraini, «il moderno è un contenitore e non il contenuto; esso viaggia con il tempo», la scienza e la tecnologia hanno trovato in Giappone, noto per «l’assenza di dogmi», un suolo particolarmente fertile, ricettivo e adatto per il loro sviluppo. • Altri elementi sono il forte dinamismo e la serena positività dei giapponesi, mutuati dallo Shintoismo dove la natura e gli uomini sono generati dagli dei e quindi fraternità e
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non contrasto sussistono tra uomo e natura. Infine, l’eredità confuciana ha offerto al paese il senso dello stato e dei valori sociali, il senso dell’ordine e dell’armonia sociale. Nessun divieto o controindicazione, quindi, si sono opposti all’uso della scienza e della tecnologia. • La forza lavoro di primissima qualità, facilmente motivabile, ordinata, disciplinata, industriosa, obbediente e molto rispettosa del valore del lavoro con un forte disdegno per la negligenza, è stata un’altra delle ragioni del rapido sviluppo del Giappone postbellico. In particolare, vi ha contribuito la visione della sacralità del lavoro che va al di là del rapporto contrattuale che ne regola altrove l’esercizio. • Altri elementi determinanti furono la validità imprenditoriale e manageriale, legata alla particolare forma di capitalismo giapponese come delineato nella parte precedente di questo volume sulla base delle intuizioni di Chalmers Johnson sullo Stato sviluppista7. In effetti, il ruolo della burocrazia, in particolare la guida dall’alto del MITI (Ministero per l’Industria e il Commercio Internazionale, ora METI) con le sue «direttive», è stato essenziale per il miracolo giapponese. • In parte vi ha contribuito anche la particolare struttura dell’economia con la «doppia struttura» industriale basata sulla tradizione del paese. Il Giappone non è stato e non è un monoblocco con relazioni industriali, management-
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lavoratori, basate sui famosi principi di «carriera per anzianità», «lavoro a vita nella stessa azienda» e assenza di sindacati di tipo occidentale. In realtà solo il 30 per cento dei lavoratori ha beneficiato, e beneficia di questo modello di kaisha, azienda alla giapponese. Il resto doveva e deve lottare per la sopravvivenza, con molte minori protezioni aziendali e sociali proprie dei privilegiati impiegati a tempo indeterminato nelle grandi aziende8. • Sicuramente anche il contesto di libero scambio, conseguenza degli accordi di Bretton Woods e del GATT9 favorirono il Giappone. • La stabilità del quadro politico e la subordinazione della politica alla burocrazia che, di fatto, ha guidato con mano ferma il paese, sviluppando visioni, suggerendo, imponendo, sostenendo la sequenza degli sviluppi economici, sono stati la base per uno sviluppo continuo durato molti anni. Attraverso il controllo delle banche, il MITI e il MOF (Ministero delle Finanze) di fatto potevano imporre alle imprese la loro visione e direzione strategica. E per chi non seguiva le direttive non ci sarebbe stato credito bancario. Nonostante la cronica tendenza allo scissionismo, anche per rispondere alla riunificazione dei partiti socialisti, nel 1955 i due grandi partiti conservatori, il Partito Liberale e il Partito Democratico, si fusero: per dar vita al Jimintō, il Partito
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Liberal Democratico (PLD), che in seguito ha diretto la politica del paese ininterrottamente – salvo una breve pausa – fino al 2009. Nasce così il cosiddetto «sistema politico del 1955», un sistema partitico definito da alcuni studiosi «one-and-half party system», proprio per il predominio del Partito Conservatore sostenuto dal mondo degli affari (caratteristica rimasta immutata negli anni) che in cambio di generosi finanziamenti otteneva appoggi e favori. Come vedremo più in dettaglio in seguito, in realtà in Giappone, secondo il modello dello Stato sviluppista, i politici hanno svolto più il ruolo di notai delle decisioni prese dalla burocrazia che di veri legislatori. La situazione, fin dagli anni Novanta, era molto cambiata e, con lo scoppio della bolla finanziaria, la credibilità della burocrazia è in declino e la politica, per la prima volta nel dopoguerra, soprattutto a partire dal Gabinetto Koizumi, sta gradatamente assumendo un ruolo diverso e più importante rispetto al passato. Il triangolo di ferro. La mano invisibile e il modello politico giapponese Negli anni Sessanta il contesto sociale giapponese andò incontro ad alcuni cambiamenti importanti. • Ci fu, anzitutto un aumento generalizzato dei redditi che portò, come già abbiamo già notato, alla creazione di una classe media diffusa, stimata nel 1967, sulla base di
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valutazioni individuali, attorno all’88 per cento della popolazione. • Si verificò, inoltre, un rapido passaggio dal settore primario a quello industriale e al terziario, con la conseguenza dell’accentuarsi del fenomeno dell’urbanizzazione. Nel 1965, il 68 per cento della popolazione era concentrato attorno e in poche grandi città: con la costruzione della Ferrovia ad Alta Velocità (Shinkansen) nel 1964 in occasione delle Olimpiadi Tokyo, si delineava la «Megalopoli del Tōkaidō» (un’immane distesa urbana e suburbana da Tokyo a Osaka). Cambiarono in maniera sostanziale lo stile di vita dei cittadini, le loro esigenze, la visione del futuro per i loro figli, i bisogni di formazione. La forte richiesta di manodopera contribuì a ridurre le disparità fra piccole, medie e grandi imprese, anche se questo non eliminò la «doppia struttura del lavoro» che permane ancora oggi, con divari nella base salariale anche del 30-40 per cento. • Un influsso fondamentale venne dai media che raggiunsero un grado di diffusione senza precedenti. I quotidiani toccarono tirature senza riscontro nel mondo: nel 1966 un giapponese su 3,25 acquistava almeno un quotidiano al giorno. Tutti questi cambiamenti, non avvennero per caso, in modo disordinato o guidati solo dalla «mano invisibile». Come
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sappiamo, in Giappone (come del resto negli altri paesi confuciani) la cultura non è congeniale al laissez-faire. Le sorprese non piacciono affatto. La fusione del modello confuciano, imposto nella forma di «neoconfucianesimo» come ideologia quasi ufficiale durante tutto il periodo Tokugawa (1600-1868), con l’esteso processo di burocratizzazione imposto dai riformatori Meiji (1868-1912) unitamente alla naturale predisposizione dei giapponesi al «consenso», derivante dal comunitarismo proprio della «cultura del riso» che impone dialogo e compromesso, aveva dato vita a un modello di società molto particolare, dove effettivamente la «mano visibile» poteva giocare un ruolo di grande rilevanza. Nel 1866 si affermava che: «Lo Stato è superiore a ogni altro centro di potere; dal quale le forze politiche e sociali del paese devono attendere indirizzo e guida». Una burocrazia che tende, come scrive Bill Emmott10, a «servirsi delle leggi» e non a «servire le leggi», forte della sua riconosciuta competenza e del modello di selezione dei migliori, non distante dalla tradizionale «meritocrazia confuciana» basata come sappiamo su un complesso sistema di esami11. Il «triangolo di ferro» del potere in Giappone (politici, burocrazia e business) nell’immediato dopoguerra ha saputo esprimere e soprattutto realizzare un coerente progetto politico, mettendo a frutto predisposizioni culturali locali favorevoli a una severa disciplina, al lavoro inteso come impegno collettivo, a far prevalere valori comunitaristici su
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quelli individualistici. In una società dove ogni cittadino vorrebbe essere apprezzato per essere majime – espressione difficilmente traducibile che sta a indicare nello stesso tempo una persona che è diligente, disciplinata, che rispetta le regole e lavora duro – il modello che il Giappone proponeva negli anni Sessanta, non aveva controindicazioni. L’assenza, poi, di dogmi e principi assoluti rendeva del tutto accettabile l’applicazione delle tecnologie e delle idee, non importa da dove provenissero. Il paese poteva contare sull’alto livello d’istruzione della popolazione, sul ruolo collaborativo dei media, della politica, dei sindacati, degli imprenditori. Era, quindi, disponibile a recepire visioni compatibili con il supremo interesse nazionale. Il triangolo di ferro impostò un modello economicosociale che usò opportunamente la cultura unitamente alla capacità di adattamento straordinaria dei giapponesi ai nuovi valori. In sostanza, l’immagine più appropriata è quella di un’orchestra senza solisti che suona lo spartito, forte della potente burocrazia, dell’associazione degli industriali (Keindanren) ma anche bene affiancata da associazioni influenti come, per esempio, la Keizai Doyūkai (Associazione dell’élite manageriale). Quest’ultima, diffondendo soprattutto presso i dirigenti delle grandi imprese la propria visione per il paese, giocò un ruolo di grande rilevanza. Già negli anni del primo
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dopoguerra aveva reso pubblica una proposta destinata a costituire il testo base per la direzione economica del paese. Il documento, dal titolo «Tentativo per la democratizzazione delle imprese», è ricco di proposte e di idee che servono a evitare i conflitti nelle imprese. I suoi punti salienti sono indicate di seguito. • Le imprese dovrebbero appartenere agli azionisti, alla direzione e ai lavoratori. La lotta di classe non deve esistere, poiché le tre componenti sono parte di un’unica «famiglia». • La gestione dell’azienda deve essere il frutto delle sinergie delle tre parti. Una parte dei benefici aziendali deve essere riservata ai lavoratori e alla direzione. Si stabilisce con ciò un importante principio di partecipazione agli utili. • Il sindacato diventa una componente «interna» dell’azienda. Lo shanai rōdōkumiai – il sindacato aziendale – è direttamente coinvolto nel management; anzi, una posizione nel sindacato è una pietra miliare per il lavoratore per far carriera fino ai ranghi più alti dell’azienda. Nel 1956, la Keizai Doyūkai, temendo per la sopravvivenza della democrazia parlamentare, aveva aggiornato la sua proposta con un altro fondamentale documento: «La responsabilità sociale della leadership imprenditoriale». Si auspicava un salto di qualità dell’élite dei dirigenti d’impresa nipponici,
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sostenendo che il profitto non doveva essere l’unico criterioguida. E così prendeva le distanze dal modello americano. Continuava, poi, affermando che il profitto doveva essere accompagnato da prodotti di alta qualità, con prezzi più bassi, con una migliore utilizzazione delle risorse e in armonia con il benessere di tutto il sistema economico e della società in generale. In sostanza, l’organizzazione imprenditoriale fissava i parametri del modello giapponese: • l’azienda è uno strumento pubblico; • il management ha importanti doveri sociali; • bisogna lottare contro i monopoli e fare attenzione alla «doppia struttura del lavoro» che crea disequilibri retributivi inaccettabili fra grandi, medie e piccole imprese; • va favorita la concorrenza come motore per la crescita (ma intesa nel mercato interno non nei confronti delle imprese straniere); • le aziende devono puntare sulla stabilità dei profitti da distribuire con equità fra le parti. Il modello proposto confermò la tendenza pragmatica a miscelare le idee più innovative dell’Occidente con le tradizioni proprie del paese. Il capitalismo americano non veniva rifiutato, ma, piuttosto, era rivisto attraverso il filtro confuciano
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della «coscienza pubblica». La professione del dirigente d’impresa non deve essere fine a se stessa, ma deve sottostare a precise norme etiche. Era così nata l’azienda giapponese, la kaisha, brillantemente descritta da Abegglen e Stalk12; kaisha che non è corretto tradurre solo con «company» o «azienda». Come s’è detto, la kaisha giapponese creò nel dopoguerra un modello economico-sociale che voleva assomigliare più a «una famiglia allargata», basata su una forte identificazione sociale dei dipendenti con la stessa, che a un meccanismo anglosassone strutturato come un contratto: tu lavori e io pago la tua prestazione. La kaisha, invece, aveva posto l’enfasi sull’essere parte di una famiglia, un microcosmo che si occupa di te e dei tuoi cari «dalla culla alla bara». La kaisha si impegnava implicitamente a difendere tre principi fondamentali: • shūshin koyō, il lavoro dalla scuola alla pensione; • nenkō joretsu, il sistema di carriera basata sull’anzianità di servizio; • shanai rōdōkumiai, un sindacato aziendale che fa gli interessi dell’impresa nel suo insieme. Tra i vari gruppi di aziende, poi, c’era un accordo tacito a non rubarsi reciprocamente i dipendenti. Questi meccanismi non erano probabilmente spontanei: il lavoratore giapponese non
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giurava fedeltà all’impresa perché lui era giapponese. Tutt’altro. Come ben illustrato da Ito13, essi si basavano sul fatto che, in condizioni di virtuale pieno impiego, le imprese in grande crescita avevano bisogno di personale formato nella cultura dell’azienda stessa, stabile e motivato, senza distrazioni. Insomma, l’impresa aveva creato questi meccanismi perché utili al proprio sviluppo. Parimenti, ai lavoratori faceva comodo essere parte di un contesto fortemente paternalistico, che compensava con una serie di fringe benefits e di vantaggi molto significativi, fra cui forti aumenti salariali dopo i quaranta anni. Come vedremo, questo modello è in fase di grande cambiamento. Le esigenze del mercato globale e le difficoltà delle aziende, costrette a una veloce ristrutturazione, stanno cambiando notevolmente il contesto che rassomiglierà alla fine molto di più al modello europeo. Il modello e i concetti, però, non sono quelli americani. Non va dimenticato che in giapponese licenziare si dice kubi o kiru – tagliare la testa, come si faceva con i samurai traditori – e che la vendita di un’impresa a terzi è tuttora considerata un grave atto di tradimento (miuri = vendita del corpo). La grande attenzione delle imprese giapponesi ai propri dipendenti e l’importanza che si dà alla fedeltà spiegano perché le ristrutturazioni aziendali in Giappone siano così lente. I giapponesi preferiscono soffrire e mantenere l’impiego piuttosto che, all’americana, licenziare.
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Mentre la Keizai Doyūkai svolgeva questo suo ruolo «educativo» delle imprese, il MITI assolse nel dopoguerra, e fino alla metà degli anni Ottanta, un ruolo «politico» fondamentale. Questo ministero, che poteva contare sui migliori cervelli e risorse del paese (i laureati più bravi delle migliori università s’indirizzavano verso i Ministeri di élite), godeva di molto rispetto presso il mondo imprenditoriale che gli riconosceva competenze di business a livello mondiale. Non ebbe, perciò, difficoltà a elaborare le strategie ritenute più adatte per far raggiungere al Giappone i suoi obiettivi. Ha così potuto accompagnare l’eccezionale sviluppo del «miracolo giapponese», preparando il paese alla sfida mondiale. L’azione del MITI, tuttavia, non deve essere fraintesa. Non siamo di fronte a un’economia a pianificazione centrale dove le imprese sono dello Stato – come nelle economie del socialismo reale e per lo più in Cina oggigiorno – e nemmeno in un regime dittatoriale basato su controllo e autarchia. Il successo del MITI si è estrinsecato attraverso il rispetto, l’effettiva conoscenza dei mercati e delle strategie, la capacità di favorire indirizzi, fusioni, cartelli, forte anche di una capacità autonoma di ricerca ambitissima da parte delle imprese14. I funzionari del MITI svolgevano un lavoro di raccordo, attraverso un sofisticato processo di negoziati, tra le aziende, i cittadini e i gruppi che li rappresentavano, i membri del Parlamento, le città, le regioni, le province e spesso anche gli enti stranieri. Mediante il coordinamento e la mediazione
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facevano scaturire il consenso sul da farsi, riuscendo a utilizzare strumenti precisi ed efficaci come la moral persuasion e le norme amministrative (gyōsei shidō) per imporre le loro direttive. Queste norme avevano il vantaggio – essendo spesso verbali – di essere di facile implementazione. Pur risultando vincolanti, non richiedevano leggi o dibattiti in Parlamento. Alle imprese non conveniva «mettersi di traverso», altrimenti in caso di bisogno non ci sarebbero state sovvenzioni. Chi ha provato sulla pelle il potere delle autorità burocratiche giapponesi ne conosce la potenza: se si disubbidisce, si può essere vittima dell’arroganza e della vendetta. È con questo meccanismo, basato su prestigio, conoscenza, autorità, agilità di movimento, che il Giappone industriale moderno è stato sviluppato. È questa mano, visibile e invisibile allo stesso tempo, che ha contribuito a creare visioni e ad aiutare i gruppi industriali a progredire, a ristrutturarsi (cartelli-aiuti) e a trovare le porte aperte dei mercati. Con il meccanismo del bastone e della carota, con mano pesante nelle maggiori difficoltà, il sistema Giappone ha fortemente beneficiato di un modello unico e di valore. Il MITI, in ultima analisi, ha di fatto guidato le società private in temi relativi ai volumi degli investimenti e della produzione, alla sostituzione di investimenti e macchinari obsoleti, alle importazioni. Ha proposto e iniziato una quantità rilevante di fusioni e acquisizioni – con appoggi economici e cartelli per favorirle – sulla base di una chiara percezione non solo del livello di
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competitività nel mercato interno ma, soprattutto, del potere competitivo sui mercati internazionali. Quest’approccio non è mai stato portato alle estreme conseguenze: il MITI è sempre stato cosciente che i monopoli o gli oligopoli significano, alla fine, perdita di vitalità e di competitività. Esso ha sempre operato nell’ottica di lasciare nei segmenti di mercato che dovevano competere a livello mondiale (auto, elettronica, cantieristica, acciaio…) una concorrenza interna con un numero corretto di competitori: né troppi, né troppo pochi. Ha sempre chiuso un occhio sui «compensi» fra prezzi interni ed esterni dei prodotti. Spesso si sono osservati prezzi interni al Giappone più alti rispetto al landed cost dello stesso prodotto negli Stati Uniti o in Europa. Questo fa parte della filosofia confuciana che spinge a favorire il paese (la collettività) anche a discapito dell’individuo, del consumatore che – bisogna dirlo – non è mai stato una priorità nell’agenda della politica giapponese. Inoltre, ha sempre garantito una buona chiusura del mercato giapponese ai competitori esterni con mezzi non tariffari, soprattutto nell’ottica di concedere tempo alle industrie locali per organizzarsi prima di aprire le porte agli altri. La riprova dell’efficacia dell’approccio giapponese è offerta dai benefici ricavati da tutti i paesi asiatici dagli stimoli dell’esempio giapponese – rispetto, invidia, emulazione. Molti ne hanno adottato il modello (chaebol coreani, imprese statali cinesi) e hanno capito che con la sola
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«mano invisibile», tenuto conto anche della loro struttura politica, avrebbero perso ancora il treno nel momento in cui la globalizzazione e l’internazionalizzazione del business mondiale, imponeva sfide nuove e improrogabili15. Si è già ricordato che il padre fondatore della Malesia moderna, Mohamad Mahatir, stimolò i paesi dell’Asia a smetterla di guardare a Occidente e di puntare i loro occhi invece a Oriente, verso il Giappone: bisognava imitare il modello giapponese e non quello americano, culturalmente troppo distante e diverso nelle sue componenti. Il trionfatore degli anni Settanta. La seconda economia mondiale All’inizio degli anni Settanta, il Giappone sembrava avviato verso successi inarrestabili. Superata la Germania, i suoi prodotti mietono successi dappertutto. Il Nixon Shock nel 1971, con la scomparsa della convertibilità del dollaro e la fine dell’era di Bretton Woods, causò la rivalutazione della divisa nazionale. Lo yen, in poco tempo, apprezzò di un terzo il suo valore. Tale era la forza dell’economia giapponese, che la modifica del cambio da oltre 300 yen per dollaro all’area intorno a 200 non ebbe particolari conseguenze sulle attività delle aziende. Fu in questo già turbolento periodo che si verificò la prima vera crisi dalla fine della guerra, il primo oiru shokku.
