La promessa delle sirene. Filosofia dell'opera lirica 9788885716858, 9788855290166

«Chi sa solo d'opera non sa niente d'opera». Questo aforisma - sotto il cui segno si svolgono gli Aperitivi Cu

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Italian Pages 172 [176] Year 2019

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La promessa delle sirene. Filosofia dell'opera lirica
 9788885716858, 9788855290166

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Andrea Panzavolta

La promessa delle sirene Filosofia dell’opera lirica

Passages

Collana diretta da: Umberto Curi e Carmelo Meazza

Passages | 11

Andrea Panzavolta La promessa delle sirene Filosofia dell’opera lirica Prefazione di Umberto Curi Postfazione di Cinzia Maroni

© 2019, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Passages ISSN: 2282-5282 n. 11 - giugno 2019 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-85716-85-8 ISBN – E-book: 978-88-5529-016-6 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Old music with antique gramophone © Arsel – stock.adobe.com

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Prefazione

Nel libro XII dell’Odissea, Omero racconta un episodio per molti aspetti enigmatico. Al termine di un prolungato soggiorno nell’isola di Eea, Ulisse riceve da Circe alcuni consigli per evitare le insidie che potrebbero impedirgli l’agognato ritorno ad Itaca. Il primo pericolo che egli si troverà a fronteggiare non sarà quello di una popolazione ostile o di qualche creatura mostruosa, bensì quello connesso con l’ascolto di un canto. Sulla rotta che conduce in patria, l’eroe acheo e i suoi compagni dovranno anzitutto giungere in prossimità delle sirene, «che incantano tutti gli uomini che passano loro vicino» (vv. 3940). Se vorrà sfuggire alla sorte toccata ad altri – testimoniata dall’abbondanza di «cumuli di ossa di uomini imputriditi, dalla carne disfatta» (vv. 45-46) –, Ulisse dovrà sigillare con la cera le orecchie dei suoi compagni, affinché nessuno di loro oda il canto delle sirene. Se vorrà, egli potrà invece ascoltare, ma solo se prima si sarà fatto legare con solide funi all’albero della nave, ingiungendo altresì alla ciurma di non slegarlo, qualunque sia l’ordine o l’invocazione che egli in seguito potrà pronunciare. La forza dell’ascolto. In questi termini si potrebbe compendiare uno fra i temi più significativi emergenti dall’episodio omerico. Che ai sensi – e in particolare al senso della vista –

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debba essere riconosciuto un potere particolare, è convinzione diffusa e consolidata nella cultura antica. Non solo lo sguardo non è inerme o inoffensivo, ma esso è investito di una forza che può essere perfino irresistibile, se la capacità di vedere sia accompagnata dall’invisibilità di colui che guarda. L’onniveggente invisibile – è questa l’immagine della divinità ricorrente anche in contesti diversi e lontani fra loro. Come è confermato dalla predisposizione di espedienti per disinnescarne la carica distruttiva, il canto delle sirene dimostra che non solo la vista, ma anche l’ascolto è dotato di una forza virtualmente illimitata. Se non vorrà arricchire con le proprie il «cumulo di ossa» giacenti presso le seducenti cantatrici, Ulisse dovrà far tesoro degli ammonimenti di Circe, scindendo l’udito dall’ascolto. Potrà infatti udire, e insieme non dovrà ascoltare, il canto delle sirene. È questo il secondo spunto desumibile dai versi omerici citati. Mentre l’udito, come ricezione di suoni o rumori, coincide con un’attitudine meramente passiva, l’ascolto implica lo svolgimento di un’attività, mediante la rielaborazione di ciò che le orecchie consentono di recepire. Non si tratta dunque, in questo secondo caso, di limitarsi a registrare un determinato contenuto. Ascoltare vuol dire andare al di là del dato meramente percettivo, costruendo contenuti in cui si riflette una dimensione attiva. D’altra parte, l’episodio delle sirene non è l’unica testimonianza relativa alla forza dell’ascolto. Fra le molte, almeno altrettanto significativa è la vicenda della catabasi di Orfeo agli Inferi, con l’obbiettivo di riportare alla luce la sposa Euridice, prematuramente scomparsa. Con nessun altro mezzo l’eroe descritto da Virgilio e da Ovidio riuscirà a ottenere la restituzione della sua donna, se non con la forza del canto. Davvero com-movente è la melodia che il tracio fa risuonare nelle tenebre dell’Ade, se è capace di indurre Proserpina e Plutone ad una grazia mai in

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precedenza concessa. Quel canto che, con le sirene, conduce dalla vita alla morte, con Orfeo riporta dalla morte alla vita. Dal riconoscimento della forza insita nell’ascolto scaturisce anche una circostanza per lo più ignorata o sottovalutata, e cioè il fatto che, in particolare nel mondo greco antico, l’ascolto coincide con una vera e propria áskesis, con un esercizio disciplinato, inclusivo quindi di alcune condizioni e regole ben definite. La prima fra queste è il silenzio. È noto che a tutti coloro che erano ammessi nelle comunità iniziatiche, come quella degli orfici o dei pitagorici, era imposta la regola di un certo periodo (per lo più, cinque anni), durante il quale era obbligatorio il rispetto del silenzio. Con una precisazione importante: al novizio non veniva proibito di parlare. La regola prevedeva piuttosto che egli anzitutto prestasse ascolto ai discorsi di coloro che appartenevano da tempo alla comunità, e solo in un secondo momento, e in certe circostanze, osasse prendere la parola. L’autore che meglio può far comprendere il significato della regola del silenzio è Plutarco, il quale individua nel rispetto di questo vincolo uno dei capisaldi della buona educazione. Interessante, e non solo divertente, è la motivazione da lui addotta: «Se è vero che chi gioca a palla impara contemporaneamente a lanciarla e a riceverla, nell’uso della parola, invece, il saperla accogliere bene precede il pronunciarla, allo stesso modo in cui concepimento e gravidanza vengono prima del parto» (cfr. Plutarco, L’arte di ascoltare, tr. it. di G. Pisani, in L’educazione, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, Pordenone 1994, pp. 157-179). Per quanto possa apparire coercitiva questa disposizione, è bene ricordare che l’apprendistato del silenzio ha svolto un ruolo decisivo per molti secoli nei sistemi formativi europei. Fino alla fine degli anni Trenta del secolo scorso, ad esempio, anche in Italia l’educazione del fanciullo cominciava fondamentalmente con la regola del silenzio, nella quale si indi-

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viduava la premessa imprescindibile per la definizione di un successivo percorso di formazione. Una conferma della sorprendente attualità e persistenza dell’impostazione di Plutarco è data dal fatto che essa scaturiva da una più generale considerazione relativa al rapporto fra la parola e il silenzio, ben lontana dal potersi considerare superata con l’avvento della modernità. Per l’autore greco, infatti, il principio del silenzio non dovrebbe valere solo per i fanciulli o gli iniziati. Al contrario, nel corso di tutta la nostra esistenza dovremmo far regnare su noi stessi una sorta di rigorosa economia della parola, memori di una circostanza abitualmente ignorata, e cioè che sono stati gli dèi a insegnarci il silenzio, mentre l’insegnamento della parola ci è venuto dagli uomini. Dunque, si dovrebbe tacere più che si può, non solo per l’ovvia – quanto dimenticata – esigenza di non sovrapporsi con le proprie parole a quelle di chi sta parlando, ma anche per un altro e più profondo motivo. Dopo aver ascoltato un discorso, una lezione, la lettura di un poema, o la pronuncia di una sentenza, sarebbe necessario avvolgere l’ascolto che si è appena realizzato con una corona di silenzio, allo scopo di trattenere e conservare le parole ascoltate. Viceversa, colui che si precipiti a parlare subito dopo (o addirittura contemporaneamente) l’aver ascoltato, deve essere considerato affetto da una grave menomazione anatomica, perché in lui evidentemente l’orecchio non comunica con l’anima, ma con la lingua. Oltre al silenzio, vi è poi una seconda e altrettanto importante regola. Ad essa si riferisce in particolare Michel Foucault nei corsi sulla cura di sé tenuti al Collège de France, pubblicati postumi e tradotti col titolo L’ermeneutica del soggetto (Feltrinelli, Milano 2016). Per l’efficacia dell’ascolto è infatti necessario assumere un atteggiamento fisico molto preciso, tale da escludere interferenze che possano deformare la ricezione delle parole. Assumendo una determinata postura, è altresì possibile esprimere un linguaggio del corpo che corrisponda

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alla disposizione dell’anima: così come questa dovrà essere protesa ad accogliere, allo stesso modo una determinata attitudine del corpo contribuirà ad evitare deformazioni nell’ascolto. Di qui il precetto dell’immobilità fisica durante l’ascolto, correlato alla massima concentrazione dell’anima. Per l’una e per l’altro, è massimamente da evitare ogni movimento scomposto, ogni perturbazione, indizio di una imperdonabile stultitia. È ancora Plutarco a descriverci, con grande incisività figurativa, le diverse forme con le quali può manifestarsi la scelta aberrante di sottrarsi all’ascolto o di interferire rispetto ad esso. Nella galleria, eternamente uguale, dei tipi umani che frequentano le sale delle conferenze, ecco allora i ritratti dell’esibizionista, il quale approfitta di ogni pretesto per portare il discorso sui temi da lui preferiti, del malizioso, il quale cerca di porre in difficoltà l’oratore con quesiti fuori luogo, dell’arrogante, teso a seguire con atteggiamento accigliato e serioso, ostentando un sovrano distacco, dell’invidioso, pronto a criticare tutto, sempre e comunque, dello sciocco, il quale nasconde dietro ampi sorrisi e cenni di approvazione la sua incapacità di comprendere ciò che viene detto, dell’adulatore, dell’ipocrita, e così via. A Foucault si deve anche l’indicazione di una terza condizione basilare per l’ascolto, vale a dire l’attenzione a distinguere in ciò che viene detto fra gli abbellimenti retorici e il “messaggio” che si vuole comunicare, o, per dirla in termini simili e più usuali, tra forma e sostanza. Così, per riprendere lo stesso esempio addotto dal pensatore francese, nella frase «tempus fugit irreparabilis», ci si può soffermare sui dettagli di carattere retorico o grammaticale, ovvero si può concentrare la propria attenzione sul “contenuto”, e in particolare sul modo in cui il tempo è concepito dal punto di vista filosofico. Oltre alla dimensione “tecnica” e a quella speculativa, vi è poi una dimensione propriamente etica dell’ascolto, abitualmente trascurata. Si può coglierla più agevolmente se ci si riferisce ad

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alcuni termini che appartengono alla “famiglia” di cui fa parte il termine ascolto, ma che meglio ne pongono in evidenza aspetti altrimenti impliciti o nascosti. In greco, come in latino, vi è infatti un verbo che si forma sulla base del verbo che indica l’ascolto, attraverso un prefisso rafforzativo, la cui presenza tuttavia ne modifica in maniera significativa il significato. Ypakoúein o ob-audire, specificano l’ascolto come obbedire. Colui che ob-audit non si limita a “prestare orecchio”, ma insieme accoglie la parola e ad essa si dispone a corrispondere obbedendo. Osservazioni analoghe si possono formulare anche a proposito del sostantivo “responsabilità”, alla cui radice ritroviamo il verbo latino respondere. Essere responsabili, insomma, significa propriamente aver ascoltato una voce, alla quale si decide appunto di rispondere. Ritroviamo tracce della connessione ascolto-obbedienza già negli scritti della medicina ippocratica, dove si afferma la necessità che il medico si rapporti al paziente attraverso l’esercizio dell’yp-akoúein, nel senso che il terapeuta non deve limitarsi ad “ascoltare” il paziente, ma a lui deve obbedire. Allo stesso modo, è la necessità di obbedire alle leggi della città, in quanto ci si è posti all’ascolto di ciò che esse impongono, ciò che obbliga Socrate nel dialogo intitolato Critone a rifiutare la possibilità di evadere dal carcere. Ciò significa che l’ascolto autentico, l’ascolto come istituzione e riconoscimento di una relazione, implica la disposizione a obbedire e a rispondere. Figure emblematiche di questa accezione peculiare dell’ascolto sono, fra le altre, Socrate e Antigone nel mondo greco, Abramo e Gesù nel mondo ebraico-cristiano. Si può concludere questa sommaria esplorazione ritornando all’episodio omerico delle sirene, dal quale avevamo preso le mosse, alla luce della rilettura che ne ha proposto Franz Kafka in uno dei suoi racconti più suggestivi, Il silenzio delle sirene. Secondo lo scrittore praghese, le sirene sono in possesso di uno

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strumento ancora più terribile del canto, e cioè il silenzio. Si può anzi immaginare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma nessuno certamente dal loro silenzio. In effetti, quando Ulisse arrivò, le potenti cantatrici non cantarono, o perché ritenevano che solo il silenzio potesse vincere quell’avversario, o perché alla vista della beatitudine nel volto di Odisseo, che non pensava ad altro che a cere e a catene, si dimenticarono proprio di cantare. Ulisse tuttavia – continua Kafka – non udì il loro silenzio, e credette che cantassero e di essere lui solo protetto dall’udirle. Se le sirene avessero coscienza, quella volta sarebbero state annientate. Ma sopravvissero, e solo Odisseo sfuggì a loro. A questo racconto, Kafka aggiunge anche un’appendice. Si dice che Ulisse fosse così astuto, che neppure la dea che decide il destino poteva penetrare nel suo intimo. Benché questo non si possa capire giovandosi del solo intelletto umano, forse Ulisse si è realmente accorto che le sirene tacevano. E ha, per così dire, solo opposto come scudo a loro e agli dèi la suddetta finzione. Queste considerazioni relative alla forza di cui è dotato l’ascolto – forza abitualmente trascurata o comunque scarsamente valorizzata – mi sono state suggerite dal libro di Andrea Panzavolta che qui presentiamo. Non solo per il riferimento all’episodio omerico delle sirene, che l’Autore ha posto alla base della sua Introduzione, ma più in generale perché nel loro insieme le pagine che seguono offrono una testimonianza estremamente limpida e convincente della possibilità di interpretare in chiave filosofica una forma di espressione non coincidente col lógos, e tuttavia non meno incisiva e perfino determinante. In altri suoi libri, incomprensibilmente passati sotto silenzio, a dispetto della loro intrinseca qualità e dell’originalità dell’approccio, Panzavolta ha già collaudato con successo la possibilità di far emergere il rilievo filosofico di quelli che i Greci chiamavano mýthoi, e che noi possiamo chiamare “racconti”,

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lavorando sulle opere cinematografiche. Il nucleo concettuale soggiacente a quell’impresa – irriducibile ai termini della mera e infeconda coniugazione di cinema e filosofia, e proiettato piuttosto a trattare gli autori cinematografici alla stregua di pensatori – ritorna anche a proposito delle opere musicali analizzate in questo libro. Con risultati che appaiono perfino sorprendenti, per la capacità di far emergere aspetti abitualmente ignorati dell’opera lirica, abusivamente considerata riserva di caccia esclusiva di musicologi e musicisti. Ritengo dunque che non sia azzardato affermare che le analisi qui di seguito sviluppate inaugurino un nuovo genere letterario, con la freschezza e la forza suggestiva che appartengono alle scorribande compiute in territori quasi inesplorati. Giovandosi infatti di una solida ed estesa cultura, non solamente musicale, e insieme di una non comune “sensibilità” filosofica, Panzavolta ci consegna alcuni veri e propri gioielli, che rinnovano e corroborano il desiderio di immergersi in alcuni grandi capolavori dell’arte di Orfeo. Non sappiamo – non potremo mai sapere – quale canzone cantassero le sirene, perché coloro che le hanno ascoltate non furono poi in grado di parlarne, o perché le sirene stesse, comprendendo l’insidia, preferirono tacere. Ma leggendo questo libro potremo cogliere meglio e in maniera più approfondita il fascino inuguagliabile che la musica è sempre in grado di suscitare. Umberto Curi Padova, gennaio 2019

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Introduzione

Questo libro raccoglie le letture su alcune celebri opere del repertorio lirico che ho tenuto agli Aperitivi Culturali, la propaggine filosofica dello Sferisterio Opera Festival di Macerata. Il riferimento alla filosofia, ripreso anche nel sottotitolo del volume, non suoni peregrino: se filosofare, infatti, significa tendere al lógos nel significato etimologico della parola, cioè mettere in relazione (légein) i distinti con il resto in una arcipelagica armonia, allora attività filosofica è anche l’ascolto di un’opera lirica, la quale eccede la sua stessa configurazione sonora in virtù dei testi plurimi che la tramano. La seconda parte del libro, che contiene tre interviste impossibili a celebri eroidi del melodramma e due divertissements mozartiani, risponde proprio all’esigenza di chiarire meglio, questa volta attraverso i mezzi espressivi propri della fabula, il processo di contaminazione tra idiomi diversi presente in ogni opera lirica. Non solo. La filosofia, dicevano gli antichi, nasce dal tháuma, da quella meraviglia non priva di inquietudine che l’uomo prova dinanzi all’enigma della bellezza. Ebbene, i saggi qui raccolti sono un tentativo di rendere ragione (lógon didónai) di quel tháuma da cui si è sopraffatti quando in un teatro d’opera Leonora e Manrico, Desdemona e Otello, Tosca e Cavaradossi,

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Mimì e Rodolfo, Pamina e Tamino e innumerevoli altre sirene iniziano a cantare: perché forse non vi è nulla di più meraviglioso, e quindi di più filosofico, del canto. Se così stanno le cose, mi è sembrato opportuno dedicare alcune pagine introduttive proprio al “tháuma originario”, se così è lecito dire, soggiacente a ogni canto, che si sostanzia, come cercherò di dire, in una promessa.

1. «Conoscendo più cose» Cosa promettono le sirene ai marinai che incrociano i loro fatali scogli? Perché il loro canto è così seducente da far dimenticare a «tutti gli uomini» persino i beni più grandi, quali «la sposa, i piccoli figli e la casa»1? Sono le sirene stesse a rivelarlo quando invitano Odisseo a fermare la nave per ascoltare il loro «canto di miele»: «Qui, presto, vieni […]. / Nessuno mai si allontana di qui […] / se prima non sente […] del labbro nostro la voce; / poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose [pleíona eidós]»2. Le sirene, dunque, promettono una maggiore conoscenza perché, confidano non senza malizia, esse sanno tutto «quello che 1  Omero, Odissea, tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi 1998, XII, vv. 39-41, p. 331. 2  Ivi, vv. 184-188, p. 339. Cfr. anche M.T. Cicerone, De finibus bonorum et malorum, V, 19, 49: «Sembra che le sirene trattenessero coloro che navigavano nei dintorni non con la malia delle loro voci né con l’inaudita novità del loro canto, ma perché sostenevano di conoscere molte cose [sed quia multa se scire profitebantur], sicché gli uomini per desiderio di sapere [discendi cupiditate] facevano naufragio contro i loro scogli. […] Omero comprese bene che il mito non poteva essere credibile, se un eroe come Odisseo si lasciava stregare da canzoncine nulladicenti. È la conoscenza ciò che le sirene promettono, cosa che non era strano fosse più amabile della patria per un uomo consumato dalla brama di sapere [sapientiae cupido]» (tr. mia).

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avviene sulla terra nutrice»3. Ma qual è il prezzo per acquistare tá pleíona? La morte. Gli uomini, infatti, sono a tal punto stregati da ciò che le sirene rivelano che si dimenticano di mangiare e di bere, e così muoiono: «pullula in giro la riva di scheletri / umani marcenti; / sull’ossa le carni si disfano»4. Per comprendere meglio lo stretto legame tra il canto delle sirene e la morte è necessario richiamare il mito narrato da Ovidio nel Libro V delle Metamorfosi5.

2. Le dotte sirene Un tempo le «dotte Sirene» (doctae Sirenes) – l’aggettivo, di solito attribuito alle Muse, riconosce a questi esseri mitologici lo statuto di poietaí – erano le compagne di gioco di Proserpina. Quando questa fu rapita da Plutone e condotta nell’Ade, le sirene si misero alla sua ricerca, levando lugubri lamenti. Dopo aver percorso invano tutta la terra, perché anche il mare sapesse della loro angoscia, chiesero agli dèi di potersi «soffermare sopra i flutti remigando con delle ali». Il desiderio fu esaudito e le sirene furono metamorfosate in uccelli. Tuttavia, «perché al famoso canto, fatto per ammaliare le orecchie, perché alla bocca, così dotata, non venisse a mancare la favella, rimasero [loro] volti di fanciulla e voce umana»6.

3  Omero, Odissea, cit., v. 191, p. 339. 4  Ivi, vv. 45-46, p. 331. 5  Cfr. Ovidio, Metamorfosi, tr. it. di P. Bernardini Marzolla, Einaudi, Torino 1994, V, vv. 552-563, pp. 201 s. 6  Nell’iconografia, oltre a quello ornitomorfo, le sirene presentano pure un aspetto ittiomorfo. Secondo una leggenda, infatti, disperate per non essere riuscite ad ammaliare Odisseo, le sirene, desiderose di darsi la morte, si precipitarono nelle acque del mare, dove però si trasformarono in pesci,

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Nella versione ovidiana, dunque, il canto delle sirene è in origine un lamento funebre, ma intonato con una tale dolcezza

conservando nella parte superiore del corpo la forma di giovane donna. È sotto questa morphé che la sirena Lighea, nell’eponimo racconto di G. Tomasi di Lampedusa, superba dimostrazione della perenne vitalità di questo mito, appare a Rosario La Ciurla, il protagonista (cfr. Lighea, in Il Gattopardo e i racconti, Feltrinelli, Milano 1969, pp. 359-394). Il nome della sirena richiama quel passo del Fedro (327a) dove Socrate invoca le «Muse Ligie» quali patrone non solo dell’arte della narrazione, ma anche della conoscenza. Ciò che della sirena Lighea lascia stupefatto La Ciurla, dopo il sorriso che «esprimeva soltanto se stesso, cioè una quasi bestiale gioia di esistere, una quasi divina letizia», e l’«odore magico di mare, di voluttà giovanissima», è proprio la voce, «un po’ gutturale, velata, risuonante di armonici innumerevoli; come sfondo alle parole in essa si avvertivano le risacche impigrite dei mari estivi, il fruscio delle ultime spume sulle spiagge, il passaggio dei venti sulle onde lunari. Il canto delle Sirene […] non esiste: la musica cui non si sfugge è quella sola della loro voce». Lighea, anche se parla in greco antico, è capita a stento da La Ciurla, che era già un promettente grecista. Eppure ad attirare la sirena erano stati proprio i «versi dei poeti e i nomi di quegli Dei dimenticati, ignorati dai più» che, declamati ad alta voce da La Ciurla durante le sue solitarie escursioni in barca, di nuovo sfioravano la superficie del mare come nei tempi antichi. Non sfugga, però, la profonda differenza: mentre La Ciurla pronuncia “versi”, Lighea vive Dichterlich, “poeticamente”: il suo parlare, infatti, possiede quella «immediatezza potente» che è possibile ritrovare soltanto «in pochi grandi poeti». I versi si distinguono dalla poesia. I primi sono la forma che assume il linguaggio quando, volendo elevarsi al di sopra della comunicazione immediata per ottenere effetti di invocazione, ornato o rievocazione, si serve del ritmo e della prosodia. La poesia, invece, non è una forma letteraria, ma la qualità di un qualsiasi atto intellettivo che si estrinsechi in una forma; è un’affermazione che, anche se infondata o addirittura falsa a un esame empirico, possiede tuttavia una inconcussa verità morale o psicologica. I grandi mýthoi della Grecia classica sono, in questo senso, poetici. Pertanto, può comprendere Lighea soltanto colui che, anche se ignora la lingua dell’antica Grecia, ha tuttavia colto il dáimon di questa immensa civiltà. Se non si possiede questo «istinto animalesco», a nulla serve la conoscenza degli aoristi di tutti i verbi irregolari o delle varianti alessandrine e bizantine dei testi. Eruditi in sommo grado, ma totalmente privi di spirito poetico sono i colleghi accademici di La Ciurla, i quali «non conoscono che le forme esteriori del greco, le sue stramberie e difformità. Lo spirito vivo di

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da risultare bello e quindi consolante (ritorneremo su questo passaggio di fondamentale importanza). Il mýthos delle sirene non è l’unico a porre in relazione il canto con la morte. Questo binomio risulta già evidente in quello che a tutti gli effetti è il racconto fondativo della mousiké téchne, e cioè l’Inno a Ermes. Appena partorito, il dio figlio di Zeus e di Maia mostra fin da subito un’incontenibile vivacità: insofferente della culla, dopo pochi giorni decide di uscire dalla grotta sul monte Cillene, dove è nato, e di esplorare il mondo. Proprio sulla soglia si imbatte in una tartaruga e un’idea balena nella sua mente screziata: «Tu indossi un guscio variegato, tartaruga che vivi sui monti; / ebbene, io ti prenderò e ti porterò a casa; in qualche modo mi sarai utile […]. / Tu certo sarai per me una difesa contro il sortilegio funesto, / da viva; e se poi tu morissi, allora sapresti cantare a meraviglia»7. Solleva così a due mani lo sventurato animale, rientra nella caverna e qui, dopo aver estratto con un coltello la polpa dal carapace, applica a quest’ultimo due bracci congiunti da una traversa, alla quale fissa poi sette corde, che subito si perita di pizzicare con il plettro. Il primo canto di Ermes è scherzoso ai limiti della spudoratezza: questi, infatti, senza mostrare alcuna inibizione, si sollazza a mettere in musica gli amori dei suoi genitori, potremmo quasi dire “la scena primaria”. Più interessante ai fini della nostra ricerca è il secondo canto intonato dal dio, che ha ad oggetto Mnemosyne – madre delle Muse, dea della memoria, vera e propria

questa lingua scioccamente chiamata “morta” non è stato loro rivelato. Nulla è stato loro rivelato, d’altronde. Povera gente, del resto: come potrebbero avvertirlo questo spirito se non hanno mai avuto occasione di sentirlo, il greco?». Da ultimo si segnala di M. Corti, Il canto delle sirene, Bompiani, Milano 1989, affascinante pastiche letterario che coglie le giunture segrete di quella grande storia di seduzione di cui le sirene sono paradigma. 7  Inno a Ermes, in F. Càssola (a cura di), Inni omerici, Fondazione Lorenzo Valla-Mondadori, Roma-Milano 1975, vv. 33-34, 37-38, p. 181 (corsivo mio).

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sorgente cosmica – e la nascita di tutti i Celesti. È una teogonia in sedicesimi quella esposta, cosa che conferma la conoscenza di tá pleíona trasmessa attraverso la musica8. Il fratello Apollo è a tal segno sedotto dal canto del Cillenio9 da richiedere per se stesso questa arte ermetica, di cui poi si servirà quale medium per rivelare i suoi sémata10. Tuttavia, quasi conservasse memoria della sua cruenta origine, la cetra può trasformarsi all’improvviso nell’arco con cui Apollo semina strage nell’accampamento troiano all’inizio dell’Iliade11. Altri mýthoi, però, incalzano. Pindaro ricorda che anche il suono del flauto (aulós) è stato inventato in seguito a un episodio di morte violenta. Nella XII Pitica, infatti, il poeta di Cinocefale racconta come Pallade Atena, dopo che il figlio Perseo ebbe decapitato le Gorgoni, componesse una melodia (mélos) «con

8  Ovviamente non è questa la sede per soffermarsi più a lungo su Ermes, figura a nostro parere ancora più importante della coppia Apollo-Dioniso per comprendere l’arte dell’Occidente. Per una sua approfondita analisi si rimanda ai due testi ormai classici di W. Otto (Ermete, in Gli dèi della Grecia, tr. it. di G. Federici Airoldi, Adelphi, Milano 2016, pp. 110-131) e di K. Kerényi (Hermes, la guida delle anime, in Miti e misteri, tr. it. di A. Brelich, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 50-114). 9  Cfr. Inno a Ermes, cit, vv. 439-449, p. 215: «Ma ora, suvvia, rispondimi, figlio di Maia, dalle molte risorse: / quest’arte miracolosa [thaumatá érga] ti ha accompagnato fin dalla nascita, / oppure uno degl’immortali, o degli uomini mortali, / ti ha fatto questo dono stupendo [dorón agauón], e ti ha insegnato il canto divino? / Meravigliosa è la nuova voce che odo, / e io affermo che mai alcuno degli uomini ne è venuto a conoscenza / né alcuno degli dei che abitano le dimore dell’Olimpo, / se non tu, furfante, figlio di Zeus e di Maia. / Che arte è questa? Cos’è questo canto che ispira passioni irresistibili? / Quale via per ottenerlo? Con esso veramente è possibile / raggiungere tutte insieme tre cose: la gioia, l’amore e il dolce sonno». 10  Apollo, come dice Eraclito (fr. B 93 Diels-Kranz) sul modo con cui il dio si manifesta, oute légei, oute krýptei, allá semáinei, «non dice, non nasconde, ma dà segni». 11  Cfr. Iliade, I, vv. 43-52.

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tutte le voci dell’aulo, / per imitare con lo strumento / il lamento sonoro scaturito / dalle mascelle frenetiche» delle teste recise12. Pure il mito delle cicale, riportato da Platone nel Fedro, mostra quanto sia indissolubile il legame tra la morte e il canto. Nel corso del dialogo, Socrate narra come anticamente le cicale fossero uomini. Quando nacquero le Muse e con esse il canto, alcuni di quegli uomini furono a tal punto colpiti dal piacere (edoné) dell’ascolto da trascurare il cibo e le bevande; e così, senza accorgersene, morivano. Da loro nacque, in seguito, la stirpe delle cicale, alle quali le Muse donarono il privilegio di non aver bisogno né di mangiare né di bere affinché cominciassero a cantare dalla nascita fino alla morte, quando poi sarebbero andate dalle Muse stesse a riferire chi degli uomini sulla terra le onorasse13. Insomma, come risulta dai miti richiamati sia pure in modo cursorio, non solo arrischiante, ma addirittura esiziale è la malia esercitata dal canto e dalla musica in genere: che procurino tá pleíona o edoné, appare evidente la loro natura ambigua, ancipite, pharmakologica, perché nel momento in cui allietano o consolano o danno conoscenza, pure avvelenano. Che la voce mielata delle sirene si levi sulla soglia della morte è detto altresì nell’ultimo mito che occorre esaminare, uno dei più celebri dell’antichità classica, quello cioè di Orfeo ed Euridice nella versione offerta sempre da Ovidio nelle Metamorfosi. Più ancora che Libro X, dove Orfeo, rammentando a Plutone il ratto di Proserpina (dal quale nasce, come abbiamo visto, il mito delle sirene), lo commuove con la dolcezza del suo canto al punto da ottenere il permesso di ritessere «il filo

12  Cfr. Pindaro, Pitiche, XII, vv. 6-24, tr. it. di B. Gentilini, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1998, pp. 318-321. 13  Cfr. Platone, Fedro, 259b-d.

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prematuramente spezzato della vita di Euridice»14, è in quello successivo che l’intreccio tra il canto e la morte è ribadito e insieme arricchito da alcuni elementi che ne prospettano un possibile superamento. Il Libro XI si apre con un fortissimo: al grido «Eccolo, eccolo, colui che ci disprezza!»15, le menadi si lanciano su Orfeo come una muta di cani all’inseguimento di un cervo. Il gran clamore dei battimani, dei tamburelli e degli ululati bacchici soverchia il suono della lira che così non può arrestare i sassi scagliati contro il cantore tracio (è noto, infatti, come la sua voce riuscisse a commuovere perfino le pietre). Dopo averlo mortalmente ferito, le bassaridi16, non paghe, straziano il suo corpo mediante lo sparagmós, lo “smembramento”. La testa di Orfeo e la lira sono accolte dal fiume Ebro, ma mentre filano via trasportate dalla corrente, ecco che la lira inizia a suonare una nenia triste, accompagnata dal canto del poeta. Dopo essere giunte al mare, la lira e la testa vanno ad arenarsi sulle coste di Lesbo, presso la città di Metimna, dove avviene un secondo prodigio: un serpente si avventa contro la testa per divorarla ma subito è pietrificato da Apollo17.

14  Ovidio, Metamorfosi, cit., X, v. 31, p. 387. 15  Ivi, XI, v. 7, p. 427. Sulle ragioni dell’odio delle baccanti nei confronti di Orfeo cfr. K. Kerényi, Gli dèi e gli eroi della Grecia, vol. II, tr. it. di V. Tedeschi, Garzanti, Milano 1986, pp. 297-299. 16  Uno dei nomi delle baccanti, così chiamate per via della pelle di volpe (bassára) che esse indossavano durante i culti dionisiaci. The Bassarids (1966) è un’opera in un atto del compositore tedesco H.W. Henze su libretto, geniale rivisitazione delle Baccanti euripidee, di W.H. Auden e Ch. Kallman. L’opera culmina col lo sparagmós di Penteo, re di Tebe, che si era opposto all’introduzione dei misteri dionisiaci. 17  Sul mito di Orfeo ed Euridice cfr. U. Curi, Miti d’amore. Filosofia del­ l’eros, Bompiani, Milano 2009, pp. 107-144 e Id., Via di qua. Imparare a morire, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pp. 153-179. Si vedano anche le splendide, e inquietanti, “variazioni sul mito” fatte da G. Bufalino in Il ritorno

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Il racconto della morte di Orfeo, come si accennava, aggiunge un elemento di novità all’analisi che finora abbiamo condotto: pur riproponendo la coppia canto-morte, Ovidio sembra tuttavia suggerire che la seconda non avrà il sopravvento sul primo, sebbene questo sia sottomesso alla più fragile delle durate. In un altro mito delle Metamorfosi, quello di Apollo e Giacinto, quando parla della morte del giovinetto e del pianto inconsolabile del dio, Ovidio scrive: «Non c’è arte che giovi, non c’è medicina contro quella ferita»18. Questo assunto, però, è sconfessato subito dopo dal canto che Febo intona sul corpo esanime del fanciullo: «Te celebrerà la lira percossa dalle dita»19. Commenta Ovidio: «Tu ora sei eterno [Giacinto], e ogni volta che la primavera ricaccia l’inverno […], ogni volta risorgi e fiorisci sulla verde zolla»20. Dunque tra tutte le arti ve ne è almeno una capace non solo di competere con la morte, ma addirittura di vincerla, vale a dire l’ars poetica. Giacinto non è aeternus perché è stato metamorfizzato nell’omonimo fiore che rispunta di bel nuovo ogni primavera, ma perché è stato celebrato dal canto di Febo e quindi di Ovidio: dunque più che in un fiore, quella dell’efebo spartano è una metamorfosi in canto. Insomma, anche se fatto della nostra stessa sostanza, anche se finito come noi e come noi destinato a cadere nel silenzio (ma tutto questo non è già implicito nel termine cadenza, che nel linguaggio musicale indica la formula melodico-armonica che conclude un brano musicale?), il canto ci dona tá pleíona sotto forma di attimi che, affrancati dall’ordine temporale, fanno di noi esseri parimenti affrancati dall’ordine temporale. Non è di Euridice (in Id., L’uomo invaso, Bompiani, Milano 1986, pp. 13-20) e da C. Pavese in L’inconsolabile (in Id., Dialoghi con Leucò, in Romanzi, Gruppo Editoriale L’Espresso [su licenza Einaudi], Roma 2005, pp. 282-86). 18  Ovidio, Metamorfosi, cit., X, v. 189, p. 395. 19  Ivi, v. 205, p. 397. 20  Ivi, vv. 164-166, p. 395.

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forse questa la “maggiore conoscenza” che, nel giardino incantato della maga Armida, annuncia l’uccello dalle piume variopinte quando, con soave melodia, invita non tanto a cogliere, quanto piuttosto a stare nell’istante transeunte che si colloca tra il fiorire della rosa e il suo avvizzire, istante che si appella alla completa responsabilità di noi ascoltatori? «Così trapassa al trapassar d’un giorno / de la vita mortale il fiore e ’l verde […]. / Cogliam la rosa in su ’l mattino adorno / di questo dì, che tosto il seren perde»21. Il canto ri-vela, perché in esso avvertiamo la “dimora originaria” ma solo in quanto, appunto, rivelata, già espressa e quindi non più ricomponibile nella sua essenza. Forse è l’Angelo di Walter Benjamin a guidare ogni possibile canto, il quale non è altro che il tentativo, sempre frustrato, di «ricomporre» quell’Inizio che è stato infranto22, del quale tuttavia conserviamo inestinguibile e immedicabile nostalgia.

3. Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale Sì, sarà sempre nostalgia. Più mortale ancora della nostra stessa mortalità è la condizione di colui che non prova nostalgia e che non risponde, come invece fa Odisseo, alla promessa fatta dalle sirene: perché non si è uomini se non si ascolta questo canto, se non si sta e se non si re-siste in esso. 1915, fronte occidentale. Dopo quelle di Omero e di Platone, di Ovidio e di Tasso, vi è un’ultima sirena che, questa volta con timore e tremore, ci chiede di ascoltarne il canto: è la ragazza

21  Cfr. T. Tasso, La Gerusalemme liberata, XVI, str. 15. 22  Cfr. W. Benjamin, Angelus Novus, tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 80.

