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Italian Pages 240 [238] Year 2022
Maria Teresa Nurra La legittima difesa nel sistema del diritto privato
Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese
Collana diretta da Giovanni Maria Uda
Comitato scientifico Luigi Balestra, Francesco Capriglione, Maria Rosa Cimma, Claudio Colombo, Maria Floriana Cursi, Andrea Di Porto, Iole Fargnoli, Roberto Fiori, Lauretta Maganzani, Dario Mantovani, Maria Rosaria Maugeri, Fabio Padovini, Salvatore Patti, Andrea Zoppini
Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese
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Maria Teresa Nurra
La legittima difesa nel sistema del diritto privato
© 2022, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma
www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese ISSN: 2724-1769 n. 4 – aprile 2022 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-304-4 ISBN – Ebook: 978-88-5529-327-3
Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Duello rusticano, Francisco Goya (1820-1823)
INDICE
I. I CARATTERI GENERALI
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1. Il quadro normativo 1.1. Dal diritto naturale all’art. 2044 del Codice civile 1.2. Raffronto tra l’art. 2044 c.c. e l’art. 52 c.p. Il rinvio al diritto penale 2. Legittima difesa e autotutela privata 2.1. I caratteri essenziali dell’autotutela privata. La ricostruzione della categoria 2.2. La legittima difesa come espressione dell’autotutela privata. Le ricostruzioni della dottrina 2.3. L’art. 2044 c.c. come norma generale in materia di autotutela privata 3. L’ esclusione dell’antigiuridicità 4. Legittima difesa e danno ingiusto 4.1. La responsabilità civile come reazione al danno ingiusto 4.2. Il danno ingiusto come danno non iure e contra ius 5. Il diritto alla legittima difesa. Problematiche ricostruttive 5.1. Le origini del diritto alla legittima difesa 5.2. Il diritto potestativo alla legittima difesa. Il ruolo dell’autotutela privata 5.3. La legittima difesa come atto lecito dannoso
p. 13 p. 13 p. 20 p. 27 p. 27 p. 35 p. 40 p. 45 p. 53 p. 53 p. 55 p. 66 p. 66 p. 72 p. 79
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INDICE
II. I PRESUPPOSTI DELLA REAZIONE
1. L’ingiustizia dell’aggressione e il pericolo di danno ingiusto 1.1. Ingiustizia e antigiuridicità oggettiva della condotta 1.2. Il pericolo di un’offesa ingiusta: l’ambito di applicabilità dell’esimente 2. Il danno ingiusto tra provocazione e legittima difesa. Gli elementi distintivi tra le due fattispecie 3. Il pericolo. I caratteri generali: l’attualità 4. L’involontarietà del pericolo 4.1. L’esperienza penalistica. Dottrina e giurisprudenza a confronto 4.2. L’involontarietà del pericolo nella dottrina civilistica. Le actiones liberae in causa 5. Aggressione reale e aggressione apparente: la legittima difesa putativa 5.1. Apparenza colposa e legittima difesa putativa: la teoria di C. M. Bianca 5.2. L’applicazione dell’articolo 2045 c.c. tra dottrina e giurisprudenza. L’indennizzabilità del danno III. LA REAZIONE E L’ECCESSO DI LEGITTIMA DIFESA
1. La necessità della reazione e il commodus discessus 2. La proporzionalità tra reazione e offesa 3. (segue) La proporzionalità nella “legittima difesa domiciliare” tra presunzioni e interpretazione conforme a Costituzione 4. Le conseguenze della legittima difesa domiciliare in sede civile 5. Eccesso doloso e colposo: problematiche ricostruttive 6. Il risarcimento nella fattispecie generale di eccesso colposo
p. 85
p. 85 p. 85 p. 93 p. 101 p. 105 p. 111 p. 111 p. 120 p. 127 p. 127 p. 147
p. 159 p. 159 p. 166 p. 172 p. 180 p. 184 p. 194
INDICE
7. L’eccesso colposo domiciliare 7.1. Caratteri generali e presupposti 7.2. La corresponsione dell’indennità ex articolo 2044, comma 3, c.c.: il primo approccio della dottrina civilistica 7.3. (segue) L’indennità ex articolo 2044, comma 3, c.c. tra liceità ed illiceità dell’eccesso colposo domiciliare
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p. 204 p. 204 p. 215 p. 221
CAPITOLO I
I CARATTERI GENERALI
Sommario: 1. Il quadro normativo. – 1.1. Dal diritto naturale all’art. 2044 del Codice civile. – 1.2 Raffronto tra l’art. 2044 c.c. e l’art. 52 c.p. Il rinvio al diritto penale. – 2. Legittima difesa e autotutela privata. – 2.1. I caratteri essenziali dell’autotutela privata. La ricostruzione della categoria. – 2.2. La legittima difesa come espressione dell’autotutela privata. Le ricostruzioni della dottrina. – 2.3. L’art. 2044 c.c. come norma generale in materia di autotutela privata. – 3. Esclusione dell’antigiuridicità. – 4. Legittima difesa e danno ingiusto. – 4.1. La responsabilità civile come reazione al danno ingiusto. – 4.2. Il danno ingiusto come danno non iure e contra ius. – 5. Il diritto alla legittima difesa. Problematiche ricostruttive. – 5.1. Le origini del diritto alla legittima difesa. – 5.2. Il diritto potestativo alla legittima difesa. Il ruolo dell’autotutela privata. – 5.3. La legittima difesa come atto lecito dannoso.
1. Il quadro normativo 1.1. Dal diritto naturale all’art. 2044 del Codice civile L’istituto della legittima difesa rimanda ad un principio insito nella coscienza umana e giuridica in forza del quale «ciascun cittadino può difendersi dal pericolo di aggressione, ove non abbia modo di contare sul tempestivo ed adeguato intervento degli organi predisposti dall’ordinamento giuridico alla difesa dei consociati»1. Si tratta del principio del «vim vis repellere licet», secondo cui è lecito 1 R. Scognamiglio, voce Responsabilità civile, in Noviss. Dig. It., XV, Torino, 1968, p. 654.
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respingere la violenza con la violenza, che trova una prima regolamentazione nel diritto romano2 e viene accolto successivamente, seppur con limiti e modalità differenti, in tutte le epoche e in tutti gli ordinamenti giuridici3. Là dove il diritto sia ingiustamente minacciato, tutti gli ordinamenti giuridici riconoscono al singolo la possibilità di agire, nei casi in cui non sia possibile ricorrere all’organo statale senza che si verifichi un pregiudizio per il diritto stesso4. In virtù di ciò, la legittima difesa è stata definita come «una delle ipotesi più vistose dell’autotutela privata»5. Si tratta di una tematica particolarmente attuale, data la modifica dell’art. 2044 c.c., recentemente introdotta dalla legge 26 aprile 2019, n. 36 “Modifiche al Codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa”. Tale riforma, non solo ha modificato le disposizioni del Codice penale, ma ha, altresì, integrato l’art. 2044 c.c., introducendo due nuovi commi e regolamentando, secondo Alcuni, il rinvio al diritto penale, da sempre applicato in dottrina e in giurisprudenza6. La nuova disciplina porta necessariamente ad Tale regola venne elaborata dalla giurisprudenza romana in tema di spogli immobiliari e successivamente enunciata dal giureconsulto Cassio, in riferimento all’interdictum de vi: vim vis repellere licere Cassius scribit idque ius natura comparatur [D. 43.16.1.27 (Ulp. 69 ad ed.)], sul tema specifico, tra gli altri: A. Lovato, S. Puliatti, L. Solidoro Maruotti, Diritto privato romano, Torino, 2017, p. 31 ss. 3 Per un’analisi approfondita dell’originaria regolamentazione dell’istituto a partire dal diritto romano v. V. Positano de Vicentis, voce Difesa legittima, stato di necessità, disposizione della legge e ordine dell’autorità, in Dig. It. IX, 2, Torino, 1898-1901, p. 358 ss. 4 T. Brasiello, sub art. 2044 (Legittima difesa) in Comm. cod. civ., diretto da M. D’Amelio e E. Finzi, III, Firenze, 1949, p. 238: «Il concetto del vim vis repellere licet è antichissimo. È il principio dell’auctoritas monastica che trova applicazione: ove sussiste un diritto è consentita la difesa dell’offesa ingiusta, quando il singolo si trovi in condizione di non poter ricorrere, senza pregiudizio del diritto minacciato, all’ente sociale». 5 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, I, Milano, 1971, p. 55. 6 A seguito della legge n. 36/2019, l’art. 2044 cod. civ. risulta così formulato: “Non è responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri. Nei casi di cui all’articolo 52, commi secondo, terzo e quarto, del Codice penale, la responsabilità di chi ha compiuto il fatto è esclusa. Nel caso di cui all’articolo 55, 2
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interrogarsi sui caratteri attuali della legittima difesa nel sistema della responsabilità civile. Bisogna, anzitutto, rimarcare che, prima del Codice civile del 1942, non era presente un’espressa regolamentazione della legittima difesa7, a differenza di quanto avvenuto in ambito penale con il secondo comma, del Codice penale, al danneggiato è dovuta una indennità la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice, tenuto altresì conto della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato”. Sui riflessi civilistici della riforma: L. Castelli, Profili civilistici della riforma in materia di legittima difesa, in Corr. giur., 2019, p. 1017; C. Chessa, La legittima difesa novellata nel prisma della responsabilità civile, in Riv. dir. civ., 2020, p. 1289 ss.; F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, in NLCC, 2020, p. 1 ss.; v. anche la recente analisi di P. Bevere, La legittima difesa, Torino, 2019, p. 60 ss. 7 È utile, però, sottolineare l’esistenza di un primo tentativo di codificazione ad opera del Progetto Italo-Francese delle Obbligazioni del 1931. L’art. 77 del Progetto prevedeva l’esenzione da responsabilità nel caso in cui il danno fosse stato causato per legittima difesa di sé o di altri (sul tema: G. Alpa, G. Chiodi (a cura di), Il progetto italo-francese delle obbligazioni, Milano, 2007, p. 120 ss.). Secondo i commentatori dell’epoca, tale previsione si basava sull’obiettiva liceità dell’atto dannoso realizzato dal soggetto aggredito (G. Tedeschi, Legittima difesa, stato di necessità e compensazione delle colpe. Appunti critici sul progetto italo-francese delle obbligazioni, p. 738 ss., che riporta espressamente la posizione di G. Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, Bologna, 1918, 243 ss., secondo il quale la legittimità della violenza privata deriva dall’illegittimità dell’offesa). Nell’ordinamento giuridico francese, però, la legittima difesa, così come tutte le altre cause di giustificazione, indicate generalmente in dottrina con la denominazione di faits justificatifs (attualmente tale accezione viene utilizzata come sinonimo di causes objectives d’irresponsabilité; v.: H. Rouidi, Une notion pénale à l’épreuve de la responsabilité civile : les faits justificatifs, in RSC, 2016, p. 17), non ha ancora trovato un’espressa regolamentazione a livello codicistico (sul tema specifico: G. Dingome, Le fait justificatif en matière de responsabilité civile, thèse, droit, Paris I, 1986; J. Pélissier, Faits justificatifs et action civile, Dalloz, 1963, chron. p. 121); tra le opere generali più recenti: P. Malaurie, L. Aynès, P. Stoffel-Munck, Droit des obligations, 11e édition, LGDJ, Lextenso, 2020, p. 74 ss.; J. Julien, Dalloz action – Droit de la responsabilitè et de contrat, Section 1 – Faveurs consacrées en droit commun, § 1 – Faits justificatifs, 2021-2022). Le disposizioni di riferimento sono, infatti, contenute nel Code Pénal agli articoli 122-5, che distingue le due ipotesi di difesa della persona e dei beni («1. N’est pas pénalement responsable la personne qui, devant une atteinte injustifiée envers elle-même ou autrui, accomplit, dans le même temps, un acte commandé par la nécessité de la légitime défense d’ellemême ou d’autrui, sauf s’il y a disproportion entre les moyens de défense employés et la gravité de l’atteinte. 2. N’est pas pénalement responsable la personne qui, pour
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interrompre l’exécution d’un crime ou d’un délit contre un bien, accomplit un acte de défense, autre qu’un homicide volontaire, lorsque cet acte est strictement nécessaire au but poursuivi dès lors que les moyens employés sont proportionnés à la gravité de l’infraction»), e 122-6, riguardante la legittima difesa domiciliare («Est présumé avoir agi en état de légitime défense celui qui accomplit l’acte: 1° Pour repousser, de nuit, l’entrée par effraction, violence ou ruse dans un lieu habité; 2° Pour se défendre contre les auteurs de vols ou de pillages exécutés avec violence. N’est pas pénalement responsable la personne qui, pour interrompre l’exécution d’un crime ou d’un délit contre un bien, accomplit un acte de défense, autre qu’un homicide volontaire, lorsque cet acte est strictement nécessaire au but poursuivi dès lors que les moyens employés sont proportionnés à la gravité de l’infraction»). Tuttavia, nel progetto di riforma della responsabilità civile del 13 marzo 2017, presentato da M. Jean-Jacques Urvoas all’Académie des sciences morales et politiques, veniva prevista una specifica disposizione in materia di faits justificatifs. Si trattava, in particolare, dell’art. 1257, inserito sotto la rubrica intitolata “Les causes d’exclusion de responsabilité, che sanciva l’esclusione di responsabilità civile dell’agente, là dove avesse agito nelle circostanze di cui agli articoli 122-4 – 122-7 del Codice penale” («Le fait dommageable ne donne pas lieu à responsabilité lorsque l’auteur se trouve dans l’une des situations prévues aux articles 122-4 à 122-7 du Code pénal»; sul tema tra gli altri: S. Borghetti, Un pas de plus vers la réforme de la responsabilité civile: présentation du projetde réforme rendu public le 13 mars 2017, in D, 2017 p. 770 ss., e E. Rajneri, Il progetto di riforma della responsabilità civile in Francia, in Riv. crit. dir. priv., 2019, p. 475). La norma, però, si limitava semplicemente a far riferimento alle disposizioni penali in materia di legittima difesa, stato di necessità, azione compiuta per ordine dell’autorità o di una norma imperativa, richiamando in questo modo la disciplina ivi contenuta. In mancanza di una normativa specifica in ambito civilistico, i presupposti e le condizioni inerenti ai singoli “faits justificatifs” vengono, dunque, ricondotti unicamente al diritto penale, tanto che, come sottolineato da autorevole dottrina, si è verificata una vera e propria trasposizione dal diritto penale al diritto civile (J. Carbonnier, Droit civil, t. 2, Paris, PUF, coll. Quadrige, 2004, p. 2312: «On est parti des faits justificatifs précisque reconnaît le droit pénal, et on les a transposés à la responsabilité civile» H. Rouidi, Une notion pénale à l’épreuve de la responsabilité civile: les faits justificatifs, cit.). A tal proposito, appare, altresì, utile rammentare un’ulteriore proposta di riforma della responsabilità civile, che è stata presentata da un gruppo di Senatori il 29 luglio del 2020. La formulazione dell’art. 1257, comma 1, non cambia, però, a livello sostanziale. La disposizione proposta si limita, infatti, a richiamare le cause di esclusione della responsabilità riportate nel Codice penale («Le fait dommageable ne donne pas lieu à responsabilité lorsqu’il était prescrit par des dispositions législatives ou réglementaires, commandé ou permis par l’autorité légitime, ou rendu nécessaire par la légitime défense ou par la sauvegarde de la personne ou d’un bien, dès lors que les moyens employés étaient proportionnés à la gravité du dommage»; sul tema: P. Januel, Le Sénat veut avancer sur la réforme de la responsabilité civile), in Dalloz Actualité, 22 luglio 2020). L’assenza di una normativa specifica in
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Codice Zanardelli (art. 49) 8 e successivamente con il Codice Rocco (art. 52 c.p.)9. Ciò nonostante, i giuristi riconoscevano, comunque, l’applicabilità della legittima difesa, data, secondo alcuni, la sua riconducibilità al diritto naturale10. Altri, invece, ricostruivano materia ha sicuramente circoscritto l’ambito di indagine della dottrina francese, a differenza di quanto avvenuto nell’ordinamento giuridico tedesco con le previsioni di cui ai § 227-231 e 904 del BGB. In particolare, per quanto riguarda la legittima difesa v. § 227 Notwehr: «(1) Eine durch Notwehr gebotene Handlung ist nicht widerrechtlich. (2) Notwehr ist diejenige Verteidigung, welche erforderlich ist, um einen gegenwärtigen rechtswidrigen Angriff von sich oder einem anderen abzuwenden» (§ 227 Legittima difesa: «(1) Un atto imposto da legittima difesa non è illecito. (2) Legittima difesa è quella difesa che è richiesta per allontanare da sé o da un altro un attacco attuale contrario al diritto» (tr. it. di C. Caricato, in S. Patti [traduzione e presentazione a cura di], Codice civile tedesco, Bürgerliches Gesetzbuch, Milano, 2013). 8 Art. 49 del codice Zanardelli: «Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di respingere da sé o da altri una violenza attuale ed ingiusta». 9 Art. 52 del codice Rocco, nella sua originaria formulazione (anteriore alle modifiche apportate con le leggi n. 59/2006 e n. 36/2019), prevedeva che: «Non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa». 10 G. Giorgi, Teoria delle obbligazioni, V, Firenze, 1900, p. 253: «Per diritto naturale è lecita la difesa della persona e delle cose nostre, cum aliter periculum effugere non possimus: data, quindi, l’aggressione ingiusta, tutte le leggi positive, in armonia col gius di natura, hanno tollerata la reazione dell’aggredito contro l’aggressore ingiusto entro i limiti del moderame dell’incolpata tutela. È poiché vi hanno certe offese, che sebbene consumate, lasciano tracce permanenti, perciò è anche permessa la continuazione del diritto di difesa conosciuta dai dotti col nome di ragion fattasi lecitamente; dai pratici col nome di vie di fatto lecite. Così, per esempio, se taluno viene spogliato del possesso di un fondo, può benissimo ritornarne tosto in possesso di suo arbitrio, purché lo faccia senza violenza contro lo spogliatore, attendendo il momento dell’assenza di costui. Parimenti, se altri immetta abusivamente un acquedotto nel fondo di un terzo, potrà il proprietario del fondo stesso rimuovere immediatamente l’acquedotto (…)». Questo tipo di impostazione sembrerebbe rimandare direttamente ai principi del giusnaturalismo, che riconoscono l’esistenza di un diritto naturale alla legittima difesa, inteso tradizionalmente come diritto di servirsi dei mezzi di forza fisica nei casi in cui non si possa ricorrere alle leggi per respingere un’aggressione contro la propria persona: v. H. Ahrens, Corso di diritto naturale o di filosofia del diritto, vol. II (tr. it. di V. De Castro) Napoli, 1860, p. 90 (contro l’esistenza di un diritto naturale alla legittima difesa: G. Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, cit., 243 ss.).
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il concetto di legittima difesa a partire dalla concezione di atto illecito, definito come quell’atto che determina la lesione di un diritto altrui e che, al contempo, non costituisce esercizio legittimo di un diritto da parte del suo titolare11. In base a queste considerazioni, l’atto lesivo compiuto per legittima difesa non comportava nessuna responsabilità civile e penale, trattandosi dell’esercizio legittimo di un diritto12. Quest’ultima ricostruzione si presenta, però, lacunosa, perché non qualifica in maniera specifica il diritto alla base della legittima difesa. L’introduzione dell’art. 2044 cod. civ., secondo cui non è responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri, non è stata accolta positivamente da parte dei primi commentatori. In particolare, secondo alcuni Autori, la previsione normativa era del tutto superflua a livello applicativo. Infatti, la riconducibilità della fattispecie al diritto naturale – come già sostenuto precedentemente – comportava l’applicabilità immediata della legittima difesa, a prescindere da qualsiasi regolamentazione13. Altri, invece, ritenevano che tale fattispecie fosse già riconducibile all’art. 2043 c.c., norma generale in materia di responsabilità civile14. Muovendo dall’interpretazione dell’art. 2043 c.c., si affermava, infatti, che il danno fonte di responsabilità è il danno iniura datum, cioè il danno ingiustamente arrecato. Pertanto, non poteva qualificarsi come ingiusto il dan11 G. Cesareo Consolo, Trattato sul risarcimento del danno in materia di delitti e quasi delitti, Torino, 1914, p. 9 ss. 12 G. Cesareo Consolo, Trattato sul risarcimento del danno in materia di delitti e quasi delitti, cit., p. 10: «Causa di risarcimento essendo il solo fatto illecito, segue che ogni atto, il quale non abbia tale qualifica, non implica responsabilità né penale né civile. Chi agisce per legittima difesa e cum moderamine inculpatae tutelae non è passibile di alcuna responsabilità». 13 A. De Cupis, sub art. 2044, in Dei fatti Illeciti, in Comm. Scialoja-Branca, Libro IV, Delle obbligazioni, Artt. 2043-2059, II ed., Bologna-Roma, 1971, p. 43: «Corrisponde a un’esigenza di ragion naturale la legittimità della difesa, colla non-responsabilità per conseguente danno; e quindi potrebbe anche considerarsi superflua l’espressa menzione fatta dal legislatore». 14 T. Brasiello, sub art. 2044 (Legittima difesa), cit., p. 239; sulla stessa linea: E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, in Arch. resp. civ., 1961, p. 18 e, (anche se non esplicitamente) F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, V, Singoli rapporti obbligatori, IX ed. riv. e agg., Milano, 1958, p. 556 ss.
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no causato all’aggressore nell’esercizio della legittima difesa, perché cagionato nell’esercizio di un diritto15. Argomentando a contrario, l’art. 2043 c.c., secondo questa ricostruzione, segna il limite di rilevanza della fattispecie dannosa, escludendo tutti quei casi, come la legittima difesa, che non presentano i requisiti previsti dalla norma. Ad analoghe conclusioni è giunta anche un’altra parte della dottrina, che si basa sull’inesistenza dell’elemento soggettivo, quale presupposto per il sorgere della responsabilità extracontrattuale16. Il soggetto che arreca il danno per legittima difesa non può essere considerato responsabile, perché manca l’elemento soggettivo della colpa. Questa posizione muove dall’idea idea per cui «(…) non vi è colpa quando l’operato di alcuno sia la conseguenza necessaria dell’operato doloso altrui (…)»17. L’esclusione della responsabilità deriverebbe, anche in questo caso, dalle regole generali, rendendo di fatto superflua la previsione di cui all’art. 2044 c.c.18. La dottrina più recente non ha, al contrario, sollevato alcun dubbio sulla necessità di un’espressa regolamentazione della legittima difesa. Si è ritenuto, in particolare, che l’introduzione dell’art. 2044 c.c. abbia agevolato l’opera dell’interprete, che si troverebbe, altrimenti, a disapplicare l’art. 2043 c.c. in una situazione di dubbi ed incertezza19. Inoltre, la sola presenza dell’art. 52 del Codice penale avrebbe comportato il ricorso costante all’analogia in ambito civile, 15 F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale, cit., p. 555 ss.: «(…) l’ordinamento giuridico concepisce casi di danno extracontrattuale lecito, ossia legittimo; dai quali non sorge obbligazione di risarcimento e sono quelli che, pertanto, possono definirsi come casi di danno giusto (qui iure suo utitur nemini facit iniuriam) in antitesi alla locuzione dell’art. 2043, che presuppone un danno ingiusto, ossia dato con iniuria» e p. 556 ss.: «Dal requisito dell’ingiustizia del danno (…) consegue che non è responsabile, neppure chi cagioni il danno per legittima difesa di sé o di altri (…)». 16 T. Brasiello, sub art. 2044 (Legittima difesa), cit., p. 240, e sulla stessa linea: E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 18. 17 T. Brasiello, sub art. 2044 (Legittima difesa), cit., p. 240. 18 E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 18. Tutte le considerazioni circa la collocazione della legittima difesa nel sistema della responsabilità civile saranno oggetto di approfondimento nei paragrafi successivi. 19 M. Pogliani, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, II ed. riveduta e ampliata, Milano, 1969, p. 42 ss.
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producendo molteplici contrasti a livello interpretativo20. La legittima difesa, nell’ambito della responsabilità civile, presenta, infatti, delle caratteristiche peculiari ed autonome rispetto alla corrispondente fattispecie penalistica, che giustificano l’esistenza di una regolamentazione specifica21. 1.2. Raffronto tra l’art. 2044 c.c. e l’art. 52 c.p. Il rinvio al diritto penale All’interno dell’ordinamento giuridico, il principio della legittima difesa è attualmente disciplinato dagli articoli 2044 del Codice civile e 52 del Codice penale. Il confronto tra le due disposizioni ha fatto emergere sin dall’inizio l’estrema sinteticità della disposizione civilistica22. L’art. 2044, comma 1, c.c. si limita, infatti, a prevedere che non è responsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri. Tale disposizione sancisce l’assenza di responsabilità del soggetto che agisce per legittima difesa, ma non fornisce nessun elemento che permetta di identificare la fattispecie e i suoi limiti applicativi23. L’art. 2044 c.c. si presenta, dunque, piuttosto scarno, tanto da essere definito dalla dottrina come «una scatola vuota»24. La disposizione del Codice penale è, al contrario, molto più dettagliata e fornisce diversi elementi utili a delimitare la fattispecie. Infatti, l’art. 52, comma 1, c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto, per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa. M. Pogliani, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, cit., p. 42: «(…) in ogni caso, la presenza dell’art. 2044 vale ad escludere il ricorso all’analogia, spesso produttiva di contrasti interpretativi». 21 M. Pogliani, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, cit., p. 42. 22 R. Scognamiglio, voce Responsabilità civile, cit., p. 654. 23 M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, in Comm. Cod. civ. P. Schlesinger – F. D. Busnelli, Artt. 2044-2048, Milano, 2002, p. 6; M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, in I grandi orientamenti della giurisprudenza civile e commerciale, Padova, 2001, p. 8 ss. e 14 ss. 24 M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 9. 20
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Di fronte all’esiguità del dato normativo, i primi commentatori hanno teorizzato l’integrazione dell’art. 2044 c.c. attraverso il riferimento alla norma penale25. Le motivazioni non sono sempre state esaustive. Alcuni parlano in maniera generica di un’interferenza generale tra il diritto civile e il diritto penale, che, nel caso della legittima difesa, si presenta in maniera particolarmente evidente26. Esiste, infatti, un principio generale alla legittima difesa, che permette una ricostruzione unitaria dell’istituto, attraverso le disposizioni che recepiscono e disciplinano tale principio27. Il riferimento al diritto penale ha, così, permesso di individuare i presupposti della legittima difesa nel sistema della responsabilità civile: il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, che abbia ad oggetto un diritto proprio o altrui28; la necessità e l’inevitabilità della difesa;
25 T. Brasiello, I limiti della responsabilità per danni, Milano, 1959, p. 287 ss.; E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 17 ss. (sebbene l’Autore non lo abbia sostenuto in maniera espressa, l’integrazione della norma civilistica si desume dalle argomentazioni e dalla ricostruzione dell’istituto); A. Candian, Nozioni istituzionali di diritto privato, IV ed., Milano-Varese, 1960, p. 165 ss.; M. Pogliani, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, cit., p. 43 ss.; R. Scognamiglio, voce Responsabilità civile, cit., p. 654. 26 T. Brasiello, sub art. 2044 (Legittima difesa), cit., p. 239. 27 A. Candian, Nozioni istituzionali di diritto privato, cit., p. 164 ss.: «Si tratta (…) di un istituto che attinge le sue radici in un principio di portata generale sovrastante alle ragioni della discriminazione degli illeciti punibili e non punibili, consacrato da una lunga tradizione: precisamente nel principio che per “la restaurazione” della situazione “violata” dal torto, il soggetto non è munito del potere di farsi giustizia da solo e deve ricorrere agli organi della pubblica autorità (…); egli ha invece, per la “difesa” della propria situazione “minacciata” dal torto, in condizioni tali che non gli consentono di utilmente provocare l’intervento protettivo della pubblica autorità, il potere di respingere con la propria forza la forza dell’aggressore. La lesione, che in tal modo egli infligge agli interessi dell’aggressore, non ha il carattere dell’ingiustizia e quindi dell’illecito. La nozione, insomma, della difesa legittima è, per sua natura unitaria; è quindi è legittimo, per ricostruirla, valersi delle varie disposizioni che la disciplinano in codici diversi». 28 Uno dei problemi più evidenti, che nascono dal confronto tra l’art. 2044 c. c. e l’art. 52 c.p., concerne l’ambito di applicabilità delle disposizioni, in riferimento alla tipologia di diritti tutelati. La formulazione dell’art. 2044 cod. civ. sembrerebbe, infatti, escludere l’applicabilità della legittima difesa ai diritti patrimoniali. Nonostante ciò, la dottrina ha esteso la disciplina anche ai diritti patrimoniali, basandosi principalmente sull’art. 52 c.p. Sul tema specifico v. il cap. II.
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la proporzionalità tra l’aggressione e la reazione29. Anche la giurisprudenza ha recepito questa impostazione, teorizzando l’esistenza di un rinvio implicito dell’art. 2044 c.c. alle disposizioni penali e ricostruendo in maniera analoga i presupposti e i limiti applicativi dell’istituto30. In particolare, dall’analisi delle pronunce, emerge la volontà dei giudici di limitare l’applicabilità del rinvio agli aspetti e agli elementi definitori della legittima difesa, lasciando piena autonomia ai giudici di merito per quanto concerne l’analisi dei profili applicativi della norma e le valutazioni legate alle fattispecie concrete31. Inoltre, l’identità concettuale, ravvisata negli articoli 52 c.p. e 2044 c.c., deve, comunque, confrontarsi con le diverse regole che disciplinano la formazione della prova in ambito civile e penale, nonché con il principio penale del favor rei 32. In conseguenza di ciò, il rinvio non può operare oltre i caratteri definitori dell’istituto, e influenzare, dunque, la formazione della 29 T. Brasiello, I limiti della responsabilità per danni, Milano, 1959, p. 287 ss.; A. Candian, Nozioni istituzionali di diritto privato, IV ed., Milano-Varese, 1960, p. 165 ss.; M. Pogliani, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, cit., p. 43 ss.; R. Scognamiglio, voce Responsabilità civile, cit., p. 654; nella dottrina più recente: G. Alpa, Legittima difesa e stato di necessità, in Giur. sist. dir. civ. comm. G. Alpa-Bessone, La responsabilità civile, I, Torino, 1987, p. 277; contra A. De Cupis, sub art. 2044, cit., p. 243, secondo il quale il requisito della proporzionalità è un presupposto tradizionale della legittima difesa, richiesto dalla giustizia naturale. 30 Le pronunce sul punto sono piuttosto esigue: Cass. civ.; 26 novembre 1976, n. 4487, in Arch. resp. civ., 1977, p. 570 e in Resp. civ. prev., 1977, p. 593; Cass. civ., 16 febbraio 1978, n. 753, in Arch. resp. civ., 1978, p. 762: Cass. civ., 24 febbraio 2000, n. 2091, in Foro it., Rep., 2000, e Cass. civ., 25 febbraio 2009, n. 4492, in Giust. civ., 2009, I, p. 1542, parlano di rinvio sostanziale all’art. 52 c.p.; nel merito: Trib. Potenza, 7 giugno 2018, n. 557, in banca dati DeJure, Giuffré. 31 Queste considerazioni sono di M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 11, in riferimento a Cass. Civ., 16 febbraio 1978, n. 753, cit. 32 Cass. Civ., 25 febbraio 2009, n. 4492, cit.: «Occorre aggiungere che l’identità concettuale che si è fin qui rinvenuta tra l’art. 52 c.p., e l’art. 2044 c.c., deve, comunque, confrontarsi con le diverse regole che presiedono la formazione della prova nel processo civile e penale, oltre che con il favor rei che governa in materia penale; con la conseguenza che – mentre nel giudizio penale la semiplena probatio in ordine alla sussistenza della scriminante comporta l’assoluzione dell’imputato ex art. 530 c.p.p., comma 3, nel giudizio civile il dubbio si risolve in danno del soggetto su cui incombe il relativo onere della prova, id est del soggetto che la invoca».
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prova e l’accertamento concreto della responsabilità in capo al soggetto aggredito. Inoltre, come si desume dalle sentenze, il rinvio al diritto penale si basa sull’identità concettuale tra l’art. 52 c.p. e l’art. 2044 c.c. e comporta il richiamo ai concetti enunciati dalla norma penale, seppur con i limiti sopra descritti33. Ciò significa che i presupposti obiettivi della legittima difesa in campo penale coincidono con quelli che regolano l’istituto nell’ambito della responsabilità civile34. In virtù di ciò, i concetti di necessità, pericolo, offesa ingiusta e proporzione, validi nel diritto penale, risultano perfettamente compatibili con le esigenze della responsabilità civile35. Secondo la dottrina più risalente36, l’identità concettuale in materia di legittima difesa richiama quanto già avviene per la definizione dell’elemento psicologico nell’ambito della responsabilità civile. Infatti, secondo una visione ormai superata37, esisterebbe un concetto unitario di colpa valido in ambito civile e penale. In virtù di ciò, il giudice civile e il giudice penale utilizzano gli stessi criteri di accertamento della colpa, desumibili dall’art. 43, comma 3, del Codice penale, che disciplina il delitto colposo38.
33 Su questo tema: C. F. Grosso, Legittima difesa e stato di necessità, Milano, 1964, p. 261; M. Franzoni, sub art. 2044, in Dei fatti illeciti, Art. 2043-2059, in Comm. Scialoja-Branca, Libro IV, Delle obbligazioni, Bologna-Roma, 1993, p. 289. 34 C. F. Grosso, Legittima difesa e stato di necessità, cit., p. 317: «(…) si può dunque concludere con una certa sicurezza che, qualunque sia la strada che si imbocchi per la interpretazione dell’inciso “legittima difesa”, le nozioni valide nelle due branche dell’ordinamento potranno in ogni caso, per la porzione coperta appunto dall’inciso, coincidere; o quantomeno, il concetto efficace in diritto penale non si estenderà oltre i confini di quello civile». 35 C. F. Grosso, Legittima difesa e stato di necessità, cit., p. 317. 36 C. F. Grosso, Legittima difesa e stato di necessità, cit., p. 317, in particolare nota 10; più recentemente M. Franzoni, sub art. 2044, cit., p. 289. 37 Sul superamento attuale della concezione unitaria della colpa v. tra gli altri: P.G. Monateri, G. M. Arnone, N. Calcagno, Il dolo, la colpa e i risarcimenti aggravati dalla condotta, in Tratt. resp. civ. P.G. Monateri, Torino, 2014, p. 150 ss. e G. Visintini, La colpa medica nella responsabilità civile, in Contratto impr., 2015, p. 530 ss. 38 L’unitarietà della nozione di colpa è sostenuta tra gli altri da: L. Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, II, II ed., Milano, 1964, p. 683; C. F. Grosso,
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Una parte della dottrina non ha accolto il rinvio al diritto penale, come sopra illustrato, ritenendo che sia più corretto parlare di «(…) necessaria integrazione dell’ordinamento attraverso i principi generali ex art. 12 delle preleggi»39. La legittima difesa rientrerebbe, dunque, tra i principi generali dell’ordinamento giuridico e, di conseguenza, le lacune sarebbero risolvibili attraverso il ricorso all’analogia iuris. Tale teoria si basa sulle origini della legittima difesa legate alla naturale esigenza di autotutela privata. In virtù di ciò, la legittima difesa tutela tutte le situazioni giuridiche soggettive di fronte al pericolo di un’offesa ingiusta e, trattandosi di un principio generale, la sua applicabilità prescinde dalla natura e dalla collocazione di tale tutela, che può riguardare anche ambiti esterni alla responsabilità civile40. Secondo questa visione, l’art. 2044 c.c. e l’art. 52 c.p. sono, dunque, espressione di un principio generale dell’ordinamento giuridico. Si ritiene, in particolare, che l’art. 52 c.p. sia stato formulato in maniera conforme rispetto alla tradizionale configurazione della legittima difesa secondo il diritto naturale41. Seguendo questa imLegittima difesa e stato di necessità, cit., p. 317, in particolare nota 10; più recentemente: P. Forchielli, Responsabilità civile, Padova, 1983, p. 37; M. Franzoni, sub art. 2044, cit., p. 289; contra S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, p. 169, nota 98; U. Ruffolo, Colpa e responsabilità, in La responsabilità e il danno, in Tratt. Lipari-Rescigno (diretto da), Vol. IV/III, Milano, 2009, p. 94 ss.; G. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, III ed., Padova, 2005, p. 114. 39 M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, cit., p. 6. 40 M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, cit., p. 17 ss.: «Ritenuta principio generale, la legittima difesa è ritenuta applicabile anche al di là della stretta materia della responsabilità civile in senso proprio, e particolarmente nella disciplina della concorrenza. In questa sede si registrano, seppur rare, sentenze, di cui è opportuno tener conto. Tale orientamento appare condivisibile, perché la legittima difesa, per le sue ragioni giustificative storicamente fondare sulla naturale esigenza di autotutela privata, deve essere considerata principio generale dell’ordinamento, valevole dunque quale reazione al pericolo attuale di un’offesa ingiusta quale che sia la natura e la collocazione di tale tutela»; sulla stessa linea sembra anche G. Giacobbe, Legittima difesa e stato di necessità nel sistema della responsabilità civile, in Tratt. dir. priv. Bessone, X. I, Illecito e responsabilità civile, Torino, 2000, p. 53. 41 M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, cit., p. 5. La conformità della norma penalistica rispetto ai principi generali è una considerazione
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postazione, i principi generali dell’ordinamento giuridico sono, pertanto, l’espressione dei principi del diritto naturale, definiti come principi etici generalissimi, cui il legislatore deve ispirarsi nell’elaborazione del diritto positivo42. Il mancato riferimento al diritto naturale nell’art. 12 disp. prel. c.c. non deve escludere, dunque, la sua rilevanza sul piano interpretativo, perché l’applicabilità del diritto naturale è insita nell’esistenza stessa dell’ordinamento giuridico43. La tesi che rimanda al diritto naturale per l’individuazione dei principi generali dell’ordinamento occupa, tuttavia, una posizione minoritaria nel panorama dottrinale attuale44 e, soprattutto, contrasta con l’impostazione seguita dal legislatore al momento della codificazione. La formula “principi generali del diritto”, utilizzata nell’art. 3, comma 2, delle disposizioni preliminari al Codice ci-
comune anche alla teoria del rinvio precedentemente esposta. Sulla conformità ad un principio generale si basa, infatti, l’idea dell’identità concettuale tra le disposizioni civili e penali. 42 N. Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, 1984, p. 127. 43 G. Levi, L’interpretazione della legge: i principi generali dell’ordinamento giuridico, Milano, 2006, p. 23 ss. e in particolare p. 46: «Se esiste l’uomo, se esiste, quindi, una società, e di riflesso, un ordinamento, non si può non pensare che ciò sia scaturito dalla “natura dell’uomo”, dalla natura delle cose. E allora è sempre al “fatto” e quindi alla natura a cui ci si deve riferire per poter affermare che si è ricorsi ai principi generali dell’ordinamento, anche se qualificati come dell’ordinamento giuridico dello Stato». Si tratta di un’impostazione isolata nel panorama dottrinale attuale, in cui i principi generali vengono indicati come «principi non scritti, comunque ricavabili dal tessuto normativo, sulla cui base il giudice enuncia la norma da applicare al caso sottoposto al suo esame, se ciò non è possibile mediante l’interpretazione estensiva e l’applicazione analogica, nonché attraverso una clausola generale» (per tutti: S. Patti, Principi, clausole generali e norme specifiche nell’applicazione giurisprudenziale, in Giust. civ., 2016, p. 247, e P. Rescigno, Sui principi generali del diritto, in P. Rescigno, S. Patti, La genesi della sentenza, Bologna, 2017, p. 117 ss.). 44 Si tratta di una tesi che trova rispondenza soprattutto nella dottrina precedente alla codificazione del 1942, v.: G. Del Vecchio, Sui principi generali del diritto, in Arch. giur. F. Serafini, 1921, p. 33 ss. Per una ricostruzione compiuta delle varie tesi dottrinali anteriori al Codice civile del 1942: v. G. Alpa, I principi generali, in Tratt. dir. priv. Iudica-Zatti, II ed., Milano, 2006, p. 262 ss.; Id., voce Principi generali, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., Agg. *********, Torino, 2014; N. Bobbio, Principi generali del diritto, in NN. Dig. It., XIII, Torino, 1966, p. 891 ss.; F. Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015, p. 47 ss.
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vile del 186545, è stata, infatti, sostituita dall’espressione “principi generali dell’ordinamento giuridico”46, che permette di delimitare e qualificare il riferimento eccessivamente generico al “diritto”47. L’abbandono di tale formulazione nasce da diverse esigenze, che emergono in maniera netta dai lavori preparatori al Codice civile. Il legislatore intendeva, anzitutto, evitare l’utilizzo di formule che potessero favorire o quantomeno giustificare il ricorso all’interpretazione evolutiva e, al contempo, condurre ad un’eccessiva opera di generalizzazione ed astrazione da parte del giudice, che l’avrebbe portato ad assumere quasi le vesti di legislatore48. In tale contesto, il diritto naturale rappresentava una vera e propria insidia nella formulazione dei principi generali, perché non veniva individuato e considerato nelle forme storicamente assunte. Si presentava, dun-
Tale disposizione prevedeva che: «Qualora una controversia non si possa decidere con una precisa disposizione di legge, si avrà riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe: ove il caso rimanga tuttavia dubbio, si deciderà secondo i principi generali del diritto». 46 Secondo la spiegazione, contenuta nella Relazione del Ministro Guardasigilli (n. 22), il termine ordinamento è «(…) comprensivo, nel suo ampio significato, oltre che delle norme e degli istituti, anche dell’orientamento politico-legislativo attuale della tradizione scientifica-nazionale»; sul tema N. Bobbio, Principi generali del diritto, cit., p. 888. 47 Sul punto S. Bartole, Principi generali del diritto (dir. cost.), in Enc. dir., XXXV, Torino, 1986, p. 494: «È evidente che non si tratta di una mera questione terminologica: il riferimento all’«ordinamento giuridico dello Stato» delimita e qualifica quello troppo generico al «diritto», ma la scelta del referente sottintende anche un’opzione di maggiore positività, giacché, se l’ordinamento giuridico è pur sempre diritto, esso è nel caso individuato come il diritto di uno Stato determinato. Il che può anche escludere, o meglio potrebbe escludere, il rinvio ad una nozione riflessa e più elaborata cui il termine «diritto» consentirebbe di avere riguardo. D’altra parte, quando si parla di ordinamento si ha comunque riguardo ad una sistematizzazione dottrinale che manca nella formula «princìpi generali del diritto vigente» usata originariamente nel progetto del codice civile del 1942. Il che – come vedremo – sembra aver consentito di superare definitivamente la contrapposizione princìpi espressi – princìpi inespressi». 48 P. Rescigno, Relazione conclusiva, in Convegno sul tema: I principi generali del diritto (Roma 27-29 maggio 1992), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, p. 334; Id., Sui principi generali del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1992, p. 382; più recente: Id., I principi generali del diritto, in P. Rescigno, S. Patti, La genesi della sentenza, cit., p. 120. 45
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que, come «una incombente (e sfuggente) minaccia da esorcizzare»49, rispetto agli obiettivi perseguiti dal legislatore.
2. Legittima difesa e autotutela privata 2.1. I caratteri essenziali dell’autotutela privata. La ricostruzione della categoria Secondo opinione unanime, la legittima difesa rappresenta una delle espressioni dell’autotutela privata, perché si connota come la difesa extraprocessuale di un proprio o di un altrui diritto. La dottrina che si è occupata del tema ha analizzato in maniera approfondita la legittima difesa in rapporto ai caratteri essenziali dell’autotutela privata. Tuttavia, per poter comprendere questi aspetti è necessario analizzare in via preliminare il concetto stesso di autotutela. Quando si parla di autotutela nei suoi tratti essenziali, ci si riferisce alla possibilità per il titolare del diritto di esercitare dei rimedi di fatto o diritto, in tutti quei casi in cui il diritto stesso venga minacciato oppure leso. A partire da questa connotazione, l’autotutela viene identificata come la possibilità di “farsi giustizia da sé”, in contrapposizione alla giurisdizione pubblica o privata50. Si tratta, però, di una definizione generica, che necessita di essere ulteriormente specificata. Attraverso un’analisi concreta, la dottrina è riuscita a identificare alcuni tratti comuni alle varie fattispecie, che permettono di de-
49 P. Rescigno, Relazione conclusiva, cit., p. 332. La letteratura in materia di principi generali è vastissima e nasce soprattutto dall’esigenza di distinguere tale categoria dalle clausole generali e dai c.d. concetti indeterminati; tra le opere più recenti: G. D’Amico, F. Di Marzio, C. Luzzati, F. Macario, S. Pagliantini, S. Patti, L. Rovelli, E. Scoditti, Principi e clausole generali nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, a cura di G. D’Amico, Milano, 2017; S. Patti, Principi, clausole generali e norme specifiche, cit., p. 247, e anche: G. D’Amico, Appunti per una dogmatica dei principi, in Liber Amicorum Pietro Rescigno per il novantesimo compleanno, Napoli, 2018, passim; C. M. Bianca, voce Autotutela, in Enc. dir., agg. IV, Milano, 2000, p. 130. 50 C. M. Bianca, Autotutela, cit., p. 132 ss.
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lineare in maniera precisa il concetto stesso di autotutela privata. Affinché si possa parlare di autotutela non è sufficiente che il diritto leso o minacciato possa essere tutelato in via extragiudiziale, ma è strettamente necessario che l’attuazione di tale tutela dipenda dal comportamento posto in essere dal titolare della situazione giuridica pregiudicata51. L’autotutela permette, dunque, una difesa extraprocessuale delle situazioni giuridiche violate, che si attua attraverso un atto unilaterale del soggetto interessato. Il soggetto, autore della lesione, non ha la possibilità di contrastare tale attività e si trova, dunque, come sottolineato dalla dottrina, in una posizione di soggezione52. L’unilateralità viene considerata una caratteristica fondamentale dell’autotutela, nel senso che l’autotutela viene esclusivamente esercitata da parte del titolare del diritto leso o minacciato53. Il fatto che, 51 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, I, Milano, 1971, p. 36 ss. 52 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 38: «(…) l’autore del fatto lesivo viene a trovarsi in una situazione di soggezione e, perciò, nella giuridica impossibilità di contrastare utilmente o, comunque, di vanificare l’attuazione della tutela. Questa va sotto il nome di autotutela (o difesa privata o, ancora, giustizia privata) e consiste appunto – secondo la tradizionale definizione – nella difesa extraprocessuale delle situazioni soggettive private per atto unilaterale della parte interessata». La qualificazione della posizione giuridica del soggetto leso in termini di soggezione importa, come accolto dalla stessa Autrice, che il titolare del diritto, agendo in via di autotutela, eserciti un diritto di natura potestativa. L’esistenza di un diritto di agire in via di autotutela e soprattutto la qualificazione di tale diritto saranno oggetto di approfondimento nei paragrafi successivi. 53 C. M. Bianca, Autotutela, cit., p. 133, ritiene che l’autotutela derivante dal contratto non sia una vera e propria autotutela. Infatti, sebbene le parti possano rimuovere attraverso il contratto le situazioni lesive dei loro diritti, tuttavia non è possibile identificare tali risultati con l’esercizio di un potere finalizzato alla difesa dei propri diritti. L’Autore si pone in antitesi con la tradizionale posizione sostenuta da E. Betti, Autotutela, (dir. priv.), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 532, che riconosce l’esistenza dell’autotutela consensuale, che «(…) si fonda sul preventivo consenso dell’altro soggetto del rapporto giuridico alla cui attuazione è preordinata» e riconosce l’esistenza di tre tipologie di autotutela consensuale: a scopo di accertamento; con funzione satisfattoria; con prevalente funzione di tipo cautelare. Secondo A. Saturno, L’autotutela privata. I modelli della ritenzione e dell’eccezione di inadempimento in comparazione col sistema tedesco, Napoli, 1995, p. 223, risulta aprioristico escludere a priori la possibilità di autotutela pattizia.
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in alcuni casi, come la legittima difesa, il soggetto agisca per difendere un diritto altrui non deve escludere l’unilateralità della tutela. Infatti, nelle ipotesi in cui ciò si verifichi, il soggetto che difende un diritto altrui, definito anche come “autotutelante”, agisce nelle vesti di rappresentante o gestore d’affari, facendo proprio l’interesse del titolare54. In questo senso, tutti i casi in cui il soggetto agisce per la difesa di un diritto altrui presuppongono l’esistenza di un rapporto giuridico tra “l’autotutelante” e il titolare del diritto leso. Ciò dimostra che il soggetto che agisce in autotutela mira sempre al soddisfacimento di interessi meramente egoistici, senza alcuna finalità di carattere generale. In virtù di ciò, è possibile escludere qualsiasi funzione sussidiaria dell’autotutela in rapporto alla giurisdizione pubblica. Il riconoscimento concreto dell’autotutela passa attraverso l’individuazione di alcuni presupposti necessari della fattispecie: un comportamento illegittimo55, che determina una lesione o il pericolo di lesione dell’altrui sfera giuridica56; l’attualità della lesione già realizzata oppure potenziale57; l’attribuzione di un “potere” al
Nello specifico, l’Autore ritiene arbitrario dedurre dall’unilateralità del comportamento l’unilateralità della fonte da cui scaturisce il potere di difesa. 54 C. M. Bianca, Autotutela, cit., p. 130 e in particolare nota 20: «Il principio che l’autotutela è esercitata dal titolare del diritto violato oppure minacciato va però ribadito, rilevando che le ipotesi in cui l’autotutelante difende un diritto altrui sono ipotesi in cui (…) agisce quale rappresentante o gestore d’affari, facendo proprio l’interesse del titolare». 55 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 20 ss. e in particolare nota 44. Quando l’Autrice parla di illegittimità del comportamento allude al fatto che questo sia stato posto in essere non iure, cioè nell’esercizio del diritto o nell’adempimento di un dovere, oppure sia stato altrimenti autorizzato. 56 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 40 ss. e p. 52 ss. La possibilità che la lesione sia solamente potenziale e, dunque, esista un pericolo di lesione viene desunto dall’espressione utilizzata dall’Autrice, che parla di «(…) un fatto proveniente dalla sfera giuridica di un soggetto che possa dirsi (attualmente o virtualmente) lesivo della situazione di un soggetto diverso (…)». Come si deduce successivamente, l’avverbio virtualmente è utilizzato per indicare tutti quei casi in cui il comportamento posto in essere si concreti in una lesione potenziale e non effettiva della sfera giuridica. 57 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 52.