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La creazione del cartello OPEC e il rialzo del prezzo del petrolio ebbero l’impatto di uno «tsunami» dopo un terremoto di forza 10 nella scala Mercalli. A noi che vivevamo in Giappone parve che esso avesse un effetto anestetico totale sui giapponesi: paralisi, depressione, pessimismo, catastrofe. Per la prima volta dallo sbarco degli americani, i giapponesi si resero conto che non tutto si poteva comprare con il denaro. L’economia di trasformazione – che impone, per la sopravvivenza, l’importazione di materie prime e l’esportazione di semilavorati o prodotti finiti – poteva essere decisamente messa a rischio. L’autostrada sul mare che collegava il Golfo Persico con il Giappone, solcata costantemente da un centinaio di petroliere che trasportavano la linfa vitale per l’economia e la vita del paese, avrebbe potuto bloccarsi all’improvviso. Il prezzo del petrolio era quadruplicato acuendo il senso di disperazione e il clima dell’Armageddon. Come in Europa si avvertì improvvisamente la fine dei gloriosi trent’anni, in Giappone le conseguenze della crisi petrolifere furono severe e immediate dando vita a una situazione di stagflation, una stagnazione economica accompagnata da un’elevata inflazione. L’economia reale scese precipitosamente: non più una crescita del 10 per cento ma un –0,4 per cento, in segno rosso. Non dimentichiamo che il paese era abituato a ritmi di crescita altissimi, «alla giapponese», come allora si diceva. I prezzi al consumo salirono del 25 per cento e quelli all’ingrosso del 33 per cento. Mentre,
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a poco a poco, la situazione si normalizzava e il Giappone ritornava a una crescita positiva del Pil, ci si rese conto che l’epoca della crescita a due cifre era ormai finita. L’economia si riprese solo in parte rispetto al passato. Il Giappone era maturato; era tuttora un paese dinamico, ma a livelli conosciuti anche in altri paesi industrializzati e non più da primo della classe. La crisi – ancora una volta – aveva innescato il già noto meccanismo della gaihatsu, della pressione dall’esterno, che tanta parte ha sempre avuto nei cambiamenti epocali del Giappone. La forza dello yen sul dollaro – tenendo conto che il mercato americano era di gran lunga il più importante per il made in Japan – e la riduzione dell’attività economica e della competitività delle aziende esportatrici furono da stimolo all’impegno per migliorare l’efficienza produttiva, la qualità del prodotto, il livello del servizio al cliente. In quest’epoca, si verificò anche una diversificazione maggiore verso il terziario, con il conseguente forte sviluppo del settore dei servizi. Sono gli anni in cui l’effetto delle crisi del petrolio e il tentativo di conservare i vantaggi competitivi «forzarono» il Giappone a diventare un leader mondiale in settori di grande futuro: robotica, macchine a controllo numerico, fibre ottiche e al carbonio. Si trattava di settori che avevano di mira l’esportazione e che crearono le premesse per grandi surplus commerciali. Questi, a loro volta, diedero la stura ai bōeki masatsu (attriti commerciali) degli anni 1975-95, agli
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sgradevoli e spesso fuori posto Nihon tatakai (guerre al Giappone) e Japan bashing (addosso al Giappone!). Purtroppo, il sistema politico giapponese non si trova a proprio agio nel negoziare, se necessario con forza, le proprie posizioni; i cinesi, al contrario, sono culturalmente molto più attrezzati. Per attenuare il problema e non essere costantemente il bersaglio delle rivendicazioni americane, il Giappone decise di chiedere alle imprese esportatrici di essere meno attive all’estero (limitazioni «volontarie» all’export). Per creare domanda interna a compenso della diminuzione delle entrate dall’estero, diede inizio a un massiccio programma di lavori pubblici. Questi furono «pappa e ciccia» per i politici giapponesi che poterono così soddisfare le loro circoscrizioni elettorali e avere in cambio più «mazzette» per essere politicamente più forti. È il periodo del kinken (il potere che deriva dal denaro) e del trionfo di uomini politici spregiudicati. Gli anni Ottanta. Il Giappone ancora in crescita ma a due passi dal baratro «Il più grande nemico del successo è, dopotutto, il successo stesso e il più grande nemico della ricchezza è l’eccessiva ricchezza», ama ripetere David Landes. In realtà, il Giappone era alla fine dei suoi «gloriosi trent’anni»: era la quiete prima della tempesta. Vennero raggiunti traguardi e record in tutti i campi: borsa, prezzi degli immobili e dei terreni, livello della
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ricchezza individuale, volumi di esportazione, rivalutazione dello yen. Il Giappone arrivò a detenere il 15 per cento dell’economia mondiale e i prezzi di tutti i beni salirono alle stelle. Tutto era rampante: la speculazione di borsa, immobiliare, sulle materie prime, su tutto. Una fetta della popolazione giapponese divenne ricca e cominciò a mostrarsi arrogante. Un caso strabiliante: il terreno contenuto dai 5 chilometri di perimetro del palazzo imperiale arrivò a valere il corrispettivo utile ad acquistare l’intera California. Le banche giapponesi sembravano dominare il mondo. Non c’erano progetti dove non entrassero con i loro capitali: Le imprese nipponiche compravano di tutto. dal Rockefeller Center di New York alla Columbia Pictures, dai campi da golf più ambiti alle banche in vari paesi e agli immobili di prestigio in tutto il mondo. Lo yen forte inebriava le menti e dava un senso di onnipotenza. Yen supervalutato e abbondante liquidità del sistema drogarono l’economia e misero in crisi i valori tradizionali: il senso di umiltà, la sobrietà nei consumi, la struttura della famiglia, creando le premesse per una crisi non solo economica ma anche sociale senza precedenti. Sulla società del Giappone che si distacca dai principi che hanno accompagnato gli anni della ricostruzione e del miracolo economico uno dei coautori ha pubblicato nel 1987 un saggio, in giapponese, che già nel titolo alludeva ai dubbi sul futuro del Giappone, allora «gigante economico»16. Ai lettori del Sol Levante poneva
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domande precise: «Vi rendete conto di quello che sta succedendo? Siete sicuri di essere sulla strada giusta? Non vi accorgete che vi state avviando verso una crisi oltre che dell’economia anche della società giapponese, dei vostri valori?». Il saggio creò interesse a giudicare dal numero delle copie vendute, ma molti dei lettori sembravano perplessi, non capivano bene. La «droga» aveva chiuso gli occhi e annebbiato le idee. La razionalità, sulla quale il saggio si basava, non era condivisa. Eppure, l’autore, che in quel tempo scriveva per il Corriere della Sera era giunto al punto di non essere in grado di spiegare ai lettori italiani che cosa stesse succedendo in Giappone. Non si raccapezzava più. Intuiva solamente le incertezze future e faceva atti di fede nelle più fantasiose spiegazioni che gli analisti davano di una crescita astronomica del valore dei beni. C’era una totale mancanza di logica e razionalità. Si era perso il lume della ragione e si intravedeva una delle grandi debolezze nel modo di pensare giapponese: molto istinto ed emozioni, scarsa logica. Solo anni dopo, quando una crisi drammatica e destinata a perdurare nel tempo mise al tappeto il paese, qualche lettore si ricordò del volume e si rese conto, finalmente, che la perdita dei valori nella società e la conduzione scriteriata dell’economia avevano prodotto danni incalcolabili. Forse avevano messo in crisi per sempre il modello giapponese. Raramente, infatti, la storia offre una seconda chance. Certo è che i giapponesi avevano sprecato drammaticamente la prima.
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Agli inizi degli anni Ottanta il paese s’era trovato ad affrontare, non imprevista, una nuova crisi petrolifera a causa della rivoluzione iraniana e del conflitto Iran-Iraq. Sebbene il prezzo del petrolio fosse raddoppiato, i danni furono limitati. I giapponesi sono bravissimi, culturalmente, ad affrontare i problemi previsti sebbene non altrettanto si possa dire per quelli imprevisti. Si erano preparati bene all’evenienza avendo fatto un’eccellente ristrutturazione dell’economia e delle fabbriche, in modo da poter resistere alle successive – e prevedibili – crisi petrolifere. Il Giappone era maggiormente oil shock resistant rispetto agli anni precedenti. Nel frattempo, tenuto conto anche del notevole sviluppo economico raggiunto, considerando la sua piccola dimensione (geograficamente poco più vasto dell’Italia) e la mancanza di risorse naturali, continuava ad avere un soddisfacente livello di crescita economica, assestatasi intorno al 3 per cento. Visto il ritorno alla crescita e l’ottimo stato dell’economia, considerando la capacità di superare le crisi energetiche, il Governo – sotto la guida di un leader carismatico e navigato come Nakasone Yasuhiro – incominciò ad affrontare il sempre più grave problema del deficit di bilancio. Mise perciò mano alla spesa pubblica dilatatasi considerevolmente a seguito della recessione indotta dalla prima crisi petrolifera. Possiamo dire che in Giappone la politica economica tradizionale ha sempre sfruttato due sole leve come manovre anticicliche: spinta alle esportazioni e aumento della spesa
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pubblica. Queste manovre sono facili da effettuare perché il supporto alle esportazioni – anche «lavorando sullo yen» – accontentava la grande industria, sempre molto generosa con i politici del PLD, mentre i lavori pubblici sono sempre stati il contentino per gli elettori. Nakasone, sulla scia di quanto era avvenuto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna con la cosiddetta «rivoluzione neoliberalista silenziosa», affrontò, nelle riforme volte anche a ridurre il deficit di bilancio, il tema delle «privatizzazioni» di una serie d’industrie ancora direttamente nelle mani dello Stato. Furono privatizzate così le ferrovie nazionali (JR) che vennero suddivise in sei maggiori gruppi di attività; la NTT, la società statale delle telecomunicazioni – un impero con 400 mila dipendenti e scrigno per le imprese private di tutte le tecnologie di avanguardia –; la KDD, azienda che si occupava delle comunicazioni con l’estero. Tali privatizzazioni, viste a «bocce ferme», sono state un grande successo e il paese ne ha tratto molti benefici. L’assorbimento del nuovo oil shock, le privatizzazioni, il ridimensionamento della spesa pubblica, una buona ripresa dell’economia, una forte crescita del livello borsistico, la piena attività nel settore immobiliare e la conseguente crescita dei prezzi dei terreni sembravano indicare che il Giappone avesse scoperto la «pozione magica». Il coro degli studiosi e yamatologi inneggiava ai successi del paese. Ezra Vogel pubblicava il suo noto Japan as Number One che venne, da chi
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non aveva letto il libro fino in fondo, male interpretato17. Vogel intendeva pungolare l’America sbandierando l’esempio e lo spauracchio del Giappone virtuoso ed efficiente. La situazione negli Stati Uniti era diametralmente opposta a quella del Sol Levante. L’economia americana si trovava ad affrontare stagnazione produttiva, riduzione del potere competitivo, scarsa motivazione nel mondo del lavoro, budget statale sempre più in rosso, deficit della bilancia corrente. Nemmeno l’Europa se la passava molto meglio, affetta com’era da una grave malattia degenerativa: l’eurosclerosi. L’invito a imparare dal Giappone veniva a proposito: nel paese asiatico s’innovava in tecnologia, si migliorava a livelli di eccellenza la qualità dei prodotti e del servizio, s’incrementava continuamente il livello di produttività, c’era una bassa inflazione, il livello di disoccupazione era ai minimi storici con una domanda d’impiego per laureati superiore al rapporto 1:1, i conti statali miglioravano e, soprattutto, si aveva un forte un surplus della bilancia commerciale. Tutto questo era diventato un tema obbligato per gli scrittori di strategie economiche e di management. Il Giappone trionfava in moltissimi campi; ma purtroppo pochi analisti, anche nel mondo occidentale, erano in grado di guardare al di là del loro naso, come Akio Morita, mitico fondatore della Sony, denunciava in un suo saggio controverso nel quale contestava le critiche ingiuste18.
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Nella seconda metà degli anni Ottanta, la pressione degli Stati Uniti e di altri paesi sul Giappone si fece ossessiva. Il paese venne accusato dai «revisionisti» americani e da molti in Europa di non giocare plain field, cioè di non essere corretto nei rapporti con l’estero. Le accuse montanti a Washington e nelle capitali europee erano che il Giappone fosse protezionista in casa e vendesse in dumping all’estero. I giapponesi che non erano preparati culturalmente a contrastare la dialettica occidentale di tipo «conflittuale»; furono costretti a ingoiare bocconi amari e frustrazioni, inabili a spiegarsi e impegnati in estenuanti negoziati e riunioni che non davano alcun risultato né facevano alcun progresso. Alla fine i giapponesi capitolarono con il Plaza Agreement quando, nell’ambito del G5, al Plaza Hotel di New York firmarono il 22 settembre 1985 assieme a Stati Uniti, Germania Occidentale, Francia e Regno Unito la rivalutazione dello yen e del marco tedesco nei confronti del dollaro. La moneta giapponese rivalutò in poco tempo da 200,6 yen per dollaro a 160,1 nel 1986 e a 122 nel 1987. Nel giro di un breve lasso di tempo la divisa giapponese aveva raddoppiato il suo valore con le relative conseguenze. Le esportazioni straniere avrebbero dovuto diventare così più competitive in Giappone e, per converso, rendere le merci nipponiche molto più care sui mercati internazionali. Le aziende di Tokyo, pur di mantenere le loro quote di mercato all’estero e di non licenziare, furono costrette a sacrificare margini e a vendere
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in perdita. I loro conti si trasformarono di colpo dal nero al rosso cupo. Si scatenò di nuovo il panico; lo stesso del primo oil shock. Il sistema-paese non era preparato e, tuttavia, doveva continuare a mantenere il livello delle esportazioni non essendo pronto a riformare la struttura – anche distributiva – del mercato interno. Già allora molti si chiedevano dove fosse finito il Japan as Number One. Le politiche economiche delle autorità giapponesi presero a questo punto una direzione che ci appare drammaticamente errata. Tra queste, va segnalata in primo luogo la decisione di allargare la massa creditizia: le banche ricevettero istruzioni perché non andassero tanto per il sottile nell’erogare i loro prestiti. La cosa non era difficile: con la continua scalata dei prezzi di borsa e dei terreni, le imprese e i privati, incluse le banche, erano convinti di avere in tasca oro colato. Un collaterale per i crediti, basato su ipoteche di azioni, immobili e terreni, tranquillizzava le banche a concedere qualsiasi ammontare di prestito. Incredibilmente, non ci si rendeva conto che i prezzi possano salire ma anche scendere. L’istinto, l’emozione e non il ragionamento sembrano dominare la scena. I rischi d’insolvenza furono considerati piuttosto remoti. Si stava montando una bolla economica senza precedenti che, prima o poi, si sarebbe sgonfiata e, come dopo il crollo di una diga, l’acqua si sarebbe riversata rovinosamente a valle. L’errore di valutazione delle autorità e la massa di denaro facile e a buon mercato indusse, come abbiamo visto,
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le aziende giapponesi a investire in ogni luogo e in ogni cosa nei mercati internazionali. Ad aggravare la situazione fu l’invito occidentale al Giappone di fungere da kikansha (locomotiva) per trainare l’economia mondiale fuori dai pericoli. Il Giappone raccolse l’invito e ricominciò con i lavori pubblici mettendo in circolo ancora più denaro e gettando benzina sul fuoco della speculazione: i prezzi dei terreni e degli immobili schizzarono verso l’alto, i consumi voluttuari dilagarono e l’arroganza aumentò. Imperversava la zaitech, la tecnologia finanziaria. Solo comprendendo il momento storico, il clima intellettuale accecato, il mondo senza razionalità, l’inondazione a buon mercato di denaro nel sistema da parte di banche che consideravano azioni e terreni in garanzia migliori dell’oro e senza down side, senza rischi di declino, si può spiegare la follia degli anni 1986-90. Il tessuto sociale si spaccò ulteriormente; la distinzione sempre più profonda fra gli have gli have not in una società che aveva esasperato il concetto di eguaglianza in una «immensa classe media» portò a un progressivo sgretolamento del sistema sociale e dei suoi valori. A chi osservava quanto stesse succedendo venivano in mente le parole di Yukio Mishima: «Il Giappone è destinato a scomparire. Al suo posto rimarrà un grande paese produttore, inorganico, vuoto, neutrale e neutro, prospero e cauto»19.
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Nelle pagine precedenti ci siamo molto intrattenuti sulla qualità e i meriti della burocrazia giapponese nella ricostruzione postbellica e sulla sua grande abilità a creare «visioni» di lungo termine e nel guidare il paese verso un futuro di successo. È lecita quindi la domanda sul perché questi abili burocrati non si siano resi conto dei rischi che il paese stava correndo e abbiano preso decisioni fondamentalmente errate. La risposta a tale domanda potrebbe essere contenuta nelle seguenti valutazioni della burocrazia stessa. • La burocrazia, stimolando la domanda e i consumi interni, nonché le importazioni, intendeva ridurre l’enorme surplus commerciale e quindi attenuare il bōeki masatsu, l’attrito commerciale con l’Occidente e segnatamente con il «grande fratello», gli Stati Uniti, primo partner commerciale e «protettore» politico. • Era poi necessario, per la burocrazia, salvare le imprese dal collasso a causa della rivalutazione dello yen. Mancava, tuttavia, la consapevolezza che le imprese erano già pronte ad assorbire qualsiasi contraccolpo in forza della qualità dei loro prodotti e dei continui incrementi della produttività che non aveva confronti in Occidente. • La bubble stava arricchendo gente influente, politici, imprenditori e amici. Il rovescio della medaglia, tuttavia, sarebbe stata la perdita d’immagine e di fiducia fra i
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cittadini che fino ad allora avevano mostrato stima nei suoi confronti. Intanto siamo giunti alla fine degli anni Ottanta. Il 31 dicembre 1989, la Borsa di Tokyo ha raggiunto il suo massimo: l’indice Nikkei sfiora quota 40.000 yen, 5 volte i livelli degli anni Settanta. Attualmente, a 20 anni di distanza, lo stesso indice è tra i 10 e gli 11 mila yen! UN DECENNIO PERDUTO?