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tedesca che negli ultimi minuti del film Orizzonti di gloria (1957) di Stanley Kubrick è condotta in lacrime dinanzi ai soldati del 701°, o ciò che ne rimane dopo il disastroso assalto al Formicaio, imprendibile roccaforte nemica. Appena la scorgono i soldati francesi prorompono in grida belluine: la sua bellezza non riesce ad avere la meglio sulla consapevolezza che ella proviene «dalla Germania, dalla terra degli Unni» e che quindi è una nemica. È singolare come il faunesco locandiere, nel presentarla, faccia riferimento al mare, che nell’immaginario collettivo è l’habitat naturale delle sirene: «Ecco a voi una perla spinta a riva dalla marea della guerra». La ragazza, continua l’improvvisato presentatore, non ha nessun talento: non sa ballare, non sa dire barzellette né fare numeri di equilibrismo, tuttavia «canta come un usignolo: ha l’ugola d’oro». La giovane donna inizia così a cantare, ma la sua voce è subissata dai lazzi e dalla villana improntitudine dei militari. A poco a poco, però, il frastuono si placa e il suo canto, una piccola, semplicissima frase musicale che una volta ascoltata si imprime subito nella memoria, cattura a tal segno i soldati che questi, a loro volta, si mettono ad accompagnarlo, intonandolo a voce chiusa. Una luce diversa, proveniente da benèfici orizzonti, rischiara adesso i loro volti, stupefatti dinanzi a un’inaspettata epifania di senso. Grazie alla carezza malinconica di quel canto i militi riconoscono nel volto della ragazza quello della moglie o della sorella o della madre, ma anche i contorni della patria originaria dalla quale tutti noi siamo in esilio; ma soprattutto grazie a quel canto essi ricordano di essere uomini, ciascuno con il proprio nome e con la propria storia, unica, irripetibile e preziosa. Al sergente che gli riferisce l’ordine dello Stato maggiore di trasferirsi immediatamente al fronte con il 701°, il colonnello Dax risponde: «Dia ancora qualche minuto agli uomini». Per quanto fuggitivi, quelli saranno comunque minuti decisivi, fatti di tempo e insieme sottratti al dominio del tempo: contro di essi si spunta il potere tirannico degli orologi. Il canto della

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giovane prigioniera tedesca terminerà e i soldati ritorneranno in prima linea da dove verosimilmente non faranno ritorno. Ma questi hanno ormai compreso tá pleíona, una conoscenza che nessuno potrà loro sottrarre. Messaggero di morte, il canto precipita nella vita e si fa promessa di eternità. Scrive Proust in una pagina memoranda de Dalla parte di Swann: Forse, l’unica verità è il nulla, e tutto il nostro sogno è inesistente, ma se è così noi sentiamo che anche queste frasi musicali, queste nozioni che esistono in quanto esso esiste, dovranno non esser più nulla. Periremo, ma teniamo in ostaggio queste divine prigioniere che seguiranno la nostra stessa sorte. E congiunta a loro la morte ha qualcosa di meno amaro, di meno inglorioso, forse di meno probabile.23

23  M. Proust, Dalla parte di Swann, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, tr. it. di G. Raboni, Mondadori, Milano 2014, pp. 423 s.

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Ringraziamenti

Questo libro deve molto all’incontro con Cinzia Maroni, direttrice artistica degli Aperitivi Culturali, che ringrazio vivamente. Esprimo inoltre la mia profonda gratitudine a Emma Maria De Nicola per i preziosi suggerimenti offertimi nel mettere a punto questi saggi e a mia moglie Chiara, fedele compagna nelle serate allo Sferisterio e acuta interprete del canto delle sirene. Dedico, infine, questo lavoro alle amiche e agli amici degli Aperitivi Culturali di Macerata per il loro “ascolto interrogante”.

Parte I Letture maceratesi

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Oltre l’«orrendo foco» della Storia Il trovatore di G. Verdi

1. Stato d’assedio Ma esiste un senso del destino, un fatalismo tanto irresistibile e inevitabile che ha la forza di una maledizione e finisce quasi sempre per costringere gli esseri umani a gironzolare come spettri che si attardano attorno al posto dove qualche importante e significativo avvenimento ha segnato con il suo colore la loro vita, tanto più irresistibile quanto più nera è la tinta che la affligge.1

Così Nathaniel Hawthorne nel romanzo La lettera scarlatta definisce l’ossessione. Con parole e aggettivi che stupiscono per la loro esattezza, lo scrittore americano coglie lo stigma di questo sentimento contro il quale la volontà lotta impotente: l’ossessione, per usare le categorie del pensiero greco, è la parte toccata in sorte a ciascun uomo (ma “parte” in greco si traduce móira, da cui per estensione il termine Fato), a tal segno potente da divenire simile a una condanna. Ogni grande eroe tragico è dominato da un’ossessione che egli vorrebbe risolvere e oltrepassare; e la tragedia nasce proprio dal tentativo di opporsi alla propria móira. 1  N. Hawthorne, La lettera scarlatta, tr. it. di A. Busi e C. Covito, in Id., Opere scelte, a cura di V. Amoruso, Mondadori, Milano 1994, p. 552.

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Con esclusione di Leonora, gli altri personaggi principali del Trovatore sono tutti dominati da un’ossessione che li consuma come un fuoco fin nelle più intime fibre: Azucena è ossessionata dalla vendetta proprio come il Conte di Luna, il quale, in aggiunta, non si dà pace per l’amore non corrisposto per Leonora; Manrico, invece, lo è dai sospetti che nutre sulle sue vere origini. Tutti e tre, però, sono accomunati da un medesimo luogo su cui indugiano, per riprendere l’icastica immagine di Hawthorne, come dolenti fantasmi: il palazzo dell’Aliaferia dove, trent’anni prima, la storia ebbe inizio. Chi è posseduto da un’ossessione si consuma in una solitudine disperata, incapace com’è di ascoltare voci diverse che non siano quelle degli spettri che lo abitano. Come rivela l’etimologia della parola – dal verbo latino obsidère –, chi è ossessionato da un’idea è come se fosse cinto da un assedio e quindi è “isolato”, “separato”, “tagliato fuori” dal resto del consorzio umano. Non solo. Ossesso, nella Bibbia, è colui che è “assediato da uno spirito impuro”, da un akátharton pnéuma, controfigura oscena del Pnéuma, dello «Spirito di verità». Akátharton è lo spirito che ha preso dimora presso Azucena e il Conte perché, ricordando senza intermissione alcuna i lutti patiti, impedisce loro di guardare la sofferenza degli altri e giustifica il loro agire presente in nome delle sofferenze passate. L’assoluta contemporaneità dei torti subiti è il tempo ideale della vendetta. I Greci chiamavano Alástor2 questo spirito malefico che le Erinni scatenavano quando volevano aggiungere male ad altro male. Nel mondo romano il suo corrispondente erano le tre Furie (Aletto, Tisifone e Megera), così chiamate dal loro colore scuro (furvus), in quanto generate dalla Notte: nell’Eneide, in versi di 2  Il nome Alástor è formato dal prefisso privativo alpha e dalla radice lath-, riconducibile al verbo lantháno, “restare nascosto”. Alástor, dunque, potrebbe significare “colui che non oblia”, “che tutto ricorda” ai fini della vendetta. Cfr. Eschilo, I Persiani, v. 354.

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straordinaria potenza, Virgilio racconta come Aletto appicchi il fuoco della guerra prima nell’animo di Amata, la regina dei Latini, poi in quello di Turno – «scagliò una torcia sul giovane, e confisse / nel suo cuore fiaccole fumanti di nera luce»3 –, e come esso, infine, si propaghi per tutto il Lazio, devastandolo. Il giuramento prestato dal Conte al capezzale del padre di «non cessar le indagini» (I, 1) finché non avesse fatto giustizia della zingara che gli aveva rapito e ucciso il figlio, e il comandamento – «Mi vendica!» – dato dalla madre ad Azucena quando, sulla pira, «già l’arso crine al ciel / manda[va] faville» (IV, 2) sono dominati da una memoria regressiva che incatena al passato e che eterna – «Quel detto un eco eterno / in questo cor lasciò» (II, 1) – i torti subiti e la conseguente sete di vendetta. Ma il Conte, come si accennava, è tormentato anche da un’altra ossessione, quella di conquistare l’amore di Eleonora e di uccidere il rivale Manrico: «In braccio al mio rival! / Questo pensiero come un persecutor demone / ovunque m’insegue» (III, 1): sono parole che ascolteremo di nuovo, ma amplificate a dismisura, sulla bocca di un altro gigantesco personaggio verdiano, Otello, il Moro di Venezia. Pure in Manrico il diritto del sangue fa sentire le sue ragioni; e le fa sentire in modo così cogente da costringerlo ad abbandonare la donna amata addirittura pochi istanti prima di sposarla pur di salvare la madre (e mai come per Manrico sarebbe stato salutare l’invito biblico rivolto all’uomo ad abbandonare il padre e la madre e a formare con la sua donna una carne sola: il passaggio da Azucena a Eleonora avrebbe infranto il tempo immobile in cui i tre personaggi erano prigionieri e portato a una purificazione della memoria, permettendo così la nascita di un processo di riconciliazione con il passato).

3  Virgilio, Eneide, tr. it. di L. Canali, Mondadori, Milano 2014, VII, vv. 456457, p. 267.

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2. Torri Nel Trovatore lo stato d’assedio permanente è enfatizzato dalle indicazioni sceniche presenti nel libretto. Tutti i quadri che compongo i quattro atti hanno come sfondo luoghi chiusi e angusti. Persino le scene che si svolgono in esterni, vale a dire la seconda dell’Atto primo, le due dell’Atto secondo e la prima dell’Atto terzo, destano un senso di oppressione dominate come sono, rispettivamente, dalle mura del palazzo dell’Aliaferia, dalle forre della Biscaglia, dal chiostro di un monastero e dalle tende di un accampamento. Vi è un luogo, però, che tutti li ricapitola in un’ideale summa dell’orrore: la torre «ove di Stato gemono i prigionieri» in cui si svolge la scena che conclude il dramma (IV, 2). Non è temerario affermare che questa poderosa costruzione, descritta nel libretto come «orrido carcere», sia il baricentro concettuale del Trovatore e il simbolo capace di illuminarne le giunture più segrete. Non solo. Forse non è neppure temerario accostare questa torre a quelle in cui si svolgono i drammi narrati da Calderón de la Barca in La vita è sogno (La vida es sueño) e da Hugo von Hofmannsthal in La torre (Der Turm), che del primo è una geniale variazione. Come è noto, nel capolavoro del drammaturgo spagnolo il principe Sigismondo è rinchiuso appena nato in una torre dal padre Basilio, al quale gli astri, da lui interrogati, avevano predetto che il figlio sarebbe divenuto un tiranno feroce e sanguinario. Per lunghi anni Sigismondo vive segregato in una torre in compagnia del nobiluomo Clotaldo, che ha il compito di proteggerlo e di insegnargli i rudimenti delle scienze. Un giorno Basilio decide di verificare se davvero immutabile è il destino che gli astri fissano agli uomini: somministra un narcotico al figlio e ordina che questi venga trasportato nella reggia. Al suo risveglio Sigismondo resta sbalordito dinanzi all’opulenza del palazzo reale, ma quando viene a conoscenza

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della sua storia l’indole selvaggia ha subito il sopravvento. Basilio decide allora di ricondurlo nella torre, dicendo al figlio che il breve tempo trascorso con lui non è stato altro che un sogno. Dopo essere stato di nuovo addormentato, Sigismondo si risveglia nel suo antico luogo di prigionia e si convince così di aver davvero sognato. Il fido Clotaldo gli spiega che ciò che gli uomini chiamano vita non è altro che un sogno, e che nel breve tempo che intercorre tra le identiche oscurità della nascita e della morte occorre vivere senza fare male ad alcuno, secondo giustizia e bontà. Nel frattempo Basilio abdica a favore del nipote Astolfo, ma ciò provoca una sommossa del popolo, il quale reclama quale legittimo sovrano Sigismondo. Dalla guerra intestina che ne segue esce vincitore Sigismondo. Una volta divenuto re, questi decide di non vendicarsi dei torti subiti, di perdonare il padre e di essere un sovrano illuminato. Per quanto sia stata richiamata solo nei suoi snodi principali, è possibile tuttavia scorgere in La vita è sogno alcune singolari analogie con il Trovatore, anche se del tutto opposta, come si vedrà meglio in seguito, è la conclusione a cui giunge Verdi. Intanto entrambi i racconti iniziano avvolti in un’aura di sortilegio. Sia Basilio sia il «prence» di Luna si dimostrano sensibili quant’altri mai al soprannaturale, al magico, a ciò che trascende la conoscenza razionale. Prestando fede, rispettivamente, all’oroscopo e alle dicerie che circolano sulle presunte arti oscure praticate dalla madre di Azucena – dicerie che di per se stesse sono sufficienti a qualificarla come «abbietta», «fosca vegliarda», «fattucchiera» dal «viso arcigno» e dall’occhio «torvo, sanguigno» (I, 1) –, essi giungono a condannare due innocenti, scatenando una serie di eventi che sfuggiranno presto al loro controllo. Ma la colpa di cui si macchiano Basilio e il «prence» è tanto più grave se si considera che essi sono nobili. L’étymon della parola nobilitas deriva dal verbo latino nòscere, “conoscere”, “apprendere” attraverso, si badi, un retto uso della ragione,

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e quindi attraverso una grammatica mentale fatta di lungimiranza, di capacità di porre la giusta distanza tra le cose e gli uomini, di chiarezza, di equilibrio nelle scelte e di studio appassionato. È nobile, dunque, colui che molto conosce servendosi della sua intelligenza e che proprio in virtù di questo surplus di conoscenza è chiamato al comando, a reggere la pólis. Da qui un secondo elemento in comune: tanto Basilio quanto il Conte di Luna vivono un “dramma del potere”. Il primo, concedendo al figlio l’opportunità di dare contezza della sua vera indole – un’opportunità, a dire il vero, destinata fin da subito a un sicuro insuccesso: come altrimenti si sarebbe dovuto comportare Sigismondo dopo essere vissuto per tanti anni prigioniero in un’angusta torre? –, dimostra di non saper resistere nella propria decisione e di non sopportare il peso della colpa, giacché decidersi per una cosa significa nel contempo peccare nei confronti dell’altra. Basilio vuole avere la coscienza a posto, ma così commette uno dei peccati capitali della politica, vale a dire la ricerca della felicità, la quale consiste in una perfetta pacificazione degli elementi in lotta tra loro. Il «prence», a sua volta, dimostra di non essere mosso da nes­ sun’altra causa che non sia la philautía, un egoistico amore per se stesso. Sul letto di morte il passaggio del potere al figlio avviene proprio sotto il segno di questo peccato originale, che il nuovo «prence» perpetua con un giuramento. A dire il vero vi è solo un istante in cui il Conte di Luna si rende conto della costitutiva difettività del suo potere, ed è quando, dopo aver impartito ai soldati l’ordine di decapitare Manrico e di ardere sul rogo Azucena al sorgere del sole, dice come rivolto a se stesso: «Abuso forse quel potere / che pieno in me trasmise il prence! / A tal mi traggi, / donna per me funesta!» (IV, 1). La consapevolezza per cui soltanto un abuso di potere, e quindi soltanto la tirannide, possa mascherare il vacuum di imperium che ormai si è aperto è però subito soffocata dal violento apoftegma «A tal mi traggi, / donna per me funesta!», che segna in

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modo definitivo il trionfo di Alàstor. Ma questo trionfo coincide con la negazione del tragico: se la tragedia, infatti, è l’istante del massimo arrischio, quello in cui l’uomo, sospeso tra due mondi tra loro irriducibili, deve scegliere e, scegliendo, patire molti mali, tutto fuorché tragico è l’agire politico del Conte, perché questi si limita a confermare, dandogli una nuova e inaspettata linfa, il vecchio nómos, quello del padre. Queste considerazioni sono portate alle loro estreme conseguenze in La torre, che Hofmannsthal iniziò a scrivere nel 1925 e che pubblicò nella sua versione definitiva due anni dopo. Il dramma, pur seguendo nelle sue linee principali La vita è sogno, da questa tuttavia si discosta per una disincantata concezione del Politico, il quale, avendo perduto ogni legittimità, può essere ricomposto solo coercitivamente per mezzo di una dittatura. Nel testo di Hofmannsthal il re Basilius ordina che sia condotto a corte il figlio Sigismund, imprigionato dal giorno della nascita in una torre, perché, incapace di sedare una sommossa popolare nella quale scorge il compimento di una visione che aveva avuto tempo addietro interrogando gli astri, vuole capire una volta per tutte se Sigismund sia davvero colui che lo spodesterà o se sia invece l’uomo capace, a dispetto delle stelle, di trarlo dalla distretta. Se il sovrano è, per definizione, colui che decide nello stato d’eccezione, l’oscitanza di Basilius è quanto di più devastante ci possa essere, perché mostra come non esista ormai più alcun Potere capace di conservare l’Ordine. È lo stesso re a confessarlo: «Corriamo di qua e di là per rafforzare il nostro potere, ma è come se il terreno diventasse molle e le nostre gambe affondassero nel vuoto. Le mura vacillano dalle fondamenta, e la nostra strada è finita nell’In­ transitabile»4 (II, 1).

4  H. von Hofmannsthal, La torre, tr. it. di S. Bortoli Cappelletto, con un saggio di M. Cacciari, Adelphi, Milano 1993, p. 33.

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3. Vie intransitabili Hofmannsthaliana, dunque, è la torre in cui sono rinchiusi Manrico e Azucena – ma anche il Conte, il cui destino si compirà in quella stessa torre insieme a quello degli altri due prigionieri. Ed è tale, questa torre, perché tra le sue inviolabili mura si consuma una metamorfosi del tragico. A differenza di ciò che avviene nel dramma di Calderón, dove Sigismondo attraverso tá pathémata giunge a tá mathémata5 (ispirate a una superiore conoscenza acquistata attraverso la sofferenza sono le parole che suggellano il dramma: «la fortuna non si vince con l’ingiustizia e la vendetta; così la si irrita di più. Se si vuol vincere la propria sorte, si devono usare saggezza e moderazione. […] Ho compreso che tutte le felicità umane si dissolvono come un sogno. Oggi voglio goderne per il tempo che dureranno, mentre chiedo perdono dei nostri errori: ed è proprio dei nobili cuori concedere il perdono»6; III, 14), nel testo di Hofmannsthal e nel Trovatore non si compie alcuna kátharsis, alcuna “purificazione”, perché gli eroi sono incapaci di suscitare pietà. Non si dà catarsi, infatti, né liberazione nel e dal tragico senza la pietà: solo con questa si attua una compensazione che è, scrive Karl Jaspers nel saggio dedicato al tragico, «comunione tra gli uomini, raggiunta in virtù di una profonda lotta amorosa». Grazie a questa buona battaglia l’uomo «non sprofonda nel buio o nel caos, ma, per così dire, trova il solido terreno di una certezza metafisica che lo appaga»7. Nelle torri in cui si aggirano tremebondi Hofmannsthal e Verdi, invece, il páthos non è più preziosa occasione di amma5  Cfr. Eschilo, Agamennone, v. 177. 6  C. de la Barca, La vita è sogno, tr. it. di A. Gasparetti, Einaudi, Torino 2003, pp. 72 e 74. 7  K. Jaspers, Del tragico, tr. it. di I. Alighiero Chiusano, SE, Milano 2008, p. 67.

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estramento; e se non insegna più, il páthos è irredimibile, è sofferenza bruta e fine a se stessa. Si avverte in questa nuova e sconvolgente concezione dell’esistenza umana l’alto magistero di Shakespeare, che consegna al lettore/spettatore l’immagine di un mondo alla deriva, dove il male è l’esistenza stessa e non c’è forza nella natura che agisca per il bene. Non è un caso che Giuseppe Verdi sia ricorso al Bardo per tre volte (per tacere il progetto, purtroppo mai realizzato, di mettere in musica Re Lear): Macbeth, Otello e Falstaff sono la spia di un totale idem sentire. A partire dal Trovatore il teatro verdiano si fa indagine viepiù sconsolata di un mondo in cui non c’è catarsi e dove la sofferenza e la morte non dicono più nulla, un’indagine che troverà la sua compiuta formulazione nel Confiteor pronunciato da Jago nell’Otello (II, 1) – e forse un suo superamento nel Falstaff attraverso il riso.

4. «La via fra quelle mura» Il Trovatore procede, dunque, di naufragio in naufragio: il male finisce solo quando sono tutti morti. Eppure da questa desolata risacca su cui galleggiano i corpi martoriati dei naufraghi ecco affiorare qualcosa di inaudito che, anche se non risolve la partita, ne rimescola tuttavia le carte. Leonora nel Trovatore è la Novitas che lascia senza parole, perché è del tutto sciolta, è del tutto straniera rispetto alla logica che governa questo mondo. Ella è xénos come il Dio del vangelo, e in quanto xénos parla uno sklerós lógos, un durus sermo che il mondo non può comprendere e che per questo rifiuta. Duro, aspro, difficile da intendere il lógos annunciato (eu-angelízomai) da Leonora, perché esso rivela un amore totalmente gratuito che si compie solo nel momento in cui è disprezzato e messo a morte.

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Ignoriamo se questo durus sermo offra una via tra le mura, altrimenti inespugnabili, dell’«orrido carcere» in cui l’uomo è stato gettato. Di sicuro esso è una possibilità, come è una possibilità il comico, lo si accennava prima, che sovrabbonda nella partitura del Falstaff, l’estremo capolavoro di Verdi. Il comico, scrive Massimo Cacciari, «è ciò che resta dopo che tragedia, commedia e il ridicolo delle innumerevoli forme del loro sopravvivere hanno raggiunto il fondo della propria potenza rappresentativa»8. Il comico è dichiarazione di assoluta impotenza, di totale resa dinanzi agli «orrendi fochi» di questo mondo, di assoluta sospensione di giudizio. Il comico ride di ogni tentativo di razionalizzare, rappresentare, narrare e spiegare il male. L’uomo vorrebbe ricomporre l’infranto, dare giusta sepoltura ai morti, restituire il nome e il volto a coloro che dalla Storia sono stati travolti, ma non gli è concesso. E allora ride, e dalla bocca che si apre al riso forse può giungere una parola straniera capace ancora di far sussultare il cuore.

8  M. Cacciari, Hamletica, Adelphi, Milano 2009, p. 104. Continua Cacciari: «Menzogna suprema […] è fingere di poter dire l’infelicità attraverso il lamento. È possibile soltanto mostrare che ne ignoriamo la causa, mostrane la ‘ingiustificabilità’. Il comico ride di ogni tentativo di razionalizzarla, così come di ogni tentativo di esprimerla im-mediatamente. Solo nella forma comica va a fondo ogni possibile teodicea. […] Così il ‘serio’ lamento inganna sulla radicale ingiustificabilità e infondatezza del male di esserci, proprio perché pretende di imporsi come sua giusta rappresentazione. L’idea di infelicità si salva nella sua similitudine più lontana, anzi: in ciò che in nessun modo potrebbe essere confuso con essa, in ciò che sembra addirittura negarla».

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Vincitori e vinti Tosca di G. Puccini

1. Story vs. History La nostra lettura della Tosca prende l’abbrivio da alcune suggestioni tratte da La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Pur trattandosi, va da sé, di opere diverse tra loro, soggiacente tanto al melodramma pucciniano quanto al film di Sorrentino vi è una medesima interpretazione (in quest’ultimo forse non voluta, ma risultante da una sorta di eterogenesi dei fini, per così dire) su uno dei motivi principali – per non dire addirittura il motivo per eccellenza – per i quali l’Urbe si è imposta nell’immaginario collettivo, vale a dire la mirabile grandiosità dei suoi monumenti. Sia nella Tosca sia nella Grande bellezza i capolavori architettonici della città eterna fungono da parete armonica su cui si appoggiano e si sviluppano le rispettive narrazioni: Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese e Castel Sant’Angelo, da una parte; la Fontana dell’Acqua Paola, il Colosseo, gli acquedotti dell’età imperiale, la Basilica di Massenzio e le dimore patrizie, dall’altra. L’enfasi con cui si sottolinea la parte monumentale di Roma tradisce un’intenzione da parte di Puccini e di Sorrentino forse un po’ più ambiziosa di quella di offrire alle rispettive storie un magniloquente sfondo scenografico. Prima di azzardare una

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risposta, è opportuno richiamare l’etimologia della parola “monumento”. Essa deriva dal verbo latino monère, che significa “ispirare”, “avvertire”, “esortare”, “incitare”, “ricordare”. Immanente, dunque, all’idea di monumentum è il suo memento, è la memoria di persone o di avvenimenti a tal segno importanti che si rende necessario, per salvarli dall’oblio, porre dei segni a loro perenne ricordo. Funzione del monumento è di tràdere il passato ai posteri. Ma tràdere è verbo di movimento che implica non solo un’insonne interrogazione del tràdito, ma anche, e soprattutto, una sua radicale krísis: solo così quest’ultimo si raffina della sua componente antiquaria – o monumentale nell’accezione deteriore del termine – e si fa contemporaneo del futuro. Fatta questa necessaria precisazione, occorre ora domandarsi se nella Tosca e nella Grande bellezza i monumenti siano davvero un monito per la posterità. Nel film di Sorrentino, se assumiamo per buona l’interpretazione della critica maggioritaria, gli edifici romani avrebbero la funzione di smascherare impudicamente lo scarto incolmabile che si è creato tra la grandezza passata e la gaglioffa sbracatezza dell’Italia di oggi. Se questa era l’intenzione (il titolo del film, però, può riferirsi tanto alla magnificenza artistica di Roma, quanto alla storia d’amore vissuta sull’isola del Giglio da Jep Gambardella, il protagonista, in una remota notte d’estate), ci pare che sia stata clamorosamente mancata dalla tecnica con cui la macchina da presa ha filmato quella grande bellezza, una tecnica così raffinata da trascolorare nel virtuosismo – e il virtuosismo spesso confina pericolosamente con il Kitsch. La bellezza di Roma, insomma, nel film si dilata a tal punto da implodere: la poesia degli edifici è svilita in preziosa oggettistica da esibire in bella mostra sul tavolino del salotto. I monumenti romani nel film fanno la stessa fine del palco imperiale nei teatri della Kakania di cui parla Hermann Broch in un celebre saggio: dovevano essere un simbolo immerso nel vuoto, ma finiscono per

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­ iventare, invece, il simbolo stesso del vuoto1. Insomma, più d che una ­città eterna, c­ ustode di memorie capaci ancora, nonostante tutto, di monère gli uomini del nostro tempo, essa è una necropoli. Il lungo piano sequenza sul Tevere, ripreso in soggettiva, che suggella il film, evoca il viaggio dei morti sull’imbarcazione di Caronte, visto in soggettiva dai morti stessi. Considerazioni non dissimili possono essere fatte anche per i luoghi della Tosca. Se li si considera con la dovuta attenzione, ci si accorge che ciascuno di essi ha a che fare con la morte. Nel primo atto, l’uscita di Cesare Angelotti, ex console della Repubblica romana, dalla cappella Attavanti, dunque da un sepolcro, già ne preconizza la morte; nel secondo atto, invece, il Palazzo Farnese è nel contempo una reggia – come è noto era la dimora romana dei Borbone – e un luogo dove i repubblicani sono torturati, non di rado fino alla morte, per estorcere loro informazioni; nel terzo e ultimo atto, Castel Sant’Angelo è addirittura doppiamente legato all’idea della morte: nato come tomba grandiosa per l’imperatore Adriano e per la sua famiglia, esso è stato trasformato in un carcere sulla cui sommità i prigionieri sono passati per le armi. Si tratta, dunque, di luoghi dalla bellezza opprimente e inquietante (pure nel film di Sorrentino i monumenti sono sontuosi sarcofagi dentro i quali la cosiddetta buona società romana si illude di vivere, ignorando di essere già putrescente). Il tempo, inteso quale mero flusso cronologico, anche se scandito dalle campane delle chiese che suonano l’Angelus e il Mattutino, è in realtà rarefatto in una dimensione aionica, in un sempre1  H. Broch, Hofmannsthal e il suo tempo, tr. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2010, p. 73: «A uno sguardo capace di penetrare la realtà delle cose quel palco costantemente inutilizzato, costantemente immerso nel buio, si presentava piuttosto come un pezzo da museo, o per meglio dire, proprio in virtù di questo suo carattere museale, come un simbolo dello schema, ormai vuoto, che sottendeva alla posa barocca del sovrano».

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essente che coincide con la morte. Anche la Storia che trama in filigrana la vicenda – la caduta della Repubblica romana e la vittoria di Napoleone a Marengo – resta sullo sfondo, troppo lontana per incidere sulle storie dei personaggi. Per comprendere meglio questo passaggio, cruciale in Tosca, forse è bene ricorrere alla distinzione, sconosciuta nella lingua italiana, che in inglese intercorre tra History e Story. La prima è la narrazione di fatti d’ordine politico, militare, economico quali risultano da un’indagine critica volta ad accertarne la veridicità; la seconda, invece, fa riferimento a vicende personali di interesse circoscritto. Orbene, in Tosca la History, con i suoi pomposi uomini cosmici che si illudono di reggere le sorti del mondo, è solo un fondale variopinto: a differenza di ciò che accade in altri melodrammi, per tutti il Boris Godunov e il Don Carlos dove le vicende storiche forgiano la psicologia dei personaggi e ne determinano in modo incoercibile le scelte, nell’opera pucciniana Cavaradossi e Tosca, Angelotti e Scarpia vivono storie private, destinate a scomparire senza lasciare traccia alcuna se non le soccorresse «lo spirito del racconto» di manniana memoria2, il solo capace di raccogliere con mano pietosa queste «vite minuscole», come le chiama Pierre Michon3, attraverso una musica di rara bellezza che trasforma la vile argilla in oro. Se così stanno le cose, nella Tosca pucciniana il vero monumentum, nel significato a cui sopra si accennava, è soltanto la musica.

2  Cfr. Th. Mann, L’eletto, tr. it. di B. Arzeni, Mondadori, Milano 2010, p. 28. 3  Cfr. P. Michon, Vite minuscole, tr. it. di L. Carra, Adelphi, Milano 2016.

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2. L’eticità del volto Vi è un punto nell’opera che funge da centro assiale di questa pietas. Si è appena aperto il sipario sulla grande navata barocca di Sant’Andrea della Valle. Il cavalier Cavaradossi è intento a dipingere una tela raffigurante Maria Maddalena. Questi, in particolare, sta attendendo al volto della santa, nel quale, come veniamo a sapere dal sapido scambio di battute con lo scaccino, confluisce una «recondita armonia / di bellezze diverse», vale a dire le chiome bionde e gli occhi azzurri della marchesa Attavanti, che negli ultimi giorni egli ha notato più volte pregare nella cappella di famiglia, e le fattezze di Floria Tosca, sua amante. A un certo punto Cavaradossi cessa di dipingere e si leva di tasca un medaglione contenete l’effige della sua amata; muovendo i suoi occhi dal medaglione al quadro, così canta: «L’arte nel suo mistero / le diverse bellezze in sé confonde; ma nel ritrar costei / il mio solo pensier, Tosca, sei tu!». Le parole di Cavaradossi non sono solo espressione di un cuore innamorato, ma anche un’implicita confessione dei modelli da cui egli ha tratto ispirazione per la sua opera e per questo suonano empie alle orecchie del sagrestano, per il quale «queste diverse gonne / che fanno concorrenza alle madonne / mandan tanfo d’inferno». Questa scenetta, più che mostrare una contrapposizione tra l’amor sacro e l’amor profano, nasconde un piccolo trattato sull’eticità del volto. Per comprendere meglio questo assunto, occorre richiamare, sia pure in modo corsivo, alcune riflessioni, davvero uniche per profondità, che Emmanuel Lévinas ha dedicato proprio al volto. Per Lévinas il volto è il modo in cui si presenta l’Altro: «Questo modo non consiste […] nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto d’Altri distrugge ad ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia, l’idea a mia misura e a misura del suo ideatum – l’idea adeguata. Non si

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manifesta in base a queste qualità. Ma kath’auto. Si esprime»4. Per Lévinas il volto è epifania etica, perché esso «è ciò che non si può uccidere: o almeno [è] ciò il cui senso consiste nel dire: ‘tu non ucciderai’»5. Si potrebbe affermare che il volto, in realtà, non è mai visto. Se davvero lo si vuole vedere occorre paradossalmente sfigurarlo: solo allora esso si mostra nella sua nudità, la quale a sua volta rivela la mortalità degli esseri. Da questa rivelazione sorge l’imperativo a non lasciarlo solo, quel volto. Questo imperativo, scrive Lévinas, è la prima parola di Dio. La teologia inizia per me nel “volto” del prossimo. La divinità di Dio si gioca nell’umano. […] Riconoscere Dio equivale a intendere il suo comandamento: “tu non ucciderai”, che non è solamente il divieto dell’omicidio, ma è una chiamata a una responsabilità incessante rispetto ad altri.6

Le riflessioni di Lévinas ci consentono di comprendere meglio l’opposta reazione che Cavaradossi e Scarpia hanno dinanzi all’Altro. Il primo, abituato, perché pittore e quindi artista, a ritrarre non volti bensì la loro «nudità» (il viso della Maddalena è propriamente un eikón, un’icona, un’immagine dell’Invisibile che si manifesta attraverso l’umano), non riconosce subito il conte Angeletti quando questi gli compare davanti, uscendo dalla cappella dove si era nascosto dopo la sua evasione da Castel Sant’Angelo, tanto il suo volto esteriore è segnato e reso irriconoscibile dalle soperchierie subite («Non mi ravvisate? / Il carcere m’ha dunque assai mutato!»), tuttavia comprende immediatamente (Cavaradossi, come si legge nella 4  E. Lévinas, Totalità e infinito, tr. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1986, p. 48. Cfr. anche pp. 199-224. 5  E. Lévinas, Etica e infinito, tr. it. di E. Baccarini, Città Nuova, Roma 1984, p. 101. 6  E. Lévinas, Gli imprevisti della storia, tr. it. e cura di G. Pintus, Inschibboleth, Roma 2014, p. 170.

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nota di scena, «rimane attonito sull’impalcato») di trovarsi di fronte a un essere inerme, bisognoso di aiuto, che gli domanda di accoglierlo e di proteggerlo. Al contrario, una relazione tutta fondata sul potere, e dunque sulla violenza, è quella che Scarpia intrattiene non solo con Cavaradossi e Angelotti – l’uno essendo il suo rivale in amore, l’altro il prigioniero che gli è sfuggito di mano –, ma anche con Tosca (vedremo tra breve in quale forma il diabolico capo della polizia pontificia esercita il suo potere nei confronti di quest’ultima), con lo scaccino (il quale, intimorito, fornirà indizi decisivi per il buon corso delle indagini) e con gli sgherri Spoletta e Sciarrone. Diabolico abbiamo definito Scarpia. La sua principale cura, infatti, è quella di diabállein, “separare”, “mettere gli uni contro gli altri” servendosi della menzogna, come il teso scambio di battute tra lui e Tosca mostra in modo emblematico. Il diábolos, si legge nella Scrittura, dice, il “falso” (tó pseúdos), è “menzognero” (pseústes estín) e “omicida” (anthropoktónos)7. Sarebbe davvero interessante soffermarsi sui passaggi segreti che collegano la menzogna all’omicidio, ma su questo tema rinviamo alla lettura de I demonî di Dostoevskij, il romanzo che in modo insuperabile ha mostrato questa spaventosa contiguità. Non solo. Vi è un altro elemento che concorre in modo decisivo a fare di Scarpia una vera e propria figura antichristi, e questo consiste nella spregiudicatezza con cui egli gabella le sue perversioni per timor di Dio. Il grandioso Te Deum che suggella l’atto primo, un autentico colpo di genio dal punto di vista drammaturgico, è un’epifania di tenebra: quando il sipario si chiude, lo spettatore non può fare a meno di domandarsi quale mostruosa caricatura di Dio si celi dietro l’idolo a cui Scarpia innalza, con tanto fervore, il suo canto.