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titolare della situazione giuridica lesa, che gli consenta di realizzare immediatamente tale tutela sul piano extraprocessuale58. La necessità che il soggetto c.d. autotutelante agisca in virtù di un potere attribuitogli dall’ordinamento giuridico ha fatto scaturire un intenso dibattito sull’esistenza o meno di un potere generale di autotutela, riconosciuto a tutti i consociati59. Nel nostro ordinamento giuridico, a differenza di quello tedesco, non esiste, infatti, una disposizione specifica, che riconosca ai privati tale potere60. L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 40 ss. e p. 52 ss. Sulla natura del potere attribuito al soggetto leso v. infra. 59 Per una disamina approfondita di tale dibattito v. A. De Sanctis Ricciardone, L’autotutela civile, Napoli, 2011, p. 31 ss. 60 Si tratta, in particolare, del § 229 “Selbsthilfe” del BGB: «Wer zum Zwecke der Selbsthilfe eine Sache wegnimmt, zerstört oder beschädigt oder wer zum Zwecke der Selbsthilfe einen Verpflichteten, welcher der Flucht verdächtig ist, festnimmt oder den Widerstand des Verpflichteten gegen eine Handlung, die dieser zu dulden verpflichtet ist, beseitigt, handelt nicht widerrechtlich, wenn obrigkeitliche Hilfe nicht rechtzeitig zu erlangen ist und ohne sofortiges Eingreifen die Gefahr besteht, dass die Verwirklichung des Anspruchs vereitelt oder wesentlich erschwert werde». «Chi a scopo di autotutela sottrae, distrugge o danneggia una cosa o chi a scopo di autotutela ferma un obbligato che è sospettato di fuga o rimuove la resistenza di un obbligato ad un atto che questi è obbligato a tollerare, non agisce illecitamente, se non si possa ottenere in tempo l’aiuto delle autorità e senza immediato intervento sussista il pericolo che l’attuazione della pretesa venga frustrata o resa essenzialmente gravosa» (tr. it. di C. Caricato, in S. Patti [traduzione e presentazione a cura di], Codice civile tedesco, Bürgerliches Gesetzbuch, cit.; recentemente v. le riflessioni di M. Duchstein, Die Selbsthilfe, in Jus, 2015, p. 105) L’autotutela non può andare oltre quanto è necessario per evitare il pericolo, come previsto dal comma 1 del § 230 BGB (sul tema della necessità, di recente: J. Dennhardt, § 230, in BeckOK BGB, Bamberger / Roth / Hau / Poseck, ed. 2021), ma viene generalmente giustificata anche nel caso in cui il danno inflitto sia superiore rispetto all’interesse protetto, là dove, però, non si verifichi una sproporzione evidente (in materia: H. Stoll, Grounds of justification as a defense to liability – German Law, in In memoriam Jean Limpens: Studiedagen Aansprakelijkheidsrecht, Journées d’études sur le droit de la responsabilité, Symposium on Civil Liability Gent, 23-24 maart 1984, Antwerpen, 1987, p. 220, in riferimento specifico a A. Thur, Der allgemeine Teil des deutschen bürgerlichen Rechts, 2.2., München, 1918). La sussistenza di due norme diverse in materia di autotutela e di autodifesa (§ 227 BGB), ha portato la dottrina tedesca ad interrogarsi sul rapporto tra le due fattispecie, dando luogo ad un intenso dibattito (sul tema, anche in raffronto all’ordinamento giuridico italiano v. l’approfondita indagine di A. Saturno, L’autotutela privata, cit., p. 234 ss.). 58
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La dottrina maggioritaria non ammette l’esistenza di un potere generale non solo perché manca una norma specifica in materia61, ma soprattutto perché esiste il precetto del neminem laedere62. L’autotutela comporta, infatti, un’intromissione nella sfera giuridica altrui, che si sostanzia nella lesione di un diritto soggettivo a carico del soggetto autore della lesione iniziale. Ammettere l’esistenza di un potere generale di autotutela significherebbe andare contro il precetto generale del neminem laedere. Ciò significa, dunque, che, in linea teorica, l’azione realizzata in via di autotutela è un’azione illecita, perché si sostanzia in una violazione del diritto altrui. Il fatto che l’azione sia finalizzata alla tutela di un diritto leso oppure minacciato non esclude, dunque, la sua qualificazione in termini di illiceità63. L’inesistenza di un potere generale di autotutela, nei termini sopra considerati, determina, secondo la dottrina, l’eccezionalità delle ipotesi di autotutela previste dalla legge64 e, dunque, la tassatività 61 Si tratta della ricostruzione di L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 46: «La mancanza (…), nel nostro ordinamento positivo di una norma di carattere generale (analoga, ad esempio, a quella che, in altro campo, sembra giustificare la configurazione dell’autonomia privata sub specie di diritto soggettivo) esclude, in realtà, che dell’autotutela si possa parla come di un “potere” (generale) unitario. Rivelando, piuttosto, l’esistenza di tutta una serie di poteri (diritti) specifici, sorgenti sulla base di altrettanti, specifici interessi e trovanti, nell’ordinamento giuridico, la fonte della loro rilevanza». E. Betti, Autotutela, cit., p. 529, arriva a tale ricostruzione muovendo dalle disposizioni di cui agli articoli 392 e 393 del codice penale, che puniscono l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. In virtù di ciò, l’autotutela è vietata in linea di principio ai privati, là dove assuma forme pericolose per la pacifica convivenza sociale. 62 C. M. Bianca, Autotutela, cit., p. 133 63 C. M. Bianca, Autotutela, cit., p. 133. L’Autore si riferisce, altresì, all’opera di B. Winsheid, Diritto delle Pandette, trad. it., a cura di C. Fadda e P.E. Pensa, I, Torino, 1902, (simbolo paragrafo), p. 420, secondo il quale un’azione intrinsecamente lecita non diventa lecita per il fatto che è stata realizzata allo scopo di farsi giustizia dà sé. 64 Secondo L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 46, il legislatore ha introdotto dei poteri specifici di autotutela, che rappresentano delle ipotesi eccezionali, data il mancato riconoscimento di un potere generale di autotutela. In tema di legittima difesa v., altresì, G. Giacobbe, Legittima difesa e stato di necessità nel sistema della responsabilità civile, cit., p. 56, che ricollega il requisito di proporzionalità della reazione al carattere eccezionale dell’autotutela: «Anche la proporzionalità risponde a precise esigenze di rispetto dei principi
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delle stesse. Si tratta, infatti, di circostanze in cui il legislatore autorizza, di fatto, un’attività di per sé vietata dall’ordinamento giuridico65. L’intervento nella sfera giuridica altrui al fine di tutelare un proprio interesse leso oppure minacciato è, dunque, una circostanza eccezionale, ammissibile solamente nei casi stabiliti dalla legge66. Secondo questa impostazione, il sistema dell’autotutela si sostanzia in un insieme di poteri specifici, attribuiti ai soggetti privati, che trovano nell’ordinamento giuridico la fonte della loro rilevanza67. Una parte della dottrina ha, però, contestato tale ricostruzione. Nello specifico, l’esistenza di un potere generale di autotutela viene ricondotto alla nozione stessa di capacità giuridica. Questa posizione muove dall’idea per cui l’esercizio di un potere corrisponde all’esercizio della capacità giuridica da parte del soggetto, attraverso cui si realizza una modificazione della sfera giuridica altrui. L’autotutela nasce, dunque, come un potere generale di difesa dei propri diritti, che è connesso alla stessa capacità giuridica del soggetto. Il fatto che il potere di autotutela sia insito nella capacità giuridica implica, di conseguenza, che tale potere nasca insieme alla persona umana68. dell’ordinamento. Infatti, premesso che è contrario a tali principi farsi giustizia da sé, e che solo in ipotesi eccezionali è possibile derogare ad essi, è evidente che una simile deroga non può travalicare i limiti entro i quali la stessa è consentita». 65 E. Betti, Autotutela, cit., p. 529: «(…) è permesso al privato interessato, in varie circostanze previste e tassativamente determinate, di provvedere a conservare ed attuare quello stato di fatto che sia conforme al suo diritto soddisfatto o minacciato». 66 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 46 ss. 67 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 46 s. 68 A. Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, Milano, 1983, p. 65: «(…) con il termine “potere” viene fatto riferimento, in senso ampio, all’esercizio della capacità giuridica del soggetto di promuovere delle modificazioni nell’ordine giuridico di relazione, le cui conseguenze siano a carico di altri soggetti: esso concerne, dunque, l’attuazione giuridica di una potenzialità conferita ad una situazione giuridica soggettiva (…); quando il potere venga esercitato perda un soggetto in modo che le sue conseguenze giuridiche si producano nella sfera di attribuzioni e di azioni giuridiche di terzi, rispetto ai quali il soggetto agente svolge una funzione di mediazione giuridica riconosciutagli dall’ordinamento giuridico, si parla allora propriamente di potere giuridico di diritto privato. Orbene, l’autotutela consiste appunto in un potere inteso nel senso sopra indicato, che nasce insieme con la persona e quindi con la capacità giuridica. L’origine di tale potere
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Secondo tale visione, attraverso l’esercizio del potere di autotutela, è possibile perseguire delle finalità di stampo solidaristico. Gli uomini, infatti, creano l’ordinamento giuridico e contribuiscono al suo mantenimento attraverso il rispetto delle norme giuridiche. In tale contesto, gli organi giurisdizionali intervengono solamente in casi eccezionali, derivati dalla mancata attuazione delle norme giuridiche. I soggetti, dunque, intervengono in autodifesa, al fine di mantenere e attuare l’ordine costituito. Lo Stato non può vietare tali interventi, perché sono funzionali alla difesa dell’ordine preesistente69. Inoltre, il precetto del neminem laedere non può costituire un limite all’esercizio del potere generale di autotutela, a differenza di quanto sostenuto dalla dottrina maggioritaria. Il comportamento realizzato in autotutela, nel rispetto dei limiti previsti dalla legge, evita, infatti, che si verifichi una lesione del diritto e, di conseguenza, determina l’attuazione del precetto stesso70. – che resta al di fuori del rapporto giuridico – è dunque da rinvenirsi nella stessa persona umana, considerata sia come singolo sia come parte di una comunità, ed ha perciò un duplice aspetto: soggettivo e sociale». Questa opinione si ritrova già espressa da M. Ferrara Santamaria, La giustizia privata, Napoli, 1937. 69 A. Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, cit., p. 63 ss. 70 A. Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, cit., p. 64: «Sotto questo profilo, il potere di autotutela non è affatto eccezionale ma generale ed connesso (dal lato attivo) al principio generalissimo del neminem laedere. Deve cioè ammettersi (…) che il privato può (entro certi limiti) tenere un comportamento tendenzialmente atipico idoneo a mantenere l’ordine costituito o comunque a ciò finalizzato, ad impedire, in altri termini, l’illecito (di grave entità) ed in questo a far coincidere nelle singole fattispecie, l’interesse pubblico con quello privato (…)». Sulla stessa linea: A. Saturno, L’autotutela privata, cit., p. 247 ss. A. Dagnino ha individuato ulteriori elementi a sostegno dell’esistenza di un potere generale di autotutela. Vi sarebbe, innanzitutto, un’assoluta diversità a livello sostanziale tra l’autotutela privata e l’attività giurisdizionale, che escluderebbe qualsiasi concorrenza tra le due fattispecie. L’esistenza di un potere generale di autotutela non interferisce, dunque, con l’esercizio della giurisdizione in capo agli organi pubblici. Le ulteriori motivazioni si basano sull’interpretazione degli articoli 392 e 393 c.p., che sanzionano l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni. Al contrario di quanto sostenuto dalla dottrina avversa, secondo A. Dagnino l’argomentazione a contrario di tali disposizioni giustifica l’esistenza di un potere generale di autotutela. Infatti, in base al principio “tutto ciò che non è vietato è permesso”, è possibile affermare che gli articoli sopra citati vietano l’esercizio del potere generale di autotutela solamente nei casi in cui l’autotutela si presenti in
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In conseguenza di tale ricostruzione, le ipotesi di autotutela previste dalla legge non possono considerarsi come casi eccezionali. Al contrario, dovrebbero considerarsi come eccezionali i casi in cui si verifica una lesione dell’ordinamento giuridico attraverso la violazione di un interesse altrui71. Alla base di tali argomentazioni, vi è l’idea di una compenetrazione tra giurisdizione pubblica e giurisdizione privata, che si ritrova espressa soprattutto dalla dottrina penalistica in materia di legittima difesa72. L’integrazione tra giustizia privata e giustizia statale non può, però, essere accolta. La giustizia privata è, infatti, realizzata dal soggetto che subisce la lesione, e, dunque, manca del carattere di imparzialità, che caratterizza la giustizia statale73.
modo arbitrario o violento. L’esclusione dell’eccezionalità della tutela si baserebbe, infine, sull’esistenza di un potere generale di legittima difesa, attuabile attraverso modalità atipiche. A questo proposito, come si avrà modo di analizzare successivamente, A. Dagnino qualifica l’articolo 2044 c.c. come una norma di carattere generale, posta all’autodifesa contro tutte le possibili aggressioni alla persona o ai beni (v. in particolare: p. 20 ss.; p. 61 ss.; p. 66 ss.). 71 A. Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, cit., p. 67. Sebbene anche A. Saturno, L’autotutela privata, cit., p. 249, sostenga l’esistenza di un potere generale di autotutela, tuttavia ritiene che l’eccezionalità non debba riguardare l’autotutela in sé, ma le sue singole figure. Ciò significa che ogni singola fattispecie, espressione dell’autotutela, deve essere valutata in rapporto alla sua contrarietà o conformità rispetto all’ordinamento giuridico, secondo i principi cui la fattispecie è ispirata. 72 R. A. Frosali, Sistema penale italiano, II, Diritto sostanziale, Torino, 1958, p. 292, secondo il quale lo Stato delega il proprio potere al privato; più recente: M. Romano, Comm. sist. dir. pen., I, II ed., Milano, 1995, p. 519: «Il suo fondamento è dato da un’esigenza insopprimibile dell’uomo di conservare sé stesso e i propri beni opponendosi alle aggressioni altrui (autodifesa): a tale esigenza, cui l’ordinamento concede spazio solo entro limiti determinati e nei casi in cui non sia in concreto possibile il ricorso alla protezione dello Stato, va aggiunta anche una (a sua volta limitata) funzione di stabilizzazione dell’ordinamento: contrastando l’aggressione del privato, almeno in alcune ipotesi, riafferma la validità ed il primato del diritto». Per un’analisi approfondita v. T. Padovani, voce Difesa legittima, in Dig. Disc. Pen., III, Torino, 1989, p. 498 ss. 73 C. M. Bianca, Autotutela, cit., p. 133, nota 29: «La giustizia privata che non abbia titolo nel contratto è giustizia attuata dallo stesso interessato, ed è quindi inidonea a svolgere in generale un ruolo di integrazione della giustizia statale in quanto la giustizia è per sua essenza imparziale, mentre la giustizia dell’interessato
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2.2. La legittima difesa come espressione dell’autotutela privata. Le ricostruzioni della dottrina Come si è visto, secondo la dottrina maggioritaria l’inesistenza di un potere generale di autotutela determina la tipicità delle ipotesi espressamente previste dal legislatore. La dottrina ha, dunque, riordinato le diverse fattispecie di autotutela all’interno di categorie specifiche, differenziandole a seconda dei caratteri distintivi e della funzione. Procediamo, dunque, ad analizzare la posizione occupata dalla legittima difesa, considerata l’ipotesi più vistosa di autotutela. Secondo Betti, la legittima difesa è una forma di autotutela unilaterale attiva con funzione preventiva74. Questa impostazione mette in luce il carattere dell’unilateralità, perché Betti, al contrario della dottrina più recente75, ritiene ammissibile anche un’autotutela di tipo consensuale, che si fonda «(…) sul preventivo consenso dell’altro soggetto del rapporto giuridico alla cui attuazione è preordinata (…)»76. La legittima difesa viene, altresì, definita come un’ipotesi di autotutela attiva, perché si esplica attraverso la realizzazione di una condotta positiva, che ha come risultato una modificazione in senso protettivo della situazione di fatto77.
sacrifica il terzo senza garantire che il suo costo non sia rappresentato da un’altra ingiustizia». 74 E. Betti, Autotutela, cit., p. 530. 75 E. Betti, Autotutela, cit., p. 529 ss. e 532 ss. Secondo la visione di E. Betti, l’autotutela consensuale si fonderebbe su un accordo tra il soggetto leso e l’altra parte in conflitto. La dottrina più recente ritiene che tale concetto non possa essere accolto, sebbene sia ammissibile un’origine contrattuale dei poteri di autotutela. L’autonomia privata può permettere, infatti, la nascita di uno specifico potere di autotutela, la cui attuazione non è, però, il risultato di un atto di autonomia, ma dell’esercizio stesso dell’atto di autotutela. L’autonomia privata ha, pertanto, una mera funzione meramente strumentale rispetto alla nascita dei poteri di autotutela (L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, p. 67 ss.). In questi termini, è, quindi, ammissibile l’ipotesi di autotutela convenzionale rispetto ai poteri che vengono conferiti contrattualmente alle singole parti del rapporto (C. M. Bianca, Autotutela, cit., p., 132, che indica, a titolo esemplificativo il potere di risoluzione del contratto, che trova origine in una clausola risolutiva espressa). 76 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 86 ss. 77 E. Betti, Autotutela, cit., p. 529.
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La dottrina più recente, operando una diversa classificazione delle forme di autotutela legale, ha inserito la legittima difesa nell’ambito dei rimedi inibitori, che contrastano un’attività illecita in corso oppure minacciata. Si tratta, dunque, di quei comportamenti che impediscono al terzo di comportarsi illecitamente78. Infatti, il privato non può, come avverrebbe in sede giudiziale, ordinare al terzo di astenersi da un determinato comportamento, ma può agire per legittima difesa nel caso in cui siano riscontrabili tutti i presupposti. Al di fuori dei casi di legittima difesa, l’attività di difesa del privato non potrà considerarsi lecita79 e, dunque, non rientrerà nel concetto stesso di autotutela. Il risultato perseguito attraverso la legittima difesa può essere duplice. Normalmente, la difesa è finalizzata alla conservazione dello stato di fatto esistente, cioè alla conservazione della situazione soggettiva in pericolo. Infatti, nel caso in cui la lesione sia solamente minacciata, il soggetto è autorizzato a respingere con la forza l’intromissione nella propria sfera giuridica. Può, però, capitare che la lesione si sia già realizzata e che il soggetto possa intervenire per rimuovere lo stato di fatto lesivo, ripristinando lo status quo80. In questo caso, la legittima difesa svolge una funzione di tipo reattivo, che va ad aggiungersi alla funzione conservativa, svolta normalmente81. C. M. Bianca, Autotutela, cit., p. 134 ss. C. M. Bianca, Autotutela, cit., p. 135: «Il proprietario, ad esempio, non potrebbe cacciare con la forza chi si trovi a transitare sul proprio fondo. Se poi il terzo ha un possesso di servitù di passaggio, il proprietario non può spossessare il terzo mediante opere di chiusura del fondo». 80 E. Betti, Autotutela, cit., p. 530; sulla stessa linea L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, p. 88 ss., che distingue le due fattispecie della legittima difesa in funzione conservativa e in funzione reattiva, a differenza di E. Betti che le riconduce all’interno di un’unica categoria, quella dell’autotutela reattiva. L’impostazione seguita da E. Betti è, probabilmente, connessa all’esigenza di distinguere in maniera netta tali figure dalle ipotesi di autotutela preventiva, che mira a tutelare il diritto, prima che sopravvenga la lesione. L’ipotesi preminente di autotutela preventiva, secondo E. Betti, è quella dello stato di necessità, che la dottrina più recente ha, invece escluso categoricamente dall’ambito stesso dell’autotutela. 81 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 89, in particolare nota 138. L’Autrice illustra l’esempio del rapinatore che, una volta inseguito e raggiunto, si vede strappare la borsa dal soggetto rapinato. 78
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La possibilità di ripristinare lo status quo dipende, ovviamente, dalle circostanze concrete in cui avviene l’esercizio della legittima difesa, che consentono o meno la rimozione dello stato di fatto lesivo. La mancanza di un potere generale di autotutela e la conseguente eccezionalità e tassatività delle ipotesi previste dal legislatore esclude, in linea di principio, la possibilità di riconoscere l’autotutela al di fuori dei casi previsti dalla legge. Il problema che si pone la dottrina è, dunque, quello di ricondurre le diverse ipotesi di autotutela, riscontrabili a livello concreto, nell’ambito delle fattispecie tipizzate. Ciò è possibile attraverso un’analisi del fondamento giuridico di ciascuna norma, che consenta la sua applicazione anche ai casi di autotutela non tipizzati82. È ovvio che, trattandosi di ipotesi eccezionali, le disposizioni in materia di legittima difesa e, dunque, lo stesso art. 2044 cod. civ. non potranno essere applicate in via analogica, ma si dovrà ricorrere all’interpretazione estensiva. Su queste basi, l’ambito di applicazione dell’art. 2044 c.c. è stato esteso fino a ricomprendere la tutela non solo dei diritti della personalità, ma anche dei diritti reali e dei diritti di credito83 e, in generale, di tutti gli interessi pienamente e direttamente tutelati dal diritto84. Seguendo un’interpretazione meramente letterale, infatti, il campo di applicazione dell’art. 2044 c.c. sarebbe particolarmente ridotto, dato che la disposizione parla unicamente di “legittima difesa di sé o di altri”, riprendendo, così, la formulazione del codice Zanardelli85. C. M. Bianca, Autotutela, cit., p. 134. L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 90 ss. Là dove si parla di diritti di credito, nascono ulteriori problematiche legate alla possibilità di esercitare la legittima difesa non solo in funzione conservativa, ma, altresì, in funzione coattivo-esecutiva, ipotesi esclusa dalla stessa autrice. È opportuno evidenziare che, la maggior parte della dottrina, fonda l’interpretazione estensiva dell’art. 2044 c.c., basandosi sul raffronto tra la disposizione civilistica e l’art. 52 c.p., che utilizza l’espressione generica “diritto proprio o altrui”. 84 G. Giacobbe, Legittima difesa e stato di necessità nel sistema della responsabilità civile, cit., p. 57. Sul tema si tornerà nel proseguo della trattazione. 85 Sul punto: E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 17. L’art. 2044 c.c. utilizza, infatti, la stessa espressione del Codice Zanardelli del 1889, che all’art. 49 prevedeva la non punibilità di chi avesse commesse il fatto per esservi 82
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L’interpretazione estensiva dell’art. 2044 c.c., nel senso sopra descritto, ha permesso e permette di ampliare notevolmente l’ambito dell’autotutela privata, fermo restando che devono essere pur sempre presenti i presupposti stessi della legittima difesa quali l’attualità e inevitabilità del pericolo di un’offesa ingiusta, e la strumentalità e proporzionalità dell’azione difensiva86. Il riconoscimento dei presupposti per l’esercizio della legittima difesa, evita, dunque, di pregiudicare e stravolgere la tipicità, cui è improntato il sistema dell’autotutela. L’estensione dell’ambito applicativo della legittima difesa è, in ogni caso, necessaria alla luce dei caratteri essenziali della fattispecie. Infatti, come si avrà modo di approfondire successivamente, la legittima difesa è consentita dall’ordinamento per contrastare un’aggressione, finalizzata alla produzione di un danno. La limitazione dell’ambito di applicabilità dell’art. 2044 c.c. ai soli diritti assoluti e relativi non si concilia, dunque, con la sfera attuale di operatività della responsabilità extracontrattuale87. Infatti, grazie all’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale, il danno ingiusto di cui all’art. 2043 c.c. non è più limitato alla lesione dei diritti soggettivi, ma riguarda la lesione di un interesse del danneggiato88. Gli interessi protetti in
stato costretto dalla necessità di respingere da sé o da altri una violenza attuale ed ingiusta. Questa disposizione veniva interpretata restrittivamente, come sottolineato da E. Calvi, limitando l’applicabilità della legittima difesa penale alle aggressioni riguardanti la vita, l’integrità personale e, in alcuni casi, l’onore sessuale. 86 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 91. 87 G. Giacobbe, Legittima difesa e stato di necessità nel sistema della responsabilità civile, cit., p. 57: «Invero, poiché la difesa costituisce una forma di reazione nei confronti di un’offesa ingiusta, – dalla quale deriverebbe un danno, anch’esso ingiusto, ove l’aggredito omettesse di reagire – è chiaro che una qualsiasi limitazione di diritti tutelabili si porrebbe in contrasto con i principi generali in tema di illecito civile». 88 Come si avrà modo di approfondire, in una fase iniziale l’ingiustizia del danno veniva identificata con l’antigiuridicità (illiceità). Secondo questa impostazione, se l’atto è antigiuridico, cioè compiuto in violazione del diritto, allora il danno che ne deriva è anch’esso antigiuridico (ingiusto). L’ingiustizia è, quindi, la contrarietà al diritto, intesa come violazione della norma giuridica e dell’obbligo, finalizzati alla protezione di un determinato interesse. Il fatto può essere lesivo sia della norma giuridica, sia del diritto soggettivo, quando l’interesse viene tute-
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via aquiliana vengono individuati dalla dottrina in base a vari criteri89, ma la tesi sicuramente preferibile è quella che identifica gli interessi protetti in quelli giuridicamente tutelati nella vita di relazione90. Si tratta, infatti, di una valutazione che impone di tener conto del diritto effettivo, cioè del diritto concretamente attuato nell’ambito delle pronunce giurisprudenziali91.
lato dalla norma nella forma del diritto soggettivo (A. De Cupis, Dei fatti illeciti, Art. 2043-2059, in Comm. Cod. Civ. Scialoja – Branca, Bologna – Roma, 1971, p. 4 ss.). A tale tesi si opponeva l’idea per cui il principio del neminem laedere ha una portata generale, perché volto a tutelare la sfera giuridica di una persona nella sua totalità, non solo, dunque, i suoi diritti, assoluti o relativi, ma anche le sue capacità, posizioni, qualità ed interessi giuridici. Il passaggio da una tutela aquiliana ristretta ad un ampliamento della sfera di protezione passa attraverso una diversa concezione dell’ingiustizia, intesa non più in riferimento alla condotta, ma in relazione al danno. Il danno ingiusto diventa, così, secondo questa dottrina la lesione di un interesse del danneggiato (tra gli altri: F. D. Busnelli, Lesione del credito da parte di terzi, Milano, 1964; S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, cit., p. 45; R. Sacco, L’ingiustizia di cui all’art. 2043, in Foro pad., 1960, I, c. 1422; G. Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, cit., p. 434). La tesi che identifica l’ingiustizia del danno nell’antigiuridicità ha trovato spazio nella giurisprudenza fino agli anni Sessanta del secolo scorso. A tal proposito devono essere segnalate due pronunce, che hanno rappresentato un’evoluzione significativa sul piano giurisprudenziale: la sentenza della Cassazione relativa al caso Meroni, che ha sancito per la prima volta la risarcibilità in via aquiliana dei diritti di credito (26 gennaio 1971, n. 174) e la sentenza delle Sezioni Unite n. 500 del 1999, che ha ammesso la risarcibilità degli interessi legittimi (22 luglio 1999, n. 500). 89 La letteratura in materia è vastissima, ad esempio secondo S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, cit., p. 113, il concetto di danno ingiusto deve essere delimitato in base al principio di solidarietà costituzionale. Ciò significa che «il danno sarà rilevante attraverso la comparazione del modo in cui la situazione si sarebbe presentata senza violazione del principio di solidarietà e quello in cui si trova a violazione avvenuta». Per una panoramica dei diversi criteri in posizione critica v. C. M. Bianca, Diritto civile, 5. La responsabilità, III ed., Milano, 2021, p. 586 ss., e F. D. Busnelli, S. Patti, Danno e responsabilità civile, III ed., Torino, 2013, p. 153 ss. 90 C. M. Bianca, Diritto civile, 5. La responsabilità, cit., p. 560 ss. M. Franzoni, Il danno risarcibile, in Tratt. resp. civ., II ed., Milano, 2010, p. 68, e già F. galgano, Le mobili frontiere del danno ingiusto, in Contr. imp., 1985, p. 1, identificano gli interessi protetti negli interessi meritevoli di protezione secondo l’ordinamento giuridico. 91 C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 561, ritiene, inoltre, che tale soluzione sia preferibile, perché manca del carattere di astrattezza e, dunque, di incertezza che caratterizza gli altri criteri individuati dalla dottrina.
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2.3. L’art. 2044 c.c. come norma generale in materia di autotutela privata Come sopra descritto, secondo la dottrina maggioritaria non esiste un potere generale di autotutela e, dunque, le ipotesi previste dal legislatore sono da considerarsi eccezionali. Tuttavia, attraverso l’interpretazione estensiva dell’art. 2044 c.c. è possibile ampliare l’ambito di operatività dell’autotutela privata e ovviare, in questo modo, alla limitatezza del sistema così delineato. La legittima difesa svolge un ruolo centrale anche per la teoria minoritaria, che sostiene l’esistenza di un potere generale di autotutela, come esplicazione della capacità giuridica dei soggetti privati92. L’articolo 2044 c.c. viene presentato, infatti, come una norma di carattere generale, che consente l’autodifesa contro tutte le possibili aggressioni alla persona o ai suoi beni93. Al contempo, però, si ritiene che l’articolo 2044 c.c. e l’art. 52 c.p. non esauriscano le ipotesi di legittima difesa, che può intervenire anche al di fuori dei casi di illecito civile e di illecito penale94. La legittima difesa, infatti, può delinearsi anche nei casi in cui si difenda un proprio diritto senza causare un danno all’aggressore e senza che la difesa costituisca un fatto penalmente rilevante95. Seguendo questa linea, la legittima di-
A. Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, cit., p. 66 ss. A. Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, cit., p. 67. Sulla stessa linea: T. Montecchiari, Ius singulare e autotutela privata, Napoli, 2019, p. 92 ss. 94 A. Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, cit., p. 105 ss.: «Come si è già detto, gli artt. 52 c.p. e 2044 c.p. sono norme che pur avendo una vasta portata non esauriscono il concetto di legittima difesa. Invero, mentre la norma penale concepisce la legittima difesa come un’esimente di un fatto costituente reato e quindi presuppone che tale fatto sia penalmente rilevante, e mentre la norma civile presuppone il danno, occorre ribadire che ben possono ricorrere numerose ipotesi in cui si difende il proprio (o l’altrui) diritto prescindendo sia dall’illecito penale sia dal danno patrimoniale (…)». 95 A. Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, cit., p. 106: «D’altra parte, se è possibile arrecare danno ad altri per difendersi dovrà essere possibile difendersi senza arrecare danno. E poiché la difesa consiste nel respingere gli altrui attacchi, essa dovrà consentire il mantenimento della situazione esistente». 92
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fesa ricorrerebbe anche in presenza di azioni atipiche, ma lecite dal punto di vista civile e penale96. Come correttamente messo in luce, si tratta di un’argomentazione non fondata. Le azioni di difesa che non costituiscono un illecito civile o penale sono azioni lecite e, pertanto, non è necessario l’intervento di una fattispecie, che escluda la responsabilità del soggetto agente97. Fatte tali precisazioni, merita a questo punto di essere approfondito l’inquadramento dell’art. 2044 c.c. come norma generale di autodifesa della persona e dei beni. Il concetto di norma generale viene spesso analizzato per confrontarlo e soprattutto distinguerlo dalle clausole generali. Inoltre, i caratteri delle norme generali vengono spesso desunti a contrario da quelli che caratterizzano tali clausole98. Questi aspetti hanno determinato un lungo dibattito in sede dottrinale, per la grande importanza rivestita dalle clausole generali nell’ambito dell’interpretazione e applicazione del diritto. Non essendo, però, possibile in tale sede analizzare compiutamente i termini del dibattito, ci li-
A. Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, cit., p. 106. L’Autore cita come esempio la fattispecie delle informazioni commerciali, che pur contenente fatti lesivi dell’altrui reputazione, può non integrare il reato di diffamazione. 97 A. Saturno, L’autotutela privata, cit., p. 233. 98 Nella dottrina più recente: M. Libertini, Clausole generali, norme di principio, norme a contenuto indeterminato. Una proposta di distinzione, in Studi in onore di Pier Giusto Jaeger, Milano, 2011, p. 131, ha ritenuto necessario abbandonare la dizione di norma generale, per accogliere la nozione di norma a fattispecie indeterminata. Infatti, la prima accezione, applicando il termine generale alla fattispecie, rimanderebbe alla relazione tra norme generali e norme speciali, creando diversi equivoci sul piano interpretativo. Tale impostazione rimanda a quanto già sostenuto da S. Rodotà, Il tempo delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1987, p. 722: «Si intende che l’attributo della generalità non attiene qui alla classificazione delle norme in generali individuali: se ci si attiene ai tradizionali, e contestati, criteri di classificazione, infatti, può essere generale tanto una norma espressa nella fattispecie analitica, quanto quella contenuta in una fattispecie aperta, appunto in una clausola generale. La precisazione è necessaria, poiché la trasposizione del termine “generale” dall’ambito della norma a quello della fattispecie ha determinato più di un equivoco a livello interpretativo e qualche abuso ricostruttivo». 96
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miteremo a tratteggiare le posizioni principali, al fine di verificare il possibile inquadramento dell’art. 2044 c.c. nella categoria delle norme generali. Secondo una prima tesi, le norme generali si distinguono dalle clausole generali per l’assenza dell’elemento elastico, pur presentando entrambe il carattere dell’indeterminatezza. Quando si parla di elemento elastico, si intende riferirsi a quell’elemento della fattispecie, bisognoso di integrazione valutativa da parte del giudice99. L’elemento dell’elasticità implica il riconoscimento di un potere normativo in capo al giudice, che, al contrario, non si riscontra nelle norme generali100. Su queste basi, lo stesso articolo 2043 c.c. è stato definito come una norma generale101, abbandonando l’originaria qualificazione in termini di clausola generale. Un’altra teoria distingue le norme generali dalle clausole generali in base alla fattispecie102. A differenza delle clausole generali, le norme generali si presentano come norme complete dal punto di vista della fattispecie. Nello specifico, la fattispecie non descrive un singolo caso oppure un gruppo di casi, ma, al contrario, individua una generalità di casi, descritti attraverso l’utilizzo di una formula riassuntiva. In virtù di ciò, interviene l’opera di concretizzazione da
99 C. Castronovo, Problema e sistema del danno da prodotti, Milano, 1979, p. 96 ss. e in particolare p. 101 ss. L’Autore muove la propria analisi dalla confutazione della teoria di K. Engish, Introduzione al pensiero giuridico, Milano, 1970, secondo cui le clausole generali sono sia riassuntive, sia elastiche 100 Per un’analisi compiuta delle diverse posizioni dottrinali: E. Fabiani, voce Clausole generali, in Enc. dir., Annali, V, Milano, 2015, p. 198, nota 103; V. Velluzzi, Le clausole generali: semantica e politica del diritto, Milano, 2010, p. 15, ed in particolare nota 25. 101 C. Castronovo, Problema e sistema del danno da prodotti, cit., p. 109 ss., che confuta le argomentazioni di S. Rodotà, Sul problema generale della responsabilità civile, cit., p. 107 ss. Questa linea viene seguita anche da S. Patti, Ragionevolezza e clausole generali, II ed., Milano, 2016, p. 80. 102 L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in Riv. crit. dir. priv., 1986, p. 9 ss. Le clausole generali sono, invece, secondo l’Autore delle norme incomplete, perché non hanno un’autonoma fattispecie e sono destinate a concretizzarsi nell’ambito dei programmi normativi di tali disposizioni»; per un’analisi del pensiero di L. Mengoni: L. Nivarra, Clausole generali e principi generali del diritto nel pensiero di Luigi Mengoni, in Europa dir. priv., 2007, p. 411 ss.
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parte del giudice, che si basa su modelli di comportamento e criteri di valutazione obiettivamente vigenti nel contesto sociale in cui opera. La discrezionalità del giudice è, però, una discrezionalità di fatto, perché non determina la produzione di altre norme giuridiche, al contrario di quanto avvenga per le clausole generali103. Nelle norme generali, infatti, la discrezionalità del giudice si esaurisce nella determinazione della fattispecie, i cui caratteri sono predeterminati seppur in maniera generica dal legislatore104. Secondo altri, invece, le clausole generali si distinguono per il fatto che l’indeterminatezza che le caratterizza è intenzionale. Il legislatore avrebbe intenzionalmente trasferito al giudice il potere di procedere ad un autonomo apprezzamento della situazione di fatto. In base alla volontà del legislatore, il giudice può procedere alla concretizzazione della clausola attraverso modelli di comportamento o valutazioni sociali, già presenti nell’ambiente in cui la decisione è destinata a produrre i suoi effetti105. Al di fuori delle clausole generali (e, dunque, anche nel caso delle norme generali) il legislatore utilizza delle formule riassuntive solamente per economia del dettato normativo, attribuendo al giudice una discre-
103 L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, cit., p. 10: «Questa tecnica legislativa lascia al giudice un margine di discrezionalità, e così ammette un certo spazio di oscillazione della decisione; ma si tratta di una discrezionalità di fatto, non di una discrezionalità produttiva o integrativa di norme (…). Nell’ambito normativo in cui si inserisce la clausola generale introduce un criterio ulteriore di rilevanza giuridica, a stregua del quale il giudice seleziona certi fatti o comportamenti per confrontarli con un determinato parametro e trarre dall’esito del confronto certe conseguenze giuridiche, sovente ai fini dello scioglimento di antinomie insorte in quell’ambito». Si tratta di una linea di pensiero che non si discosta eccessivamente da quanto sostenuto da Castronovo, come ha messo in evidenza Piraino, La buona fede in senso oggettivo, Torino, 2015, p. 97, nota 438. 104 L. Nivarra, Clausole generali e principi generali del diritto nel pensiero di Luigi Mengoni, cit., p. 426. Come specificato dall’Autore, nelle clausole generali la discrezionalità del giudice va oltre la mera specificazione di uno schema già abbozzato, risolvendosi nella formulazione stessa della norma giuridica. 105 S. Rodotà, Il tempo delle clausole generali, cit., p. 727 ss. In posizione critica V. Velluzzi, Le clausole generali: semantica e politica del diritto, cit., p. 18 e in particolare nota 33. Secondo quest’ultimo si tratta di una posizione non risolutiva, perché pone il problema di qualificare il concetto stesso di intenzionalità.
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zionalità di tipo tecnico, dal momento che la casistica è facilmente individuabile106. La diversità in cui si realizza l’opera di concretizzazione del giudice è, dunque, l’elemento principale di distinzione tra clausole generali e norme generali. Nello specifico, nel caso delle norme generali, l’elemento normativo viene individuato attraverso il riferimento alle altre norme. Ciò significa, dunque, che «il giudice si limita a “concretizzare” rinviando a “quei luoghi del sistema” in cui la ricezione del valore è già operata dal legislatore107». Nelle clausole generali, al contrario, è rimessa al giudice sia la scelta di includere o meno il valore all’interno del sistema, sia la sua concretizzazione in una struttura dogmatica preesistente108. Merita, però, di essere condivisa una teoria più recente, che sintetizza in un certo qual modo le posizioni dottrinali esposte. Secondo tale teoria, le norme generali, pur abbracciando molteplici fattispecie, non presentano i caratteri di indeterminatezza e di elasticità, che sono riscontrabili nelle clausole generali109. Ciò significa, dunque, che le norme generali non possono considerarsi indeterminate, perché, seppur in maniera sintetica, presentano un nucleo concettuale ben definito110. Al contempo, l’assenza di elasticità esclude la necessità di un’integrazione valutativa da parte del giudice, che con S. Rodotà, Il tempo delle clausole generali, cit., p. 722. Secondo l’Autore possono, dunque, esistere delle tecniche di ricostruzione della fattispecie, che, pur non essendo casistiche, possono essere definite come fattispecie analitiche e non come fattispecie aperte (al pari delle clausole generali), perché manca l’intenzionalità del legislatore, volta ad attribuire al giudice il potere di procedere ad un autonomo apprezzamento del fatto e alla concretizzazione della norma. 107 F. Forcellini, A. Iuliani, Le clausole generali tra struttura e funzione, in Europa dir. priv., 2013, p. 434. 108 F. Forcellini, A. Iuliani, Le clausole generali tra struttura e funzione, cit., p. 434. Secondo i due Autori, sebbene la distinzione tra le clausole generali e le norme generali tenda a sfumare, risolvendosi nell’opera di concretizzazione del giudice deve essere, comunque, conservato il tratto distintivo tra le due categorie, basato sulla diversità dell’opera di concretizzazione e, dunque, di individuazione dell’elemento normativo (sul tema v.: C. Castronovo, Il significato vivente di Lui gi Mengoni nei suoi scritti, in Europa dir. priv., 2012, p. 203 ss.). 109 S. Patti, Ragionevolezza e clausole generali, cit., p. 80 ss. 110 S. Patti, Ragionevolezza e clausole generali, cit., p. 79. 106
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tribuisce a realizzare la fattispecie normativa attraverso i parametri tratti dall’esperienza e dalla realtà dei rapporti sociali111. Alla luce di tali indicazioni, non vi sono dubbi per cui l’art. 2044 c.c. possa essere qualificato come norma generale in materia di legittima difesa. La sua formulazione presenta, infatti, un nucleo concettuale ben definito dal legislatore, anche se in maniera piuttosto generica. La casistica cui si riferisce risulta, comunque, predeterminata a livello legislativo e non necessita dell’integrazione valutativa da parte del giudice, che si riscontra nelle clausole generali. Tuttavia, la sua formulazione come norma generale non si presta ad un’applicazione al dì fuori degli ambiti della responsabilità civile. L’art. 2044 c.c. riguarda, infatti, tutti i casi in cui la reazione all’aggressione abbia causato un danno. Come già sottolineato, là dove ciò non si verifichi, non sorge alcuna responsabilità nei confronti del soggetto agente e non avrebbe alcun senso applicare l’art. 2044 c.c. Il ricorso alla categoria delle norme generali non porta, dunque, ad alcun vantaggio concreto nella ricostruzione dell’autotutela privata, così come auspicato dai suoi sostenitori.
3. L’ esclusione dell’antigiuridicità Uno dei maggiori dibattiti in ambito dottrinale ha riguardato il ruolo della legittima difesa nel sistema della responsabilità civile. Secondo la dottrina maggioritaria, la legittima difesa, così come tutte le esimenti di responsabilità, deve essere qualificata come una causa di giustificazione del danno. La posizione minoritaria le definisce, invece, come cause di esclusione dell’antigiuridicità112. Alla S. Patti, Ragionevolezza e clausole generali, cit., p. 84. Sul tema v. le interessanti considerazioni di C. Von Bar, The Common European Law of Torts: Damage and damages, liability for and without personal misconduct, causality, and defences, v. 2, Oxford, 2000, p. 506, sul rapporto tra antigiuridicità e cause di giustificazione. Secondo l’Autore, in quegli ordinamenti giuridici dove il concetto di antigiuridicità è assente, le cause di giustificazione si inseriscono nell’ambito del danno ingiusto, come avvenuto in Italia, oppure come parte integrante della colpa o negligenza del soggetto agente, così come in Francia. 111
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base delle due impostazioni, vi è una diversa concezione dei presupposti stessi della responsabilità extracontrattuale e della sua natura e funzione. La prima tesi muove dal presupposto per cui l’antigiuridicità costituisce uno degli elementi necessari per il sorgere della responsabilità extracontrattuale, in una visione della responsabilità come reazione contro l’illecito. Alla base di questa impostazione vi è l’idea dell’identificazione tra illiceità e antigiuridicità, che trova le proprie basi prima della codificazione del 1942 ed è stata successivamente accolta e approfondita, tenendo conto dell’introduzione normativa del danno ingiusto. Per arrivare all’identificazione tra illiceità e antigiuridicità, la dottrina ha analizzato il rapporto esistente tra gli atti compiuti dall’uomo e l’ordinamento giuridico nel suo complesso. Gli atti possono essere, innanzitutto, “agiuridici”, cioè del tutto indifferenti per l’ordinamento giuridico. Nel caso in cui ciò non avvenga, si crea un rapporto tra l’atto e l’ordinamento giuridico nel suo complesso, che passa attraverso la norma giuridica. Nello specifico, nel momento in cui si relaziona alla norma giuridica, l’atto può presentarsi in senso giuridico o antigiuridico113. La giuridicità e l’antigiuridicità rappresentano delle qualifiche contingenti dell’atto, perché dipendono esclusivamente dal modo in cui questo si rapporta alla norma giuridica114. La condizione di antigiuridicità dell’atto può essere intesa in senso soggettivo o oggettivo115. Quando si parla di antigiuridicità in senso soggettivo si indica una situazione di contrarietà od opposizione dell’atto rispetto all’ordinamento giuridico, che si specifica come contrarietà rispetto alla norma giuridica e, in sostanza, come
G. Scaduto, D. Rubino, voce Illecito (atto) (diritto moderno), in Nuovo Dig. It., vol. VI; Torino, 1939, p. 703. 114 G. Scaduto, D. Rubino, voce Illecito, cit., p. 703, nota 2: «(…) la giuridicità, in senso lato e in senso stretto, e la antigiuridicità non sono, anche di fronte al diritto positivo, qualifiche ontologiche dell’atto (…), sibbene solo qualifiche contigenti». 115 G. Scaduto, D. Rubino, Illecito, cit., p. 703. 113
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violazione della norma stessa. L’antigiuridicità in senso soggettivo si presenta, dunque, come il «criterio di valutazione tra ciò che è e ciò che deve essere»116. Seguendo questa impostazione, i concetti di antigiuridicità soggettiva e di atto illecito diventano sinonimi117. L’atto illecito, infatti, sia esso reato oppure illecito civile, trova il proprio fulcro nella trasgressione alla norma giuridica, a prescindere dalle conseguenze previste dall’ordinamento, che rileveranno in tema di antigiuridicità obiettiva118. Con quest’ultima accezione, si indica la reazione che l’ordinamento giuridico prevede per contrastare l’atto antigiuridico. Tale reazione può consistere nella rimozione diretta della situazione creata oppure nella previsione di misure, finalizzate a ripristinare l’equilibrio turbato. In questa fase non viene compiuta alcuna valutazione in merito alla relazione esistente tra l’atto e il soggetto agente. Infatti, l’atto viene considerato in sé e per sé nella sua obiettività, a prescindere dal rapporto di causalità che lo lega all’agente119.
G. Scaduto, D. Rubino, Illecito, cit., p. 703. Sotto questo punto di vista, i due Autori ritengono che antigiuridico possa essere solamente il comportamento dell’uomo, che sia capace di intendere e di volere, perché solo in questo caso è concepibile un contrasto “tra l’essere e il dover essere”. 117 G. Scaduto, D. Rubino, Illecito, cit., p. 703. 118 G. Scaduto, D. Rubino, Illecito, cit., p. 703. R. Scognamiglio, Illecito, cit., p. 165 ss., critica questa impostazione, che si basa sulla coincidenza tra illiceità e antigiuridicità, e che porta a qualificare il fatto illecito (l’Autore utilizza tale termine, in ossequio alla normativa civilistica) in ragione del suo rapporto di contrarietà rispetto all’ordinamento giuridico. La contrarietà al diritto diventa un elemento imprescindibile per la qualificazione del fatto illecito e si basa, secondo Scognamiglio, su un equivoco di fondo, che emerge nel momento in cui si passa dal piano concettualistico a quello applicativo. La contrarietà al diritto del fatto illecito diventa un elemento di rilevanza sul piano dell’ordinamento giuridico. Infatti, non può reputarsi antigiuridica una fattispecie, considerata rilevante per il diritto, in quanto produttiva di effetti giuridici. Scognamiglio, in ossequio ad un approccio di tipo realistico e non concettualistico, nel senso sopra descritto, ritiene che la soluzione più agevole sia quella di ricercare i fatti illeciti in tutte le fattispecie previste dalle norme giuridiche, che impongono il divieto di tenere una determinata condotta e, al contempo, stabiliscono la sanzione. Gli atti illeciti sono dunque, gli atti vietati e sanzionati da apposite norme giuridiche. 119 G. Scaduto, D. Rubino, Illecito, cit., p. 703: «(…) la antigiuridicità può assumersi come espressione di una particolare rilevanza giuridica di un atto, per 116
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Il concetto di illecito, come sopra descritto, prescinde dal verificarsi del danno, che non costituisce un requisito sufficiente e neppure necessario per la qualificazione dell’atto in termini di illiceità. Infatti, di fronte alla violazione della norma giuridica, l’ordinamento può intervenire semplicemente attraverso il ripristino dello status quo, che permette di evitare il verificarsi della lesione e, di conseguenza, il sorgere del danno stesso120. Seguendo questa impostazione, l’atto, può essere, dunque, definito illecito indipendentemente dal verificarsi del danno, che, in ogni caso, determinerà l’obbligo di risarcimento in capo al soggetto agente.
denotare che ad esso l’ordinamento giuridico reagisce, rimuovendo la situazione creata per ripristinare la preesistente situazione, o apprestando comunque misure uguali o contrarie, per ripristinare l’equilibrio turbato dall’ordinamento stesso. (…) la reazione dell’ordinamento giuridico (…) assume l’atto nella sua mera entità obiettiva, prescindendo da ogni rapporto di causalità con il soggetto agente; considera l’atto come fatto (in senso stretto)». 120 G. Scaduto, D. Rubino Illecito, cit., p. 707: «(…) il danno, non è che essere requisito sufficiente, neanche è requisito necessario dell’atto illecito: la rimessione delle cose nel primiero stato può essere reazione sufficiente, perché gli effetti irremovibili dell’atto possono, nella infinita varietà delle vicende umane, neanche presentare quella lesione di interesse, quel danno economico, o meglio materiale, che è pur sempre presupposto necessario del danno giuridicamente rilevante. In tema di non esatto adempimento di obbligazioni, si consideri il caso del ritardo di una fornitura di merci ad un commerciante, ove nel frattempo sia sopravvenuto un aumento nei prezzi: il commerciante avrà azione per la risoluzione del contratto, ma non per il risarcimento dei danni (…)». Analogamente sull’irrilevanza del danno rispetto alla sussistenza dell’illecito v. anche W. Cesarini Sforza, Risarcimento e sanzione, in Scritti giuridici per Santi Romano, I, Padova, 1940, p. 149. Recentemente riprende queste posizioni: C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 585: «per qualificare il fatto come illecito non occorre tuttavia che il danno si sia già verificato, essendo sufficiente che il fatto sia idoneo a produrlo. La norma che vieta di ledere l’altrui interesse ha infatti per oggetto il fatto dal qual il danno scaturisce, e il porre in essere quel fatto integra già di per sé l’illecito, ancora prima che il danno si sia verificato. (…) Solo con la produzione del danno sorge però l’obbligo di risarcirlo». Su una linea diversa A. De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., p. 13, secondo il quale è inconcepibile una violazione giuridica cui non corrisponda pregiudizio per l’interesse protetto: «In verità, se un comportamento, positivo o negativo, è imposto per tutelare l’altrui interesse, e quindi per evitare un danno ad altri, il comportamento contrario (fatto illecito) è produttivo dell’effetto (danno), che l’imposizione fatta dalla norma voleva evitare».
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Le origini dell’identificazione tra atto illecito e violazione della norma giuridica, nel senso sopra delineato, si ritrovano nella concezione “imperativistica” della norma, propria delle dottrine illuministiche e razionalistiche del XVIII secolo121. Si tratta di una posizione incentrata sull’idea di norma come comando imposto a tutti i cittadini dalla voluntas legis. Nello specifico, l’iniuria viene definita come atto illecito a partire da una concezione di licere inteso come obbedienza al comando122, che consiste in una manifestazione di volontà finalizzata alla realizzazione di una condotta da parte del destinatario123. La sanzione è, secondo questa visione, un elemento imprescindibile per l’esistenza del comando, perché ne incentiva il rispetto da parte del destinatario124. Con l’emanazione del Codice civile del 1942, l’identificazione tra illiceità e antigiuridicità viene approfondita, contemperandola con il nuovo requisito dell’ingiustizia del danno125. Secondo la dottrina in esame, la responsabilità extracontrattuale deriva dalla violazione dell’obbligo generico del neminem laedere, cioè dell’obbligo che impone di non arrecare danno ad altri. Il danno ingiusto non è, però, il danno arrecato a qualsiasi lesione dell’altrui interesse, ma il danno che ha ad oggetto un interesse giuridicamente tutelato126. Per agevolare tale ricostruzione, l’obbligo del neminem laedere viene concepito come «la somma degli obblighi corrispondenti agli interes121 V. sul punto la ricostruzione di C. Maiorca, I fondamenti della responsabilità, cit., p. 272. 122 C. Maiorca, I fondamenti della responsabilità, cit., p. 272. 123 G. Cian, Antigiuridicità e colpevolezza, Padova, 1966, p. 352: «(…) per comando intendo una manifestazione di volontà diretta ad ottenere da una persona una determinata condotta, sia che costei desideri sia che non desideri soddisfare chi la richiede». 124 G. Cian, Antigiuridicità e colpevolezza, cit., p. 358 ss. Il fatto che la sanzione minacciata venga applicata sarebbe, secondo l’Autore, del tutto irrilevante rispetto all’esistenza del singolo comando violato. 125 Bisogna sottolineare il fatto che, in ossequio al dettato normativo, la dottrina non parla più di atto illecito, ma bensì di fatto illecito. Tuttavia, molti hanno criticato l’utilizzo del termine fatto da parte del legislatore, perché escluderebbe un comportamento umano cosciente e volontario, sul tema v.: M. Franzoni, L’illecito, cit., p. 35 ss. e, in particolare, nota 1. 126 A. De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., p. 9 ss.