Il decennio perduto La miscela di bolla finanziaria (titoli e mutui subprime) e il conseguente inizio di una recessione economica negli Stati Uniti, dopo un lungo e prospero ciclo economico, hanno causato l’avvio nel 2008 di una crisi finanziaria molto grave, di dimensioni globali e di un’intensità sconosciuta nel dopoguerra. Potrebbe sembrare una sorpresa che tra le maggiori vittime di questa crisi vi sia soprattutto il Giappone che – sono molti a pensarlo – avrebbe dovuto, viste le esperienze degli anni Novanta etichettati come «decennio perduto», già da tempo apprendere la lezione e quindi essere in qualche modo vaccinato e scampare il pericolo. Lo slogan dei «10 anni perduti» per l’economia giapponese, tuttavia, ha veramente un fondamento? Cerchiamo di esaminare che cosa sia veramente successo nel periodo tra il 1990 e il 2002, anno
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quest’ultimo in cui l’economia giapponese ha ripreso a crescere su buoni livelli20. Il 1990 si annunciò subito come un anno tragico per l’economia: lo scoppio della bolla mise in moto un ciclo perverso iniziato con la discesa a precipizio dei valori immobiliari e mobiliari. Di colpo i giapponesi vennero richiamati alla realtà: i prezzi nel settore immobiliare scesero precipitosamente e scombussolarono tutto il sistema creditizio fino alla realtà delle singole famiglie. Il mito del Giappone piccolo e dei giapponesi molto numerosi si dimostrò presto per quel che era. È vero che in Giappone c’è meno spazio disponibile rispetto ad altri paesi e che la concentrazione della popolazione nell’area di Tokyo e di Osaka è eccezionale. Va detto però che in città come Tokyo l’altezza media dei fabbricati è di 1,6 piani, contro i 6 di Parigi e i 12 di New York. Anche i terremoti non sono una giustificazione per i prezzi stratosferici dei terreni e degli immobili in Giappone, perché è stato ampiamente dimostrato che le costruzioni antisismiche vincono il terremoto. Lo scoppio della bolla mise bene in chiaro questo punto, ma ormai era troppo tardi per porvi rimedio. I prezzi dei terreni continuarono la loro caduta libera nei duetre anni successivi. Le imprese immobiliari e di costruzioni, le assicurazioni e le banche, se avessero dovuto valutare le loro proprietà ai prezzi correnti sarebbero andate per la maggior parte in fallimento. Anche le famiglie erano in difficoltà: avevano
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comprato la casa a un prezzo doppio, triplo rispetto ai valori correnti. Avevano contratto un mutuo ipotecario, ma il debito con le banche risultava il doppio o il triplo del valore della casa. Si scoprirono così indebitate fino al collo: una situazione drammatica! Le banche, che avevano, senza alcun controllo o il minimo di prudenza, concesso mutui e prestiti a tutti coloro che ne avevano fatto richiesta, si ritrovarono come collaterale, a fronte dei loro prestiti, beni che valevano la metà delle loro stime. Nel comparto borsistico, poi, fu una vera tragedia. I titoli continuavano a scendere: del 10 per cento, poi del 20 per cento, poi della metà. In poco tempo, chi aveva investito si trovò con metà dei propri risparmi. In una grande crisi, alla fine «il bimbo in colle» finisce alle banche. Nel caso delle banche giapponesi ci fu un’aggravante: nel loro modello i gruppi si basavano sul controllo incrociato dei pacchetti azionari. Al vecchio schema degli zaibatsu, che vigilavano sul gruppo attraverso una holding di controllo, i keiretsu avevano sostituito un controllo incrociato delle partecipazioni azionarie. Nel caso delle banche, il loro bilancio aveva in seno una serie di partecipazioni azionarie che a causa dello scoppio della bolla valevano ormai molto meno. Se poi si sommavano le ipoteche – anch’esse con minore valore –, le azioni in portafoglio da svalutare, gli NPL – prestiti inesigibili dalle aziende in crisi –, il panorama era davvero drammatico. La maggior parte delle banche, sulla carta, era fallita. Il paese era
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prostrato e i guai sembravano non dovessero mai finire. I giapponesi avevano l’impressione di essere precipitati da uno stato di beatitudine all’inferno: dal Nixon shock alla prima crisi petrolifera e quindi alla seconda e poi al Plaza fino allo scoppio della bolla infernale. La disperazione era palpabile a tutti i livelli. La crisi non solo aveva colpito le aziende ma anche i privati; i risparmiatori che avevano investito nella casa e si trovavano ora falliti. In questa situazione, l’unica reazione possibile per le autorità monetarie fu di far stringere i cordoni della borsa alle banche: restrizione al credito e quindi credit crunch. Non c’erano più soldi e i tassi d’interesse erano al rialzo. Tutte le PMI, che poche colpe avevano di quella drammatica situazione, ne stavano pagando il prezzo più rilevante, Per le grandi imprese, attesa anche la loro affiliazione ai gruppi giganteschi – Mitsubishi, Mitsui, Sumitomo… –, le difficoltà furono minori. Per loro c’erano sempre crediti e aiuti da parte del sistema. Per le banche, invece, il governo non aveva a quel punto altra scelta che la loro salvezza. Uno scenario critico A causa dei risultati negativi, molte aziende navigavano in un rosso profondo e appariva chiaro che ci si trovava di fronte a una grave crisi strutturale. Era evidente che le aziende erano gravate da debiti eccessivi, la loro capacità produttiva era fortemente eccedente e andava ridimensionata e, infine, che il
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numero dei dipendenti era eccessivo e andava drasticamente ridotto, nonostante tutte le consuetudini in contrario, poiché la tradizione giapponese sino ad allora non prevedeva la riduzione del personale. La parola d’ordine, allora, fu quella di tagliare i costi dove possibile, di ridurre la forza lavoro e di convertire i lavoratori a tempo indeterminato in lavoratori temporanei o part time. In questo scenario, visto l’incredibile livello raggiunto dal debito pubblico e la diminuzione delle entrate fiscali a causa della forte contrazione dei profitti aziendali, lo Stato poté fare ben poco per rilanciare l’economia. Le misure di pump priming, di spesa pubblica come misura anticiclica erano ora offlimit. Verso il 1995 si poté assistere a una timida ripresa economica con tassi di crescita fra il 2,5 e il 2,9 per cento. Il miglioramento fu una pura illusione momentanea e, purtroppo, la burocrazia lesse male il momento di respiro, confondendolo con l’inizio di un nuovo ciclo virtuoso. Adottò infatti misure completamente sbagliate, definite dagli esperti triple whammy, tre grandi errori in serie. Per migliorare la situazione del debito pubblico, si cercò di aumentare le entrate fiscali, incrementando le imposte sui consumi dal 3 al 5 per cento, e questo fu un grave errore in un momento di deflazione, quando la domanda per consumo è negativa. Venne decisa anche l’introduzione di un ticket sanitario e l’aumento del prelievo sui salari per contributi sociali. La
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conseguenza fu un rafforzamento del trend deflazionistico che, mentre contraeva l’economia, aveva il modesto vantaggio di fare diminuire i prezzi dei beni di consumo. Le importazioni a prezzi bassissimi dalla Cina aiutarono i consumi ma, allo stesso tempo, costrinsero le aziende giapponesi a pesanti risutora (ristrutturazioni) per non farsi soffiare il mercato e per riguadagnare competitività. La deflazione – animale sconosciuto e pericoloso – provocò sgomento in tutto il paese. I posti di lavoro scarseggiavano e le banche si trovarono in gravi difficoltà. L’unica risposta di politica economica possibile delle autorità fu la riduzione progressiva a zero dei tassi d’interesse. Certo coloro che vivevano di interessi sui risparmi non potevano rallegrarsi, ma in questo modo, fortunatamente, venne superato il credit crunch e migliorò la liquidità nel mercato. La crisi asiatica del 1997, che ebbe impatti negativi sulle esportazioni giapponesi, si verificò proprio nel momento più sbagliato: «piovve sul bagnato» e ci fu un aggravamento della situazione, in particolare nel settore bancario. Il governo intervenne sul capitale delle banche, promuovendo raggruppamenti e ristrutturazioni, che coinvolse anche i keiretsu. Alla fine del ciclo e dopo successive fusioni, di oltre 20 grandi banche ne rimasero in pochi anni solamente tre. La gestione di questa ristrutturazione fu impeccabile e i capitali investiti nelle banche sarebbero ritornati negli anni successivi allo Stato con interessi.
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La bolla finanziaria Il ciclo economico negativo conseguente allo scoppio della «bolla finanziaria» si protrasse per oltre 12 anni. Gli insegnamenti ricevuti, tuttavia, sono risultati recentemente utili per gli Stati Uniti e i paesi occidentali per affrontare la «bolla americana« dei subprime e più in generale quella che può essere considerata la Terza Grande Crisi. Si è capito che, senza «la mano visibile» con annesse cure draconiane, la ripresa economica è più lunga e difficile. A questo punto, non vogliamo affermare che la crisi mondiale sia superata o che si sia fatto tutto il possibile. Certamente, però, la lezione della lost decade giapponese è stata un interessante punto di riferimento: dopo il toyotismo, ancora una volta il Giappone docet. Il recupero nipponico dalla bolla fu ritardato da un fenomeno, troppo spesso notato dagli osservatori, che va sotto il nome di isshin’ittai (un passo in avanti, uno indietro). La crisi giapponese, tuttavia, non ebbe, tranne che per pochi paesi asiatici, gravi ripercussioni a livello mondiale. Si trattò principalmente di un fenomeno nazionale, ma se il Giappone fosse stato esposto – come debito estero – alla stregua di altri paesi industrializzati, la crisi avrebbe potuto davvero essere drammatica per tutti. Tra l’altro, non vanno dimenticati l’elevata propensione dei giapponesi al risparmio e l’alto livello dei depositi accumulati presso le banche e gli uffici
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postali: tutto questo ebbe l’effetto di attutire molto l’entità della crisi. Possiamo collocare la fine del ciclo economico negativo derivato dalla bolla finanziaria al 2003, quando il Giappone riprese a essere, dopo la malattia, un paese «normale». Le vittime dei 12 anni di discesa dei prezzi e di bassa crescita economica lasciavano il posto a un sistema finanziario guarito con cure da cavallo. Il mercato azionario aveva lasciato sul terreno l’81 per cento dei valori di Borsa, l’85 per cento del valore immobiliare dei fabbricati commerciali, una crescita economica per tutto il periodo non superiore all’1 per cento, il fallimento di due grandi istituzioni finanziarie (Japan’s Long Term Credit Bank of Japan e Yamauchi Securities Corp.). Le banche avevano ammortizzato, grazie all’iniezione d’ingenti capitali statali, ben 105 trilioni di yen. Le errate valutazioni delle autorità monetarie giapponesi avevano portato a un ritardo imbarazzante negli interventi statali. Erano stati sottovalutati i NPL (Non Performing Loan) potenziali ed erano state sopravvalutate le capacità di recupero delle banche. Alla base delle errate valutazioni vi era stata la convinzione che «il tempo cura tutti i mali». Il «troppo poco e troppo tardi» aveva contribuito a portare il Giappone sull’orlo del baratro. Il mondo economico è stato costretto per lungo tempo a giocare in difesa e ad adottare misure quali il blocco degli investimenti, la riduzione dei lavoratori a tempo pieno a favore di
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quelli a tempo parziale, che sono all’origine del malessere attuale. Si può, infine, ritenere che la caduta a vite della reputazione della burocrazia, per gli errori commessi dagli Accordi del Plaza in poi, siano anche alla base del cambiamento politico degli ultimi tempi. Uno dei punti centrali del «Manifesto» del Partito Democratico Giapponese (PDG), largamente vincitore delle elezioni per il rinnovo della Camera Bassa (agosto 2009) è rappresentato, appunto, da un radicale ridimensionamento del ruolo politico della burocrazia, sconvolgendo così i rapporti di forza all’interno del «triangolo di ferro» già peraltro modificati dallo scoppio della bolla. Un paese normale, con un’economia più lenta Alla fine dei suoi travagli e di un interminabile periodo di lenta contrazione dell’economia e dei consumi, la deflazione è solo mascherata dalla crescita delle esportazioni. Se si estrapola dalla crescita del Pil il fattore export, ci si accorge che in realtà il Giappone è diventato un paese a bassa crescita economica. Dal 1991 al 2009 la crescita media è stata dello 0,6 per cento. Il miracolo economico postbellico è ormai solo nella memoria e i problemi strutturali del paese sono più che evidenti. Il Giappone ha perso le riserve di stamina nell’economia perché il fattore demografico – il numero dei pensionati aumenta in modo impressionante, più che in ogni altro paese industriale – e le riforme strutturali che già all’inizio
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degli anni Ottanta erano state sollecitate da un illuminato ex governatore della Banca del Giappone, Maekawa Haruo, sono rimaste lettera morta. I consumi interni continuano a non essere stimolati21. In sostanza, senza puntare decisamente all’interno del paese, sul consumatore – culturalmente e storicamente l’oggetto dimenticato – l’economia nipponica è destinata ad avere problemi permanenti di bassa crescita. Ciononostante, alcuni progressi sono stati fatti. L’ex primo ministro Koizumi Jun’ichiro ha dimostrato coraggio nell’affrontare difficili problemi, quali la privatizzazione di alcune aziende statali e nel mettere in cantiere la privatizzazione delle Poste che, oltre a essere un servizio dello Stato, è anche la più grande banca del paese. Koizumi non ha fatto ricorso ai soliti lavori pubblici. Gli investimenti industriali sono aumentati mediante la creazione di un maggior numero d’imprese di media dimensione. Nel 2005 sono nati 1544 nuovi impianti industriali contro i 744 del 2002. Molte imprese che avevano portato all’estero la loro produzione hanno deciso di ritornare a casa per necessità di qualità e sofisticazione dei prodotti. La parola d’ordine, confidenziale, è stata esportare meno tecnologie e mantenere in patria la produzione industriale più sosfisticata. Finora come meccanismo correttivo durante i cicli economici è stata ampiamente utilizzata la leva del Governo che, con il cosiddetto pump priming, ha cercato di ridurre in parte le tasse e ha aumentato le spese stimolando l’economia. In
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questo modo, però, si aumenta il debito pubblico e si investe in lavori pubblici con gaudio degli uomini politici, dei rappresentanti regionali e della burocrazia. Si hanno così appalti truccati (dangō, ovvero gare dove il vincitore è deciso in anticipo), tangenti ai politici e distruzione di ricchezza pubblica. Ponti e strade inutili, edifici pubblici ridondanti, speculazioni su terreni e immobili costituiscono la drammatica storia del dopoguerra giapponese. Ora però il debito pubblico ha raggiunto livelli incredibili – ci si avvia verso il 200 per cento del Pil, battendo ampiamente anche quello critico italiano, e il pump priming sembra destinato all’archivio. Se non si affrontano il tema delle riforme strutturali, i problemi della casa, lo stile di vita, il sostegno alle famiglie, l’unico strumento disponibile per sostenere l’economia, la panacea di tutti i mali, continua a essere sempre quella dell’aumento delle esportazioni. Seguendo l’esempio asiatico in generale che ha aumentato il peso delle esportazioni durante il periodo 2002-07 dal 37 al 47 per cento, anche il Giappone ha fatto la sua parte. Secondo il Financial Times, la dipendenza dalle esportazioni, e quindi il rapporto Export/Pil nipponico, è salito dall’11,4 al 17,6 per cento durante il periodo che va dal 2002 ai giorni nostri. Anche se le esportazioni hanno contribuito a far crescere l’economia, esse però hanno aggravato ancora di più la posizione critica del paese: più che nel passato ora il Giappone, per far crescere la quantità di
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beni e servizi prodotta, dipende in maniera determinante da quanto riesce a vendere sui mercati internazionali. Con la crisi dei subprime, l’export ha pagato dazio. La crisi finanziaria accoppiata alla recessione americana, si è comunicata, secondo il principio dei vasi comunicanti, al mondo ormai globalizzato, facendo cadere la domanda di consumi. La diminuzione della domanda ha particolarmente colpito i prodotti made in Japan o i prodotti delle industrie giapponesi insediate su tutto il pianeta. La crisi ha messo più che mai in evidenza che l’economia giapponese si colloca in un’area critica dalla quale è difficile uscire senza il coraggio di riforme strutturali di lungo periodo, probabilmente difficili e dolorose. Intanto la macchina produttiva invecchia e i consumi languono, per cui si profilano tempi duri all’orizzonte, sebbene il paese abbia risorse e qualità che continuano a far ben sperare. Il futuro del Giappone dipenderà non solo da fattori esterni, dall’economia internazionale, dal recupero dal ciclo negativo subprime-recessione, ma soprattutto da come i giapponesi sapranno anche cambiare i loro atteggiamenti culturali, il loro modo di pensare. PRESENTE E FUTURO
Stato attuale dell’economia La situazione economica del Giappone attuale non è molto diversa da quella degli altri paesi industrializzati. La bolla
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finanziaria americana non ha avuto le stesse conseguenze devastanti di quelle di alcuni paesi dell’Occidente, almeno per quanto riguarda la finanza, e questo per vari motivi. Il sistema bancario giapponese era già stato profondamente ristrutturato negli anni precedenti e, come abbiamo visto, delle prime 20 grandi banche degli anni Novanta ne erano rimaste solo tre – autentici mammut giganteschi. Queste, in ottime condizioni, hanno aumentato le loro quote di mercato, ristrutturato, ricapitalizzato e persino ripagato il Governo. Nel periodo critico della formazione della «bolla speculativa americana», essendo le banche giapponesi in altre faccende affaccendate, non hanno avuto la possibilità, fortunatamente, di investire in carta straccia. L’industria giapponese – molto esposta alle esportazioni e relativamente concentrata su poche linee di prodotto – ha risentito, invece, pesantemente della caduta della domanda di consumi a livello mondiale. L’export quindi ne ha risentito e le ricadute negative non hanno ritardato a riversarsi sulle aziende collegate al commercio internazionale. Il Giappone soffre tuttora, più che mai, per la sua eccessiva dipendenza dall’export e dalla domanda interna asfittica. Negli ultimi anni, anziché concentrare gli sforzi sulla soluzione di questa contraddizione, ha ulteriormente aumentato il peso delle esportazioni, aggravando la sua sovraesposizione come testimoniano i dati statistici. Tra il 2002 e il 2007, i volumi di merce esportati sono aumentati rispetto al passato sia in
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termini quantitativi sia di valore monetario e anche il rapporto esportazioni/Pil, passato dal 12 al 17 per cento, ha peggiorato ulteriormente il quadro complessivo. Avviene così che, in un contesto in cui le esportazioni diminuiscono, il Giappone sia costretto a mettere a nudo le sue debolezze e i suoi squilibri. Pur avendo raggiunto una posizione economica di dimensioni straordinarie rispetto alla popolazione del paese e pur continuando a essere la seconda economia mondiale in termini nominali con oltre 4 mila miliardi di dollari di Pil e un reddito pro capite al quinto posto al mondo, il Giappone non è al riparo dai problemi che affliggono anche le altre economie dei paesi più avanzati. Appare ormai scontato che la sua crescita economica non sarà più quella del miracolo del dopoguerra. Il suo potenziale di crescita – fatte salve le esportazioni – è ai livelli europei, cioè bassi. Attualmente, la sua crescita interna è minima: circa l’1 per cento l’anno. La caduta a vite delle esportazioni dalla metà del 2008 ha causato una diminuzione straordinaria del Pil. Nel quarto trimestre dell’anno scorso si registrava un –12,7 (fonte ONU), diminuzione doppia rispetto alla zona euro: mai si era vista nel dopoguerra una decrescita dell’economia a due cifre. Per di più è la peggiore performance fra i paesi industrializzati di prima fascia! Purtroppo, non migliore si presenta la situazione nel comparto dei consumi interni che, anziché compensare almeno in parte il forte rallentamento delle esportazioni, languono senza
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immediate prospettive di crescita. Perciò, il problema di fondo per il Giappone è il bilanciamento della sua economia: diminuire la dipendenza dalle esportazioni e aumentare la domanda interna. L’attuale squilibrio sarà difficile da risanare senza uno sforzo massiccio di politica economica. Per ribilanciare l’economia in modo che il Giappone sia meno in difficoltà e, allo stesso tempo, porti la crescita economica a un livello superiore all’1 per cento annuale, ci sono molti ostacoli da superare e diverse azioni da intraprende. Di seguito vengono annotati le tematiche più importanti. Esportazioni Il Giappone non può non esportare. In un’intervista, il presidente della Panasonic, Ōhtsubo Fumio, è stato epigrafico: «Non possiamo rivolgerci solo al mercato domestico. La ricchezza del Giappone consiste nell’importare materiali, aggiungervi valore trasformandoli in prodotti e venderli nel mondo»22. Ōhtsubo, tuttavia, aggiunge che è giunta l’ora di cambiare approccio. Occorre, innanzitutto, diversificare di più i mercati e puntare sui paesi con alto potenziale di crescita. Non solo i mercati dei paesi industrializzati e dei BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) quindi, ma anche i MINT (Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia) a cui vanno aggiunti i paesi balcanici. E conclude con le raccomandazioni: bisogna prestare più attenzione alla sensibilità e necessità locali; occorre assumere più ingegneri ed esperti locali per adattarsi
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alle diverse culture; investire di più nei mercati locali. Panasonic ha già una forza-lavoro in Cina di oltre 100 mila persone e dovrà potenziare questo impegno. Il Giappone dovrà anche ristrutturare drasticamente due dei suoi settori industriali più importanti. Come sostiene Ōmae Ken’ichi, sia il settore dell’elettronica sia quello dell’automotive devono avere il tempo necessario per fare un balzo in avanti. A questo scopo, sono indispensabili più innovazione, più creatività, più tecnologia. In definitiva, l’industria nipponica legata alle esportazioni dovrà puntare su diversificazione, maggiore qualità, innovazione continua. Avendo costi alti di produzione, anche se mitigati dagli investimenti produttivi in mercati meno cari, ci sarà bisogno di non pochi sforzi per continuare a essere competitivi: il Giappone, a ogni modo, ce la può fare; avendo tutte le risorse necessarie. Consumi interni e demografia Come s’è detto, il Giappone non ha mai dato priorità al consumatore. Privilegiando, come priorità nazionale, la potenza industriale, ha finito con il trascurare il consumatore e quanto lo riguarda da vicino, a cominciare dalla distribuzione, particolarmente farragginosa e costosa. Il mercato non si è adeguato velocemente al cambiamento epocale che si sta vivendo: la popolazione invecchia e invecchia molto più velocemente rispetto agli altri paesi industriali, anche a causa della severa
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politica contro l’immigrazione di manodopera. In effetti, scarse, finora, sono state le risposte a questo fenomeno che appare inarrestabile. La previsione – sulla base della natalità eccessivamente bassa rispetto al tasso di rimpiazzo – è che per la metà del secolo il popoloso Giappone dai 127 milioni di abitanti scenderà a 90 milioni. Non solo, ma la massa enorme dei 35 milioni attuali di over 65, sarà ancora più dilatata, rendendo il rapporto lavoratori/pensionati insopportabile, se nel frattempo non saranno stati apportati i necessari correttivi. In realtà, i pensionati muoiono ricchi grazie all’altissimo tasso di risparmio che dipende sia dalla cultura ma anche dalla necessità di fronte all’imprevedibilità di quanto le pensioni potranno dare in futuro e allo scarso appoggio di sostegno sociale. Si calcola che un giapponese, con un’aspettativa di vita al di sopra degli 80 anni, muoia con un risparmio medio pro capite superiore ai 200 mila dollari. Questo fatto può essere letto come testimonianza di un paese ricco, ma anche come premessa per un ulteriore allungamento della vita e quindi di aggravamento del peso sociale. Tale prospettiva, per un paese che raggiungerà fra poco un debito pubblico pari al 200 per cento del Pil, è fonte di grande preoccupazione ed è anche alla base del recente terremoto politico. Per cambiare la situazione e migliorare il livello dei consumi si possono immaginare varie misure di cui alcune sono riportate di seguito.
