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Italian Pages 234 [237] Year 2023
Antichità al Presente 3
La logica della guerra nella Grecia antica Contenuti, forme, contraddizioni
Andrea Cozzo
Antichità al Presente - 3 Comitato scientifico: Francesca Romana Berno, Maurizio Massimo Bianco, Daniela Bonanno, Corinne Bonnet, Claude Calame, Andrea Cozzo, Sotera Fornaro, Franco Giorgianni, Sabrina Grimaudo, Angelo Meriani, Salvatore Monda, Daniela Motta, Elisabetta Poddighe, Umberto Roberto Direzione: Alfredo Casamento, Nicola Cusumano
ISBN (a stampa): 978-88-5509-574-7 ISBN (online): 978-88-5509-575-4 Realizzato con il contributo dei fondi di ricerca dell’Università degli Studi di Palermo © Copyright 2023 New Digital Frontiers srl Via Serradifalco, 78 90145 Palermo www.newdigitalfrontiers.com In copertina: Elaborazione grafica di Silvia Cozzo (a partire da Exekias e Dariusz Sankowski)
«La guerra è un atto di forza, all’impiego della quale non esistono limiti: i belligeranti si impongono legge mutualmente; ne risulta un’azione reciproca che logicamente deve condurre all’estremo» (K. von Clausewitz, Della guerra, tr. it. 1970, 22)
«Un omicidio è delinquenza; un milione è eroismo. Il numero legalizza, mio caro amico» (Charlie Chaplin, Monsieur Verdoux, 1947)
Indice Introduzione in forma (quasi) ‘tucididea’ 9 Cap. I Come nasce e si sviluppa una guerra? 1. Chi ha iniziato la guerra di Troia (e tutte le altre)? 1.1 Chi ha iniziato cosa? 1.2 «Fanno la guerra senza che sia chiaro quale delle due parti l’abbia cominciata» (Tuc. 4, 20, 2)
2. Giustificazioni di principio 3. Esternalizzazione del conflitto 4. Guerra giusta e religione. «Dio è con noi»? 5. Ricordare per fare la guerra
Cap. II Dinamiche di guerra 1. Retorica agonale e prassi reale 2. Retorica patriottica. “Solo per la difesa”? 3. Qualche pratica di supporto 4. L’ideologia dello scudo 5. Si va in guerra e in battaglia. La partenza dei soldati, la preoccupazione dei civili e le esigenze della patria 6. La continuazione della guerra… per darle senso e il divieto di dissenso interno 7. Declinazioni della “prevedibilità” della guerra e illusione della vittoria 8. Propaganda (1). Ovvero la prima vittima è la verità 9. Propaganda (2). Altre forme di distorsione
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comunicativa e qualche esempio di cancel culture 10. Tenere alto il morale dei propri soldati e prostrare quello dei nemici (1). Impaurire, ingiuriare, provocare 11. Tenere alto il morale dei propri soldati e prostrare quello dei nemici (2). Servirsi anche dei prigionieri 12. Sofferenze dei civili (1). Evacuazioni, asservimenti, stupri 13. Sofferenze dei civili (2). Effetti collaterali ed effetti ricercati. In guerra non ci sono crimini «inutili» 14. La guerra stigmatizzata
Cap. III Il ruolo dello storico 1. ‘Storia’ 2. Cosa raccontare. L’eroismo militare, o la formazione dell’histoire-bataille 3. A confronto con l’imperialismo
3.1. Polibio di Megalopoli: guerra difensiva e guerra di conquista 3.2. Diodoro Siculo: parcere subiectis, ma non solo 3.3. Dionigi di Alicarnasso: una storia (anche) per la pace 3.4. Plutarco di Cheronea: qualcosa in meno della «inutile storia» può bastare 3.5. Luciano di Samosata: istruzioni storiografiche di un non storiografo 3.6. Massimo di Tiro: superiorità della filosofia sulla storia (ma anche di un’altra storia possibile)
Conclusioni Bibliografia Indice delle cose notevoli Indice degli studiosi e delle studiose
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Introduzione in forma (quasi) ‘tucididea’
Questo libro sulle dinamiche della guerra nella Grecia antica è stato scritto parallelamente allo svolgersi e perdurare della sanguinosa invasione militare russa dell’Ucraina (24 febbraio 2022-) – «cominciando subito, al sorgere» del conflitto armato, e «aspettandomi che esso sarebbe stato grande», per dirla ironicamente, se è lecito in questo contesto, col noto inizio dell’opera di Tucidide (1, 1) – e alle narrazioni che politici, giornalisti e comuni cittadini ne hanno fatto. Vi sono menzionati qualche volta, brevemente e in maniera esplicita, anche fatti relativi al teatro delle operazioni belliche odierne ai quali quelli antichi risultano comparabili; a tal proposito, preciso subito che le fonti citate su quanto accaduto in Ucraina intendono avere valore puramente esemplificativo e che ciò che viene affermato su comportamenti di uno dei due schieramenti non esclude affatto l’esistenza di comportamenti analoghi, posteriori o precedenti a quelli specifici di volta in volta menzionati, da parte dell’altro schieramento: per una serie di motivi, legati sia alla mia non specifica competenza sia al fatto che le notizie su ciò che avviene in questa guerra fanno o possono far parte della dinamica bellica stessa in cui in quanto terza parte che supporta militarmente uno dei contendenti siamo coinvolti, non era certamente possibile rinvenire tutte le fonti. Lo scontro in Ucraina sta anche sullo sfondo generale del lavoro. Infatti, nei testi greci che trattano di conflitti bellici (non solo fonti storiche ma anche altre opere che, pur non intendendo proporsi come registrazioni di fatti, presentano una sostanziale coincidenza di vedute con la prima tipologia di scritti), ho inteso studiare anche le tematiche che via via si sono andate sviluppando e hanno dominato il racconto relativo alle ostilità odierne alle porte orientali dell’Europa. Il passato lo si legge sempre alla luce del presente, e leggerlo alla sua
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luce consapevolmente e in maniera trasparente e tale che il presente stesso possa guardarsi autocriticamente è meglio che farlo senza rendersene conto e senza renderne conto. Ho cercato in sostanza, in buona parte, la declinazione antica di ciò che i miei occhi hanno visto quotidianamente nel suddetto contesto internazionale dal 24 febbraio 2022; anzi, di ciò che i miei occhi hanno visto non solo guardando le scene trasmesse dalle reti televisive ma anche leggendo i giornali, e, soprattutto, che le mie orecchie hanno udito: perché la guerra, anche quando presentata con immagini provenienti dai luoghi in cui si svolge, è sempre accompagnata da parole che dicono dove siano state riprese quelle immagini, chi siano le persone che vi compaiono, da chi sia stato compiuto ciò viene mostrato, quale ne sia il contesto e il significato. Ed è questo che ci spinge a farci quelle che poi chiamiamo «nostre» opinioni che, credo, sarebbero ben differenti se potessimo guardare soltanto le immagini pure e semplici, non selezionate o almeno non commentate. Allora vedremmo solo l’orrore e la distruzione, il vero volto della guerra, da qualunque parte la si guardi, che ci potrebbe indurre all’unica domanda a mio parere sensata: come fare cessare quell’orrore e quella distruzione senza contribuire ad aggiungere a nostra volta altro orrore e altra distruzione? Non esistendo la possibilità di limitarsi esclusivamente a osservare e per giunta ‘a tappeto’, non ci resta che analizzare le parole che, appunto, vengono abbinate alle immagini o sono addirittura l’unico canale attraverso cui entriamo in contatto con la guerra e che ce la fa vedere in un modo o in un altro. Per la massima parte, le parole degli attori mediatici hanno posto, e suggerito a noi di fare altrettanto, domande diverse da quella appena presentata. Le più ricorrenti, e forse uniche, sono state: chi ha ragione? chi è il ‘buono’ (l’aggredito) e chi è il ‘cattivo’ (l’aggressore)? qual è la causa (rigorosamente al singolare) del conflitto armato? chi ha commesso crimini di guerra? quale delle due parti in conflitto fa propaganda e quale dice la verità? Domande, queste ultime, che hanno in qualche modo una risposta predeterminata da quella data alla prima, perché, una volta individuato il colpevole, il resto è quasi automaticamente conseguente. Sono tutte domande all’interno di un’impostazione del problema bellico che pensa la soluzione, sebbene dentro tempi per nulla definiti, in termini militari: ‘ovviamente’, basta capire chi è nel torto e porsi accanto, 10
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con le armi, a chi è dalla parte della ragione. Il che è ciò che istituzionalmente il nostro Paese, insieme a molti altri, ha fatto. Ma la questione è: si tratta di un’impostazione che possiamo ritenere corretta, utile o anche solo necessaria? Siamo veramente costretti ad agire così, o il sentimento di questa costrizione è esso stesso derivante dalle nostre abitudini culturali? Analizzando, come dicevo, la ‘versione greca’ del tipo di pensiero e di linguaggio che dai nostri Governi, partiti, media, social viene per lo più utilizzato nella narrazione della guerra in Ucraina, questo lavoro vorrebbe avere l’effetto indiretto di mostrare in che modo tale pensiero/linguaggio possa essere stato esso stesso, in qualche misura, funzionale alla guerra. La messa a distanza, in un orizzonte storico lontano, del nostro discorso quotidiano sulla guerra può contribuire, senza rinunciare alle differenze tra passato e presente, ad individuare anche le analogie e a vedere la logica intrinseca a tale discorso, le sue contraddizioni, la sua costruzione retorica e cosa resta, sotto tale costruzione, della realtà bellica. E a comprendere meglio, spero, in che modo la guerra, legata a ben precise pratiche discorsive, tanto dei protagonisti dello scontro quanto delle terze parti che si schierano con uno di loro, sia capace di arruolare tutti al suo servizio, facendo svolgere loro l’ufficio di inconsapevoli oliatori del suo meccanismo, inducendoli a credere di stare parlare un linguaggio da cui in realtà sono parlati. A comprendere meglio, insomma, come mai la guerra continui ad essere «un passato che non passa» ma che anzi si riproduce e si autolegittima – tramite noi stessi. Precisazioni e ringraziamenti Tranne che dove sia indicato diversamente, tutte le date sono da intendere a.C. Autori ed opere sono indicati in italiano, in forma abbreviata. Le traduzioni sono dell’autore. Mi è gradito ringraziare, per la loro lettura del testo e i loro utili suggerimenti, gli amici Nicola Cusumano e Roberto Pomelli e i due referee anonimi. Superfluo sottolineare che rimane mia la responsabilità di quanto è scritto.
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Capitolo I Come nasce e si sviluppa una guerra?
1. Chi ha iniziato la guerra di Troia (e tutte le altre)? 1.1. Chi ha iniziato cosa? La risposta alla domanda «chi ha iniziato la guerra di Troia?» sembra semplice e chiara. È infatti ben noto, perché lo dicono gli stessi protagonisti, che l’inizio (arché) consiste nel fatto che Paride, tradendo l’ospitalità offertagli da Menelao, abbia – per giunta, in qualche modo, col consenso di lei – rapito Elena. Lo ricorda già Menelao, in Omero: «molti mali soffriste per la mia lite e per l’inizio (hének’archés) dato da Alessandro», cioè Paride (Il. 3, 99-100). Ettore, poi, lo ribadisce (Il. 22, 114-116), e lo conferma la stessa Elena, dalle cui parole si comprende però che la situazione è più complessa di quanto si potesse sospettare. Infatti, la donna che, a proposito di Paride, menziona l’áte di costui (Il. 6, 356), lamenta anche l’áte che le ha procurato Afrodite (Od. 4, 261). La parola «áte», come è noto, in Omero indica l’«offuscamento mentale» momentaneo dovuto a un intervento divino, ma il fatto che Elena la tiri in ballo non significa che stia inventando una scusa. Infatti, l’idea è ribadita anche da Penelope: Elena non si sarebbe unita a Paride, certamente deve essere stato un dio a spingerla a compiere l’indecenza di seguire Paride, e lei non ha compreso l’áte da cui era derivato anche il dolore della partenza di Odisseo per Troia (Od. 23, 222-4). Come ho detto, l’áte è il temporaneo offuscamento mentale prodotto da una divinità che vuole perdere qualcuno1. Questi, benché non sia responsabile di ciò che compie in tale condizione, ugualmente 1 Sul funzionamento dell’áte omerica, cf. il classico Dodds 1951, cap. 1, e poi, p. es., Cairns 2012 e Cozzo 2019[a].
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ne risponde: il male fatto è, potremmo dire con una categoria odierna, colposo. Elena, in effetti, è una donna perbene, non è una che sia solita tradire il marito; allora perché lo ha fatto in questo caso, se non per una momentanea ‘distrazione’ da ciò che lei è sempre stata, che non può che esserle stata causata dall’esterno? Dunque, Elena e Paride non costituiscono la causa profonda, consapevole, dei loro atti. Essi non hanno la responsabilità – concetto che sarebbe espresso dalla parola aitíe, «causa, responsabilità, motivazione», che implica una certa partecipazione soggettiva – della guerra. Invece, áitioi, appunto responsabili, sono gli dèi, che hanno mosso guerra contro i Troiani, come riconosce anche Priamo2. D’altronde, si può comprendere il motivo per cui gli dèi avevano voluto tutto ciò: Era, Atena e Poseidone (ma quest’ultimo, come notava nell’antichità già Aristarco, qui è menzionato scorrettamente) odiavano «Troia e Priamo e il suo popolo per l’áte di Alessandro che aveva offeso le dee, quando giunsero alla sua capanna ed egli lodò colei che gli promise la dolorosa lussuria», nella ben nota gara di bellezza fra le tre divinità (Il. 24, 27-30). Quindi la guerra di Troia ha origine da un’áte causata da una responsabilità divina che è la risposta a un’áte forse dovuta alla volontà di Zeus di consegnare alla fama la figlia Elena o gli eroi che combattono per lei, e mette in moto il meccanismo del giudizio di Paride, cui è collegata probabilmente l’azione di Eris e del suo lancio della mela per la più bella (Apollod., Bibl. Epit. 3), oppure intenzionata ad alleggerire la terra dal peso demografico degli uomini (Canti Cipri F 1 Bernabè). Sembra allora di potere identificare un operatore umano all’inizio (arché) della guerra ma non nella sua causa ultima e consapevole (aitíe): le due nozioni non coincidono3. Peraltro, nella saga collegata alle vicende troiane, l’ingiustizia passava da una parte all’altra. Infatti, se i Greci avevano il diritto di fare la guerra e di vincerla, dato che, fattualmente, era stato Paride il primo, pur inconsapevole, offensore, poi «Zeus meditò nella sua mente un luttuoso ritorno per gli Argivi, perché non tutti furono assennati e giusti» (Od. 3, 132-3),
Cf. Il. 3, 164-5; cf. 6, 349, detto di nuovo da Elena: «gli dèi fissarono questi mali». Cf. Shipley 1999, 56.
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sì da scatenare l’ira di Atena facendo litigare tra loro Agamennone e Menelao (134 sgg.)4. E ciò senza considerare il fatto che i sacerdoti egizi, secondo Erodoto (2, 113-20), tramandavano una versione diversa di questi fatti, che ugualmente, anzi maggiormente, liberava Elena da ogni accusa. Questa, durante una sosta in Egitto lungo il viaggio verso Troia, sarebbe stata tolta a Paride dal re locale di allora, Proteo, per restituirla a Menelao, sicché non era mai arrivata a Troia; infatti, se Elena fosse stata a Troia, con o senza il consenso di Paride, Priamo e la sua famiglia l’avrebbero consegnata ai Greci per non «mettere a rischio la loro persona, i loro figli e la città» (2, 120, 2). A proposito del rapimento di Elena, e fuori dal mondo epico degli dèi, Erodoto mette in campo ulteriori elementi che rendono ancora più complessa la nozione di inizio della guerra, nonostante essa tenda adesso a sovrapporsi a quella di causa. Qui, innanzitutto, la catena di eventi che porta alla guerra di Troia, senza che siano tirati in ballo momentanei offuscamenti della mente umana dovuti ad interventi divini, è molto più lunga di quella rintracciata fino ad ora. Ma, come si vedrà subito, non cambia solo la cronologia. La questione, come si sa, per Erodoto è quella di individuare chi, tra Greci e barbari, abbia cominciato quella sequela di ingiustizie che poi arriva alla guerra dei Persiani contro i Greci di cui il nostro storico si occupa. A tale scopo egli ha interpellato i Persiani e i Fenici, oltre che i Greci, ed ecco il suo resoconto: «i Persiani dotti nelle cose del passato affermano che responsabili (aitíous) del contrasto (tés diaphorés) furono i Fenici. Questi infatti, (...) trasportando merci assire ed egiziane, giunsero, fra l’altro, pure ad Argo. (…) e, il quinto o sesto giorno dal loro arrivo, quando era stato venduto quasi tutto, vennero alla riva del mare molte donne e tra queste la figlia del re, che si chiamava – e la stessa cosa dicono i Greci – Io, figlia di Inaco. Mentre queste compravano presso la poppa della nave le merci che più piacevano loro, i Fenici, fattisi coraggio a vicenda, si lanciarono su di loro. La maggior parte delle donne fuggì ma Io, con altre, fu rapita. Imbarcatisi, andarono via navigando per l’Egitto. I Persiani, diversamente dai Greci, narrano che Io sia giunta in Egitto così e che questo sia stato dapprima l’inizio delle ingiustizie (tón adikemáton
4 La cattiva condotta dei Greci, probabilmente, consiste in azioni come la violenza di Aiace di Oileo su Cassandra nel tempio di Atena (Il. 4, 502).
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próton tóuto árxai). Affermano che dopo di ciò alcuni Greci di cui non sanno dire il nome, sbarcarono a Tiro di Fenicia e rapirono la figlia del re Europa, e questi sarebbero stati Cretesi. A questo punto il conto era pari. Ma poi i Greci sarebbero stati responsabili di una seconda ingiustizia (aitíous tés deutéres adikíes). Infatti, avendo navigato con una nave lunga fino ad Ea, in Colchide, presso il fiume Fasi, dopo avervi sbrigato degli affari per cui erano andati, da lì avrebbero rapito la figlia del re, Medea. Avendo il re dei Colchi mandato in Grecia un araldo a chiedere soddisfazione e che restituissero la figlia, quelli gli avrebbero risposto che, non avendo (sott.: i primi barbari) dato soddisfazione del rapimento di Io di Argo, neanche loro l’avrebbero data. Dicono che nella generazione successiva Alessandro, figlio di Priamo, avendo sentito parlare di questi avvenimenti, assolutamente sicuro di non doverne dare soddisfazione – visto che neppure gli altri la davano –, volle procurarsi con un rapimento una donna dalla Grecia. Così, avendo rapito Elena, ai Greci dapprima sembrò opportuno di inviare messaggeri a richiedere la restituzione di Elena e avere soddisfazione del rapimento. Ma, a loro che avanzavano queste proposte, fu rinfacciato il rapimento di Medea e che, non avendo essi dato soddisfazione, pur essendo stata chiesta, né avendo effettuato la restituzione, pretendevano di ricevere soddisfazione. Dunque, fino a questo punto dicono che c’erano stati solo rapimenti vicendevoli. Ma, da questo momento, i Greci sarebbero stati gravemente colpevoli (megálos aitíous): infatti cominciarono a fare una spedizione in Asia prima (protérous gár árxai stratéuesthai) che quelli la facessero in Europa. Infatti, dicono di ritenere che è opera di uomini ingiusti rapire donne, ma è da stolti, una volta avvenuto il rapimento, avere premura di vendicarsi mentre è da uomini moderati non curarsene: infatti, evidentemente, se esse non volessero, non sarebbero rapite. (...) E dicono che da allora ritengono che il popolo greco sia loro nemico. Infatti i Persiani considerano cosa loro i popoli barbari che abitano in Asia e ritengono che l’Europa e il mondo greco siano a parte. Così dicono i Persiani e trovano che la presa di Troia sia l’inizio (tén archén) della loro inimicizia con i Greci. Ma i Fenici, riguardo ad Io, non concordano con i Persiani, perché dicono di averla condotta in Egitto non con un rapimento ma in quanto ad Argo si era unita con il padrone della nave, e, quando seppe di essere incinta, vergognandosi davanti ai suoi genitori, salpò con i Fenici di propria volontà, per non essere scoperta. Ciò raccontano i Persiani e i Fenici. Ma io non vengo a parlare di questo, cioè se avvennero così o diversamente. Invece, dopo avere indicato colui che io so che per primo diede inizio ad azioni ingiuste (próton hypárxanta adíkon érgon) nei confronti dei Greci, proseguirò nel racconto trattando ugualmente di città umane piccole e grandi» (1, 1-5).
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Come si vede, ci sono diversi inizi, corrispondenti alle responsabilità dei popoli, che sono categorizzati non secondo i loro nomi propri ma secondo la dicotomia, propria del punto di vista greco, Greci-barbari5. Tali inizi seguono il seguente schema di azione e reazione (indiretta, in quanto ogni volta, tranne la prima, chi prende l’iniziativa si giustifica adducendo la precedente azione degli altri): 1. barbari (rapimento di Io), 1a. Greci (rapimento di Europa), / 2. Greci (rapimento di Medea), 2a. barbari (rapimento di Elena), / 2b.(=3a.) Greci (ma ad un livello conflittuale più ampio, quello per la prima volta propriamente militare, in cui rientra poi anche l’invasione della Grecia da parte dei Persiani). Anche in generale, la punizione o vendetta (tísis, timoría) svolge un ruolo esplicativo della dinamica storica6. Il racconto suggerisce però che forse, più che «chi ha iniziato la guerra?», ci si deve chiedere «chi ha iniziato cosa?». Si noti, infatti, che, dopo gli alterni rapimenti, i Greci, benché stiano reagendo proprio a un’offesa diretta, sono all’origine di un nuovo tipo di scontro. È questo che, a causa del maggiore impegno quantitativo messo in gioco (molti guerrieri che attaccano un’intera città), costituisce il passaggio anche a una diversa qualità del rapporto antagonistico, prima «contrasto» (diaphorá) e adesso «guerra» (pólemos), con una vera e propria spedizione. Questo è il motivo per cui, nello schema prima presentato, ho definito come 2b.(=3a.) questa fase, che è sì di reazione ma anche di escalation. Analogo salto si avrà nell’interpretazione comica della guerra del Peloponneso in Aristofane (Acarn. 523-9) e della guerra tra Albani e Romani nella storia romana arcaica di Dionigi di Alicarnasso (dove però il passaggio dai «contrasti» alla «guerra» avviene all’interno di una logica di voluto atteggiamento provocatorio)7. Insomma, c’è lo stesso salto per cui dalla strage 5 Per ulteriori riflessioni su questo schema e sul suo funzionamento nell’opera di Erodoto, cf. Cozzo 2019[b], 77 sgg. 6 Cf. Immerwahr 1956; De Romilly 1971; Darbo-Peschanski 1987, 112 sgg.; Lendon 2000 (che vede nella rabbia vendicativa un elemento di continuità tra mondo omerico e mondo storico). 7 Ant. rom. 3, 2, 2-3: per far sì che siano i Romani a dichiarare guerra a loro – dunque perché ne abbiano la responsabilità formale – l’albano Cluilio induce i suoi concittadini a compiere scorrerie (lestéiai, harpagái) nei campi dei Romani confinanti, sicuro che costoro prenderanno ufficialmente le armi e saranno così accusabili di avere iniziato (árcho) la guerra.
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delle Twin Towers di Osama Bin Laden a New York, compiuta l’11 settembre 2001, si passa alla guerra Usa in Afghanistan, o dagli scontri armati nel Donbass dal 2014 al 2021 si passa all’invasione russa dell’Ucraina il 24 febbraio 2022. In questi ultimi due casi il lavoro propagandistico sulle parole, tuttavia, è stato abbastanza evidente: nel 2001, il segretario della difesa Donald Rumsfeld parlava di «una specie di guerra» e il presidente americano George W. Bush dichiarava di condurre in Afghanistan una «operazione militare» denominata, dapprima, «Giustizia infinita» (Infinity Justice) e poi, per motivi mediatici, «Libertà duratura» (Enduring Freedom). Infine, è forse necessario ricordare che ‘noi’ non facciamo guerre ma svolgiamo «operazioni di polizia internazionale» o addirittura compiamo (bellicamente) «interventi umanitari»?8; Vladimir Putin, a sua volta, ha sempre tenuto a far passare il messaggio che la sua invasione costituisce ‘solo’ una «operazione militare speciale» e non una «guerra». A iniziare la vera e propria «guerra» di Troia, dunque, sembrerebbero essere stati i Greci, ma non senza una causa costituita dal comportamento troiano, che era legittimato da un precedente comportamento greco, che... Ma Erodoto, incerto su eventi così antichi come quelli prima accennati, decide di partire nella sua narrazione dal re della Lidia Creso, che egli «sa» essere stato «il primo (prótos) dei barbari» che «sottomise alcuni dei Greci al pagamento di un tributo» (1, 6, 2)9. Tuttavia, già Mimnermo (fr. 3 G-P, cf. Strab. 14, 1, 3-4) attribuiva la responsabilità iniziale delle tensioni tra Asia e Grecia all’occupazione dei coloni che si erano stabiliti a Colofone (argalées hýbrios heghemónes) da cui poi sorse la guerra con i Lidi (fr. 23 G-P)10. Stabilire quando inizia una guerra non è mai facile. E, ad essere precisi, da un certo punto di vista, si potrebbe ben dire che in generale non di causa è opportuno parlare quando essa scoppia ma di «decisione» all’interno di un certo quadro culturale, in quanto entrambi i gruppi in contrasto, per qualche motivo convinti che Cf. rispettivamente Dal Lago 2003 e Colombo 2013. Sul passaggio agli eventi di cui Erodoto si dichiara certo cf. Ingarao 2020, cap. 1, all’interno di considerazioni sul valore comunque paradigmatico dal punto di vista etico-religioso della punizione dell’intera Troia, città del colpevole Paride. 10 Moggi 1983. Cf. Mazzarino 1973, I, 41. 8
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ricorrere alle armi sia più proficuo che non farlo, non sono costretti a battersi ma, per desiderio di avere un di più o per difendersi o per paura o per altri fattori, scelgono di farlo11. 1.2. «Fanno la guerra senza che sia chiaro quale delle due parti l’abbia cominciata» (Tuc. 4, 20, 2) In realtà, il criterio del «primo» che di volta in volta comincia una guerra è di norma seguito da ogni parte in conflitto per giustificare la propria azione militare presentandola come reazione. Così, verso la fine del VI sec., secondo Erodoto, Dario, esaltato dalla floridezza del suo impero, «desiderò far pagare agli Sciti il fio del fatto che essi per primi (prótoi), avendo invaso la Media e avendo vinto in battaglia coloro che si erano opposti, avevano dato inizio all’ingiustizia (hypérxan adikíes)»12. Lo stesso Serse avrebbe invaso la Grecia «per punire gli Ateniesi», i quali «avevano iniziato a compiere ingiustizia (hypérxan ádika poéuntes)» unendosi al ribelle Aristagora e incendiando i boschi sacri e i templi di Mileto (7, 8, β 2-3). Erodoto dice di considerare l’invio di navi ateniesi in aiuto della rivolta di Aristagora «l’inizio (arché) dei mali per i Greci e per i barbari»13, e riferisce che, poi, gli Spartani «chiedono giustizia» a Serse per avere ucciso Leonida «che difendeva la Grecia» (8, 114, 2). Vale la pena soffermarsi un po’ sulla questione dell’incendio dei templi appena richiamato, perché essa diventa un topos eziologico. Il riferimento è a quanto successo durante la rivolta ionica ai Persiani, quando il tempio di Cibele a Sardi era andato a fuoco. Erodoto presenta l’accaduto come un incidente: semplicemente, il fuoco, appiccato altrove, si era propagato fino al tempio (5, 101, 1 e 102, 1). Secondo i Persiani, però, esso costituiva il motivo per cui, a loro volta, essi avevano poi dato alle fiamme i santuari greci14. I Greci, dal canto
Cf. Shipley 1999, 56. Erod. 4, 1, 1; cf. 118, 4 e 119, 2-3. 13 Ma ricordava anche che i Milesi erano coloni degli Ateniesi e mostrava le ricchezze di cui ci si sarebbe impadroniti (5, 97, 2-3; cf. già 5, 49, 4-8; cf., per la guerra del Peloponneso, le attrattive della Sicilia in Tuc. 6, 24, 3). 14 A Didima nel 494: Erod. 6, 19, 3; nel 490 a Nasso, a Eretria, a Abe e naturalmente ad Atene: cf. 6, 96 e 101, 3; 8, 33 – e, più in generale, 32, 2 – e 53, con massacro dei 11
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loro, rimproveravano ai nemici quest’ultima azione15 e dichiaravano di volerla vendicare. Così, in un vortice di accuse reciproche, nessuna delle due parti negava i «fatti» ma semplicemente li interpretava come dovuti a precisa intenzione o ad accidentalità – come anche oggi gli orrori bellici degli ‘altri’ sono condannati come segno della loro barbarie, mentre i ‘nostri’ vengono giustificati come incidenti o «effetti collaterali» – oppure partendo da un proprio inizio temporale, (8, 143, 2, e soprattutto 144, 2). Atene, costituendo la Lega delio-attica, aveva espresso l’intenzione di devastare il territorio persiano e vendicarsi di quanto aveva subìto (Tuc. 1, 96, 1) – ma anche, secondo i Mitilenesi che vi avevano preso parte, voleva agire inizialmente, più in generale, «per la liberazione della Grecia dal Persiano» (3, 10, 3), e così, in un certo senso, aveva continuato le guerre persiane. Ancora circa novant’anni dopo l’occupazione persiana di Mileto, lo spartano Callicratida chiede ai Milesi di impegnarsi nella guerra contro i barbari dato che essi avevano sofferto da parte loro moltissimi mali (Senof., Ell. 1, 6, 8). Ma il richiamo alla «colpa» degli incendi, in realtà impossibile da individuare, pur passando il tempo, non viene meno. È un motivo ideologico dalla risonanza troppo elevata per potervi rinunciare quando si vuole giustificare una propria guerra. Ad un secolo dalla fine delle guerre persiane, Filippo II, desiderando diventare leader di tutta la Grecia, avrebbe affermato di volere dichiarare guerra ai Persiani «e ottenere giustizia (labéin díkas) per la trasgressione (paranomía) che avevano compiuto nei confronti dei templi» quando avevano invaso la Grecia16. Ancora un cinquantennio dopo, la questione era tirata in ballo anche supplici; 144, 2; 9, 13, 2; quello di Delfi si sarebbe salvato solo in virtù di alcuni prodigi: 8, 35-39. 15 Cf. anche Esch., Pers. 809 sgg., dove è prevista una punizione divina. 16 Diod. 16, 89, 1-2 (cf. già Pol. 3, 6, 13). Su questo passo e sul suo linguaggio, simile a quello usato da Eschine (Contro Ctesif. 107 e 121) per i violatori del santuario delfico, che, come altri elementi, fa intravedere un qualche rapporto tra la nozione di guerra sacra e quella di guerra santa, cf. Musti 2002, 716-7, attento a non cancellare le differenze: «La nozione di “guerra santa” non appartiene dunque al lessico delle definizioni formali dei Greci, se non nella forma di “guerra sacra”; non è una guerra santa, e la guerra santa, la guerra totale, quando la si fa, si fa, ma non si dice: si può anche non dirla guerra “sacra”, a tal punto è forte la distanza tra l’uno e l’altro tipo di guerra. Guerra “giusta” è la categoria in cui si può inquadrare anche la guerra “sacra” dei Greci, che si combatte appunto per i diritti (per il “giusto”) di un santuario, e a 20
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nello scambio di lettere tra il re persiano Dario III e Alessandro Magno di cui riferisce Arriano. Il primo, dopo avere chiamato in causa l’antica amicizia tra Filippo II e Artaserse, e il fatto che Filippo «per primo, senza aver subìto nessuna molestia dai Persiani», avesse dato inizio (árcho) all’ingiustizia nei confronti di Arses, figlio di Artaserse17, aveva fatto notare che anche adesso era Alessandro ad invadere l’Asia (Anab. di Aless. 2, 14, 2). Ma quest’ultimo replicava ‘periodizzando’ diversamente: egli attribuiva l’inizio delle ostilità, di cui si proclamava vendicatore, ai Persiani, al tempo delle spedizioni di Dario e Serse che avevano assalito la Macedonia e la Grecia «senza essere stati, prima, vittima di ingiustizia», e invocava altre vicende in cui Dario risultava offensore piuttosto che offeso; infine concludeva ribadendo, ripetutamente, di avere marciato contro di lui ««poiché tu hai dato inizio (hypárxantos) all’ostilità» (2, 14, 4-6). Di nuovo, almeno nelle dichiarazioni attribuite ai protagonisti, invasione del territorio altrui e responsabilità di avere iniziato il conflitto non necessariamente coincidono. Ugualmente, poi, lo stesso motivo adduce Alessandro Magno (con disappunto di Parmenione e anche dello stesso Arriano, che ci dice di questa giustificazione ma non la legittima) quando decide di incendiare la reggia di Persepoli18. Inoltre, il topos dei templi greci incendiati da Persiani era stato forse presente anche nella propaganda periclea per il progetto di congresso di tutti i Greci nel 447 (Plut., Per. 17, 1-3). Come è evidente, lungi dal chiarire alcunché, la pretesa di individuare un «inizio» non portava a nulla: ognuno lo fissava nel punto temporale in cui voleva o credeva corretto fissarlo. Quanto ai rapporti tra Atene e Sparta antecedenti allo scoppio della guerra del Peloponneso, «dapprima, un contrasto (diaphorá) manifesto»19 era avvenuto in occasione di una rivolta degli Iloti che si erano rifugiati sul monte Itome, forse nel 462. Allora gli Spartani avevano chiamato in aiuto gli Ateniesi e questi erano accorsi. Poiché
seguito di una decisione dell’autorità (l’Anfizionia) che a quel santuario legittimamente sovrintende». Per il topos di «chi ha cominciato», cf. anche Cozzo 2019[b], 76 sgg. 17 Il riferimento è evidentemente alla spedizione del re macedone in Asia nel 336. 18 Arrian., Anab. di Aless. 3, 18, 11-2 e 6, 30, 1; cf. anche il racconto, con differenze, di Diod. 17, 72, 3 e 6. 19 Così Tucidide e poi altri; di arché parla invece Diodoro. 21
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però anche insieme non riuscivano a battere gli insorti, gli Spartani cominciarono a temere (déido) che gli alleati, che erano di un’altra stirpe, cioè ionica, potessero accordarsi con i rivoltosi. Quindi, a causa della diffidenza, li rimandarono indietro dicendo di non avere più bisogno di loro. Gli Ateniesi, però, compresero il motivo reale del loro congedo e considerarono il fatto un vero e proprio affronto. Pertanto si sciolsero dall’alleanza contratta con Sparta contro i Persiani e si allearono invece con gli Argivi, già ostili agli Spartani, e con i Tessali; inoltre, dieci anni dopo, quando quelli assediati ad Itome ottennero dagli Spartani di avere salva la vita a patto di andar via dal Peloponneso, gli Ateniesi, ancora «per odio verso gli Spartani», li aiutarono istallandoli a Naupatto che avevano preso di recente20. Tuttavia, queste non erano che avvisaglie (e non erano le sole). Il momento preciso in cui la guerra del Peloponneso ha inizio, Tucidide lo descrive nei termini seguenti: «la cominciarono (érxanto) gli Ateniesi e i Peloponnesiaci dopo avere rotto i patti di trent’anni stipulati dopo la conquista dell’Eubea. Sul perché li ruppero, ho scritto prima le cause (tás aitías) e i contrasti (diaphorás), affinché nessuno debba mai chiedersi da dove sia sorta (katéste) fra i Greci una tale guerra. Ritengo infatti che la giustificazione (próphasin) più vera, benché meno manifestata col discorso, sia che gli Ateniesi, divenuti grandi e offrendo motivo di paura (phóbon) agli Spartani, costrinsero (anankásai) a fare la guerra. Le cause (aitíai) presentate in pubblico da ciascuna delle due parti, per le quali rotti i patti entrarono in guerra, furono queste»21;
poi passa a raccontare le vicende di Epidamno e tutto il resto. Anche i Corinzi, che a loro volta avevano dato inizio (árcho) all’odio per Atene quando questa nel 461 si era schierata con Megara in una guerra per questioni di confine appunto con Corinto e vi aveva costruito le lunghe mura dal porto di Nisea alla città (1, 103, 20 Tuc. 1, 102, 3-4 e 103, 1-3 ; cf. Diod. 11, 64, 2-3 ; Plut., Cim. 17, 3 ; Paus. 1, 29, 8-9 e 4, 24, 6-7. 21 Tuc. 1, 23, 4-6; sul passo cf. Fantasia 2021. Una distinzione fra le tre nozioni (non pienamente coincidente con quella tucididea: cf. Pédech 1964, 75 sgg.) sarà espressa anche da Pol. 3, 6, 6. La paura spartana come motivo della guerra è ribadita da Tucidide anche in 1, 88. Secondo 1, 118, 2, gli Spartani non intervennero «prima che la potenza ateniese crescesse chiaramente e attaccasse la loro alleanza» (anche qui il contesto è quello della «necessità»).
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4), rivendicano di fare la guerra, «essendo vittime di ingiustizia (adikóumenoi), e con accuse sufficienti» (1, 121, 1), e nel 429 Archidamo giustifica l’invasione della regione di Platea col fatto che i Plateesi «per primi non tennero fede ai giuramenti e si comportarono ingiustamente» (2, 74, 3). Nel 427, poi, i Plateesi, arrendendosi agli Spartani, faranno notare che non sono loro ad avere rotto la tregua «per primi» (3, 54, 3). Nel 428 i Mitilenesi avevano chiesto a Sparta di sostenerli nella loro defezione da Atene spiegando che essa tratta gli alleati come schiavi sicché hanno ragione di temere anche per se stessi (3, 9-14): la loro azione cautelativa di allontanamento (proaphístemi) dagli Ateniesi, sostengono, non è dunque atto da traditori (prodótes: 9, 1) o un torto (adikéo:10, 4) nei confronti di questi ultimi ma una difesa preventiva (proamýnomai) (12, 2-3); naturalmente, il punto di vista ateniese, rappresentato da Cleone, sarà esattamente quello opposto, ovvero di avere subìto un’ingiustizia, visto che la loro condotta non è stata dovuta a qualche precedente offesa (3, 39, 1). Nel 424, gli Ateniesi, accusati dai Beoti di avere fortificato Delio, dove sorgeva un santuario di Apollo, e di avere attinto acqua destinata al solo uso religioso, replicano di essere stati costretti a ciò per difendersi da loro «che per primi avevano assalito la loro terra» e che è verisimile che «ogni cosa a cui si è obbligati dalla guerra e dalla sventura viene perdonata dal dio»; inoltre aggiungono, con ricorso implicito ad un argomento che chiamerei argomento dell’«E voi/loro, allora?» (se ne vedranno altre applicazioni), che, comunque, il tempio appartiene a chi occupa il territorio, come in passato è valso anche per i Beoti i quali, invaso un paese e abitatolo, ne avevano considerato propri i santuari che vi si trovavano (4, 98, 2-6). Nel 414, «agli Spartani cresceva il coraggio soprattutto perché pensavano che gli Ateniesi avevano una doppia guerra, contro di loro e contro i Sicelioti, e che perciò sarebbe stato più facile abbatterli, e perché ritenevano che fossero stati loro a violare per primi (protérous) la tregua [cioè: quella del 446]. Nella prima guerra, infatti, l’atto di trasgressione (paranómema) era stata maggiormente loro [cioè: degli Spartani, nel 431, in quanto alleati dei Tebani] visto che i Tebani erano andati contro Platea in tempo di pace, e, benché fosse stato detto nei patti precedenti di non portare le armi contro chi avesse voluto sottoporsi a giudizio, essi [cioè: gli Spartani] non avevano
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dato ascolto agli Ateniesi che li invitavano al giudizio. Ma poiché gli Ateniesi con le trenta navi muovendo da Argo avevano saccheggiato parte della terra di Epidauro e di Prasie e di altre zone e compivano atti di pirateria da Pilo e ogni volta che c’erano contrasti su qualcosa di quelle rimaste controverse nel trattato non volevano affidarsi ad un giudizio nonostante gli Spartani li invitassero ad esso, allora gli Spartani, ritenendo che la trasgressione che essi dapprima (próteron) avevano commesso era adesso passata agli Ateniesi, avevano ardore per la guerra» (7, 18, 2-3).
Anche qui, come in Erodoto (e come in Omero), il ruolo di primo offensore passa ora ad un popolo, ora all’altro: giustizia e ingiustizia dunque si aggrovigliano inestricabilmente. Anche ad individuare un primo motore dell’offesa, presto l’offensore diventa offeso e poi di nuovo offensore e di nuovo offeso, e così via. Sicché non sembrerà strana la dichiarazione degli Spartani, purtroppo fatta solo quando si trovano in difficoltà e chiedono agli Ateniesi un accordo, secondo la quale gli altri Greci «fanno la guerra senza che sia chiaro quale delle due parti l’abbia cominciata» (4, 20, 2). Tucidide era fiero di aver previsto già agli inizi del conflitto che esso sarebbe stato grande in quanto, in un contesto economico che permetteva che la guerra si reggesse non solo sulle armi ma anche sul denaro (1, 83, 2)22, le altre città si schieravano via via con una o con l’altra delle due potenze (1, 1, 1 e 18, 3), creando una polarizzazione fra schieramenti molto ampi. Tale considerazione – con l’aggiunta che le città andavano anche passando da una parte all’altra e intervenivano sulla base dei loro contrasti interni – fornisce un ulteriore arricchimento della complessità del quadro delle concause (nonché una spiegazione del motivo per cui questa guerra non fu come erano state le precedenti, tendenzialmente basate sulle modalità dell’oplitismo)23. Una notazione plutarchea ne sembra quasi una chiosa esplicativa, o l’espressione dello stesso fenomeno considerato da un punto di vista che mostra quali potevano essere i concreti scenari alternativi rispetto all’intervento militare: «si scontrarono in guerra, sobillati dai demagoghi e dai guerrafondai che volevano la Cf. la differente situazione della spedizione contro Troia in Tuc. 1, 11, 1 e 3. Cf. De Romilly 1968, 284. Sul funzionamento tecnico e il valore politico e simbolico dell’oplitismo cf. Santuosso 1997 e Hanson 2005. 22 23
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guerra reciproca, senza che ci fosse nessuno ad interporsi per separarli» (Plut., Cim. 19, 3)24. L’alternativa possibile, dunque, era quella della mediazione, e addirittura, alla lettera, dell’interposizione. Ma l’azione portata avanti da tutti andò in senso opposto. Tucidide scrive che ciascuno credeva che la situazione sarebbe rimasta bloccata (kekolýsthai) se non fosse intervenuto (si intende) con le armi (2, 8, 4). Così, le altre città parteciparono alla costruzione di una polarità estrema tra le due potenze. La «causa» è allora nel comportamento di tutte le parti in campo: la «responsabilità» è condivisa tanto dai protagonisti del conflitto, quanto da chi, pur potendo intervenire attivamente per impedirne la degenerazione, si rassegna al ruolo di comparsa subordinata agli attori principali. Eppure, la forza di un’eventuale opinione pubblica contraria alla guerra – un’opinione pubblica sia esterna sia interna a ogni città – doveva essere evidente se tanto l’uno quanto l’altro fronte era quanto più possibile attento a rispettare i patti, almeno dal punto di vista strettamente formale, in modo da non darle appigli. Ad esempio, gli Spartani, oltre che il loro stesso re Archidamo che invita (vanamente) a non «sembrare» di stare cominciando le ostilità e ad accettare l’arbitrato proposto dalla controparte (1, 81, 5 e 85, 2), si curano di cercare dei pretesti per iniziare la guerra (1, 126, 1), nonostante l’abbiano già decisa. Rivolti alla controparte, essi lanciano delle intimazioni precedute dalla dichiarazione solenne che «gli Spartani vogliono che ci sia la pace, ed essa ci sarebbe se voi rendeste autonomi i Greci» (1, 139, 3); e altrettanto prudenti erano stati i Corinzi (1, 52, 3-53, 2). Gli Ateniesi, a loro volta, badano, e agli inizi del conflitto (1, 44, 1; 49, 4; 53, 4) e nel periodo della pace di Nicia (6, 105, 2), a muoversi lungo la linea precisa degli accordi senza oltrepassarla. Da ciascuna parte si faceva attenzione a sottolineare di non stare iniziando (árcho) le ostilità e che era invece l’altra, appunto, ad iniziarla. Ma, quando si tratta dello scoppio di una guerra, non è solo questione di chi ha iniziato. È anche, al contempo, questione di cos’è giustizia. Infatti, dove sia il confine tra giusto e ingiusto, come si comprende già dal fatto che le due parti in conflitto potevano datare
Cf. Aristof., Pace 614: «e non c’era più nessuno a farli smettere».
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l’inizio delle ostilità a momenti diversi, non è affatto chiaro. Non è chiaro anche per il fatto che all’originaria ingiustizia di una di esse faceva seguito a volte un ‘salto’ quantitativo (come nella risposta militare dei Greci al ‘semplice’ rapimento di Elena) che veniva a costituire un conflitto qualitativamente nuovo. Alla guerra (pólemos) si arriva partendo da contrasti (diaphorái) e l’identificazione di questi ultimi è più difficoltoso di quella della prima. Quasi nessuno ammette – forse nessuno è realmente convinto – di stare attaccando illegittimamente, di propria iniziativa o per libera scelta25. Lo si è visto nel caso di Atene ma per Sparta non è molto diverso. Brasida, dichiarandosi liberatore dei Greci dall’imperialismo ateniese, afferma espressamente di non ritenere di comportarsi ingiustamente (adikéin) se devasta la terra di chi non accetta di essere da lui liberato, perché il denaro versato agli Ateniesi dai popoli a loro sottoposti danneggia Sparta, e il loro atteggiamento succube impedisce anche agli altri Greci di liberarsi (Tuc. 4, 87, 2-3). Analogamente, gli Ateniesi sosterranno che non ingiustamente (oudé adíkos) – una litote indicativa di una qualche forma di pudore implicita nella dichiarazione che viene fatta – essi hanno assoggettato gli Ioni e gli abitanti delle isole, pur essendo costoro della stessa stirpe (xynghenéis): «infatti, vennero contro di noi, loro madrepatria, insieme al Persiano e non ebbero il coraggio di ribellarglisi lasciando distruggere i propri beni, come invece facemmo noi abbandonando la nostra città, ma volevano la schiavitù loro stessi e volevano imporla a noi» (6, 82, 4)26. Alcibiade, 25 Può avvenire, però, come si vede anche solo da alcuni passi che citerò nel corso di questo lavoro (cf., in particolare, 2.2.) che venga richiamato il principio dell’ingrandire la propria patria, soprattutto nei discorsi dei comandanti ai soldati: naturalmente senza che tale condotta venga connotata come ingiustizia. Dal principio della patria da difendere a quello della patria da fare grande, che hanno in comune il primato della patria (e non, per esempio, quello della buona relazione con gli altri popoli), il passo è breve. 26 Nei confronti dei Persiani, «nemico comune» dei Greci, in realtà si faceva un’eccezione. Venendo incontro a un’idea che doveva essere diffusa, Demostene, nell’orazione Sulle simmorie del 354, sostiene che, «se fosse possibile attaccar lui solo unanimemente tutti insieme, non riterrei ingiusto che voi vi comportaste ingiustamente nei suoi confronti [sott.: attaccandolo per primi]» (37). Essendo i barbari «nemici per natura», le azioni belliche contro di loro, come è stato ben rilevato, «non richiedono, per conformarsi al díkaion, alcuna giustificazione, come il soccorso prestato ad alleati e amici, o il carattere meramente difensivo o la ritorsione rispetto a precedenti aggressioni» (cf. Stolfi 2012, 27).
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nel corso della sua apologia dell’imperialismo ateniese (passato e presente), per spingere i concittadini a votare la spedizione in Sicilia non trascura di inserire una considerazione sull’opportunità di non limitarsi a respingere l’assalto di un popolo potente ma di prevenirlo (prokatalambáno) prima che venga messo in atto, sicché «è necessità (anánke) insidiare alcuni e non lasciare la presa su altri per il pericolo che si profila di essere dominati da altri se non dominiamo noi su di loro» (6, 18, 2-3). Si tratta di una logica non diversa da quella di tanti altri attacchi preventivi, anche moderni come quello all’Iraq ordinato dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush nel 2003 e, credo, quello di Vladimir Putin all’Ucraina nel febbraio 2022. L’attacco preventivo (il prokatalambánein, appunto, o proepibouléuein, cioè «insidiare preventivamente», o anche il prendere misure preventive, proparaskeuázesthai), fondato sulla paura, sul sospetto e sulla previsione di una guerra futura – tutti elementi buoni per fare una vera e propria «profezia autodeterminantesi» – era stato praticato pure prima e addirittura anche agli inizi del conflitto (1, 33, 3-4; 567; 3, 3, 1). A rigore, si potrebbe dire che anche lo scoppio stesso della guerra del Peloponneso avviene senza che i suoi principali protagonisti sappiano chi l’abbia cominciata. Nessuno crede di aver cominciato o di avere scelto. Ogni propria azione è avvertita come dovuta a «necessità» imposta dall’altra parte. Già in un altro passo citato più sopra (1, 23, 6) Tucidide usava una formula la cui stranezza è adesso il caso di notare: «gli Ateniesi, divenuti grandi e offrendo motivo di paura (phóbon) agli Spartani, costrinsero (anankásai) a fare la guerra»27. In realtà, naturalmente, gli Ateniesi non «costringono» gli Spartani a questo passo (tra l’altro non stanno nemmeno rivolgendo verso di loro le loro azioni), piuttosto sono questi ultimi che vi si sentono costretti, cioè che non vedono scelte, che non trovano alternative. La paura certamente fa comprendere il comportamento di Sparta, ma non legittima la necessità di essa e tantomeno dell’intervento militare. Dire che gli Ateniesi «costringono» alla guerra perché provocano paura negli Spartani significa deresponsabilizzare questi ultimi del sentimento che essi provano, certamente maturato nel contesto delle azioni di Atene
27 Sul fronte opposto a quello ateniese, anche i Corinzi, secondo Tucidide, dichiarano la «necessità» della guerra (1, 126, 2).
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ma di cui sono gli elaboratori. Se poi Tucidide, come mi pare probabile, intendeva distribuire le responsabilità tra i due popoli (in 7, 18, 2, dice che, all’inizio della guerra, la trasgressione era stata solo «maggiormente», mállon, degli Spartani, e già in 2, 8, 1 affermava che «entrambi erano pieni di ardore per la guerra»), forse qui non aveva trovato le parole giuste fino in fondo per esporre le sue intenzioni. È possibile che derivi da questo anche la considerazione di Plutarco che, benché avesse letto l’opera dello storico ateniese, sullo scoppio del conflitto armato scrisse: «non è facile capire come ebbe inizio» (Per. 31, 1). Da parte ateniese, sempre nella fase prebellica, dunque molto prima di Alcibiade, gli Ateniesi giustificavano il dominio (l’impero, arché) con il fatto che esso era stato volontariamente assegnato loro dagli alleati e che erano stati poi costretti (anankázomai) dalla situazione stessa (ex autóu érgou) a portarlo al punto in cui si trovava adesso, «soprattutto per il timore, poi per l’onore e infine per il vantaggio» (1, 75, 3; ribadito in 76, 2, nella forma «vinti dai fattori più importanti: l’onore, il timore e il vantaggio») – e osserviamo che si tratta di parole simili a quelle già utilizzate da Tucidide per dire della «necessità» subita dagli Spartani, dunque in un certo modo altrettanto deresponsabilizzanti! Lo stesso Pericle, a guerra iniziata, spiegherà, con le parole attribuitegli da Tucidide, che l’impero è «come una tirannide che sembra essere ingiusto prendere ma è pericoloso lasciare» (2, 63, 2; un’idea che è anche di Cleone: 3, 37, 2; 40, 4). Soprattutto, proprio all’inizio del conflitto egli aveva fatto notare che la necessità (anánke) della guerra era dovuta al fatto che gli Spartani, per risolvere i conflitti, non ricorrevano all’arbitrato, come era previsto dai patti, né lo accettavano (1, 140, 2; 144, 3, cf. 78, 4). Infatti, semplicemente, gli Spartani avevano rifiutato di dare ascolto (hypakóuo) agli appelli a risolvere le questioni per via pacifica (7, 18, 2) – come già anche i Corinzi non avevano dato ascolto (hypakóuo) alle analoghe proposte di arbitrato fatte dai Corciresi (1, 29, 1)28 – e, rigettando la proposta di Archidamo indirizzata verso una trattativa ‘assertiva’ (1, 82, 1; 82, 4; 85, 2), avevano imboccato la strada suggerita dall’eforo Stenelaida contrario all’arbitrato e favorevole alla guerra (86, 3).
28 Su dinamiche di non ascolto in questione, intrinseche alla via che porta alla guerra, cf. le ricche pagine di Civiletti 2010, 136 sgg.
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Tutti, dunque, sembrano sentirsi intrappolati in qualcosa che è più grande di loro. In linea generale, non c’è bisogno di postulare cattiva fede nelle dichiarazioni di ciascuno. Semplicemente, le parti si comportano secondo quello che, in un clima di sospetto, ritengono il modo più sicuro senza accorgersi che forse così stanno contribuendo a far peggiorare le cose. Cimone, che non voleva soltanto che gli invasori persiani si ritirassero dalla Grecia ma pure che non intendessero più ritornarvi, non esitò ad aggredire i Faseliti riluttanti a staccarsi dal Gran Re. Fu solo grazie ai Chii, che militavano con Cimone ma erano amici dei Faseliti e si adoperarono per calmare l’uno e comunicare segretamente con gli altri, che gli aggrediti si salvarono, anche se dovettero pagare una multa e unirsi alla spedizione (Plut., Cim. 12, 3-4). La guerra comporta un modo di pensare dicotomico, basato sul principio del «con noi o contro di noi»; tutto il resto – compresa la libertà di ognuno di decidere la propria neutralità – è, ancora una volta chiaramente, chiacchiera. Più tardi, nel 371, quando gli Spartani chiedono aiuto ad Atene contro Tebe, si apre un dibattito per stabilire chi siano «quelli che hanno cominciato a fare ingiustizia»: i Mantineesi che hanno portato le armi contro Tegea e attaccato gli Spartani venuti in suo soccorso, o quest’ultima che accoglie la fazione filospartana e marcia contro Mantinea? Le risposte delle due parti divergono: secondo l’una, «giustamente» i Mantineesi avevano vendicato Prosseno, loro sostenitore a Tegea morto per mano dei filospartani; secondo l’altra, invece, quelli si erano comportati ingiustamente in quanto avevano portato le armi contro i Tegeati soccorsi dagli Spartani (Senof., Ell. 6, 5, 36-37). E nel 364 i Tebani, oggetto di un tentativo di colpo di stato da parte dei loro stessi cavalieri accordatisi con gli Orcomeni, uccidono i primi e marciano contro i secondi: radono al suolo la città e fanno schiavi gli abitanti avendo ormai, secondo loro, un buon pretesto per vendicarsi della prevaricazione subita ad opera, addirittura, di quelli vissuti «nell’età eroica» (Diod. 15, 79, 5-6). La giustizia non è un fatto autoevidente, non è scritta da qualche parte, ben visibile a tutti allo stesso modo. Certo, il mitico Polinice ne ha inciso sul suo scudo il nome, Dike, e la figura rappresentata nell’atto di gridare che essa sta con lui, ma dall’altra parte Eteocle sa che si tratta solo di un’insegna e di una scritta e che Dike non può 29
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essere a fianco di chi agisce contro la sua patria (Esch., Sette contro Tebe 645-8 e 658-71). All’interno del paradigma bellico ogni rivendicazione delle singole parti non può che esprimere un punto di vista unilaterale per definizione. Come si è visto, basta – anche in buona fede – periodizzare diversamente da come fa il «nemico» e selezionare un fatto piuttosto che un altro, e la giustizia starà interamente dalla propria parte. Oppure basta dare importanza a infrazioni altrui «di poco conto», come a dire di Tucidide (4, 23, 1) fecero nel 425 gli Ateniesi, i quali non restituirono agli Spartani le navi consegnate loro durante una tregua perché la considerarono rotta dai nemici che avevano compiuto un assalto ad una loro fortificazione «e altre cose che sembravano essere insignificanti». Naturalmente, non sappiamo quanto ciò fosse davvero «di poco conto», oltre che per Tucidide, anche per gli Ateniesi. Sappiamo molto bene, però, come anche nei casi di conflitto armato odierni non sia mai facile fare rispettare, contemporaneamente in ogni parte dei paesi in guerra, i «cessate il fuoco», e come dunque non sia chiaro se una tregua sia stata accettata o si stia soltanto fingendo di averla accettata.
2. Giustificazioni di principio La causa di una guerra può essere individuata diversamente da ciascuna delle parti in conflitto. Lo si è già visto nel disaccordo tra Fenici e Persiani a proposito della responsabilità dell’inimicizia tra Greci e barbari. Lo vediamo anche nel problematico rapporto tra Sparta e Atene nel V sec. Gli Ateniesi, infatti, ammettendo la durezza del loro impero, la difendono richiamando una sorta di regola generale: essi hanno agito così, «non iniziando per primi una tale condotta, ma essendo sempre cosa solita che il più debole sia frenato dal più potente», e per questo, addirittura, sarebbero da lodare coloro che risultano già solo «più giusti di quanto il loro potere li costringa ad essere» (Tuc. 1, 76, 2-3). Dunque, in queste righe è già annunciato quel principio per lo più evidenziato nel dialogo tra gli Ateniesi e i Melii. In tale dialogo, i detentori dell’impero pretendono la sottomissione degli isolani semplicemente perché la loro neutralità risulterebbe agli altri popoli loro sottoposti un «esempio di debolezza» ateniese (5, 95,
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motivazione simile a quella di Brasida ad Acanto in 4, 85, 5-6), mentre il loro assoggettamento costituisce un «elemento di sicurezza» (5, 97), e aggiungono infine che è «per necessità naturale» che il più forte domina e che di questa legge consuetudinaria (nómos) essi – ancora con il solito richiamo autolegittimante a chi ha dato inizio ad una certa condotta – non sono «i primi a servirsi» ma vale dappertutto e perfino tra gli dèi (105, 2): le regole di giustizia (díkaia) valgono in caso di pari condizioni, altrimenti «coloro che sono superiori fanno ciò che possono e i deboli cedono» (89)29. Si potrebbe parafrasare che è il potere ad imporre strutturalmente di opprimere i deboli e che le azioni militari sono inevitabili non solo per vincere su coloro contro cui sono dirette ma anche per ‘comunicare’ agli altri: è questo il linguaggio bellico. Altre volte, per giustificare un proprio comportamento ingiusto non si fa appello ad una pretesa regola di fatto ma ad un’analoga ingiusta condotta precedentemente messa in atto dagli stessi che adesso si trovano a subirla. Così, nel 430 gli Ateniesi che avevano ucciso gli ambasciatori spartani dichiararono di aver fatto ricorso alle stesse maniere cominciate (hypárcho) dagli Spartani attaccando i loro mercanti e alleati (2, 67, 4). L’argomento dell’«E voi/loro, allora?» era sempre disponibile per chi ne volesse fare uso – come lo è anche oggi. Isocrate, nel Panatenaico (63 sgg.), in un lungo paragone tra la condotta oppressiva ateniese (tra cui quella nei confronti di Torone, Scione e Melo)30 e quella spartana, ‘pesando’ l’una e l’altra sempre a favore della prima, lo utilizza anche lui, e minimizza ulteriormente le colpe di Atene in quanto le sue azioni La spietatezza ateniese viene attribuita anche al fatto che Melo non sarebbe stata davvero neutrale e non avrebbe pagato i contributi alla Lega delio-attica di cui faceva parte (cf. Canfora 2009, 47 sgg., e Stolfi 2012, 32 sgg.). La stessa regola di non ammissibilità della neutralità è formulata da Crizia come valida sul fronte interno alla polis, durante il regime dei Trenta tiranni che, instaurato ad Atene dopo la vittoria spartana nel 404, comincia ad uccidere i potenziali oppositori politici perché «non è concesso a coloro che vogliono prevalere non togliere di mezzo chi ha la capacità di essere di ostacolo (…). Bisogna darsi cura di questo dominio come di una tirannide» (Senof., Ell. 2, 3, 16). 30 A causa della loro defezione, nel 422 i Toronei erano stati deportati ad Atene o ridotti in schiavitù (Tuc. 5, 3, 4); nel 421, gli Scionei adulti erano stati massacrati e le donne e i bambini fatti schiavi (5, 32, 1; cf. 4, 120, 1) e nel 416 la stessa sorte era stata inflitta agli abitanti di Melo (5, 116, 4; cf. 84 sgg.). 29
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sarebbero state rivolte contro semplici «isolette … che molti dei Greci nemmeno conoscono» (ma solo Melo era un’isola)31 e non contro le «più grandi città», come era invece nel caso delle azioni di Sparta (70). Già nel Panegirico (100 sgg.), per rispondere alle accuse fatte agli Ateniesi per il male inflitto ai Melii e agli Scionei, Isocrate aveva tirato in ballo il fatto che Atene era stata capace di «tenere il dominio su un gran numero di città per moltissimo tempo comportandosi duramente con pochissimi», e ricordava che altre città in situazione analoga non avevano agito con minore asprezza (ancora «E voi/ loro, allora?»). Ai paragrafi 105 sgg., poi, aveva celebrato le azioni ateniesi presentandole, piuttosto pretenziosamente, come lotte che avevano prodotto la libertà dalle tirannidi, dai barbari e dalle guerre civili «per settant’anni», cioè dal momento della costituzione della Lega delio-attica nel 477 fino al 404 – con omissione delle evidenti violenze che Atene aveva perpetrato in quel periodo32 (un po’ come i nostri media, rimuovendo le guerre nell’ex Jugoslavia tra 1991 e 2001, hanno preteso che in Europa, prima dell’attuale invasione russa dell’Ucraina, ci sia stata una pace di settant’anni), per giunta quando, stipulata con i Persiani la pace di Callia (forse 449), la Lega non aveva più ragione di sussistere ma, invece di sciogliersi, applicava la sua politica imperialista nei confronti dei Greci. Inoltre, Isocrate sminuiva le «cose terribili» ascritte ad Atene in quanto cancellabili con un semplice decreto, sottolineando invece la gravità delle altrui «stragi e illegalità» in quanto irrimediabili (114). Infine, considerava la perdita dell’impero ateniese «l’inizio dei mali per i Greci» (119) – quasi le stesse parole da Tucidide (2, 12, 3) poste sulla bocca dell’inviato di Archidamo agli Ateniesi quando questi rifiutano perfino di ammetterlo in città, e la stessa precisa espressione utilizzata da Erodoto (5, 97, ma con l’aggiunta «e per i barbari») a proposito dell’invio delle navi ateniesi agli Ioni, che a sua volta sembra rievocare «le navi inizio dei mali che divennero un male per tutti i Troiani» menzionate da Omero (Il. 5, 62-3) a proposito del viaggio di Paride a Sparta per rapire Elena. Altrove, però, Isocrate, all’interno 31 Poco dopo, al par. 80, ancora sulla stessa linea, sarà designata, come le altre città attaccate da Atene, políchnion, «cittaduzza». 32 Basti qui ricordare quelle commesse nei confronti dell’Eubea nel 446, su cui cf. Tuc. 1, 114, 3, negate da Isocrate (Paneg. 108).
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di un’analisi molto articolata, valuta la politica imperialista di Atene ingiusta e autodistruttiva (Pace 101, dove «l’inizio delle sciagure» è situato nel momento in cui Atene cerca l’impero del mare)33. Anche il Ciro senofonteo ribadisce analoghi concetti ‘giustificazionisti’ invitando i suoi compagni d’arme a non ritenere frutto di «ingiustizia» ciò che hanno preso con la guerra, perché acquisire quanto si è conquistato è «legge (nómos) eterna» (Cir. 7, 5, 73). Ma alla fine, sia chiaro, chi fa una guerra non chiede realmente di essere giustificato sul piano etico. Gli Ateniesi, che all’inizio del conflitto peloponnesiaco precisano davanti agli Spartani di avere ottenuto nel periodo precedente l’impero (arché) dagli alleati che hanno loro richiesto di essere egemoni (heghemónes) nella continuazione della lotta contro i Persiani, sostengono di essere stati costretti (anankázo) dalla situazione stessa a far andare avanti il loro impero fino a quel punto «soprattutto per timore, poi anche per l’onore, infine per vantaggio» (Tuc. 1, 75, 2-3). Il primo elemento in particolare chiarisce che l’impero è una condizione non statica ma dinamica, una sorta di dispositivo che si fonda sulla sua ‘riproduzione allargata’. Gli Ateniesi – sempre con l’argomento «E voi/loro, allora?», qui però presentato solo ipoteticamente – invitano gli Spartani a considerare pure che, se si trovassero nella stessa situazione, anche loro sarebbero costretti (anankázo) «a comandare con la forza o a correre pericolo» (76, 1). E, per fare un altro esempio, quando Marco Emilio Lepido fu inviato dai Romani a parlare con Filippo V, che aveva attaccato diverse città, tra cui Rodi e da ultimo Abido, il dialogo tra i due fu di questo tenore: il re dapprima affermò che erano stati i Rodii ad aggredirlo, ma quando il suo interlocutore gli chiese polemicamente conto anche degli altri popoli («e allora gli Ateniesi? E i Ciani? E ora gli Abideni? Chi di questi ti ha aggredito per primo?»), quello si limitò a richiamare il romano a non intromettersi in fatti che non lo riguardavano e a rispettare i patti di pace che sussistevano tra i Romani e lui (Pol. 16, 34, 1-7).