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si direttamente protetti dal diritto oggettivo (…)»127. Il concetto nel neminem laedere esprime, dunque, la sintesi di obblighi specifici, posti a tutela di determinati interessi protetti dal diritto. Fatta questa premessa, il fatto illecito e l’ingiustizia del danno sono considerati due termini correlativi. Se un fatto è illecito, cioè è compiuto in violazione di una norma giuridica (contra ius), il danno che deriva da tale violazione è ingiusto, perché colpisce l’interesse protetto dalla norma violata128. L’utilizzo dei due termini da parte del legislatore testimonia che l’illiceità del fatto e l’ingiustizia del danno rappresentano due elementi della stessa realtà, perché qualificati dal contrasto con l’ordinamento giuridico. Tale contrasto consiste nella violazione della norma giuridica e dell’obbligo imposto dalla norma a protezione dell’altrui interesse129. Il danno ingiusto è, pertanto, solamente il danno arrecato in violazione di una norma giuridica a tutela di un diritto soggettivo, che, almeno secondo l’opinione iniziale della dottrina, doveva rientrare nella categoria dei diritti assoluti130. I diritti relativi, infatti, erano, inizialmente, esclusi dall’ambito applicativo della responsabilità extracontrattuale. A. De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., p. 10 ss. Questa ricostruzione viene criticata aspramente da R. Scognamiglio, Illecito, cit., p. 171: «(…) a tale stregua si sposta a tutta evidenza l’accento su di un requisito caratteristico del danno – la sua ingiustizia che pone poi la ragione della sua risarcibilità; e si avvale di certo di un espediente, arbitrario, quanto infecondo, chi su di una siffatta qualità del danno pretende di fondare l’obbligo di tenere un contegno dannoso e di riflesso la qualifica di illecito del contegno stesso». 128 A. De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., p. 4 ss. Sulla stessa linea, di recente: C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 557: «L’illiceità designa in generale la contrarietà alla norma giuridica. Il fatto che arreca ad altri un danno ingiusto si qualifica come illecito in quanto integra la violazione di una norma giuridica (la norma che impone di rispettare gli interessi tutelati nella vita di relazione). Anche l’inadempimento va qualificato come illecito in quanto costituisce violazione di una norma giuridica (quella che impone di rispettare l’impegno obbligatorio)». 129 A. De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., p. 4: «(…) Il fatto illecito è tale in ragione di questa violazione; va aggiunto che, qualora la protezione dell’interesse assurga a livello del diritto soggettivo, lo stesso fatto illecito violi anche diritto». Questa impostazione si trova già espressa da A. Fedele, Il problema della responsabilità del terzo per pregiudizio del credito, Milano, 1954, p. 117 ss. 130 A. De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., p. 12 ss. 127
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Secondo questa ricostruzione, l’antigiuridicità, intesa come violazione della norma giuridica, connota il fatto illecito e va a coincidere con il concetto stesso di ingiustizia del danno. Fatta quest’analisi, è necessario analizzare la posizione delle esimenti di responsabilità nella costruzione dell’illecito, così delineata. Secondo una prima teoria, tutte le esimenti di responsabilità, sia quelle codificate, quali la legittima difesa e lo stato di necessità, sia quelle previste solamente dal Codice penale, vale a dire il consenso dell’avente diritto, l’esercizio del diritto e l’adempimento del dovere, costituiscono cause di esclusione dell’antigiuridicità. La presenza di tali circostanze determina la rimozione del divieto previsto dalla legge rispetto alla realizzazione di un determinato comportamento. Di conseguenza, non è previsto alcun rimedio a favore del soggetto danneggiato131. Alla luce della ricostruzione sopra delineata, si può, dunque, affermare che le esimenti di responsabilità determinano, in generale, la rimozione del divieto di arrecare danno ad altri. Ciò significa che non è possibile riscontrare alcun fatto illecito nel comportamento del soggetto che agisce in presenza di una causa di esclusione dell’antigiuridicità. In virtù di ciò, dalla condotta realizzata non deriva nessun danno ingiusto, considerata la coincidenza teorizzata tra antigiuridicità e ingiustizia del danno. La dottrina più recente ha, invece, distinto le esimenti di responsabilità in due categorie: le esimenti personali di responsabilità e le cause di esclusione dell’antigiuridicità, definite anche come esimenti oggettive di responsabilità. Della prima categoria fanno parte l’incapacità del soggetto agente, il caso fortuito e la forza maggiore. Queste ipotesi non determinano la rimozione del divieto previsto dalla legge e, dunque, non autorizzano il compimento dell’atto vietato. Il divieto continua, quindi, a sussistere, sebbene il soggetto agente non venga considerato responsabile132. A. De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., p. 43. C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 631 ss. In questi casi, secondo l’Autore rileverebbe il concetto di antigiuridicità obiettiva nel significato sopra delineato, di obiettiva contrarietà alla norma, vale a dire come obiettiva inosservanza 131
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La legittima difesa rientra, invece, tra le cause di esclusione del l’antigiuridicità, dette anche esimenti oggettive di responsabilità, a cui appartengono anche il consenso dell’avente diritto, l’adempimento del dovere legale, l’esercizio del diritto e l’ordine superiore. Tutti queste situazioni determinano l’esclusione dell’antigiuridicità, nel senso sopra specificato di rimozione del divieto previsto dalla legge. Un discorso a parte riguarda, invece, lo stato di necessità, che da sempre è stato oggetto di dibattito in merito alla natura lecita o illecita dell’azione necessitata133. La dottrina in esame ritiene che lo stato di necessità rientri tra le cause di esclusione dell’antigiuridicità nell’ipotesi in cui la salvezza della persona comporti il sacrificio dell’altrui diritto economico. In questi casi, l’atto necessitato potrà considerarsi lecito134. Lo stato di necessità costituisce, al contrario, un’esimente personale di responsabilità, nei casi in cui l’azione necessitata comporti la lesione di un diritto della personalità. In questa fattispecie, l’ordinamento può tollerare il fatto lesivo finalizzato alla salvezza della persona, ma, in ogni caso, non può autorizzare il sacrificio del diritto altrui. Per tali motivi, seguendo questa ricostruzione, il fatto lesivo conserva la propria antigiuridicità135.
del contenuto di specifiche norme o dei modelli di condotta diligenza, previsti a tutela di rilevanti interessi giuridici. 133 Sul tema v. il recente contributo di L. Nonne, Profili critici dello stato di necessità nel diritto privato, in Riv. dir. civ., 2017, p. 582 ss. 134 C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 639 ss. e, in particolare, p. 641. Si tratta, ad esempio, dell’ipotesi in cui un soggetto irrompe nell’altrui proprietà per salvarsi dalle fiamme. In questi casi, si ritiene che la tutela del diritto patrimoniale possa trovare dei limiti, in tutti i casi in cui sia necessario tutelare la sicurezza, la liberà e la dignità della persona. Di conseguenza, la lesione di un diritto patrimoniale per tutelare un diritto della personale non può costituire un fatto antigiuridico e, come tale, dare origine alla responsabilità. 135 C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 667. Bianca sottolinea come, in entrambi i casi, è, comunque, prevista la corresponsione dell’indennità al soggetto danneggiato. L’obbligo di pagamento dell’indennità si basa, infatti, su ragioni di equità sociale, che impongono la corresponsione di un indennizzo a carico di chi ha conseguito la propria salvezza, sacrificando un diritto altrui.
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4. Legittima difesa e danno ingiusto 4.1. La responsabilità civile come reazione al danno ingiusto La tesi dottrinale descritta nel paragrafo precedente è stata oggetto di molte critiche, sia in riferimento ai presupposti, basati sull’identificazione tra illiceità e antigiuridicità, sia in relazione ai risultati, che collegano l’ingiustizia del danno all’antigiuridicità della condotta, intesa come violazione della norma giuridica. L’identificazione tra illiceità e antigiuridicità è stata, anzitutto, criticata in base all’inesistenza del dovere generale del neminem laedere, anche là dove inteso come sintesi di doveri specifici136. In particolare, il dovere del neminem laedere, così come configurato, non avrebbe i caratteri e l’efficacia propria di una norma di condotta, ma rappresenterebbe una tendenza o meglio un’aspirazione meramente ideale dell’ordinamento giuridico137. L’infondatezza di tale teoria viene, altresì, motivata attraverso il ricorso alla disciplina codicistica. Vi sono, infatti, alcune ipotesi di responsabilità extracontrattuale (come, ad esempio, la responsabilità per fatto altrui e per rovina di edificio), in cui il risarcimento del danno non dipende dal compimento di un atto antigiuridico, nel senso sopra delineato138. In base a tali argomentazioni, le qualifiche di lecito e illecito, permesso o vietato sono considerate totalmente estranee alla responsabilità extracontrattuale. La funzione delle norme che disciplinano la responsabilità non consiste, infatti, nel permettere o vietare un determinato comportamento, ma nel prevedere i criteri di traslazione del danno derivante da un determinato fatto139. Gli artt. 2043 e seguenti del Codice civile non sanzionano, quindi, le condotte lesive del principio del neminem laedere, ma assicurano il risarcimento
R. Scognamiglio, Illecito, cit., p. 171. R. Scognamiglio, voce Responsabilità civile, cit., p. 637. 138 R. Scognamiglio, voce Responsabilità civile, cit., p. 638. 139 C. Salvi, La responsabilità civile, III ed., in G. Iudica, P. Zatti (a cura di), Tratt. dir. priv., Milano, 2019, cit., p. 6. 136 137
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del danno ingiusto140. Con l’introduzione del danno ingiusto si è, dunque, verificato, un cambiamento di prospettiva nell’analisi della responsabilità extracontrattuale, perché l’attività valutativa dell’interprete non si concentra più sulla condotta del soggetto agente, ma sul pregiudizio arrecato, quale lesione di un interesse giuridicamente tutelato141. Inoltre, la coincidenza tra antigiuridicità e ingiustizia del danno non può essere ammessa, perché presuppone la completezza del sistema legislativo, che rappresenta un’ideale difficile da raggiungere. Il legislatore, infatti, non può essere sempre in grado di rispondere prontamente alle esigenze della realtà sociale, prevedendo nuove norme giuridiche a tutela degli interessi emergenti142. Si profila, così, l’idea di atipicità dell’illecito, intesa come assenza di “tipizzazione analitica” della fattispecie143, che porta ad affermare il diretto rapporto di causa – effetto tra ingiustizia del danno e antigiuridicità della condotta e non viceversa. Sulla base di tali argomentazioni, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, si afferma una nuova concezione della responsabilità extracontrattuale, intesa come reazione contro il danno ingiusto e non contro l’illecito144. Il danno ingiusto rappresenta, dunque, l’elemento cardine del nuovo sistema della responsabilità civile145, ma, in ogni caso, affinché possa sorgere l’obbligo di risarcimento, C. Salvi, La responsabilità civile, cit., p. 6: «Gli articoli 2043 ss. Non definiscono la forma generale di protezione del diritto dei privati, diretta a sanzionare le violazioni colpevoli del principio di neminem laedere, ma prevedono una. Tra le tecniche di tutela civile degli interessi: quella che ha il compito specifico di assicurare, ricorrendone i presupposti normativi, la riparazione del danno ingiusto». 141 F. Piraino, Ingiustizia del danno e antigiuridicità, in Europa dir. priv., 2005, p. 721 ss. 142 P. Schlesinger, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, cit., p. 340. 143 F. Piraino, Ingiustizia del danno e antigiuridicità, cit., p. 721 ss. 144 R. Scognamiglio, voce Responsabilità civile, cit., p. 638. 145 R. Scognamiglio, voce Responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, cit., p. 673: «Laddove preesista un rapporto obbligatorio, che derivi dall’autonomia contrattuale o dalla stessa legge, questa costituisce la stregua su cui si realizza l’assetto degli interessi delle parti (coinvolte nel rapporto); e la responsabilità viene in considerazione solo per la inosservanza del vincolo e come mezzo succedaneo per ristabilirne la forza fattuale». 140
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è, comunque, necessario che ricorrano anche le altre componenti della fattispecie, quali l’elemento soggettivo, il nesso di causalità e l’evento pregiudizievole146. In base a tale impostazione, la responsabilità civile non è più ancorata all’idea di illecito e di antigiuridicità della condotta, ma, è, al contrario, focalizzata sul carattere di ingiustizia del danno, che diventa un elemento costitutivo della responsabilità extracontrattuale a prescindere da qualunque legame con il fatto illecito. 4.2. Il danno ingiusto come danno non iure e contra ius Nella nuova prospettiva della responsabilità, intesa come reazione al danno ingiusto, si colloca l’importante teoria, elaborata da Schlesinger, che identifica l’ingiustizia del danno nell’assenza delle esimenti di responsabilità, denominate cause di giustificazione. Questa impostazione muove dalla necessità di contemperare il principio del neminem laedere con lo svolgimento di tutte le attività che l’ordinamento giuridico intende tutelare e proteggere. Le due esigenze contrapposte possono essere equilibrate, secondo Schlesinger, attraverso il riconoscimento dell’ingiustizia del danno come elemento costitutivo della responsabilità extracontrattuale147 e la corrispondente esclusione dell’antigiuridicità, intesa come violazione della norma giuridica148. In particolare, non sussistendo alcuna
R. Scognamiglio, voce Responsabilità civile, cit., p. 638. P. Schlesinger, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, cit., p. 342 ss.: «Naturalmente, però, se non si vuole correre il rischio di paralizzare ogni iniziativa, occorre conciliare l’obbligo di non danneggiare gli altri con l’opposta esigenza di tutelare lo svolgimento delle attività che l’ordinamento ritiene siano da incoraggiare e proteggere. Il momento conciliativo è realizzato proprio inserendo tra i presupposti della responsabilità per danni il requisito dell’ingiustizia: con questa interpretazione danno ingiusto significa danno non giustificato, danno arrecato senza che il fatto lesivo sia autorizzato da una norma, senza che il comportamento pregiudizievole sia posto in essere nell’esercizio di una facoltà concretamente attribuita dall’ordinamento». 148 P. Schlesinger, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, cit., p. 341. Secondo l’Autore, per ampliare l’ambito di applicabilità della responsabilità extracontrattuale, evitando che la risarcibilità del danno sia condizionata all’esistenza 146
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coincidenza tra antigiuridicità e ingiustizia del danno, Schlesinger ritiene che l’ingiustizia corrisponda all’assenza di un diritto del danneggiante rispetto al compimento dell’atto lesivo. Il danno ingiusto diventa, così, il danno arrecato non iure. Quando si parla di diritto non si fa, però, riferimento ad una situazione giuridica di pretesa tutelata dall’ordinamento giuridico, ma, bensì, alla valutazione favorevole dell’ordinamento giuridico rispetto ad un’attività svolta dal soggetto149. In questo caso, il legislatore attribuisce al soggetto una facoltà, cioè lo autorizza al compimento di un determinato atto. Tale autorizzazione comporta che gli eventuali danni arrecati da tale attività non possano essere considerati ingiusti e, di conseguenza, non diano origine alla responsabilità extracontrattuale150. La risarcibilità del danno non è, dunque, più condizionata al fatto che l’interesse leso sia tutelato dall’ordinamento giuridico, ma è legata all’esistenza di norme poste a protezione dell’interesse del danneggiante, che viene autorizzato dall’ordinamento giuridico a svolgere una determinata attività. Di conseguenza, la mancanza di una norma proibitiva rispetto alla realizzazione di un determinato atto pregiudizievole non autorizza, pertanto, il soggetto a compiere quel determinato atto in assenza di una previsione specifica da parte del legislatore151. Tutte le ipotesi in cui l’ordinamento giuridico attribuisce una facoltà ai soggetti rispetto al compimento di un determinato atto
di una norma giuridica (che abbia ad oggetto la tutela di un diritto soggetto o di un interesse), è necessario escludere l’antigiuridicità dai presupposti costitutivi della responsabilità. 149 P. Schlesinger, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, cit., p. 343 ss. 150 P. Schlesinger, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, cit., p. 344 e in particolare nota 25: «Solo in tal modo il concetto di “facoltà”, così spesso apoditticamente inserito tra le situazioni soggettive, può essere distinto, per una sua specifica rilevanza giuridica, dal generico concetto del lecito: vi è attribuzione di facoltà quando l’ordinamento autorizza un comportamento non semplicemente in quanto non lo proibisce, ma nel senso che esclude la ingiustizia degli eventuali danni ed offese che possano derivarne, rendendo perciò inapplicabili le norme sulla responsabilità civile e sulla impedibilità dell’evento per legittima difesa». 151 P. Schlesinger, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, cit., p. 344 ss.
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lesivo, prendono il nome di cause giustificative o cause di giustificazione. Ad esempio, nella legittima difesa, la reazione è subordinata all’ingiustizia dell’offesa, intesa come assenza di norme autorizzative, poste a protezione dell’interesse di cui è titolare il danneggiante152. Nella teoria di Schlesinger, il concetto di ingiustizia del danno si stacca completamente dal concetto di illiceità, nel senso di violazione di norme proibitive, e, di conseguenza, l’ingiustizia non può essere esclusa, là dove l’atto non sia autorizzato, ma semplicemente lecito, cioè realizzato in assenza di norme proibitive. In questo modo, tra gli atti leciti e illeciti si inserisce una terza categoria, che è quella degli atti autorizzati153. È interessante notare come questa costruzione teorica riconduca tutte le cause di giustificazione del danno ad un principio comune. Nel momento in cui l’ordinamento autorizza lo svolgimento di una determinata attività, attribuisce al soggetto danneggiante la facoltà di compiere quel determinato atto, anche se dannoso. Alla base delle cause di giustificazione, compresa la legittima difesa, vi è, dunque, l’esercizio di una facoltà attribuita dal legislatore. La necessità di un’esplicita previsione normativa determina, così, la costruzione di un sistema tipico in materia di cause di giustificazione154.
152 P. Schlesinger, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, cit., p. 344 e, in particolare, nota 24. 153 P. Schlesinger, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, cit., p. 344: «Le categoria che permettono di inquadrare l’attività umana sono tre e non due: dagli atti meramente leciti perché non vietati, occorre distinguere gli atti che non soltanto sono tollerati, ma devono considerarsi addirittura autorizzati, posti in essere nell’esercizio di un diritto, che, perciò, ne protegge il compimento». 154 Questa situazione di tipicità delle cause di giustificazione viene aspramente criticata da P. Trimarchi, voce Illecito, in Enc. Dir., XX, Torino, 1970, p. 965, secondo il quale esistono dei casi di esclusione della responsabilità extracontrattuale che, sebbene non disciplinati dall’ordinamento giuridico, sono, comunque, ritenute applicabili. Ad esempio, non costituisce un’attività illecita, sebbene non sia giustificata da un’esplicita norma giuridica, il comportamento della banca che richiede informazioni commerciali circa la solvibilità di una determinata persona. In generale, l’Autore ritiene che il riferimento alle sole cause di giustificazione non possa considerarsi, comunque, sufficiente rispetto all’esclusione della responsabilità extracontrattuale, perché l’applicazione o meno delle sanzioni civili dipende anche da altri fattori, quali, ad esempio, la difficoltà e il costo applicativo relativo
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La ricostruzione dell’ingiustizia del danno, così come articolata da Schlesinger, ha permesso di estendere l’area di risarcibilità oltre i diritti soggettivi, risolvendo una delle principali criticità della teoria precedentemente esposta, che basava il concetto di ingiustizia sulla violazione delle norme giuridiche, poste a protezione di diritti assoluti. L’ingiustizia, infatti, non ha più la funzione di determinare i danni giuridicamente rilevanti, perché è completamente slegata dal concetto di antigiuridicità nel senso sopra delineato. In questo modo la risarcibilità del danno viene estesa a tutti i casi in cui avvenga la lesione di interessi giuridicamente rilevanti155. Seguendo tale impostazione, si potrebbe verificare, almeno potenzialmente, un’eccessiva dilatazione dell’ambito applicativo della responsabilità extracontrattuale, con ovvie ripercussioni sull’ordinamento giuridico generale. Per scongiurare tale pericolo, viene proposta un’applicazione rigorosa del nesso di causalità giuridica. La risarcibilità dei danni viene, in questo modo, limitata alle sole circostanze che siano conseguenza immediata e diretta del fatto illecito156. Di conseguenza, l’art. 1223 c.c. deve essere necessariamente
a determinate regole giuridiche. L’esclusione della responsabilità extracontrattuale può, dunque, dipendere da ragioni estranee all’esistenza di cause di giustificazione ed essere legato esclusivamente a ragioni di mera opportunità. Su queste basi, il concetto di danno ingiusto come danno arrecato in assenza di cause di giustificazione non si distinguerebbe dal concetto di ingiustizia corrispondente alla violazione di divieti specifici. Alla base delle due impostazioni vi sarebbe, secondo l’Autore, un’operazione identica: si traccia, infatti, in base ad esigenze di utilità individuale e sociale, la linea di demarcazione tra lecito e illecito. In riferimento alla tipicità delle cause di giustificazione v. anche R. Sacco, L’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c., in Foro Pad., 1960, I, c. 1438, secondo il quale, se la legge avesse voluto imporre il principio di atipicità dell’illecito e di tipicità delle cause di giustificazione avrebbe riferito le conseguenze risarcitorie al “danno che non sia giusto” e non al danno ingiusto, elevando, così, l’ingiustizia del danno da elemento costitutivo ad elemento impeditivo della fattispecie. 155 E. Navarretta, Il danno ingiusto, in La responsabilità e il danno, III, L’attuazione e la tutela dei diritti, IV, Diritto civile, diretto da N. Lipari e P. Rescigno, coordinato da A. Zoppini, Milano, 2009, cit., p. 143: «L’esito dirompente è che qualsiasi danno, anche derivante dalla lesione di un interesse di mero fatto, diviene risarcibile, in assenza di una causa di giustificazione legale». 156 P. Schlesinger, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, cit., p. 346 ss.
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applicato non solo per determinare l’entità dei danni risarcibili, ma anche per identificare i danni oggetto di risarcimento157. Come emerge da quanto illustrato, Schlesinger analizza e qualifica l’ingiustizia del danno a partire dalla condotta non iure realizzata dal soggetto danneggiante. L’analisi viene, dunque, portata avanti secondo una prospettiva del tutto unilaterale, che non tiene conto dell’avvenuta lesione della situazione giuridico soggettiva facente capo al soggetto danneggiato. A partire da questa constatazione e dall’esigenza di maggiore esattezza nella delimitazione del danno risarcibile, la dottrina successiva, a partire da Busnelli, ha ampliato la definizione di ingiustizia del danno, comprendendo non solo il comportamento non iure del danneggiato, ma anche la lesione della situazione giuridica protetta158. Si è, così, prospettata una nuova
P. Schlesinger, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, cit., p. 346 ss.: «(…) deve dirsi che, all’interno del fatto, la imputazione dell’evento dannoso del soggetto avviene in base ai criteri del dolo e della colpa: ma, all’esterno del fatto, per la determinazione dei danni concretamente risarcibili, interviene la diversa regola fissata dall’art. 1223, alla quale l’art. 2043 fa implicito rinvio, mediante il riferimento ai danni “cagionati” dal fatto». Contro l’applicazione del nesso di causalità, come elemento sufficiente ad evitare un’eccessiva dilatazione dell’area dei danni risarcibili: F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, Milano, 1964, p. 71 ss., nota 57: «Verrebbe, così, a mancare un sicuro criterio di delimitazione del danno risarcibile. Né, a rispondere a questa evidenza esigenza, appare evidente la verifica della “immediatezza” del danno ex art. 1223, poiché vi sono danni che, pur essendo “conseguenze immediate e dirette” si ricollegano alla lesione di un interesse di mero fatto del danneggiato: onde l’ammetterne la risarcibilità (qualora derivino da un comportamento non iure del danneggiato, ci sembra eccessivo. A nostro avviso, in conclusione, la verifica del nesso di causalità tra fatto conseguenze dannose non esclude (né si confonde) con la “cernita degli interessi”, volta a identificare gli interessi (giuridicamente protetti) la cui lesione costituisce un idoneo presupposto di “ingiustizia del danno”». F. D. Busnelli riprende quanto già espresso da E. Betti, in Teoria generale delle obbligazioni, I, Prolegomeni: funzione economico-sociale dei rapporti d’obbligazioni, Milano, 1953, p. 137, secondo il quale la sussistenza del nesso di causalità non può essere sufficiente per accertare la risarcibilità dei danni. È infatti, necessario che sussista un nesso di correlatività tra l’interesse leso e il comportamento posto in essere dal danneggiante. Potrebbe, infatti, accadere che l’interesse venga protetto dall’ordinamento giuridico, ma nell’ambito di rapporti diversi da quello in cui si è verificata la lesione. 158 F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 72 ss. Secondo l’Autore, una prospettiva che guardasse solamente al danneggiato oppure al dan157
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concezione di ingiustizia, che guarda, non solamente al danneggiato e alla sua tutela, ma anche alla situazione contrapposta in cui si trova il danneggiante159. L’accertamento dell’ingiustizia si basa, infatti, su una doppia analisi, volta ad accertare la sussistenza di un presupposto soggettivo e di un presupposto oggettivo. Il presupposto soggettivo riguarda il comportamento realizzato dal danneggiante, che deve qualificarsi come un comportamento non iure160. Il comportamento non iure deve essere ravvisato in tutti quei casi in cui il danneggiante abbia agito al di fuori dei propri diritti soggettivi, senza essere stato autorizzato dal titolare della situazione giuridica lesa (è il caso del consenso dell’avente diritto) oppure dalla legge stessa, come nelle ipotesi della legittima difesa e dello stato di necessità161. Il presupposto per l’applicabilità delle esimenti di responsabilità è, dunque, un comportamento del soggetto, che abbia oltrepassato la sfera dei propri diritti soggettivi, causando un danno ad un terzo. In queste ipotesi, le esimenti intervengono per autorizzare il comportamento lesivo posto in essere.
neggiante avrebbe delle ripercussioni negative in termini di certezza del sistema. Infatti, nel caso in cui si guardasse unicamente alla posizione del danneggiato, il danno ingiusto potrebbe scaturire anche da un comportamento del tutto autorizzato da parte del soggetto danneggiato. 159 V. Scalisi, Ingiustizia del danno e analitica della responsabilità civile, in Riv. dir. civ., 2004, p. 50, muovendo da queste basi ha paragonato l’ingiustizia ad «un Giano bifronte, che guarda fondamentalmente alla vittima e alla sua tutela, ma senza perdere di vista la contrapposta situazione del danneggiante, anzi avendo essenzialmente di mira pure la situazione dell’autore del fatto lesivo». 160 F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 71 ss. Sul punto l’Autore riprende la posizione di C. Maiorca, voce Colpa civile (teoria generale), in Enc. dir., VII, Milano, 1960, p. 543: «(…) la determinazione della «ingiustizia» non può assumersi esclusivamente dal punto di vista del «danneggiante» o da quello del «danneggiato», bensì in una considerazione correlativa di entrambi. E il punto di vista del «danneggiante» non è già quello di chi «viola» la norma, bensì quello di chi esercita (o meno) un proprio potere; sicché non v’è lesione giuridica là dove si estende l’uti iure del «danneggiante». E i confini di tale uti iure sono definiti dalla determinazione normativa quale si ricava da tutte quelle norme, di diritto privato o di diritto pubblico, ove variamente «obblighi» o «divieti» stabiliscono limiti della libertà privata». 161 F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 72 ss.
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Alla base di questa impostazione vi è il riconoscimento di un principio generale, in forza del quale «un fatto non può dirsi antigiuridico se non quando il suo autore lo ha compiuto agendo al di fuori della sfera dei propri diritti soggettivi»162. Tale principio è desumibile dall’art. 51 c.p., che annovera l’esercizio del diritto tra le cause di non punibilità del reo163 e rappresenta il punto di partenza per l’analisi e il corretto inquadramento del concetto stesso di ingiustizia del danno164. In virtù di ciò, di norma, chi esercita un proprio diritto soggettivo non può causare un danno ingiusto ad altri. In questo senso, l’ingiustizia del danno viene esclusa, là dove la lesione sia stata causata nell’esercizio di un diritto da parte del danneggiante165. Il principio “qui iure suo utitur neminem laedit”, espresso dal l’art. 51 c.p., diventa, così, una regola generale nel sistema dell’ingiustizia del danno. Le altre cause di giustificazione possono presentarsi come delle eccezioni rispetto alla regola generale, nell’ipotesi in cui si circoscriva la loro applicabilità ai casi di «sconfinamento nell’esercizio del diritto soggettivo»166. La legittima difesa e lo stato
F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 73 ss. F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 74. Anche P. Schlesinger, La “ingiustizia” del danno nell’illecito civile, cit., p. 344, muove dall’idea dall’art. 51 c.p. per motivare l’esistenza del principio generale, in virtù del quale «“ingiusto” è ogni comportamento dannoso non posto in essere nell’esercizio di un diritto». Tuttavia, il concetto di diritto, come già precedentemente approfondito, corrisponde secondo P. Schlesinger all’attribuzione di una facoltà da parte del legislatore. Sembrerebbe, al contrario, che nella teoria elaborata da F. D. Busnelli si faccia riferimento ad una situazione giuridico soggettiva di pretesa, esclusa, al contrario, da P. Schlesinger. 164 F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 74, riprende quanto già sostenuto da C. Maiorca, voce Colpa, cit., p. 538: «Dovrebbe esser chiaro che l’uti iure, ben più che una circostanza esclusiva dell’antigiuridicità, è il punto di partenza da cui soltanto si può considerare il problema stesso della ingiustizia del danno. Basterebbe por mente al profondo significato della proposizione qui iure suo utitur neminem laedit, ove il concetto della «lesione» si afferma già in termini di ingiustizia». 165 Sul tema: C. Maiorca, voce Colpa, cit., p. 538: «Lesione» è il «danno ingiusto», e non v’è lesione, cioè non v’è ingiustizia del danno, se questo è stato posto in essere nell’esercizio di un diritto». 166 F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 75. 162
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di necessità interverrebbero, dunque, in quei casi in cui il soggetto abbia oltrepassato i limiti del proprio diritto. La situazione cambia nel caso in cui si ritenga che la legittima difesa e lo stato di necessità siano esplicazione di diritti peculiari attribuiti ai soggetti, che vanno ad integrare la sfera giuridico-soggettiva di un ognuno. In questo caso, l’atto lesivo compiuto in presenza di una causa di giustificazione equivarrebbe all’esercizio di un diritto e le stesse cause di giustificazione costituirebbero, così, delle specificazioni rispetto al principio generale di cui all’art. 51 c.p.167. Per quanto concerne, invece, l’elemento oggettivo dell’ingiustizia – vale a dire la lesione della situazione giuridico soggettiva – tale dottrina restringe l’area della risarcibilità a tutti gli interessi giuridicamente tutelati, là dove sia individuabile un rapporto di correlazione tra la protezione dell’interesse e il comportamento lesivo realizzato dal terzo. L’esistenza di un rapporto di correlazione implica che la protezione normativa, di cui gode l’interesse leso, sia effettivamente finalizzata a tutelarlo da quel tipo di comportamenti lesivi168. Così come nella teoria elaborata da Schlesinger, anche in questo caso, l’ingiustizia del danno coincide con l’antigiuridicità della condotta, intesa come condotta lesiva realizzata in assenza di cau-
F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 75. La posizione di F. D. Busnelli, inizialmente propenso a concepire le cause di giustificazione come eccezioni rispetto alla regola generale, cambia nella sua opera successiva, Id., voce Illecito civile, in Enc. Giur., XV, Roma, 1991, p. 12, dove parla di specificazioni rispetto alla regola generale sopra evidenziata. Nell’opera più recente F. D. Busnelli richiama, altresì, le posizioni di L. Bigliazzi Geri, che si avrà modo di approfondire nel paragrafo successivo. 168 Per quanto concerne la necessità di un rapporto di correlatività, F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 88, richiama sul punto la posizione espressa da E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, cit., p. 137 ss.: «È infatti, necessario che sussista un nesso di correlatività tra l’interesse leso e il comportamento posto in essere dal danneggiante. Potrebbe, infatti, accadere che l’interesse venga protetto dall’ordinamento giuridico, ma nell’ambito di rapporti diversi da quello in cui si è verificata la lesione». F. D. Busnelli, però, non accoglie l’impostazione di E. Betti, secondo il quale il rapporto di correlatività presuppone che vi sia stato un rapporto o contatto sociale tra il danneggiato e il danneggiante. 167
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se di giustificazione. In questo senso, l’ingiustizia del danno viene ricondotta ad un carattere peculiare del comportamento realizzato dal danneggiante, trasponendo, così, il requisito dell’ingiustizia alla condotta169. Il carattere di ingiustizia viene, infatti, riferito non più al danno, ma alla condotta e, per effetto della sovrapposizione tra ingiustizia del danno e antigiuridicità della condotta, si sovrappongono due piani, in realtà distinti, relativi all’individuazione del responsabile e all’ingiustizia della lesione170. In questo modo, secondo alcuni, si farebbe riemergere l’antigiuridicità della condotta tra gli elementi costitutivi della responsabilità extracontrattuale171. In realtà, è la non antigiuridicità della condotta, realizzata in presenza di una causa di giustificazione, a costituire un elemento impeditivo per il sorgere della responsabilità extracontrattuale172. Oltre alle problematiche teoriche sopra descritte, l’identificazione tra ingiustizia del danno e assenza di cause di giustificazione
C. Castronovo, Responsabilità civile, Milano, 2018, p. 62 ss., e G. VisinTrattato breve della responsabilità extracontrattuale, III ed., Padova, 2005, p. 499: «(…) in questo ordine di pensiero, si ignorava la lettera del codice e si interpretava l’espressione ‘danno ingiusto’ come ‘danno non giustificato’ da una condotta lecita e comunque autorizzata, trasponendo, a veder bene, la qualificazione in parola dal danno all’azione lesiva». 170 G. Visintini, Trattato breve della responsabilità extracontrattuale, cit., p. 499. 171 C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., p. 63: «(…) vuol dire accollare all’ingiustizia la funzione di fare emergere l’antigiuridicità sul piano della lettera della legge, quasi che, se il legislatore del 1942 non avesse aggiunto l’ingiustizia a requisito del danno, sarebbe venuta a mancare la (necessaria) qualificazione dell’azione come azione antigiuridica». L’Autore riprende, in maniera approfondita quanto già espresso in Id., Problema e sistema nel danno da prodotti, cit., p. 146 ss. 172 C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., p. 63 ss.; sulla stessa linea M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, cit., p. 9, nota 8: «Tale tesi suscita perplessità sotto il profilo dogmatico, sia perché la qualifica dell’ingiustizia potrebbe essere equivocamente riferita ora al comportamento ed ora al danno, sia perché le varie cause di giustificazione, dirette ad eliminare la responsabilità penale, e talvolta, anche quella civile, sembrano operare dall’esterno della fattispecie di responsabilità, venendo a collisione con essa, e non sembrano integrare il requisito dell’ingiustizia di per sé stabilmente delimitati all’interno della fattispecie stessa». 169
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porterebbe secondo la critica a diverse problematiche sul piano applicativo, principalmente per quanto concerne la ripartizione dell’onere probatorio. Infatti, in base all’art. 2697 c.c., il soggetto danneggiato ha l’onere di provare gli elementi costitutivi della fattispecie. Ciò comporta che il danneggiato dovrebbe provare l’assenza delle cause di giustificazione della condotta, dovrebbe cioè dimostrare l’inesistenza delle cause di giustificazione, dando la prova di un fatto meramente negativo con tutte le difficoltà del caso173. Si rileva, altresì, che, trattandosi di elementi impeditivi della fattispecie, le cause di giustificazione sono da sempre ricomprese nel carico probatorio del convenuto in qualsiasi giudizio di responsabilità, anche al di fuori dell’ambito prettamente civilistico174. Nonostante le critiche avanzate, la qualificazione del danno ingiusto nei termini sopra delineati, ha trovato larga applicazione in sede giurisprudenziale175. Il danno ingiusto viene, dunque, descritto dai giudici come danno “non iure” e “contra ius”. Il concetto di danno “non iure” è rimasto sempre ancorato all’assenza di cause di giustificazione, mentre la qualifica di “contra ius” ha subito nel tempo un’evoluzione nella definizione delle situazioni giuridico soggettive tutelate. Inoltre, le obiezioni sollevate sul piano probatorio sono rimaste ad un livello meramente teorico, nel senso che l’identificazione tra ingiustizia del danno e assenza delle cause di giustificazione non ha modificato la ripartizione dell’onere probatorio sopra delineata. C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., p. 64. C. Castronovo, Responsabilità civile, cit., p. 64: «(…) le quali, come elemento impeditivo di una responsabilità che nascerebbe altrimenti in conseguenza della violazione della sfera giuridica altrui, da sempre fanno parte dell’onere di prova del convenuto nel giudizio di responsabilità, non soltanto in materia civile». 175 SS.UU., 26 gennaio 1971, n. 174, in Foro. it., 1971, I, c. 342; SS. UU., 24 giugno 1972, n. 2135, in Foro it., 1973, I, c. 99; Cass. civ., 23 aprile 1975, n. 1582, in Temi, 1975, p. 266; Cass. civ., 1° aprile 1980, n. 2105, in Foro it., 1980, I, c. 388; Cass. civ., 11 febbraio 1995, n. 1540, in Giust. civ., 1996, I, p. 2395; Cass. civ., 13 dicembre 2012, n. 22890, in Resp. civ. prev., 2013, 644; Trib. Milano, 14 febbraio 2000, in Giur. mil., 2000, p. 454, Trib. Lecce sez. I, 4 marzo 2019, n. 782, in banca dati, DeJure, Giuffré. 173
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Ciò emerge, in maniera particolarmente evidente nelle pronunce, seppur esigue, in materia di legittima difesa, in virtù delle quali il soggetto aggredito ha l’onere di dimostrare la riconducibilità della propria condotta alla scriminante in oggetto nel rispetto del “principio di riferibilità e vicinanza della prova”176. La “riferibilità e vicinanza della prova” rappresenta un principio di carattere generale, su cui è costruito il modello di ripartizione dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c.177. In base a tale principio, il fatto storico, per poter essere considerato oggetto dell’onere probatorio, oltre che essere determinato, deve ricadere all’interno della sfera di dominio dell’onerato. Ciò significa che quest’ultimo deve essere in grado di percepire e controllare il fatto. Solo in questo caso, infatti, l’onerato può assumerlo come oggetto di prova, predisponendo, dunque, i mezzi necessari al suo accertamento178. Seguendo tale definizione, è indubbio che la legittima difesa sia un fatto che rientra nella sfera di dominio del soggetto aggredito e non in quella dell’aggressore. L’attribuzione dell’onere probatorio in capo all’aggredito rispetta, dunque, il “principio di riferibilità della prova”, che è funzionale al corretto funzionamento dell’onere probatorio.
Cass. civ., 29 gennaio 2016, n. 1665, cit.; sulla ripartizione dell’onere probatorio in materia di legittima difesa nel giudizio civile: Cass. civ., 25 febbraio 2009, n. 4492, in Giust. civ., 2009, I, 1542. 177 G.M. Uda, La prova del pagamento, Padova, 2008, p. 28: «(…) il principio di riferibilità della prova opera come principio generale nella cui direttrice è costruito il modello ripartitorio dell’art. 2697 c.c. Presupposto perché l’art. 2697 c.c. trovi applicazione, in definitiva, è che il principio di riferibilità sia salvaguardato». 178 G.M. Uda, La prova del pagamento, cit., p. 26 ss. (in particolare nota 82): «Se così non fosse, si dovrebbe ammettere una situazione giuridica soggettiva di onere il cui oggetto sia scisso dal potere di azione, la qual cosa è però incompatibile con la stessa figura di onere e, più in generale, della situazione giuridica soggettiva, mentre sul piano applicativo si avrebbe un onere della prova secondo il quale all’onerato sarebbe precluso l’esercizio del relativo potere, ossia sarebbe impossibilitato a fornire la prova richiesta». 176
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5. Il diritto alla legittima difesa. Problematiche ricostruttive 5.1. Le origini del diritto alla legittima difesa L’esistenza di un diritto soggettivo alla legittima difesa viene teorizzato dalla dottrina a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. Prima di allora i contributi sul tema erano piuttosto esigui e si concentravano, soprattutto, sull’analisi delle categorie generali. Una parte della dottrina riteneva che la liceità della reazione da parte dell’aggredito non potesse determinare in via automatica il riconoscimento di un diritto soggettivo. Il fatto che la reazione non fosse vietata dall’ordinamento giuridico non implicava, dunque, l’esistenza di una posizione soggettiva tutelata dall’ordinamento giuridico179. Secondo questa visione, per affermare l’esistenza di un
G. Cian, Antigiuridicità e colpevolezza, Milano, 1966, p. 160 ss. Sebbene la posizione seguita da Cian venga elaborata a partire da un’analisi critica della dottrina tedesca (su questo punto v. H. J. Hirsch, Die Lehre von den negativen Tatbestandsmerkmalen, der Irrtum über einem Rechtfertigungsgrund, Röhrscheid, 1960, p. 275 ss., in particolare p. 276, secondo il quale l’obbligo di tollerare un determinato comportamento può essere accettato nella misura in cui si afferma l’esistenza di un diritto soggettivo in capo all’autore della causa di giustificazione), la sua impostazione ricalca quanto già espresso prima della codificazione del 1942 da F. Ferrara, Trattato di diritto civile italiano, v. 1, p. I, Roma, 1939, p. 326 ss.: «Se un atto non è vietato, si dice che è anche un diritto. Così si parla di un diritto alla legittima difesa, d’un diritto di libertà, d’un diritto di associazione, d’un diritto di usare e godere del proprietario. Dal fatto che un comportamento è libero, si deduce, accentuando la negazione dell’illiceità, che è anche autorizzato. Ora, se il diritto soggettivo è il potere corrispondente al dovere giuridico, e precisamente il potere di esigere a proprio vantaggio la realizzazione delle norme, è palese che in tutti gli atti giuridicamente leciti manca un obbligo correlativo. La sfera del giuridicamente lecito si svolge fuori dai doveri giuridici, è lo spazio rimasto bianco nel circolo delle norme. Si tratta di un campo extragiuridico in cui si muove la libertà umana nelle sue varie manifestazioni (…) od in cui si realizzano i fini economici ed edonistici dell’individuo. Ora, per questo non c’è bisogno di alcuna speciale concessione della legge. È la sfera dell’io individuale, senza rapporti e contati con i consociati, ed in cui l’uomo domina sovrano. In questa sfera egli può agire o non agire, senza che il diritto per principio si curi del suo operato». L’impostazione portata avanti da Ferrara è stata fortemente criticata da D. Barbero, sostenitore della teoria del diritto soggettivo come agere licere, in Studi di teoria generale del diritto. Diritto naturale e diritto positivo. Diritto soggettivo e credito, Milano, 1953, p. 119 ss, nota 58. 179
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diritto soggettivo, è necessario che l’ordinamento giuridico garantisca l’attuazione di un determinato comportamento, attraverso la previsione di imperativi diretti agli altri consociati180. Nel caso della legittima difesa, la reazione da parte dell’aggredito è solamente consentita dall’ordinamento giuridico, nel senso che non è vietata e, dunque, è esclusa, la responsabilità dell’aggredito. Non è possibile, tuttavia, individuare un diritto alla legittima difesa, perché non è configurabile una speculare posizione giuridica passiva in capo all’aggressore. L’aggredito non può vantare alcuna pretesa nei confronti dell’aggressore e, di conseguenza, quest’ultimo può legittimamente reagire alla difesa, senza che il suo comportamento comporti la violazione di un dovere giuridico181.
G. Cian, Antigiuridicità e colpevolezza, cit., p. 161: «Ma il semplice non essere vietato, (…), non basta per dire che esiste un diritto soggettivo a compiere quell’atto, se un altro individuo può, con la forza impedirne il compimento senza a sua volta commettere un illecito. Finché il rapporto rimane sul piano della forza materiale non abbiamo un diritto soggettivo. Perché si possa dire che l’ordinamento giuridico attribuisce ad un individuo il diritto soggettivo di compiere una certa attività, non basta che non ne punisca la realizzazione, ma è necessario che esso appresti gli strumenti atti a dare concretamente al singolo il modo di attuare quel comportamento, e ciò mediante corrispondenti imperativi diretti agli altri consociati». Inoltre, secondo l’Autore l’identificazione del diritto soggettivo come agere licere, non sarebbe sufficiente a giustificare l’esistenza di un diritto all’autodifesa (v. nota 47, p. 161). In senso analogo, nella dottrina tedesca più risalente v. A. Thon, Norma giuridica e diritto soggettivo. (Rechtsmor undsubjectives Recht). Prima traduzione con studio introduttivo ed annotazioni, Padova, 1939, p. 18: «Sarebbe, tuttavia, inesatto parlare di un diritto alla legittima difesa. Ogni volta che questa sia concessa, è con ciò restituita a chi si difende solo la libertà del proprio agire. (…) non tutto ciò ch’è permesso può essere ricondotto ad un diritto. La legittima difesa solo allora diverrebbe diritto, quando essa fosse non solo permessa, bensì garantita (gewährleister) dall’ordinamento giuridico: quando la volontà generale avesse dato alla difesa del singolo una base ancora più solida con l’imporre in modo particolare all’aggredito di tollerare la legittima difesa. Ma un tale imperativo non si troverà mai. E se si volesse concepire la legittima difesa come un diritto, la stessa non sarebbe spettata agli schiavi che non erano soggetti di diritto». 181 G. Cian, Antigiuridicità e colpevolezza, cit., p. 161. L’analisi di Cian sull’esistenza o meno di un diritto soggettivo alla legittima difesa si inserisce in uno studio molto più ampio, relativo al rapporto tra antigiuridicità e tipicità, e alla relazione tra norme imperative e norme permissive. 180
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Un riconoscimento, seppur implicito, del diritto all’autodifesa, è, invece, riscontrabile, in tutti quei casi in cui la dottrina ha ricondotto la fattispecie nell’ambito del conflitto di diritti. Il conflitto nasce nel momento in cui si verifichi un’aggressione, che determini la necessità di una reazione da parte dell’aggredito182. A seguito di ciò, si viene a creare una situazione in cui il diritto dell’aggredito e quello dell’aggressore si trovano in una posizione di conflitto irrimediabile. In questa situazione, la tutela apprestata dall’ordinamento giuridico implica che debba essere data prevalenza al diritto che subisce l’aggressione183. Secondo questa visione, la difesa individuale consentirebbe il mantenimento dell’ordine giuridico, impedendo che avvenga la lesione184. La legittima difesa perseguirebbe, dunque, una funzione specifica, preliminare al verificarsi dell’illecito, che la distinguerebbe rispetto alla tutela statuale, che interviene, al contrario, in un momento successivo, per riparare ad un torto già verificatosi 185. La reazione da parte del soggetto aggredito non viene, comunque, lasciata totalmente libera, perché l’ordinamento giuridico interviene per delimitarne i confini, escludendo dall’ambito applicativo della legittima difesa la c.d. reazione arbitraria186. L’esistenza di un conflitto di diritti veniva individuata dalla dottrina non solo nella legittima difesa, ma anche nello stato di necessità187. Venivano, però, individuato degli elementi distintivi tra i due istituti. Nella legittima difesa, a differenza dello stato di necessità, la prevalenza accordata dalla legge al diritto dell’aggredito si esplica G. Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, cit., p. 238 ss., ed in particolare p. 245: «La cessazione della responsabilità di un torto causato in difesa del diritto è possibile soltanto nel conflitto di diritti, dove la causa indiretta risale al fatto di chi attaccando il diritto altrui ne rende necessaria a proprio danno la difesa». 183 G. Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, cit., p. 245: «Questo conflitto di risolve colla prevalenza assoluta del diritto attaccato, coll’esclusione della responsabilità, in quanto per la tutela dell’ordine giuridico è necessario impedire che avvenga il torto, piuttosto che aspettare di rimuoverlo o di ripararlo». 184 G. Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, cit., p. 239 ss. e 245. 185 G. Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, cit., p. 240. 186 G. Venezian, Danno e risarcimento fuori dei contratti, cit., p. 240. 187 S. Pugliatti, voce Alterum non laedere, in Enc. dir., II, Milano, 1958, p. 102. 182
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in maniera piena ed assoluta, senza nessun limite. Ciò, invece, non era riscontrabile nello stato di necessità, che, seppur determinando l’esclusione di responsabilità dell’aggredito, comportava, comunque, un risarcimento del danno188. Il riconoscimento di un conflitto di diritti nelle due ipotesi sopra descritte, sembrerebbe scontrarsi con il concetto di conflitto, così come teorizzato in ambito dottrinale. Nella sua opera più significativa sul tema, Natoli esclude, infatti, che possa ravvisarsi un conflitto tra diritti della personalità oppure tra diritti della personalità e altre tipologie di diritti189. L’Autore ritiene, infatti, che non sia ammissibile la coesistenza di tali diritti in capo a soggetti diversi e che, quindi, manchi uno dei requisiti essenziali, perché possa parlarsi di un conflitto di diritti190. Secondo tale teoria, la coesistenza di più diritti si verifica, infatti, nei casi in cui questi si riferiscano ad uno stesso bene191 e la personalità, per la sua connotazione, non può costituire «(…) il punto di riferimento del diritto di un altro soggetto, qualunque sia poi la natura di tale diritto»192. Tali considerazioni generali sembrerebbero dunque, escludere, in linea teorica, la sussistenza di un conflitto di diritti nella fattispecie cardine della legittima difesa, quella in cui viene minacciato o leso il diritto alla vita o all’integrità fisica del soggetto. Un discorso a parte riguarda, invece, lo stato di S. Pugliatti, Alterum non laedere, cit., p. 102; vedi anche Id., voce voce Autoresponsabilità, in Enc. dir., IV, Milano, 1959, p. 463. L’Autore non effettua una distinzione esplicita tra le due ipotesi, ma è, comunque, possibile desumerla dalle argomentazioni, seppur esigue, sul punto. («In sostanza l’autore del danno avrebbe messo in moto la causalità fisica, mentre la ragione etico-giuridica, e quindi la responsabilità, risalirebbe a chi prese l’iniziativa prima. Si avrebbe qui un conflitto di diritti causato dall’aggressore. Tale conflitto «si risolve colla prevalenza assoluta del diritto attaccato, coll’esclusione della responsabilità». Esattamente si afferma che «la legittimità della violenza deriva dall’illegittimità dell’offesa ch’essa tende a impedire»). 189 U. Natoli, Limiti e presupposti del conflitto di diritti, in Scritti giuridici in onore di Antonio Scialoja, III, Bologna, 1953, p. 394 ss.; successivamente Id., voce Conflitto di diritti, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., III, 1988. 190 U. Natoli, Limiti e presupposti del conflitto di diritti, cit., p. 394. 191 U. Natoli, Limiti e presupposti del conflitto di diritti, cit., p. 380 ss. 192 U. Natoli, Limiti e presupposti del conflitto di diritti, cit., p. 394. 188
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necessità. In questo caso, infatti, Natoli esclude esplicitamente la sussistenza di un diritto particolare su un bene altrui e, al contempo, l’esistenza di una situazione di interferenza nell’esercizio dei diritti, facenti capo a più soggetti193. Nello stato di necessità non sarebbe, dunque, riscontrabile un’ipotesi di conflitto di diritto, nel significato di esercizio di un diritto, che impedisce o sacrifica l’esercizio di un altro194. Il richiamo al conflitto di diritti nell’ambito di tali fattispecie si riscontra anche nella dottrina più recente, quando si parla di bilanciamento di interessi nel giudizio di responsabilità civile. La tecnica argomentativa del bilanciamento di interessi viene, infatti, utilizzata dal giudice, nei casi in cui si trovi a dirimere un conflitto di diritti tra i due soggetti del rapporto e porta, per l’appunto, all’individuazione di una causa di esclusione della responsabilità. L’esistenza di una causa di esclusione della responsabilità presuppone, dunque, l’esistenza di un conflitto di diritti, che viene risolto dal giudice attraverso la tecnica del bilanciamento di interessi195. Una parte della dottrina ritiene che nella legittima difesa, a differenza di quanto avvenga negli altri casi, la logica del bilanciamento degli interessi sia già esplicitata da parte del legislatore e non sia necessaria una ricostruzione concreta da parte del giudice196. Negli altri casi, in cui U. Natoli, Limiti e presupposti del conflitto di diritti, cit., p. 394 ss.: «(…) qui, non solo manca la coesistenza dei diritti, proprio perché lo stato di necessità non crea un particolare diritto sul bene altrui, ma non vi è neanche la possibilità di una interferenza tra l’esercizio di due diritti». 194 U. Natoli, Limiti e presupposti del conflitto di diritti, cit., p. 394 ss. Nello stato di necessità non si verifica, dunque, secondo Natoli, un’ipotesi di conflitto di diritti, ma «(…) il fine della salvezza di un diritto particolarmente rilevante, che rende meno grave – dal punto di vista della responsabilità dell’agente – la lesione subita dalla sfera giuridica di un altro soggetto. Si è, quindi, anche in questo caso, ben lontani dai termini sia della semplice coesistenza, che del conflitto». 195 N. Rizzo, Giudizi di valore e “giudizio di ingiustizia”, in Europa dir. priv., 2015, p. 335. L’Autore fa riferimento, a tal proposito, allo «(…) scontro tra diritto di cronaca e diritto alla reputazione, considerato come un esempio di bilanciamento definitorio per l’analiticità della formulazione della regola del conflitto e per la stabilità che fa registrare la sua applicazione». 196 E. Navarretta, Il danno ingiusto, cit., p. 256: «In quasi tutte le cause di giustificazione è implicita la logica del bilanciamento di interessi. Talora – come 193
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mancano previsioni analoghe, si ritiene che il bilanciamento debba essere ricostruito concretamente, per verificare la sussistenza o meno delle cause di esclusione della responsabilità. In ogni caso, è opportuno rilevare che la teoria del conflitto di diritti, così come formulata, non fornisce elementi utili a chiarire la sussistenza di un vero e proprio diritto soggettivo alla legittima difesa. Sembra, infatti, almeno nelle formulazioni più risalenti, che non sorga un nuovo diritto avente ad oggetto la tutela del diritto nella legittima difesa – emerge testualmente dalla disciplina legale, talora si deve ricostruire in concreto onde giudicare se la condotta lesiva sia giustificata nella sostanza oltre che nella forma. Siffatta valutazione introduce il controverso tema dell’abuso del diritto». In virtù di ciò, sembrerebbe che il legislatore, nel caso della legittima difesa abbia già indicato i termini del bilanciamento, attraverso l’indicazione del requisito della proporzionalità tra l’azione difensiva e l’aggressione subita. A questo proposito è utile richiamare i “Principles of European Tort Law” (PETL), elaborati dall’European Tort Law Group e pubblicati nel 2005 (tra le varie edizioni: Principles of European Tort Law: Text and Commentary, Wien, 2005). Nello specifico, dall’art. 7.101, che disciplina le diverse cause di giustificazione [(1) Liability can be excluded if and to the extent that the actor acted legitimately a) in defence of his own protected interest against an unlawful attack (self-defence), b) under necessity, c) because the help of the authorities could not be obtained in time (self-help), d) with the consent of the victim, or where the latter has assumed the risk of being harmed, or e) by virtue of lawful authority, such as a licence. (2) Whether liability is excluded depends upon the weight of these justifications on the one hand and the conditions of liability on the other. (3) In extraordinary cases, liability may instead be reduced)], emergerebbe in maniera chiara la necessità di effettuare un bilanciamento degli interessi in gioco tutte le volte in cui si prospetti una delle situazioni previste dalla norma. Ciò viene delineato in modo specifico nei commenti che hanno accompagnato la pubblicazione dei PETL (v. B.A. Koch, in Principles of European Tort Law: Text and Commentary, cit., p. 122 ss.) dove si fa riferimento, a titolo di esempio, alle ipotesi della legittima difesa e del consenso espresso da parte del soggetto danneggiato. In particolare, l’aggressione alla proprietà non potrebbe mai legittimare l’uccisione dell’aggressore, così come il consenso del soggetto non potrebbe mai giustificarne l’uccisione («These grounds of justification are nothing more than the result of weighing the interests in some typical situations. This can be seen, for example, when self-defence is at stake: While the unlawfulness of the attack is certainly a very important factor, it is not the only one to be considered. It is commonly recognized that the endangered interests of the person attacked and the interests of the assailant menaced by the self-defence must be taken into account and, therefore, in defending property of inferior value one is not allowed to kill or even wound the attacker seriously. By the same token, consent of a person does not justify killing him»).