7  Gv 8,44.

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3. Simul iusta et peccatrix Il cenno al Te Deum ci costringe ad affrontare una questione ineludibile, vale a dire il problema di Dio in Tosca. Il melodramma pucciniano è immerso in un milieu religioso: il tempo, come si accennava, è scandito secondo la liturgia delle ore; il primo atto si svolge in una chiesa, il secondo si chiude con una scena (su cui torneremo) che sarebbe piaciuta a Robert Bresson tanto è densa di implicazioni spirituali, il terzo è ambientato nella dependance secolare del Vaticano; il nome di Dio, poi, è invocato a più riprese dal sagrestano, da Tosca e da Scarpia, ed esaltato infine in modo maiestatico, appunto, nel tonitruante Te Deum. Tuttavia, non di Dio si dovrebbe parlare, ma di dèi in lotta tra loro. Un paio di battute pronunciate da Floria Tosca ci aiutano a fare un po’ di chiarezza. Nell’aria Vissi d’arte, vissi d’amore ella ripete per ben due volte una domanda destinata a non trovare risposta: «Con man furtiva / quante miserie conobbi, aiutai… / Sempre con fe’ sincera / la mia preghiera / ai santi tabernacoli salì. / […] Nell’ora del dolore, / perché, perché Signore, / perché me ne rimuneri così?». In questa querimonia è impossibile non cogliere risonanze bibliche: così si interrogano il Servo di Jahvè, il Salmista e Giobbe. A differenza di Scarpia che, quale degno epigono di quei consolatores honerosi tanto biasimati da Giobbe8, parla di Dio, Tosca invece parla a Dio facendosi autentica teo-loga. Ella è una donna giusta nel significato biblico della parola, perché accoglie la parola di Dio, la medita e soprattutto la mette in pratica: «non feci mai male ad anima viva! / Con man furtiva / quante miserie conobbi, aiutai…». La cifra di questo personaggio è la generosità, la gratuità del dono, il soccorso offerto ai bisognosi «con man furtiva» («non sappia la tua sinistra ciò

8  Cfr. Gb 16,2.

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che fa la tua destra»9), più ancora del culto esteriore, che pure non le fa difetto («Sempre con fe’ sincera / diedi fiori agli altar. / […] Diedi gioielli / della Madonna al manto»). Non solo. La giustizia di Tosca si mantiene inconcussa persino nel momento in cui, pugnalando a morte il suo aguzzino, diviene peccatrice (i soliti consolatores honerosi potrebbero puntualizzare che ella si macchia di un secondo, spregevole, imperdonabile peccato quando si dà la morte precipitandosi giù dalla piattaforma di Castel Sant’Angelo). Per comprendere questo paradosso è bene riprendere uno dei passi più straordinari dell’evangelo di Luca, quello in cui una donna senza nome, individuata semplicemente come «una peccatrice», saputo che Gesù si trovava a mensa a casa di Simone il fariseo, «venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato». Simone ne rimane scandalizzato, ma Gesù, dopo aver narrato la parabola dei due creditori, dice che alla donna sono perdonati i suoi peccati perché ha molto amato; e aggiunge: «invece quello a cui si perdona poco, ama poco»10. Sulla scorta del passo evangelico appena richiamato possiamo comprendere perché Tosca, sebbene abbia le mani macchiate di sangue, sebbene sia peccatrice secondo la logica dei farisei, continui ad essere anche giusta. Certo: il fatto che ella abbia ucciso un essere moralmente spregevole, un «bigotto satiro che affina / colle devote pratiche la foia / libertina» non è una causa scriminante capace di attenuare la gravità del delitto commesso: in una qualsiasi assise penale ella sarebbe a ragione condannata. Eppure, ribadiamo, la giustizia continua a dimorare presso di lei perché di un’altra giustizia, di un’altra Legge ella è

9  Mt 6,1-4. 10  Cfr. Lc 7,37-50.

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icona. «Se la vostra giustizia non sarà più grande di quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno di Dio»11: l’aspetto paradossale, decisamente scandaloso della buona novella sta in questa giustizia altra, eccedente la misura, che sembra follia alla mentalità di questo mondo. Tosca supera la giustizia quanto a giustizia perché ha il coraggio di dannarsi per amore. Ma chi si danna per amore sarà salvato: appunto, le sono perdonati i suoi peccati perché ha molto amato. Se Scarpia è figura antichristi, Tosca, invece, è autentica icona Christi. E del Cristo ella condivide la passione nei due significati posseduti da questa parola: imperioso dominio da parte delle proprie pulsioni (lo stesso amore di Dio è non di rado descritto nella Scrittura con espressioni che trasudano fisicità) e sofferenza che culmina nel sacrificio della Croce. Anche la turpissima mors del Cristo è attraversata da una furia omicida e suicida che alla fine sembra trionfare sulla forza dell’amore: “sembra”, perché questa furia è pur sempre abbracciata da una agàpe che rimette tutto in discussione. Così le estreme parole di Tosca – «O Scarpia, avanti a Dio!» – più che un’espressione di esultanza per l’imminente contenzioso in cui ella, nel tribunale celeste, si ritroverà faccia a faccia con il suo aguzzino, sono una totale adesione al sermo, durus per la mentalità di questo mondo, che promette pietà e perdono a coloro che per amore si dannano12.

11  Mt 5,20. 12  Vengono in mente alcune parole di A. Camus che sembrano ricalcare proprio il passo lucano sopra riportato: «Dovessi scrivere io un trattato di morale, avrebbe cento pagine, novantanove delle quali assolutamente vuote. Sull’ultima, poi, scriverei: “Conosco un solo dovere, ed è quello di amare”. A tutto il resto dico di no. Di no con tutte le mie forze», e: «Bisogna incontrare l’amore prima della morale. Altrimenti è lo strazio». Rispettivamente in A. Camus, Taccuini 1935-1942 e Taccuini 1942-1951, tr. it. di E. Capriolo, Bompiani, Milano 1992, p. 51 e p. 217.

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Dal punto di vista drammaturgico l’endiadi giustizia/peccato è resa, alla fine dell’atto secondo, dal gesto di porre un crocefisso sul petto di Scarpia: Tosca dimostra di vedere pienamente il volto di Scarpia e non la sua immagine plastica che invece le avrebbe reso impossibile quel gesto estremo di pietà. Sono istanti sublimi, che fanno il paio, nella letteratura, con la scena in cui, nell’Idiota, il principe Myškin, l’alter Christus, abbraccia Rogôzin, l’assassino di Nastas’ia Filippovna, fino a formare con lui un solo corpo13; oppure con quelle in cui, in Delitto e castigo, Sonja, la prostituta, al lume di una candela sfiaccolante legge a Raskolnikov, l’omicida, il passo evangelico della resurrezione di Lazzaro14.

4. Del potere Anche se non è vinta dal Potere, Tosca resta pur sempre il paradigma di tutte le vittime che dal Potere sono state «divorate, digerite ed evacuate», per riprendere un’icastica immagine di Kafka che anticipa le osservazioni che tra poco svilupperemo. Il carattere sadico del rapporto tra Scarpia e Tosca coglie con rabdomantico intuito – l’opera ebbe la sua prima rappresenta-

13  Cfr. F. Dostoevskij, L’idiota, tr. it. di A. Polledro, Einaudi, Torino 1998, pp. 601 s. («[Il principe] premette il viso contro il pallido viso immobile di Rogôzin: le lacrime scorrevano dai suoi occhi sulle guance di Rogôzin, [e] ad ogni grido o accesso del delirio del malato, si affrettava a passargli dolcemente la mano tremante sui capelli e sulle guance, come per accarezzarlo e calmarlo»). 14  Cfr. F. Dostoevskij, Delitto e castigo, tr. it. di A. Polledro, Einaudi, Torino 1993, pp. 388-391 («Il mozzicone di candela già da un pezzo si andava spegnendo nel candeliere storto, illuminando di luce scialba in quella misera stanza l’assassino e la peccatrice, stranamente uniti dalla lettura del libro eterno»).

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zione a Roma il 14 gennaio del 1900 – la mala pianta del secolo breve su cui matureranno i frutti velenosi che prenderanno il nome di Auschwitz, Kolyma, Garage Olimpo, Abu Ghraib. Pochi scrittori come Elias Canetti sono riusciti a “raccontare” il potere, le sue proteiformi metamorfosi e soprattutto la sua insaziabile voracità. Massa e potere (Masse und Macht)15, l’opera della vita che accompagnò Canetti per trentotto anni, è un abnorme trattato di etnografia, un corrusco morality play, una severa e possente Totentanz. Un capitolo in particolare, intitolato Gli organi del potere, può offrire utili spunti alla riflessione che stiamo svolgendo. Secondo Canetti, l’atto decisivo del potere, fra gli animali e gli uomini, consiste nell’afferrare e nell’incorporare. L’avvicinarsi di una creatura ad un’altra verso la quale nutre interessi ostili avviene attraverso alcuni passaggi. Il primo è l’atto di spiare la vittima. Segue poi un contatto con questa, il quale preannuncia l’assaggio: «le streghe delle favole fanno allungare un dito alla vittima per sentire se è già abbastanza grassa»16. Il successivo grado di avvicinamento è rappresentato dall’afferrare: «lo spazio all’interno delle mani piegate per afferrare è l’anticamera della cavità della bocca e dello stomaco nelle quali la preda sarà definitivamente incorporata. […] La mano che non lascia la presa è un vero e proprio simbolo del potere»17. L’atto di incorporare la vittima inizia dalla bocca. Fondamentale in questo passaggio dalle mani alla bocca è l’uso dei denti, i quali sono «il primo ordinamento […] che funge da minaccia verso l’esterno»18. Chiara metafora dell’uniformità di una fila di denti incisivi sono i plotoni di soldati (secondo il mito i guerrieri di 15  E. Canetti, Massa e potere, tr. it. di F. Jesi, Adelphi, Milano 2001. 16  Ivi, p. 244. 17  Ivi, p. 245. 18  Ivi, pp. 248 s.

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Cadmo nacquero dalla semina di denti di drago). Attraverso i denti, che sono le guardie armate della bocca, la vittima è introdotta nelle fauci, le quali sono il prototipo della prigione. Una volta ingerita, alla preda è sottratto tutto ciò che può essere utilizzato, finché di essa non restano altro che i rifiuti i quali, per riprendere le parole di Kafka, sono evacuati sotto forma di escrementi. Scrive Canetti: «Chi vuole dominare sugli uomini cerca di svilirli, di sottrarre loro forze di resistenza e diritti, finché siano dinanzi a lui impotenti come animali. Egli li trasforma in animali […]. E quando non presentano più nulla di sfruttabile, egli se ne libera di nascosto, come dei propri escrementi»19. Torniamo all’opera di Puccini. Le azioni compiute da Scarpia ricalcano fedelmente la sequenza proposta da Canetti. Tosca era da lui spiata assai prima che questa si accorgesse delle sue lubriche intenzioni. Ella è osservata, sorvegliata, concupita: non è altro che un pezzo di carne da cui si deve trarre tutto l’appagamento possibile. Il «primo contatto» avviene nel corso dell’interrogatorio a cui Scarpia sottopone Tosca a Sant’Andrea della Valle: la condotta dello scellerato ufficiale giudiziario ricorda quella di un predatore che, attraverso piccole sortite, assaggia le prede per verificarne il grado di resistenza. L’atto dell’afferrare si consuma nel secondo atto, a Palazzo Farnese. Sciarrone e Spoletta sono i denti che introducono Tosca nell’appartamento di Scarpia, ovvero nelle sue fauci. L’ultimo passaggio è il cammino della preda attraverso il corpo – nel nostro caso, le umiliazioni fisiche e morali a cui Tosca è sottoposta. Il salvacondotto che, in segreto, dovrebbe porla in salvo insieme all’amato, è l’evacuazione di ciò che resta della preda, dopo che tutto di lei è stato consumato.

19  Ivi, p. 252.

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Se queste osservazioni colgono nel segno, dobbiamo concludere che il melodramma di Puccini è un’assorta meditazione sul potere e sugli organi che ne consentono il funzionamento; e anche, come subito vedremo, sul modo di resistergli.

5. Coscienza o sopravvivenza? L’atto secondo pone una grande questione morale: se si possa o no negoziare con criminali della risma di Scarpia. Nell’opera la risposta è negativa. Ma perché è negativa? Per alcuni Tosca avrebbe scelto il male minore se si fosse concessa alla libidine di Scarpia, perché non vi è nulla che meriti il sacrificio di un uomo e non vi è alcuna morale (neppure sessuale) che possa essere opposta all’immoralismo dei carnefici. Ecco, allora, il cuore della domanda: è giusto che Cavarossi sopravviva perché la perversione di Scarpia diventi oggetto di negoziato? Albert Camus nel saggio L’uomo in rivolta si domanda se l’uomo sia coscienza o sopravvivenza, se non sia spesso crimine «l’amicizia per il crimine», se una società non sia distrutta quando «il ricatto, la propaganda, la tortura, la spingono ad una complicità forzata e rinnega la coscienza per sopravvivere». Scrive Camus: «Colui che uccide o tortura sa che soltanto un’ombra può macchiare la sua vittoria: sa di non potersi sentire innocente; perciò gli occorre colpevolizzare la sua vittima… distruggere l’idea d’innocenza nell’innocente stesso»20. È esattamente ciò che fa Scarpia: egli riversa il suo senso di colpa su Tosca e fa di tutto per trasformarla da vittima nel carnefice di Cavaradossi. «No… mostro! / Lo strazi… l’uccidi!»

20  A. Camus, L’uomo in rivolta, cit. in A. Cavallari, Vicino & lontano, Garzanti, Milano 1981, p. 296.

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grida a Scarpia quando questi le chiede di rivelargli dove si è nascosto Angelotti. La replica dell’aguzzino – «Lo strazia quel vostro / silenzio assai più» – cerca di ribaltare i ruoli e di scaricare su Tosca le responsabilità delle torture da lui inflitte al prigioniero che langue nella stanza accanto. Tosca, però, non cade nella trappola e tra la sopravvivenza e la coscienza sceglie quest’ultima. Il pugnale conficcato nel petto di Scarpia e il suicidio tolgono un po’ di fango dal volto del mondo perché sono una aperta denuncia del male. È vero, alla fine Scarpia, da autentico diábolos quale egli è, riesce a dividere gli amanti. Ma anche qui bisogna intendersi: chi è che davvero vince? Diamo un’ultima volta la parola ad Albert Camus: Ho incontrato nella storia […] molti vincitori il cui volto mi appariva ripugnante. Perché vi leggevo l’odio e la solitudine. Perché non erano niente se non erano vincitori e per diventarlo dovevano ammazzare e sottomettere. Ma esiste un’altra razza di uomini che ci aiuta a respirare, che ha sempre posto la propria esistenza e libertà solo nella libertà e nella felicità di tutti, che trova quindi fin nelle sconfitte le ragioni per vivere ed amare. Questi, anche se vinti, non saranno mai soli.21

21  A. Camus, 19 luglio 1936: il dovere della libertà, in Id., Mi rivolto dunque siamo. Scritti politici, a cura di V. Giacopini, tr. it. di G. Lagomarsino, Elèuthera, Milano 2008, p. 107.

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L’eterna fragranza dei fiori La Bohème di G. Puccini

1. «Ébes ánthea arpálea» Prima di avventurarci sotto i «cieli bigi» in cui fumano «i mille comignoli di Parigi» e seguire dappresso i «castelli, le chimere e i sogni in aria» dei bohémiens pucciniani, lasciamoci solo per un momento riscaldare dagli immortali raggi della Grecia classica, la quale soprattutto nella tragedia e nella poesia lirica ha colto una volta per tutte la gloria e la maledizione dell’esistere, la gioia che si prova dinanzi al fastoso banchetto della vita e insieme l’alito gelido dell’abisso che, quel banchetto, ammorba e corrompe. A guisa di preludio orchestrale vorremmo iniziare la nostra lettura della Bohème con alcuni versi del poeta lirico Mimnermo, nei quali ci pare sia custodito il dáimon dell’opera pucciniana; renderemo poi ragione di questa scelta. I versi, nella magistrale traduzione di Salvatore Quasimodo, sono i seguenti: Quale vita, che dolcezza senza Afrodite d’oro? Meglio morire quando non avrò più cari gli amori segreti e il letto e le dolcissime offerte, che di giovinezza sono i fiori effimeri [ébes ánthea arpálea].1 1  Mimnermo, E le dolcissime offerte, in Aa. Vv., Lirici greci, tr. it. di S. Quasimodo, Mondadori, Milano 1996, p. 49.

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2. «Quelle cose che han nome poesia» Molte opere liriche resistono ben salde nell’immaginario collettivo anche grazie a un oggetto che funge da collettore, per così dire, delle passioni che in esse si agitano. Solo per fare qualche esempio, potremmo ricordare la «spilla» perduta da Barbarina nelle Nozze di Figaro (emblema delle folli giornate che vivono gli amanti di ogni tempo e di ogni luogo); la «lista» di Don Giovanni (specie sensibile della sua bulimia sessuale); il fazzoletto nell’Otello (summa di tutte le gelosie d’amore); i «calici», a ben vedere non poi così «lieti», nella Traviata (simboli della fuggevole felicità); la «pira» nel Trovatore e l’ascia con cui fu assassinato Agamennone nell’Elektra (entrambe transustanziazioni dell’odio e della vendetta); e ancora il flauto nella Zauberflöte, l’anello nell’eponimo Ring des Nibelungen, la rosa d’argento nel Rosenkavalier. Mai, però, come nella Bohème gli oggetti acquistano la nobiltà di veri e propri protagonisti. La Bohème è uno sfarfallio di oggetti i quali, grazie alla musica di Puccini, deflagrano in colori, olezzi, lezzi e suoni. In un elenco meramente cursorio ricordiamo: bottiglie di Bordò, di Sciampagna e di cordiale; arance, marroni, ninnoli, caramelle, crostate, panna montata, fringuelli, passeri, caffè, prugne di Tours, i giocattoli di Parpignol (trombette e cavallini, soldatini e frustini), grembiuli, cuffiette, candele, calamai, coupé, pariglie, livree, scarpette, zimarre, lampade a spirito, grammatiche runiche, manicotti, mantiglie, argent de poche. Oggetti, li abbiamo chiamati, ma forse la definizione migliore è quella proposta da Mimì: «cose che han nome poesia». Solo l’occhio del poeta, simile a quello di un abile detective, riesce a scorgere le impronte lasciate dagli dèi sugli oggetti della nostra vita quotidiana (il pensiero corre al poema La camera da letto di Attilio Bertolucci). Destinati, prima o poi, a essere sostituiti qualora il prolungato utilizzo li renda inservibili, gli oggetti

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condividono con i loro proprietari una data di scadenza. Eppure essi in qualche modo “sono”, rivelano i gusti, gli umori, l’età (non necessariamente anagrafica) di chi li ha acquistati; testimoniano il passaggio su questa Terra di una vita, o meglio l’irrevocabilità di ciascuna vita, il suo essere-stato che, in quanto tale, non può non essere-stato, e soprattutto attestano il mistero della nostra quotidianità, di un fiore ricevuto in dono, di una cartolina spedita da un amico, di un messaggio d’auguri lasciato su una segreteria telefonica: il mistero, insomma, delle cose familiari e benevole che ci accompagnano dalla nascita fino alla morte. Il cosiddetto “realismo” della Bohème, così distante dal coevo “verismo” (che ha nei Turiddu e nei Canio i suoi smaglianti e fatui campioni), è, dunque, l’attenzione grazie alla quale il poeta coglie la continuità oltre la data di scadenza, ponendosi al di là del principio di contraddizione.

3. La cuffietta e la zimarra Tra le molteplici «cose che han nome poesia» tre, in particolare, per Illica e Giacosa, gli autori del libretto (autentico prodigio di stringatezza e di equilibrio tra leggerezza e dolore), possiedono un surplus di poesia: la cuffietta rosa acquistata da Rodolfo per la sua innamorata, la zimarra di Colline e i fiori di seta creati da Mimì. Soffermiamoci per il momento sui primi due. Sia la cuffietta sia la zimarra assolvono la funzione di rendere percepibile il passare del Tempo, il grande deus absconditus che governa le sorti di tutti i bohémiens. Di fondamentale importanza è l’occasione in cui i due oggetti sono acquistati. Siamo alla vigilia di Natale; la piazzetta antistante al Caffè Momus è affollata di venditori ambulanti che offrono a squarciagola la loro merce, da monelli che ruzzano per le strade e che seguono al passo la Ritirata militare, e da una calca «di studenti, sartine,

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borghesi e popolo». Il clima è sereno e spensierato, come si conviene nell’imminenza della festa più importante dell’anno. Tutto ciò che con ineccepibile sapienza drammaturgica era stato introdotto nel corso del Primo atto – la vita scapigliata dei quattro amici; la loro capacità di vivere come re nonostante le ristrettezze economiche; i tiri burloni ai danni di Benoît, il maturo padrone di casa che si atteggia a giovanotto; gli amori di Rodolfo e di Marcello – raggiunge il suo zenit nel Secondo atto, autentica ipostasi della pienezza del tempo, dello splendore della giovinezza e degli incanti che la vita può offrire. La cuffietta e la zimarra, comprati in un contesto di pura joie de vivre, diventano, quasi per metonimia, questa stessa joie de vivre. Ma ombre inquietanti si allungano. Sia pure con grande sprezzatura, il Secondo atto stipa tra i merletti che adornano la cuffia e le capaci tasche della zimarra un autentico arsenale a cui basta una scintilla per esplodere; cosa che puntualmente avviene nel Terzo e soprattutto nel Quarto atto. A dare fuoco alle polveri provvede Mimì quando, presso la Barrière d’Enfer, dice a Rodolfo di consegnare al portiere, avvolti in un grembiale, il suo cerchietto d’oro e il suo libro di preghiere. Sotto il guanciale, aggiunge la ragazza, è riposta la sua cuffietta: se vuole, egli potrà «serbarla a ricordo d’amor». La cuffia ritorna, per l’ultima volta, alla fine del Quarto atto: Rodolfo la estrae dal panciotto, dove la tiene custodita, e la porge a Mimì, ormai prossima alla morte. Pochi istanti prima Musetta aveva consegnato i suoi orecchini a Marcello perché questi li portasse al Monte di Pietà e acquistasse, con il ricavato, un cordiale e un manicotto, a lungo vagheggiato da Mimì; Colline aveva fatto la stessa cosa con il suo pastrano. Eppure, per quanto generoso esso sia, il gesto di Musetta è irriducibilmente inferiore agli occhi del pubblico di quello di Colline, ed è tale perché i suoi orecchini, a differenza della zimarra, non sono stati acquistati nel festoso bazar del Secondo atto e,

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quindi, sono privi del suo incanto: in una parola, non hanno acquistato lo statuto di simbolo. Con la vendita del pastrano è abbattuto l’ultimo monumento che ancora permetteva agli amici almeno di ricordare l’amore perduto (e, sia pure in forma difettiva, l’amore ri-­cordato – cioè, come vuole l’etimologia, ricondotto, riconsegnato al cuore – è, nel cuore, anche salvato). Invece, quando si chiude il sipario, abbiamo la dolente sensazione che l’amore nella Bohème non sia stato perduto, bensì guastato.

4. Fiori senza profumo Più ancora che nella cuffia e nella zimarra, la cifra poetica del capolavoro pucciniano è racchiusa nei fiori di seta realizzati da Mimì con le sue delicate e abili mani di sartina. Di nuovo riveste una grande importanza il contesto in cui essi fanno la loro prima comparsa. Siamo al Primo atto; Rodolfo e la grisette, chini sul pavimento, stanno cercando la chiave. Nel buio le loro mani si incontrano: sulle note dell’Aria Che gelida manina inizia una delle più suggestive scene di seduzione di sempre. Il giovane si presenta: è un poeta, sbarca il lunario – quando lo sbarca – scrivendo sul Castoro e «in povertà […] sciala da gran signore / rime ed inni d’amore». Poi è la volta di Mimì; conviene cedere a lei stessa la parola: La storia mia / è breve. / A tela o a seta / ricamo in casa e fuori… / Son tranquilla e lieta / ed è mio svago far gigli e rose. / Mi piacciono quelle cose / che han sì dolce malia, / che parlano di amore, di primavere, / che parlano di sogni e di chimere, / quelle cose che han nome poesia. / […] quando viene lo sgelo / il primo sole è mio, / il primo bacio dell’aprile è mio! / Germoglia in un vaso una rosa… / Foglia a foglia la spio! / Così gentile / il profumo d’un fior! / Ma […] i fior ch’io faccio, ahimè, non hanno odore!

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L’immagine del fiore è ripresa per altre due volte nel Terzo atto, quando Rodolfo paragona Mimì a un fiore di serra («Mimì di serra è fiore. / Povertà l’ha sfiorita; / per richiamarla in vita / non basta amor!») e quando i due innamorati convengono di lasciarsi «alla stagion dei fior». Il tópos letterario del fiore quale simbolo della transeunte giovinezza è ripreso anche nella Bohème, ma è privato di quelle connotazioni positive – quali la delicatezza, l’aroma, il colore, la bellezza – che comunque conserva nonostante il suo breve ciclo vitale. Gli unici fiori veri cui si fa cenno sono una rosa che germoglia in un vaso e un fiore di serra; dunque, fiori costretti a vivere in ambienti artificiali. Il vaso e la serra sono per i fiori ciò che la Barrière d’Enfer è per gli uomini: metafore visive che evocano un Destino o meglio una Moira che costringe ogni essere a restare dentro la parte (questo significa in greco la parola móira) che gli è stata assegnata. La gioia, ammesso che esista, è comunque inattingibile: ad aprile la primavera è in pieno rigoglio, ma quella che fa germogliare la rosa nel vaso e il fiore nella serra ne è soltanto la grottesca parodia; oltre la Barriera la «strada d’Orléans […] si perde lontana fra le alte case e la nebbia», ma le inferriate della porta doganale impediscono l’accesso ad essa. All’indifferenza sfingea della Natura si contrappone l’arte che, della natura, è mímesis, non “imitazione”, bensì vera e propria “ri-creazione” di archetipi (e tali sono gli ánthea di Mimnermo e i fiori di Mimì). Ma l’arte può contrastare l’informe, l’inarticolato, l’«illetterata Natura», come la chiama Thomas Mann2? Leggiamo con attenzione il libretto. L’anima del poeta, canta Rodolfo, è sì «milionaria», ma «di sogni, di chimere e di castelli in aria»; Mimì realizza mirabili fiori di seta che, però, non

2 Cfr. Th. Mann, Doctor Faustus, tr. it. di E. Pocar, Mondadori, Milano 1995, p. 35.

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hanno odore. Essi, insieme con Marcello (pittore), Schaunard (musicista) e Colline (filosofo) – tutti i protagonisti, si noti, son artisti – ignorano che «la primavera è la più atroce delle stagioni», come sentenzia sempre Mann nel Tonio Kröger3, e che «aprile è il mese più crudele», gli fa eco Th.S. Eliot nel poemetto La terra desolata4. A primavera i poeti non possono scrivere versi, né i musicisti comporre musica, né i pittori dipingere, né i filosofi filosofeggiare perché li sovrasta la Vita, che proprio nella stagione primaverile si risveglia in tutta la sua vigorosa demonicità. La Vita dimostra, così, di essere irriducibilmente più grande e fantasiosa dell’arte, la quale – direbbero molti personaggi manniani – non è affatto una vocazione, bensì una maledizione. Per quanto ci si sforzi di comprenderla e perfino, a volte, di superarla, la Vita, insieme al suo sosia notturno che è la Morte, darà sempre scacco matto all’artista, il cui destino è la solitudine. Questo assunto trova un mirabile paradigma nella chiusa dell’opera. Si rileggano le indicazioni sceniche che suggellano il libretto: [Rodolfo] si getta sul corpo esanime di Mimì. […] Schaunard si abbandona accasciato su di una sedia a sinistra della scena. Colline va ai piedi del letto, rimanendo atterrito per la rapidità della catastrofe. Marcello singhiozza, volgendo le spalle al proscenio.

Sulla scena, dunque, i quattro amici sono disposti in modo che non vi sia alcun contatto fisico tra loro: quando «cala lentamente il sipario» li lasciamo prigionieri di una infrangibile solitudine; ai loro piedi dobbiamo immaginare i fiori di Mimnermo ormai ridotti in polvere. 3  Th. Mann, Tonio Kröger, tr. it. di E. Castellani, Mondadori, Milano 1987, p. 235. 4  Th.S. Eliot, La terra desolata, tr. it. di A. Serpieri, Rizzoli, Milano 1985, p. 75.

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5. Le temps retrouvé? L’arte non salva: questa sembra essere la sconsolata gnóme della Bohème. Le più nobili espressioni dello spirito umano, quali la poesia, la pittura e la musica, di cui Rodolfo, Marcello e Schaunard sono le rispettive allegorie, non possono sanare la ferita della morte che, come quella dell’eroe greco Filottete, continua ad appestare l’aria; persino il filosofo, vale a dire colui che più di chiunque altro dovrebbe essere abituato a meditare sulla morte, tace «atterrito». Ma è davvero questa la conclusione a cui dobbiamo giungere? A un’epifania del niente più radicale? Oppure la vera arte è figlia dell’oscurità e non della luce? Mimì muore: sono appena due parole che però dicono tutto; due parole assolutamente apoetiche: ogni poíesis, ogni progetto, ogni speranza è risucchiata in esse. Eppure, a quanti si sono commossi ascoltando la sua storia, a quanti insieme con lei hanno sentito e gustato l’incanto delle «cose che han nome poesia», a costoro Mimì tornerà alla memoria qualora capiterà di vedere per caso un fiore di seta o una rosa che sboccia in un vaso. A essere suscitato sarà, scrive Proust ne Il tempo ritrovato, un ricordo che, proprio perché ridestato in modo involontario, non getta «nessun ponte tra sé e il momento presente»; al contrario, conservando le sue distanze, «esso di colpo ci fa respirare aria nuova, – nuova proprio perché è un’aria che si è già respirata in passato – quell’aria più pura che invano i poeti hanno tentato di far regnare in Paradiso, e che non potrebbe darci questa sensazione profonda di rinnovellamento se non fosse già stata respirata, perché i veri paradisi sono i paradisi che abbiamo perduti»5.

5  M. Proust, Il tempo ritrovato, in Id., Alla ricerca del tempo perduto, tr. it. di G. Caproni, Gruppo Editoriale L’Espresso (su licenza Einaudi), Roma 2005, p. 947.

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Così, un giorno potrebbe accadere che un fiore di stoffa o una rosa in un vaso appena sfiorata con lo sguardo ci rivolga imperiosamente queste parole: «Coglimi al volo, se ne sei capace, e studiati di sciogliere l’enigma di felicità che ti propongo»6. E forse ci ricorderemo di Mimì, la quale ritornerà a noi in una dimensione temporale abolita che sarà «reale senza essere attuale, ideale senza essere astratta»7. Ma conviene dare la parola all’Autore della Recherche: «Un attimo affrancato dall’ordine temporale ha ricreato in noi, per percepirlo, l’uomo affrancato dall’ordine temporale. E che costui confidi nella propria gioia è comprensibile, anche se il semplice sapore di una madeleine» – o, nel nostro caso, la vista di un fiore di seta o di una rosa nel suo vaso – «non sembri logicamente contenere i motivi di tale gioia; come è comprensibile che la parola “morte” non abbia più senso per lui: situato fuori del tempo, che mai dovrebbe temere dall’avvenire?»8. Questo segreto, oscuramente intuito da ciascuno di noi, resterebbe l’«eterno segreto di ognuno» se non ci fosse l’arte, grazie alla quale, «anziché vedere un solo mondo, il nostro, noi lo vediamo moltiplicarsi: e quanti più sono gli artisti originali, tanti più sono i mondi a nostra disposizione, diversi gli uni dagli altri più ancora dei mondi roteanti all’infinito»9. La locuzione «cose che han nome poesia» si arricchisce ora di inaspettate suggestioni: Puccini con la sua musica è riuscito a restituire ai segni che quotidianamente ci circondano – un fiore o un frusto capo d’abbigliamento – «il loro significato più profondo che l’abitudine aveva fatto loro perdere per [noi]».

6  Ivi, p. 943. 7  Ivi, p. 949. 8  Ibidem. 9  Ivi, p. 975.

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Le domande, tuttavia, non si placano. Non possiamo fare finta di non vedere una figura che, mentre parliamo, scuote la testa: è Samuel Beckett, uno dei pochi ad aver raggiunto i gangli nervosi della Recherche, ad averne esplorato i più segreti angiporti. In un formidabile saggio10, l’autore di Aspettando Godot – testo che probabilmente non avrebbe scritto se non avesse compreso così a fondo il vero spirito dell’incommensurabile romanzo proustiano – smaschera il nichilismo, il cinismo e il disincanto che ne tramano le pagine, mostrando come gli esseri umani siano separati gli uni dagli altri da un’irredimibile incomunicabilità. Beckett scorge nelle pagine di Proust l’annuncio di un’apocalisse che, da lì a breve, avrebbe dissodato l’Europa e il mondo: la grandiosa scena, alla fine del Tempo ritrovato, del cosiddetto «Ballo di Teste», la matinée presso i Guermantes, è una solfurea notte di Valpurga popolata da spettri e da lemuri, un carnevale macabro e beffardo. Per Beckett la Recherche dice tutto, ma non insegna nulla: il solo modo per sopravvivere consiste non nel ricordare, bensì nel dimenticare (è noto come il tema dell’oblio sia al centro della poetica del grande scrittore irlandese). Che ne è, allora, dei campanili di Martinville, del mare di Balbec, della «piccola frase» della sonata Vinteuil, dei biancospini di Combray, del bacio alla madre prima di andare a dormire? Che ne è di Mimì, dei suoi fiori di seta, della sua cuffietta rosa e dell’allegra brigata di amici seduti ai tavoli del Caffè Momus? Tutto sopravvive soltanto nei ricordi, che però, sentenzia Proust, sono «il rimpianto di un attimo». Ma la capacità di raccontarlo così bene, quest’attimo, attraverso la scrittura o la musica, è già quasi una promessa di immortalità.

10  Cfr. S. Beckett, Proust, a cura di P. Pagliano, SE, Milano 2004.

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Trilogia mediterranea Il trovatore – Otello – Norma

1. Preludio Il titolo della 52° edizione dello Sferisterio Opera Festival è Mediterraneo, un titolo che per la direzione artistica bene compendia l’argomentum delle tre opere in cartellone: Il trovatore, Otello e Norma. Non nascondiamo come questo titolo abbia costituito per noi una sfida interpretativa, giacché se qualcuno ci avesse domandato di distillare in una sola parola la Stimmung comune ai tre melodrammi citati, di sicuro non avremmo proposto Mediterraneo; ma come dicevano gli antichi, nelle cose che riguardano gli dèi non domandare troppo1. Così, mettendo in pratica l’aurea regola vichiana, quella cioè che prescrive di trasformare le avversità in opportunità, ci siamo messi a ponzare su quali fossero i sentieri segreti che collegano il Mediterraneo al Trovatore, ad Otello e a Norma, e alla fine abbiamo dovuto riconoscere che il titolo selezionato era tutt’altro che peregrino. Di seguito proveremo a illustrare i passaggi concettuali della nostra riflessione, consapevoli del fatto che 1  Cfr. Eschilo, Le supplici, v. 1062.

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la lettura proposta potrebbe rivelarsi lontana da quelle che erano le intenzioni della direzione artistica. Ma siamo altresì persuasi che questa eventualità, lungi dal costituire un limite, saprà aprire un Auseinandersetzung, un proficuo “dibattimento con l’altro” senza il quale non ci può essere alcun autentico studio intorno a ciò che di bello e di grande l’ingegno umano ha prodotto. La tesi che sosterremo è icasticamente espressa dalla profezia fatta da Norma nella Scena IV dell’Atto I: Io nei volumi arcani leggo del cielo, / in pagine di morte / della superba Roma è scritto il nome. / Ella un giorno morrà, / ma non per voi. / Morrà pei vizi suoi, / qual consunta morrà.

Ci sforzeremo di dare una lettura quanto più possibile “attuale” di questi versi, pur sapendo che non ha senso alcuno parlare di attualità con riferimento ai classici (e tali sono Il trovatore, Otello e Norma), poiché questi, al contrario, sono quanto di più in-attuale ci sia: i classici, infatti, sempre si oppongono all’ora che stiamo vivendo, a ciò che attualmente è di moda e sempre recano in sé un timbro agonico, di lotta, di combattimento, di contra-dizione2.

2. Pólis greca e civitas romana Interrogata da Oroveso e dai suoi guerrieri su quale sia il volere del dio Irmansul, Norma profetizza la caduta di Roma, la quale avverrà per implosione: l’Urbe non sarà sopraffatta dalle armi di un nemico più potente («delle sicambri scuri / sono i pili romani ancor più forti»), bensì dai suoi stessi vizi.

2  Cfr. il saggio di M. Cacciari, Brevi inattuali sullo studio dei classici, in I. Dionigi (a cura di), Di fronte ai classici, Rizzoli, Milano 2003, pp. 21-29.

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Nel passo sopra riportato la parola “Roma” può essere intesa come una metonimia (pars pro toto) per indicare il concetto di civitas romana, la quale proprio nel Mediterraneo ebbe il suo centro irraggiante. In che cosa consiste il concetto di civitas romana? Mentre la pólis greca ha un forte radicamento nel génos, nell’appartenenza a una stirpe ben determinata per lingua e tradizioni che ha il proprio éthos, la propria “dimora” in un territorio circoscritto; la civitas romana, al contrario, è il prodotto di più soggetti che decidono di mettersi insieme a prescindere dalla loro determinatezza etnica e religiosa. Illuminante è la leggenda fondativa di Roma: l’Urbe nasce da persone che erano state bandite da altre città ed è per questo che, secondo i miti, il primo tempio costruito fu quello del dio Asylum. Tutti, infatti, potevano trovare asilo in Roma, ad un’unica condizione, però: che i molti rispettassero la legge comune, il patto originario. Da qui una conseguenza di capitale importanza: per sua stessa natura la civitas è destinata a espandersi sempre più fino a trasformare l’orbis in una sola urbs, fino a raggiungere, diremmo oggi, una compiuta globalizzazione. Pertanto, se il problema della pólis è quello di non espandersi troppo, di non superare i confini che il proprio génos ha fissato ed entro i quali si è poi sviluppato; quella della civitas, invece, è di oltre-passare i propri fines, scon-finare e quindi crescere senza alcuna intermissione (semper augescens). Da qui l’idea dell’imperium sine fine, nella duplice accezione di impero che, coincidente con l’intero orbe terraqueo e unificato sotto una medesima legge, mai conoscerà il tramonto; e di impero che non contempla al suo interno alcun finis, alcun con-fine. Ma da qui un’altra conseguenza decisiva per i destini dell’Occidente: oltrepassare i propri confini significa de-lirare, alla lettera “uscire fuori dal solco”, eccedere i propri limites e, dunque, non avere il senso della misura. Alla luce di queste osservazioni rileggiamo la profezia di Norma: «[Roma] un giorno morrà pei vizi suoi». Che altro è il vizio se

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non una trasgressione (trans-grèdi), se non un “superamento”, per eccesso o per difetto, della giusta misura, della medietà? Il delirare della civitas semper agescens è, dunque, un vizio che alla lunga avrà esiti letali: Roma «consunta morrà» semplicemente perché l’intero globo sarà Roma, o meglio territorio romano – ma in “territorio” risuona la stessa radice di terreo, “provo terrore” – dove a tutti i génoi sarà offerto asilo, per tutti annullarli entro l’inospitale e asfittico Uno.