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• Il Giappone ha un livello molto basso di produttività nel settore dei servizi. A proposito, grande stupore e vivaci discussioni stanno turbando recentemente il mondo del lavoro giapponese. Dopo che, infatti, il Japan Productivity Center ha cominciato a pubblicare un confronto internazionale sulla produttività nei diversi paesi, è risultato chiaro il rendimento poco lusinghiero dei lavoratori dell’arcipelago nipponico – al 20° posto tra i 30 paesi OCSE rispetto al 7° detenuto dall’Italia. È naturale, quindi, che il governo, in particolare il METI (Ministero dell’economia, del commercio e dell’industria) stia promuovendo l’incremento di produttività soprattutto nei servizi incoraggiando l’applicazione di metodi che si sono rivelati efficaci tra i colletti blu dell’industria. Infatti, se si prendesse in considerazione solamente l’efficienza di questi ultimi, il Giappone non sarebbe più al 20° posto ma si classificherebbe al 3° posto nella graduatoria dei paesi con più elevata produttività nel lavoro. Non procrastinabile, quindi, lo sforzo per elevare l’efficienza nei servizi. • I giapponesi a 60 anni sono ancora giovani. Sarà inevitabile innalzare il loro teinen, l’età del loro pensionamento. Oltretutto la stragrande maggioranza di loro, secondo i sondaggi di opinione, vuole lavorare ancora e molti addirittura si trasferiscono all’estero per dare assistenza tecnica in Cina o nel Sud-est asiatico.
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• Il Giappone è il leader mondiale nella robotica dove si sono fatti progressi enormi. Un loro maggiore utilizzo – vista l’idiosincrasia nei confronti della manodopera straniera e dell’immigrazione – potrà sicuramente portare vantaggi ai vari settori dal primario al terziario. Un paese ormai forte nel quaternario – amministrazione, ricerca tecno-scientifica, finanza – può trovare soluzioni utili a smussare gli angoli del problema. • Il mercato degli aging consumer non è ancora stato esplorato. C’è un’enorme opportunità nella ricerca del benessere, nell’accudire gli anziani, nello sviluppo di idee che contribuiscano a migliorare la qualità della vita e farne un business. • Robert Feldman, capo economista della Morgan Stanley, sostiene che nell’agricoltura ci sia ampio spazio di sviluppo. Attualmente nessuno sostituisce i contadini che scompaiono e molti terreni restano incolti. C’è, inoltre, una scarsa propensione a cambiare ciclo produttivo, Una politica d’incentivazione per i giovani, lo sfruttamento di terreni non utilizzati, un livello di vita più accettabile per gli agricoltori possono contribuire a una rinascita dell’agricoltura e a una maggiore crescita economica. Non fare niente in questo campo è come gettare un bene prezioso alle ortiche.
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Un nuovo mondo di pensare l’agricoltura e l’implementazione di misure appropriate negli altri settori aiuteranno a diversificare i consumi, a migliorare l’offerta di servizi, a diminuire la dipendenza dalle esportazioni e ad aumentare il benessere. Anche da questo punto di vista, il Giappone ce la può fare, pur rimanendo negativo il trend demografico contro cui si hanno armi spuntate. La curva di Smiley Per mantenere il livello di benessere raggiunto, il Giappone deve approfondire e conformarsi alla cosiddetta Curva di Smiley. Smile (sorriso) corrisponde alla curva a U che la bocca assume quando si sorride. La curva ha un significato economico molto sensibile. Semplificando: la parte di fondo della U corrisponde, nell’industria, alla pura produzione, alla fabbricazione tout court, dove si produce un utile industriale in genere stiracchiato. Chi è forte invece si colloca ai vertici della U dove c’è la concezione del prodotto, il know-how, la distribuzione. È precisamente in queste aree elevate che un paese maturo tecnologicamente si deve collocare: qui infatti ci sono i margini di profitto e si ha il controllo della distribuzione senza la quale alcuni prodotti – l’auto per esempio – non hanno possibilità di risultare vincenti. Per il Giappone è indispensabile continuare a investire in tecnologia, a innovare, a mantenere al massimo livello i processi di produzione – le fabbriche giapponesi continuano a
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essere fra le più efficienti al mondo – a raffinare il marketing strategico e la capacità di cogliere i desideri del mercato. I giapponesi lo sanno; il passo falso di questi ultimi due anni li ha resi più sensibili. Hanno capito che bisogna mantenere il potenziale industriale del Giappone intatto, rafforzarsi ai massimi livelli di efficienza, investire nella distribuzione e nel servizio, essere competitivi nei prezzi, mantenere il proprio vantaggio competitivo su alcuni prodotti high end, quando si avverte sul collo il fiato delle industrie di paesi quali Corea del Sud, Taiwan e Cina. Appare ormai chiaro come il Giappone abbia perso terreno negli ultimi anni proprio nelle aree che erano i suoi punti di forza: dall’alto, è attaccato nell’innovazione di prodotto dall’industria americana (per esempio, l’iPod dell’Apple) e, dal basso, dalle produzioni di Corea del Sud, Taiwan, Cina. Gli americani stanno riprendendosi la leadership suoi prodotti grazie alla capacità creativa, alla continua innovazione tecnologica, alle idee e ai talenti che provengono dalle migliori università, al supporto straordinario della finanza (Venture Capital, Private Equity) che consentono agli imprenditori di affrontare i progetti e di realizzare i loro sogni. L’America può contare sulle migliori università al mondo dove si insegna che «c’è sempre una strada migliore», che no venture no gain (chi non risica non rosica). L’iPod è il caso emblematico del «ri-sorpasso americano» ed è anche un segnale forte al Sol Levante che mostra come nel mondo moderno non si debba
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mai abbassare la guardia. I capitali ormai possono reperirli tutti, dovunque: non sono più il differenziale. Quello che conta, secondo Zakaria, «è la demografia, la diversità, la globalizzazione, la conoscenza e non solamente i capitali»23. E, quindi, per essere vincenti oggi bisogna avere «squadre che creano beni e servizi». In questo, non gioca a favore del Giappone la sua demografia negativa. La capacità di gestire situazioni interculturali è scadente e le università giapponesi funzionano come delle tribù. Il «così fan tutte», purtroppo, ha la meglio sullo stimolo a pensare diverso, a puntare sull’individuo, a far emergere la creatività. Il passaggio di talenti dall’una all’altra università è molto difficile e la lingua assieme alle altre barriere costituisce un difficile ostacolo da superare per attrarre talenti – sia insegnanti sia studenti – nel paese. La globalizzazione – come si è argomentato in altra sede24 – non favorisce il Giappone e la sua cultura particolaristica, mentre per quanto riguarda la conoscenza, il paese segna un punto di vantaggio. Infatti, come è stato già sottolineato, non ci sono le stesse preclusioni del NHI, non ci sono dogmatismi, blocchi culturali o religiosi che limitino l’adozione di idee e progetti da qualsiasi parte provengano. Facendo un confronto con la Cina, ci rendiamo conto che, sotto molti aspetti, il Giappone è molto diverso. In particolare, facendo sempre eco a Zakaria, possiamo affermare che «la Cina, contrariamente al Giappone, ha perseguito una politica improntata agli investimenti e all’apertura dei mercati. Per
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queste ragioni la Cina non può essere considerata il nuovo Giappone». La Cina esporta il 70 per cento del Pil contro il 17 per cento del Giappone: due conformazioni economiche non comparabili, a prescindere dal grado di sviluppo raggiunto e dal divario di ricchezza sia a livello paese sia privato. Da non dimenticare che il reddito pro capite giapponese, in termini nominali, è parecchie volte multiplo di quello cinese. Più vicina al Giappone è invece la Corea del Sud che, perlomeno in passato, ha fatto costantemente ricorso al supporto dello Stato all’esportazione («esportare o morire») e ha utilizzato pratiche tariffarie e paratariffarie speciali per tenere il proprio mercato chiuso alle merci e, spesso, agli investimenti stranieri. Tutto sommato, il futuro si presenta per il Giappone come una sfida molto elevata. Tuttavia, secondo Ōmae, il Giappone può contare su alcuni significativi vantaggi di cui è molto geloso. È vero che attualmente ha dei problemi ma è e sarà un paese forte, nonostante la politica sia «kaputt», nonostante i giapponesi siano ancora traumatizzati dagli effetti della lunga e logorante crisi durata 12 anni. Dai cambiamenti politici non c’è molto da aspettarsi, tanto più che l’economia è nella sua situazione peggiore e non può regredire oltre. Il Giappone, tuttavia, ha un suo nucleo sano e i suoi vantaggi sono identificabili in particolare nella sua tecnologia, nei macchinari automatici a controllo numerico, con scatola nera, cioè con controllo a prova di imitazione. Inoltre, nei materiali
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applicati, nel materiale elettronico di base, c’è quasi un monopolio giapponese: «Se il Giappone non fornisse più queste due linee di prodotti, molti paesi industrializzati si fermerebbero di colpo«. Il paese, sempre secondo Ōmae, sta molto cambiando, molto più di quello che si possa pensare: il «decennio perduto», in realtà, ha consentito al paese di riaggiustarsi, di tirare il fiato dopo una lunga corsa. Con la spinta dell’elettronica e di internet, le nuove grandi banche giapponesi in futuro potrebbero chiamarsi Sony, NTT Docomo… e si potrebbe arrivare a sfruttare al meglio i portatili nei quali il Giappone è fra i paesi più avanzati. Ito-Yokado, azienda specializzata nella grande distribuzione, con i sui 10 mila ATM su tutto il territorio nazionale ha immense possibilità di applicazione. L’innovazione nel settore dei motori, l’auto elettrica, i motori ibridi, l’innovazione, l’economicità, il rispetto dell’ambiente – tutte caratteristiche dell’industria giapponese – daranno un impulso straordinario all’economia nipponica: «Il Giappone dovrà sopportare due o tre anni difficili, ma ha bisogno di sfide, essendo un paese reattivo»25. Nel suo percorso storico, il Giappone ha già dimostrato in varie occasioni drammatiche che, se è spinto nell’angolo, sa raccogliere le sue energie e uscirne vittorioso. Il suo approccio pragmatico e la sua mancanza di dogmi sono vantaggi formidabili. Al contrario di altri paesi, i Sumitomo, i Mitsui, i Mitsubishi si fanno una concorrenza spietata nel mercato
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interno, ma di fronte a una minaccia esterna sono pronti a far fronte comune: si cambia tutto, senza remore ideologiche. Proprio come diceva Zhou Enlai, i giapponesi possono passare dall’impero alla repubblica in tre giorni. E la «mano visibile» è sempre vigile, attenta, pronta a suggerire, ad aiutare senza ritardi, in modo tempestivo. Questo è il vantaggio di non avere un sistema politico che costringa a fare marcia indietro anche quando il Governo ha la maggioranza. Nel bisogno prevale la norma derivata dall’ittaikan (senso di unità, «siamo sulla stessa barca», «la nostra vita è in pericolo: o ci salviamo insieme o periamo tutti»). Le sfide da affrontare Le sfide per i giapponesi non finiscono mai: come fare le riforme strutturali interne al paese, come contenere e migliorare la diversificazione delle esportazioni, come stimolare e ridirigere i consumi, come sostenere l’economia nonostante un debito pubblico quasi del 200 per cento del Pil, come stimolare lo sviluppo tecnologico per mantenere il Giappone sulla fascia più alta dei prodotti? Tenendo conto di tutti gli elementi positivi e negativi dei giapponesi cui sopra si è accennato e sulla base delle capacità da loro possedute per affrontare le grandi sfide, possiamo ripetere che il Giappone ha buone possibilità di continuare a essere un grande paese
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industriale, un ruolo che nel dopoguerra ha svolto egregiamente con ricadute positive anche sul resto del mondo. Come, però, scrivevamo all’inizio di questo capitolo, per la reazione chimica desiderata, non è sufficiente che operi solo il DNA dei giapponesi (metafora intesa in senso costruttivistico e non essenzialistico, beninteso). Alle ben note specifiche capacità del popolo giapponese di rispondere adeguatamente alle sfide della storia occorre che si sommino altri elementi: fattori interni (la politica e la burocrazia giapponesi) ed esterni (la politica internazionale, il ruolo della Cina, la politica estera americana in Asia, le recessioni mondiali…). È necessario che non si pongano di traverso sulla strada del Giappone molti agenti avversi. E, come sosteneva negli anni Ottanta il saggio ambasciatore italiano a Tokyo Bartolomeo Attolico, non bisogna dimenticare che «la storia è il risultato di errori»; e spesso questi non sono prevedibili! Alcuni problemi sul tavolo Il Giappone oggi è molto più «comprensibile» rispetto al passato. La fase della ricostruzione, l’aggancio all’Occidente, la conquista del secondo posto fra le economie mondiali sono ormai dietro le spalle. La fase successiva della mitizzazione ed esaltazione, del «pericolo giallo», del paese ostile e invasore, del Giappone n. 1 di Ezra Vogel, dell’idrovora economica che compra tutto e getta via tutto ciò che non le serve, è ormai finita. Gli stereotipi sul sorpasso anche dell’economia
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americana, con il dominio finanziario e tecnologico del mondo, sono ormai scomparsi dal linguaggio corrente. Oggi il Giappone può essere a ragione definito un paese normale, una grande economia che si trova ad affrontare problemi epocali, forte solo della sua capacità di lavoro, privo com’è di risorse energetiche e di materie prime. In fondo si tratta di un’economia di trasformazione, con gravissimi handicap che si potrebbe tentare di sintetizzare nel modo seguente. • Il Giappone è molto vulnerabile a tutto ciò che succede nel mondo. Il petrolio e le materie prime sono in viaggio su tutti i mari del mondo. In qualsiasi momento, per conflitti o tensioni non difficili a verificarsi, potrebbe essere reciso il flusso vitale che dal Golfo, attraverso lo stretto di Malacca e il mare della Cina, rifornisce il paese di petrolio e altre merci. La sua posizione geografica, totalmente isolata dal continente, è certamente un punto di grande debolezza. Dal punto di vista geopolitico, il Giappone oggi non ha alcuna possibilità di essere una potenza militare o egemonica. E sarà costretto a essere sempre dalla parte della distensione e della cooperazione internazionale. Le tesi contrarie appaiono prive di fondamento, non solo perché il Giappone oltre alla clausola costituzionale pacifista ha da tempo adottato il principio programmatico di «non fabbricare, non possedere, non introdurre armi nucleari» (anche se «glissa» su quello che fanno gli americani nelle
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loro basi militari sull’arcipelago) e quello di non superare l’1 per cento del budget statale per le spese destinate alla difesa. Resta il fatto che il 17 per cento dell’economia legato all’esportazione è vulnerabile e fortemente esposto alla situazione internazionale. L’esempio più recente è dato dalla Terza Grande Crisi che, provocando la riduzione dell’export del Giappone, ne ha contratto l’economia del 12 per cento durante l’ultimo trimestre del 2008. • Il secondo elemento negativo, come abbiamo più volte fatto notare, è quello demografico. Prendendo in considerazione la non disponibilità ad aprire in modo sostanziale le porte del paese ai lavoratori stranieri e il tabù circa la loro integrazione nella società, il trend attuale porta inevitabilmente a una diminuzione della popolazione. Ogni anno, a settembre, si celebra la festività del rispetto per gli anziani. Fino a ora, chi compiva i 100 anni riceveva dal Governo una coppa per bere il sake, la bevanda estratta dal riso, con 94 grammi di contenuto d’argento. Quest’anno è stata ridotta a 63 grammi perché i centenari, che sono già più di 20 mila, sono destinati ad aumentare in maniera significativa. Lo stile di vita sobrio, con un’alimentazione sana e una buona qualità dell’assistenza sanitaria, fa allungare la vita e contribuisce a creare le condizioni di un paese che invecchia rapidamente e la cui popolazione diminuisce a causa del basso tasso di natalità. Il fenomeno non è esente da ripercussioni sui conti dello Stato e dei
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Fondi Pensione, sullo stile di vita, sulla composizione della domanda interna, sulla forza-lavoro e sullo standard di vita. Il terzo nodo da affrontare è il debito pubblico, un problema che il Giappone ha in comune con l’Italia. La politica «scriteriata» dei lavori pubblici e delle manovre anticicliche (pump priming) ha accumulato nel tempo un debito pubblico che sta raggiungendo livelli davvero critici. La gravità del debito non appare in tutta la sua evidenza a causa del livello di risparmio eccezionale dei cittadini. Ciò è in parte dovuto alla cultura, tipica di un paese tradizionalmente povero, influenzata anche dall’invito alla sobrietà del Confucianesimo e del Buddhismo ma anche, più banalmente, dalla paura del futuro (come nella favola della cicala e della formica): sarebbe errato sottovalutare la natura di «risparmio forzato» del fenomeno. I 35 milioni di giapponesi al di sopra dei 65 anni intuiscono che, a causa del debito pubblico, della demografia negativa e del rapido invecchiamento della popolazione, il livello di sostentamento degli anziani non potrà essere sempre come al presente. Entro il 2025 ci sarà un pensionato ogni due lavoratori (attualmente uno ogni quattro) ed è giocoforza tendere a risparmiare molto e a ridurre i consumi privati: è la tipica preoccupazione – tangibile nelle ultime elezioni – per il futuro di chi non è più attivo nel mondo del lavoro e sa di non poter sopravvivere solo grazie alla previdenza
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sociale. La spesa pubblica per il sociale da qui a 5 anni sarà del 42 per cento maggiore rispetto a quella del 2006. Una grande preoccupazione che non ha mitiganti se non una minore spesa e un maggiore risparmio. Per il Giappone, come ha scritto l’economista Carl Weiberg, analista politicoeconomico e capo economista di «High Frequency Economics, riportata sul Financial Times del 4 agosto 2009 nell’articolo «A fiscal frailty»), c’è il rischio di meltdown. • La scarsa credibilità del sistema politico e burocratico è un’aggravante della situazione. Il 76 per cento della popolazione non ha più fiducia nel mondo politico e ha perso quella nella burocrazia, la mitica «mano visibile» del modello economico sviluppista del Giappone. Per la politica, questa bocciatura non è una sorpresa, data la tradizionale bassa considerazione in cui è sempre vissuta; ma non per la burocrazia, tradizionalmente apprezzata per lealtà nei confronti dello Stato, saggezza, decisionismo e competenza. I burocrati di élite provenivano dalle migliori università ed erano consapevoli della stima che godevano nel paese. Alla domanda sul perché avessero scelto la carriera burocratica, lenta e poco pagata, essi erano pronti a rispondere che così facendo sentivano di partecipare alla conduzione del paese. Era noto che le decisioni principali e le proposte di legge erano essenzialmente il frutto dell’iniziativa burocratica. I politici si limitavano a fare da
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notai delle decisioni già prese. Come scrive Karel Van Wolferen, uno dei più battaglieri «revisionisti» occidentali, «i ministri di Stato sono trattati dai burocrati come ospiti temporanei», che cambiano con il veloce cambiar dei Gabinetti. Molti paesi avevano preso a modello la struttura burocratica giapponese, agile e veloce nelle esecuzioni delle decisioni: la window guidance in parecchi frangenti si è dimostrata superiore all’iter parlamentare dei paesi occidentali, ricco di dibattiti, di contrasti, di lungaggini che finiscono con il mettere in atto provvedimenti ormai obsoleti. La luna di miele, però, tra burocrazia e cittadinanza in Giappone è finita da qualche tempo. Burocrazia e politica Il buon feeling fra pubblico e burocrazia si è ormai sciolto come neve al sole a causa delle decisioni degli anni Ottanta e Novanta che hanno portato il Giappone a un near miss, quasi a un fatale scontro in volo. La prolungata recessione degli anni Novanta, un debito pubblico pauroso, gli scandali a non finire – basti pensare alla scomparsa di oltre 50 milioni di dati relativi all’assistenza sanitaria – hanno radicalmente modificato l’ottima percezione dello Stato, del servizio pubblico, della capacità di guida e leadership della burocrazia. Yoshimi Watanabe, ex Ministro del Partito Liberal-Democratico (PLD), così descrive il problema: «È una grande bugia dire che i burocrati seguono la linea dettata dai politici. In realtà, il
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loro lavoro è principalmente di lobbying, proponendo una loro linea politica ai ministri a uso delle “tribù” (zoku), delle fazioni, per assicurarsi che essa venga accettata e messa in atto… I burocrati farebbero qualsiasi cosa per preservare e proteggere gli interessi che essi rappresentano. E sono un osso duro. Sarà difficile anche per il nuovo corso politico rimettere i burocrati al loro posto»26. Anche un rappresentante del Partito Democratico del Giappone (PDG) – il partito vincente alle ultime elezioni – Furukawa Motohisa, che conosce bene la materia in quanto lasciò il MOF (Ministero delle Finanze) nel 1994 per darsi alla politica, sostiene che «il lavoro della burocrazia dovrebbe essere quello di tenere i treni sulle rotaie e garantire che rispettino gli orari. Il problema che ora affrontiamo è che i treni hanno raggiunto la destinazione finale e si sono fermati. C’è bisogno di costruire nuove rotaie e questo dovrebbe essere il ruolo dei politici». Dal canto loro, molti burocrati sostengono che i politici sono incompetenti e interessati solo alla politica non alle politiche… E aggiungono che oggi devono affrontare grandi e difficili decisioni che però non possono prendere da soli perché non hanno un mandato dalla politica. Insomma, tra due dei tre vertici del «triangolo di ferro» – alta burocrazia e leadership politica – c’è un aspro confronto in atto, che peraltro è stato anche uno dei temi principali del dibattito politico che ha caratterizzato la campagna elettorale delle elezioni politiche dell’estate 2009 per il rinnovo della Camera Bassa.