33 Per la critica isocratea (in Pace) all’imperialismo ateniese, cf. Davidson 1990. Anche Isocrate non sente l’esigenza di avere una posizione nuova sull’imperialismo (anche all’interno della stessa orazione: cf. Panat. 117 a favore, e 185 contro).
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3. Esternalizzazione del conflitto Trattando della guerra del Peloponneso, Diodoro34 riporta come motivazione di essa il fatto che Pericle, accusato di avere sottratto illecitamente denaro dal tesoro della Lega delio-attica a lui affidato, cercava un diversivo da queste accuse. L’entrata in guerra, concentrando tutta l’attenzione pubblica, gli avrebbe appunto permesso di sfuggire alla rendicontazione richiestagli35. Questo non era un tipo di causa (o almeno concausa) necessariamente del tutto inventata. Secondo Erodoto, Aristagora, avendo tramato per consegnare ai Persiani Nasso e altre isole e avendo fallito (5, 31-5), ricorse alla guerra per salvarsi dalle ire di Dario: unendosi, però, non a lui contro un nemico esterno ma ad altri Greci contro di lui. Infatti, pensò di salvarsi organizzando la rivolta dei Greci della Ionia in coincidenza con un’analoga intenzione di Istieo riluttante a restare a Susa, dove il Re lo tratteneva (5, 35). Il che, tra parentesi, potrebbe spingere anche a qualche cautela nell’attribuire poi unilateralmente a Dario la responsabilità del suo attacco alla Grecia. Anche Isocrate esorta alla guerra esterna, quella contro i Persiani, per un secondo fine: non però personale bensì guardando ad un obiettivo che possa determinare l’unità tra le città greche36, in quanto «non è possibile avere una pace salda se non facciamo guerra in comune contro i barbari, né che i Greci siano concordi prima che traggano vantaggio dalle stesse cose e corrano rischi contro gli stessi nemici» (Paneg. 173). Già Cimone, dopo aver rappacificato Sparta e Atene nel 451, aveva perseguito tale politica: «vedendo che gli Ateniesi non erano capaci di stare in pace, ma si agitavano e volevano ingrandirsi con spedizioni militari, affinché non molestassero i Greci e aggirandosi per le isole o per il Peloponneso con molte navi non suscitassero motivi di guerre intestine e inizi di 34 Cf. 12, 38, 4-41, 1 (citando Eforo 70 F 193), secondo una tradizione che si trova già in Aristofane (Pace 605-611; cf. fino a 614 per la graduale escalation). 35 Anche Onomarco, nel corso della guerra sacra (356-346), avrebbe perorato la causa della continuazione del conflitto per motivi privati, dato che doveva pagare una multa all’anfizionia dei nemici (cf. Diod. 16, 32, 3). 36 Cf. Sordi 1998, 17, a proposito di Isocrate e di altra pubblicistica di IV sec: «la concordia fra Greci è sempre una concordia contro».
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accuse da parte degli alleati contro la città, armò duecento triremi per fare di nuovo una spedizione contro l’Egitto e contro Cipro, voleva al contempo esercitare gli Ateniesi nelle lotte (tóis agósi) contro i barbari e ricavare vantaggi giustamente (dikáios) riportando risorse in Grecia dai ‘nemici per natura’» (Plut., Cim. 18, 1-2).
Ma la ricerca, o la creazione, di un’ostilità esterna per spingere all’unità interna era una strategia diffusa. Anche Dionigi di Alicarnasso, infatti, la conosce bene, e la elogia a proposito di Roma che, appunto, seppe creare odio nei confronti di altri popoli per sedare le tensioni sociali del 495 (Ant. rom. 6, 23, 1).
4. Guerra giusta e religione. «Dio è con noi»? La dichiarazione della legittimità della guerra – della propria guerra – ovviamente non ha alcun valore per i nemici, che infatti ne presentano un’altra uguale e contraria, semplicemente indicando un altro inizio o fornendo un’altra interpretazione (per esempio, come abbiamo visto in Erodoto, sostenendo l’accidentalità o volontarietà di una certa azione criminosa o empia). Piuttosto, la dichiarazione può aver valore rispetto ad una terza parte di cui si chiede l’alleanza o la neutralità, e rispetto al resto della propria parte e perfino rispetto a se stessi: per creare compattezza ideologica e forza psicologica nella determinazione ad affrontare il rischio della vita. Infatti, alla guerra giusta è lo stesso Zeus che garantisce la vittoria (Il. 4, 161-8)37. Tuttavia, quando i compagni di Odisseo, secondo un suo falso racconto, attaccano improvvisamente gli Egizi, senza avere subìto da questi alcuna provocazione, e uccidono gli uomini e rapiscono donne e bambini ma alla fine vengono catturati essi stessi, è proprio Zeus che suggerisce all’eroe di gettare le armi e inginocchiarsi supplice davanti al re egizio che, effettivamente, ne ha pietà e lo protegge; infatti, il re «guardava con timore all’ira di Zeus ospitale» (Od. 14, 37 Camerotto 2022, 69, n. 1: «Il richiamo alla guerra giusta e alla giusta caduta della città diventa paradigma ricorrente. Ogni occasione è utile per riconfermare l’idea, per poterci credere. Così quando Pandaro ferisce Menelao, Agamennone adirato si appella alla giustizia di Zeus, che per l’iniquità dei Troiani darà compimento alla persis. Anche se la tisis è rinviata, essa non potrà mancare e sarà terribile, i Troiani pagheranno con le loro teste, le mogli e i figli» (cf. Il. 4, 161 sg.).
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273-84). La salvezza di Odisseo non sembra dovuta al fatto che egli non è stato il responsabile diretto dell’attacco. Infatti, è, sì, vero che egli aveva ordinato ai compagni di rimanere presso le navi mentre alcuni esploratori sarebbero andati in giro, e quelli, invece, «cedendo alla violenza e seguendo il loro furore, subito saccheggiarono i bellissimi campi degli Egizi e condussero via le donne e i bambini infanti, e uccisero gli uomini» (262-5); ma, come si comprende dal contesto, Odisseo non lamenta la scorrettezza etica dell’aggressione compiuta dai suoi compagni, che d’altronde rientra in una pratica abituale (9, 40-2; 23, 357). Egli deplora, invece, la loro sconsideratezza sul piano tattico, la loro precipitosità («subito»); critica, cioè, la loro disobbedienza agli ordini che è causa di una reazione degli indigeni cui è impossibile fare fronte. È dunque atteggiamento pio risparmiare anche l’aggressore, se si fa supplice. Ma, anche indipendentemente dal fatto che la supplica provenga dall’aggressore o dall’aggredito, la sua accettazione forse non è una norma strettamente obbligatoria38. Nell’Iliade (6, 45-64), su suggerimento di Agamennone che si augura l’uccisione di ogni Troiano maschio («anche chi la madre porta ancora nel ventre»: 58-9) – un suggerimento approvato dalla voce narrante del poeta («consigliava cose adatte alle circostanze, áisima»: 62) –, Menelao recede dall’intenzione di risparmiare Adrasto che lo implora abbracciandogli le ginocchia, e permette che questi sia ucciso spietatamente. Dunque, Adrasto, che si trova nella stessa condizione di Odisseo nel passo precedente, riceve un trattamento opposto rispetto a quello ottenuto dall’eroe greco. Anche quando originariamente ci sono un aggressore e un aggredito (più o meno) chiari, nel corso della guerra tutto si confonde, e non sembra possibile trovare altra regola che questa: «Ares è comune, e uccide chi uccide» (18, 309), e, bisogna aggiungere, l’aggredito uccide con la stessa crudeltà, incurante di ogni pietas religiosa, del nemico aggressore. Odisseo, dopo avere ucciso Soco, combattente dalla parte dei Troiani, infierisce gridando ingiuriosamente la sua soddisfazione per il fatto che quello non avrà nemmeno il compianto funebre dei familiari: «Ah, miserabile, a te morto non ti chiuderanno gli occhi Giordano 1999, cap. 4.
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il padre e la nobile madre, ma te li strapperanno gli uccelli voraci, sbattendo fittamente le ali» (11, 452-4). Sostanzialmente lo stesso spregio compare nel grido di scherno del troiano Ettore a Patroclo, da lui appena ucciso: «Patroclo, tu credevi di distruggere la mia città, di togliere la libertà alle donne troiane e di condurle sulle navi alla tua patria. Sciocco! In loro difesa i veloci cavalli di Ettore si sono lanciati a combattere, e io mi distinguo con la lancia tra i bellicosi Troiani, io che li difendo dal giorno fatale; te, invece, ti avranno qui come cibo gli avvoltoi» (16, 830-6).
E la catena continua, perché Ettore, ferito mortalmente da Achille, è a sua volta apostrofato da quest’ultimo con parole simili: «Ettore, tu, spogliando Patroclo delle sue armi, credevi di essere al sicuro e non ti curavi di me che ero lontano. Sciocco! Lontano da lui, io, difensore molto più forte, restavo indietro presso le concave navi, io che ti ho tolto la vita; cani ed uccelli ti sbraneranno ignominiosamente, invece lui lo seppelliranno gli Achei. (...) Vorrei che il furore e l’animo mi spingessero a fare a pezzi e divorare crude le tue carni, per ciò che hai fatto. Non c’è nessuno che potrà tenere i cani lontani dalla tua testa, neanche se mi portassero un riscatto di dieci o venti volte più grande e ne promettessero altro ancora, neanche se Priamo discendente di Dardano ti pagasse a peso d’oro, neanche così la tua nobile madre che ti partorì ti piangerà ponendoti sul letto funebre: invece, ti sbraneranno tutto i cani e gli uccelli» (22, 331-6 e 349-54)39.
39 Su questo e altri passi omerici che mostrano la ferinità (qui giunta fino al cannibalismo), cf. Andò 2013, cap. I. Dai tratti bestiali non sarà esente nemmeno Ecuba dopo che Achille le uccide il figlio (Il. 24, 212-3). Per le donne che, nell’epica e nella tragedia, si vendicano, cf. Barbaresco 2022 (all’interno di un volume interamente dedicato al punto di vista femminile sulla guerra in diversi generi poetici). Sul tema del cadavere del nemico sconciato cf. Vernant 1968 (sconciarlo significa negargli la «bella morte» e l’immortalità della fama). Un parallelo con l’odierna guerra in Ucraina può essere utile a focalizzare che anche in questo caso la crudeltà messa in atto nella guerra prescinde dalla giustizia: delle atrocità dell’esercito russo abbiamo abbondanti notizie, solo per questo mi limito a citarne una (psicologica) relativa alla parte ucraina, precisamente il video-propaganda in cui una ragazza (attrice) in abiti tradizionali ucraini, evidentemente rivolgendosi agli invasori, dichiara: «Ora possiamo mietere il nostro raccolto di sangue. [Segue una scena di sgozzamento di un russo da parte della ragazza, che poi continua:] Sarete uccisi in memoria delle vittime di Bucha, Irpin, Kiev, Kharkiv, Odessa, Mariupol. Sarete tutti uccisi. I vostri cadaveri
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Per questa minaccia, che è segno di ferocia ma è anche «propria della dimensione eroica con le sue ambiguità costitutive»40, Ettore morente prospetta al suo uccisore l’ira degli dèi, ma Achille non la tiene in conto, anzi incrudelisce e nella sua ira disumana si dichiara pronto ad accettare la morte quando «Zeus e gli altri immortali» gliela vorranno assegnare (22, 358-66)41. In breve, crudeltà ed empietà sono comportamenti comuni a tutte le parti coinvolte nella guerra. In realtà, per così dire, non sono gli uomini ad essere privi di pietà; è la guerra stessa, anzi è l’arma stessa («il bronzo», come essa viene chiamata)42, sia greca sia troiana, ad essere riconosciuta come «spietata» (neleés): nei confronti non solo degli uomini ma anche degli animali sgozzati per il sacrificio, e perfino del legno che da essa viene spaccato43. Come si dice con consapevolezza della dinamica insita nell’esistenza stessa dello strumento di morte, invitando a togliere le armi da una sala in cui si banchetta, per evitare rischi di risse sanguinose tra ubriachi, «il ferro trascina a sé l’uomo» (Od. 16, 294). Potremmo dire: «se c’è una spada utilizzabile, la si utilizzerà».
come le peggiori carogne marciranno nei campi, lungo le strade e i boschi saranno mangiati dai cani e dagli animali selvatici. Le vostre madri vi aspetteranno vicino a Tver, Pskov e Ryazan ma voi, figli di puttana, non tornerete mai a casa. Benvenuti all’inferno» (testo ucraino con sottotit. in ingl. in https://visionetv.it/come-lisis-unvideo-dellucraina-incoraggia-a-sgozzare-i-russi-che-subito-rispondono/ e in https:// twitter.com/nonkonforme/status/1513181598887428103 (consultato il 26.01.2023). Il 12 aprile 2023 i media hanno informato del video di decapitazioni di soldati ucraini ad opera di mercenari e militari russi circolanti sui social per intimidire i nemici. Si ricordi che il giovane Telemaco per le schiave complici dei pretendenti mette in atto una morte non «pura» (cioè l’impiccagione) – anche disattendendo l’ordine del padre che voleva fossero uccise «con le spade» – «perché morissero nel modo più odioso» (Od. 22, rispettivamente, 462, 443 e 472); il trattamento riservato a Melanzio, invece, consiste nel mozzargli naso e orecchie, evirarlo e, ad ulteriore scherno, dare i testicoli ai cani (475-6). 40 Camerotto 2003, 476. 41 Ettore, tra l’altro, almeno secondo la notizia che Era fa dare ad Achille, voleva «conficcare la testa [sott.: di Patroclo morto] su un palo, dopo averla staccata dal tenero collo» (Il. 18, 176-7); Achille, poi, mediterà (e attuerà) «azioni oltraggiose» sul cadavere di Ettore (23, 395). 42 Si ricordi che Ares è, appunto, «bronzeo»: Il. 5, 809. 43 Cf. Il. 4, 348; 5, 330; 12, 427; 16, 345 etc.; nei confronti degli animali: 3, 292; 19, 266; nei confronti del legno: Od. 8, 507. 38
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Il genere tragico si presta perfettamente a mostrare la problematicità religiosa, o giuridico-religiosa, della violenza bellica. Per il Coro dell’Agamennone eschileo, «gravida si mostra l’audacia (tólme) di coloro che spirano Ares più di quanto sia giusto (dikáios), mentre le loro case sono nell’abbondanza oltre ciò che è ottimo. (...) Non c’è riparo per l’uomo che, nella sazietà della ricchezza, calpesta il grande altare della Giustizia fino a farlo scomparire» (374-84). Lo stesso Agamennone agisce all’interno di una catena di violenze che comincia da quella di Atreo e Tieste e si trasmette oltre (1068 sgg.)44. La diversa sorte di vinti e vincitori – gli uni rannicchiati sui corpi dei familiari caduti in guerra, con i figli intorno agli anziani genitori, in lamenti; gli altri dediti al ristoro (324-37) – è raccontata anche da Clitennestra, che però vede il rischio di una sciagura che sarà risvegliata dai morti se l’esercito si macchierà di qualche oltraggio verso gli dèi (338-47)45. Il Coro aggiunge che gli dèi non trascurano di osservare criticamente chi ha molto ucciso, dunque i Greci stessi: le Erinni abbattono chi opera senza giustizia e chi ha fama sovrabbondante, perciò è meglio non essere «distruttore di città» (461-72). Non solo ingiustizia ma anche, e al contempo, irreligiosità della guerra – o almeno dell’eccesso in guerra. Se è Zeus stesso a inviare contro Paride le Erinni, nella figura degli Atridi, assegnando ai due eserciti il compito di combattere (60-7), è vero però che c’è il rischio di un offuscamento mentale di Agamennone che dia luogo a qualche comportamento sproporzionato (131-3), all’interno di un processo di alterne riparazioni. Bene commenta tutto ciò, nella cornice di un’analisi molto articolata, Elena Fabbro: «Vittime della guerra e di coloro che l’avevano voluta dunque erano anche i Greci»46. D’altronde, ci si può chiedere se sia mai possibile che in guerra, anche in una guerra che ha tutta l’evidenza di essere «giusta» (812), non si oltrepassi la misura, non ci si macchi a propria volta di ingiustizia. Ares, il «violento» (Il. 5, 30; 35; 355 etc.), l’«insaziabile di guerra» (5, 863), è anche «banderuola» (5, 831; 889) e «comune» (18, 44 La colpa del sovrano, in Aulide, nei confronti di Artemide è espressa con chiarezza da Sofocle (Elettra 569 sgg.: è il vanto di avere ucciso una cerva). 45 Fabbro 2017, 74 sgg. 46 Fabbro 2017, 77, che si muove sulla scia di Bollack 1981, 463 sg. e 489 sgg.
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390), il dio che «impazza alla rinfusa» (Od. 11, 537), perché lotta ora con i Troiani, ora con i Greci allo stesso modo. Egli scatena la furia, che è una furia per definizione senza limiti, in tutti, perché quel che importa, a lui, è che si combatta, non che vinca chi è nel giusto. Nella vicenda itacese, che si configura come la ribellione di alcuni nobili nei confronti del loro re assente, l’invito di Odisseo a Euriclea a non gioire pubblicamente sui cadaveri dei pretendenti da lui uccisi, perché non è cosa santa (hosíe) (22, 407-16), come pure il famoso monito di Archiloco a mantenere la misura («non vantarti pubblicamente se vinci e non lamentarti, abbattuto in casa, se sei stato vinto. [...] Riconosci quale ritmo domina gli uomini»)47, o la sentenza attribuita al sapiente Chilone («non oltraggiare colui che è morto»: Diog. Laerz. 2, 70), sono esortazioni a comportarsi in modo rispettoso della volontà divina che presuppongono tuttavia una realtà ben diversa. Infatti, quando passiamo a questa, le cose si mostrano molto più articolate. Per un verso, lo spartano Pausania rifiuta il consiglio di Lampone di Egina che suggerisce di oltraggiare il cadavere di Mardonio per vendicare l’analogo trattamento ricevuto da Leonida alle Termopili (Erod. 7, 238): a compiere un atto del genere, definito «empissimo», possono essere i barbari, non i Greci, mentre a vendicare Leonida e gli altri morti bastano le «innumerevoli vite» dei Persiani uccisi (9, 78-9). Non a caso Erodoto attribuisce atti di empietà, appunto, ai Persiani e in particolare a Cambise che ne compirebbe di talmente gravi che risultano, allo storico, prova di una condizione mentale anomala, di vera e propria follia (3, 33-8), e hýbris ed empietà sono considerati l’aggressione alla Grecia e i comportamenti di Serse secondo Dario nei Persiani di Eschilo48. Per un altro verso, Lisia e Isocrate diffondono l’idea della concordia dei Greci in correlazione con quella della guerra contro il barbaro nemico comune, e il secondo arriva a dire che «solo questa guerra è preferibile alla pace, perché somiglia ad una missione sacra (theoría) più che ad una spedizione militare» (Paneg. 182)49.
Fr. 128, 4-7 West2 = 105 Tarditi. Cf. Pers. 808 sgg. (e 745 sgg). Su questo e altri casi cf. Catenacci 1998, 180 sgg. 49 Musti 2002; Daverio Rocchi 2013. 47 48
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D’altronde, nel mondo omerico, come è noto, le divinità aiutano o contrastano i vari guerrieri e il successo o insuccesso di questi ultimi testimonia appunto il favore o sfavore divino (p. es. Il. 15, 466-73; 488-93; 23, 379), e il sottolinearlo, da parte degli stessi eroi, può avere funzione parenetica, di incoraggiamento all’azione (p. es. 11, 28695). In Eschilo, poi, Eteocle invita i Tebani a non avere paura degli assalitori, perché «la divinità compirà tutto bene» (Sette contro Tebe 35), e sulla base degli stessi presupposti Senofonte (Ell. 4, 4, 12) spiega il fatto che gli Argivi si trovano intrappolati dagli Spartani come una vera e propria concessione degli dèi ai loro nemici: «gli Spartani non avevano incertezza su chi uccidere: infatti, allora il dio concesse loro un’impresa quale non si sarebbero mai augurati. Effettivamente, il fatto stesso che nelle loro navi una massa di uomini spaventata, stordita, che offriva il fianco scoperto, senza che nessuno si voltasse a combattere, tutti a completa disposizione per farsi uccidere, come avrebbe potuto non essere considerato qualcosa di divino? Comunque, allora caddero così tanti in poco spazio che gli uomini abituati a vedere mucchi di grano, legname, pietre, allora poterono vedere mucchi di cadaveri».
E non solo l’omerico Diomede, quando Agamennone davanti a Troia non ancora conquistata propone ai Greci il ritorno in patria, risponde che, anche se tutti andranno via, lui e Stenelo resteranno fino a quando la città non sarà caduta, «perché siamo venuti col favore del dio» (Il. 9, 49), ma anche nelle guerre storiche è consuetudine che gli eserciti ricordino a se stessi il sostegno divino. Senofonte, molto pio e sempre attento non solo alla preparazione tecnica dei soldati ma anche al loro spirito, fa esibire anche al suo Ciro considerazioni di carattere religioso all’interno di un discorso, rivolto ai compagni, in cui mostra di confidare nella vittoria anche perché si accinge ad una guerra in difesa della giustizia50. Nell’Anabasi egli stesso, rivolgendosi ai commilitoni, non manca di far notare che, di fronte ai nemici che hanno spergiurato, «gli dèi (…) saranno con noi» (3, 1, 21).
50 Cir. 1, 5, 13-4; cf. anche, p. es. Anab. 3, 1, 21-2. In generale, sui discorsi degli strateghi ai soldati, a seconda dello stato d’animo e della circostanza, cf. Abbamonte 2009, Miletti 2009 (dove si trovano anche paragoni con l’attualità).
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Lo stretto rapporto tra religione e guerra si rivela perfino nelle parole d’ordine51 – senza contare il rituale grido in onore di Enialio o le preghiere che, specularmente, i guerrieri degli schieramenti rivolgono agli stessi dèi, o ancora i sacrifici nei quali l’indovino di ciascuna parte vede, come a Mantinea nel 362, il segno divino favorevole alla propria vittoria52. Alessandro Magno, quando le vittime sacrificali davano esito favorevole, le faceva portare in giro tra i soldati perché potessero vedere con i propri occhi ed essere sicuri nell’affrontare il nemico (Polieno, Strat. 4, 3, 14). Siamo davanti ad una pratica di rivendicazione dell’appoggio degli dèi, talvolta riconosciuto anche al nemico ma solo per evidenziare la maggiore forza della divinità protettrice del proprio esercito, con richiamo alle preghiere e ai sacrifici per ottenerlo (Eur., Eraclid. 347 sgg. e 399 sgg.), assolutamente normale. Per la morte di Filippo II di Macedonia (336), ucciso da un Macedone per motivi ignoti, gli Ateniesi (Demostene tra questi) festeggiano in pubblico53, ma ottengono il biasimo di Plutarco. La critica è rivolta loro, appunto, per «avere danzato intonando il peana sul morto» (Demost. 22, 2-4), cioè per avere mancato di pietas. Arriano, per giustificare la rapida distruzione di Tebe ad opera di Alessandro (335), tirava in ballo la punizione divina nei confronti della città che si era resa responsabile di diversi comportamenti criminali durante le guerre persiane e nel corso della guerra del Peloponneso (Anab. di Aless. 1, 9, 6-7). Lo storico presentava Alessandro, invece, come esente da condotte sacrileghe (1, 9, 9; cf. Pol. 5, 10, 5). In qualche caso, addirittura, mostrava il Macedone rispettoso non solo dei morti del proprio esercito ma anche di quelli nemici, il trattamento dei quali sapeva tenere ben distinto da quello dei prigionieri: 51 Cf. Senof., Anab. 1, 8, 16: «Zeus salvatore e vittoria»; Cir. 3, 3, 58: «Zeus alleato e guida». Parole d’ordine come «Zeus salvatore» dovevano essere molto diffuse, se Enea Tattico (Poliorc. 24, 16) la prende ad esempio nel trattare di questo argomento. 52 Tra i molti possibili esempi, cf., rispettivamente: Senof., Anab. 1, 8, 18; Om., Il. 17, 46; Diod. 15, 85, 1. 53 Qualcosa di simile, ma peggio, avviene oggi con i festeggiamenti per la strage di civili del paese da cui pure si è oppressi, per es. nei festeggiamenti di Hamas e Jihad per i sette morti dovuti all’attentato in una sinagoga di Gerusalemme il 27 febbraio 2023, probabile «vendetta» per il raid israeliano a Jenin, definito dal governo di Tel Aviv un’operazione «anti-terrorismo”, in cui erano state uccise almeno nove persone.
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«fece seppellire anche i comandanti persiani e i mercenari greci che erano morti combattendo insieme ai nemici, ma quelli che aveva preso prigionieri, messili in ceppi, li inviò ai lavori forzati in Macedonia, perché pur essendo Greci, in contrasto con la decisione comune avevano combattuto per i barbari contro la Grecia» (Arriano, Anab. di Aless. 1, 16, 6).
Forse si trattava di una condotta strategica volta a mostrare all’esterno un codice comportamentale eticamente apprezzabile, come quella di Yevgeny Prigozhin, il fondatore del «Gruppo Wagner» (una milizia mercenaria russa già accusata di crimini di guerra dall’Onu nel 2021), che, il 3 marzo 2023, si è rivolto con un video all’opinione pubblica ucraina, mostrando i suoi soldati che ricompongono nelle bare le salme dei nemici morti mentre Prigozhin dichiara: «Stiamo inviando a casa un’altra spedizione di combattenti dell’esercito ucraino. Hanno combattuto coraggiosamente e sono morti. Ecco perché l’ultimo camion li riporterà in patria»?54. Ogni parte può porre sotto l’egida religiosa i propri comportamenti, e talvolta darne anche prova con qualche atto plateale che si preoccupa di pubblicizzare. Dunque, l’empietà, nelle narrazioni che ne vengono fatte, è per lo più attribuita all’‘altro’, chiunque egli sia – anche se va ricordato che, per esempio, Erodoto segnala che tanto gli Ateniesi quanto gli Spartani si macchiano dell’uccisione sacrilega degli araldi persiani55. In realtà, poi, nei discorsi tra le parti (come quelli tra Ateniesi e Melii), nessuna delle due rinuncia a rivendicare di starsi comportando in ossequio alle norme divine (Tuc. 5, 104 e 105, 1-3), e già all’inizio della sua opera, Tucidide (1, 86, 5) riferisce che l’eforo Stenelaida, favorevole al conflitto armato, invitava: «decretate la guerra, Spartani, in modo degno di Sparta, e non lasciate che gli Ateniesi diventino più potenti, non tradiamo gli alleati ma, con l’aiuto degli dèi, andiamo all’assalto degli offensori»56. Temistocle, per persuadere i suoi concittadini ad 54 https://video.repubblica.it/dossier/crisi_in_ucraina_la_russia_il_donbass_i_ video/prigozhin-wagner-mostra-le-bare-dei-soldati-ucraini-and-8220li-stiamorimandando-a-casa-hanno-combattuto-valorosamente-and-8221/439516/440480?ref=RHRT-BG-P1-S1-T (consultato il 4.3.2023). 55 Erod. 6, 48-9; 7, 133 e 137. 56 «Con l’aiuto degli dèi» è un’espressione molto usata in contesti bellici anche dal pio Senofonte: p. es. in Anab.3, 1, 23 e 42; 3, 2, 8; 11, 15 etc. Il primo compito di un buon comandante è quello di fare sacrifici agli dèi; egli deve attaccare battaglia solo
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approvare la sua strategia militare, aveva fatto interpretare a suo favore dagli indovini alcuni eventi e aveva suggerito egli stesso il senso di alcuni vaticini (Plut., Tem. 10, 1-3), ma in generale l’atteggiamento assunto dai diversi comandanti variava in funzione dei loro scrupoli religiosi e degli indovini cui si affidavano57. Il manuale di Onasandro (I sec. d.C.), sottolineando l’opportunità di iniziare guerre in cui sia possibile rendere evidente che si agisce con giustizia, ne chiarisce la doppia motivazione, religiosa e psicologica: «allora infatti gli dèi sono benevoli alleati nella lotta (synagonistái) dei soldati e gli uomini si pongono di fronte ai pericoli con maggiore ardore, perché, sapendo che non sono loro ad iniziare (ouk árchousin) ma si difendono, consapevoli di non stare agendo con malvagità, sono indotti ad un coraggio perfetto» (Strateg. 4, 1-2).
Perciò, il buon comandante dovrà anche far sì, con ambasciate al nemico, che appaia il suo sforzo di avere prima cercato i negoziati e che alla fine è sceso in guerra per necessità «chiamando a testimone la divinità» che non ha mancato di considerare le sofferenze dei combattenti e non ha voluto a ogni costo imporre mali ai nemici (4, 3). La correttezza religiosa, da esibire, è dunque anche un fatto strategico. Tutto ciò, infatti, coesiste in Onasandro, senza che risulti avvertita alcuna contraddizione, con la considerazione giustificatrice dell’espansionismo romano secondo cui ad essere preso in oggetto nell’opera sarà soprattutto il valore dei Romani «in quanto né re, né città, né popolo ha conquistato un’egemonia (heghemonías) maggiore né l’ha eguagliato così da stabilire un potere inalterato per tanti anni» (Strateg., Proem. 4). Anche le accuse di empietà, in realtà, non risultano incontrovertibili. Ad esse, in un dialogo tra sordi, si possono contrapporre ‘legittime’ scusanti. Ho già detto più sopra (1.1.2.), a proposito dell’accusa fatta agli Ateniesi di avere fortificato Delio e utilizzato a scopi profani l’acqua di cui era possibile servirsi, invece, solo per scopi religiosi, e della loro difesa che prospetta la clemenza divina verso chi utilizza
col favore divino e in accordo con i sacrifici (Comand. della cavall. 1, 1; 6, 6). Cf. anche Onasandro, Strateg. 5 e 10, 25-7. 57 L’orizzonte mentale dominante era, secondo Lonis 1979, cap. III, quello magicoreligioso, e, in certi casi, più magico che religioso. 44
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l’acqua per bere se costretto dalla necessità. Aggiungo adesso che essi dichiarano che sono «più empi» – il comparativo è retoricamente importante perché ha lo scopo di instaurare una scala del sacrilegio in cui i nemici occupano un gradino superiore – i Beoti che, per restituire i morti, pretendono di riavere i luoghi sacri (4, 98, 7). Riassume bene alcuni motivi visti finora («chi ha iniziato?» legittimità e religiosità della propria azione) la contesa tra Plateesi e Tebani davanti ai ‘giudici’ Spartani, nel 427. I Plateesi, arresisi a questi ultimi, invocano la loro clemenza ricordando (hypómnesin poiéisthai) i benefici, che in questo frangente, appunto, «non è adeguato dimenticare (amnemonéin)», da loro resi agli Spartani in passato, cioè l’appoggio contro i Persiani e l’aiuto fornito in occasione della ribellione degli Iloti58, mentre in precedenza gli Spartani hanno rifiutato di essere loro alleati contro i Tebani (3, 55, 1) e sono stati invece gli Ateniesi ad aiutarli (55, 3). L’ultima ingiustizia da loro subita ad opera dei Tebani – continuano i Plateesi – consiste nell’essere stati attaccati in periodo di pace e per giunta in un giorno di festa; perciò essi «correttamente» si sono vendicati «in conformità ad una legge stabilita per tutti secondo cui è cosa santa (hósion) difendersi dal nemico che invade» (56, 2); d’altronde, come vuole il costume greco, rientra fra le cose sante (hósia) non uccidere coloro che si sono arresi e sono diventati supplici, specialmente se in passato sono stati perfino benefattori (58, 3). Ne deriva l’opportunità che gli Spartani li risparmino con «assennata commiserazione» considerando non solo la loro triste situazione «ma anche quali uomini siamo noi che soffriamo e come la sciagura, instabile, può abbattersi su chiunque, anche se non lo merita» (59, 1). I Tebani, a loro volta, chiedono che il giudizio sia circostanziale, cioè relativo ai soli fatti contestati loro nell’occasione specifica, e che i precedenti comportamenti nelle guerre persiane non incidano su quanto si sta discutendo al momento. Nel merito, essi ribattono assumendo un diverso inizio (próton) del loro essere in contrasto (diáphoroi) con i Plateesi, cioè quello in cui costoro, la cui città era stata fondata dai Tebani, vollero rendersi autonomi e andare oltre le istituzioni patrie (61, 1-2), e proseguono presentando tutta un’altra storia. Di tale storia raccontata dall’angolo visuale tebano, fanno Tuc. 3, 54, 1-5. Il tema del «non dimenticare» ritorna in 59, 2.
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parte i seguenti elementi: innanzitutto, gli scorretti comportamenti plateesi, tra cui lo schieramento a favore degli Ateniesi che, compiendo ingiustizia (adikéo), erano intenzionati ad assoggettare la Grecia (63, 4); poi, la giustificazione dell’attacco tebano in periodo di pace con la precisazione che esso era stato condotto su invito di una fazione dei Plateesi stessi contraria all’alleanza con gli Ateniesi e desiderosa di un ritorno alle istituzioni patrie (65, 1-3); e infine la segnalazione delle trasgressioni plateesi del raggiunto accordo, tra cui proprio l’uccisione di prigionieri cui era stata invece garantita la vita (66, 2-3). Pertanto, il verdetto che essi richiedono agli Spartani di pronunciare contro i Plateesi avverrà giustamente (dikáios) e loro saranno vendicati ancora più santamente (éti hosióteron: 67, 1); né le eventuali antiche virtù dei Plateesi devono indurre a commiserazione ma bisogna pensare alla sorte dei padri dei giovani massacrati da loro che hanno subìto «cose molto più terribili» di quelli morti combattendo contro i Persiani: dei loro padri, alcuni sono stati uccisi essi stessi a Coronea; per il resto, «anziani rimasti soli e loro case deserte vi fanno la supplica molto più giusta (polló dikaiotéran) di punire costoro. Tra gli uomini, sono molto più degni (axióteroi) di ottenere commiserazione (óiktou) coloro che subiscono qualcosa di sconveniente, mentre quelli che soffrono giustamente (dikáios), come costoro, meritano che della loro sorte si gioisca» (67, 2-4). I casi riportati possono essere sufficienti ad illustrare i diversi modi in cui si esplica il rapporto tra guerra e religione. Certo, non tutti gli esempi presentati rientrano esattamente in quella categoria cui noi siamo abituati a pensare quando diciamo «Dio è con noi»; alcuni di essi sono molto più banali. In fondo, essi ci parlano di un ‘normale’ rapporto tra violenza militare e religione. Nel mondo greco quest’ultima è strettamente legata all’ambito della giustizia che prevede che i patti siano fatti sotto giuramento, cioè davanti alla divinità (così è anche nel già citato passo di Tuc. 2, 74, 3, in cui per l’appunto Archidamo invoca la testimonianza degli dèi e degli eroi indigeti, o nell’Epistola di Filippo 23 del corpus demostenico, che offre l’analoga invocazione del re macedone; cf. supra 1.1.2.). Anche in questo caso ognuna delle parti in conflitto è bene attenta a rivendicare la propria
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giustizia e pietas religiosa59, e ogni esercito greco ha il suo indovino che celebra sacrifici60. In realtà, che le cose vadano in questa maniera in una società in cui politica, giustizia, religione non sono ambiti autonomi e rigidamente separati l’uno dall’altro, non dovrebbe stupirci. A stupirci, piuttosto, forse dovrebbe essere il fatto che anche oggi, nonostante don Milani, ogni esercito abbia i suoi cappellani militari che benedicono uomini che vanno a uccidere o a essere uccisi.
5. Ricordare per fare la guerra Per cominciare una guerra alla luce di una precedente (vera o presunta) ingiustizia ricevuta – soprattutto, poi, se vengono rievocati eventi di molti anni prima –, bisogna che la memoria ne abbia organizzato il ricordo. Per esempio, secondo Erodoto, verso la fine del VI secolo gli Egineti attuano una «guerra non dichiarata (akéryktos pólemos)» con Atene, «ricordandosi dell’antica inimicizia» con essa61, e nel 525 i Corinzi avrebbero partecipato a una spedizione spartana contro Samo perché «si ricordavano del male» (apomimnéskomai) da loro subìto in precedenza: infatti, una generazione prima, senza violenza ma con un espediente creativo, avevano impedito ai Sami approdati presso di loro di portare a Sardi trecento giovani corciresi che lì sarebbero stati evirati62. Diodoro, poi, racconta che il Persiano, quando Ecateo gli chiese perché diffidasse degli Ioni (di cui egli era ambasciatore), dichiarò, pensando alla battaglia di Lade (494), di temere che essi conservassero il ricordo dei mali (mnesikakéo) sofferti durante la guerra (10, 25, 4); e si potrebbero citare molti altri casi63. Per tale atteggiamento durante la guerra del Peloponneso, cf. Bertoli 2009. Sul ruolo della religione in guerra cf. l’ampio volume di Lonis 1979; sull’argomento cf. anche Stolfi 2012 (ho già citato Musti 2002 per un aspetto particolare). 61 Erod. 5, 81, 2; cf. 5, 89, 1. 62 Cf. Erod. 3, 48-9. Tra parentesi, per ricollegarmi al tema già trattato dell’«inizio», Periandro, a sua volta, aveva voluto mandare i trecento a Sardi per vendicarsi del fatto che i Corciresi avevano iniziato (árcho) atti ostili nei suoi confronti (3, 49, 2-53, 7). 63 Per esempio, ancora Diodoro spiega che le Amazzoni, indebolite da una spedizione di Eracle contro di loro, sarebbero state oggetto di guerre e distrutte dai loro vicini che le avevano attaccate «ricordandosi del male» (mnesikakéo) che in precedenza avevano subìto da loro (2, 46, 4). 59 60
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Il ricordo può essere, però, non solo spontaneo ma anche frutto di una scelta volontaria che induce a coltivarlo. Dario, volendo vendicare l’incendio di Sardi del 494 da parte degli Ateniesi, scaglia una freccia verso il cielo chiedendo a Zeus che gli sia concesso di punire i nemici – ancora un’invocazione religiosa a fini bellici – e dà ordine a uno dei suoi schiavi di ripetergli, ad ogni pranzo, «padrone, ricordati (mémneo) degli Ateniesi» (5, 105; ribadito in 6, 94, 1). Il tema non è semplicemente un topos erodoteo: Senofonte (Ell. 3, 5, 5), tra le cause della guerra di Corinto (395-387), pone il fatto che gli Spartani «si ricordavano» di certi ‘sgarbi’ che in passato avevano subìto dai Tebani. Comunque, per muovere guerra, come mostra la frase attribuita a Dario, il ricordo va conservato e alimentato nel tempo, in modo da tenere viva l’ira e mantenere un odio che duri, come spesso viene detto, per «sempre»64. Prima della battaglia di Platea (479) i Greci avevano giurato, tra le altre cose, di non ricostruire «nessuno dei templi bruciati e abbattuti dai barbari» ma di lasciarli «ai posteri come ricordo (hypómnema) dell’empietà dei barbari»65. Isocrate, odiatore dei Persiani, vi fa riferimento nel corso del suo elogio di Atene, che è al contempo un manifesto bellico contro i barbari, e rievoca tutta una cultura che sostiene il suo punto di vista: «verso chi di noi non hanno sbagliato? In quale periodo hanno tralasciato di insidiare i Greci? Quale tra le nostre cose non è invisa a loro che nella guerra precedente osarono depredare e incendiare perfino le sedi e i templi degli dèi? Perciò è anche giusto lodare gli Ioni in quanto maledissero chi avesse toccato o avesse voluto ripristinare i templi incendiati, non perché non avevano le risorse con le quali rimetterli in sesto ma perché fossero ricordo (hypómnema), ai posteri dell’empietà dei barbari e nessuno avesse fiducia in quelli che avevano osato sbagliare nei confronti delle cose degli dèi ma ce ne si guardasse e li si temesse, vedendo che avevano fatto guerra non solo ai nostri corpi ma anche ai nostri oggetti votivi. Anche riguardo ai nostri concittadini posso 64 Erod. 8, 27, 1, e Paus. 10, 13, 4 per quello tra Tessali e Focesi. Solo apparentemente i Tessali dichiarano di non «ricordarsi del male» inflitto loro dai Focesi che erano riusciti a difendersi dai loro assalti: infatti, essi chiedono loro del denaro per salvaguardarli dal pericolo dei Persiani, con cui sono in buoni rapporti (Erod. 8, 29, 2) – ed Erodoto stesso, in proprio nomine, lo aveva detto poco prima. 65 Licurgo, Contro Leocr. 80-1; cf. Diod. 11, 29, 3.
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esporre cose simili. Anche questi, infatti, con gli altri con cui hanno fatto guerre si riconciliano e al contempo si dimenticano (epilanthánontai) dell’inimicizia passata, invece quelli del continente non li gradiscono neanche quando ne ricevono benefici: tanto hanno ira imperitura (aéimneston) verso di loro. E i nostri padri condannarono a morte molti per il loro favore verso i Persiani e anche oggi, nelle assemblee, prima di trattare qualche affare, lanciano maledizioni contro qualsiasi cittadino proponga accordi con i Persiani. Nell’iniziazione ai misteri, gli Eumolpidi e i Cerici, a causa dell’odio per costoro prescrivono che dai riti sacri siano esclusi, come gli omicidi, anche gli altri barbari. Per natura siamo in rapporto bellico verso di loro al punto che ci intratteniamo nel modo più piacevole tra i racconti di fatti troiani e persiani, per mezzo dei quali è possibile conoscere le sciagure di costoro. Uno troverà che dalla guerra contro i barbari sono derivati inni, da quella contro i Greci odi funebri, i primi cantati nelle feste, i secondi ricordati (memneménous) nei casi di sciagure. Credo che anche la poesia di Omero abbia maggior fama perché ha elogiato bene coloro che hanno combattuto con i barbari, e che per questo i nostri antenati hanno voluto onorare la sua arte nelle gare poetiche e nell’educazione dei giovani: perché, udendo spesso i versi epici, apprendessimo l’inimicizia che sussiste verso di loro e, emulando le virtù di coloro che fecero quella spedizione, desiderassimo ripetere le loro stesse imprese. Sicché mi sembra che siano moltissimi gli elementi che ci spingono a fare loro guerra» (Paneg. 155-60).
– una politica del ricordo molto simile a quella che si trova nelle pagine di odio verso l’‘altro’ scritte da Oriana Fallaci ne La rabbia e l’orgoglio, all’indomani dell’attacco subìto dalle Twin Towers, di cui do di seguito qualche esemplificazione: «Li ricordi i barbuti con la sottana e il turbante che prima di sparare il mortaio, berciavano le lodi del Signore Allah-akbar, Dio-è-grande, Allah-akbar? Io li ricordo eccome!»; «ricordi il verdetto emesso dalla Corte Suprema del Tribunale Islamico di Kabul? “Tutte le statue pre-islamiche saranno abbattute. Tutti i simboli pre-islamici saranno spazzati via insieme agli idoli condannati dal Profeta...”» (di contro, dei ‘nostri’, la giornalista ricordava le azioni considerate positive; per esempio: «ricorda lo sbarco in Normandia [...]?»)66. Di nuovo Pausania, testimoniando che ancora ai suoi tempi i santuari di Era ad Aliarto e ad Atene e di Demetra al Falero restano Cf. Fallaci 2001, rispettivamente, 80, 110, 83
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semibruciati, informa che sono stati lasciati così come «ricordi di odio» (10, 35, 2). Questi testi ci consegnano un’immagine di certi monumenti e scritti come frutto di una precisa memoria culturale che vuole rendere permanente l’odio per i Persiani. Effettivamente, testimonianze scritte che vanno in questa direzione non mancano: basterà menzionare Eschilo, Simonide, Frinico, e, per aggiungere un prosatore, Erodoto. Quanto alle testimonianze monumentali, si può ricordare che l’agorà e l’acropoli di Atene erano ricche di questi segnacoli: la statua bronzea di Atena Prómachos, «prova del valore contro i barbari che la città dedicò grazie al denaro dei Greci» (Demost., Falsa ambasc. 272); le rappresentazioni di battaglie come quella contro le Amazzoni («al centro delle pareti»); quella di Troia conquistata e quella di Maratona (in cui si vedono «i barbari in fuga» e i Greci «che fanno strage» di loro mentre cercano di raggiungere le navi) nella Stoá poikíle eretta dopo le guerre persiane (Paus. 1, 15, 2-3)67; il fregio nord del Partenone con la guerra di Troia – laddove è da tenere a mente che, per i Greci, Troiani e Persiani diventano presto assimilabili68 – e trofei e spoglie di guerra. Durante la guerra del Peloponneso troviamo come ricordi delle vittorie solo le spoglie e non più edifici o grandi monumenti69; ma qualcuno, anche a proposito di guerre tra Greci, non manca di stigmatizzare non solo la pratica di erigere trofei, da considerare segni non di valore bensì di sopraffazione (Isocr., Fil. 148), ma anche la dedica delle armi dei nemici nei templi che nuoce al futuro rapporto positivo tra vincitori e vinti (Plat. Rep. 469e-470a). Pausania (5, 26, 1) riferisce che una statua di Nike a Olimpia, secondo lui dedicata dai Messeni dopo una sconfitta inferta ad Acarnani e Eniadi, dai Messeni stessi è dichiarata essere, invece, un’offerta votiva dopo il loro successo militare sugli Spartani a Sfacteria (425): essi adducono l’argomentazione che, se fosse stata dedicata in occasione di una battaglia contro Acarnani ed Eniadi, l’iscrizione riporterebbe anche il nome dei nemici, mentre non lo 67 Ma non mancavano, in realtà, anche pitture e altre evidenze (per esempio, esposizioni di scudi nemici) di scontri tra Greci (Paus. 1, 15, 1 e 4). 68 Cf. Hall 1991; Bertolini 1996; Lenfant 2004. Per altri luoghi della Grecia cf. Diod. 11, 33. 69 Cf. Monaco 2014; Todini 2008.
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riporta «per il timore causato dagli Spartani». Evidentemente, senza entrare nel merito, cioè se sia corretta l’interpretazione di Pausania o quella messenica, c’era piena consapevolezza che tali dediche, di carattere duraturo, non favorivano la buona relazione futura con la parte sconfitta che vedeva pubblicamente e permanentemente esibito il proprio insuccesso, per cui, quando ad essere vinta era una grande potenza, si poteva pensare che fosse più saggio evitarle. Poiché i trofei avevano un valore simbolico molto importante, in quanto sancivano pubblicamente chi aveva vinto militarmente, gli eserciti nemici potevano mostrare una sorta di competizione per la loro elevazione dopo una battaglia di esito incerto. Tale incertezza, che indica già da sola tutta l’ambiguità della guerra, non doveva essere un evento troppo raro70 perfino quando lo scontro era regolamentato in forma agonale, come nella prima fase del conflitto tra Sparta e Argo per Tirea (Erod. 1, 82, 1-6) o quando si svolgeva nella forma del duello tra offensore e offeso71. Alcuni episodi sono particolarmente significativi e vale la pena richiamarli. Dopo un combattimento tra Ateniesi e Corinzi, durante la pentecontetia, i primi eressero un trofeo mentre i secondi se ne andavano via: questi ultimi, giunti a Corinto, furono rimproverati dagli anziani e tornarono sui luoghi del combattimento per innalzare un trofeo anche loro (Tuc. 1, 195, 6). Nel 408, quando gli Ateniesi, dopo una battaglia vinta, eressero un trofeo, lo spartano Agide schierò il suo esercito e li sfidò a lottare per esso (Diod. 13, 73, 1). È bene tenere presente, però, che, come è stato già rilevato72, i trofei di solito erano lignei, dunque in materiale deperibile. Costruirli in pietra o in bronzo, come verso la fine del V sec. fecero gli Efesini, «a vergogna degli Ateniesi», dopo avere vinto Trasillo da cui erano stati attaccati (Plut., Alcib. 29, 2), significava elevare un «ricordo immortale dell’inimicizia», per usare l’espressione posta sulla bocca del siracusano Nicolao che esalta la saggezza degli antenati nell’utilizzare il semplice legno: questo infatti, essendo materiale non duraturo, sarebbe stato presto distrutto e con esso, appunto, sarebbe Cf. p. es. Tuc. 2, 92, 4-5; 4, 134, 1; Senof., Ell. 7, 5, 26; Diod. 15, 87, 2. Cf. la discussione tra i commensali di cui narra Plutarco (Quest. Conv. 741d-743c) su chi, tra Menelao e Paride, abbia vinto il duello rappresentato nel terzo canto dell’Iliade. 72 Cf. Bettalli 2009, che cita anche i passi menzionati qui di seguito nel testo. 70 71
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stata distrutta anche la memoria delle cattive relazioni intercorse tra le città (Diod. 13, 24, 5-6)73. Per questo, secondo Plutarco (Quest. rom. 273c-d), chi per primo innalzò un trofeo in pietra o in bronzo (cioè i Tebani, dopo la vittoria a Leuttra, nel 371: Cicer., Invenz. 2, 23, 69) fece «cosa da malevoli e litigiosi» e giustamente non ha buona fama. Ma la cattiva nomea di chi erige trofei in materiale duraturo ha i suoi limiti. In linea con quanto già detto, infatti, essa non sembra valere per il trofeo in marmo bianco elevato ad Atene, verso il 460, per la vittoria sui Persiani a Maratona: in effetti, «i trofei delle guerre persiane furono i primi trofei greci ad avere una forma permanente»74. Il che è ben comprensibile. Infatti, tali monumenti antichi, come afferma Demostene a metà del IV sec. (351) perorando l’intervento ateniese a sostegno dei democratici e contro l’oligarchia filopersiana, hanno il compito non solo di far ammirare gli antenati che li hanno eretti ma anche di farli imitare (Libertà dei Rodii 35). È chiaramente in quest’ottica parenetica che li menziona Senofonte ai suoi soldati insieme ai sacrifici annuali in onore di Artemide istituiti per la vittoria sui Persiani (Anab. 3, 2, 13), cioè sui barbari da odiare per sempre che era conveniente chiamare in causa quando si voleva confrontare la liceità della guerra fatta dai Greci a loro con la gravità di quella mossa da Greci ad altri Greci75.
73 Nicolao sarà contestato dallo spartano Gilippo con l’argomento che, invitando alla clemenza verso gli Ateniesi benché gli abbiano ucciso in combattimento due figli, egli mostra di dimenticarli (amnemonéo) e vuole salvare i nemici mentre tutti gli astanti rimpiangono i fratelli, parenti e amici perduti a causa degli Ateniesi (Diod. 13, 28) 74 West 1969, 18 (che, oltre alle principali testimonianze di Aristof., Caval. 1334 e, soprattutto, Paus. 1, 32, 5, riporta altre fonti su trofei per le vittorie sui Persiani a Maratona, Salamina e Platea). Nel 1965 furono ritrovati resti del trofeo: cf. Vanderpool 1966. 75 Così facevano, p. es., Elpinice, sorella di Cimone, che rimproverando Pericle, dopo l’epitafio da lui pronunciato nel 439 per gli Ateniesi morti combattendo contro Samo, evidenziava la ben diversa direzione dell’attività militare dei due uomini («tu hai distrutto molti e valorosi cittadini non in guerra contro i Fenici o i Medi come mio fratello Cimone, ma nella rovina di una città alleata e parente» (Plut., Per. 28, 6; sul passo cf. Bultrighini 2014, 466 sgg.), e Platone, che (Rep. 470d-471b) voleva che tra Greci non ci fosse pólemos, cioè un combattimento volto all’asservimento e alla distruzione, ma solo stásis, ovvero una divisione momentanea che limitasse la sua azione offensiva al minimo, e che il comportamento bellico con il suo portato di violenza totale fosse da utilizzare solo nei confronti dei barbari (cf. anche Meness. 242d).
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Si è soliti richiamare il fatto che Atene, nel secolo e mezzo che va dalle guerre persiane alla battaglia di Cheronea (338), era stata impegnata in guerre mediamente due anni su tre76. Non è affatto detto che tale calcolo debba valere anche per il resto delle piccole poleis greche, per lo più coinvolte in meno cruenti rapporti conflittuali per banali questioni di confini77. Tuttavia, forse non sarà eccessivo ritenere che, anche laddove era presente un tasso di bellicosità elevato, ad esso possa aver contribuito proprio il ricordo dei mali. Questo è tramandato, come si è visto, dai trofei, dai monumenti e dalle pubbliche esposizioni delle spoglie dei nemici che costituiscono una vera e propria scelta bellicista. Naturalmente, all’interno di un circolo vizioso, il ricordo dei mali è iscritto, con altrettanta e anche maggiore evidenza, pure sul corpo della miriade di reduci di guerra o civili mutilati. In ogni caso, tra i danni provocati dai conflitti armati vanno posti non solo quelli di tipo materiale, al territorio, alle case, agli esseri animali e umani, procurati nel corso del conflitto armato ma anche quelli di ordine culturale che lasciano in eredità strascichi di odio che saranno, a loro volta, le fondamenta su cui si costruiranno nuove guerre.
Garlan 1972, 3. Hölkeskamp 1997, 483.
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Capitolo II Dinamiche di guerra
1. Retorica agonale e prassi reale Dal punto di vista aristocratico, la guerra è concepita nella sua qualità di combattimento ‘epico’, come siamo soliti dire; in essa gli eroi omerici impiegano il loro pónos, ovvero «sforzo, travaglio, fatica»1. Personificato, Ponos è figlio di Eris, cioè Competizione o Contesa (Es., Teog. 226), che è un agente fortemente antagonistico. Quest’ultima la vediamo, «insaziabilmente furiosa», spingere i soldati alla guerra insieme al fratello Ares, ad Atena, a Terrore (Il. 4, 439-41), o, con Apollo e Ares, risvegliare, appunto, il pónos della guerra (5, 517-8) e, con l’altro consueto epiteto di «divoratrice dell’animo» (thymobóros), possedere il furore bellico (ménos) (7, 207-10)2. La guerra è il luogo in cui il campione aristocratico, ad esempio Ettore, ha appreso «a essere sempre prode e a combattere fra i primi», assicurando «grande fama al padre e a se stesso» (6, 444-6). L’eroe obbedisce alla regola per cui bisogna «essere il migliore e al di sopra degli altri e non svergognare la stirpe dei padri» (6, 208-9), regola che, nella sua formulazione minima, si riduce all’obbligo di «essere superiori agli altri» (11, 784)3. Nella competizione bellica, dunque, si esibisce il valore aristocratico, la prova della nobiltà dell’individuo che dà lustro a sé e ai suoi antenati, la continuità con i quali è così perfettamente garantita.
Cf. Il. 4, 457; 6, 77; 12, 348; 13, 2; 16, 568 etc. Per l’associazione con le guerre cf. ancora, p. es., Il. 1, 177 e 14, 389. Quanto agli epiteti e alle associazioni di Eris che rinviano alla sua violenza bellica, ce ne sono molti altri (cf., p. es., Es., Teog. 225 sgg.; Sc. 148 e 154-6). 3 Cf., per il rapporto sussistente tra non avere nessuno superiore a sé e non avere nessuno che possa competere (erízo) Il. 5, 172-3. 1 2
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Il primato ‘esibizionista’, per dir così, si esprime in due direzioni. Innanzitutto, il nobile compete con quelli della sua stessa comunità: per essere, appunto, primo e al di sopra di loro quando si combatte contro i nemici. Poi, naturalmente, la competizione è anche con i combattenti della comunità esterna: in essa gli uomini sono pieni di «furore molto coraggioso e intrepido» penetrato in loro «che al servizio della patria mettono travaglio e lotta (pónon kái dérin) contro i nemici» (Il. 17, 156-8). La competizione avviene anche in un’altra attività aristocratica che possiede la stessa struttura formale, di gioco a somma zero (in cui ci devono essere un vincitore e un vinto), della guerra. Mi riferisco all’attività agonistica, da Omero chiamata anche «competizione di gara a premi», che si pratica in vista della vittoria e, appunto, di un premio, «áthlon», che attesta il valore del vincitore4. Come nel combattimento, anche nella gara qualcuno deve essere sconfitto e chi risulterà tale non ne sarà contento, anzi vedrà di mal occhio colui che lo ha battuto e ha mostrato in pubblico la sua inferiorità. Benché in Omero il termine agón non sia attestato in relazione alla guerra, l’analogia, anzi il filo rosso e la continuità tra il campo militare e quello sportivo, è già visibile. Lo mostrano chiaramente considerazioni come quella di Odisseo il quale, sfidato a gara nella reggia di Alcinoo, si dice disposto a misurarsi con chiunque tranne che con i figli del re da cui ha ricevuto accoglienza dopo il naufragio: egli è infatti suo ospite, «e chi combatterebbe con chi gli è amico? Stolto e da nulla sarebbe quell’uomo che portasse contesa di gare davanti a colui che lo ospita in terra straniera. Egli si taglia tutte le sue risorse» (Od. 8, 208-11); o quella secondo cui il giavellotto viene scagliato «in una gara per un premio (en aéthlo) oppure in guerra» (16, 590-1); o il paragone tra la fuga di Ettore intorno alle mura di Troia inseguito da Achille e una gara di corsa tra due concorrenti che girano intorno alla meta (22, 157-66)5. Gli áthla, in effetti, costituiscono proprio un elemento di «comparazione fra il duello in battaglia, la singolar tenzone di tipo spettacolare e gli agoni sportivi»6, e i giochi funebri in onore di Patroclo, benché arginino la violenza dandole Cf. p. es. Es., Sc. 305-12; Pind., Ol. 5, 15; Nem. 4, 1; 7, 74. Cf. Kyle 2015, 53. 6 Camerotto 2007, 9. 4 5
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delle regole ben precise, sono «un’imitazione del combattimento»7, tanto da arrivare a prevedere una gara con le armi. Certo, da un lato, è previsto che la gara abbia fine quando uno dei rivali ferirà l’altro ma, da un altro, viene sottolineato che i due guerrieri si accingono allo scontro «guardandosi terribilmente con sguardo scintillante» (Il. 23, 802 sgg.; 815), cioè non diversamente da come si guardano due nemici come Paride e Menelao pronti ad affrontarsi in un duello vero e proprio (3, 342). Tale modo di pensare cavalleresco, che ideologicamente concepisce la guerra come una gara sportiva, non resta limitato all’aristocrazia. L’analogia tra i due ambiti è alla base di un ambiguo oracolo della Pizia, che con la parola «agoni» allude appunto, come viene poi spiegato, «non alle gare ginniche ma a quelle di Ares» (Erod. 9, 33, 2-3). Né può essere sufficiente richiamare il carattere rituale di certe guerre, come quella per la piana lelantina tra Eretriesi e Calcidesi che si erano accordati di non utilizzare armi da getto (Strab. 10, 1, 12)8, o la nozione di guerra oplitica tendenzialmente regolata, almeno come ideale, da certe norme tradizionali9. Si tratta, piuttosto, di un’idea più generale, su cui anche il mondo democratico è pienamente in linea con quello omerico aristocratico, i cui valori ‘di primato’ esso condivide e semplicemente allarga10. Insomma, la democrazia introietta l’ideologia dello sforzo e dell’agonismo. Pónos si profonderà ancora, normalmente, nella battaglia11, come del resto si profondeva già in Omero non solo nelle imprese dei singoli eroi ma anche nelle battaglie «proto-oplitiche» o, comunque, di massa12. Il termine agón verrà espressamente utilizzato, 7 Redfield 1975, 206 (per le specifiche analogie e differenze cf. ivi, le pagine seguenti). 8 Per la nozione di guerre rituali, cf. Brelich 1961. 9 Cf. Lonis 1979, cap. II; Hanson 2000. 10 Per l’aristocratico mondo omerico cf. Kyle 2015, part. capp. 3 e 4; per una ricerca estesa ad un arco temporale molto più ampio, cf. il ricco confronto, a vari livelli, tra l’ambito della gara e quello della guerra svolto da Angeli Bernardini 2016. 11 Cf., a titolo esemplificativo, Erod. 1, 28, 3; 6, 108, 1 e 4; 114, 2; Tuc. 3, 98, 1; 4, 14, 4; 5, 16, 1; 7, 81, 4; Senof., Cir. 3, 3, 9; Ages. 2, 8; 7, 1; Cost. degli Spart. 4, 7; Pol. 1, 58, 9; 3, 60, 4; 8, 10, 9; Diod. 15, 1, 3; 85, 7; 16, 76, 3; 17, 56, 4; Dion. di Alic., Ant. rom. 1, 20, 2; 2, 28, 3; 32, 1. 12 Per la nozione di proto-oplitismo, cf. Raaflaub 2013. Per pónos in rapporto al singolo eroe, cf. p. es. Il. 4, 374; 9, 12 e, in rapporto a scontri collettivi, 4, 456; 13, 2.
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oltre che per la gara sportiva (e per tutte le pratiche a somma zero, che siano discussioni eristiche o processi in tribunale), anche per la battaglia (per esempio, Tuc. 2, 89, 8), e agonía e agonízomai si riferiranno sia all’ambito della gara sia a quello del combattere, secondo regole prestabilite o in generale13, come áthlon continuerà ad essere anche il «premio» della vittoria bellica14. La concezione della guerra come sport si radica dunque nella lingua, anche quando la guerra non abbia quel carattere di lealtà che misura il valore dei contendenti, probabilmente perché il tratto adesso in maggiore rilievo è quello dello sforzo profuso per la vittoria, all’incirca come nel nostro «lotta». La dimensione agonistica chiarisce anche l’atteggiamento dei Greci che nel 363, giunti ad Olimpia per la festa panellenica, assistettero, secondo Diodoro (15, 78, 3), alla battaglia che si svolse tra i Pisati, di cui erano alleati gli Arcadi, e gli Elei per chi dovesse celebrare la festività olimpica: essi si comportano da spettatori (theáomai) applaudendo (episemáinomai) «tranquillamente e senza pericolo» gli atti di valore militare compiuti da ognuna delle due parti, come se avvenissero su un grande ring. Nella stessa ottica, secondo Plutarco, Tito Quinzio Flaminino, esortando i suoi soldati alla battaglia, a Cinoscefale (197), faceva loro notare che essi stavano per «lottare (agonízesthai) contro i migliori avversari (antagonistón) nel teatro più bello, la Grecia» (Flam. 7, 6). Anche il rapporto tra quelli che si trovano nello stesso schieramento di fronte al nemico continuerà ad essere considerato di tipo agonistico. Se nel mondo omerico ricompense particolari potevano essere promesse per fare da sprone alla battaglia o indurre a compiere qualche missione speciale (p. es. Il. 8, 287-91; 10, 303-9), nella realtà storica di epoca posteriore avveniva allo stesso modo, e la ricompensa, oltre al più generico nome di «dono», prendeva quello di «premio». Per fare solo qualche esempio, secondo Erodoto, Ciro manda cavalieri a proclamare all’esercito che darà dei «doni» a chi salirà per primo sulle mura nemiche (1, 84, 1). E i Greci, ritenendo offensivo che Artemisia, una donna, fosse scesa in guerra contro 13 Qualche esempio di agonía e agonízomai per la gara: Pind., Ol. 2, 52; Pit. 5, 113; Erod. 2, 160; per il combattimento in generale o secondo un preciso accordo: Erod. 1, 77, 1 e 1, 82, 3; Tuc. 4, 73, 3; Senof., Ell. 7, 5, 23; nel corso delle pagine di questo libro sono menzionati molti altri casi. 14 Cf. p. es. Tuc. 2, 46; 6, 80, 4; Isocr., Paneg. 99; Demost., Olint. II, 28 e Fil. I, 5.
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di loro insieme ai Persiani, avevano posto un premio (áethlon) di diecimila dracme per chi l’avesse presa viva (8, 93, 2). Durante la guerra del Peloponneso, poi, Brasida stabilisce di dare del denaro (qui non compare né la nozione di dono né quella di premio ma il meccanismo operante è lo stesso) per il soldato che per primo salirà sul muro dei nemici (Tuc. 4, 116, 2)15. Una gara tra soldati dello stesso esercito nel combattimento contro il nemico comune persiano è anche ciò che illustra Isocrate nel Panegirico (91). È sempre lo sforzo in vista del raggiungimento di una superiorità ad essere pertinentizzato. Si potrebbe continuare, ma è più utile aggiungere, piuttosto, che l’agón può essere anche ideale con i propri padri e familiari morti in guerra: i soldati, «in caso di valore eccezionale», potranno essere giudicati, se non proprio simili, almeno di poco inferiori ai caduti di cui sono parenti, secondo quanto viene detto nell’orazione funebre per i morti del primo anno della guerra del Peloponneso attribuita a Pericle (Tuc. 2, 45, 1). In realtà, poi, il rapporto tra guerra e sport non è solo di tipo analogico. Le due attività, cioè, non solo presentano la stessa struttura formale, ma anche si ‘incontrano’ funzionalmente, perché la seconda, almeno fino a quando non si sviluppa in senso professionale, è finalizzata alla prima. Infatti, le gare sono «tanto una conseguenza del mestiere della guerra quanto una sua preparazione»16. Il che avviene sia indirettamente (le gare simulano appunto pratiche utili in guerra)17, sia direttamente: il persiano Ciro, secondo Senofonte, predisponeva gare per i suoi soldati e, ancor prima, aveva dato consigli al padre in questa direzione: «per quel che concerne l’addestramento nelle singole discipline militari (…) penso, padre, che un modo per tenere gli uomini in esercizio sia proporre agoni per ciascuna disciplina e fissare dei premi. Così, al bisogno, avremo a disposizione uomini già 15 Gli Spartani, per sostenere quelli di loro assediati nell’isola di Sfacteria, promettono denaro a chi riesca a portare loro vettovaglie; la libertà, se si tratta di iloti (Tuc. 4, 26, 5-6). 16 Pleket 1988, 36. Per lo sport agonistico in Grecia in generale cf. Pleket 1996. 17 Se Tirteo (fr. 9 G-P) critica gli atleti, lo fa perché la loro pratica è appunto solo una simulazione e non l’attività bellica, che da questo punto di vista è più importante dell’agone: ma ciò non significa che quest’ultimo venga rifiutato in assoluto, e anche Senofane (fr. 2 G-P) muove le sue riserve all’atletismo rispetto alla superiorità della (propria) attività intellettuale (cf. Giannini 1982; Kyle 2015, 79 e 181).