3. Medius Terrae A questo punto occorre domandarsi: l’essenza del Mediterraneo è custodita più nella pólis greca o nella civitas romana? La stessa etimologia della parola – da medius (da cui il termine medietas) e terrae, dunque crocevia, luogo di passaggio dei Diversi – sembra suggerire la prima. Più che un uni-verso, che trova il suo emblema compiuto nell’imperium romano, il Mediterraneo è un pluri-verso o, secondo una felice immagine di Cacciari, un arcipelago, un insieme di isole ciascuna delle quali, pur possedendo una propria identità, forma con le altre un luogo che non è una realtà geografica, ma un principio spirituale, un lógos, un’idea che légein, “mette insieme”, “raccoglie”, “unisce” diverse interrogazioni3. Divise da una irriducibile xenía, le isole dell’arcipelago greco sono tuttavia accomunate dalla medesima koiné, dalla stessa lingua. Xénos, infatti, non è il bárbaros, il non-greco che parla un idíoma incomprensibile, bensì il cittadino di una pólis diversa dalla mia il quale, però, appartiene alla stessa koinonía ellenica. Xénos, dunque, è il diverso all’interno dell’analogo, è lo straniero che ci viene

3  Cfr. M. Cacciari, L’arcipelago, Adelphi, Milano 1997, pp. 13-35 e Id., Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 2003, pp. 11-28 e 161-170.

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incontro nella nostra quotidianità, è immagine riflettente noi stessi, è la xenía che ci abita. Da qui l’inquietudine inesausta a conoscere tutte le isole, a udire tutte le diverse e contra-stanti voci che in esse risuonano, sapendo che queste mai potranno essere con-fuse in una sola voce e che sempre chiederanno composizione delle loro ferme differenze. Non solo. L’idea di un con-fine reca in sé anche quella di una fine. Contro la pretesa dell’imperium di durare negli evi sine fine (su di esso, si potrebbe dire, non tramonta mai il sole, tanto è vasto), il Mediterraneo, al contrario, è lo spazio in cui il sole sorge e anche tramonta, come narra il suo mito fondativo, quello del rapimento di Europa (dall’accadico erépu, “tramonto”), la fanciulla fenicia che è strappata via dall’Asia (da éos, “aurora”). Europa, dunque, diviene tale solo quando, in ossequio all’omen contenuto nel suo nomen, si fa esule, straniera, tramontante: il suo percorso è dall’aurora al tramonto. Alla ricerca della sorella rapita si muoverà, sempre dall’Oriente, Cadmo, che fonderà Tebe e sposerà Armonia, colei che non annulla, ma compone i contrasti. Da questi richiami corsivi, possiamo definire il Mediterraneo come lo spazio che è capace di tollerare – nel significato latino del verbo tòllere, “portare in alto”, “assumere su di sé” – i valori in conflitto, senza annullarli nel tirannico e inospitale Uno dell’imperium sine fine.

4. Dialégein e diabállein Torniamo ora a Il trovatore, Otello e Norma. I tre melodrammi sono esplicativi di quanto fin qui detto. In ognuno di essi è bene rappresentato (ma anche superato, come vedremo) il fallimento della relazione vicinanza-distanza, l’unica che può aprire un autentico spazio di libertà, il quale non è altro che una terra di

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mezzo (Medius Terrae!) dove nessuno possiede, ma dove tutto è posto in comune. Vediamoli distintamente. Nel Trovatore il personaggio del Conte di Luna sembra ripercorrere il cammino di Edipo. Come il mitico re di Tebe, il quale sosteneva che «mai uno potrà essere equivalente a molti»4, quando egli stesso era simbolo compiuto dell’endiadi (da héndiá-dýo, l’uno si dà soltanto tramite il due: giova ricordare, infatti, che Edipo era sposo e insieme figlio di Giocasta; padre e insieme fratello di Antigone e Ismene, di Eteocle e Polinice; salvatore di Tebe e insieme míasma che infetta la città)5; così il Conte di Luna espunge da sé colui che, invece, lo completerebbe, vale a dire Manrico. Questi è suo fratello, suo adelphós, “nato-dallo-stesso-utero”, dunque distinto e insieme indivisibile dal Conte di Luna. Entrambi i fratelli intuiscono di appartenersi reciprocamente, ma entrambi hanno paura di scendere nelle profondità di questa intuizione perché ciascuno ha paura di se stesso, dello straniero che lo abita. Nelle due occasioni in cui si incontrano, essi in realtà mai dia-logano. Se lógos è “parola” ma prima di tutto “pensiero”, il diá-logos è confronto, anche aspro ma sempre disarmato, tra pensieri diversi. Nessun lógos, invece, nessun pensiero emerge dalle parole che i due si scambiano. L’unico istante in cui forse la storia avrebbe potuto prendere un corso diverso è quando, nella Scena V dell’Atto I, Manrico si toglie la celata che gli nascondeva il volto e pronuncia una battuta massimamente filosofica: «Ravvisami, Manrico io son!»: guarda il mio visus, il mio volto, un volto che puoi guardare solo se ti poni a sua guardia, solo se lo accogli, lo ospiti e lo proteggi come cosa preziosa alla vista; guarda il volto di tuo fratello. In questo istante Manrico e il Conte sono vicinissimi; sarebbe stato sufficiente che anche questi avesse assecondato l’intuizione di 4  Cfr. Sofocle, Edipo re, vv. 843-847. 5  Sull’endiadi edipica si rinvia all’ottimo saggio di U. Curi, Endiadi. Figure della duplicità, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 28-42.

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Manrico e i due si sarebbero senz’altro abbracciati, sarebbero di nuovo tornati i distinti-uniti. Ma la risposta del Conte è tranciante: «Insano temerario». Quale insania è mai quella di scorgere nell’hostis, nel nemico, anche l’ospite (come è noto, la parola hostis originariamente significava entrambi i concetti)6? Come è possibile che il mio nemico giurato sia anche mio fratello? Ancora una volta: come può uno equivalere a molti? Analoghe osservazioni si possono formulare anche per Otello. Qui, a differenza che nel Trovatore, i dialoghi tra i due protagonisti principali, Jago e il Moro, sono numerosi, ma solo in apparenza si tratta di dialoghi nell’accezione sopra richiamata. Il “dire” di Jago trova il suo cantus firmus nella confessione che egli fa a Roderigo all’inizio dell’opera: «Benché finga di amarlo, odio quel Moro…». Fondate sull’odio, quelle che egli rivolgerà a Otello saranno parole snaturate e tossiche, false e menzognere. La tragedia scespiriana è uno dei drammi più potenti che siano mai stati concepiti sulla mistificazione della parola: essa mostra come la manipolazione del linguaggio possa diventare una sorta di arsenico ingerito giorno dopo giorno (per usare un’icastica immagine impiegata da Victor Klemperer7) che aggredisce il vero significato delle parole e lo altera fino a corromperlo del tutto. La parola, così, anziché dia-légein, “riunire”, “raccogliere”, comporre i diversi, dia-bállein, li “separa”, li pone gli uni contro gli altri. Da dia-logica, insomma, la parola si fa dia-bolica, al punto che persino un oggetto comune come un fazzoletto può diventare un veleno disciolto nell’acqua che alla lunga intossica fino a procurare la morte. Non solo. Anche Jago come il Conte di Luna è incapace di scorgere in Otello il completamento della propria identità. Azzardando una let6  La natura “perturbante” – unheimlich – dello straniero è stata analizzata da U. Curi in Straniero, Raffaello Cortina, Milano 2010, pp. 21-55. 7  Cfr. V. Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich, tr. it. di P. Buscaglione, Giuntina, Firenze 1999.

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tura allegorica, si potrebbe sostenere che l’Occidente – di cui è paradigma Jago – è incapace di riconoscersi nell’Oriente, di ricordare che è dall’Asia che Europa proviene. Contraddizione tanto più macroscopica se solo si considera che la vicenda si svolge a Cipro, la terra che diede i natali ad Afrodite, dea doppia, celeste (perché figlia di Zeus e Dione) e terrestre (secondo un’altra versione del mito essa sarebbe nata dalla schiuma – aphrós – del mare fecondata dai genitali di Urano, che Chronos aveva tagliato e gettato giù dal cielo), che suscita l’istinto naturale di fecondazione e di generazione negli esseri di sesso sia maschile sia femminile. Anche in Norma il tema principale è quello dell’incontro e dell’inevitabile scontro con l’altro, il quale finisce per diventare un vero e proprio alter-ego. Solo attraverso Pollione – il romano, l’hospis che è amico e nemico ad un tempo – la sacerdotessa druida impara a guardare dentro di sé e a prendere contezza degli abissi che la abitano. Anzi, doppiamente straniera diventerà Norma: straniera a se stessa, con la perdita della sua identità di madre, di sacerdotessa e di amante, e straniera alla sua comunità, dalla quale sarà condannata a morte per alto tradimento.

5. Uno equivale a molti Sulla scorta di quanto fin qui argomentato, possiamo concludere che Il trovatore, Otello e Norma sono tre icone mediterranee, perché del Mediterraneo colgono, sia pure in forma negativa, l’essenza – in forma negativa, giacché tutti i protagonisti principali soccombono proprio perché o non l’hanno riconosciuta o l’hanno tradita. Ma essendo tragedie, i personaggi, anche se soccombono, non sono tuttavia vinti. Le loro storie, infatti, acquistano lo statuto di simboli, e il simbolo astrae la condizione umana dalla sua realtà di fatto per considerarne solo il senso.

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Ciò che è accaduto, insomma, diventa exemplum di ciò che può accadere, e diventa tale perché attraverso il teatro può essere contemplato: è il passaggio dalla danza demonica di Dioniso, dal drómenon, dall’azione agìta di persona, al dráma, azione parimenti agìta ma astratta dal contesto dell’agire8. La nostra trilogia mediterranea, insomma, mostrando il fallimento del “lógos mediterraneo” in realtà lo conferma, facendoci ottenere la kátharsis, la purificazione. Dunque, come potrà il Mediterraneo e in particolare l’Europa, che tutto il Mediterraneo ha attraversato fino a prendere dimora in Occidente, non essere la terra dell’occasus, del tramonto? Come potrà non continuare, sine fine, non l’imperium, bensì la ricerca, l’interrogazione, il dia-légein, l’accoglienza dei distinti? Come potrà non essere nella fine il suo inizio, nel tramonto la sua alba? Solo così il Mediterraneo saprà farsi autentico spazio di libertà e saprà dirsi non “mio” o “tuo”, ma nostrum, comune a tutti perché a nessuno appartiene. Europa non morirà solo se la sua dimora rimarrà transitabile, solo se, anziché barricarsi dentro un sistema tecnico-economico, rimarrà éthos, “luogo” in cui è possibile stringere un foedus tra chi salva la propria libertà nel riconoscimento di quella dell’altro. È ciò che accade alla fine dell’opera belliniana: Pollione e Norma salgono insieme la pira: «Il tuo rogo, o Norma, è il mio! / Là più puro, là più santo / incomincia eterno amor». Non più il rogo dove brucia, solitaria, la madre della zingara Azucena e da cui si leveranno le Furie al luttuoso grido «Mi vendica, mi vendica!»; non più il 8  Cfr. N. Chiaromonte, La situazione drammatica, Bompiani, Milano 1960, pp. VII-XIII: «La magia del teatro non sta assolutamente nel creare l’illusione di un’azione reale, ma nell’atto quasi incredibile per cui l’uomo si strappa da ciò cui tiene con tutte le sue fibre e che sembra impegnarlo totalmente: il contesto della propria azione, col suo carico di passioni esclusive e con la brama di realizzazione visibile in cui sembra chiuso, e ne fa un oggetto di contemplazione. E questo è un atto […]. Non c’è teatro senza la coscienza della necessità di questo atto iniziale» (p. X).

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talamo di Otello, dove giace il corpo esanime di Desdemona, a cui troppo tardi si ricongiungerà il Moro; ma la pira di Norma («Il tuo rogo, o Norma, è il mio!»), lo spazio dove i diversi si ricongiungono in un «più puro, più santo […] amor». Non vi può essere, infatti, alcuna cura, alcuna attenzione per le differenze senza l’eros per il diá-logos. Albert Camus concludeva così il suo saggio L’esilio di Elena: «O pensiero meridiano, la guerra di Troia viene combattuta lontano dai campi di battaglia!»9. È infatti nelle cancellerie degli Stati, dove si aggira, trionfante ed ebbra di onnipotenza, l’insania di poter fare a meno della Grecia, «la nostra miglior patria»; è lungo i confini dell’Unione Europea, dove si ammassano schiere di disperati, che si combatte la guerra de-cisiva che ci farà scegliere per il dia-légein o il dia-bállein. Lo scritto di Camus si concludeva con una professione di fede che vorremmo condividere: «Sopra il mare scintillante ancora una volta si dissiperà la filosofia delle tenebre. […] Anche questa volta le terribili mura della città moderna cadranno, per darci, “anima serena come la calma dei mari”, la bellezza di Elena»10. I Greci pur di ricondurre in patria Elena – anch’ella, dunque, esule e straniera – e quindi, fuor di metafora, pur di conquistare la Bellezza, furono disposti a sacrifici enormi. Ma in che cosa consiste, poi, la «bellezza di Elena»? Ancora una volta soccorre l’etimologia della parola: Elena deriva da éleos, “pietà”, per cui Elena è “colei che prova pietà”. Dunque la bellezza, per la quale l’Europa ha un’autentica ossessione, è anche pietà, senza la quale l’Europa stessa, le sue città e i suoi abitanti non sarebbero.

9  A. Camus, L’esilio di Elena, in Id., Opere. Romanzi, racconti, saggi, a cura e con introduzione di R. Grenier, tr. it. di M. Vasta Dazzi, Bompiani, Milano 2000, p. 995. 10  Ibidem.

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Di Jago, di Dostoevskij e di altri demonî Otello di G. Verdi

1. Preludio in Germania «Quale gioco ironico fa la natura, se può produrre l’immagine della più sublime spiritualità là dove la spiritualità è scom­ parsa!»1, scrive Thomas Mann nella pagina che conclude il Doctor Faustus. Ecco perché i poeti ci sono così necessari: essi donano un terzo occhio che consente non solo di vedere cose di cui nemmeno si sospettava l’esistenza, ma anche di considerare quelle esistenti sotto una luce affatto diversa. Tramite la parola poetica – la quale, attesta Hölderlin, è il frammento di un discorso divino che il poeta scopre e rivela ai suoi simili, pagando per questo, come un novello Prometeo, un duro isolamento – ci potrebbe capitare di udire l’inaudito, che la de-formitas, cioè, sia invece Dei-formitas, che i cosiddetti “mostri” siano invece icona del Deus patibilis2. Il luogo comune secondo il quale “gli estremi si toccano”, pur nella sua grossolanità, possiede un indiscutibile fondo di vero, 1  Th. Mann, Doctor Faustus, cit., p. 593. 2  Cfr. R. Bodei, Le forme del bello, il Mulino, Bologna 1995, pp. 93-100.

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o almeno tale sembra a Mann che lo fa proprio in una celebre pagina del Doctor Faustus dalla quale vorremmo partire. Il compositore Adrian Leverkühn, il protagonista del romanzo, mentre si trova a Palestrina intento a porre in musica le scespiriane Pene d’amor perdute, riceve la visita del Diavolo, che tante volte egli aveva evocato nelle sue discussioni con gli amici, complici anche gli studi di teologia fatti ad Halle, la città natale di Händel. I due stringono questo patto: ad Adrian saranno concessi ventiquattro anni di potenza creativa, ma in cambio questi dovrà rinunciare all’amore. Gli anni passano. Alla totale aridità d’animo di Adrian fa da contrappeso una prodigiosa produzione musicale, il cui capodopera è l’Apocalipsis cum figuris ispirata al libro di san Giovanni e alle visioni di Ildegarda di Bingen. La partitura è interamente giocata sul più bizzarro dei paradossi: la dissonanza è usata per esprimere ciò che è nobile e puro; al male e al mondo infero, invece, sono riservate la tonalità e l’armonia (a dispetto dell’argomento, le parti liriche non di rado commuovono fino alle lacrime). La sabbia scorre inesorabile nella clessidra. Un bambino è la variabile imprevista che irrompe come una folgore nella vita di Adrian: è Nepomuk, il figlio della sorella, verso quale il compositore prova un tenerissimo amore. Il patto è infranto e il Diavolo si vendica colpendo il fanciullo con una mortale meningite cerebro-spinale. Adrian riversa la sua inconsolabile disperazione in quella che sarà la sua estrema partitura, la Lamentatio Doctoris Fausti, un monumentale oratorio per soli, coro e orchestra pensato come oscena caricatura della Nona sinfonia di Beethoven: se questa si conclude con l’Inno alla Gioia, la Lamentatio termina con l’Inno alla tristezza, un «brano orchestrale che sembra il lamento di Dio per la perdita del mondo, quasi un doloroso “non sono stato io a volerlo” del Creatore»3. Eppure la parte conclusi-

3  Th. Mann, Doctor Faustus, cit., p. 572.

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va dell’oratorio, se ascoltata con attenzione, rivela qualcosa di inaudito: il lamento di Adrian per la propria dannazione è a tal segno disperante da toccare la trascendenza della disperazione, la quale così si converte nel suo esatto opposto, nel «miracolo che va oltre la fede». Scrive Mann: Ascoltate questo finale, ascoltatelo con me: i gruppi di strumenti si ritirano l’uno dopo l’altro e quello che rimane è soltanto il sol sopra il rigo d’un violoncello, l’ultima parola, l’ultimo suono svanente che si spegne adagio nel pianissimo. Poi non c’è più nulla – silenzio e notte. Ma il suono che ancora vibra nel silenzio, quel suono svanito che soltanto l’anima ancora ascolta, ed era la fine della tristezza, ora non lo è più, muta di significato, è quasi un lume nella notte.4

Nell’Otello di Verdi anche la malvagità di Jago, se messa a confronto con la furia demoniaca con cui essa si scatena nel corso dell’opera (e della quale è paradigma la tempesta che apre l’azione drammatica) si smorza, alla fine, in un pianissimo: certo, l’obiettivo è stato raggiunto, Otello è stato distrutto, ma si può davvero sostenere che il male abbia vinto la partita? Quale irriducibile distanza separa il fortissimo, vera e propria apoteosi del male, con cui si conclude l’Atto III, dove Jago, «ritto e con gesto d’orrendo trionfo», schiacciando sotto i piedi il corpo inerte del Moro, esclama: «Ecco il Leon!», con la sua uscita di scena. Al termine dell’opera ogni nostro più elementare sentimento di giustizia resta frustrato: nessuna vendetta si abbatte su Jago. Ma anche da parte di quest’ultimo nessun gesto eclatante, nessuna affermazione – e siamo, giova ricordarlo, nel momento apicale del dramma – che possa reggere il confronto con i grandi assoli, primo fra tutti il tenebroso Confiteor dell’Atto III, che avevamo ascoltato in precedenza. Dopo aver risposto «No!» alla richiesta di Otello di discolparsi, Jago fugge. Ma che cos’è questa fuga?

4  Ivi, p. 573.

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Solo un patetico tentativo di mettere in salvo la propria vita, oppure essa nasconde un significato molto più profondo? E quel No opposto al Moro è davvero una negazione o è piuttosto un’ammissione di colpevolezza che apre, quasi fuori tempo massimo, un’inaspettata via di salvezza? Insomma: quella fuga e quella negazione non potrebbero essere, per riprendere le parole di Thomas Mann, «quasi un lume nella notte»?

2. Vite ironiche Il migliore identikit di Jago è fornito da lui stesso nel corso del colloquio che ha con Roderigo nella scena prima dell’Atto I: «bench’io finga di amarlo, odio quel Moro». Dunque la finzione è il «dimon» che, come egli afferma prima di pronunciare la sua blasfema preghiera, lo «trascina» e nel quale «crede». “Fingere” in greco si dice eironéuomai, da cui la parola eironeía, “ironia”. Quella di Jago è una vita ironica o, che è lo stesso, una vita diabolica. Cifra del demoniaco, infatti, è la menzogna, che è negazione della verità. Nel vangelo di Giovanni Gesù dice che non può credere alle sue parole colui che ha come padre il diábolos, il quale è “falso”, pseústes patér, “padre della menzogna” e anthropoktónos, “omicida”5. Chi nega la verità, chi la altera fino a contraffarla non tarderà ad annichilire la coscienza degli uomini. E una volta spenta la coscienza, tutto diventerà possibile, compreso l’omicidio: nell’Apocalisse Giovanni mostra come i falsi Messia (la bestia che sale dal mare) e i falsi profeti (la bestia che sale dalla terra) riescano a sedurre

5  Cfr. Gv 8,43-45.

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le genti «con parole d’orgoglio e con bestemmie» e a spingerle a perseguitare i giusti6. Dostoevskij è lo scrittore che più di qualunque altro ha investigato, con esiti artistici insuperabili, lo spirito della negazione, di cui ha delineato una vera e propria fenomenologia soprattutto nei Demonî. In questo libro incommensurabile, dove l’autore dimostra di aver già compreso, con impressionante anticipo sui tempi, quello che sarebbe divenuto il male del XX secolo, il padre di tutti i demonî è Stepàn Trofímovič Verchovenskij, un intellettuale ateo e liberale che predica in modo del tutto irresponsabile una concezione del mondo improntata a un astratto utopismo, piena, sì, di nobili tensioni, ma inficiata da un vago sentimentalismo. Come afferma nel corso della confessione resa sul letto di morte che è essa stessa un’estrema finzione, l’ultima clownerie di un uomo che ha svilito la propria esistenza a un gioco di maschere, egli non ha fatto altro che mentire, prima di tutto al figlio, quando gli diceva di aspettarlo con impazienza; poi alla protettrice, alla quale ha sempre tenuto nascosto l’amore che nutriva per lei per paura di venire cacciato e perdere così il suo generoso vitalizio; e infine ai suoi amici e conoscenti, davanti ai quali era solito attribuire la sua inattività di scrittore alla persecuzione politica che anni prima si era abbattuta su di lui e non alla sua pigrizia7. Sospette e ambigue sono le accuse che Stepàn Trofímovič rivolge a se stesso, così come moralmente sospetto è l’attacco di autodenigrazione di un altro indimenticabile personaggio dostoevskiano, Fëdor Pavlovič Karamazov, quando davanti al­ lo starec Zosima afferma: «Ho continuato a mentire, a mentire

6  Cfr. Ap 13,1-17. 7  Cfr. F. Dostoevskij, I demonî, tr. it. di A. Polledro, Einaudi, Torino 1994, pp. 635 s.

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sempre, proprio tutta la vita, ogni giorno, ogni momento: effettivamente io sono la menzogna stessa, il padre della menzo­ gna»8 (pseústes patér, appunto). La risposta dell’uomo di Dio, però, fa strame di ogni alibi: prima di tutto non mentire. […] Chi mente a se stesso […] arriva al punto di non poter più distinguere la verità […] e così comincia a non avere più stima né di se stesso né degli altri. Poi […] cessa anche di amare, e allora in mancanza dell’amore, per sentirsi occupato e per distrarsi si abbandona alle passioni e ai piaceri volgari, e per colpa dei suoi vizi diventa come una bestia; e tutto questo deriva dal continuo mentire, agli altri e a se stesso.9

Non è un caso, se è giusto il ragionamento di Zosima, che da Stepàn Trofímovič discendano i demonî che nel corso del romanzo si macchieranno delle più scellerate abiezioni: il figlio Pëtr Stapànovič e soprattutto Nikolàj Stavrogin, il principe dei demonî, il cui viso, scrive Dostoevskij, ha la medesima fissità della maschera, lo strumento che serve all’attore per fingere più parti. Se infatti il vero maestro è colui che convalida la sua autorità didattica, fondata esclusivamente sul dire, attraverso l’esempio, allora il vecchio Verchovenskij del vero maestro è soltanto la caricatura, la mala copia, l’abietta falsificazione. Se così stanno le cose, l’ironia che consuma come una tabe le vite di Jago e dei personaggi dostoevskiani di cui si è fatto cenno è, a sua volta, la corruzione della vera ironia, la quale, pur non facendo sconti a nessuno, si identifica con la vita dell’altro, alla quale si sente avvinta da una fraterna comunione, facendosi carico del suo dolore e smontandone l’egolatria.

8  F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, tr. it. di A. Villa, Einaudi, Torino 1993, p. 60. 9  Ibidem.

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3. Una dialettica antisocratica Ironica, nell’accezione dostoevskiana, è dunque la vita di Jago. Tutti i suoi dialoghi con il Moro hanno il proprio baricentro in un’ironia che è la negazione di quella socratica: se il filosofo ateniese utilizza l’ironia per convincere i suoi discepoli di non sapere, Jago, invece, si serve di essa per dimostrare a Otello che questi è da sempre persuaso dell’infedeltà di Desdemona. Jago è il sosia notturno di Socrate: le sue domande non perseguono alcuna ricerca della verità, ma tendono soltanto a far cadere nell’errore Otello. Esemplare a riguardo è la scena quinta dell’Atto II. Il veleno del dubbio, instillato nel corso del dialogo che i due si scambiano nella scena terza, sta facendo effetto: Otello «accasciato su d’un sedile» sta maledicendo Desdemona. Jago gli si avvicina e «bonariamente» (sic!) gli consiglia «di non pensarci più». Essendo, però, negatività assoluta, le parole di Jago affermano l’esatto opposto di quello che dicono: il loro sì cela un no, il loro no un sì. Così il tentativo di tranquillizzare il Moro, ne scatena più che mai l’inquietudine. La sua reazione è scomposta: «balzando» in piedi, Otello grida: «Tu?! Indietro! Fuggi! / M’hai legato alla croce! / Ahimè! Più orrendo d’ogni orrenda ingiuria / dell’ingiuria è il sospetto. / Nelle ore arcane della sua lussuria / […] m’agitava il petto / forse un presagio? […] / Nulla sapevo ancor, io non sentivo / sul suo corpo divin che m’innamora / e sui labbri mendaci / gli ardenti baci / di Cassio!». Assistiamo qui al capolavoro ironico di Jago: senza mai nominarlo, questi lascia che sia Otello a fare per primo il nome di Cassio quale probabile amante di sua moglie. Negando l’adulterio di Desdemona, Jago mette in moto una micidiale macchina del sospetto il cui funzionamento, però, sarà affidato allo stesso Otello, tanto che questi, alla fine, cadrà più come vittima di se stesso che del suo nemico.

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Il momento in cui si decide il destino del Moro è quando questi, soverchiato senza remissione alcuna dalla gelosia, supplica Jago dicendo: «La prova io voglio! Voglio / la certezza!». Ma nel momento in cui un amante pronuncia queste o simili parole ha già imboccato una strada senza ritorno, giacché ciò che egli ricerca non è la prova della fedeltà, bensì quella dell’infedeltà. Così quando Jago tira fuori la storia del fazzoletto, il gioco è fatto. Da prova dell’amore di Desdemona – nella scena precedente ella lo aveva porto a Otello perché se ne cingesse le tempie onde alleviare un terribile mal di capo, ma questi, con un gesto sprezzante, lo aveva gettato a terra – il fazzoletto diviene la prova schiacciante della sua colpevolezza. Ennesima e definitiva dimostrazione di come la dialettica ironica, decisamente antisocratica, di Jago trasformi tutto e tutti nel suo esatto opposto: Otello, da generale invitto e benvoluto dai commilitoni per il suo coraggio e la sua virtù, diviene un uomo paranoico e un assassino; Desdemona, da donna angelicata, diviene la più infida delle adultere; un fazzoletto, da prezioso pegno d’amore, diviene l’arma che condurrà entrambi alla rovina.

4. «Credo in un Dio crudel» Eccoci giunti, a questo punto, al cuore della questione: da dove nasce l’ironia di Jago? La risposta è contenuta in quella sorta di autobiografia intellettuale in sedicesimi che è il celeberrimo Credo10. Costruito sulla falsariga del simbolo niceno-­ 10  «Credo in un Dio crudel che m’ha creato / simile se che nell’ira io nomo. / Dalla viltà d’un germe o d’un atòmo / vile son nato. / Son scellerato / perché son uomo; / e sento il fango originario in me. / Sì! questa è la mia fé! / Credo con fermo cuor, siccome crede / la vedovella al tempio, / che il mal ch’io penso e che da /me procede, / per il mio destino adempio. / Credo che il giusto è un istrion beffardo, / e nel viso e nel cuor, / che tutto è in lui bugiardo: / lagrima,

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costantinopolitano – in entrambi i testi la professione di fede è ripetuta per quattro volte – la preghiera di Jago è da molti considerata una delle più sconvolgenti rappresentazioni del male sul palcoscenico operistico. Siamo però sicuri che le cose stiano davvero così? Che le parole di Jago suonino blasfeme soltanto perché invertono il segno algebrico di una delle più importanti preghiere del canone liturgico? Basta solo questo a qualificare come empio il Credo di Jago? Una sua lettura meno corsiva potrebbe rimettere tutto in discussione. Un’autobiografia intellettuale in sedicesimi, si diceva, quella di Jago. Essa, infatti, in pochi versi di rara potenza, ricapitola la parte teorica che innerva l’agire del nostro eroe. Tre sono gli assunti principali del pensiero di Jago: 1) l’uomo è stato creato da un Dio crudele, e come tale non può non partecipare della medesima crudeltà («Son scellerato / perché son uomo; / e sento il fango originario in me»); 2) il male che l’uomo compie è semplicemente la parte (la móira) che Dio ha assegnato all’uomo, per cui questi non può non compierlo («il mal ch’io penso e che da me procede, / per mio destino adempio»); 3) l’uomo è la vittima predestinata di un’ingiustizia metafisica che gioca con lui (il verbo impiegato da Jago è fortissimo) e che proprio con la morte subisce il suo estremo oltraggio («Credo l’uom gioco d’iniqua sorte / dal germe della culla / al verme dell’avel. / Vien dopo tanta irrision la Morte»). Queste semplici osservazioni dovrebbero bastare per riconoscere al Credo di Jago una solida struttura argomentativa, se non addirittura lo statuto di un vero e proprio testo filosofico. In altre parole: gli articoli di fede professati da Jago sono così ben strutturati nella loro formulazione che finiscono per tradire

bacio, sguardo, / sacrificio ed onor. / E credo l’uom gioco d’iniqua sorte / dal germe della culla / al verme dell’avel. / Vien dopo tanta irrision la Morte. / E poi? E poi? La Morte è il Nulla. / È vecchia fola il Ciel» (II, 2).

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una diuturna (e tormentata) indagine sulle grandi questioni che da secoli sono oggetto dell’inquisitio filosofica. Ancora, però, non abbiamo risposto alla domanda: da dove nasce l’ironia di Jago? Una risposta convincente si trova in un passo della leopardiana operetta morale Storia del genere umano, dove si legge: «s’ingannano […] coloro i quali stimano essere nata primariamente l’infelicità umana dall’iniquità e dalle cose commesse contro agli Dei; ma per lo contrario non d’altronde ebbe principio la malvagità degli uomini che dalle loro calamità»11. Siamo persuasi che il dolore che si abbatte sugli uomini sia causato dalle colpe da loro commesse? È esattamente l’opposto, sostiene Leopardi: è il dolore – del tutto immotivato e arbitrario – che precipita gli esseri umani nell’errore e quindi nella colpa. Se così stanno le cose, la preghiera di Jago risulta essere tutt’altro che blasfema. Anzi, essa è una preghiera purissima, che nasce da un autentico corpo a corpo con Dio, da una seria, implacabile ed escruciante riflessione sul problema del male e dell’infelicità. Certo, le conclusioni a cui giunge l’orante sono riprovevoli, ma consideriamo il nucleo incandescente di questa preghiera: da che altro è formato se non da un infandus dolor per la condizione umana; da una disperata «ira» (una delle passioni più nobili dell’uomo)12 rivolta contro un Dio per il quale, per restare in ambito scespiriano, «noi siamo […] quel che, per i monelli, sono le mosche: ci schiacci[a] per divertirsi»13; dalla furiosa attesa che Dio mostri finalmente un volto paterno?

11  G. Leopardi, Storia del genere umano, in Id., Operette morali, a cura di G. Ficara, Mondadori, Milano 1999, p. 39. 12  Cfr. il bel saggio di P. Campeggiani, Le ragioni dell’ira. Potere e riconoscimento nell’antica Grecia, Carocci, Roma 2013. 13  W. Shakespeare, Re Lear, tr. it. di G. Baldini, Rizzoli, Milano 1987, IV, 1, p. 185.

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Come Ivan Karamazov, anche Jago dinanzi a una creazione siffatta “restituisce il biglietto”14; come Ivan Karamazov, anche Jago è un malato di Dio: perverso, diabolico, abietto, sia pure, ma pur sempre un inguaribile malato di Dio. Un uomo, insomma, che sa bene quanto sia terribile cadere nelle mani del Dio vivente.

5. Quasi un lume nella notte Rileggiamo la pagina di Thomas Mann da cui siamo partiti: gli «strumenti si ritirano l’uno dopo l’altro e quello che rimane è soltanto il sol sopra il rigo d’un violoncello, l’ultima parola, l’ultimo suono svanente che si spegne adagio nel pianissimo. Poi non c’è più nulla – silenzio e notte. Ma il suono che ancora vibra nel silenzio […] ora […] muta di significato, è quasi un lume nella notte». Anche la fuga di Jago sembra precipitare nel silenzio e nella notte. Nel momento in cui pronuncia il suo «No!», caricatura dell’Amen, del Sì pronunciato da Cristo sulla croce, tutto si compie. Ma il No di Jago è pronunciato alla richiesta avanzata da Otello di discolparsi, dunque è un’implicita ammissione di colpevolezza. Il suo No, dunque, si converte paradossalmente in un Sì. Ma questo paradosso non è forse un riflesso di quel supremo paradosso per cui il No di Cristo, la sua kénosis, il suo annichilimento, il suo divenire upér emón amartían15 è il Sì di Dio alla sua creazione, per quanto sfigurata essa sia dal peccato? Nel mysterium iniquitatis in cui sprofonda Jago non vediamo rilucere anche il mysterium salutis, un «lume nella notte»? Jago va alla deriva: quale forza lo trascina? Una forza 14  Cfr. F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., pp. 326-329. 15  Cfr. 2Cor 5,21.

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cieca o un Amore a cui nessuno può sfuggire, il solo a sapere, per riprendere la straziante preghiera di Baudelaire, perché esistono i mostri, come sono divenuti tali e come avrebbero potuto non farsi tali16? In un passo indimenticabile dei Demonî, Kirillov, il santo senza grazia, l’ateo che per tutta la vita è stato tormentato da Dio, domanda a Šatov se crede in Dio. Quest’ultimo, visibilmente scosso dalla domanda, in un primo momento la aggira, balbettando di credere nella Russia e nella sua ortodossia. Ma l’interlocutore non gli dà tregua, lo mette all’angolo e lo incalza: «Ma in Dio? In Dio?». Proviamo anche noi a chiedere la stessa cosa a Jago. La sua risposta ci dovrebbe essere ormai nota: «Credo in un Dio crudel che m’ha creato […]. Credo con fermo cuor […] /che il mal ch’io penso e che da me procede, / per il mio destino adempio. […] E credo l’uom gioco d’iniqua sorte». Ma non fermiamoci a questa risposta, insistiamo, e come Kirillov, fissandolo negli occhi, domandiamogli se crede in Dio, non nella sua oscena caricatura. Forse dalle sue labbra potremmo udire la stessa risposta di Šatov: «Io… Io crederò in Dio»17.

16  Cfr. Ch. Baudelaire, La Signorina Bisturi, in Id., Lo spleen di Parigi, a cura di G. Montesano, Mondadori, Milano 1992, pp. 185-187. 17  F. Dostoevskij, I demonî, cit., p. 236.