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L’aver impostato la campagna elettorale sul tema del ridimensionamento della burocrazia, per ridare alla politica il ruolo che le compete, ha di fatto posto le premesse per un duro scontro di potere. Furukawa, conscio delle difficoltà da affrontare per limitare lo strapotere della burocrazia, che fin dal periodo Meiji ha guidato la politica economica e non solo, spiega che la sola soluzione praticabile sia «trovare qualcuno che nel castello apra la porta…», cioè che aiuti a scardinare il vecchio sistema dall’interno: un cavallo di Troia. Il suggerimento non è inedito. Anche lo «shogun» della politica giapponese, Tanaka Kakuei, discusso primo ministro dal 1972 al 1976, tentò di fare la stessa cosa; e per qualche tempo riuscì a farla con successo. I suoi metodi erano piuttosto discutibili: cercava di corrompere la burocrazia con generosi regali e di far promuovere le persone che lo appoggiavano. Si ricordano ancora le sue visite ai ministeri per gli auguri di buon anno con borse piene di mazzette di banconote da consegnare ai burocrati «amici». Ma, come è noto, Tanaka finì in galera. È innegabile il cambiamento politico avvenuto alla fine dell’estate 2009. Il partito che ha governato ininterrottamente la politica del Giappone per oltre mezzo secolo (tranne una breve pausa negli anni Novanta) è ora all’opposizione. La vittoria è arrisa al Partito Democratico del Giappone che ora controlla le due Camere e che potrà governare con una larga maggioranza. Il leader Hatoyama Yukio, che ha condotto la campagna elettorale avendo dietro le quinte Ozawa Ichirō,
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uno degli intoccabili della vecchia politica giapponese, nel suo «Manifesto» ha sintetizzato temi congeniali ai sentimenti della popolazione giapponese in questo momento storico, sentimenti ancora influenzati dalla prolungata crisi economica e dall’eccezionale fase di recessione cominciata dopo l’estate del 2008. Alla sindrome del decennio perduto si aggiunge la preoccupazione di perdere gradatamente il benessere conquistato anche a causa dei fabbisogni previdenziali che aumentano continuamente e delle entrate statali che si riducono. Al di là dei proclami di politica estera, a volte frutto di pura demagogia – Yuai (fraternità con il mondo e con i paesi vicini), eguaglianza con gli Stati Uniti («vogliamo essere trattati da uguali»), creazione di un’area economica asiatica con una divisa unica (una copia del modello dell’Unione Europea), limitazione degli impegni di assistenza militare stipulati con Washington – il succo della proposta elettorale del PDG è sintetizzabile in promesse di carattere sociale allo scopo di ottenere il voto favorevole. Non va dimenticato che fu lo stesso partito a perdere le elezioni precedenti per aver proposto un aumento dell’imposta sui consumi al 5 per cento. Il Manifesto di Hatoyama prevede lo spostamento di risorse dall’assistenza agli anziani alla famiglia per migliorare la sua posizione economica. Promette un assegno di circa 200 euro al mese per «indennità bambini», al fine di incentivare la natalità e consentire alle famiglie di vivere con meno affanni.
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In aggiunta, renderebbe gratuita per tutti la scuola pubblica per diminuire la spesa familiare. Si tratta di promesse concrete e molto popolari. Anche il nuovo partito, però, dovrà fare i conti con l’oste, cioè con un debito pubblico enorme e trovare fondi per sostenere nuove spese non sarà impresa facile. Nel complesso, quindi, nel programma di Hatoyama c’è più sociale e meno burocrazia, con una spolverata di politica estera: prendendo a prestito le parole del saggista olandese Ian Buruma, «la vittoria elettorale del PDG non è uno tsunami, ma certamente una rivolta». Comunque, un cambiamento c’è stato. Ma perché i giapponesi, di solito ultraconservatori, hanno cambiato cavallo? Che cos’è che non soddisfaceva nella politica del PLD? Che cosa vogliono per il futuro? La promessa del PDG di una maggiore attenzione ai bisogni sociali viene incontro alla richiesta di uno Stato che faccia di più per la gente e di meno per il business. Si sente l’esigenza di più attenzione alla famiglia, più attenzione ai problemi di fondo di una società che invecchia. C’è bisogno di più figli, ma i cittadini sembrano rifuggire da questo impegno, tanto più che negli ultimi 20 anni gli stipendi non sono aumentati, mentre la sicurezza sociale è diminuita. Se le cose non dovessero cambiare, il futuro non sarà certo sereno. Il contributo per i figli, la scuola gratuita, una maggiore attenzione alla famiglia si presentavano, quindi, come temi vincenti. Così pure si rivelava vincente la promessa di ridurre il
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ruolo e il peso della burocrazia. La gente non era soddisfatta della posizione e dell’eccessiva influenza della burocrazia e numerose erano le critiche sull’idoneità della stessa a continuare ad avere «carta bianca» nella conduzione del paese. In politica estera, al di là dallo slogan proprio di «Yuai», la posizione critica del PDG nei confronti degli americani suonava sicuramente come una musica alle orecchie della popolazione. Il costante atteggiamento di Washington nell’usare l’alleato giapponese con l’atteggiamento da grande fratello non è mai piaciuto. Non per nulla è diventato un best seller in Giappone, con milioni di copie vendute, il saggio di Fujiwara Masahiko che invita insistentemente i suoi connazionali a riscoprire gli autentici valori giapponesi27. L’invito non è nuovo, ma nuovi sono i toni e gli incitamenti a prendere le distanze dall’Occidente e a essere coscienti dell’indipendenza del paese che non è subordinato ad altri. Gli stessi accenti si ritrovavano negli scritti di Ishihara Shintarō, già governatore di Tokyo28, come pure in tutta la letteratura nazionalista che non ha mai gradito la presenza delle basi americane sull’arcipelago e l’ingresso nei porti giapponesi delle navi USA a propulsione nucleare e forse armate di testate atomiche. Del resto è comprensibile la fobia verso ogni arma nucleare dell’unico paese sul pianeta che abbia sperimentato l’olocausto delle bombe atomiche. Il Manifesto di Hatoyama contiene anche proposte molto condivisibili nel settore dell’economia internazionale: la
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creazione di una zona economica avente come fulcro Cina, Corea del Sud e Giappone, come pure l’idea di una moneta comune. Si tratta di promesse elettorali, è vero, ma mostrano qualcosa di nuovo con un fondamento sostanzioso. Una morte annunciata, quindi, per il PLD fermo alle solite proposte di spesa pubblica e di mantenimento dello status quo. Per il Partito Liberal-Democratico, che sarà per la prima volta all’opposizione per qualche tempo, la sconfitta sarà un’occasione per ripensare agli errori sin qui commessi, anche se – tenendo conto della cultura locale – non è da escludere un ritorno alla situazione precedente qualora il nuovo Governo non produrrà risultati positivi. Il cambiamento avvenuto è anche segno dell’incertezza dei giapponesi di fronte al futuro e dell’insoddisfazione delle politiche seguite negli anni passati. Che sia giusto o meno il responso delle urne lo diranno gli esiti delle azioni che il Governo Hatoyama intraprenderà sulla base del suo Manifesto. In particolare, saranno importanti il successo delle sue mosse nei confronti della burocrazia e il mantenimento delle promesse elettorali trovando risorse necessarie, senza aggravare il già pesante conto fiscale dei cittadini. Da valutare positivamente, poi, la posizione più matura e bilanciata nei confronti degli Stati Uniti: dopo Pechino, Tokyo è il maggior finanziatore del debito pubblico americano e avrà pure il diritto di pretendere di essere trattato da pari! Anche la ricerca di distensione con la Cina e con la Corea del Sud, come pure
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l’intenzione di rafforzare i legami con i vicini asiatici rivelano buon senso. Certamente la preoccupazione per l’aumento della potenza militare cinese si situa dietro questo pensiero e l’unica contromossa possibile è il tentativo di creare una maggiore integrazione con il sempre più forte vicino di casa. D’altra parte, all’origine del Mercato Comune Europeo non c’era forse l’arrière-pensée dei paesi fondatori che desideravano innanzitutto porre fine alla contrapposizione francotedesca? Sicuramente il cambiamento avvenuto e il «rientro in Asia» (nyū-A) dei giapponesi è una capriola a 180 gradi rispetto all’orientamento prevalente nel dopoguerra tutto volto verso l’Occidente e in particolare gli Stati Uniti, l’unica potenza che finora sia riuscita a vincere e conquistare il Giappone. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando uno dei padri fondatori del Giappone moderno, Fukuzawa Yukichi, scriveva nel 1885 nel suo saggio Datsu-A Ron («Uscire dall’Asia»): «Dobbiamo legare la nostra sorte a quella dei paesi civilizzati dell’Occidente»29. Il cambiamento che si prospetta, come scrive l’analista Peter Tasker, è anche la conferma che «la coerenza con i principi non è mai stata una caratteristica fissa della politica giapponese»30. La società Il 16 dicembre 2007, il Japan Times dava la notizia di un tragico episodio. A Sasebo, un uomo di 37 anni era entrato in un
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centro sportivo e ucciso con una pistola due persone, ferendone altre sei. Si era quindi allontanato, era entrato in una chiesa cattolica e si era sparato. Aveva un problema con degli ex colleghi. Interessante, non il triste episodio, ma il commento dell’allora primo ministro Fukuda Yasuo allarmato che l’episodio potesse contribuire a dare del Giappone un’immagine non pacifica: «Sono preoccupato che il Giappone possa diventare come i paesi stranieri [sic]. Dobbiamo pensare a come fare per evitare simili problemi». Non parla degli altri problemi del paese, dello scadimento dei valori tradizionali e della montante avidità per il denaro. In lui c’è solo la preoccupazione di «perdere la faccia» nei confronti dell’estero. Abbiamo trattato a lungo di economia, politica e burocrazia, ora ci soffermiamo su alcuni tra i problemi sociali che oggi angustiano l’opinione pubblica nipponica. L’episodio appena raccontato riguarda uno dei tanti problemi che stanno emergendo nel paese: la violenza, il bullismo, l’insoddisfazione per la forbice che si allarga sempre più tra ricchi e poveri. Osservando l’evoluzione del Giappone degli ultimi quarant’anni, non si può non ammettere che la situazione sociale sia notevolmente peggiorata. Il senso sociale e la consapevolezza di essere tutti nihonjin (giapponesi), membri di una stessa famiglia, si sono molto affievoliti. Oggi si parla di aikinshugi (idolatria per il denaro) ed è un fenomeno grave soprattutto tra i giovani perché porta all’aumento della prostituzione giovanile, della
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violenza, del bullismo nelle scuole. Come anche in Occidente, spesso ciò che caratterizza i giovani giapponesi può essere racchiuso nell’acronimo «PSD» (Poor, Smart and a Desire to get rich): in sostanza si desidera diventare ricchi con poca fatica. La famiglia si è sgretolata. Mentre mezzo secolo fa il modello era ancora quello delle tre generazioni sotto lo stesso tetto, oggigiorno non ne è forse rimasta che una. Il distacco fra le generazioni è incolmabile. Il palleggio di responsabilità fra famiglia e scuola ha raggiunto livelli incredibili. È interessante leggere quanto una signora scrive in una lettera al quotidiano Asahi Shinbun: «Le scuole devono insegnare ai bambini l’uso corretto del coltello». A lei risponde un insegnante in questi termini: «Non bisogna aspettarsi che le scuole facciano tutto». Purtroppo, però, non si insegna più neanche l’educazione civica. Come da noi. Nello stesso tempo, anche le famiglie non insegnano ormai nemmeno le cose più elementari. C’è una grave malattia che si è diffusa in Giappone e si chiama akubyōdō (cattivo egualitarismo). In sostanza si è diffuso il concetto proprio del mondo virtuale dove i giovani vivono fino al momento in cui affrontano il lavoro: tutto deve essere uguale per tutti, dalla nascita alla morte! Non importa l’impegno: a tutti spettano le stesse cose. Anziché esigere di essere tutti uguali sino al palo di partenza e poi vinca il migliore, rispettando le regole, si è diffusa la mala pianta
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dell’akubyōdō che rischia di frustrare drammaticamente i giovani quando si trovano ad affrontare la vita vera e non più quella vissuta sotto la campana di vetro dei genitori, della famiglia e della scuola. Una volta era diffuso l’impiego nella stessa azienda dall’inizio della carriera fino al pensionamento. Non è più così! Una larga fetta di giovani lascia le migliori occupazioni entro i primi tre anni perché trovano il lavoro duro, inaccettabile e con troppa disciplina. Molti entreranno a far parte del mondo dei freeter31 che lavorano a progetto, senza ambizioni e speranze per il futuro. Basta sopravvivere! Naturalmente la prolungata crisi economica, la necessità delle imprese di ristrutturare, la minore disponibilità di posti sicuri di lavoro hanno acuito il fenomeno dell’impiego precario, una forma di rapporto salariale che anche in Giappone si è diffuso rapidamente. Il Giappone e l’Asia Il Giappone, come abbiamo visto, presenta luci e ombre, ma anche una certezza e cioè che la sua posizione in Asia ha un grande valore. Il Giappone ha probabilmente di fronte a sé la più grande sfida di tutti i tempi. I problemi da affrontare richiedono forte leadership, visione, coraggio, grande creatività. Tutti elementi in cui, purtroppo, non eccelle particolarmente. A proprio vantaggio e a conferma che il ritorno in Asia è una carta vincente, è la sua posizione geografica che,
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se come abbiamo visto presenta diversi aspetti negativi, gli offre pure enormi vantaggi. Trovarsi in mezzo al mondo del futuro, dove i due terzi della popolazione mondiale vivono, dove sta emergendo il più straordinario fenomeno economico che la storia abbia mai registrato – con al centro la Cina, l’India e tutta la diaspora cinese del Sud-est asiatico – offre al Giappone immense opportunità di sfruttare la sua possanza economica, finanziaria e tecnologica. Certo il «gigante economico» ha perso buona parte del suo lustro e continua ad avere vaste sacche di inefficienza, particolarmente nei servizi. Con una crescita più lenta è anche probabile che abbia perso il treno per migliorare la qualità di vita dei suoi cittadini. I giapponesi continuano a lavorare lunghe ore, a non godere vacanze paragonabili a quelle europee e hanno fatto poco per migliorare la qualità della formazione, sfortunatamente ancora troppo focalizzata sul superamento degli esami di ammissione, anziché sull’impegno a formare cittadini che pensano e sono responsabili. In più occasioni abbiamo sottolineato il peso fondamentale avuto dalla «mano visibile», la potente e qualificata burocrazia giapponese, eredità della Restaurazione Meiji e della cultura confuciana del paese. Il suo ruolo è stato determinante nella ricostruzione, re-industrializzazione, aggancio con l’Occidente e «sorpasso» di altri paesi industrializzati. Le visioni del Keizai Doyukai, la guida e le direttive del MITI, la
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politica finanziaria del MOF sono state determinanti per il successo del Giappone nel passato. Lo Stato, anziché operare in prima persona come nel nostro paese dove le imprese statali hanno occupato un vasto spazio nell’economia, ha favorito e appoggiato le imprese lasciandole operare formalmente in modo competitivo. Con il passare degli anni, tuttavia, la situazione è cambiata sostanzialmente. Non solo la burocrazia nipponica ha perso terreno per decisioni errate o scandali, ma con il tempo si è andata modificando proprio la sua raison d’être: un paese industrializzato maturo ha esigenze diverse da quando deve rincorrere i suoi competitor. Molte delle grandi industrie giapponesi sono ormai planetarie: le Toyota, le Sony, le Panasonic sono marche famose dovunque. Operando su scala globale, hanno bisogno di essere e sentirsi libere. Basti pensare che l’investimento straniero nella Borsa di Tokyo è intorno al 30 per cento e la maggioranza del capitale di molte imprese – come Sony, Orix… – è in mani straniere. Esse operano in tutto il mondo e sono diventate in un certo senso «transnazionali», con la conseguenza che si è assottigliato il cordone ombelicale con il paese d’origine. Le sfide che l’industria giapponese deve affrontare collegate al paese in quanto tale – il sociale, la demografia, l’immigrazione – riguardano temi che richiedono qualcosa di diverso dal passato. Esigono «politica». Sono in un territorio che richiede non amministrazione, ma decisioni politiche.
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Ironicamente, nel momento in cui la «mano visibile» è impegnata a tempo pieno in paesi che fino a poco tempo fa avevano puntato prevalentemente sulla «mano invisibile», sulla capacità di autoregolamentazione del mercato, il Giappone deve muoversi in senso contrario. Ciò non vuol dire che la burocrazia verrà dismessa o mandata in pensione: vuol solo dire che il suo ruolo sarà sicuramente ridimensionato mentre la politica «ritornerà al centro del villaggio». Il «Manifesto» del PDG è al riguardo molto esplicito: «Più politica, meno burocrazia». Per un paese ipersviluppato come il Giappone, il modello di «Stato sviluppista» (di cui – come sappiamo – la burocrazia è elemento essenziale) non ha più molto senso: oggi, alla «mano visibile della burocrazia» si deve affiancare «la mano visibile della politica». Questo riequilibrio non sarà indolore. Il Giappone non è l’America: non è abituato a licenziare con facilità, tantomeno la burocrazia. Drammi, confronti e traumi certamente non mancheranno. Tuttavia, in conclusione possiamo affermare che, nonostante tutti gli handicap, il Giappone non va affatto sottovalutato, disponendo tra l’altro di capitali e tecnologia di livello mondiale, indubbiamente molto superiore a quello dei paesi che lo tallonano. Il gigante non corre più così veloce, ma è pur sempre davanti agli altri e sarà meglio non perderlo di vista.