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preparati» (Cirop. 1, 6, 18; cf. 6, 2, 6; 8, 2, 26). E ancora Senofonte ci informa che nel 395 il comandante spartano Agesilao, raccolte le sue truppe a Efeso, per esercitarle (askéo), organizza delle gare a premi (áthla) in ogni disciplina militare (Ell. 3, 4, 16-8). Che dietro la retorica agonale ci sia poi la guerra come prassi violenta meno regolamentata di quanto appaia alla luce della concezione finora presentata è banale dirlo. Certo, in linea di principio, la violenza messa in atto non è assoluta ma trova i suoi limiti definiti da norme, cioè modalità di attuazione, consuetudinarie. Tucidide (3, 59, 1) chiama tali norme «le comuni usanze dei Greci» (tá koiná tón Hellénon nómima), Polibio «le leggi della guerra» (hoi nómoi tóu polémou) (2, 58, 10; 5, 9, 1) o «le leggi della guerra e il suo diritto» (hoi tóu polémou nómoi kái tá díkaia) (5, 11, 3). Di queste convenzioni non scritte, Josiah Ober ha stilato un elenco che ne comprende dodici: 1. la guerra deve essere ufficialmente dichiarata e le tregue vanno rispettate; 2. ugualmente vanno rispettate le tregue sacre (per esempio, durante la celebrazione dei giochi olimpici); 3. bisogna rispettare i luoghi sacri e le persone sotto la protezione degli dèi (araldi, supplici etc.); 4. i trofei della vittoria vanno rispettati; 5. i morti in battaglia vanno restituiti al nemico che li richieda; 6. il corretto preambolo di una battaglia è una sfida rituale; 7. i prigionieri vanno liberati in cambio di un riscatto18; 8. non si possono maltrattare i nemici che si sono arresi; 9. bisogna evitare gli attacchi ai civili; 10. le battaglie devono svolgersi nella stagione estiva; 11. bisogna limitare l’uso delle armi non oplitiche; 12. l’inseguimento dei nemici sconfitti che si ritirano deve essere limitato19. Tendenzialmente, afferma Ober, tali regole, che «si applicano essenzialmente ai conflitti tra Greci»20, tra il 700 e il 450 sono per la maggior parte rispettate, mentre tendono a non esserlo, soprattutto quelle comprese tra la quinta e la dodicesima, tra il 450 e il 30021. È opportuno ribadire che, 18 I motivi per accettare il riscatto dei prigionieri possono essere di diverso tipo: economico, politico, militare. 19 Ober 1999, 223-4. 20 Basti ricordare infatti gli araldi persiani uccisi sia dagli Ateniesi sia dagli Spartani, per la quale tuttavia ci si aspetta una punizione per entrambi i popoli, effettivamente avvenuta secondo Erodoto almeno per questi ultimi (Erod. 7, 133-4). 21 A proposito della regola numero 7, si può ricordare che Ducrey 1968, 54 sg., studiava 120 casi di trattamenti di prigionieri: 24 di questi avevano comportato il
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in ogni caso, si tratta di regole tendenziali: per esempio, anche le regole numero 1 e 2, nel secondo periodo, non erano state sempre rispettate22. La guerra oplitica, basata sulla falange che combatte ‘lealmente’, come vuole qualche studioso23, e osserva regole assolute senza fare uso di inganni (e non solo nell’ambito di una strategia militare ma anche in vere e proprie dichiarazioni che si pretendono veridiche e invece sono mendaci o in qualche modo fraudolente)24 è in linea di massima un idealtypus, che corrisponde alla realtà solo nella misura in cui i belligeranti non ritengano utile fare diversamente. Lo spartano Cleomene, per esempio, riesce a fare uscire ad uno ad uno da un tempio all’interno di un bosco sacro gli Argivi che vi si sono asserragliati dentro, dichiarando falsamente che per quelli che egli andava chiamando per nome era stato già pagato il riscatto, e li uccide (Erod. 6, 79). In maniera formalmente corretta ma nella sostanza senz’altro ingannevole agisce lo stratego ateniese Pachete, nel 427 quando, fatto uscire da una fortificazione il comandante arcade Ippia sotto garanzia che potrà rientrare nel forte dopo un colloquio con lui, attacca all’improvviso la postazione nemica e la conquista uccidendo tutti coloro che vi si trovano, quindi lascia che Ippia rientri e, appena quello è dentro, lo cattura e lo uccide (Tuc. 3, 34, 3). Tecnicamente, non siamo davanti a un caso di slealtà neanche quando Diomede, dopo avere ottenuto dal troiano Dolone appena catturato tutte le informazioni che gli ha chiesto, rifiuta la sua proposta di riscatto e lo uccide mentre quello cerca di afferrargli il mento in segno di supplica (Il. 10, 447-57), ma che la cosa non sia molto ‘corretta’ non mi sembra in dubbio. Le dichiarazioni di un Brasida, che nel 424 ad Acanto ritiene più vergognoso prevalere con l’inganno che con «violenza manifesta» loro massacro (il più antico nella guerra tra Sibari e Crotone del 511: Diod. 12, 9-10; 7 durante la guerra del Peloponneso); in 28 casi si era verificata la riduzione in schiavitù, e nei restanti 68 non sappiamo la fine dei prigionieri, ma non c’è ragione di credere che essi avessero subìto più che la detenzione. 22 Cf., p. es., Tuc. 5, 49-50, a proposito di un’infrazione degli Spartani, nel 420, contestata loro dagli Elei (ma negata dai pretesi autori). 23 Cf. Hanson 2000. 24 Cf. Krentz 2000 (con sottolineatura del ruolo degli inganni, di cui fornisce un lunghissimo elenco, relativo alle età arcaica e classica, in una Appendix); Payen 2012, cap. III; Cozzo 2018, 91-97.
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(Tuc. 4, 86, 6), e nel 422, ad Anfipoli, invece fa l’elogio dell’assalto «non manifesto» ma «secondo l’utile in rapporto alla situazione presente» (5, 9, 4)25, o di un Callicratida, che nel 406, dopo la conquista e razzia di Metimna, assicura di non voler ridurre mai un Greco in schiavitù ma già l’indomani decide di vendere i soldati ateniesi che avevano presidiato la città (Senof., Ell. 1, 6, 14-5), possono risultare incoerenti solo secondo i criteri vigenti nella vita quotidiana dei tempi di pace. Nella logica della guerra, che è quella del conseguimento della vittoria e non del dire la verità o del comportarsi, diciamo così, con correttezza, esse ‘funzionano’ perfettamente. Demostene, nella terza Filippica (341), riferendosi alle pratiche belliche di V o inizio IV sec., secondo lui fatte di campagne militari estive di soli quattro o cinque mesi, con scontri aperti e leali tra falangi oplitiche, lamenta il ben differente modo di comportarsi di Filippo II. Questi, secondo l’oratore, fa guerra indifferentemente d’estate e d’inverno, ricorre a tradimenti e a soldati «armati alla leggera, cavalieri, arcieri, mercenari» che, utilizzando macchine, assediano città in preda alla guerra civile e alla diffidenza interna (4850). La critica demostenica è chiaramente ideologica. Basti riflettere che la cadenza solitamente stagionale delle spedizioni aveva avuto significative ‘infrazioni’ perfino in ambito navale già nel corso della guerra del Peloponneso26. Ma soprattutto essa non era dovuta ad un codice cavalleresco ma ad una convenienza, perché i soldati erano, tendenzialmente, gli stessi agricoltori che dovevano anche coltivare i loro campi: si ricordi la riottosità degli alleati di Sparta nei confronti delle operazioni belliche, nel 428, dovuta anche, appunto, al fatto che si era nel periodo della raccolta agricola (3, 15, 2). La critica di Demostene – nient’altro che il sogno antico di una guerra ‘pulita’, come è propagandato da chi intraprende un conflitto armato anche oggi – è molto simile a quella che, con l’aggravante di aver
25 Cf. Krentz 2000, 174, il quale nota anche che Tucidide (4, 108, 5) dichiara che quanto detto da Brasida in 4, 85, 7 ad Acanto, cioè che gli Ateniesi a Nisea non avevano voluto scontrarsi con lui, non era corrispondente alla realtà. 26 Cf. Tuc. 2, 69, 1; 3, 88, 1; 7, 27, 4 (qui a proposito della fase deceleica della guerra, quando l’occupazione spartana di Decelea fece cambiare la situazione precedente durante la quale le invasioni erano state di breve periodo e non avevano impedito di coltivare la terra).
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distrutto anche città alleate, in Polibio (18, 3) è rivolta a Filippo V, il quale la considera, dispregiativamente, «degna di un Etolo» (come è appunto il personaggio che gliela sta muovendo) e «teatrale», in quanto «tutti sanno chiaramente che nessuno rovina volontariamente i propri alleati ma nelle difficoltà del momento i comandanti sono costretti a compiere molte azioni contrarie ai loro principi» (18, 4, 1). In tal modo, Filippo non nasconde ipocritamente la razionalità cinica della guerra27. Poiché l’importante è vincere, di fatto ogni principio va sempre subordinato a questo scopo; d’altronde, lo aveva già detto con chiarezza Isocrate (Fil. 45): le città cambiano atteggiamento reciproco e non si curano «né di odio né di giuramenti né di nessun’altra cosa, tranne che di ciò che considerino utile a loro». Ed è un principio che troviamo anche in Tucidide: «gli uomini, quando vanno contro i loro nemici, sono indifferenti a tutto pur di vincere. Difatti, ritengono amico chi è d’aiuto anche se prima era nemico, e ostile chi si oppone anche se si trovi ad essere un amico, poiché considerano meno anche i propri interessi a causa del desiderio di vittoria immediato» 1, 41, 2-3). Si aggiunga che anche solo vincere cacciando via dal proprio paese il nemico può non essere lo scopo ultimo; se se ne ha l’occasione, stravincere è ancora più sicuro, in modo che il nemico non possa neanche riprendere la guerra, secondo la riflessione (e l’azione) del siracusano Ermocrate che si appresta ad impedire la fuga notturna degli Ateniesi ormai sconfitti (7, 73, 1). In ogni caso, la guerra totale, quella che prevede la «completa distruzione», anche quando a livello teorico non vale nei confronti degli altri Greci, vale però nei confronti dei barbari, in quanto questi, almeno dal IV sec., sono ritenuti «nemici per natura»28 e, per Aristotele,
27 Polibio, quando lo ritiene opportuno, è attento a problematizzare il concetto di tradimento («infatti, non è facile mostrare chi bisogna davvero ritenere traditore»: 18, 13, 3) e, dopo aver indicato diversi casi che sembra giudicare col criterio del beneficio portato o no alla patria, stabilisce che, orientativamente, traditore va definito solo chi, per vantaggio personale o odio verso gli avversari politici, consegna la propria città ai nemici esterni (18, 15, 2; forse una riflessione originata da Tuc. 3, 9, dove i Mitilenesi, ribellatisi ad Atene, chiedono agli Spartani di non considerarli traditori, visto che essi possono mostrare «una conveniente motivazione», o 4, 114, 3, dove Brasida sostiene che i Toronesi che avevano cooperato con lui per fargli prendere la città non potevano essere ritenuti traditori perché non avevano agito per denaro ma per il bene di Torone). 28 Cf., p. es., Plat., Meness. 242d; Rep. 470a-c e 471b; Isocr., Paneg. 158; Panat. 163; Plut., Cim. 18, 2.
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danno luogo ad uno dei casi che definiscono la guerra «giusta». Secondo lo Stagirita, infatti, questa è tale quando la si conduca per non essere asserviti, e quando sia fatta per il vantaggio dei dominati o per essere padroni di coloro che è giusto che siano schiavi, cioè i barbari (Pol. 1333b 40-1334a 1): la «completa distruzione» è una scelta basata su un presupposto – su un pregiudizio di ampia e arbitraria applicazione, come possiamo vedere – e non una necessità.
2. Retorica patriottica. “Solo per la difesa”? In battaglia, i soldati non devono fuggire davanti al nemico; il loro dovere è quello di combattere e di affrontare il rischio della vita: il buon cittadino, come si sa, per i Greci è innanzitutto l’uomo in armi. Allocuzioni dei comandanti alle truppe, prima o durante la battaglia, e pubblici discorsi funebri per i caduti, quei discorsi che «politicizzano» la morte29 – ma anche altre pratiche, come cercherò di mostrare – sono funzionali, appunto, a mantenere vivo lo spirito militare. Ho già detto come il richiamo al fatto di godere del favore degli dèi svolga anche un ruolo parenetico. Ci sono altri argomenti, che diventano topici già a partire dall’Iliade, per spingere alla lotta. Nel campo troiano, Ettore incita: «orsù, combattete compatti presso le navi, e chi di voi, colpito da lontano o da vicino, incontri la morte e il destino, muoia: non è sconveniente morire difendendo la patria, ma saranno salvi la sposa e i figli, e intatti la casa e il patrimonio»30. Sul fronte greco, a Ettore fa il controcanto Aiace: «Abbiate riguardo, Argivi! Ora è sicuro che o moriremo o ci salveremo e allontaneremo i mali dalle navi» (Il. 15, 501-3). Dunque, o vincere o morire. Nel caso che si mostrino vili, i soldati possono essere apostrofati anche offensivamente urlando loro, come fa Menelao con i Greci impauriti alla vista di Ettore, che mancano di coraggio, che è caratteristica virile: «ahimè, millantatori! Achee, non più Achei!» (Il. 7, 96), laddove Loraux 1981. Il. 15, 494-8; il riferimento alla famiglia da difendere lo troviamo in Omero anche in altri casi (p. es. in Il. 15, 662-3: «ricordatevi, epí... mnésasthe, ciascuno dei suoi figli e della sposa e dei beni e dei genitori»), e in testi di epoca posteriore sarà costante. 29 30
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invece, in positivo, l’esortazione è: «siate uomini, o amici; ricordatevi (mnésasthe) del coraggio impetuoso» (Il. 8, 174), perché il maschio è davvero tale se attiva la memoria della capacità militare propria del suo sesso, che si tramanda di padre in figlio e assicura la gloria alla stirpe o a tutto il popolo. Esponente dell’ideologia oplitica che pensa lo schieramento militare in senso comunitario e non individualistico, Tirteo rifiuta di «ricordare e porre in discorso» un uomo che, pur possedendo tutte le doti fisiche, manchi della virtù bellica capace di fargli sostenere la vista della «strage sanguinosa» e di farlo stare saldamente al suo posto nelle fila dell’esercito a incoraggiare i compagni d’armi, pronto a combattere fino alla morte e a dare lustro alla città, al popolo e al padre (fr. 9 G-P). Egli descrive il giovane guerriero come «mirabile a vedersi per gli uomini e amabile per le donne finché vive, bello (kalós) quando cade tra le prime file» (fr. 7, 29-30 G-P). Qui si vede bene che «i valori e l’etica dei valori diventano efficaci non in astratto, ma attraverso narrazioni, esempi, paradigmi»31. Di più, in quell’«amabile per le donne» troviamo traccia di un’erotizzazione del valore bellico, che altre volte comparirà nella sua forma omoerotica. Anche nella città ideale di Platone (Rep. 460b; 468b-c), infatti, le relazioni erotiche sono poste al servizio della patria: coloro che abbiano mostrato valore in guerra possono avere come ricompensa la facoltà di giacere con donne o baci da ragazze o ragazzi di cui siano innamorati. Plutarco, riportando versi di tragedia e di un canto popolare calcidese (fr. 27 P.), cita episodi bellici che mostrano come gli amanti, sapendo di essere guardati dai loro amasii, fossero indotti a comportamenti militari esemplari (Erot. 760d-761b), e racconta che il «battaglione sacro» di Tebe, per stimolare il coraggio dei soldati, prevedeva che l’amante e il suo amasio fossero schierati l’uno accanto all’altro: con buoni risultati, a quanto pare dai casi di eroismo che venivano citati come conseguenza di tale tattica (Pelop. 18, 2-7). La retorica della «bella morte» – traduzione in astratto linguaggio politico di quello che in Omero è anche e soprattutto concreto valore 31 Cf. Iannucci 2017, 33. A parte l’ottica individualista, presente nell’epica, la forma di sentimento patriottico in essa espressa non è molto differente da quella di Tirteo (cf. Greenhalgh 1972). Per le varie articolazioni del tema del patriottismo cf. Loraux 1981, Sebillotte Cuchet 2006; in part. sulla retorica patriottica, cf. cap. VIII.
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estetico del «bel morto»32 – circola ampiamente nei discorsi per i caduti in guerra. Pericle presenta la morte in battaglia, «che si accompagna alla forza e alla speranza comune», addirittura anestetizzata, come «priva di dolore» (Tuc. 2, 43, 6). È comprensibile come di discorsi del genere, del tutto fuori dalla realtà, Socrate possa dire ironicamente che «incantano le nostre anime, facendo in tutti i modi l’encomio della città, lodando i morti in guerra e tutti i nostri antenati vissuti prima di noi, e noi stessi che siamo ancora vivi; sicché pure io, Menesseno, lodato da loro, mi sento veramente nobile e ogni volta, ascoltandoli ammaliato, mi sento uscire da me stesso ritenendo nell’immediato di essere divenuto più grande, più nobile, più virtuoso» (Plat., Meness.235a-b)
L’elogio funebre costituisce il mezzo attraverso cui il ricordo (mnéme) delle belle azioni e l’onore (kósmos) per coloro che le hanno compiute nascono negli ascoltatori: dunque, deve essere lode dei morti ed esortazione dei vivi perché i figli e i fratelli (in sostanza, quelli che ancora potranno combattere) vogliano imitare i loro cari e i genitori e quelli più anziani possano trovare conforto (236e). Siamo davanti, quindi, ad un’altra declinazione di quella politica della memoria a scopi bellici di cui ho discusso in precedenza (cf. 1.5.) – una memoria che Platone demistifica come retorica ufficiale del regime democratico33. In poesia o nei discorsi di carattere celebrativo l’ideologia di fondo è la stessa. E non va diversamente per le orazioni militari tramandate dagli storici o che ogni cittadino sa che saranno pronunciate sul campo di battaglia. È sufficiente qualche esempio. I comandanti degli Ioni che si ribellano alla Persia invitano i tiranni di Cipro ad essere valorosi «ricordandovi cosa avete patito quando eravate schiavi dei Medi» (Erod. 5, 109, 3). In conversazione con Pericle il Giovane, che è stratego, il Socrate senofonteo indaga in quale modo gli ateniesi possano essere spinti a primeggiare nel valore e suggerisce che innanzitutto bisogna loro «ricordare» che gli antenati erano valorosi,
Cf. Loraux 1990. Sul senso del Menesseno come opera di demistificazione della propaganda democratica, cf. Bultrighini 2016, cap. II, part. 35 sgg. 32 33
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per cui ciò «conviene loro» (Mem. 3, 5, 8-9). Così fa lo stesso Senofonte nell’Anabasi in un discorso ai soldati, nel corso del quale cita la vittoria dei Greci nel 490 e nel 480 (3, 2, 11): «vi ricorderò (anamnéso) anche i pericoli che corsero i nostri antenati, perché sappiate che è doveroso essere valorosi e che, con l’aiuto degli dèi, i valorosi si salvano anche in circostanze molto difficili». La comunità non è solo quella presente ma anche quella passata di cui essa è prolungamento, deve essere prolungamento. Combattere per la patria, che per gli Ateniesi che si considerano autoctoni è terra-madre nel senso letterale del termine, significa restituire a questa il compenso del nutrimento ricevuto da bambini (apodidónai tá trophéia)34. Ma facilmente la lotta per la patria da difendere diventa lotta per la patria che vuole diventare potente; come ha scritto Jacqueline De Romilly a proposito dell’imperialismo ateniese, «il dominio non è percepito che come il perfetto compimento della libertà, interna o esterna, e come una sorta di libertà di secondo grado»35. Dalla liberazione, o mantenimento della propria libertà, si fa presto a passare alla libertà tout court, alla libertà propria senza alcun limite, dunque anche a danno altrui. D’altronde, la guerra di conquista era considerata una possibilità nella fredda analisi di Aristotele, secondo cui per i cittadini «è necessario sapere queste cose [cioè: la potenza militare] non solo della propria città, ma anche di quelle vicine e contro chi è possibile combattere, affinché si stia in pace con i più forti e stia a noi il fare guerra contro i più deboli» (Ret. 13659b 37-1360a 1). La sovranità dell’assemblea popolare è assoluta. L’Archidamo dell’omonima orazione di Isocrate, parlando ai suoi concittadini, fa appello allo stesso dovere, da espletare appunto con la guerra per recuperare l’egemonia (108 e 110). Ma il patriottismo giustifica l’egemonia già molto prima. Diodoro, raccontando i fatti del 475, presenta gli Spartani, soprattutto (ma non esclusivamente) i giovani, intenti a deliberare sulla guerra con gli Ateniesi per riacquistare l’egemonia sul mare e così «rendere Sparta più grande (méizona) e potente», poi però un membro della gherusia riesce a far recedere dalle intenzioni aggressive; a quel punto, sono gli 34 Licurgo, Contro Leocr. 53; ma cf. anche l’allocuzione di Eteocle ai Tebani in Esch., Sette contro Tebe 10-20. 35 De Romilly 1947, 73.
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Ateniesi che, conosciuta la decisione di Sparta, si danno da fare per «l’accrescimento» (áuxesis) della loro città (11, 50, 3 e 8). Tornando ad Atene, dopo la seconda invasione spartana dell’Attica, tra gli argomenti presentati da Pericle all’assemblea per «distogliere gli Ateniesi dall’ira nei suoi confronti e distrarre il loro pensiero dai mali presenti», secondo Tucidide (2, 65, 1), c’è quello secondo cui la città ha acquisito grandissima fama perché è stata capace di spendere «moltissime vite e sforzi (pónous) nella guerra» (64, 3); quindi, gli sforzi (pónoi) vanno affrontati (63, 1) e, data l’ostilità che ci si è attirati con l’impero, ora non è possibile tirarsi indietro (63, 1-2) ma bisogna seguire l’esempio dei padri che «con sforzi» (metá pónon) hanno acquisito la potenza attuale (62, 3); d’altronde, l’impero che costoro hanno acquisito «non senza sforzi» (ouk apónos) è stato già ampliato dai contemporanei stessi (36, 2-3). L’impero, costruito con la guerra, va mantenuto allo stesso modo e non si può retrocedere e abbandonarlo. Pericle non fa certo mistero, anzi si gloria, del fatto che il patriottismo ateniese si esplica in guerre non solo di difesa ma anche di conquista: gli Ateniesi, «quando invadono la terra dei vicini», benché costoro stiano combattendo «per i propri beni», li vincono facilmente (2, 39, 2); addirittura, «la potenza stessa della città che ci siamo acquistati con tali costumi (...) al nemico che l’assale non offre motivo di sdegno, vista la qualità degli uomini da cui patisce qualche male, né al sottoposto motivo di rimprovero come se fosse governato da indegni. (...) avendo costretto con il nostro ardire ogni mare e terra a diventare accessibile e avendo lasciato dappertutto monumenti (mneméia) eterni di mali e di beni» (2, 41, 2-4)36.
E se a chi aspira al dominio toccano odio e inimicizia, poi «l’odio non dura per molto, mentre il lustro nel presente e la fama nel futuro restano per l’eternità» (64, 5). In continuazione e, soprattutto, in 36 Cf. Tuc. 2, 43, 1-2 e 4, a proposito degli antenati: «acquisirono questa potenza, osando. Dando la vita per la causa comune ricevettero individualmente la lode che non invecchia e la tomba più illustre, non quella in cui giacciono ma quella in cui rimane sempre ricordata la loro fama in ogni occasione di parola e di azione. (...) Voi adesso, emulandoli, ritenendo felicità la libertà e libertà il coraggio, non vivete con ansia i pericoli della guerra».
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sviluppo del modo di pensare aristocratico, non basta mantenere ciò che si possiede ma bisogna anche accrescerlo37. Il giuramento degli efebi ateniesi, alle linee 9-1038 (cf. anche Lic., Contro Leocr. 77), faceva introiettare ai giovani la stessa regola: «trasmetterò la patria non minore ma più grande e migliore (pléio kái aréio) per quanto sta a me e con tutti gli altri»39. È ormai ben chiaro che la guerra di conquista è da condannare solo quando sia portata avanti dagli altri. Il motivo ritorna nei discorsi dei comandanti sul campo di battaglia di Mantinea, nel 418, di cui Tucidide ci indica, sia pure in modo indiretto, i contenuti. Lo storico specifica che questi sono diversi per ciascun esercito delle città in gioco ma in realtà essi sembrano per lo più essere minime variazioni l’uno dell’altro. Così, ai Mantineesi si diceva che si combatteva per la patria e per il dominio (hypér archés) o la schiavitù; agli Argivi che si combatteva per l’egemonia antica (palaiás heghemonías) e per vendicarsi delle molte ingiustizie subite dai nemici confinanti; agli Ateniesi che era bello lottare (agonízomai) con molti valorosi alleati senza essere secondi a nessuno e per fare più saldo e più grande (méizo) il loro dominio (arché) perché, se avessero battuto gli Spartani nel Peloponneso, nessuno li avrebbe mai invasi; gli Spartani – e, per l’evidente riferimento alle loro caratteristiche culturali comunitarie, è qui che si trova la maggiore differenza rispetto a tutte le altre parenesi – si facevano tra loro, in mezzo a canti di guerra, «l’esortazione del ricordo (parakéleusis tés mnémes)» di ciò che già sapevano, e cioè che il loro lungo esercizio all’azione salvava più dello sprone fatto in breve con belle parole (5, 69, 1-2, all’interno di un lungo discorso che occupa i capitoli 64-74). La retorica del patriottismo ha dunque dei motivi topici ma, almeno nei resoconti che ne abbiamo, cerca di trovare e toccare le corde adatte ad ogni specifico popolo. Essa tiene anche presente la specificità della situazione40, come quando lo stratego ateniese Demostene, prima Cf. Cozzo 1991, 66 sgg. Rhodes, Osborne 2003, 440-9. 39 Cf. anche Siewert 1977. 40 Polibio (3, 62, 1), p. es., non manca di dichiarare che i generali fanno incoraggiamenti «convenienti alla situazione presente». I discorsi ai soldati, come già abbiamo visto, devono ricordare loro qualcosa che già sanno, o spiegarlo, in modo che possano essere intimamente convinti della vittoria e mettere quindi nel combattimento tutte le loro energie. L’adeguatezza dei discorsi alla specifica situazione è, comunque, 37 38
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della battaglia di Pilo nel 424, di fronte alla superiorità numerica degli Spartani sul mare, riesce a incoraggiare i suoi soldati facendo loro notare l’inaccessibilità della fortezza in cui si trovano e richiamandoli alla consapevolezza che per i nemici sarà impossibile sbarcare se loro resisteranno (Tuc. 4, 10-11, 1)41. In Sicilia, i capi degli eserciti che si affrontano nel 413 fanno appelli diversi. L’esortazione di Gilippo e degli altri strateghi ai Siracusani mira a scatenare e alimentare la loro furia, affinché nessuno abbia remore a darsi alla strage dei nemici, «con ira (orghé)» e ritenendo pienamente legittimo (nomimótaton) «soddisfare la rabbia (apoplésai tó thymóumenon) dell’animo» per vendetta (epí timoría) contro l’aggressore; Gilippo invita pure a sentire l’atto di difendersi dai nemici come «cosa piacevolissima, come si suol dire»; infatti, come va semplicemente richiamato alla mente degli ascoltatori («tutti lo sapete»), essi sono «nemici e inimicissimi»: se vinceranno, infliggeranno agli uomini «le sofferenze più dolorose» e ai bambini e alle donne «le pene più disonorevoli» e alla città la denominazione «più vergognosa», evidentemente quella di schiava, e pertanto non è sufficiente che vadano via dalla Sicilia, «perché questo lo farebbero ugualmente se vincessero», ma bisogna punirli adeguatamente (7, 68, 1-3). In queste parole ciniche e crudeli sembra quasi di sentire l’eco omerica dell’incitamento di Ettore ai suoi guerrieri a non permettere che i Greci fuggano se non portandosi in patria una freccia conficcata addosso «affinché anche un altro abbia in odio di far guerra ai Troiani domatori di cavalli» (Il. 8, 510-6), o un’anticipazione del pensiero senofonteo secondo cui i soldati provano (giustamente) «piacere» a mettere in fuga i nemici, inseguirli e ucciderli (Ier. 2, 15). La ferocia e la non “proporzionalità dei danni” da infliggere al nemico, ben diversamente da come oggi spesso si pretende, sono un elemento organico alla guerra e non una sua anomalia. I discorsi dei comandanti ateniesi presentano una struttura retorica di cui lo stesso Tucidide che li (ri-)costruisce è consapevole. Nel momento cruciale, essa stessa un topos storiografico (per un altro solo caso, molto più tardo, cf. Cassio Dione, St. rom. 41, 57, 1). 41 Per tale primaria funzione psicologica delle allocuzioni alle truppe (il cui modello è in Tucidide), cf. Lendon 2017, part. 153 sgg.
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«Nicia era scosso dalla situazione, vedendo qual era il pericolo e come ormai era vicino, poiché in procinto di salpare. E ritenendo, come accade nei frangenti importanti, che tutto fosse fatto insufficientemente e non ancora detto in maniera bastevole, di nuovo chiamava (anekálei) ciascuno dei trierarchi, apostrofandolo col nome del padre, con quello suo (onomastí) e con quello della tribù, pretendendo che chi possedeva qualche elemento di distinzione non tradisse se stesso e che quelli di antenati illustri non oscurassero le virtù avite, ricordando (hypomimnéskon) la patria liberissima e la possibilità per tutti di vivere in essa senza imposizioni, e dicendo quant’altro gli uomini possono dire in tali circostanze, senza curarsi di apparire a qualcuno ripetitori di discorsi vecchi e simili in tutte le occasioni mettendo in campo le donne, i figli, gli dei patrii, e però, ritenendoli utili nel terrore del momento, li gridano» (7, 69, 2)42.
Nella gravità del momento, il comandante, anche quando si rende bene conto di stare utilizzando luoghi topici, non se ne astiene se ha speranza di risollevare lo spirito combattivo dei soldati facendo appello al loro buon nome, al loro sentirsi parte della comunità presente e passata – e il presente deve essere come il passato. Non per il fatto di essere vecchi nel 413 (effettivamente, abbiamo visto il modello già presente in Omero), questi discorsi, pur nella loro minima variazione, smisero di aver luogo, e ancora Plutarco è consapevole che esiste un repertorio topico delle parole «che si è soliti dire prima di una battaglia» per incitare i soldati (Flam. 7, 7). Cito solo qualche esempio. Diodoro Siculo scrive che nella battaglia di Tebe (335) i Tebani attaccati dai Macedoni di Alessandro Magno si rivolgevano l’esortazione a «non trascurare figli, mogli e genitori» e a «ricordarsi della battaglia di Leuttra e di Mantinea e delle loro gesta a tutti note», mentre agli assalitori era raccomandato di «non svergognare il precedente coraggio» (Diod. 17, 11, 5). Polibio, che vuole essere storico serio e che non indulge alla retorica, in realtà non vi rinuncia nemmeno lui, perché in effetti si tratta di una retorica che stimola i suoi destinatari. Basti menzionare le esortazioni di Scipione e di Annibale ai loro soldati a Zama, infarcite di luoghi comuni43. Il comandante romano invita a ricordarsi delle precedenti battaglie, ad Su questo discorso indiretto cf. Lateiner 1985. Walbank 1967, ad 15, 10, 2; cf., p. es., Pol. 3, 44, 10-2.
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essere degni di se stessi e della patria. Essa, grazie al loro «bellissimo sudario» in caso di morte, otterrà «l’egemonia e il comando incontestabile anche sul resto della terra abitata» (ancora una volta, come si vede, il patriottismo prende improvvisamente la piega dell’elogio del predominio, che a rigore dovrebbe essere connotato come ingiusto): ecco perché bisogna avere come unico scopo quello di «vincere o morire» (15, 10, 2 sgg.). Il cartaginese, a sua volta, esorta a ricordarsi delle vittorie passate, a constatare la poca numerosità dei nemici, a non distruggere la propria buona reputazione (15, 11, 6 sgg.)44. Anche in Polibio troviamo il motivo del patriottismo legato a quello dell’egemonia nell’opinione di alcuni Greci sulla condotta romana, considerata con apprezzamento (p. es. in 36, 9, 3-4, dove il comportamento egemonico è, subito di seguito, criticato da altri ma solo per i suoi eccessi, come quelli di Atene e Sparta). Quanto all’appello ad personam fatto dal Nicia tucidideo, compare anch’esso già in Omero quando Agamennone, impensierito per le sorti della guerra, invita Menelao ad andare per l’accampamento e a svegliare i soldati «nominando ogni uomo dal nome del padre, onorandoli tutti» (Il. 10, 67-9). Tucidide lo utilizza di nuovo descrivendo il corso della battaglia: «erano molte da entrambe le parti le esortazioni e le grida dei capiciurma, sia perché in questo consisteva la loro arte sia per il desiderio di vincere: gridando agli Ateniesi di forzare il varco e che, se mai prima, ancora adesso lottassero con ardore per salvarsi e ritornare in patria; ai Siracusani e agli alleati che era bello impedire ai nemici la 44 Il ricordo dei successi già avuti è ritenuto sempre fondamentale per il morale delle truppe: a Zama, i Numidi ripiegano subito davanti ai nemici, «perché già abbattuti dalle sconfitte subite più volte» (Pol. 14, 8, 8). Già prima, ad Annibale e a Scipione sono attribuiti discorsi con molti luoghi comuni (3, 62-4): quello di Annibale, che vuole indurre i soldati ad «andare alla battaglia, soprattutto per vincere o, se non fosse possibile, morire» (63, 9), ricorre all’aiuto di una lunga messinscena ‘didattica’ che mostra, oltre che un duello tra suoi soldati in cui lo sconfitto deve morire, anche alcuni prigionieri, prima a bella posta ridotti in pessime condizioni attraverso un regime di stenti e bastonate, in modo che sia ostensivamente chiaro cosa toccherà a chi sceglierà di arrendersi. Per un’altra utilizzazione della categoria «vincere o morire», questa volta dello storico in proprio nomine, cf. 6, 58, 11 (per cui cf. anche Appiano, Annib. 119) e 11, 1, 4. Plutarco fa rivendicare tale formula a un centurione di Antonio (Ant. 64, 3), all’educazione spartana in generale (Apoft. di Spart. 237a) e ai Greci nella loro totalità (Come bisogna leggere i poeti 30c).
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fuga e vincendo accrescere (epauxésai) ciascuno la propria patria. E gli strateghi delle due parti, se vedevano che qualcuno retrocedeva senza necessità, chiamando per nome (anakalóuntes onomastí) il trierarco, chiedevano, gli Ateniesi, se si ritirasse pensando che quella terra inimicissima appartenesse loro più del mare conquistato con non piccola fatica, e, i Siracusani, se gli Ateniesi che essi sapevano bene essere desiderosi di sfuggire in ogni modo, loro li fuggissero proprio mentre quelli fuggivano» (7, 70, 7-8).
La bella morte ha una funzione di comportamento paradigmatico. Il suo ricordo deve onorare i morti e al contempo istruire i vivi. Oltre ai discorsi per la battaglia e a quelli funebri anche i monumenti sepolcrali assolvono questa duplice funzione. Ad Atene, informa Pausania (1, 29, 4), «c’è anche un monumento funebre dedicato a tutti gli Ateniesi che morirono nelle battaglie di mare e di terra, con l’eccezione di quelli che hanno lottato (egonísanto) a Maratona; questi, infatti, hanno le loro tombe sul posto. Tutti gli altri, invece, sono sepolti lungo la strada per l’Accademia. Sulle loro tombe sono innalzate delle stele che dicono il nome di ciascuno e il demo di origine».
Di tutto ciò sono testimoni anche le iscrizioni dei cimiteri comuni: in esse i valori patriottici «prendono corpo lessicale non solo nei verbi che trasfigurano l’evento bellico in termini eroici», quelli che esprimono le nozioni di difendere (rhýomai), combattere (márnamai), slanciarsi (híemai), «ma naturalmente anche nei sostantivi che verbalizzano esattamente quei valori presentati come patrimonio comune e come più preziosi della vita stessa» (patrís, eleuthería, areté, kýdos), con l’inevitabile apologia della sopravvivenza del ricordo (mnéma)45. In realtà, le forme del discorso bellico-patriottico non si esauriscono in quelle illustrate fin qui ma attraversano anche altri ambiti culturali e altre figure. A tale narrazione possono contribuire anche le parole delle donne, o almeno a loro attribuite. Hanno un ruolo di rilievo, all’interno di questo tipo di pensiero, le donne spartane. Ricordo quanto accaduto, secondo Plutarco (Ages. 29, 3-7), dopo la sconfitta spartana a Leuttra (371). Appena informati Garulli 2017, 153 (sue le parole citate nel testo).
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dell’evento luttuoso che li aveva colpiti sul campo di battaglia, gli Spartani non interrompono le Ginnopedie che sono in corso in patria ma si limitano a comunicare privatamente alle famiglie dei morti ciò che è successo; l’indomani, i parenti dei caduti, e in particolare le madri, vanno in giro fieramente mentre quelli dei superstiti restano a casa in silenzio e umiliati. Plutarco presenta in un’opera specifica, intitolata Apoftegmi di Spartane, diversi altri passi che vanno in questa direzione. È ben noto il motto attribuito ad una spartana che, al figlio in partenza per la guerra, raccomanda porgendogli lo scudo: «con questo o sopra questo» (241f), ovvero: torna vivo senza avere abbandonato lo scudo, o morto per avere le esequie su di esso. La fede patriottica di altre madri va, almeno in certi racconti, ancora oltre, perché, saputo della viltà dei figli, li uccidono esse stesse, guadagnandosi talvolta anche la lode di un epigramma (240f sgg.)46. In alcune storie, anche le donne ateniesi partecipano di questa cultura. Secondo Erodoto (5, 87, 2-3), esse uccidono l’unico cittadino tornato vivo da una missione di guerra a Egina, «ognuna chiedendogli dove fosse il proprio marito». E i versi dell’Eretteo di Euripide, significativamente citati da Licurgo nell’orazione in cui accusava Leocrate di avere abbandonato la patria nel momento del bisogno (Contro Leocr. 100), erano posti in bocca, sulla scena teatrale, a Prassitea, moglie del re ateniese al quale l’oracolo di Delfi aveva vaticinato la vittoria sull’invasore a patto che venisse sacrificata la figlia. I versi intendevano mostrare l’eroicità della madre che applica alla figlia femmina la regola valida per i figli maschi: «generammo figli per questo: per difendere gli altari degli dèi e la patria. (...) se in casa, invece di femmine, avessi un figlio maschio, e un incendio di guerra possedesse la città, eviterei di inviarlo nella battaglia armata per timore della sua morte?» (fr. 360, 16-25 Kannicht). Nell’Ifigenia in Aulide, come si sa, è la protagonista stessa che, dichiarandosi pronta all’autosacrificio, si fa portavoce dei motivi topici: la punizione 46 Per la rappresentazione plutarchea delle donne, cf. il classico Le Corsu 1981, e, più recentemente, Tanga 2013 e Tanga 2019, cap. 4 e passim (con ricca bibliografia e invito a considerare il tema «seguendo lo spirito di osservazione, la varietas letteraria e tematica, il vaglio delle fonti storiografiche, il contesto familiare ed amicale, la pratica dossografica e la sensibilità religiosa e filosofico-moralistica del Cheronese»: LXV, n. 10).
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esemplare dei barbari che hanno rapito Elena, il suo corpo come bene comune dei Greci e non bene privato della madre, la fama e il ricordo che si acquisterà col suo gesto (1375-401)47. D’altronde, nella vita reale, le donne potevano esibire comportamenti eroici: così fanno nel 405 le donne di Gela assediata dai Cartaginesi, che rifiutato di essere sfollate a Siracusa (Diod. 13, 108, 6), e analogamente le donne spartane che durante l’assalto di Pirro del 272 rifiutano l’evacuazione a Creta e rimproverano gli uomini perché le vorrebbero fare sopravvivere alla distruzione di Sparta, poi una di loro si pone un laccio intorno al collo pronta ad uccidersi nel caso di vittoria dei nemici (Plut., Pirro 27, 4-10). Le donne possono altresì partecipare alla guerra, soprattutto nella difesa restando sulle mura come già nell’Iliade (18, 514-5), con mansioni adeguate a loro (non solo nei casi citati prima)48. Un regime eccezionale come quello bellico ammette comportamenti eccezionali fino al punto da fare uscire le donne di casa, farle stare accanto ad uomini che non sono i loro familiari e fare svolgere loro lavori (quasi) da uomini.
3. Qualche pratica di supporto Alla costruzione del patriottismo, affinché i cittadini si convincano dell’opportunità di rischiare la vita in guerra, contribuiscono certamente anche le pratiche istituzionali con cui la polis assicura ai prodi pubbliche onorificenze come «premio per il valore» (aristéia). Cf. Andò 2021, commento ai versi 1383.6. Poteva trattarsi di compiti di assistenza ai feriti, di rifornimento di acqua, cibo e armi, di costruzione di mura o addirittura di partecipazione alla battaglia, insieme ai bambini, mediante lancio di tegole sui nemici dai tetti delle loro case (cf. p. es. Tuc. 1, 90, 3; Diod. 13, 56, 7; Plut., Pirro 29, 5 (cf. Schaps 1982). Plutarco (Apoft. di Spart. 227d) riporta un motto dello spartano Agesilao secondo cui alle ragazze era utile esercitare la corsa, la lotta e il lancio del disco e del giavellotto anche per essere poi in grado, se necessario, di difendere se stesse, i figli e la patria. Filone di Bisanzio codifica l’azione bellica di ragazzi, donne, schiavi e ragazze proprio nel colpire i nemici dai tetti (Trattato di meccanica C 31, in Garlan 1974, 311). Soprattutto in periodo ellenistico i mercenari potevano portare con loro donne, anche mogli, con ruoli assistenziali o di intrattenimento che permettevano di tenere alto il morale dei soldati (cf. Loman 2004, 44 sgg.). 47 48
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Erodoto racconta quanto fecero i Greci dopo le operazioni militari del 480: i generali votarono per scegliere «il più degno in guerra» e assegnare il primo e il secondo posto; Temistocle ebbe la maggioranza dei voti ma la decisione fu lasciata in sospeso, sicché lo stratego ateniese, deluso, si recò a Sparta che assegnò al proprio comandante Euribiade il premio per il valore e a lui quello per l’intelligenza militare: Temistocle ebbe così una corona d’ulivo, un carro e una scorta d’onore di trecento Spartiati che lo accompagnarono fino al confine di Tegea (8, 123-4). Polibio, entusiasta del regime romano che incentiva i giovani ad affrontare i pericoli con lodi e menzioni pubbliche, conferma il significato educativo generale di tali pratiche (6, 39)49. Nel 398, Dionisio I elargiva premi sia materiali sia onorifici (si rivolgeva loro affabilmente, li accoglieva alla sua tavola) anche agli artigiani che mettevano particolare zelo nella fabbricazione di armi di cui aveva bisogno per fare guerra a Cartagine (Diod. 14, 42, 1). È ben nota anche l’importanza che rivestono i benefici per i parenti dei combattenti caduti in battaglia. Demostene, attaccando la legge di Leptine che aboliva l’esenzione dalle liturgie ordinarie, dice che essa colpisce anche il figlio di Cabria, valoroso stratego morto in guerra per avere ritenuto di dovere «morire o vincere» (Contro Lept. 8). Come ricorda Pericle, Atene alleva a spese pubbliche gli orfani di guerra come premio (áthlon) per il valore dei loro padri, facendo cosa utile a loro e a quelli che restano, in quanto «laddove ci sono grandissimi premi (áthla) per il valore, là vivono anche gli uomini migliori» (Tuc. 2, 46, 1). Quando gli orfani compivano diciotto anni, era anche previsto che si consegnasse loro l’intera panoplia in teatro nel primo giorno delle Grandi Dionisie (Eschine, Contro Ctesif. 154)50, assicurandosi in tal modo che anch’essi, come i padri e in continuità e ad imitazione di questi, li sostituissero nella funzione militare e avessero la possibilità … di dare la vita per la polis. Una legge di Taso, datata alla metà del IV Per un paio di esempi nello stesso Polibio, cf. 3, 71, 10 e 5, 60, 3. Cf. Loraux 1981, 26 sgg. Tale ‘sfoggio’ pubblico degli orfani è criticato da Isocrate, in quella sorta di antipanegirico dell’Atene dei suoi tempi che è il discorso Sulla pace, in quanto mostra ai Greci «la moltitudine degli orfani e le sventure causate dalla loro avidità» (82) – un po’ come se si trattasse delle sofferenze greche rievocate da Frinico nella sua tragedia La presa di Mileto, che, proprio per questo (cf. Plut., Prec. pol. 814b) era stata messa al bando, ma con l’aggravante, dal punto di vista isocrateo, che qui quelle sofferenze venivano addirittura sfoggiate. 49 50
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sec., decretava che i nomi dei valorosi caduti in guerra fossero iscritti col patronimico e i loro genitori e figli venissero invitati ogni volta che la città sacrificava a loro, e che ottenessero una somma di denaro e una serie di onori51 ma le cerimonie funebri private venivano vietate e il lutto pubblico non poteva durare oltre i cinque giorni, in modo da contemperare l’esigenza della perpetuazione della memoria con quella del non abbattimento del morale della città nel suo insieme52. La cura per i soldati può essere manifestata già sul campo di battaglia, e una figura come quella di Alessandro Magno, che pone particolare attenzione a tutto ciò che può motivare i soldati, lo mostra perfettamente. Diodoro informa infatti che, dopo la vittoriosa battaglia del Granico (334), il condottiero aveva fatto seppellire i caduti «con magnificenza» e spiega che egli si premurava, «attraverso questo onore, di rendere i soldati più pronti ad affrontare i pericoli nelle battaglie» (17, 21, 6). Non si tratta dunque solo di un riconoscimento al merito di coloro che hanno dato la vita ma anche di uno sprone per gli altri a mettere in pericolo la propria. Alessandro, che più tardi commissionò a Lisippo anche le statue di bronzo dei venticinque etèri morti nel primo attacco, non solo onorò i morti facendoli seppellire con le armi e con tutti gli altri ornamenti e concesse ai loro genitori e figli l’esenzione dalle tasse e dagli altri servizi personali, ma anche «ebbe molta cura dei feriti, sia andando da ciascuno di persona sia guardando le loro ferite e chiedendo in che modo fossero stati feriti e offrendo la possibilità di dire che cosa avessero fatto e di vantarsene» (Arriano, Anab. di Aless.1, 16, 4-6). Insomma, Alessandro, che in ciò supera nettamente un modello patriottico come quello di Pericle, che non nominava affatto i feriti53, bada a mostrarsi vicino e grato, materialmente e spiritualmente, a quelli che rischiano la vita per i suoi disegni di conquista. 51 I figli maschi avrebbero ricevuto un’armatura; le femmine, a quattordici anni, una dote; in caso di bisogno, gli orfani avrebbero avuto anche un sussidio economico giornaliero. 52 Cf. Fournier, Hamon 2007; Bearzot 2015, 16 (che opportunamente cita Isocr. Sulla pace 82); Giannotti, Proietti 2021, 129-30 (con bibliografia). 53 Cf., a proposito dell’epitafio di Pericle, l’affermazione di Loraux 1997[a], 232: «dei feriti? Lo storico non ne dice niente e, se si sa d’altra parte che gli invalidi ricevevano una modesta indennità, nessuna indicazione filtra né sul trattamento loro riservato né su un eventuale riconoscimento della ferita come segno di bravura: su questo punto, il silenzio delle fonti è totale». E poi, in generale, «le ferite, alla luce
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Gli studiosi di strategia non ignorano l’importanza della questione. Nella sezione del suo Trattato di meccanica dedicata all’ingegneria bellica, Filone di Bisanzio (seconda metà del III sec.) suggerirà tale pratica nei confronti dei combattenti non cittadini come vero e proprio espediente tecnico: «bisogna assistere con cura quelli tra gli stranieri che siano stati feriti, disponendo tutto il necessario, e quanti di loro non abbiano chi li assista piazzarli nelle case dei cittadini. Quanti poi siano stati uomini valorosi bisogna promuoverli di grado e dargli un comando e gratificarli di una corona; e coloro che sono morti bisogna seppellirli a spese pubbliche nel modo più splendido possibile e, se lasciano propri figli e donne, badarvi senza trascuratezza, perché così, diventando benevoli verso gli strateghi e i cittadini, affronteranno al meglio i pericoli» (Trattato di meccanica C 45-8, in Garlan 1974, 312).
A sua volta, anche Onasandro (Strateg. 36, 1-2) raccomanda la cura per i propri morti sia per dovere religioso, sia per «dimostrazione (apódeixis) nei confronti dei vivi».
4. L’ideologia dello scudo Se formule omeriche come «dai piedi veloci» o «dalle molte astuzie» caratterizzano gli eroi per certe qualità di tipo militare (la velocità nella corsa è una capacità utile per inseguire il nemico o per sfuggirgli o correre in aiuto ai compagni non meno di quanto sia utile l’astuzia per prevalere con un abile piano), le raffigurazioni che questi hanno impresse sugli scudi ne sono altrettanto rappresentative, in quanto costituiscono «una sorta di estensione o
delle categorie storiografiche di Tucidide, appaiono dunque come dei semplici indizi di una “debolezza” del tutto esterna al corpo degli uomini: sono, sul corpo, il segno di una situazione di alto rischio per la città del ferito. Come se, di per sé, il corpo non significasse nulla. O, più esattamente: come se, non accedendo al simbolico che solo quando considerato nel rapporto dell’uomo con la sua comunità, esso non significasse nulla per un individuo. È certamente meglio che il corpo del cittadino sia integro: nella sua integrità, non farà che sparire meglio davanti alla città. Ma capita che sia intaccato, e allora merita menzione solo come indizio di qualcosa di diverso da sé. È molto difficile per il cittadino avere il suo corpo» (234). 78
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di rappresentazione metonimica del guerriero» a cui sono associate54. Così, lo scudo di Achille forgiato da Efesto (Il. 18, 478-608), dotato di meravigliosa bellezza e luminosità, sembra indicare la gloria che egli va ad acquistarsi adesso in guerra e il timore che ispirerà ai nemici55. Agamennone, che è «molto potente» (1, 102 etc.), «signore degli uomini» (1, 172 etc.), «illustre» (2, 221), «pastore di popoli» (2, 243), presenta sul suo scudo, appunto, segni della sua suprema potenza terrorizzante: il volto della «Gorgone che guarda terribilmente con gli occhi scintillanti» e, accanto, Terrore e Paura (11, 36-7); alcune di queste immagini non a caso le condivide con la dea della guerra Atena, che sulla sua egida porta impresse, oltre alle figure di Contesa, Resistenza, Inseguimento agghiacciante, appunto anche quelle di Paura e della testa della spaventosa Gorgone, mostro terribile e prodigioso (5, 738-42). Aiace Telamonio, che è detto «riparo dei Greci» (3, 229), ha invece lo scudo «come una torre» (7, 219 etc.). Nei Sette contro Tebe di Eschilo, poi, gli scudi dei sette guerrieri assalitori di Tebe, pronti ad attaccare la città, sono caratterizzati da immagini che richiamano gli aspetti più paurosi della guerra che rispecchiano, in un raddoppiamento identitario, la personalità dei loro possessori: la notte dominata dalla luna, le urla, i sonagli, i cimieri, le fiaccole incendiarie, Tifeo con il suo corpo mostruoso di serpenti attorcigliati, la Sfinge crudivora. Sono privi di simboli aggressivi solo lo scudo di Anfiarao, l’assennato indovino, e quello di Polinice che (con la solita rivendicazione fatta da ogni contendente) riporta l’effigie di Dike (377), Giustizia, che però è un valore rivendicato anche dal fratellonemico (645-71)56. Fuori dal mondo valoriale epico e aristocratico lo scudo assume un altro significato. Nell’aneddoto riportato verso la parte finale del paragrafo precedente, a proposito delle donne spartane è comparso il motivo del soldato che deve fare ritorno in patria vivo o morto, Così Dubel 1995, 253. Sul valore simbolico della luminosità delle armi di Achille, e in particolare del suo scudo, in rapporto alla figura dell’eroe che incute timore e ammirazione, cf. Amendola 2009; Cerchiai 2009, Menichetti 2009. Sugli effetti di luminosità (che deve incutere paura ai nemici) anche dell’ulivo, insegna della guerriera Atena (ma anche di Teseo e Piritoo che affrontano le Amazzoni), cf. Darthou 2019. 56 Cf. Di Donato 1996, 235 sgg.; Catenacci 2004, 163-76, Lentini 2019, Scolio a Sette contro Tebe 387 sgg. e 391; Amendola 2008. 54 55
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purché con lo scudo. La ragione per cui era ritenuto disonorevole gettare proprio lo scudo, e non, per esempio, l’elmo o la corazza, la chiarisce espressamente lo spartano Demarato. Egli spiega, infatti, che ciò dipende dal fatto che, mentre queste protezioni sono individuali, lo scudo è «per lo schieramento comune» (Apoft. di Spart. 220a), in quanto nel compatto schieramento oplitico copre anche una parte del corpo del commilitone che sta alla propria sinistra57. Esso è ormai l’arma non solo della difesa individuale ma anche della resistenza collettiva, l’arma essenziale dell’oplita caratterizzata appunto da quella forma di coraggio-resistenza che è l’alké58. È sufficiente citare il caso dell’ateniese Sofane che nella resistenza all’invasione persiana portava sul suo scudo un emblema personale, sì, ma di un’àncora, a significare che egli sarebbe stato inamovibile dal suo posto – e quella che era un’incisione, in una versione aneddotica, diventava un’àncora vera e propria portata dal guerriero legata a sé, pronta per essere gettata nel luogo del combattimento (Erod. 9, 74) –, e il caso di Epaminonda il quale, trasportato all’accampamento in fin di vita, ha come unico pensiero quello di chiedere al suo scudiero se ha salvato lo scudo (Diod. 15, 87, 6). Va detto pure che dal V sec. gli scudi recavano impressa la lettera dell’alfabeto con cui iniziava il nome del popolo o un altro suo segno caratteristico59. In ogni caso, era dunque un simbolo caratterizzato in senso civico-politico60: esso parlava della polis, non di chi si trovava a portarlo. Le istituzioni sostenevano anche giuridicamente questa cultura militarista. L’ideologia aristocratica omerica in qualche modo giustificava anche la fuga, spiegandola come necessità in una situazione difficoltosa dovuta all’intervento divino a favore del
57 Secondo Plut., Flam. 8, 6, la falange «assomiglia ad un animale invincibile per forza finché è un corpo unico e mantiene su un’unica fila la compattezza degli scudi fianco a fianco; invece, quando si scioglie, ciascuno dei combattenti perde anche la sua forza singola». 58 Sullo scudo come arma per pensare, pur ambiguamente, la guerra difensiva, cf. le ricche pagine di Payen 2012, cap. VI. 59 Il lambda sugli scudi dei Lacedemoni: Eupoli fr. 394 K-A; il sigma su quelli dei Sicionii: Senof., Ell. 4, 4, 10 etc.; altre insegne erano costituite da figure che connotavano appunto le diverse poleis: p. es., la clava di Eracle i Tebani: 7, 5, 20. 60 Ciò non significa che non esistessero scudi personali: quello di Lamaco, p. es., aveva istoriata una Gorgone (cf. Aristof., Acarn. 1181).
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nemico (p. es. in Il. 20, 89-102)61 e addirittura, nel mito, Odisseo può fingersi pazzo per non andare in guerra 62. Il pensiero dominante nel mondo successivo, invece, guarda allo scudo, alla fuga e alla renitenza alla leva con altri occhi. Archiloco sembra vivere o essere concepito al bivio tra le due culture: mentre ammette di avere salvato la vita abbandonando lo scudo, egli aggiunge un eloquente «non volendo» (fr. 5 West2 = 8 Tarditi) che legittima appunto il gesto compiuto in una condizione di necessità. Ma una tradizione vuole che quel gesto gli sia valsa la cacciata da Sparta, appunto in quanto «persona che ha gettato via lo scudo» (Plut., Istituz. spart. 239b)63. Secondo Eschine64, Solone avrebbe previsto una punizione per il renitente (astráteutos), il disertore (ho leloipós tén táxin) e il vile (deilós). Il legislatore Caronda di Catania aveva destinato a chi abbandonava il suo posto nello schieramento e a chi si rifiutava del tutto di andare in guerra una pena che Diodoro giudica «più umana» di quella capitale stabilita da altre legislazioni, e al contempo, «per la grandezza del disonore» che essa infliggeva, capace di distogliere dalla viltà: essa consisteva nel far sedere il reo per tre giorni nella piazza in vesti femminili – un forte disincentivo, secondo lui, in quanto «è preferibile morire piuttosto che subire un tale oltraggio» (Diod. 12, 16, 1-2). Ad Atene, Archestratide intentò un processo ad Alcibiade il Giovane che non aveva preso parte alla spedizione per Aliarto (395): «sarebbe giusto, infatti, che fosse condannato per renitenza alla leva (astratéias), perché, pur essendo stato arruolato come oplita, non è partito con voi; lui solo non si è presentato per essere inserito nei ranghi; e per viltà (deilías), perché, pur avendo il dovere di combattere con gli opliti, ha preferito militare nella cavalleria»65.
Cf. Catenacci 2017, 64. Ma fu smascherato da Palamede: Apollod., Epit. 3, 6-7; cf. Canti Cipri, Argum. p. 40 Bernabè; Esch., Ag. 841; Sofocle, Filottete 1025. 63 Per altri casi di abbandono dello scudo – p. es., quelli di Alceo (cf. fr. 401b V., e Erod. 5, 95, 1-2), Anacreonte (fr. 85 Gent.), Cleonimo (Aristof., Acarn. 1295 sgg., Vespe 15 sgg.), Demostene (Plut., Demost. 20, 2), cf. Catenacci 2017. Sui proverbi e motti relativi all’abbandono delle armi in guerra lo stesso Catenacci rinvia a Tosi 2017, comprensivo del materiale paremiografico, non solo antico, su guerra e pace (sul tema archilocheo, cf. 258 sgg.). 64 Contro Ctesif. 175; cf. Andoc., Misteri 74, che menziona pure chi abbandona lo scudo. 65 Lisia, Contro Alcib. I. Per diserz., 7. Quest’ultima infrazione, che comportava l’atimía (ivi 8), non doveva essere troppo rara (cf. Difesa di Mantit. 13). Per altre fonti e per lo statuto 61 62
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Se tali comportamenti individualistici venivano puniti, esistevano però anche casi in cui, per esigenze della polis, erano giudicati diversamente. A livello istituzionale, lo spartano Agesilao, per evitare il rischio di rivolgimenti sociali e avendo bisogno la città di uomini per combattere, anziché ottemperare alle leggi secondo cui bisognava comminare il disonore (atimía) a coloro che erano stati vili in battaglia, che venivano chiamati i «tremanti» (trésantes) ed erano costretti a portare segni di ignominia come quello di avere la barba rasata su una guancia, fece la ben nota dichiarazione secondo cui per quel giorno bisognava «lasciar dormire le leggi» (Plut., Ages. 30, 2-6). In guerra, anche le leggi che puniscono chi ha avuto paura ad affrontare la guerra possono essere trasgredite … per esigenze belliche.
5. Si va in guerra e in battaglia. La partenza dei soldati, la preoccupazione dei civili e le esigenze della patria La retorica patriottica, come ho cercato di mostrare, ci pone davanti ad una rappresentazione abbastanza univoca, anche se possiamo almeno intravedere, en passant, i «tremanti» spartani o i soldati che si trovano a combattere per la prima volta e sono tanto suggestionabili da spaventarsi per tuoni e lampi (Tuc. 6, 70, 1) o la paura che non raramente doveva prendere i soldati (Polieno, Strat. 3, 9, 1 e 4) e, nella commedia, anche gli effetti fisici, intestinali, di questo stato d’animo (Aristof., Pace 240-1). Le scene di partenza dei soldati per la guerra, o per la battaglia se si tratta di soldati che difendono la propria città, suggeriscono però un quadro più articolato e sfumato.
giuridico delle tre accuse (e della genericità di quella di «viltà») vd. la Notice all’orazione XIV (Contro Alcib. Per diserz.) di Gernet e Bizos nell’edizione Belles Lettres del corpus lisiaco, I, 219-21 e Harrison 1971, 32. Da notare che l’accusa di viltà valeva «quando uno lasci lo schieramento retrocedendo per viltà, mentre gli altri combattono»: 5). Un altro discorso lisiaco è Contro Alcib. Per renitenza alla leva. Casi di diserzione (espressi con termini che hanno a che fare con automoléo, «me ne vado da solo», per indicare più in generale anche il passaggio ai nemici, che può valere anche per una donna: es. Erod. 9, 9, 76, 1) sono presentati già da Tucidide in riferimento a schiavi e a stranieri utilizzati in guerra (7, 13, 2). Di abbandono della città «fuggendo i pericoli per la patria» è accusato Leocrate (Licurgo, Contro Leocr. 5 e 17), come pochi anni prima anche Autolico, che, pur non essendo fuggito, aveva però messo in salvo i figli e la moglie (53), e colpe simili sono rinfacciate a Filone (Lisia, Contro Filone 8 sgg. e 24 sgg.).
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Nella città assediata, i civili manifestano apprensione per i difensori che combattono: «appena Ettore giunse alle porte Scee e alla quercia, gli corsero intorno le mogli e le figlie dei Troiani chiedendogli dei figli, dei fratelli, dei parenti, degli sposi. Ed egli, le esortò tutte, una per una, a pregare gli dèi: su molte incombeva il dolore» (Il. 6, 23741). La preghiera doveva essere per le donne l’impegno principale, come quando, nel 335, Tebe, ribellatasi ad Alessandro Magno, venne attaccata, e le donne «correvano verso i templi e supplicavano gli dèi di salvare la città dai pericoli» (Diod. 17, 11, 3). È il comportamento, d’altronde, che alle donne durante la guerra attribuisce anche Platone (Leggi 814b), e forse è quello criticato da Aristotele quando, in tale contesto, definisce le donne «dannosissime» in quanto creano «più confusione dei nemici» (Pol. 1269b 36-39). Ecuba mostra il seno al figlio Ettore chiedendogli, inascoltata, di averne riguardo e compassione e, ricordandosi (mimnésko) di esso, di difendere la città sì ma restando all’interno delle mura, in modo da non rischiare di incontrare Achille in campo aperto e di venire ucciso senza neanche dare alla sposa e a lei la possibilità di piangerlo sul letto funebre (Il. 22, 79-89). Secondo una tradizione, l’affetto materno della dea Teti aveva cercato di evitare ad Achille la fatale spedizione a Troia facendolo travestire da donna (Apoll., Bibl. 3, 13, 8; Paus. 1, 22, 6)66. La mitica regina ateniese Prassitea, patriotticamente pronta, come si è visto, a sacrificare la vita della figlia per vincere i nemici che attaccano la città, mostra una realtà a lei circostante fatta di «lacrime di madri quando accompagnano i figli alla partenza» per la guerra – il che, a suo dire, renderebbe «effeminati» quelli che vanno in battaglia (Eur. fr. 360, 28 Kannicht). Anticlea, la madre di Odisseo, addirittura era morta di dolore per il rimpianto del figlio (Od. 11, 202-3). Lisistrata, a chi vuole impedirle di criticare coloro che fanno la guerra in quanto le donne non vi partecipano, precisa che in realtà le donne la subiscono per più che il doppio, visto che sono loro a partorire i figli che vanno al fronte (Aristof., Lis. 589-90). Ma non è solo sentimento di madri, o comunque di donne. Anche Priamo, sia pure invano, prega Ettore di non affrontare Achille, che già ha ucciso altri suoi figli «procurando dolore al mio animo e alla 66 Naturalmente, si potrebbero aggiungere anche gli interventi delle divinità che cercano di salvare i figli umani direttamente sul campo di battaglia, come quello di Afrodite a favore di Enea che è il figlio a lei «più caro», in Il. 5, 311-78.