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Sciogliere o sopportare l’enigma? Turandot di G. Puccini

1. «L’enigma che risuona dalle mascelle feroci della vergine» Come è noto, al Finale di Turandot, lasciato incompiuto da Puccini, posero mano i compositori Franco Alfano e Luciano Berio. Al di là di qualsiasi giudizio estetico che ciascuno è libero di pronunciare, si deve tuttavia riconoscere che la versione di Berio è, per così dire, di gran lunga più poetica di quella proposta da Alfano. Se quest’ultimo, infatti, sia pure con esiti assai pregevoli, si limita a trasporre in musica il dettato del libretto, ciò che, appunto, è detto, espresso, rivelato dalle parole, Berio, invece, si spinge oltre le parole; se il primo compone una musica che rende in modo mirabile la sontuosità della scena (l’esterno del palazzo imperiale «tutto bianco di marmi traforati, sui quali i riflessi rosei dell’aurora si accendono come fiori», l’alta scalea sulla sommità della quale compare l’imperatore «circondato dalla corte, dai dignitari, dai sapienti, dai soldati») e il tripudio della folla che suggella l’opera, Berio fino all’ultimo in-siste e re-siste ben saldo su quella che è la pietra angolare che regge l’intero edificio di Turandot, vale a dire l’enigma: a differenza della partitura di Alfano, infatti, il cosiddetto “tema dell’enigma” riecheggia ancora nelle parole rivolte al padre dalla principessa («O padre augusto… ora conosco il nome dello

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straniero…»), e soprattutto enigmatico è il finale, che si spegne nebuloso e informe. In un’intervista rilasciata al «Giornale della Musica» nel 2002 Berio ebbe a dichiarare: «Ho ripensato il finale in modo totale, non più un happy end ma una conclusione più sospesa e reticente, […] meno deterministica, meno ovvia». Si presti attenzione soprattutto all’aggettivo «reticente»: esso deriva dal verbo tacère, e indica colui che, per paura o per altri motivi, non dice ciò che potrebbe (o dovrebbe) dire. Ma il nome che il principe Calaf custodiva come il più prezioso dei segreti è stato pronunciato («Il suo nome è… Amore!») e non vi è più nulla di oscuro che non sia stato rivelato, nulla di nascosto che non sia stato trovato: allora perché quel finale «reticente»? “Più poetica” abbiamo definito la partitura di Berio e il poeta più ancora del filosofo, il sapiente più ancora del sottile ragionatore di questo mondo – si darà poi contezza di queste coppie antinomiche –, possiede un terzo occhio, quello che Edipo acquistò dopo aver vinto la Sfinge. Recita un verso di Kostantinos Kavafis: «Non credete solo a ciò che vedete. / È più acuto lo sguardo dei poeti»1. Tutto si tiene: gli enigmi di Turandot, la Sfinge, Edipo e Kavafis, il quale proprio all’eroe greco, uccisore del padre, sposo di sua madre e fratello dei propri figli, ha dedicato una lirica eponima in cui è riuscito a cogliere il significato profondo non solo dell’enigma della Sfinge, ma di tutti gli enigmi. La poesia è ispirata al celebre quadro di Gustave Moreau Edipo e la Sfinge che Kavafis, però, conobbe soltanto attraverso una sua descrizione. La «vergine dalle mascelle feroci»2, come la 1  K. Kavafis, Corrispondenze secondo Baudelaire, in Id., Le poesie, tr. it. e cura di N. Crocetti, Einaudi, Torino 2015, p. 217. 2  Pindaro, Fr. 177 d, in G. Colli, La sapienza greca, vol. I, Adelphi, Milano 1990, p. 347.

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chiama Pindaro, se ne sta accucciata sul petto dell’eroe greco. A prima vista non sembra aggressiva, anzi: la postura in cui è ritratta può ricordare quella di un cane nell’istante in cui salta festoso incontro al padrone. Ma non bisogna lasciarsi ingannare: se si fa attenzione ecco spuntare, nel registro inferiore del dipinto, una mano e un piede, i miseri resti di coloro che hanno avuto l’ardire di sfidare il mostro e che da questo sono stati sbranati. La Sfinge punta lo sguardo sul volto di Edipo, eppure i loro occhi non s’incontrano: l’eroe, infatti, è intento a fissare un punto in lontananza. Qual è la visione che ha catturato la sua attenzione tanto da fargli quasi dimenticare la prova mortale che sta affrontando? Diamo la parola a Kavafis: Si è avventata su di lui la Sfinge con gli artigli e i denti protesi e con tutto il suo émpito selvaggio. Edipo è caduto al primo assalto, terrorizzato al suo primo apparire: una simile voce e un tale aspetto mai si era immaginato prima d’ora. Ma benché il mostro tenga le sue zampe premute sulle costole di Edipo, lui si è ripreso in fretta – e non ha più timore del mostro, poiché pronta ha la risposta, e la vittoria è sua. Ma di questa vittoria non si appaga. I suoi occhi ricolmi di tristezza non guardano la Sfinge, ma lontano, la strada stretta che conduce a Tebe e che lo porterà fino a Colono. L’anima percepisce chiaramente: la Sfinge là gli parlerà di nuovo con enigmi più ardui e più profondi, di quelli che non hanno soluzione.3

3  K. Kavafis, Edipo, in Id., Le poesie, cit., pp. 278-281.

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Una rete ben più infida – nella lingua greca un sinonimo di aínigma è griphós, “rete”, con allusione ai suoi nodi che si stringono tanto più saldamente quanto più ci si sforza di sottrarsi a essi, fino a provocare il soffocamento (ma la Sfinge non è forse, come vuole l’etimologia, “la soffocatrice”?4) –, una rete ben più infida, si diceva, attende Edipo: la vera partita non si gioca a Tebe, ma a Colono, dove, giova ricordarlo, egli morirà. Pertanto, non ci inganni la solarità dell’orchestra in pieno organico con cui si chiude l’opera di Puccini (almeno nella versione proposta da Alfano): se soltanto aguzzassimo il nostro udito, sentiremmo, oltre le grida giubilanti della folla, il ghigno sommesso della Sfinge.

2. Dioniso e Apollo in trasferta a Pechino Dalla Sfinge allora occorre partire: una sua attenta analisi consentirà di comprendere quale sia la vera violenza che si cela dietro i tre enigmi posti da Turandot, che della Sfinge è diretta discendente. Numerosi, infatti, sono i particolari che accomunano la principessa cinese al mostro tebano: entrambi sono vergini (parthé­ nos è uno degli epiteti più ricorrenti della Sfinge); entrambe, per citare il libretto, «bellissime e impassibili» guardano «con freddissimi occhi» coloro che osano sfidarle; entrambe, poi, possiedono una voce che seduce (nelle Fenicie Euripide de-

4  Secondo un’etimologia la parola sphígs deriverebbe dal verbo greco sphíggo, “soffocare”, “stringere”, “serrare”. Molto seducente, però, è anche l’ipotesi di chi, partendo dall’assunto che si tratta di un mito di origine egizia, fa risalire l’etimo della parola al copto fik, “demone” e all’egiziano sb-o, “scienza”, per cui la Sfinge sarebbe il demone che perde gli uomini promettendo loro un surplus di conoscenza.

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finisce il suono che esce dalla bocca della Sfinge non parola, bensì mousa, “canto”, “poesia”, “eloquenza”, “persuasione”, e xunetón mélos, “canto sapiente”) e che nel contempo è “ardua a comprendere”, “difficile da decifrare” (dusxunetón)5; entrambe, infine, sono esseri ibridi, giacché se il «canto sapiente» della loro voce è proprio della natura umana, la loro crudeltà, invece, appartiene alla sostanza animale. Non solo. La Sfinge è strettamente connessa al culto di Apollo, il dio che, come dice Eraclito in un celebre frammento, «non dice, né nasconde, ma accenna». Ma, come è noto, non si dà Apollo senza Dioniso. E infatti apollinea e insieme dionisiaca è Turandot, purché si intendano bene questi aggettivi. A differenza di quanto sostiene Nietzsche in La nascita della tragedia, dove Apollo è la divinità che assume su di sé, pacificandola, la forza tremenda e distruttiva di Dioniso, Giorgio Colli ha dimostrato non solo come vi sia una convergenza, ben radicata nella loro natura, tra questi due dèi, ma anche come il Signore di Delfi celi addirittura un elemento di gran lunga più tenebroso ed esiziale della manía, dell’invasamento mistico provocato da Dioniso, e cioè il lógos, la parola. Dionisiaca, di diceva, è Turandot. Molteplici sono gli elementi che concorrono a favore di questa affermazione. Intanto, il palazzo in cui ella vive da reclusa per l’imponenza, la grandiosità e il numero delle stanze richiama il labirinto, la dimora del Minotauro, essere mostruoso metà uomo e metà animale, con cui secondo i miti più antichi Dioniso era identificato. E ancora. Dioniso è archetipo della sapienza: la manía da lui scatenata non era semplice ebbrezza o gesticolazione parossistica e animalesca, bensì follia, cioè uno stato della coscienza che, potremmo dire così, permetteva di uscire dalla prosa

5  Cfr. Euripide, Fenicie 1505-1507, in G. Colli, La sapienza greca, cit., p. 351.

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scadente e sgrammaticata del quotidiano e di toccare la poesia. ­L’orgiasmós, la frenesia, il delirio dionisiaco provocava uno stato allucinatorio che consentiva l’epoptéia, la “suprema contemplazione”. Ma non è forse una simile mania quella che Turandot suscita in tutti i suoi pretendenti, ai quali verosimilmente va troppo stretto il normale per non desiderare l’anormale, ciò che eccede, travalica la norma, ciò che si sporge oltre il bordo dell’apparire? E il lungo, verboso dialogo che Calaf intrattiene con i tre Ministri, con suo padre Timur e con la serva Liù non è forse la descrizione di un orgiasmós? Pin, Pong e Pang non definiscono forse il Principe senza Nome «insordito, intontito, allucinato»? E ancora. La massima volontà di vivere suscitata da Dioniso si ribalta nel suo opposto, in un terrificante cupio dissolvi: Dioniso pratica l’omofagia, brama di uccidere e divorare le sue prede perché è un dio crudele e vendicativo. I pali su cui sono conficcati i teschi dei giustiziati che adornano, quali orridi trofei, il palazzo imperiale, la folla che invoca ebbra di sangue il boia Pu-Tin-Pao e il coro, a tutti gli effetti dionisiaco, dei carnefici («Ungi, arrota, / che la lama guizzi, sprizzi / fuoco e sangue») alludono all’esito di ogni orgiasmós. Ma, come si richiamava, Dioniso è impensabile senza Apollo, la cui cifra costitutiva è la doppiezza: la lira con cui, nelle vesti di Musagete, accompagna il canto e la danza delle Muse può trasformarsi ad un tratto nell’«arco d’argento» che con «terribile strepito» fa strage nel campo degli Achei (così Omero descrive la sua terribile epifania all’inizio dell’Iliade). Il Lossia, cioè l’Ambiguo, è chiamato da Cassandra, la quale ricevette da lui il dono della mantica che fu causa della sua rovina. Ed è proprio la mantica, l’arte di trarre divinazioni, il punto in cui Apollo e Dioniso convergono. La mantica etimologicamente deriva da manía, con questa fondamentale differenza però: mentre questa, scrive Colli, «è la sapienza vista dal di fuori, nel

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suo primo mostrarsi, nel primo apparire come visione, danza, contatto, suono percepito, non ancora ascoltato»6, la mantica, invece, è la sapienza del dio che è udita attraverso la parola sotto forma di aínigma, l’arma della suprema violenza, il dardo più letale scagliato dal dio. L’azione omicida di Apollo è mediata dalla freccia e dal suo volo, tanto che il dio, a differenza di Dioniso che si avventa sulla propria preda, resta sempre distante dalla vittima che vuole colpire (i suoi epiteti ricorrenti sono “il lungisaettante” e “colui che scaglia lontano” o “da lontano”); tale è anche Turandot quando dardeggia i suoi enigmi e ordina, standosene distante, sulla sommità della scalea del palazzo imperiale, di uccidere i pretendenti che hanno fallito la soluzione degli indovinelli. L’aporia è all’origine: Apollo è colui che tutto comprende all’interno del suo sguardo (come canta Pindaro nelle Pitiche, la sua è «l’occhiata che conosce ogni cosa»7), e dunque la parola non gli appartiene per il semplice fatto che non ne ha bisogno. Tuttavia, per suscitare la sapienza nell’uomo egli necessariamente deve ricorrere alle parole e a un intermediario che le possa pronunciare. Ma questo ancora non basta: la parola pronunciata dal medium – parola oscura quant’altra mai perché, si ripete, il dio si serve di uno strumento che non gli è proprio – richiede un altro soggetto ancora che la interpreti, la digrossi dell’oscurità, dia a essa una struttura sintattica e un senso logico, che la renda, insomma, illuminante. Ma è proprio a questo punto che scatta la micidiale, crudele trappola tesa dal dio.

6  G. Colli, La sapienza greca, cit., p. 26. 7  Cfr. Pindaro, Pitiche, III, v. 29.

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3. Patologica dall’origine La parola del Lossia deve essere interpretata? Certo che sì. Ma chi ci dice quale sia l’interpretazione corretta? Chiunque oda il lógos di Apollo e sia raggiunto dal suo dardo subito si mette a ragionare sul suo significato, e vi ragionerà fino a giungere a un’interpretazione della cui bontà sarà a tal punto convinto da difenderla, se occorre anche con la forza, da interpretazioni difformi. A un interprete, dunque, si opporrà sempre un altro interprete, innescando così una contesa che, se da una parte possiede un aspetto di indiscutibile nobiltà, avendo quale posta la conoscenza, dall’altra è foriera di sciagure: la pretesa di penetrare tutto con l’intelletto, di rischiarare ogni ombra con i lumi della ragione diviene il valore supremo al punto da corrompersi in idolatria: quella di Apollo è una luce a tal segno abbagliante da accecare. L’enigma, insomma, suscita sì la ragione, ma anche la tracotanza della stessa, tanto che si può ragionevolmente sostenere che la ragione, il più grande vanto del mondo occidentale, sia patologica fin dall’origine. Di tale ýbris si rendono colpevoli sia Calaf (ogni volta che risolve un indovinello prorompe in esclamazioni di giubilo quasi insopportabili tanto sono esaltate), sia Turandot quando, nel tentativo di conoscere il nome del Principe Ignoto, minaccia stragi ai danni dei suoi stessi sudditi. Essi sono così avviluppati nel gríphos della loro logica da non ricordare che il dio «non dice, né nasconde, ma allude», che vi è quindi un’irriducibile disparità tra ciò che è del dio e ciò che è proprio dell’uomo, tra la conoscenza perfetta dell’uno a cui basta solo un’«occhiata» e quella imperfetta dell’altro. In un passo delle Olimpiche di Pindaro, Apollo dice: … sotto il gomito, tengo molti dardi veloci dentro la faretra, che parlano a coloro che comprendono: ma rispetto al tutto

99 hanno bisogno di interpreti [ermanéon]. Sapiente [sophós] è colui che sa molte cose per natura [phýsai], ma quelli che hanno imparato [mathóntes], come corvi turbolenti che balbettano.8

Una distanza incolmabile, dice Pindaro, vi è tra i sophoí, quelli che sanno «per natura», e i mathóntes, quelli che invece hanno appreso servendosi del loro intelletto (il termine deriva dal verbo mantháno, conoscere tramite ménos, parola equivalente alla latina mens, che significa anche “brama”, “impeto”, “ardore”, a ulteriore conferma di come l’attività intellettuale nasconda in sé un’ineliminabile componente di violenza). Se così stanno le cose, tutt’altro che glorioso è il finale di Turandot, giacché ormai sappiamo che il dio perde coloro che pretendono di ri-solvere l’enigma, di sciogliere – questa è l’etimologia del verbo – i nodi del gríphos. Se fossero sophoí e non mathóntes, Turandot e Calaf, come l’Edipo di Kavafis, si accorgerebbero che la loro strada non termina a Pechino, così come quella dell’eroe greco non si conclude a Tebe, bensì a Colono, dove di bel nuovo la Sfinge parlerà loro «con enigmi più difficili e grandi / che non hanno soluzione».

4. La sapiente Eppure nell’opera di Puccini vi è almeno un personaggio sophós: la serva Liù. Ella è sapiente perché fino all’ultimo si rifiuta di pronunciare il nome dell’amato e quindi si rifiuta di sciogliere l’enigma, preferendo, invece, sopportarne il grave peso. Liù è l’unica a sapere che il dio accenna quando parla per enigmi e che sempre questi, come vuole la loro etimologia, con-

8  Pindaro, Olimpiche 2, 83-87, in G. Colli, La sapienza greca, cit., pp. 75-77.

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serveranno un ainós – termine che in lingua greca indica il lato terribile e oscuro del numinoso – che mai si potrà manthánein. E l’ainós non è altro che la straziante consapevolezza che il lógos, la ratio/oratio non potrà mai gareggiare con l’«occhiata» del dio, perché mai potrà dire le esperienze che stanno al limite della vita di ognuno, vale a dire l’amore e la morte. Nel momento in cui esclama «Conosco il nome dello straniero! / Il suo nome è Amor!», Turandot è colpita a morte da «colui che lungisaetta», perché ha avuto l’ardire di trasformare in parola ciò che phýsai, «per natura» è indicibile. A una simile rovina va incontro anche il principe Calaf quando afferma: «Io sono Calaf, figlio di Timur!». Non è forse somma tracotanza affermare di conoscere se stessi? Certo, questo è il comandamento di Apollo, che si accompagna però all’altro, «nulla di troppo», parimenti fondamentale perché prescrive che ci vuole medietà anche nella conoscenza, se si vuole evitare che questa si corrompa. Pure Edipo cade nel medesimo errore: egli in quanto Oida-pous conosce la soluzione dell’enigma, il nome di quell’animale che è insieme di-pous, tri-pous e tetra-pous, ma ignora perché egli sia l’Oidós-pous, “il-piedi-gonfi”. Edipo, insomma, sa (óida) sui piedi (pous), e questo lo porta a vincere la Sfinge, ma nel contempo ignora l’ainós nascosto nei suoi piedi gonfi, e ignorandolo uccide il padre Laio, ne sposa la moglie che è anche sua madre, ha da lei dei figli che sono anche suoi fratelli e così via fino alla catastrofe. Molto più accorto si dimostra Don Giovanni che – siamo proprio all’apertura dell’insuperabile versione che di questo mito hanno offerto Mozart e Da Ponte – così replica a Donna Anna che lo trattiene per un braccio, volendone scoprire l’identità: «Donna folle! Indarno gridi: / chi son io tu non saprai». Nel mondo v’è un’infinità di Giovanni, ma Giovanni (o Edipo o Calaf o Turandot…) è un nome proprio e come tale appartiene soltanto a un unico individuo, la cui unicità, non potendo essere ulteriormente significata, resterà, deve restare confinata nel silenzio.

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Liù, invece, tace. Ella fino alla morte sopporta l’enigma perché è «sapiente per natura», perché sa che l’amore – ella è segretamente innamorata di Calaf – come la morte è oltre il linguaggio. Tacendo e assumendo l’enigma quale propria dimora, Liù è la sola a cui Apollo si concede, e la morte che ella si dà colpendosi il petto con un pugnale è un gesto di estremo pudore, perché salva il segreto quando, sotto la minaccia degli strumenti di tortura, irresistibile sarebbe stata la tentazione di svelarlo. «Forte come la morte è l’amore»9 si legge nel Cantico dei Cantici. Questa equazione può essere compresa soltanto mediante simboli: nel Settimo sigillo (1957) di Ingmar Bergman la Morte, quando vuole rapire un uomo, gli si fa incontro allargando la falda del mantello per nasconderlo sotto di esso; nelle pagine finali del Fedone l’estremo magistero di Socrate non è affidato a una riflessione sull’immortalità dell’anima e quindi a un lógos, bensì a un gesto, quello di coprirsi il volto con il mantello quando, dopo aver bevuto la cicuta, sente il freddo del veleno risalire velocemente dalle gambe verso il cuore10; nella favola di Amore e Psiche l’unica condizione che Eros pone affinché Psiche possa continuare a godere dei sui amplessi è di non cercare mai di scoprire il suo aspetto: qualora, infatti, si dovesse macchiare di sacrilega curiositas, decreta il dio, di certo ella precipiterebbe «dalla cima della felicità nella più profonda miseria»11. Liù è una Psiche fedele: ella sa sostenere l’enigma o, che è lo stesso, sa resistere nella contraddizione soggiacente a ogni enigma. Turandot e Calaf no: essi hanno bisogno di tradurre

9  Ct 8,6. 10  Cfr. Platone, Fedone, 118 A. 11  Apuleio, La favola di Amore e Psiche, tr. it. di L. Nicolini, Rizzoli, Milano 2005, p. 25.

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tutto in lógos, ma così facendo umanizzano l’enigma e lo trasformano in próblema, in un “ostacolo” che può essere superato soltanto attraverso l’uso della ragione. Ma il dramma del moderno non consiste forse in questo, nel ridurre a ragionamento ciò che, per usare le parole della sapienza greca, non abbiamo mai visto né preso perché è custodito nel segreto della nostra interiorità? Nell’aver dimenticato che non tutto ciò che è appare? Retto filosofare è quello che riflette sull’abisso delle parole, sul fatto che il lógos, ogni lógos, mai potrà essere la Cosa detta dal lógos stesso. Forse proprio a questa corruzione dell’aínigma in próblema allude Wittgenstein quando, nel Tractatus scrive: «D’una risposta che non si può formulare non può formularsi neppure la domanda. L’enigma non v’è. Se una domanda può porsi, può anche avere una risposta»12. Liù pudicamente ci dice che domande come “che cosa è l’amore?” e “che cosa è la morte?” non possono avere risposta e quindi, per citare di nuovo Wittgenstein, «su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere»13. E si deve tacere per lasciare spazio al «mistico» (dal verbo mýo, “tengo nascosto, celato” e “resto a bocca chiusa” per lo stupore), a ciò che, alla lettera, è “segreto” e quindi non si può dire, ma soltanto vivere.

12  L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1979, prop. 6.5, p. 81. 13  Ivi, prop. 7, p. 82.

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L’inganno dell’ordine diurno Il flauto magico di W.A. Mozart

1. Un mostro e un tiranno? «Er ist ein Unmensch, ein Tyrann!», «egli è un mostro, un tiranno!»: così Tamino, alla fine del primo Atto del Flauto magico replica all’Oratore che gli ha domandato quale sia la causa del suo odio nei confronti di Sarastro. Certo, noi sappiamo che le cose stanno in modo affatto diverso e che il giovane principe non parlerebbe così se non fosse stato ingannato dalla Regina della Notte, e soprattutto se non fosse già innamorato di Pamina soltanto per averne veduto il ritratto su un medaglione; tuttavia quel sintagma – «un mostro e un tiranno» – continua a ronzarci nelle orecchie, tanto da sospettare che esso sia una sorta di negativo fotografico di Sarastro, rivelatore di ciò che egli sarebbe potuto essere o, sospetto ancora più terribile, di ciò che in futuro potrebbe diventare. Se così stanno le cose forse è opportuno indugiare un poco su questo passo del capolavoro mozartiano. Prima di tutto chiediamoci: chi è davvero Sarastro? Se non ci limitassimo a una risposta di prammatica – un uomo dotto e sapiente che presiede un consesso di iniziati ai culti misterici di Iside e Osiride –, ci accorgeremmo che Sarastro, più che da res actae, più che da

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una storia personale, è connotato da un oggetto, il settemplice cerchio solare che il marito della regina della Notte gli donò prima di morire. Non si tratta, si badi bene, di un semplice amuleto, bensì di uno strumento che consente, a chi ne detiene il possesso, l’esercizio di un potere enorme: il sette, infatti, rinvia al numero dei cieli e delle gerarchie angeliche, delle sfere planetarie e delle note musicali; il sette, ancora, è il simbolo della vita morale (esso è la somma delle tre virtù teologali e delle quattro virtù cardinali) e, ciò che più importa, della totalità dello spazio e del tempo – il sette è il risultato che si ottiene sommando il quattro, simbolo della Terra (i quattro punti cardinali), al tre (simbolo del cielo, del volgere delle stagioni e quindi dello scorrere del tempo). Il potere, ma forse sarebbe meglio dire l’onnipotenza, di questo talismano è conosciuto bene dalla Regina della Notte, la quale così replica a Pamina che le chiede di proteggerla da Sarastro: «Protezione? Figlia cara tua madre / non può proteggerti. / Il mio potere [maine Macht] finì con la morte di tuo padre. / Egli donò spontaneamente il settemplice / cerchio solare agli iniziati». Alla Regina non resta che un’unica soluzione per vincere il suo nemico: ucciderlo, servendosi di sua figlia. Ma il pugnale che ella le consegna è soltanto un innocuo giocattolo agli occhi di Sarastro il quale, come egli stesso confessa, «sa tutto». E come potrebbe essere altrimenti per chi conosce i segreti del tempo e dello spazio? «Ich weiss alles», «io so tutto»: l’affermazione è inquietante. Sarastro conosce da sempre non solo le mosse della Regina della Notte e dei suoi accoliti («So che ella si aggira / nelle stanze sotterranee del tempio / e cova vendetta contro di me»), ma anche l’esito delle prove a cui saranno sottoposti Tamino e Pamina, e le conosce perché è lui a dirigere di nascosto tutta l’azione. Egli, insomma, può agire a proprio talento perché, grazie al settemplice cerchio solare, nulla sfugge al suo occhio.

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Si presti particolare attenzione a questo passaggio. Da sempre il pensiero occidentale riconosce una sostanziale unità tra la vista e la conoscenza (si pensi ai termini “idea” e “teoria”, derivanti entrambi da verbi – rispettivamente eidéin e theoréin – che indicano l’azione del vedere). Non solo: l’esercizio della vista non si esaurisce in un semplice atto teoretico-conoscitivo, ma reca in sé uno specifico potere, che come ogni potere presenta coni d’ombra: dispone di una grande forza chi riesce a imporre il proprio sguardo su tutti e nel contempo a sottrarsi allo sguardo altrui. Ma non è questo l’assunto che sta alla base del Panopticon di Jeremy Bentham e del Big Brother di George Orwell, paradigma compiuto dei regimi totalitari1? Ma v’è dell’altro. Il potere di Sarastro poggia su una contraddizione potenzialmente esplosiva. Questi, certo, usa il potere per combattere l’«inganno» (Blendwerk) e la «superstizione» (Aberglauben) di Astrifiammante, ma di questo potere egli si autoproclama il supremo interprete e officiante in virtù della sua completa sottomissione a Iside e Osiride, a due divinità. Ma l’assolutismo che gli illuministi sottopongono a una critica radicale, non si basa proprio su tale giustificazione, che i monarchi, cioè, sono tali per investitura divina? Sarastro führen, “guida” gli iniziati, ma dopo gli orrori del ’900 questo verbo ci suona quantomeno sospetto: dobbiamo concludere che in Sarastro alberghi un potenziale Führer? Come se già non bastasse, rincarano la dose gli iniziati stessi, i quali appellano la loro guida suprema unser Abgott, il «nostro idolo»: ma, attesta l’Apocalisse, l’Anticristo, il Principe di questo mondo non seduce gli uomini presentandosi proprio come simia Dei, come una caricatura di Dio? I dettagli inquietanti non finiscono qui. Il marito della Regina della Notte definisce il cerchio eliaco

1  Sul tema dello sguardo nella filosofia cfr. U. Curi, La forza dello sguardo, Bollati Boringhieri, Torino 2004.

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come uno strumento «che tutto distrugge», aggiungendo che esso è, sì, dato in consegna a Sarastro, ma destinato agli iniziati, solo che in tutta l’opera il primo non fa il minimo accenno a una futura trasmissione del potere ai secondi, al passaggio, se volessimo semplificare, dalla monarchia alla democrazia. Alla luce di queste osservazioni, le parole di Tamino da cui siamo partiti forse non dovrebbero essere frettolosamente derubricate come una semplice «voce dal sen fuggita»2.

2. Bergman e Goethe: il ritorno della notte Il Flauto magico di Mozart si conclude con Sarastro e il Coro dei Sacerdoti che, sugli accordi del Mi bemolle, la tonalità della massoneria, inneggiano alla gloria di Iside e Osiride e alla sconfitta delle tenebre. Il finale mozartiano, dunque, è pura luce: un diffuso chiarore spiove a picco su tutti, cancellando qualsiasi ombra. E non poteva essere altrimenti, trattandosi di una lotta tra il Giorno e la Notte che doveva concludersi non solo con la sconfitta, ma anche con la scomparsa di uno dei due termini. La Regina della Notte, Monostatos e le tre damigelle, infatti, sie versinken, «sprofondano» e sono sottratti alla nostra vista: non ci sono più, come se non fossero mai esistiti. La visione non potrebbe essere più manichea: da una parte la Luce e gli iniziati, dall’altra l’Oscurità e i suoi adepti; da una parte il Bene, dall’altra il Male. Ma la visione manichea del mondo non è propria dei totalitarismi, i quali ragionano in termini di amico/nemico?

2  Per il presente saggio ho mutuato più di una suggestione dagli splendidi lavori di J. Starobinski: Lumi e poteri: il Flauto magico, in Id., Le incantatrici, tr. it. di C. Gazzelli, EDT, Torino 2007, pp. 147-167; e 1789. I sogni e gli incubi della ragione, tr. it. di S. Giacomoni, Milano, Garzanti 1981.

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Ingmar Bergman, nella splendida versione cinematografica della Zauberflöte che realizzò nel 1974, sembra consapevole dei bacilli totalitari che dormono tra le pieghe degli abiti sacerdotali di Sarastro, tanto da proporre una conclusione in parte diversa da quella prevista da Schikaneder nel suo libretto. Nel Flauto bergmaniano, infatti, Sarastro, dopo aver salutato Tamino, Pamina e i sacerdoti, si accomiata ed esce di scena, o se si preferisce cede la scena agli sposi novelli. Il suo volto è improntato a una gravitas che sembra fuori luogo, considerato che siamo nel culmine di una festa nuziale. Quale segreta preoccupazione agita i suoi pensieri? Forse una possibile risposta è rintracciabile nella sequenza in cui le forze notturne tentano di espugnare il tempio della Saggezza. Già sappiamo che l’occhio onniveggente di Sarastro conosce in anticipo le mosse del nemico; questo infatti è colto di sorpresa e subito sbaragliato. Tutti si danno alla fuga tranne la Regina della Notte. Per alcuni istanti lei e Sarastro si fissano negli occhi; poi, prima di scomparire nell’oscurità, ella gli sorride. È questo sorriso a turbare Sarastro? Il sospetto, cioè, che nessuna conquista è definitiva, che la notte è stata sconfitta, ma non vinta, e che essa un giorno potrebbe ritornare3? A questa stessa conclusione era giunto anche Goethe nella seconda parte del Flauto magico4 che egli, ossessionato dalla bellezza e dalla profondità del Singspiel mozartiano, scrisse nell’arco di un decennio, tra il 1792 e il 1802, lasciandolo tuttavia incompiuto (o forse no, come si potrebbe altrimenti ipotizzare). 3  Anche se rilasciata decenni dopo, la seguente dichiarazione di Bergman, contenuta del diario di lavorazione del film Vanità e affanni (Dokument Larmar och gör sig till, 1997), riassume bene la tesi che qui stiamo sostenendo: «Gli spiriti maligni non si trovano mai nel buio, nell’oscurità, bensì nella luce brillante. È strano, ma i più malvagi scelgono proprio la luce solare, piena. Sono quelli i fantasmi più terribili. Con gli altri si può stare tranquilli» (in R. Chiesi, Il cinema di Ingmar Bergman, Gremese, Roma 2018, p. 273). 4  J.W. Goethe, Il flauto magico, a cura di M.T. Galluzzo, Edizioni Novecento, Palermo 1986.

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Il Die Zauberflöte zweiter Teil Fragment inizia con il grido di esultanza di Monostatos: questi, su ordine della Regina della Notte, è riuscito a introdursi nel palazzo reale e a mettere le mani sul bambino che Pamina ha appena dato alla luce; solo che, scoperto dalle ancelle, non è riuscito a rapirlo. Tuttavia, pur di sottrarlo alla vista dei genitori e di infliggere loro un tormento, egli lo rinchiude dentro un sarcofago d’oro, lanciando questa maledizione: il fanciullo resterà in vita soltanto se Tamino e Pamina, a turno, condurranno in corteo notte e dì la bara. Intanto nel tempio della Saggezza, dove è in corso una riunione dei sacerdoti, la magica sfera di cristallo annuncia che sarà Sarastro il nuovo pellegrino che dovrà percorrere per un intero anno le vie del mondo per conoscerne e riferirne poi le sofferenze: Fra queste mura silenziose, l’uomo impara a conoscere se stesso e il suo destino. Egli si prepara a capire la parola degli dèi; ma la lingua della natura, la voce dell’umanità bisognosa, impara a conoscerla soltanto il viandante [Wandrer] che vaga per le vie del mondo. Per questo la nostra legge ci obbliga a mandare ogni anno uno di noi, come pellegrino, nel mondo travagliato.5

Le parole con cui i sacerdoti salutano Sarastro hanno il timbro della più profonda mestizia: «Non risuonano più, / nei giorni sereni, le parole di Sarastro, / ad insegnare nobili doveri […]. / La verità non sarà più diffusa sulla terra […] / e intanto ci circonda notte fonda»6. La scena ora si sposta in un santuario dove due guardie sorvegliano il sarcofago. Le poche parole che esse si scambiano (e su cui torneremo) sono tra le più significative di tutta l’opera: Prima guardia – Fratello, sei desto? Seconda guardia – Ti ascolto. […]

5  Ivi, p. 63. 6  Ivi, p. 69.

109 Prima – Viene il giorno? Seconda – Forse sì. Prima – Viene la notte? Seconda – È già qui. […] Entrambe – Corre l’uomo, ma il fine mutevole / gli fugge innanzi. / Lui tira e si aggrappa invano / alla tenda che copre pesante / il mistero della vita, / che riposa sui giorni e sulle notti. / Egli tende verso l’aria / […] ma il chiarore / si fa presto oscuro; / lui si agita, / vaga e vaga / di follia in follia.7

A questo punto ecco una nuova sortita del nemico: la Regina della Notte in persona, accompagnata dal fido Monostatos, tenta di aprire il sarcofago per rapire il neonato. La bara, forzata, si apre, ma da essa esce un bimbo trasfigurato in pura luce, chiamato “Genius” da Goethe, che prende il volo. Prima di scomparire nell’aria pronuncia queste parole: «Le spade minacciano / atroci vendette, / minacciano con l’esercito, / minacciano con i draghi. / Eppure nessuno ha il bambino»8.

3. Pellegrini della verità Ignoriamo se Bergman fosse a conoscenza del sequel scritto da Goethe; vero è che entrambi dimostrano di essersi interrogati sulla figura di Sarastro e di averne compreso l’ambiguità. Sia nel film del cineasta svedese sia nel Fragment dello scrittore tedesco il sommo sacerdote di Iside e Osiride lascia la comunità degli iniziati e sceglie l’erranza (Wanderung). Il significato simbolico non potrebbe essere più limpido: la Verità non è più intesa come possesso esclusivo di una ristretta cerchia di iniziati, bensì come un bene sfuggente, nomade, che non tollera di 7  Ivi, pp. 97-99. 8  Ivi, p. 107.

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trattenersi troppo a lungo nello stesso luogo. Non solo: la Verità è tale in rapporto all’uomo, alla sua costitutiva fragilità, alla sua immedicabile miseria. Se la si considera ab-soluta, “sciolta”, “svincolata” da quel legno storto che è l’umanità, essa rischia di trasformarsi in una costruzione teoretica esteticamente sublime, ma spiritualmente disumana. Ancora una volta hanno ragione i greci quando, con riferimento alla tragedia, dicevano che tá pathémata, mathémata, «attraverso la sofferenza, [si giunge al] la conoscenza»: la verità si fa a mano a mano che diventiamo più esperti del dolore degli uomini. Per questo, scrive Goethe nel passo sopra citato, bisogna, sì, «capire la parola degli dèi» senza trascurare, tuttavia, quella del «mondo travagliato». Goethe, come è noto, avversò sempre la Rivoluzione francese, imputando i suoi eccessi a un eccesso di luce che abbaglia e che quindi, come la notte, impedisce di vedere. Ma Goethe avversò parimenti il Romanticismo tedesco, scorgendo in esso una pericolosa regressione verso il notturno, l’irrazionale e l’aor­gico quale reazione alla tirannide della luce9. Il Fragment goethiano è di notevole interesse perché, in anticipo sui tempi, ha colto ciò che Jacob Burckhardt nelle sue Considerazioni sulla storia universale chiama la parte che «si ripete, che è costante e tipica»10 della Storia, il suo aspetto malato, per così dire, il bacillo che periodicamente si ridesta, provocando il contagio. A riguardo è paradigmatico il dialogo, sopra richiamato, che si scambiano le due sentinelle poste a guardia del sarcofago. Esso è la puntuale ripresa di un famoso passo del libro del profeta Isaia: «Mi si grida da Seir: / “Sentinella, a 9  Sull’argomento si rimanda al mirabile studio di G. Baioni, Classicismo e rivoluzione, Guida, Napoli 1988. Cfr. anche Th. Mann, La Germania e i Tedeschi, in Id., Moniti all’Europa, a cura di L. Mazzucchetti, Mondadori, Milano 2017, pp. 330-334. 10  J. Burckhardt, Considerazioni sulla storia universale, tr. it. di M.T. Mandalari, SE, Milano 1990, p. 15.