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“attaccato”, ma che, al contrario, il conflitto si prospetti tra il diritto leso e il diritto del soggetto che subisce la reazione da parte dell’offeso. 5.2. Il diritto potestativo alla legittima difesa. Il ruolo dell’autotutela privata Il diritto soggettivo alla legittima difesa è stato elaborato, a partire dalla teoria, già illustrata, che riconduce il danno ingiusto alla duplice qualifica “non iure” e “contra ius”. Secondo questa visione, l’esercizio del diritto rappresenta il presupposto generale per l’esclusione dell’ingiustizia del danno dal punto di vista soggettivo197. Sebbene non regolamentata da parte del legislatore, si tratta di una regola generale, in base alla quale è possibile escludere a priori l’ingiustizia del danno198. In virtù di ciò, nel momento in cui l’atto sia stato compiuto nell’esercizio di un diritto, il danno che ne deriva non può essere qualificato come ingiusto199. L’esercizio del diritto occupa, in particolare, una posizione di centralità nel giudizio di esclusione dell’ingiustizia, perché il valore e il significato delle altre cause di giustificazione, individuate dal legislatore, dipende direttamente dal rapporto con tale causa atipi F. D. Busnelli, Illecito civile, cit., p. 11. F. D. Busnelli, Illecito civile, cit., p. 11; già in F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 74 ss. 199 F. D. Busnelli, Illecito civile, cit., p. 11. L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 58, nota 112. Secondo l’Autrice la tendenza della dottrina maggioritaria è stata, in passato, quella di focalizzare la propria attenzione sul risultato dell’azione dannosa, piuttosto che sull’iter comportamentale che ha portato al verificarsi della lesione. Ciò ha influito in maniera diretta sul modo di concepire le cause di giustificazione, che si ritiene operino rispetto ad “un’ingiustizia”, già verificatasi. Al contrario, seguendo la ricostruzione sopra delineata, L. Bigliazzi Geri ritiene che, trattandosi di esercizio di un diritto, l’ingiustizia deve essere esclusa a priori, in un’ottica in cui muta totalmente la prospettiva di analisi delle cause di giustificazione, che guarda al soggetto agente piuttosto che al danneggiato. Su questo punto si coglierebbe una differenza fondamentale tra il sistema penalistico e quello civilistico. Nel primo caso, infatti, le cause di giustificazione operano a posteriori, nel senso che sono volte ad escludere una situazione di antigiuridicità già realizzatosi. 197 198
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ca200. Nello specifico, la legittima difesa e lo stato di necessità possono presentarsi come eccezioni o specificazioni rispetto a questa regola generale. La diversa connotazione dipende dal riconoscimento o meno di un diritto in capo al soggetto che agisce per legittima difesa o in stato di necessità. Là dove tale diritto non venga riconosciuto, la legittima difesa e lo stato di necessità rappresentano delle mere eccezioni rispetto alla regola generale. La loro applicabilità è, dunque, limitata alle ipotesi in cui si verifichi uno “sconfinamento” nell’esercizio del diritto da parte del titolare201. Lo “sconfinamento” riguarda tutti quei casi in cui la condotta realizzata abbia oltrepassato i limiti della tutela accordata dal legislatore, causando, così, un danno a terzi. Lo stato di necessità e la legittima difesa intervengono, in queste ipotesi, per escludere l’illiceità della condotta, giustificando il danno arrecato202. Ciò significa, dunque, che, di regola, l’esercizio del diritto determina la liceità della condotta lesiva, là dove sia riconducibile entro i confini della tutela delineata dal legislatore. Nel caso in cui ciò non avvenga, possono intervenire le due cause di giustificazione tipizzate, che F. D. Busnelli, Illecito civile, cit., p. 11: «Il sistema della responsabilità civile (…) si ispira, invece, ad un’unica regola generale – l’esercizio del diritto, appunto, postulato, come causa atipica di esclusione di esclusione a priori dell’ingiustizia del danno (…)»; F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 74: «In tale prospettiva, il principio dell’uti iure non può proprio propriamente essere allineato sullo stesso piano di quelle situazioni che, per espressa previsione del codice, escludono o attenuano la responsabilità dell’agente (…)». 201 F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 74 ss. e in particolare nota 65, riferisce la posizione sopra descritta a S. Pugliatti, Alterum non laedere, cit., p. 107, che riconduce le ipotesi della legittima difesa e dello stato di necessità al conflitto di diritti, lasciando, dunque, presupporre l’esistenza di un diritto soggettivo in capo al soggetto agente 202 S. Pugliatti, Alterum non laedere, cit., p. 107: «La tutela giuridica, dunque, segna la linea di confine dell’azione, la quale è legittima, finché si mantiene nei limiti della tutela accordata dall’agente, ma, superati questi limiti, può divenire illecita e diviene illecita diviene illecita tosto che produce lesione dell’altrui interesse tutelato. In ipotesi determinate (rapporti di vicinato, atti emulativi) anche l’azione contenuta nei limiti della tutela accordata all’agente può essere illecita. Viceversa, in altre determinate ipotesi, (legittima difesa, stato di necessità), lo sconfinamento e l’eventuale lesione non costituiscono cause di illecito, o almeno non danno luogo alle normali conseguenze di esso.» 200
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escludono l’ingiustizia del danno arrecato e, di conseguenza, l’illiceità della condotta. Il rapporto tra la regola generale e le due cause di giustificazione cambia, invece, totalmente nel caso in cui si riconosca l’esistenza di diritti specifici alla base della legittima difesa e dello stato di necessità. In questo caso, infatti, le due cause di giustificazione possono essere considerate come specificazioni rispetto alla regola generale203. Le conseguenze che derivano dal riconoscimento di una posizione di vantaggio in capo al soggetto che agisce per legittima difesa o in stato di necessità sono piuttosto rilevanti, sia sul piano teorico sia sul piano applicativo. Come già detto, infatti, se il soggetto agisce nell’esercizio di un diritto è possibile escludere a priori l’ingiustizia del danno arrecato. Di conseguenza, riconoscendo l’esistenza di un diritto, non si porrebbe nemmeno un problema di responsabilità nel caso in cui il danno sia stato arrecato per legittima difesa o in stato di necessità204. Ovviamente, trattandosi di diritti, anche in questi due casi si pone, comunque, il problema di individuare i comportamenti riconducibili all’ambito di tutela attribuito dal legislatore e verificare i casi in cui si sia verificato uno “sconfinamento” rispetto ai confini legislativi205. F. D. Busnelli, Illecito civile, cit., p. 11; F. D. Busnelli, La lesione del credito da parte di terzi, cit., p. 75. Questa visione ricalca quanto già sostenuto, sul piano penalistico, da R. A. Frosali, L’esercizio di un diritto nel sistema delle cause di non punibilità, in Scritti giuridici in onore di Vincenzo Manzini, Padova, 1954, p. 223 ss. ed in particolare p. 226: «(…) ogni volta che la legge prevede una di queste cause di giustificazione (es. consenso dell’avente diritto, difesa legittima) viene ad attribuire, o concorre nell’attribuire (se si richiama anche il diritto extrapenale), il diritto soggettivo di operare nelle condizioni determinanti la liceità del fatto: es. il soggetto aggredito ha diritto di offendere l’aggressore ai sensi dell’art. 52. (…) Ed è facile così constatare anche i rapporti che intercorrono fra la previsione dell’art. 51 e altre previsioni di cause particolari di liceità: l’art. 51 dice genericamente che ogni esercizio del diritto esclude la pena (e se è esercizio di diritto non può che rendere lecito il fatto): gli art. 50, 52, 53, 54, in alcune ipotesi, e simili. Dicono che la pena è esclusa per l’esercizio di singoli diritti (diritto di colpire chi validamente consente, diritto di colpire chi aggredisce, ecc.). 204 Tali argomentazioni si ritrovano nelle parole di L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 58 e in particolare nota 112. 205 Sul tema si avrà modo di approfondire successivamente. Per ora basti ricordare che F. D. Busnelli, Illecito civile, cit., p. 11, per verificare che il compor203
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L’esistenza di un diritto soggettivo alla base della legittima difesa e dello stato di necessità è supportata dalla dottrina attraverso il riferimento ai principi in materia di autotutela privata. Si tratta, infatti, di diritti soggettivi che hanno come oggetto l’attuazione di forme eccezionali di autotutela206. Il filo conduttore che lega il riconoscimento dei diritti soggettivi all’autotutela privata mostra diverse incertezze a livello teorico. Alla base di questa impostazione vi è, infatti, l’idea che la legittima difesa e lo stato di necessità siano entrambi espressione dell’autotutela privata. Mentre è indubbia la riconducibilità della legittima difesa a tale categoria generale, lo stato di necessità viene escluso dall’ambito dell’autotutela privata, perché darebbe luogo alla commistione di figure non omogenee207. Date premesse, è necessario limitare questa argomentazione esclusivamente alla legittima difesa, considerata la massima espressione dell’autotutela privata. Normalmente, la violazione della sfera giuridica, patrimoniale o personale, di un soggetto, determina la nascita del diritto di azione, che rappresenta un diritto potestativo attuabile in via giudiziale. Tuttavia, nel caso in cui sussistano le condizioni di cui all’art. 2044 c.c., la violazione rappresenta il presupposto del diritto alla difesa
tamento sia riconducibile all’esercizio del diritto, utilizza due criteri: un criterio di tipo formale, che si riferisce al rispetto dei limiti sul piano meramente formale, ed un criterio di natura sostanziale, riguardante il comportamento nella sua concretezza e, dunque, la realizzazione di un interesse compatibile rispetto a quello posto alla base del diritto stesso. 206 F. D. Busnelli, Illecito civile, cit., p. 11. 207 C. M. Bianca, Autotutela, cit., p 132 e, in particolare, nota 19. C. M. Bianca si riferisce, in particolare, al sistema tedesco, che, come già detto, prevede un’espressa regolamentazione dell’autotutela privata (Selbsthilfe: § 229), accanto alla previsione dello stato di necessità (Notstand: § 228); contra E. Betti, Autotutela, cit., p. 529, che riconduce lo stato di necessità nell’ambito dell’autotutela preventiva («Ma la forma preminente di autotutela preventiva contro un pericolo proveniente da fattori naturali, si ha nello stato di necessità (…). È da ritenere applicabile al conflitto di interessi cui dà luogo il danno, pur lecito, risultante dal fatto di autotutela, la esigenza di giustizia distributiva che richiede un’equa ripartizione dei danni e dei rischi e che si enuncia nel ditterio “ciuis commoda eius et incommoda esse debent”»).
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immediata delle proprie azioni sul piano extraprocessuale208. Nasce, così, secondo la dottrina, un diritto di natura potestativa, che consente al soggetto pregiudicato di opporsi all’altrui attività lesiva, incidendo in maniera negativa sulla sfera giuridica dell’aggressore209. Il riconoscimento di un diritto soggettivo è considerato funzionale alla natura stessa della legittima difesa quale atto di autotutela privata. Infatti, solamente riconoscendo l’esistenza di una situazione giuridica tutelata dall’ordinamento, è possibile ricondurre la legittima difesa nell’ambito degli atti funzionali alla tutela diretta di un interesse sul piano sostanziale210. Ciò significa, dunque, che la natura della legittima difesa, come atto di autotutela privata, implica necessariamente il riconoscimento di un diritto soggettivo, preordinato alla tutela dell’interesse leso oppure minacciato. In virtù di ciò, la legittima difesa deve essere valutata sotto un profilo essenzialmente dinamico, attinente all’esercizio di un diritto di autotutela, e non da un punto di vista statico, come mero fatto che incide sull’evento dannoso nella sua totalità211. L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 59 ss. L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 59. L’analisi dell’Autrice si riferisce in maniera specifica alla legittima difesa, ma è valida per tutte le ipotesi generalmente ricondotte nell’ambito dell’autotutela privata. Come spiegato approfonditamente dall’Autrice (v. id., p. 63 ss.), l’origine di tali diritti potestativi è indubbia nell’ipotesi in cui, come nel caso della legittima difesa, vi sia un’esplicita previsione di legge, che riconosce tale diritto. In queste ipotesi, infatti, è la legge ad attribuire al soggetto il potere di reagire in vario modo, per superare l’altrui attività lesiva, per superare la lesione o conservare la situazione minacciata. In tutti gli altri casi, il diritto potestativo nasce a partire da una fattispecie complessa, come avviene ad esempio nell’ipotesi di cui all’art. 1456 c.c. 210 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 60. 211 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 57 ss., e in particolare p. 60: «(…) se tale comportamento non venga considerato (in una luce tipicamente dinamica) come esercizio di un particolare diritto legittimamente la reazione difensiva contro un’altrui attività lesiva, ma esclusivamente come “fatto” (quindi sotto un profilo essenzialmente statico), in relazione al quale quell’attività dovrebbe funzionare da esimente da responsabilità, non è, oltretutto chiaro – ammesso che la nozione di tutela (e, perciò, di autotutela) si voglia attribuire un significato tecnico preciso – a quali condizioni si potrebbe continuare ad ammettere la (tradizionale) ricomprensione della difesa legittima nel quadro degli atti e delle attività funzionalmente volti alla tutela diretta di un interesse sul pia208
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Muovendo dalle sue caratteristiche applicative, la dottrina qualifica il diritto alla legittima difesa come un diritto di natura potestativa. L’esercizio del diritto da parte del soggetto aggredito comporta, infatti, che l’aggressore si trovi nell’impossibilità di contrastare l’attuazione dell’autotutela e, dunque, la lesione della propria sfera giuridica212. In virtù di ciò, la posizione dell’aggressore può essere, di conseguenza, qualificata come una posizione giuridica di soggezione. A ciò si aggiunge il fatto che la legittima difesa ha una funzione strumentale rispetto alla tutela del diritto leso oppure minacciato e questa sua caratteristica la accomuna, a livello teleologico, con l’azione processuale, tradizionalmente ricondotta nell’ambito dei diritti potestativi213. La natura potestativa del diritto alla legittima difesa, così come di tutti i “diritti di autotutela”, è stata fortemente criticata. Secondo Alcuni, sebbene siano riscontrabili delle affinità, le ipotesi di autotutela devono essere rigorosamente distinte dai diritti potestativi, in ragione delle diverse finalità e dei risultati perseguiti. In particolare, attraverso l’esercizio dei diritti potestativi si determina una modifino sostanziale». Con queste affermazioni l’Autrice rifiuta nettamente la posizione sostenuta da R. Scognamiglio, voce Responsabilità civile, cit., p. 654: «Si tratta in definitiva (…) di condizioni di fatto o atti, che non escludono la rilevanza di qualche obbligo risarcitorio, o tantomeno attribuiscono un diritto nuovo al danneggiante, ma, incidendo sullo stesso evento, attribuiscono all’intero fatto dannoso un senso ed un valore diverso; cosicché e semmai, possono sistematicamente ricondursi, come si è fatto, al profilo della causalità». Tale posizione è sostenuta più recentemente anche da F. Piraino, Ingiustizia del danno e antigiuridicità, cit., p. 779, ed in particolare nota 207: «L’esercizio del diritto non esclude né il danno ingiusto né l’antigiuridicità della condotta, ma incide piuttosto su tutti gli elementi del fatto dannoso tanto da attribuirgli un senso ed un valore tali da impedirne la riconduzione nella fattispecie astratta di responsabilità, facendo così venir meno le ragioni che giustificano la traslazione del costo del danno dalla sfera giuridica del danneggiato a quella del danneggiante». 212 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 60 ss.: «Per le situazioni soggettive il cui esercizio consente l’attuazione della tutela considerata (autotutela) appare, infatti, calzante la qualificazione in termini di diritto potestativo. L’unilateralità della tutela, nonché l’impossibilità, per l’autore della lesione (in atto o in potenza), di efficacemente contrastare l’attuazione, sembrano giustificare tale conclusione». 213 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 59.
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cazione della sfera giuridica altrui nell’ambito di un rapporto giuridico preesistente214. Al contrario, con l’esercizio dell’autotutela, il soggetto mira a mantenere inalterata e, dunque, a proteggere la propria sfera giuridica, piuttosto che a modificare la sfera giuridica altrui215. L’obiettivo esclusivo dell’autotutela è, dunque, secondo questa visione, la riaffermazione di un diritto violato oppure minacciato. L’eventuale modificazione della sfera giuridica altrui, che può scaturire dall’esercizio dell’autotutela, viene considerata come una conseguenza meramente eventuale e mai diretta rispetto alle finalità proprie dell’autotutela stessa216. A. Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, cit., p. 73 ss. A. Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, cit., p. 74 ss. 216 A. Dagnino, Contributo allo studio dell’autotutela privata, cit., p. 78: «(…) con l’autotutela si si difende l’interesse proprio ma non si invade (almeno in via diretta) quello degli altri: essa consiste infatti nella riaffermazione del proprio diritto dinnanzi a chiunque tenti di violarlo. Naturalmente è ben possibile (ed anzi assai frequente) che in seguito a tale tipo di riaffermazione del proprio diritto risulti modificata la sfera giuridica del destinatario dell’atto di autotutela (per esempio, ciò accade nella risoluzione del contratto ex art. 1454 c.c.) ma questo non toglie nulla al fatto che esso destinatario è, nella sua specifica soggettività, un elemento eventuale e di secondaria importanza. In altri termini, il rapporto tra chi esercita l’autotutela e chi la subisce non è diretto, ma angolare e nasce dal collegamento delle parti ad una medesima situazione; ed è questa la situazione che si frappone ai soggetti e li fa entrare in relazione (indiretta). La modificazione dell’altrui sfera giuridica in seguito all’esercizio dell’autotutela è quindi eventuale e comunque indiretta e si comprende, ancora meglio, in tal modo, il perché sia possibile tutelare direttamente il proprio interesse senza ricorrere al giudice. Il giudice, infatti, dirime controversie dirette fra le parti e si frappone ad esse quale autorità dello Stato; chi esercita l’autotutela si limita invece a mantenere integro il proprio diritto prescindendo dalla specifica identità della persona che lo viola e dall’imporsi autoritativamente ad essa». In sintesi, dunque, secondo tale argomentazione, nel caso dell’autotutela la difesa dell’interesse leso oppure minacciato non passa attraverso l’invasione o meglio la modificazione della sfera giuridica altrui. Inoltre, l’esercizio dell’autotutela non postula, secondo l’Autore, l’esistenza di un rapporto diretto tra le parti. La relazione tra il soggetto che compie la lesione e il soggetto che agisce in via di autotutela nasce in maniera indiretta, a partire dal collegamento esistente tra i due soggetti e la situazione che si viene a frapporre tra loro. Sotto questo punto di vista, la teoria sostenuta da A. Dagnino mostra qualche criticità. Il riferimento alla risoluzione del contratto, di cui all’art. 1454 c.c., dovrebbe, in realtà, presupporre la sussistenza di una relazione diretta tra le parti, posto che si tratta di un mezzo di autotutela, 214 215
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5.3. La legittima difesa come atto lecito dannoso Il riconoscimento di un diritto soggettivo all’autodifesa comporta, secondo una parte della dottrina, l’inserimento della legittima difesa nell’ambito degli atti leciti dannosi217. La categoria degli atti leciti dannosi è stato oggetto di un dibattito dottrinale piuttosto intenso a partire dalla sua elaborazione, che si colloca nella prima metà del secolo scorso218. L’inquadramento iniziale degli atti leciti dannosi nel sistema della responsabilità ha risentito dell’originaria concezione della responsabilità civile come reazione all’illecito. Gli atti leciti dannosi venivano, infatti, identificati in tutti quegli atti che, a livello astratto, presentano i requisiti dell’illiceità, ma vengono resi leciti da specifiche norme giuridiche, che prevedono, al contempo, il risarcimento del danno eventualmente prodotto219. Si tratta, dunque, di fattispecie produttive di un che si inserisce nell’ambito di una relazione contrattuale. In questi casi, appare alquanto difficile ammettere l’esistenza di una “relazione indiretta” tra le parti, come sostenuto in via generale da A. Dagnino. 217 F. D. Busnelli, Illecito, cit., p. 11 (uguali considerazioni sono espresse anche in: L. Bigliazzi Geri, U. Breccia, F. D. Busnelli, U. Natoli, Diritto civile, 3. Obbligazioni e contratti, Torino, 1986, p. 713 ss.); P.G. Monateri, La responsabilità civile, in Le fonti delle obbligazioni, 3, Tratt. dir. civ. R. Sacco, Torino, 1998, p. 228 e anche in P.G. Monateri, D. Gianti, M. Balestrieri, Causazione e giustificazione del danno, in Tratt. resp. civ. P.G. Monateri, Torino, 2016, p. 286 (secondo l’Autore, la legittima difesa potrebbe anche essere semplicemente inquadrata come un atto lecito tout court). 218 Per una disamina del panorama dottrinale sul punto v. T.V. Russo, La responsabilità da atto lecito dannoso, in P. Perlingieri, S. Polidori (a cura di), Domenico Rubino, Napoli, 2009. Una delle problematiche ha riguardato il suo inserimento nel sistema della responsabilità civile. Ad esempio, secondo C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 568 ss., non è configurabile una responsabilità da atto lecito dannoso, perché l’idea di una responsabilità nascente da fatto lecito risulta intimamente contradditoria. 219 G. Scaduto, D. Rubino, Illecito (atto), cit., p. 705: «Per cogliere l’intima essenza di questa figura, occorre rilevare che si tratta non solo di atti che astrattamente presenterebbero i requisiti (capacità, colpa del soggetto) per essere proibiti e per porsi, di conseguenza, come atti illeciti, ma si tratta di atti che, senza la particolare norma che li prevede, sarebbero illeciti anche di fronte all’ordinamento positivo, perché di esso violano una norma generale (ad es. quella che tutela la proprietà). Le norme che li prevedono, non annettono semplicemente l’obbligo
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danno, che dà luogo al risarcimento, senza che, però, sia riscontrabile la violazione di un obbligo preesistente220. In tutti questi casi, vi sarebbe una situazione di conflitto di interessi o conflitto di diritti, nei termini in cui si è detto precedentemente, che il legislatore ha risolto in modo tale da non subordinare in maniera assoluta uno degli interessi in conflitto e prevedendo, al contempo, il risarcimento dei danni eventualmente prodotti221. Partendo da questa constatazione, la dottrina successiva ha fornito ulteriori elementi, che hanno permesso di delineare maggiormente la figura degli atti leciti dannosi nell’ambito di nuova concezione della responsabilità, intesa come reazione al danno ingiusto e non più come reazione all’illecito. Nello specifico, gli atti leciti dannosi si sostanziano nell’esercizio di un diritto da parte del titolare, da cui deriva un pregiudizio ad un soggetto terzo. Normalmente, in base al principio del “qui iure suo utitur neminem laedit”, il soggetto che esercita un diritto non può essere ritenuto responsabile del danno arrecato. Tuttavia, nel caso degli atti leciti dannosi, la legge ritiene rilevanti i danni che siano stati causati iure, perché vi è la necessità di tutelare l’interesse del terzo leso222. La liceità degli atti in questione non escluderebbe, anche in tal caso, la sussistenza di un danno ingiusto, alla luce del fatto che il giudizio di risarcibilità riguarda del risarcimento ad un atto lecito, ma rendono lecito un atto illecito, collegandovi tuttavia il risarcimento dei danni». 220 D. Rubino, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, Milano, 1939, p. 204 ss. 221 D. Rubino, La fattispecie e gli effetti giuridici preliminari, cit., p. 206: «Come dalla struttura delle singole fattispecie, così da ciascuna ratio delle singole norme è possibile enucleare un elemento comune: l’intento legislativo di comporre un conflitto di interessi, particolarmente equilibrati, in modo da non subordinare del tutto l’uno all’altro, e da riparare i danni prodottisi per l’un subietto, senza far preventivamente gravare sull’altro un obbligo». 222 G. Tucci, La risarcibilità da atto lecito nel diritto civile, in Riv. dir. civ., 1967, p. 263 ss. Secondo Tucci, (v. in particolare p. 234 nota 16) nella responsabilità da fatto lecito non è sempre configurabile l’esercizio di un diritto soggettivo. In alcuni casi, infatti, come ad esempio nelle ipotesi di cui agli articoli 81 e 1328 del Codice civile, sarebbe più corretto parlare di libertà giuridica, intesa come una prerogativa incondizionata e non definita, il cui esercizio può manifestarsi anche dal punto di vista prettamente negativo.
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esclusivamente «la valutazione del pregiudizio verificatosi nel patrimonio di un soggetto al fine di imputarlo ad un altro»223. La regola generale è, dunque, che l’esercizio del diritto determina l’irrilevanza del danno eventualmente prodotto, salvo ipotesi particolari che il legislatore ha espressamente previsto, in cui vi è la necessità di tutelare il soggetto danneggiato, seppur in presenza di un atto lecito224. L’impostazione descritta esprime una posizione particolare per quanto concerne il rapporto tra l’assenza di causa di giustificazione e l’ingiustizia del danno. Infatti, la liceità dell’atto, da cui ha avuto origine il danno, non ne esclude l’ingiustizia225. Il danno ingiusto continua, dunque, a sussistere in relazione agli effetti prodotti sulla sfera giuridica del terzo226. Su queste basi si è sviluppata la dottrina più recente, che ha indagato il rapporto esistente tra la legittima difesa (e altresì lo stato di necessità) e gli atti leciti dannosi, fornendo ulteriori elementi identificativi per tale categoria. Posto che la liceità deriva dal fatto che l’atto dannoso è stato compiuto nell’esercizio di un diritto, gli atti leciti dannosi consistono nell’esercizio di un diritto, che dà la facoltà al titolare di invadere la sfera giuridica di terzi227. In virtù di ciò, la legittima difesa rientra nell’ambito degli atti leciti dannosi, proprio perché viene riconosciuto quel diritto potestativo all’autodifesa, di cui si è detto, il cui esercizio determina l’invasione della sfera giuridica altrui228. A differenza di quanto sostenuto precedentemente,
G. Tucci, La risarcibilità da atto lecito nel diritto civile, cit., p. 264. G. Tucci, La risarcibilità da atto lecito nel diritto civile, cit., p. 264, nota 113. 225 Sul tema specifico v. G. Tucci, La risarcibilità da atto lecito nel diritto civile, cit., p. 264 note 112 e 113, contra F. D. Busnelli, La lesione del diritto di credito, cit., p. 74 ss. 226 G. Tucci, La risarcibilità da atto lecito nel diritto civile, cit., p. 264, nota 113. 227 F. D. Busnelli, Illecito, cit., p. 11. Per spiegare il fenomeno l’Autore fa riferimento agli esempi classici di cui agli articoli 843, 924 e 925 del Codice civile, riguardanti i rapporti tra i proprietari dei fondi. 228 F. D. Busnelli, Illecito, cit., p. 11: «Alla categoria dei c.d. atti leciti dannosi può ricondursi anche il comportamento di chi cagiona un danno per legittima difesa o agendo in stato di necessità. Gli artt. 2044 e 2045 c.c. non mirano, infatti, a giustificare, in tutto o in parte, per motivi di equità, le conseguenze dannose di comportamenti posti in essere dall’agente sconfinando dalla sfera dei propri 223 224
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in questi casi non è riscontrabile un danno ingiusto, proprio perché il danno è stato causato nell’esercizio di un diritto entro i limiti della tutela accordata dal legislatore. Ciò non esclude che, in alcuni casi, come nello stato di necessità, il danno possa assumere rilevanza nella misura in cui il legislatore preveda la corresponsione di un’indennità a favore del soggetto danneggiato229. La definizione di atto lecito dannoso viene, così, completamente slegata dalla riparazione del danno, che costituiva, al contrario, un elemento cardine nella definizione tradizionale. In questo modo, la dottrina è riuscita ad inserire nell’ambito della categoria così delineata anche la legittima difesa, che non comporta alcuna conseguenza in termini risarcitori. Altri Autori sono arrivati a conclusioni totalmente differenti. L’idea di fondo è che la responsabilità civile si fondi sull’ingiustizia del danno, a prescindere dalla liceità o illiceità dell’attività realizzata230. In virtù di ciò anche un’attività lecita può dar luogo ad un danno ingiusto e all’obbligo di risarcimento. La categoria degli atti leciti dannosi appare così ancorata, nuovamente, all’esistenza di un danno ingiusto e al conseguente obbligo di risarcimento231. A riprova di ciò, si ritiene che la legittima difesa, pur costituendo un’attività lecita, possa dar luogo ad un danno ingiusto, in tutti quei casi in cui si verifichi una sproporzione tra offesa e reazione232. Sembrerebbe,
diritti soggettivi, ma riconoscono precisamente a quest’ultimo altrettanti specifici diritti – caratterizzati da modalità e da circostanza d’esercizio ben precise – alla tutela immediata della propria o altrui persona in pericolo (art. 2045) o, più genericamente (…), di un diritto proprio o altrui in pericolo». 229 F. D. Busnelli, Illecito, cit., p. 11; sulla stessa linea per quanto concerne l’esclusione di ingiustizia del danno v.: F. Galgano, Manuale di diritto civile e commerciale, v. II, Obbligazioni e contratti, t. II, Padova, 1993, p. 310. 230 P. Perlingieri, La responsabilità civile tra indennizzo e risarcimento, in Rass. dir. civ., 2004, p. 1066. 231 Sul tema v. le considerazioni di T.V. Russo, La responsabilità da atto lecito dannoso, cit., p. 661. 232 P. Perlingieri, La responsabilità civile tra indennizzo e risarcimento, cit., p. 1078 e nota 42: «Si pensi, invece, ad atti commessi per legittima difesa ex art. 2044 c.c. o in stato di necessità ex art. 2045 c.c.: malgrado la loro liceità questi producono comunque un danno ingiusto; di fronte al dilemma se essi conducano
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dunque, che, solamente in queste ipotesi, la legittima difesa rientri negli atti leciti dannosi. Da ciò si potrebbe concludere che, nei casi in cui non si verifichi tale sproporzione, la reazione dell’aggredito costituisca un’attività pienamente lecita e soprattutto non cagioni un danno ingiusto.
all’indennità o al risarcimento, l’unica risposta plausibile si configura essere la seconda, proprio perché a prescindere dall’ingiustizia del danno, un atto lecito dannoso in quanto tale esige sempre il risarcimento, sì che non può che rientrare nel sistema della responsabilità civile».
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Sommario: 1. L’ingiustizia dell’aggressione e il pericolo di danno ingiusto. – 1.1. Ingiustizia e antigiuridicità oggettiva della condotta. – 1.2. Il pericolo di un’offesa ingiusta: l’ambito di applicabilità dell’esimente. – 2. Il danno ingiusto tra provocazione e legittima difesa. Gli elementi distintivi tra le due fattispecie. – 3. Il pericolo. I caratteri generali: l’attualità. – 4. L’involontarietà del pericolo. – 4.1. L’esperienza penalistica. Dottrina e giurisprudenza a confronto. – 4.2. L’involontarietà del pericolo nella dottrina civilistica. Le actiones liberae in causa. – 5. Aggressione reale e aggressione apparente: la legittima difesa putativa. – 5.1. Apparenza colposa e legittima difesa putativa: la teoria di C. M. Bianca. – 5.2. L’applicazione dell’articolo 2045 c.c. tra dottrina e giurisprudenza. L’indennizzabilità del danno.
1. L’ingiustizia dell’aggressione e il pericolo di danno ingiusto 1.1. Ingiustizia e antigiuridicità oggettiva della condotta L’aggressione rappresenta logicamente il primo presupposto per il riconoscimento della legittima difesa. Nello specifico, l’aggressione deve aver creato il pericolo di un danno ingiusto. Contrariamente a quanto avvenuto in sede penale, il concetto di aggressione non è stato particolarmente approfondito in ambito civilistico. Autorevole dottrina ha, tuttavia, definito l’aggressione come «un’azione positiva finalizzata alla produzione di un danno ingiusto»1. Il solo riferimento alle azioni positive escluderebbe dall’am-
C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 653.
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bito applicativo della legittima difesa tutti i casi in cui il pericolo di danno sia stato causato da un’omissione e, dunque, da un comportamento negativo dell’agente. Si tratta, però, di una lettura particolarmente restrittiva, che trae origine dall’analisi del dato giurisprudenziale. A livello concreto è, infatti, difficile ravvisare delle ipotesi in cui la reazione sia scaturita da un comportamento omissivo dell’aggressione. L’esclusione, così prospettata dell’aggressione omissiva dall’ambito della legittima difesa, contrasta, inoltre, con i principi generali in materia di responsabilità civile, considerato che il fatto costitutivo dell’illecito civile può consistere non solo in un’azione, ma anche in un’omissione. Tale ipotesi riguarda tutti i casi in cui venga violato l’obbligo di agire nell’interesse altrui, come avviene nell’omissione di soccorso, disciplinata dal Codice penale. Sulla base di queste considerazioni, sarebbe pertanto preferibile parlare di aggressione come «condotta civilmente illecita», in modo tale da allontanare qualsiasi dubbio sulla portata reale dell’esimente2. Entrambe le definizioni di aggressione non forniscono, comunque, chiarimenti sulle modalità in cui l’aggressione stessa debba realizzarsi e, dunque, sulle tipologie di aggressione, che potrebbero dare origine ad una reazione legittima da parte dell’aggredito. Su questo punto, la dottrina civilistica ha scelto di far proprie le posizioni raggiunte in ambito penale3, dove è stata ammessa la possibi-
P. G. Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 229: «Ovvero, è necessario, ma anche sufficiente, che l’aggressore attui con il proprio comportamento una condotta civilmente illecita, affinché la vittima possa legittimamente difendersi compiendo a sua volta un danno». 3 Si riferiscono, in particolare, all’esperienza penalistica: M. Comporti, Le responsabilità presunte, cit., p. 11, e A. Diurni, Sub art. 2044 – Legittima difesa, in U. Carnevali (a cura di), Artt. 2044-2059, Dei fatti illeciti, Comm. Cod. civ., v. 2, Torino, 2011, p. 9: «Per individuare i tipi di aggressione che possono configurarsi nella fattispecie della legittima difesa, occorre fare riferimento all’art. 52 c.p., poiché la norma civilistica nulla dice al riguardo. L’art. 52 c.p. si riferisce genericamente ad un’offesa, allontanandosi in tale modo dalla formulazione del Codice penale precedente che richiedeva espressamente la violenza dell’azione; sicché l’aggressione può consistere tanto in un’azione quanto in un’omissione e non occorre sia fisica, potendo aversi un’offesa anche meramente verbale». 2
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lità che l’aggressione possa esplicarsi attraverso mezzi non violenti, come ad esempio in forma verbale. L’utilizzo del termine “offesa” da parte del legislatore penale consente, infatti, di estendere l’applicabilità dell’esimente anche ai casi in cui l’aggressione si sostanzi in una forma non prettamente fisica4. Non sussistono, inoltre, dubbi sulla riconducibilità della legittima difesa anche all’ipotesi in cui la condotta dell’agente sia meramente passiva, come accade nel caso in cui l’automobilista rifiuti di trasportare un ferito grave in ospedale5. Al di là delle connotazioni esteriori e meramente formali, l’aggressione deve essere necessariamente ingiusta, non potendo legittimare altrimenti la reazione da parte dell’aggredito. L’ingiustizia dell’aggressione richiama, secondo la posizione maggioritaria della dottrina, il concetto di antigiuridicità obiettiva nella sua concezione tradizionale6. L’aggressione ingiusta è, infatti, una condotta che si pone in contrasto con i principi dell’ordinamento giuridico. Ciò significa che il comportamento dell’agente viene valutato in maniera negativa dall’ordinamento giuridico, che emette, conseguente F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, XI ed., Padova, 2020, p. 250: «(…) prescindendo il vigente codice dalla “violenza, richiesta dal precedente, e parlando genericamente di “offesa” – possono essere non solo una azione anche non violenta (es. ingiurie), ma altresì un’omissione contro la quale è pure ammessa la legittima difesa». 5 F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 273. T. Padovani, voce Difesa legittima, cit., p. 505; T. Padovani, Diritto penale, XII ed., Milano, 2019, p. 206; v. per un maggiore approfondimento Id., La condotta omissiva nel quadro della legittima difesa, in Riv. it. dir. proc. pen., 1970, p. 675 ss., e in particolare, per una definizione più precisa, p. 692: «(…) ai fini del problema che qui interessa, la condotta commissiva e la condotta commissiva per omissione debbano porsi sullo stesso piano. Il requisito del pericolo attuale di un’«offesa ingiusta» può esistere, infatti, tanto se l’evento minacciato può essere prodotto da un’azione, quanto da una omissione. E questo in fondo, spiega perché nessuno abbia mai pensato di escludere dall’ambito della difesa legittima le offese commesse per omissione. L’unica differenza fra le due ipotesi è che nel caso di pericolo creato da una azione, il concetto di pericolo è un concetto puramente naturalistico, in quanto il giudizio di probabilità della lesione viene formulato sulla base di dati di fatto del reale; nel secondo, invece, è un concetto di carattere normativo, come si deduce dall’art. 40 c.p., che subordina il rapporto di causalità di un dovere giuridico di agire». 6 M. Franzoni, Dei fatti illeciti, cit., p. 290. 4
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mente, un giudizio sfavorevole di antigiuridicità. L’accertamento dell’antigiuridicità prescinde, dunque, dalla valutazione del «processo psichico che ha orientato il comportamento del soggetto7» e, di conseguenza, non assumeranno alcun rilievo il dolo o la colpa dell’aggressore e neppure la sua imputabilità8. Seguendo la concezione oggettiva dell’antigiuridicità, è stato possibile estendere l’ambito di applicabilità della legittima difesa a tutti i casi in cui il fatto illecito sia ascrivibile ad una cosa o ad un animale, estendendo, dunque, l’applicabilità dell’esimente alle ipotesi in cui sia configurabile una responsabilità di carattere oggettivo in capo al soggetto che assuma il ruolo di custode9. G. Cian, Antigiuridicità e colpevolezza, cit., p. 116. G. Cian, Antigiuridicità e colpevolezza, cit., p. 40 ss. e p. 115. L’Autore evidenzia il fatto che gli istituti c.d. di tutela difensiva, finalizzati ad impedire o ad eliminare il verificarsi di determinati accadimenti riprovati dall’ordinamento giuridico, vengono spesso invocati a sostegno della teoria oggettiva dell’antigiuridicità. Questa impostazione viene superata da A. Diurni, Sub art. 2044 – Legittima difesa, cit., p. 6, secondo la quale l’offesa deve essere perpetrata con dolo e colpa, nella consapevolezza di ledere il diritto altrui. Secondo l’Autrice, l’offesa è, dunque, ingiusta nella misura in cui venga supportata dall’elemento soggettivo della colpevolezza. 9 R. Scognamiglio, voce Responsabilità civile, cit., p. 654. Sul tema vedi anche le più recenti riflessioni di A. Diurni, Sub art. 2044, cit., p. 7: «Il titolare di un diritto su un bene è, infatti, tenuto alla sua custodia e risponde per responsabilità oggettiva dei danni causati da esso: colui che distrugge con l’ombrello il vaso che gli sta cadendo in testa non deve rimborsare il vaso al proprietario. Lo stesso vale per il cane che viene ferito dalla persona che cerca di liberarsi dal suo morso. È più articolata l’ipotesi, in cui il padrone aizzi il cane: in tal caso, non solo la difesa è legittima, ma il padrone incorre altresì nel reato di tentate lesioni, venendo considerato l’animale come un’arma». A questo proposito, è utile rimarcare che, nel diritto tedesco, a differenza dell’ordinamento giuridico italiano, viene fatta una distinzione tra stato di necessità difensivo (“defensiver Notstand”: § 228 BGB «Wer eine fremde Sache beschädigt oder zerstört, um eine durch sie drohende Gefahr von sich oder einem anderen abzuwenden, handelt nicht widerrechtlich, wenn die Beschädigung oder die Zerstörung zur Abwendung der Gefahr erforderlich ist und der Schaden nicht außer Verhältnis zu der Gefahr steht. 2Hat der Handelnde die Gefahr verschuldet, so ist er zum Schadensersatz verpflichtet») e stato di necessità aggressivo (“aggressiver Notstand”: § 904 BGB «Der Eigentümer einer Sache ist nicht berechtigt, die Einwirkung eines anderen auf die Sache zu verbieten, wenn die Einwirkung zur Abwendung einer gegenwärtigen Gefahr notwendig und der drohende Schaden gegenüber dem aus der Einwirkung dem Eigentümer entstehenden 7
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L’applicazione della legittima difesa in queste ipotesi è stata oggetto di critiche da una parte della dottrina penalistica. L’idea di fondo è che l’aggressione debba consistere in una condotta umana, perché solamente il comportamento dell’uomo può essere oggetto di valutazione da parte dell’ordinamento giuridico10. Di conseguenza, la valutazione di antigiuridicità può riguardare solamente i pericoli derivanti da condotte umane, e mai da eventi naturali o animali. Si ritiene, in particolare, che gli animali non possano mai creare autonomamente una situazione di pericolo, legittimando una reazione difensiva da parte del soggetto aggredito. In virtù di ciò, tutte le ipotesi in cui il fatto sia ascrivibile ad una cosa o ad un animale non rientrerebbero nell’ambito della legittima difesa,
Schaden unverhältnismäßig groß ist. Der Eigentümer kann Ersatz des ihm entstehenden Schadens verlangen») a seconda che il bene danneggiato sia o meno la fonte del pericolo. Affinché si perfezioni la fattispecie di cui al § 228, è necessario che il pericolo provenga dalla stessa cosa che è stata distrutta o danneggiata dal soggetto necessitato. Nel secondo caso, invece, il bene danneggiato è del tutto estraneo alla genesi di pericolo. Si tratta di una distinzione estranea al diritto italiano, posto che l’art. 2045 c.c. non prevede alcuna differenziazione a seconda della natura del pericolo (sul punto v. l’accurata analisi di A. Diurni, Gli stati di giustificazione nella responsabilità civile, Torino, 2003, p. 100 ss., secondo la quale lo stato di necessità difensivo potrebbe, però, essere ricompreso nell’ambito dell’art. 2044 c.c., considerato che tale disposizione esclude la responsabilità dell’agente, senza distinguere a seconda della fonte del pericolo e del tipo di aggressione contro cui è diretta la reazione; nel diritto tedesco sul tema: H. Grothe, 227 Notwehr, in Münchener Kommentar zum BGB, 8. Auflage 2018). Un caso che è stato recentemente ricondotto dalla giurisprudenza tedesca nell’ambito di applicabilità del soccorso difensivo ha riguardato l’abbattimento di un drone, che sorvolava la proprietà altrui con ripresa e trasmissione di immagini. In questo contesto era stata riconosciuta la sussistenza di un pericolo imminente per la tutela dei diritti personali e del diritto di proprietà (AG Riesa, sentenza del 24 aprile 2019 – 9 Cs 926 Js 3044/19; in MMR, 2019, p. 548). Sul problema dell’applicabilità della legittima difesa ai casi di responsabilità oggettiva nell’ambito del diritto francese v. P. Jourdain, La légitime défense, fait justificatif de la responsabilité de l’article 1384, alinéa 1er, in RTD Civ. 1992 p. 768. 10 Sul tema: G. Battaglini, Sulla legittima difesa, nota a Cassazione 6 aprile 1942, in Riv. it. dir. pen., 1933, p. 341: «(…) si può creare un pericolo di offesa con l’animale (aizzandolo contro qualcuno), ma l’animale di per sé non può mai porre in essere un pericolo di offesa ingiusta. Il fatto dell’animale non può essere oggetto di valutazione giuridica».
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ma nello stato di necessità11. Questa impostazione non tiene, però, in considerazione i casi in cui sia l’uomo ad utilizzare l’animale al fine di realizzare un’aggressione antigiuridica. Tutte queste ipotesi rientrerebbero, infatti, nell’ambito della legittima difesa: il caso tipico di scuola è quello del soggetto che aizza il proprio cane, determinando la reazione dell’aggredito 12. In tali fattispecie, il danno, seppur proveniente dalla cosa o dall’animale, può, comunque, dar luogo alla responsabilità del proprietario o del custode, tenuti agli obblighi di custodia e vigilanza previsti dalla legge13. Vi è pur sempre una condotta umana, a cui è ascrivibile la situazione di pericolo venutasi a creare, che legittimamente determina l’applicabilità dell’art. 2044 c.c. L’ingiustizia dell’aggressione, nel senso di antigiuridicità oggettiva della condotta, porta ad ampliare ulteriormente i confini della legittima difesa, comprendendo anche tutti quei casi in cui l’aggres-
11 G. Bettiol, L. Pettoello Mantovani, Diritto penale, XII ed., Padova, 1986, p. 382; su questa linea anche R. A. Frosali, Sistema penale italiano, II, Diritto sostanziale, Torino, 1958, p. 301: «(…) gli animali salvo particolari distinzioni (…) siano da considerare giuridicamente quali “cose” (c.d. “cosa animate” per distinguerle da quelle “inanimate”), e perciò, mentre non possono essere, in linea di fatto, aggressori, la loro offesa non può dirsi ingiusta da parte loro. L’animale può essere aggressore senza che il suo fatto sua “ingiusto” in confronto a nessuno: ed allora varrà la speciale scriminante della necessità (…)». 12 G. Battaglini, Sulla legittima difesa, cit., p. 341; sul tema v. anche le considerazioni di R. A. Frosali, Sistema penale italiano, II, cit., p. 301. 13 C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 653. L’Autore evidenzia che, in questi casi, al contrario di quanto avviene nell’ambito dello stato di necessità, il pericolo scaturisce in maniera diretta dal bene (cosa o animale), che viene sacrificato e, conseguentemente, non sussiste alcun obbligo di indennizzo nei confronti del proprietario del bene. Sulla stessa linea: A. Diurni, Sub art. 2044, cit., p. 7 ss.; nella dottrina penale v., altresì, le riflessioni di T. Padovani, voce Difesa legittima, cit., p. 505: «Se si tratta di pericolo determinato da cose altrui, la condotta impeditiva, materialmente esercitata sulla res, si giustifica, in realtà, come reazione diretta contro la violazione dell’obbligo, incombente al proprietario o al possessore, di provvedere alla custodia dell’oggetto in modo da garantire la sicurezza di terzi (…). Naturalmente, la difesa può anche svolgersi, se le circostanze lo richiedono, direttamente contro il titolare della res, per costringerlo a far cessare il pericolo (ad esempio, bloccando il funzionamento di un congegno meccanico “impazzito” (…)».
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sione venga compiuta da un soggetto non imputabile14. Alla base di questa impostazione vi è l’idea per cui l’incapacità di intendere e volere costituisce una causa personale di esonero da responsabilità, ma non influisce sull’illiceità dell’aggressione perpetuata15. L’articolo 2046 c.c., infatti, esonera da responsabilità l’incapace, non perché questi non possa commettere un atto obiettivamente antigiuridico, ma perché realizza una primaria esigenza di tutela e di protezione dell’incapace16. Un ulteriore argomento a sostegno di tale tesi sarebbe rappresentato dall’articolo 2047, comma 2, c.c. In base a tale norma, là dove il danneggiato non abbia ottenuto il risarcimento del danno da parte del sorvegliante – per insolvenza o mancanza di colpa – può ottenere dal giudice la condanna dell’incapace al pagamento di un equo indennizzo. Si ritiene, in particolare che tale norma sancisca un principio di responsabilità concorrente dell’incapace e del suo sorvegliante, che legittimerebbe l’applicabilità della legittima difesa là dove l’aggressione venga realizzata da un soggetto incapace17. Una parte della dottrina ha contestato tali conclusioni, ritenendo che la concezione di aggressione, come comportamento obiettivamente antigiuridico, allargherebbe in maniera impropria l’ambito di applicabilità dell’esimente18. Le argomentazioni seguite si basano
Contro questa impostazione v. M. Pogliani, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, cit., p. 44. 15 R. Scognamiglio, voce Responsabilità civile, cit., p. 654. 16 C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 658. 17 G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 55. 18 B. Petrocelli, L’antigiuridicità, IV ed., Padova, 1966, p. 64 ss. Per evitare un’applicazione impropria dell’istituto, il fondamento logico e giuridico della legittima difesa andrebbe ricercato, secondo l’Autore, non nell’esistenza di un’offesa ingiusta, ma, bensì, nella mancanza di «un’obbligo giuridico di subirla senza reagire». Questa impostazione viene accolta da G. Cian, Antigiuridicità e colpevolezza, cit., p. 122, nota 126. Come sottolinea Cian, in questa prospettiva, la legittima difesa non è più un mezzo di reazione nei confronti di un comportamento antigiuridico, ma un mezzo di tutela di determinati beni. L’inesistenza di un obbligo di subire l’aggressione senza reagire non postula, comunque, secondo la visione di Cian, l’esistenza di un diritto soggettivo alla lesione («Non sembra, inoltre, che 14
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sulla natura e sui limiti della reazione difensiva, che può essere esperita concretamente nei confronti di un soggetto non imputabile. Si ritiene che in simili contesti l’aggredito possa facilmente darsi alla fuga, e, di conseguenza, il pericolo di danno e, dunque, la reazione stessa siano facilmente evitabili19. In virtù di ciò, mancherebbero i presupposti stessi della legittima difesa e, dunque, tali fattispecie andrebbero ricondotte nell’ambito dello stato di necessità20. Affinché possa legittimare la reazione, l’aggressione non solo deve essere ingiusta, come ampiamente analizzato, ma deve essere altresì ingiustificata, cioè deve essere compiuta in assenza di cause di giustificazione. L’aggressione non deve, dunque, essere realizzata nell’esercizio di un diritto o nell’adempimento del dovere21. In queste ipotesi, infatti, il comportamento dell’aggressore non si pone in contrasto con l’ordinamento giuridico e, dunque, non presenta il carattere di antigiuridicità obiettiva. Di conseguenza, nel momento in cui il soggetto si difenda da un’aggressione giustificata e causi un danno, la sua reazione potrà dar luogo alla fattispecie risarcitoria di cui all’articolo 2043 c.c. il concetto del “non dover subire” sia empirico ed impreciso, dal momento che rientra certamente nella normale attività dell’interprete un’indagine come quella diretta ad esaminare se, dal complesso del sistema legislativo, emergano delle indicazioni per le quali si debba concludere che un certo interesse va sacrificato a nome di un altro. Se poi, nei confronti dell’interesse riconosciuto come prevalente, si possa sempre giungere a parlare di un diritto soggettivo alla lesione, è questione che non necessariamente deve essere risolta in senso positivo per convalidare la costruzione qui difesa»). 19 B. Petrocelli, L’antigiuridicità, cit., p. 64-65. 20 B. Petrocelli, L’antigiuridicità, cit., p. 64. L’esclusione dell’aggressione realizzata da un soggetto incapace viene sostenuta anche da E. Altavilla, voce Difesa legittima (diritto penale comune), in Noviss. Dig. It., V., Torino, 1960, p. 625, basandosi su una definizione di ingiustizia che guarda non solo alla condotta, ma anche al soggetto che la compie: «La qualificazione di ingiusto deve anche rapportarsi alla persona dell’aggressore, perché non potrebbe qualificarsi ingiusto il gesto del folle o del minore non imputabili che crea uno stato di necessità e non di legittima difesa». 21 Sul tema già E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 19; A. Diurni, Sub art. 2044, cit., p. 6; A. Venchiarutti, La legittima difesa, in P. Cendon (a cura di), La responsabilità civile: saggi critici e rassegne di giurisprudenza, Milano, 1988, p. 474.