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madre, a noi che li generammo» (Il. 22, 53) – con un quadro della sorte della sua famiglia che comprende gli infanti «gettati a terra nella battaglia terribile» (64), e l’immagine dell’adeguatezza e bellezza di un giovane morto (qui addotta con una certa forzatura rispetto al contesto) e la commiserazione invece per un morto anziano cui i cani sconciano il sesso (71-6)67, presente anche in Tirteo (fr. 7, 21-5 G-P). Ancora in Omero, l’indovino Merope di Percote aveva chiesto ai suoi due figli, inascoltato, di non partire per la guerra di Troia (Il. 2, 831-4), così come Nestore, da giovane, era stato ostacolato senza successo dal padre Neleo che, considerandolo ancora inesperto, gli aveva nascosto i cavalli perché non prendesse parte alla guerra (Il. 11, 717 sgg.), e nelle Fenicie di Euripide Creonte vorrebbe far fuggire il figlio Meneceo, il quale però rifiuta, che il vaticinio dell’indovino Tiresia dichiara dovere morire perché Tebe possa sostenere la guerra che le è stata mossa da Argo (978 sgg.). Il Coro eschileo di anziani cittadini di Argo, al ritorno di Agamennone, fa luce sul clima sociale ostile al re sia prima, al momento della partenza per Troia (Ag. 799-804), sia adesso, quando in mezzo al popolo, che ha visto i suoi cari morire, nascostamente «serpeggia un dolore rancoroso verso gli Atridi giustizieri» (450-1): infatti, da Troia tornano in patria, per opera di Ares «‘cambiavalute’ di corpi», non i soldati ma le loro ceneri mentre altri giacciono lì, col paradosso che «la terra nemica ricopre coloro che la conquistano» (434 sgg.; citaz. ai vv. 454-5): per i morti la vittoria coincide con la sconfitta. E non è nemmeno solo sentimento epico-tragico. Anche qui non si registrano salti tra la rappresentazione poetica e quella storica. Per esempio, il lidio Pizio, fedele a Serse e da quest’ultimo perciò ricompensato generosamente, gli avrebbe chiesto a un certo punto di esentare dalla guerra almeno il maggiore dei suoi figli, provocando così l’ira crudele del sovrano che sì, esenta il giovane, ma uccidendolo (Erod. 7, 38-9); l’indovino greco Meghistia, poi, benché dispensato dall’affrontare i nemici alle Termopili, preferisce sacrificare se stesso e restare facendo andare via il figlio al suo posto (Erod. 7, 221), forse anche badando, in tal modo, a non fare estinguere la sua stirpe. Nel 413 l’anziano Nicolao, aristocratico siracusano che ha inviato i suoi 67 Omero indugia poi nel descrivere il dolore del popolo, della madre e del padre di Ettore, e quindi l’ansia, lo svenimento e infine il lamento di Andromaca per il marito morto, per sé e per il figlio orfano (Il. 22, 405-36 e 446-510).
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due figli a combattere per la città, anche se non è affatto pentito di quella decisione, tuttavia si compiange, in quanto, dice, «li mandai a rischiare per la patria e ricevetti, al loro posto, un messaggio che annunciava la loro morte» (Diod. 13, 20, 1). Infine, il timore per il cittadino che si espone al rischio della morte per la propria città è anche sentimento di moglie, come esemplifica il caso di Andromaca che invita il marito ad avere compassione (eleáiro) di lei e di Astianatte e a non andare in battaglia (Il. 6, 431-2); ed è anche sentimento generale, di tutti i familiari i quali, come nel caso in cui i soldati ateniesi si imbarcano per la famosa spedizione in Sicilia, benché speranzosi di vedere aumentare i domini della città, trepidano al momento della partenza dei propri cari per la guerra. Allora «scese con loro, si può dire, tutto il resto della popolazione di Atene, cittadini e stranieri: quelli del luogo accompagnando ognuno i propri cari, chi gli amici, chi i parenti, chi i figli; e andando al contempo con speranza e con gemiti, perché per un verso si aspettavano di fare conquiste, per un altro si lamentavano se mai avrebbero rivisto i loro cari riflettendo su quanto fosse lunga la navigazione che stavano facendo lontano dalla patria» (Tuc. 6, 30, 2).
Il pensiero per la propria famiglia era un sentimento diffuso. Perfino a Sparta si diceva che l’eforo Antalcida, preoccupato per la presenza di Epaminonda in procinto di attaccare la città, «preso dalla paura, facesse andar via segretamente i figli» (Plut., Ages. 32, 1). In ogni caso, però, il sistema della polis non fa sconti. Alla patria va consacrata ogni cosa, perciò anche il solo prendere autonomamente la decisione di portare i propri cari al riparo in un’altra città è illecita. E così, ad Atene, dopo la battaglia di Cheronea (338), il tribunale dell’Areopago condanna Autolico, un suo componente, per avere messo in salvo, appunto, non se stesso ma la sua famiglia (Licurgo, Contro Leocr. 53).
6. La continuazione della guerra… per darle senso e il divieto di dissenso interno Una guerra può durare per molto tempo. Secondo la tradizione, quella di Troia si protrae per dieci anni, quella del Peloponneso con le sue diverse fasi arriva a ventisette anni (431-404) e solo la sconfitta siciliana costò ad Atene circa 40.000 uomini. Come è possibile che ci 85
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si persuada a condurre una guerra per tanto tempo senza guardare al numero delle vittime, almeno quelle proprie? Tali interrogativi valgono anche per molte guerre odierne: una per tutte, quella tra Israele e Palestina. La guerra si intraprende con tutte le aspettative di vincerla, perché si è, o in ogni caso ci si dichiara o ci si crede, vittima dell’ingiustizia dell’altra parte, anche se magari può sembrare che non sia quella ad averla cominciata, e si combatte col favore di Zeus (o di Dio) che è garante della giustizia. Certamente, per proseguirla possono esserci motivi personali di singoli individui. Nell’epos omerico, il troiano Antimaco si era opposto alla restituzione di Elena a Menelao per vera e propria corruzione: infatti, aveva avuto oro e doni da Paride (Il. 11, 123-5), e, secondo Tucidide (5, 16, 1), Cleone ad Atene e Brasida a Sparta erano fortemente ostili alla fine della guerra tra le loro città, il primo perché in tal modo aveva la possibilità di nascondere meglio la sua disonestà, e il secondo per l’onore che ricavava dalle sue azioni militari68. Ma vale forse maggiormente la pena, in questa sede, occuparsi dei motivi strutturali, interni al funzionamento del meccanismo bellico. A Troia, i Greci di Omero a un certo momento credono di essere costretti a tornare in patria, perché dopo nove anni la guerra è ancora incompiuta (áprektos), l’impresa è irrealizzata (akráanton), e per giunta non se ne vede la fine (télos), come nota Agamennone, sia pure solo per mettere alla prova il suo esercito, ricordando che «le spose e i figli piccoli» sono a casa ad aspettare (Il. 2, 111-38)69. Però, lo corregge Odisseo, tornare senza avere preso la città significherebbe rompere il patto stabilito con Agamennone stesso, disonorare costui, e comportarsi come bambini e vedove piagnucolanti, e insomma non essere «uomini»: di più, «sarebbe vergognoso (aischrón) rimanere qui per lungo tempo (derón) e poi tornare a mani vuote» (2, 284-98). Proseguire la guerra è dunque una questione di principio e di onore, legata al tempo già impiegato. Poi, quando Agamennone rinnova lo 68 Aristofane (Pace 268 sgg.), per questo loro spingere alla guerra, li chiama «pestelli». Anche ad Alcibiade viene rimproverata, da Nicia, la volontà di fare la spedizione in Sicilia per motivi narcisistici ed economici (Tuc. 2, 12, 2). 69 Sul tema iliadico della lunghezza della guerra (e l’illusione coltivata di starla finalmente concludendo) cf. Camerotto 2022, 71 sgg.
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stesso invito, questa volta seriamente, in Il. 9, 22 sgg., Diomede si adira e lo rimbecca: «sciagurato! Ti aspetti che i figli degli Achei siano così imbelli (aptolémous) e senza coraggio (análkidas), come dici. Orbene, se il cuore ti spinge a tornare, vattene. La strada è qui, e le navi che in gran numero ti seguirono da Micene sono vicino al mare. Ma gli altri Achei dai lunghi capelli resteranno fino a che non avremo preso Troia. E se no, fuggano anche loro con le navi verso la cara terra patria; ma noi, Stenelo e io, combatteremo fino a che non otterremo la fine di Troia, perché siamo venuti col favore del dio» (9, 40-9).
La fuga, data la sconfitta che l’esercito greco sta subendo, è consigliata da Agamennone ancora in Il. 14, 74-81. Ma di nuovo interviene Odisseo, adesso adirato, per criticare il parere del re che, mentre ancora si combatte, invita ad abbandonare la città di Troia «per la quale piangiamo molti mali» (83 sgg.). L’eroe della tenacia non accetta che i Greci tornino a casa senza aver conseguito lo scopo per il quale, altrimenti, avrebbero sofferto vanamente, e persuade Agamennone. Dunque, tutto è chiaro. Come scrive Alberto Camerotto, «quando si comincia una guerra non si può più tornare indietro»70. Una volta intrapresa la strada delle armi, appare necessario arrivare alla vittoria, perché il sangue delle vittime apparirebbe essere stato versato inutilmente, il tempo impiegato sembrerebbe essere stato sprecato e il proprio onore risulterebbe intaccato. La questione di principio si rivela pertanto fondamentale e nessuno pensa, invece, al sangue che, con la cessazione della violenza verrebbe risparmiato71. In quest’ottica, una guerra iniziata, come ogni altra «opera» (tale, cioè érgon, è il termine generale con cui viene designata la guerra), non permette di essere lasciata in asso. L’idea perdura e ha applicazione concreta nella realtà storica. Nel 415, quando la flotta ateniese diretta in Sicilia si ferma a Reggio e scopre con sgomento che i Reggini intendono restare neutrali e che i Segestani non possiedono il denaro per sovvenzionare la guerra
Camerotto 2022, 76. La categoria di «sangue risparmiato» è stata proficuamente utilizzata, invece, nella storiografia dell’epoca contemporanea, da Bravo 2013. 70 71
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che avevano invece garantito di avere, il problema ‘omerico’ appena visto si pone di nuovo, in qualche misura anche con gli stessi termini. Anche in questo caso, a fronte di una proposta sostanzialmente rinunciataria, che sarà esposta da Nicia, viene adottata quella di Alcibiade, sostenitore del fatto che «non bisognava, una volta che si era partiti con tante forze, fare ritorno in modo vergognoso e senza avere compiuto nulla (aischrós kái apráktous)» (6, 48, 1). Anche più tardi, nonostante fossero in difficoltà sia in patria sia in Sicilia, gli Ateniesi furono talmente ostinati nel desiderio di vittoria (philonikía) che «neanche così fecero marcia indietro dalla Sicilia» (7, 28, 3), con la conseguenza che si procurarono il disastro che sappiamo. Una guerra in corso non solo va proseguita ma, in generale, come provano molti esempi, va anche proseguita all’unanimità all’interno di ogni fronte. In nome dell’unità contro il nemico, la dialettica interna viene soffocata mediante accuse di parteggiare per il nemico che impediscono di parlare liberamente o atti di giustizia sommaria che determinano l’eliminazione fisica di chi avanza, o si sospetta potrebbe avanzare, proposte non in consonanza con la ‘sensibilità’ dominante (nel mondo odierno, rispetto a queste modalità repressive, ci sono analogie e differenze)72. È ciò che le nostre fonti antiche attestano essere accaduto in diverse occasioni. Per esempio, nel 479, l’ateniese Licida viene lapidato (e la stessa sorte viene inflitta dalle donne alla sua famiglia) solo per avere approvato nel Consiglio greco riunito a Salamina le proposte dell’invasore (Erod. 9, 5, 1-3); nel 406, ai cinque strateghi di Agrigento accusati di corruzione perché non avevano voluto inseguire i Cartaginesi in fuga e annientarli, viene negato il diritto di parlare per difendersi, quattro di loro vengono lapidati e poco più tardi, quando la città cade in mano ai nemici, anche quelli nuovi sono destituiti dal comando a furor di popolo, illegalmente (Diod.
72 Nei Paesi in guerra i dissidenti sono incarcerati o puniti (come in Russia e, sembrerebbe con molto minore brutalità, in Ucraina). La repressione russa del dissenso è ben nota; lo è meno quella ucraina: per un esempio del 2015 cf. https://www.avvenire.it/ opinioni/pagine/con-le-vittime-e-per-la-pace-una-resistenza-nonviolenta (consultato il 28.04.2022). Nei Paesi che sono terze parti ma si sono schierati unilateralmente per uno dei due confliggenti, il dissenso è ostacolato, come mostrano tutti i nostri telegiornali, semplicemente non dandogli quasi totalmente spazio nell’informazione pubblica.
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13, 87, 2-5 e 91, 2-92, 1); dopo la sconfitta di Egospotami, l’ateniese Archestrato, poiché in Consiglio aveva sostenuto l’opportunità di accettare le condizioni suggerite dagli Spartani, viene incarcerato (Senof., Ell. 2, 2, 15)73; Polibio racconta della dura repressione del pluralismo d’opinioni sia nell’assemblea dei mercenari che si erano rivoltati a Cartagine («se un altro si faceva avanti per dare il suo consiglio, subito lo uccidevano colpendolo con pietre senza neanche aspettare di sapere se si presentasse per contraddire o approvare»: 1, 69, 10), che egli stigmatizza, sia quando sono i suoi concittadini Megalopolitani a lapidare chi intende leggere in pubblico una lettera con cui Cleomene vuole indurre la città a passare dalla sua parte – però questa volta, utilizzando due pesi e due misure, la approva (2, 61, 5 sgg.). Nel primo caso, inoltre, lo storico precisa che i mercenari, sospettando (ma a torto) che il comportamento mite del cartaginese Amilcare Barca nei confronti di quelli di loro che sono stati catturati sia un trucco, rispondono diffondendo fake news e screditando chiunque non rivolga ai Cartaginesi le accuse «più odiose e aspre» (1, 79, 8-80, 3). Dal clima di diffidenza nei confronti di chiunque non dichiarasse la colpevolezza totalmente unilaterale dei nemici e il conseguente odio verso di loro derivava già il prudente atteggiamento del Diceopoli aristofaneo quando si accingeva a sottolineare le responsabilità di alcuni Ateniesi nella guerra peloponnesiaca. Non troppo diversamente da come si comporta (spesso non riuscendo a sfuggire ugualmente alle accuse di «putinismo», perché il pensiero dicotomico non ammette sfumature e complessità), chiunque intervenga oggi sulla guerra in Ucraina senza diffondersi in (o limitarsi a) insulti al dittatore russo, anche Diceopoli, prima di rivolgere le sue critiche agli Ateniesi, cerca di cautelarsi da una probabile accusa di essere dalla parte dei nemici. Dichiara subito, infatti, il suo odio per Sparta e alla dichiarazione aggiunge una maledizione (Acarn. 509 sgg.). Tucidide mette a fuoco l’attuarsi di una dinamica analoga nel momento in cui l’assemblea ateniese deve decidere se preparare o no la spedizione in Sicilia: allora, «per l’eccessivo ardore dei più», che erano favorevoli, se qualcuno era di diverso parere, «temendo Per alcuni di questi casi (ma anche altri), cf. Lintott 2014, 24-5.
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di sembrare pieno di malanimo verso la città se avesse dato voto contrario, se ne stava tranquillo» (6, 24, 4). Pericle, la cui strategia attendista veniva vissuta male dal popolo costretto a vedere il territorio di Acarne devastato dai nemici, evitava il problema del dissenso ufficiale a monte, cioè non convocando l’assemblea né alcuna riunione in cui esso si sarebbe potuto manifestare (2, 22, 1). In tutti questi casi, siamo davanti ad una prosecuzione, sul fronte interno, dell’atteggiamento di non ascolto dell’‘altro’ che ha la sua piena applicazione sul fronte esterno, rispetto al nemico che, appunto, si può decidere di non ascoltare nemmeno nel caso che voglia comunicare (p. es. Tuc. 2, 12, 2), o, già nelle proprie mani, di condannare senza un processo in cui possa difendersi (p. es. 2, 67, 4)74. Nella logica polare della guerra, ancora una volta vale il principio «con noi o contro di noi». È, credo, questa idea che in una città in guerra sia obbligatoria l’unanimità di vedute ad avere indotto Licofrone (Alessandra 344 sgg.) a trasformare il troiano Antenore, che in Omero ammetteva onestamente la responsabilità del suo popolo di avere violato la tregua durante il duello tra Menelao e Paride e proponeva la restituzione di Elena (Il. 7, 350-354), in un traditore della patria75, perché la guerra si nutre di polarità e non ammette sfumature, e tantomeno di verità (anche quando possano essere, come nel caso appena ricordato, lapalissiane).
7. Declinazioni della “prevedibilità” della guerra e illusione della vittoria Il conflitto tra Sparta e Atene, come è noto, vede un suo progressivo allargamento e aggravamento grazie al costituirsi di alleanze militari e all’intrecciarsi imprevedibilmente con i contrasti tra le fazioni interne alle città, le quali contribuiscono così a renderlo ancora più lungo e sanguinoso. Pericle, in assemblea, se da una parte chiarisce che in guerra vige una quota di incertezza, dall’altra mostra, con un’analisi Su entrambi i casi cf. le considerazioni di Civiletti 2010, 157-8. Un po’ diversamente, Scuderi 1976 (dove si trova un’utile rassegna di fonti sull’eroe troiano), 35 sgg., riporta la raffigurazione di Antenore presentata da Licofrone ad una razionalizzazione per spiegare la caduta di una città ben difesa come era Troia. 74 75
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molto articolata e ‘sicura di sé’, le ragioni per cui gli Ateniesi possono coltivare «l’aspettativa di prevalere» ed elenca minuziosamente le abbondanti risorse di cui la città dispone76. Alcibiade, a sua volta, invita l’assemblea, che egli vuole indurre a fare una spedizione militare in Sicilia, a non considerare l’isola una grande potenza: ne minimizza le forze e, in un discorso che mette in campo la nozione di eikós (ciò che è «normale» che accada), ne prevede, sbagliando, la disgregazione interna e sottolinea al contempo i punti di forza di Atene (Tuc. 6, 17, 2 sgg.; 18, 4 sgg). Nel racconto di Tucidide, l’imprevedibilità, tanto maggiore quanto più lungo è il conflitto, era già stata chiamata in causa dagli ambasciatori ateniesi a Sparta, ma in direzione argomentativa opposta, cioè contro il ricorso alle armi. Lì, infatti, gli Ateniesi avevano fatto presente che la guerra, «prolungandosi, spesso è solita andare per le vie della fortuna, dalle quali siamo entrambi, noi e voi, ugualmente distanti, e, nell’incertezza di come finirà, si corre un rischio» (1, 78, 1-4). Per questo, i Corinzi, alleati degli Spartani, per spingere alle armi precisavano che, grazie alla loro superiorità numerica, alla maggiore preparazione militare e abbondanza di risorse finanziarie, essi avrebbero prevalso sui nemici «con una sola vittoria» (1, 121, 2-4), in una sorta di guerra-lampo – un topos (sempre falso) anche delle guerre odierne, per esempio quella di G.W. Bush al momento dell’invasione dell’Iraq e quella di V. Putin al momento dell’invasione dell’Ucraina. Poi, però, utilizzavano anche l’argomento dell’imprevedibilità per alludere ad ulteriori mezzi che, al momento ignoti, avrebbero potuto però essere individuati in seguito, come se ciò potesse valere solo per loro e non anche per i nemici. Insomma, proponevano una scommessa sul futuro: «la guerra procede meno di ogni cosa secondo leggi prestabilite; invece, essa escogita da se stessa molti mezzi a seconda delle circostanze» (1, 122, 1). I Corinzi dicevano bene: nel senso che è la guerra, il suo meccanismo, a farsi soggetto e a prendere il potere sugli uomini, secondo un concetto che si accorda con quanto Tucidide scrive poi in propria persona, sia pure trattando della guerra civile, cioè che «la 76 Tuc. 1, 140, 1; 144, 1; 2, 13, 2-9 (il passo si conclude con il commento di Tucidide: «Pericle diceva anche altre cose che era solito dire a dimostrazione del fatto che nella guerra avrebbero prevalso»).
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guerra ... è un maestro violento, e rende conforme alle circostanze lo spirito della gente» (3, 82, 2). L’elemento attivo, chi individua la via da percorrere nelle varie situazioni, chi istruisce e determina i comportamenti non è l’essere umano, in funzione delle sue esigenze, ma la guerra. Anche Nicia, poi, per incoraggiare i soldati in difficoltà, farà riferimento all’imprevedibilità della guerra, per cui – con un modo di pensare non troppo diverso da quello dell’eroe omerico che, costretto a cedere, si conforta dicendosi sicuro che, però, in un altro momento la divinità aiuterà lui e non più il nemico – si può nutrire l’aspettativa che «la sorte favorisca anche noi» (7, 61, 3). La scommessa sul futuro non mette in conto, peraltro, gli imprevisti dovuti ad errori umani e al «fuoco amico» che sembra aver luogo non di rado77. Sulla facilità e mancanza di intoppi («procedere con facilità, esser facile», eupetéos choréein, eupetées) del successo militare contro i Persiani – senza omettere un po’ di sarcasmo sul loro abbigliamento – aveva insistito, sia a Sparta sia ad Atene, anche Aristagora di Mileto quando peraltro, per farsi alleate le due città, oltre a richiamare la consanguineità dei loro popoli, aveva prospettato i guadagni economici derivanti dalla conquista che si poteva compiere, sicché non era più tanto chiaro se l’impresa fosse di liberazione dal dominio dei Persiani o di attacco a loro (Erod. 5, 49, 2-4, cf. 97, 1-2). Sostanzialmente, in casi come questi, la pretesa del controllo della guerra fa un tutt’uno con l’illusione della vittoria. Tale illusione prevede innanzitutto l’idea che si entri in guerra con decisione perché si tratterà di una guerra-lampo. Tucidide lo dice non solo nel passo sopra citato ma anche altre volte: «gli Spartani (...) avevano supposto che avrebbero distrutto la potenza degli Ateniesi in pochi anni» (5, 14, 3); «all’inizio della guerra alcuni ritenevano che essi avrebbero resistito un anno, altri due, altri tre e nessuno di più, se Sul «fuoco amico» nel corso della guerra del Peloponneso, per es. nella battaglia di Delio del 424 e in Sicilia, alle Epipole, nel 413 (Tuc. 4, 96, 3 e 7, 44, 7; ma cf. anche i casi in cui i propri commilitoni vengono calpestati durante la fuga, a Mantinea nel 418, in 5, 72, 4), cf. Hanson 2005, 172-3. Il fenomeno è testimoniato anche fuori dal conflitto narrato da Tucidide: sia prima (p. es. Erod. 6, 16, 2, a proposito dei Chii che, inoltratisi nella regione di Efeso, vengono scambiati per briganti e sterminati; 7, 87-8, su Artemisia; Diod. 11, 10, riguardo ai Persiani alle Termopili; Dion. di Alic., St. rom. 7, 4, 2, per i barbari che combattono contro i Greci di Cuma nel 492), sia dopo (Senof., Anab. 7, 3, 37-38, che lo considera «spesso» collegato al fatto che l’esercito si disunisce). 77
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i Peloponnesiaci avessero invaso il paese» (7, 28, 3; cf. 4, 85, 2, dove l’ammissione dell’errore sulla durata e facilità della guerra è posta in bocca a Brasida). E naturalmente, come già visto, si assicura che il successo è garantito grazie alla buona disponibilità di risorse, salvo poi scoprire che invece la guerra ne richiede una superiore a quella prevista (7, 28, 4). Comunque, nel momento in cui le ricchezze finanziarie ci siano, esse possono anche essere ostentate in maniera grandiosa. La spedizione ateniese in Sicilia, da Tucidide descritta dettagliatamente mentre salpa dal Pireo e dichiarata «celebre non meno per la meraviglia della sua audacia e per lo splendore dello spettacolo che per la superiorità dell’esercito rispetto a quelli che andavano ad attaccare (…) con l’aspettativa (elpídi) di un futuro grandissimo rispetto alla situazione presente» (6, 31, 6), sembra obbedire proprio all’esigenza di nutrire la fiducia nella vittoria che fa parte della logica della guerra. Senonché, appunto, la dinamica bellica è piena di imprevisti e l’avventura siciliana, come pure la guerra intera, risulterà una totale disfatta. In ogni caso, lo spettacolo magnifico della partenza era riuscito nel suo intento e aveva controbilanciato emotivamente un altro sentimento presente nell’animo degli Ateniesi, tanto dei soldati in partenza quanto dei loro familiari, cioè il timore di stare andando ad affrontare un’impresa dall’esito abbastanza incerto: «e nel momento presente, mentre rischiosamente ormai erano sul punto di lasciarsi reciprocamente, il senso del timore (tá deiná) penetrava in loro più di quando avevano preso la decisione. Tuttavia, nella condizione di forza presente, per la massa di ciò che vedevano con i propri occhi, riprendevano coraggio» (6, 31, 1).
D’altronde, tutto ciò, dice criticamente Tucidide, «assomigliava a una dimostrazione (epídeixin) di potenza e di facoltà di fronte agli altri Greci più che a preparativi contro nemici. Infatti, se si fosse calcolata la spesa pubblica della città e quella privata dei partecipanti alla spedizione, tutto quello che la città aveva già versato, e ciò che forniva agli strateghi in partenza e ciò che ognuno dei privati aveva speso per il proprio equipaggiamento, e, se era trierarco, per quello della sua nave, e quanto avrebbe ancora speso, e, separatamente, quanto era normale che ognuno, al di là della paga pubblica, si era procurato come viatico per una lunga spedizione, e quanto ogni soldato o mercante si portava per gli scambi, si sarebbe 93
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trovato che in tutto venivano portati via dalla città molti talenti» (6, 31, 4-5).
Con queste parole, lo storico ricorda che la costruzione dell’immagine, non meno che l’approntamento delle risorse militari, costa e sottrae ricchezze che sarebbero state utilizzabili per altre attività meno rischiose. Ancor più specificamente, l’illusione della vittoria si esprime nel fatto che ciascuna parte rifiuta le proposte di pace e i negoziati ogni volta che è in vantaggio, salvo poi avanzarle quando viene a trovarsi in svantaggio. Solo in questo momento, nota Tucidide, cioè «quando soffrono i mali, si danno ai discorsi» (1, 78, 3), sicché alla pace di Nicia si arriva proprio quando entrambe le potenze sono disposte a riconoscere, ognuna a se stessa, che le cose sono andate in modo ben diverso da come se le erano aspettate, e hanno ormai subìto disfatte sul campo che le hanno abbattute nel morale (in 5, 13-14, se ne fa un’analisi precisa). Tale meccanismo è già operante nell’Iliade, laddove Diomede invita a non accettare né le ricchezze che Paride ha trafugato dalla casa di Menelao e ora è disposto a restituire anche con aggiunte, né la stessa Elena perché «è chiaro anche a un bambino che sui Troiani incombe il termine della rovina» (7, 401-2). La sua formulazione paradigmatica è data però, forse, nel bel mezzo della guerra del Peloponneso, intorno al 423, dall’Adrasto delle Supplici euripidee che lo illustra con chiarezza nella sua dinamica essenziale: «per noi Argo era invincibile: eravamo molti e giovani di forze. Quando Eteocle, volendo cose misurate (métria), offrì un accordo, non desiderammo accettarlo, e poi ci rovinammo» (737-41). Il riferimento ai giovani argivi come responsabili di aver trascinato Adrasto in guerra, in quanto desiderosi di onori, potere e profitto, era già stato fatto da Teseo (232 sgg.). Ma che l’inclinazione all’azione bellica sia una caratteristica dei giovani non è certo un’idea ricorrente soltanto in questo passo. La si è già vista presente in Diodoro a proposito di un’assemblea spartana del 475 (cf. supra 2.2.), e la si ritrova molte altre volte. Ad esempio, Eschilo (Pers. 744, 782) aveva indicato come «arditezza» e «follia», del «giovane» Serse la sua impresa militare contro la Grecia, e Aristotele considererà l’ambizione e il desiderio di vittoria, sentimenti legati all’impetuosità
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e all’aspettativa (elpís) di successo che rendono coraggiosi, peculiarità dei giovani (Retor. 1389a 11-28). Tali considerazioni, implicite o esplicite, di psicologia sociale sono corroborate da Tucidide che, tra i fattori che spingono alla decisione di ricorrere alle armi, pone l’ottimistica aspettativa, che domina inizialmente tutti e ancora più in particolare l’avventatezza dei giovani allora numerosi (fattori che, dati gli esiti, non si possono che considerare semplicemente errate illusioni): «all’inizio, tutti sono abbastanza decisi, tanto più che allora molta gioventù c’era nel Peloponneso e molta ad Atene che, data l’inesperienza, non malvolentieri si dedicava alla guerra» (2, 8, 1)78. Quando all’inizio delle ostilità Archidamo si mise a devastare il territorio attico, tutti gli Ateniesi «ma soprattutto i giovani» erano stati tentati di disobbedire alla strategia di Pericle che li faceva restare al sicuro dentro la città (2, 21, 2; Diod. 12, 42, 6): evidentemente, era appunto questa fascia d’età, che spinta dall’ira e dal senso dell’onore, si trovava ad essere particolarmente pronta a combattere. Tucidide ci presenta il meccanismo dell’illusione della vittoria anche nella sua articolazione più complessa mettendo di fronte i comportamenti dei due confliggenti principali nel corso della guerra. Ecco le parole che fa dire dagli Spartani ai nemici per riavere i loro soldati intrappolati nell’isola di Sfacteria (425), e nelle quali risuona alla fine il concetto, che ho già preso in considerazione più sopra, che in guerra non sono gli uomini ad avere il dominio della situazione: 78 Invece, la responsabilità della rovinosa spedizione in Sicilia sarà attribuita da Tucidide «ugualmente» al «desiderio» sia dei giovani sia degli anziani (6, 24, 3), sulla scorta di quanto suggerito da Alcibiade (18, 6) e contro l’appello fatto da Nicia appunto agli anziani di lasciarsi guidare dalla previdenza e non dalla passione per cose lontane (6, 13, 1; cf. anche la critica al «giovane» Alcibiade desideroso di comandare e di essere ammirato in 12, 2). La considerazione di Tucidide sull’ottimismo (solo) iniziale è in linea con quella da lui attribuita a Pericle, consapevole che «gli uomini non agiscono al momento dell’azione con lo stesso ardore con cui si sono persuasi a combattere» (1, 140, 1). Sono complementari ad essa le parole degli ateniesi Callia e Callistrato a Sparta nel 373 per proporre la pace (in Senof., Ell. rispettivamente 6, 3, 6 e 15): secondo il primo bisogna iniziare le guerre con la maggiore lentezza possibile e, quando già ci siano, finirle il più rapidamente possibile; secondo l’altro, «certamente, tutti sappiamo che sempre sono scoppiate guerre e sempre sono finite, e che noi, se non ora, poi desidereremo la pace. Perché dunque bisogna aspettare il momento in cui rinunceremo per la moltitudine dei mali, piuttosto che fare la pace al più presto, prima che avvenga l’irrimediabile?».
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«noi che abbiamo la più grande reputazione tra i Greci veniamo da voi, mentre prima pensavamo di essere piuttosto noi a poter concedere ciò che ora veniamo a chiedere. (...) Cosicché non è fondato che voi, per l’attuale forza della città e di ciò che si è aggiunto ad essa, crediate che la fortuna sarà sempre con voi. Sono uomini saggi coloro che mettono i successi sicuramente tra le cose incerte (...) e che ritengono di venire coinvolti nella guerra non per quanto vorranno farla ma per quanto le loro sorti li condurranno» (4, 18, 1-4).
Così, mentre gli Spartani credevano che gli Ateniesi avrebbero accettato subito la pace, in quanto già prima questi avevano chiesto (vanamente) una tregua, invece adesso costoro, «pensando che la tregua fosse sempre a loro disposizione quando avessero voluto concluderla, desideravano ottenere di più» (4, 21, 1-2), e di fatto, avanzando appunto delle richieste ‘al rialzo’, rifiutano l’offerta di conciliazione (per la quale cf. 4, 20, 1-3), come l’avevano rifiutata appunto anche gli Spartani quando nel 430 erano stati invece loro, in quel momento in grande difficoltà, a chiederla (2, 59, 1-2). Ma gli Spartani assediati a Sfacteria, contrariamente alle aspettative degli Ateniesi che erano convinti di prenderli con un’operazione anch’essa ‘lampo’ («credevano che avrebbero vinto con un assedio di pochi giorni»), riescono a resistere e «il tempo, passando oltre il calcolo, procurava scoraggiamento» negli assalitori (4, 26, 4). Quindi, gli Ateniesi, adesso loro in difficoltà, «temevano gli Spartani, perché credevano che essi, avendo un qualche forte motivo di fiducia, non mandassero più araldi [sott.: per trattare] e si pentivano di non avere accettato la tregua» (4, 27, 2). Tuttavia, in seguito la situazione volge di nuovo a loro favore ed è probabilmente per l’entusiasmo conseguente a ciò che, quando al congresso di Gela i comandanti ateniesi danno il loro consenso agli alleati per firmare anche a nome loro la pace in Sicilia, tornati in patria vengono puniti chi con l’esilio chi con una multa. Il commento tucidideo è infatti ancora una volta chiarificatore della logica sottostante ad azioni del genere: «nella fortunata condizione presente ritenevano che niente si sarebbe opposto a loro ma avrebbero compiuto ugualmente il possibile e l’impossibile e con preparativi tanto grandi quanto insufficienti. La causa era il successo inaspettato di parecchie imprese che dava forza alle loro speranze» (4, 65, 4).
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Che l’illusione della vittoria costituisse un vero e proprio abbaglio cognitivo in entrambe le parti doveva essere evidente a molti, perché nel 421 anche Aristofane lo ribadisce esplicitamente sulla scena comica: sia gli Ateniesi sia gli Spartani rifiutano la tregua a turno, ogni qualvolta una delle due parti si trova in posizione di vantaggio (Pace 211-9). Si andò avanti così fino alla fine della guerra. Nella sua ultima fase, il democratico ateniese Cleofonte, che alcune fonti presentano come uno squilibrato capopopolo, indusse più volte i suoi concittadini a rifiutare la pace. La prima volta nel 410, quando gli Spartani provarono a intavolare negoziati dopo essere stati battuti a Cizico ed egli invece eccitò il popolo illustrando la grandezza dei successi riportati, «come se la Fortuna non fosse solita assegnare a turno la supremazia in guerra» (Diod. 13, 53, 2). La seconda nel 406, quando di nuovo gli Spartani, vinti alle Arginuse, tornarono a chiedere un accordo sulla base dello status quo. Allora Cleofonte, secondo Aristotele (Cost. degli Aten. 34, 1), si sarebbe presentato in assemblea ubriaco e con la corazza addosso dichiarando che non avrebbe permesso che gli Ateniesi accettassero la fine del conflitto a meno che i nemici non avessero evacuato tutte le città. Infine, anche dopo la sconfitta, questa volta ateniese, ad Egospotami (405), egli avrebbe pubblicamente minacciato di sgozzare chiunque avesse solo pronunciato la parola «pace» (Esch., Falsa ambasc. 76)79. Alla fine, come sappiamo, gli Ateniesi accettarono di distruggere le Lunghe Mura della loro città e persero l’impero. Riproponendo la stessa dinamica, Dionisio I di Siracusa, dopo aver mosso guerra ai Cartaginesi nel 383, e averli duramente sconfitti, pretese, come condizioni per la pace che quelli gli chiedevano, il loro ritiro dalle città della Sicilia e il rimborso delle spese di guerra. Essi però, risultando loro «pesante e arrogante» questa richiesta, con un’astuzia riuscirono a rimettere in sesto l’esercito e, «ricordandosi del male» (mnesikakéo), fecero una grande strage dei nemici, anche se poi si comportarono «da uomini» e si limitarono ad ottenere il ritorno alla situazione anteriore alla guerra, oltre che il territorio di Selinunte 79 Una lettura positiva è invece in Lisia, Contro Agor. 8: a proposito della pretesa spartana che Atene abbattesse, per dieci stadi da ogni lato le sue Lunghe Mura, «Cleofonte, alzatosi in vostra difesa, replicò che in nessun modo era accettabile fare ciò».
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e di Agrigento e il rimborso di mille talenti (Diod. 15, 15-7). Ancora dopo, Platone (Epist. VIII, 353d-e) individua lo stesso meccanismo nel conflitto siracusano tra il partito dei dionei e quello di Dionisio II e lo mostra loro: «quante volte ciascuno di voi ha avuto la speranza che mancasse sempre poco perché si compisse tutto secondo la vostra intenzione, e ogni volta questo poco accade che sia causa di grandi e infiniti mali, e non se ne raggiunge mai il limite ma sempre quella che sembra essere la fine antica si collega ad un nuovo nascente inizio, e c’è il rischio che siano distrutte da questo circolo tutta la razza dei tiranni e quella del popolo».
Dunque, il gioco drammatico della guerra costituisce una vera e propria trappola, perché ha una dinamica propria e in parte oscura e aleatoria, e chi non sa riconoscerlo è disposto a fare accordi solo quando si trova in posizione di inferiorità, ovvero non solo quando sarà forse l’altra parte, adesso in vantaggio, a non volere far pace.
8. Propaganda (1). Ovvero la prima vittima è la verità Per vincere una guerra non basta disporre di truppe. Bisogna avere strategia e bisogna saper ‘comunicare’: sia con i propri soldati (e qui non mi riferisco più ai discorsi parenetici che precedono la battaglia) sia col nemico. Riguardo alla comunicazione, vale in entrambi i casi la regola che in guerra la prima vittima è la verità. Basti pensare, riguardo ai nostri giorni, all’invenzione della notizia che Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa con cui fu giustificata da George W. Bush la guerra in Iraq nel 2003 o all’incredibile negazione da parte di Vladimir Putin dell’invasione dell’Ucraina ancora mentre schierava le truppe per la sua attuazione, immediatamente prima del 24 febbraio 202280.
80 Per un freddo studio delle falsità (comprendenti anche insabbiamenti, allarmismi e miti nazionalisti) nei rapporti internazionali odierni, cf. Mearsheimer 2010 (per la posizione dell’autore, cf., tra i primi righi del suo capitolo 9, Conclusione: «I capi di Stato non solo mentono ad altri Paesi, ma anche al proprio popolo, e lo fanno perché credono di agire nel migliore interesse del Paese. E a volte hanno ragione»).
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La prima vittima è la verità, in realtà, per molte ragioni. Innanzitutto perché, come è facile rilevare nei racconti di conflitti in cui si affrontano popoli culturalmente molto distanti, il narratore stesso, che appartiene, o è più vicino, a una delle due culture – anche quello che vuole essere il più obiettivo possibile – vede i fatti alla luce delle categorie di quella cultura. Carmine Catenacci ha mostrato tale dinamica nell’analisi del racconto erodoteo delle guerre persiane e, comparativamente, in quello della prima Guerra del Golfo (1990-1991) fatto dai media occidentali. Nel primo caso, ai Greci sono attribuiti tutti i valori ritenuti positivi (amore per la libertà, riconoscimento della sovranità della legge, coesione) laddove in Oriente domina il despotismo, la partecipazione alla guerra dettata dalla paura del potere, la mancanza di disciplina, l’empietà, la slealtà. Nel secondo, si applica uno schema pienamente parallelo contrapponendo la libertà, la giustizia, la democrazia occidentale che conduce una guerra ‘chirurgica’, con bombe ‘intelligenti’ che prendono di mira solo i militari della parte avversa, all’autocrazia e assolutismo di Saddam Hussein il quale, nella sua barbarie, al comando di un esercito di coscritti demotivati, non esita a prendere in ostaggio civili81. È praticamente lo stesso rigido schema con cui i nostri media hanno quotidianamente bombardato il loro pubblico nel racconto della guerra iniziata con l’invasione russa dell’Ucraina dal 24 febbraio 2022 in poi (dove, è superfluo ribadirlo, mi pare ben chiaro che ci sia un aggressore e un aggredito, come d’altronde anche nella Guerra del Golfo). Inoltre, per tornare alla Grecia antica, le parti in guerra, vivendo in un clima di sospetto reciproco (quel clima che, peraltro, fa sviluppare Catenacci 1999. E in particolare a proposito del leader avversario, a lui «si attribuiscono quelle che nella propria cultura sono le colpe più gravi, specialmente contro i più deboli e contro spazi ritenuti inviolabili; egli, quasi sempre psichicamente turbato, incarna la peggiore eterodossia. Un nemico particolare diventa così il nemico della natura e dell’ordine e addirittura del suo stesso popolo; la guerra si trasforma nella guerra del mondo civile e libero, che combatte nel nome e col sostegno della divinità, contro l’inciviltà e il despotismo. Le vittorie del nemico sono frutto di insidie e di slealtà, le proprie di valentìa e intelligenza» (ivi 192-3). In particolare, per la caratterizzazione, che diventa topica, dell’esercito barbaro come disordinato, anche a causa della sua multietnicità (a fronte di quello greco e di quello macedone come disciplinati e coesi) cf. Gazzano 2018. 81
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un sistema di spionaggio, sia occasionale sia organizzato, o uno stato di segretezza anche nei confronti della propria parte)82, elaborano spesso interpretazioni dei fatti basate appunto sulla diffidenza. Ad esempio, agli inizi della guerra del Peloponneso gli Ateniesi attribuiscono ad un avvelenamento delle acque compiuto dai nemici le morti che in principio non sanno spiegare e che sono dovute in realtà alla famosa peste (Tuc. 2, 48, 2) – fermo restando che l’ipotesi iniziale di per sé non era insensata, se un espediente di tal genere era stato messo in atto dai Persiani nel territorio di Platea (Erod. 9, 49, 2) e già prima dagli anfizioni che assediavano la città di Cirra (Polieno, Strat. 6, 13)83. Non molto diversamente, i due missili caduti in Polonia, al confine con l’Ucraina, il 15 novembre 2022, sono stati subito attribuiti alla Russia e, una volta appurata unanimemente (tranne che per il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky) la provenienza dall’Ucraina (che li aveva lanciati per errore), la Nato ha serenamente dichiarato che però «Kiev non ha colpa: è stato effetto degli attacchi russi»84! Poi ci sono i casi in cui la diffusione di informazioni false o la non accettazione di notizie vere sono originate da meschini scopi
82 Sullo spionaggio in Grecia cf. Starr 1974, con l’utilissimo saggio introduttivo, con aggiornamento bibliografico, di C. Petrocelli, Il sorriso del lupo, 21-66. Per la condizione di segretezza, mi limito a ricordare che durante la guerra del Peloponneso il re spartano Agide, guidando l’esercito contro Leuttra, non comunica la meta della spedizione neppure alle città che avevano inviato truppe (Tuc. 5, 54, 1), e che nel 396 Imilcone dà ai piloti delle navi con cui si appresta ad attaccare i Sicelioti una lettera con il nome del luogo in cui approdare da aprire solo dopo che abbia salpato in modo che eventuali spie non possano comunicarlo a Dionisio (Diod. 14, 55, 1). Trattatisti militari come Enea Tattico (Poliorc. 22, 7-8), Filone di Bisanzio (Trattato di meccanica C 34-8, in Garlan 1974, 311), Onasandro (Strateg. 10, 24) invitano a non dare informazioni ‘sensibili’ in anticipo ai soldati o ai cittadini e a cambiare spesso la parola d’ordine. Polibio (9, 13, 2-5) raccomanda di tacere «non solo con la lingua ma anche, e di più, con l’anima», perché la manifestazione di espressioni emotive ha spesso tradito i piani concepiti. 83 Per quest’ultimo caso cf. Grmek 1979, che ne tratta nel contesto delle «astuzie di guerra biologiche» dell’antichità (come quella descritta da Polieno, Strat. 2, 30, a proposito del tiranno Clearco di Eraclea che fa accampare a bella posta in un luogo mefitico un esercito di concittadini che intende eliminare). 84 Cf. https://www.ilsole24ore.com/art/capo-stato-maggiore-usa-kiev-probabilita-vittoriamilitare-non-e-alta-AEYKlnHC e https://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2022/11/16/usamissile-in-polonia-ucraino-ma-responsabile-e-russia-d5e6730d-6b06-44c8-a413-00e25ad57b12. html (consultati il 17.11.2022).
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personali. Nella prima tipologia rientra l’iniziativa di Leocrate che, fuggito a Rodi, per giustificare il suo allontanamento da Atene dopo la sconfitta inflittale da Filippo II a Cheronea (338) andava dicendo che il Pireo era sotto assedio (Licurgo, Contro Leocr. 18). Nella seconda tipologia, possiamo porre il caso di Cleone che nega la veridicità delle notizie secondo cui gli Spartani assediati nell’isola di Sfacteria non sono in difficoltà, solo perché vuole allontanare da sé i sospetti di aver consigliato male agli Ateniesi il rifiuto delle proposte di pace spartane (Tuc. 4, 27, 3). A volte la divulgazione di certe notizie ha lo scopo di depistare dalle proprie vere intenzioni o di confondere le acque. Anzi, ciò è da manuale in senso stretto, tant’è che casi del genere sono citati esemplarmente da trattatisti militari come Enea Tattico (IV sec.) e Polieno (II sec. d.C.)85. Benché se ne possano aggiungere molti altri, mi limito a citarne solo un paio. Secondo una tradizione, già Solone aveva strappato Salamina ai Megaresi servendosi di un finto disertore che aveva fatto cadere i nemici in una trappola informandoli che avevano la possibilità di rapire le donne ateniesi di alto rango riunite per certi riti religiosi a capo Coliade: quando si recarono lì, invece, i Megaresi trovarono dei soldati che, travestiti con abiti femminili, li colsero di sorpresa e li trucidarono (Plut., Sol. 8, 4-6). Il persiano Zopiro, fedelissimo di Dario sarebbe arrivato a mutilarsi orribilmente per far credere ai Babilonesi di essere un vero disertore e in questo modo, acquistata la loro fiducia, portarli alla rovina (Erod. 3, 154 sgg.): si tratta sicuramente di un gesto estremo, ma che al contempo mostra che in guerra nessuna ‘evidenza’ è mai davvero «prova» di qualcosa. Altre azioni miravano a minare la coesione del fronte nemico col far nascere sospetti sulla lealtà dei comandanti. Per un sospetto del genere in effetti il re spartano Plistoanatte era stato esiliato, dopo che, nel 446, aveva fermato la sua avanzata contro l’Attica ad Eleusi laddove avrebbe potuto proseguire (Tuc. 2, 21, 1; cf. 1, 114, 2). Che i nemici possano cercare di mettergli contro i suoi concittadini ipotizza Pericle quando teme che Archidamo riceva dagli Spartani l’ordine di
85 Cf. Enea Tatt., Poliorc. 9, 1-2 e Polieno, Strat. 1, 9; 1, 15 etc.; cf. anche Plut., Alcib. 31, 3.
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invadere l’Attica senza però devastare i campi di sua proprietà (2, 13, 1)86, e un piano analogo è attuato da Alessandro Magno nel momento in cui, in Asia, raccomanda ai suoi soldati di risparmiare dalle loro razzie i possedimenti di Memnone (Polieno, Strat. 4, 3, 15). Pericle, peraltro, era stato oggetto di tentativi di discredito presso l’opinione pubblica ateniese da parte degli Spartani già quando questi, in cerca di un pretesto formale per iniziare la guerra, avevano preteso che Atene cacciasse chiunque fosse implicato in un sacrilegio di circa duecento anni prima. Infatti, sapendo che in esso risultava coinvolto a causa di antenati per parte di madre anche Pericle, contavano che questi o sarebbe stato esiliato o, nel caso che fosse rimasto ad Atene sarebbe stato accusato dai suoi stessi concittadini del fatto che la guerra era scoppiata anche a causa sua (Tuc. 1, 126-7). Non solo la disinformazione e il tentativo di produrre la diffidenza interna al campo nemico hanno un ruolo importante. Anche la verità ne ha uno non meno fondamentale; infatti, si possono anche far arrivare al nemico, a bella posta, per propri scopi strategici, informazioni corrette. Serse, invece di uccidere le spie greche catturate, le porta in giro ad osservare le sue numerose truppe, in modo che i Greci, consapevoli della sua potenza, ne siano spaventati e si arrendano (Erod. 7, 146-7); in modo praticamente identico agisce Scipione quando prende prigionieri degli infiltrati cartaginesi (Pol. 15, 5, 4-7; Appiano, Libr. cartag. 162), e, nel suo manuale militare, Onasandro (Strateg. 10, 9) suggerirà la stessa condotta ai comandanti che abbiano truppe superiori a quelle dei nemici (suggerisce anche, complementarmente, di uccidere le spie quando invece le sue forze siano più deboli). Temistocle, poi, per impedire ai Greci di salpare per il Peloponneso e costringerli a combattere invece sull’Istmo, dove si trovano e dove a lui sembra opportuno affrontare i Persiani, manda a dire ai nemici, come se stesse tradendo, che i Greci, impauriti, intendono scappare e quindi è il momento di attaccarli prima che riescano a farlo: in breve, per raggiungere il suo scopo, dice quel che
86 Per una considerazione strategica di Archidamo volta a minare la coesione interna ad Atene, cf. Tuc. 2, 20, 4.
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i Greci si accingono a fare davvero, ma non le loro vere motivazioni (Erod. 8, 75-80)87. Poi, la verità non appartiene alla guerra perché fa parte dei piani militari di chi gestisce le operazioni non dare informazioni sulle proprie cattive condizioni, in quanto esse demoralizzerebbero il proprio esercito, ma piuttosto sostituirle con notizie false che possano incoraggiarlo. In particolare, è importante «la guerra delle cifre: si enfatizzano le perdite altrui e si minimizzano le proprie»88. Così, in cerca di alleati contro i Persiani, Aristagora di Mileto tenta di persuadere prima gli Spartani e poi gli Ateniesi sostenendo che i nemici, a causa della loro impreparazione, erano facili da vincere (5, 49, 3-4 e 97, 1). Quanto al numero dei soldati in campo, anche lo storico – come l’odierno giornalista operante in teatri di guerra – può avere difficoltà ad averne contezza. Tucidide lo dichiara a proposito dello scontro tra Spartani e Argivi, con i loro rispettivi alleati, nel 418: il numero dei primi non è calcolabile «a causa della segretezza che circonda la loro costituzione politica», e quello dei secondi «per la tendenza degli uomini a vantarsi del numero delle proprie forze» (5, 68, 1). A tal proposito, viene in mente, ma per l’eventuale calcolo delle perdite inflitte ai nemici, il verso di Archiloco «di sette caduti morti che raggiungemmo a piedi, mille siamo gli uccisori» (fr. 101 West2 = 97 Tarditi), o la considerazione generale di Senofonte secondo cui «è difficile trovare casi in cui non si menta affermando di avere ucciso più nemici di quanti ne siano davvero morti» (Ier. 2, 16). Il massimo di finzione si realizza forse quando il campo di battaglia diventa un vero e proprio teatro, in cui gli attori del conflitto arrivano a costruire deliberatamente una vera e propria scenografia. Così fece Serse, secondo Erodoto (8, 24-5), dopo la sconfitta alle Termopili: dei suoi circa ventimila soldati morti lì, ne lasciò visibili sul terreno un migliaio e fece coprire gli altri con terra e fogliame, poi invitò il resto delle truppe che non aveva partecipato allo scontro ad andare a vedere il luogo della battaglia e a rendersi conto in tal modo che per i Greci era impossibile resistere ai Persiani – anche se, 87 Tuttavia, dopo la vittoria, Temistocle trattiene i suoi soldati dall’inseguire i nemici per ingraziarsi Serse, al quale comunica appunto il favore che gli ha reso (Erod. 8, 109-10). 88 Catenacci 1999, 193.
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commenta Erodoto, il trucco era ridicolo, in quanto i cadaveri dei Greci risultavano ammucchiati tutti in uno stesso posto. La fabbricazione di una falsa realtà è attuata anche da Trasibulo, tiranno di Mileto, in un altro racconto erodoteo. Egli ordina ai suoi cittadini che, nel momento in cui giungerà l’araldo del suo nemico Aliatte, si mettano a mangiare davanti a tavole abbondantemente apparecchiate in pubblico e mostrino di essere sereni e contenti. Ciò, effettivamente, fa credere ad Aliatte che i Milesi abbiano le risorse per resistere bene alla guerra e lo rende disponibile a stipulare la pace (1, 21-2). Durante la guerra del Peloponneso, anche i Segestani, quando gli ambasciatori ateniesi si recano presso di loro per verificare se le loro condizioni economiche siano tali da sostenere l’aiuto militare da loro richiesto nella guerra contro Selinunte, ricorrono al trucco di esibire false ricchezze pubbliche e private, facendosi perfino prestare coppe d’oro e d’argento da altre città e esponendole, sempre le stesse, in più case; così, l’assemblea ateniese, nella primavera del 415, vota tranquillamente l’intervento rendendosi conto dell’inganno solo quando è troppo tardi (Tuc. 6, 8, 2 e 46, 3-5). Un analogo stratagemma, consistente questa volta nel far apparire come cumuli di cereali quelli che sono invece mucchi di sabbia ricoperti solo in superficie da uno strato di grano, sarebbe stato adottato da Biante quando Aliatte aveva assediato Priene (Diog. Laerz. 1, 83)89.
9. Propaganda (2). Altre forme di distorsione comunicativa e qualche esempio di cancel culture Come ho detto, le esigenze della guerra possono prevedere la trasmissione di false notizie anche alla propria parte e ai propri soldati. Per Erodoto, è addirittura concepibile che l’esercito persiano finga un attacco a quello focese suo alleato per metterlo alla prova (9, 18, 2). Nel 411, dopo la presa del potere oligarchico dei Quattrocento ad Atene, il democratico Cherea, che rientrava da Samo, appena si rese conto del nuovo regime vigente, tornò nell’isola e, per aizzare i soldati ateniesi che erano di stanza lì, si mise a raccontare loro i fatti Per un’altra simile messinscena cf. Polieno, Strat. 7, 36.
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ateniesi provvedendo però, secondo Tucidide, a esagerare la brutalità degli oligarchici (epí tó méizon pánta deinósas); con una sorta di piccola reductio ad Hitlerum90, egli riferiva che i nuovi governanti avevano instaurato un clima di terrore: punivano tutti con percosse senza che fosse possibile parlare contro di loro, violentavano le mogli e i figli dei concittadini e avevano intenzione di imprigionare e mettere a morte, se non avessero obbedito, i parenti dei soldati stanziati a Samo e contrari al regime (8, 74, 3). Dopo la battaglia navale di Cnido (394), lo spartano Agesilao riferì ai suoi, mentendo, che l’esito era stato favorevole agli Spartani (i quali invece erano stati sconfitti dai Persiani) e, per essere persuasivo, non esitò a piegare la religione ai suoi scopi mettendo in scena una celebrazione di sacrifici di ringraziamento agli dèi91. All’interno di una dinamica complementare a quella appena esposta, si comprende come a Siracusa il democratico Atenagora potesse sospettare che la voce secondo cui gli Ateniesi stavano per muovere contro la Sicilia fosse stata messa in giro a bella posta dagli oligarchici per diffondere paura e indurre la città ad affidarsi al loro comando (Tuc. 6, 36, 1-2 e 40, 2). Nel 320 Eumene di Cardia riuscì a nascondere al suo esercito, che egli sapeva avere ammirazione per il comandante nemico che era in procinto di attaccare, l’identità di quest’ultimo e a fargli credere che l’avversario era un altro – «un’impresa che mi sembra essere stata specifica di questo comandante», commenta Plutarco (Eum. 6, 6-12)92. Nel 201, Filippo V, dopo la battaglia navale di Chio, di cui cercò di attribuirsi la vittoria attaccandosi a un paio di dettagli favorevoli, senza però potersi astenere dal riconoscere le gravissime perdite subite (e, in sostanza, la reale sconfitta che Attalo gli aveva inflitto), aveva perduto il suo slancio; tuttavia, a dire di Con tale espressione mi riferisco alla strategia retorica, peraltro molto utilizzata anche nel caso della guerra in Ucraina, che consiste nella demonizzazione del nemico, cui vengono attribuiti i crimini più mostruosi, come fosse un nuovo Hitler (per la forma originaria della reductio ad Hitlerum cf. Strauss 1950, 50). Da tali crimini i propri soldati vengono di norma presentati come esenti, e, se ne vengono scoperti dei casi, essi sono considerati eccezionali e si assicura la punizione per coloro che li hanno messi in atto. 91 Senof., Ell. 4, 3, 10-4; Plut., Ages. 17, 4-5. 92 Inganni del genere, però, non dovevano essere proprio rarissimi: Ciro, raccogliendo mercenari per combattere contro il fratello Artaserse II, li aveva arruolati dicendo invece che obiettivo erano i Pisidi (Senof., Anab. 1, 1, 11; 1, 4, 11-2; 3, 1, 9-10; cf. Diod. 14, 19). 90
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Polibio (16, 8, 8), «almeno di fronte agli estranei tentava in ogni modo di nascondere la sua stessa opinione». Sul campo di battaglia, poi, suggerisce Onasandro (Strateg. 23), si può gridare a un certo momento, «sia che ciò sia vero sia che no» e anche badando a farlo udire ai nemici, che una parte dell’esercito nemico (distante dal punto in cui ci si trova) è stata sconfitta, o che il comandante nemico è morto. Evidentemente i nemici si abbatteranno mentre il proprio esercito si incoraggerà. Tra i casi di bugie rivolte alla propria parte vale la pena citarne uno che si colloca in un contesto più ampio, in cui chi ha intenzioni offensive cerca di far sì che siano gli aggrediti a risultare aggressori. Mi riferisco a quanto raccontato da Dionigi di Alicarnasso (Ant. rom. 3, 2, 1-3, 6) a proposito di eventi del VII secolo concernenti i rapporti tra Albani e Romani (ne ho già fatto cenno più sopra, in 1.1.1.). L’albano Gaio Cluilio, eletto alla massima magistratura ma invidioso del benessere della città vicina e «per natura ostinato e piuttosto insano di mente», suggerisce ai suoi concittadini di compiere delle piccole scorrerie nel territorio romano confinante, per spingere i vicini a reagire con l’esercito e apparire quindi responsabili della guerra vera e propria; poi, quando questi ultimi si armano e uccidono o catturano gli autori delle razzie, indice un’assemblea alla quale fa partecipare i feriti e i parenti di quelli che erano stati presi prigionieri e, oltre a raccontare fatti veri, ne aggiunge altri inventati. È chiaro che egli (o il narratore di questa storia) si rendeva conto che la mescolanza del vero e del falso era più efficace della sola invenzione del falso93. Quindi, in ossequio agli accordi vigenti tra le due città di darsi reciprocamente soddisfazione di eventi del genere, manda ambasciatori a Roma a questo scopo, ma il re romano Tullo, compreso l’inganno, trattiene con pretesti gli ambasciatori e manda a sua volta ad Alba dei suoi ambasciatori con la stessa missione in modo che sia Cluilio ad assumersi la responsabilità di non dare soddisfazione di ciò che gli Albani avevano fatto ai Romani. 93 Si trattava di una modalità non certamente unica: per un altro esempio di menzogne persuasive (calunnie di Agatocle nei confronti di Tlepolemo che accusava di trame contro il re bambino Tolomeo V) basate su avvenimenti di cui viene distorto (diastrépho) il senso, su falsificazioni (plátto) e manipolazioni (diaskeuázo), cf. Pol. 15, 25, 34-5.
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Non sfugga che, nella versione accolta nell’Elena di Euripide, per un inganno voluto dagli dèi che avrebbero fatto sì che Paride rapisse non Elena ma un suo fantasma – per un equivoco, diremmo oggi – era scoppiata anche la guerra di Troia, portando alla domanda retorica cruciale: «dunque abbiamo sofferto fatiche solo per una nuvola?» (706), che è segno di quella consapevolezza che poi farà dire al Coro: «insensati quanti acquistate le virtù con la guerra e con i colpi della forte lancia cercando di fare cessare stupidamente le sofferenze dei mortali. Se infatti deciderà la gara di sangue, mai lascerà le città degli uomini la contesa con la quale ottennero le dimore (sotterranee) della terra di Priamo, benché fosse possibile sistemare con i discorsi la contesa per te, o Elena. Invece, adesso, quelli sono oggetto di cura, sotto, nell’Ade e la fiamma incendiaria, come quella di Zeus, si è abbattuta sulle mura (1151-62, passo dubbio in qualche punto)».
Un’ulteriore pratica propagandistica, questa volta potremmo dire di «non comunicazione», consiste nel rimuovere tutto ciò che nella propria città, o nella città conquistata, richiama aspetti positivi del nemico che prima della guerra non si mettevano in dubbio. Mi riferisco, insomma, alla pratica della cancel culture. Tale mi pare che possa essere considerato l’insieme di provvedimenti presi da Clistene di Sicione, in guerra con Argo. Egli vietò la recitazione dei poemi omerici, in quanto in essi è continuamente presente il nome «Argivi» – un divieto cui assomigliano le recenti interdizioni, poi ritrattate, di conferenze su autori della letteratura russa in Italia94 –, e la pratica del 94 Ricordo, p. es., la cancellazione da parte dell’Università di Milano-Bicocca, verso i primi di marzo 2022, del ciclo di lezioni di Paolo Nori su Dostoevskij. Una volta capito lo scivolone, il rimedio, consistente nel permettere le lezioni su Dostoevskij aggiungendone anche su autori ucraini, è stato peggiore del male, perché cercava una incredibile par condicio tra letterature che niente avevano a che fare, ovviamente, con la legittimazione dell’invasione russa: tant’è che Nori ha deciso di non accettare la condizione posta dall’università. Per limitarmi a un altro caso solo: Umberto Galimberti, nel corso della trasmissione televisiva In onda del 16 aprile 2022, criticava, in sintonia con la Chiesa Ucraina di Roma, la decisione papale di far tenere la croce, in occasione della celebrazione del Venerdì Santo, a una donna russa e a una donna ucraina, con la seguente, per me semplicemente imbarazzante, dichiarazione: «Mah, io do ragione alla chiesa latina ucraina. Come si fa a chiedere alla chiesa latina ucraina di consentire che la croce sia portata da una donna russa e una donna ucraina? Non si capisce il dolore di questa gente? (…) la psiche ha bisogno di tempo per fare queste cose. (…) come si fa a chiedere a chi ha subìto ferocia di essere accompagnato da un russo, da una russa
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culto di Adrasto di Argo (poi, però, data l’obiezione della Pizia, solo ridimensionato mediante l’escamotage di dare spazio al culto del suo nemico Melanippo e di assegnare a Dioniso i cori che celebravano le sofferenze di Adrasto), inoltre mutò i nomi delle tribù doriche affinché non coincidessero con quelli utilizzati nella città nemica (Erod. 5, 678); analogo provvedimento a proposito delle tribù prese ad Atene Clistene, nipote dell’omonimo sicionio, che, per disprezzo degli Ioni, cambiò i nomi delle tribù e il loro numero, prima coincidenti con quelli ionici (5, 69). Nella stessa ottica ‘cancellazionistica’ si possono leggere le politiche di abbattimento, reintegro, erasione o riscrittura di stele di decreti, a volte con funzione di damnatio memoriae, in occasione di traumatici cambi di regime o di mutamenti della linea governativa. Ad Atene, il 404, anno dell’arcontato di Pitodoro, in cui era stato instaurato il regime dei Trenta tiranni, fu chiamato, abbastanza paradossalmente, «l’anno senza arconte» (Senof., Ell. 2, 3, 1). Siamo dunque in presenza di strategie di revisione del passato per le esigenze del presente95, e talvolta si giunge a decretare preventivamente la cancellazione da ogni pietra, compresa quella tombale, del nome di chi sovverta la costituzione vigente96. Di nuovo a Sicione, ma nel III sec., Arato, quando libera la città dalla tirannide, benché apprezzi la cultura iconografica, fa subito distruggere, contrastato almeno in parte dal pittore Nealce, le immagini dei tiranni (Plut., Arato 12, 6-13, 5) – una pratica normale ancora oggi97. A Siracusa, Timoleonte, fatta cadere la tirannide, vende le statue di coloro che l’avevano detenuta, tranne quella di Gelone in questo caso, o comunque da una figura dell’aggressione, come se fosse un amico o un’amica? Dai, cerchiamo di capire che la psiche umana non ce la fa a fare queste cose, (...) sarebbe come se nel 1943-44, quando è cominciata la Resistenza partigiana, Pio XII avesse fatto una via crucis con un italiano e un tedesco! Ve la immaginate una cosa del genere?» (https://www.la7.it/in-onda/rivedila7/in-onda-16-04-2022-434424, minuti 11:20-12:34; consultato il 20.04.2022). Senonché, fuori dal mondo astratto della psiche di Galimberti, una concreta signora russa e una concreta signora ucraina, naturalmente senza alcuna costrizione esterna, avevano già scelto di accompagnarsi reciprocamente e di essere persone che restavano amiche. 95 Cf. Culasso-Gastaldi 2003. 96 Cf. Bertrand 1999, 62 (ed. telemat.). 97 Basti ricordare l’abbattimento dell’enorme statua di Saddam Hussein alla fine violenta del suo regime.
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che era ammirato per la vittoria sui barbari Cartaginesi a Imera (Plut., Timol. 23, 1-2). Anche se in quest’ultimo caso lo scopo principale sembra di carattere economico, il fatto che ad essere messe in vendita siano quelle specifiche sculture e non altre mi pare non lasciare dubbi che l’aspetto politico della faccenda non era di poco conto. Nel corso della cosiddetta guerra sociale, tra la lega Achea guidata da Filippo V e la lega Etolica (220-217), gli Etoli marciano contro la Macedonia e a Dion, ai piedi del monte Olimpo, distruggono le mura, le case, il ginnasio, i portici intorno al santuario, le offerte votive e tutte le statue dei re, mostrando così, a dire di Polibio (4, 62, 2)98 la loro empietà; e poco dopo i Macedoni rendono loro la pariglia devastando Termo, in Etolia, dove non si limitano a saccheggiare le case ma, ancora secondo Polibio, proprio perché si ricordano di cosa era stato fatto a Dion99, abbattono anche non meno di duemila statue risparmiando – e in tal modo si distinguono in qualche misura dai nemici – solo quelle degli dèi (5, 9, 2-3 e 6)100. Pur con differenze, si può avvicinare ai fatti ora richiamati l’episodio di cui è protagonista Alessandro Magno dopo la conquista di Susa: quando vede una grande statua di Serse rovesciata da quelli che avanzano verso la reggia, egli si chiede, anzi chiede alla scultura, come se essa fosse il sovrano in carne e ossa, se deve passare oltre e lasciarla a terra dato che è stato un invasore della Grecia o rialzarla per la virtù che ha mostrato e, dopo avere riflettuto, passa oltre (Plut., Aless. 37, 5).