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che punto è la notte? / Sentinella, a che punto è la notte?” / La sentinella risponde: / “Viene la mattina, e viene anche la notte. / Se volete interrogare, interrogate pure […]”»11. Sono versetti densi di mistero, che hanno spinto alcuni interpreti a proporre traduzioni inquietanti. Ad esempio Lutero propone: «Se anche dovesse venire il mattino / resterà pur sempre notte»; Guido Ceronetti, invece: «Il mattino che sta venendo è anche notte»12. Attenzione, dicono le sentinelle di Isaia e di Goethe, attenzione perché la luce potrebbe contenere grumi di tenebra, perché ciò che credete luce potrebbe essere tenebra. L’unica verità alla nostra portata consiste nel domandare sempre e senza stancarsi mai; nello stare vigili, nel resistere agli eventi, nello “stare in piedi” (ego sum stans, secondo la traduzione della Vulgata) al proprio «posto di osservazione» (super specula Domini), come recitano i versetti, tratti sempre da Isaia, che precedono quelli sopra trascritti. Goethe pubblicò la seconda parte della Zauberflöte nel 1802; il 3 maggio di sei anni dopo, la sua profezia trovò conferma: in quella data, in Spagna, i soldati della Grand Armée – di quella Francia che si era proposta la missione di diffondere i valori dell’Illuminismo ricapitolati nella triade «libertà, uguaglianza, fraternità» – passano per le armi i cittadini madrileni che si erano ribellati all’occupazione napoleonica. L’episodio è stato reso immortale da Goya in un quadro che non cessa di agitare i nostri sonni. L’opera del pittore spagnolo stupisce per la potenza drammatica, ma vi è un dettaglio in essa che riesce a cogliere in un’insuperabile sintesi il centro assiale del discorso fin qui sviluppato, e cioè il lanternone con cui i soldati francesi illuminano, per meglio prendere la mira, il suppliziato che dinanzi a 11  Is 21,11-12. 12  G. Ceronetti, Il libro del profeta Isaia, Adelphi, Milano 1992, p. 115. Cfr. anche B. Spinelli, Ricordati che eri straniero, Edizioni Qiquajon, Magnano 2005, pp. 57-68.

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loro allarga le braccia quasi in una estrema richiesta di pietà: il culto della Luce che avrebbe dovuto liberare le menti dal fanatismo, le ha avviluppate ancora di più in una rete di menzogne. Jean Starobisnki, in un saggio su Goya, scrive: «Si tratta del potere anarchico di negazione che non si sarebbe manifestato se non fosse stato promulgato l’imperativo dell’ordine diurno. Incontro carico di conseguenze poiché, riconoscendo nel suo nemico la propria realtà invertita, il rovescio senza il quale non sarebbe luce, la ragione si lascia affascinare dalla differenza di cui non può liberarsi»13. Con spirito profetico Goethe nel suo Fragment ha intuito – e si tratta di una lezione dalla validità perenne – come la pretesa di skoto-mizzare – nel significato etimologico del verbo, di ridurre cioè a skótos, “tenebra”, “oscurità” e quindi “coprire di tenebre”, “nascondere”, “rimuovere” – il lato notturno della condizione umana, l’aspetto patologico della Storia, possa corrompersi, sono sempre parole di Starobinskj, in «demente razionalità»14.

13  J. Starobinski, Il ritorno dell’ombra, in Goya, tr. it. di S. Giacomoni, Rizzoli-Skira, Milano 2003, p. 15. Continua Starobinski: «la tarda opera di Goya […] espone ai nostri occhi il lontano destino di quel che è stato in gioco nel 1789. L’esito si legge nel quadro delle fucilazioni del 3 maggio 1808: il gruppo ritmato e disciplinato dei soldati del plotone di esecuzione raffigura una demente razionalità: la regolarità, l’ordine (che avrebbero dovuto segnare il trionfo dei principi) giungono solo per regolare l’esercizio della violenza. Grazie all’obliquità conferita alla scena, Goya nasconde il volto degli ussari francesi: essi non appaiono che di profilo, in controluce rispetto alla sinistra lanterna posata ai loro piedi: di loro scorgiamo solo l’equipaggiamento: fucili sciaccò, buffetteria, cappotti, sciabole. Sono in primo piano, ma tutto, in essi, risponde e si accorda al cielo notturno che domina il fondo della scena. La luce, invece, aderisce e si associa al gruppo delle vittime, e più particolarmente all’uomo del popolo che sta per essere abbattuto dalla scarica imminente: […] questo spagnolo dai tratti grossolani assume improvvisamente la dimensione dell’eterno ebreo, dell’Uomo umiliato dall’uomo». 14  Ivi, p. 20. Siamo persuasi che le acute osservazioni di Starobinski trovino un’efficacissima trasposizione cinematografica nel capodopera di Stanley

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Se non si vuole affondare in una notte più buia di quella che si voleva vincere con il miraggio dell’«ordine diurno», bisogna fare Kubrick The Shining (1980). Prendendo spunto dall’omonimo romanzo horror di Stephen King, il regista newyorkese ha realizzato una vertiginosa riflessione sui demonî che l’Occidente, a partire dall’Illuminismo, ha rimosso dalla propria vista, ma che ancora allignano al suo interno, demonî la cui sopravvivenza dipende proprio dal rifiuto tutto occidentale di ciò che è radicalmente altro dalla ragione. L’Overlook Hotel, estrema metamorfosi del sanatorio di Davos dove Thomas Mann ambienta La montagna incantata, anche se costruito nei primi anni del ’900 è un monumento al progresso. La grandezza dell’edificio, le enormi sale, i lunghi corridoi, le fornitissime cucine, la cambusa ricolma di ogni genere di vivande suscitano un senso di sicurezza, di benessere e di ordine che quasi potrebbe essere tradotto in numeri e in formule matematiche, complice anche la purissima simmetria di tante inquadrature. Insomma: non v’è nulla nell’Overlook Hotel che non sia stato pensato e costruito more geometrico, nulla, soprattutto, che resti in ombra. Ciò che fin da subito s’impone all’attenzione dello spettatore è proprio la luminosità degli interni, la quale diviene nel corso del film unheimlich: quanto più la luce rischiara un salone o un corridoio, tanto più questo diviene un luogo pauroso, un ricettacolo di incubi, un covo di spettri. Contravvenendo al primo postulato dei film dell’orrore, che impone di ambientare le storie in luoghi bui o nottetempo, in Shining invece a dominare è la luce, ma, si badi, è una luce per lo più artificiale nell’accezione negativa della parola, cioè prodotta dall’uomo con mezzi tecnici e quindi del tutto in-naturale, contraria all’alternanza naturale del dì e della notte. All’interno dell’Overlook Hotel, infatti, non è mai notte perché le luci sono sempre accese, creando così l’impressione di un giorno senza fine. E qui torniamo al peccato originale dell’Illuminismo di cui parla Starobinski in 1789. I sogni e gli incubi della ragione, vale a dire la pretesa – la ýbris – di eliminare l’ombra, di rinserrare dentro un nome anche i mostri più infidi, di dare, insomma, forma all’informe, pretesa di cui è paradigma l’attività letteraria, sia pure amatoriale, di Jack Torrance. Che altro è la scrittura, prima di tutto, se non sin-tassi, insieme (sýn) di norme che disciplinano (táxis) i procedimenti mediante i quali le parti significative del discorso si uniscono tra loro per formare frasi e periodi di senso compiuto? Immanente alla parola – e di conserva alla scrittura che della parola è la rappresentazione visiva mediante segni grafici convenzionali – è lo sforzo di nominare il reale e quindi di dominarlo, la tensione inesausta a illuminare persino le zone più oscure e limacciose del cuore, perché chi possiede i nomi delle cose possiede le cose stesse. Vi sono, tuttavia, caverne e abissi a tal segno profondi che mai le parole potranno raggiungere. E anche se vi

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come Sarastro, diventare pellegrini della Verità, perché questa è come Genius, inafferrabile e sfuggente. E anche se molti hanno cercato e cercheranno di catturarla («Le spade minacciano, / minacciano con l’esercito, / minacciano con i draghi»), nessuno mai potrà vantare su di essa un possesso esclusivo, come nessuno avrà mai il bimbo nato da Tamino e Pamina.

4. Il mondo salvato dai ragazzini Il Fragment goethiano si interrompe, dunque, con l’immagine di un infante che forze soprannaturali sottraggono a coloro che vorrebbero nuocergli15. Goethe in questo mirabile epilogo ha colto la cifra spirituale del Flauto magico mozartiano, la quale consiste nella tenerezza, nell’innocenza e nell’indomita resistenza dell’infanzia, non solo perché la Zauberflöte è in fondo un rutilante teatrino delle marionette – nell’accezione proposta da Heinrich von Kleist16 – pensato per i bambini, ma anche perché proprio a dei bambini è affidata la missione più delicata di tutte,

riuscissero, sarebbe solo l’illusione di un istante: «Se voi cacciate i mostri dalle vostre città», scrive Giovanni Macchia ne Il principe di Palagonia, «essi riappariranno. Arriveranno da terre lontanissime, australi. Li scacciate dalla realtà, ed entreranno nei vostri sogni, nei vostri deliri, nelle vostre case, nei vostri oggetti, nei vostri mobili» (G. Macchia, Il Principe di Palagonia, Mondadori, Milano 1978, p. 124). È ciò che accade a Jack Torrance, la cui parola s’inceppa, si atrofizza, diviene autistica e finisce per ripetere se stessa all’infinito. Se così stanno le cose, allora del tutto azzeccata risulta essere la traduzione italiana «Il mattino ha l’oro in bocca» dell’unica frase che Torrance scrive compulsivamente a macchina: in essa la luminosità evocata dalle parole “mattino” e “oro” crea un sinistro contrasto con la tenebra della follia in cui Torrance è precipitato. 15 Cfr. Ap 12,1-6. 16  Cfr. H. von Kleist, Il teatro delle marionette, tr. it. di L. Traverso, il melangolo, Genova 2005.

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quella di guidare (e quindi di salvare dalla solitudine) Tamino e Papageno attraverso le prove che questi dovranno affrontare prima di unirsi a Pamina e a Papagena. Riserveremo, pertanto, la parte finale del nostro discorso proprio ai Drei Knaben, ai «Tre Fanciulli» (o «Tre Genietti» come si legge in alcune traduzioni) della Zauberflöle, le figure più alate del tea­tro mozartiano17. L’aggettivo non è stato scelto a caso, perché è proprio la leggerezza lo stigma di questo simpatico, cordiale terzetto la cui importanza è misconosciuta da gran parte della critica. Eppure senza il suo intervento sia Pamina sia Papageno si sarebbero inferti la morte sopraffatti dalla disperazione – l’una convinta che Tamino non la ami più, l’altro rassegnato a non incontrare mai una Weibchen, una “mogliettina” a cui donare zucchero e panpepato e da cullare tra le proprie braccia come un bambino –, e la fiaba si sarebbe conclusa nel più infelice dei modi. Conviene, allora, indugiare un poco su queste dramatis personae, tutt’altro che secondarie all’interno della soteriologia del Flauto magico. Come è arcinoto, il libretto predisposto da Schikaneder di sicuro non possiede un’inattaccabile struttura drammaturgica. Anzi: non si contano le asimmetrie, le incongruenze, le patenti contraddizioni e le inserzioni di elementi poi perduti lungo la strada. Anche i tre Fanciulli non sfuggono al pressapochismo del geniale librettista (ché tale resta, nonostante tutto). Infatti, di chi sono gli emissari? Della Regina della Notte o di Sarastro? 17  Per Tzvetan Todorov questo riconoscimento spetta a Papageno, il solo a mantenere «l’ambivalenza che per Mozart caratterizza la condizione umana» (in T. Todorov, Mozart, l’uomo dei Lumi, in Id., Gli altri vivono in noi, e noi viviamo in loro, tr. it. di E. Lana, Garzanti, Milano 2011, pp. 386-390 – a conclusioni simili, ponendo l’accento in particolare sui Kleine Kinderlein, «i piccoli bambinelli» che Papageno avrà da Papagena, giungo pure io in Un vangelo dell’infanzia. Il duetto di Papageno e Papagena, nel mio Caro Herr Mozart, cari compositori, Inschibboleth, Roma 2014, pp. 65-68). Sempre di Todorov, per una lettura originale del secolo dei Lumi, si segnala Lo spirito dell’illuminismo, Garzanti, Milano 2007.

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All’inizio del dramma il loro prossimo arrivo, in qualità di infallibili guide, è annunciato dalle Tre Dame, sulla cui obbedienza ad Astrifiammante non mette conto parlare. Se così stanno le cose, si deve concludere che il terzetto è inviato affinché Tamino e Papageno trovino la strada che conduce al castello di Sarastro, rapiscano Pamina e la riportino, magari insieme al settemplice cerchio solare, da sua madre? Come mai, allora, fin da subito i Tre Fanciulli si mostrano più che benevoli verso i due compagni di viaggio e di sorte, aiutandoli a superare le prove che Sarastro ha imposto loro? Dobbiamo forse incolparli di tradimento, di diserzione, di intelligenza con il nemico? Oppure vi è una regia occulta, una sorta di goethiana Società della Torre, che tira le fila di tutto, con la connivenza di Astrifiammante, delle Tre Dame, di Monostatos e dei Tre Fanciulli? Queste e altre aporie sono in realtà soltanto apparenti, se solo si smette di considerare la Zauberflöte come una caricatura dell’Illuminismo. In quest’opera il genio di Mozart raggiunge la sua compiuta espressione componendo una musica che celebra – come è ovvio, trattandosi di un’opera massonica – il trionfo della Luce, ma tiene insieme, in questo trionfo, anche la Notte, e cioè l’elemento opposto, l’avversario irriducibile, il nemico implacabile. Se non si considera questo aspetto si rischia di declassare un capodopera come Il flauto magico a un manifesto programmatico politicamente sospetto, a un esaltato appello alla dea Ragione che si converte, secondo la più classica eterogenesi dei fini, in un’evocazione delle Erinni: come la notte, anche l’eccessiva luce toglie la vista. La musica di Mozart non obbedisce all’«imperativo dell’ordine diurno», al tirannico comandamento che impone di cancellare ogni ombra; al contrario essa sa come non si possa dare la notte senza il dì e come folle e causa di sciagure sia la pretesa dell’uomo di illuminare tutto con la sola forza dell’intelletto. Mozart, insomma, è l’aedo del miglior Illuminismo, mostrandoci come questo sia, certo, tensione verso la luce, ma non già possesso della stessa,

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e come anche la notte sia costitutiva dell’uomo. Ciò che da sempre ci commuove dell’arte di Mozart, e cioè la sua sovrana capacità di farsi carico della pesantezza dell’esistenza con una tenacia così sorridente e con un’ironia così mite che finiscono addirittura per riconciliarci con essa, ciò che ci commuove, si diceva, dell’arte del Salisburghese è ricapitolato una volta per tutte nella Zauberflöte. «Il peccato è inevitabile, ma / tutto sarà bene, e / ogni sorta di cose sarà bene»: questa celebre “rivelazione” di santa Giuliana da Norwich, ripresa poi da Eliot nei suoi Quattro quartetti18, potrebbe comparire in epigrafe sulla partitura del Flauto magico. Se così stanno le cose – e per tornare alla questione da cui siamo partiti –, il giudizio cambia a seconda del punto di osservazione che si sceglie: se ci limitiamo all’analisi della coerenza interna dell’actio drammatica, non ci resta altro che liquidare come una marchiana svista il fatto che i Tre Fanciulli siano inviati dalle Tre Dame su ordine della Regina della Notte; se invece consideriamo il Singspiel come una parabola, o meglio ancora come un midrāsh, ecco che tutto cambia di segno e ciò che era incongruenza si fa accresciuto sentimento di vita. È come sempre la musica a rivelarci il significato nascosto dei simboli. L’imminente venuta dei Tre fanciulli è annunziata per la prima volta dalle Tre Dame nella seconda parte del quintetto (Andante in Si bemolle maggiore) che conclude la Scena VIII: attraverso una netta cesura melodica e ritmica le ansiose domande di Tamino e Papageno si dissolvono di colpo entro uno spazio reso ek-statico dal suono degli oboi, dei clarinetti e dei corni, uno spazio dove per alcuni istanti la violenza della Storia si trasforma nel quieto, solenne ondeggiare di un campo di grano. Ingmar Bergman, nella sua versione cinematografica del Flauto 18  Cfr. Th.S. Eliot, Quattro quartetti, tr. it. di F. Donini, Garzanti, Milano 1989, p. 75.

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magico, con una mossa sapiente si è servito dell’Andante per introdurre i Tre Fanciulli: appena si odono i primi accordi dei clarinetti – quale affettuosa tenerezza, in questo suono, quale senso del mistero, quale presagio di una patria a tutti comune! –, le Tre Dame si arrestano come paralizzate; un velo nero le copre e le sottrae alla vista. Dall’alto ecco scendere un Flugwerk, una “macchina volante” con a bordo tre simpatici Gavroche, sul cui volto riluce lo splendore incomparabile della fanciullezza, che cantano la parte affidata in origine alle Tre Dame. È una felice intuizione, si diceva, quella del regista svedese, non solo dal punto di vista drammaturgico, ma anche perché quel canto – suggellato da un «auf Wiedersehn» che sembra spegnersi in benefiche lontananze – sembra scritto apposta per dei bambini, perché dei bambini ha la dolcezza, la gioia (e tutto ciò che è gioioso confina con il divino), la gentile impassibilità davanti alla bruttezza e, più ancora, l’intuizione di un centro in cui tutte le cose sussistono e dal quale tutte si squadernano. L’aeromobile con il quale fanno il loro ingresso ci dice che i Tre Fanciulli appartengono all’elemento dell’aria e che sono i discendenti di Hermes Psicopompo e di un’intera genealogia di messi celesti, di spiriti guida, di uccelli magici che nelle fiabe salvano chi si è perduto nel bosco, e soprattutto di angeli custodi (evidenti, ad esempio, sono le analogie con Raffaele che guida Tobia a Ecbatana dove questi prenderà in moglie Sara, liberandola dal demone Asmodeo sempre grazie all’aiuto dell’angelo19); anche gli aggettivi che li descrivono – «jung, schön, hold und weise», «giovani, belli, leggiadri e saggi» – rimandano alle creature alate che cantano e pregano, suonano e giocano dentro i duomi di Spoleto e di Orvieto. Il fatto che i Tre Fanciulli giungano dal cielo costringe Tamino, Pamina e Papageno a muovere lo sguardo dal basso, e quindi dalla pesan-

19  Cfr. Tb 3,16-17.

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tezza della materia, verso l’alto, dove tutto è più vasto, luminoso e lieve. Se non si ha il coraggio di rivolgere lo sguardo verso l’alto, «verso il Dio tranquillo che ci tende la mano»20, scrive Cristina Campo, si rischia di affondare come Pietro quando, invitato da Gesù a camminare con lui sulle acque del lago di Tiberiade, distoglie da questi lo sguardo. Ma la benevolenza dei Tre Fanciulli verso i loro protetti si fa amabile costrizione allorché questi, vinti dallo sconforto, non ce la fanno a sollevarsi da terra: come fece l’angelo del Signore sul monte Moria con Abramo, essi fermano il pugnale che Pamina sta rivolgendo contro se stessa, mentre al sempliciotto Papageno, sul punto di impiccarsi per non aver trovato alcuna «mogliettina», ricordano che il suo pianto potrebbe mutarsi in riso se solo si decidesse una buona volta di suonare il Glockenspiel. I Tre Fanciulli, allora, non sono i meri esecutori di un «alto volere» e in essi non v’è traccia alcuna dell’aristocratica compassatezza del Messo celeste il quale, senza proferire una sola parola, dirada l’«aere grasso», consentendo così a Dante e a Virgilio di entrare nella città di Dite21; al contrario sono creature coinvolte, come tutti noi, nella gloria e nella maledizione dell’esistenza, sono esseri che amano e che, amando, chiamano per nome l’oggetto del loro amore. Ecco, ciò che massimamente ci commuove è la semplicità, la familiarità, l’intimità con cui, appunto, chiamano per nome i tre protagonisti principali: «Tamino, coraggio!», «Papageno, taci!», «Guardate quale disperazione affligge Pamina!». I Fanciulli, insomma, non sono semplici etáiroi, benevoli “compagni” di viaggio, né magnanimi phil-ánthropoi, ma phíloi, “amici”, “prossimi”, nel significato, ci verrebbe da dire, evangelico del termine.

20  C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 2008, p. 156. 21  Cfr. Dante Alighieri, Divina Commedia, Inf. IX, vv. 76-84.

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L’ultima volta che li vediamo, come si legge nelle indicazioni sceniche riportate sul libretto, è nella grande festa con cui Sarastro e gli altri sacerdoti accolgono Tamino e Pamina nell’augusto consesso degli iniziati. Nessuna battuta è a loro riservata, ma è proprio il loro silenzio a consacrarne la bellezza: infatti, dopo aver pronunciato i Nomi dei phíloi, ogni altra parola non sarebbe forse fastidioso brusio? La castità del silenzio non è forse l’ultimo approdo dell’Amore22?

22  Per tornare ancora una volta a The Shining, Danny, il figlioletto di Jack Torrance, può essere inteso quale emblema del migliore Illuminismo, quello che mai si discosta dalla medietà umanistica e che trova mirabile compendio proprio nella Zauberflöte. Figura irriducibilmente antitetica al padre, Danny possiede the shining, la luccicanza: non “la luce” che abbacina tanto è intensa (e abbacinandoci ci condanna all’oscurità), ma solo un suo frammento, una sua scheggia, un suo barbaglio (per usare termini cari a Heidegger, non il Licht bensì la Lichtung). Forse si potrebbe tradurre shining anche con “chiarità”, intendendo con questa parola una luce occidua, che non ferisce la vista e che traccia con estrema nettezza i contorni di tutte le cose. La chiarità è un ritmo morale, è coraggio, ardimento, capacità di rispondere per qualcosa e per qualcuno; essa vede tutto, ma non ha la pretesa di spiegare tutto: se cedesse a questa tentazione si trasformerebbe in luce e quindi in tenebra. La chiarità, ancora, è senso della misura, intuizione del limite e umiltà di tornare sui propri passi. È proprio così che Danny si salva dal labirinto: calpestando al contrario le proprie impronte sulla neve, egli guadagna l’uscita e si salva (non così invece il padre, che s’imbatte nel mitico custode del labirinto ed è da questi ucciso, perché Torrance è il Minotauro di se stesso). In Danny ritroviamo le medesime qualità presenti nei genietti del Flauto magico di Mozart. Gli aggettivi che li qualificano possono essere intesi anche come una descrizione della luccicanza, la quale è una guida che ci fa uscire indenni dai labirinti della vita (nel film essa ha la voce di Tony, l’amico immaginario che anticipa a Danny ciò che sta per accadere, salvando così la vita a lui e a sua madre). I Drei Knaben mozartiani – Danny potrebbe aggiungersi a buon diritto a questo irresistibile terzetto – compiono, insomma, una riconciliazione (Aufheben?) con l’ombra. Ecco l’incomparabile magistero dell’estremo capolavoro operistico di Mozart: il mostruoso non è respinto, ma accolto; vi è chiarità, ma non luce; la gioia alla fine prende il sopravvento, ma non dimentica il dolore patito, il quale sempre le camminerà a fianco; il Più ha un timbro più forte del Meno, ma questo resterà sempre perfettamente udibile.

Parte II Di sirene, di incantatori e di altre vaghezze allettatrici e lusinghiere

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Tre interviste impossibili

1. Turandot Intervistatore – Da Pechino, un caro saluto alle gentili ascoltatrici e ai gentili ascoltatori. Ci troviamo dinanzi al Palazzo imperiale. L’alba – qui infatti sono circa le cinque e mezza del mattino – accende di un delicato rosa Tiepolo i marmi traforati delle mura, delle logge e delle altane. Sugli spalti, orifiamme rosse e arancioni si divincolano, si impennano e si asserpolano come draghi inquieti. L’enorme piazzale antistante è gremito di folla. Pur essendoci una moltitudine di persone, non si ode suono alcuno: la compostezza e la disciplina di questo popolo sono davvero ammirevoli. Si avverte, tuttavia, un senso di attesa a tratti insostenibile fremere tra le migliaia di cittadini qui convenuti. La giornata di oggi è storica: un uomo di nobile stirpe è riuscito a risolvere i tre enigmi che la principessa Turandot era solita porre a chiunque avesse avuto l’ardire di aspirare alla sua mano. Fino a poche ore fa qui a Pechino vigeva questa terribile legge: «Turandot, la Pura, / sposa sarà di chi, di sangue regio, / spieghi i tre enigmi ch’ella proporrà. / Ma chi affronta il cimento e vinto resta / porga alla scure la superba testa». E vi posso assicurare che, almeno fino a ieri, la mannaia del boia Pu-Tin-Pao non è mai rimasta in ozio. Principe Calaf: questo è il nome di colui che oggi sposerà Turandot. Ma ecco che sta

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entrando il corteo d’onore. Preceduti da un gruppo di soldati recanti le insegne imperiali, avanzano per primi i ministri Ping, Pong e Pang: pur nel rispetto che si deve alla loro carica, è impossibile non ravvisare in essi qualcosa di buffo, tanto che non stonerebbero tra le maschere della nostra commedia dell’arte. Seguono Pu-Tin-Pao con la sua mannaia e le guardie del corpo di Turandot in alta uniforme; infine, adagiata su un baldacchino che sembra avvolto in vapori di seta, ecco la Principessa. La nostra emittente radiofonica è riuscita ad avere con lei un’intervista in esclusiva assoluta. Senza indugio – il tempo che ci è stato riservato è breve – salgo rapidamente la scalea monumentale… mostro il lasciapassare alle guardie… e finalmente eccomi al cospetto della Principessa. Confesso con un certo imbarazzo che la mia rigida monogamia sta subendo un duro attacco: Turandot è di una bellezza sfolgorante – non mi sorprende che molti uomini abbiano perduto la testa per lei, nel senso non solo figurato dell’espressione. Con un leggiadro gesto della mano mi fa cenno di avvicinarmi… Altezza imperiale, è un sommo onore incontrarla. Mi permetta di porgerle le più sentite congratulazioni per le sue nozze da parte mia, della mia troupe e del paese che rappresento, l’Italia. Turandot – Gentile amico, sa, è stato proprio il nome dell’Italia che mi ha persuasa a riceverla. È dai tempi di Marco Polo il Veneziano che tra la Cina e il suo Paese vi sono saldi legami di amicizia. Tanti artisti italiani hanno diffuso nel mondo i colori, i suoni, la cultura, la calda umanità del mio popolo: il gesuita Matteo Ricci è autore del più antico mappamondo cinese, Italo Calvino con le sue Città invisibili ha magnificato la sapienza del mio avo l’imperatore Kublai Khan, e Giacomo Puccini ha composto un melodramma che ha dato fama immortale al mio nome per tutto l’orbe terracqueo. Intervistatore – Proprio di quest’opera vorrei parlare nel tempo che ci ha graziosamente concesso. Come Lei sa, Puccini non la terminò per morte sopravvenuta, ma a me questa spiegazione è

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sempre sembrata riduttiva, banale, persino offensiva del genio di questo grande compositore. Turandot – Continui, la seguo con la più viva attenzione. Intervistatore – Quello che voglio dire è questo: possibile che il Nostro non abbia lasciato neppure un brogliaccio, una bozza, un misero appunto sul modo con cui si sarebbe dovuta concludere la sua opera? Perché il Finale di un’opera è un po’ come la sua Ouverture: a volte in essa il compositore si diverte a celare il suo vero pensiero, a dispetto di quanto gli sia stato richiesto o imposto dai committenti. La musica – se davvero egli ne padroneggia i segreti, come era per Puccini – gli permette questo sublime gioco di nascondimento. Turandot – È intrigante quanto sta dicendo. Intrigante e soprattutto inquietante. Se sto seguendo bene il suo ragionamento, dovremmo concludere… Intervistatore – … che Puccini abbia volutamente lasciato incompiuta la partitura, sì, proprio così. Turandot – Mi perdoni, ma non le pare che la questione sia in fin dei conti peregrina? In fondo un Finale l’opera ce l’ha, anzi ne ha addirittura due, uno scritto da Franco Alfano e l’altro da Luciano Berio. Intervistatore – E questo non fa che confermare la mia ipotesi. Turandot – In che senso? Intervistatore – Il Finale scritto da Alfano non è che una corretta, e – lo concedo – artisticamente riuscita, trasposizione in musica di ciò che è scritto sul libretto. L’opera si conclude con la folla che inneggia, giubilante ed ebbra di felicità, al matrimonio tra Lei e il Prince Calaf? E allora avanti con un tripudio di grancasse e di fanfare, giù con i rulli di timpani, sotto con i gong! Turandot – Non trova che queste osservazioni siano ingenerose?

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Intervistatore – Non sia mai. Il più alto rispetto per il lavoro del Maestro Alfano: la sua chiusa, lo ripeto, è opera di alta ebanisteria. Con Berio, però, entriamo in un mondo affatto diverso. Turandot – Su questo non vi sono dubbi. È proprio per questo che preferisco il Finale di Alfano a quello di Berio: trovo quest’ultimo inutilmente difficile, intellettualistico, così lontano dalle indicazioni riportate sul libretto a cui un compositore dopotutto si deve attenere, così involuto, così… Intervistatore – … così enigmatico, Principessa? Turandot – Sì, ecco, enigmatico è l’aggettivo giusto. E triste, anche. Mi dica Lei dov’è l’happy end nella partitura di Berio. Suvvia, l’opera si conclude con un matrimonio, non con un funerale! Intervistatore – Oppure è vero il fatto che l’opera non si conclude né con un matrimonio né con un funerale, e che quindi non si conclude proprio. Turandot – Quello che dice è assurdo, mi perdoni. Perché mai non ci dovrebbe essere una conclusione? Guardi, se vi è un melodramma per il quale a buon diritto si può dire «e vissero tutti felici e contenti», questo è proprio la Turandot del Maestro Puccini. Nella stragrande maggioranza del repertorio operistico, come lei ben sa, i protagonisti non fanno una bella fine, per non parlare poi delle donne che sono o strangolate dal marito geloso, o pugnalate a morte, o avvelenate, o bruciate, o tumulate vive in un sepolcro, o costrette a saltare nel vuoto, o consumate dalla tisi. Nella mia opera nulla di tutto questo. Sì, è vero, rotola qualche testa, ma giusto per aggiungere una spezia esotica al racconto. Poi c’è Liù che, poveretta, si suicida. Mi ha addolorata quel gesto, ma alla fine è la gioia a trionfare. Ricorda? «O sole! Vita! Eternità! / Luce del mondo è Amore!». Intervistatore – Perdoni se ardisco parlarLe in questo modo, ma credo che Liù, la dolce, fedele, pudica Liù sia la pietra in

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cui inciampa il suo ragionamento, Maestà. Se vi è un personaggio in cui Puccini si è identificato, questo è proprio Liù. Ella, a differenza dei pretendenti, del magnifico Principe Suo consorte Calaf e di Lei stessa, soave Altezza imperiale, fino alla morte si rifiuta di sciogliere l’enigma, per il semplice fatto che l’amore, come la morte, è un enigma insolubile che giammai potrà essere ridotto, svilito, degradato in una parola, per quanto alta essa sia. Vi sono misteri che travalicano la nostra comprensione e davanti ai quali le parole sono lallazioni, balbettii puerili. Misteri, aggiungo, davanti ai quali persino la musica, che pure di tutte la arti è la regina, è costretta a tacere. Ecco perché Puccini non ha concluso la sua opera. Ecco perché Berio ha scritto un Finale enigmatico, in cui la musica si sfilaccia come una nuvola sotto il respiro di zefiri leggeri. Turandot – E di grazia, quale sarebbe stata la mia colpa? E quale quella del mio Calaf? Intervistatore – Non credo che la terminologia giuridica sia la più indicata, preferirei parlare, più che di “colpa”, di “errore”, lo stesso in cui cadde Edipo quando sfidò la Sfinge e i suoi enigmi. Turandot – Ma che dice, Edipo risolse l’enigma della Sfinge e liberò la città di Tebe dalla pestilenza! Intervistatore – Edipo si illuse di sciogliere l’enigma. In realtà si limitò a dargli una risposta, che dal punto di vista logico non faceva una grinza, ma, ripeto, non lo sciolse. Da questo malinteso gli derivò la peggior sorte che mai sia toccata a un mortale: essere l’assassinio del proprio padre, il marito della propria madre e il fratello dei propri figli. Perché parlo di malinteso? Certo, l’uomo è l’essere che, nelle diverse stagioni della sua vita, cammina ora su quattro, ora su due, ora su tre piedi, ma dire “uomo” non significa risolvere l’enigma che questa parola custodisce. Che cos’è, infatti, l’uomo? Chi potrebbe mai misurarne le altezze e le profondità, o scrutarne gli abissi del cuore? Proprio a Tebe, dopo i giorni del trionfo, Edipo scoprì che

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l’uomo è molto più di una parola e che la Sfinge, che egli aveva creduto vinta, lo avrebbe atteso in un’altra città, a Colono, dove gli avrebbe posto nuovi enigmi, enigmi difficili e grandi che non avrebbero avuto soluzione. Mi domandava, Maestà, qual è l’errore Suo e del Principe Calaf? Credo di averle risposto. Turandot – E così il suicidio di una schiava, di una schiava dico, di una fanatica segretamente innamorata del suo padrone acquista ora lo statuto di atto eroico per eccellenza? Un atto di viltà e di diserzione passa ora come il più sublime dei sacrifici? Ma andiamo, Lei si fa beffe di me! Intervistatore – Viltà e diserzione? No, Maestà: pudore! Il pudore di chi, sapendo quanto sia da megalomani affermare di conoscere se stessi – «Io sono Calaf, figlio di Timur» esclama il suo promesso sposo, una esclamazione, me lo consenta, che avrebbe fatto rabbrividire i Greci – e soprattutto quanto sia da megalomani affermare di sapere che cosa sia l’amore, preferisce tacere. Ma il suo è il silenzio di chi sa molte cose a cui non si può dare un nome perché il loro nome, come dice un altro indimenticabile personaggio pucciniano, è «poesia»; è il silenzio del mistero, è il silenzio quale ultimo rifugio dell’amore stesso. Turandot – Dunque per Lei l’abilità del mio Calaf nella risoluzione degli enigmi e le parole con cui io ho dato voce ai miei sentimenti non sarebbero altro che manifestazioni di tracotanza, di ýbris per dirla con i suoi amati Greci? È così, ho inteso bene? Intervistatore – Lungi da me il recarle offesa, soave Principessa. Il mio discorso era solo per metterla in guardia, per dirle che forse la vostra storia non finisce qui a Pechino, dinanzi a questa folla che vi adora e che non vede l’ora di celebrare le vostre nozze, che forse in un’altra città del suo vastissimo impero, Altezza serenissima, vi attende la Sfinge per porgervi altri e più difficili enigmi, quegli enigmi che hanno nome vita e che come tali non posso essere detti, ma soltanto vissuti.

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Turandot – Bene, se così stanno le cose, credo che non abbiamo altro da dirci. Com’è che diceva quel famoso filosofo viennese? «Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere». Addio. Intervistatore – Principessa, la prego, non si adonti. Mi dispiace che l’intervista abbia preso questa piega. Augusta Principessa, ancora una domanda, la supplico…! Niente da fare, se ne è andata. Le guardie del corpo, con orribile mutria, mi fanno cenno di andarmene. Non ho intenzione di farmelo ripetere. Rivolgo un’ultima occhiata a Turandot. Ma che sta facendo? Mi sta fissando e nel contempo sussurra qualcosa all’orecchio del boia Pu-Tin-Pao… Per la Grande Muraglia! Che fa? Cos’è quel gesto della mano sulla gola a imitazione di una lama che affonda nelle carni? Meglio darsela a gambe! Non vorrei che domani le edizioni del mattino riportassero in prima pagina: Enigmatica morte a Pechino di un giornalista italiano rinvenuto senza testa.

2. Zerlina Intervistatore – Da Praga, un caro saluto alle gentili ascoltatrici e ai gentili ascoltatori. Stiamo trasmettendo da un palco dello storico Teatro degli Stati, dove si tennero le prime rappresentazioni del Don Giovanni e della Clemenza di Tito di Wolfgang Amadeus Mozart. Confesso che sono quasi senza fiato per l’emozione, o meglio, se mi consentite l’uso di una dotta parola di origine greca, per il tháuma, che è un garbuglio inestricabile di piacere e insieme di dolore, di stupefazione e nel contempo di profondissima mestizia per non poter conservare gli attimi belli di quella stupefazione. Ogniqualvolta mi capita di entrare in un teatro lirico la mia fede nell’uomo, che quotidianamente è fiaccata dalle notizie, non di rado terribili, che leggo sui giornali e dalle innumerevoli punture velenose di cui siamo fatti bersaglio ogni giorno, si ritempra: il fatto che esseri dall’esistenza

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transeunte abbiano concepito l’idea di “teatro” – e tutto ciò che questa idea custodisce: orchestra, musica, scenografia, libretti, costumi, recitazione, regia – mi sembra la più alta dimostrazione della loro nobiltà. Questi sentimenti sono elevati all’ennesima potenza dal teatro in cui oggi ci troviamo per via delle memorie mozartiane che esso custodisce. Come ricordavo poc’anzi, qui il 29 ottobre 1787 avvenne la prima rappresentazione del Don Giovanni, un’opera-mondo, se mai ve ne fu una, destinata a rendere insonni le notti di poeti, di filosofi e di scrittori, ognuno alla ricerca della chiave giusta per accedere all’interno della sua officina mistica. E proprio del Don Giovanni di Mozart oggi intervisteremo uno dei personaggi più sognanti, delicati, ma anche, consentitemelo, complessi: non è un caso che Theodor Adorno le abbia dedicato un celebre Omaggio, ravvisando in lei il simbolo di un’umanità non più angariata dal feudalismo e non ancora corrotta dall’ipocrisia borghese1, e che Hermann Broch l’abbia eletta a protagonista di un celebre racconto, dove ella, con raffinata perfidia, scoperchia impudicamente il verminaio che si nasconde dietro la rispettabilità coniugale2. Accanto a me c’è Zerlina, la «donzelletta che vien dalla campagna», come direbbe un nostro grande poeta, la promessa sposa del rustico Masetto, la contadinella adorna di vezzi e di moine il cui «visetto d’oro, inzuccherato» non sfugge all’occhio rapace di Don Giovanni. Grazie per aver accolto il nostro invito, signora Zerlina. Zerlina – Grazie a voi per l’onore che mi fate. Mi permetta, però… signorina, non signora. Intervistatore – Mi perdoni. Pensavo che Lei e Masetto vi foste sposati dopo quella folle giornata, piena di contrattempi, 1  Cfr. Th.W. Adorno, Omaggio a Zerlina, in «Lettera internazionale», n. 28, 1991, p. 47. 2  Cfr. H. Broch, Il racconto della serva Zerlina, tr. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2016.