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1.2. Il pericolo di un’offesa ingiusta: l’ambito di applicabilità dell’esi mente L’aggressione antigiuridica, nel senso sopra analizzato, deve essere idonea a creare il pericolo di un danno ingiusto nei confronti dell’aggredito o di soggetti terzi22. Come già specificato, quando si parla di danno ingiusto, ci si riferisce, in conformità alle linee evolutive in materia, ad una lesione che riguardi un interesse giuridicamente tutelato. Non vi, dunque, nessuna limitazione rispetto all’ambito di applicabilità della legittima difesa, sebbene l’interpretazione letterale sembrerebbe circoscriverlo esclusivamente ai diritti personali. Di conseguenza, la legittima difesa è ammessa nei confronti di qualsiasi minaccia che riguardi la sfera personale o patrimoniale del difensore o di soggetti terzi23. La possibilità di intervenire nel caso in cui la minaccia riguardi i terzi e non il difensore stesso viene spiegata dalla dottrina civilistica alla luce del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 della Costituzione. Seguendo tale principio, si ritiene, infatti, prioritaria la salvaguardia del bene ingiustamente aggredito, a prescindere dalla titolarità dello stesso24. In ambito penale, invece, la tutela difensiva nei confronti di soggetti terzi è giustificata in base alla ratio dell’istituto stesso, finalizzato a reprimere il pericolo di un’offesa ingiusta25. Una parte della dottrina penalistica ha tuttavia contestato l’applicabilità dell’esimente a tutela di tutti i diritti dei soggetti terzi, limitandola ai casi in cui ne venga pregiudicata la vita o l’incolumità personale26. Di M. Franzoni, Sub art. 2044, cit., p. 291. C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 652. 24 M. Comporti, Delle responsabilità presunte, cit., p. 11: «Anche quando si tratti di diritti di terzi, per l’ordinamento giuridico, secondo il principio costituzionale di solidarietà sociale (art. 2 Cost.), è prioritaria la salvaguardia di un bene giuridico ingiustamente aggredito, anche a costo del sacrificio dei diritti dell’aggressore». 25 M. Boscarelli, voce Legittima difesa (diritto penale), in Enc. giur. Treccani, XVIII, Roma, 1990, p. 3. 26 Sul tema anche Cass. pen., 16 marzo 1942, in Giust. pen., 1942, II, 517, secondo la quale la difesa del diritto altrui deve essere subordinata alla sussistenza 22 23
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conseguenza, l’intervento sarebbe escluso nell’ipotesi in cui siano in pericolo dei beni di natura esclusivamente patrimoniale27. L’operatività dell’esimente è, inoltre, subordinata alla constatazione che la situazione di pericolo in cui incorre il soggetto terzo possa tradursi in una situazione analoga anche per il difensore. Ciò comporta, dunque, che l’intervento del difensore debba essere limitato a tutti quei casi in cui la situazione di pericolo di cui è vittima il terzo possa mettere a rischio anche il difensore stesso28. In ogni caso, di fronte a situazioni di questo tipo, il difensore ha la possibilità di scegliere se intervenire o meno, senza incorrere nel reato di omissione di soccorso, che si basa su presupposti completamente diversi. Bisogna, però, mettere in evidenza che il riconoscimento legislativo della legittima difesa a favore di soggetti terzi rappresenta un’eccezione rispetto ai principi generali in materia di autotutela, che implicano un intervento unilaterale a fronte di un pericolo o di una minaccia che riguardi direttamente il soggetto agente. Trattandosi di un’eccezione, la regola generale è, pur sempre, quella precedentemente enunciata, secondo la quale è possibile agire a tutela dell’interesse di un soggetto terzo, in tutti quei casi in cui sussista un rapporto di natura privatistica tra l’agente e il terzo, quale, ad esempio, il rapporto di rappresentanza, cui si è fatto cenno precedentemente29.
di un interesse morale, rispetto alla necessità di evitare il pregiudizio in capo al terzo. 27 F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 273. 28 F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 273. 29 C. M. Bianca, voce Autotutela, cit., p. 132. Nel sistema di common law, inizialmente, l’ammissibilità della legittima difesa veniva fatta dipendere dal rapporto esistente tra il soggetto agente ed il terzo in pericolo, circoscrivendo il riconoscimento della legittima difesa solamente alle ipotesi in cui intercorresse un rapporto particolarmente stretto tra i due soggetti interessati. In epoca moderna, si tratta di una distinzione piuttosto obsoleta, che non ha più rilevanza sul piano della legittimità o meno della difesa, ma che, comunque, continua ad avere peso nella valutazione di ragionevolezza della reazione (sul tema: R.F.V. Heuston, R.A. Buckley, Salmond & Heuston on the Law of torts, XXI ed., London, 1996, p. 128: «Still, the relationship of the parties may be relevant to the reasonableness of the force used»; sullo stesso tema, in ambito statunitense, v. W. Prosser, Handbook of the
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Al di là del dato testuale, che riconosce l’operatività dell’esimente per tutti gli interessi giuridicamente tutelati, i precedenti giurisprudenziali riguardano principalmente la tutela degli interessi di natura personale. Merita, tuttavia, di essere approfondita la tematica riguardante la difesa dei diritti di credito, che la dottrina circoscrive entro limiti ben precisi. L’idea di fondo è che difficilmente l’aggressione possa determinare la legittimità della reazione, perché normalmente il creditore può agevolmente rivolgersi all’autorità giudiziaria per far valere le proprie ragioni e, in ogni caso, può utilizzare gli strumenti di autotutela previsti dal Codice civile. In questo senso, di regola, verrebbe meno il presupposto logico della legittima difesa, che si basa sulla necessità di farsi giustizia da sé tutte le volte in cui non sia possibile il ricorso agli organi statuali30. Potrebbero, però, verificarsi delle situazioni particolari, in cui l’attesa del provvedimento giudiziale, anche sotto forma di provvedimento d’urgenza ex art. 700 c.c., potrebbe rilevarsi pregiudizievole per la tutela dell’interesse creditorio. Il caso di scuola è quello del creditore, che, di fronte alla minaccia del debitore di distruggere la cosa dovuta, proceda a sottrargliela, riservandosi di adire successi-
law of torts, St. Paul. Minn., 1941, p. 130 ss.: «The early common law recognized a feudal privilege in the master of the household to defend the members of his family and his servants against attack. Later this was extended to permit any members of the same family to defend one another, and servants to defend their employers. No reason is apparent today for any such artificial limitation; the privilege should exist whenever defense of another is called for, or sanctioned, by recognized social usage. Thus, the driver of an automobile is permitted to defend his passengers, and it would seem that anyone may intervene to protect even a stranger, where a reasonable man would do so». 30 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 50 ss., che riprende espressamente le posizioni già enunciata in ambito penale da T. Padovani, La condotta omissiva nel quadro della legittima difesa, cit., p. 707 ss. e, in particolare, p. 707: «(…) la difesa privata deve però essere legittima quando sia impossibile, in determinate situazioni, provvedere utilmente coi rimedi giurisdizionali alla tutela del diritto. Ora, anche nelle ipotesi di inadempimento di un obbligo contrattuale che perduri nel tempo, al creditore è di regola possibile l’utile ricorso alla giurisdizione; se non altro per mezzo di un’azione cautelare diretta ad ottenere un provvedimento d’urgenza, concesso, appunto, dall’art. 700 c.p.c.».
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vamente le vie giudiziarie. Una fattispecie analoga, elaborata in sede penale, riguarda, invece, il proprietario del ristorante, che impedisca al cliente di scappare dal locale senza pagare il conto, in attesa dell’intervento dell’autorità giudiziaria, prontamente avvertita del fatto31. Nelle due ipotesi sopra descritte, si ritiene che l’esercizio della legittima difesa non escluda il ricorso all’autorità giudiziaria. Infatti, la reazione da parte del creditore appare funzionale a garantire il futuro soddisfacimento del diritto di credito in sede giurisdizionale, considerato che la legittima difesa, nell’ambito dei diritti di credito, ha sempre una finalità di carattere conservativo rispetto alla situazione giuridica in pericolo e non conduce mai al soddisfacimento coattivo dell’interesse creditorio32. In ogni caso, il creditore non potrà mai ottenere l’adempimento del debitore utilizzando la violenza o la minaccia, perché tale condotta costituirebbe un esercizio illegittimo del diritto di credito e integrerebbe, al contempo, il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, di cui agli articoli 392 e 393 del Codice penale33. Al di là delle questioni peculiari concernenti la legittima difesa, una parte della dottrina ha escluso l’ammissibilità generale degli 31 T. Padovani, La condotta omissiva nel quadro della legittima difesa, cit., p. 707. 32 L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 50 ss., ed in particolare nota 92. 33 T. Padovani, La condotta omissiva nel quadro della legittima difesa, cit., p. 709: «(…) può dirsi che si ha esercizio arbitrario delle proprie ragioni e non difesa legittima se il creditore ottiene l’adempimento costringendovi il debitore con minacce ovvero usandogli violenza. Il diritto di credito, infatti, non, viene così difeso, ma bensì illecitamente esercitato, tanto che, ottenuto l’adempimento, il creditore non avrebbe più alcuna pretesa nei confronti del debitore. Se, invece, il comportamento del creditore tende solo a garantire la possibilità di tutela del diritto, come nell’esempio fatto del gestore del ristorante che trattiene, sino all’arrivo dell’autorità l’avventore datosi alla fuga, si resta nell’ambito della legittima difesa. L’agente, infatti, mira solo a difendere, mediante l’identificazione il diritto di credito minacciato, garantendosi la sua realizzazione in sede giurisdizionale». L. Bigliazzi Geri, Profili sistematici dell’autotutela privata, cit., p. 51, nota 95, pur aderendo a tale tesi, appare particolarmente cauta rispetto alla possibilità di ravvisare in tali casi i reati di cui agli articoli 392 e 393 c.p. Tali fattispecie potrebbero, infatti, integrare fattispecie penali diverse rispetto a quelle indicate.
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strumenti di autotutela c.d. esecutoria, volti alla realizzazione del diritto di credito. Si ritiene, infatti, che, tutte le volte in cui il creditore si impossessi di un bene o del denaro del debitore, ottenga solo esteriormente il soddisfacimento del proprio interesse. La realizzazione del diritto di credito risulta subordinata esclusivamente all’adempimento del debitore inteso da un punto di vista esclusivamente tecnico e la materiale apprensione del bene o del denaro del debitore avrebbe solamente un effetto di garanzia rispetto al soddisfacimento dell’interesse creditorio34. Questa ricostruzione, però, non può essere condivisa. La realizzazione dell’interesse creditorio passa attraverso un fatto ascrivibile alla sfera giuridica del debitore. Di conseguenza, il soddisfacimento di tale interesse può avvenire, non solo attraverso il compimento di una prestazione da parte del debitore o per suo conto, ma anche mediante l’esercizio di specifici poteri nei suoi confronti. Esercitando un potere nei confronti del debitore, il creditore vedrà realizzato il suo interesse e, di conseguenza, il contenuto del rapporto obbligatorio potrà dirsi adempiuto35. Nonostante ciò, l’applicazione giurisprudenziale della legittima difesa rispetto alla tutela dei diritti di credito non è stata particolarmente florida. L’unico precedente della Corte di Cassazione riguarda il caso di un creditore che aveva impedito al debitore la vendita di beni, sui cui era stato disposto un sequestro conservativo (seppur non ancora eseguito) prospettando all’acquirente «i guai giudiziari» in cui sarebbe incorso procedendo all’acquisto. I Giudici avevano riconosciuto la legittima difesa in capo al creditore, considerando A. Saturno, L’autotutela privata. I modelli della ritenzione e dell’eccezione di inadempimento in comparazione col sistema tedesco, cit., p. 275 ss. 35 C. M. Bianca, voce Autotutela, cit., p. 136: «Esatto è il rilievo che la mera soddisfazione dell’interesse creditorio non costituisce di per sé adempimento dell’obbligazione. Occorre piuttosto che vi sia un fatto riferibile alla sfera giuridica del debitore, nel senso che il creditore abbia conseguito il soddisfacimento del suo interesse mediante la prestazione eseguita dal debitore o per suo conto o mediante l’esercizio di poteri nei suoi confronti. Ora, nei tipici casi di autotutela esecutoria il creditore consegue il soddisfacimento del suo interesse esercitando un potere nei confronti del debitore inadempiente, e realizzando quindi il contenuto del rapporto obbligatorio, che a tutti gli effetti sarà da considerare adempiuto». 34
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che la dispersione dei beni da parte del debitore costituiva un’offesa ingiusta rispetto alla posizione creditoria e ritenendo, al contempo, che la reazione del creditore fosse proporzionale rispetto all’offesa ricevuta36. Dalla lettura della sentenza emerge chiaramente la linea dottrinale precedentemente esposta. In pendenza di un sequestro conservativo non ancora eseguito, il creditore interviene per garantire la realizzazione successiva del diritto di credito in sede giudiziale. È chiara, dunque, la funzione conservativa svolta dalla legittima difesa rispetto alla realizzazione dell’interesse creditorio in sede giudiziale, minacciata dal comportamento del debitore. La maggiore applicazione giurisprudenziale della legittima difesa in ambito civilistico riguarda, invece, i casi di concorrenza sleale di cui all’articolo 2598 c.c. A questo proposito, è necessario premettere che la concorrenza sleale è considerata un’ipotesi di illecito extracontrattuale e ciò determina l’applicabilità delle norme sull’illecito generale37. Da ciò deriverebbe, secondo la dottrina e la giurisprudenza, pressoché unanime, l’applicabilità della legittima difesa anche per tale ipotesi di Cass., 28 agosto 2009, n. 18999, in Giust. civ., 2010, I, 341: «Osserva questa Corte che l’art. 2044 c.c. rinvia sostanzialmente, per la nozione di legittima difesa quale situazione idonea ad escludere la responsabilità civile per fatto illecito, all’art. 52 c.p., che richiede, a tal fine, la sussistenza, nella fattispecie, della necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa (Cass. 24 febbraio 2000, n. 2091). Nella fattispecie correttamente la Corte di merito ha ritenuto che per il creditore T. costituisse offesa ingiusta l’operazione di dispersione dei beni (tramite vendita) da parte del debitore e dell’acquirente (ormai cosciente), se solo si considera che tale posizione creditoria è tutelata dall’art. 2901 c.c., con l’azione revocatoria; e che il far presente all’acquirente i “guai giudiziari” (in cui si poneva) era proporzionato alla situazione creatasi». 37 Tra i più recenti: C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 612 e, in particolare, nota 105; L. Nivarra, Concorrenza sleale e responsabilità d’impresa, in G. Alpa, G. Conte (a cura di), La responsabilità di impresa, Milano, 2015, p. 196: «(…) è frequente, sia in dottrina, sia in giurisprudenza l’affermazione per cui la concorrenza sleale rappresenta un’ipotesi di illecito extracontrattuale, più precisamente che essa sia una species del genus illecito civile caratterizzata, come una sorta di “illecito proprio”, dal ricorrere di determinati requisiti soggettivi. Da questa impostazione consegue, anzitutto, la possibilità di applicare la normativa generale di cui agli artt. 2043 c.c. ss. in ordine ai profili non espressamente disciplinati (…)». 36
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illecito38. L’illiceità del comportamento concorrenziale, altrimenti vietato dall’articolo 2598 c.c., viene esclusa nel momento in cui tale condotta costituisca la reazione ad un comportamento illecito di un concorrente39. Sebbene venga ammessa l’applicabilità dell’esimente a tutte le ipotesi di concorrenza sleale40, la legittima difesa assume rilievo principalmente in caso di denigrazione, che si ravvisa nella comunicazione a terzi di notizie o apprezzamenti inerenti i prodotti, i servizi o le attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito41. Si ritiene, infatti, che la comunicazione a terzi del comportamento sleale tenuto da un concorrente rappresenti il comportamento difensivo più efficace per rimuovere le conseguenze lesive di tale condotta42. A tal proposito, si deve però segnalare un’interessante pronuncia dei giudici di merito che ha segnalato le criticità derivanti dall’applicazione dell’esimente, che lederebbe il diritto dei consumatori ad un’informazione efficacia e corretta, riducendo la concorrenza ad una mera competizione tra soggetti privati43. L’operatività della scriminante è subordinata alla sussistenza dei presupposti generali di applicabilità. Ciò significa che il pericolo mi-
38 Sul tema per tutti i riferimenti dottrinali e giurisprudenziali v. l’approfondimento di G. ghidini, La concorrenza sleale, in Giur. sist. dir. civ. comm. Bigiavi, II ed., Torino, 2001, p. 199 ss. 39 V. Di Cataldo, A. Vanzetti, Manuale di diritto industriale, III ed., Milano, 2018, p. 87 ss. 40 G. Santini, I diritti della personalità nel diritto industriale, Padova, 1959, p. 132. 41 V. Di Cataldo, A. Vanzetti, Manuale di diritto industriale, cit., p. 87. 42 V. Di Cataldo, A. Vanzetti, Manuale di diritto industriale, cit., p. 87. Sul tema v. quanto affermato da Cass. civ., 4 novembre 1998, n. 11047, in Riv. dir. ind., 2000, II, p. 209, con nota di G. Amodio, in Giust. civ., 1999, I, p. 703, con nota di F. Sebastio: «(…) il riconoscimento della possibilità di applicare anche al danneggiato da una condotta di concorrenza sleale i diritti di autotutela privata in questione, può evitare di premiare colui il quale aggredisce illecitamente l’altrui avviamento e, con il vantaggio del primo colpo, arreca all’investimento del concorrente un danno che la reintegrazione che segue alla tutela giudiziaria può rendere tardivo. Con ciò davvero rendendo il mercato, che deve essere luogo di realizzazione della libertà di ciascun diritto di intrapresa, privo di regola». 43 Trib. Roma, 29 novembre 2005, ord., in Giur. ann. dir. ind., 2005, p. 4903.
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nacciato deve essere attuale e che la reazione difensiva, consistente nella diffusione di notizie denigratorie, deve rispettare i requisiti della necessità e della proporzionalità, che si traduce nell’obiettività, non tendenziosità e moderazione della comunicazione44. Si afferma, in particolare, che la condotta denigratoria, quale reazione all’altrui illecito concorrenziale, debba essere esercitata entro i limiti della funzione difensiva45. L’applicabilità della legittima difesa è, inoltre, subordinata alla verità delle notizie diffuse46. L’exceptio veritatis, riconosciuta, sep Sul punto v. V. Di Cataldo, A. Vanzetti, Manuale di diritto industriale, cit., p. 68. In giurisprudenza v. tra le altre: Cass. civ., 23 maggio 2018, n. 12820, in Riv. dir. ind., 2018, II, p. 426; Cass. civ., 31 ottobre 2016, n. 22042, in Foro it., 2016, I, 3815, con nota di R. Pardolesi, “Exceptio veritatis e furore denigratorio: “falce e carrello” in Cassazione”, riguardante il contenzioso scaturito a seguito della pubblicazione del libro di denuncia del sistema delle Coop da parte del magnate di Esselunga, Bernardo Caprotti («La legittima difesa di cui all’art. 2044 c.c., che rinvia all’art. 52 c.p., quale situazione idonea ad escludere la responsabilità civile per fatto illecito, richiede la sussistenza della necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta e la proporzione tra l’offesa e la difesa, da valutarsi ex ante (v. Cass. n. 4492 e 18799/2009). Tanto premesso, la sentenza impugnata ne ha affermato la sussistenza, con l’effetto di considerare lecita la reazione di C.-Esselunga, in modo del tutto apodittico, senza alcuna valutazione dei presupposti giustificativi della legittima difesa. La sentenza non spiega quali sarebbero le offese ingiuste e quale il danno incombente, cui si riferirebbe la reazione di C. ed Esselunga, né si sofferma sul rapporto di proporzionalità anche temporale tra offesa e difesa. Inoltre, la reazione difensiva non può realizzarsi mediante atti denigratori (art. 2598, n. 2), quali sarebbero quelli consistenti nella comunicazione di notizie false, essendo compito del giudice di merito verificare la verità dei fatti comunicati da chi invoca la legittima difesa»); Cass. civ., 4 novembre 1998, n. 11047, cit.; nel merito: Trib. Milano, 28 marzo 2013, in Giur. annot. dir. ind., 2016, p. 274; App. Milano, 21 aprile 1998, in Giur. ann. dir. ind., 1998, p. 3915; Pret. Catania, 23 marzo 1983, in Giur. dir. ind., 1983, p. 541. Sull’immediatezza della reazione rispetto al pericolo minacciato v. App. Genova, 3 maggio 1976, in Giur. ann. dir. ind., 1976, p. 423. 45 Cass. civ., 23 maggio 2018, n. 12820, cit.; Cass. civ., 4 novembre 1998, n. 11047, cit.; Trib. Milano, 28 marzo 2013, cit.; Trib. Milano, 16 luglio 2012, in Giur. ann. dir. ind., 2012, p. 1020; Trib. Milano, 16 luglio 2002, in Giur. ann. dir. ind., 2002, p. 4646; App. Milano, 30 luglio 1999, in Giur. mil., 2000, p. 54; App. Milano, 30 ottobre 1998, in Dir. ind., 1999, p. 347, con nota di Cavallaro. 46 Tra le altre: Cass. civ., 31 ottobre 2016, n. 22042, cit.; Trib. Milano, 16 luglio 2012, in Giur. ann. dir. ind., 2012, p. 1020; Trib. Roma, 11 febbraio 2004, in Foro it., 2004, I, c. 1607; 44
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pur con certi limiti, a livello giurisprudenziale, troverebbe la propria ragione di essere nella stessa ratio della concorrenza sleale, basata sulla necessità di assicurare al consumatore un’informazione veritiera che gli permetta di avere un’effettiva conoscenza del mercato47. A prescindere dalla sussistenza della legittima difesa, la verità delle notizie è considerata di per sé sufficiente ad escludere l’illiceità della condotta48 e ciò ha fatto dubitare una parte della dottrina circa la reale rilevanza della scriminante nell’ambito della concorrenza sleale49.
2. Il danno ingiusto tra provocazione e legittima difesa. Gli elementi distintivi tra le due fattispecie L’analisi fin qui svolta porta ad interrogarsi sul ruolo della provocazione nell’ambito della legittima difesa e sui rapporti tra le due fattispecie, considerato che in entrambi i casi si rileva l’esistenza di un fatto ingiusto50. La provocazione, infatti, quale circostanza attenuante della pena e causa di non punibilità per i reati di ingiuria e di diffamazione, viene definita dall’articolo 62, n. 2, c.p., come la reazione del soggetto che si trova in uno stato d’ira, determinato Per un approfondimento sul tema v. L. Nivarra, Concorrenza sleale e responsabilità d’impresa, cit., p. 225 ss. Come espressamente messo in luce dall’Autore, il riferimento alla verità delle notizie diffuse, richiama, altresì, l’art. 10-bis (concorrenza sleale) della “Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà intellettuale” del 20 marzo 1883. 48 Espressamente sul punto, tra le più recenti: Trib. Vicenza, 18 settembre 2017, n. 2664, in banca dati DeJure, Giuffré; Trib. Roma, 18 giugno 1997, in Dir. inf., 1998, p. 282, con nota di G. Resta. 49 V. Di Cataldo, A. Vanzetti, Manuale di diritto industriale, cit., p. 68: «E poiché la proporzionalità richiesta viene tradotta in termini di obiettività, non tendenziosità, moderazione, è chiaro che si giunge a scriminare sotto il profilo della legittima difesa soltanto il comportamento che già sarebbe scriminabile con l’exceptio veritatis. Conseguentemente si può che nella fattispecie la legittima difesa abbia un reale rilievo». 50 Sul tema v. il contributo di G. Sabatini, Provocazione e legittima difesa: requisiti comuni e differenziali, nota a Corte di Cassazione del Regno (Seconda sezione penale), in Foro it., 1936, II, c. 54 ss. 47
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dal fatto ingiusto altrui51. Secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza penalistica, non vi è piena coincidenza tra i due concetti di ingiustizia utilizzati nell’ambito della legittima difesa e della provocazione. Nella provocazione il fatto ingiusto non sarebbe solamente il fatto illegittimo, contrastante con i principi dell’ordinamento giuridico, ma nel concetto di ingiustizia rientrerebbero, al contrario, anche valutazioni di carattere sociale e morale, idonee a verificare e valutare se il turbamento d’animo prodotto possa essere ritenuto giustificabile52. In base a ciò, si ritiene che nell’ambito della provocazione, a differenza della legittima difesa, il concetto di ingiustizia sia totalmente indeterminato. La sua concretizzazione viene demandata a dei giudizi di valore e si attua attraverso il rinvio alle norme di convivenza sociale, considerate come il patrimonio spirituale di ogni comunità organizzata53. Nella legittima difesa, invece, il concetto di fatto ingiusto risulta predeterminato in senso generale ed astratto da parte del legislatore54.
Per un’analisi dettagliata dell’istituto v. A. Santoro, voce Provocazione (diritto penale), in Noviss. Dig. It., XIV, Torino, 1967, p. 395 ss. 52 M.A. Colacci, Appunti su la provocazione, in Arch. pen., 1959, p. 119 ss. e 124 ss., ed in particolare p. 120: «L’ingiustizia del fatto comprende qualsiasi comportamento che ecceda dai limiti della convenienza, della umanità, da quelle norme, insomma che, pur non essendo tutelate dalla legge sono imposte al vivere civile e che nell’interesse sociale debbono essere rispettate»; sulla stessa linea A. Dalia, Offesa ingiusta e fatto ingiusto altrui nel diritto penale, in Arch. pen., 1963, 1963, p. 53 ss.; contra G. Marini, Il fatto ingiusto nella provocazione, nota a Cass. civ., sez. I., 15 febbraio 1960, in Riv. it. dir. proc. pen., 1961, p. 808 ss. L’Autore ritiene, in particolare, che le argomentazioni sopra esposte generano il pericolo di estendere in maniera incontrollabile l’attenuante in esame e, al contempo, non trovano alcun sostegno nell’ambito del diritto positivo. Il termine ingiusto adottato dal legislatore si riferisce ad una nozione specifica e puntuale, utilizzata in altre parti del codice penale, che allude al fatto antigiuridico, cioè al fatto contrario ad una norma qualsiasi dell’ordinamento giuridico. In questo senso non si ravviserebbe alcuna differenza tra il concetto di ingiustizia utilizzato per la legittima difesa, che coincide con la definizione civilistica e il concetto di ingiustizia nell’ambito della provocazione. Di conseguenza, se si ravvisa una differenza tra i due istituti deve essere comunque ricercata altrove. 53 A. Dalia, Offesa ingiusta e fatto ingiusto altrui nel diritto penale, cit., p. 55 ss. 54 A. Dalia, Offesa ingiusta e fatto ingiusto altrui nel diritto penale, cit., p. 54 ss.: «Si afferma comunemente che elemento comune alla legittima difesa e alla 51
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Seguendo questa tesi, nella provocazione non è riscontrabile lo stesso concetto di ingiustizia intesa come antigiuridicità obiettiva, che caratterizza l’aggressione nella legittima difesa. L’ambito di valutazione dell’ingiustizia del fatto, infatti, non si rapporta solamente alle norme giuridiche, ma si estende fino a ricomprendere anche tutte le norme di carattere extra-giuridico, che caratterizzano il vivere sociale 55. La dottrina civilistica non ha, però, seguito questa impostazione. Secondo un orientamento piuttosto risalente, la differenza tra la provocazione e la legittima difesa andrebbe ravvisata nella tipologia delle situazioni giuridiche soggettive tutelate. Nello specifico, l’ambito di applicazione della legittima difesa sarebbe esclusivamente circoscritto alla tutela dei diritti soggettivi. La difesa di un mero interesse determinerebbe, invece, la sola invocabilità dell’attenuante56. provocazione sia l’ingiustizia del fatto (…). Questa affermazione è una diretta conseguenza dell’interpretazione letterale del termine ingiustizia. Infatti, come per l’offesa ingiusta rilevante ai sensi dell’art. 52 c.p., così anche per la provocazione, si ritiene che il fatto debba consistere in un’offesa sine iure, senza motivo ragionevole, si che ne derivi un giusto turbamento nell’animo dell’agente. Ma la ingiustizia del fatto quale presupposto è un concetto indeterminato, assolutamente insuscettibile di un’astrazione o tipicizzazione precisa da parte del legislatore, che non poteva dimostrarsi indifferente di fronte al fenomeno sociale di stati di ira determinati da azioni generalmente sconvenienti o immorali, né poteva d’altra parte formulare una casistica destinata a rimanere oltretutto incompleta. Per quanto la legge adotta un concetto di ingiustizia con un riferimento di valore di cui il giudice determinare in concreto il contenuto in base a “valutazioni medie sociali e morali di un popolo in un determinato momento storico, onde accertare se siasi prodotto un giustificato turbamento nell’ambito dell’agente. Pertanto, si richiede da parte del giudice una attività non solo interpretativa, ma anche di valutazione, un apprezzamento che ha per base dei concetti indeterminati»; sulla stessa linea nella giurisprudenza: Cass. civ., sez. I., 15 febbraio 1960, in Riv. it. dir. proc. pen., 1961, p. 806, con nota di G. Marini, Il fatto “ingiusto” nella provocazione. 55 A tal proposito vedi anche le osservazioni di V. Caredda, Provocazione e concorso del fatto colposo del danneggiato: una veduta di scorcio dell’ordinamento, in Riv. dir. proc. civ., 2017, p. 64, nota 1. L’ Autrice ritiene che il concetto di fatto ingiusto nella provocazione non coincida con il fatto generatore di responsabilità civile («A nostro avviso, inoltre, il riferimento penale al fatto ingiusto non si sovrappone e non coincide con il fatto dannoso generatore di responsabilità civile»). 56 E. Ondei, La responsabilità per il danno arrecato per eccesso di difesa e per provocazione, nota a Cass. civ., sez. III, 24 aprile 1954, n. 1240 e a Trib. Milano,
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Questa distinzione non trova, però, alcun tipo di giustificazione alla luce degli orientamenti attuali. Infatti, come già approfondito, l’evoluzione del concetto di ingiustizia del danno ha portato ad estendere l’applicabilità della legittima difesa alla tutela di tutti gli interessi giuridicamente tutelati, sebbene i precedenti giurisprudenziali riguardino principalmente i diritti soggettivi personali. L’orientamento dottrinale più recente concentra, invece, la propria attenzione sull’elemento soggettivo che caratterizza ciascuna delle due fattispecie. La differenza tra la provocazione e la legittima difesa andrebbe, dunque, riscontrata nella diversa finalità che spinge il soggetto a reagire causando un danno al provocatore o all’aggressore. In particolare, nel caso della provocazione, la reazione del provocato è animata dalla volontà di arrecare un danno al provocatore. Di conseguenza, in questa fattispecie non appare ravvisabile la finalità difensiva, che caratterizza, al contrario, la legittima difesa. La reazione del provocato non è, dunque, animata e, soprattutto, finalizzata alla tutela di un interesse proprio o altrui in pericolo, ma è dovuta ad uno stato d’ira, riconducibile al fatto ingiusto altrui57. In sintesi, nella provocazione non è ravvisabile la finalità di difesa che determina l’esclusione della responsabilità risarcitoria in capo al soggetto agente. Di conseguenza, là dove il provocato causi un danno ingiusto al provocatore, non potrà invocare la legittima difesa e incorrerà nell’ordinaria responsabilità ex art. 2043 c.c.58.
7 ottobre 1054, cit., in Foro pad., 1955, c. 592: «Legittima difesa non si dà se in relazione ad un diritto determinato da difendere: vero e proprio diritto soggettivo e non semplice interesse. Chi difende un semplice interesse, giuridicamente protetto in modo incompleto, non può invocare la legittima difesa, ma soltanto l’attenuante della provocazione». 57 Su questa linea: G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 63 ss.; M. Franzoni, Sub art. 2044, cit., p. 292; P.G. Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 237. 58 G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 64: «Si deve, al riguardo, osservare che correttamente l’orientamento indicato sottolinea l’aspetto soggettivo della problematica, e cioè il fine che l’agente intende perseguire, che sostanzialmente coincide con quello tipico di chi pone in essere un fatto illecito previsto dall’art. 2043 c.c. Conclusione codesta che certamente risponde a quell’esigenza di tutela di colui che subisce un pregiudizio, alla quale è possibile derogare solo in presenza di ragioni di particolare interesse sociale». L’applicazione dell’ordinaria responsa-
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Il rapporto tra provocazione e legittima difesa non si esaurisce, però, nell’individuazione degli elementi comuni e delle differenze, che determinano la distinzione tra le due fattispecie. Si discute, infatti, sull’esclusione della legittima difesa in tutti i casi in cui l’aggredito assuma al contempo le vesti di provocatore. Tale tema verrà, però, successivamente affrontato nell’ambito dell’involontarietà del pericolo, che, secondo una parte della dottrina, costituisce un ulteriore requisito applicativo della legittima difesa.
3. Il pericolo. I caratteri generali: l’attualità Per poter legittimare la reazione da parte dell’aggredito, l’aggressione ingiusta deve aver creato il pericolo di un’offesa ingiusta. Quando si parla di pericolo si indica, in generale, una situazione capace di creare un danno, che, però, non si è materialmente prodotto59. Ciò significa, dunque, che la condotta dell’aggressore deve necessariamente determinare una minaccia per la persona o i beni del difensore o di un terzo60. Secondo la ricostruzione penalistica, l’aggressione è idonea a creare il pericolo di un’offesa ingiusta, nel momento in cui vi sia un elevato grado di probabilità che l’offesa possa concretamente
bilità risarcitoria viene giustificata dagli Autori attraverso il riferimento all’art. 62 n. 2, c.p., che configura la provocazione come una circostanza attenuante e non come esimente (sul punto v. M. Franzoni, Sub art. 2044 c. c., cit., p. 292). Inoltre, come sottolineato da G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 64, il fine che l’agente intende perseguire nella provocazione coincide sostanzialmente con il fine perseguito dal soggetto, che intenda compiere un fatto illecito ex art. 2043 c.c. 59 E. Altavilla, voce Legittima difesa (diritto penale comune), cit., p. 622: «Pericolo significa situazione capace di cagionare un danno. Ma perché possa avere rilevanza giuridica è necessario che il danno non si sia prodotto, altrimenti rientra nel processo esecutivo di esso: se alcuno impugna il fucile per uccidere, soltanto se non riesce ad uccidere, può dirsi che ha creato un pericolo per la vita altrui»; A. Diurni, Sub art. 2044, cit., p. 11, definisce “pericolo oggettivo” l’idoneità di uno o più fenomeni a cagionare la perdita o la diminuzione di un bene o di un diritto oppure il sacrificio o la restrizione di un interesse. 60 C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 678.
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realizzarsi. La valutazione del pericolo si basa, dunque, su criteri di tipo probabilistico e non possibilistico61 e deve tener conto di tutte le circostanze del caso di concreto. Ciò significa che nell’accertamento del pericolo rileveranno non solo i dati conoscibili ex ante, vale a dire al momento in cui viene posta in essere la difesa, ma anche quelli rilevati ex post, nel momento in cui la vicenda si è ormai conclusa62. Si dovrà, dunque, tener conto di tutte le circostanze obiettive del caso concreto, anche se si tratta di elementi conosciuti solo successivamente alla realizzazione della condotta difensiva63. Pur in assenza di indicazioni a livello legislativo, la dottrina civilistica ha individuato l’attualità del pericolo come requisito imprescindibile per il riconoscimento della legittima difesa64. La ricostruzione di tale requisito è strettamente dipendente dall’esperienza nell’ambito del diritto penale, dove è previsto esplicitamente a li61 F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 251 ss.; T. Padovani, voce Difesa legittima, cit., p. 501 ss.; contra C. F. Grosso, voce Legittima difesa (dir. pen.), in Enc. dir., XXIV, Milano, 1974, p. 32 ss., secondo il quale deve essere applicato un criterio di tipo possibilistico. L’applicazione del criterio probabilistico porterebbe, secondo Grosso, ad escludere l’applicabilità dell’art. 52 c.p. tutte le volte in cui le possibilità favorevoli siano minori rispetti alle probabilità contrarie. In questo modo, si verrebbe a restringere enormemente l’ambito applicativo dell’esimente. Una soluzione non potrebbe nemmeno essere rappresentata dall’utilizzo del criterio possibilistico. Il riferimento alla mera possibilità di danno, infatti, porterebbe al risultato opposto, ampliando enormemente la sfera di applicabilità della legittima difesa. Per tale motivo, Grosso ritiene che nel concetto di pericolo debba essere insito «l’apprezzabile grado di possibilità di un evento temuto». Nella dottrina civilistica v. le riflessioni di A. Diurni, Sub art. 2044, cit., p. 12. 62 Sul punto v. la compiuta analisi di T. Padovani, voce Difesa legittima, cit., p. 501 ss., che si riferisce, in particolare, a quanto già espresso sul punto Da C. F. Grosso, voce Legittima difesa, cit., p. 33. 63 F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 274. L’Autore specifica, in questo senso, che il pericolo deve essere affrontato su base totale. Nel caso in cui il pericolo, in base alle circostanze valutate ex ante sia erroneamente supposto, troverà applicazione la disciplina in materia di legittima difesa putativa. L’esempio è quello del soggetto che reagisce alla minaccia di un rapinatore, che impugna una pistola, rivelatasi successivamente un giocattolo. 64 E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 18: «(…) nulla espressamente dice il codice civile: non può esservi dubbio, tuttavia, che tale requisito sia indispensabile perché sia configurabile l’ipotesi della difesa legittima (…)».
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vello normativo, ed è, al contempo, connessa ad esigenze logiche legate alla funzione dell’istituto. La minaccia di un’offesa ingiusta rispetto ad un interesse giuridicamente tutelato non può collocarsi in una prospettiva temporale futura. Infatti, là dove il pericolo fosse solo eventuale e futuro, il soggetto minacciato potrebbe pur sempre avvalersi dei mezzi di tutela statuali, senza essere costretto ad agire autonomamente in autotutela. In questo caso verrebbe meno la funzione stessa della legittima difesa, che rappresenta la norma cardine in materia di autotutela privata65. In tali ipotesi, il soggetto si troverebbe nelle condizioni di predisporre dei mezzi idonei di difesa, che escludono il ricorso all’autotutela privata e che, pur presentandosi meno lesivi, permettono di ottenere lo stesso effetto con riguardo all’aggressore66. Ciò significa che, in tutti i casi in cui l’aggressione sia solamente potenziale, l’aggredito deve necessariamente scegliere la soluzione maggiormente conforme ai principi stabiliti dall’ordinamento giuridico67. In questo modo la legittima difesa si profila come l’estrema ratio, attuabile in tutte quelle ipotesi in cui non sia possibile far ricorso ad altri strumenti di tutela, diversi e soprattutto meno lesivi rispetto all’autotutela privata. La legittima difesa non può nemmeno configurarsi in presenza di un pericolo che, seppur già venuto ad esistenza, sia ormai cessato a prescindere dal verificarsi o meno dell’offesa. Infatti, nel momento in cui il pericolo non si sia materialmente verificato, la reazione nei confronti di un comportamento non dannoso non potrebbe trovare alcuna giustificazione in base all’art. 2044 c.c., perché non esiste
P.G. Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 231: «La ratio è ancora una volta evidente: la legittima difesa in tanto può essere scusata come autogiustizia privata, in quanto la vittima dell’aggressione non abbia modo di rivolgersi alla struttura dello Stato per difendersi dall’aggressione stessa». 66 G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 59. 67 Su questa linea G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 59, che individua la ratio della legittima difesa in una valutazione complessiva degli opposti interessi e ritiene, in base a ciò, che sia preferibile, in tutti i casi in cui ciò sia possibile, una soluzione maggiormente conforme rispetto ai principi stabiliti dall’ordinamento giuridico. 65
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nessun danno da evitare68 e, di conseguenza, la legittima difesa non potrebbe esplicare la sua funzione. Si presenta ugualmente priva di giustificazione la reazione del l’aggredito in tutti quei casi in cui l’offesa si sia già consumata. In base all’art. 2044 c.c., l’aggredito ha, infatti, la possibilità di reagire per evitare il verificarsi di un danno ingiusto. Là dove il danno si sia già verificato, la reazione non avrebbe alcun carattere difensivo, ma si presenterebbe, al contrario, come una vera e propria “rappresaglia o vendetta”, eludendo, dunque, la funzione della legittima difesa69. Di conseguenza, il pericolo cessa una volta che si sia già realizzata l’offesa al bene giuridico e la reazione eventualmente realizzata si presenterebbe come una «ritorsione a carico del soggetto aggredito»70. L’unica eccezione rispetto a tale principio viene riconosciuta dalla dottrina, in ossequio all’esperienza penalistica, nel caso in cui l’illecito commesso rientri nell’ambito dei reati permanenti71. Rientrano in questa categoria tutte le fattispecie delittuose in cui la consumazione del reato perdura nel tempo e gli atti compiuti dall’autore del reato per conservare la situazione antigiuridica appartengono alla fase consumativa del reato stesso72. In questi casi, si verifica nello specifico «una continuità nell’offesa al bene giuridico,
E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 18; riprendono tale concetto anche G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 59 e P.G. Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 231. Nel diritto tedesco il requisito dell’attualità del pericolo è già insito nella norma. Il § 227 BGB parla, infatti, di “attacco attuale”: sul punto v. L. Enneccerus, H. C. Nipperdey, Allgemeiner Teil des Bürgerlichen Rechts, XV ed., Tübingen, 1960, p. 1451 ss. 69 Sul tema, innanzitutto, E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 18, e successivamente M. Franzoni, Sub art. 2044, cit., p. 290 ss.; G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 59. 70 G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 58. 71 Tra gli altri: M. Franzoni, Sub art. 2044, cit., p. 291: «Ancora, si ritiene che il pericolo conservi la attualità nei fatti illeciti permanenti anche qualora il danno si sia già prodotto»; A. Diurni, Sub art. 2044, cit., p. 13 e G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 58. 72 G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. La Gatta, Manuale di diritto penale, Parte generale, IX ed., Milano, 2020, p. 283. 68
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che rende lecita una reazione difensiva in qualunque momento sino alla cessazione della permanenza»73. Esempi tipici sono quelli del sequestrato, che reagisce contro i propri carcerieri o del padrone di casa, che costringe con la forza a far uscire l’ospite indesiderato dal proprio appartamento74. In tutte queste ipotesi permane l’attualità del pericolo per tutto il tempo in cui si perpetua l’offesa al bene giuridico75. Il riconoscimento della legittima difesa è, dunque, subordinato al fatto che l’offesa, seppur iniziata, non si sia ancora esaurita nel momento in cui l’aggredito abbia posto in essere la condotta difensiva76. Da un punto di vista strettamente civilistico, si tratta di tutte quelle fattispecie in cui, sebbene l’offesa si sia già realizzata, continuano a permanere degli effetti giuridici che l’aggredito ha interesse ad eliminare77. Il pericolo, in questo senso, continua ad essere attuale, perché l’aggredito ha ancora la possibilità di eliminare tali effetti, reagendo all’offesa già perpetuata. In questo modo, riprendendo quanto già accennato precedentemente, la legittima difesa può eccezionalmente rivestire una funzione di tipo reattivo, che va ad aggiungersi alla tipica funzione conservativa. La reazione da parte dell’aggredito permette, infatti, il ripristino dello status quo, eliminando gli ulteriori effetti pregiudizievoli che si siano verificati. Inoltre, una parte della dottrina civilistica, ispirandosi alla ricostruzione penalistica78, ha identificato l’attualità del pericolo con il
F. Sarno., M. Sarno, L’evoluzione della legittima difesa, Milano, 2008, p. 17. F. Sarno, M. Sarno, L’evoluzione della legittima difesa, cit., p. 17 ss., che riprendono gli esempi di E. Altavilla, voce Difesa legittima, cit., p. 622 ss. Sul punto anche F. Antolisei, Diritto penale, Parte generale, XVI ed., aggiornata ed integrata da L. Conti, Milano, 2003, p. 603. I civilistici traggono dalla giurisprudenza penalistica l’esempio del derubato, che spara alle ruote dalla motocicletta su cui stanno fuggendo i ladri con la refurtiva (A. Venchiarutti, La legittima difesa, cit., p. 475). 75 F. Antolisei, Diritto penale, cit., p. 603. 76 E. Altavilla, voce Difesa legittima, cit., p. 622. 77 G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 58. 78 G. Bettiol, L. Pettoello Mantovani, Diritto penale, cit., p. 381 e C. F. Grosso, Difesa legittima e stato di necessità, cit., p. 79 ss., secondo il quale l’imminenza del pericolo è insita nell’applicabilità della legittima difesa. Infatti, nel 73
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concetto di imminenza79. Il pericolo viene considerato imminente in tutti i casi in cui intercorra un breve lasso di tempo tra il suo realizzarsi e l’effettivo tramutarsi in un danno a carico del soggetto aggredito. Nella ricostruzione del concetto di imminenza dovranno essere valutate, non solo le circostanze oggettive in cui si trovava la vittima al momento dell’aggressione, ma anche gli aspetti meramente soggettivi, legati alla personale percezione dell’aggredito80. Sulla base di quanto emerge dalla ricostruzione dottrinale, sembra che anche l’accertamento dell’elemento soggettivo passi attraverso dei criteri e parametri di tipo oggettivo. Si dovrà, infatti, valutare se un uomo medio, con le caratteristiche della vittima e nelle stesse circostanze concrete avrebbe percepito come probabile l’avverarsi dell’offesa. Seguendo questa ricostruzione, appare chiaro come il concetto di imminenza debba essere riferito più propriamente al danno e non alla situazione di pericolo81. Si riscontra, tuttavia l’utilizzo di
caso in cui il pericolo non fosse imminente, cioè, sebbene molto prossimo, non fosse ancora sorto, potrebbe essere sempre richiesto l’intervento dei pubblici poteri, escludendo, così, il ricorso alla legittima difesa. 79 A. Diurni, Sub art. 2044, cit., p. 13 ss.: «Per l’art. 2044 c.c., come per il 2045 c.c., sembra potersi affermare che l’attualità del pericolo rientra nel concetto di imminenza nel senso che, affinché la difesa possa essere qualificata come legittima, lo spazio di tempo che separa il presentarsi del pericolo dal suo effettivo tramutarsi in danno deve essere breve». 80 A. Diurni, Sub art. 2044, cit., p. 13, riprende quanto già affermato in relazione all’art. 2045 c.c. in Id., Sub art. 2045, in U. Carnevali (a cura di), Artt. 2044-2059, Dei fatti illeciti, Comm. Cod. civ., v. 2, Torino, 2011, p. e in Id., Gli stati di giustificazione nella responsabilità civile, Torino, 2003, p. 28 ss. In riferimento allo stato di necessità, l’Autrice ritiene che il concetto di attualità del pericolo debba essere specificato attraverso il concetto di imminenza, che permette di dare una visione del concetto di attualità dal punto di vista meramente soggettivo. In questo modo, sarà possibile effettuare una valutazione del caso concreto, che consideri la situazione personale in cui si trova il c.d. soggetto necessitato. A questo proposito, l’Autrice cita come esempio quello di Tizio che, per salvare sé e la propria la famiglia dall’impeto di una inondazione penetra in casa altrui. Secondo la ricostruzione di A. Diurni, l’attualità del pericolo sussiste sia nel caso in cui le onde si stiano già infrangendo contro la casa di Tizio, sia nell’ipotesi in cui occorra attendere un certo lasso di tempo affinché ciò avvenga. 81 E. Altavilla, voce Difesa legittima, cit., p. 622.
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tale accezione in riferimento sia all’offesa sia all’aggressione. Ciò porta a chiedersi se il giudizio di immanenza del pericolo debba presupporre un’aggressione già in atto oppure debba riferirsi ad un’aggressione futura, che, però, in base alle circostanze concrete e alla percezione soggettiva della vittima debba considerarsi altamente probabile. Inoltre, il riferimento all’elemento soggettivo, legato al giudizio di imminenza da parte della vittima, sembrerebbe aprire la strada ad un’altra fattispecie, quella della legittima difesa putativa, dove vengono in rilievo elementi oggettivi e soggettivi, legati alla buona fede del “danneggiato”. Infatti, dando rilievo alla percezione dell’aggredito, il concetto di imminenza del pericolo sembrerebbe confondersi con la realità dell’aggressione, che rappresenta nel diritto civile uno dei presupposti essenziali per il riconoscimento della legittima difesa.