98 Ci sono motivi per credere, però, che la consueta ostilità di Polibio verso gli Etoli lo abbia portato ad esagerare: cf. Thornton 2001, ad loc. 99 Polibio sembra riconoscere, pur non condividendolo e forse con una qualche punta di ironia, il punto di vista di Filippo che, agendo così, era convinto di comportarsi «giustamente e doverosamente». Analogo riconoscimento, più esplicitamente ironico in quanto viene denunciata la sua empietà (ma sempre restando capace di vedere le cose anche dal punto di vista di Filippo), in 15, 22. Per l’empietà di Filippo V, descritta minuziosamente nelle sue azioni, cf. anche 16, 1, 1-6. 100 Lo stesso Polibio (39, 2), narrando la presa di Corinto (146), lamenta il disprezzo dei soldati romani per le opere d’arte (li aveva visti di persona «mentre giocavano alla pettéia», un gioco da tavolo, sui quadri), ma sembra descrivere il fatto come segno di ignoranza e non di ‘talebana’ volontà di cancellazione della cultura del popolo sconfitto. Alla rimozione o riesumazione di statue in occasione di mutamenti politici si fa riferimento in 36, 13, 1.
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10. Tenere alto il morale dei propri soldati e prostrare quello dei nemici (1). Impaurire, ingiuriare, provocare Concretamente la guerra si fa con i corpi. Ma i corpi sono spinti a trovare le energie necessarie ad affrontare i pericoli dalla fiducia nella vittoria. Nutrire lo spirito dei propri soldati di tale fiducia, debilitare quello dei nemici è allora fondamentale per la riuscita di un’impresa. L’esibizione di potenza mira ad ottenere l’uno e l’altro scopo. Per Erodoto, il traforo del monte Athos da parte del Gran Re di Persia che invadeva la Grecia era finalizzato appunto «a mostrare la propria potenza e lasciare un ricordo di sé» (7, 24). Nel 428, mentre i Peloponnesiaci si preparano ad effettuare la terza invasione dell’Attica, gli Ateniesi, avendo compreso di essere disprezzati per la loro presunta debolezza, vollero mostrare la loro forza e misero in mare cento navi per fare una dimostrazione (epídeixis) lungo l’Istmo ed effettuare degli sbarchi nel Peloponneso (Tuc. 3, 16, 1). Nel 415, il suggerimento (non accolto) di Nicia dopo la scoperta dell’inganno di Segesta sull’effettivo stato delle risorse finanziarie è sì, come ho detto più sopra (2.6.), di tornare in patria, ma dopo avere navigato lungo la costa «esibendo la potenza» di Atene a tutte le città (6, 47), e la magnificenza della flotta inviata in Sicilia, d’altronde, «assomigliava» a (o intendeva essere anche?) una mossa esibizionistica (6, 31, 4). Preparando la guerra contro Cartagine, Dionisio I di Siracusa provvide ad equipaggiare i suoi mercenari con armi tipiche dei popoli da cui essi provenivano, sia per fare loro utilizzare quelle a cui erano abituati sia perché pensava che tale varietà avrebbe prodotto nei nemici molto terrore (katáplexis) (Diod. 14, 41, 5). Lo sfoggio spettacolare della forza avveniva anche in altre forme e tutte avevano lo stesso scopo intimidatorio. Nei poemi omerici, il poeta mostra di conoscere bene il ruolo giocato dall’esigenza di ogni guerriero di incutere paura a chi gli sta di fronte. Già ho detto (cf. supra 2.4.) che questa funzione era assolta sia dallo scudo di Agamennone sia da quello di Achille. Il primo, come quello di Atena, ha effigiate delle immagini corrispondenti al potere terrorizzante del sovrano. Nel secondo, è la luminosità che produce paura, ma in realtà, a determinare questo effetto psicologico è il bagliore delle armi in generale – degli elmi «splendenti», delle corazze «rese smaglianti 110
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di fresco», degli scudi «lucenti» – probabilmente per il fatto che esso acceca gli occhi del nemico (Il. 13, 340-2); non a caso, al vedere Achille, «rifulgente nelle armi, pari ad Ares sterminatore», i Troiani sono invasi da «un terribile tremore» (20, 44-6). Effetti devastanti sulla mente dei nemici devono produrre anche i rumori, a partire da quello della corazza che si muove sul busto dei guerrieri. A proposito di Diomede, per esempio, viene detto che «il bronzo sul petto del sovrano risuonava terribilmente, anche un uomo intrepido avrebbe avuto timore» (4, 420-1). Nella mischia, in cui agiscono Ares, Atena, Timore, Paura, Contesa (439-40), si odono il tumulto dell’urto di lance e scudi, e il gemito degli uccisi e il grido di gioia degli uccisori (447-51), e il «fracasso e lo sforzo di quelli che si scontravano» (456). I Greci e i Troiani combattono all’insegna di altissime grida (14, 394-401), l’urlo tremendo di Achille, qui connotato, oltre che per il fulgore che emana, per la voce «sonora» e «bronzea», spaventa e mette in fuga più volte i nemici (18, 206-29)101, e un attributo di guerrieri come Diomede ed Ettore è «forte nel grido» (5, 596; 13, 123). Tali mezzi per spaventare il nemico non appartengono soltanto al repertorio arcaico dell’epica. Tutta l’epoca antica sa che la vista e l’udito, cioè i sensi con cui gli eserciti hanno il primo contatto ognuno con l’altro, devono essere colpiti e soggiogati. Riguardo alla prima, Senofonte (Cost. degli Spart. 11, 4), riferendo l’uso spartano di portare i capelli lunghi, lo spiega dicendo che in tal modo essi risultano «più grandi di statura, più nobili e più terribili» (e si ricordi che già gli Achei omerici sono «dai lunghi capelli»: p. es. Il. 2, 28), e anche Gorgia (Enc. di El. = 82 B 11, 16 D-K) insegna come la vista dei nemici che si armano «di bronzo e ferro» scuota l’anima e le incuta paura. Nel prosieguo del tempo il bagliore delle armi conserva a tal punto la sua caratteristica terrificante che anche il manuale di guerra di Onasandro raccomanderà al buon comandante di schierare in campo un esercito «splendente», che abbia le armi, gli elmi e le corazze «smaglianti», perché così i soldati appariranno «terribili» e la paura sconvolgerà l’animo dei nemici già solo alla vista (Strateg. 28).
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Cf. Menichetti 2009, part. 99 sgg. 111
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Per quanto concerne l’udito, si può ricordare che Diodoro, a proposito dell’inizio della battaglia di Imera (480), racconta che, dopo il segnale di tromba, sia nel campo cartaginese sia in quello siceliota si leva l’urlo, e qui esplicita: «poiché entrambe le parti ambivano a superare con la forza del grido quelli schierati di fronte» (11, 22, 2); altrove, a proposito dei soldati che si scontrano a Mantinea nel 362, lo storico spiega che «con la potenza dell’urlo annunciavano la vittoria» (15, 85, 3): in entrambi i casi abbiamo un’esibizione di muscoli… vocali. Non si tratta di un’esibizione fine a se stessa. Quando gli Ateniesi mettono in atto «un attacco accompagnato da grida, il panico (ékplexis) si diffonde» tra i nemici (Tuc. 4, 34, 2)102. Perciò i comandanti del fronte opposto hanno tra i propri compiti anche quello di neutralizzare l’effetto di questo apparato spettacolare, come mostra l’esempio di Brasida che, davanti all’avanzata dei nemici urlanti, tranquillizza i suoi soldati dicendo loro che l’aspetto terribile, le armi agitate a vuoto costituiscono una pressione «per la vista e per l’udito» ma non corrispondono a nessun reale pericolo (4, 126, 5-6)103. Tali azioni teatrali servono a galvanizzare chi le compie e a frastornare emotivamente e a mettere in difficoltà il nemico (cf. p. es. Diod. 15, 86, 5). In guerra nessun popolo tralascia di ricorrervi, perché, effettivamente, producono risultati104. Caso mai, qualcuno usa mezzi diversi da quelli degli altri. Così, Polibio, a proposito della battaglia di Talamone (225), sottolinea che lo strepito dei Celti, con i loro numerosissimi suonatori di corno e di tromba, e lo spettacolo di quelli che erano schierati in armi in prima fila nudi per mostrare il corpo nel pieno vigore delle forze impressionavano (ekplétto) i Romani (2, 29, 6-7). Onasandro dedica un capitolo del suo trattato militare anche alla funzione psicologica delle grida e dell’aspetto dell’esercito (Strateg. 29). Plutarco, a sua volta, nota che i Parti, «ben
102 Su ékplexis e katáplexis, come emozioni-shock collettive, in Tucidide, cf. Cusumano 2011. 103 Sulla paura nei racconti di battaglia in Tucidide, cf. De Romilly 1956, 123 sgg. 104 Cf., ad es., Plut., Crasso 24, 1 (insieme al bagliore delle armi); Fabio Mass. 11, 6. In una città assediata le donne in particolare risultano vittime della paura prodotta dal clamore nemico (Esch., Sette contro Tebe 239-40), ma già solo questo doveva contribuire a creare un clima di disordine generale.
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consapevoli che tra i sensi l’udito è il più sconvolgente per l’anima, smuove più rapidamente emozioni e più di tutti altera la facoltà del pensiero», sono soliti incitarsi alla battaglia non con corni e trombe ma con tamburi che producono un suono cupo e terribile, una mistura di ruggito selvaggio e tuono fragoroso105. La guerra, senza per questo perdere nulla della sua ferocia, è una pratica teatrale – lo si è già visto, in realtà – anche più alla lettera di quanto voglia la nostra espressione «teatro delle operazioni belliche». Tale teatralità prevede anche altre forme di ‘recita’. Gli eroi omerici, è noto, si sfidano, si provocano, si scherniscono l’un l’altro. Queste forme espressive fanno parte del sistema di vanterie aristocratico, ma anche di un gioco psicologico praticato a scopo bellico106. Diomede, accingendosi a scagliare la sua lancia contro Paride di cui ha appena schivato il colpo, gli rivolge efferate minacce di morte con le quali visualizza sarcasticamente davanti agli occhi del nemico la triste scena che seguirà alla sua uccisione: «scagliata da me, anche se sfiora un poco il bersaglio, l’arma è acuta e procura subito morte: si graffiano le guance della moglie, i suoi figli sono orfani e lui, arrossando col sangue la terra, imputridisce e intorno a lui ci sono più avvoltoi che donne» (11, 391-5). Prospettare al nemico, nell’imminenza del duello, che la sua famiglia non lo rivedrà più107 ha la funzione di ‘depotenziarlo’: l’immagine della condizione dolorosa di coloro che egli ama lo farà soffrire, gli farà perdere la sicurezza e la padronanza di sé e dunque lo renderà imprudente108. Gli eroi possono schernire il nemico anche per indurlo a battersi quando essi sono pronti a farlo, umiliandolo, magari alludendo al fatto che egli fugge perché è diventato «femmina» e «sciocca bambola» (Il. 8, 163-4), quando sia stato battuto. In quest’ultimo caso, l’altra parte, per non perdersi d’animo, può reagire dicendo a sé e al nemico che questi ha vinto solo per l’aiuto di qualche divinità: il che
Plut., Crasso 23, 9. Camerotto 2003, 472: «lo scherno e il ludibrio sono propri del vanto e dell’aikia». 107 Cf., p. es., Menelao in Il. 17, 27-8; 35-7. 108 Si noti che, quando il pensiero delle sofferenze dei propri cari non è indotto dal nemico, dunque non è per così dire imposto ma viene da se stessi, esso rafforza le proprie energie e il proprio coraggio (cf. p. es. Diod. 14, 52). 105 106
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non significa, come ci potrebbe sembrare, ammettere che l’altro ha ragione perché gli dèi sono con lui; infatti, si dice, non sarà sempre così (8, 141-2). Dunque, di nuovo, la guerra è fatta non solo con le armi ma anche con le parole e, con la psicologia e le smargiassate, queste fanno parte di essa non meno che le imprese militari. E, come cercherò adesso di mostrare, non solo in Omero. Infatti, anche le provocazioni e le sfide sono attestate storicamente e, senza che sia necessario credere ad ogni caso citato (specialmente a quelli che troviamo in Erodoto), non c’è motivo di nutrire dubbi sulla loro esistenza generale. Perfino la scurrilità del gesto di disprezzo di Amasi rivolto al messaggero inviatogli dal re Aprie (Erod. 2, 162, 3), benché di tipo aneddotico, non ha nulla di inverosimile, perché può essere inserito in lungo elenco di insulti al nemico (che può giungere anche ad uno ‘scambio’ di testi scritti)109, a volte anche di carattere sessuale e anche all’indirizzo delle donne del nemico, come quelli lanciati dagli Ateniesi assediati da Silla nell’86 alla moglie di quest’ultimo (Plut., Silla 6, 23) – o quelli di cui veniamo a sapere a proposito della guerra in Ucraina110. Vediamo casi più generali. Mardonio avrebbe accusato di vigliaccheria gli Spartani che a Platea sembravano evitare di schierarsi di fronte ai Persiani (Erod. 9, 48) e li avrebbe sfidati a combattere in numero pari, ma senza ottenere risposta (49, 1). Come segno di sdegnosa noncuranza nei confronti delle sue proprie truppe il persiano Dario interpreterebbe il fatto che gli Sciti, già schierati per la battaglia, si permettano la distrazione della caccia a una lepre passata nello spazio tra i due eserciti (Erod. 4, 136). L’aneddoto ricorda l’episodio di III sec., raccontato da Plutarco (Agide e Cleomene 33, 3), relativo a Cleomene III che, per mostrare la sua potenza e il suo disdegno dei nemici, avendo incontrato una compagnia teatrale nel territorio acheo nemico, erige lì un teatro e organizza dei concorsi drammatici 109 Plut., Flam. 9, 2-4, tramanda l’epigramma che avrebbe composto Alceo di Messene per la battaglia di Cinoscefale, in cui Filippo V, vi si dice, era scappato «più velocemente dei cervi veloci», e il corrispondente anti-scherno dei versi di Filippo. 110 Cf. https://www.la7.it/intanto/video/zelensky-e-il-figlio-di-pa-delloccidentela-dichiarazione-shock-della-zakharova-22-12-2022-465522 (consultato il 25.12.2022). Perfino la politica di Facebook ha preso posizione a favore della liceità degli insulti contro uno dei due schieramenti: cf. https://www.linkiesta.it/2022/03/russia-ucraina31-marzo/ (consultato il 10.04.2022).
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ai quali assiste per un’intera giornata. Nel 415, i Siracusani, quando gli Ateniesi, anziché attaccare la loro città, si volsero contro Ibla senza però riuscire a prenderla, «li disprezzarono ancora di più e, come è solita fare la massa imbaldanzita, pretendevano che gli strateghi li conducessero a Catania, in quanto quelli non erano venuti contro di loro, e i cavalieri siracusani, spingendosi sempre in ricognizione vicino all’esercito degli Ateniesi, li oltraggiavano chiedendo, fra l’altro, se erano venuti a coabitare con loro in terra straniera piuttosto che per ristabilire i Leontini nella loro» (Tuc. 6, 63, 2-3).
A dire dello storico Teopompo, i Tebani di Epaminonda, dopo avere invaso la Laconia, provocavano Agesilao allo scontro, gridando minacce e vanterie e chiamandolo per nome111, e, secondo Diodoro (15, 65, 4), Epaminonda sfidò gli Spartani a combattere o, altrimenti, a riconoscere la loro inferiorità, ma quelli non abboccarono e risposero che lo avrebbero affrontato «al momento opportuno». Dunque, anche Sparta non era disposta alla battaglia oplitica in qualsiasi circostanza. Come aveva già chiarito nel 412 lo stratego ateniese Frinico ai colleghi di comando intenzionati ad attendere l’attacco navale dei nemici senza conoscerne le forze, non bisognava accettare di mettere in pericolo «irragionevolmente» le navi per sfuggire all’accusa di «comportamento vergognoso», e anzi «non era vergognoso che gli Ateniesi si ritirassero con la flotta nel momento opportuno ma sarebbe risultato più vergognoso se in qualunque modo fossero stati sconfitti, e allora la città sarebbe caduta non solo nella vergogna ma anche nel più grande pericolo» (Tuc. 8, 27, 2-3) – una vera e propria teorizzazione del fatto che, di fronte all’esigenza di vincere, i principi etici occupano un posto secondario. In segno di sfida o di scherno, per indurre il nemico allo scontro, potevano essere messe in atto anche devastazioni della sua regione. Così fece, agli inizi della guerra del Peloponneso, Archidamo: saccheggiò il territorio di Acarne sperando che in tal modo gli Ateniesi si facessero avanti a combattere; diversamente, egli stesso sarebbe giunto fino alla città con minor timore, visto che gli Acarnesi 111 Cf. Teop. FGrHist 115 F 322 in Plut., Ages. 31, 4. Per queste sfide, cf. Pritchett 1974, cap. VII, part. 149 sgg.
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se non avevano difeso il loro territorio non avrebbero certamente combattuto per quello degli altri e sarebbe sorta tra loro discordia (come effettivamente avvenne: 2, 20-1). Allo stesso modo agì anche Agesilao nel territorio di Lecheio nel 390 e in quello di Mantinea nel 370 (Senof., Ell. 4, 5, 10; 6, 5, 15 e 21). Il nemico va abbattuto sia sbaragliandolo sul campo sia prostrandolo nello spirito; anzi, la prostrazione del suo animo ha una notevole valenza anche da sola, perché vincere fisicamente è facile quando gli avversari siano «abbattuti e depressi nello spirito» (Plut., Luc. 46, 4). È chiaro che scherno, vanto e paura servono a fiaccare il morale del nemico e a tenere alto quello della propria parte. A quest’ultimo scopo, d’altronde, mirano in generale i discorsi dei comandanti ai soldati112. Quel modello di virtù (anche) militare che per Senofonte è il persiano Ciro, nel discorso rivolto ai soldati prima della battaglia, oltre a ricordare loro di essere più preparati dei nemici e di averli già sconfitti e ad esortare il suo alleato Abradata a incoraggiare le sue truppe sia col volto sia con il prospettare speranze, non trascura di pronunciare qualche vanteria proprio per infondere forza di spirito nell’imminenza della battaglia (Cir. 7, 1, 10 sgg.)113. Anche l’azzardo di portare la guerra in Sicilia è giustificato da Alcibiade con l’argomento che, mostrando di disprezzare la tranquillità, essi abbatteranno lo spirito (storésomen tó phrónema) degli Spartani (Tuc. 6, 18, 4) e allo stesso modo Pericle, durante la peste, invitava gli Ateniesi a non mostrarsi oppressi ai nemici (2, 64, 6), come anche prima si era spinto a dire agli Ateniesi che, se solo avesse creduto di poterli persuadere, avrebbe loro chiesto di andare a distruggere da se stessi le case fuori dalla città così da mostrare ai minacciosi Peloponnesiaci che non avrebbero ceduto per conservarle (1, 143, 5). In sostanza, ciò che conta è l’apparenza, ciò che si vuol fare apparire, e di questo si preoccupano effettivamente le parti in conflitto. In molti casi tale fine viene espresso con chiarezza. Eccone alcuni. Nel 396, i Cartaginesi, sconfitti i Sicelioti che avevano perso più di cento navi e ventimila uomini in una battaglia navale presso Catania, trassero a Per quelli tucididei, cf. Miletti 2009, 52 sgg. L’abbattimento morale che segue ad una sconfitta subita è ricordato spesso nei nostri testi: cf. p. es. Tuc. 7, 72, 4; Sen., Ell., 7, 5, 23. Anche il panico delle donne, in una città assediata, può produrre nei combattenti una «pusillanime viltà»: per questo, il buon comandante deve tenerlo a bada (Esch., Sette contro Tebe 181 sgg.). 112 113
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riva le navi catturate: «in modo da rendere la grandezza del successo non solo udibile per sentito dire ma anche visibile» (Diod. 14, 60, 7). Agesilao, nel 370, quando decise di allontanarsi da Mantinea perché ormai era inverno, non lo fece subito ma, appunto tenendo conto dello stato d’animo dell’esercito, se ne andò solo dopo tre giorni, «per non sembrare che affrettasse la partenza per paura», e poi ricondusse i suoi opliti prima che si vedessero i fuochi dei nemici «affinché nessuno dicesse che li conduceva via perché fuggiva»: è in tal modo, infatti, che risolleva Sparta dal suo precedente stato di scoraggiamento (6, 5, 20-2). Ancora, dopo la battaglia di Mantinea (362), nessuna delle due parti, ciascuna vincitrice in luoghi differenti, voleva avviare trattative con i nemici per la restituzione dei morti «affinché non sembrasse che rinunciava al primato» (Diod. 15, 87, 2-4).
11. Tenere alto il morale dei propri soldati e prostrare quello dei nemici (2). Servirsi anche dei prigionieri Spesso i prigionieri partecipano anch’essi, in qualità di facili vittime, della guerra psicologica di cui ho detto nel paragrafo precedente. Essi possono essere scherniti solo perché la loro sconfitta risulti più gravosa. Erodoto (3, 14) mostra Cambise che, dopo aver conquistato Menfi, si prende gioco del re degli Egizi Psammenito e dei suoi dignitari, caduti nelle sue mani, facendo passare davanti a loro le figlie in lacrime in abiti servili e i ragazzi condannati a morte. Un altro episodio di irrisione che però trova un’adeguata risposta è narrato da Tucidide a proposito di un Ateniese che chiede a uno dei prigionieri spartani arresisi a Pilo, «per fargli dispetto (di’achthedóna)», se coloro che erano morti lì dovevano essere considerati nobili e valorosi ma quello replica prontamente con un tipico apoftegma laconico: le frecce non distinguono come bersagli i valorosi e i vili ma colpiscono a caso (4, 40, 2). Non di rado il sopruso nei confronti dei prigionieri intende costituire un ‘messaggio’ indiretto al proprio esercito o a quello avversario. Di Agesilao, altro ‘eroe’ senofonteo, lo storico racconta che, quando combatteva in Asia, per dare forza ai soldati, faceva vendere come schiavi i barbari prigionieri esponendoli nudi in modo che, vedendoli bianchi e flaccidi come donne, i suoi li disprezzassero (Ell. 3, 4, 19), e Onasandro (Strateg. 14, 3) si dilunga 117
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su come trattare i prigionieri per incoraggiare il proprio esercito alla vigilia di una battaglia: bisogna ucciderli subito o metterli in mostra legati se siano robusti e d’animo coraggioso, oppure, dopo averli minacciati e asserviti nello spirito in privato, mostrarli pubblicamente paurosi e piangenti, se siano deboli e d’animo ignobile. Non sempre il maltrattamento dei prigionieri è ‘soltanto’ psicologico (d’altronde, lo si è appena visto nella dichiarata possibilità che vadano anche uccisi). L’infamia poteva essere anche letteralmente segnata sul corpo. Secondo una tradizione, raccolta da Plutarco, relativa all’intervento di Pericle nella guerra tra Samo e Mileto per il territorio di Priene (440-439), gli Ateniesi avrebbero marchiato in fronte, con l’immagine di una nave samia con la prua a forma di muso di maiale, i Samii catturati in una battaglia navale, e poi i Samii, quando a loro volta vinsero, avrebbero «ricambiato l’oltraggio» contrassegnando la fronte dei prigionieri ateniesi con una civetta, simbolo della città nemica (Per. 26, 4). Dopo otto mesi di assedio i Samii si erano arresi e Pericle ne aveva abbattuto le mura e preso le navi e aveva inflitto loro una pesante multa (28, 1-3). Secondo Plutarco, la sua fonte Duride (FGrH 76 F 67), che era di Samo, nel riportarli, «drammatizza esageratamente (epitragodéi) (…) accusando gli Ateniesi e Pericle di grande crudeltà – crudeltà che né Tucidide né Eforo né Aristotele hanno nominato. Ma sembra che Duride non dica la verità anche quando afferma che Pericle, dopo avere portato i trierarchi e i marinai samii sulla piazza di Mileto e averli tenuti legati per dieci giorni a tavole di legno, ordinò, quando ormai erano in brutte condizioni, di ucciderli spaccando loro la testa a legnate, e poi gettare i corpi lasciandoli insepolti. Dunque, sembra che qui Duride, che neanche laddove non è in gioco un sentimento personale è solito contenere la sua narrazione nel rispetto della verità, abbia reso terribili le sventure della sua patria per calunniare gli Ateniesi».
In ogni caso, se non erano fatti veri, erano fatti verisimili, come suggeriscono gli esempi che cito qui di seguito. Lo spartano Alcida trucidava la maggior parte di coloro che faceva prigionieri navigando lungo la Ionia e aveva smesso di agire in questo modo tanto crudele solo quando degli ambasciatori samii gli avevano fatto notare che, così, presto anche chi era amico sarebbe diventato nemico (Tuc. 3, 32, 1-2). Gli Ateniesi, catturati i soldati spartani di Sfacteria, minacciarono di 118
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ucciderli se i Peloponnesiaci avessero invaso la loro terra prima di una certa tregua (4, 41, 1). Nel 413, a Siracusa, lo spartano Gilippo, invitando gli alleati a non essere teneri con gli Ateniesi catturati, per giustificare la propria durezza nei confronti dei nemici, si serve dell’argomento «E voi/loro, allora?»: infatti, quelli che ora sono prigionieri supplici prima sono stati ingiusti, e per giunta si sono comportati crudelmente con i Mitilenesi, che erano loro alleati, e con i Melii e con gli Scionei (Diod. 13, 29-30); non bisogna dunque avere compassione di loro, e va bene che l’inimicizia non sia eterna ma la si deve smettere solo dopo che gli aggressori siano stati puniti: se essi saranno graziati, Sparta che ha aiutato i Siracusani ne risulterà offesa (31-2). La sua opinione risulta persuasiva e la massa decide di uccidere immediatamente gli strateghi, vendere gli alleati prigionieri e rinchiudere gli Ateniesi nelle latomie fino alla loro morte (33). Ancora, l’ateniese Filocle persuade i concittadini ad andare oltre le norme consuete (paranoméo) e a decretare il taglio della mano destra dei prigionieri nel caso che la battaglia di Egospotami venga vinta; egli stesso, tra l’altro, aveva fatto gettare in mare gli uomini di due navi nemiche catturate, mentre lo spartano Lisandro, a sua volta, fa uccidere i tremila ateniesi catturati nella stessa battaglia e sgozza Filocle114. Lo stesso Lisandro, quando si mette a instaurare ovunque, sia in città nemiche sia in città alleate, governi costituiti da un armosta spartano e dieci arconti scelti tra i cittadini amici, non si fa scrupoli a permettere eccidi di nemici (Plut., Lis. 13, 5-7). La ferocia e slealtà di Lisandro, che vuole i nemici tutti morti e non permette nemmeno che vadano in esilio, e che a Mileto, nel 405, giura di concedere la salvezza ai democratici che si consegneranno provvedendo invece, poi, a darli in mano agli oligarchici perché li uccidano, passa in proverbio «La Grecia non potrebbe sopportare due Lisandri»115. Plutarco tratteggia il comportamento abituale di Lisandro dicendo che egli era uno «che ‘adornava’ le azioni belliche con inganni, magnificava la giustizia per il vantaggio e, altrimenti, ricorreva all’utile come se fosse il bello, considerava la verità non migliore per natura 114 Senof., Ell. 2, 1, 31-2. Secondo Plutarco (Lis. 9, 7) l’amputazione riguardava solo il pollice della mano destra. 115 Plut., Lis. 19, 2-5. Sulle nefandezze di Lisandro Plutarco si dilunga analiticamente: cf. anche 8, 1-5. I fatti di Mileto sono narrati più sinteticamente anche da Diod. 13, 104, 5-6.
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della menzogna ma definendo il valore di ciascuno dei due principi sulla base dell’utilità» (7, 5). I prigionieri subiscono la sorte che l’arbitrio dei nemici impone loro. La dinamica della vendetta, individuata nello scoppio delle guerre, opera anche nel caso in cui un esercito abbia in mano propria soldati dello schieramento nemico che, benché a distanza di anni, lo abbia in precedenza sconfitto, specialmente se vi sia riuscito ricorrendo a qualche inganno. Secondo Diodoro, i Sicelioti, quando i Moziesi assaliti da Dionisio I (396) sono costretti a soccombere all’attacco, fanno strage dei Cartaginesi «senza risparmiare né bambino, né donna, né anziano (paidós, gynaikós, presbýtou)», in quanto – con riferimento al massacro di Selinunte del 409116 – desiderano «vendicare la crudeltà con la crudeltà» (14, 53, 1). Tale logica avrebbe guidato anche la spietata condotta di Annibale a Imera, sempre nel 409, quando, «desiderando ottenere vendetta» della sanguinosa sconfitta inflitta da Gelone a suo nonno Amilcare nel 480 (13, 59, 6), aveva fatto seviziare e sgozzare tremila nemici prigionieri proprio nel luogo in cui questi era stato ucciso con l’inganno (13, 62, 4)117. Nel 388, Dionisio I conquistò Reggio dopo averla assediata e ridotta alla fame. Anche quando gli assediati, privi di qualsiasi cibo, avevano cominciato a mangiare l’erba cresciuta presso le mura, egli «non ebbe pietà»; anzi veniva raccontato che, per peggiorare le loro condizioni, avesse fatto portare lì del bestiame per brucare totalmente ogni forma di vegetazione (Diod. 14, 111, 3-4). Quindi catturò Fitonte, il comandante dei Reggini, lo fece crudelmente informare di avere gettato in mare suo 116 Cf. Diod. 13, 57: allora, in un quadro generale che mostra lamenti e lacrime dei Greci e grida di guerra e frastuono dei barbari, con gli uni che hanno «davanti agli occhi la grandezza della sventura che li sovrasta» e gli altri che, «esaltati dal successo», si incitano alla strage, i soldati di Annibale avevano trucidato, «senza alcuna compassione», «ugualmente bambini infanti, donne, anziani, páidas nepíous, gynáikas, presbýtas»: un’espressione che a rigore forse intende presentare un di più di eccesso, per così dire, rispetto al semplice «bambino, donna, anziano» che i Sicelioti non risparmiano. Inoltre, erano stati mutilati anche i cadaveri e alcuni soldati andavano in giro con le mani mozzate dei nemici al collo o le loro teste infilzate sulle lance. 117 Per la battaglia di Imera, cf. Diod. 11, 21-2. Sulla stessa linea ritorsiva Diodoro pone anche la successiva distruzione totale di Messana ad opera di Imilcone (14, 58, 3-59, 1), come ben osservato da De Sensi Sestito 1997, 175. Per la ‘normale’ vendetta che si aspettavano da parte del nemico i soldati di chi si era comportato slealmente, cf. ancora, p. es., Pol. 14, 8, 9-10 e Pol. 15, 3, 2.
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figlio e lo condusse in giro per la città mentre, frustrato e seviziato, un araldo gridava che tale punizione era dovuta al fatto che il reo aveva indotto la città a fare la guerra. La vendetta era talmente terribile che i soldati di Dionisio, impietositi, cominciarono a rumoreggiare e il tiranno dovette far cessare le sevizie, ma solo per affogare in mare il prigioniero come aveva già fatto col figlio (14, 112). Secondo un’altra tradizione, Fitonte, ospite presso Dionisio, compreso il piano di attacco del tiranno contro Reggio e intenzionato a comunicarlo ai suoi concittadini, viene scoperto e utilizzato poi dal tiranno come ‘scudo umano’: legato ad una macchina d’assedio, avrebbe dovuto scoraggiare i Reggini dalla difesa per evitare di colpirlo118. Agli inizi della terza guerra sacra (356-346), il comandante focese Filomelo, vincitore contro i Locresi nel territorio vicino alle rupi Fedriadi, costringe i prigionieri a gettarsi da lì (Diod. 16, 28, 3). A Filomelo, che aveva occupato il tempio di Delfi (16, 24, 2) e che dopo una battaglia con i Locresi chiede loro di avere restituiti i soldati morti, viene risposto che «presso tutti i Greci è norma comune che i sacrileghi siano gettati senza sepoltura», provocando naturalmente l’irritazione del nemico che torna all’attacco e, adesso, vince (16, 25, 2-3). Quindi si passa ad un’escalation di atrocità: i Beoti venuti in aiuto dei Locresi uccidono i mercenari di Filomelo catturati e Filomelo si comporta allo stesso modo con i prigionieri nemici (16, 31, 1-2), poi ancora Filippo II, nel frattempo entrato in campo con gli Anfizioni, dopo aver vinto la battaglia dei Campi di Croco (352), fa gettare in mare in quanto sacrileghi ben tremila nemici presi prigionieri (16, 35, 6)119. Nel 332, i Macedoni di Alessandro Magno conquistarono Tiro dopo un assedio di parecchi mesi, e si diedero rabbiosamente alla carneficina generale, sia perché erano esacerbati dal lungo assedio sia perché i nemici, quando avevano catturato alcuni di loro che navigavano da Sidone, li avevano trucidati e gettati in mare dopo averli fatti salire sulle mura, «affinché la cosa fosse visibile dal campo» nemico (Arriano, Anab. di Aless. 2, 24, 3). È attenendosi alla banale ovvietà che in guerra ogni mezzo è buono per conseguire la vittoria che anche Alessandro Magno, come riferisce Plutarco (Aless.
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Filostr., Vita di Apoll. Tian., 7, 2 (cit. da De Sensi Sestito 1997, 185, n. 69). Bettalli 2012, 268 sgg. 121
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37, 3), a Persepoli fece fare «grande strage di prigionieri»: aveva ordinato egli stesso di ucciderli, semplicemente «perché riteneva che ciò gli fosse utile». Di mutilazioni particolarmente crudeli (prima il taglio delle mani, poi di tutte le estremità e la rottura delle gambe e infine l’abbandono del corpo ancora vivo in una fossa) racconta Polibio (1, 80, 11-81, 1) a proposito della cosiddetta guerra libica (o “dei mercenari”, 240-238). Le subiscono i settecento Cartaginesi catturati dai loro mercenari rivoltosi che minacciano altresì di mozzare le mani ai futuri prigionieri. Polibio descrive tutto diffusamente e con la massima empatia (che attribuisce anche ai Cartaginesi in patria) per le vittime. Il commento dello storico, volto a condannare tali pratiche come proprie di chi, se trattato con indulgenza, sospetta un inganno e si comporta in modo ancora più ostile, mentre, se punito, reagisce senza considerare proibito nulla, «diventando una bestia» e ponendosi «fuori dalla natura umana» (81, 8-9), mette ancora una volta a nudo la cruda realtà della dinamica bellica. Basti rilevare cosa succede quando Amilcare Barca, dapprima benevolo verso i mercenari ribelli suoi prigionieri ma proprio per tale comportamento venuto in sospetto agli altri insorti, si sente «messo in difficoltà dalla dissennatezza» di questi ultimi: egli riunisce l’esercito e cambia atteggiamento; adesso, «dei nemici su cui prevaleva, alcuni li trucidava in combattimento, gli altri che gli venivano portati vivi li gettava in pasto alle fiere vedendo come una soluzione quella di cercare di annientare del tutto i nemici» (82, 2; cf. 84, 8). Gli atti di ferocia a scopo intimidatorio continuano: i Cartaginesi crocifiggono i prigionieri sulle mura «in modo visibile», per poi essere crocifissi a loro volta, quando vengono battuti, proprio sulle stesse croci utilizzate per i nemici, «come se la sorte desse a bella posta ad entrambi, scambievolmente, le occasioni per un eccesso di reciproca vendetta» (86, 4-7). Poi, quando la defezione ormai si avvia ad essere domata, Ippona e Utica continuano a resistere perché, dato la loro precedente ferocia nei confronti dei Cartaginesi, non si aspettano alcuna possibilità di riconciliazione (88, 2; cf. 82, 9-10). Il che fornisce a Polibio l’occasione per menzionare la regola secondo cui, per non temere ritorsioni inesorabili, «hanno grande importanza il senso della misura e il non commettere volontariamente niente di irrimediabile» (88, 3) – una buona regola, certamente, ma che la logica della guerra rendeva in realtà non sempre valida, se lo storico stesso, 122
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tra le opinioni dei Greci sui Romani all’inizio della terza guerra punica, menziona anche il fatto che, «nonostante da parte di quelli [cioè: dei Cartaginesi] non fosse stato fatto nulla di irrimediabile», i Romani avevano preso su di loro una decisione, questa sì, irrimediabile e pesante (36, 9, 8). Infine, dopo aver detto che la guerra libica si conclude con la degna punizione dei ribelli, Polibio aggiunge una sua considerazione: «dunque per tre anni e quattro mesi circa i mercenari condussero la guerra contro i Cartaginesi che superò di molto per crudeltà e trasgressione delle consuetudini quelle altre che conosciamo per averne sentito parlare» (88, 7). A proposito del succitato sospetto dei mercenari rivoltosi nei confronti della benevolenza di Amilcare Barca, va chiarito che esso non era certo illecito, in quanto quell’atteggiamento poteva rispondere semplicemente ad una strategia comunicativa volta ad attirare i nemici dalla propria parte. Così, di fatto, era avvenuto in quell’occasione (78, 13) e anche altre volte in altri momenti, sia prima sia dopo. Per esempio, durante la guerra del Peloponneso, i soldati corciresi in mano ai Corinzi avevano accettato di far passare i loro concittadini dalla parte di questi ultimi ed erano stati liberati senza riscatto (Tuc. 3, 70, 1); e, di nuovo fra i Cartaginesi, secondo quanto afferma lo stesso Polibio, Annibale fu altrettanto generoso nei confronti degli Italici catturati, dicendo loro di aver mosso guerra ai Romani in loro difesa proprio perché voleva farseli amici e staccarli dai Romani (3, 77, 4-7)120. Come si è potuto vedere ancora una volta, ferocia e magnanimità, in guerra, si attuano spesso non per se stesse ma in funzione dell’unico scopo che i comandanti si prefiggono: giungere alla vittoria. Sono dunque strutturali, non pratiche eccezionali dovuti al sadismo di singoli individui. Sia chiaro: le torture di cui si è messa in rilievo la normalità nella Grecia antica sono normali anche nelle guerre odierne. C’è bisogno di ricordare gli orrori perpetrati sui prigionieri afghani nel campo di detenzione di Guantánamo (a Cuba), già dal 2002, o su quelli iracheni nelle prigioni di Abū Ghraib (in Iraq), nel 2003, gestite
120 Per altri casi ancora, cf. Bielman 1994, 278-82 che nota, appunto, il senso di vantaggio politico e militare che avevano per lo più tali concessioni (Senof., Cir. 4, 4, 6-8 ne fa un esplicito modello di strategia in questa direzione).
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dal Governo statunitense121 (per limitare il richiamo a qualcuna delle atrocità ‘nostre’)?
12. Sofferenze dei civili (1). Evacuazioni, asservimenti, stupri La situazione dei non combattenti non è affatto migliore di quella dei soldati, e diverse scene che presenterò in questo paragrafo assomigliano terribilmente a quelle viste nel corso dell’odierna guerra in Ucraina e di tante altre guerre contemporanee. I civili che risultavano funzionalmente di sostegno agli armati, come i mercanti (p. es. Tuc. 6, 44, 1), potevano essere uccisi. All’inizio della guerra del Peloponneso, gli Spartani catturavano tutte le navi mercantili non solo degli Ateniesi e dei loro alleati ma anche quelle neutrali e facevano strage degli equipaggi (2, 67, 4). A maggior ragione erano intrecciate le sorti dei non combattenti e dei soldati delle città coinvolte nel conflitto armato. Le prime sofferenze dei civili sono quelle emotive: l’ansia per i familiari che vanno in guerra (cf. 2.5.), il rimpianto per quelli che sono al fronte (Il. 2, 136-7; Aristof., Lis. 592), la paura pervasiva per quel che può accadere nel caso che la loro città sia sotto attacco (Esch., Sette contro Tebe 181 sgg., 239-40). Dopo la conquista della loro città, anche i semplici cittadini diventano schiavi dei vincitori122. Per questo, quando si teme il peggio, laddove sia possibile, essi vengono sfollati. Così si fece ad Atene prima della battaglia di Salamina (Erod. 8, 40-1; Plut., Tem. 10, 4-6), se ne discusse a Samo, dopo la battaglia di Micale (Erod. 9, 106, 2; Diod. 11, 37, 2), ma avvenne anche in molti altri casi123. L’evacuazione di una città poteva anche essere il risultato della sua resa sotto condizione: per esempio, i Potideati sotto assedio nel 430 ottennero dagli Ateniesi di potere uscire con il minimo di vestiario e di denaro per il vitto e trovarono riparo nella Calcidica e
121 Cf. Hersh 2004; Greenberg, Dratel 2005 (che presenta tutta la documentazione sulle responsabilità dell’Amministrazione americana); Mokhtari 2009. 122 Per la narrazione nell’epica e, sul suo modello, nella tragedia, della conquista di Troia, cf. Rodighiero 2017 e Camerotto 2022, 42 sgg. 123 Cf. Erod. 1, 164-6; 169, 1; 170, 1-2 etc.
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«dove ciascuno poteva» (Tuc. 2, 70, 1-4)124. Cosa ciò potesse significare e quanto grave fosse la condizione di profugo, sia sul piano materiale sia su quello sociale, lo lasciava ben capire già Tirteo: «nulla è più doloroso che, dopo avere abbandonato la propria città e i fertili campi, mendicare vagando con la cara madre e col vecchio padre, con i figli piccoli e con la moglie legittima; infatti, questi sarà odioso a coloro fra i quali giunga costretto dal bisogno e dall’amara povertà. Egli svergogna la sua stirpe, smentisce il suo splendido aspetto e sempre lo segue il disonore e la miseria. (...) non c’è alcuna cura né rispetto per colui che vaga, né per la sua discendenza» (fr. 2 G-P).
Le cose potevano andare ancora peggio, come fu per gli Agrigentini assediati dai Cartaginesi nel 406: «improvvisamente molti gemiti e lacrime occupavano le case di tanta moltitudine di uomini, donne, ragazzi che abbandonavano la città. Li terrorizzava (exéplette) la paura dei nemici e al contempo erano costretti, a causa della fretta, a lasciare al saccheggio dei barbari ciò per cui si ritenevano beati; infatti, dato che la sorte toglieva loro la disponibilità dei beni domestici, ritenevano già tanto salvare la vita. Ed era possibile vedere abbandonate non solo le ricchezze di una tale città ma anche una moltitudine di persone, in quanto, preoccupandosi ognuno della propria salvezza, i malati venivano trascurati dai familiari e quelli in età avanzata, a causa della debolezza propria della vecchiaia, venivano abbandonati; molti, poi, stimando l’allontanamento dalla patria come la morte, si uccisero di propria mano per esalare l’ultimo respiro nelle case dei padri» (Diod. 13, 89, 1-2).
Il primo esodo, quando una città entrava in guerra, era comunque quello degli abitanti dalla campagna all’interno delle mura urbane. Plutarco (Focione 11, 1) presenta appunto come tipico di un timore di attacco esterno il fatto di trasportare dalla periferia alla città «bestiame, schiavi, donne e ragazzi». Allo scoppio della guerra del Peloponneso una grande massa di Ateniesi dovette abbandonare i campi e, con un disagio anche emotivo che Tucidide non manca di sottolineare, si trasferì in città andando ad abitare presso amici e parenti e in ogni spazio – comprese le Lunghe Mura e buona parte del Pireo – in cui fosse possibile trovare rifugio (2, 14, 1-2; 16, 1-17, 4).
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Per altri casi cf. Ducrey 1968, 140 sgg. 125
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Neppure l’attacco deliberato ai civili costituiva un’eccezione125. Esso è del tutto normale nel mondo omerico dove, per esempio, Odisseo, nelle vesti di falso cretese capo di predoni, racconta di suoi viaggi in terre straniere, dove saccheggia e riduce in schiavitù donne e bambini126. Si tratta di un mondo in cui, laddove non ci siano precedenti accordi, tutto è lecito. Come notava Tucidide (1, 5), allora la pratica bellica nella forma della pirateria non era ritenuta per niente vergognosa, e in realtà come non riprovevole era esercitata anche ai suoi tempi in molte parti della Grecia, come la Locride Ozolia, l’Etolia e l’Acarnania. All’interno di rapporti tesi tra città, poi, la pirateria (o il brigantaggio) poteva essere praticata come provocazione per indurre la città molestata a dichiarare la guerra vera e propria (come nel caso già visto in Dionigi di Alicarnasso, cf. supra 1.1.1.) o, al contrario, per mantenere la conflittualità ad un livello basso formalmente non definibile come condizione di guerra: durante la pace di Nicia, vi fecero ricorso gli Ateniesi con Sparta nel 419 (5, 56, 3), e poi, in risposta, gli Spartani con Atene (5, 115, 2), fino a che la rottura della tregua non si rivelò nel modo più palese (6, 105, 1-2). Che si tratti di forme di violenza a bassa intensità, di atti di pirateria in senso stretto o di guerre, le donne (e anche i ragazzi, come si vedrà)127 avevano una sorte particolarmente orribile. Nell’epica omerica, Nestore sprona i guerrieri a non tornare a casa «prima di avere giaciuto con una donna troiana» (Il. 2, 355), e Agamennone, schernendo e umiliando il nemico, non esita a dire pubblicamente al sacerdote Crise venuto a chiedergli la restituzione della figlia da lui fatta prigioniera: «non la libererò; la raggiungerà prima la vecchiaia nella nostra casa ad Argo, lontana dalla patria, mentre lavora al telaio e viene al mio letto»128. Beninteso, che la donna del nemico diventasse proprio oggetto sessuale non risultava affatto scandaloso, perché questo era il normale destino delle prigioniere che diventano schiave;
Sulla «guerra dei non combattenti» cf. in part. Payen 2003 e Payen 2012, cap. V. Cf. Od. 9, 40-2; 14, 262-5, cf. supra 1.4. 127 Tuttavia, una distinzione tra le due categorie di persone si faceva, visto che, in occasione di accordi tra i nemici, almeno la restituzione dei ragazzi prigionieri, come quella degli uomini, poteva essere prevista: cf. Tuc. 5, 77, 1 e 3 (per cui cf. Bertolaso 2009, 21). 128 Il. 1, 29-31 (cf. 2, 226-33 e 355-6); 10, 61-65, part. 63; 16, 830-2. 125
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anzi, il loro stato di “oggetto già acquisito” poteva essere segnalato subito, sul campo stesso, dai comandanti mettendo loro sul capo i loro elmi (Plut., Arato 31, 4, a proposito degli Achei che assaltano Pellene nel 241). Piuttosto, sembra che sia lo stupro durante la battaglia, quando ancora la donna non è stata acquisita come schiava, a fare in qualche modo impressione. Erodoto accenna lapidariamente agli stupri compiuti dai Persiani ad Abe, in Focide: i barbari, dopo avere incendiato il santuario di Apollo che vi sorgeva, inseguono gli abitanti e violentano in massa le donne fino ad ucciderle (8, 33, 1). Naturalmente, anche le concubine dei Persiani finiscono in mano ai Greci: in questo caso, però, Erodoto (9, 81, 1) ci dice che i Greci le «ricevettero» (élabon) nella spartizione del bottino, insieme a oro, argento e bestie da soma, dopo la vittoriosa battaglia di Platea. Diodoro (13, 57-8), ricordando il massacro dei Selinuntini (che non risparmiò infanti, donne e anziani) e lo scempio dei loro cadaveri compiuto nel 409 dai Cartaginesi di Annibale (però, forse perché il lettore non arrivi a sospettare una qualche incivile ‘insensibilità’ dei Greci combattenti a fianco dei Cartaginesi, viene specificato che essi mostrano pietà per la sorte dei vinti: 58, 1), scrive che, in particolare, le donne, «private dell’agio abituale passavano la notte nell’oltraggio dei nemici, sopportando terribili sofferenze, e alcune di loro erano costrette a vedere le figlie pronte al matrimonio soffrire cose inadeguate alla loro età. Infatti, la crudeltà dei barbari incombeva sugli sventurati, senza risparmiare né ai ragazzi né alle ragazze terribili sciagure; (…) costrette a subire l’offesa dei padroni e a vedere costoro che avevano un linguaggio incomprensibile e un comportamento bestiale» (58, 1-2).
Le nostre fonti tendono ad attribuire tali comportamenti agli ‘altri’, ai nemici, soprattutto ai nemici non greci, insomma ai ‘cattivi’ per definizione. Tuttavia, un’espressione come quella usata da Polibio (21, 38, 2) a proposito di uno specifico caso relativo alla guerra di Gneo Manlio Vulsone contro i Galati (189), quando un centurione, catturata la moglie del re nemico, «approfittò della sorte alla maniera dei soldati (stratiotikós) e ne abusò», ci fa capire, se ci fosse mai dubbio, che si trattava di una condotta diffusa.
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Diodoro (17, 35, 4-36, 3), dopo la vittoria di Alessandro Magno a Isso (333), descrive così le vicende della famiglia reale: «terribilissima fu la sofferenza (páthos deinótaton) delle donne fatte prigioniere. Infatti, quelle che prima, per il lusso, erano trasportate con fatica su carri lussuosi e che non mostravano nessuna parte del corpo nuda, ora saltavano fuori dalle tende con la sola tunica e con le vesti lacerate, tra i lamenti, invocando con grida gli dèi e gettandosi alle ginocchia dei vincitori. E prendendo con le mani tremanti i gioielli che indossavano e slegando le loro chiome, correvano per i luoghi aspri e correndo insieme invocavano in aiuto le loro compagne che avevano bisogno d’aiuto esse stesse. E le conducevano alcuni tirando le sventurate per le chiome, altri strappando loro le vesti, gettando le mani sui loro corpi, colpendoli con l’estremità bassa delle loro lance e oltraggiando, per il dono della sorte, ciò che i barbari avevano di più prezioso e magnifico. I più virtuosi tra i Macedoni, vedendo il mutamento della fortuna, provavano empatia (sympathéis eghínonto) e avevano pietà (éleon) delle sciagure di queste sventurate dalle quali era distante ciò che si conveniva loro ed era magnifico, mentre stavano loro accanto stranieri e nemici, ed erano spinte ad una prigionia sventurata e vergognosissima129. La madre di Dario, la moglie, le due figlie nubili e il figlio ancora bambino indussero moltissimo i presenti alle lacrime e all’empatia: perché il mutamento della sorte e la grandezza delle sventure inaspettate che era alla vista faceva sì che a ragione coloro che le vedevano soffrissero insieme (sympáschein) a queste persone sventurate».
Il racconto, come si vede, presenta una netta distinzione tra la brutalità della soldataglia e la compassione dei probi Macedoni, almeno nei confronti delle donne nobili130. Lo stesso Alessandro, riguardo alla madre e alla moglie di Dario, mostra un caldo sentimento di vicinanza, tanto che si preoccupa di rassicurarle sul fatto che il re sia vivo, dichiarando che, infatti, egli «non per inimicizia personale faceva la guerra a Dario ma combatteva legittimamente per il dominio
In questa parte seguo il testo proposto da Paul Goukowsky, ed. Belles Lettres. Che fossero solo le donne di alto rango ad essere oggetto di compassione per le violenze dei vincitori lo testimonia, p. es., anche la tradizione di Aristobulo di Cassandrea in Plut., Virtù delle donne 249e-f, a proposito della tebana Timoclea nel 335; cf. anche Aless. 12, 1. 129 130
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dell’Asia» (Arriano Anab. di Aless. 2, 12, 3-5)131. Polibio (10, 18, 7-15) afferma che anche Publio Cornelio Scipione Africano Maggiore, a Cartagena, è empatico (sympathés) con l’illustre prigioniera cognata del re degli Ilergeti, e ci presenta la donna che, in lacrime, prega il vincitore di rispettare le sue giovani nipoti e le figlie degli altri dinasti, e Scipione che la rassicura garantendole che provvederà loro come se fossero sue sorelle e figlie e le assegnerà alle cure di uomini fidati132. La furia dei nemici non risparmia, tuttavia, le donne appartenenti a famiglie di potenti particolarmente odiosi. Plutarco racconta le violenze su figlie e moglie di Dionisio II dopo la conquista dell’acropoli siracusana (343). La moglie in particolare viene oltraggiata dai nemici con i «piaceri» (evidentemente degli stupratori) più indecenti e, morta, viene gettata in mare insieme ai figli133. Strabone (6, 1, 8), ancora in riferimento allo stupro subìto dalle familiari di Dionisio, scrive che questo fu il modo in cui il sovrano «pagò il fio» delle sue malefatte. È da notare che della sofferenza delle donne in quanto tali, in un mondo in cui esse sono possesso degli uomini, non ci si dà gran pensiero: il dolore pertinentizzato è, appunto, quello degli uomini a cui esse appartengono. Fa eccezione, in questo panorama, il teatro tragico, capace di mostrare il trauma delle donne che hanno visto le loro famiglie e città distrutte e il «dilemma della prigioniera» costretta a scegliere tra fedeltà alla memoria del marito e acquiescenza sessuale al nemico di cui è schiava134.
13. Sofferenze dei civili (2). Effetti collaterali ed effetti ricercati. In guerra non ci sono crimini «inutili» La violenza che si abbatte sui civili può essere anche quella estrema, della morte, sia perché non c’è obbligo formale di non infliggerla, sia perché può essere difficile distinguere tra combattenti
131 Si noti a margine che ancora una volta il dominio assurto a valore che non ha bisogno di giustificazione ma, qui sublimato all’interno di un’ottica agonistica, costituisce esso stesso la giustificazione della guerra. 132 Cf. Caliri 2013, 29. 133 Timol. 13, 10; cf. anche Prec. Pol. 821d. 134 Cf. Scodel 1998; Brunini-Cronin 2016.
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e non combattenti e l’uccisione di questi ultimi è dunque un effetto collaterale strutturale. Per citare un caso di epoca relativamente tarda, la descrizione fatta da Appiano della distruzione di Cartagine, nel 146, ad opera di Scipione Emiliano che, come già altri potenti135, arriva addirittura a piangere per i nemici (Appiano, Lib. cartag. 628 sgg.), prima in auge e ora caduti in rovina, ne è un esempio drammaticissimo. La narrazione mostra peraltro proprio una violenza di cui i civili sono vittime anche indipendentemente dalla volontà dei nemici: «tutto era pieno di gemiti, lamenti, grida, e di sofferenze di ogni tipo, perché gli uomini erano sia uccisi nei ‘corpo a corpo’ sia gettati al suolo ancora vivi dall’alto dei tetti e alcuni andavano a finire sulle lance dritte o su altre armi appuntite o su spade. Nessuno incendiò nulla a causa di quelli che erano sui tetti, finché Scipione non raggiunse Birsa. Allora fece incendiare tre strade contemporaneamente e ordinò ad altri di aprire il cammino per la strada che di volta in volta bruciava perché l’esercito, nello spostarsi, si potesse muovere facilmente. Da questo derivò la visione di altri mali, perché il fuoco bruciava e faceva crollare tutto e gli uomini non distruggevano gli edifici in parte ma si sforzavano di capovolgerli interamente. Pertanto, il rumore divenne molto più forte e, con le pietre, cadevano nel mezzo ammassati sia i morti sia i vivi, soprattutto anziani e bambini e donne che si erano nascosti nei recessi delle case, alcuni feriti altri semibruciati, che lanciavano grida ripugnanti. Altri, spinti da una tale altezza tra le pietre, il legname e il fuoco, precipitando in molti tipi di mali venivano dilaniati, fatti a pezzi, in briciole. E nemmeno a questo si fermavano i loro mali. Infatti, i raccoglitori di pietre, quanti spostavano le macerie con scuri, asce e picconi e aprivano la strada a quelli che la percorrevano, alcuni con le scuri e le asce, altri con l’artiglio dei picconi, spostavano nelle cavità del terreno sia i morti sia quelli ancora vivi ammucchiandoli o rivoltandoli col ferro come legni e pietre, e l’essere umano serviva da riempitivo del fosso. Di quelli
135 Si veda almeno Pol. 8, 20, 9: il re Antioco, vedendo Acheo a terra, legato, davanti a sé, per la sorpresa dapprima resta in silenzio, poi si fa empatico (empathés) e piange (dakrýo) – «provò questo (commenta Polibio), io credo, vedendo l’ineluttabilità e imprevedibilità degli eventi derivanti dalla fortuna» (10). Per questo ed altri casi, cf. Ambaglio 1985 che sottolinea in esso il nesso con la constatazione «filosoficomoraleggiante» della instabilità della sorte: l’archetipo è il Serse di Erodoto (7, 45-6); cf. Walbank 1967, ad loc.
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spostati, alcuni finivano sulla testa e le loro gambe, alzate da terra, erano in preda a movimenti per moltissimo tempo, altri cadevano con i piedi all’in giù e sporgevano con le teste sul suolo e i cavalli, correndo in mezzo a loro, li colpivano con gli zoccoli sul volto e sulla testa non perché lo facessero di proposito ma per la fretta, poiché neanche i raccoglitori di pietre agivano in quel modo apposta. Ma lo sforzo (pónos) della guerra, l’aspettativa della vittoria vicina, la sollecitudine del comandante, gli araldi e i trombettieri che contemporaneamente facevano confusione dappertutto, e i tribuni militari e i centurioni che si spostavano e correvano con le schiere rendevano tutti, per la fretta, incuranti di ciò che era sotto ai loro occhi» (612-19)136.
In generale, se serviva a raggiungere lo scopo, gli eserciti di qualsiasi schieramento non si facevano scrupoli di alcun tipo nei confronti dei civili, perfino ad attaccarli a bella posta. Non meno che il principio secondo cui i danni da infliggere al nemico devono essere solo quelli necessari al conseguimento della vittoria e dunque non vanno compiute crudeltà superflue, anche la differenziazione tra combattenti e non combattenti è puramente teorica; nella realtà non sembra esistere affatto: né a Bucha (ad opera dei Russi)137, né in Iraq o in Afghanistan (ad opera degli Americani), né nella Grecia antica138. Nel 431, i Tebani, quando i loro guerrieri introdottisi a Platea senza alcuna dichiarazione di guerra vengono catturati, meditano un attacco contro i civili Plateesi che si trovano fuori della città per poterli scambiare con quelli della loro parte fatti prigionieri (Tuc. 2, 5, 4), e allo stesso modo agiscono gli Ateniesi, in virtù della loro alleanza 136 A 620-8 Appiano riferisce di altri sei giorni di distruzione fino alla resa e al teatrale figlicidio e suicidio della moglie di Asdrubale che accusa il marito di tradimento, con la conclusione dello storico «dicono che parlando così morì la moglie di Asdrubale, come bisognava che morisse lui». 137 Secondo un report di Amnesty International del 4 agosto 2022, anche gli Ucraini avrebbero a volte violato il diritto umanitario internazionale (https://www. amnesty.it/russia-ucraina-la-condotta-di-guerra-delle-forze-ucraine-ha-messo-in-pericolo-la-popolazione-civile/?fbclid=IwAR2L0_qqg0jhtXd9enozzJRpWe6uzbLdLlaU9HoeWupMb31XTEzzffb6xkA, consultato il 12.08.2023). Però, un nuovo report, questa volta indipendente, commissionato dalla stessa Amnesty, del 28 aprile 2023 (https:// www.amnesty.org/en/documents/org60/6731/2023/en/, consultato il 29.04.2023), ha riesaminato quello precedente per stabilire la relazione tra le prove offerte e le conclusioni presentate considerandola, in generale, «non sufficientemente motivata». 138 Cf. Cozzo 2018, 91 sgg.
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con i Plateesi, catturando tutti i Beoti che si trovano in territorio attico (2, 6, 2). Pura apparenza risulta poi spesso la clemenza nei confronti di nemici ormai alla propria mercè. Lo dimostra il caso degli Spartani che hanno ridotto alla fame la città di Platea: anziché prenderla con la forza, le si propone di arrendersi autonomamente, ma, secondo Tucidide (3, 52, 2), lungi dal costituire un atto di magnanimità, la proposta era stata avanzata per interesse: «affinché, se ci fosse mai stato un trattato di pace con gli Ateniesi e ci si fosse accordati che ognuna delle due parti restituisse i territori conquistati con la guerra, Platea non fosse restituita in quanto era venuta ad un accordo spontaneamente». In breve, ancora una volta il rispetto del nemico caduto nelle proprie mani emerge solo quando esso assicura qualche tornaconto. All’interno di questo orizzonte agiva anche lo stratego ateniese Timoteo, nella prima metà del IV sec. quando, assediando una città, delimitava il perimetro entro il quale i suoi soldati potevano foraggiarsi e raccogliere i frutti senza però distruggere le piante o le case: in tal modo, infatti, succedeva che, «se vinceva, raccoglieva più tributi; se la guerra si protraeva, aveva vitto e alloggio in abbondanza. Ma la cosa più importante di queste era che così si procacciava la benevolenza dei nemici» (Polieno, Strat. 3, 10, 5). La casualità per cui agli inizi della guerra del Peloponneso gli Spartani, trovandosi a passare vicino a Oropo, ne devastarono una zona solo perché gli Oropi erano sudditi degli Ateniesi (Tuc. 2, 23, 3) suggerisce pure che in contesti bellici ogni atto di ferocia nei confronti di chiunque appartenga alla parte opposta non ha bisogno di essere ulteriormente giustificato e che gli obiettivi accidentali e a portata di mano non vengono affatto trascurati solo perché non previsti prima. Celebre è l’episodio della strage di Micalesso (413) compiuta dai mercenari traci che gli Ateniesi rimandavano indietro sotto la guida di Diitrefe, egli stesso ateniese. Con inaudita brutalità, i Traci sterminarono gli abitanti, compresi donne e bambini incontrati per strada, nonché quelli trovati a far lezione in una scuola, e perfino gli animali da tiro e qualsiasi altro essere vivente che si vedesse139. Della strage, da Tucidide attribuita alla sanguinarietà tracia (7, 29, 4), in realtà doveva essere 139 Cf. Tuc. 7, 29-30, che chiude il racconto commentando che la sofferenza (páthos) di Micalesso, in rapporto alla grandezza della città, non è meno degna di essere lamentata (olophýromai) di nessuna delle altre sventure accadute durante la guerra: 7, 30, 4.
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almeno corresponsabile lo stesso Diitrefe, che lo storico fa sparire dal racconto ma che aveva già pianificato una razzia dello stesso manipolo a Tanagra (29, 2)140. Tutto ciò, d’altronde, è perfettamente in linea con la generale rappresentazione del barbaro; a maggior ragione poi se si tratta di barbaro nemico come il persiano Mardonio: la sua cavalleria, infatti, quando, prima della battaglia di Platea, cattura cinquecento animali da soma e gli uomini che li accompagnano, mette in atto una strage totale, «senza risparmiare nessun animale o uomo», e si ferma solo «quando è sazia di uccidere» (Erod. 9, 39, 2). Ma ancora una volta le uccisioni e le torture non erano crimini ‘superflui’, da qualunque delle parti in conflitto fossero messe in atto. Senofonte (Anab. 4, 1, 23), a proposito di due Carduchi che i suoi soldati hanno catturato e ai quali egli vuole estorcere informazioni sul territorio, racconta che il primo, poiché non rispondeva alle domande, «fu sgozzato sotto gli occhi dell’altro», il quale a questo punto fu pronto a parlare. Subito di seguito lo storico aggiunge tranquillamente che il Carduco superstite spiega che il compagno aveva taciuto perché non voleva mettere a rischio la vita della figlia che viveva in quei luoghi. Possiamo però notare come Senofonte si guardi bene dal riconoscere quello che sembrerebbe un eroico sacrificio del Carduco, in quanto egli guarda l’episodio dal punto di vista di chi è in guerra, o almeno di chi è in guerra in terra barbara141. Ancora Senofonte racconta dell’assalto dei Greci, guidati dal re degli Odrisi Seute, ad alcuni villaggi per procurarsi viveri: «furono radunati circa mille schiavi, duemila buoi e diecimila altri capi di bestiame» e l’indomani Seute ripartì, «dopo avere bruciato i villaggi completamente, senza lasciare neanche una casa, perché facesse paura anche agli altri sapere cosa avrebbero patito se non avessero ubbidito» (Anab. 7, 3, 48-4, 1)142. Nel 335 Tebe, che si era rivoltata al dominio macedone, viene di nuovo sottomessa, e i vincitori, irritati
Cf. Longo 1984, 189-190; Quinn 1995; Ampolo 1996, 20 sgg.; Payen 2003, 206 sgg. Senofonte, di Agesilao, può infatti segnalare il fatto che si astenga da maltrattamenti verso gli abitanti quando occupa Eutea, in Arcadia, e vi trova solo vecchi, donne e bambini, e si procuri ciò che gli serve comprandolo (Ell. 6, 5, 12). In altri casi, sottolinea (positivamente) la convenienza politico-militare della sua mitezza verso i nemici (Ages. 1, 20-2). 142 Cf. Payen 2012, 163 sg. 140
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per il temerario proclama con cui la città aveva invitato i soldati macedoni a passare dalla sua parte e a liberare la Grecia dal «tiranno» Alessandro, sgozzano senza pietà tutti coloro che capitano loro a tiro; intanto, i Beoti e in particolare i Plateesi, alleati dei Macedoni e in perenne conflitto con i Tebani, sfogano la loro rabbia sui vinti, all’interno di un contesto straziante in cui i Tebani feriti si comportano valorosamente, la città è coperta di cadaveri in ogni luogo, i Greci sono uccisi da Greci, i parenti da parenti; si giunge al punto che, «con estremo oltraggio», bambini, donne e anziani vengono tirati via dai templi in cui si sono rifugiati (Diod. 17, 13) 143. Alessandro, poi, per incutere paura ai popoli che avessero intenzione di defezionare, fa radere al suolo la città, i cui morti sarebbero stati seimila, fa vendere come schiavi gli abitanti, circa trentamila, e ricercare i fuggitivi vietando a tutta la Grecia di dar loro accoglienza144. La stessa logica – adottare misure severe allo scopo di intimidire – seguivano i Romani. Riportando che essi, appena conquistata la città di Cartagena in Iberia (209), avevano ricevuto l’ordine di «uccidere chiunque si trovassero davanti senza risparmiare nessuno», Polibio (10, 15, 4-5) aggiunge un commento basato sulla sua esperienza: «credo che agissero così per terrorizzare (katapléxeos chárin) [sott.: i nemici]. Perciò è anche possibile vedere spesso, quando i Romani prendono città, non solo uomini uccisi ma anche cani squartati e membra di altri animali fatti a pezzi»145; alla luce di ciò, potrebbe intendersi nello stesso senso l’uccisione degli animali che abbiamo visto attuata dai Traci a Micalesso e da Mardonio davanti alla pianura di Platea146.