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di malintesi e di incomprensioni. L’invito che Lei rivolge a Masetto «a cenar in compagnia» sembrava promettere il più radioso lieto fine. Zerlina – Così non è stato, purtroppo. Ma vede come siamo schiavi delle convenzioni. Ho detto “purtroppo” perché in qualche modo mi sono sentita obbligata a corrispondere al suo rammarico, quando io invece non ne provo punto. “Purtroppo” esprime un’amarezza, un dispiacere, un rimpianto che proprio non sento miei. La prego, non mi giudichi male. Masetto è il più caro ragazzo di questo mondo e gli auguro ogni bene. Io, però, la felicità che egli merita, non avrei saputo dargliela. Intervistatore – Dunque nel corso di quella cena è accaduto qualcosa. Zerlina – Già, la cena con Masetto. L’ha notato? Sono stati versati fiumi di inchiostro sulla cena di Don Giovanni, quella in cui egli invita la statua di pietra del Commendatore, rifiuta di pentirsi e precipita negli inferi accompagnato da un coro di diavoli, ma non un solo rigo è stato scritto sulla seconda cena di cui si fa menzione nell’opera, quella tra me e Masetto, appunto. Sì, è vero, a essa si accenna soltanto, ma è mai possibile che siano stati scritti interi trattati su singole parole dell’opera, che ogni verso sia stato compulsato con le più raffinate armi della critica, e che agli occhi di tanti accademici togati sia sfuggita, invece, quella seconda cena? Intervistatore – In effetti, signorina Zerlina, la “seconda cena”, come Lei la chiama, è pressoché invisibile: giunti alla fine del­ l’opera siamo a tal punto frastornati dalla bellezza della musica e sgomenti da quanto è accaduto, soprattutto nella penultima scena, quella dell’«uomo di sasso» intendo, che davvero non ci si fa caso. Zerlina – E invece ormai dovrebbe essere noto che la profondità si nasconde sulla superficie.

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Intervistatore – In effetti due geni del teatro quali Mozart e Da Ponte nulla aggiungono e nulla tolgono che non sia funzionale all’azione drammatica, e che non apra altresì orizzonti interpretativi ben più vasti del mero dettato letterale. Lei mi ha messo una pulce nell’orecchio, cara signorina. Zerlina – Se così è, sarei curiosa di ascoltare la sua interpretazione. Intervistatore – Lei mi vuole rubare il mestiere. Zerlina – La vera intervista è un dialogo, non un monologo. Intervistatore – Questa è senz’altro un’affermazione condivisibile. Bene, io la vedo così. In un’opera tutta dominata dall’eccesso – eccesso che raggiunge il suo culmine proprio nella cena a base di fagiano e di Marzemino –, la vostra cena potrebbe essere un ritorno alla normalità, un raggio di sole primaverile che dirada, con un tocco di suprema leggerezza, l’atmosfera plumbea che si era addensata durante la fatale cena con il Commendatore. Lei e Masetto siete gli unici che si allontanano insieme; quanto agli altri, chi si ritira in un romitorio, chi se ne va in un’osteria, chi decide di rinviare sine die la data delle nozze. Voi invece no. Ha presente la stupenda immagine con cui si chiude Tempi moderni di Chaplin, con il Vagabondo che si allontana, mano nella mano, con la giovane Monella? Ecco, io vi immagino così, trotterellando verso casa, paghi soltanto dell’affetto che l’uno prova per l’altra. Non voglio dire che il vostro amore non sia stato messo alla prova: basti ascoltare il duetto Là ci darem la mano per accorgersi come ogni atto d’amore possieda fin dall’inizio la morte dell’amore; tuttavia resistete, e la vostra cena, ecco, è un lumino nella notte. Zerlina – La sua interpretazione è suggestiva, lo riconosco, suggestiva e commovente, ma sa: quella cena, invero, non c’è mai stata. Lungo la strada che ci portava a casa, Masetto ed io ci siamo separati…

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Intervistatore – Questo mi spiazza… Perdoni la mia sfacciata improntitudine: lei era forse innamorata di un altro uomo? S’intende che non è tenuta a rispondermi. Zerlina – Non si preoccupi, la sua domanda non è indiscreta. Sì, ero, anzi sono innamorata di un altro uomo. Intervistatore – Don Giovanni? Zerlina – Don Giovanni? Oh, no! no! Intervistatore – Beh, non sarebbe poi un’ipotesi così assurda. Comunque lo si giudichi, questi è un uomo dall’indiscutibile fascino. Le confesso – è lei che mi spinge a questa confidenza, parlando di intervista come dialogo –, le confesso un pensiero che, per timore di essere frainteso, ho sempre taciuto: il nostro sarà pure uno sfrenato libertino, un licenzioso, un dissoluto, tuttavia sono persuaso che ogniqualvolta tenti di conquistare i favori di una donna, egli la ami per davvero. Nel libretto non v’è traccia di questo, ma è la musica di Mozart a rivelarlo. Prima ricordavo il duetto Là ci darem la mano. Già il testo è bellissimo: quel «vorrei e non vorrei» è di una finezza psicologica senza pari; ma è la musica a dischiudere orizzonti di senso ignoti alle parole. Quell’«andiam», ripetuto lentamente per due volte, rivela un languore, una dolcezza, una malinconia così intensi che per forza debbono essere reali. Zerlina – Reali lo sono senz’altro, altrimenti mai avrei potuto rispondergli «presto, non son più forte…». Lo stesso si dica per donna Anna e donna Elvira: anch’esse sanno di essere state amate veramente da Giovanni, sia pure per un istante, con una passione che mai si trovò in un altro uomo. E quell’istante è stato tutto fuorché illusorio. Ma è sufficiente un istante d’amore per perdersi: noi donne lo sappiamo bene. Intervistatore – Dunque lei non è innamorata di don Giovanni. Allora di chi lo è?

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Zerlina – Di Amadé Mozart. Intervistatore – Come? Di Mozart? Zerlina – Potrebbe essere diversamente? Non capisco il suo stupore: lei stesso prima si era già dato la risposta quando, a proposito della musica mozartiana, sosteneva che questa è capace di mostrare spazi così vasti che mai le parole potranno ridire. No, forse ha ragione, forse lei non può comprendere. E non può comprendere perché non è una donna, una donna per la quale è stata scritta una simile musica – se ancora musica vogliamo chiamarla. Lei ricordava il duetto dell’intesa, quell’«andiam» che in poche note squaderna interi mondi. Ma che dire d ­ ell’Aria Batti, batti, o bel Masetto, con quel «pace, pace, o vita mia» che è il compimento di ogni pietà? E che dire, poi, della fisicità, dei frementi, vigorosi, santi appetiti della carne espressi dalla sonorità dei legni a suggello dell’Aria Vedrai carino, se sei buonino? Slancio fisico, certo, ma anche affettivo: la donna, qui, culla l’amato tra le sue braccia, un amato che è nel contempo anche il suo bambino, un bambino che si è smarrito nel bosco, che ha avuto paura e che ha bisogno di essere consolato. Come è possibile, allora, non innamorarsi di un uomo che ha scritto questa musica, di un uomo che ha tutto questo nel suo cuore? Intervistatore – Eppure sento vibrare una profonda mestizia nelle sue parole, cara Zerlina… Zerlina – Perché, amico mio, io sono soltanto voce, non l’ha ancora capito? Una voce che si disperde nell’aria leggera, che è essa stessa fatta di aria leggera. Come la ninfa Eco, ripeto il mio canto a un amato che non può vedermi né parlarmi né toccarmi. «O vita mia, in contento ed allegria notte e dì vogliam passar. Sì, notte e dì vogliam passar…». Intervistatore – Aspetti, non se ne vada…! Zerlina, ancora un istante…! Zerlina…! Tutto tace all’interno di questo glorioso teatro. Ombre inquiete si aggirano tra i palchi. No, Zerlina,

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tu non sei solamente una voce. Tu ci hai insegnato il lessico dell’amore, ci hai insegnato soprattutto come gli esseri umani si «etternano» quando amano. E possiamo vederti, Zerlina, possiamo parlarti e toccarti ogniqualvolta qualcuno ci parla «di sogni e di chimere, di cose che han nome poesia».

3. Mimì Intervistatore – Da Parigi, un caro saluto alle gentili ascoltatrici e ai gentili ascoltatori. Ci troviamo nella soffitta che fa da sfondo al primo e all’ultimo Quadro della Bohème di Giacomo Puccini. Dal finestrone, da cui si ha una vista mozzafiato della città coperta di neve, spiove una luce tersa, che ricalca con nettezza i profili delle sedie, dei quadri, delle tavolozze, dei libri, delle lampade a spirito, dei calamai, delle candele e di altri innumerevoli oggetti qui dentro ammassati, avvolgendoli nella chiarità di una struggente malinconia, chiarità che è l’emblema della vita vera e insieme della sua mancanza: l’attesa e il disincanto, il tempo di unire gli abbracci e il tempo di scioglierli, il tempo di ridere e il tempo di piangere, il mistero, insomma, delle piccole cose quotidiane che brilla al di là di ciò che appare, come il sole, in questa splendida mattinata invernale, brilla oltre le guglie traforate di Notre Dame e la cupola dorata degli Invalidi. Qui dentro si gela e se quel «poltrone di un vecchio caminetto ingannatore» non vivesse «in ozio come un gran signore» si starebbe un poco meglio. Ma è inutile che mi lamenti: che vita bohémienne sarebbe, infatti, se non si patisse il freddo e se non si morisse «d’inedia» per mancanza di denaro, come dice Marcello, il pittore? «Quando il bisogno ve li costringe, astinenti come anacoreti; ma se nelle loro mani cade un po’ di fortuna, eccoli cavalcare in groppa alle più fantasiose matterie […]; poi – l’ultimo scudo morto e sepolto – eccoli ancora desinare alla tavola rotonda del caso […]; contrabbandieri di tutte

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le industrie che derivano dall’arte, a caccia da mattina a sera di quell’animale feroce che si chiama: lo scudo» – ecco come Henri Murger, nella prefazione della sua Vie de Bohème, descrive questi artisti scapigliati; ed è proprio così. Seduta su un canapè vicino al finestrone, ecco Mimì, intenta a cucire fiori di seta. È lei che intervisteremo quest’oggi. Bonjour, Mademoiselle Mimì! Mimì – Bonjour, Monsieur! Prego, si accomodi, la stavo aspettando. Gradisce un cordiale? È l’unico rimedio che posso offrile contro il freddo. Purtroppo la legna è finita e le nostre finanze, ecco, non godono di buona salute. Intervistatore – Un cordiale sarà sufficiente, grazie. Permette? Chapeau, Mademoiselle, i suoi fiori sono davvero di ottima fattura. La fama di cui godono è più che meritata. Mimì – Merci, lei è molto gentile. «Ma i fior ch’io faccio, ahimè, non hanno odore…». Intervistatore – Non per questo sono meno belli. Mimì – Trova? La vede quella rosa, lì, sullo scrittoio? Ogni giorno la spio, ne osservo i petali, studio le nervature delle foglie, ne aspiro la delicata fragranza e una grande malinconia mi intristisce il cuore. Che cosa sono – mi chiedo – i miei fiori al paragone di quella rosa? Intervistatore – Se posso permettermi, credo che il paragone sia mal posto. Mimì – Mal posto, dice? Nel momento in cui tentiamo di imitare la Natura il paragone tra questa e l’opera delle nostre mani diviene inevitabile. Intervistatore – Lei ha centrato il problema: “imitare” la Natura. Ma è così? È questo che realizza l’artista? Una semplice copia di ciò che vede o ascolta? Mimì – Monsieur, mi pare di capire che lei sia della scuola di coloro che scorgono nell’opera d’arte non un’imitazione, bensì

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una ricreazione della Natura. Sta bene, ma crede davvero che la Natura abbia bisogno di essere ricreata? Cos’altro potremmo aggiungere, noi, che ella già non possegga? Intervistatore – La Natura è crudele, Mademoiselle, e l’arte si sforza, se non di spuntarne il pungiglione, almeno di renderlo meno velenoso. Mimì – Sì, quando osservo quella rosa, quando da quella finestra, in primavera, mi sporgo e vedo gli alberi che si rivestono di foglie e di fiori, pure io penso che sia crudele. Ed è crudele perché è meravigliosa, e la bellezza di cui si adorna mai noi riusciremo a imitarla – o a ricrearla, se preferisce. Intervistatore – «Aprile è il più crudele dei mesi», diceva un poeta. Mimì – E lo è davvero. Eppure quanto lo amiamo! Anzi, forse lo amiamo proprio per la sua crudeltà… Ma se solo si ha il coraggio di accettarla, questa crudeltà, ecco che il volto aspro e vorace della Natura si scioglie in un sorriso. Intervistatore – Gentile Mademoiselle, le sue parole mi toccano al punto che mi è difficile nasconderle il mio turbamento. Non era mia intenzione, mi creda, imprimere all’intervista una piega così malinconica. Mimì – Perché parla di malinconia, Monsieur? La prego, scacci subito queste ubbie. Prima, è vero, ho parlato della mestizia che provo quando metto a confronto i miei poveri fiori di seta con la rosa, ma, mi creda, in fondo la questione non è poi così importante. Non mi sopravvaluti, Monsieur. Siamo a Parigi e qui gli intellettuali sono di casa: Rodolfo è un poeta, Marcello un pittore, Colline un filosofo e Schaunard un musicista; ma io, io sono soltanto una grisette, una sartina. Ricorda le parole che canto nel primo Quadro, proprio vicino al tavolo accanto al quale lei è seduto? «La storia mia / è breve. / A tela o a seta / ricamo in casa e fuori… / Son tranquilla e lieta / ed è mio svago

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far gigli e rose. / Mi piacciono quelle cose / che han sì dolce malia, / che parlano di amore, di primavere, / che parlano di sogni e di chimere, / quelle cose che han nome poesia». Voilà: questo è il mio ritratto, senza nulla togliere, senza nulla aggiungere. Come vede, nulla di eccezionale. Intervistatore – Rimarrebbe stupita, Mademoiselle Mimì, se le dicessi che le parole che ha appena pronunciato sono quanto di più profondo io abbia mai udito? Mimì – Stupita e anche confusa, Monsieur. Dall’espressione del suo volto, però, mi pare di capire che vi è una domanda che le fa urgenza e che tuttavia trattiene per una sorta di pudore nei miei confronti. Ho accettato l’intervista e non ho alcuna intenzione di sottrarmi alle domande che Lei ha in mente di farmi. Per cui, la rassicuro e la invito a parlare con franchezza. Intervistatore – Sì, ha indovinato. La domanda che vorrei porLe è quella che mi sta più a cuore: anzi, solamente ora mi accorgo di averLe chiesto l’intervista giusto per farLe proprio questa domanda. Come Le dicevo, le parole che Lei canta durante il duetto con Rodolfo sono bellissime, bellissime perché possiedono il sigillo della verità: raramente la musica è riuscita a esprimere con tanta levità lo splendore della giovinezza, il suo amore totalizzante e insieme delicato come i petali della sua rosa, un amore simile a una folata di vento che tutto sconquassa, ma che all’improvviso può anche afflosciarsi e svanire. Ecco, ciò che mi turba e, lo confesso, mi fa piangere ogniqualvolta ascolto la sua storia, cara Mademoiselle Mimì, è proprio il senso della fugacità del tempo e degli attimi belli. Forse non esiste opera lirica al mondo come la Bohème dove gli Autori abbiano dato una così grande importanza agli oggetti della nostra quotidianità: persino il più umile scartafaccio è rivestito di porpora e oro. Ma vi sono in particolare due oggetti che inteneriscono quant’altri mai il cuore fino a straziarlo: la cuffietta rosa che Rodolfo Le regala al Caffè Momus e la logora zimarra che Col-

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line acquista nelle bancherelle prima di darsi al buontempo con Musetta, sempre al Momus. Quella cuffietta e quella zimarra ritornano nell’ultimo Quadro, ma il loro segno algebrico è, per così dire, invertito: essi sono il simbolo di una joie de vivre, come la chiamate voi Francesi, ormai irreparabilmente finita, anzi addirittura il simbolo compiuto dell’impossibilità di ogni joie de vivre. Quando per l’ultima volta Rodolfo tira fuori la cuffietta dal panciotto, dove la teneva custodita, sempre mi ritornano alla memoria questi versi, scritti da un grande poeta italiano: «Tutti riceviamo un dono. / Poi, non ricordiamo più / né da chi né che sia. / Soltanto, ne conserviamo / pungente e senza condono – / la spina della nostalgia»3. Mimì – Sono versi bellissimi, Monsieur, grazie per avermene fatto dono. Ha ragione: le cose hanno un’intensità a volte insopportabile: vorremmo pronunciare il nome delle cose, delle nostre piccole, buone cose quotidiane, ma non possiamo perché le parole ci si sciolgono in bocca. Ci vorrebbe un’altra lingua per dirle… ci vorrebbe un’altra lingua per amare… Intervistatore – Soprattutto per amare «quelle cose che hanno nome poesia», perché anche la poesia è una lingua condannata ad ammutolire. Mimì – Ma è davvero così? Lei prima ha parlato della memoria, dei versi di quel poeta italiano che Le ritornano in mente ogniqualvolta rivede il momento in cui Rodolfo mi mette per l’ultima volta la cuffietta. Ma grazie a quel flusso improvviso di memoria Lei rivede o piuttosto rivive questa scena? È proprio vero che non possiamo fare a meno delle parole? A quanti si sono commossi udendo la mia storia, io, ma anche Rodolfo e Colline, Marcello e Schaunard torneremo in mente come esseri vivi e rivivremo magari nello sconosciuto incontrato per caso 3  G. Caproni, Generalizzando, in Id., Tutte le poesie, Garzanti, Milano 2017, p. 802.

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su un treno o che è seduto accanto a noi a teatro. In qualsiasi momento un fiore di stoffa che per ventura ci capita per le mani o una rosa scorta alla finestra o un vecchio pastrano dimenticato in una sala d’aspetto può rivolgerci imperiosamente queste parole: «Coglimi ora e studiati di assaporare l’enigma di felicità che ti propongo». A proposito di vecchi pastrani. Le è noto come Colline sia solito infilarsi i libri che acquista nelle tasche della sua zimarra, tanto che queste si sono ormai sformate. Orbene, l’altro giorno, mentre la stavo spazzolando, ecco che da una tasca cade giù un libro. L’autore è un parigino che non avevo mai sentito nominare, un certo Marcel Proust, un uomo elegantissimo e di gran classe, stando alla sua fotografia riprodotta sul libro. Intrigata dal titolo – À la recherche du temps perdu –, mi metto a sfogliarlo. Il mio occhio a un tratto è catturato da un passo che mi colpisce al punto che credo di poterglielo ora ripetere pressoché nella sua integrità. Dice così: «Un attimo affrancato dall’ordine temporale ha ricreato in noi, per percepirlo, l’uomo affrancato dall’ordine temporale. E che costui confidi nella propria gioia è comprensibile, anche se il semplice sapore di una madeleine» – bizzarro questo riferimento al dolce più amato da noi Parigini – «anche se il semplice sapore di una madeleine non sembri logicamente contenere i motivi di tale gioia; come è comprensibile che la parola “morte” non abbia più senso per lui: situato fuori del tempo, che mai dovrebbe temere dall’avvenire?»4. Tutto – la rosa sulla finestra, i miei fiori di seta, la cuffietta rosa, la zimarra di Colline, il libro di Monsieur Proust, questa intervista – tutto sopravvivrà soltanto nei ricordi, che non sono altro che il rimpianto di un attimo, e poi svaniranno anch’essi. Ma solo il tentativo di averli raccontati, questi attimi, attraverso la musica o la scrittura, caro Monsieur, solo questo tentativo è già quasi una promessa di immortalità.

4  M. Proust, Il tempo ritrovato, cit., pp. 949 s.

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Duettino all’Inferno Un rondò capriccioso dal Don Giovanni di W.A. Mozart

Da qualche parte, nell’Inferno. Belzebù – Mi piace da impazzire il mio lavoro. Certo, esso richiede un impegno enorme, anzi un totale spirito di abnegazione. Qualcuno ha il coraggio di affermare che il Nemico non si addormenta mai e che sempre, notte e dì, rivolge il suo limpido sguardo misericordioso su quegli implumi bipedi che hanno il nome di uomini. Certo, certo, come no! Fanfaluche, ecco cosa sono: fan-fa-lu-che! Vi assicuro che io lavoro tanto quanto lui, anzi di più! Come dite? Egli non si riposa neppure la domenica e fa addirittura i doppi turni a Natale e a Pasqua? Bene: sappiate, però, che sono proprio quelli i giorni in cui io faccio gli straordinari. Che v’è, infatti, di più piacevole che catturare una preda proprio quando le campane intonano il loro lieto canto di bronzo, mille luci ammiccano seducenti dalle vetrine e tutt’intorno l’aria sa di festa, di tepore domestico, di calda intimità? E la catturo, la preda, in due modi. Prima di tutto mostrandole la vanità della sua gioia (è sufficiente ricordarle che l’indomani dovrà tornare al lavoro o che la tredicesima se ne è bella che andata per l’acquisto dei regali o che tra pochi giorni scadrà la rata del mutuo). Poche paroline appena che, sussurrate al­

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l’orecchio, le procurano il disincanto, il quale a lungo andare si trasforma in smarrimento e angoscia, i vini più squisiti che da sempre sono la migliore ricompensa per tutte le mie fatiche. Oppure, ecco il secondo modo, facendo scivolare lentamente la preda in una mondanità soddisfatta e lì, poi, farcela restare attraverso la ripetizione di gesti e di parole sempre uguali che alla lunga hanno un effetto oppiaceo sulla sua ragione. Vi confesso che questo è il metodo più sicuro di tutti (ci ho riempito decine di gironi): piuttosto che il grande peccato – che non di rado si rivela essere un subdolo cavallo di Troia del Nemico per riconquistare la pecorella smarrita – è preferibile un pulviscolo di minuscoli peccati, di molteplici cedimenti quotidiani, quasi invisibili presi singolarmente, ma alla lunga esiziali. Quanta fatica, però, richiede tutto questo! Perché ogni singola preda, sapete, deve essere studiata con somma attenzione: prima di attaccarla è necessario conoscerne le abitudini, le ubbie, le passioni, le paure, i desideri, i vezzi, i sensi di colpa, le vanità, le passioni, le debolezze. E questo richiede tempo, pazienza e soprattutto intuito e circospezione: il Nemico, infatti, non se ne sta con le mani in mano; anzi, pare che non abbia nulla di meglio da fare che prendersi cura di questi esseri fatti di terra e di fango. Oh, lo fa in modo molto discreto, debbo riconoscerlo: detesta i coup de théâtre e non entra mai in scena a suon di grancassa. Il suo passo è lieve come il respiro di un venticello primaverile. Ma appena ha fatto intuire la sua presenza, subito si ritrae dietro le quinte. Non avete idea delle perdite che ci procura questo tortuoso modo di agire. Il seme che getta nel cuore di questi vermicelli attecchisce subito e non vi dico poi la fatica che dobbiamo fare per estirparne il germoglio, che è molto più tenace di quanto le sue modeste dimensioni facciano supporre. Tuttavia, alla lunga, lo estirpiamo. Il nostro lavoro è difficile, ma non mancano le gratificazioni. In tutta confidenza gli affari vanno bene, anzi vanno talmente bene che a causa del sovraffollamento periodicamente dobbiamo aumentare lo

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spazio delle bolge: questo comporta maggiori spese di riscaldamento, ma volete mettere la soddisfazione di veder piangere i pennuti abitanti del cielo? Poveretti! Dovreste vedere come si disperano quando all’ultimo momento soffiamo loro da sotto il naso un’animuccia che essi erano già sul punto di accompagnare nel quartier generale del Nemico! Sì, mi piace da impazzire il mio lavoro. Oggi, però, sono contrariato. Tra poco riceverò una visita. Un ambasciatore del Nemico. Anzi, il principe degli ambasciatori. Solo a pronunciarne il nome v’è il rischio che mi venga un orzaiolo. Comunque avete capito, sì, è proprio lui. Sovente lo si vede svolazzare da queste parti, anche se non ne ho mai capito la ragione. La cosa è fastidiosa, ma tutto sommato sopportabile: giusto un cenno di saluto – è una conoscenza di vecchia data; in gioventù dividevamo la medesima nuvola: io suonavo la ribeca e lui l’arpa – e poi ognuno per gli affari suoi. Oggi, però, mi deve parlare. La cosa, già di per sé seccante, si fa opprimente quant’altra mai se solo penso al motivo della sua visita: la consegna di un plico per Don Giovanni. Don Giovanni, capite? Non un Nerone o un Attila o un Tamerlano qualsiasi; no, proprio Don Giovanni, il mio capodopera, la creatura nella quale mi sono compiaciuto, il simbolo stesso del mio regno! Don Giovanni, colui che ha trasformato il piacere – l’invenzione più sublime del Nemico – in un’arma di dannazione di massa. Per millenni i miei collaboratori, e ne ho di validissimi, si sono sforzati di produrre il piacere, ma invano. La sua formula è custodita nella roccaforte del Nemico e non v’è alcun modo di carpirla. Ma Don Giovanni, oh il mio Don Giovannino è riuscito ad aggirare l’ostacolo: ha spuntato l’arma dell’Innominabile o meglio l’ha ritorta contro di lui. Un successo sorprendente! Certo, noi gli abbiamo dato una mano, assecondando le sue inclinazioni naturali; in ogni caso, chapeau al suo genio! L’algoritmo in sé è di una semplicità disarmante: aumentare continuamente la brama di possesso e nel contempo diminuire il piacere, et voilà un’autostrada per l’Inferno!

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Ahimè, ecco che arriva. Mi ha visto. (Rivolto a Gabriele, con tono mellifluo) Da questa parte, caro! (Di nuovo tra sé) Per i sette peccati capitali, come è conciato? Imbarazzante, sembra un pappagallo vitaminizzato. Mi hanno riferito che dopo aver visto il suo ritratto dipinto dall’Angelico si sia fatto fare una tunica identica. Ma come l’ingrassa e come gli cade male sulle ali! E poi lo invecchia terribilmente… Ma zitti, eccolo che viene… (Rivolto a Gabriele, accennando un inchino) A che debbo che il principe dei messi celesti venga a me? Deve trattarsi di un’occasione solenne, altrimenti perché mai avresti indossato l’alta uniforme che tra l’altro, consentimi, s’intona a meraviglia con la delicatezza del tuo incarnato e con l’oro brunito della tua chioma? Gabriele – Dagli apprezzamenti che mi rivolgi arguisco un cambiamento dei tuoi gusti. Forse che ti sono venuti a noia i colori cupi di cui finora ti sei sempre circondato? Se così fosse, mi rallegrerei. Non solo: ti potrei addirittura suggerire il nome di qualche valente artista – su da noi ce ne sono di eccellenti, come tu ben sai – capace di consigliarti qualche miglioria da apportare al tuo palazzo che, non ti adontare se te lo dico, trovo alquanto tetro. Belzebù – La tua generosità mi confonde. Accolgo con gratitudine i tuoi buoni uffici e come segno di riconoscenza mi riprometto di farti recapitare un intero bancale di essenza di zolfo, della cui qualità mi faccio mallevadore, giusto per dare un tocco esotico alla tua nuvola e, all’occorrenza, per stemperare un poco l’odore di incenso di cui, sia detto senza offesa, a volte fai un uso eccessivo. Ma non penso che tu ti sia incomodato a venire fin quaggiù solo per discettare su colori e fragranze aromatiche. Mi anticipavi per lettera la consegna di un plico per Don Giovanni… Gabriele – Sì, eccolo, con la preghiera di darglielo di persona.

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Belzebù – (Dopo una pausa, con malcelato disappunto) Sarà fatto come tu chiedi. Gabriele – Suvvia, non crederai mica di darmela da bere! Siamo stati insieme sulla stessa nuvola talmente a lungo che riesco a intuire ogni pensiero che ti passa per la mente. In questo momento stai morendo dalla curiosità di sapere che cosa contiene l’involto – no, non mentire! Ebbene, ne hai licenza. Apri, apri pure. Belzebù – (A parte, rivolto al pubblico) Maledetto psicologo! Credetemi, mai e poi mai gli darei questa soddisfazione se non si trattasse di Don Giovanni, la gemma della mia corona! Sono il padre della menzogna, è vero, ma questa volta non so se riuscirò a dominarmi. (A Gabriele, con enfasi) Sono sinceramente commosso, non avresti potuto fornirmi prova più certa della tua amicizia. È vero, ultimamente ci siamo perduti di vista – ognuno di noi, del resto, ha scelto la sua strada; ma è cosa bella e motivo di gaudio vedere come il nostro affetto non sia stato minimamente intaccato dal tempo. È, allora, con i sensi del più profondo riconoscimento che dissigillo questo involto. (Sorpreso) Un libretto d’opera? (Legge) Don Giovanni ossia il dissoluto punito. Un dramma giocoso di Wolfgang Amadeus Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte. Gabriele – A Praga, in questi gironi, sta spopolando. Belzebù – (A parte, rivolto al pubblico) Mi erano giunte delle voci. Questo Mozart da tempo è un nostro sorvegliato speciale. Non passa giorno che non ci arrivino dispacci allarmanti sul suo conto. Ormai non si contano più le anime di coloro che, dopo aver ascoltato la sua musica, rivolgono un pensiero, per quanto fuggitivo esso sia, al Nemico di cui quella musica, si dice, sembra recare impressa l’effige. Ma cospetto! Al pennuto non scappa nulla; mi conviene stare al gioco. (A Gabriele) Un dono senz’altro singolare, lo confesso candidamente. Mi sia,

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però, concesso di farti codesta osservazione: a mio parere avete preso un abbaglio colossale, giacché quest’opera renderà più agevole il mio lavoro. Gabriele – E perché, di grazia? Belzebù – Suvvia, le tue qualità rabdomantiche si sono offuscate al punto da non capire che la licenziosità dei temi trattati corromperà l’anima di più di uno spettatore? Certo, leggo che il sottotitolo recita Il dissoluto punito, ma sotto leggo altresì il nome di Lorenzo Da Ponte. Contraddizione in termini più palese di questa non si dà. Si vede proprio che i vostri servizi segreti hanno perduto smalto, perché anche un infante sa che risma di uomo è questo Da Ponte: robusto bevitore di Tockai, gran fumatore di tabacco di Siviglia e soprattutto incallito sottaniere. Gabriele – Sorprendente! Da quando sei divenuto un esperto di morale? Belzebù – Macché morale! Fatti, crudi fatti! Guarda: questa è la copia di una pagina delle sue memorie dove il nostro annota che, mentre stava scrivendo il libretto del Don Giovanni, si sollazzava con una «giovane musa», una fantesca di appena sedici anni (giova ricordare che lui, invece, ne ha trentotto) per alimentare il suo estro poetico non appena questo cominciava a raffreddarsi. Delibiamo insieme qualche passaggio, ti va? «ella era pronta a venire da me al primo tocco di campanella»; e poco oltre: «io le permettea molto sovente tali visite; dovei alfine renderle meno spesse, per non perdere troppo tempo in tenerezze amorose, di cui era perfetta maestra»; e infine (venenum in cauda): «Una bella giovinetta […] ch’io avrei voluto amare come una figlia, ma…»1. Nota, ti prego, la squisita reticenza di questa avversativa, che dà vita a una delle pagine più voluttuose

1  L. Da Ponte, Memorie. I libretti mozartiani, Garzanti, Milano 2006, p. 126.

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della letteratura: ma. È un rapido giro di chiave, un secco colpo di chiavistello che spalanca la porta sui più lascivi amplessi… Gabriele – Moralista e pure critico letterario: in verità tu non finisci di stupirmi, caro amico. Permettimi, tuttavia, di dissentire. Dove tu vedi malizia, io scorgo un inappuntabile senso del dovere. Nel giudicare gli artisti dobbiamo essere di manica larga: essi sentono soltanto il richiamo imperioso della loro arte e a essi null’altro si richiede che obbedienza alla loro musa. È necessità di natura. Dovremmo rimproverarli se, così facendo, qualche volta escono dalla retta via? Sì, te lo concedo, ma con moderazione. Insomma: dovendo scrivere di un uomo dai costumi licenziosi, Da Ponte è divenuto egli stesso quest’uomo. Gergalmente si dice: “entrare nella parte”, “immedesimarsi nel personaggio”. In fondo, si parva licet, è ciò che ha fatto Colui al quale un tempo tu offrivi sacrifici di lode quando è venuto al mondo in una greppia di Betlemme. Belzebù – La tua difesa non difetta di solidi argomenti, lo riconosco, solidi e pure convincenti; peccato, però, che essi si infrangano dinanzi alla realtà dei fatti. Le tue stesse parole ti smentiscono. Hai appena riconosciuto che il Don Giovanni di Mozart ha quale protagonista un fior fiore di libertino e che il suo libretto è stato scritto da un uomo che, per entrare nella parte – uso la tua stessa espressione – è divenuto a sua volta un libertino. Ma così non c’è gusto! Così mi offri la vittoria su un piatto d’argento! E pensare che finora ti avevo stimato un degno avversario. A meno che… orribile sospetto! Quel sottotitolo… Il dissoluto punito… Non è che mi hai propinato una pappa moraleggiante, vero? Con lacrimucce e conversioni all’ultimo momento? Gabriele – Hai il libretto in mano. Leggi e giudica da te stesso. Belzebù – Lo faccio subito, perché se così fosse sarebbe proprio un colpo basso da parte tua. Vediamo un po’. Uhm, un tentato stupro seguito da un omicidio: l’inizio è dei più promettenti.