4. L’involontarietà del pericolo 4.1. L’esperienza penalistica. Dottrina e giurisprudenza a confronto A differenza di quanto previsto per lo stato di necessità, l’art. 2044 c.c., così come l’art. 52 c.p. non prevede l’involontarietà del pericolo tra i presupposti per il riconoscimento della legittima difesa. Tuttavia, una parte della dottrina civilistica ha introdotto l’elemento dell’involontarietà, ispirandosi all’esperienza dottrinale e giurisprudenziale penale82. 82 M. Franzoni, Sub art. 2044, cit., p. 291: «Così, ad esempio, se il pericolo è volontariamente creato dall’aggredito, né può dirsi necessaria la reazione né ingiusta l’offesa», e, seppur con argomentazioni in parte differenti, Id., L’illecito, cit., p. 1138 ss.; G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 59; A. Venchiarutti, La legittima difesa, cit., p. 475. Si discosta, invece, dalle argomentazioni di stampo penalistico, sebbene faccia proprio il requisito dell’involontarietà del pericolo: P.G. Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 232: «Una difesa non è meno necessaria, onde salvaguardare i propri interessi, magari all’incolumità fisica, sol perché la vittima ha cagionato volontariamente una situazione di pericolo. Né l’atto illecito del terzo che leda la salute della vittima smette di essere ingiusto solo perché la vittima si è posta da sé in una condizione di pericolo attuale. Né ancora, la psiche della vittima che si difende da un danno grave ed imminente alla salute,
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È opportuno, dunque, soffermarsi, sull’esperienza penalistica, in modo tale da comprendere meglio le argomentazioni in campo civile. È opinione ormai consolidata nella giurisprudenza penale che la causazione volontaria del pericolo o l’esposizione volontaria ad una situazione di pericolo, là dove sia animata da un intento lesivo, determina l’esclusione della legittima difesa83. La causazione volontaria del pericolo implica che l’agente abbia agito nella ragionevole previsione di determinare una reazione aggressiva, accettando volontariamente la situazione di pericolo da lui creata e, dunque, il rischio di subire un’aggressione. Ad esempio, Tizio non potrà invocare la legittima difesa, se, dopo aver provocato la vittima, insultandola e minacciandola, ha dato origine ad uno scontro fisico con l’avversario84. La legittima difesa deve essere esclusa anche nel caso in cui il soggetto si sia esposto volontariamente ad una situazione di pericolo, creata da altri, accettando una sfida e, dunque, accettando, anche in questo caso il rischio di subire un’aggressione. In questa ipotesi, l’agente si inserisce volontariamente in una situazione di pericolo, che è fronteggiabile e superabile solo realizzando un’aggressione e, dunque, attraverso una condotta lesiva a danno di altri85. Per l’efunziona meglio, e più stoicamente, solo perché la vittima stessa ha determinato la situazione di pericolo». 83 V. tra le pronunce più recenti: Cass. pen., 29 novembre 2019, n. 15090, in Studium Iuris, 2021, p. 88; Cass. pen., 21 giugno 2018, n. 3789, in Cass. pen., 2019, p. 2637; Cass. pen., 8 novembre 2017, n. 337, in Guida dir., 2018, p. 82; Cass. pen., 13 settembre 2017, n. 56330; Cass. pen., 19 febbraio 2015, n. 32381, nel merito, tra le altre: App. Palermo, 3 ottobre 2016, in Pluris, Wolters Kluwer; App. Cagliari, 12 maggio 2013, in Pluris, Wolters Kluwer. 84 Cass. pen., 23 giugno 2020, n. 19079, in Pluris, Wolters Kluwer. 85 Cass. pen., 25 febbraio 2019, n. 26044, in D&G, 2019, 13 giugno; Cass. pen., 21 febbraio 2019, n. 17787, in Guida dir., 2019, p. 121; Cass. pen., 21 giugno 2018, n. 37289, in Cass. pen., 2019, p. 2637; Cass. pen., 12 gennaio 2018, n. 15460, in Guida dir., 2018, p. 84; Cass. pen., 8 novembre 2017, n. 33707, in Guida dir., 2018, f. 38, p. 82; Cass. pen., 18 luglio 2013, n. 41468, in Resp. civ. prev., 2013, p. 2073 e in D&G, 2013, 8 ottobre, con nota di Ferretti; Cass. pen., 27 novembre 2012, n. 4874; Cass. pen., 20 dicembre 2011, n. 1274, in Cass. pen., 2013, p. 1921; Cass. pen., 23 settembre 2010, n. 36218, in Cass. pen., 2011, p. 3045; Cass. pen.,
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sclusione della legittima difesa, è, inoltre, necessario che l’agente, pur avendo accettato la sfida, abbia manifestato un intento lesivo nei confronti della vittima86. In questo modo, si evita un’eccessiva
18 giugno 2009, n. 33863, in Guida dir., 2009, p. 64 (s.m.); Cass. pen., 18 gennaio 2005, n. 10406, in Cass. pen., 2006, p. 2847; Cass. pen., 2000, n. 13151; Cass. pen., 15 dicembre 1970, n. 1319; in Ced Cassazione penale, 1971; nel merito, tra le più recenti: App. Torino, 22 marzo 2019, n. 2224, in DeJure, Giuffré, 2019; Trib. Udine, 22 marzo 2017, in Pluris, Wolters Kluwer; Trib. Monza, 28 maggio 2012, in Pluris, Wolters Kluwer; App. Milano, 17 febbraio 2009, in Pluris, Wolters Kluwer. 86 Cass. pen., 9 gennaio 2004, n. 9606, in Ced Cassazione penale 2004: «Accettazione di un pericolo e accettazione di una sfida non sono, infatti, concetti intercambiabili, ma diversi, nel senso che il secondo comprende il primo, ma non viceversa. E l’essenzialità della differenza si coglie pienamente nel raffronto fra l’art. 52 c.p., che prevede l’istituto della legittima difesa, e l’art. 54 stesso codice, che prevede lo stato di necessità. Solo per quest’ultimo, infatti, si stabilisce che il pericolo debba essere “non volontariamente causato né altrimenti evitabile” (rigore, questo, che ben si giustifica considerando che lo stato di necessità è, per definizione, invocabile anche nei confronti di chi della situazione di pericolo non sia minimamente responsabile), mentre nell’art. 52 si stabilisce soltanto, per quanto qui interessa, che debba esistere “la necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta”, senza minimamente accennare all’esigenza che quel pericolo non sia stato volontariamente accettato. Il che significa che la legittima difesa è esclusa non dalla libera accettazione del pericolo in quanto tale, ma della già prevista necessità di fronteggiare quel pericolo mediante la commissione di un reato: ciò che si verifica, appunto, con l’accettazione della “sfida”, la quale comporta per sua natura un inevitabile pericolo per la propria incolumità personale, fronteggiabile solo con la lesione dell’incolumità altrui, mentre non si verifica quando ci si limiti semplicemente ad esporsi, come nel caso di specie (sempre secondo quanto emerge dalla ricostruzione operata in sede di merito), a possibili (ma non assolutamente certe) iniziative aggressive altrui, senza essere a propria volta animati da alcun intento aggressivo. Diversamente opinando l’ambito di operatività della legittima difesa verrebbe, sotto il profilo che qui interessa, ad essere ricalcato, in palese contrasto con la lettera e la “ratio” della legge, su quello dello stato di necessità, per cui, ad esempio, basterebbe l’aver accettato una discussione con un soggetto che abbia assunto un atteggiamento minaccioso per escludere la legittima difesa, pur quando il medesimo soggetto, proseguendo quell’atteggiamento, abbia dato motivo all’interlocutore di nutrire il ragionevole timore di un immediato pericolo per la propria incolumità personale»; Cass. pen., 7 giugno 2007, n. 27008, in Guida dir., 2007, 30, 68 (s.m.); Questa linea sembrerebbe espressa da E. Altavilla, voce Difesa legittima (diritto penale comune), cit., p. 625. L’Autore afferma, infatti, che la legittima difesa non può essere esclusa semplicemente per il fatto che l’aggredito ha creato la situazione di pericolo. Si tratta, infatti, di un requisito espressamente previsto solo per lo stato
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restrizione dell’ambito applicativo dell’esimente, che altrimenti finirebbe per essere esclusa in tutti quei casi in cui l’agente si sia limitato ad intrattenersi con un interlocutore piuttosto minaccioso. L’elemento dell’intenzionalità lesiva emerge in maniera evidente anche nell’ambito del reato di rissa. I partecipanti alla rissa, infatti, accettano volontariamente la situazione di pericolo in cui si sono posti e sono animati dall’intento reciproco di offendere87. La legittima difesa dei corrissanti potrà essere riconosciuta solo eccezionalmente, nel caso in cui uno dei partecipanti si sia trovato a fronteggiare un pericolo maggiore rispetto a quello inizialmente prevedibile e accettato88. In virtù di ciò, è stata ammessa, ad esempio, la legittima difesa del corrissante che abbia agito per difendere la propria moglie, intervenuta in sua difesa nel corso della lite89. I Giudici non seguono, però, un’impostazione univoca per quanto concerne le motivazioni giuridiche, che permettono di escludere i casi sopra esposti dall’ambito applicativo della legittima difesa. L’opinione maggioritaria ritiene che la determinazione volontaria del pericolo o l’esposizione ad una situazione di pericolo con intento aggressivo farebbe venir meno la necessità della reazione, che costituisce un requisito imprescindibile previsto dalla legge90. L’in-
di necessità. Ciò significa, ad esempio, che l’adultero, sorpreso in flagranza, può agire per legittima difesa di fronte alla minaccia di morte perpetuata dal marito della propria amante. In questi casi, infatti, non è sempre riscontrabile un atteggiamento aggressivo da parte del soggetto aggredito. 87 Cass. pen., 11 aprile 2019, n. 36143, in Guida dir., 2019; Cass. pen., 18 aprile 2013, n. 23883, in D&G, 2013, 4 giugno, con nota di F.G. Capitani; Cass. pen., 23 settembre 2010, n. 36218, in Cass. pen, 2011, p. 3045; nel merito: Trib. Nola, 24 luglio 2019, n. 1230, in Guida dir., 2020, p. 94; App. Palermo, 18 maggio 2017, n. 2188, in Dejure Giuffrè. 88 Cass. pen., 19 febbraio 2015, n. 32381, in Cass. pen., 2016, p. 1632; Cass. pen., 9 ottobre 2008, n. 4402, in Ced Cassazione Penale 2008; Cass. pen., 16 novembre 2006, n. 7635; Cass. pen., 14 novembre 1992, in Cass. pen., 1994, p. 2089 (s.m.) e in Giust. Pen., 1993, II, p. 511 (s.m.); App. Palermo, 3 ottobre 2016, n. 4163, in Guida dir., 2017, p. 106. 89 Cass. pen., 11 aprile 2019, n. 36143, cit. 90 Cass. pen., 25 febbraio 2019, n. 26044, in Dir. giust., 2019, 13 giugno; Cass. Pen., 25 giugno 2018, n. 37289, in Cass. pen., 2019, 2637; Cass. Pen., 20 dicembre 2011, n. 12740, in Cass. pen., 2013, p. 1921; Cass. Pen., 9 novembre 2011, n. 2654,
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volontarietà del pericolo viene, dunque, logicamente ricondotta alla necessità della difesa. Di conseguenza, là dove manchi tale requisito, la reazione da parte del soggetto aggredito non potrà mai considerarsi necessaria. Secondo l’orientamento minoritario, invece, l’involontarietà del pericolo sarebbe insita nei concetti di attualità del pericolo ed ingiustizia dell’offesa91. I Giudici non forniscono, tuttavia, argomentazioni precise che permettano di comprendere il rapporto tra involontarietà del pericolo e ingiustizia dell’offesa, ma, anzi, in alcuni casi, le ricostruzioni appaiono piuttosto contradditorie. Il fatto che l’involontarietà, seguendo la teoria minoritaria, sia un elemento implicito nei concetti di attualità e di ingiustizia dell’offesa dovrebbe determinare un rapporto di stretto collegamento tra questi elementi, in modo che, in caso di determinazione volontaria del pericolo, dovrebbero venir meno anche l’attualità e l’ingiustizia dell’offesa. Ciò nonostante, le argomentazioni dei Giudici non appaiono chiare su quest’ultimo punto92.
in Ced Cassazione penale 2011; Cass., 23 settembre 2010, n. 36218, in Cass. pen., 2011, p. 3045; Cass. pen., 7 dicembre 2007, n. 2911, in Ced Cassazioone penale 2008; Cass. Pen., 14 febbraio 2006, n. 15025, in Cass. pen., 2007, p. 2064; nel merito: App. Cagliari, 12 maggio, 2015, n. 617, in Dejure Giuffré; Trib. La Spezia, 13 gennaio 2010, n. 28, in Riv. pen., 2011, p. 556; Trib. Catanzaro, 25 gennaio 2007, in Giur. mer., 2007, p. 2706. 91 Cass. pen., 13 maggio 2020, n. 14805, in banca dati La Tribuna Plus: «L’esimente della legittima difesa è configurabile allorché, oltre all’offesa ingiusta, sussista l’attualità del pericolo, inteso come l’esistenza di una situazione di aggressione in corso e la cui cessazione dipende necessariamente dalla reazione difensiva, come atto diretto a rimuovere la causa di imminente pericolo. Ne consegue che la situazione di pericolo non deve essere stata volontariamente determinata, poiché tale requisito, per quanto non espressamente richiesto dall’art. 52 c.p., è insito in quello di attualità e ingiustizia dell’offesa da cui si è costretti a difendersi. Quindi, anche in presenza di offesa ingiusta, l’azione di chi reagisce a una situazione di pericolo da lui stesso determinata e liberamente voluta non può essere giustificata ai sensi dell’art. 52 c.p. citato, in quanto tale situazione è stata prevista e liberamente accettata»; Cass. pen., 8 ottobre 1982, in Giust. pen., 1983, II, p. 500. 92 Secondo Cass. pen., 13 maggio 2020, n. 14805, cit., nei casi di volontarietà del pericolo, fermo restando l’ingiustizia dell’offesa arrecata, il soggetto agente non può invocare la legittima difesa. Sembrerebbe, dunque, che il concetto di ingiustizia rimanga fermo a prescindere dalla causazione volontaria del pericolo o dall’esposizione volontaria al pericolo.
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Recentemente è, inoltre, emersa un’ulteriore impostazione giurisprudenziale in tema di involontarietà del pericolo, che fa leva sulle finalità essenziali della legittima difesa. Nel momento in cui il soggetto determina la situazione di pericolo o si espone ad una situazione di pericolo già esistente mostra, come già delineato, una finalità aggressiva e non più difensiva e, per questo motivo, non potrà invocare l’esimente in questione93. Si verificherebbe, dunque, un rovesciamento di prospettiva, in cui il soggetto agente non è più aggredito e, dunque, vittima, ma diventa l’aggressore. In linea generale, nell’analisi dell’involontarietà del pericolo, i Giudici si concentrano principalmente sulla colpevolezza del soggetto agente, piuttosto che sull’esistenza di un nesso di causalità tra la reazione difensiva e la precedente condotta che ha determinato la situazione di pericolo. In particolare, l’elemento psicologico sembrerebbe riconducibile all’ambito del dolo eventuale, perché il soggetto si rappresenta come concretamente possibile il verificarsi dell’evento, cioè l’aggressione a suo danno come conseguenza della propria azione, e, pur di non rinunciarvi, accetta il rischio dell’aggressione. Affinché vi sia dolo eventuale non è, dunque, sufficiente che il soggetto si rappresenti come seriamente possibile il pericolo di un’aggressione, ma è necessario che faccia seriamente i conti con questa possibilità e decida di agire a costo di provocare l’aggressione stessa. A differenza della giurisprudenza, la dottrina maggioritaria più recente si è mostrata piuttosto restia rispetto al riconoscimento dell’involontarietà del pericolo tra i presupposti della legittima difesa. Secondo alcuni Autori, infatti, l’inserimento di tale requisito non è né necessario né indispensabile rispetto all’esclusione della rissa Cass. pen., 5 giugno 2020, n. 17320, in banca dati LaTribuna Plus: «In sostanza, l’esimente non è applicabile a chi agisce nella ragionevole previsione di determinare una reazione aggressiva, accettando volontariamente la situazione di pericolo da lui determinata. L’avere pronunciato quelle parole, dal contenuto chiaramente minaccioso, ha posto, pertanto, l’odierno imputato nella condizione di potersi trovare, ragionevolmente, a doversi difendere dalla reazione aggressiva altrui, e di non potere invocare, come vorrebbe, la scriminante della legittima difesa». 93
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e della sfida dall’ambito applicativo della legittima difesa. Queste fattispecie si inseriscono, infatti, autonomamente al di fuori della ratio specifica dell’istituto. Nello specifico, i corrissanti e i duellanti pongono in essere reciprocamente delle offese ingiuste, cioè dei comportamenti lesivi non autorizzati dall’ordinamento giuridico. Inoltre, i partecipanti alla rissa o gli sfidanti hanno concorso a causare un pericolo che poteva essere evitabile. Detto ciò, in caso di sfida o di rissa viene meno la contrapposizione tra aggredito ed aggressore, che rappresenta il presupposto essenziale della legittima difesa. Tale contrapposizione si ricrea, però, nei casi in cui il corrissante o il duellante desista dall’offesa oppure ecceda i limiti inizialmente previsti, perpetuando un’offesa più grave rispetto a quella inizialmente accettata. Inoltre, si ritiene che, in simili casi, venga meno il requisito della necessità della difesa. Il pericolo, infatti, poteva non essere provocato e, dunque, poteva essere semplicemente evitato dai partecipanti. In tali contesti, vengono, dunque, meno tutti i presupposti che giustificano il ricorso all’autodifesa94. Altri Autori ritengono, invece, che nei casi di rissa o di sfida l’applicabilità della legittima difesa debba essere esclusa per l’assenza di costrizione in capo al soggetto “aggredito”. La costrizione, secondo questa visione, costituisce uno dei caratteri essenziali della reazione difensiva, insieme alla necessità e alla proporzionalità, e indica la situazione in cui si trova il soggetto agente che subisce l’alternativa tra l’offendere e l’essere offeso, senza averla creata, accettata o semplicemente non evitata. Seguendo questa ricostruzione, l’involontarietà del pericolo viene spiegata alla luce della funzione sussidiaria di autotutela svolta dalla legittima difesa, che risulta ammissibile in tutti i casi in cui non sia possibile il ricorso tempestivo all’autorità giudiziaria95.
F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 276. T. Padovani, Diritto penale, cit., p. 207 ss. «(…) la costrizione va intesa in riferimento all’autotutela sussidiaria della scriminante. Poiché questa implica un conflitto di interessi, questo deve potersi riferire all’aggredito come alternativa “bloccata” tra l’offendere e l’essere offeso. Il criterio di riferimento è per l’appunto la costrizione, non basata sull’interiorizzazione psichica del conflitto, ma 94
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Un atteggiamento di favore rispetto alle posizioni dei Giudici penali sopra evidenziate si riscontra, invece, nelle posizioni dottrinali più risalenti, sviluppatesi nella prima metà del secolo scorso. Nei commenti alle sentenze si ravvisa, infatti, la doppia linea interpretativa seguita senza interruzioni dalla giurisprudenza penale, che collega l’involontarietà del pericolo alla necessità della difesa o all’ingiustizia dell’offesa, muovendo pur sempre dall’idea per cui il requisito dell’involontarietà sia previsto implicitamente dall’art. 52 c.p.96. Secondo la prima linea interpretativa, nel caso in cui la necessità di difendere un diritto proprio o altrui sia stata determinata dallo stesso soggetto che reagisce, la reazione e la conseguente lesione, finalizzata a contrastare il pericolo, non è più necessaria, ma liberamente voluta. La reazione, dunque, non potrà essere più considerata come una difesa, bensì come una vera e propria aggressione97. L’esclusione della legittima difesa importa, però, che la volontarietà del pericolo non debba essere intesa solo in riferimento alla causa sul fatto che il soggetto subisce l’alternativa, senza esserne l’artefice. Da questo punto di vista la costrizione non sussiste quando l’alternativa conflittuale risulti o intenzionalmente provocata (ad es. Tizio provoca intenzionalmente uno squilibrato per poterlo colpire), o consapevolmente accettata (ad es. Tizio accetta la sfida a battersi con il rivale in amore), o non evitata (ad es. Tizio sa che Caio lo attende in un certo luogo per aggredirlo e, nonostante la possibilità di un commodus discessus, vi si reca ugualmente; se viceversa Tizio non può ragionevolmente effettuare quel percorso, al soluzione si capovolge) (…)». L’Autore, riprendendo quanto affermato in sede giurisprudenziale, ritiene, inoltre, che l’aggredito possa beneficiare della legittima difesa nei casi in cui il pericolo determinato superi il limite dell’alternativa consentita. Ciò accade, ad esempio, nel caso di uno scontro a mani nude durante il quale, improvvisamente, uno dei contendenti estragga un coltello. In tale contesto, l’aggredito potrà legittimamente difendersi di fronte alla nuova e diversa minacciata verificatisi. 96 Contro questa impostazione C. F. Grosso, Difesa legittima e stato di necessità, cit., p. 103, secondo il quale, vista la vicinanza a livello topografico tra gli articoli 52 e 54 del Codice penale, se il legislatore avesse voluto includere l’involontarietà tra i presupposti della legittima difesa, lo avrebbe fatto esplicitamente come nell’ipotesi dello stato di necessità. La mancata previsione di tale requisito esprimerebbe, secondo l’Autore, la volontà legislativa di assoggettare le due fattispecie ad una disciplina differente. 97 L. Pettoello Mantovani, Volontarietà del pericolo e legittima difesa, in Riv. pen., 1955, II, p. 886. Secondo l’Autore il requisito dell’involontarietà del pericolo si presenta come essenziale al pari di quanto avviene per lo stato di necessità.
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del pericolo, dunque, alla condotta posta in essere, ma al pericolo stesso di subire l’aggressione98. In questa elaborazione dottrinale si ravvisa un rapporto di interdipendenza tra la necessità della reazione, e dunque, dell’offesa nei confronti dell’aggressore, e la volontarietà del pericolo. Se è vero, come già enunciato, che la volontaria determinazione del pericolo fa venir meno la necessità dell’offesa, è altresì, vero che, nel momento in cui manchi la necessità della difesa, cioè che questa non sia motivata da esigenze di carattere morale o materiale, viene meno l’evitabilità del pericolo e si può concludere che la situazione di pericolo sia stata volontariamente prodotta, perché liberamente accettata dall’individuo99. Questo collegamento tra la volontarietà del pericolo e la necessità della reazione nel senso sopra delineato è stato oggetto di molteplici critiche. Considerando, infatti, che la necessità della reazione deve essere valutata nel momento in cui il soggetto reagisce e, dunque, dopo che si è creata la situazione di pericolo, l’aggredito si trova sempre nella necessità di resistere all’altrui aggressione, a prescindere dal fatto che abbia concorso a determinare la minaccia100. La necessità della reazione diventa, dunque, un requisito imprescindibile, che dipende sempre dall’esistenza della situazione di pericolo
L. Pettoello Mantovani, Volontarietà del pericolo e legittima difesa, cit., p. 886: «In pratica, la volontarietà può assumere diverse forme: volontarietà – s’intende – dell’effetto, non soltanto della causa, cioè dell’azione che ha dato luogo al pericolo. La volontà della causa, infatti, non implica in pari tempo (…) – la volizione di ciò che ne deriva; solo se l’effetto è previsto, può considerarsi anch’esso voluto». Secondo l’Autore, uno dei casi in cui la volontarietà non si estende al pericolo, dunque, all’effetto, riguarda la provocazione. L’esempio tipico è quello dell’adultero, che si difende dall’aggressione del marito, che lo ha scoperto in flagrante adulterio. In questi casi, a prescindere che la situazione di pericolo sia dovuta a colpa o a caso fortuito. In entrambe le ipotesi, infatti, l’aggredito non vuole la situazione di pericolo, che si è venuta a creare per effetto della propria condotta. 99 L. Pettoello Mantovani, Volontarietà del pericolo e legittima difesa, cit., p. 888. L’Autore ritiene, inoltre, che non ci siano argomentazioni sufficienti per collegare la volontarietà del pericolo con l’ingiustizia dell’offesa. Gli stessi articoli del Codice penale in materia di rissa (art. 588 c.p.) e di duello (art. 394 c.p. ora abrogato) sono addotti dall’Autore a sostegno delle argomentazioni svolte, secondo cui la volontarietà del pericolo fa venir meno la necessità dell’offesa. 100 C. F. Grosso, Difesa legittima e stato di necessità, cit., p. 101 ss. 98
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e non può essere collegata ad elementi ulteriori, quale, per l’appunto, l’involontarietà del pericolo creato. Secondo un’altra tesi dottrinale, invece, il requisito dell’involontarietà del pericolo è strettamente collegato all’ingiustizia dell’offesa. Le argomentazioni si presentano, però, confuse e sembrano peccare di rigore metodologico. Il punto di partenza è che nella legittima difesa la situazione di pericolo deve essere specificatamente riconducibile alla condotta ingiusta dell’aggressore nei cui confronti si esplica la difesa da parte dell’aggredito. Ciò presuppone, in senso logico, che la situazione di pericolo non possa essere riconducibile alla condotta ingiusta dell’aggredito. In questo senso, dunque, il concetto di involontarietà del pericolo è strettamente legato all’ingiustizia della condotta e, dunque, dell’offesa realizzata dall’aggressore. Per tali motivi, non è stato necessario prevedere esplicitamente il requisito dell’involontarietà a livello normativo, al contrario di quanto avvenuto per lo stato di necessità. Lo stato di necessità non presuppone necessariamente l’esistenza di un pericolo ingiustamente determinato da altri, ma cci un pericolo comunque determinatosi. Da ciò, secondo questa visione, conseguirebbe l’opportunità di spiegare che quel pericolo debba essere estraneo all’attività volontaria posta in essere dall’agente101.
4.2. L’involontarietà del pericolo nella dottrina civilistica. Le actiones liberae in causa Una parte della dottrina civilistica, sulla spinta dell’esperienza giurisprudenziale penale, ha riconosciuto l’involontarietà del pericolo tra i presupposti della legittima difesa102.
101 G. Sabatini, Provocazione e legittima difesa: requisiti comuni e differenziali, nota a Corte di Cassazione del Regno (Seconda sezione penale), in Foro it., 1936, II, c. 54 ss. Le argomentazioni dell’Autore mirano, tra l’altro, ad individuare dei punti di contatto tra la fattispecie della legittima difesa e quella provocazione. 102 M. Franzoni, Sub art. 2044, cit., p. 291; sulla stessa linea espressamente G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 59, ed in particolare nota 194.
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Accanto al riconoscimento del principio di autoresponsabilità come base teorica dell’involontarietà del pericolo103, si colloca la tesi principale che trae la propria origine dal principio di origine penalistica delle actiones liberae in causa. Con tale accezione si indicano tutte le azioni, che vengono compiute in una condizione di incapacità di intendere e di volere, e che, in deroga al principio di contemporaneità tra stato di imputabilità e commissione del reato, di cui all’art. 85 del Codice penale, vengono imputate al soggetto con riferimento ad un comportamento da lui precedentemente realizzato in condizioni di imputabilità Il fondamento normativo di tale categoria di azioni è rappresentato dall’art. 87 c.p., in forza del quale il principio di contemporaneità tra stato di imputabilità e commissione del reato non trova applicazione, là dove il soggetto si sia posto in uno stato di incapacità di intendere e di volere al fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa104. Tale principio troverebbe un’applicazione anche in ambito civilistico con la previsione di cui all’art. 2046 c.c., seconda parte105. In virtù di tale disposizione, risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi si sia posto per colpa in una condizione di incapacità di intendere e di volere106. Il soggetto sarà, dunque, responsabile
103 Si tratta di una tesi non particolarmente approfondita, sostenuta da P. G. Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 232, ed in parte da M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, Padova, 2001, p. 71 ss. Nello specifico, è stato affermato il collegamento tra involontarietà del pericolo e autoresponsabilità privata, senza però indagarne i risvolti a livello pratico e teorico. Merita, inoltre, attenzione il riferimento ulteriore di P.G. Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 232 ss., all’obiettivo di minimizzazione dei danni, perseguito legislativamente attraverso il riconoscimento della legittima difesa. Tale finalità non sarebbe realizzabile là dove si permettesse alla vittima di reagire di fronte ad un pericolo determinato volontariamente. Alla base del riconoscimento dell’involontarietà del pericolo tra i presupposti della legittima difesa non vi sarebbe, dunque, solo il principio di autoresponsabilità, ma rileverebbero, altresì, delle ragioni obiettive di politica legislativa. 104 Sul tema: R. Venditti, voce Actio libera in causa, in Enc. dir., 1958, I, p. 533. 105 M. Franzoni, Sub art. 2044, cit., p. 292; già F. D. Busnelli, voce Illecito, cit., p. 7. 106 M. Franzoni, Sub art. 2044, cit., p. 291: «Gli elementi della legittima difesa, ossia la attualità dell’aggressione, la necessità e la inevitabilità della reazione,
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per le conseguenze del fatto dannoso realizzato in condizioni di incapacità, in deroga al principio generale di imputabilità, che esclude dalla responsabilità risarcitoria il soggetto incapace di intendere e di volere al momento della commissione del fatto107. La rilevanza di tale deroga si esplica sul piano causale nel rapporto tra l’evento lesivo e la condotta da cui ha avuto origine. Nello specifico, la dottrina evidenzia che la vera causa dell’evento lesivo non è l’azione compiuta in stato di incapacità, ma l’azione libera con cui il soggetto si è posto volontariamente in tale condizione108. A differenza di quanto previsto dalla legge penale, la dottrina civilistica non ritiene necessario che il soggetto si sia posto dolosamente in una condizione di incapacità al fine di realizzare il fatto dannoso. È sufficiente che abbia consapevolmente adottato un comportamento che lo abbia posto in una condizione di incapacità, dando causa ad una condotta idonea a realizzare l’evento dannoso, anche se non voluto o previsto, ma comunque prevedibile109. Tipico caso è quello del conducente di un autoveicolo, che si metta alla guida in stato di ubriachezza ed investa un pedone110. Da tale disposizione la dottrina ha tratto un ulteriore principio, secondo il quale deve essere escluso da qualsiasi beneficio chi si sia posto volontariamente nelle condizioni di violare una norma e, dunconsentono di determinare quando il fatto della vittima sia al di fuori della norma. Così, ad esempio, se il pericolo è volontariamente creato dall’aggredito, né può dirsi necessaria la reazione, né ingiusta l’offesa. Ancorché manchi una specifica disposizione a riguardo, ciò riflette un più generale principio che nell’art. 2046, parte finale, trova espressione: la regola delle actiones liberae in causa di derivazione penalistica. Chi provoca una rissa non può eccepire la legittima difesa per i danni cagionati agli altri contendenti; neppure questa può essere invocata da chi intervenga in una lite in corso, a vantaggio di chi non si trovi in difficoltà, danneggiando l’aggressore». 107 F. D. Busnelli, voce Illecito, cit., p. 8. 108 F. D. Busnelli, voce Illecito, cit., p. 8. 109 C. Cossu. Responsabilità e risarcimento per il danno cagionato dall’incapace (artt. 2046-2047 del codice civile), in Ambientediritto.it, che riprende quanto affermato da G. Visintini, I fatti illeciti. I. Ingiustizia del danno. Imputabilità, Padova, 1987, p. 500. 110 C. Cossu, Responsabilità e risarcimento per il danno cagionato dall’incapace (artt. 2046-2047 del Codice civile), cit.
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que, di compiere un fatto dannoso111. Di conseguenza, non può invocare la legittima difesa chi sia posto nelle condizioni di compiere un danno, reagendo alla situazione di pericolo da lui creata o a cui si sia esposto. Seguendo l’impostazione generale in materia di actiones liberae in causa, la causazione volontaria o l’esposizione volontaria ad una situazione di pericolo incidono sul profilo causale nei rapporti tra il danno arrecato a seguito della reazione e l’aggressione subita. La determinazione volontaria del pericolo o l’esposizione a tale situazione interrompe il nesso di causalità tra i due elementi, perché il danno conseguente alla reazione non trova più la propria causa nell’aggressione altrui, ma nella condotta del soggetto agente, che ha creato o si è esposto alla situazione di pericolo112. È, dunque, la condotta volontaria del soggetto agente ad innescare una catena causale, che porta alla creazione di una situazione di pericolo113. Tale condotta, analogamente ai principi generali in tema di actiones liberae in causa e, in conformità a quanto affermato per lo stato di necessità, potrebbe essere compiuta indifferentemente con dolo o colpa del soggetto agente114. Ciò significa, dunque, che sarà esclu G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 59 ss. L’Autore fa propria l’impostazione esposta da M. Franzoni, Sub art. 2044, cit., p. 292, fornendo ulteriori elementi, che consentono di comprendere meglio l’impostazione seguita dall’Autore. Analogamente anche A. Diurni, Sub art. 2044 c.c., cit., p. 15, ritiene che, in base al combinato disposto di cui agli articoli 2045 e 2046 c.c., sia possibile desumere un principio generale, che limita i trattamenti di favore nei confronti di coloro che abbiano causato un danno solamente ai casi in cui il danno non risulti collegato anche indirettamente all’agente. 112 Tali considerazioni si possono trarre dalle argomentazioni di M. Franzoni, Sub art. 2045, cit., p. 299 sull’elemento dell’involontarietà nell’ambito dello stato di necessità: «È pacifico che il comportamento doloso o colposo del minacciato comporta la impossibilità di poter opporre lo stato di necessità, poiché ciò che dà causa alla reazione è imputabile alla condotta illecita del necessitato. Si ritiene altresì che l’esimente non sia invocabile qualora il soggetto non sia comunque estraneo alla creazione del rischio, così accentuando il profilo causale tra il pericolo ed il danno arrecato rispetto all’elemento della colpevolezza». 113 M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 71: «Se infatti, si tiene presente che è la condotta volontaria del soggetto agente, ad innescare quella catena causale che porta, come risultato, alla creazione di una situazione di pericolo (…)». 114 M. Franzoni, Sub art. 2044, cit., p. 299. 111
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sa la legittima difesa sia nell’ipotesi in cui il soggetto abbia causato o si sia esposto al pericolo al fine di causare un danno ad altri e sia nel caso in cui tale situazione sia riconducibile alla mancata osservanza della diligenza dovuta nella vita di relazione. Qualche analogia, seppur in senso lato, potrebbe essere riscontrata confrontando tale fattispecie con l’ipotesi del c.d. rischio elettivo riguardante gli infortuni sul lavoro, sul piano della causazione volontaria del pericolo115. Nello specifico, in base ad un consolidato ed univoco orientamento giurisprudenziale, il datore di lavoro ex art. 2087 c.c. è tenuto a prevenire anche le condizioni di rischio insite nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia dei lavoratori con l’unico limite del c.d. rischio elettivo. Il rischio elettivo è riconducibile ad una condotta personalissima del lavoratore, avulsa dall’esercizio della prestazione lavorativa o ad essa riconducibile, condotta esercitata ed intrapresa volontariamente in base a ragioni e a motivazioni del tutto personali al di fuori dell’attività lavorativa e prescindendo da essa. Il lavoratore, dunque, con il suo comportamento volontario determina una causa di interruzione del nesso eziologico esistente tra lavoro, rischio ed evento lesivo, escludendo così l’indennizzabilità dell’infortunio eventualmente verificatosi116. Sul concetto di rischio elettivo in generale e per ulteriori riferimenti bibliografici): M. Persiani, M. D’Onghia, Fondamenti di diritto della previdenza sociale, III ed., Torino, 2019, p. 148 ss.: «Alla stessa conclusione, si deve pervenire anche nel caso in cui il lavoratore abbia posto in essere, di sua iniziativa, comportamenti che, non potendo essere considerati adempimento dell’obbligazione di lavoro (…), escludono ogni connessione e, anche quella occasionale, tra l’esposizione al rischio e il lavoro. È questo il caso del c.d. “rischio elettivo”, che, dunque, non si caratterizza per la rilevanza della colpa del lavoratore, ma per l’interruzione del nesso che deve intercorre tra il lavoro e l’infortunio (…)». 116 Tra le più recenti: Cass. civ., sez. lavoro, 13 febbraio 2019, n. 4225, in Corr. giur., 2019, p. 568; Cass. civ., sez. lav., ord., 23 luglio 2018, n. 19509, in Quot. giur., 2018; Cass. civ., sez. lav., 18 giugno 2018, n. 16026; Cass., sez. lav., 23 maggio, 2018, n. 12807, in Resp. civ. prev., 2018, p. 1654; nel merito: Trib. Siena, sez. lavoro, 15 maggio 2020, in banca dati Pluris, Wolters Kluwer; Trib. Milano, 14 aprile 2020, in Quot. giur., 2020; App. Roma, 4 aprile 2019, n. 5349, in banca dati DeJure, Giuffré; TRib. Brescia, sez. lav., 12 marzo 2018, n. 13, in banca dati DeJure, Giuffré. 115
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Anche in questo caso, dunque, la creazione del rischio da parte del soggetto esclude l’applicazione dei meccanismi di tutela previsti dalla legge, seppur sui due piani differenti dell’indennizzabilità dell’infortunio e dell’applicabilità dell’esimente nel caso della legittima difesa. Seguendo la ricostruzione dottrinale sopra esposta, appare evidente come la causazione volontaria del pericolo escluda la necessità della reazione da parte dell’aggredito. Infatti, se la reazione rappresenta l’unico mezzo per evitare il pericolo, determinando l’esclusione della responsabilità risarcitoria, appare ovvio che la volontaria determinazione del pericolo stesso fa venir meno le esigenze di tutela da parte dell’ordinamento giuridico117. Non sussiste, però, alcun elemento che permetta di escludere anche l’ingiustizia dell’offesa, analogamente a quanto evidenziato da una parte della dottrina penalistica. La determinazione volontaria del pericolo o l’esposizione ad una situazione di pericolo da altri creata non appare in grado di incidere sulla liceità o illiceità dell’offesa subita. Tra le altre cose, è opinione ormai consolidata che, nel caso in cui l’aggressione sia stata preceduta dalla provocazione dell’aggressore, e, quindi, in qualche modo trovi la propria origine in un comportamento volontario dell’aggredito, questa conservi comunque il suo carattere di illiceità118. La provocazione è, infatti, prevista dal Codice penale come
G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 59: «In effetti, se la reazione costituisce l’unico mezzo per evitare il pericolo – e per tale motivo l’ordinamento esclude la responsabilità risarcitoria – la volontaria determinazione del pericolo stesso fa venir meno l’esigenza di tutela dell’aggredito». Contro questa impostazione vedi P.G. Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 232, secondo il quale: «Una difesa non è meno necessaria onde salvaguardare i propri interessi, magari all’incolumità fisica, sol perché la vittima ha cagionato volontariamente la situazione di pericolo». 118 C. F. Grosso, Difesa legittima e stato di necessità, cit., p. 102; sulla stessa linea per cui la provocazione non esclude l’illiceità dell’aggressione v. P. Nuvolone, La legittima difesa del provocatore, nota a Cass., 4 agosto, 1941, in Riv. it. dir. pen., 1941, p. 503 ss. e, in particolare, p. 509: «Nessuna provocazione, per quanto grave, giustifica un’aggressione da parte del provocato contro il provocatore; salvo che si tratti, per il provocato, di uno stato di legittima difesa, reale o putativa; nel qual caso, la provocazione si sostanzia nella minaccia attuale di 117
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circostanza attenuante della pena e non come una causa di esclusione dalla responsabilità, come tale idonea a rendere legittima la reazione offensiva119. La tesi dottrinale che riconduce l’involontarietà del pericolo alla teoria delle actiones liberae in causa è stata successivamente ampliata con l’obiettivo di distinguere il concetto di involontarietà del pericolo nella legittima difesa da quello operante nell’ambito dello stato di necessità. Prendendo spunto dalla giurisprudenza penalistica, sopra enunciata, tale dottrina richiede l’intenzionalità dell’evento lesivo. Ciò significa che il soggetto agente deve aver creato e accettato la situazione di pericolo con l’obiettivo di causare un danno. In questo modo, dunque, si estende l’applicabilità della legittima difesa anche ai casi in cui il pericolo sia stato causato da un comportamento meramente colposo del soggetto danneggiato120. In linea generale, la finalità lesiva è, in questo modo, in un’offesa ingiusta; in questa ipotesi, il provocatore che uccide il provocato per difendersi a sua volta, dovrà rispondere di omicidio doloso o di omicidio colposo, o sarà scriminato dalla legittima difesa, a seconda che la sua minaccia iniziale mirava interamente alla realizzazione dell’evento mortale o non vi mirava affatto, nemmeno in apparenza (…)». In ambito civile: M. Comporti, Dei fatti illeciti, cit., p. 11; E. Ondei, La responsabilità per il danno arrecato per eccesso di difesa e per provocazione, nota a Cass. civ., 24 aprile 1954, n. 1240, in Foro pad., 1955, c. 591; sulla stessa linea di recente M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 71: «Quanto, poi all’aspetto dell’ingiustizia dell’offesa, anche in questo caso non ritengo che la volontarietà nella creazione dello stato di pericolo, possa in qualche modo incidervi, e ciò perché l’aggressione si presenta comunque contra ius, perché lesiva di una posizione giuridica soggettiva del soggetto passivo, e non iure, poiché come è noto la provocazione costituisce una circostanza attenuante e non una causa di esclusione dell’illiceità della condotta dell’aggressore»; contra in epoca più risalente: E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 19. 119 E. Ondei, La responsabilità per il danno arrecato per eccesso di difesa e per provocazione, cit., c. 592: «(…) colui che reagisce dietro provocazione (…), risponde del danno, semplicemente perché la provocazione è una sola attenuante dell’illiceità penale del fatto, ma non basta a rendere legittima la reazione offensiva (…)»; su tale linea, di recente anche M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 71. 120 M. Franzoni, L’illecito, cit., p. 1137: «A differenza di quanto avviene lo stato di necessità, la legittima difesa non è di per sé esclusa dalla volontaria accettazione di una situazione di pericolo, ma solo dalla già prevista necessità di over
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grado di escludere autonomamente l’operatività della legittima difesa, perché in contrasto con i principi e le finalità essenziali dell’istituto. Nella causazione volontaria del pericolo rileva, in questo senso, l’atteggiamento puramente psicologico del soggetto agente, che presenta una rilevanza piuttosto esigua negli altri aspetti della fattispecie.
5. Aggressione reale e aggressione apparente: la legittima difesa putativa 5.1. Apparenza colposa e legittima difesa putativa: la teoria di C. M. Bianca Sulla base dell’esperienza penalistica e in assenza di riferimenti normativi specifici, si parla di legittima difesa putativa quando il soggetto reagisce nell’erronea, ma scusabile convinzione di difendersi da un’aggressione121. La scusabilità dell’errore viene valutata in relazione alle circostanze obiettive, dunque, agli elementi fattuali in cui il soggetto si è trovato ad agire122. A differenza del diritto penale, nel diritto civile non viene data alcuna rilevanza alla figura delle scriminanti putative e si ritiene che l’art. 2044 c.c. sia inapplicabile alla legittima difesa putativa. Il presupposto fondamentale per l’applicabilità dell’esimente è infatti, la realità dell’aggressione minacciata, tenuto conto che un’aggressione meramente apparente non può determinare la mifronteggiare quel pericolo mediante la commissione di un reato, come si verifica nel caso dell’accettazione di una vera e propria “sfida” – comportando questa, per sua natura, un inevitabile pericolo per la propria incolumità personale, fronteggiabile solo con la lesione dell’incolumità altrui – mentre non si verifica quando ci si limiti semplicemente ad esporsi a possibili (ma non assolutamente certe) iniziative aggressive altrui, senza essere a propria volta a propria volta animati da alcun intento aggressivo». 121 G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 64. 122 M. Franzoni, Sub art. 2044, cit., p. 293: «Su questa vicenda (…) vicenda (…) vi un’ampia casistica penale, dalla quale si desume come l’errore che ha provocato la reazione debba essere scusabile in relazione ad obiettivi elementi di fatto».
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naccia di un danno ingiusto123. Nel diritto penale, al contrario, le scriminanti putative sono disciplinate dall’art. 59, comma 4, c.p. Secondo tale disposizione, là dove l’agente ritenga per errore che sussistano delle circostanze di esclusione della pena – ivi comprese, dunque, le cause di giustificazione – queste vengono sempre valutate a suo favore. Tuttavia, là dove l’errore sia stato determinato da colpa, la punibilità dell’agente non è esclusa nel caso in cui il fatto compiuto sia previsto dalla legge come delitto colposo. Attraverso tale previsione il legislatore ha, dunque, equiparato la posizione di chi abbia agito in presenza di una causa di giustificazione con quella del soggetto che abbia confidato erroneamente nella sua esistenza124. La ratio dell’articolo 59, comma 4, c.p. è la seguente: il soggetto che reagisce nell’erronea supposizione di trovarsi in presenza di una causa di giustificazione non agisce con dolo. In tali casi, infatti, manca la rappresentazione e volizione del fatto tipico e antigiuridico, perché il soggetto agente si è rappresentato e ha voluto un fatto diverso da quello realmente realizzato125. Nel caso in cui l’errore sia stato determinato da colpa dell’agente, vale a dire nell’ipotesi in cui nessuna persona ragionevole sarebbe incorsa nel medesimo errore, il fatto antigiuridico compiuto viene addebitato a titolo di colpa, a condizione, però, che sia previsto dalla legge come delitto colposo. Per poter avere un’efficacia scusante, l’errore deve riguardare i presupposti di fatto che integrano la causa di giustificazione oppu123 Sul tema v. le considerazioni di A. De Cupis, Legittima difesa putativa e responsabilità civile (nota a Trib. Arezzo, 16 marzo 1960), in Foro it., 1960, I, c. 859: «(…) l’art. 2044 cod. civ., il quale si preoccupa di proclamare irresponsabile chi cagiona il danno per legittima difesa di sé o di altri, si riferisce alla legittima difesa putativa, la quale, per il semplice fatto di essere putativa, non è legittima difesa propriamente detta (…)», riprese poi dalla dottrina più recente (v. tra gli altri: M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, cit., p. 16; G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 65). 124 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, VIII ed., Bologna, 2019, cit., p. 276. 125 G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. La Gatta, Manuale di diritto penale, Parte generale, cit., p. 385.
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re può cadere su una norma extrapenale, integrante un elemento normativo della fattispecie giustificante, ma non può mai riguardare un errore di diritto. Non può, dunque, rilevare, in nessun caso, l’errore sull’esistenza di una causa di giustificazione non riconosciuta dall’ordinamento giuridico. Là dove si ammettesse la rilevanza di tale errore, si finirebbe, infatti, per ritenere inoperante l’art. 5 del Codice penale126. L’applicazione in ambito civilistico dell’articolo 59, comma 4, c.p., in forza del rinvio implicito alla legge penale di cui si è già parlato, è esclusa categoricamente da una parte della dottrina. Il confronto tra la norma penale e l’articolo 2044 c.c. farebbe emergere una netta differenza a livello funzionale tra le due disposizioni. L’articolo 59, comma 4, c.p. basa, infatti, l’esclusione di responsabilità sull’assenza di colpevolezza. Il fatto antigiuridico viene compiuto in assenza di dolo e colpa in capo al soggetto agente, che ha erroneamente supposto l’esistenza di una causa di giustificazione. È proprio l’assenza di colpevolezza a determinare l’applicabilità della scriminante127. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 276: «Va tuttavia precisato che l’errore deve, per spiegare efficacia scusante, investire: 1) i presupposti di fatto che integrano la causa di giustificazione (ad es. Tizio, a causa di un errore di percezione, crede di essere aggredito da Caio e reagisce difendendosi); ovvero 2) una norma extrapenale integratrice di un elemento “normativo” della fattispecie giustificante. È, invece, da escludere la rilevanza esimente di un errore di diritto, sfociante nell’erronea (e inescusabile) convinzione che la situazione nella quale l’agente si trova ad operare rientri tra quelle cui l’ordinamento giuridico attribuisce efficacia scriminante (ad es. non avrebbe alcuna rilevanza l’erronea convinzione che la “provocazione” escluda il reato), a ritenere altrimenti si finirebbe col considerare inoperante, sul terreno delle cause di giustificazione, il principio generale ignorantia legis non excusat posto dall’art. 5 (…)». Sul tema v. le considerazioni di L. Concas, voce Scriminanti, in Noviss. Dig. It., XVI, Torino, 1969, p. 796. 127 M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, cit., p. 16: «Il problema è allora, se, in sede civile, possa valere la norma dell’art. 59 c.p. sulla erronea supposizione di una circostanza di esclusione della pena. Giustamente si è risposto in senso negativo, perché, mentre il codice penale fa leva sul fondamentale elemento soggettivo della colpa o del dolo dell’agente, l’articolo 2044 c.c. si riferisce alla legittima difesa reale, in relazione all’effettiva sussistenza di un’offesa obiettivamente ingiusta, sicché la legittima difesa putativa non può essere equiparata a 126
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Nell’art. 2044 c.c., invece, l’esclusione di responsabilità è connessa all’effettiva sussistenza di un’offesa obiettivamente ingiusta128. A differenza della disposizione penalistica, l’art. 2044 c.c. si concentra sull’elemento oggettivo della fattispecie e non sull’assenza di colpevolezza in capo al soggetto agente. Da qui consegue l’impossibilità di equiparare la legittima difesa putativa alla legittima difesa reale, e, dunque, l’inapplicabilità dell’esimente tutte le volte in cui venga accertata l’inesistenza dell’aggressione. L’inapplicabilità dell’art. 59, comma 4, c.p. alla legittima difesa putativa, così come sostenuto dalla dottrina, però, non deriva solamente dalla differenza funzionale di cui si è detto, ma anche dall’ecquella prevista dall’articolo 2044 c.c.»; già prima: G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 65: «Invero, il sistema del diritto penale è fondato sul principio della colpevolezza. Di conseguenza, nell’ipotesi in cui il soggetto ritenga erroneamente di agire in presenza di determinate circostanze, la legge privilegia la rappresentazione soggettiva dello stesso, che consente di escludere, nell’ipotesi esaminata, l’elemento della colpa nella causazione del fatto costituente reato. Diversamente, per l’articolo 2044 c.c. ciò che rileva, ai fini dell’esclusione della responsabilità risarcitoria, è l’effettiva sussistenza di un’offesa obiettivamente ingiusta, che costituisce una componente essenziale di tale esclusione (…)»; sulla stessa linea anche P.G. Monateri, Esimenti e difese, in P.G. Monateri, D. Gianti, M. Balestrieri, Causazione e giustificazione del danno, in Tratt. resp. civ. P. G. Monateri, cit., p. 296 ss. e in La responsabilità civile, cit., p. 238. L’impossibilità di applicare l’articolo 2044 c.c. è stata, invece, affermata in sede giurisprudenziale dalla già citata sentenza del Tribunale di Arezzo del 16 marzo 1960. Nel diritto penale v. le interessanti affermazioni di L. Concas, voce Scriminanti, cit., p. 802, nota 5: «Noi riteniamo che le scriminanti putative siano previste dal diritto penale in base ad una valutazione settoriale e che esse, in mancanza di disposizioni espresse, non siano rilevanti per il diritto civile, che si ispira ad esigenze di tutela diverse rispetto al diritto penale, neppure quando le corrispondenti scriminanti reali abbiano qualche incidenza sull’esistenza dell’illecito civile o sulle conseguenze ricollegabili ad esso». Merita di essere sottolineata la posizione contraria sostenuta da una parte della dottrina in relazione allo stato di necessità putativo v. M. Briguglio, Lo stato di necessità, Padova, 1963, p. 50 ss., che sostiene l’applicazione analogica dell’articolo 59, comma 3 (ora comma 4) del Codice penale contra tra gli altri: M. Franzoni, L’illecito, cit., p. 1155 (sul punto v. le considerazioni di L. Nonne, Contributo ad una rilettura dell’articolo 2045 c.c., in Giust. civ., 2017, p. 445, nota 34 e, in generale, sullo stato di necessità putativo: B. Troisi, L’autonomia della fattispecie di cui all’art. 2045, Napoli, 1984, p. 19 ss.). 128 A. De Cupis, Legittima difesa putativa e responsabilità civile (nota a Trib. Arezzo, 16 marzo 1960), cit., c. 959.
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cezionalità di tale disposizione nell’ambito del diritto penale e, a maggior ragione, nel campo dell’illecito civile129. Constatata, dunque, l’inapplicabilità dell’articolo 2044 c.c. e dell’articolo 59, comma 4, c.p., si pone il problema di individuare la disciplina di riferimento in ambito civilistico e comprendere, di conseguenza, se il presunto aggressore abbia o meno diritto al risarcimento del danno oppure debba essergli corrisposto un indennizzo. A questo proposito bisogna considerare che l’accertamento della scriminante putativa in sede penale non incide sulla liceità del fatto compiuto e, dunque, non esclude la sua antigiuridicità. Di conseguenza, si tratta di capire quali siano le conseguenze possibili sul piano civilistico130. La dottrina ha elaborato diverse linee interpretative volte a fornire una soluzione alla problematica sopra descritta. Secondo la posizione maggioritaria, seguita anche dalla giurisprudenza, dovrebbe essere applicato per analogia l’articolo 2045 c.c., e, di conseguenza, il danneggiato avrebbe diritto alla corresponsione di un indennizzo. Altri, invece, rifiutano tale soluzione, ritenendo che l’articolo 2045 c.c. sia una norma eccezionale e, pertanto, non possa essere applicata al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. Si ritiene, al contrario, che la scusabilità dell’errore in capo al soggetto agente ne escluda la colpa e, di conseguenza, la responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c.131. Distante dalle due linee principali si colloca la complessa teoria elaborata da Cesare Massimo Bianca, che dà rilevanza alla legittima difesa putativa attraverso il principio di apparenza. Nello specifico, l’illustre Autore individua nella fattispecie due ipotesi distinte. Nel caso, piuttosto improbabile, in cui la situazione di apparenza dell’aggressione non sia riconducibile ad un compor L. Nonne, Contributo ad una rilettura dell’art. 2045 c.c., cit., p. 445, in aperto contrasto rispetto all’applicazione in via analogica di tale disposizione sostenuta da M. Briguglio, Lo stato di necessità, cit., p. 50 ss. 130 Su quest’ultimo punto, vedi le considerazioni di L. Nonne, Contributo ad una rilettura dell’articolo 2045 c.c., cit., p. 447, nota 39. 131 Le diverse teorie saranno compiutamente analizzate nei paragrafi successivi, ove per i riferimenti bibliografici. 129
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tamento del presunto aggressore, quest’ultimo avrà diritto alla corresponsione dell’indennizzo analogamente a quanto avviene per lo stato di necessità putativo. Al contrario, nell’ipotesi in cui l’errore sia dipeso da un comportamento del presunto aggressore, il danneggiante sarà esente da responsabilità in applicazione del generale principio di apparenza132, secondo il quale «(…) chi crea l’apparenza di una condizione di fatto o diritto è assoggettato alle conseguenze di tale condizione nei confronti di chi vi abbia fatto ragionevole affidamento»133. In virtù di ciò, il presunto aggressore non potrà pretendere di essere risarcito o indennizzato per il danno che lui stesso ha provocato con il proprio comportamento134. Per comprendere la ricostruzione di Bianca, che non ha ancora trovato applicazione in sede giurisprudenziale135, è necessario, però, soffermarsi, seppur brevemente, sul principio giuridico di apparenza. Tale principio viene elaborato nei primi decenni del XIX secolo in ambito dottrinale136, a partire dall’esperienza francese e tedesca, C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 653. C. M. Bianca circoscrive il principio di apparenza ai casi di apparenza colposa, vale a dire a tutte le ipotesi in cui sia riscontrabile un comportamento colposo oppure doloso da parte del titolare della situazione apparente, che abbia tratto in errore il terzo in buona fede. 133 C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 653 ss. Sul principio generale di apparenza v. altresì le considerazioni dell’Autore in Diritto Civile, 3, Il contratto, III ed., Milano, 2019, p. 103 ss., sull’efficacia della procura apparente. 134 C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 654. Come si avrà modo di analizzare successivamente, il principio di apparenza esprime una particolare forma di autoresponsabilità del soggetto per il falso affidamento suscitato nei terzi (v. Id., Il contratto, cit., p. 106). 135 Uguali considerazioni vengono elaborate, in riferimento allo stato di necessità putativo, da B. Troisi, L’autonomia della fattispecie di cui all’articolo 2045, cit., p. 19 ss. 136 La dottrina dell’apparenza si colloca storicamente nella Francia del XIX secolo, grazie all’opera degli interpreti che la applicarono inizialmente all’ambito ereditario e successivamente estesero tale regola extralegale anche ad ambiti diversi (domicile apparant; propriété apparante e mariage apparant). Dopo gli anni Trenta del secolo scorso, la nozione generale di apparenza è ormai patrimonio acquisito del giurista francese e trova la propria legittimazione anche nei manuali istituzionali. La sfera applicativa viene ulteriormente estesa, si parla non 132
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e trova la propria consacrazione ad opera della giurisprudenza. È stata, infatti, considerata la più importante norma civilistica, creata dal giudice in modo preterlegale137. La sua elaborazione è strettamente legata all’intensificarsi dei rapporti commerciali e in generale dei rapporti economici, che ha portato alla necessità di rendere più agevole la circolazione giuridica dei beni, rafforzando, al contempo, la tutela dei terzi in buona fede138. Sotto il Codice civile abrogato, la norma di riferimento in materia di apparenza era rappresentata dall’articolo 933 c.c., che disciplinava i rapporti con l’erede apparente, facendo salve le convenzioni solo di erede apparente, domicilio apparente, ma anche di creditore apparente, funzionario di fatto, mandatario apparente ecc. la dottrina dell’apparenza si sviluppa anche in Germania, incontrando maggiore attenzione e approfondimento da parte della dottrina. L’elaborazione tedesca presenta, però, delle differenze rilevanti rispetto a quella francese. Mentre in Francia la teoria dell’apparenza trova le proprie basi nell’imperfezione degli apparati pubblicitari, rappresentando pur sempre un’eccezione legata a tale necessità, in Germania la situazione è completamente diversa, perché il meccanismo imperniato sulla consegna, sulla pubblicità e, in generale, sulla forma, continua a prevalere sull’idea consensualistica. La dottrina tedesca, seppur proclamando la supremazia della dichiarazione sulla volontà, aveva, comunque, preso coscienza dell’importanza che assumono in materia di titoli di credito i fatti esterni che presiedono alle vicende del rapporto cartolare (v. la ricostruzione di R. Sacco, voce Apparenza, in Dig. Disc. Priv., aggiorn., Torino, 1987 e già prima le considerazioni di A. Bolaffi, Le teorie dell’apparenza giuridica (note critiche), in Riv. dir. comm., 1934, I, p. 695 ss.). Per un inquadramento storico dell’istituto v. anche A. Falzea, voce Apparenza, in Enc. dir., II, Milano, 1958, p. 682 ss. e R. Moschella, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, Milano, 1973, p. 9 ss. 137 R. Sacco, voce Apparenza, cit., p. 357. 138 Sul punto v. le considerazioni di M. D’Amelio, voce Apparenza del diritto, in Noviss. Dig. It., I, Torino, 1957, p. 716: «La ragionevolezza del principio dottrinale è dimostrata da esigenze di carattere sociale o, come afferma Ascarelli, da esigenze politiche. Quando l’apparenza del diritto è ragionevole, deve permettersi ai terzi di considerarla come corrispondente alla realtà per non creare sorprese alla buona fede nelle contestazioni; per non obbligare i terzi ad un accertamento preventivo della realtà di quanto appare evidente, con intralcio gravissimo alla vita degli affari; per non rendere più lenta e faticosa e costoso l’attività giuridica in un momento storico dove tutto esige speditezza e sicurezza nella formazione dei rapporti giuridici e sociali. È lo stesso concetto che informa l’art. 933 (…)»; sul tema: A. Falzea, voce Apparenza, cit., p. 682 ss.; M. Bessone, M. Di Paolo, voce Apparenza, in Enc. giur., II, Roma, 1988, p. 2.