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Note 1. La letteratura sulla storia del Giappone del dopoguerra è vastissima. In italiano, segnaliamo, oltre ad Asia al centro (in particolare cap. 5): J.M. Bouissou, Storia del Giappone contemporaneo, il Mulino, Bologna, 2003; F. Gatti, La fabbrica dei samurai – Il Giappone del Novecento, Paravia, Torino, 2000; F. Mazzei, «Democrazia e cultura politica in Giappone», Che fare delle democrazia?, a cura di R. Di Leo, Quaderni del Dipartimento di Scienze Sociali, Istituto Universitario Orientale, anno VIII, N. S., n. 13-14, Napoli, 1994; C. Molteni e C. Zucca, Rapporto Giappone, Fondazione Agnelli, Torino, 1996; A. Tamburello (a cura di), Italia-Giappone: 450 anni, IsIAO-Università Orientale di Napoli, Roma-Napoli, 2003, II vol.; V. Volpi, Giappone. L’identità perduta, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 2002; T. Itō, L’economia giapponese, Egea, Milano, 1995; Si vedano inoltre H. Bix, Hirohito and the Making of Modern Japan, Harper Collins, New York, 2000; A. Gordon, Posstwar Japan as History, University of California Press, 1993; G.D, Hook, Japan’s International Relations. Politics, Economics and Security, Routledge, London e New York, 2001; C. Johnson, MITI and Japanese Miracle cirt.; F. Mazzei, Japanese Particularism and the Crisis of Western Modernity, Ca’ Foscari, Venezia, 1998; P. Pelletier, Japon. Crise d’une autre modernité, Editions Belin, La Documentation Francaise, 2003; C. Tottman, A History of Japan, Blackwell, Oxford, 2000. 2. Si tratta del Patto nippo-sovietico di non aggressione firmato a Mosca il 13 aprile 1941 tra il Giappone e l’Unione Sovietica. Firmatari del patto furono il ministro degli esteri Matsuoka Yosuke, per il Giappone, e il suo omologo sovietico Vyacheslav Molotov per l’Unione Sovietica. 3. «Il Sole» di Aleksandr Sokurov, Multimedia San Paolo, 2005. 4. Si tratta del Tribunale Militare Internazionale per l’Estremo Oriente, istituito per processare le più importanti personalità dell’impero giapponese accusate di aver commesso crimini prima e durante la Guerra del Pacifico. 5. Su questo tema, vedi Asia al centro, cit, pp. 92-93. 6. Vedi F. Mazzei, op. cit. 7. Chalmers Johnson, «Political Institutions and Economic Performance: The Government-Business. Relationship in Japan, South Korea and Taiwan» in Frederic C. Deyo (Ed.), The Political Economy of the New Asian Industrialism, Cornell University Press, Ithaca, 1987. 8. Sull’argomento, vedi Ito, op. cit. 9. Gli accordi di Bretton Woods furono firmati nel 1944 per stabilire un sistema monetario internazionale concordato, mentre nel 1947 venne firmato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade). 10. Bill Emmot, Asia contro Asia, Rizzoli, Milano, 2008. 11. Sull’importante ruolo della cultura sullo sviluppo economico, insiste il sociologo David Landes, sottolineando però che non va intesa come qualcosa di statico: l’economia è ampiamente
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determinata dalla cultura, ma questa cambia e si evolve (vedi sua intervista al Corriere della sera, 3 settembre 2009). 12. Abegglen James C., Stalk George, Kaisha. The Japanese Corporation, Basic Books, New York, 1985. 13. Ito, L’economia giapponese, op. cit. 14. Per approfondire il ruolo del MITI durante il periodo considerato vedi Chalmers Johnson, MITI and the Japanese Miracle cit. 15. Su questo argomento si possono consultare: K.J. Fields, Enterprise and the State in Korea and Taiwan, Cornell University Press, Ithaca, 1995; M. Solis, Saori N. Katada, «Understanding East Asian Cross-Regionalism: An Analytical Framework.» in Pacific Affairs, Vol. 80, N. 2 (Summer 2007); Meredith Woo-Cumings, The Developmental State, Cornell University Press, Ithaca, 1999. 16. Si tratta del volume seguente: V. Volpi, Keizai Taikoku Nippon ni Asu wa aru no ka – Sugitaru Seikou wa kiken na Seikou, Nisshin Hodo, Tokyo, 1987. 17. E.F. Vogel, Japan as Number One: Lessons for America, Harvard University Press, Cambridge, Ezra Massachusetts, 1979. È interessante notare come lo stesso autore dopo circa 20 anni abbia sentito la necessità di scrivere un altro libro ponendo un punto interrogativo accanto al primato del Giappone: F. Vogel, Is Japan Still Number One?, Pelanduk Pubns Sdn Bhd; Selangor, Malaysia, 2001. 18. A. Morita con E. M. Reingold e Mi. Shimomura, Made in Japan. Autobiografia del presidente della Sony, Edizioni Comunità, Milano, 1986. 19. Yukio Mishima, Lezioni spirituali per giovani samurai e altri scritti, Feltrinelli, Milano, 1988. 20. Per approfondire l’argomento, vedi Gary Saxonhouse (Ed.), Robert Stern (Ed.), Japan’s Lost Decade: Origins, Consequences and Prospects for Recovery, Blackwell Publishing, Malden, 2004. Richard C. Koo, The Holy Grail of Macroeconomics: Lessons from Japan’s Great Recession, John Wiley & Sons, Hoboken, 2008. 21. La controprova, che ha fatto scandalo, è stata la risposta data dall’ex primo ministro Aso Tarō, alla domanda perché i giapponesi non spendono di più: «Per comprare qualcosa a casa mia, devo pensarci una settimana….». 22. Vedi «Engineer sees the bigger picture», Financial Times, 10 agosto 2009. 23. Zakaria, L’era post-americana, Rizzoli, Milano, 2008. L’autore sostiene che «nella nuova economia, la crescita nasce da squadre di persone che creano nuovi beni e servizi, non dalla accumulazione del capitale, che era invece la cosa più importante nella prima metà del XX secolo». 24. F. Mazzei e V. Volpi, Asia al centro, Università Bocconi Editore, Milano, 2006. 25. Da una conversazione con Kenichi Ohmae a Tokyo, aprile 2009.
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26. Dal Financial Times, 30 Giugno 2009: «War on the Samurai». Watanabe Yoshimi è un membro del Parlamento giapponese. 27. Fujiwara Masahiko, Kokka No Hinkaku [Dignità della nazione], Shinchōsha, Tokyo, 2005. 28. S. Ishihara, Japan That Can Say No: Why Japan Will Be First among Equals, Simon & Schuster, New York, 1992. 29. F. Zakaria. 30. P. Tasker, noto analista di politica ed economia giapponese. La citazione è sull’articolo apparso sul Financial Times del 1° settembre 2009 dal titolo: «Japan’s mood of realism bodes well for the long term». 31. Il termine freeter (anche freeta) è un neologismo sorto in Giappone verso la fine degli anni Ottanta fondendo il termine inglese free e la parola tedesca arbeiter. Sta a indicare le persone tra i 15 e i 34 anni che mancano di un lavoro a tempo pieno e che spesso vivono alle spalle dei genitori guadagnando qualcosa grazie a lavoretti sottopagati.
10. Il paese della «calma del mattino»: la Repubblica di Corea
La storia recente «Era l’alba di domenica 25 giugno 1950 quando suonò il telefono nella mia stanza da letto nell’ambasciata degli Stati Uniti [di Tokyo] – Generale, abbiamo or ora ricevuto un messaggio da Seoul che ci avvisa che i nord-coreani hanno attaccato in grandi forze e attraversato il 38° parallelo alle 4:00 di questa notte»1. Così il generale MacArthur descrive nelle sue Memorie il momento drammatico dell’inizio della Guerra di Corea (1950-53), una guerra fratricida, divenuta ben presto «internazionale» dopo la condanna del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, con il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti da una parte e con il sostegno sovietico dall’altra. Aggravatasi ulteriormente la situazione con l’invio di un «mare di volontari» da parte della RPC e con la minaccia di MacArthur di far ricorso alle armi atomiche, dopo un’estenuante mediazione internazionale si giunse, il 27 luglio 1953, all’armistizio di P’anmunjon che sanciva la divisione della
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penisola in due stati, la Corea del Nord e la Corea del Sud, avente come linea di demarcazione il 38° parallelo. La guerra lascerà sul campo 2,4 milioni di morti e feriti e due paesi (Nord e Sud) – già sfruttati da 35 anni di durissima colonizzazione giapponese (1911-45) le cui ferite ancora oggi non sono rimarginate – nella più nera miseria, ideologicamente separati e militarmente ostili. È dalla fine della Guerra di Corea, dalla tabula rasa lasciata dal conflitto, dal dramma di un paese al quale era stata promessa la sospirata indipendenza dalla «Dichiarazione del Cairo del ’43» e dagli Accordi di Potsdam del luglio 1945, che incomincia la storia della Repubblica di Corea, la Corea del Sud. La sua, quindi, è una storia breve dove la realpolitik, l’inizio della guerra fredda, il confronto Est-Ovest e la teoria del contenimento americano, anziché favorire la riunione di Nord e Sud per farne finalmente un paese libero e prospero, lasciarono dietro di loro una nazione irrimediabilmente divisa. Il dramma coreano, a causa di fattori esterni, sarebbe così continuato e il sogno di una «Corea unita» fu rimandato sine die. Dopo la riunificazione del Vietnam e della Germania, le Penisola coreana, ancora divisa, rappresenta le ultime «stigmate della Guerra Fredda». Dopo aver per secoli gravitato nell’orbita dell’ordine sinocentrico, dopo aver sperimentato nel XVI secolo due tentativi di occupazione giapponese abortiti, la Corea vede aggravarsi la sua situazione verso la fine dell’800. In quel periodo
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Giappone, Cina e Russia guardavano con interesse alla penisola coreana: la sua posizione geopolitica – separata da un braccio di mare dal Giappone e circondata da due giganti quali l’Impero del Centro e la Russia zarista – suscitava una forte attrattiva nei confronti dei vicini di casa. La partita fu vinta dal Giappone che, con la vittoria militare sulla Cina nel 1895 e l’estromissione dell’impero russo, dopo la battaglia di Tsushima e la conquista di Port Arthur nel 1905, a tappe forzate ne fece una propria colonia. In un primo tempo negoziò un trattato di protettorato sulla penisola coreana (1905) e poi, superando le ipocrisie e mostrando le sue reali intenzioni, ne decise l’annessione il 22 agosto 1910. La Corea diventò così parte integrante dell’Impero del Giappone, senza che però i suoi cittadini avessero i medesimi diritti dei giapponesi2. I 35 anni di colonizzazione giapponese furono durissimi: imposizione di nomi giapponesi ai locali, nipponizzazione forzata di ogni aspetto della vita, deportazione in massa di lavoratori per essere usati in fabbriche e miniere in Giappone, sfruttamento delle risorse locali, particolarmente durante il periodo bellico iniziato con l’invasione della Cina nel 1937. È innegabile che i giapponesi realizzarono molte opere positive: infrastrutture, impianti industriali nel Nord, scuole, organizzazione della burocrazia… Lasciarono, tuttavia, soprattutto ricordi amarissimi e un astio ancora oggi duro a morire nei confronti dell’occupante, al contrario della colonizzazione
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giapponese a Formosa (oggi Taiwan) che in genere è ben ricordata3. La Corea, con una popolazione fortemente omogenea – con solo piccole minoranze cinesi – sperava, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, di ottenere la desiderata indipendenza e, invece, si trovò in balia della Guerra Fredda. Per disaccordi fra gli alleati, si riprodusse il dramma della Germania. 280 chilometri di zona smilitarizzata sul 38° parallelo che attraversa e taglia tutta la penisola: la parte nord sotto l’influenza di russi e cinesi e la parte sud sotto quella americana, con l’unico punto di comunicazione a P’anmunjom. Gli alleati – inclusi i russi – concordarono libere elezioni, ma quando venne il momento di portare i cittadini al voto incominciarono i contrasti. Gli americani denunciarono il boicottaggio russo e del Nord nell’ammettere le commissioni per il controllo elettorale, mentre i russi accusarono gli americani di aver sciolto i comitati popolari e di discriminare i coreani comunisti. La controversia finì, secondo copione, con la cristallizzazione dello status quo. La Corea del Sud fece le sue elezioni nel maggio 1948 ed elesse un leader gradito agli americani: Syngman Rhee, che era vissuto negli Stati Uniti per molti anni e si era laureato a Princeton. Il Nord rispose con «elezioni» di tipo comunista e con la nomina a presidente di Kim Il Sung, un leader carismatico, addestrato nell’Unione Sovietica e distintosi nella lotta di guerriglia contro i giapponesi.
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Gravi errori di politica americana contribuirono a scatenare il conflitto coreano. In primis, come scrive MacArthur, «le decisioni furono prese da persone che capivano poco del Pacifico e niente della Corea». La dichiarazione quasi di disimpegno da parte del Segretario di Stato americano, Dean Acheson, «la Corea non è area strategica per gli Stati Uniti, la decisione di autorizzare solo armi leggere per il nuovo esercito del Sud – per evitare che un aggressivo Syngman Rhee tentasse un colpo di mano contro il Nord, mettendo gli Alleati di fronte a un fatto compiuto – e infine il timore di ripercussioni sino-sovietiche di fronte a una politica troppo attiva da parte americana contribuirono a creare le pre-condizioni per il confronto. Al contrario, il Nord sotto la guida militare russa e con gli aiuti cinesi si era già pesantemente riarmato con un esercito forte di 200 mila effettivi, equipaggiati con armi moderne russe. Lo scontro apparve inevitabile e, ancora oggi, le due Coree – che continuano ad accusarsi a vicenda dell’aggressione – ne pagano il durissimo prezzo. L’unificazione fra le due Coree appare molto difficile. I giapponesi, anche se si pronunciano a favore della riunificazione, non hanno alcun interesse affinché essa avvenga. Ai russi e ai cinesi fa comodo una Corea divisa. Gli americani, per ora, sono allineati con la Corea del Sud ma, forse, per il momento non mirano alla riunificazione. Infatti, questa potrebbe avere conseguenze destabilizzanti sia per l’economia – considerato il divario economico fra Nord e Sud – sia per la
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nuova situazione geostrategica che verrebbe a crearsi con una Corea unificata forte di oltre 70 milioni di abitanti. Attualmente, la Cina sembra l’unico fra i paesi vicini che abbia un certo controllo su Kim Yong Il, figlio ed erede del «monarca rosso», avendo sempre aiutato il paese militarmente ed economicamente. È difficile, in questa situazione, fare previsioni su quando vedremo l’unificazione della Corea. Intanto il dramma della divisione continua. La ripresa e la ricostruzione Alla fine del 1953, l’agricoltura rappresentava il 90 per cento del Pil. Il Sud era privo di fonti energetiche e di materie prime e, a differenza del Nord (che era stato largamente industrializzato dal Giappone), aveva scarso potenziale industriale. La miseria regnava sovrana. Il reddito pro capite era di poco superiore ai 100 dollari mentre il debito pubblico sprofondava nel rosso. Si può dire che l’economia si reggeva sui generosi aiuti americani la cui presenza militare era pure un business per i locali. Non appena, però, gli aiuti degli Stati Uniti diminuirono, la situazione economica incominciò a precipitare. La disoccupazione aumentò sensibilmente e l’instabilità sociale fu inevitabile. L’aggravarsi dell’economia ebbe ricadute anche sulla politica e sulla società in quanto tale. Proteste e boicottaggi condussero a rivolte ricorrenti: quella degli studenti nell’aprile 1960 fu determinante. Syngman Rhee, che nel
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1955 aveva fatto emendare la Costituzione per assicurarsi la continuità del potere, già ottantaquattrenne dovette lasciare il posto a un nuovo governo, sempre da lui controllato che però non durò a lungo. Il 16 maggio 1961, con un colpo di stato militare il generale Park Chung Hee assunse la guida del paese e, istituendo un regime presidenziale che, sempre più militarizzato, suscitò un clima crescente di malcontento popolare. Nell’ottobre del 1979 fu assassinato dai servizi segreti e sostituito dal primo ministro Choi Kyu-han. La mano dura della dittatura di Park non sarà ricordata benevolmente dal punto di vista politico e sociale, ma bisogna ammettere che la «mano visibile» del suo Governo ebbe molti meriti nell’industrializzazione e più in generale nello sviluppo della Corea del Sud, che in 20 anni è passata dal sottosviluppo al livello di paese industrializzato. Due gli obbiettivi della sua politica economica e sociale: la modernizzazione dell’economia e l’alleviamento della povertà4. La sua «dittatura» è giudicata da alcuni studiosi come quella di maggior successo della seconda metà del XX secolo dal punto di vista strettamente economico: basti pensare che il risultato della sua politica economica fu un tasso di crescita che neanche il miracolo economico giapponese aveva fatto registrare: il Pil crebbe, tra il 1962 e il 1973, con una media dell’8,7 per cento all’anno. Dal 1962 l’economia fu pianificata centralmente e strutturata su programmi quinquennali con aggressivi target
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economici e politiche economiche ben definite. La creazione (sul modello del MITI giapponese) dell’EPA – agenzia per la pianificazione economica – permise di selezionare le priorità e di allocare le finanze necessarie per lo sviluppo dei progetti. Grazie al controllo delle banche statali, l’EPA e il Governo poterono così – come aveva fatto il Giappone nel dopoguerra – indirizzare i fondi necessari alle aziende che rientravano nei piani di sviluppo. A ondate successive, quindi, fu possibile sviluppare coerentemente i settori industriali previsti nei piani quinquennali. Nelle intenzioni di Park e del suo gruppo dirigente c’era l’ossessione del Giappone: il vicino di casa, con una cultura molto simile, stava già navigando a vele spiegate nel suo «miracolo economico», conquistando i mercati mondiali. Il perno del modello giapponese erano i grandi gruppi industriali, i keiretsu orizzontali e verticali che ricordavano molto da vicino gli antichi zaibatsu smantellati dall’occupazione americana. Non c’era più una holding di controllo con una serie di consociate, ma una ragnatela di partecipazioni azionarie incrociate che creavano un club di amici «stretti». Questi keiretsu giapponesi postbellici, come abbiamo visto, sono dei gruppi che si raccolgono intorno a un nucleo che generalmente è una grande banca: Mitsubishi, Mitsui, Sumitomo… In genere, si tratta di gruppi ben diversificati: una banca, un costruttore navale, una fabbrica di automobili, la grande distribuzione, l’elettronica di consumo ecc. E non manca mai, nella confraternita, una «trading company»
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dai tentacoli universali che aiuta le industrie del suo gruppo, e non solo, su scala mondiale grazie alla poderosa presenza in tutti i mercati. Le funzioni di queste shosha sono molteplici: aiuto all’esportazione/importazione, finanziamenti, sviluppo nuovi mercati, partnership di maggioranza o minoranza in progetti. La capacità di finanziarsi delle trading company, essendo praticamente illimitata, garantisce le imprese del gruppo in tutto il mondo. Park, proprio facendo riferimento ai gruppi giapponesi, inventò di fatto un modello simile per conseguire gli stessi scopi: il modello di chaebol, grandi gruppi industriali. Ma non era facile metterli in piedi, anche perché questi gruppi dovevano avere la capacità di rivaleggiare su scala mondiale come quelli giapponesi. Mentre per la Corea il Confucianesimo è stato per secoli la sola dottrina di riferimento giacché il Buddhismo invece è stato emarginato e discriminato – lo si nota anche dalla scarsità di templi buddhisti sia a Sud sia a Nord della penisola –, per il Giappone è stato altrimenti. In Giappone, il Confucianesimo fu introdotto solo nel VII secolo con l’imperatore Kōtoku, ai tempi della riforma Taika (645) e dovette integrarsi con le preesistenti religioni, Scintoismo e Buddhismo. Quindi, mentre in Corea il Confucianesimo e i suoi valori vennero applicati nella loro integralità (parzialmente inglobando elementi sciamanici), più che nella stessa Cina, in Giappone le fonti di ispirazione sono state diverse. I riflessi sociali di questo processo storico sono stati molto importanti. La
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famiglia, il nucleo centrale del Confucianesimo, ha sperimentato in Corea regole molto rigide: tradizionalmente, per esempio, il nucleo familiare non è aperto all’esterno, la successione al padre avviene solo al momento della morte e non in vita, la successione patrilineare è uguale per i figli mentre le figlie sono escluse. Questa tradizione mal si prestava per Park come modello facile per creare grandi gruppi industriali, perché la morte del padre avrebbe significato la parcellizzazione della ricchezza a detrimento del potenziale di crescita e di investimento dell’azienda di famiglia. I giapponesi, da bravi «fusionisti», avevano adottato il concetto ma non l’applicazione delle regole del modello familiare. Lo avevano inteso, infatti, aperto all’esterno anche nei casi di assenza di maschi, mediante il diffuso istituto dell’adozione o il matrimonio di una figlia al miglior partito (mukoyōshi: uomo che assume il cognome della moglie) purché con le qualità per condurre l’azienda. Inoltre, il passaggio dei beni familiari al figlio maggiore poteva avvenire anche mentre il padre era ancora in vita. Il modello giapponese, così, si dimostra dinamico anche perché si costringeva gli altri eventuali figli «con pochi soldi in tasca» a cercar fortuna altrove. Il vincolo di sangue, quindi, nel modello confuciano giapponese, aveva un peso molto relativo: contava molto di più il concetto di famiglia allargata (e non rigidamente biologica). Lo scopo, in sostanza, era quello di mantenere intatto il patrimonio e, mediante introduzioni di forze nuove
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nell’impresa, con il tempo costruire gruppi privati poderosi. Infatti, la presenza diretta dello Stato in Giappone è sempre stata molto ridotta ed è ormai ridotta al lumicino. I gruppi industriali nipponici sono sempre stati in genere gruppi privati, anche se guidati dalla «mano visibile» della burocrazia. La burocrazia coreana, invece, pur rifacendosi alla tradizione cinese, si discostava non poco dalle consuetudini del grande vicino. Il processo di selezione dei funzionari statali nella storia è stato diverso fra Cina e Corea. La burocrazia cinese era veramente selezionata in modo straordinario, dal basso verso l’alto, sulla base del concetto «vinca il migliore». Quella coreana avveniva invece nell’ambito delle famiglie «yangban», suddivise nei due rami munkwa (civile) e mukwa (militare). Non c’era, quindi, spazio per forze fresche e per talenti che non appartenessero al ceto yangban. Sia in Cina sia in Corea comunque la burocrazia era una classe con un alto prestigio sociale, al di sopra dei contadini che confucianamente (come sappiamo) erano considerati produttori per eccellenza. In Giappone, invece, i grandi imprenditori del periodo Meiji, che crearono le premesse di un grande stato moderno, erano persone appartenenti alla classe dei samurai per lo più di basso rango, addestrati nelle armi e ben ferrati per quanto riguarda la cultura nonché l’amministrazione dei feudi (han). Per esempio, Iwasaki Yataro, il mitico fondatore del Gruppo
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Mitsubishi, proveniva appunto da una famiglia di samurai di secondo rango. La principale differenza tra il capitalismo giapponese e quello coreano, come si è già detto, è costituita dal carattere «comunitaristico» del primo (esemplificato dalla kaisha e più specificamente dal keiretsu) e dal carattere «patrimonialistico» del secondo (esemplificato dal chaedbol)5. Come sottolineato da Francis Fukuyama, mentre nei chaebol, centrato sulla «famiglia del fondatore», la «fiducia» (trust) nella struttura sociale è riservata strettamente ai membri di sangue della famiglia e l’obiettivo è preservare intatto anzi accrescere il «patrimonio», in Giappone invece è essenzialmente riservata al «gruppo di appartenenza» (l’impresa, il keiretsu), inteso come microcosmo di cui la famiglia biologica del dipendente è una cellula. La famiglia-business, con successione patrilineare e strettamente basata sui legami di sangue, come del resto mostra anche la tradizione italiana, non sempre riesce a mantenere intatte le risorse economiche. Alla morte del patron incominciano separazioni e litigi che si risolvono spesso in un indebolimento e in una suddivisione del patrimonio, impedendo quindi alle imprese di mantenere intatte le risorse per crescere. Si finisce, quindi, con l’avere un modello economico misto: lo Stato gestisce le grandi imprese e le famiglie gestiscono imprese medio-piccole che spesso implodono alla morte del patriarca. Va aggiunto che lo sviluppo dei mercati
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finanziari e la crescita dei Private Equities hanno contribuito negli ultimi anni a mitigare il problema. In Corea, nella fattispecie, sarebbe stato forse impossibile costituire dei chaebol senza usare il pugno di ferro; comunque sia, la dittatura di Park – nella logica «sviluppista» – creò i chaebol, appartenenti a una famiglia e finanziandoli – le banche erano statali e quindi manovrabili – con un mandato ben preciso su dove e come dovevano investire. Con la mano molto visibile e pesante dello Stato (invece dei metodi più persuasivi del MITI giapponese), il rischioso esperimento tentato da Park funzionò: anche grazie alla scelta di uomini capaci, i capi dinastia: oggi nella Corea del Sud operano gruppi che si collocano a livello mondiale. Chung Ju Yung per la Hyundai, Kim Woon Chun per la Daewoo, Lee Byung Chull per la Samsung – per citare i più famosi – furono scelti per le loro capacità personali, i quali a loro volta formarono il gruppo dirigente dell’azienda strettamente nell’ambito familiare. Poterono contare sull’appoggio incondizionato dello Stato e delle banche a patto che seguissero le regole del mandato ricevuto: investire nei settori giusti, dare le priorità appropriate, impegno massimo nelle esportazioni. Il raggiungimento dei target in termini di export, necessari per comprare materie prime e know-how industriale, significava premi statali e nuovi finanziamenti dello Stato. Obiettivo finale: creare sviluppo.