Cf. Arriano, Anab. di Aless. 1, 8, 8: «a quel punto, con furore, non tanto i Macedoni quanto i Focesi e i Plateesi e gli altri Beoti uccidevano disordinatamente (oudení kósmo) i Tebani che nemmeno si difendevano più, alcuni nelle case dove avevano fatto irruzione, altri che si erano volti alla resistenza, altri ancora mentre supplicavano nei templi, senza risparmiare né donne né bambini». 144 Pol. 38, 2, 13; Diod. 17, 14; Plut., Aless. 2, 11, 11. Sia Polibio (38, 2), sia Arriano (Anab. di Aless. 1, 9, 2-5) paragonano questo disastro greco a quelli delle guerre precedenti per stabilirne la superiore gravità. 145 Per altro caso di punizione esemplare, cf. Pol. 1, 7, 12. 146 Tuttavia, con i prigionieri riuniti insieme, Publio Cornelio Scipione Africano Maggiore è generoso: li rilascia invitandoli a ricordarsi del beneficio ricevuto, ed essi, «al contempo in lacrime e felici per l’inaspettata salvezza, dopo avere ossequiato il comandante, si sciolsero» (Pol. 10, 17, 8). 143
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Asdrubale aveva inflitto strazianti torture ai Romani suoi prigionieri, nella maniera più feroce e pubblicamente, proprio perché i Romani vedessero ciò che accadeva (Appiano, Libr. cartag. 560). Analogamente, torture solo apparentemente ‘gratuite’ aveva inflitto un altro ‘cattivo’, il persiano Dario, ai Macedoni lasciati a Isso da Alessandro perché malati (Arr., Anab. di Aless. 2, 7, 1). I testi antichi riportano molti altri casi di punizione esemplare. Il più famoso è probabilmente quello avvenuto nel 427, quando gli Ateniesi votarono di uccidere tutti i maschi adulti di Mitilene, che si era ribellata, e di ridurre in schiavitù le donne e i bambini ma subito dopo cambiarono parere perché il castigo sembrò loro troppo duro e si limitarono alla riduzione alla schiavitù di tutti. Riconvocata l’assemblea, Cleone perorò, senza successo, l’opportunità della pena stabilita in precedenza affinché nessun altro alleato, avendo davanti «un chiaro esempio» di ciò che eventualmente avrebbe subito, pensasse mai a defezionare (Tuc. 3, 39, 7 e 40, 8). Diodoto intervenne in senso contrario e riuscì ad ottenere l’annullamento della precedente determinazione facendo appello però non al valore etico del perdono ma all’utilità che la città ne ricavava, in quanto punire l’intera Mitilene anziché solo i colpevoli avrebbe indotto in futuro chi si fosse ribellato a non cambiare idea sapendo che in questo caso sarebbe stato condannato a morte147. Gli Ateniesi, come ho già ricordato (cf. supra 1.2.), riservarono una sorte crudele – gli uomini furono uccisi, le donne e i bambini ridotti in schiavitù – sia agli Scionei nel 421, sia ai Melii nel 416 per avere defezionato dall’alleanza. Entrambi i massacri erano stati stigmatizzati dagli altri Greci, e perciò gli stessi Ateniesi, dopo la disfatta subita ad Egospotami (405), quella notte non dormirono «piangendo non solo i morti in battaglia ma anche, maggiormente, se stessi poiché ritenevano che avrebbero ricevuto quel trattamento che essi avevano riservato ai Melii, che erano coloni degli Spartani, (…) agli Estiei, agli Scionei, ai Toronei, agli Egineti e a molti altri Greci»148 – un elenco, come si vede, lungo e non esaustivo, e che presuppone una memoria lunga: Egina aveva subìto un duro trattamento non Tuc. 3, 42-8, part. 44, 2 e 46-7. Sui due discorsi cf. Cusumano 2017. Senof., Ell. 2, 2, 3; cf. 10: «pensavano che non ci fosse modo di salvarsi dal soffrire ciò che essi avevano fatto non per vendicarsi di un torto subìto, ma perché si comportavano ingiustamente, per prepotenza, nei confronti di abitanti di piccole città e per nessun altro motivo che perché erano alleati di quelli», cioè degli Spartani. 147 148
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solo nel 431, all’inizio della guerra del Peloponneso, ma già nel 457 (Tuc., rispettivamente, 2, 27, 1 e 1, 108, 4), e analoga sorte aveva subìto Estiea nel 446 (1, 114, 3). In effetti, poi, i Corinzi, i Tebani «e molti altri Greci» proposero di annientare Atene e fu solo per il parere contrario degli Spartani che la città evitò il peggio (Senof., Ell. 2, 2, 19-20). Ho citato un gran numero di tipologie e casi di sofferenze inflitte ai civili per mostrare che, in sostanza, ci troviamo davanti a mostruosità appartenenti strutturalmente alla guerra, e non semplicemente proprie di singoli criminali di guerra e di individui ‘mostri’. Anche se le nostre fonti sembrano spesso sforzarsi di farli apparire tali, visto che di norma le attribuiscono a non Greci o, almeno, non ai loro ‘eroi’, non si tratta di casi sporadici, di eccezioni o di soli effetti collaterali della guerra sui civili. Quelli che chiamiamo «crimini di guerra» fanno parte intrinsecamente della pratica bellica, e la distinzione tra combattenti e non combattenti si rivela solo vuota retorica, perché se, per vincere, risulta utile accanirsi contro chi, civile o prigioniero, sia inerme, lo si fa. La tecnica della guerra non conosce distinzioni né limiti: essa è, per definizione, uno stato d’eccezione rispetto ad ogni regola.
14. La guerra stigmatizzata Forse in un unico caso le nostre fonti non hanno dubbi sul fatto che il ricorso alle armi sia deplorevole, cioè quando queste siano imbracciate in una guerra interna alla polis, in una stásis. Se la guerra tra città, pólemos149, può avere a suo favore una retorica che la giustifica, quella tra fazioni politiche non gode di discorsi che la celebrino, anche laddove venga ritenuta necessaria. Il dissidio cittadino è di per sé il massimo male che si possa concepire: «una stásis è peggiore di una guerra esterna fatta concordemente quanto la guerra è peggiore della pace» (Erod. 8, 3, 1); si tratta infatti della «guerra più vergognosa, più dura, più empia 149 Sui nomi, e sui concetti, di pólemos e stásis cf. le pagine di Stolfi 2012, part. 16 sgg. (con ricchissime note bibliografiche).
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e più odiosa sia per gli dèi sia per gli uomini» (Senof., Ell. 2, 4, 22), e a proposito della quale lo stesso oligarca Crizia, uno dei Trenta tiranni, può ammettere che essa produce più morti «di quanto sia opportuno» (2, 3, 24). Tuttavia, all’interno di un contesto di relazioni problematiche più ampio, la stásis è sempre a rischio di diventare guerra vera e propria. Così avviene a Epidamno, dove essa sfocia in pólemos quando gli aristocratici esiliati (forse nel 435) si alleano addirittura con i barbari e insieme a questi attaccano la città (Tuc. 1, 24, 6), e a Platea, che vede gli oligarchici chiedere aiuto ai Tebani e costoro intervenire volentieri e, appunto con l’appello fatto loro dall’interno della città, giustificare l’invasione attuata come gesto che, in quanto richiesto da una parte della città, non può essere considerato offensivo150. Oppure, la stásis può nascere dalla guerra, in quanto questa fornisce l’occasione perché contrasti sociali sopiti possano emergere rabbiosamente (come, mutatis mutandis, nei singoli Paesi occidentali, nei Parlamenti o sui social – complice il mezzo di comunicazione digitale – è stata spesso rabbiosa la discussione sviluppatasi in forma radicale durante l’invasione russa dell’Ucraina). Della frequenza di questo circolo vizioso è testimone il fatto che Enea Tattico, nel suo manuale di poliorcetica, dia precisa raccomandazione di rafforzare nella città, in tempi di guerra, la concordia interna tra creditori e debitori attraverso la diminuzione o la completa eliminazione del tasso di interesse o, consapevole che «i debitori sono pericolosissimi», perfino attraverso la parziale o totale cancellazione dei debiti e il sovvenzionamento pubblico di tutti gli indigenti (Poliorc. 14, 1-2)151. Dionigi di Alicarnasso ricorda che a Roma, nel 494, proprio in questo senso aveva operato anche Manio Valerio nella carica di dittatore, quando incombeva la guerra con i Volsci (Ant. rom. 6, 41, 2 e 43, 3). Ci si rende conto dunque che i contrasti sociali, accettati in regime di pace cioè quando essi non mettono a rischio il funzionamento della polis, vanno mitigati al massimo nel momento in cui i poveri sono in grado, alleandosi con 150 Cf. Tuc. 3, 65 (ottenuto il loro rifiuto, si recano a Corinto dove, «secondo giustizia», vengono forniti loro aiuti: 1, 25, 3). Per il meccanismo generale del rapporto tra lotte di fazione e guerra, cf. Tuc. 3, 82, 1. 151 Qui Enea rinvia anche ad un altro suo trattato Sulle risorse (non pervenutoci) per come fare ciò senza dispiacere ai ricchi.
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il nemico, di costituire un elemento fortemente destabilizzante per la città e di far correre pericolo alla sua stessa esistenza. La divisione interna alla polis, biasimata in coppia con pólemos o in quanto «stásis intestina» (Solone fr. 4, 19 W.), o «Ares interno» (Esch., Eum. 863), opera uno stravolgimento totale dei valori, confonde lo status di liberi e schiavi (cosa che, in realtà, può avvenire anche nelle guerre in cui, talvolta, si è costretti a far combattere anche questi ultimi) e mette in moto le peggiori tentazioni individualistiche, anche al di là delle ideologie di fazione che possono diventare il pretesto per portare avanti interessi privati. Il locus classicus è a questo proposito il resoconto tucidideo della guerra civile a Corcira del 427-425152. I democratici e gli oligarchici, anche qui alleandosi con altre città, occupano, rispettivamente, l’acropoli e la piazza e mandano araldi per la regione ad arruolare gli schiavi in cambio della libertà; ai combattimenti partecipano, con il lancio di tegole dai tetti, anche le donne dei democratici, mentre gli oligarchici bruciano le case intorno alla piazza; segue l’intervento dell’ateniese Nicostrato (con dodici navi e con opliti messeni) il quale riesce a condurre le fazioni a un accordo, che però non viene rispettato, e quindi la lotta riprende in forma allargata, con la partecipazione di Spartani e Ateniesi (Tuc. 3, 72 sgg.). Ecco una parte della drammatica descrizione che diventa, poi, descrizione della stásis nel mondo greco in generale: «per sette giorni (...) i Corciresi andarono uccidendo quelli dei loro concittadini che consideravano nemici, accusandoli di volere abbattere la democrazia, ma alcuni furono uccisi anche per inimicizia personale, e altri, ai quali era dovuto del denaro, vennero uccisi dai loro debitori. Si ebbe ogni forma di morte, e ogni cosa che suole avvenire in situazioni del genere accadde senz’altro, e si andò anche oltre. Infatti, il padre uccideva il figlio, e alcuni venivano strappati via dai templi o uccisi nei templi stessi, e altri morirono anche murati nel tempio di Dioniso. A tal punto divenne crudele la stásis, e lo sembrò ancor di più in quanto fu la prima tra tutte (...) e si abbatterono sulle città durante le lotte civili molti e duri eventi che avvengono e sempre avverranno finché la natura umana sarà la stessa ma peggiori o più miti e differenti nelle loro manifestazioni, a seconda del mutamento delle circostanze. Cf. Intrieri 2002.
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In tempo di pace e di buona situazione, le città e i singoli individui hanno modi di pensare migliori, perché non cadono in costrizioni al di fuori della loro volontà, ma la guerra, eliminando la comodità della vita quotidiana, è un maestro violento, e rende conforme alle circostanze lo spirito della gente. Dunque, le città si dividevano in fazioni e quelle che lo fecero dopo altre, a causa dell’informazione di ciò che era avvenuto prima aggiungevano ulteriori novità nei piani, con ingegno negli attacchi e con assurdità nelle rappresaglie. E gli uomini, per giustificazione, cambiarono il significato abituale delle parole in rapporto ai fatti. L’audacia sconsiderata fu ritenuta coraggio fedele ai compagni, l’esitazione prudente vigliaccheria decorosa, la moderazione apparato per la viltà, e l’intelligenza in ogni cosa ignavia in tutto; l’impetuosità sfrenata fu aggiunta alle caratteristiche della persona virile, e il riflettere con sicurezza ragionevole pretesto di inazione. Chi era duro era sempre ritenuto degno di fiducia, e chi lo contraddiceva veniva sospettato. Uno che macchinava insidie era intelligente e, se sospettava, era ancora più abile; se prendeva delle misure in anticipo in modo che non ci fosse bisogno di queste cose, risultava distruttore della propria eteria e spaventato dai nemici. Insomma, era lodato colui che preveniva chi stava per compiere un male ed anche quello che spingeva contro chi non aveva cattive intenzioni. E il legame di parentela divenne più estraneo di quello di eteria per il fatto che si era più pronti ad osare senza esitazione. (...) e si rafforzavano le garanzie reciproche non con la legge divina ma con la trasgressione comune delle leggi. Le parole dette bene dagli avversari venivano accettate con la precauzione fondata sui fatti, se si era superiori e non per nobiltà d’animo. E vendicarsi (antitimorésasthai) su qualcuno era stimato maggiormente che non subire per primi. E se mai avvenivano giuramenti di riconciliazione, dati da ciascuna parte nell’immediato di fronte ad una difficoltà, valevano perché non c’era altra possibilità; ma all’occasione chi faceva prima ad osare, se vedeva (l’avversario) indifeso, si vendicava più piacevolmente, a causa del giuramento, che se lo avesse fatto apertamente, e calcolava sia la sicurezza, sia il fatto che, prevalendo con l’inganno, acquistava il premio (agónisma) dell’intelligenza. La gente è chiamata più facilmente abile se è malvagia che ignorante se è onesta, e di questo si vergogna mentre di quello si vanta. (…) I capi delle fazioni, nelle città, ciascuno ricorrendo a parole di bella apparenza, cioè che preferivano il popolo e l’uguaglianza politica o l’aristocrazia moderata, curandosi a parole del bene comune, lo consideravano come premio (áthla) e lottando (agonizómenoi) in ogni modo per vincere gli uni sugli altri, osarono le cose più terribili (…) e nessuna delle due parti si comportava con 139
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rispetto religioso (eusebéia) » (3, 81, 4-82, 8).
Siamo in presenza dello sconvolgimento di tutti i rapporti naturali e sociali. Le regole della convivenza e quelle linguistiche vengono meno insieme: nel senso che comportamenti ostili e diffidenti, e così pure nozioni come quelle di audacia, macchinazione etc., che hanno una connotazione valoriale positiva solo in relazione a contesti bellici esterni alla polis, la acquisiscono adesso anche all’interno di questa, testimoniando che la guerra è nella città, tra i cittadini. E, come nelle guerre interpoleiche, non c’è spazio per coloro che si pongono al di fuori delle fazioni, che infatti diventano entrambe loro nemiche, o per invidia o perché ognuna di esse pretende che quelli si schierino dalla sua parte153. L’analisi tucididea della stásis individua senza infingimenti gli stessi meccanismi attivi nella guerra (menzogne, inganni, crudeltà anche nei confronti dei neutrali e soprattutto il fatto che nessuna delle parti in conflitto è pienamente ‘innocente’). La guerra nella città è guerra totale, di ognuno contro ogni altro, un mondo che non conosce la verità in assoluto, perfino nel rapporto tra parole e loro referenti154. Se il passo di Enea Tattico già citato (Poliorc. 14, 1-2) mostrava figure economiche dagli interessi contrapposti che, in contesto bellico, mettono a rischio la città in quanto potrebbe essere ‘venduta’ ai nemici, qui vediamo come la stásis possa diventare anche un momento di vera e propria lotta di classe, in cui i debitori ‘regolano i conti’ con i creditori mediante il loro assassinio e gli schiavi trovano la loro occasione di libertà155; e forse in quest’ottica bisogna leggere Cf. Tuc. 3, 82, 8 (non unica testimonianza di tale meccanismo: cf. Cozzo 2014, 236, e più in generale, ivi, tutto il par. 2.1.) 154 Più tardi, i democratici di Corcira metteranno in atto un piano ingannevole, consistente nel dare agli oligarchici una falsa informazione, come se li volessero aiutare, per indurli alla fuga e averli poi inermi in mano propria (4, 46 sgg.). La tragedia trova il culmine al cap. 48, dove è descritta la triste fine degli oligarchici, che in parte venivano uccisi, senza alcuna possibilità di difendersi, dall’alto dell’edificio in cui erano rinchiusi, in parte si suicidavano. Per alcune articolate analisi della stásis di Corcira, cf. Spina 2003, Fantasia 2008. 155 Cf. anche ivi 3, 84, 1; per qualche esempio più tardo di analoghe uccisioni di ricchi o di individui odiati compiute anche per denaro, cf. Diod. 19, 7, 2 (stásis siracusana del 317), Dione Cassio, St. rom. 30-5, 109, 10 (guerre sillane). Moggi 1999, 50, a fronte di chi considera le stáseis in termini di lotte per il potere fine a se stesso, cioè 153
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anche l’uccisione di quei Corciresi esiliati (di parte nobile) che, arresisi e tenuti prigionieri in un grande edificio, poi vengono fatti uscire a gruppi di venti e, se qualcuno vi vedeva un proprio nemico personale, lo trafiggeva a sangue freddo156. La logica della rappresaglia – un comportamento crudele in cambio di un comportamento crudele – che si è vista operare nella guerra interpoleica, vale anche qui. Nell’Atene del 404, divisa al suo interno, l’ipparco Lisimaco, della fazione di «quelli della città», cattura e sgozza alcuni uomini del partito di «quelli del Pireo» e questi ultimi uccidono in ricambio (antapoktéino) un cavaliere nemico (Senof., Ell. 2, 4, 26-7). Durante gli scontri tra i democratici del Pireo e le forze dei Trenta tiranni, qualcuno aveva approfittato del disordine generale. Per esempio, Lisia (Contro Filone 17-8) rimprovera all’ateniese Filone, trasferitosi a Oropo, di aver fatto delle sventure dei concittadini la sua fortuna personale andando in giro per le campagne, «da solo o alla testa di altri» evidentemente avendo costituito una banda, a depredare gli anziani che, impossibilitati ad aiutare la patria a causa della loro età e debolezza, erano rimasti nei demi157. Diodoro racconta con molta partecipazione le stáseis, come fa nella lunga descrizione (per certi versi analoga a quella tucididea delle lotte civili di Corcira) delle violenze interne scatenate da Agatocle a Siracusa nel 317 (19, 6, 6-8, 5). Lo storico, esponendo la slealtà, i tradimenti e le uccisioni, a un certo punto scrive: «e, in tempo di pace e in patria, Greci contro Greci, familiari in termini politico-ideologici, sottolinea il carattere economico della posta in gioco; cf. anche Fuks 1984, 190-7. 156 Tuc. 4, 47, 3 (segue, al capitolo successivo, una descrizione del tragico massacro di quelli che, compreso cosa succede all’esterno, si rifiutano di uscire). In particolare, la diffidenza sembra il vizio sostanziale nel caso delle guerre civili, perché essa introduce nella polis un atteggiamento e uno stato d’animo bellici: cf. Tuc. 3, 83, 1-2: sempre dopo la guerra civile di Corcira «così, a causa delle lotte civili, nel mondo greco si verificò ogni forma di perversione, e la semplicità, di cui la nobiltà di carattere è massimamente partecipe, derisa, scomparve, mentre prevalse di molto il contrapporsi reciprocamente con l’animo in maniera diffidente. Non c’era infatti, per riconciliarsi, né discorso capace di garanzie né giuramento temibile, ma tutti, in stato di superiorità, col calcolo che non c’era da sperare in nulla di sicuro, miravano a non subire più che ad avere la possibilità di fidarsi». 157 Casi simili sono stati documentati anche nella guerra in Ucraina ma non c’è da dubitare che avvengano in tutte le guerre.
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contro parenti, senza riguardo per la natura, i patti, gli dèi, osavano commettere queste trasgressioni delle consuetudini, per le quali non ci sarebbe stato chi non avrebbe avuto pietà per la sorte di coloro che le pativano: non dico un amico ma anche uno completamente ostile purché di animo equilibrato» (19, 7, 4).
Poi fa riferimento agli stupri compiuti dai soldati di Agatocle, anche provenienti da altre città, che, «dopo aver passato la giornata tra le uccisioni dei cittadini, non si astennero nemmeno dall’oltraggio e dalla trasgressione delle norme nei confronti delle donne»; infatti essi, secondo la considerazione già ricordata per cui la violenza alle donne è violenza agli uomini cui esse appartengono, «pensavano che avrebbero avuto sufficiente vendetta su coloro che avevano evitato la morte nell’abuso dei loro parenti: infatti, era ovvio che i mariti e i padri avrebbero patito come mali più terribili della morte l’immaginare l’oltraggio delle donne e il disonore delle ragazze»; Diodoro subito aggiunge che non ne racconterà i particolari: «bisogna evitare da parte nostra l’addizionale e consueta tragedia degli storici, soprattutto per pietà verso le vittime, poi anche perché nessun lettore desidera leggere dettagliatamente (katá méros) ciò su cui ha già a disposizione le sue proprie nozioni. Infatti, coloro che osavano sgozzare di giorno, nelle strade e nella piazza, persone del tutto inoffensive non hanno bisogno di uno che sveli cosa facevano di notte, da soli, nelle case e come si comportavano con ragazze orfane e donne senza difensori, cadute sotto il potere assoluto di individui assolutamente odiosi» (19, 8, 3-5).
La guerra civile non presenta combattimenti eroici. Il che non vuol dire che manchino comportamenti eroici. Nel momento della battaglia di Munichia (403), ad Atene, il comandante dei democratici Trasibulo, dopo che l’indovino ha raccomandato che i soldati non attacchino se prima non sia morto o sia stato ferito qualcuno, balza avanti e si fa uccidere dai soldati della fazione opposta (Senof., Ell. 2, 4, 18). Prima, però, egli si era rivolto ai suoi soldati schierati limitandosi quasi solo a parole d’incoraggiamento. Egli istruiva (didásko) coloro che non lo sapevano, e ricordava (anamimnésko) a coloro che lo sapevano, che contro di loro stavano marciando uomini già da loro sconfitti qualche giorno prima e i Trenta che li avevano ingiustamente proscritti; dunque, aggiungeva mostrando come le condizioni meteorologiche fossero improvvisamente cambiate in maniera tale da porli in posizione di vantaggio, «gli dèi 142
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(...) ora manifestamente combattono insieme a noi», cosicché, se il dio lo voleva, avrebbero riottenuto patria, case, libertà, onori, mogli e figli: sarebbero stati beati i vincitori ma felici anche i morti perché avrebbero avuto il più bel monumento di commemorazione (mneméion) (2, 4, 13-7). Se tutto questo non sembra poi troppo lontano dai topoi utilizzati nel caso delle guerre interpoleiche, tuttavia, nella guerra civile interviene anche un altro specifico fattore su cui Senofonte non manca di dilungarsi. Dopo la battaglia, vinta dai democratici, c’è una tregua e tra le due parti si instaura un clima amichevole, tanto che molti si incontrano e parlano e l’araldo Cleocrito, fatto fare silenzio, si rivolge ai soldati del fronte opposto: «Cittadini, perché ci cacciate via? Perché volete ucciderci? Noi infatti non vi abbiamo mai fatto alcun male, anzi abbiamo partecipato con voi ai culti più venerabili, ai sacrifici e alle feste più belle, e siamo stati insieme nei cori, insieme a scuola, insieme nel servizio militare (synchoreutái kái symphoitetái ... kái systratiótai), e con voi abbiamo corso molti pericoli, in terra e in mare, per la comune salvezza e libertà di entrambe le parti. In nome degli dèi aviti, dei nostri padri e delle nostre madri, della parentela e affinità e della nostra eteria, poiché in molti partecipiamo reciprocamente di tutti questi vincoli, per rispetto degli dèi e degli uomini smettete di sbagliare nei confronti della patria, e non obbedite agli empissimi (anosiotátois) Trenta (...), costoro ci procurano la guerra reciproca, tra tutte la più vergognosa, la più dura, la più empia (anosiótaton) e la più odiosa sia agli dèi sia agli uomini. Tuttavia, sapete bene che anche tra quelli morti adesso per opera nostra ce ne sono molti per i quali non solo voi ma anche noi versiamo lacrime» (Ell. 2, 4, 20-2).
Queste parole, riferisce ancora Senofonte mostrandoci la dinamica che porta alla riconciliazione, spingono i capi avversari a fare rientrare l’esercito in città, e il giorno seguente, i Trenta, «abbattuti e isolati», si riuniscono nella sala del Consiglio, mentre i Tremila che partecipano del governo oligarchico si dividono. Chi aveva commesso qualche atto particolarmente violento e aveva perciò ragione di aver paura, suggeriva di non cedere a quelli del Pireo; invece, nei confronti di quanti erano consapevoli di non aver commesso alcuna ingiustizia, l’invito alla disobbedienza aveva pieno effetto. Essi sostenevano, infatti, che non c’era alcun bisogno di questi mali, e che non si doveva obbedire ai Trenta. Pertanto, i Trenta vengono deposti e si ritirano a Eleusi (coinvolgendo però nel conflitto gli Spartani) e vengono eletti i Dieci (23-4). Gli Spartani intervengono ma hanno risultati incerti e intavolano 143
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trattative, in parte segrete, con le due fazioni – che in qualche misura si osteggiano tra loro, mentre è lo spartano Pausania a suggerire la concordia e di essere «entrambi in comune amici degli Spartani» – fino a raggiungere la conciliazione che garantisce il rientro degli esuli, tranne i più diretti responsabili, cioè i Trenta, gli Undici e i Dieci (25-38). Segue un altro discorso di parte democratica, poi qualche strascico del conflitto. Ma alla fine, poiché a Eleusi i Trenta stanno assoldando mercenari, viene fatta una spedizione contro di loro ed essi sono uccisi, mentre a quelli che stanno con loro vengono inviati amici e parenti (phíloi e anankáioi) che li persuadono alla riconciliazione. È in questo modo che si arriva al giuramento delle due parti di «non ricordare il male» (mé mnesikakéin) che in passato esse si sono fatte reciprocamente (Ell. 2, 4, 43). È possibile che tale provvedimento implicasse anche la cancellazione dei documenti scritti che testimoniavano quel passato, così come era avvenuto dopo la caduta del governo oligarchico dei Quattrocento del 411 e che aveva interessato sia i documenti pubblici originali sia le copie private158. Siamo davanti, in sostanza, ad un fenomeno di amnesia politica a scopi riconciliativi. Il monito che voleva che nei rapporti esterni ci si ricordasse dei mali compiuti dai nemici soltanto per alimentare l’odio contro di loro – o, al contrario, a non ricordarsene per non ravvivare il proprio dolore impotente e il proprio senso di umiliazione, come era stato rimproverato dagli Ateniesi a Frinico, che aveva addirittura avuto una multa quando aveva portato in teatro, come tema di una sua tragedia, la presa di Mileto (Plut., Prec. pol. 814b) – diventa nel caso della guerra intestina un invito a dimenticare perché il ricordo non si trasformi in risentimento: la guerra e la pace sono scelte politiche di memoria o di oblio, non ineluttabili necessità derivanti dai fatti avvenuti.
158 Un’allusione alla cancellazione del 403 può essere quella di Aristot., Cost. degli Aten. 40, 3 («cancellarono le accuse relative ai fatti precedenti»), non unanimemente ammessa: breve discussione e accettazione in Roscalla 2005, 23. Per la sicura cancellazione degli eventi del 411, cf. Andoc., Sui misteri 76-9 (in generale, cf. Bertrand 1999, 61, ed. telemat.).
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Così era già avvenuto nell’Itaca omerica159, e poi in altre città che avevano pronunciato lo stesso giuramento160. Della formula «non portare rancore (mé mnesikakéin)» e delle vicende ateniesi si ricorderà anche Cicerone, in occasione dei tumulti scoppiati dopo l’uccisione di Cesare (Dione Cassio, St. rom. 44, 26, 3-4), nel suo invito al riconoscimento reciproco tra le parti in conflitto e nell’esortazione a «consegnare all’oblio» il passato che ha trascurato la «parentela» fra tutti i cittadini (32, 3-5)161. L’oratore romano, con parole che ricordano quelle di Gilippo a Siracusa162, dunque espresse nel corso di una guerra esterna, descrive la violenza intracittadina allorché una parte vince e l’altra è vinta: quest’ultima, se non è stata subito annientata, «per l’ira (orghé) della sconfitta desidera punire di ricambio (antitimoréisthai) la parte che ha recato l’offesa fino a che non abbia soddisfatto la sua rabbia (án tón thymón ekplésai)»163. La sconfitta mantiene viva, dunque, una dinamica di guerra: quella per cui, coltivando l’illusione della vittoria, bisogna solo aspettare il momento buono per riprendere le ostilità. Concepita come un disastro naturale dei cui danni non ha senso mantenere vivo il ricordo dettagliato, nutrendo un sentimento di immobilizzante sconforto o di folle rivalsa, la stásis va superata non solo formalmente ma anche psicologicamente. Ancora Cicerone: «evitiamo di essere troppo precisi in tutto, per non perire tutti. Si potrebbero muovere molte accuse allo stesso Cesare, cosicché sembri che è stato ucciso giustamente, e di molte cose potrebbero essere ritenuti responsabili anche coloro che lo hanno ucciso, cosicché siano ritenuti anche loro degni di punizione. Ma questa sarebbe opera di persone desiderose di suscitare nuovamente discordie; bisogna invece che chi delibera rettamente non si danneggi ricercando con precisione la giustizia, ma si salvi ricorrendo all’equità. Sicché, ritenendo che questi avvenimenti siano accaduti come una grandinata o un diluvio, 159 Od. 24, 482-6; cf. Natalicchio 1997; Roscalla 2005; Loraux 1997[b], 245; Spina 2011; Cozzo 2014, 284. 160 Per es., a Megara, nel 424 (Tuc. 4, 74, 2) e a Samo nel 411 (Tuc. 8, 73, 6; cf. Hornblower 1996, 231-2). Per le dinamiche, cf. Cozzo 2014, 259. 161 Cf. Cozzo 2014, 268-9. 162 Cf. Tuc. 7, 68, 1-2, già citato in 2.1. 163 Dione Cassio, St. rom. 44, 29, 2, Tutto il cap. 29 fornisce un’idea della graduale escalation che porta alla guerra civile generalizzata.
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consegnateli all’oblio e, riconoscendovi ora reciprocamente, in quanto siete della stessa stirpe e concittadini e parenti, vivete nella concordia» (Dione Cassio, St. rom. 44, 32, 3-5)164.
Guardare ai disastri determinati dall’azione degli uomini come si guarda a quelli determinati dall’azione della natura, cioè non con insensata acredine verso chi ha offeso per primo ma con desiderio di andare avanti, di ricostruire: ecco la soluzione. Nella Roma arcaica di Dionigi di Alicarnasso, nel 491, era Coriolano, personaggio dal carattere rigido e inflessibile (dunque molto lontano da atteggiamenti conciliativi)165, a volere risolvere il problematico rapporto con la plebe in termini di ricerca del primo offensore, facendo in tal modo crescere la tensione sociale (Ant. rom. 7, 23, 1-2). Egli pretendeva di applicare il criterio del «chi ha iniziato?» e del non dimenticare, che la città utilizza nel caso delle guerre esterne, anche per il conflitto civile e perciò veniva biasimato da tutti166. La comunanza di stirpe e la parentela tra i soldati degli opposti fronti gioca un ruolo rilevante nella descrizione drammatica che gli storici antichi forniscono della battaglia di Farsalo. Appiano di Alessandria (II sec. d.C.) espone i brevi discorsi dei due comandanti Pompeo e Cesare alle milizie: il primo invita a comportarsi da soldati più numerosi di quelli di Cesare, da vittoriosi di fronte a vinti, da giovani di fronte a vecchi etc. e da rispettosi della patria e delle leggi; il secondo ricorda le precedenti vittorie su quelli che gli si oppongono, l’ingiustizia da lui patita in precedenza, la clemenza da lui mostrata, la lunga esperienza militare dei suoi soldati, la pochezza degli alleati degli avversari che vanno uccisi per incutere terrore negli Italici che invece è giusto mettere solo in fuga, l’opportunità di distruggere i Cf. 33, 4: «poiché queste cose sono ormai avvenute, non credo che voi dobbiate ancora darvi da fare intorno ad esse. Infatti, se il tale o tal altro avesse ottenuto qualcosa al di fuori del giusto e al di là del merito, ci perdereste tanto quanto vantaggio avreste non procurando paura o scompiglio a coloro che allora erano potenti?». 165 Cf. Cozzo 2014, 252. 166 È nei confronti della tirannide, invece, che la politica dell’oblio non vale, tranne che come oblio a fini non di riconciliazione ma, come si è visto in 2.5.1., di punizione. Anzi, poteva capitare che, per onta del tiranno, si vietasse di distruggere la stele in cui erano menzionati e condannati i suoi crimini; cf. Bertrand 1999, cap. 5 (Les manipulations de la parole dans la cité magnète), part. 62-3, per il secondo caso cf. anche Heisserer 1980, cap. II, e Bencivenni 2003, cap. 3. 164
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propri ripari prima di andare in battaglia, affinché sia chiaro sia a loro sia ai nemici che stanno scegliendo «la vittoria o la morte» (Guerre civ. 2, 72, 299-74, 310). Poi lo storico dà un’idea dell’angoscia dei due protagonisti ricorrendo all’introspezione psicologica. Dapprima, nel silenzio più profondo, entrambi i comandanti esitano ad assumersi la responsabilità di dare inizio (árcho) alla battaglia (77, 320): «avevano compassione della massa degli uomini, non essendo mai sceso in campo per un unico pericolo nessun esercito italico tanto grande, ed avevano pietà del valore dei soldati scelti che si trovavano dall’una e dall’altra parte, e soprattutto quando vedevano che erano Italici contrapposti ad Italici» (321). Ora la loro ambizione si spegneva perché, a causa loro, una massa tanto grande di uomini rischiava la vita (322), e perciò «veniva loro in mente che essi, che fino ad allora erano stati amici e congiunti e avevano cooperato reciprocamente in vista della fama e del potere, adesso portavano le spade gli uni contro gli altri e guidavano ad uguale empietà i loro soldati, che erano reciprocamente dello stesso popolo e concittadini e della stessa tribù e della stessa stirpe, ed alcuni anche fratelli; non mancava neanche questo, infatti, in quella battaglia, e come avviene tra decine di migliaia di persone dello stesso unico popolo che vanno le une contro le altre, accaddero molti fatti al di là di ogni aspettativa» (323).
La riflessione lascia ognuno dei due comandanti incerto sul da farsi ed esitante a dare inizio (árcho) al combattimento. Essa conduce entrambi addirittura al desiderio di cambiare decisione, cosa in realtà ormai «non più possibile» (la dinamica della guerra, una volta avviata, è sovrana degli uomini che la fanno, e, come già ho detto, l’opera non consente di essere lasciata incompiuta), e di non attaccare; poi, l’emozione giunge al culmine e lo storico ce la mostra aggiungendo che «dicono che ciascuno dei due anche pianse» (324). Quindi, la battaglia è descritta, per così dire, asetticamente rilevando gli accadimenti che sembrano parlare da se stessi: «avvenivano molte e varie azioni di ferimenti e uccisioni, ma nessun grido si levava da una falange tanto numerosa che compiva tali azioni, né lamenti di uccisi o colpiti ma solo fremiti e gemiti di uomini che cadevano compostamente là dove erano stati schierati» (79, 332). Infine si
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assiste alla clemenza di Cesare, sul campo stesso, nei confronti dei soldati vinti (80, 336-7). Il racconto di Dione Cassio di Nicea in Bitinia (III sec. d.C.) relativo agli stessi eventi accentua gli elementi emozionali. Quando i soldati di Cesare e di Pompeo si fronteggiano, «la vista dei due eserciti accampati l’uno di fronte all’altro offriva una certa immagine di guerra, ma l’uso delle armi taceva come in pace. Considerando la grandezza del pericolo e riflettendo sull’oscurità e imponderabilità delle cose ed avendo ancora una certa vergogna per la comunanza di razza e di parentela (tóu te homophýlou kái tés synghenéias) indugiavano e si mandavano proposte di amicizia, e ad alcuni sembrò anche che ci fossero stati tentativi di riconciliazione vani» (St. rom. 41, 53, 1-2).
Dione esplicita che Cesare e Pompeo, provenendo dallo stesso Stato, nelle loro esortazioni all’esercito trattano gli stessi argomenti ricorrendo ai soliti motivi (in un caso avrebbero avuto la morte o la schiavitù, nell’altro si sarebbero salvati o sarebbero diventati padroni), peraltro «chiamandosi a vicenda (allélous) tiranni e liberatori di coloro che ascoltavano» (St. rom. 41, 57, 1-2). In tal modo – vale la pena citare ampiamente per apprezzare la forte pateticità del racconto che sottolinea continuamente, per mostrare l’insensatezza e la contraddizione del ricorso alle armi, ciò che accomuna i belligeranti –, «spingevano gli uni contro gli altri (allélois) uomini della stessa razza (homophýlous), compagni di tenda (syskénous), di mensa (syssítous), di libagione (homospóndous). E chi potrebbe compiangere (án …odýraito) la sorte degli altri, quando quelli stessi [cioè: Pompeo e Cesare] che erano l’uno per l’altro (allélois) tutte queste cose, e inoltre avevano avuto comunanza di molti discorsi segreti e di azioni uguali (homóion) e che una volta erano stati parenti e avevano amato, l’uno come padre e l’altro come nonno la stessa bambina, tuttavia combattevano? Infatti, quanto la natura mescolando il loro sangue aveva collegato, tutto questo allora essi per l’insaziabile desiderio di potere scioglievano, laceravano, spezzavano. E a causa loro anche Roma veniva costretta a correre pericolo al contempo per se stessa e contro se stessa, sicché anche vincendo sarebbe stata sconfitta. Si affrontarono in battaglia in questo modo. Non si scontrarono subito, ma, poiché muovevano dalla stessa patria e dallo stesso focolare e avevano armi simili e uguali schieramenti, entrambi esitavano a cominciare la battaglia ed esitavano a uccidere qualcuno. C’era 148
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grande silenzio e abbattimento in entrambi gli eserciti, e nessuno di essi avanzava né si muoveva affatto ma, col capo chino, stavano immobili come privi di vita. Allora Cesare e Pompeo, temendo che, restando inerti per parecchio tempo, i soldati perdessero in qualche modo il loro vigore o anche che si riconciliassero, ordinarono in fretta ai trombettieri di dare il segnale e agli eserciti di intonare il grido di guerra. Ciascuna cosa fu fatta, ma furono tanto lontani dal riprendere forza che col suono dei trombettieri che era simile e col loro grido nella stessa lingua ancor più manifestarono la loro uguaglianza di razza (homóphylon) e svelarono l’uguaglianza di stirpe (homoghenés). E per questo caddero anche nel pianto e in lamenti. Dunque, quelli vennero allo scontro tardi, divenuti inconsapevoli di ciò che facevano, dopo che le forze alleate avevano già iniziato a combattere. Negli altri, che avevano una posizione lontana, il dramma era minore: infatti lanciavano frecce e giavellotti e sassi senza sapere chi colpivano. Invece gli opliti e i cavalieri se la cavavano con moltissima difficoltà, perché, essendo vicini gli uni agli altri (allélon) e potendo anche parlare tra loro, al contempo riconoscevano quelli che erano schierati di fronte e li ferivano, li chiamavano e li uccidevano, si ricordavano della patria e depredavano. Questo facevano e subivano i Romani e gli altri Italici che combattevano insieme a loro, ovunque si scontrassero; e spesso molti mandavano messaggi a casa per mezzo dei loro stessi uccisori. Invece i popoli soggetti combattevano con ardore e senza risparmio, con molta premura per la schiavitù dei Romani come una volta l’avevano avuta per la propria libertà, perché avevano desiderio che, essendo in tutto inferiori a loro, potessero averli come compagni di schiavitù. La battaglia fu dunque grandissima e varia, sia per questi motivi, sia per la massa e la multiformità dell’apparato di guerra. Moltissimi opliti e cavalieri, e moltissimi arcieri e frombolieri che occupavano tutto il campo, e, sparsi dappertutto, combattenti di eguale e di diversa armatura si scontrarono gli uni con gli altri. (...) Ciò avveniva, come ho detto, non in un solo luogo, ma contemporaneamente in molti luoghi, qua e là, cosicché era possibile vedere molti combattimenti di fanti e molti di cavalieri, alcuni combattenti da lontano e altri corpo a corpo, alcuni colpendo e altri venendo colpiti, alcuni in fuga e altri all’inseguimento. E in tutto ciò accadevano anche molti fatti incredibili: infatti, uno, dopo aver volto in fuga il nemico, si dava alla fuga; un altro, dopo avere schivato il nemico, lo attaccava; uno, dopo avere colpito, veniva ferito, e un altro, caduto, uccideva chi era in piedi. Molti morivano anche senza essere feriti; molti, quasi morti, uccidevano. Gli uni gioivano e intonavano il peana, gli altri piangevano e si lamentavano, sicché tutto era pieno di grida e di 149
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gemiti, e da ciò nella maggior parte nasceva confusione; infatti, le parole dette essendo loro incomprensibili a causa della diversità di razza e di lingua, li impaurivano terribilmente, mentre, per quelli che si capivano tra loro il male era molte volte maggiore, perché, oltre alle sofferenze proprie, vedevano e sentivano anche quelle dei vicini» (41, 57, 3-60, 6).
La scrittura di Dione non lascia dubbi sulla direzione in cui lo storico vuole avviare il lettore. Ma essa mette in luce anche il dramma della guerra civile vissuto dagli stessi suoi protagonisti e al contempo ci informa sui dispositivi bellici usuali, che però solo nel racconto del conflitto interno alla città vengono fuori con chiarezza. Mi riferisco in particolare al fatto che l’ingrediente fondamentale perché la carneficina abbia inizio è l’estraneità di una parte rispetto all’altra. Infatti, non sono le prime file degli eserciti a iniziare l’attacco ma quelle che non vedono gli avversari e hanno dunque davanti a se stesse un bersaglio anonimo, per così dire astratto. C’è poi da osservare che, tra il momento dello schieramento e quello dello scontro, i comandanti badano a non lasciare passare troppo tempo, specialmente in silenzio, affinché non ci sia la possibilità di riflettere su ciò che si sta facendo, non si perda lo spirito battagliero, non si pensi alla conciliazione o a misure alternative alle armi. In occasione delle guerre intestine, ci si può ricordare delle vittime civili e anzi arrivare a dire, come fa ancora Cicerone in Dione Cassio 44, 30, 5-31, 1, dopo l’uccisione di Cesare nel 44: «coloro che sono morti in armi, benché sia molto giusto piangere anche loro, tuttavia sono da compiangere meno: perché andarono alla battaglia di loro volontà, seppure siano da chiamare volontari quelli che sono stati costretti dalla paura e hanno sopportato una morte sia pure ingiusta ma almeno virile e sono caduti senza soffrire in una lotta alla pari e con la speranza di essere superstiti e vincere. Invece, quelli caduti violentemente nelle case e nelle strade e nel Foro e perfino in Senato e in Campidoglio, non solo uomini ma anche donne, non solo giovani ma anche vecchi e bambini, uccisi in modo miserando, come si potrebbero piangerli adeguatamente? (...) In realtà, io credo che questa che abbiamo vissuto non sia una vita da uomini bensì da bestie selvagge che si distruggono a vicenda. Ma perché piangere più a lungo sulle cose ormai accadute? In effetti, non potremo mai renderle non accadute. Guardiamo però al futuro. Le ho ricordate anch’esse, infatti, non per elencare le sventure comuni, che magari 150
Capitolo III Il ruolo dello storico
1. ‘Storia’ La parola «storico» va intesa in senso lato, perché, nonostante sia questo il nome che siamo soliti assegnare ad autori come Erodoto o Tucidide, non abbiamo alcun motivo di credere che se lo attribuissero essi stessi. Ancora Isocrate si riferisce a quelli che noi denominiamo storici semplicemente indicandoli come coloro che «hanno voluto raccogliere le imprese di guerra» (Antid. 45). A quei tempi, generi e forme narrative non hanno uno statuto nettamente distinto o, almeno, esso non coincide con le categorie odierne1. Se già storia contemporanea, per dirla con una categoria nostra, fanno i mitici aedi Femio a Itaca (Od. 1, 326 sgg.) e Demodoco tra i Feaci (Od. 8, 73 sgg.; 492 sgg.) cantando vicende concernenti Odisseo, e personaggi reali come Simonide di Ceo (fr. 531 P.: per i morti alle Termopili; fr. 532: per l’Artemisio; fr. 536: per Salamina), Paniassi di Alicarnasso (Fatti della Ionia), Cherilo di Samo (poema epico Fatti persiani), Timoteo di Mileto (nomo citarodico Persiani) celebrano in versi le vittoriose guerre contro i Persiani2, evidentemente la distinzione formale non implicava una differenza di tematiche. Come scrisse Plutarco, infatti, c’era stato un tempo in cui era abituale comunicare servendosi di versi e canti, «mettendo in poesia e in musica tutta la storia e la filosofia e, per dirla in breve, ogni sentimento e ogni azione che richiedevano una forma più solenne» (Orac. della 1 Cf., tra gli altri, Marincola 1999 e, anche più in generale per altri ‘generi’, Cozzo 2006 (in particolare, rispetto a quella che chiamiamo «storia», 219 sgg.). 2 Cf. Lulli 2011 e Kuch 1995.
Il ruolo dello storico
Piz. 406b-c). D’altronde, la poesia poteva esagerare sì, ma in fin dei conti anche Tucidide, che si sentiva in concorrenza con i poeti, poteva riportare i discorsi dei protagonisti della guerra del Peloponneso come a lui «sembravano» dovere essere stati pronunciati in rapporto alle singole situazioni (1, 22, 1), per giunta senza rinunciare, come già detto, a effetti retorici – e, come cercherò di mostrare più oltre, non si tratta dell’unica ‘distanza’ da quella «verità» dei fatti che siamo soliti attenderci da uno storico. Nel presente capitolo, dunque, cercherò di mostrare, anche qui per larghe linee, come venga delineato di volta in volta l’oggetto della memoria dei fatti umani che si vogliono tramandare.
2. Cosa raccontare. L’eroismo militare, o la formazione dell’histoire-bataille Partiamo, secondo l’uso, da Erodoto. Come è ben noto, la sua ricerca, historíe, intende narrare gli avvenimenti umani – «affinché col tempo non sbiadiscano» – e le opere grandi e straordinarie (érga megála e thomastá)3 – affinché non restino «senza gloria» – e il «motivo per cui i Greci e i barbari combatterono tra di loro» (1, Proemio). Si tratterà di opere civili materiali e intellettuali (eccezionali monumenti come le piramidi, o opere come particolari argini di fiumi o oggetti artistici, o usi e costumi strani per i Greci etc.) e di opere militari. Larghissimo spazio è dedicato alle prime, specialmente se paragoniamo questa storia alle molte altre successive che ci rimangono. Tuttavia, le seconde non hanno un ruolo di poco conto e talvolta sembrano, sulla base di certe espressioni usate da Erodoto, costituire il «grande» per antonomasia. Erodoto dice infatti che un esercito fugge «senza aver combattuto con nessuno e senza aver mostrato nulla di rilevante 3 O anche «degne», «degne di essere viste», «degne di essere raccontate», «splendide», «degne di ricordo» etc. (cf. p. es. 1, 16, 2: érga axiapeghetótata; 59, 4: megála érga; 174, 1: lamprón érgon; 2, 111, 1, dove però regge il sostantivo «spedizione»; 3, 155, 6: megála érga; 6, 15, 1: érga lamprá; 7, 139, 3: érga megála; 223, 4; 8, 17, 1: megála érga; 89, 2; 90, 4; 91, 1: érga lógou áxia; 1, 184: argini axiothéeta; 2, 101, 2: opere civili come mnemósyna; 7, 24: potenza che costituisca lascito di ricordo con lo scavo di un canale; ad esserne soggetto possono essere però anche elementi naturali, come i fiumi che hanno mostrato effetti di qualche rilievo: 2, 10, 3). Cf. Ferrucci 2007.
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(óute ti apodexámenos, lett.: senza avere mostrato nulla)» (9, 67), e fa esortare Dario da Atossa a «mostrare qualcosa (di rilevante)» con una spedizione militare contro la Grecia (3, 134, 2-5), come se il campo di ciò che è da mostrare coincidesse in primo luogo con quello delle imprese belliche. Il nostro ricercatore, a proposito di Gige, che regnò per trentotto anni, informa rapidamente dell’invasione di Mileto e di Smirne e della conquista di Colofone dicendo che per il resto «non avvenne, per opera sua, alcunché di grande» (1, 14, 4), e poi continua: «dopo avere ricordato quanto detto, tralasceremo dunque costui, e farò menzione di Ardi figlio di Gige che regnò dopo Gige. Questi prese Priene e attaccò Mileto» (15, 1). Nonostante i suoi libri ‘geografico-etnologici’ e i suoi vasti interessi, anche aneddotici e novellistici, per tutto ciò che desta stupore, egli resta in buona parte all’interno di un pensiero fortemente segnato dall’orizzonte bellico. Erodoto adotta una strategia narrativa critica nei confronti delle guerre di conquista, mostrandone la «follia» e il fallimento, ma si muove pur sempre in buona parte all’interno di una cultura di guerra. Ad esempio, presentando il popolo dei Traci come molto numeroso, egli considera le implicazioni di tale fattore in termini che non mi pare lascino dubbi sulla prospettiva mentale adottata: «se fosse governato da un solo uomo o pensasse concordemente sarebbe imbattibile (ámachon) e di gran lunga il più forte». Altrove Erodoto interpreta il progresso degli Ateniesi facendo riferimento alla loro potenza militare: fino a quando furono sotto la tirannide, «nelle attività di guerra» non furono superiori ai popoli vicini, mentre «divennero di gran lunga i primi» quando si liberarono dai tiranni, perché, oppressi da costoro, agendo per dei padroni, si comportavano da vili, laddove da liberi erano motivati dai loro stessi interessi4. D’altronde, quando informa sui nomi di coloro che si distinguono per il valore (aristéuo) in battaglia (come in 9, 105), egli si pone in continuità con quei generali che, come ho mostrato (cf. 2.3.), hanno appunto anche il compito di assegnare ai soldati meritevoli il premio al valore. Rispetto ad Erodoto, Tucidide ritaglia il suo oggetto di ricerca – «la guerra (tón pólemon) tra i Peloponnesiaci e gli Ateniesi», «come combatterono tra loro (hos epolémesan prós allélous)» (1, 1, 1) – limitandolo, 4
Erod. 5, 78; cf., in 5, 91, 2, le parole dello stesso Ippia. 153
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tra l’altro con parole molto simili, a quello che lo ‘storico’ di Alicarnasso aveva invece considerato solo una parte della sua indagine («e tra le altre cose anche per quale causa si fecero guerra tra di loro», tá te álla kái di’ hén aitíen epolémesan alléloisi), rivolta anch’essa agli «avvenimenti grandi e straordinari» (érga megála te kái thaumastá). La grandezza di cui vuole parlare Tucidide, poi, è proprio la grandezza bellica sul piano della durata della guerra e delle quantità di eventi militari (egli è, per noi, il vero iniziatore di quella storia evenemenziale politico-militare, sostanzialmente histoire-bataille, come la chiamerà l’École des Annales proponendosi di allontanarsene per privilegiare invece la storia sociale)5. Tucidide ci mette davanti a tali eventi bellici, costituendo, in una sorta di epopea storica, quasi rapsodo in prosa di fatti militari del suo tempo, formule e vere e proprie scene tipiche che pongono in sequenza il discorso dei comandanti ai soldati, l’attacco e la messa in fuga del nemico, l’uccisione di molti, il tumulto, la fine della battaglia, la spoliazione dei morti, l’innalzamento del trofeo, il ritorno in patria. Il narratore della guerra del Peloponneso, in realtà, presenta anche le sofferenze dovute alla guerra o ad essa concomitanti. La guerra che ha preso in considerazione, scrive, è stata superiore anche a quella contro i Persiani. Quest’ultima era stata un fatto grandissimo (méghiston), ma aveva visto la sua conclusione con solo «due battaglie terrestri e due sul mare; invece, la lunghezza di questa guerra si protrasse per molto e durante il suo svolgimento accadde che avvenissero in Grecia sciagure (pathémata) quali non ce ne furono altre in uguale lasso di tempo: infatti né furono prese e rese deserte tante città, le une dai barbari, le altre a causa di loro stessi che combattevano in contrapposizione (e ci furono quelle che, conquistate, cambiarono abitanti), né ci furono tanti esili e tanta strage, nella guerra stessa o per le lotte intestine».
A tali sciagure vanno poi aggiunti fortissimi terremoti, eclissi e la peste verificatisi durante il conflitto (1, 23, 1-3)6. La grandezza, insomma, è qui un fatto sia qualitativo sia quantitativo. 5 Sul posteriore recupero dell’histoire-bataille nella forma di studio antropologico della storia delle battaglie cf. Henninger 1999. 6 Canfora 1999, 47 sgg., confronta il passo con Posidonio FGrHist 87 F 108b. Sul rapporto tra guerra e calamità naturali in Tucidide (all’interno di una tradizione già iliadica), cf., di recente, Bruzzone 2017 e Cusumano 2018.
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Se per un verso possiamo rilevare che Tucidide racconta con toni drammatici la tragedia della guerra tra Greci7, per un altro bisogna anche ammettere che tale tragedia è da lui individuata nella numerosità dei fatti militari catastrofici e, per lo più, nella fine misera e ingloriosa dei combattenti. A parte la menzione delle crudeltà nella guerra civile di Corcira, di cui ho già parlato, o certe annotazioni sparse qua e là o il racconto della strage di Micalesso o della triste sorte dei Mitilenesi che ho presentato nel capitolo precedente, è il disastro ateniese in Sicilia a farlo dilungare in una narrazione fortemente empatica con i soldati ridotti alla fuga e poi alla resa e alla prigionia seguita ancora dalla sofferenza e infine talvolta anche dalla morte nelle latomie. Vengono esposte anche le tristi vicende dei soldati di uno stesso esercito che, in situazioni di confusione o al buio, si uccidono tra di loro o vanno a cadere in precipizi, come succede sulle Epipole (7, 44, 7-8), o sono descritti massacri, come quello degli Ateniesi che, intrappolati in mezzo al fiume Assinaro (nel 413), inciampano e si calpestano e si feriscono con le lance o vengono colpiti dai Siracusani dall’alto mentre sono totalmente inermi. Benché Tucidide, come gli altri storici e al contrario di quanto avviene nell’epica8, non descriva spesso scene in cui il sangue sia espressamente menzionato, qui egli mostra l’acqua «insanguinata» e i cadaveri giacenti «gli uni sugli altri» (7, 84, 5-85, 1), in modo non troppo dissimile da come Omero presentava la corrente dello Scamandro, arrossata «di sangue» (Il. 21, 21) e piena di morti (218)9. Il racconto tucidideo assume toni epici anche nel caso dei combattimenti. A questo proposito, particolarmente significativa è la descrizione della battaglia di Pilo del 425 (4, 11-2). Varrebbe Canfora 1999, 59, scrive: «Tucidide, a torto ritenuto capostipite della storiografia pragmatica, dedica una pagina iniziale (I, 23) a ricordare per l’appunto le smisurate sofferenze concomitanti con la guerra che sta per narrare. Il cui risultato non è dunque soltanto che Atene perde l’impero, ma che masse di uomini affrontano la fame, l’esilio, la perdita di tutto, la prigionia efferata delle latomie, o la morte». 8 Sul ruolo fondamentale del sangue e delle ferite nella narrazione omerica cf. Civiletti 2012. 9 Si tratta di una descrizione che troviamo anche in altri casi: p. es. Plut., Emil. 21, 6; cf. Hanson 1989, cap. 17: Il luogo del massacro. Per altre «sofferenze» (pathémata, termine da Tucidide riservato quasi sempre alle sciagure militari, in guerra o in guerra civile), cf. Intrieri 2019. 7
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la pena riportarla interamente ma mi limiterò a richiamare un passo plutarcheo che ne rileva la vividezza espressiva (enárgheia), paragonabile a quella dei pittori: «Così Tucidide con il suo racconto si sforza sempre in vista della vividezza, desiderando avidamente rendere l’ascoltatore uno spettatore e mostrare gli avvenimenti vividamente impressionanti e sconvolgenti per i lettori come per coloro che li videro. Infatti, ci sono Demostene che schiera gli Ateniesi lungo la costa rocciosa di Pilo e Brasida che incita il timoniere a far arenare la nave e procede verso la scaletta ed è ferito e sviene e cade piegandosi a prua, e gli Spartani, che sono combattenti di terra, combattono sul mare mentre gli Ateniesi, che sono combattenti di mare, qui combattono a terra (...): per la composizione e la descrizione degli avvenimenti [sott.: si tratta] di vividezza pittorica (graphikés enarghéias)» (Gloria degli Aten. 347ab)10.
La capacità artistica di Tucidide fu ampiamente riconosciuta nell’antichità, e fu probabilmente uno dei fattori più importanti che contribuirono al successo dello storico11. Dionigi di Alicarnasso (A Pomp. 3, 21) aveva dichiarato di non vergognarsi a chiamare l’opera tucididea (e anche quella di Erodoto) «composizione» (póiesis)12, e, ancora secoli dopo, il retore d’età giustinianea Marcellino (Vita di Tuc. 41 Piccirilli) attesterà l’esistenza di una tale linea interpretativa pure ai suoi tempi: a causa del suo stile sublime, fatto di metafore e termini poetici, «alcuni osano sostenere che il genere della composizione di Tucidide è proprio non della retorica ma dell’arte poetica»13. Che tale 10 Su Brasida, eroe ‘epico’, almeno fin da Platone (cf. Simp. 221c, dove è assomigliato ad Achille), e, appunto, in Tucidide cf. Hornblower 1996, 38 sgg. e commento a Tuc. 4, 12, 1. 11 Tre, come mostra Connor 1985, sono gli elementi fondamentali della efficacia persuasiva di Tucidide: la costruzione della sua autorità, la complessità dello stile e, attraverso un «illusionismo mimetico», la narrazione «partecipativa». 12 Cf. anche Dion., Tuc. 15, 3, che però critica l’incoerenza drammatica di Tucidide, in quanto descrive conquiste, distruzioni e asservimenti di città talvolta in modo da far risultare tali eventi dolorosi «crudeli, terribili e degni di compianto» e senza lasciare «né a storiografi né a poeti» la possibilità di esagerare, altre volte invece di così poco conto che il lettore non vi percepisce nulla di terribile. 13 Cf. 35: «Tucidide fu emulo di Omero nella disposizione della materia e di Pindaro nella grandiosità e sublimità dello stile»; 37: «fu emulo, sopra tutti, di Omero sia nella scelta delle parole sia nella precisione del loro coordinamento, sia nella forza
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giudizio possa essere legato proprio alla vividezza della narrazione è ipotizzabile anche sulla base del fatto che, secondo lo PseudoDemetrio (Sullo stile 215-6), pure Ctesia (FGrH 688 F 24), storico del V-IV sec., poteva essere chiamato «poeta» in quanto in tutto il suo scritto egli era «artefice di vividezza»14. Dionigi definisce la vividezza pittorica come la «qualità che pone le cose dette sotto i sensi» in modo tale che esse passino dallo status di «cose dette (legómena)» a quello di «cose mostrate (delóumena)», cioè di fatti che l’ascoltatore «crederà di vedere mentre si stanno svolgendo» (Lis. 7, 1), e la riconosce sia a Erodoto sia a Tucidide (A Pomp. 3, 17)15. Quest’ultimo la presenta in molti altri passi di contenuto eroico-bellico. Nella battaglia di Mantinea del 418 (Tuc. 5, 69-74), per esempio. Oppure quando descrive la penosa fine degli Ateniesi che, «stanchi e fiaccati dalla lunga fatica (póno)», sotto il tiro degli Etoli si scompigliano e fuggono andando a morire in valloni senza via d’uscita o in boschi che vengono poi incendiati dai nemici: allora si assiste a «ogni forma di fuga e di morte» e avviene la disfatta di un gran numero di alleati e di centoventi opliti ateniesi, tutti «coetanei, i migliori uomini della città di Atene che perirono in questa guerra» (3, 98, 1-4). O, ancora (e forse soprattutto), a proposito degli avvenimenti militari in Sicilia, di cui Plutarco afferma, trovando seguito presso interpretativa sia nella rapidità». Ponchon 2008 ha messo in evidenza come alcuni tratti dell’opera di Tucidide la avvicinino alla tragedia secondo la sua definizione aristotelica (la sua estensione è compresa nel passaggio dalla buona alla cattiva sorte, come vuole Poetica 1451a 12-15, così come la sua unità è data dalla descrizione di azioni che necessariamente – ciò che Alcibiade ha fatto, per restare all’esempio aristotelico di fatto storico, è presentato in Tucidide nella sua «forma di universalità e di necessità, almeno in quanto questa azione è integrata alla totalità unificata che costituisce il confronto tra Sparta e Atene»: 58 – danno luogo ad un unico avvenimento) o come anch’essa provochi, attraverso concatenamenti causali inattesi, pietà e paura: si tratta di una «tragedia non poetica» (58) che vuole essere non una memoria di eventi ma, come «un libro di filosofia» (61), un «possesso per sempre». Tucidide non ha scritto un libro di storia, né nel senso odierno né in quello antico: «egli ha scritto la tragedia del reale umano, come acquisto per sempre» (62). 14 Un esempio di ciò sarebbe il passo in cui un messaggero riferisce a Parisatide la notizia della morte di Ciro «poco a poco, tenendo sospeso il lettore e costringendolo a soffrire insieme (synagonián)» alla madre. 15 Sulla vividezza (enárgheia), meccanismo retorico volto ad evocare immagini ed emozioni ad esse collegate cui si farà riferimento più volte nelle prossime pagine, cf. Walker 1993, Webb 1997, Dubel 1997, Ierodiakonou 2011.