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a titolo oneroso con i terzi in buona fede139. A partire da questa disposizione, la giurisprudenza e una parte della dottrina140 riconobbero l’esistenza di un principio generale, atto a proteggere i terzi che avessero fatto ragionevole affidamento su una determinata situazione di fatto141. Il principio di apparenza giuridica veniva, dunque,
Sul ruolo dell’articolo 933 del Codice civile abrogato, vedi le considerazioni di M. D’Amelio, voce Apparenza del diritto, cit., p. 714 ss. 140 Tra i sostenitori principali: nell’ambito dei titoli di credito v. F. Messineo, I titoli di credito, Milano, 1928 e R. Mossa, in Volontà e dichiarazione nella creazione della cambiale e in La dichiarazione cambiaria, in Riv. dir. comm., 1930, I, rispettivamente p. 6 ss. e 305 ss.); S. Sotgia, Apparenza giuridica e dichiarazione alla generalità, Roma, 1930 ritiene che l’apparenza giuridica sia determinata da una dichiarazione alla generalità, nascente da un comportamento del dichiarante (v. le considerazioni di M. D’Amelio, voce Apparenza del diritto, cit., p. 716) e analizza l’apparenza giuridica in tutti i suoi ambiti applicativi (matrimonio putativo, dichiarazioni alla generalità, società commerciali ecc.). L’individuazione di una regola generale in materia di apparenza, a partire dall’articolo 933 c.c., viene aspramente criticata da G. Stolfi, L’apparenza del diritto. Prolusione al corso di diritto civile nella R. Università di Modena, letta il 23 novembre 1933, XII, Modena, 1934, [(segue le stesse posizioni anche A. Verga, Osservazioni in tema di apparenza, in Riv. dir. prov., 1940, p. 193 ss. ed in particolare p. 195: «La realtà è che si deve far riferimento al diritto costituito, e anche se si possa in qualche caso configurare una soluzione di apparenza, essa non può mai assurgere, data l’eccezionalità delle singole disposizioni, e dato soprattutto il difetto di unità di tali situazioni giuridiche, a principio generale (…)»], che confuta l’applicazione di tale principio nei diversi ambiti individuati dalla dottrina. Con l’emanazione del codice civile del 1942, il principio di apparenza viene riconosciuto in una molteplicità di fattispecie di cui, ad esempio agli articoli 1189 c.c., in materia di creditore apparente, e all’articolo 534 c.c., riguardante l’erede apparente. Proprio queste due disposizioni sono considerate il nucleo centrale. La giurisprudenza continua, comunque, ad applicare il principio di apparenza al di là delle ipotesi previste dal legislatore, per realizzare l’esigenza di tutela dei terzi in buona fede di cui si è detto (M. Bessone, M. Di Paolo, voce Apparenza, cit., p. 1 ss.). Per una ricostruzione storica dell’istituto v. anche A. Falzea, voce Apparenza, in Enc. dir., cit., p. e R. Moschella, Contributo alla teoria dell’apparenza giuridica, cit., p. 9 ss. 141 M. D’Amelio, voce Apparenza del diritto, cit., p. 714: «Nel mondo giuridico lo stato di fatto non sempre corrisponde allo stato di diritto; ma lo stato di fatto, spesse volte e per considerazioni d’ordine diverso, merita lo stesso rispetto dello stato di diritto e, in determinate condizioni e in riguardo a determinate persone, genera conseguenze non differenti da quelle che deriverebbero dal corrispondente stato di diritto. Uno dei detti casi è l’apparenza del diritto. Vi sono, invero, situazioni generali per le quali chi ha fatto ragionevole affidamento su una data 139
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applicato ad una molteplicità di fattispecie, riguardanti, ad esempio, i titoli di credito, le società commerciali e il matrimonio putativo142. Con l’emanazione del Codice civile del 1942, il principio giuridico di apparenza ha trovato riconoscimento a livello normativo nelle disposizioni di cui agli articoli 534, 1159, 1189, comma 1, 1729 e 1835143. Al di fuori delle previsioni normative, il principio di apparenza continua, comunque, ad essere applicato dalla giurisprudenza in via analogica144. Tuttavia, al fine di evitare un’eccessiva estensione145, la giurisprudenza ne ha limitato l’applicazione ai casi di c.d.
manifestazione giuridica e si è comportato in coerenza. Tale manifestazione, ha diritto di contare su di essa, anche se alla manifestazione non corrisponde la realtà». 142 Sui diversi ambiti applicativi v. M. D’Amelio, voce Apparenza del diritto, cit., p. 715 ss. 143 Secondo M. Bessone, M. Di Paolo, voce Apparenza, cit., p. 3 ss., rivestono particolare importanza gli articoli 534 e 1189, comma 1, riguardanti rispettivamente l’erede apparente e il creditore apparente. Secondo i due Autori, le due disposizioni rappresentano delle norme di riferimento in materia di apparenza, perché sono contraddistinte da una certa uniformità a livello disciplinare, da cui è possibile trarre gli elementi essenziali, che consentono di definire la fattispecie. 144 Sul tema v. l’analisi di M. Bessone, M. Di Paolo, voce Apparenza, cit., p. 4 ss. 145 La preoccupazione è riscontrabile soprattutto a livello dottrinale. A. Falzea, voce Apparenza, cit., p., pur riconoscendo la legittimità del principio di apparenza, ritiene doveroso evitarne cauti impieghi: «Non crediamo possa contestarsi la legittimità del principio giuridico della apparenza, desunto da inequivoche disposizioni del nostro diritto positivo. Non crediamo neppure che ad esso sia da negare un’ampiezza che trascenda l’àmbito delle singole figure legislativamente disciplinate: delle quali, nel corso di questa esposizione, sono state richiamate – per comodità di ragionamento – solo le più note e sicure. Deve convincere in tal senso soprattutto il largo impiego che del principio viene facendo la giurisprudenza, indice indubbio della diversa prospettiva che il principio ha assunto nel diritto vivente e che non può essere ignorata dalla scienza giuridica. La legittimità del principio non può tuttavia autorizzare incauti impieghi, specie in relazione a fattispecie che trovano già nella nostra legge una compiuta disciplina: per tale ragione è da ritenere azzardato il richiamo che ne ha fatto la giurisprudenza in tema di mandato e per il regime della circolazione dei titoli di credito»; R. Sacco, La buona fede nella teoria dei fatti giuridici di diritto privato, Torino, 1949, p. 62 ss. Rifiutano direttamente l’idea di un principio generale di apparenza: L. Mengoni, Gli acquisti “a non domino”, III ed., Milano, 1975, p. 344, nota 77: «Malgrado l’orientamento della giurisprudenza (…) per fortuna abbastanza cauta nelle applicazioni pratiche, si deve recisamente negare l’esistenza nel nostro ordinamento di
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apparenza colposa, vale a dire alle ipotesi in cui l’erroneo convincimento del terzo sia stato determinato da un comportamento colposo del soggetto contro il quale tale principio deve trovare applicazione146. Ciò significa, dunque, che, là dove un soggetto, con il proprio un principio giuridico dell’apparenza di diritto, nel senso di una clausola generale che consentirebbe al giudice di considerare l’apparenza di una situazione giuridica equivalente alla realtà in favore dei terzi di buona fede»; L. Monacciani, Azione e legittimazione, Milano, 1951, p. 141 ss., secondo il quale per poter parlare di apparenza è necessario che la fattispecie sia disciplinata a livello normativo; sulla stessa linea ancora G. Stolfi, In tema di apparenza giuridica, in Riv. dir. civ., 1974, II, p. 107 ss. Per un’analisi della posizione dottrinale e giurisprudenziale successiva all’emanazione del Codice civile del 1942, v. R. Sacco, voce Affidamento, in Enc. dir., I, Milano, 1958, p. 662 ss. 146 In materia di rappresentanza apparente: Cass. civ., ord. 19 aprile 2018, n. 9758; Cass. civ., 28 gennaio 2015, n. 1626; Cass. civ., 8 maggio 2015, n. 9328, in Riv. not., 2015, p. 828: «Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di rappresentanza, possono essere invocati i principi dell’apparenza del diritto e dell’affidamento incolpevole allorché non solo vi sia la buona fede del terzo che ha stipulato con il falso rappresentante, ma ricorra anche un comportamento colposo del rappresentato, tale da ingenerare nello stesso terzo la ragionevole convinzione che il potere di rappresentanza sia stato effettivamente e validamente conferito al rappresentante apparente (…)»; Cass. civ., 13 agosto 2004, n. 15743, in Foro it., 2004, c. 3318; Cass. civ., 26 maggio 2004, n. 10133, in Corr. giur., 2005, p. 530, con nota di D. De Giorgi; Cass. civ., 29 aprile1999, n.4299, in Giur. it. 2000, c. 932; Cass. civ., 21 marzo 200, n. 3301, in Dir. prat. soc., 2000, f. 10, p. 85; Cass. civ., 22 aprile 1999, n. 3988, in Assicurazioni, 1999, II, 2, p. 148, con nota di M. Rossetti, e in Danno resp. 1999, 1013, con nota di P. Laghezza; Cass. civ., 19 settembre 1995, n. 9902, in Riv. dir. comm., con nota di F. Rocco; Cass. civ., 19 gennaio 1987, n. 423, in NGCC, 1987, I, p. 486, con nota di G. Ceccherini; Cass. civ., 22 maggio 1990, n. 4595; Cass. civ., 27 giugno 1983, n. 4406, in Riv. inf. mal. prof., 1983, II, p. 146. Nei rapporti tra preponente e preposto: Cass. civ., 19 febbraio 1993, n. 2020, in Foro it., 1994, I, c. 159 e in Giur., it., 1993, I, c. 2088, con nota di S. Traniello; contro l’orientamento giurisprudenziale prevalente che ammette il ricorso al principio di apparenza al di fuori delle ipotesi tipizzate solamente nei casi in cui sia riscontrabile il comportamento colposo del soggetto nei cui confronti viene invocato tale principio: Cass. civ., 18 febbraio 1993, n. 2020, in Foro it., 1994, I, con osservazioni di V. Donativi («È noto che tale principio, traendo origine dalla legittima e, quindi, incolpevole aspettativa del terzo di fronte ad una situazione ragionevolmente attendibile, anche se non conforme alla realtà, esige che chi lo invoca fornisca la prova di aver confidato senza sua colpa nella situazione apparente. Non occorre invece, secondo il più recente orientamento giurisprudenziale (v. per tutte Cass. civ. 19 gennaio 1987, n. 423), che sussista anche l’ulteriore elemento costituito dal comportamento colposo del soggetto nei cui
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comportamento, abbia creato un falso affidamento nei confronti di un terzo in buona fede, si espone necessariamente alle conseguenze della condizione di fatto o di diritto apparente. La situazione di fatto o di diritto inesistente, dunque, produce i suoi effetti nei confronti del soggetto a cui sia imputabile la creazione dell’apparenza. Proprio in virtù di ciò, il principio di apparenza è stato correttamente qualificato come una particolare forma di autoresponsabilità147. Dai casi di apparenza colposa riconosciuti a livello giurisprudenziale devono essere, però, distinte le ipotesi di apparenza c.d. pura, che riguardano tutti i casi in cui l’erroneo convincimento del terzo sia ascrivibile unicamente alla situazione di fatto, che manifesta falsamente una situazione di diritto148. Le fattispecie di apparenza pura sono ritenute tassative e, di conseguenza, non possono essere riconosciute oltre i casi previsti dal legislatore149. confronti è invocata l’apparenza, poiché la posizione di colui al quale la situazione giuridica appare, senza sua colpa, esistente, deve essere tutelata, nel conflitto di interessi contrapposti, anche senza ed indipendentemente dal concorso di un simile elemento, se si vuole evitare che la sua protezione divenga evanescente»). 147 C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 106: «La difficoltà teorica del principio di apparenza è data da ciò, che tale principio rende efficace una situazione inesistente, dando luogo all’applicazione di una regola giuridica in contrasto con la realtà che essa presuppone. Questa difficoltà può essere superata riconoscendo che la rilevanza dell’apparenza esprime una particolare forma di autoresponsabilità del soggetto per il falso affidamento suscitato nei terzi»; in giurisprudenza: Cass. civ., 8 marzo 1990, n. 1841, in banca dati DeJure, Giuffré: «Deve premettersi che l’istituto della rappresentanza apparente, acquisito (anche nei rapporti commerciali) alla giurisprudenza di questa Corte (Cass. 423-1987, 821-1984, 3390-1982, 6680 e 102-1981, 1287 e 72-1980, tra le tante), ancorché non espressamente codificato, e da iscrivere, quindi, nelle ipotesi di c.d. apparenza colposa (o atipica), rivendibile allo stato latente nel sistema, quale espressione del principio di autoresponsabilità, può essere utilmente invocato dal terzo che abbia ragionevolmente confidato nella situazione apparente solo se quest’ultimo sia stata determinata, in via esclusiva o concorrente, dal preteso mandante». 148 La teorizzazione della distinzione fra apparenza colposa e apparenza pura è stata elaborata da A. Falzea, voce Apparenza, cit., p. 698, che ne evidenzia l’importanza sul piano dell’interpretazione analogica delle disposizioni; v. anche le considerazioni di M. Bessone, M. Di Paolo, voce Apparenza, cit., p. 3 (l’analisi viene ripresa anche da A. Riccio, La tendenza generalizzatrice del principio dell’apparenza del diritto, in Contratto impr., 2003, p. 27 ss.). 149 M. Bessone, M. Di Paolo, voce Apparenza, cit., p. 3.
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L’analisi delle diverse fattispecie di apparenza porta ad individuare una serie di presupposti ricorrenti quali: una situazione di fatto non corrispondente allo stato di diritto; l’esistenza di circostanze obiettive ed univoche tali da trarre in inganno il terzo; il ragionevole convincimento del terzo che lo stato di fatto sia conforme ad una “realtà giuridica”; l’errore scusabile150. A questi elementi, per le ipotesi di apparenza colposa, deve aggiungersi il comportamento colposo del soggetto contro il quale il principio di apparenza deve trovare applicazione. Alla luce di ciò, l’apparenza giuridica racchiude a livello concettuale tutte le fattispecie in cui alla situazione di fatto non corrisponde una situazione di diritto, ma, tuttavia, in presenza di determinate circostanze, si producono i medesimi effetti giuridici del corrispondente stato di diritto151. In tali casi, viene, dunque, protetto il terzo che abbia fatto ragionevole affidamento su una manifestazione giuridica non corrispondente alla realtà e si sia comportato in maniera coerente alla stessa152. A questo proposito è utile richiamare la posizione di Falzea, che, soffermandosi sul rapporto tra la situazione di fatto e la situazione di diritto apparente, ha individuato nell’apparenza uno schema di relazione, riguardante un fenomeno materialmente presente ed immediatamente reale, che manifesta come reale e presente un altro fenomeno, che non presenta tali caratteristiche153. La manifestazio-
M. Bessone, M. Di Paolo, voce Apparenza, cit., p. 1. M. Bessone, M. Di Paolo, voce Apparenza, cit., p. 1. Come accuratamente sottolineato dagli Autori, il concetto di apparenza è unico, anche se la dottrina ha utilizzato diverse accezioni per designare un fenomeno, che è, in realtà, unitario, quali ad esempio apparenza iuris, apparenza del diritto e apparenza giuridica. 152 M. D’Amelio, voce Apparenza del diritto, cit., p. 714: «Vi sono, invero, situazioni generali per le quali chi ha fatto ragionevole affidamento su una data manifestazione giuridica e si è comportato in coerenza a tale manifestazione, ha diritto di contare su di essa, anche se alla manifestazione non corrisponde la realtà». 153 A. Falzea, voce Apparenza, cit., p. 687: «Nella apparenza un fenomeno (materialmente presente e immediatamente reale) manifesta un altro fenomeno (né materialmente presente né immediatamente reale). Lo manifesta oggettivamente, attraverso segni e rapporti di significazione socialmente apprezzabili. Lo 150 151
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ne del fenomeno non reale avviene in maniera oggettiva, attraverso segni e rapporti di significazione socialmente apprezzabili154. Come ben sottolineato da Falzea155 e ripreso anche da C. M. Bianca156, la situazione di fatto e – dunque il fenomeno reale e presente – può manifestare come reale non solamente una situazione di diritto, come avviene nella maggioranza dei casi, ma anche una situazione di mero fatto, che costituisce pur sempre un fatto giuridico rilevante in relazione agli effetti giuridici prodotti. L’apparenza, come già accennato, deve essere stata determinata da circostanze oggettive ed univoche, che siano in grado di trarre in inganno il terzo in buona fede157. Ciò implica, dunque, che l’errore del terzo circa l’esistenza di una determinata situazione giuridica o di fatto debba essere stato determinato da un complesso di fatti oggettivamente giudicati idonei a fondare la convinzione circa manifesta non attraverso simboli, ma rebus ipsis ac factis, in base a normali connessioni empiriche. Lo manifesta come reale mentre non è reale, perché le connessioni empiriche, astrattamente verificabili nella normalità dei casi, vengono a mancare nel caso concreto». 154 A. Falzea, voce Apparenza, cit., p. 686 ss. 155 A. Falzea, voce Apparenza, cit., p. 691: «Mentre la situazione manifestante può essere costituita da un qualsiasi fatto, la situazione manifestata – che appare, ma non è reale – è costituita di necessità da una situazione giuridica: normalmente dalla titolarità di un diritto soggettivo. Ciò non significa che il falso rinvio operato dalla situazione generatrice di apparenza, non possa riguardare un’altra situazione di fatto: si tratterà però di un fatto giuridico, che viene in considerazione esclusivamente per gli effetti che produce, sicché in definitiva si farà capo sempre ad una situazione giuridica». 156 Nella definizione fornita da C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 106, l’apparenza può riguardare sia una condizione di fatto sia una condizione di diritto. Questa posizione, come si avrà modo di approfondire successivamente, permette di applicare il principio di apparenza anche alla legittima difesa putativa. In questa ipotesi, infatti, la situazione manifestata non è una situazione di diritto, ma una situazione di mero fatto, che si presenta rilevante per gli effetti giuridici prodotti: l’aggressione che appare reale fa scaturire la legittimità della difesa in capo al soggetto agente. 157 Dal principio di apparenza deve essere rigorosamente distinta l’apparenza come elemento oggettivo della fattispecie, che determina, insieme all’elemento soggettivo (errore e buona fede) l’applicabilità del principio di apparenza: M. Bessone, M. Di Paolo, voce Apparenza, cit., p. 1 ss.; v. già le considerazioni di R. Sacco, La buona fede nella teoria dei fatti giuridici di diritto privato, cit., p. 57 ss.
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l’esistenza di tale situazione158. L’errore deve essere scusabile, cioè la situazione di fatto, in relazione agli elementi obiettivi di cui si è detto, avrebbe potuto trarre in inganno qualsiasi persona di normale diligenza159. Strettamente connesso alla scusabilità dell’errore è il requisito della ragionevolezza dell’affidamento, richiesto dalla giurisprudenza. Il principio di apparenza, infatti, si ritiene non applicabile tutte le volte in cui il terzo abbia omesso di accertarsi, per negligenza, della realtà delle cose, facilmente controllabile, e si sia affidato alla mera apparenza160. 158 L. Mengoni, Gli acquisti “a non domino”, cit., p. 344: «Ma appunto la caratteristica della buona fede tutelata in connessione a un fenomeno di apparenza sta nel nesso di dipendenza causale dell’errore individuale da un complesso di fatti oggettivamente giudicati idonei a motivare in una persona di normale diligenza e accortezza la convinzione circa l’esistenza di una situazione giuridica (falsamente indicata)». 159 L. Monacciani, Azione e legittimazione, cit., p. 138 ss.; analizza la tematica in maniera approfondita anche A. Falzea, voce Apparenza, cit., p. 697 ss. 160 V. le considerazioni di M. Bessone, M. Di Paolo, voce Apparenza, cit., p. 3; in giurisprudenza, tra le tante: Cass. civ., 5 aprile 2016, n, 6563; Cass. civ., 15 febbraio 2007, n. 3471 (in materia di rapporti patrimoniali dei coniugi, per quanto concerne la stipula di un mutuo da parte del marito); Cass. civ., 27 ottobre 2005, n. 20906, in Obbl. contr., 2006, p. 261, con nota di Gennari; Cass. civ., 11 febbraio 2005, n. 2838, in Guida dir., 2005, f. 11, p. 69; nel merito App. Roma, 19 maggio 2008, in banca dati Pluris, Wolters Kluwer; Trib. Perugia, 21 ottobre 2013, in banca dati Pluris, Wolters Kluwer; Trib. Salerno, 16 marzo 2010, in banca dati Pluris, Wolters Kluwer; Trib. Novara, 5 maggio, 2009, in www.NovaraIUS.it; Trib. Salerno, 23 febbraio 2009, in banca dati Pluris, Wolters Kluwer; Trib. Milano, 30 maggio 1983, in Banca bors. tit. cred., 1984, II, p. 333, con nota di A. Mazzoni. In riferimento al principio di affidamento incolpevole, è, altresì, opportuno mettere in evidenza l’incompatibilità tra il concorso del fatto colposo del creditore nella causazione del danno, di cui all’articolo 1227, comma 1, c.c., e il principio di apparenza, così come dalla giurisprudenza, v. Cass. civ., 15 marzo 2006, n. 5677 ((sulla stessa linea, già: Cass. n. 10133 del 2004; n. 23199 del 2004): «Sulla scorta di tali precedenti, enunciati a proposti dell’apparenza di potere rappresentativo, ma validi in generale, deve affermarsi che il concorso del fatto colposo del creditore ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., comma 1, nella causazione di un illecito, contrattuale od extracontrattuale, non può consistere nell’avere determinato costui nel danneggiante la percezione di una situazione di apparenta del diritto, che avrebbe giudicato rilievo concausale nella causazione dell’illecito. Infatti, postulando il rilievo della creazione della situazione di ap-
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Per quanto concerne il profilo probatorio, secondo la giurisprudenza il soggetto che invoca il principio di apparenza è tenuto a provare di aver confidato senza colpa nell’esistenza della situazione apparente e che il proprio erroneo convincimento sia stato determinato dal comportamento colposo del soggetto nei cui confronti viene invocato il principio stesso161. Inoltre, allorché ricorrano elementi, sia pure presuntivi, idonei a configurare una situazione di apparenza, spetta al convenuto, che contesti l’efficacia a suo danno della stessa, l’onere della prova contraria. Il convenuto, infatti, dovrà dimostrare la situazione reale, cioè dovrà provare in giudizio che il proprio convincimento sulla corrispondenza tra situazione apparente e situazione reale è stata determinato dalla colpevole negligenza o imprudenza di colui che invoca l’affidamento162. Dopo questo brevissimo excursus sui caratteri essenziali del principio di apparenza, è possibile, dunque, verificarne concretamente
parenza la determinazione di una situazione riconducibile al generale principio dell’affidamento incolpevole ed essendo, quindi, presupposto per la sua configurabilità che il soggetto, il quale versi in una situazione nella quale fa leva sull’affidamento indotto dall’apparenza da altri creata, non sia in colpa, per l’evidente incompatibilità logica che altrimenti vi sarebbe con la posizione soggettiva di affidamento, non è concepibile che la determinazione della situazione di apparenza possa assumere la funzione di concausa rispetto all’inadempimento (o al ritardo nell’adempimento) del debitore o al fatto ingiusto ex art. 2043 cod. civ., assistiti a loro volta dall’elemento soggettivo e, quindi, almeno dalla colpa, non potendo chi è in colpa essere nel contempo incolpevolmente affidato»); l’argomento è accuratamente analizzato da V. Caredda, Concorso del fatto colposo del creditore. Art. 1227, II ed., in Comm. Cod. civ., P. Schlesinger, F.D. Busnelli, G. Ponzanelli, Milano, 2020, p. 123 ss. 161 In giurisprudenza, v. tra le tante: Cass. Civ., 19 aprile 2018, n. 9758; Cass. civ., 11 settembre 2013, n. 20847, in Notariato, 2013, p. 621; Cass. civ., 4 giugno 2013, n. 14028; Cass., 27 giugno 1983, n. 4406, in Riv. inf. mal. prof., 1983, II, p. 146; Cass. civ., 16 giugno 1980, n. 3808, in Arch. civ., 1980, p. 1057; Cass. civ., 19 marzo 1979, n. 1612; nel merito, tra le più recenti: Trib. Roma, 7 aprile 2020, in banca dati Pluris, Wolters Kluwer; Trib, Trieste, 27 marzo 2019, in banca dati Pluris, Wolters Kluwer; Trib. Ravenna, 29 maggio 2018, in banca dati Pluris, Wolters Kluwer; App. Brescia, 7 giugno 2019, in banca dati Pluris, Wolters Kluwer. 162 Cass. civ., 24 settembre 1986, n. 5741; Cass. civ., 28 gennaio 1985, n. 484, in Foro pad., 1985, I, p. 315, con nota di G. Camisa; Cass., 28 luglio 1983, n. 5215; Cass. civ., sez. lav., 19 ottobre 1979, n. 5433.
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gli effetti sul piano della legittima difesa putativa, così come prospettato da Bianca. Si pone, innanzitutto, il problema di verificare l’ammissibilità di una sua applicazione nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, al di fuori dei rapporti obbligatori. Tale questione è stata affrontata in maniera non particolarmente approfondita dalla dottrina meno recente, formatisi sotto il Codice civile abrogato. Secondo l’opinione dissenziente, posto che l’apparenza protegge il convincimento del terzo, mettendolo al riparo dalle conseguenze del suo errore, il soggetto che subisce un danno è vittima dell’illecito e non della situazione di apparenza e, di conseguenza, potrà ottenere il risarcimento là dove sussistano i requisiti previsti dalla legge per il sorgere della responsabilità extracontrattuale163. Inoltre, l’articolo 2043 c.c. determina specificatamente il soggetto obbligato al risarcimento del danno, non prevedendo la possibilità che il risarcimento possa essere corrisposto da chi, apparentemente, sembri il responsabile164. Seguendo questa posizione, dunque, il principio di apparenza opererebbe solamente nell’ambito delle obbligazioni contrattuali, escludendo totalmente la sua operatività nella responsabilità tra fatto illecito. Altri ritengono, invece, che l’esclusione così delineata darebbe luogo a diverse disparità a livello applicativo, che non avrebbero alcuna ragione di essere, data l’uniformità dei casi riconducibili al principio unitario di apparenza. L’apparenza può, dunque, estendersi, al di fuori delle obbligazioni contrattuali nell’ambito della responsabilità extracontrattuale165. Su queste basi, è stata, infatti,
G. Stolfi, L’apparenza del diritto, cit., p. 47 ss. G. Stolfi, L’apparenza del diritto, cit., p. 48: «Ora, siccome la norma determina inderogabilmente chi risponde ex delicto (art. 1151 e s.), non comprendo come possa il danneggiato rivolgersi anche a quelli che in apparenza sembri il debitore». 165 C. Vocino, La responsabilità automobilistica dell’intestatario della targa di riconoscimento, nota a App. Roma, 18 dicembre 1931, in Foro it., c. 204: «è noto il risultato al quale la dottrina dell’apparenza è pervenuta: che cioè la responsabilità di chi crea l’apparenza si estende all’adempimento dell’obbligazione promessa; ma se tutti i casi involgenti la medesima indagine teoretica debbono ricondursi sotto 163
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affermata la responsabilità solidale per i danni prodotti dalla circolazione dell’autoveicolo, non solo in capo al proprietario e al conducente, ma anche al titolare della targa prova, che risultava apposta sull’autoveicolo al momento del verificarsi del danno166. La dottrina più recente non si è soffermata in modo particolare su questo aspetto. Bisogna, dunque, guardare alla giurisprudenza per trarre indicazioni sull’applicabilità del principio di apparenza colposa anche alle ipotesi di responsabilità extracontrattuale. Dall’analisi del dato giurisprudenziale non emerge alcuna applicazione del principio di apparenza rispetto alla fattispecie generale di responsabilità di cui all’articolo 2043 c.c. L’unica applicazione, orun unico principio – al fine di non creare dannose ed antigiuridiche disparità – io dico che non soltanto nelle obbligazioni contrattuali, il principio dogmatico dell’apparenza deve aver valore, ma che esso deve estendersi (…) a tutte le obbligazioni extracontrattuali, che possono altresì essere determinate dall’apparenza. Ove ciò non si volesse ammettere, si cadrebbe nell’incongruenza di considerare la volontà del dichiarante, solamente nei casi in cui l’obbligazione sarebbe potuta sorgere, senza lo specifico e preventivo volere della parte interessata; onde l’obbligazione extracontrattuale deve altresì venir regolata secondo i principi fissati, anche dietro la considerazione che, in sostanza, il risarcimento dei danni non costituisce se non l’adempimento dell’obbligazione da fatto illecito (…)». 166 App. Roma, 18 dicembre 1931, cit. c. 208 ss.: «(…) se il proprietario è responsabile per il solo fatto della messa in circolazione del veicolo, pare alla Corte fondata l’illazione che corresponsabile si costituisse la società Trombetta allorché concorreva col proprietario in quel fatto mercé la consegna della propria targa. L’art. 122 parla del solo proprietario avendo riguardo ai casi ordinari d’una circolazione consentita dalla legge: non esclude però la corresponsabilità solidale per l’art. 1156 di chi con esso concorra a dar luogo ad una circolazione abusiva, vietata nonché pericolosa. Non si tratta d’estendere il campo d’applicazione d’una disposizione tassativa, ma di valutarne tutta la portata coerentemente alla ratio legis. Una volta fissato il principio della responsabilità del proprietario per la circolazione, sarebbe una stridente incoerenza che sfuggisse alla responsabilità e non dovesse invece condividerla chi gli ha dato il modo di circolare contra legem, colla cessione della propria targa, chi di tal guisa, figurando con la targa di fronte al pubblico, ha accomunato la propria sorte a quella del proprietario per le vicende della circolazione alle quali vanamente protesterebbe (…)». C. Vocino, La responsabilità automobilistica dell’intestatario della targa di riconoscimento, cit., c. 204, ritiene che l’applicazione della targa all’autoveicolo costituisca la dichiarazione, di fronte alla generalità, che la targa circoli per conto dell’intestatario della targa stessa e, di conseguenza, non può esimere il dichiarante dalla responsabilità solidale con il proprietario dell’autoveicolo per i danni da circolazione.
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mai consolidata, in materia extracontrattuale ha riguardato, invece, la responsabilità dei preponenti, disciplinata dall’articolo 2049 c.c. I casi giurisprudenziali concernono principalmente l’ambito assicurativo167 e, in particolare, la responsabilità delle imprese assicuratrici e degli agenti assicurativi per le condotte illecite poste in essere dai propri preposti (agenti e subagenti). Nello specifico, i Giudici hanno ritenuto applicabile il principio di apparenza al rapporto di occasionalità necessaria che deve sussistere tra l’esercizio delle incombenze da parte del preposto e il danno verificatosi168. L’esistenza di una connessione tra le incombenze attribuite al preposto e il danno cagionato costituisce uno dei presupposti per la configurabilità della responsabilità ex art. 2049 c.c., che va ad affiancarsi all’esistenza di un rapporto di preposizione e alla commissione di un illecito da parte del c.d. preposto169. Ove il rapporto di occasionalità sia soltanto apparente e, dunque, non corrisponda al concreto ed
167 Il principio di apparenza in riferimento alla responsabilità ex art. 2049 è stato affermato anche nell’ambito dell’intermediazione mobiliare v. sul punto, tra le altre: Cass. civ., 7 aprile 2006, n. 8229, in Danno resp., 2006, p. 1112, con commento di L. Frumento, in Contratti, 2007, p. 333, con nota di A. Valentini e in Resp. civ., 2006, p. 1006, con nota di R. Viglione. 168 Cass. civ., 26 settembre 2019, n. 23973; Cass. civ., 23 giugno 2017, n. 15645, in Guida dir. 2017, f. 34, p. 41, che riprende: Cass. civ., 4 novembre 2014, n. 23448, in Giur. it., 2015, con nota di S. Scapellato e in Corr. giur., 2015, p. 765, con nota di A. Crusco La Corte di legittimità fa un “passo indietro” sulla responsabilità solidale dell’assicuratore per il fatto illecito del sub-agente privo del potere di rappresentanza? 169 Secondo la giurisprudenza non è necessario che il fatto dannoso, compiuto dal preposto derivi dall’esercizio delle incombenze, ma è sufficiente che l’esercizio delle incombenze esponga il terzo all’ingerenza dannosa del preposto. L’incombenza deve aver, dunque, determinato una situazione tale da agevolare o rendere possibile il fatto illecito e l’evento dannoso, anche se il dipendente (o, comunque il collaboratore dell’imprenditore) abbia operato oltre i limiti delle sue incombenze, purché sempre nell’ambito dell’incarico affidatogli, così da non configurare una condotta del tutto estranea al rapporto di lavoro (v. tra le più recenti: Cass. civ., 26 settembre 2019, n. 23973; Trib. Vicenza, 17 aprile 2020, n. 778, in banca dati DeJure, Giuffré; Trib. Monza, 10 febbraio 2020, n. 307, in banca dati DeJure Giuffré. È in questo senso, dunque, che deve essere interpretato il concetto di “occasionalità necessaria”, oggetto di attenzione dal punto di vista del principio di apparenza in esame (C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 710 ss.).
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effettivo ambito dei poteri in capo al preposto, la responsabilità del preponente sussisterà alla duplice condizione rappresentata dalla buona fede del terzo e dal comportamento colposo del preponente rispetto all’affidamento ingenerato nel terzo170. La carenza di colpa del preponente deve essere valutata alla luce dell’avvenuta predisposizione di controlli idonei, anche solo astrattamente, a prevenire le condotte illecite poste in essere dai preposti171. In altri casi, seguendo la linea sopra delineata, l’applicazione del principio di apparenza ha riguardato, invece, l’esistenza stessa del
170 Cass. civ., 4 novembre 2014, n. 23448, cit.: «Ritiene il Collegio che il carattere generale di tale principio ne escluda la limitazione alle ipotesi di rappresentanza ed al contrario ne consenta l’estensione proprio alla fattispecie dell’occasionalità necessaria indispensabile per la configurabilità della responsabilità ai sensi dell’art. 2049 c.c.; al riguardo, non è di ostacolo l’unico remoto precedente esplicito di questa Corte (che risale a Cass. 18 agosto 1962, n. 2601), il quale esclude sì l’applicazione del principio, ma tanto solamente in concreto ed in relazione alla qualificata insufficienza del solo elemento valorizzato nella fattispecie (la circostanza della formale intestazione della licenza di un pubblico esercizio): così, con tutta evidenza, postulandone – sia pure incidentalmente – l’astratta applicabilità anche all’istituto della peculiare responsabilità codificata dalla norma in esame. Pertanto, mentre la responsabilità prevista dall’art. 2049 c.c., si configura, in ipotesi di rapporto di occasionalità necessaria tra condotta lesiva ed attività del datore di lavoro o preponente o committente o “padrone” per il solo fatto dell’inserimento dell’agente nella struttura organizzativa del primo e prescinde da ogni elemento soggettivo in capo a lui, al contrario, ove quel rapporto sia soltanto apparente – e cioè se non corrisponde al concreto ed effettivo ambito dei poteri dell’agente – la responsabilità sussiste solo all’ulteriore duplice condizione della buona fede del terzo e di una colpa dell’apparente preponente idonea ad ingenerarne l’affidamento». 171 Cass. civ., 4 novembre 2014, n. 23448, cit.: «In alternativa e cioè per il caso in cui l’art. 2049 c.c., non possa applicarsi direttamente, ma previa applicazione del concorrente principio dell’apparenza del diritto, gli stessi elementi vanno considerati ai fini della configurabilità di uno dei due requisiti costitutivi della fattispecie e cioè la buona fede incolpevole del terzo, ma allora con la ben più accorta e complessiva valutazione appena indicata; mentre l’ulteriore elemento della carenza di colpa in capo all’apparente “padrone” o committente o preponente va valutato in relazione – non già all’evidente inidoneità di quelli che non hanno funzionato, quanto piuttosto – all’idoneità anche solo astratta dei controlli effettivamente predisposti in un contesto macroeconomico come quello sopra indicato ed alla possibilità di adottare misure ulteriori e diverse, sia pure entro un evidente intrinseco limite di ragionevolezza in rapporto alle circostanze, per prevenire le condotte devianti dei propri agenti».
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rapporto di preposizione. In particolare, la responsabilità dell’impresa assicuratrice ex articolo 2049 c.c. rispetto al fatto illecito commesso dal sub-agente sussiste là dove venga provata l’apparenza di un rapporto diretto tra sub-agente e compagnia al fine di ottenere prodotti assicurativi in nome e per conto della stessa172. L’analisi del dato giurisprudenziale ha mostrato, dunque, la possibilità di applicare il principio di apparenza anche al di fuori delle obbligazioni contrattuali, fermo restando la sussistenza di tutti i presupposti necessari per la sua operatività al di là delle figure legislativamente predeterminate, primo tra tutti il comportamento colposo del soggetto contro cui il principio viene invocato. L’applicabilità del principio di apparenza al di fuori delle previsioni legislative è, infatti, circoscritta dalla giurisprudenza ai casi di apparenza colposa. In virtù di ciò, non possono sussistere dubbi sull’applicabilità del principio all’ambito della legittima difesa putativa, tutte le volte in cui l’erroneo convincimento dell’agente e, dunque, la situazione di apparenza, sia ascrivibile ad un comportamento dell’apparente aggressore173. Considerato che il principio di apparenza rende efficaci situazioni inesistenti174, la sua applicazione nell’ambito della legittima difesa putativa in presenza di tutti gli altri presupposti (situazione di apparenza che deriva da circostanze univoche ed oggettive; buona fede del soggetto agente; errore scusabile e ragionevolezza dell’affidamento) renderà efficace l’aggressione solo apparente. L’aggressione Cass. civ., 26 settembre 2019, n. 23973, cit. Per quanto concerne lo stato di necessità putativo v. B. Troisi, L’autonomia della fattispecie di cui all’art. 2045 c.c., cit., p. 20: «Orbene, riaffermata non soltanto la legittimazione del principio in parola, desumibile da numerose ed inequivoche disposizioni del nostro diritto positivo, ma anche la sua applicabilità oltre le figure legislativamente disciplinate, il problema è soltanto quello di determinarne le condizioni di impiego. (…) è stato perspicuamente dimostrato che il principio di apparenza (…) è applicabile tutte le volte che a causare la situazione oggettiva, da cui è derivata l’erronea inferenza del soggetto agente (in buona fede), sia stato un comportamento doloso o colposo di un terzo. Si che si potrebbe ammettere la rilevanza dello stato di necessità putativo, nel diritto civile, a condizione che non si oltrepassino i limiti della c.d. apparenza colposa (…)». 174 C. M. Bianca, Il contratto, cit., p. 106. 172 173
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apparente, dunque, potrà produrre i medesimi effetti di un’aggressione reale e, di conseguenza, la reazione dovrà considerarsi legittima e il danno non potrà trovare alcun ristoro né sotto forma di risarcimento né sotto forma di indennizzo. Infatti, il presunto aggressore non può pretendere di essere risarcito o indennizzato per un danno che lui stesso ha provocato175. In virtù di ciò, si potrebbe sostenere che la condotta realizzata dal presunto aggressore, che ha creato la situazione di apparenza, interrompa il nesso di causalità tra la condotta del soggetto agente e il danno subito dal presunto aggressore, escludendo, dunque, qualsiasi possibilità di ristoro del danno. 5.2. L’applicazione dell’articolo 2045 c.c. tra dottrina e giurisprudenza. L’indennizzabilità del danno Seguendo la linea ricostruttiva di Bianca, nell’ipotesi piuttosto improbabile in cui l’apparenza dell’aggressione non sia ascrivibile ad un comportamento del presunto aggressore, quest’ultimo dovrà essere indennizzato per il danno subito, analogamente a quanto avviene per lo stato di necessità putativo176. Secondo Bianca, infatti, in entrambi i casi, il soggetto agisce e provoca un danno al fine di scongiurare un pericolo inesistente a scapito di una vittima incolpevole, e, di conseguenza, sarà possibile applicare anche in questo caso l’articolo 2045 c.c.177. L’applicazione analogica dell’articolo 2045 c.c. rappresenta la soluzione scelta dalla giurisprudenza, peraltro piuttosto esigua, e dalla
C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p 653 ss. C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 654. 177 C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 654, che richiama alla nota 84, quanto sostenuto da G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 67 ss.: «La situazione che si realizza nello stato di legittima difesa putativa è, sotto il profilo da ultimo considerato, del tutto analoga alla fattispecie dello stato di necessità. Vi è, infatti, un soggetto che agisce nell’erronea convinzione di esservi costretto e, quindi, al fine specifico di salvare sé o altri da un grave pregiudizio (…). L’azione, in ogni caso, arreca danno ad un terzo, perché tale è certamente colui che subisce l’aggressione senza avervi dato causa». 175 176
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dottrina maggioritaria, che applicano l’articolo 2045 c.c. a tutte le ipotesi di legittima difesa putativa, senza, però, distinguerle in base all’esistenza o meno di un comportamento colposo dell’aggressore apparente. A differenza di quanto sostenuto da Bianca, in tutti i casi in cui sia accertata la legittima difesa putativa l’aggressore apparente avrà, dunque, diritto alla corresponsione dell’indennizzo da parte del danneggiante. Il problema dell’applicabilità in via analogica dell’articolo 2045 c.c. ruota intorno alla definizione della norma come regola generale o principio generale oppure come eccezione rispetto ai criteri generali in materia di responsabilità civile. La prima sentenza che si è occupata di tale problematica è piuttosto risalente. Si tratta della nota pronuncia del Tribunale di Arezzo del 16 marzo 1960, che riguardava il caso di uno scontro tra bracconieri e guardiacaccia, assolti in sede penale dall’accusa di tentato omicidio per legittima difesa putativa178. In questa sentenza i Giudici hanno inquadrato per la prima volta la legittima difesa putativa nell’ambito della responsabilità civile, escludendo l’applicabilità dell’articolo 2043 c.c. e, dunque, la possibilità di una pretesa risarcitoria in capo al soggetto danneggiato. Muovendo dall’idea per cui l’esistenza di un atto illecito, doloso o colposo, costituisce il presupposto fondamentale della responsabilità civile, i Giudici ritengono che nella legittima difesa putativa non sia riscontrabile l’antigiuridicità del fatto produttivo della lesione179. Emerge, infatti, una concezione di antigiuridicità soggettiva, perché il fatto viene
178 In Foro it., 1960, I, c. 858, con nota di A. De Cupis, Legittima difesa putativa e responsabilità civile e in Resp. civ. prev., 1961, p. 350. 179 Trib. Arezzo, 16 marzo 1960, cit., c. 861: «Prima di manifestare il punto di vista del Collegio, non è male riportare, sia pure schematicamente, i presupposti che secondo il sistema del nostro diritto positivo sono indispensabili per l’affermazione di responsabilità civile per danni, ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. Essi sono: 1) un atto illecito, colposo o doloso; 2) un danno; 3) il nesso causale tra la colpa, o il dolo, e il danno. (…) nel comportamento dei guardiacaccia, valutato dalla Corte di Assise di Arezzo, che pronunciò sentenza di non punibilità dei prevenuti per aver agito in stato di legittima difesa putativa nel cagionare le lesioni (…), mancherebbe il primo dei tre elementi enunciati, vale a dire l’antigiuridicità dell’atto».
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considerato illecito nella misura in cui l’azione sia dovuta a dolo o colpa del soggetto agente180. In questo senso, l’antigiuridicità del fatto è strettamente connessa alla colpevolezza del soggetto agente. I Giudici chiariscono, inoltre, i presupposti per l’operatività della legittima difesa putativa e le sue differenze essenziali rispetto alla legittima difesa reale. Nella legittima difesa putativa il pericolo da respingere è immaginario e frutto di un errore scusabile del soggetto agente, la cui reazione deriva dalla combinazione di fattori oggettivi, riconducibili alle circostanze di tempo e di luogo dell’azione, e meramente soggettivi, quali il timore, l’eccitazione e l’impeto del momento. Al contrario, nella legittima difesa reale la reazione e il danno conseguente rappresentano la risposta ad un’aggressione autentica, dunque, ad un’offesa ingiusta181. Questa differenza strutturale spiega il motivo per cui, là dove il pericolo sia effettivo, il danneggiato non abbia diritto ad alcun ristoro del danno subito sotto forma di risarcimento dei danni o di indennizzo. Fatte queste premesse, i Giudici ritengono che, analogamente a quanto accade per il danno causato in stato di necessità o di incapacità (artt. 2045 e 2047 c.c.), il danneggiato abbia diritto alla
180 Sulla distinzione tra antigiuridicità soggettiva e antigiuridicità oggettiva v. l’analisi di V. Pietrobon, Illecito e fatto illecito, Padova, 1998, p. 62 ss. e già G. Cian, Antigiuridicità e colpevolezza, cit., secondo il quale nel giudizio di antigiuridicità è compresa anche la valutazione del comportamento psicologico del soggetto, che ha orientato l’azione (sulla posizione adottata v. in particolare p. 98). 181 Trib. Arezzo, 16 marzo 1960, cit., c. 861 «Ad identici effetti esimenti, nel campo propriamente penale, della legittima difesa putativa e di quella reale ed obiettiva, non corrispondono nel campo civile, uguali effetti preclusivi dell’azione di danno. Ciò dipende dal fatto che, mentre nella legittima difesa reale ed obiettiva causa dell’eventuale danno è la reazione contro un’offesa ingiusta, portata da un autentico aggressore alla sfera dei diritti, propri o altri, di chi di difende, onde può dirsi che dal contenuto del danno eventualmente derivatone esula qualsiasi elemento giuridicamente rilevante, sia sotto il profilo del risarcimento, sia sotto il profilo dell’indennizzo, nella legittima difesa putativa invece si viene a creare una ben diversa situazione rispetto ad un eventuale danno che ne consegue. In quest’ultimo caso, infatti, il pericolo da respingere è immaginario ed irreale, è la conseguenza di un errore scusabile di giudizio, e la reazione, fonte del danno, non è altro che la combinazione di una situazione obiettiva (…) e di uno stato d’animo subiettivo (…), onde il danno ad essa conseguente (…)».
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corresponsione di un indennizzo, valutabile caso per caso in sede giudiziaria secondo il criterio di equità182. Si afferma, in particolare, l’applicabilità di un principio generale del diritto, che – al di fuori dei casi di responsabilità di cui all’articolo 2043 c.c. – permette di ottenere «(…) una riparazione pecuniaria, limitata ad una indennità determinata dal giudice, con criterio equitativo, e al di fuori dei limiti probatori di liquidazione che si richiedono invece per la determinazione del risarcimento vero e proprio del danno»183. La sentenza si basa, dunque, sull’inclusione dell’articolo 2045 c.c. e dell’articolo 2047 c.c.184 nell’ambito della categoria degli atti leciti dannosi e, soprattutto, sull’idea della responsabilità da atto le-
Trib. Arezzo, 16 marzo 1960, cit., c. 861: «(…) onde il danno ad essa conseguente, pur non rivestendo gli estremi dell’illecito civile, perché sono esclusi sia la colpa sia il dolo dal comportamento dell’agente, costituisce uno di quei fatti così detti “non antigiuridici” e penalmente punibili, dai quali, in analogia a quanto accade nel danno causato in stato di necessità o dall’incapace (art. 2045, 2047), deriva per ragioni di equità un diritto del danneggiato, non già al risarcimento bensì al semplice indennizzo, valutabile, caso per caso, secondo criteri di equità (art. 1226 cod. civ.) e, in modo particolare, ponendo a raffronto il comportamento del danneggiato, e quello del danneggiante, immediatamente prima dell’azione originaria del nocumento». 183 Trib. Arezzo, 16 marzo 1960, cit., c. 862. 184 L’inclusione dell’articolo 2047 c.c. nell’ambito degli atti leciti dannosi non può essere accolta. Infatti, la previsione di un’indennità a carico dell’incapace, nell’ipotesi in cui il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento del danno dal c.d. sorvegliante, non può ricondurre tale ipotesi nell’ambito della responsabilità da atti leciti dannosi. II fatto compiuto dall’incapace è un fatto illecito, perché l’incapacità rappresenta un esimente personale di responsabilità, che non autorizza il compimento del fatto, eliminandone, dunque, l’antigiuridicità, ma, al contrario, lo giustifica (v. in generale C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 631 ss. e nello specifico la trattazione di D.M.E. Bonomo, Infermità di mente e responsabilità civile, Milano, 2012, p. 478 ss.). Inoltre, come sottolineato da G. Ferrero, Appunti in tema di danni prodotti in stato di legittima difesa putativa, in Arch., resp. civ., 1961, p. 55, l’accostamento delle due fattispecie di cui agli articoli 2045 e 2047, effettuato dai Giudici, è da considerare errato. Infatti, nello stato di stato di necessità la corresponsione dell’indennizzo costituisce un vero e proprio diritto soggettivo in capo al danneggiato e correlativamente un obbligo di natura patrimoniale a carico del danneggiante. Nell’articolo 2047 c.c., al contrario, la previsione dell’indennizzo costituisce una mera facoltà riservata al Giudice, che può decidere di concederla o negarla. 182
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cito come regola generale e non come un’eccezione rispetto ai presupposti generali in materia di responsabilità civile185. Questa impostazione non ha, però, trovato accoglimento da parte della dottrina contemporanea. Si contesta, in particolare, l’esistenza di un principio generale in base al quale il soggetto è chiamato a rispondere per il danno causato, seppur in assenza dei presupposti propri della responsabilità risarcitoria, quali l’obiettiva antigiuridicità del fatto e l’elemento psicologico. Si ritiene, nello specifico, che la responsabilità, da cui sorge l’obbligo di indennizzare il danno subito dal danneggiato, come nei casi di cui agli articoli 2045 e 2047 c.c., abbia sempre natura eccezionale e, di conseguenza, non possa essere riconosciuta al di fuori delle ipotesi previste dalla legge186. Si tratterebbe, infatti, di una responsabilità di carattere oggettivo,
Questa linea è seguita da G. Tucci, La risarcibilità del danno da atto lecito nel diritto civile, cit., p. 247 ss. e, in particolare, p. 265 ss. Secondo l’Autore, la responsabilità da atto lecito dannoso non è eccezionale, perché non deroga rispetto alla ratio stessa della responsabilità civile. Tucci abbandona, infatti, la finalità meramente sanzionatoria della responsabilità civile, che individua nel risarcimento la sanziona alla condotta realizzata dal soggetto agente. La responsabilità civile rappresenterebbe soltanto un mezzo di protezione della sfera giuridico – patrimoniale del soggetto, che determina l’attribuzione di un corrispettivo in denaro della diminuzione patrimoniale subita per effetto dell’altrui comportamento. Muovendo da questa impostazione, la responsabilità da atto lecito dannoso non può costituire un’eccezione rispetto alle finalità della responsabilità, ma vi si inserisce pienamente. L’unica particolarità risiederebbe nel riconoscimento di una situazione giuridica attiva ad un soggetto e nella contemporanea protezione dell’interesse di un altro soggetto, che viene leso per effetto della condotta posta in essere dal primo. Sulla stessa linea, recentemente: G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 25: «(…) si può affermare che, in realtà, gli atti leciti dannosi (…), costituiscono una categoria generale, suscettibile di applicazione analogica e la cui disciplina è, pertanto, applicabile alle fattispecie simili, nelle quali, cioè, ad un comportamento autorizzato dalla legge, quest’ultima ricollega conseguenze di natura risarcitoria»; contra M. Franzoni, Sub art. 2044, cit., p. 293 ss., che rifiuta in maniera netta la categoria degli atti leciti dannosi. 186 A. De Cupis, Legittima difesa putativa e responsabilità civile, cit., 858: «Non solo quando manca l’obiettiva antigiuridicità, ma anche quando manca semplicemente la colpa, la responsabilità, e sia pure nella misura dipendente dall’equo apprezzamento del giudice, ha carattere eccezionale»; sulla stessa linea: G. Ferrero, Appunti in tema di danni prodotti in stato di legittima difesa putativa, cit., p. 55 e M. Pogliani, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, cit., p. 47 ss. 185
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che non può essere riconosciuta al di fuori dei casi previsti dalla legge, trattandosi di un’eccezione alla regola generale in materia di responsabilità187. Pur muovendo da tali considerazioni, la dottrina ha, comunque, riconosciuto l’indennizzabilità del pregiudizio in caso di legittima difesa putativa. L’obbligo di indennizzo di cui all’articolo 2045 c.c. si baserebbe su una finalità di carattere equitativo, volta a compensare il sacrificio subito dal soggetto danneggiato a causa di un atto autorizzato dalla legge188. La stessa esigenza si riscontrerebbe anche nella legittima di187 E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 22: «Sebbene i casi di responsabilità senza colpa siano nel codice civile abbastanza numerosi (art. 2047 cpv.; art. 2045; art. 2053; art. 2054), ci sembra che essi rappresentino pur sempre delle eccezioni al generale principio enunciato dagli artt. 1218 e 2043 (…). Come è stato rilevato (…), il carattere eccezionale dei casi di responsabilità incolposa è stato più volte segnalato dalla giurisprudenza (…)»; M. Pogliani, Responsabilità civile e risarcimento del danno, cit., v. p. 47 ss. e, in riferimento alla qualificazione dell’art. 2045 c.c. come ipotesi di responsabilità oggettiva (accettandone la qualificazione come atto lecito dannoso), p. 83: «Da parte nostra si ritiene che tale qualificazione, seppure accettabile, esige una ancor più puntuale specificazione che ne consenta l’inquadramento in una categoria predeterminata e cioè in quella che abbraccia le ipotesi di responsabilità obiettiva: invero, nelle fattispecie, da un lato occorre prendere in considerazione il fatto dannoso che è appunto uno degli elementi che caratterizzano la responsabilità, mentre dall’altro occorre tener presente la mancanza di volontarietà dell’agente nella causazione dell’evento. Si tratta di una situazione nella quale questi non voleva produrre il danno, né si era messo in condizione, per la mancanza della necessaria diligenza, di non essere in grado di evitarlo, pervenendo peraltro al risultato dannoso a seguito della presenza di un pericolo involontario, inevitabile ed attuale frappostosi tra il suo comportamento e la lesione dell’altrui diritto». L. Nonne, Profili critici dello stato di necessità nel diritto privato, cit., p. 592 ss., critica l’inquadramento dello stato di necessità nell’ambito della responsabilità oggettiva. L’Autore ritiene, infatti, che in tale fattispecie l’elemento soggettivo sia preso in considerazione da parte del legislatore sotto un duplice profilo. L’elemento soggettivo rileva, infatti, come coscienza e volizione dell’evento dannoso e, al contempo, come scopo della condotta, identificabile nella salvaguardia di un diritto della personalità proprio o altrui. A riprova di ciò egli ritiene che, là dove il danno non fosse voluto dall’agente, ma sussistessero, comunque, gli altri presupposti previsti dall’articolo 2045 c.c., tale disposizione non sarebbe applicabile, dovendosi ritenere che il fatto sia stato compiuto per caso fortuito o forza maggiore. 188 A. De Cupis, Legittima difesa putativa e responsabilità civile, cit., c. 859.