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Per realizzare il modello chaebol si dovevano superare alcuni punti di debolezza che non aveva il Giappone: in primis, un’assoluta dipendenza dallo Stato e secondariamente l’assenza di controllo delle banche, che invece è stata ed è la vera forza dell’industria giapponese. Un altro punto di debolezza era e resta la struttura verticale coreana nel mondo delle imprese. Il punto di forza delle industrie giapponesi è il controllo degli shitauke – i subcontrattisti – che sono una valvola di sicurezza per abbattere i costi del prodotto. Questi presentano una minore sindacalizzazione, un maggior controllo della qualità dei prodotti e delle lavorazioni, minori costi sociali, molta flessibilità e possibilità di diversificare i costi nel fornire parecchie imprese. In quest’ottica, qualcuno ha definito il modello giapponese come un’azienda feudale, con feudatari, vassalli e valvassori molto efficienti e flessibili. L’integrazione verticale nipponica è come il modello di cottage industry dell’industria tessile italiana, un plus eccezionale e unico. Il modello industriale giapponese, tuttavia, pur costituendo un buon riferimento non poteva essere adottato in toto e i problemi industriali coreani sono tuttora molto evidenti: scarso controllo della filiera verticale, stile di management molto autoritario che ha creato, con la democratizzazione del paese, aspri confronti fra imprese e lavoro. Ben diverso è il modello giapponese, basato su consenso e ricerca dell’armonia. Lo stile di management coreano appare molto più legato
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a valori ascrittivi mentre, nonostante tutto, quello giapponese resta più aperto alla meritocrazia e quindi a valori acquisitivi. Tuttavia, la capacità di lavoro coreana, la sua dinamicità e i risultati raggiunti consentono al paese di guardare con ottimismo al futuro. La pianificazione industriale Come abbiamo accennato, con i piani quinquennali il Governo aveva avviato negli anni Sessanta un programma di industrializzazione, supportato da incentivi statali, stimoli fiscali, controllo del won (la divisa coreana) per evitare rafforzamenti pericolosi, prestiti statali a interessi ridotti, incentivi a investire ed esportare basati sull’assunto che «la Corea è un paese troppo piccolo per poter vivere solo di mercato interno». Sempre negli anni Sessanta le priorità furono focalizzate sull’industria leggera: alimentari, tessile, calzature (seconda fase della metafora del «volo delle anatre selvatiche»). È solo verso la fine degli anni Sessanta che incomincia l’attacco all’industria pesante, allorché il Giappone punta su settori a maggior valore aggiunto. Alcuni grandi progetti, come il complesso petrochimico di Ulsan e le acciaierie di Pohang, furono messi in cantiere in quegli anni. Nel 1973 venne varata una nuova politica industriale con l’obbiettivo di raggiungere il 50 per cento di export da tali industrie per il 1980. Petrolchimica, acciaio, metalli non
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ferrosi, macchine elettriche ed elettroniche, automotive (auto, camion, mezzi militari) furono designati come «industrie importanti» che dovevano ricevere dal sistema paese la priorità assoluta. Alla fine degli anni Sessanta il Pil pro capite risultò decuplicato rispetto al decennio precedente. Gli obiettivi erano stati raggiunti, ma intanto erano emersi i primi problemi strutturali del paese: scarsa integrazione verticale, PMI deboli, eccessiva dipendenza dalle importazioni per parti ad alto valore aggiunto, troppa esposizione all’import di tecnologia. Innegabilmente, però, la Corea in soli vent’anni si era trasformata da paese agricolo a potenza industriale i cui prodotti erano in grado di competere sui mercati mondiali per qualità e con brand conosciuti e rispettati. La bilancia commerciale permaneva negativa e gradualmente si acquistava consapevolezza che l’industrializzazione «non è tutto». Il sociale era carente e la contestazione pubblica aumentava. Era tempo per un cambio di passo: la dittatura – anche se aveva raggiunto obiettivi importanti – era ormai intollerabile. Il paese sentiva il bisogno di un clima più aperto e democratico. Nell’ottobre 1979, come s’è detto, il presidente Park fu assassinato. Gli succedette un altro generale, Chon Doo Whan che dopo qualche anno fu rimpiazzato ancora da un militare, l’ultimo della serie, Roh Tae Woo, meno autoritario rispetto ai suoi predecessori. Condannato per corruzione, egli passerà un lungo periodo in un tempio buddista a espiare le sue colpe.
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All’inizio degli anni Ottanta, il Governo aveva dato inizio a una politica che poneva maggiore enfasi sullo sviluppo sostenibile e sul sociale. Ci si proponeva di incominciare a separare il ruolo dello Stato dal compito delle imprese. Si voleva introdurre più concorrenza: «meno Stato e più mercato». L’obbiettivo in parte fu centrato e la Corea del Sud divenne a tutti gli effetti un paese sviluppato ma con numerosi riconoscimenti internazionali. La rivalutazione del won, tuttavia, e la concorrenza delle merci low cost prodotte dagli altri paesi asiatici furono e sono una spina nel fianco per la Corea. L’inflazione nei primi anni Ottanta era salita fino a un picco del 28,8 per cento, ma successivamente era rientrata con il costo del petrolio e la discesa dei tassi d’interesse che avevano contribuito ad attenuare i problemi. Fu necessario rivolgersi sempre più verso produzioni a maggiore valore aggiunto, differenziare le merci e qualificare di più i prodotti finali. Anche la formazione di una classe media e una maggiore diffusione del benessere contribuirono nel complesso a un maggiore sviluppo della domanda interna. Grazie alla straordinaria crescita economica, anche se ottenuta a un prezzo sociale elevato e con una politica fortemente repressiva nei confronti di rivolte e movimenti di protesta (segnatamente studenteschi), si rafforzano le richieste di riforme democratiche. Di fronte alle opposizioni divise, Roh vinse le elezioni presidenziali del 1987, svoltesi inusitatamente senza brogli. Le Olimpiadi di Seul del 1988
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migliorarono notevolmente l’immagine internazionale della Corea del Sud, che sul finire del decennio si avvicinò alla Russia e alla Cina, stabilendo relazioni diplomatiche rispettivamente nel 1990 e nel 1992. Nel 1991, le due Coree, ammesse entrambe all’ONU, firmarono un patto di non aggressione e di riconciliazione. Nel 1993 scocca l’ora della democrazia con l’elezione – le prime realmente libere e con candidati civili – di Kim Young Sam, del partito di governo ma di formazione «riformista». La Repubblica di Corea riesce a entrare nel 1996 nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e supera con successo la pesante crisi asiatica del 1997, uscendone rafforzata economicamente. Il made in Korea viene accolto sempre più favorevolmente nel mondo, ma i successi nel comparto interno e sul piano internazionale non nascondono però, alla soglia degli anni Duemila, che ci sono ancora molti problemi sul tappeto: • perdurante preminenza dei chaebol; • insufficienza di capitale e, quindi, troppa dipendenza delle imprese dal debito verso le banche; • accentuata dipendenza dallo Stato; • eccessiva diversificazione di prodotti quando una maggiore concentrazione sarebbe più profittevole; • scarsa trasparenza nella governance delle aziende.
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La Repubblica di Corea oggi I risultati raggiunti dal Paese in solo mezzo secolo sono straordinari. La Corea del Sud ha conquistato la 13a posizione nell’economia mondiale, ha visto formarsi una vivace classe media, ha creato un’industria competitiva sebbene stretta nella morsa Giappone-Cina, grazie alla concorrenza sia per la qualità sia per i prezzi. Il carattere emulativo dei coreani e la loro capacità di realizzazione, oltre alla cultura positiva nei confronti del lavoro, consentono loro di guardare al futuro con serenità. Le battaglie da affrontare e da vincere sono ancora molte. Esiste un’eccessiva speculazione edilizia ed elevato risulta il livello raggiunto nel comparto immobiliare; c’è una mancanza di posti di lavoro qualificati per i giovani e il problema è tanto più serio in quanto il paese ha una scolarità e una scuola di prima categoria; gli sprechi nel settore pubblico sono ancora troppi, soprattutto nei progetti statali e si sente il bisogno di privatizzare ulteriormente. Nelle relazioni di lavoro si osserva una forte conflittualità tra le aziende e i dipendenti: questo sta a indicare che se da un lato i coreani non hanno appreso la lezione nipponica in merito alle relazioni industriali, dall’altro la democrazia ha messo le radici. Sussiste un sottosviluppo del mercato finanziario e in generale una mancanza di trasparenza nelle regole. Il nuovo primo ministro Lee Myung Bak, eletto nel dicembre 2007, è un ex dirigente della Hyundai e ha lanciato
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la «Strategia 7-4-7». Non si tratta di uno schema calcistico, ma è lo slogan di un ambizioso progetto che si propone di raggiungere i seguenti obbiettivi: aumento del Pil del 7 per cento per 10 anni; reddito pro capite di 40 mila dollari per il 2017; Corea come 7° maggior paese industriale al mondo. Ciò comporta il potenziamento della capacità di produrre tecnologia e di innovare. Il corollario del programma è una serie di obiettivi di supporto: cercare di essere leader in tecnologia; essere il leader in robotica per il 2025; diventare il secondo paese produttore nella telefonia mobile; divenire, dopo la Intel, il secondo produttore di semiconduttori del mondo; rimanere leader nella cantieristica. Il progetto del primo ministro, purtroppo, è cominciato male. Le Beef Riots, le proteste contro l’aumento delle importazioni di carni americane, hanno suscitato molto clamore. Inoltre, a causa della crisi dei subprime e della recessione mondiale, anche l’industria coreana ha subito un danno notevolissimo. L’ultimo trimestre del 2008 ha segnato un Pil negativo del 5,6 per cento, mentre l’indice di Borsa Kospi si è ridotto alla metà. Il won si è indebolito del 28 per cento e c’è stata una caduta a vite delle esportazioni. La Corea paga lo stesso prezzo di tutti i paesi dell’Estremo Oriente che, per reagire alla crisi del 1997, hanno puntato molto di più sull’esportazione. La spinta a esportare di più si è dimostrata in controtendenza con l’improvvisa contrazione dei beni di consumo a livello mondiale e segnatamente nei mercati dove
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il made in Korea era più esposto: Stati Uniti ed Europa. Il pacchetto di stimolo, pari a oltre 10 miliardi di dollari approvato dal Governo, ha attutito il fenomeno, ma certamente la crisi ha messo in luce ancora di più le debolezze intrinseche dell’economia coreana, che dipende ancora troppo dalla strategia EOI. Altri punti di debolezza, che contribuiscono non poco alle sofferenze attuali della Corea del Sud, sono le attività di ricerca, insufficienti per poter competere ad armi pari con Giappone, Stati Uniti ed Europa. Inoltre la Corea si trova in trappola, dovendo competere con la qualità più alta dei prodotti giapponesi e i costi più bassi dei prodotti cinesi. La nota positiva è che nessuno ha saputo fare nel dopoguerra quello che ha fatto la Corea. Visitando il quartier generale della Samsung a Seoul, bisogna ammettere che, ritornando indietro di 40 anni, nessuno avrebbe potuto sognare tanto per il «Paese della Calma del Mattino». Rimangono, come abbiamo notato, aperti molti problemi di cui alcuni gravi di politica estera. Innanzitutto, c’è il problema della Corea del Nord, che astutamente gioca con strategie ad altissimo rischio (brinkmansship), usando il ricatto nucleare, e la non chiara possibile successione del «caro leader» Kim Yong Il. Il peso degli interessi contrastanti di Cina, Russia e Giappone sul futuro della Penisola e il posizionamento difficile fra Giappone e Cina delle sue industrie sono altre gravi preoccupazioni. La grinta e la capacità di lavoro dei coreani,
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tuttavia, quello che hanno saputo raggiungere nello spazio di un mattino e lo stock industriale posseduto fanno sperare bene per il futuro. Se lo merita un paese che ancora paga i costi della Guerra Fredda voluta da altri. Note 1. Douglas MacArthur, «Reminiscensis», McGraw-Hill Book Company, New York, 1964. 2. Sulla storia della Corea, vedi Maurizio Riotto, Storia della Corea, Bompiani, Milano, 2005 Rabellotti Roberta, Hirsch Giovanna, Molini Vasco, L’economia della Corea del Sud. Dal sottosviluppo al club dei «ricchi», Carocci, Roma, 2008. Lynn Hyung Gu, Ordine bipolare. Le due Coree dal 1989, EDT, Torino, 2009; Y.M. Kihl, Transformation Korean Politics: Democracy, Regform and Culture, M.E. Sharpe, Armonk (NY), 2004; K. Postel-Vinay, Corée, au coeur de la nouvelle Asie, Flammarion, Paris, 2002; G. Henderson, Korea, the Politics of the Vortex, Harvard University Press, Cambridge, 1968; Ivan Tselichtchev, Philippe Debroux, Asia’s Turning Point: An Introduction to Asia’s Dynamic Economies at the Dawn of the New Century, Wiley & Sons, Hoboken, 2009; Paik Sun Yup, From Pusan To Panmunjom: Wartime Memoirs Of The Republic Of Korea’s First Four-star General, Brassey’s Inc, Dulles, 1992; Max Hastings, La guerra di Corea, Rizzoli, Milano, 1990; Gregory Henderson, Korea, the Politics of the Vortex, Harvard University Press, Cambridge, 1968. 3. Uno dei coautori di questo saggio ha passato nel 1989 un periodo nella Repubblica Popolare del Nord Corea, la patria del «monarca rosso» Kim Il Sung. Nel programma sottomesso alle autorità in anticipo, aveva chiesto – inter alia – di vedere uno spettacolo teatrale. Con grande sorpresa, l’opera, come era prevedibile scritta e musicata dallo stesso Kim Il Sung, si chiamava «La fioraia» e, contrariamente alle previsioni, non aveva di mira il nemico americano. Nonostante fossero passati 45 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e dell’occupazione giapponese, il solo e unico bersaglio, gli unici nemici erano i giapponesi. 4. Ivan Tselichtchev, Philippe Debroux, Asia’s Turning Point: An Introduction to Asia’s Dynamic Economies at the Dawn of the New Century, Wiley & Sons, Hoboken, 2009. 5. Sull’argomento vedi F. Fukuyama, Trust: The Social Virtues and the Creation of Prosperity, Free Press, New York, 1995; F. Mazzei, «Geoeconomia e geocultura dell’Asia orientale», Politica Internazionale, IPALMO, nn. 3-4, maggio-agosto 1998.