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gli studiosi odierni16, che Tucidide ha riferito «in maniera inimitabile, superando se stesso in potenza drammatica, vividezza e varietà di stile» (Nic. 1, 1-4). Tucidide descrive – inscena con modalità poetiche, bisognerebbe dire più appropriatamente – non solo il fervido impegno militare in mare ma anche la partecipazione emotiva, ansiosa, di coloro che lo osservano dalla riva. Per apprezzarne il tono è opportuno riportare il racconto per esteso, benché lungo: «i Siracusani e gli alleati, essendo usciti con circa lo stesso numero di navi di prima, con parte di esse sorvegliavano l’uscita e il resto del porto tutto in giro, per assalire gli Ateniesi da ogni lato; e intanto la fanteria accorreva in loro aiuto dove le navi approdavano. Della flotta siracusana Sicano e Agatarco comandavano ciascuno un’ala, Pitene e i corinzi tenevano il centro. Avvicinatisi allo sbarramento, gli Ateniesi al primo urto vinsero le navi schierate di fronte e tentarono di infrangere il blocco; ma poi, attaccandoli i Siracusani e i loro alleati da ogni parte, la battaglia non fu più solo presso lo sbarramento, ma divampò per tutto il porto, e fu violenta come nessun’altra delle precedenti. Dalle due parti grande fu l’ardore (prothymía) dei marinai quando venne ordinato di assaltare, grande l’abilità dei piloti che opponevano manovra a manovra e la gara (agonismós) tra loro; e i soldati si curavano che, quando una nave si scontrava con una nave, la lotta dal ponte non fosse inferiore all’arte mostrata dagli altri: ognuno nel posto che gli era stato assegnato aspirava a mostrarsi primo. Scontrandosi molte navi in poco spazio (infatti, combatterono in moltissime all’interno di uno spazio ristrettissimo, tra le due parti erano quasi duecento), gli speronamenti erano pochi, per il fatto che non era possibile retrocedere e attraversare la linea nemica; invece gli urti, quando capitava che una nave si scontrasse con una nave, nel fuggire o nell’attaccarne un’altra, erano piuttosto frequenti. Per tutto il tempo che una nave andava all’attacco, quelli dal ponte delle navi nemiche lanciavano contro di essa giavellotti, frecce e pietre in abbondanza; dopo che le Cf., per citarne solo alcuni (a parte il classico Cornford 1907), Dover 1983; Walbank 1960, Hornblower 1987, in part. cap. 5 e Marincola 2003 (che sottolineano la dipendenza comune della tragedia e di Tucidide – come anche di Erodoto – dall’epica); Bedford, Workman 2001 («Tucidide ha narrato il declino di Atene come una tragedia»: 55); Polacco 1989-1990 (che individua nei libri della spedizione siciliana una vera e propria «tragedia in prosa»); in particolare sul Nicia tragico di Tucidide, cf. Marinatos 1980; per un altro passo (il dialogo tra l’araldo e ambraciota e gli Ateniesi in 3, 113) in cui viene rintracciata una sorta di «sticomitia di schietta fattura tragica», cf. Lapini 1991 (l’espressione citata è a p. 124). 16
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navi si urtavano, i soldati, venendo alle mani, cercavano di salire gli uni sulla nave degli altri. Capitava spesso che, per mancanza di spazio, gli uni speronassero e essi stessi fossero speronati, e che due navi, talvolta anche di più, rimanessero per forza impigliate con una, e i piloti dovessero evitare le une e attaccare le altre: non in un punto per volta, ma spesso da ogni lato, e che il grande fragore (ktýpon)17 delle molte navi che si scontravano producesse sbigottimento e impossibilità di udire gli ordini dei capiciurma. (…) Da terra la fanteria delle due parti, finché la battaglia navale fu equilibrata, era in grande travaglio (agóna) e tensione, perché quella del luogo desiderava ormai la vittoria per avere una gloria ancora maggiore mentre gli invasori temevano una sorte anche peggiore di quella presente. Poiché per gli Ateniesi tutta la speranza era nella flotta, la loro paura per ciò che stava per accadere non era paragonabile a nulla; e, per la varietà di quanto accadeva erano costretti ad avere da terra anche una visione varia della battaglia. Infatti, dato che l’osservazione avveniva da vicino e non tutti osservavano lo stesso punto, se alcuni vedevano i loro prevalere, riprendevano coraggio e si volgevano a invocare gli dèi che non li privassero della salvezza; invece quelli che guardavano verso una parte sconfitta gemevano e gridavano e alla vista di ciò che avveniva si abbattevano ancor più di quelli che erano in azione. Infine, altri, che guardavano in un punto della battaglia navale in cui le forze erano pari, e, per la continua incertezza della lotta, si affannavano con molta paura, anche con l’oscillazione del corpo parimenti a quella della mente stavano nella condizione più difficile: infatti, erano sempre sul punto di salvarsi o di perire18. E nell’esercito ateniese, finché si combatteva 17 Ktýpos è termine già omerico, e di tono epico sembra essere tutto il passo. Cf. la scena di Il. 4, 446-51: «quando giunsero a incontrarsi nello stesso punto, urtarono gli scudi, le lance e il furore degli uomini dalle corazze di bronzo, e gli scudi convessi cozzarono gli uni con gli altri e sorse un grande frastuono. C’erano insieme lamenti e grida di gioia di uccisori e di uccisi, la terra era inondata di sangue»; ad Omero sono debitrici spesso, in generale, le scene di battaglia, come quella che troveremo, molto più tardi, anche nel romanzo di Eliodoro (Etiop. 1, 30, 2-4): «E ogni aspetto della guerra era messo in atto e udito: gli abitanti sostenendo con ogni ardore e forza la battaglia, gli altri risultando superiori per la massa e per la sorpresa dell’attacco, e in parte uccidendoli sulla terra, in parte affondandoli nelle stesse barche e abitazioni nel lago; da parte di tutti si alzava verso il cielo un confuso clamore, poiché combattevano insieme per terra e sulle navi, e uccidevano e venivano uccisi, tingendo il lago di rosso, intrecciati al fuoco e all’acqua. Appena Tiamis vide e udì queste cose...». 18 Confrontando questa immagine con quella della folla degli spettatori alla partenza della spedizione dal porto ateniese in 6, 30-31, Walker 1993, 355 parla, a proposito dell’ultima categoria di osservatori, di «un prolungato stato di angosciosa
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con esito incerto, era possibile udire insieme gemiti e grida, urli di vittoria e di sconfitta, quant’altro di ogni genere in un grande pericolo un grande esercito può essere costretto a fare risuonare. Cose simili alle loro provavano (épaschon) coloro che erano sulle navi; finché, dopo che a lungo la battaglia fu incerta, i Siracusani e gli alleati fecero volgere indietro gli Ateniesi; e, incalzandoli splendidamente con molte grida e incitamenti, li inseguirono fino a terra. Allora i soldati navali, quanti non erano stati presi al largo, chi da una parte chi da un’altra, spinti a terra, si gettarono nell’accampamento; e l’esercito di terra, non più in modi differenti, ma tutti con un solo slancio e con gemiti e lamenti, non sopportando ciò che accadeva, andavano alcuni in aiuto delle navi, altri in difesa del resto del muro, e altri, che erano anche la maggior parte, ormai badavano a se stessi e a come si sarebbero salvati. In quel momento vi fu uno sbigottimento non minore di nessuno di tutti quelli che c’erano stati. Avevano subìto cose simili a ciò che essi avevano fatto a Pilo; infatti, distrutte le navi agli Spartani, erano andati perduti per questi anche gli uomini passati nell’isola, e ora per gli Ateniesi non c’era speranza di salvarsi per via di terra, se non fosse accaduto qualcosa di inaspettato» (7, 70-71).
Drammaticità a parte, questo tipo di descrizione, che si vuole minuziosa tanto delle azioni militari quanto degli stati d’animo, è fortemente improntato alla retorica e in buona parte semplice invenzione, e tale risultava anche ai contemporanei dello stesso Tucidide. Critico sui resoconti troppo meticolosi delle battaglie, che inevitabilmente si svolgono nella confusione, si mostrava infatti già il Teseo delle Supplici euripidee, quando, chiedendo ad Adrasto di parlare degli Argivi caduti a Tebe, gli chiarisce i limiti della sua richiesta: «una sola cosa non ti domanderò, per non espormi al riso, cioè con chi ciascuno di costoro si scontrò in battaglia o da quale dei nemici ricevette una ferita di lancia; sono vuoti questi discorsi, sia per coloro che li ascoltano sia per colui che li dice, il quale, andato in battaglia, mentre sono fitte le lance davanti ai suoi occhi, riferisce chiaramente chi è stato valoroso. Non potrei domandarti queste cose né aver fiducia in coloro che osano raccontarle: uno, stando di fronte ai nemici, già a
attesa (...). Ciò che questo passaggio ha in comune con la precedente scena del Pireo è l’enfasi sulla psicologia umana, forse anche sulla psicologia della folla. Tucidide sembra particolarmente interessato alle emozioni contrastanti e instabili della folla».
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stento potrà vedere ciò che gli è necessario» (846-56).
La consapevolezza che troviamo in questi versi tragici, simile a quella che risuona in certi esametri epici19, sembra decisamente maggiore di quella spesso presente nella prosa storiografica, per quanto lo stesso Tucidide non manchi di sottolineare, in realtà, che in una battaglia nessuno vede tutto ma «a stento vede quello che accade .nella sua zona» (7, 44, 1). Senofonte, per passare al terzo storico della triade canonica, a un certo punto delle sue Elleniche (4, 8, 1), scrive che menzionerà «le azioni degne di essere ricordate» mentre tralascerà quelle «non degne di racconto». Egli opera in quest’ottica anche indipendentemente dalla levatura di chi compie l’impresa; dichiara infatti di menzionare l’ammirevole resistenza di Fliunte perché, diversamente da come fanno solitamente gli scrittori di fatti di guerra, bisogna raccontare ciò che è nobile (kalón) anche, anzi a maggior ragione, se è compiuto dalle città piccole (7, 2, 1). Siamo sempre all’interno dello stesso orizzonte di pensiero: la grandezza delle azioni è un attributo qualitativo, non quantitativo, e coincide con la loro nobiltà e bellezza etico-politica (kalón). Più oltre, nel corso di una lunga descrizione della battaglia di Mantinea del 362 (Ell. 7, 5, 1-27), Senofonte scrive: «E qui, chi potrebbe non ammirare il valore degli Ateniesi? Essi, pur vedendo i nemici molto più numerosi, e dopo che a Corinto c’era stato un insuccesso dei cavalieri, non fecero conto di ciò né del fatto che stavano per combattere con i Tebani e i Tessali che avevano fama di essere i migliori nell’arte del cavalcare, ma vergognandosi che pur presenti non fossero di nessun aiuto agli alleati, non appena videro i nemici, si gettarono all’attacco, desiderosi di rinnovare la gloria dei padri. E combattendo furono responsabili del fatto che tutto ciò che era fuori si salvasse per i Mantineesi, e tra di loro morirono uomini valorosi, anche se è chiaro che uccisero a loro volta uomini dello stesso genere; infatti, né gli uni né gli altri avevano un’arma così corta da
19 Già il Nestore omerico, infatti, facendo il resoconto di un assalto troiano, riferiva che «presso le navi veloci combattono una battaglia accanita, spietata, e anche osservando attentamente non potresti capire da quale parte gli Achei, premuti, siano travolti, tanto confusamente sono uccisi e il grido giunge al cielo» (Il. 14, 58-60). Cf. anche, per analoga considerazione del poeta, in proprio nomine, 5, 85-6.
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non colpirsi a vicenda. E non abbandonarono i loro morti, mentre alcuni dei nemici li restituirono in base a una tregua» (7, 5, 16-7).
La voce dello storico si confonde con quella dei soldati, da lui ammirati, e ugualmente avviene quando parla, subito di seguito, di Epaminonda che decide di combattere in quanto, se vincerà, cancellerà le precedenti sconfitte e, se sarà ucciso, avrà una «bella fine (kalén tén teleutén) nel tentativo di lasciare alla patria il dominio (tén archén) del Peloponneso» (7, 5, 18). La battaglia si conclude con la pretesa di tutti e due gli eserciti di essere vincitori (26), «ma, benché entrambi andassero sostenendo di avere vinto, era chiaro che non avevano nulla di più che prima della battaglia, e dopo la battaglia ci fu in Grecia incertezza e disordine (akrisía kái taraché) più di prima» (27). L’enfasi posta sull’eroico combattimento (la stessa che ritroviamo nei nostri media e Governi a proposito della difesa armata ucraina, ma profusa allo stesso modo nelle guerre in cui l’attacco, questa volta condotto dalla ‘nostra parte’, viene giustificato come «preventivo» o «umanitario») convive così con la constatazione dell’effettiva insensatezza che è stata la guerra20. Ciononostante, Senofonte non ha nulla contro la guerra in sé e men che meno contro la guerra di conquista: gliela si è appena vista attribuire senza alcun biasimo a Epaminonda che desidera patriotticamente il dominio di Tebe sul Peloponneso, ed è ammirata, per esempio, anche nel persiano Ciro che si dà cura non solo di mantenere l’impero ma anche di ampliarlo (Cir. 7, 5, 70). Il trattatello dello Pseudo-Longino, Sul sublime (25), avvicina Senofonte a Tucidide per il fatto che entrambi menzionano fatti 20 Su cui Payen 2003, 208, scrive che qui Senofonte «descrive un mondo che non può essere retto dall’ordine della guerra, almeno per tre ragioni: innanzitutto, gli attori, che adottano un comportamento aberrante sul campo di battaglia (Elleniche 7, 5, 25), sono diventati incapaci di distinguere una vittoria da una disfatta (7, 5, 26), di modo che non è più possibile prolungare nel tempo l’alternanza delle offese e delle riparazioni su cui è fondata la storia dei conflitti; poi, nessuna città risulta capace di esercitare l’egemonia (arché), dopo una battaglia inutile in quanto non ha deciso nulla; infine, lo scontro non assicura e non mostra la preminenza di nessun capo, poiché Epaminonda è morto in combattimento» (ho citato nel testo, tra parentesi, le indicazioni che lo studioso presenta alle note corrispondenti, 29 e 30, alla fine del suo saggio, a p. 215). Secondo Payen, da Erodoto a Tucidide a Senofonte, «la continuità non è solo di ordine tematico: essa concerne una domanda stessa sul senso della guerra» (ivi).
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passati «come se stessero avvenendo e fossero presenti» e rendono il racconto «non più una narrazione ma un fatto pieno di vivacità», e riporta a titolo di esempio il passo della Ciropedia (7, 1, 37) in cui Senofonte scrive che «uno, caduto sotto il cavallo di Ciro e calpestato, colpisce con il pugnale il ventre del cavallo e questo, dibattendosi, sbalza Ciro che cade». Sono poche righe di una lunga descrizione di battaglia dai toni epici, con scompigli di combattenti, cavalli lanciati al galoppo «senza alcun risparmio», nemici travolti, inseguimenti e fughe, calpestamenti dei caduti e delle armi con i cavalli e con i famosi carri falcati che squarciano cose e corpi, rotture di assi e di ruote, «in una confusione indescrivibile» in cui si vedono «uomini valorosi» fatti a pezzi e «una terribile battaglia di lance, aste, spade» e «grande strage di uomini, grande fragore (ktýpos) di armi e di dardi di ogni tipo, alte grida di uomini che si chiamavano l’un l’altro, si esortavano, invocavano gli dèi» e così via di seguito (7, 1, 10-49).
3. A confronto con l’imperialismo 3.1. Polibio di Megalopoli: guerra difensiva e guerra di conquista Polibio, secondo cui lo storico può essere tale solo se si è direttamente occupato di politica, se ha militato come soldato e se ha avuto una vita familiare di marito e padre (12, 25h, 5) – in breve, se ha tutte le virtù del buon cittadino-soldato –, resta fortemente legato all’assiologia militare, anzi ne fa il fondamento assoluto del racconto storiografico. Per lui è principalmente in guerra che si fa, o non si fa, qualcosa «degno di racconto» o «di memoria»21. Ed è questo che egli scrive e tramanda, accompagnando l’esposizione dei fatti all’analisi delle loro cause, in quanto alla fine è questa ciò che davvero istruisce: «quale vantaggio c’è per i lettori nell’esporre le guerre, le battaglie, le riduzioni in schiavitù di città, gli assedi, se non conosceranno le cause per cui in ogni circostanza gli uni ebbero successo e gli altri insuccesso? Infatti, gli esiti finali delle azioni affascinano solo i lettori, mentre l’indagine adeguata delle considerazioni che stanno alla base degli avvenimenti è di vantaggio a quelli che desiderano apprendere: Cf. p. es. Pol. 1, 24, 8; 25, 6.
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al di sopra di tutto, la trattazione che illustra dettagliatamente ogni fatto migliora (epanorthói) le persone attente» (11, 19a, 1).
La figura dello storico è in stretta contiguità con quella del soldato, e tanto dell’una quanto dell’altra il personaggio-modello, per Polibio, è Odisseo22. Grazie alla conoscenza del passato, «uno, avendo subìto ingiustizia lui o la sua patria, potrà trovare soccorritori e alleati, e, aspirando a fare qualche conquista e a cominciare le ostilità (prokatárxasthai), potrà spingere a cooperare con lui nei suoi piani» (3, 31, 5). Come si vede, Polibio non vuole far conoscere solo i modi in cui le città possano difendersi dalle aggressioni ma anche quelli in cui iniziarle, come avveniva anche nel discorso patriottico (cf. supra 2.2.). Nello stesso giro di frase troviamo la giustificazione della guerra per chi sia vittima di ingiustizia e per chi l’ingiustizia (anche se qui la parola viene evitata) voglia compierla. Tucidide faceva emergere l’ideologia imperialista, da lui non condivisa almeno nei suoi eccessi (1, 118, 2; 2, 65, 7), nei discorsi dei comandanti. Polibio invece, partecipe dell’idea che «la espansione di uno stato si poneva in primo luogo come un processo naturale» e che quindi l’imperialismo romano aveva una sua «irresistibilità»23, intende espressamente mostrare in che modo e con quale regime costituzionale Roma abbia conquistato quasi tutto il mondo abitato in soli cinquantatré anni (1, 1, 5; cf. 6, 2, 3 e 39, 8, 7). La sua storia «pragmatica» vuole essere una storia del dominio politico e militare di Roma, ovvero delle sue guerre di conquista che le avevano reso «subordinata» quasi tutta la terra abitata24. Convengo con Musti sia sulla «resistenza mai superata in Polibio, dell’ideale ellenistico di autonomia», sia sulle «ambiguità e contraddizioni» del Megalopolitano, che presenta anche espressioni «di rassegnazione o
22 Cf., rispettivamente: 12, 27, 1-28, 5 e 9, 16, 11. Cf. Marincola 2007, 16-20, cit. in Battistin Sebastiani 2015, 125, che sottolinea anche l’aspetto di modello di diplomatico. 23 Così Musti 1978, rispettivamente, 41, 74 e 47. Ciò non toglie che emergano, comunque, anche espressioni in certa misura critica nei confronti di Roma: cf., p. es., 5, 104, 3 («al di là del dovuto»). 24 Cf. 1, 2, 7; cf. 1, 3, 6; 15, 9, 3.
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di consenso» nei confronti dell’imperialismo di Roma25, e anzi della cultura della liceità delle conquiste in generale che, come si è visto, anche prima tendeva a confondersi con la cultura patriottica. È alla luce di quest’ultima che più sopra, in 2.8., ho presentato il famoso ‘passo sui traditori’ (18, 13-5), da cui risulta che il criterio per attribuire correttamente il nome di «traditore» a qualcuno è dato dal fatto che questi abbia consegnato la propria città nelle mani dei nemici per interesse personale, mentre non può essere chiamato in questo modo chi abbia portato la propria città, per il suo bene, a seconda delle circostanze, da un’alleanza ad un’altra. Il «bene», per così dire, in assoluto è il bene della patria. In questo orizzonte più largo, Polibio può considerare «vergognoso» che un popolo, dopo aver conseguito il dominio, ritorni a quello precedente lasciatogli dagli antenati (38, 2, 9, a proposito degli Spartani vinti a Leuttra nel 371). La sua opera, inoltre, è esplicitamente redatta per far nascere o rinforzare nel lettore il desiderio di emulazione delle belle imprese narrate (2, 61, 3; 7, 11, 2; 10, 21, 4 etc.). Roma è elogiata come superiore a Sparta proprio perché, mentre quest’ultima ha un regime politico adatto alla difesa del paese e della libertà (6, 50, 1-2), la prima presenta invece una forma politica valida «se uno ha maggiori aspirazioni e ritiene più nobile e più grandioso mettersi a capo (heghemonéisthai) di molti e comandare ed essere padrone (epikratéin kái despózein) di molti e che tutti debbano guardare ed essere rivolti a lui» (6, 50, 3). Nel cosiddetto secondo proemio (3, 4, 1-7), Polibio specifica che, se il dominio di Roma sia da scegliere più che da fuggire, e da lodare più che da biasimare, va giudicato sulla base del modo in cui esercitò il potere conquistato e in cui questo fu accolto (naturalmente dopo la sconfitta) e considerato dai popoli vinti26 e non semplicemente guardando al successo o insuccesso delle imprese. La valutazione positiva dell’azione della Confederazione achea che a suo dire, via via che conquistava, rendeva soddisfatto chi prima aveva ceduto solo per costrizione (in quanto, «con senso di uguaglianza e di umanità», gli concede totale parità: 2, 38, 6-8), suggerisce poi la regola 25 Musti 1978, 44. Per il carattere non pianificato dell’imperialismo romano cf. Groves 2017. 26 Il tema era ricorrente fino alla fine dell’opera: cf. 38, 2, 7.
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a posteriori: il dominio sarà stato lecitamente perseguito, se il futuro ne stabilirà la sua accettazione da parte dei vinti. Dunque, la liceità o meno della conquista si desume dopo, non si stabilisce prima. A Polibio (e non solo a lui) non interessano i morti che, anche quando l’assoggettamento risulti ammissibile alla luce del criterio appena detto, abbiano condotto ad esso – né la giustizia o meno dell’azione bellica. Per l’esercizio di un tale imperialismo ‘giusto’ post factum, e al contempo (Polibio lo dice espressamente) per la salvaguardia di esso, lo storico raccomanda di fare attenzione, appunto dopo le conquiste, a non compiere passi falsi, come ad esempio quello che i Romani fecero dopo aver vinto Siracusa nel 211. Il riferimento specifico è al trasferimento a Roma delle opere d’arte depredate: diversamente dal saccheggio di oro e argento, effettivamente necessario per chi ambisca all’impero universale in quanto toglie potenza ai vinti e aumenta la propria, l’espropriazione di quadri e statue e la loro esposizione nella città vincitrice evoca nello sconfitto che ha la possibilità di prenderne visione il ricordo delle proprie sventure accendendo in lui l’ira verso chi adesso ne gode (9, 10; un altro caso che poteva essere menzionato anche supra, in 1.5.)27. Per indurre il lettore all’emulazione di cui ho detto, la storia deve servirsi consapevolmente dell’adeguata forza espressiva (émphasis) (12, 25h, 4): naturalmente al momento giusto, che è ancora una volta quello delle scene di battaglia. Pertanto, Polibio si dilunga enfaticamente nella descrizione della battaglia di Zama in tutto il suo vario svolgimento ed evidenzia la confusione, le grida, il terrore, le fughe, la percussione, da parte dei soldati, delle spade sui propri scudi per incutere paura ai nemici prima dell’assalto, e poi gli incoraggiamenti, le paure, la furia e i massacri, il luogo «pieno di sangue, strage, cadaveri» il cui cumulo è addirittura di ostacolo ai movimenti dei soldati di Scipione, tanto che il comandante è costretto a ordinare ai militari di farsi largo tra i morti (15, 12-4).
27 Diversa valutazione del trasferimento delle opere d’arte da Siracusa a Roma, fino ad allora «piena di armi barbare e di spoglie insanguinate», dà Plutarco che lo considera segno di incivilimento dei Romani, contrastato da parte degli anziani attaccati alla tradizione (Marc. 21).
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Forse Polibio ha in mente un passo tucidideo28, quando, a dispetto delle sue critiche a chi fa racconti ad effetto (ne dirò più avanti), in una scena da lui stesso definita «impressionante e sconvolgente (ekplektikón kái parastatikón agonías)» racconta dei soldati di Annibale i quali, mentre attraversano il Rodano «gareggiando (hamilloménon) tra di loro con grida e lottando contro la violenza del fiume», sono oggetto dello sguardo e delle voci d’incoraggiamento dei commilitoni che si trovano sulla riva, (3, 43, 7-8), o quando presenta la battaglia di Cinoscefale come seguita dalle grida di incitamento di quelli che sono fuori della mischia (18, 25, 1). Comunque sia, vi troviamo lo stesso pathos profuso dallo storico ateniese. La passione prende il severo Polibio anche nella descrizione di combattimenti eroici, come quello degli Abideni assediati da Filippo V di cui riporto solo alcune righe: «caduto il muro interno, essi, saliti sulle rovine secondo i giuramenti, combattevano con i nemici (...). Infatti quelli degli Abideni che rischiavano in prima fila non solo lottavano (egonízonto) furiosamente, salendo sui nemici morenti, o combattevano temerariamente solo con le spade e le lance, ma quando una di queste, danneggiata, diventava inservibile o veniva portata via con la forza dalle loro mani, scontrandosi con i Macedoni ne gettavano alcuni a terra con tutte le armi, di altri, spezzando le sarisse con i frammenti di queste ... [lacuna] colpendo con le punte i loro volti e le parti scoperte, li mettevano in pieno scompiglio» (16, 33, 1-3; cf. anche il drammaticissimo quadro di 34, 8-12).
La partecipazione emotiva che caratterizza scene di questo genere non è un’impressione del lettore moderno. Costituisce invece un vero e proprio fulcro teorico della concezione storiografica di Polibio29. Qui infatti si vede, a suo dire, la qualità del vero storico che, secondo quanto già visto in un passo plutarcheo, è analoga a quella del pittore e difetta a certi storici. Così, in Timeo, che, non visitando i luoghi di cui tratta ma restando chiuso nelle biblioteche, si affida unicamente ai libri, egli biasima proprio il fatto di assomigliare a uno che dipinge senza avere diretta conoscenza del suo oggetto, in quanto, essendo vissuto per cinquant’anni ad Atene, è evidentemente inesperto Cf. Tuc. 7, 71, 3, già citato supra 3.1.1. Sul ruolo delle emozioni nella storiografia di Polibio cf. Loehr 2017.
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dell’arte militare e delle conoscenze territoriali necessarie per scrivere bene la storia. Glielo rimprovera nei termini seguenti in cui di nuovo vediamo al lavoro la nozione di enárgheia: «dunque, quando capita che nella sua storia parli di qualcuno di questi luoghi, molti non li conosce e dice il falso, e se mai sfiora la verità, è simile ai pittori che copiano da modelli di paglia. Infatti, in essi talvolta, esteriormente, il disegno corrisponde, ma mancano l’espressività e la vividezza (tó dé tés empháseos kái tés enarghéias ... ápestin) degli esseri viventi veri, caratteristiche che sono proprie dell’arte della pittura. Questa stessa cosa accade a Timeo e in generale a tutti coloro che muovono da un’attitudine libresca: manca loro la forza espressiva (émphasis) dei fatti, perché questa deriva solo dalla partecipazione personale di coloro che ne hanno scritto. Per cui quelli che non sono passati essi stessi per le situazioni [sott.: di cui raccontano] non ingenerano genuino spirito di emulazione nei lettori» (12, 25h, 2-4).
È significativo che le caratteristiche della scrittura capaci di rendere la viva realtà delle cose – una realtà che è dunque effetto del discorso – egli le richieda nelle descrizioni di battaglie, poiché queste ultime hanno lo scopo di educare il lettore a essere un buon soldato. La vividezza del racconto e l’intento educativo dello storico sono poi in stretto rapporto tra loro e con lo spazio dedicato alla narrazione. Dopo il racconto dell’ascesa al potere di Filippo II di Macedonia, Polibio scrive: «Per quale scopo abbiamo trattato a lungo di questa guerra? Perché, dal momento che quest’epoca si collega a quella che sarà da noi narrata, sembrava utile, o meglio necessario, secondo il proposito iniziale, rendere a tutti vivida e nota (enarghé kái gnórimon) la condizione in cui erano allora i Macedoni e i Greci» (2, 71, 1-2).
Ne consegue anche la critica a storici come quelli che hanno scritto sulla fine di Ieronimo, dedicandovi «molto discorso» e «molto miracolismo (teratéia)», «drammatizzando (tragodóuntes) sulla crudeltà del suo carattere e sull’empietà delle sue azioni, e sopra a tutto sull’irrazionalità (parálogon) e terribilità (deinón) delle circostanze della sua fine», così da farlo apparire un ferocissimo tiranno, mentre nei soli tredici mesi del suo governo è verosimile che abbia torturato solo «uno o due» e ucciso «alcuni degli amici e degli altri Siracusani» e che non ci siano stati «un eccesso di trasgressione e un’eccezionale
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empietà»30. Così, quando vuole, Polibio scopre e denuncia la reductio ad Hitlerum altrui. Che il modo enfatico di raccontare certi avvenimenti sia anche poetico, Polibio non lo ignora affatto; infatti, anche la poesia omerica, che consta di storia, elaborazione e mito ha come obiettivo la vividezza: «ora, lo scopo della storia è la verità, come nel Catalogo delle navi in cui il poeta menziona le caratteristiche di ogni luogo, una città rocciosa, un’altra lontana, un’altra ricca di colombe, un’altra ancora vicina al mare; e lo scopo dell’elaborazione è la vividezza della descrizione, come quando introduce scene di battaglia; scopo del mito, invece, sono il piacere o lo stupore» (34, 4, 2-3)31.
Il mestiere dello storico è la continuazione, sul piano della scrittura, di quello del soldato, e in particolare del comandante. Come i discorsi di quest’ultimo32, anche quelli del primo si prefiggono di infiammare gli ascoltatori, cioè i soldati in un caso, i lettori che un giorno svolgeranno questo stesso compito, nell’altro. Così, Polibio, nel corso della minuziosa descrizione della battaglia di Chio (201), che si dipana per cinque capitoli (16, 3-7), sottolinea i comportamenti eroici (con insistenti avverbi come eupsýchos, «con forza d’animo», ghennáios, «nobilmente», epiphanós/epiphanéstata, «in modo illustre/ illustrissimo») che i soldati e i comandanti mettono rischiosamente in atto (kindynéuo, agonízomai, diagonízomai): in particolare (e sembra quasi di vedersi davanti nuovi Brasida tucididei), tra i Rodii, Autolico, che è colpito e cade in mare con tutte le armi, e Teofilisco, che viene ferito tre volte ma torna a combattere, «indebolito nella forza fisica dalle ferite ma più splendente per la nobiltà d’animo e più fermo di prima»; la battaglia lasciava sbigottiti coloro che ne osservavano le conseguenze: «essendo stata tanto grande la strage di uomini, tutto lo stretto di mare si era riempito al momento stesso di cadaveri, di 30 Pol. 7, 7, 1-4. Qui il difetto di tali storici è riportato al fatto che, non trattando di storia universale ma di singole monografie, sono costretti, per la ristrettezza del loro oggetto, «ad ingrandire fatti di poco conto e fare lunghi discorsi su argomenti che non sono degni di memoria» (ivi 7, 6). 31 Per gli epiteti (in corsivo) delle città cf., rispettivamente, Il. 2, 496, 508, 502, 640. Sul passo polibiano cf. Pédech 1964, 583-4. 32 Cf. supra 2.2.
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sangue, di armi di relitti, e nei giorni successivi era possibile vedere le spiagge con cumuli di queste cose alla rinfusa» – il che gettava in preda all’agitazione gli sconfitti (16, 8, 9). In questo passaggio, peraltro, compare una delle pochissime menzioni del sangue da parte di Polibio che, come gli altri storici, non ama porlo sotto gli occhi del lettore, preferendo invece esibire lo sforzo, fisico e psichico, che parla dell’eroismo dei combattenti. Subito dopo, il nostro storico detta quasi un’epigrafe onorifica che, trovando la sua continuazione – la sua conferma, si potrebbe dire – pressoché immediata in quella dei concittadini dell’eroe che egli si preoccupa di menzionare, sembra saldare il ruolo dello storico con quello del patriota di qualsiasi città: «Teofilisco, dopo essere sopravvissuto un solo giorno e avere scritto in patria sull’esito della battaglia navale e aver posto Cleoneo a capo delle truppe al suo posto, abbandonò la vita per le ferite, essendo stato uomo prode nel combattimento e degno di ricordo per la sua condotta. (…) A ragione, dunque, i Rodii, anche dopo la sua dipartita, lo onorarono con onori tali che, grazie ad essi, non solo gli uomini viventi ma anche i posteri si sentirono chiamati nelle occasioni in cui andava difesa la patria» (16, 9, 1-5).
E, se lo stratego deve sapere far sopportare ai suoi soldati eventuali sconfitte, così pure lo storico fornisce a chi lo legge, come apprendimento, «il ricordo dei rovesci (peripeteión) altrui», che è «il più vivido (enarghestáten) e unico maestro di come si possano sopportare nobilmente i mutamenti della fortuna» (1, 1, 2-3; cf. 3, 4, 5). Tale principio va spiegato meglio, perché rischia di essere frainteso. Bisogna che ci sia una misura nell’esposizione dei rovesci; altrimenti, se è tutto un continuo coup de théâtre, si fa … teatro e non storia. L’indugiare troppo a lungo su rivolgimenti della fortuna e il ricorrere troppe volte, con sovrabbondanza (pleonasmós), ad essi, colpendo l’ascoltatore con tali elementi impressionanti (ekplektikái) o irrazionali (parálogoi), e indegni di emulazione o non piacevoli è da condannare, in quanto la storia ha il compito di tendere innanzitutto all’utilità (ophéleia), e, solo dopo al diletto (térpsis)33. Da qui il rifiuto di Polibio di dilungarsi sulla fine di Agatocle, il tutore di Tolomeo V, e della sua famiglia, nel 203, ad Alessandria: 33 Pol. 15, 36, 1-7; per il rapporto tra utilità e diletto, cf. anche 9, 2, 6 (sull’argomento, cf. Walbank 1990 e Hau 2016, che mostra come in realtà l’utilità etica, sia pure in modi
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«Io non ignoro le storie prodigiose (teratéias) e la descrizione elaborata di cui si sono serviti per impressionare (prós ékplexin) i lettori alcuni di coloro che hanno scritto di queste vicende, dando al racconto accessorio più spazio che a quello contenente i fatti e principale (kyríou), alcuni attribuendo gli avvenimenti alla fortuna e attirando l’attenzione sull’instabilità e imprevedibilità di questa, altri riconducendo a una spiegazione razionale il carattere sorprendente degli eventi, nel tentativo di ricondurre l’accaduto a cause verosimili. Io, invece, non mi sono proposto di trattare (cheirismó) in questo modo queste vicende, dato che non vi furono in Agatocle né audacia e qualità militari degne di essere segnalate, né capacità di governare con successo e in modo ammirevole» (15, 34, 1-3)34.
A tale avvenimento, in realtà, egli dedica diversi righi, ma il rilievo dato a un certo punto a particolari crudeltà cui sono sottoposti i parenti di Agatocle, compresa la madre Enante, convive con la sua (forse altrettanto crudele) notazione sul fatto che la morte immediata che il personaggio in questione ricevette era molto meno di ciò che avrebbe meritato35: «Dopo non molto tempo giunse per primo Agatocle, condotto in catene: alcuni, accorsi subito verso di lui mentre entrava, lo trafissero all’improvviso, compiendo un gesto non da nemici, ma da persone ben disposte. Infatti, furono responsabili del fatto che egli non ottenesse la rovina che meritava. Dopo di lui fu condotto Nicone, poi Agatoclea, nuda, con le sorelle e di seguito a questi tutti i parenti. Dopo avere tratto fuori dal Tesmoforio Enante, dopo tutti gli altri, giunsero nello stadio, conducendola nuda su un cavallo. Essendo stati diversi, voglia essere intrinseca all’insegnamento storico non solo in Polibio ma anche negli altri storici antichi). 34 L’attenzione di Polibio al modo della trattazione (cheirismós) e alla distribuzione della materia (oikonomía) è costante: cf. 5, 31, 7. Per altra critica di coloro che scelgono le narrazioni ekplektikái con esagerazione (áuxesis) ed elaborazione retorica (diáthesis), cf. 10, 27, 7-8, dove tuttavia, pur confessando la propria incertezza se sia opportuno descrivere o no in tal modo la reggia di Ecbatana, lo fa. 35 Agatocle gozzovigliava e stuprava ragazze e spose (15, 25, 22). Non senza motivo, nel passo che vado a citare estesamente nel testo, le donne sono contente della preoccupazione di Enante quando questa intravede la fine della sua famiglia, e partecipano ai tumulti. Per vendette nei confronti di donne e bambini delle corti ellenistiche cf. anche ivi 15, 54, 5 (famiglia di Molone) e 56, 13 (famiglia di Ermia, il quale, come Agatocle, fu ucciso, secondo Polibio, «senza ottenere la pena degna delle azioni commesse»).
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consegnati tutti insieme alla folla, alcuni li prendevano a morsi, altri li trafiggevano, altri cavavano loro gli occhi; ogni volta che uno cadeva gli dilaniavano le membra, fino a quando non li ebbero mutilati tutti, perché la crudeltà d’animo degli uomini d’Egitto è terribile. In quel momento alcune ragazzine, che erano state compagne di Arsinoe, informate che tre giorni prima era giunto da Cirene Filammone, quello che aveva provveduto all’uccisione della regina, si lanciarono verso casa sua e, ricorrendo alla forza, lo uccisero colpendolo con pietre e bastoni, strangolarono il figlio, che era ancora un bambino, e insieme a costoro uccisero la moglie di Filammone, trascinandola nuda nella via larga» (15, 33, 6-12).
Il racconto dello storico, insomma, deve essere giusto (secondo la sua idea di «giusto»). È in questo contesto teorico che si situa la ben nota critica di Polibio a Filarco di Atene (o di Naucrati)36. Questi, «volendo evidenziare la crudeltà di Antigono e dei Macedoni, e al contempo quella di Arato e degli Achei, dice che i Mantineesi, sottomessi [nel 223], caddero in grandi sventure, e che la più antica e grande città tra quelle dell’Arcadia affrontò così grandi sciagure da imporsi all’attenzione di tutti i Greci e indurli alle lacrime. Sforzandosi di muovere a pietà i lettori e renderli empatici (sympathéis) con i fatti narrati, introduce abbracci di donne, chiome scompigliate e seni scoperti, e inoltre lacrime e lamenti di uomini e donne condotti via alla rinfusa con i figli e gli anziani genitori. E fa questo per l’intera narrazione (par’hólen tén historían), cercando di mettere davanti agli occhi, di ciascun fatto, gli aspetti terribili (tá deiná)» (2, 56, 6-8).
La descrizione di Filarco, cui peraltro somiglia molto quella che abbiamo trovato in Diodoro a proposito dei fatti conseguenti alla battaglia di Isso37, è criticata per più motivi. Il primo è che il tratto della vividezza («mettere davanti agli occhi»), di per sé importante, Filarco lo applica ad un oggetto sbagliato. Anziché presentare al lettore azioni virili e patriottiche, offrendo le quali la storia gli sarebbe «utile», il racconto dello storico è «ignobile e femmineo» (56, 9). Il secondo motivo è che Filarco mira proprio all’empatia con chi soffre,
Cf. Schepens 2005; Marincola 2013. Diod. 17, 35, 7-36, 2 (presente, ma senza che sia biasimato, anche il tratto dell’empatia); cf. supra 2.9. 36 37
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senza preoccuparsi di presentare il dolore alla luce del criterio di giustizia ottenendo così la reductio ad Hitlerum di chi ha causato quelle esibite sofferenze: «ci racconta moltissime (pléistas) peripezie senza indicarci la causa e il modo degli avvenimenti, senza di che non è possibile né provare ragionevolmente compassione né adirarsi in modo conveniente per nessuno dei fatti che accadono. Quale uomo, infatti, non ritiene terribile (deinón) il fatto che uomini liberi vengano picchiati? Ciononostante, se chi subisce ciò è colui che ha fatto ricorso alla violenza per primo, si giudica che egli abbia subìto giustamente. Se poi questa stessa cosa avviene per correggere e istruire, allora coloro che picchiano uomini liberi vengono ritenuti addirittura meritevoli di stima e di gratitudine. E, certo, uccidere dei concittadini è ritenuto empietà gravissima e degna di grandissime pene; eppure, chiaramente colui che ha ucciso un ladro o un adultero è innocente e chi ha ucciso un traditore o un tiranno ottiene presso tutti onori e privilegi. Così, in ogni cosa il compimento del giudizio di queste cose si fonda non sugli atti compiuti bensì sulle cause e sulle scelte di coloro che agiscono e sulle differenze tra queste» (56, 13-6) 38.
E in realtà, per Polibio, anche i Mantineesi, come si è già visto per Agatocle, avrebbero meritato, sulla base del principio del «primo offensore» qui evocato, pene peggiori. Di conseguenza – il che ci riporta al tema della giusta misura da assegnare alla descrizione del dolore – lo spazio dato a questo aspetto, in quanto fa empatizzare con chi si è comportato ingiustamente, è decisamente eccessivo. Polibio lo dice in entrambi i passi appena citati («e fa questo per l’intera narrazione»: 56, 8; «racconta moltissime peripezie»: 56, 13). I Mantineesi, infatti, si erano resi doppiamente ingiusti: prima avevano abbandonato l’alleanza con la Lega achea e si erano consegnati allo spartano Cleomene III ma non avevano subìto per questo nulla di «terribile» da Arato quando questi, occupata la loro città, li aveva riportati dalla parte degli Achei; poi, di nuovo, trasgredendo «le leggi comuni degli uomini», si erano ribellati e avevano trucidato quegli 38 Secondo Aristotele, il cambiamento in peggio è «tragico» proprio quando tocca un personaggio che non ne è meritevole (cf. Pol. 34, 3). Filarco ci fa assistere, in sostanza, a una cattiva tragedia.
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Achei ai quali essi stessi avevano prima chiesto aiuto per «difendere la loro libertà»: pertanto, il racconto di Filarco avrebbe dovuto essere fatto in modo da spingere non alla compassione per questo popolo sleale e traditore ma alla lode per chi lo aveva punito (57-8). Così pure, quando narra la fine di Aristomaco, tiranno di Argo, Filarco lo presenta, ci dice il nostro critico, mentre è condotto in catene a Cencree e viene fatto morire sotto le torture «dopo aver patito le cose più ingiuste e terribili»; ma Filarco, secondo Polibio (che però non chiarisce da dove tragga questa informazione), «inventa» che le grida del tiranno venivano udite per tutta la notte con sdegno da quelli che abitavano nei dintorni (59, 1-2). Inoltre, «Aristomaco, se anche non sbagliò in nient’altro verso gli Achei, almeno in rapporto alla sua condotta di vita e ai suoi crimini verso la patria fu degno della più grande punizione. (…) Perciò, bisogna ritenere non cosa terribile (deinón) se incappò in qualcosa di simile, ma cosa molto più terribile se fosse morto impunito senza avere fatto esperienza di nessuna di queste cose. Né bisogna attribuire ad Antigono o ad Arato una trasgressione delle consuetudini perché dopo avere avuto in mano, in guerra, un tiranno, lo uccisero dopo avere torturato lui, che anche chi lo avesse eliminato e punito in tempo di pace avrebbe conseguito lode e onore da parte di persone che ragionano correttamente. (…) Quando lo si ebbe in mano non sarebbe dovuto morire torturato a Cencree di notte, come afferma Filarco, ma avrebbe dovuto lasciare la vita venendo condotto in giro per il Peloponneso e, con la sua punizione, diventando un esempio» (59, 4; 60, 1-2 e 7).
Così, al giusto Polibio sembra che la guerra legittimi anche torture e atrocità, e che il tiranno, in rapporto a quello che avrebbe meritato, non avesse subìto nulla di particolarmente grave, se non l’essere gettato in mare «per ordine dei magistrati di Cencree» – come viene aggiunto precisando, forse a sua ulteriore giustificazione, il carattere legale di tale atto (60, 8). Senonché, la giustizia del nostro storico forse non è veramente tale ma è una personale valutazione delle cose fortemente influenzata dalle sue idee politiche. Come qualche studioso ha già osservato, infatti, sia la città di Mantinea sia Aristomaco non riscuotevano la simpatia di Polibio in quanto avevano abbandonato la Lega achea
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per passare a Cleomene III39. Oltretutto, Polibio non risulta avere una posizione coerente, perché in altri casi, piuttosto che l’opportunità della punizione come qui, sosteneva quella di non vendicarsi dell’empietà dei nemici40. Tutto ciò (émphasis, enárgheia), per Polibio, non è contrario al compito di verità dello storico, come pure del buon cittadino, in quanto questa storiografia non nasconde nulla. Tuttavia, le forme di impegno civico del cittadino e dello storico sono proiettate su due orizzonti temporali diversi, ovvero l’immediato presente nel primo caso, il futuro nell’altro. Pertanto, quando si appresta a riportare fatti che dispiaceranno a qualche lettore, egli dice che «non bisognerà meravigliarsi se, deviando dalla consuetudine della narrazione storica, sembriamo rendere il racconto di questi fatti piuttosto epidittico e ambizioso. Certo, alcuni forse ci rimprovereranno di scrivere con ostilità, mentre sarebbe doveroso, più di tutto, coprire gli errori dei Greci. Ma io penso che presso coloro che pensano correttamente non sia mai ritenuto amico genuino quello che teme e ha paura di parlare liberamente, né buon cittadino quello che lascia da parte la verità a causa dell’odio che in quell’occasione otterrà da parte di alcuni. Non bisogna affatto accettare come scrittore di azioni politiche (syngraphéa koinón práxeon) colui che tiene in conto qualcosa più della verità. (…) Nei momenti critici è doveroso che,
Cf. Thornton 2013. Cf. Pol. 5, 9, 6 e Thornton 2013, part. 362-363, che rinvia già a Gabba 1957. Cf. anche Ampolo 1996, 15 sgg. Altrettanto politica è la critica polibiana della drammatizzazione tragica, visto che poi quest’ultima è da lui abbracciata, a scopi moralistici, a proposito della fine di Filippo V i cui crimini nei confronti di città greche egli descrive pateticamente (23, 10): cf. Walbank 1938 e Giovannini 1943. Tyche agisce in modo provvidenziale (come nella dottrina stoica: cf. Brower 2011, 111-32), «come un autore di tragedia. Il vocabolario impiegato da Polibio lo indica. Il lettore diviene in effetti uno spettatore di questa nuova rappresentazione, in cui la Fortuna sa sorprendere e sa praticare, con un’arte consumata, il renversement tragico (peripéteia): ciò contro ogni attesa, che resta imprevedibile, ma si rivela in seguito necessario. Da cui l’insistenza fatta da Polibio nella sua prefazione sullo stupefacente, il sorprendente (parádoxon) del suo soggetto. Egli è come lo scriba della pièce composta dalla Fortuna, o il suo copista» (Hartog 2005, 127). Secondo Guelfucci 2010, 458 sgg., part. 462, «Polibio vede nella drammatizzazione un mezzo per far comprendere meglio una lezione»; la studiosa richiama anche altri luoghi (6, 15, 7; 53, 9; 56, 8 e 11) in cui tale accorgimento (ektragodéin, tragodía, théama) – non però in riferimento alla narrazione storiografica – è considerato positivamente. 39 40
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essendo Greci, si aiutino i Greci in ogni modo, sia difendendoli, sia coprendone gli errori, sia cercando di stornare l’ira dei potenti – il che veramente noi facemmo al tempo di questi fatti. Ma la trasmissione degli avvenimenti passati ai posteri per mezzo di commentari storici bisogna che resti immune da ogni falsità, allo scopo non di dilettare al momento l’orecchio dei lettori ma di correggere gli animi affinché non cadano più volte negli stessi errori» (38, 4, 1-8).
3.2. Diodoro Siculo: parcere subiectis, ma non solo Sull’oggetto dell’indagine storica Diodoro, benché la sua opera dia molto più spazio anche a tematiche non politico-militari41, sembra pensarla in modo simile a Polibio. Così, per esempio, egli limita ad un solo capitolo la narrazione relativa all’anno 442, per il quale dà solo un lapidario resoconto dei trattati allora in vigore tra vari popoli dell’ecumene, affermando che «in questo periodo non fu compiuta alcuna azione bellica e degna di ricordo (polemiké kái axía mnémes) ma si realizzò un’unica condizione di pace, e presso tutti c’erano feste collettive, agoni, sacrifici religiosi ed era diffuso quant’altro è legato allo stato di benessere» (12, 26, 4). Pochissimi righi aveva dedicato anche all’anno 444, a proposito del quale ricordava la redazione di leggi decemvirali a Roma e il fatto che gli abitanti di Turi e di Taranto, «combattendo si saccheggiavano a vicenda per via di terra e di mare e si facevano piccole battaglie e scaramucce ma non compirono nessuna azione degna di racconto (axiólogon)» (12, 23), per poi tornare alla narrazione di altre vicende militari. Ma già il raggruppamento dei libri della sua opera presentato dall’autore stesso (1, 4, 6-7), scandito da una temporalità fondata su eventi bellici (fino alla guerra di Troia i primi sei libri; fino alla morte di Alessandro i seguenti undici; fino alla guerra romana ai Galli gli altri ventitré) parla abbastanza chiaramente. Per Diodoro (1, 1, 2-5), la storia universale, come in Polibio la storia pragmatica, svolgendo la stessa azione formativa del viaggio per Odisseo, procura la «conoscenza degli insuccessi e dei successi altrui», e con ciò contribuisce a far sì che gli uomini si correggano ed 41 Usi, costumi e geografia dei popoli; ma anche altro: per esempio, Diodoro (3, 12-4; 5, 36-8) dà spazio proprio a quella descrizione di miniere (e del lavoro svoltovi dagli schiavi) che Polibio (3, 57, 2-4) reputa inadatta alla storia pragmatica.
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emulino le buone azioni, ed è utilissima (chresimotáte); infatti, oltre ad accrescere l’intelligenza nei giovani e la conoscenza negli anziani, «rende i privati cittadini degni del governo e spinge i governanti a metter mano alle imprese più nobili, per l’immortalità che si ottiene grazie alla gloria; e, a parte ciò, rende i soldati, per le lodi che avranno dopo la morte, più pronti ai rischi in favore della patria e distoglie gli uomini malvagi dall’impulso alla scelleratezza per l’infamia eterna che otterrebbero»42.
È vero che Diodoro riconosce che il desiderio di essere ricordati ha indotto a opere non necessariamente belliche, come fondare città, trovare buone leggi e saperi e arti utili al genere umano (1, 2, 1) – il che separa molto l’oggetto del racconto diodoreo da quello omerico della fama (kléos, cui corrisponde il lutto, pénthos, del nemico sconfitto: Il. 4, 197 etc.) legata alle sole imprese militari (e abbondantemente presente anche in Erodoto e soprattutto in Tucidide, Senofonte, Polibio). È però altrettanto vero che anche in lui l’orizzonte bellico è sempre, e pesantemente, presente. Così, nel racconto delle più antiche tradizioni mitiche viene riferito che, dei due primi dei, Osiride, «benefattore e amante della gloria» (1, 17, 1) e «non amante della guerra» (18, 5), andava in giro per tutti i paesi a insegnare la coltivazione della vite e del grano «dopo avere raccolto un grande esercito» (17, 1), del quale effettivamente si serviva quando qualche re si opponeva alla sua opera civilizzatrice (20, 2). Siamo davanti, a quanto sembra, all’idea di una (forzosa) ‘esportazione della civiltà’. Dopo la prima parte del primo libro, relativa alle origini del mondo e alla topografia dell’Egitto, le spedizioni militari vanno entrando nella narrazione quasi inavvertitamente, senza che chi le inizia sia considerato negativamente o risulti ingiusto. Quando si tratta del faraone Seoosis che si propone addirittura di conquistare tutto il mondo abitato (53, 5 sgg.) e, in quest’ottica, benefica i soldati in modo che siano disposti «prontamente a morire per coloro che li comandano» (54, 1), la sua valutazione è positiva. Infatti, il faraone 42 Cf. Diod. 1, 2, 4: per mezzo della storia, gli uomini dabbene «ricevono, in cambio di fatiche (pónoi) mortali, fama immortale»; la storia volge alla giustizia, accusa quelli dappoco, encomia i buoni (1, 2, 8). Sul valore etico del racconto di fatti militari secondo Diodoro, cf. Williams 2018.
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si era comportato «con clemenza verso i sottomessi» (55, 10), e poi si era dato a grandi opere di pace (costruzione di templi, di argini e canali, statue). Comunque, in questo ambiguo resoconto, sempre al bivio tra esaltazione della potenza militare e apprezzamento del buon uso di essa sul fronte interno, non mancano di essere illustrati comportamenti del faraone volti ad umiliare pubblicamente, di tanto in tanto, i sovrani dei popoli già sottomessi (56-8). Di fatto, anche in Diodoro c’è contiguità e continuità tra il ruolo del soldato, in particolare del comandante che incita al combattimento (o, più in generale, del politico che pronuncia l’elogio funebre per i caduti in guerra, del cui ruolo nell’ideologia del patriottismo ho già detto in 2.2.), e quello dello storico. Diodoro mostra di avere preso in carico programmaticamente questo rapporto: «noi che siamo soliti aggiungere alla morte degli uomini valorosi la lode personale – dice in proprio nomine parlando della morte di Epaminonda – non riteniamo affatto adeguato passare oltre la morte di un tale uomo senza dire altro»; il condottiero in questione, infatti, eccelleva «per intelligenza ed esperienza militare e, oltre a ciò, per equità e magnanimità» (15, 88, 1), ed era superiore sia ai suoi contemporanei più illustri sia agli uomini del passato per forza fisica, capacità oratoria, grandezza d’animo, non attaccamento al denaro, equità e – «cosa più importante (tó méghiston)» – per valore e intelligenza militare (15, 88, 3). La storia racconta le imprese fino alla morte di chi le ha compiute e, per così dire, compone l’epitafio. Infatti, anche di Gelone, seppellito con onori eroici presso le cosiddette Nove Torri, né l’odio dei Cartaginesi né la malvagità di Agatocle avevano potuto cancellare la fama, grazie alla giusta testimonianza della storia che ne è stata custode «con voce penetrante per tutta l’eternità: perché è al contempo giusto e vantaggioso per la vita comune che grazie alla storia i potenti malvagi abbiano cattiva fama e coloro che hanno fatto benefici ottengano ricordo immortale: infatti così soprattutto avverrà che molti dei posteri si volgano a compiere benefici comuni» (11, 38, 5-6).
Di Pelopida, vincitore a Cinoscefale (364) ma caduto sul campo e «degno di discorso (axiólogos)», Diodoro ricorda i successi militari (e un’ambasceria in Persia) e poi unisce la sua voce a quella dei Tebani che lo avevano sempre eletto beotarca: «dunque, Pelopida, ritenuto
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degno di favore da tutti per il suo valore personale, abbia anche da parte nostra la lode grazie alla storia»43. C’è contiguità tra storico e comandante militare, d’altronde, anche nella giustificazione della nozione di egemonia e, ancora una volta, della guerra nei termini eroici dello «sforzo», e, in modo complementare, nella condanna della condotta arrogante che porta alla perdita del predominio come era capitato a Sparta con le sconfitte di Leuttra (371) e di Mantinea (362)44: «chi, infatti, non riterrebbe che sono degni di accusa coloro che, avendo ricevuto dai progenitori un’egemonia fondata nella maniera più nobile e conservata grazie al valore dei progenitori per più di cinquecento anni, la videro distrutta, non senza ragione, a causa della loro sconsideratezza? In effetti quelli vissuti prima si erano acquistati con molte fatiche e grandi pericoli (pollóis pónois kái megálois kindýnois) una tale fama, comportandosi in modo equo ed umano con i sottoposti; invece, i loro discendenti, ricorrendo alla violenza e alla durezza nei confronti degli alleati, e ancora suscitando guerre ingiuste e arroganti (adíkous kái hyperephánous) contro i Greci, non senza ragione persero il dominio (tén archén) a causa delle proprie sconsideratezze. Perché nelle loro sciagure l’odio degli offesi ebbe l’occasione di vendicarsi con quelli che prima avevano fatto loro ingiustizia, e coloro che erano invitti da generazioni furono disprezzati tanto quanto è normale che lo siano quelli che hanno rovinato il valore dei progenitori. Così dunque i Tebani, sottoposti da molte generazioni ai più forti, allora vinsero inaspettatamente gli Spartani e divennero egemoni sui Greci, mentre gli Spartani dopo la perdita dell’egemonia non poterono più riottenere la dignità dei loro avi»45.
L’impero di Filippo II e quello dei Romani sarebbero stati acquisiti «con il valore delle armi» ma condotti al massimo livello «con un atteggiamento molto clemente nei confronti dei vinti, tanto
43 Diod. 15, 81, 4; cf. anche, per un apprezzamento di strateghi, 15, 83, 2, o l’elogio di Temistocle in 11, 58-9. 44 Degli Spartani Diodoro dice che già nel 475 avevano perso «irragionevolmente» l’egemonia sul mare (11, 50, 1). 45 Diod. 15, 1, 3-5; per un caso di esplicito biasimo, questa volta verso un individuo, per la rovina dovuta ad esaltazione che allontana dagli alleati, cf. Diod. 11, 46, 1-5; ma cf. anche Tuc. 1, 95-6, per la responsabilità del comportamento violento di Pausania nel passaggio degli alleati da Sparta ad Atene.
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erano distanti dalla crudeltà e dalla vendetta verso quelli abbattuti da sembrare di comportarsi con loro non da nemici ma da benefattori e amici. (…) gli uni li facevano partecipare della cittadinanza, agli altri concedevano il diritto di epigamia, ad alcuni davano l’autonomia senza ricordarsi del male più aspramente del dovuto con nessuno (…). Ma, avendo il dominio di quasi tutta la terra abitata, lo resero sicuro con la paura e con la distruzione delle città più illustri» (32, 4)46.
Lo sviluppo di un impero prevede una regola generale scandita in tre fasi: si acquisisce l’egemonia con il coraggio (andréia) e l’intelligenza (sýnesis), la si accresce con la clemenza (epiéikeia) e il senso di umanità (philanthropía), la si consolida con la paura (phóbos) e col terrore (katáplexis) (32, 2). Infine, anche Diodoro, come Polibio, pensa che nello scrivere di storia sia necessario aver cura dell’armonia (oikonomía) tra le parti della narrazione; ma la sua attenzione è concentrata sul corretto rapporto tra lunghezza e frequenza dei discorsi da un lato e narrazione 46 Una considerazione politica sull’egemonia, che prevede la clemenza sul nemico vinto, è attribuita all’anziano aristocratico siracusano Nicolao, che la argomenta ampiamente, in Diod. 13, 21-7: l’egemonia deve essere fondata non sulla forza delle armi ma sul rispetto acquistato con la moderazione dei comportamenti. La superiorità nelle armi è data anche dalla fortuna e dall’occasione, mentre la moderazione è segno di virtù e chi si affida alla prima istituisce un dominio di cui i sudditi vorranno liberarsi, laddove chi persegue la seconda ha compassione per i vinti e instaura per primo una relazione di amicizia che accresce il numero degli alleati e diminuisce quello dei nemici: la discordia mantenuta viva e tramandata ai figli non è giusta né sicura e, quando «la bilancia dell’occasione» pende dall’altra parte, a sua volta non ottiene pietà. Gli Ateniesi hanno fatto bene a concedere che gli Spartani catturati nell’isola di Sfacteria potessero essere riscattati e poi gli Spartani a riservare un analogo trattamento agli Ateniesi e ai loro alleati: chi fra i Greci va oltre al perseguimento della vittoria e si vendica su chi si è arreso «compie ingiustizia contro la debolezza umana»; invece, considerando l’instabilità della fortuna, non bisogna coltivare un odio duraturo. Cessare l’ostilità con un atto di umanità verso i vinti è l’occasione, appunto, per iniziare con loro una relazione di amicizia: risparmiarli significa farseli amici, ricevere la loro gratitudine e l’approvazione degli altri. Gli Ateniesi hanno beneficato gli uomini condividendo il grano dato loro da Demetra, trovando le leggi che hanno permesso la vita civile, facendo partecipare gli altri dei misteri sacri. Inoltre, se si considerano i prigionieri nella loro singolarità, è giusto avere compassione degli alleati perché sono stati costretti dal dominio degli Ateniesi a prendere parte all’impresa militare, e Nicia è sempre stato a favore dei Siracusani, loro prosseno e contrario alla spedizione, e ora, indecorosamente legato, è degno di compassione. Sulla mitezza che deve possedere il buon potere come caratteristica del didatticismo etico di Diodoro cf. Hau 2016, 73-123.
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generale dall’altro: quello che egli teme è che chi esagera (pleonázo) nella prima direzione trasformi la storia intera (hóle) in un’orazione popolare (demegoría) (20, 1-2). 3.3. Dionigi di Alicarnasso: una storia (anche) per la pace La riflessione sul rapporto tra forma e contenuto della narrazione storica è ancora più consapevole ed esplicita in Dionigi di Alicarnasso (I sec.), non a caso storico e retore. Egli dichiara che elementi propri del racconto storico, sul piano stilistico, sono l’elevatezza, la bellezza, la grandezza (A Pomp. 4, 3), e, non molto differentemente da Polibio e Diodoro, vuole raccontare la storia di Roma perché essa è un soggetto «nobile, grande e utile a molti» (kalé, megaloprepés, pollóis ophélimos), come è chiaro «per coloro che non sono del tutto inesperti della storia universale (tés koinés historías)»: se infatti ci si sofferma a paragonare i popoli e le città che sono stati egemoni per stabilire chi tra loro «abbia acquisito un grandissimo dominio (arché) e abbia mostrato azioni illustrissime sia in pace sia nel corso delle guerre», si scoprirà che il dominio di Roma è stato superiore e più duraturo di quello di qualunque altra potenza (Ant. rom. 1, 2, 1). Essa «subito, fin dall’inizio dopo la fondazione, attrasse (prosegágheto) a sé i popoli vicini, che erano molti e bellicosi, e continuò sempre ad asservire (douléuein) tutto ciò che le si opponeva» (1, 3, 4). Inoltre, selezionare soggetti «nobili, grandi e che apportano molta utilità a quelli che leggeranno» si addice a coloro che hanno scelto di lasciare ai posteri «ricordi della propria capacità di giudizio (mneméia tés heautóu gnómes), che non svaniranno insieme al loro corpo per effetto del tempo, e soprattutto a quelli che scrivono opere storiche in cui crediamo che sia riposta la verità, che è principio di saggezza e di sapienza» (1, 1, 2)47. Al contrario, quelli che si gettano su soggetti oscuri o ignobili danno
47 Forse c’è qui un’eco del Proemio erodoteo («perché gli avvenimenti umani col tempo non sbiadiscano») ma con preoccupazione della propria fama (quella per la fama di Roma verrà fuori poco dopo, in 1, 2, 3). Sulla relazione, in Dionigi, tra retorica e verità storica cf. Fox 1993 (con rettifiche di Gabba 1994 sulle posizioni attribuitegli), che sottolinea la consapevolezza dionigiana della complessità del rapporto tra fatto passato e interpretazione alla luce del presente; sulle Antichità romane sia come insegnamento sia come opera d’arte, cf. Fromentin 1993.
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l’impressione a chi legge che la loro vita sia uguale ai loro scritti, in quanto effettivamente le parole sono immagine dell’anima (1, 1, 3). La scelta di raccontare fatti grandi e nobili è prova che il narratore stesso è grande e nobile e i monumenti che questi innalza a tali fatti li innalza contemporaneamente a se stesso. Dionigi è celebratore della potenza di Roma (di una Roma, città di origine greca)48, che egli intende mostrare a tutti quelli che non siano mal disposti verso di essa e non si sdegnino per la loro posizione subordinata (hypótaxis), perché essa si è imposta «secondo la norma»; ciò doveva avvenire, in quanto, anche secondo lui come gli Ateniesi tucididei (cf. supra 1.2.), è «legge di natura (phýseos nómos) comune a tutti, che nessun tempo abolirà, che sempre i più forti governino i più deboli», e pertanto bisogna che non si accusi la sorte «di aver donato una tale egemonia e per tanto tempo ad una città non adeguata» (1, 5, 2)49. In sede teorica, valutando gli storici d’età classica, Dionigi è ancora più chiaro: «compito primo e quasi il più indispensabile per tutti coloro che scrivono storie è scegliere una materia nobile e gradita a quelli che leggeranno. Questo mi sembra averlo fatto meglio Erodoto che Tucidide. Infatti, quello ha pubblicato una storia comune delle azioni dei Greci e dei barbari “affinché gli avvenimenti umani non svaniscano né le opere...” come egli stesso ha detto. Lo stesso proemio è inizio e fine della sua ricerca. Invece Tucidide scrive di un’unica guerra e, questa, né bella né fortunata (óute kalón óute eutyché), che non doveva mai sorgere e altrimenti, consegnata al silenzio e all’oblio, essere ignorata dai posteri. Che abbia considerato una cattiva materia lo rende chiaro egli stesso nel proemio: afferma che molte città greche, a causa di essa si spopolarono, alcune per opera dei barbari, altre per opera di loro stessi, e che ci furono esilii e stragi di uomini quanti mai prima, e terremoti e siccità e pestilenze e molte altre sventure. Cosicché, i lettori del proemio sono resi ostili alla materia, dato che stanno per leggere di fatti greci. Quanto è migliore lo scritto che
48 Sulla visione del mondo di Dionigi, fondata sulla doppia appartenenza culturale (greca e romana), cf. Delcourt 2005. 49 Quest’ultima considerazione sembra in piena continuità con i concetti espressi, nel discorso pericleo per i morti del primo anno della guerra del Peloponneso in un passo di Tucidide (2, 41, 2-4) che ho già citato (cf. supra 2.1.).
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mostra opere meravigliose di Greci e di barbari rispetto a quello che riferisce le sofferenze miserevoli e terribili (tá oiktrá kái deiná páthe) dei Greci, tanto Erodoto è più assennato di Tucidide nella scelta della materia» (A Pomp. 3, 2-6).
A quanto sembra, Dionigi legge Tucidide non come uno che ha presentato le sofferenze della guerra tra Greci con l’intento di indurre a non farne altre, bensì, con attenzione agli aspetti eroici lì descritti, come racconto di fatti (inevitabilmente) paradigmatici dal punto di vista valoriale. Da qui la sua critica, anzi il suo rifiuto. La vittoria dei Greci su altri Greci non può essere celebrata come vero eroismo, perché non c’è nulla di cui andar fieri e, di conseguenza, da consegnare alla memoria, cioè all’educazione che deve istruire su ciò che è stato fatto e deve essere fatto di nuovo, imitato ed emulato. In ogni caso, Tucidide, secondo Dionigi, non solo ha sbagliato soggetto ma lo ha anche trattato male, con spirito ostile alla patria. Infatti, «secondo compito della trattazione storica è conoscere da dove bisogna iniziare e fino a dove bisogna proseguire. Anche in questo Erodoto appare molto più assennato di Tucidide: comincia dalla causa per cui all’inizio i barbari cominciarono ad agire male nei confronti dei Greci, e proseguendo finisce al momento della punizione e vendetta nei confronti dei barbari. Invece Tucidide ha cominciato dal momento in cui i Greci si trovano in brutta condizione. Il che, essendo egli Greco e Ateniese, non doveva fare» (A Pomp. 2, 8).
Fine e inizio dei «fatti» bellici, non sono elementi intrinseci a questi stessi ma, in quanto i fatti sono ricreati dal discorso, è qui che si stabiliscono i loro contorni: la compiutezza è logica, del logos, cioè appunto discorsiva. Il patriottismo, valore indiscutibile, va perseguito anche sotto questo profilo. Dunque, Dionigi sembra adesso assumere una posizione almeno in parte differente da quella degli altri storici fin qui considerati. E la differenza aumenta se si esamina quanto egli dice sul costume romano, diverso da quello dei Greci e praticato «più assennatamente» di questi ultimi, relativo agli elogi funebri. La sua particolare attenzione è ancora all’ambito discorsivo: «sembra infatti che gli Ateniesi abbiano prescritto che i discorsi funebri debbano essere pronunciati per i caduti in guerra, ritenendo
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opportuno fare una distinzione dei buoni solo per la virtù mostrata nel momento della morte, anche se per il resto uno sia stato di poco valore. I Romani, invece, prescrissero quest’onore per tutti i loro uomini illustri che avessero mostrato iniziative intelligenti e azioni nobili sia nel comando in guerra sia nella gestione degli affari pubblici, e questo non solo per quelli morti in guerra ma anche per quelli che abbiano terminato la vita in qualsiasi modo, ritenendo che i buoni debbano essere elogiati per ogni virtù mostrata durante la vita e non solo per una sola azione illustre compiuta al momento della morte» (Ant. rom. 5, 17, 5-6)50.