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Segue dappresso l’Aria del servitore: «Madamina, il catalogo è questo / delle belle che amò il padron mio. […] In Italia seicentoquaranta, / in Almagna duecentotrentuna, / cento in Francia, in Turchia novantuno, / ma in Ispagna son già milletrè». Corpo di un satanasso: se non è una apologia del libertinismo questa! Ma andiamo avanti, sono già tutto un fremito. «La ci darem la mano, / là mi dirai di sì»: mi tolgo il cappello dinanzi a questo capolavoro di seduzione. E adesso, dove ci sbalestra l’azione? In un camposanto? «Ah, ah, ah! […] Che bella notte! / È più chiara del giorno; sembra fatta / per gir a zonzo in cerca di ragazze». Don Giovanni parla così dentro un cimitero? Oh, sublime blasfemia! Ma v’è dell’altro: «Dell’empio che trasse al passo estremo, / qui attendo la vendetta». E lasciamolo attendere. Che gli replica il nostro Libertino? «Oh, vecchio buffonissmo! Digli che questa sera / l’attendo a cenar meco». Magnifico! Quale temerarietà! Anche il vilipendio dei morti ci ha messo dentro: Lorenzo Da Ponte non delude. Ma eccoci giunti alla fine: «Pentiti, cangia vita: / è l’ultimo momento!» E tu non mi cadere proprio all’ultimo momento, Lorenzuccio mio. «No, no, ch’io non mi pento; / vanne lontano da me». Bravo, bravo! Il “no” è ribadito per altre tre volte. E certo: omnia trina sunt perfecta, ah, ah, ah! «Cresce il fuoco, compariscono diverse furie, s’impossessano di Don Giovanni, e seco lo sprofondano». E questa scena dovrebbe incutere timore? Dovrebbe invitare alla conversione? Ma vogliamo pigliarci in giro? Che spasso, non resisto più! Zitti, ecco gli ultimi versi: «Questo è il fin di chi fa il mal! / E de’ perfidi la morte / alla vita è sempre ugual». E come no! Alzi la mano chi non ci crede! Ah, ah, ah, questa chiusa è pura estasi dell’empietà. Che sovrana presa in giro della morale! I cinque fessacchiotti rimasti sulla scena non si avvedono di essere stati gabbati? Che il vero vincitore è Don Giovanni? Dopo quest’opera, la vedo dura per i bigotti baciapile. Mi dicevi che a Praga sta spopolando? Ho l’impressione che tra non molto tempo, qui dentro, ci dovremo restringere

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assai. Ah, ah, ah! Mio diletto, qua la mano: oggi hai rinsaldato il sacro vincolo dell’amicizia che mi tiene a te avvinto. Ciò che mi hai fatto leggere è stata pura musica! Gabriele – Il tuo entusiasmo è per me incomprensibile. Ad ogni buon conto, se ti ho offerto motivo di diletto, mi compiaccio. Scusa, ma altre incombenze ora mi attendono. A proposito di musica: ricordati di consegnare a Don Giovanni oltre al libretto anche la partitura: bada che quest’ultima è rimasta ancora dentro il plico. Stammi bene. (Esce) Belzebù – Soave ti sia il vento tra le ali. (Al pubblico) Vi dico io cosa sono le sue “incombenze”: atti di deliberato sabotaggio ai miei danni. Potessi sapere in anticipo le sue mosse! Non so perché, ma anche i momenti di maggior trionfo – e non per vantarmi, se ne contano parecchi – conservano sempre un retrogusto agro a causa di una sensazione affatto nauseante che sempre mi accompagna: che la perfetta aritmetica del mio regno, cioè, debba prima o poi crollare. Ma le mie, ne sono consapevole, sono solo ubbie: non basta forse la perdita di una sola anima per decretare la sconfitta dell’Avversario? E quante anime stridono e gemono in questo luogo? Il loro numero è incalcolabile! Per cui, cuore mio, datti pace. Piuttosto, quel volatile impagliato ha detto che l’involto contiene anche la partitura dell’opera. Le darò un’occhiata, giusto per sincerarmi della pericolosità di questo Mozart. Ecco l’Ouverture. Molto bene! Questi accordi fortissimo in Re minore sono un ottimo biglietto da visita dell’Inferno! E sentite questi ottoni: neri come la notte, amari come la sconfitta, dolenti come un abbandono! Ora entrano gli archi… Di bene in meglio: il loro suono è un gemito che non conosce consolazione, un lamento che mai potrà trovare conforto: il lamento dell’uomo e del Nemico che, partendo da una minuscola cellula sonora, si allarga sempre più ghermendo il cosmo intero! Un De profundis sulla creazione che non esito a definire senza esempio! E adesso che

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accade? La scena è mutata! Ma che… ah, quale orrore! Donde questo soffio inarrestabile di vita, di luce, di speranza? Via, via, passiamo oltre! Qui, fine del primo atto, l’Adagio delle Maschere. Finalmente torno a respirare. Udite in quale groviglio di mestizia questi fiati avviluppano le voci. Però… aspettate… no, no, ancora non ci siamo! Come si permette codesto Mozart di ridurre tutto a gioco? Di strofinare anche le cose più serie con il sale del suo sorriso? Questo Adagio è un lamento a cui è stato spezzato il pungiglione! In ogni battuta vi è, sì, una tristezza insondabile, ma ancora più profonda è la tenerezza e la consolazione! Le orecchie stanno iniziando a dolermi per tutto questo rumore. Mozart è più infido di quanto pensassi: sarà opportuno allestire una sezione investigativa soltanto per lui. Ancora un assaggio di questa spazzatura e poi basta. Sentiamo il Duettino tra Don Giovanni e Zerlina. È il primo a esporre la melodia: (Cantando) «Là ci darem la mano, / là mi dirai di sì. / Vieni, non è lontano: / partiam, mio ben, da qui». La forosetta la riprende subito dopo, prolungandola leggermente: (Come sopra) «Vorrei, e non vorrei… / mi trema un poco il cor… / Felice, è ver, sarei; / ma può burlarmi ancor». Ecco di nuovo quella sensazione di nausea. Qualcosa a cui non riesco a dare un nome mi sta opprimendo il cuore. Andiamo avanti! Ora le domande e le risposte si fanno più serrate: (Sempre cantando) «Vieni, mio bel diletto! […] Io cangerò tua sorte!» Quale irresistibile seduzione e insieme quale soffusa dolcezza in questo richiamo! La testa sta iniziando a girarmi e le gambe a tremare. Dannato Mozart, davvero grande è la tua magia! «non son più forte», replica per tre volte Zerlina. Ma ascoltate come lo dice: la sua è una resistenza che si sta spegnendo a poco a poco; è un fiume impetuoso che si immette in un immenso e placido mare, trasformandosi in esso; è una candela che consuma il suo corpo per diventare solo fiamma… Che senso di oppressione! È come se stessi aspettando qualcosa che tarda a venire, ma che prima o poi verrà, che deve venire, la cui attesa però si

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prolunga in uno strazio indicibile… Ed ecco infine il duetto dell’intesa. Don Giovanni e Zerlina cantano ora ad una voce: (Cantando) «Andiam, andiam, mio bene, / a ristorar le pene / d’un innocente amor». Il Seduttore ha vinto, ma la sua vittoria non è come l’immaginavo. Dov’è qui, l’inebriante aroma del peccato? Dove la sconfitta della virtù e il trionfo grandioso del Male? Mozart ha trasformato il lubrico serpente della passione in un usignolo leggiadro, dalla cui ugola zampillano gorgheggi adamantini. Mi manca l’aria e ho le vertigini… (Assorto, tra sé) Mi sembra di scorgere qualcosa oltre la muraglia dell’inesplicabile contro la quale tutte le mie corrusche vittorie sembrano infrangersi. Non è Don Giovanni che ho udito cantare, ma un altro e ben più temibile seduttore, la cui lista aumenterà fino a comprendere ogni uomo, ogni animale, ogni pianta, ogni minerale, ogni pianeta, ogni galassia… fino a comprendere anche ME! Un seduttore spietato, che va a caccia della sua preda finché non la cattura. Non ho udito la voce di Don Giovanni, ma quella del Nemico… (Ritornando in sé) Follie! Follie! Belfagor, Alastor, Mefistofele, presto: convocate i Malebolge nel mio ufficio per una riunione straordinaria. Oggetto: “Creazione di un reparto speciale anti-Mozart: modalità e tempistica”. Prima però portatemi il mio smoking: se mi sbrigo riesco a essere a Praga per l’ultima replica del Don Giovanni. Esce, zufolando sommessamente «Là ci darem la mano».

Fine

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L’invito Una variazione sul Mozart e Salieri di A. Puškin

Lungo le rive dell’Acheronte. Cirri – (Ride sommessamente) Eh, eh, eh! Caronte – Come mai così di buon umore, M. Ignazio Cirri da Forlì1? Cirri – Non dovrei forse esserlo? Oggi, per me, è un giorno da segnare con un sassolino bianco! 1  Il compositore Ignazio Cirri (Forlì, 1711 – ivi, 1787), Maestro di Cappella della Cattedrale di Santa Croce di Forlì, non incontrò mai W.A Mozart. La sua fu una vita discreta, interamente trascorsa entro le mura cittadine, ignara o forse indifferente del vasto mondo che si estendeva oltre quelle. Tuttavia sarebbe errato, e persino ingiusto, definirla di secondo piano, almeno dal punto di vista musicale: le composizioni di Cirri per organo e le sue sonate per violino e clavicembalo sono di fattura raffinata e preziosa, che poco o nulla hanno da invidiare a quelle scritte dai più grandi compositori del suo tempo. Anche se non incontrò mai il genio di Salisburgo, è probabile tuttavia che di lui abbia sentito parlare da suo fratello Giambattista, il quale nel 1764, a Londra, dove ricopriva la carica di Maestro di musica alla corte del Duca di Gloucester, accompagnò al violoncello proprio Mozart in uno dei suoi primi concerti pubblici. Per la lettura del celeberrimo atto unico Mozart e Salieri si rimanda alla traduzione ormai classica di T. Landolfi in A. Puškin, Teatro e favole, tr. it. di T. Landolfi, Adelphi, Milano 2005, pp. 159-170.

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Caronte – Il motivo, di grazia? Cirri – Come ti è noto, uno dei pochi privilegi, per non dire l’unico, che ci è concesso quando, dopo aver attraversato le cineree acque dell’Acheronte, posiamo il piede – ammesso che ne abbiano ancora uno quelle larve livide e sghembe che siamo noi morti – in questo tenebroso regno che mai un raggio di sole rischiara, è la conoscenza delle cose future. Tutto ciò che lassù deve ancora accadere ci appare chiaro e nitido. È un privilegio da poco, te lo concedo; meglio sarebbe stato averne goduto quando eravamo ancora uomini, così almeno avremmo evitato quegli errori che qui siamo costretti a scontare. Ma in alcuni casi, come oggi appunto, esso è il più generoso dei doni. Caronte – Al fatto, Maestro! Ho i minuti contati. Sull’altra sponda mi attende una turba di anime da traghettare. Cirri – Ecco, ti sei già dato la risposta da solo, indomito Caronte. Caronte – Bada: il tuo parlar per enigmi mi sta crucciando. Cirri – Lungi da me, sempre umilissimo servo di vossignoria! Dimmi, piuttosto: che data è oggi? Caronte – 5 dicembre 1791. E con ciò? Cirri – Sì: 5 dicembre 1791. Lasciamelo ripetere ancora una volta, in modo da poterne gustare ogni parola, ogni sillaba, ogni vocale e consonante: (scandendo, quasi compitando) cinque-di-cem-bre-mille-sette-cento-novant-uno. Sono già quattro anni che attendo questo momento. Sai chi c’è tra le anime che si accalcano al di là di queste onde morte? Insignificante puntino in mezzo a una massa ribollente? Caronte – La cosa non mi riguarda. Considera che non ho neppure la lista dei nuovi arrivati: chi trovo, io carico. Questo è il mio lavoro e di altro non mi curo.

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Cirri – Neppure se ti dicessi che, a circa un miglio in linea d’aria da noi, volteggia l’anima di Wolfgang Amadeus Mozart? Caronte – Per le chiappe di Ade! Cirri – L’espressione non è l’epitome dell’urbanità, tuttavia è efficace. Caronte – Io sono soltanto un povero nocchiero, non ho sapienza né dottrina, ma Mozart! Mozart so anch’io chi è! Cirri – Interessante. Dimmi, che sai di lui? Caronte – Se non sapessi che è un uomo, fatto di fango come tutti gli uomini, direi che egli è un dio. Cirri – Uh, addirittura! Caronte – Ti meravigli proprio tu, che sei stato un musicista? Chi altri meglio di te può capire che chi scrive una musica di tale bellezza non mortale dovrebbe essere chiamato, ma creatura eterea, alata, sacra: un dio, appunto? Cirri – Ma io lo capisco, ottimo Caronte, e ne convengo. Questi (con enfasi) fu Wolfgang Amadeus Mozart. (Con maggior enfasi) Fu! Ora sai il motivo del mio gaudio. Caronte – Tutto qui? Una semplice coniugazione verbale? Cirri – Una semplice coniugazione verbale, dici! Ma la grammatica è tutto, perché essa ha a che fare con il Tempo! Come la musica, del resto: il timbro, l’altezza e l’intensità delle note non trovano forse i loro corrispettivi nei modi e nei tempi delle flessioni verbali? E che fanno, queste ultime, se non ordinare il Tempo, distinguere tra azioni passate, presenti e future? Mozart fu! Oh, la gravità sepolcrale di questo passato remoto, che pure alle mie orecchie suona così leggero! Oh, l’abisso che esso spalanca, in cui tutto ciò che vi precipita giammai potrà essere recuperato!

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Caronte – Fammi capire: tu sei contento che Mozart sia morto? Cirri – Te lo dirò tondo tondo: sì! Caronte – (Sdegnato) Non sai quello che dici. L’umanità ha appena perduto uno dei suoi più grandi benefattori e tu esulti? Cirri – “Ha perduto”! Tu aggiungi musica alla musica! È come se, dopo aver ascoltato un tema dalla squisita fattura, questo fosse poi ripreso da un cristallino vibrato di archi, sommando così godimento a godimento. Sì, Caronte, esulto perché finalmente anche Mozart è diventato un gelido niente, una larva di fumo, un’eco fuggiasca. Giustizia è stata fatta. Caronte – Parole, tante belle parole che però omettono l’unica che davvero conta: invidia. Le tue parole velenose sono come un aspide che, appena uscito dalla bocca, ti si ritorce contro, ti colpisce agli occhi e ti acceca. Confessalo: la vista del genio mozartiano, che incede a passo di danza su un tappeto di asfodeli, ti è sempre stata insopportabile. Cirri – Mi aspettavo questa obiezione, che, in fede mia, considero alquanto grossolana e offensiva. Ti rispondo parafrasando il sommo Domenicano: «L’invidia è peccato quando è un rattristarsi perché il prossimo spicca nel bene; se poi il motivo è non già che il prossimo ha quel bene, ma che noi ne siamo privi, allora non c’è invidia, bensì emulazione»2. Anche l’ateniese Platone, che pure era un pagano, giunge, mi pare, a conclusioni non dissimili quando sostiene che Eros è desiderio non solo di contemplare la bellezza, ma anche di partorire cose belle. Con Mozart fui in nobile contesa fino alla fine dei miei giorni: la magnificenza della sua musica mi spingeva a comporre par-

2  G. Dal Sasso - R. Coggi, Compendio della Somma teologica di San Tommaso d’Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996, Peccati contro la carità, Questione 36, § 2, p. 219.

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titure che la eguagliassero, per quanto fossi consapevole che essa era irraggiungibile. Caronte – E allora cos’è che ti tormentava? Cirri – La mano che lanciò i dadi. Caronte – Parli ancora per enigmi. Cirri – Una mano prende i dadi e li lancia: esce Salisburgo. La stessa li lancia di nuovo: esce Forlì; a noi spetta solo la parte di burattini, agìti dalle mani di un puparo che ci doppia con la sua voce di ventriloquo. Ma mentre il primo burattino affronta viaggi per terra e per mare e incontra personaggi di alto lignaggio, il secondo, in ossequio a un copione a lui ignoto, è costretto a starsene per tutto il tempo della recita in un angolo, in disparte. Vorrebbe anche lui muoversi, ma i fili glielo impediscono. Tu vuoi sapere cosa mi tormentava? Ancora una volta è una questione grammaticale. Era l’ipotesi dell’irrealtà, il temponontempo dell’infinitamente vano “se”. Cosa sarebbe stato di me se avessi abbandonato Forlì? Questa fu la domanda che un giorno si affacciò all’improvviso alla mia mente e che mi perseguitò fino all’ultimo dei miei giorni. Perché, sai, l’occasione opportuna mi passò accanto, solo non riuscii ad acchiapparne il ciuffo e quella scomparve con un rapido guizzo. Nessuno che non l’abbia provato può intendere l’orrido smarrimento che provai quando mi accorsi che sarebbe stato sufficiente un ulteriore piccolissimo passo perché la mia vita prendesse altre strade. Mio fratello Giovanni Battista, a cui insegnai i rudimenti dell’arte musicale e che divenne poi un valente concertista e compositore apprezzato in tutta Europa (pensa che fu lui ad accompagnare Mozart quando questi, all’età di otto anni, tenne un celebrato concerto pubblico!); mio fratello, dicevo, insistette a più riprese perché lo raggiungessi a Londra, presso il Duca di Gloucester del quale fu Maestro di Musica, ma non so nemmeno io se per una congenita pigrizia, o per la salute che già in quegli anni mostrava le prime avvisaglie delle infermità future,

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preferii starmene al calduccio nella mia tana. Ma “preferire” significa prendere una decisione, significa essere arbitri delle proprie scelte. È davvero così? Lo so, questioni immense, alle quali neppure questo luogo, che chiamano aldilà, riesce a dare una risposta. Però, anche ora che sono qui, non posso fare a meno di pormele. Che sarebbe stato di me se fossi uscito dal Duomo, in cui mi ero raggomitolato come una bestiola nella sua tana, pago del mio titolo da quattro soldi – Musicalis ­Capellae Praefectus –; cosa sarebbe stato di me se avessi lasciato la mia città e se avessi incontrato duchi e re, imperatori e papi? Mi sento come quell’amministratore disonesto che ricevette in custodia dal suo padrone un talento perché lo facesse fruttare, ma che lui invece, nel timore di perderlo, nascose sotto terra. Io sapevo di possedere un solo talento, a differenza di Mozart, ma non era questo, ti prego di credermi, che mi angustiava. La mia colpa, e la mia inconsolabile amarezza, consisteva nel fatto di averlo sotterrato. E nell’amarezza sono morto, girando tra le dita la mia unica moneta che nel frattempo si era arrugginita. Mozart invece no! Egli ha udito il ritmo della vita e con docilità lo ha assecondato. Da lui è uscita una melodia infinita, da me invece note dissonanti. Perché è solo questione di ritmo: se lo sbagli vai fuori tempo e non c’è più nulla da fare. (Pausa) Ma per fortuna c’è la morte! Ciò che gli uomini chiamano sommo male, in realtà è somma giustizia. Alla fine, quando cala il sipario, anche del migliore spettacolo resteranno soltanto carte sudice sul pavimento e spartiti spiegazzati sui leggii; e di tante note, di tanti talenti, di tanti come e perché sarà erede solo il silenzio. (Pausa. Con profonda mestizia) Mozart è morto… provo un piacere aspro, Caronte, senza gioia… Caronte – Va bene, va bene, scusa ma non ho più tempo per filosofeggiare con te. Parto, è ora. Comunque, se vuoi incontrare Mozart, tra pochi minuti sarò di ritorno. (Esce) Cirri – E con la musica di Mozart ti saluto, o mio invitto nocchiere! (Canta. Con ironica voce in falsetto)

159 Soave sia il vento, tranquilla sia l’onda, ed ogni elemento benigno risponda ai [tuoi] desir.3

Corpo di Bacco! Ma è un fulmine! Incredibile, è già di ritorno. Certo che il vecchio ci sa fare con i remi. Ecco, sta attraccando. Che emozione! Voglio fissarlo negli occhi, questo Mozart, e gustare sul suo volto l’espressione di chi, da ricco, si è trovato improvvisamente povero. (Rivolto alle anime) Avanti, su, muovetevi, fate in fretta! Ehi, tu, non vedi che stai ostruendo il passaggio! No, non di là, la passerella è alla tua sinistra! Forza, scendere, scendere! Ma… un momento… Non vedo lui! Eppure sono scesi tutti. Non è possibile, ci deve essere un errore! Caronte, Caronte, hai dimenticato il passeggero più importante! Caronte – Ti sbagli, non ho dimenticato proprio nessuno. Cirri – E Mozart dov’è? Caronte – Per essere morto è morto, avevi ragione tu. Solo che non è qui. Cirri – (Sconvolto) E dov’è, allora? Caronte – E non gridare! Non lo so. Forse troverai la risposta in questa lettera. È indirizzata a te. Me l’ha consegnata un angelo poco fa. Dice che è molto importante. Tieni. (Gli consegna la lettera) Cirri – Una lettera… per me? (La dissigilla e inizia a leggerla) Reverendissimo M. Ignazio Cirri, credo che non le sia ignoto il mio transito avvenuto in data odierna. Le confesso che, contrariamente a quanto temevo,

3  W.A. Mozart, Così fan tutte, I, 6.

160 esso è stato di una semplicità sbalorditiva, come quando, nella propria casa, si passa da una sala all’altra, con l’unica differenza che la sala dove sono entrato e da dove ora Le sto scrivendo, è infinitamente più spaziosa, più luminosa, più… “bella”, per usare un aggettivo caro a voi Italiani, di tutte quelle che vidi quando ero all’altro mondo: neppure negli appartamenti pontifici o in quelli dell’Imperatore d’Austria se ne trovano di eguali. Perdoni queste osservazioni, da imputare soltanto a una mente frastornata da un eccesso di bellezza. Il motivo per cui Le scrivo è presto detto. Da quanto ho potuto capire, già da tempo era atteso il mio arrivo. Infatti, non appena ho varcato la soglia della grande sala una folla immensa, che mai avrei potuto contare, mi ha accolto con un lunghissimo applauso. A un certo punto una voce ha gridato: “Ci suoni qualcosa, caro Mozart!”. Mi volto e vedo accanto a me un’orchestra al completo. Al grandissimo stupore si unì una gioia ancora più grande quando mi accorsi che i musici dell’orchestra erano Bach, Jommelli, Pergolesi, Gluck e Scarlatti. “Carissimo Amadé, ci manca solo un violoncellista e poi possiamo iniziare!”, mi dice Bach, calcandosi la parrucca sulla testa. Fu allora che mi sono ricordato di Lei, colendissimo M. Cirri. Come sa, il Suo stimatissimo fratello Giambattista suonò con me a Londra in un indimenticabile concerto pubblico. Nei giorni successivi egli non solo mi parlò di Lei, confessando che senza il suo magistero tanto di lui non sarebbe stato, ma mi mostrò altresì alcune Sue sonate per cembalo e violino, la cui limpidezza di scrittura unita alla profondità delle idee ivi espresse mi invogliarono a studiarle con una tale voracità che in breve le imparai a memoria. Posso affermare, in tutta sincerità, che grande è il mio debito nei Suoi confronti: ad un orecchio bene allenato, infatti, non possono di certo sfuggire certe influenze del Suo stile su numerose mie partiture. Quando poi a Bologna, nella quadreria del nostro comune amico Padre Martini, vidi il Suo ritratto, mi sembrò di conoscerLa da sempre e di avere trovato in Lei, se non un padre, di sicuro un fratello maggiore.

161 A questo punto avrà senz’altro intuito il motivo per cui Le scrivo: a nome mio e di tutti gli altri illustrissimi musici qui riuniti, La invito a raggiungerci subito per suonare insieme con noi. Il nobile Caronte, latore della presente, è informato di tutto e di certo avrà la compiacenza di accompagnarLa. Contando i minuti che ci separano, resto il Suo devotissimo amico ed estimatore Wolfgang Amadé Mozart.

(Pausa) Sono confuso… Sono stordito… Il cuore mi scoppia di gioia… Dunque Mozart, Mozart sapeva di me? Al gigante non era sfuggito il nano? E tu, mio buon Caronte, eri a conoscenza di ogni cosa e non mi hai detto nulla? Caronte – Ti rispondo con la solita frase fatta: Vuolsi così colà ove si puote ciò che si vuole. Allora, andiamo? Cirri – Subito, subitissimo! Ma dimmi: quanto pensi che durerà il concerto? Caronte – Come sai io sono all’oscuro di tutto: obbedisco e basta. Tuttavia, questa è una delle poche domande a cui mi sento di rispondere senza timore di essere sconfessato. Mi chiedi quanto tempo durerà il concerto? Ma per l’eternità, M. Cirri, per l’eternità!

Fine

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Postfazione

Gli Aperitivi Culturali legati al festival lirico maceratese da ormai tredici anni offrono, a un pubblico non solo di melomani, approcci multidisciplinari al melodramma. L’opera lirica di per sé è un intreccio di molteplici discipline: la musica, il canto, il teatro, la danza, la pittura contribuiscono a realizzare una magia mai uguale a se stessa. La maggior parte dei libretti d’opera proviene da famosi testi letterari che librettisti e musicisti “ricreano” e rielaborano per farne un’opera nuova, o meglio, per tradurla in un nuovo linguaggio. Tutto questo fa sì che l’opera lirica sia un linguaggio universale comprensibile a tutti e capace di suscitare sentimenti condivisi. Sul palco degli aperitivi culturali si sono avvicendati intellettuali e artisti di varia estrazione. Ognuno è partito dalla propria disciplina e l’ha interpolata con la singola opera in cartellone o con il tema del festival, creando appuntamenti originali e inediti. Andrea Panzavolta è stato un protagonista indiscusso degli aperitivi culturali dei quali interpreta lo spirito e la “missione”. Forse perché racchiude in sé una molteplicità di conoscenze e di interessi. Andrea Panzavolta sa di musica, di filosofia, di letteratura, di teatro, di cinema, di diritto ed è capace di analizzare e interpretare l’opera lirica utilizzando tutti questi linguaggi. I

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suoi interventi sono dei piccoli saggi multidisciplinari, capaci di affascinare anche chi non conosce l’opera lirica, e sono nel contempo uno stimolo ad appassionarsene: l’opera lirica viene così inserita nella storia del pensiero, dalla mitologia classica al postmoderno. In questi piccoli capolavori l’opera lirica (della quale Panzavolta è profondo conoscitore) serve da “occasione” per riflettere sul destino degli uomini e delle donne che spesso sono posti di fronte a enigmi insopportabili o a passioni travolgenti. Già dai titoli è evidente la ricerca di una chiave interpretativa originale e profonda. La costruzione dotta e a volte “difficile” del tema scelto si scioglie alla fine in una risposta limpida e chiara alla domanda iniziale. In un crescendo incalzante e avvincente, vengono svelate le trame e gli intrecci che prima di tutto hanno avvinto l’Autore. E allora Manrico trova una via d’uscita dalle mura del carcere attraverso l’amore gratuito di Leonora, Tosca non si fa colpevolizzare da Scarpia, i proustiani ricordi di Mimì sono una promessa di immortalità, Jago è interpretato con Dostoevskij, l’enigma di Turandot andava subìto, Il flauto magico ci insegna che la notte è più chiara del giorno, fino alle deliziose “interviste impossibili” che scoprono il lato pop di Panzavolta ed evidenziano l’amore indiscusso per Mozart (sul quale del resto l’Autore ha già scritto un pregevole saggio). Andrea Panzavolta sa d’opera e di tutto il resto. Cinzia Maroni Direttrice artistica degli Aperitivi Culturali del Macerata Opera Festival

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Indice dei nomi e delle opere

1789. I sogni e gli incubi della ragione  106, 113 19 luglio 1936: il dovere della libertà 57 Abramo  14, 119 Adorno, Theodor Wiesengrund 130 Agamennone 40 Alfano, Franco  91, 94, 125-126 Alighieri, Dante  119 Altri vivono in noi, e noi viviamo in loro, Gli 115 Angelico 144 Angelus Novus 26 Apocalisse  82-83, 105, 114 Apuleio 101 Arcipelago, L’ 72 Aspettando Godot 68 Auden, Wystan Hugh  24 Baccanti, Le 24 Bach, Johann Sebastian  160 Baioni, Giuliano  110

Bassarids, The 24 Baudelaire, Charles  90 Beckett, Samuel  68 Beethoven, Ludwig van  80 Benjamin, Walter  26 Bentham, Jeremy  105 Bergman, Ingmar  101, 106-107, 109, 117 Berio, Luciano  91-92, 125-127 Bertolucci, Attilio  60 Bodei, Remo  79 Bohème, La  59-61, 63-64, 66, 135, 138 Boris Godunov 46 Brevi inattuali sullo studio dei classici 70 Broch, Hermann  44-45, 130 Bufalino, Gesualdo 25 Burckhardt, Jacob 110 Cacciari, Massimo  39, 42, 70, 72 Calvino, Italo 124 Camera da letto, La 60 Campeggiani, Pia 88

166 Campo, Cristina 119 Camus, Albert  52, 56-57, 78 Cantico dei Cantici 101, Canto delle sirene, Il 21 Canetti, Elias  54-55 Caproni, Giorgio  66, 139 Caro Herr Mozart, cari compositori 115 Càssola, Filippo  21 Cavallari, Alberto  56 Ceronetti, Guido  111 Chaplin, Charles  132 Chiaromonte, Nicola  77 Chiesi, Roberto  107 Cicerone, Marco Tullio  18 Cinema di Ingmar Bergman, Il 107 Cirri, Giovanni Battista  153, 160 Cirri, Ignazio  153-161 Città invisibili, Le 124 Classicismo e rivoluzione 110 Clemenza di Tito, La 129 Colli, Giorgio  92, 95-96, 99 Considerazioni sulla storia universale 110 Corrispondenze secondo Baudelaire 92 Corti, Maria  21 Così fan tutte  Curi, Umberto  24, 74, 75, 105 Da Ponte, Lorenzo 100, 132, 145148 Dalla parte di Swann 28 De finibus bonorum et malo­rum 18 De la Barca, Calderón  36, 40 Delitto e castigo 53 Demonî, I  49, 83, 90

Divina Commedia 119 Doctor Faustus 79-81 Don Carlos 46 Don Giovanni  129-130, 141, 145147, 151 Dostoevskij, Fëdor  49, 53, 79, 83-84, 89-90, 164 E le dolcissime offerte  59 Edipo 93 Edipo re 74 Elektra 60 Eletto, L’ 46 Eliot, Thomas Stearns  65, 117 Endiadi 74 Eneide 34 Ermete 22 Eschilo  34, 40, 69 Esilio di Elena, L’ 78 Etica e infinito 48 Euripide 94-95 Falstaff 41-42 Favola di Amore e Psiche, La 101 Fedone 101 Fedro  20, 23 Fenicie, Le 94-95 Flauto magico, Il  103, 106-107, 114-115, 116-117, 120, 164 Forme del bello, Le 79 Forza dello sguardo, La 105 Fratelli Karamazov, I  84, 89 Fronte ai classici, Di 70 Generalizzando 139 Geofilosofia dell’Europa 72 Germania e i Tedeschi, La 110 Gerusalemme liberata, La 26 Gesù  14, 51, 82, 119

167 Giacosa, Giuseppe  61 Giobbe 50 Giovanni (evangelista)  80, 82 Goethe, Johann Wolfgang  106107, 109-112, 114 Goya, Francisco  111-112 Grande bellezza, La 43-44 Hamletica 42 Händel, Georg Friedrich  80 Hawthorne, Nathaniel  33-34 Heidegger, Martin  120 Henze, Hans Werner  24 Hermes, la guida delle anime 22 Hofmannsthal e il suo tempo 45 Hofmannsthal, Hugo von  36, 3941 Hölderlin, Friedrich  79 Idiota, L’ 53 Ildegarda di Bingen  80 Iliade  22, 96 Illica, Luigi 61 Imperdonabili, Gli 119 Imprevisti della storia, Gli 48 Incantatrici, Le 106 Inno a Ermes 21-22 Inni omerici 21 Isaia (profeta)  110-111 Jaspers, Karl  40 Jommelli, Niccolò 160 Kallman, Chester  24 Kavafis, Kostantinos  92-93, 99 Kerényi, Károly  22, 24 King, Stephen  113 Kleist, Heinrich von  114 Klemperer, Victor  75

Kubrick, Stanley  27, 113 Leopardi, Giacomo  88 Lettera scarlatta, La 33 Lévinas, Emmanuel 47-48 Libro del profeta Isaia, Il 111 Lighea 20 Lingua del Terzo Reich, La 75 Lirici greci 59 LTI, v. Lingua del terzo Reich, La 75 Luca (evangelista)  51 Lutero, Martin  111 Macbeth 41 Macchia, Giovanni  114 Mann, Thomas  46, 64-65, 79-82, 89, 110, 113 Massa e potere 54 Matteo (evangelista) 51-52 Memorie 146 Metamorfosi (di Ovidio)  19, 2325 Mi rivolto dunque siamo 57 Michon, Pierre  46 Mimnermo  59, 64-65 Miti d’amore 24 Miti e misteri 22 Moniti all’Europa 110 Montagna incantata, La 113 Moreau, Gustave  92 Mozart e Salieri 153 Mozart, Wolfgang Amadeus  100, 103, 106, 115-117, 120, 129130, 132-134, 145, 147, 149151, 153, 155-161 Murger, Henri  136 Nascita della tragedia, La 95

168 Nietzsche, Friedrich  95 Norma  69-70, 73, 76, 78 Nozze di Figaro, Le 60 Odissea  9, 18-19 Olimpiche 98-99 Omaggio a Zerlina 130 Omero  9, 18-19, 26, 96 Operette morali 88 Orizzonti di gloria 27 Orwell, George  105 Otello  41, 60, 69-70, 73, 75-76, 79, 81 Otto, Walter  22 Ovidio  10, 19, 23-26 Pene d’amor perdute 80 Pergolesi, Giovanni Battista  160 Persiani, I 34 Pietro (apostolo)  119 Pindaro  22-23, 92-93, 97-99 Pitiche  23, 97 Platone  23, 26, 101, 156 Polo, Marco  124 Principe di Palagonia, Il 114 Proust 68 Proust, Marcel  28, 66, 68, 140 Puccini, Giacomo  43, 55-56, 59, 60, 67, 91, 94, 99, 124-127, 135 Puškin, Alexander  153 Quasimodo, Salvatore  59 Quattro quartetti 117 Racconto della serva Zerlina, Il 130 Ragioni dell’ira, Le 88 Re Lear  41, 88

Ricci, Matteo  124 Ricerca del tempo perduto, Alla 28, 66 Ricordati che eri straniero 111 Ring des Nibelungen 60 Ritorno dell’ombra, Il 112 Ritorno di Euridice, Il 25 Rosenkavalier, Der 60 Sapienza greca, La  92, 95, 97, 99 Scarlatti, Domenico  160 Schikaneder, Emanuel  107, 115 Settimo sigillo, Il 101 Shakespeare, William  41, 88 Shining, The  113, 120 Signorina Bisturi, La 90 Situazione drammatica, La 77 Socrate  14, 20, 23, 85, 101 Sofocle 74 Sorrentino, Paolo  43-44 Spinelli, Barbara  111 Spirito dell’illuminismo, Lo 115 Spleen di Parigi, Lo 90 Starobinski, Jean  106, 112-113 Storia del genere umano 88 Straniero 75 Summa di teologia 156 Supplici, Le 69 Taccuini 52 Tasso, Torquato  26 Teatro delle marionette, Il 114 Teatro e favole 153 Tempi moderni 132 Tempo ritrovato, Il  66, 68, 140 Terra desolata, La 65 Tobia 118 Todorov, Tzvetan  115

169 Tomasi di Lampedusa, Giuseppe 20 Tommaso d’Aquino  156 Tonio Kröger 65 Torre, La 36 Tosca  43-44, 46, 50 Totalità e infinito 48 Tractatus logico-philosophicus 102 Traviata, La 60 Trovatore, Il  33-34, 36-37, 4041, 60, 69-70, 73-76 Turandot 91, 99 Uomo in rivolta, L’ 56 Uomo invaso, L’ 25 Vangelo dell’infanzia, Un 115 Vanità e affanni 107 Verdi, Giuseppe  37, 41, 42, 81 Via di qua 24 Vicino & lontano 56 Vie de Bohème 136 Virgilio  10, 35, 119 Vita è sogno, La  36-37, 39-40 Vite minuscole 46 Wittgenstein, Ludwig  102 Zauberflöte zweiter Teil Fragment, Die 108  Zauberflöte, Die, v. Flauto magico, Il  60, 107, 111, 114, 116117

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Indice

Prefazione di Umberto Curi

p. 9

Introduzione

p. 17

Ringraziamenti

p. 29

Parte I Letture maceratesi Oltre l’«orrendo foco» della Storia. Il trovatore di G. Verdi

p. 33

Vincitori e vinti Tosca di G. Puccini

p. 43

L’eterna fragranza dei fiori La Bohème di G. Puccini

p. 59

Trilogia mediterranea Il trovatore – Otello – Norma

p. 69

Sciogliere o sopportare l’enigma? Turandot di G. Puccini

p. 91

L’inganno dell’ordine diurno Il flauto magico di W.A. Mozart

p. 103

172

Parte II Di sirene, di incantatori e di altre vaghezze allettatrici e lusinghiere Tre interviste impossibili

p. 123

Duettino all’Inferno Un rondò capriccioso dal Don Giovanni di W.A. Mozart

p. 141

L’invito Una variazione sul Mozart e Salieri di A. Puškin

p. 153

Postfazione di Cinzia Maroni

p. 163

Indice dei nomi e delle opere

p. 165

Passages

Collana di Storia della Filosofia Diretta da: Umberto CURI e Carmelo MEAZZA

1. Lucrezia Ercoli, Filosofia dell’umorismo. 2. Marco Fortunato, Decisione – Indecisione. 3. Andrea Panzavolta, Caro Herr Mozart, cari compositori. 4. Elio Matassi, Appunti sul presente. 5. Chiara Pasqualin, Il fondamento “patico” dell’ermeneutico. 6. Alexander Schnell, Husserl e i fondamenti della fenomenologia costruttiva. 7. Nicola Comerci, Vedere «da cento occhi». Nietzsche e la relazione. 8. Laura Sanò, Metamorfosi del potere. Percorsi e incroci tra Arend e Kafka. 9. Enrique Dussel, Le metafore teologiche di Marx. 10. Pierre Gisel, Cos’è una tradizione? Ciò di cui risponde, il suo uso, la sua pertinenza. 11. Andrea Panzavolta, La promessa delle sirene. Filosofia dell’opera lirica.

Passages | 11 «Chi sa solo d’opera non sa niente d’opera». Questo aforisma – sotto il cui segno si svolgono gli Aperitivi Culturali, propaggine filosofica dello Sferisterio Opera Festival di Macerata – bene compendia la ‘chiave musicale’ dei saggi qui raccolti, che sono le letture tenute dall’autore proprio in quella sede. Resistendo a qualsiasi pretesa di chiusura disciplinare e consapevole che la musica, e in particolare quella lirica che intrattiene con la parola un rapporto strettissimo, eccede la sua stessa configurazione sonora, l’autore ha cercato di investigare la pluralità dei testi che tramano in filigrana le opere liriche analizzate, di ciascuna evidenziando lo statuto strettamente filosofico. Perché filosofare significa tendere al lógos e quindi mettere in relazione (légein) i distinti con il resto, in una arcipelagica armonia. Questo processo di contaminazione tra varietà di mezzi espressivi si sviluppa pienamente nella sezione posta a suggello del volume, che contiene tre interviste impossibili a celebri eroidi del melodramma e due divertissements mozartiani.

Andrea Panzavolta (Forlì, 1971) – Dopo gli studi classici si laurea in giurisprudenza all’Università di Bologna. Allievo di Umberto Curi, è giornalista pubblicista. I suoi principali interessi di studio sono la letteratura, la musica, il cinema e il teatro. Al rapporto tra cinema, filosofia e letteratura ha dedicato due volumi, Lo spettacolo delle ombre (2012) e Passeggiate nomadi sul grande schermo (2013), entrambi pubblicati da Mimesis (Milano); sull’estetica musicale ha pubblicato per Inschibboleth (Roma) il volume Caro Herr Mozart, cari compositori (2014). Insieme a Pia Campeggiani ha curato il volume Il vangelo secondo Bergman (il melangolo, Genova 2018). Per l’editore Loescher (Torino 2018) ha redatto i lemmi per la sezione Grandi temi del pensiero del secondo e terzo volume del manuale di filosofia Il coraggio di pensare.

ISBN E-book 978-88-5529-016-6

€ 8,00