11. Un’isola sviluppista
REPUBBLICA DI CINA – TAIWAN
La storia recente Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con la resa del Giappone, la Cina si trovò in preda alla guerra civile totale fra il governo del Partito Nazionalista, il Kuomintang (KMT) guidato da Chiang Kai-shek, e le forze comuniste ribelli guidate da Mao Zedong. Il 1° ottobre 1949 Mao Zedong proclamò la nascita della Repubblica Popolare Cinese (RPC), mentre Chiang Kai-shek, sconfitto, trasferì il suo governo a Taiwan, considerando la Cina continentale «provvisoriamente occupata dai comunisti». Nell’isola, che fin dal 1895 era stata colonia giapponese, Chiang Kai-shek aveva portato con sé, oltre alle forze militari fedeli e molti civili, le riserve auree del paese e immensi tesori della Città proibita di Pechino e del Palazzo imperiale di Nanchino. Dal canto loro, i comunisti della RPC si proclamarono i successori della Repubblica di Cina su tutto il paese, bollando Taiwan come una «repubblica ribelle». Tuttavia, gli Stati Uniti e gli altri paesi
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occidentali considerarono legittimo il governo nazionalista che si era insediato a Taiwan, che pertanto mantenne il seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza riservato alla Cina1. Ebbe così inizio la separazione e il confronto fra le due Cine che, attraverso fasi alterne di riavvicinamento e ostilità, perdurano ancora oggi. Sia la Repubblica di Cina sia la Repubblica Popolare Cinese hanno continuato negli ultimi 60 anni a sostenere, specularmente, di essere l’unica autorità legittima dell’intera Cina, sulla base del cosiddetto principio della «one China». Tuttavia la comunità internazionale, con pochissime eccezioni, dopo la storica visita del presidente Nixon a Pechino del 1972 che modificò l’equilibrio di potenza del sistema internazionale, ha finito con lo scegliere la Cina continentale come legittimo rappresentante del popolo cinese. Attualmente la Repubblica di Cina (Taiwan) ha il riconoscimento di soli 23 paesi. Taiwan, o Formosa come la chiamarono i portoghesi quando vi si insediarono nel 1500, è un piccolo paese formato dall’isola principale che porta lo stesso nome, con capitale Taipei, e da una manciata di isolette che la circondano. Nel mar della Cina meridionale, a circa 200 km a sud-est della Cina, occupa circa 40 mila km quadrati di superficie e ha una popolazione di 22,7 milioni di abitanti. Non particolarmente significativo per territorio e demografia, questo paese vanta una solida e moderna economia che lo colloca al 24° posto a
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livello mondiale, con un reddito pro capite da paese industrializzato come l’Italia: circa 28 mila dollari. Come è stato possibile per un paese così piccolo, quasi privo di risorse, raggiungere simili risultati? E il tutto in un breve periodo, di fronte a problemi d’ogni specie, sotto l’incessante minaccia militare della Cina comunista e, attualmente, senza il riconoscimento ufficiale da parte della maggior parte degli altri paesi. La risposta è complessa, ma potrebbe essere così sintetizzata. Chiang Kai-shek, nella sua fuga a Taiwan, portò con sé dal continente risorse finanziarie e imprenditori di successo, coscienti che sarebbero stati epurati dal nuovo regime comunista se fossero rimasti in Cina. Inoltre i nuovi arrivati, i cinesi del continente, controllavano know-how industriale e conoscenze commerciali, godevano dell’appoggio americano sia militare sia economico e, di riflesso, del supporto giapponese. Il sostegno del Giappone è abbastanza difficile da comprendere. Chiang Kai-shek, infatti, quando era a capo del Governo nazionalista in Cina fu a lungo impegnato in una sanguinosa guerra contro l’invasore giapponese. Tutti ricordano, inoltre, i drammatici scontri fra i due eserciti, l’eccidio di Nanchino e le brutalità dei militari giapponesi. Chiang, infine, una volta a Taiwan aveva confiscato tutti i patrimoni giapponesi lasciati dopo il lungo periodo di colonizzazione. Due motivi favorirono il ritorno dei giapponesi come investitori e, in buona parte, come finanziatori (yen loans) del formidabile
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sviluppo industriale taiwanese. Anzitutto, nella memoria storica dei locali, la colonizzazione giapponese era stata positiva. I nipponici erano stati propositivi e di mano leggera. Non c’era stato uno scontro con i nativi come in Corea, ma i colonizzatori si erano bene integrati nel contesto locale. Taiwan, del resto, aveva un’altra storia e cultura rispetto alla penisola coreana. Il secondo motivo dipendeva naturalmente dalla richiesta degli Stati Uniti che offrivano la propria protezione militare sia al Giappone sia a Taiwan, sempre nell’ottica della strategia di contenimento del comunismo in Asia. Il maggior valore aggiunto, tuttavia, fu l’appoggio economico dell’America che era presente con le sue basi militari, con l’addestramento dell’esercito nazionale – piccolo ma armato fino ai denti con armi moderne – e con il finanziamento di progetti di sviluppo nel paese. Il lucrativo mercato americano, infine, era aperto, con molte facilitazioni, alle merci taiwanesi come pure era stata decisa una generosa assistenza agli studenti che dall’isola si recavano a studiare negli States. Questi ultimi, definiti in modo alquanto pittoresco sea turtles (tartarughe marine), una volta formati dalle migliori università del mondo nelle discipline scientifiche più aggiornate, contribuirono in modo sostanziale a far nascere industrie green field a Taiwan. Furono principalmente loro a modernizzare l’apparato industriale ed economico della Repubblica Popolare di Cina e a consentire alla nuova industria taiwanese di diventare competitiva a livello mondiale.
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Il modello di sviluppo economico, tuttavia non è una sorpresa, si basò sulle componenti culturali della tradizione confuciana che postula, nella maniera più ortodossa, il rispetto per le autorità, per il pater familias e che pone l’ordine e la disciplina ai primi posti nella scala dei valori. Una base culturale pronta ad accettare e convivere con le forti direttive dall’alto e le severe regole che anche la contingente situazione politico-militare del paese esigeva. Rispetto alla Corea del Sud e al Giappone, Taiwan partì nella sua industrializzazione forte di un settore statale molto ampio – dovuto alle aziende statali lasciate dai giapponesi – con tutte le banche nazionalizzate. Al contrario della Corea e del Giappone, però, la molla del suo sviluppo furono le medie imprese, anche qui dominate e guidate dalle «famiglie». Nel caso di Taiwan, la vera differenza nel modo di implementare le strategie di uno Stato sviluppista – con grande enfasi della mano visibile – non va ricercata nel grado di coinvolgimento nell’economia delle imprese statali, ma proprio nella direzione strategica da parte del governo. A riguardo Francis Fukuyama scrive che, mentre il KMT di Chiang Kai-shek non volle sviluppare grandi industrie che avrebbero un giorno potuto diventare avversari politici, il governo coreano di Park Chung Hee puntò a creare fin dall’inizio large national champions che potessero competere su scala globale. I pianificatori taiwanesi, invece, si ritennero soddisfatti nel creare le
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adeguate infrastrutture e le condizioni macroeconomiche per una rapida crescita del paese2. Lo sviluppo economico Agli inizi degli anni Cinquanta, Taiwan era principalmente un paese agricolo. Il reddito pro capite si aggirava intorno ai 130 dollari all’anno, inferiore a quello del Myanmar (Birmania). Nel periodo coloniale giapponese, Formosa era ricordata solo per la produzione dello zucchero. Con il nuovo governo, vennero immediatamente approvate le «Misure provvisorie del periodo della rivolta comunista», che sottolineavano lo stato di emergenza, la sospensione delle libertà democratiche e la messa al bando di qualsiasi opposizione politica. Fecero seguito una rapida nazionalizzazione delle istituzioni finanziarie e la confisca di tutte le ex imprese giapponesi (ferrovie, centrali elettriche, petrolio, acciaio e alluminio) che avevano lavorato per sostenere lo sforzo bellico del Sol Levante. In questo modo, metà della produzione industriale cadde nelle mani dello Stato. Importanti aiuti americani arrivarono durante il periodo 1950-53 e, anche a Taiwan come in Giappone, la produzione industriale fu stimolata dallo sforzo bellico americano durante la guerra di Corea (1950-53). Nel 1953, tuttavia, venne lanciato anche il primo piano quadriennale economico del paese, tipico di un’economia sviluppista molto accentrata. Seguirà nel 1954 un «trattato di mutua difesa»
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(con gli Stati Uniti) che metterà il paese al riparo da eventuali aggressioni della Cina Popolare. L’industria puntò a rimpiazzare la politica di «sostituzione delle importazioni» (ISI) con la più aggressiva «promozione delle esportazioni» (EOI), altro fattore essenziale del modello sviluppista e che a lungo termine avrebbe contribuito a fare di Taiwan un paese altamente industrializzato. La manovra fu accompagnata da una serie di misure di sostegno non dissimili da quelle seguite dai rivali economici nell’area: sottovalutazione del dollaro taiwanese per aumentare la competitività nell’esportare, tariffe alte per proteggersi dalle importazioni e dai concorrenti stranieri, sussidi speciali per l’importazione di materie prime che, una volta lavorate, sarebbero state riesportate. La creazione di «zone speciali», Export Processing Zone (EPZ) per importare in franchigia doganale, attrarre investimenti stranieri – segnatamente giapponesi – avere esenzioni fiscali per le società straniere che si insediavano a Taiwan, fu il corollario di una politica che puntò a fare di Taiwan un paese industriale che, pur senza materie prime, puntasse alla trasformazione delle importazioni per vendere prodotti finiti sui mercati esteri. Fu l’avvio di un processo di sviluppo virtuoso che consentirà all’economia di crescere per parecchi decenni a due cifre (più del 10 per cento all’anno) e di sviluppare, secondo necessità e logica, le industrie a ondate successive, da quelle leggere nella prima fase e successivamente alle pesanti
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compresa l’industria dell’elettronica, dei prodotti chimici, della plastica e dell’acciaio. Tale processo comportava l’acquisizione di tecnologie che pesavano sul saldo corrente della bilancia dei pagamenti, che combinato con il costo delle materie prime, consentirà al paese di pareggiare la bilancia commerciale solo a metà degli anni Settanta. Nel frattempo gli aiuti americani cominciarono a scemare fino a terminare del tutto nel 1965. A quel punto, però, Taiwan è in business e può volare con le sue ali. Alla fine degli anni Sessanta, incominciò a scarseggiare la mano d’opera: era giunto il momento di puntare su imprese industriali che fossero a minore intensità di mano d’opera e di fare un upgrade nella composizione dei prodotti esportati. Era necessario produrre molto più valore aggiunto e passare dalla dipendenza dal tessile, dalle lavorazioni del cuoio, dagli alimentari all’industria pesante. Nel 1974 una forte spinta venne data alle industrie dell’acciaio, alla cantieristica, alle raffinerie di petrolio e all’industria petrolchimica: il riferimento era l’agganciamento alla Corea del Sud. Come la Corea, Taiwan saliva lungo la scala tecnologica del «volo delle anatre selvatiche». La proclamazione nel 1978 a presidente della Repubblica di Cina di Chiang Chin-kuo, figlio di Chiang Kai-shek, favorì il lancio di dieci grandi progetti, con investimenti colossali: aeroporti, autostrade, impianti petroliferi, acciaierie e impianti per l’energia nucleare. Taiwan si stava modernizzando nelle
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infrastrutture ma, contemporaneamente, si preparava a sfide più importanti con un impegno formidabile nel settore delle tecnologie intensive. L’industria taiwanese diventerà così leader mondiale nella produzione di wafer, il pane per l’industria elettronica. Nella metà degli anni Ottanta, Taiwan poté finalmente dichiararsi fuori dal gruppo delle nazioni in via di sviluppo: come una delle «quattro tigri asiatiche», era entrata a pieno titolo nel novero delle nazioni industrializzate. A tempo debito, diede inizio al processo di liberalizzazione delle esportazioni e cominciò anche un allargamento delle maglie nella democratizzazione. L’opposizione ricevette il via libera per muovere i primi passi. Ciò diede spazio ai taiwanesi di origine locale: la riprova fu la nomina a presidente nel 1988 di Lee Teng-hui, il primo presidente di origine taiwanese (e non di etnia han). Fu un mutamento importante: il KMT aveva capito che era arrivata l’ora della riconciliazione nel paese. Avvenne anche un cambio di atteggiamento nei confronti della Cina Popolare con la quale, tuttavia, permane lo «stato di guerra», perché nessun accordo, armistizio o trattato di pace è mai stato stipulato tra le due parti. Nel 1989 si posero le basi per un altro grande balzo in avanti. Fu approvata, infatti, una lista che prevedeva 22 grandi imprese da privatizzare; 15 di queste verranno privatizzate fra il 1998 e il 2005. Diminuiva così il peso dello Stato nell’economia e aumentava quello delle industrie
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private che nel frattempo si erano sviluppate e ingrandite. Contrariamente ai chaebol coreani, come già detto, a Taiwan le imprese familiari di media dimensione hanno avuto un peso rilevante, principalmente nei comparti dell’industria leggera e dei servizi ma in modo molto focalizzato. Gli ultimi 10 anni La nuova leadership di Chen Shui-bian (2000-08) del partito di opposizione (Democratic Progressive Party) ha coinciso con la crisi finanziaria provocata dal pesante aumento dei «prestiti inesigibili» (Non Performance Loans) delle banche locali. Gli NPL erano saliti all’8 per cento dei prestiti. Le cure intensive della nuova amministrazione sortirono effetti positivi nei due anni successivi così da riportare il sistema finanziario sotto controllo. Intanto le industrie progredivano conquistando in alcuni comparti la leadership mondiale. Oggi, per esempio, le imprese di Taiwan non temono confronti nei notebook, nei router, nei cable modem, nei materiali di base per l’industria dei chip e quindi dell’elettronica e delle telecomunicazioni, nei Thin Film Transistor (TFT), nei computer (Acer), nell’industria dei cristalli liquidi. Taiwan domina nelle produzioni OEM (Original Equipment Manufacturing) – produzione per conto terzi – ma punta decisamente a svincolarsi dalla morsa di fare il sub-contrattista – anche se di qualità – per passare alla fase a maggior valore aggiunto dell’ODM (Original Design Manufacturing). L’obiettivo è
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aggiungere più valore ai prodotti, contribuire con la propria creatività, con l’attività di ingegnerizzazione, in modo da stare al passo con i più avanzati paesi industriali. Solo questa strategia può consentire alla Repubblica di Cina di poter arrivare a diffondere il valore dei suoi «brand» e affermarsi come colosso industriale. Il contributo e i risultati del governo del premier Chen sono stati quindi rilevanti dal punto di vista dell’economia: ingresso di Taiwan nel WTO, piano di sviluppo 2002-07 volto alla globalizzazione. È stato varato un piano per avere almeno 15 prodotti che siano best in the world. Inoltre si sta puntando su «nuove industrie tradizionali»: prodotti per la salute, cura del corpo, materiali high tech, prodotti chimici per l’optoelettronica. Nel 2006, poi, è stato varato il «Development vision 2015», un piano per la modernizzazione delle infrastrutture e delle attività sociali. Nonostante questi sviluppi positivi nell’economia, l’inizio del nuovo secolo ha segnato per la politica taiwanese un passo indietro rispetto al decennio precedente. La Presidenza di Chen ha assunto un atteggiamento dialettico nei confronti della Cina Popolare facendo intendere che Taiwan vuol proseguire sulla strada dell’indipendenza, il che significherebbe violare il principio della one China. Questo non può essere accettato dalla Cina Comunista, che è come sempre paziente nell’aspettare ma che è intransigente nel respingere l’ipotesi di una Taiwan non «integrata nella Cina». Pechino ha dato prova di acume e flessibilità nell’affrontare la restituzione di
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Hong Kong basata sul concetto di one country two flags. Ha accettato i patti con il Portogallo per Macao (anche se Macao è oggi ampiamente cinesizzata) ma non può consentire – anche per la sua macchina propagandistica interna che gioca sul nazionalismo per mantenere il suo autoritarismo – di accettare una Taiwan indipendente. Sarebbe una grossa perdita di faccia sia all’interno della Repubblica Popolare sia sul piano internazionale. Come è noto, la prima condizione per avere rapporti con Pechino è non riconoscere il governo di Taipei. Presente e futuro Il ritorno del KMT al potere nel 2008, con Ma Yingjeou, oltre a un fatto politico rilevante, sottintende anche un aspetto culturale molto interessante. I due vecchi nemici mortali – Cina Comunista e Partito Nazionalista Cinese –, figli della stessa cultura, sono più adatti al dialogo rispetto a chi non ha le stesse radici. Siamo nel mondo della logica ying e yang, nel mondo dove trionfa il pragmatismo e non esiste una netta separazione fra il bene e il male. Da questo punto di vista i rapporti fra i due paesi, con l’arrivo del nuovo premier, sono notevolmente migliorati. Sono aumentati in maniera esponenziale i voli diretti Taiwan-Cina; è allargata la franchigia per lo scambio di turisti; ora ancora una volta cresciuti gli investimenti «diretti» da Taiwan in Cina, per di più evitando la prassi seguita finora del transito per un canale di mediazione.
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Si nota l’adozione di un approccio più soft che può favorire un sempre maggiore riavvicinamento fra i due paesi evitando dimostrazioni egemoniche da una parte e pericolose prese di distanza dall’altra. La nuova via dovrebbe consentire a Taiwan e Cina di avviare ulteriori passi – per ora – verso un’«integrazione economica che non abbia possibilità di ritorno». Ottime le premesse, quindi, ma, come sappiamo, sono gli errori che contano nella storia. Ed essi sono sempre dietro l’angolo: anche in Asia. Intanto l’economia ha assorbito il colpo della crisi subprime che, sebbene abbia risparmiato la finanza, ha colpito duramente le esportazioni. Del resto è avvenuto lo stesso nella Corea del Sud, in Giappone e in tutto il Sud-est asiatico. Come i paesi appena citati, anche Taiwan dovrà imparare a ridurre la dipendenza dalle esportazioni, il che è un passo non facile per un piccolo paese senza risorse. Nel frattempo, tuttavia, Ma Ying-jeou ha varato il programma «633» che non è un nuovo modello di aereo ma un ambizioso piano che si propone di: • far crescere l’economia del 6 per cento all’anno fino al 2016; • ridurre la disoccupazione al 3 per cento, livello accettabile perché fisiologico; • raggiungere un Pil pro capite di 30 mila dollari USA per il 2016.
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Si intensificano, intanto, gli scambi con la Cina dove gli investimenti di imprenditori taiwanesi, sotto etichette diverse, sono elevatissimi: con la stessa cultura (e la stessa lingua) ci si capisce più facilmente. Tra l’altro si calcola che il 40-80 per cento della produzione elettronica di Taiwan provenga dalle «sue» fabbriche in Cina. Il profilo di Taiwan, in 60 anni, è cambiato radicalmente. Gli addetti all’agricoltura sono ora solo il 5 per cento della popolazione, il 27 per cento lavora nell’industria e il 67 per cento nei servizi3. Si tratta di una trasformazione enorme che la «mano visibile», e spesso molto pesante, ha contribuito a realizzare con un sapiente uso della «mano invisibile». Certamente gli scogli politici di Taiwan rimangono rilevanti. L’espressione riferita a questo paese, «una pulce protetta dallo scudo americano» rimarrà vera fino a quando questa protezione sarà disponibile o necessaria. Molto dipenderà dalla politica estera americana che potrebbe essere soggetta a radicali cambiamenti nel Pacifico con l’eventuale unificazione della Corea, con il «ritorno in Asia» del Giappone, con l’inedito spostamento del perno della geoeconomia da Occidente a Oriente. La soluzione ultima, però, toccherà soprattutto alla sapienza del Continente e della sua Isola e se riusciranno a riavvicinarsi in modo confucianamente «armonico».
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Note 1. Sullo sviluppo economico di Taiwan, vedi Y. Dolly Hwang, The Rise of a New World Economic Power: Postwar Taiwan, Greenwood Press, Westport, 1991; P.C.Y. Chow (a cura di), Taiwan in the Global Economy: From an Agrarian Economy to an Exporter of High-Tech Products, Praeger, Westport, 2002. 2. F. Fukuyama, Trust – The social virtues and the creation of prosperity, A «Free Press Paperbacks Book» by Simon and Schuster, N.Y., 1995. 3. Peter C.Y. Chow (Ed.), Taiwan in the Global Economy: From an Agrarian Economy to an Exporter of High-Tech Products, Praeger, Westport, 2002.
LA RIVINCITA DELLA MANO VISIBILE
Il profondo mutamento di questi ultimi anni nella concezione del capitalismo è certamente dovuto al ripetersi di recessioni e crisi, l’ultima delle quali, a partire dal 2007, andrebbe collocata in una fase cruciale di transizione di un processo pendolare che, in meno di cent’anni, ha visto per ben tre volte capovolto il rapporto tra “mano invisibile” del Mercato e “mano visibile” dello Stato. La tesi degli autori è che l’ultima è una crisi sistemica, che si inquadra, tra l’altro, in una fase di trasformazione epocale del sistema internazionale, con la fine del predominio occidentale. Il perno dell’economia mondiale, infatti, si è da tempo spostato in Estremo Oriente, nell’Asia confuciana (Giappone, Cina e Corea in primis). Proprio da una lettura non convenzionale dell’evoluzione del rapporto tra Stato e Mercato in quest’area culturale e geoeconomica, con l’emergere e l’affermarsi di uno “Stato sviluppista”, si possono trarre elementi conoscitivi e spunti di riflessione sul mutamento del modello di sviluppo occidentale, uscendo dalle secche, in cui si è
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regolarmente caduti, nel passato e nel presente, di un rapporto meramente oppositivo tra Stato e Mercato.
Circa l’autore
FRANCO MAZZEI
uno dei maggiori estremo-orientalisti italiani ed esperto presso l’Ambasciata Italiana a Tokyo, è stato ripetutamente preside della Facoltà di Scienze Politiche all’Orientale di Napoli, ove insegna Storia dell’Estremo Oriente e World Politics. VITTORIO VOLPI
presidente della Società di consulenza finanziaria Parallels Consulting SA, è uno dei massimi esperti italiani del Giappone, dove ha vissuto e lavorato per trent’anni come responsabile di grandi banche internazionali e dove ha insegnato per dodici anni presso la Sophia University Business School di Tokyo.
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