E lo storico deve appunto narrare non solo le imprese militari e i buoni provvedimenti politici di un uomo «degno di ricordo» ma anche – il che costituisce «il più straordinario di tutti gli encomi» – il suo modo di vivere generale, se è stato equilibrato e moderato (5, 48, 1)51. Inoltre, Dionigi considera importante riferire, degli eventi che si svolgono durante le guerre, anche i discorsi – di nuovo lo stesso focus già detto – attraverso cui i personaggi storici riescono a raggiungere la pace, ed effettivamente li riporta (o, sarebbe meglio dire, ricrea) anche ampiamente52. Proprio la scarsa attenzione dedicata da Tucidide ai 50 Peraltro, gli elogi funebri romani erano già stati oggetto di apprezzamento da Polibio per la loro capacità di far sì che gli ascoltatori, non solo i parenti ma anche gli altri, «richiamando alla memoria e avendo posto sotto gli occhi i fatti accaduti», ne diventassero totalmente partecipi come se si trattasse di un lutto pubblico e non privato (6, 53-4, part. 53, 3). A proposito dell’importanza assegnata dai Greci alle imprese militari dei personaggi illustri, si può ricordare che, al capezzale di Pericle morente, i suoi amici, elogiando il suo valore e il suo potere, «enumeravano le sue imprese e i suoi trofei» (Plut., Per. 38, 3). 51 Cf. anche Ant. rom. 1, 6, 3-4: «da ciò che è stato con accuratezza scritto deriveranno le migliori e le più giuste tra le azioni: da un lato, agli uomini buoni che hanno compiuto il loro destino accadrà di ottenere gloria eterna e di essere lodati dai posteri, cosa che rende la natura mortale simile a quella divina e che permette che le azioni non muoiano insieme ai corpi, dall’altro, a coloro che ora vivono e un giorno vivranno dopo quegli uomini pari agli dèi accadrà di scegliere non la più piacevole e facile delle vite, ma quella più nobile e ambiziosa, considerando essi che coloro che hanno ricevuto illustri origini dalla propria stirpe è bene che conformemente ai loro antenati abbiano pensieri elevati e non esercitino nulla che non sia degno dei progenitori». 52 Sulla rilevanza dei discorsi di pace in Dionigi, particolarmente nei casi di guerra civile, cf. Gabba 1996, 67-75 e 86, che considera le differenti modalità di inserimento dei discorsi in Tucidide, Dionigi e Polibio. La critica di Dionigi al dialogo dei Melii tucidideo, secondo la quale esso è in contrasto con l’immagine di Atene liberatrice della Grecia, è importante per la comprensione dell’idea dionigiana di storia, «il cui
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discorsi che hanno portato alla pace, «come se essi fossero fatti di poco conto e oscuri», è oggetto della sua critica allo storico ateniese (Tuc. 14, 3); tanto più che la negligenza di quest’ultimo non può nemmeno essere giustificata dal fatto che i discorsi sono stati inefficaci, perché in certi casi, nonostante l’insuccesso di tali discorsi, egli li ha invece riportati (14, 3-15, 2). Il racconto storico deve educare non solo a vincere le guerre ma anche a costruire la pace: è questa la maggiore novità del pensiero storiografico di Dionigi, da lui stesso segnalata già agli inizi della sua opera storiografica, quando dichiara che racconterà, a proposito delle guerre sia esterne sia civili, «da quali cause siano sorte e grazie a quali modi e discorsi si risolsero»; dirà anche delle forme politiche, dei migliori costumi, delle leggi più famose, allontanandosi sia da coloro che hanno registrato solo guerre sia dalle monotone cronache degli attidografi, e mescolerà invece i generi dell’eloquenza pubblica e della riflessione speculativa53. Nella concretezza della sua esposizione, appunto consapevole che la storia che racconta le guerre può comprendere utilmente la dettagliata narrazione del modo in cui si arriva alla pace, Dionigi opera di conseguenza. I fatti degli anni 494-493 narrati in 6, 34-96 sono costituiti per la maggior parte da discorsi, per lo più diretti, a volte indiretti54. Solo i capitoli 34, 39, 42 e 91-6 ne sono privi. Anche i capitoli 14-65 del libro 7 (dedicati agli anni 492-491), sono stracolmi di tali discorsi, e come quelli del libro precedente sono pronunciati nel contesto delle sedizioni della plebe, dunque quando Roma corre il rischio della guerra civile, e mostrano in che modo le parole, di
fine non è semplicemente pratico e politico; ciò non significa che un simile metodo di rappresentazione dei fatti sia in qualche modo meno veritiero di una qualsiasi interpretazione politica dei medesimi fatti» (ivi 68). Sui discorsi negli storici in generale e in Polibio in particolare, cf. Pédech 1964, 254 sgg; in Polibio e in Dionigi (in rapporto al diverso pubblico), cf. Gozzoli 1976, 168 sgg.; in Dionigi e nel Come si deve scrivere la storia di Luciano, cf. Sacks 1986. 53 Cf. Ant. rom. 1, 8, 2-3. Per le dinamiche di mediazione nei conflitti interpoleici in Dionigi cf. Cozzo 2014, 235, 256 e passim nel cap. 2 (conflitti intrapoleici), e 367 sgg.; 380 sgg.; 388 sgg.; 432 sgg. 54 Per l’analisi di alcuni discorsi del sesto libro, a volte lacrimevoli (come, ad es., espressamente detto in Ant. rom. 6, 81, 2), cf. Cozzo 2014, 262 sgg.
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cui vengono indicati non solo i contenuti ma anche i toni, riescono a evitare il peggio. La giustificazione di tale ricca trattazione – una riflessione su quella che si chiamava l’oikonomía del racconto – è sviluppata nel capitolo conclusivo: «il primo conflitto civile (stásis) che si abbatté sui Romani dopo la cacciata dei re ebbe tali cause e tale termine. Mi sono dilungato col discorso su tale argomento perché nessuno si meravigli del fatto che i patrizi sopportarono di rendere il popolo signore di tanto potere, senza che ci fosse strage o esilio di uomini nobili, come avvenne invece in molte altre città. (...) E poiché si armonizzarono, non facendosi violenza con le armi e costringendosi reciprocamente ma persuadendosi con le parole, ho ritenuto che fosse necessario più di ogni cosa ripercorrere i loro discorsi, quelli di cui si servirono allora i potenti di ciascuna parte. Mi stupirei se qualcuno pensasse che bisogna registrare con precisione le azioni belliche e spendesse molte parole talvolta per una sola battaglia ripercorrendo la natura dei luoghi e le peculiarità delle armature e le forme di schieramento e le esortazioni dei generali e quant’altro è stato causa della vittoria per gli uni o per gli altri, ma, registrando sommovimenti politici e conflitti civili, non pensasse che si devono riferire i discorsi attraverso cui sono state compiute azioni eccezionali e straordinarie. Se infatti vi è qualche grande merito della città dei Romani degno di essere emulato da tutti gli uomini, secondo la mia opinione fu quell’azione, illustre più di tutte le altre straordinarie imprese: cioè che i plebei non si misero, disprezzando i patrizi, ad attaccarli, e non si impossessarono di tutti i loro beni dopo avere fatto grande strage degli aristocratici, né quelli che erano altolocati distrussero tutta la plebe, da soli o ricorrendo ad aiuti stranieri, e abitarono la città in futuro senza timore, ma, dialogando come fratelli con fratelli o figli con genitori in una famiglia saggia riguardo alla parità e alla giustizia, hanno risolto le loro liti con la persuasione e la parola, senza accettare di compiere gli uni contro gli altri nessuna azione irrimediabile o empia, come invece fecero i Corciresi nella loro discordia civile, gli Argivi, i Milesi e tutta la Sicilia e molte altre città. Io, dunque, per questo ho scelto una narrazione abbastanza dettagliata (akribestéran) anziché concisa. Ma ciascuno giudichi come vuole» (7, 66, 1-5).
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L’importanza attribuita ai discorsi e alle dinamiche55 che, ancora più ampiamente, conducono alla pace vale in generale: dunque, come ho già detto, anche nel caso di guerre esterne. È sufficiente ricordare, a tal proposito, il lunghissimo racconto relativo alle parole e ai comportamenti messi in atto quando Roma viene minacciata dai Volsci capeggiati da Coriolano (488). A negoziare scendono in campo, dapprima, gruppi di ambasciatori, poi la madre e la moglie del romano passato dalla parte dei nemici (8, 22-54)56. Dionigi precisa di offrire «nobili oggetti di apprendimento, diciamo così, per tutti gli uomini, e soprattutto per quanti si occupano di riflessione filosofica e di azioni politiche. Infatti a molti non basta avere dalla storia solo questo, cioè che gli Ateniesi e gli Spartani vinsero la guerra persiana, per fare questo esempio, battendo in due battaglie navali e in una terrestre il barbaro che conduceva tre milioni di uomini mentre essi stessi erano, insieme agli alleati, non più di centodiecimila, ma vogliono apprendere dalla storia anche i luoghi in cui avvennero le azioni e sentire le cause per cui compirono imprese eccezionali e straordinarie e conoscere chi furono i comandanti degli eserciti sia greci sia barbari, e non essere, per così dire, privati di nessuna delle cose compiute nei combattimenti (perí tóus agónas). Infatti, la mente di ogni uomo ha piacere ad essere condotta per mano attraverso i discorsi alle imprese, e non solo ad ascoltare ciò che viene detto ma anche a vedere ciò che viene fatto. E, quando abbiano sentito le azioni politiche, non sono soddisfatti nell’apprendere il riassunto e la conclusione dei fatti, cioè che gli Ateniesi concessero agli Spartani di abbattere le mura della città, smantellare la flotta, introdurre una guarnigione nell’acropoli e prendere come sovrana della cosa pubblica, al posto della tradizionale democrazia, un’oligarchia, e senza nemmeno fare battaglia (agóna), ma subito ritengono giusto essere istruiti su quali furono le necessità che costrinsero la città per cui essa sopportò queste cose terribili e brutte, e quali furono i discorsi che li persuasero e detti da quali uomini, e quanto seguì ai fatti. Agli uomini politici, tra i
55 Un esempio in Ant. rom. 6, 47, 1-2: i patrizi, dopo la sedizione della plebe e temendo che essa si allei con i nemici esterni, si preparano alle armi, ma poi, vedendo che i plebei non si alleano con il nemico né saccheggiano i campi, riflettono su come avviare la riconciliazione. 56 Su ciò cf. Cozzo 2014, 292 sgg. e 433 sgg. (nel corso di pagine che riportano anche altri casi).
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quali pongo anche i filosofi, almeno quanti non ritengono filosofia l’esercizio delle parole ma delle opere nobili, è comune il fatto di aver piacere nella considerazione di ciò che consegue ai fatti, come lo è anche agli altri uomini. A parte il piacere, da tale esperienza risulta il fatto che giovano moltissimo alle città nelle circostanze di necessità e, attraverso il discorso, le conducono con la loro volontà verso ciò che è utile. Infatti, gli uomini apprendono nel modo più facile ciò che giova e ciò che danneggia quando vedono questo in molti esempi, e a coloro che li esortano a ciò testimoniano saggezza e molta sapienza» (11, 1, 1-4).
Le parole che ho messo in corsivo rimandano abbastanza chiaramente alla vividezza della narrazione, anche qui fortemente raccomandata, nella trattazione di battaglie; il che ci riporta al problema del rapporto tra storia e poesia. Dionigi lo affronta altrove espressamente, concludendo che la prima deve avere «qualcosa di poetico, ma non del tutto poetico bensì che esce un poco fuori dall’usuale», e alla luce di tale criterio giudica che Tucidide, quando abbandona lo stile comune con moderazione e nelle giuste occasioni, è apprezzabile, mentre non lo è quando vi fa ricorso fino alla nausea e senza buon gusto, cioè senza guardare «alle giuste occasioni e alla quantità» (Tuc. 51, 4; cf. 49, 1). Così, Tucidide «nel terzo libro, esponendo le azioni crudeli ed empie avvenute a Corcira, a causa della guerra civile da parte del popolo nei confronti dei potenti, fino a che mostra i fatti nei modi del linguaggio comune e consueto, dice tutto con chiarezza, concisamente e efficacemente; ma quando comincia a fare la tragedia (epitragodéin) delle comuni sventure dei Greci e ad allontanarsi con l’espressione dal consueto, diventa di gran lunga inferiore a se stesso» (28, 2).
Dionigi non rifiuta di narrare «con precisione», come dichiara fieramente, neanche eventi drammatici. Il celebre duello fra i tre Curiazi albani e i loro tre cugini Orazi romani, di cui vengono minuziosamente raccontati l’organizzazione e lo svolgimento, è riconosciuto assomigliare «a peripezie da teatro» (3, 18, 1), ma si tratta di un ‘buon’ duello, appunto perché costituisce il mezzo alternativo al coinvolgimento degli eserciti nella loro interezza e in grado di portare alla risoluzione del conflitto limitando le vittime da entrambe le parti (3, 12). Inoltre, esso vede sia i protagonisti sia le loro 188
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città reciprocamente compassionevoli: i cugini, pronti allo scontro, si abbracciano e si chiamano «con i nomi più dolci» mentre tutti gli spettatori sono in lacrime (3, 18, 3). Indubbiamente si trattava di un avvenimento che, secondo Dionigi, per il suo valore paradigmatico, non poteva non essere raccontato. 3.4. Plutarco di Cheronea: qualcosa in meno della «inutile storia» può bastare Nei Precetti politici di Plutarco la continuità tra storia e politica assume un’altra forma. Non si fa riferimento allo storico che deve essere consapevole del taglio politico da dare alla sua opera ma al politico che deve sapersi fare attento riesumatore, nei suoi discorsi pubblici, dei fatti del passato ‘buoni per il presente’: per un presente che è non più quello della polis d’età classica, totalmente libera di prendere le proprie decisioni su come gestire i rapporti con altre poleis, ma quello della polis dell’impero la cui autonomia, specialmente in questo ambito ‘estero’, è fortemente limitata dal governo centrale. In tale contesto, Plutarco critica i governanti locali che «aizzano le masse nelle città incitandole insensatamente a imitare opere, pensieri e azioni degli antenati che non sono commisurate ai tempi e alle condizioni attuali (…). Ci sono infatti molte altre azioni dei Greci del passato ripercorrendo le quali è possibile formare il carattere di quelli di oggi e renderli moderati: ad esempio, ad Atene, richiamando alla memoria (hypomimnéskonta) non i fatti bellici ma il decreto d’amnistia dopo la caduta dei Trenta; la multa inflitta a Frinico quando rappresentò in una tragedia la presa di Mileto; il fatto che, quando Cassandro fondò Tebe, [sott.: i cittadini] si cinsero di corone; che, quando furono informati dello scitalismo di Argo, in cui gli Argivi avevano ucciso millecinquecento dei loro, ordinarono la purificazione dell’assemblea; e che, nel caso dei fatti di Arpalo, ispezionando le case, non entrarono solo in quella di uno che si era sposato da poco. Ora è possibile assomigliare ai nostri antenati emulando queste azioni, lasciando nelle scuole dei sofisti Maratona, l’Eurimedonte, Platea, e quanti altri esempi rendono tronfia e vanamente orgogliosa la gente» (814a-b).
Siamo quindi davanti ad una stigmatizzazione dell’esaltazione dei fatti bellici e a una precisa proposta di scelte tematiche caratterizzate dalla loro dimensione pacifica, e anche pacificatrice: l’amnistia ateniese del 403, che già Aristotele poneva, insieme alla collaterale decisione
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che le due fazioni restituissero congiuntamente il denaro dovuto dai Trenta a Sparta, tra i comportamenti «più belli e politici» (Costit. degli Aten. 39, 6-40, 3)57, la condanna della tragedia di Frinico che nel 493 aveva ricordato sulla scena i recenti mali inflitti alla Grecia dai Persiani (cf. Erod. 6, 21)58, che era stata segno di un «trauma collettivo di guerra» non rielaborato59, la rifondazione di Tebe compiuta dal re macedone Cassandro nel 316, dopo la distruzione ad opera di Alessandro Magno (Diod. 19, 53-4), l’esigenza di purificazione degli Argivi dopo il massacro dei cittadini ricchi nel 370 (15, 57, 3-58), il rispetto per la casa di novelli sposi (Plut., Demost. 25, 7-8). Si tratta di un modo di pensare di cui, in un’altra opera, si fa portavoce il socratico Teone. Questi, in compagnia di altri illustri personaggi, si aggira tra i monumenti di Delfi, e quando il giovane Diogeniano e il moralista Sarapione si sdegnano a vedere, in mezzo a statue di re e strateghi, le offerte delle etere Rodopi e Mnesarete, in quanto appunto avevano esercitato un mestiere non onorevole, Teone fa notare che in tal modo essi si adirano per cose di poco conto e non per quelle importanti. In particolare, rimprovera Sarapione per il fatto che, «pur vedendo il dio avvolto tutto intorno dalle offerte e dalle decime di stragi e guerre e saccheggi, e il tempio pieno di spoglie e di prede greche, non ti irriti, né commiseri i Greci quando leggi su belle offerte votive iscrizioni vergognosissime: “Brasida e gli Acanzi, dagli Ateniesi”, “gli Ateniesi, dai Corinzi”, “i Focesi, dai Tessali”, “gli Orneati, dai Sicionii”, “gli Anfizioni, dai Focesi”. (...) Sarebbe stato bello che i re e i governanti innalzassero davanti al dio offerte di giustizia e di moderazione e magnanimità e non abbondanza di oro e di fasto, di cui partecipano anche coloro che sono vissuti nella maniera più vergognosa» (Orac. della Pizia 401c-d). Sulla non facile politica ateniese dell’oblio generale, coniugato in Lisia con la memoria di casi singoli, cf. Piovan 2011. 58 Torna dunque il motivo del ricordo delle sofferenze che eccita all’ira e all’odio (cf. supra 1.5.), ma da evitare, come era per Pol. 9, 10 (però nel rapporto tra dominanti e dominati: cf. supra 3.3.1). 59 Così Proietti 2019, che però propone di datare il dramma a poco dopo la fine delle guerre persiane, quando gli Ateniesi avevano già subìto il sacco della loro città: è tale sofferenza che Frinico avrebbe rievocato. L’interpretazione della multa in termini di mancata rielaborazione del trauma collettivo mi pare che regga, in realtà, anche se si sta alla datazione più diffusa (che presuppone l’empatia con i Milesii, cui del resto sono legati da precisi rapporti coloniali: Erod. 5, 97, 2). 57
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Secondo un’idea che Plutarco presenta anche altrove60 (e che già si è trovata in Platone e in Isocrate: cf. supra 1.5.), sono i doni al dio provenienti dal sangue greco versato da altri Greci che dovrebbero indurre allo sdegno, non quelli che sono frutto del mestiere di etera. L’opera principale e anzi addirittura «unica» del politico consiste ormai proprio in questo, cioè nel rivolgersi alla città per «farvi essere concordia e amicizia reciproca sempre tra coloro che vivono insieme, eliminare discordie e divisioni e ogni malevolenza (...) privatamente e pubblicamente, istruendo e spiegando la debolezza delle condizioni della Grecia» (Prec. pol. 824d-e). La polis, dunque, deve essere indirizzata alla costruzione della pace interna, e ogni cittadino deve essere educato a guardare alle testimonianze delle guerre tra Greci con orrore e commiserazione. Invece, ordinariamente – e in linea con la considerazione critica sulle iscrizioni appena citate (e sull’insensibilità dei due compagni di Teone) – la storia ha come oggetto le guerre non tanto nella loro dimensione agonale, ma in quella fatta di comportamenti meschini, secondo Plutarco, buone per i morbosamente curiosi; qui essa si occupa, infatti, di «“cadute di guerrieri e convulsioni di vite” [= Esch., Suppl. 937], stupri di donne, aggressioni di schiavi, calunnie di amici, preparazioni di avvelenamenti, invidie, gelosie, naufragi di casati, cadute di imperi» (Sulla curios. 517f). Infatti, se si eliminano l’azione politica di Pericle, le vittorie navali di Formione, gli atti di valore di Nicia a Citera, a Megara e a Corinto e quello di Demostene a Pilo e altre imprese di questo genere, si cancellerà Tucidide, e allo stesso modo se si eliminano altri atti bellici o politici smettono di esistere gli storici (historikói) Cratippo, Senofonte, Clitodemo, Diillo, Filocoro, Filarco (Glor. degli Aten. 345d-e). Sia chiaro, comunque, che anche gli elementi contestati (battaglie, assedi etc.) nelle Vite, come anche nei Moralia, non mancano affatto; anzi, è stato calcolato che le biografie plutarchee contengono più di
60 Cf. Flamin. 11, 6: «se uno toglie l’impresa di Maratona, la battaglia navale di Salamina, Platea, le Termopili e le imprese di Cimone all’Eurimedonte e a Cipro, la Grecia ha combattuto tutte le battaglie per la schiavitù, contro se stessa, e ogni suo trofeo è stato una sciagura e una vergogna».
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220 racconti di battaglie61. Tuttavia, a fronte di quanto accade nella scrittura storiografica, nella biografia del Cheronese, spesso «un piccolo fatto, un motto, una battuta rendono l’evidenza (émphasin) del carattere» più di quanto possa fare la storia con le sue «illustrissime azioni» consistenti in «battaglie con migliaia di morti, grandissimi schieramenti di eserciti e assedi di città» (Aless. 1, 2). Essa mira non all’«inutile storia» che racconta tutto ma a quella selezione di materiale che può condurre alla «comprensione del carattere e del comportamento» (Nicia 1, 4). La distanza tra le biografie e le opere dei Moralia allora diminuisce, accomunate come sono da una narrazione in cui l’aneddotica ha un forte rilievo (e alcune opere sono addirittura una raccolta di apoftegmi, una sorta di vite di forma breve, ridotta alle sole parole: Apoftegmi di Spartani, Apoftegmi di Spartane, Apoftegmi di re e di generali)62. È nel confronto con i caratteri dei personaggi messi in tal modo a fuoco che ci si può migliorare chiedendosi: «cosa avrebbe fatto in questo caso Platone? Cosa avrebbe detto Epaminonda? Come si sarebbero mostrati Licurgo o Agesilao?» (Progr. nella virtù 85a-b). Nelle vite altrui, infatti, ci si può guardare come in uno specchio e aggiustare e migliorare quella propria (Paolo Emil. 1, 1). Anche Plutarco non sfugge all’idea, già rinvenuta in Dionigi di Alicarnasso e che il Cheronese considera normale in tutti gli storici, che la scelta di raccontare le grandi imprese militari è compiuta «per partecipare di un certo splendore e luce» che, dai fatti narrati si riverbera, come in uno specchio, sul narratore (Glor. degli Aten. 345ef); purché li si sappia raccontare, come fa egli stesso. Basti citare il vivace racconto della battaglia, presentata come eroica, di Alessandro al Granico (Aless. 16). Qui il Cheronese mostra di applicare bene la regola da lui stesso formulata altrove, secondo cui «tra gli storici 61 Così Gazzano, Traina 2014, 349, in un saggio all’interno di una raccolta di studi a loro cura intitolata Plutarco e la guerra/Plutarque et la guerre; tra gli articoli del volume, segnalo anche: Prandi 2019, che mette il racconto di guerra plutarcheo in rapporto non solo con le biografie individuali ma anche con la ‘biografia degli Stati’; Nicolai 2019, che illustra la specificità dei discorsi dei comandanti, poche volte rivolti in forma breve alla massa dei soldati, per lo più dialogici, all’interno di un contesto più ristretto, in modo da fare risaltare l’apoftegmaticità e il carattere del personaggio; Payen 2019, che sottolinea come Plutarco, sulla scia della tradizione più strettamente storiografica, consideri la guerra in termini problematici, non risolutivi. 62 Per il rapporto tra le biografie e l’aneddotica, cf. Apoft. di re e di gener. 172b-f.
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è migliore colui che costruisce la sua narrazione con i sentimenti e i personaggi come se si trattasse di una pittura» (Glor. degli Aten. 347a), e ammira il quadro di Eufranore (IV sec.) che della battaglia di Mantinea (362), «non senza ispirazione» (ouk anenthousiástos), aveva rappresentato «lo scontro (sýrregma) e la resistenza (antéirisin) piena di coraggio, ardore e spirito» (346b-e). E, di nuovo, anche nelle biografie è importante la capacità pittorica: solo che qui essa è rivolta alla riproduzione dei tratti del costume e del carattere e, come nella pittura bisogna riportare anche i difetti fisici senza però darvi risalto con un’eccessiva precisione, così nella narrazione di una vita bisogna non rimarcare troppo gli errori e le pecche politiche derivanti non da vera malvagità ma da una certa mancanza di virtù (Cim. 2, 2-5). 3.5. Luciano di Samosata: istruzioni storiografiche di un non storiografo Luciano, come si sa, ci ha lasciato un opuscolo su Come si deve scrivere la storia (circa 165 d.C.). Pur non avendo mai redatto trattazioni storiche, egli ha riflettuto su quelle dei suoi contemporanei che, sulla spinta delle guerre partiche, hanno partecipato alla moda di improvvisarsi storici («tutti Tucididi, Erodoti, Senofonti»: 2). In realtà, si potrebbe rimproverare a Luciano di non aver tenuto conto, in questa critica, che i tre modelli da lui prospettati si erano anche loro improvvisati storici (come egli stesso, d’altronde, si è improvvisato ‘metodologo’ della storiografia, diremmo oggi). Tra le sue lamentele c’è quella nei confronti del ricorso, nella storiografia, all’adulazione e agli abbellimenti, perché in tale modo si ha semplicemente «una poesia in prosa priva della grandezza dell’eloquio proprio di quella» (8). E tuttavia, precisa Luciano, «ciò non significa che talvolta nella storia non si debba elogiare; ma bisogna farlo nel momento opportuno e applicando come misura alla cosa il fatto che ciò non risulti gravoso a quelli che in futuro leggeranno»63. Anche qui il problema, rispetto al rapporto tra lo specifico della storia e, per così dire, il resto, è dato 63 Come si deve scrivere la storia 9. Cf. 59-60: «elogi o biasimi siano molto parchi ed oculati e privi di calunnia e presentati con dimostrazioni (metá apodéixeon), e rapidi e non inopportuni, poiché sono fuori dal tribunale (…) e se ci si imbatte in un mito, bisogna raccontarlo, non certo dandolo del tutto per affidabile, ma ponendolo nel
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dall’armonia tra tali elementi non dalla presenza del secondo, perché, se è vero che la storia non coincide con la retorica, quest’ultima è pur sempre «un orizzonte della storia»64. Luciano informa che gli storici che gli è capitato di ascoltare tanto nella Ionia quanto in Grecia spesso applicano procedimenti poetici: uno comincia, evidentemente avendo a modello l’epica, dall’invocazione alle Muse, paragona l’imperatore ad Achille e il re dei Persiani a Tersite, elogia se stesso e la sua patria e promette di innalzare le imprese dell’esercito romano (14). Ma il proemio, afferma Luciano, deve essere ben diverso da quelli di questo tipo, che sono «splendidi e tragici e eccessivamente lunghi così da lasciare credere che dopo questi si ascolteranno cose del tutto meravigliose» (19). In esso, lo storico deve mostrare di parlare «di cose grandi o necessarie o convenienti o utili» come paradigmaticamente avveniva in Erodoto e in Tucidide: il primo, dice Luciano, dichiarava di volere impedire l’oblio di avvenimenti «che erano grandi e meravigliosi e mostravano vittorie dei Greci e sconfitte dei barbari»; il secondo spiegava di trovarsi davanti ad una guerra «degnissima di racconto e più grande delle precedenti» e causa di «grandi sofferenze» (53-4). Ciò che per lui accomuna i due modelli, sembrerebbe, è il fatto di raccontare eventi militari di rilievo, tant’è che dalla citazione erodotea relativa all’oggetto d’indagine, con un taglio ad hoc, egli elimina «le altre cose», cioè quelle di carattere non bellico, che invece Erodoto aveva incluso. Luciano, inoltre, ironizza sullo storico che menziona una miriade di inutili dettagli topografici – ma forse il geografo Strabone non avrebbe pensato la stessa cosa – o che (di nuovo alla maniera epica) descrive minuziosamente lo scudo dell’imperatore o l’acconciatura del re nemico etc. (19). Soprattutto, Luciano se la prende con quello storico che liquida in sette righe la battaglia di Europo per dare invece larghissimo spazio al racconto, appunto dettagliatissimo e lungo, relativo ad un cavaliere mauritano di nome Mausaca. Questi, vagando per le montagne e spinto dalla sete, si era avvicinato a dei contadini siri, che dapprima ne avevano avuto paura e poi, saputo che non era un nemico, lo avevano ospitato, e uno dei contadini mezzo per quelli che, nel caso che vogliano, vi congetturino sopra: ma tu non correre rischi e non inclinare da nessuna parte». 64 Pernot 2005, 52. 194
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gli aveva raccontato di essere stato una volta in Mauritania dove il fratello prestava servizio militare, cosa vi aveva visto e perfino una disavventura che gli era capitata rischiando di essere divorato da un leone; infine, il Mauro e il Siro si erano scambiati doni e si erano separati (28). Per noi, il racconto può essere utile per conoscere elementi della storia sociale dell’impero65, almeno in quanto attesta l’esistenza di un pubblico interessato ad una storia vera, ma con tratti del racconto d’avventura: un tipo di storia (story) pacifica. Ma Luciano ne ridicolizza la superfluità rispetto alla sua idea di storia che è quella di storia (history) fatta di «tante stragi, assalti, necessarie tregue, guardie e controguardie fino a tarda sera», come vediamo nella battaglia di Europo: sono queste azioni che costituiscono, secondo lui, «la rosa stessa» a cui quello storico ha invece preferito «le spine del suo gambo» (28). Anche per lui, fermo restando quanto appena detto, «il compito dello storico consiste nel disporre in modo bello i fatti ed esporli con la massima vividezza possibile (enarghéstata); e quando qualcuno che ascolta, dopo ciò, crede di vedere le cose dette e dopo ciò lo loda, allora l’opera ha toccato la precisa perfezione e ha ricevuto la lode che spetta ad un Fidia della storia» (51).
La narrazione storica, dunque, è un’arte ‘scultorea’; la costruzione ‘eretta’ con la scrittura, però, deve avvenire, secondo Luciano, prima registrando in un appunto (hypómnema) i fatti raccolti di persona o fidando su persone attendibili, e ordinandoli: solo dopo, suggerisce, lo storico «vi apporti la bellezza e la colori con l’espressione e con le figure e con il ritmo» (48). Con l’aspetto artistico, anche Luciano ammette l’ingrediente poetico, che lo storico deve non escludere ma, come al solito, utilizzare solo in una certa misura e al momento opportuno, cioè «soprattutto quando si impegna in schieramenti e battaglie e scontri navali: allora infatti ci sarà bisogno di un certo vento poetico che spiri sulle vele e trasporti alta la nave sulla cima delle onde» (45). Perché, ancora una volta, è al valore militare che la storia, lungi dall’essere semplice registrazione della pura verità, deve spingere, e, per raggiungere il suo scopo, essa può rinunciare Canfora 1999, 52-53. Importante anche Canfora 1989, 261 sgg.
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ai dettagli veritieri e fare ricorso a qualsiasi mezzo che entusiasmi il lettore. Massimo di Tiro: superiorità della filosofia sulla storia (ma anche di un’altra storia possibile) Non meno dell’epos aristocratico, la storiografia era piena, come anche Plutarco aveva ben visto, di guerre e di tutte le forme di violenza. Queste, all’interno del discorso patriottico-egemonico con cui erano raccontate (sia pure con l’aggiunta di articolate analisi sulle cause, che mancavano invece nel discorso poetico), venivano a costituire, specialmente grazie alla vividezza della narrazione, un vero e proprio paradigma pedagogico. Ma tale forma di istruzione in qualcuno, per esempio nel filosofo platonico Massimo di Tiro (II sec. d.C.), destava dubbi. Questi, in una delle sue orazioni, mette in scena la contrapposizione tra storia e filosofia – una sorta di dissidio analogo a quello che Platone aveva individuato come originario, ed ancora esistente ai suoi tempi, tra poesia e filosofia (Rep. 607b). Come Platone, anche Massimo assegna il primato a quest’ultima. In un primo momento, però, dopo un accenno che nega ogni valore ai discorsi giudiziari, egli espone le considerazioni elogiative della storia – quelle normalmente fatte da chi la difendeva – e del lettore che, con la consueta immagine, è presentato come un Odisseo ‘da camera’, che apprende senza bisogno di affrontare alcun pericolo ma ‘viaggiando’ fra i libri: «Dunque, bisogna nutrire le anime nobili con discorsi, e non certo con discorsi giudiziari, afferma la ragione. Con quali allora? Forse quelli che trasportando le anime nel tempo passato offrono loro la visione di ciò che una volta è accaduto? In effetti cosa piacevole è la storia e l’andare dappertutto senza stancarsi per nulla, visitando tutti i paesi, partecipando con sicurezza a tutte le guerre, raccogliendo in breve un’enorme lunghezza di tempo, apprendendo in poco una massa infinita di fatti, quelli degli Assiri, quelli degli Egizi, quelli dei Persiani, quelli dei Medi, quelli dei Greci, stando accanto ora a chi fa la guerra sulla terra, ora a chi combatte sul mare, ora a chi decide nell’assemblea. (…) E se sapiente fu Odisseo, in quanto era versatile
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e “di molti uomini vide le città e conobbe la mente” (…), molto più sapiente è colui che sta fuori dai pericoli e si nutre della storia. Vedrà Cariddi, ma non in naufragio; ascolterà le Sirene, ma senza essere legato; incontrerà il Ciclope, ma lo troverà in atteggiamento pacifico; e se anche Perseo fu felice, perché era alato e volava nell’etere vedendo tutti gli accadimenti e tutti i luoghi della terra, la storia è cosa più leggera delle ali di Perseo e più elevata. (…) Per dirla concisamente, i discorsi di storia costituiscono sommo diletto per l’ignorante in virtù della sua piacevolezza e un apporto per colui che sa in virtù della sua capacità di riportare alla memoria. Quale banchetto di discorsi potrebbe dunque essere per l’anima più piacevole di questo?» (Dissert. 22, 5-6).
Tuttavia, la storia, come ho anticipato e già qui si è capito, è appunto storia di guerre (e Massimo ne elencherà adesso tutti i contenuti topici). Ecco allora il problema, che egli pone, alludendo polemicamente a fatti ben noti narrati da illustri storici: «Certo, è duro a dirlo e a contrapporsi ad una numerosa e nobile schiera di compositori di discorsi (logopoió), e tuttavia bisogna dirlo: bella è la vostra armonia e piacevole a cantarsi, ma l’anima dabbene desidera altro, e a voi non è possibile offrirglielo. Infatti, quale sacralità costituisce il ricordo dei mali antichi per colui che non sa come difendersene, o che gliene viene agli Alicarnassei dalla storia ionica? O in cosa i Chii sono più felici grazie ad essa? Perché se, avendo distinto le azioni nobili da quelle vergognose, nascondessero queste e raccontassero quelle, per l’anima ci sarebbe un vantaggio nell’imitare ciò che è stato indagato, come per gli occhi nell’imitare la pittura. Ma ora tutto nei discorsi storici è impastato insieme e sono di più le cose peggiori e predominano i fatti vergognosi: la maggior parte della storia risulta di tiranni prevaricatori, di guerre ingiuste, di successi irrazionali, di azioni malvage, di vicende sconsiderate, di situazioni tragiche. Di tutto ciò l’imitazione è pericolosa, il ricordo è dannoso, la sventura è immortale. Io invece ho desiderio di un nutrimento di discorsi salutari, ho bisogno del nutrimento del discorso esente da malattia dal quale anche Socrate e Platone e Senofonte ed Eschine traevano salute. L’anima umana desidera, teme, si addolora, invidia e prova varie altre odiose passioni: ecco una lotta intestina aspra ed implacabile. Questo tipo di guerra raccontami, e lascia da parte quella dei Medi; questa malattia raccontami, e lascia da parte la peste (…). Non chiedere della terra devastata (perí ghés deouménes), o del mare solcato dai briganti (perí thaláttes lesteuoménes) o delle mura
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assediate (perí teichón poliorkuménon) o dei corpi uccisi (perí somáton phtheiroménon): sono cose piccole, effimere. Il raccolto sarà distrutto anche se i Peloponnesiaci se ne asterranno; il mare sarà depredato anche se gli Ateniesi non vi faranno battaglie; se non Filippo, sarà il tempo ad abbattere le mura; i corpi saranno consunti anche quando la peste sparirà. Ma la virtù dell’uomo non può tornare indietro, non è depredabile né catturabile. Chiedi riguardo a questa, quando viene danneggiata, depredata, assediata, quando è malata» (22, 6-7).
La via di Massimo è quella della filosofia. Invitava alla via filosofica anche Epitteto di Ierapoli (I-II sec. d.C.) che, chiedendosi retoricamente cosa avessero di «grande» (méga) e di «terribile» (deinón) le guerre, i conflitti civili, le distruzioni di uomini e di città, dato che tali eventi luttuosi, da un orizzonte molto ampio, sono simili a morti di mandrie e distruzioni di nidi (Diatr. 1, 28, 14 e 17), criticava chiunque andasse dal maestro solo per acquisire informazione (historía) (2, 21, 10). Massimo però, a rigore, sembra lasciare alla storiografia un’alternativa: non occuparsi del male di cui la realtà è impregnata, cioè prevaricazioni, guerre ingiuste, insensatezze di vario genere, e prendere ad oggetto ciò che è degno di essere ricordato e imitato: non, però, per la sua grandezza bensì per il suo valore etico e la sua nobiltà. Ancora cancel culture? Certamente Massimo richiede una selezione di oggetti storiografici, ma alla scelta non si accompagna un divieto; si tratta, piuttosto, di una politica culturale, di un invito alla consapevolezza delle implicazioni che ha una conoscenza o un’altra, come era anche per Plutarco nel passo citato sopra in cui suggeriva ai politici gli episodi storici da richiamare pubblicamente e quelli da evitare (Prec. pol. 814a-b), o quando, a proposito del fatto che, sotto Numa, Roma visse in pace mentre poi le guerre «riempirono l’Italia di sangue e di morti», dichiarava: «qualcuno potrebbe dire, “E che? Con le imprese belliche Roma non andò avanti verso il meglio (epí tó béltion)?”, ma farebbe “una domanda bisognosa di una lunga risposta a uomini che pongono il meglio nella ricchezza, nel lusso e nell’egemonia anziché nella salvezza, nella mitezza e nell’autosufficienza unita alla giustizia”» (Numa 26, 11 e 13).
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Conclusioni
Al termine di questo lavoro, provo a tirare le fila richiamando le principali dinamiche della guerra alle quali i confliggenti – entrambi i confliggenti – obbediscono senza avere consapevolezza delle possibilità del dialogo o dei modi in cui crearle. La logica della guerra, favorita da idee identitarie come quella di patria, organizza in modo semplice e semplicistico le forme di interazione tra le parti (ma anche tra gli elementi di una stessa parte). La belligeranza appare come un’inevitabile necessità, come una costrizione imposta, secondo entrambi i contendenti, dall’‘altro’. In realtà, le parti scelgono la belligeranza, spesso senza accorgersene (l’unica alternativa che si vede è la resa), per vari motivi: per diffidenza; per il ricordo, accuratamente coltivato o riesumato ad hoc, dei mali ricevuti in passato dall’altra parte; per una politica di esibizione monumentale della propria vittoria; per l’intenzione di esternalizzare il conflitto interno alla propria comunità o anche di deviare l’attenzione popolare da problemi che mettono a rischio qualcuno (per esempio, per un processo che si profila all’orizzonte, come una tradizione dice a proposito di Pericle; per una politica fallimentare di cui dovere rendere conto, come sembrerebbe essere accaduto ad Aristagora); per un confliggente che rifiuta l’interlocuzione con l’altro e/o per le terze parti che, anziché tentare una mediazione o farsi opinione pubblica che ‘spinge’ per la pace, si schierano con l’uno o con l’altro. Una domanda come «chi ha cominciato?», fondamentale nell’impostazione giuridica del problema bellico fatta propria dalla pratica storiografica, sembra non essere di grande aiuto per trovare delle soluzioni (anzi, sembra addirittura contribuire alla radicalizzazione della polarità conflittuale), e tantomeno risulta tale nell’impostazione
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giuridico-religiosa. Ogni confliggente individua, anche in buona fede (perché ognuno guarda sempre da una prospettiva e da una cultura), un inizio diverso, ma entrambi presentano una caratteristica comune: l’idea che a cominciare sia stato l’‘altro’. Ciò può avvenire per i motivi più vari: o perché essi periodizzano diversamente, o perché, per paura, pensano in termini di attacco preventivo, o perché chiamano «guerra» (pólemos) fenomeni differenti, per esempio quello che l’altro dei due ritiene un semplice «contrasto» (diaphorá), o perché uno dei due attori del conflitto considera volontario un danno compiuto dall’altro, che questi sostiene essere stato involontario. Quanto alla legittimità religiosa della guerra, ogni parte non ha difficoltà a giustificare anche sotto questo profilo la propria azione militare: non c’è mai nessuno che non levi il grido «Dio è con noi». Non meno della guerra contemporanea, anche quella antica è fondata sul sistema di pensiero DMA1, cioè sulla dicotomizzazione, che porta a impostare i rapporti in termini polari (Io-l’Altro); sul manicheismo, che induce a credere che da una parte, naturalmente quella propria, ci sia tutto il Bene e dall’altra, quella altrui, tutto il Male; sull’armageddon, l’idea per cui il conflitto deve risolversi inevitabilmente con il ricorso alle armi. All’interno di questo schema si muove la costruzione del nemico e la sua reductio ad Hitlerum, che ha fatto la sua comparsa diverse volte in queste pagine. All’interno di questa logica, adottata da qualsiasi regime politico, indipendentemente dal fatto che esso sia oligarchico o democratico, non c’è posto per i neutrali, che vengono prima richiesti poi minacciati e obbligati a schierarsi rinforzando la dinamica della polarizzazione. Al di là della retorica della guerra come nobile agone di stampo aristocratico per la terra patria da difendere, ma anche in continuazione con tale precettistica che la società democratica eredita ed estende dall’individuo alla comunità, si ha presto uno slittamento in qualche modo implicito nell’idea stessa di patriottismo. Mettere la propria polis al di sopra di tutto finisce per giustificare, senza troppa apparente contraddizione, anche l’aggressione e la guerra di conquista: come si è visto più volte, la terra patria è da fare grande, da
1 DMA è l’acronimo di Dicotomizzazione, Manicheismo, Armageddon, pensato da Galtung 1996, 497, per ciò che egli definisce una vera e propria sindrome.
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accrescere (un’espressione che sentiamo ancora oggi pronunciata dai rappresentanti delle grandi potenze). D’altronde, anche il motto aristocratico non voleva che si aspirasse ad «essere il migliore e al di sopra degli altri» (Il. 6, 208)? A favore della patria, sia per la sua salvaguardia sia per la sua espansione, praticamente tutto diventa lecito nei confronti dell’‘altro’, tutto diventa doveroso per i cittadini, che vengono educati al principio di «vincere o morire». E la patria e i comandanti dell’esercito ‘ricambiano’ con assegnazioni di onori e premi ai buoni combattenti, visite ai feriti, cura dei loro orfani, che però risultano non semplici comportamenti di contraccambio ma (anche) veri e propri provvedimenti volti a mantenere la fedeltà dei soldati e, appunto in quanto tali, suggeriti dalla manualistica militare. Tali atti, vere e proprie strategie di persuasione, devono essere ben visibili a tutti, devono essere esibiti e non soltanto compiuti: loro funzione indispensabile è l’apparire. Non è che non vengano fuori paure, sia dei soldati, specialmente se alle prime esperienze, sia dei civili in ansia per loro e per se stessi, ma esse risultano per lo più nascoste tra le pieghe dei racconti, o condannate come segno di viltà o comprensibili, ma inaccettabili, sentimenti di mogli o genitori che a volte giungono a cercare attivamente di risparmiare i pericoli ai loro familiari. La guerra, dunque, se si è deliberato di farla, … si fa. All’inizio, al momento della decisione, c’è una certa dose di ottimismo: i giovani soprattutto sono intraprendenti, sicuri di se stessi, desiderosi di mostrare il proprio valore, i capi presentano la guerra come una guerra-lampo e un’attività sotto controllo o quasi sotto controllo. Quando si constata che il percorso non è lineare, che si presentano imprevisti di qualsiasi genere, allora scatta il meccanismo, di cui gli uomini diventano inconsapevoli ingranaggi, e il cui funzionamento, almeno se visto dal di fuori, appare chiaro: rinunciare alla prosecuzione di una guerra ‘solo’ perché essa, adesso, dopo avere impiegato risorse e perso uomini, si rivela non facile e rapida come si presupponeva bensì lunga e difficile, significherebbe che quei costi sono stati inutili. Dunque, si gioca d’azzardo: meglio rischiare di perdere o vincere tutto piuttosto che accettare di avere intrapreso una strada sbagliata. Per questo, in nome dell’unità necessaria davanti al nemico, si reprime con durezza e senza possibilità di appello, ogni dissenso, mentre da parte nemica, specularmente, si
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cerca di fomentare il sospetto nei confronti dei capi della città o dei comandanti. Tra i belligeranti, chi è in svantaggio, scommette sul carattere di imprevedibilità della guerra e dunque sul possibile capovolgimento dei rapporti di forza, ma talvolta sarebbe anche disposto ad un negoziato di pace; chi è in vantaggio, invece, si nutre dell’illusione della vittoria totale e rifiuta di concedere la cessazione del conflitto prima di arrivare al raggiungimento dello scopo, che ormai non è più la pace bensì il trionfo. Della continua alternanza di queste posizioni la guerra del Peloponneso è un caso esemplare. Fuori dal mito di una dinamica agonale, regolamentata, ‘pulita’, la guerra risulta non avere regole. Quelle considerate tali sono osservate, quando ciò avviene, semplicemente perché non si pensa di ricavare nulla dall’infrangerle. Altrimenti, restano puramente teoriche, sul piano dell’etica astratta; l’infrazione, da uno dei belligeranti, delle consuetudini a cui si è maggiormente sensibili, tuttavia, comporta poi che nel prosieguo della guerra non ci si potrà più aspettare il loro rispetto neanche dall’altro e, in caso di successiva sconfitta, si otterrà probabilmente un trattamento peggiore di quello che si sarebbe avuto se non si fossero infrante le regole minime. In realtà, la logica della guerra, di per sé, a parte circostanze specifiche e azioni capaci di attenuarne la violenza2, è quella della supremazia a tutti i costi. La ferocia dello spartano Lisandro, passata in proverbio, è solo l’incarnazione paradigmatica di una condotta che, come si è visto, non è affatto eccezionale: essa non esita a mettere in atto ‘crimini di guerra’ né a infrangere pretesi principi di proporzionalità dei danni. Per giustificare tutto ciò, d’altronde, poiché si troverà sempre il precedente (vicino o lontano nel tempo) di una condotta altrui analoga a quella propria che viene contestata, è disponibile l’argomento «E voi/loro, allora?». Certo, il cinismo bellico varia anche in funzione dei contesti e dei tempi, probabilmente anche in proporzione alla vicinanza relazionale che sussiste tra gli attori del conflitto. Da qui la problematicità delle guerre civili, laddove esse non siano innanzitutto anche l’occasione per regolare ferocemente i conti di singoli cittadini con altri per moti Cf. Cozzo 2018, capp. 5 e 6.
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vi personali o di una ‘lotta di classe’ che la pace aveva normalmente tenuto nascosta. Sul campo di battaglia i soldati schierati su un fronte possono riconoscere su quello opposto, anche visivamente, amici e parenti e farsi appelli a ritornare alla concordia; oppure, nel caso di grandi eserciti, specialmente quelli delle prime file possono esitare appunto perché si distinguono e si individuano concretamente nelle figure, nei nomi e nelle relazioni, mentre sono quelli che combattono con le armi da getto, che da lontano colpiscono individui irriconoscibili, o ancora i soldati alleati che hanno davanti a se stessi un nemico del tutto anonimo, a non farsi scrupoli ad uccidere – così come avviene di norma nelle guerre interpoleiche dove il nemico, costituito da uomini sconosciuti, con i quali non si è in nessun rapporto, appare in forma impersonale, ‘astratta’. Particolarmente in queste ultime, sovrana è l’esigenza di vincere in qualsiasi modo, senza farsi troppi problemi sul ricorso a ogni espediente che colpendo la vista o l’udito dei nemici possa provocare in loro paura, ad inganni, false promesse, scherni, provocazioni, insulti, per indurli a fare mosse sbagliate o per fiaccare il loro morale. I propri soldati, poi, vanno incoraggiati con esortazioni che tutti sanno essere topiche, facendo enfaticamente leva su elementi emotivi (bisogna essere degni degli antenati, ricordarsi delle famiglie in pericolo etc.) o razionali (si è superiori per numero, i nemici sono già stati battuti prima e quindi sono avviliti e così via), ma che, nel momento in cui ogni appiglio è buono per coltivare la speranza, possono lo stesso essere efficaci; né ci si fa problema, quando questo risulti utile, a mentire o a nascondere qualcosa anche ai propri soldati pur di renderli sicuri di se stessi e aggressivi (si pensi all’operazione di cancel culture a Sicione per volere di Clistene, o in altre città). La dimostrazione della propria potenza al nemico, vera e propria esibizione (epídeixis), è un’altra azione messa in atto per abbattere il suo spirito. La verità, in guerra, non è mai un valore, né quando ci si rivolge al nemico né quando si parla alla propria parte. L’importante è, per ogni fronte, far apparire ciò che gli serve che appaia: alla luce di questo principio, presentare immagini, o addirittura fabbricare scene, della propria potenza (anche per riuscire ad avere alleati, come si fa a Segesta per ottenere l’aiuto degli Ateniesi e in altri casi), autoprocurarsi un danno per essere credibili su ciò che si sosterrà, non sono cose per nulla strane. Strano sarebbe credere che qualcosa sia necessariamente 203
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come sembra. E anche quando il nemico viene a conoscere la verità, ciò può essere dovuto al fatto che l’altra parte trae da ciò qualche vantaggio (come nei casi che mostrano sia Serse sia Scipione liberare le spie scoperte perché possano andare a riferire la superiorità di forze che hanno visto e provocare nel loro campo paura o abbattimento). Ma, in generale, cosa sia vero e cosa sia falso è difficile capire, anche quando le parti siano d’accordo sul «fatto» accaduto: se il tempio di Cibele di Sardi sia stato incendiato dai Greci a bella posta, come volevano i Persiani che da ciò giustificavano il fuoco da loro appiccato ai templi greci, o accidentalmente, come sostenevano i responsabili dell’azione, sembra una delle cose che non sapremo mai. Il regime comunicativo della guerra è in assoluto la propaganda, e la verità viene detta solo se coincide con essa. Le terze parti, e gli storici con esse, vivono in mezzo a questo caos in cui dominano la finzione e una pratica che si può considerare di vera e propria teatralità. Torture di militari compiute per vendetta o di civili per strappare loro notizie importanti, utilizzazione di ‘scudi umani’, massacri di uomini e perfino di animali a scopo intimidatorio (pratiche che dall’altra parte vengono ideologicamente interpretate come gratuite e segno di barbarie ma che in realtà possono essere, o essere state, utilizzate anche da essa), umiliazioni di prigionieri, stupri di donne o ragazzini (talvolta anche per procurare dolore ai loro familiari che sono i veri nemici e, dunque, i veri obiettivi da colpire) sono la regola, stanno nella logica della guerra che ha come unico scopo la vittoria. Insomma, da questo punto di vista, non ci sono davvero crimini «inutili», perché la guerra è, da qualsiasi parte, terrore: la vittoria si ottiene debilitando la parte avversaria nelle forze materiali e in quelle psichiche. La scelta di spingere i nemici alla resa piuttosto che a soccombere in battaglia può avere secondi fini, come nel caso degli Spartani che fanno una proposta in questo senso ai Plateesi rinchiusi nella loro città e senza vie d’uscita solo perché, dice Tucidide, se un futuro trattato di pace avesse sancito la restituzione dei territori conquistati, Platea non dovesse essere lasciata autonoma, visto che si era consegnata spontaneamente. Di questa terribile realtà erano responsabili soltanto i popoli in conflitto e le terze parti che restavano indifferenti o si schieravano unilateralmente con uno di essi? Nell’ultimo capitolo di questo lavoro mi sono interrogato, sostanzialmente, sul ruolo che gioca il 204
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narratore dei fatti storici – una questione che, in generale, riguarda anche noi in quanto giornalisti, osservatori geopolitici, semplici commentatori o storici (di qualsiasi epoca ci occupiamo). Chi li racconta non può essere certo responsabile degli eventi bellici accaduti; c’è da chiedersi tuttavia se non sia almeno indiretto responsabile di quelli analoghi che si verificheranno successivamente. Il suo racconto, infatti, è e non potrebbe non essere – ma anche vuole essere – educativo. Gli storici antichi presi in considerazione – benché tra di loro ci siano differenze specifiche e sfumature diverse – sono storici di guerra o comunque storici che hanno sul loro oggetto d’indagine uno sguardo, anche quando non esclusivamente militarista, almeno fortemente influenzato dalla ‘normalità’ del fenomeno bellico. In generale, lo storico, a volte egli stesso uomo di guerra (in senso più stretto di come questa espressione valga tendenzialmente per qualsiasi cittadino greco), offre tirate patriottiche come quelle che attribuisce ai comandanti esemplari di cui narra; educa i suoi lettori al valore militare al servizio della patria (particolarmente Senofonte, Polibio, Diodoro Siculo, Dionigi di Alicarnasso, non fanno distinzione tra patria che si sente costretta a guerre di difesa e patria che intraprende guerre di conquista); li esorta a sopportare le sconfitte della patria: il suo ruolo sembra essere in piena continuazione, sul piano del racconto, con quello che il comandante svolge sul campo (e come il comandante sul campo, Polibio si è mostrato più volte partigiano e, ad esempio nei confronti di Aristomaco di Argo, anche di spirito crudele). La memoria da tramandare è, per lo più, quella concernente «ciò che è nobile»: la guerra nella sua dimensione eroica, o eroicizzata, cioè la battaglia (nel racconto della quale non si risparmia enfasi). Nella descrizione della battaglia (o delle tristi conseguenze per le truppe) Tucidide dà il meglio della sua capacità drammatica, e Polibio teorizza esplicitamente l’opportunità dell’enfasi (émphasis) e della vividezza (enárgheia) – virtù narrativa esaltata anche da Dionigi di Alicarnasso, da Plutarco e da Luciano. Dionigi, tuttavia, aggiunge al racconto storico, e lo giustifica teoricamente, la narrazione per esteso dei discorsi con cui si è stati capace di condurre alla pace, mentre Plutarco nella ‘trasformazione’ della storia in orazione politica o in biografia, si fa patrocinatore di una narrazione che, rispettivamente, promuova la pace interna alla polis e tra le poleis ormai da tempo sotto il governo centrale di Roma, o attraverso la presentazione di azioni 205
Conclusioni
(anche ma non esclusivamente militari) e motti di illustri personaggi del passato risulti formativa per il carattere. Nella presentazione di prospettive storiografiche mi sono fermato ad alcune considerazioni di Massimo di Tiro (che non era storico, come non lo era del resto neanche Luciano), perché da filosofo, in una sua orazione, problematizza in maniera più radicale la narrazione delle guerre. Ritengo che – certo, per trovare soluzioni adeguate ai nostri tempi – occorra riflettervi ancora.
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Indice delle cose notevoli
Argomento dell’«E voi/loro, allora?»: 23; 31-3; 119; 202
Attacco preventivo/Azione preventiva: 23; 27; 162; 200 «Con noi o contro di noi» (principio del –): 29; 90
Contrasto (diaphorá e agg. corrispondente): 15; 17; 21-2; 26; 45; 200
Dimostrazione di potenza: vedi Esibizione di potenza Esibizione di potenza: 93; 110 Fuoco amico: 92 e n. 77
Giornali, giornalista/i: vedi Media Gruppo Wagner: 43
Guerra di conquista: 33; 67-9; 77; 92; 153; 162-6; 200; 205 Guerra-lampo: 91-2; 96; 201 Hamas: 42 n. 53 Jihad: 42 n. 53
Media: 9-11; 32; 38; 49; 99; 103; 162; 205
Necessità (della guerra, della conquista): 22; 27 e n. 27; 28; 31; 44; 64; 144; 199 Reductio ad Hitlerum: 105 e n. 90; 169; 173; 200
Russi, Russia (e agg. corrispondenti): 9; 18; 32; 37 n. 39; 43 e n. 54; 88-9; 99; 100 e n. 84; 107 e n. 94; 108 n. 94; 114 n. 110; 131 e n. 137; 137
Ucraina, Ucraini (e agg. corrispondenti): 9; 11; 18; 27; 32; 37, n. 39; 38 n. 39; 43 e n. 54; 88 n. 72; 89; 91; 98-9; 100 e n. 84; 105 n. 90; 107 n. 94; 108 n. 94; 114 e n. 110; 124; 131 n. 137; 137; 141 n. 157; 162 Vendetta/e: 17; 42 n. 53; 70; 120 e n. 117; 121-22; 142; 171 n. 35; 180; 183; 204
Indice degli studiosi e delle studiose
Ambaglio, D.: 130 n. 35
Amendola, S.: 79 nn. 55-6
Ampolo, C.: 133 n. 140; 175 n. 40 Andò, V.: 37 n. 39; 75 n. 47
Angeli Bernardini, P.: 57 n. 10 Barbaresco, K.: 37, n. 39
Battistin Sebastiani, B.: 164 n. 22 Bearzot, C.: 77 n. 52 Bedford, T.: 158 n. 16
Bencivenni, A.: 146 n. 166 Bertolaso, D.: 126 n. 127 Bertoli, M.: 47 n. 59
Bertolini, F.: 50 n. 68
Caliri, E.: 129 n. 132
Camerotto, A.: 35 n. 37; 38 n. 40; 56 n. 6; 86 n. 69; 87 e n. 70; 113 n. 106; 123 n. 122 Canfora, L.: 31 n. 29; 154 n. 6; 155 n. 7; 195 n. 65
Catenacci, C.: 40 n. 48; 79 n. 56; 81 nn. 61 e 63; 99 e n. 81; 103 n. 88 Cerchiai, L.: 79 n. 55
Civiletti, M.: 28 n. 28; 90 n. 74; 155 n. 8 Colombo, A.: 18 n. 8
Connor, W.R.: 156 n. 11
Cornford, F.M.: 158 n. 16
Bruzzone, R.: 154 n. 6
Cozzo, A.: 13 n. 1; 17 n. 5; 21 n. 16; 61 n. 24; 69 n. 37; 131 n. 138; 140 n. 153; 145 nn. 15961; 146 n. 165; 151 n. 1; 185 nn. 53-4; 187 n. 56; 202 n. 2
Cairns, D.L.: 13 n. 1
Cusumano, N.: 112 n. 102; 135 n. 147; 154 n. 6
Bertrand, J.-M.: 108 n. 96, 144 n. 158; 146 n. 166 Bettalli, M.: 51 n. 72; 121 n. 119
Bultrighini, U.: 52 n. 75; 66 n. 33
Culasso-Gastaldi, E.: 108 n. 95
Indice degli studiosi e delle studiose
Dal Lago, A.: 18 n. 8
Garulli V.: 73 n. 45
Darthou, S.: 79 n. 55
Giannini, P.: 52 n. 17
Darbo-Peschanski, C.: 17 n. 6 Daverio Rocchi, G.: 40 n. 49 Davidson, J.: 33 n. 33
Delcourt, A.: 182 n. 48
De Romilly, J.: 17 n. 6; 24 n. 23; 67 e n. 35; 112 n. 103
De Sensi Sestito, G.: 120 n. 117; 121 n. 118 Di Donato, R.: 79 n. 56 Dodds, E.R.: 13 n. 1
Dover, K.J.: 158 n. 16
Dratel, J.L.: 124 n. 121
Dubel, S.: 79 n. 54; 157 n. 15
Ducrey, P.: 60 n. 21; 125 n. 124 Fabbro, E.: 39 e nn. 45-6 Fallaci, O.: 49 e n. 66
Fantasia, U.: 22 n. 21; 140 n. 154 Ferrucci, S.: 152 n. 3
Fournier, J.: 77 n. 52 Fox, M.: 181 n. 47
Fromentin, V.: 181 n. 47 Fuks, A.: 141 n. 155
Gabba, E.: 175 n. 40; 181 n. 47; 184 n. 52 Garlan, Y.: 53 n. 76; 75 n. 48; 78; 100 n. 82
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Gazzano, F.: 99 n. 81; 192 n. 61 Giannotti, A: 77 n. 52
Giordano, M.: 36 n. 38
Giovannini, G.: 175 n. 40 Gozzoli, S.: 185 n. 52
Greenberg, K.J.: 124 n. 121
Greenhalgh, P.A.L.: 65 n. 31 Grmek, M.D.: 100 n. 83 Groves, J.: 165 n. 25
Guelfucci, M.-R.: 175 n. 40 Hall, E.: 50 n. 68
Hamon, P.: 77 n. 52
Hanson, D.: 24 n. 23; 57 n. 9; 61 n. 23; 92 n. 77; 155 n. 9 Harrison, A.R.W.: 82 n. 65 Hartog, F.: 175 n. 40
Hau, L.I.: 170 n. 33; 180 n. 46 Heisserer, A.J.: 146 n. 166 Henninger, L.: 154 n. 5
Hersh, S.M.: 124 n. 121
Hornblower, S.: 145 n. 160; 156 n. 10; 158 n. 16 Iannucci, A.: 65 n. 31
Ierodiakonou, K.: 157 n. 15 Immerwahr, H.R.: 17 n. 6 Ingarao, G.: 18 n. 9
Krentz, P.: 61 n. 24; 62 n. 25
Indice degli studiosi e delle studiose
Kyle, D.G.: 56 n. 5; 57 n. 10; 59 n. 17 Lapini, W.: 158 n. 16
Ober, J.: 60 e n. 19
Osborne, R.: 69 n. 38
Le Corsu, F.: 74 n. 46
Payen, P.: 61 n. 24; 80 n. 58; 126 n. 125; 133 nn. 140 e 142; 162 n. 20; 192 n. 61
Lenfant, D.: 50 n. 68
Piovan, D.: 190 n. 57
Lintott, A.: 89 n. 73
Polacco, L.: 158 n. 16
Loman, P.: 75 n. 48
Prandi, L.: 192 n. 61
Lonis, R.: 44 n. 57; 47 n. 60; 57 n. 9
Quinn, T.J.: 133 n. 140
Lateiner, D.: 71 n. 42
Lendon, J.E.: 17 n. 6; 70 n. 41
Pernot, L.: 194 n. 64
Lentini, G.: 79 n. 56
Pleket, H.W.: 59 n. 16
Loehr, R.M.: 167 n. 29
Ponchon, P.: 157 n. 13
Longo, O.: 133 n. 140
Pritchett, W.K.: 115 n. 111
Loraux, N.: 64 n. 29; 65 n. 31; 66 n. 32; 76 n. 50; 77 n. 53; 145 n. 159 Marinatos, N.: 158 n. 16
Marincola, J.: 151 n. 1; 158 n. 16; 164 n. 22; 172 n. 36; Mazzarino, S.: 18 n. 10
Mearsheimer, J.: 98 n. 80
Menichetti, M.: 111 n. 101
Moggi, M.: 18 n. 10; 140 n. 155 Mokhtari, S.: 124 n. 121 Monaco, C.: 50 n. 69
Musti, D.: 20 n. 16; 40 n. 49; 47 n. 60; 164 e n. 23; 165 n. 25; Natalicchio, A.: 145 n. 159 Nicolai, R.: 192 n. 61
Raaflaub, K.A.: 57 n. 12 Redfield, J.M.: 57 n. 7 Rhodes, P.J.: 69 n. 38
Rodighiero, A.: 124 n. 122
Roscalla, F.: 144 n. 158; 145 n. 159 Sacks, K.: 185 n. 52
Santuosso, A.: 24 n. 23 Schaps, D.: 75 n. 48
Schepens, G.: 172 n. 36 Scodel, R.: 129 n. 134 Scuderi, R.: 90 n. 75
Sebillotte-Cuchet, V.: 65 n. 31
Shipley, Gr.: 14 n. 3; 18 n. 11 Siewert, P.: 69 n. 39
233
Indice degli studiosi e delle studiose
Sordi, M.: 34 n. 36
Vanderpool, E.Jr.: 52 n. 74
Starr, C.G.: 100 n. 82
Walbank, F.W.: 71 n. 43; 130 n. 135; 158 n. 16; 170 n. 33; 175 n. 40
Spina, L.: 140 n. 154; 145 n. 159 Stolfi, E.: 26 n. 26; 31 n. 29; 47 n. 60; 136 n. 149 Strauss, L.: 105 n. 90 Tanga, F.: 74 n. 46
Thornton, J.: 109 n. 98; 175 nn. 39-40 Todini, L.: 50 n. 69 Tosi, R.: 81 n.63
234
Vernant, J.-P.: 37 n. 39
Walker, A.D.: 157 n. 15; 159 n. 18 Webb, R.: 157 n. 15
West, W.C.: 52 n. 74
Williams, N.: 177 n. 42
Workman, T.: 158 n. 16
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