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fesa putativa e ciò porterebbe ad estendere l’obbligo di indennizzo anche in questa ipotesi189. Secondo questa ricostruzione, lo stesso articolo 2044 c.c., escludendo la responsabilità in caso di legittima difesa reale, suffragherebbe l’attribuzione di responsabilità in caso di pericolo irreale. L’irresponsabilità del soggetto agente, che ha agito in stato di legittima difesa reale, implica necessariamente il riconoscimento della responsabilità in caso di legittima difesa putativa190. Un’altra tesi muove, invece, dall’idea che le cause di giustificazione, ivi compreso lo stato di necessità, rappresentino dei principi generali e che, in virtù di ciò, siano tutte suscettibili di applicazione analogica191. L’applicazione in via analogica dell’articolo 2045 c.c. nell’ambito della legittima difesa putativa viene, però, motivata in maniera piuttosto generica, non soffermandosi sulle similitudini esistenti tra questa fattispecie e lo stato di necessità192. Dopo circa trent’anni dalla sentenza del Tribunale di Arezzo, la Corte di Cassazione è tornata nuovamente sul tema, fornendo, però, maggiori delucidazioni sull’applicazione in via analogica dell’arti A. De Cupis, Legittima difesa putativa e responsabilità civile, cit., c. 859. A. De Cupis, Legittima difesa putativa e responsabilità civile, cit., c. 859: «Un’altra considerazione suffraga questo risultato riguardo alla legittima difesa putativa. Se si ritiene che l’art. 2044, proclamante l’irresponsabilità di chi cagiona il danno per legittima difesa, si riferisca solo alla legittima difesa reale, bisogna ammettere che nel diritto positivo sia implicita una qualche forma di responsabilità a carico di colui che agisce per legittima difesa semplicemente putativa: responsabilità che, non potendo assurgere all’obbligo di risarcimento previsto dall’art. 2043, non può assumere forma e contenuto diverso da quello di un’indennità determinabile equamente dal giudice». 191 G. Ferrero, Appunti in tema di danni prodotti in stato di legittima difesa putativa, cit., p. 55: «Le cause di giustificazione non fissano delle regole eccezionali, che derogano ai principi normalmente ammessi; anzi esse stesse costituiscono dei principi generali (…). Se così è, l’applicazione analogica, lungi dall’essere vietata, è doverosa». Lo stesso concetto viene ripreso recentemente da G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 67. 192 G. Ferrero, Appunti in tema di danni prodotti in stato di legittima difesa putativa, cit., p. 55 ss.: «Il danno prodotto in stato di legittima difesa putativa, quando, cioè, per circostanze di tempo, luogo e animi, esisteva una valida, ragionevole presunzione di un pericolo attuale alla propria persona dovuto ad un’aggressione, può senz’altro essere considerato caso simile al danno prodotto in stato di necessità e, quindi, essere regolato dalla stessa disposizione di legge (…)». 189
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colo 2045 c.c. Si tratta, nello specifico, di due pronunce del 1991 e del 1995193. Nella prima sentenza194, i Giudici chiariscono la natura dell’articolo 2045 c.c. e gli elementi che permettono di applicare analogicamente la disposizione a tutte le ipotesi di legittima difesa putativa. L’articolo 2045 c.c. non può essere considerato come una norma eccezionale, rispetto ai principi generali in materia di responsabilità. I Giudici ribadiscono, infatti, la moderna concezione della responsabilità civile non più fondata esclusivamente sul momento soggettivo dell’imputabilità, ma basata esclusivamente sulla sussistenza di un danno oggettivamente ingiusto. Di conseguenza, ogni fattispecie di responsabilità è connessa alla lesione di un interesse giuridicamente tutelato, cioè un’utilità di natura patrimoniale o non patrimoniale, protetta dall’ordinamento giuridico. Alla luce di ciò, l’articolo 2045 c.c. non può rappresentare un’eccezione rispetto ai criteri in materia di responsabilità civile, perché è riscontrabile anche in tale fattispecie un’ipotesi di danno oggettivamente ingiusto195.
Per un’analisi accurata dell’evoluzione giurisprudenziale, v. M. C. TraverLe cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 127 ss. 194 Cass. civ., 12 agosto 1991, n. 8872, in Giur. it., 1992, 2, con nota di D. Carusi, Note in tema di azione dannosa compiuta nell’erroneo convincimento di difendersi da un’aggressione. 195 Cass. civ., 12 agosto 1991, cit., n. 8872: «(…) il nucleo vero e profondo della disciplina della responsabilità civile, lo zoccolo duro su cui si erige il sistema è diverso dal momento soggettivo di imputabilità della responsabilità. Esso consiste propriamente nel danno oggettivamente ingiusto, nel profilo ineliminabile senza escludere qualsiasi fattispecie di responsabilità, della lesione di un interesse “giuridico”, cioè di una utilità che l’ordinamento tutela nel soggetto, abbia o meno essa rilevanza patrimoniale. La responsabilità civile è la riaffermazione, in nuova veste, di quella volontà di tutela nelle situazioni concrete ipotizzate dalle norme, allorché la immancabile lesione non può che essere non soltanto contra ius ma anche non iure data. La responsabilità, infine, è commisurata, nelle singole ipotesi normative, all’entità o, vuolsi, alla natura della lesione tipicamente ipotizzata. Quest’ultima, comunque, è la nota costante sistematica. Orbene, nel quadro appena delineato l’art. 2045 cod. civ. non è eccezionale, potendosi individuare in esso la specificazione, in veste peculiare, di una ipotesi di danno oggettivamente ingiusto». 193
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Attestata, dunque, la natura non eccezionale dell’articolo 2045 c.c. i Giudici affermano la sua applicabilità nell’ambito della legittima difesa putativa, ravvisandovi l’assenza dell’elemento soggettivo e l’estraneità del danneggiato al fatto dannoso196. Tali principi sono stati poi successivamente ribaditi nella sentenza del 1995197. Recentemente una parte della dottrina si è espressa nuovamente a favore dell’applicazione analogica dell’art. 2045 c.c., mutando, però, l’impianto argomentativo prospettato in sede giurisprudenziale. Viene ripresa l’idea, già approfondita nel passato, per cui tutte le cause di giustificazione, ivi compreso lo stato di necessità, sono espressione di principi generali del diritto, che rispondono all’esigenza di bilanciare due interessi in conflitto egualmente meritevoli di tutela198. Nello specifico, la disciplina di cui all’art. 2045 c.c. esprime il principio in forza del quale «tra due situazioni di pericolo – l’una riferibile a colui che pone in essere l’azione necessitata, l’altra relativa al terzo – la legge sceglie quella meno grave»199. La previsio Cass. civ., 12 agosto 1991, n. 8872, cit.: «La natura “sistematica” della norma dell’art. 2045 cod. civ. e la segnalata configurazione che in essa assume il danno ingiusto convincono che la norma stessa è idonea a disciplinare, in via analogica, la fattispecie di danno cagionato in stato di c.d. legittima difesa putativa. Esattamente segnala l’accorta difesa del ricorrente che tale fattispecie presenta due requisiti di aggancio alla norma considerata: per un verso, l’assenza dell’elemento soggettivo dell’illecito; per l’altro, “la estraneità” del danneggiato al fatto che ha determinato il danno”. Quest’ultimo requisito corrispondente corrisponde propriamente a quella presa d’atto di un “sacrificio per necessità”, la quale connota la norma; esso concreta quell’ingiustizia “speciale” del danno che mentre connette la disciplina al sistema ne delimita corrispondentemente l’effetto». 197 Cass. civ., 6 aprile 1995, n. 4029, in NGCC, 1995, con nota di A. Venchiarutti, Di come un passante fu ucciso dalla polizia per legittima difesa. 198 G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 67, che, riprendendo quanto già affermato da G. Ferrero, Appunti in tema di danni prodotti in stato di legittima difesa, cit., p. 55, afferma che: «(…) si deve affermare che le cause di giustificazione non fissano delle regole eccezionali, ma sono espressione di principi generali che l’ordinamento ha previsto per tutelare situazioni simili. Esse, infatti rispondono all’esigenza, in presenza di interessi contrapposti, tutti bisognosi di tutela, di redistribuire le conseguenze pregiudizievoli a seguito di un’operazione di bilanciamento degli interessi medesimi». 199 G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 67. 196
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ne legale dell’indennizzo permette, perciò, di contemperare le due opposte esigenze, quella del soggetto necessitato e quella del terzo che subisce un pregiudizio. Nella legittima difesa putativa è possibile ravvisare questa stessa esigenza di contemperamento tra opposti interessi, che è alla base dell’obbligo indennitario di cui all’art. 2045 c.c. Infatti, il soggetto provoca un danno nell’erroneo convincimento di esservi stato costretto per salvare sé o altri da un grave pregiudizio. L’azione dannosa permette, dunque, al soggetto agente di scongiurare un pericolo irreale a spese di una vittima incolpevole, estranea al pericolo, dunque di un soggetto terzo200. In virtù di ciò, la dottrina ammette l’applicabilità dell’art. 2045 c.c. anche allo stato di necessità putativo, ravvisandovi la stessa esigenza di contemperamento degli opposti interessi alla base dell’obbligo indennitario201.
G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 67 ss. e, in particolare, p. 89: «La ratio dell’operatività della scriminante (…) poggia su di una valutazione equitativa che la legge ha inteso operare tra due situazioni meritevoli di tutela. La relativa disciplina, quindi, non costituisce eccezione ai principi generali, prevedendo essa stessa una regolamentazione applicabile ad ipotesi nelle quali è individuabile la medesima esigenza. (…) se, quindi, l’attenuazione di responsabilità deriva dalla particolare situazione, nella quale si trova il soggetto che ritiene di non poter evitare altrimenti l’incombente pericolo, non vi è ragione per adottare una diversa disciplina in un’ipotesi in cui tale supposizione – di carattere tipicamente soggettivo – si fondi su di una situazione erroneamente ritenuta sussistente. Naturalmente, occorre che l’erronea valutazione tragga origine da obiettivi elementi e non sia determinata da colpa del soggetto. In tal caso, infatti, quest’ultimo dovrà rispondere integralmente del danno subito dal terzo, in quanto ha contribuito con il proprio comportamento colposo a realizzare situazione produttiva di danno»; contra M. Franzoni, L’illecito, cit., p. 1153 ss., che muove dalla constatazione per cui la previsione di cui all’art. 2045 c.c. sia un’eccezione rispetto alla regola sull’integrale risarcimento del danno. Di conseguenza, trattandosi di un’eccezione, deve essere necessariamente applicata in maniera restrittiva, escludendo, dunque, la nascita dell’obbligazione indennitaria in caso in cui lo stato di necessità sia putativo. Queste conclusioni sono fortemente criticate da L. Nonne, Contributo ad una rilettura dell’art. 2045 c.c., cit., p. 445 ss., che ammette necessariamente l’applicabilità in via analogica dell’art. 2045 c.c., definendolo come una norma speciale, ma non eccezionale. 201 G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 67: «Il terzo (…) pone in essere un fatto antigiuridico, ma in quanto si trova nell’alternativa tra commettere egli stesso un illecito e subire esso stesso un danno. L’indennizzo, pertanto, consente di contemperare le opposte esigenze del soggetto necessitato e del terzo, che sen200
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Come ben evidenziato dalla dottrina, la vicinanza tra le due fattispecie, che giustifica l’applicazione in via analogica dell’art. 2045 c.c., è limitata all’esigenza di bilanciamento degli interessi e non tiene conto delle differenze strutturali esistenti per quanto concerne principalmente il loro ambito di operatività e il requisito del pericolo202. Si prospetterebbe, però, in questo modo, un’applicazione automatica dell’articolo 2045 c.c., che è stata oggetto di forti critiche in sede dottrinale. Secondo alcuni Autori, infatti, l’operatività dell’art. 2045 c.c. nell’ambito della legittima difesa putativa deve essere necessariamente subordinata alla sussistenza dei requisiti previsti per lo stato di necessità. Solo nel caso in cui siano presenti tutti i presupposti, sarà possibile applicare la riparazione indennitaria e non risarcitoria203. Seguendo questa impostazione, però, si valuterebbe il fatto come un’ipotesi ascrivibile allo stato di necessità e la qualificazione za sua colpa subisce un pregiudizio. La situazione che si realizza nello stato di legittima difesa putativa è, sotto, il profilo da ultimo considerato, del tutto analoga alla fattispecie dello stato di necessità. Vi è, infatti, un soggetto che agisce nell’erronea convinzione di esservi costretto e, quindi, al fine specifico di salvare sé od altri da un grave pregiudizio». 202 Secondo G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 68: «(…) l’analogia è limitata all’esigenza di contemperamento degli opposti interessi, poiché nell’ipotesi considerata tale pregiudizio, a differenza della situazione prevista dall’art. 2045 c.c., non necessariamente si riferisce ad un danno grave alla persona. L’azione, in ogni caso, arreca danno ad un terzo, perché tale certamente colui che subisce l’aggressione senza avervi dato causa». Per quanto concerne le differenze riguardanti l’ambito di applicabilità delle due esimenti, le linee di demarcazione, in realtà, non sono così nette. Non si può escludere, infatti, che anche i diritti di credito possano essere tutelati attraverso un comportamento necessitato, tutte le volte in cui siano strumentali alla diretta soddisfazione di bisogni attinenti alla persona umana, come evidenziato da L. Nonne, Contributo ad una rilettura dell’art. 2045 c.c., cit., p. 440. 203 M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 139 ss. e, in particolare, p. 140: «Costituisce, quindi, un salto logico sostenere che all’inapplicabilità della fattispecie ex art. 2044 c.c. (perché inerente alla sola legittimazione reale) consegue automaticamente l’applicazione per analogia della fattispecie dello stato di necessità. Se, infatti, per esigenze di natura equitativa, può anche andar bene l’estendere in via analogica alla fattispecie che qui interessa la disciplina indennitaria desumibile dall’art. 2045 c.c., tale applicazione va subordinata ad un rigoroso accertamento in ordine all’esistenza dei presupposti di tale figura, e solo se l’esito di tale accertamento è di natura positiva si può consentire la riparazione indennitaria anziché risarcitoria».
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come legittima difesa putativa assumerebbe un mero valore di carattere descrittivo, trattandosi a tutti gli effetti di un fatto necessitato, essendo presenti tutti i presupposti applicativi della fattispecie204. Altri Autori, invece, escludono totalmente l’operatività dell’art. 2045 c.c. La similitudine ravvisata tra le due fattispecie non terrebbe in adeguata considerazione l’assenza dell’elemento soggettivo che caratterizza la legittima difesa putativa rispetto allo stato di necessità. La scusabilità dell’errore, infatti, esclude la colpa del soggetto agente di fronte al pericolo irreale, mentre nello stato di necessità rileva l’elemento soggettivo come coscienza e volontà dell’evento dannoso, e, al contempo, come scopo della condotta. Di fronte a tale constatazione e alla necessità di evitare ingiustificate disparità di trattamento, la soluzione prescelta è quella di applicare l’art. 2044 c.c. anche alla legittima difesa putativa, equiparandola, dunque, alla legittima difesa reale. In questo modo, il soggetto che agisce per difendersi da un pericolo irreale non incorrerà in alcuna conseguenza dal punto di vista civilistico, né in termini risarcitori né in termini indennitari205. Sul punto v. le considerazioni di M. Franzoni, L’illecito, cit., p. 1143. L. Nonne, Contributo ad una rilettura dell’art. 2045 c.c., cit., p. 446, nota 39: «Sul punto può rilevarsi, anzitutto, che anche la legittima difesa putativa, come tutte le scriminanti putative, pur escludendo l’integrazione del reato non elimina l’antigiuridicità ma la sola colpevolezza, per cui il danno cagionato sarebbe integralmente risarcibile e non compensabile con una mera indennità; nella suddetta ipotesi, allora, o sorge l’obbligo di risarcire integralmente il danno, oppure, se si equipara la legittima difesa putativa a quella oggettiva, non si avrà alcuna conseguenza civilistica, neanche di carattere indennitario. Anche sulla base dell’esigenza, esposta nel testo, di contemperare gli opposti interessi evitando disparità di trattamento infondate, quest’ultima soluzione mi pare quella più rispondente alle caratteristiche della relativa fattispecie. A ciò non varrebbe opporre la similitudine strutturale tra legittima difesa putativa e stato di necessità, in quanto in tal modo verrebbe obliterato il dato essenziale dell’assenza di colpa del soggetto agente nella difesa dalla supposta aggressione, il che, nell’ottica delle cause di giustificazione come espressione di principî generali, deve necessariamente esplicare effetti tali da distinguere la relativa fattispecie dallo stato di necessità (anche putativo), foriero allora di differenti conseguenze civilistiche». Secondo M. Franzoni, L’illecito, cit., p. 1143, difficilmente si potrà riscontrare l’assenza di colpa del soggetto che agisce in stato di legittima difesa putativa, alla luce del processo di oggettivizzazione della colpa. Di conseguenza, il soggetto agente andrebbe, comunque, incontro ad una responsabilità generale ex art. 2043 c.c. 204
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CAPITOLO III
LA REAZIONE E L’ECCESSO DI LEGITTIMA DIFESA
Sommario: 1. La necessità della reazione e il commodus discessus. – 2. La proporzionalità tra reazione e offesa. – 3. (segue) La proporzionalità nella “legittima difesa domiciliare” tra presunzioni e interpretazione conforme a Costituzione. – 4. Le conseguenze della legittima difesa domiciliare in sede civile. – 5. Eccesso doloso e colposo: problematiche ricostruttive. – 6. Il risarcimento nella fattispecie generale di eccesso colposo. – 7. L’eccesso colposo domiciliare. – 7.1. Caratteri generali e presupposti. – 7.2. La corresponsione dell’indennità ex articolo 2044, comma 3, c.c.: il primo approccio della dottrina civilistica. – 7.3. (segue) L’indennità ex articolo 2044, comma 3, c.c. tra liceità ed illiceità dell’eccesso colposo domiciliare.
1. La necessità della reazione e il commodus discessus Come già accennato, per poter dar luogo alla scriminante della legittima difesa, la reazione deve presentare i requisiti della necessità e della proporzionalità1, previsti espressamente dall’art. 52. c.p. e Nei sistemi di common law, inglese e nordamericano, i due requisiti della necessità e della proporzionalità della difesa sembrerebbero racchiusi nel concetto stesso di reasonable force (R.F.V. Heuston and R.A. Buckley, Salmond & Heuston on the Law of torts, cit., p. 128: «Force is not reasonable if it is either (i) unnecessary (…) or (ii) disproportionate to the evil to be prevented»; J. Goudkamp, Tort law defences, Oxford, 2017, p. 69:«(…) the phrase the “defence of self-defence” means the application of proportionate defensive force in circumstances where it was objectively necessary to use defensive force»; W. Prosser, Handbook of the law of torts, cit., p. 125 ss.). Il concetto di reasonable force è un concetto di fatto mutevole, perché strettamente legato all’evoluzione della società, soprattutto 1
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richiamati in ambito civilistico per effetto del rinvio al diritto penale. Il requisito della necessità è stato, seppur in parte, approfondito in relazione ai presupposti della reazione. Secondo l’impostazione maggioritaria, infatti, la necessità della difesa è strettamente collegata all’involontarietà della situazione di pericolo e verrebbe meno tutte le volte in cui il pericolo sia stato volontariamente provocato dal soggetto aggredito oppure sia stato liberamente accettato, come accade normalmente nel reato di rissa2. Nella definizione del concetto di necessità la tendenza della dottrina civilistica è stata essenzialmente quella di richiamare l’esperienza penalistica3. Per questo motivo, la ricostruzione del suddetto requisito passa principalmente attraverso l’analisi della dottrina e della giurisprudenza penale. Si parla, generalmente, di necessità della difesa per indicare la situazione in cui il soggetto che reagisce all’aggressione si trova nell’impossibilità di agire diversamente per difendere il proprio o l’altrui diritto in pericolo4. L’unico modo per realizzare tale finalità è quello di commettere un fatto illecito in riferimento alla difesa della dignità e dell’onore in capo al soggetto aggredito (R. F. V. Heuston, R.A. Buckley, Salmond & Heuston on the Law of torts, cit., p. 128; in epoca più risalente, v. le considerazioni di W. Prosser, Handbook of the law of torts, cit., p. 128 ss.: «Ordinarily the question of what is reasonable force is to be determined by the jury. Certain boundaries have been marked out by the law. It is unreasonable to use force which is calculated to inflict death or serious bodily harm, such as a deadly weapon, unless one has reason to believe that he is in similar serious danger, and that there is no other safe means of defense. Where a reasonably safe way of escape is open, the courts have not agreed as to the rule to be applied. It is clear that the defendant may stand, his ground and use force short of that likely to cause serious physical injury. Many courts, with a high regard for the dignity and sense of honor of the individual, have held that he may stand his ground and use deadly force, even to the extent of killing his assailant. Others, perhaps a minority, have adopted the view, which seems much to be preferred in a civilized community, that personal honor does not justify the killing or wounding of a human being, and that the defendant must retreat if it appears that he can do so with safety». 2 V. supra, cap. II, § 4. 3 Tra gli altri: M. Comporti, Sub art. 2044, cit., p. 13; G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 36 ss.; P.G. Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 234. In giurisprudenza: Cass. civ., 25 febbraio 2009, n. 4492, cit. 4 F. Antolisei, Diritto penale, cit., p. 304.
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a danno dell’aggressore5. Il soggetto si trova nell’alternativa tra reagire o subire e non può sottrarsi al pericolo senza offendere l’aggressore. In questo senso, dunque, la necessità della reazione deve essere intesa come inevitabilità della stessa rispetto alla finalità di protezione perseguita6. La necessità della difesa così prospettata fugge, però, ad una valutazione in termini assoluti, che prescinda cioè dalle circostanze concrete in cui il soggetto si è trovato a reagire. Bisognerà, infatti, considerare le condizioni di tempo e di luogo in cui è avvenuta l’aggressione, le caratteristiche personali dei soggetti coinvolti e la tipologia di aggressione. Solamente in questo modo sarà possibile verificare la necessità della reazione e, dunque, la sussistenza di un comportamento scriminato. Considerata, inoltre, la varietà dei casi prospettabili, il Giudice dovrà effettuare di volta in volta una valutazione che tenga conto di tali elementi7. Il concetto di necessità della reazione implica, come si è visto, che il soggetto non abbia a disposizione alternative lecite per fron-
G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 324 ss. Si tratta, ad esempio, secondo gli Autori, del caso in cui un cittadino, per cessare le insistenti molestie telefoniche che lo turbano, provveda autonomamente ad installare delle apparecchiature di intercettazione, realizzando così un fatto di reato ascrivibile all’ipotesi di cui all’art. 617 bis, c.p. Seguendo la nozione di necessità prospettata, il fatto illecito compiuto dal soggetto non può essere ascrivibile ad un’ipotesi di legittima difesa, perché il cittadino poteva raggiungersi semplicemente rivolgendosi all’autorità giudiziaria e richiedendo il controllo dell’apparecchio telefonico. 6 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 303; F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 278. 7 Si tratta di un’opinione ormai consolidata nella dottrina più recente, v. tra gli altri: F. Antolisei, Diritto penale, cit., p. 304: «In conseguenza, una reazione che può apparire necessaria ed essere giustificata per un individuo (per es. per una persona debole o malaticcia che sia aggredita da un uomo forte e vigoroso), può non essere tale in un caso inverso. Del pari una reazione ingiustificata di fronte ad un attacco compiuto in pieno giorno nella strada frequentata di una città, può essere legittimata nel caso in cui l’aggressione avvenga di notte, nel buio, in una via solitaria»; F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 280; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 303. In giurisprudenza, sulla necessità di una valutazione che tenga conto delle circostanze concrete in cui il soggetto ha agito v.: Cass. pen., 4 novembre 2009, n. 3507; Trib. Ivrea, 17 luglio 2017, in banca dati Pluris; App. Lecce Taranto, 2 maggio 2017, in banca dati Pluris. 5
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teggiare la situazione di pericolo in atto. Può, tuttavia, accadere che egli abbia a disposizione varie soluzioni, oltre quella posta in essere, tutte egualmente in grado di neutralizzare il pericolo. In questo caso, la dottrina ritiene che il concetto di necessità/inevitabilità così prospettato implichi la necessità di scegliere la condotta meno lesiva per l’aggressore, ma egualmente in grado di realizzare la finalità difensiva8. In questo senso, dunque, una parte della dottrina ha parlato di «inevitabilità altrimenti dell’offesa»9, che viene identificata come requisito autonomo della reazione per indicare l’impossibilità del soggetto di difendersi con un’offesa meno grave rispetto a quella arrecata. Il riconoscimento di tale requisito troverebbe le proprie basi essenzialmente nel principio del bilanciamento di interessi, che è alla base della scriminante. In virtù di tale principio, infatti, l’interesse del soggetto aggredito – o del terzo – deve essere necessariamente difeso col minor danno per l’aggressore e, dunque, con il
8 F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 278 ss.; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 303; G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 325. In giurisprudenza, sul concetto di necessità come assenza di alternative leciti e meno dannose per l’aggredito: Cass. pen., 1° marzo 2021, n. 8012, in banca dati ForoPlus; Cass. pen., 17 dicembre 2020, n. 13767, in banca dati Dejure; Cass. pen., 26 ottobre 2020, n. 59, in banca dati Dejure; Cass. pen., 30 settembre 2020, n. 37427, in D&G, 2021, 4 gennaio, con nota di A. Ubaldi; Cass. pen., 25 giugno 2020, n. 25788, in banca dati Dejure; Cass. pen., 15 gennaio 2020, n. 13191; Cass. pen., 16 marzo 2018, n. 33837, in D&G, 2018, 20 luglio, con nota di A. Foti; Cass. pen., 14 maggio 2008, n. 25653; Cass. pen., 4 luglio 2006, n. 32282. Merita di essere sottolineata la posizione particolare di T. Padovani, Diritto penale, cit., p. 202. Nella ricostruzione dei caratteri della difesa, la necessità viene, infatti, qualificata dall’Autore come requisito modale, unitamente alla costrizione e alla proporzionalità, che ne rappresentano rispettivamente il requisito modale e quello materiale. La necessità non viene solamente riconosciuta come soluzione relativamente inevitabile in relazione alle condizioni difensive del soggetto aggredito, ma anche come reazione obiettivamente idonea a neutralizzare la situazione di pericolo. In virtù di ciò, non può essere considerata necessaria la c.d. legittima difesa aberrante, che riguarda tutte le ipotesi in cui la reazione difensiva, anche se diretta nei confronti dell’aggressore, finisca per causare un danno ad un terzo estraneo. Sul concetto di strumentalità dell’azione difensiva come neutralizzazione della situazione di pericolo: C. M. Bianca, Diritto civile, 5. La responsabilità, cit., p. 654. 9 F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 278.
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minor costo sociale10. Questa impostazione rispecchia chiaramente la natura della legittima difesa quale espressione dell’autotutela privata e, dunque, quale mezzo eccezionale di difesa dei diritti, là dove non sia possibile ricorrere all’autorità pubblica. Data l’eccezionalità dello strumento non è ammissibile il ricorso all’autodifesa al fine di cagionare danni, che non si rivelino indispensabili per realizzare e assicurare la finalità difensiva11. Vi è stato un intenso dibattito sul ruolo della fuga come alternativa all’offesa, in grado di escludere autonomamente la necessità della reazione e, di conseguenza, la legittimità della difesa. L’orientamento più risalente ritiene che l’aggredito non abbia il dovere
F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 278. Oltre al bilanciamento di interessi che rappresenta la base della legittima difesa, l’Autore individua ulteriori elementi che permettono di giustificare il requisito dell’inevitabilità, intesa come impossibilità di evitare il pericolo realizzando un’offesa meno grave rispetto a quella arrecata. L’Autore si riferisce, in particolare, alla fattispecie dell’eccesso colposo di cui all’art. 55 c.p., che, parlando di limiti imposti dalla necessità della difesa, si riferirebbe «all’impossibilità di difendersi altrimenti», prima che al superamento della proporzionalità tra offesa e reazione. Il riferimento al bilanciamento di interessi in relazione ai concetti di necessità/inevitabilità della difesa è presente anche nella dottrina civilistica. G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 36, sostiene, infatti, che il giudizio di prevalenza dell’interesse dell’aggredito su quello dell’aggressore passa sempre attraverso l’accertamento della necessità della difesa e, dunque, dell’inevitabilità della lesione dell’interesse in capo all’aggressore. Là dove manchi il requisito di necessità, non c’è più alcuna ragione per tutelare l’autore della reazione, che, non essendo necessaria, non è più legittima e, di conseguenza, non è idonea ad evitare la sanzione. 11 C. F. Grosso, voce Legittima difesa, cit., p. 29. Pur condividendo questo orientamento, secondo l’Autore l’esigenza che la condotta difensiva sia quella meno dannosa per l’aggressore può essere tratta anche dal requisito della legale della proporzione tra offesa e reazione. L’Autore muove dall’idea per cui il giudizio di proporzione deve svolgersi attraverso una comparazione tra gli interessi dell’aggredito e dell’aggressore. Il termine di confronto di tale giudizio è rappresentato dalla situazione di pericolo causata dall’aggressione, che si determina attraverso le modalità concrete che contraddistinguono la situazione di fatto: attacco ad un bene personale o patrimoniale, la prestanza fisica dell’aggredito e gli strumenti a sua disposizione ecc. Il fatto che l’aggredito disponga di un mezzo sicuro di difesa, che sia diverso e meno nocivo per l’aggressore rispetto a quello che potrebbe essere usato nel caso specifico, potrebbe incidere sull’entità stessa del pericolo e, di conseguenza, sul giudizio di proporzionalità. 10
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di fuggire o di nascondersi là dove ciò sia materialmente possibile e non sussista un obbligo speciale di agire, come per i militari di guardia. La legge, infatti, non obbliga a ricorrere a mezzi non violenti per superare la situazione di pericolo in cui si trova il soggetto agente e, al contempo, «non può volere l’incoraggiamento dei malviventi e la viltà degli onesti»12. Ciò sarebbe, inoltre, contrario al ruolo riconosciuto all’aggredito, che deve necessariamente reagire cooperando con lo Stato nella difesa dei diritti in pericolo13. L’aggressore non può, dunque, sottrarsi alle conseguenze del proprio comportamento, ma deve correre il rischio di una reazione da parte dell’aggredito, senza che la legge possa assicurargli un trattamento di favore14. Dalla fuga, però, deve essere nettamente distinto il c.d. commodus discessus. Tale fattispecie, infatti, consiste nella possibilità di una ritirata dalla situazione di pericolo, che sia, non solo possibile, ma anche agevole e dignitosa per il soggetto aggredito15. In tali circostanze, come sostenuto anche in sede giurisprudenziale16, quest’ultimo ha il dovere di sottrarsi alla situazione
V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, V ed. aggiornata dai professori P. Nuvolone e G.D. Pisapia, v. 2, Torino, 1985, p. 406 ss. 13 G. Maggiore, Diritto penale, v. I, Parte generale (Art. 1-Art. 240), t. I, V ed. accresciuta ed aggiornata, Bologna, 1961, p. 312: «Vi sono situazioni sociali, come quella del militare, in cui la fuga è vituperevole. In verità l’aggredito non è tenuto a fuggire, non soltanto perché nessuna legge può rendere obbligatoria la vigliaccheria, ma perché è suo dovere lottare per il diritto e reagire al delitto. Egli come cooperatore dello Stato in questa lotta, non può sottrarvisi con la fuga, come non vi si sottrarrebbe lo Stato. Salvo che non abbia egli stesso dato causa col suo fatto illecito». 14 V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, cit., p. 407. 15 In giurisprudenza: Cass. pen., 20 ottobre 2020, n. 3006, cit. (parla in generale di commodus discessus per indicare la situazione in cui sia possibile sottrarsi alla situazione di pericolo senza esporre a rischio la propria incolumità fisica, allontandosi, dunque, da qualsiasi riferimento alla viltà); Cass. pen., 19 febbraio 2020, n. 17246, in banca dati DeJure; Cass. pen. 16 novembre 1983, in Riv. pen., 16 novembre 1982; Cass. pen., 25 marzo 1983; Cass. pen., 10 aprile 1986, in Riv. pen., 1986, p. 1041; Cass. pen., 7 luglio 1992, in Cass. pen., 1994, p. 1519; Cass. pen., 23 aprile 1981, in Riv. pen., 1981, p. 838. 16 Cass. pen., 10 aprile 2013, n. 18926; App. Genova, 20 giugno 2004. 12
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di pericolo e, là dove agisca diversamente, la sua difesa non potrà considerarsi necessaria17. Quest’impostazione particolarmente rigida appare legata all’ideale di onore individuale ormai superato e lontano dalle esigenze di tipo solidaristico che caratterizzano la nostra epoca18. Al di là dei militari, per cui effettivamente la fuga è dannosa, perché nuoce al prestigio della divisa, ai privati non può essere preclusa la fuga. Vi possono essere, infatti, dei casi in cui la fuga non implica una menomazione della dignità in capo al soggetto, considerato, altresì, che l’ordinamento giuridico con la previsione della legittima difesa non ha inteso autorizzare un atteggiamento di spavalderia da parte del soggetto che si trovi in una situazione di pericolo19. Per quanto concerne, invece, la valutazione del commodus discessus, la dottrina più recente applica anche in questo caso il principio del bilanciamento di interessi. In linea generale il soggetto non sarà tenuto a fuggire in tutti quei casi in cui la fuga esporrebbe i suoi beni o quelli dei terzi ad un rischio superiore rispetto a quello arrecato all’aggressore con la difesa20.
V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, cit., p. 407 e anche E. BetL. Pettoello Mantovani, Diritto penale, cit., p. 305; contra G. Maggiore, Diritto penale, cit., p. 312: «Che io sia aggredito o soltanto pedinato non importa. Anche nel secondo caso non ho il dovere di fuggire o di nascondermi. Per l’uomo di onore e coraggio è una necessità affrontare il disturbatore, il provocatore, il malfattore. Solo una morale morbida e malsana può impormi una vergognosa ritirata, che può cambiarsi, incoraggiando il tristo che mi perseguita, in una disfatta». 18 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 304. 19 F. Antolisei, Diritto penale, cit., p. 304 ss. 20 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 304 («In applicazione di tale criterio, la salvaguardia della dignità personale dell’aggredito potrà ad es. giustificare una reazione limitata all’immobilizzazione o tutt’al più alle percosse, ma non l’uccisione o il ferimento dell’aggressore da parte di chi poteva benissimo fuggire»); C. F. Grosso, voce Legittima difesa, cit., p. 32; F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 277 ss., ma, in qualche modo, anche F. Antolisei, Diritto penale, cit., p. 305, secondo cui il dubbio sull’ammissibilità o meno della fuga va risolto caso per caso, tenendo conto di tutte le circostanze e comparando gli interessi in gioco. 17
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Sul piano civilistico si riscontra un solo precedente giurisprudenziale in materia di commodus discessus, peraltro piuttosto risalente nel tempo. Si tratta di una pronuncia della Corte di Appello di Cagliari del 1994, che ha fatto propri, di fatto, i principi stabiliti in sede penale21. Il caso riguardava una lite tra due minori. Uno dei due ragazzini aveva scagliato una pietra contro il compagno, che lo inseguiva con atteggiamento minaccioso. I Giudici di appello hanno escluso la configurabilità della legittima difesa, perché il ragazzino avrebbe potuto semplicemente rifugiarsi nella vicinissima abitazione e chiedere aiuto ai propri famigliari. Sebbene la sentenza non lo dichiari espressamente, sussisteva la possibilità di un commodus discessus per il minore minacciato, inteso come allontanamento dignitoso, sicuro e non disonorevole22.
2. La proporzionalità tra reazione e offesa Così come per la necessità, non sussistono dubbi sulla riconducibilità della proporzionalità della difesa anche in ambito civilistico, sebbene l’articolo 2044 c.c. non ne faccia espresso riferimento23.
21 App. Cagliari, 10 settembre 1993, in Riv. giur. sarda, 1995, p. 21, con nota di A. Diana, Note in tema di legittima difesa e commodus discessus nel diritto civile. 22 A. Diana, Note in tema di legittima difesa e commodus discessus nel diritto civile, cit., p. 30. 23 Cass. civ., 29 gennaio 2016, n. 1665, cit.; Cass. civ., 5 agosto 1964, n. 2227: «benché l’art. 2044 (…) nel sancire l’esonero da responsabilità civile per colui che ha cagionato il danno per legittima difesa non riproduce espressamente la condizione relativa alla proporzione tra la difesa e l’offesa, non può tuttavia fondatamente dubitarsi che la norma civile abbia recepito la stessa nozione dell’esimente penalistica in tutti i suoi estremi costitutivi, ivi compresa la predetta condizione, senza della quale la reazione difensiva, per effetto del suo trasmodare in eccesso, cessa ovviamente di essere legittima, ponendo in essere un fatto contra jus, soggetto a sanzione penale e fonte di obbligazione civile risarcitoria». È opportuno evidenziare il fatto che nel diritto tedesco, sia nella disciplina civilistica, sia in quella penale (§§ 32 e 33 St GB, vigenti dal 1° gennaio 1975), la legittima difesa non è vincolata al rispetto del requisito della proporzionalità, che, invece, compare espressamente tra i limiti dell’autodifesa nel Codice penale italiano. La proporzionalità tra i beni coinvolti potrà operare solo là dove vi sia una evidente spro-
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Alla base della proporzionalità tra difesa e offesa vi è quella stessa esigenza di bilanciamento degli interessi tra aggredito e aggressore, che rappresenta il fulcro della legittima difesa. È, inoltre, ravvisabile un intenso collegamento tra il requisito della proporzionalità e la necessità della reazione. Infatti, l’esigenza di verificare e accertare concretamente la necessità della difesa, escludendola là dove sia possibile una soluzione meno dannosa per l’aggressore, conduce obbligatoriamente a sostenere che la reazione non possa arrecare all’aggressore un pregiudizio maggiore rispetto a quello che potrebbe subire l’aggredito24. È proprio in questo senso che il requisito della proporzionalità è stato definito dalla dottrina come il limite etico – sociale all’attività di autotutela del soggetto, di cui la legittima difesa rappresenta la massima esplicazione25. Secondo l’impostazione dottrinale più risalente, la valutazione della proporzionalità tra offesa e reazione si deve necessariamente basare sulla comparazione tra i mezzi a disposizione dell’aggredito e quelli concretamente utilizzati. Di conseguenza, la reazione sarà sempre sproporzionata, là dove l’aggredito abbia utilizzato il mezzo
porzione. In questo caso, verrà meno anche la necessità della difesa, di cui alla frase 2 del § 227 del BGB, intesa come idoneità della reazione a respingere l’attacco e, come scelta dello strumento meno offensivo nei confronti dell’aggressore, v. H. Grothe, 227 Notwehr, in Münchener Kommentar zum BGB, cit., nn. 12, 13 e 20; in giurisprudenza, tra le altre: AG Bensberg, sentenza del 25 ottobre 1965 – 6 C 35/66, in NJW 1966, 733; OLG Hamm (9° ZS), sentenza del 14 dicembre 1976 – 9 U 193/76, in OLGZ 1978, 71, che aveva escluso l’esistenza di una palese sproporzione nel caso in cui un ladro era stato sorpreso a rubare dei soldi da un distributore di sigarette ed era stato raggiunto da dei colpi di arma da fuoco sparati dal proprietario, con l’utilizzo di particolari munizioni, non idonee a cagionare ferite mortali; AG Karlsruhe, sentenza dell’11 luglio 2012 – 1 C 215/11, in BeckRS 2012, 22667, che ha riconosciuto la legittima difesa in capo al titolare di un’attività commerciale, che aveva utilizzato dello spray al peperoncino per costringere alcuni avventori ad abbandonare il locale). Sul tema della proporzione nel diritto penale tedesco e in una prospettiva comparatistica v. D. Notaro, La legittima difesa domiciliare. Dalla giustificazione alla scusa fra modelli presuntivi e tensioni soggettive, Torino, 2020, p. 117 ss. 24 G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 37. 25 G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 325.
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meno lesivo tra quelli a disposizione. Ci si allontanerà, invece, dai confini della liceità, nel caso in cui l’aggredito abbia sparato e ucciso il proprio aggressore, sebbene potesse semplicemente difendersi utilizzando un bastone26. In ogni caso, a prescindere dalla lesività del mezzo, dovrà considerarsi, comunque, lecita la reazione dell’aggredito che abbia utilizzato un’arma da fuoco per difendersi da una coltellata, là dove questo fosse l’unico strumento a disposizione27. Questa visione appare, innanzitutto, in contrasto con la lettera della legge, che non fa alcun cenno ai mezzi usati dall’aggredito28, ma parla unicamente di proporzione tra offesa e difesa, in un’ottica in cui l’offesa indica sempre la lesione o la messa in pericolo di un interesse protetto dall’ordinamento giuridico29. Le maggiori criticità emergono, però, a livello pratico. Infatti, sulla base del raffronto tra mezzi a disposizione e mezzi concretamente utilizzati dall’aggredito, può andare completamente esente da responsabilità la condotta del guardiano di un frutteto, che, In posizione critica C. F. Grosso, Legittima difesa e stato di necessità, cit., p. 17 ss. 27 Tra gli altri v.: G. Maggiore, Diritto penale, v. I, cit., p. 315. L’Autore sembrerebbe ammettere, comunque, un raffronto tra i beni rispetto alla valutazione stessa di proporzionalità. Afferma, infatti, che, nel caso in cui sia necessario difendere la persona si possa, comunque, arrecare un danno al diritto di proprietà. Sulla stessa linea anche V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, cit., p. 414 ss., secondo il quale oltre ai mezzi, dovrebbero essere valutate anche le condizioni fisiche dei soggetti coinvolti. Nello specifico, là dove un atleta minacci un soggetto, in evidente inferiorità fisica, quest’ultimo sarà legittimato anche ad utilizzare delle armi, perché in questo modo potrà sopperire alla propria condizione di inferiorità. Il confronto tra gravità dell’offesa minacciata e gravità dell’offesa arrecata all’aggressore non potrà trovare spazio, secondo l’Autore, anche perché la legittima difesa è prevista come circostanza scriminante per tutti i reati, di conseguenza il male inflitto all’aggressore potrebbe essere di gran lunga superiore rispetto a quello minacciato all’aggredito. Sulla stessa in linea anche E. Altavilla, voce Eccesso colposo, in Noviss. Dig. it., IV, Torino, 1960, p. 339. In giurisprudenza: Cass. pen., 1° aprile 1968, in Giust. pen., 1969, II, p. 337; Cass. pen., 2 luglio 1963; Cass. pen., 29 gennaio 1962; Cass. pen., 13 gennaio 1955, in Giur. it., 1955, II, c. 212; v. più recenti: Cass. pen., 13 aprile 1987, in Riv. pen., 1988, p. 159; Trib. Brescia, 19 maggio 2011, in banca dati Pluris. 28 C. F. Grosso, Legittima difesa e stato di necessità, cit., p. 18 e già G. Penso, La difesa legittima, Milano, 1939, p. 245 ss. e, in particolare, nota 6. 29 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 304 ss. 26
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avendo a disposizione solamente un fucile, abbia sparato ed ucciso il ladro30. Si tratta di conseguenze abnormi rispetto ai valori etico- sociali della società. Per questo motivo, l’utilizzo di un determinato mezzo non può automaticamente determinare la proporzionalità della reazione. Il fatto che l’aggredito abbia utilizzato per difendersi un’arma da fuoco oppure un coltello non può, dunque, delimitare la maggiore o minore gravità delle conseguenze arrecate e giustificare, di conseguenza, l’illecito compiuto. È, infatti, il modo di utilizzo a determinare l’adeguatezza o meno della difesa rispetto al criterio di proporzionalità31. Inoltre, applicando il raffronto tra i mezzi così come prospettato, si arriverebbe alla conclusione per cui la difesa di un bene meramente patrimoniale può giustificare anche la lesione di un bene personale come la vita, in aperto contrasto con i diritti inviolabili riconosciuti dalla Costituzione e con l’art. 2 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che giustifica la morte come conseguenza della difesa da una violenza illegale32. L’aggressione alla vita altrui per la difesa di un bene meramente patrimoniale o, comunque, gerarchicamente inferiore rispetto alla vita e all’integrità personale appare in aperto contrasto con i principi costituzionali ed europei33. C. F. Grosso, Legittima difesa e stato di necessità, cit., p. 17. Lo stesso esempio è ripreso anche da F. Antolisei, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 306 ss. 31 G. Penso, La difesa legittima, Milano, 1939, p. 245 ss. In particolare, secondo l’Autore «(…) con un mezzo che, in sé, si giudicherebbe grave, si può produrre tenue offesa, mentre si possono produrre conseguenze molto dannose con un mezzo di poca importanza (si può uccidere con uno spillo e con un fucile ci si può limitare ad incutere spavento)». 32 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 304 ss. Sul tema in ambito civilistico, seppur non con riferimento esplicito ai principi costituzionali, v. le considerazioni di E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 20 ss. 33 G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 305: «(…) la necessità di respingere una violenza alla propria persona costituisce requisito indispensabile per riconoscere come legittima la morte inflitta ad altri; da che si può ulteriormente ricavare, allora, che non è consentito aggredire la vita altrui per difendere diritti di natura meramente patrimoniale o, comunque, gerarchicamente inferiori alla vita o all’integrità fisica della persona». 30
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Su queste basi, la teoria maggioritaria, seguita anche in ambito civilistico34, riconduce il requisito della proporzionalità ad un confronto tra i beni e gli interessi in conflitto, per cui occorre necessariamente effettuare un bilanciamento tra il bene minacciato e quello leso, in modo tale che l’aggredito non possa ledere un bene marcatamente superiore rispetto a quello messo in pericolo con l’aggressione35. Tuttavia, il raffronto tra i beni e interessi messi in pericolo non può essere condotto in maniera totalmente astratta, ma, al contrario, deve essere effettuato tenendo in considerazione il grado di pericolo o di lesione cui sono esposti in riferimento alla situazione concreta venutasi a creare36. La valutazione ed i criteri utilizzati sono, però, differenti e a seconda che il raffronto venga effettuato tra beni omogenei od eterogenei. Nel primo caso il confronto dovrà essere effettuato tenendo in considerazione il diverso grado delle offese, cioè il rispettivo grado di lesività dell’azione aggressiva e della reazione. Là dove, al contrario, si tratti di beni eterogenei la situazione sarà più complicata. In questo caso, infatti, sarà necessario effettuare il bilanciamento di interessi, di cui si è detto, facendo riferimento alla collocazione gerarchica degli stessi e, successivamente valutare l’intensità e il grado dell’offesa. Là dove la prevalenza gerarchica di un bene rispetto ad un altro non sia ravvisabile in maniera precisa, si dovrà necessariamente fare ricorso a criteri diversi, come il riconoscimento a livello costituzio-
E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 20: «Sembra a noi che il prevalente indirizzo giurisprudenziale non debba essere approvato: la coerente applicazione del principio seguito dalla S.C. porta invero a risultati ripugnanti spesso, al senso della giustizia (…)»; M. Comporti, Sub art. 2044, cit., p. 14; G. G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 35 ss. 35 Tra gli altri: F. Antolisei, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 306; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 305; C. F. Grosso, voce Legittima difesa, cit., p. 29 ss.; G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 325; T. Padovani, Diritto penale, cit., p. 205 ss. In giurisprudenza: Cass. pen., 20 ottobre 2017, n. 53313, in Quotidiano Giur., 2017; Cass. pen., 10 novembre 2004, n. 45407, in Riv. pen., 2006, p. 137; Uff. Indagini preliminari Torino, 25 febbraio 2019, in banca dati Pluris. 36 F. Antolisei, Diritto penale, Parte generale, cit., p. 306; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 305. 34
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nale, l’entità della sanzione applicata dal legislatore, la valutazione a livello extrapenale37. Il ricorso a criteri extra legislativi sarà, però, ammesso solamente come ultima ratio, nel caso in cui non sia possibile effettuare la comparazione sulla base dei criteri indicati38. La valutazione della proporzionalità nei termini sopra descritti deve essere pur sempre condotta in concreto, rapportandola alla complessità del caso e delle caratteristiche dell’aggressione e dell’azione difensiva. Seguendo questa impostazione, rileverà, ad esempio, la componente dolosa o colposa dell’aggressione, dunque, l’intenzionalità o meno dell’aggressione, le caratteristiche dell’aggressore e il significato che può rivestire l’offesa per l’aggredito, che sarà diverso da soggetto a soggetto39. Il requisito della proporzionalità nei termini sopra indicati non ha trovato sempre accoglimento in ambito giurisprudenziale. In alcune pronunce emerge come il raffronto debba accompagnarsi necessariamente ad un confronto valutativo tra i mezzi a disposizione e quelli utilizzati dall’aggredito40. Quest’idea è stata fortemente criti G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 305; F. ManDiritto penale, cit., p. 279 ss. 38 F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 279. Ad esempio, secondo l’Autore, il criterio del bene della vita o l’integrità fisica può soccombere di fronte alla libertà sessuale, per cui è lecita l’uccisione dell’aggressore da parte di una ragazza in pericolo, mentre può essere di legittimo infliggere una ferita per difendere un patrimonio di ingente valore oppure i risparmi di un pensionato. 39 F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 280. Su questa linea v. anche la posizione di T. Padovani, Diritto penale, cit., p. 205 ss., secondo il quale il requisito della proporzionalità tra i beni risulti intrinsecamente insufficiente rispetto ad una valutazione della liceità o meno della reazione. La valutazione comparativa, infatti, non può prescindere dall’intensità del pericolo cui il bene è sottoposto, dal tipo soggettivo di offesa (colposa o dolosa), dalla natura del conflitto, dall’intensità della costrizione (pericolo accettato oppure subito) e dalla consistenza della necessità, cioè dalla quantità e tipologia di mezzi a disposizione dell’aggredito per respingere l’aggressione stessa. 40 Cass. pen., 24 settembre 2020, n. 32414 (in questo caso la Corte ha escluso la sussistenza della legittima difesa in relazione alla condotta dell’imputato, che aveva reagito al tentativo di sottrazione di un dispositivo elettronico dalla propria autovettura, chiudendo più volte lo sportello sulle mani e sul petto della vittima); Cass. pen., 5 marzo 2013, n. 13370; Cass. pen., 26 novembre 2009, n. 47117; Cass. pen., 20 giugno 1997, n. 6979, in Cass. pen., 1998, p. 2351; Cass. pen., 27 ottobre 37
tovani,
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cata in ambito dottrinale, perché determinerebbe una commistione tra il requisito della necessità e quello della proporzionalità. Nello specifico, il raffronto tra i mezzi a disposizione e quelli utilizzati sarebbe già insito nel concetto stesso di necessità, che impone all’aggredito di utilizzare il mezzo offensivo meno lesivo per l’aggressore tra quelli a sua disposizione. Inoltre, tale impostazione non tiene in dovuta considerazione l’idea per cui il requisito della proporzionalità è soggetto ad un accertamento successivo rispetto alla necessità della reazione stessa41.
3. (segue) La proporzionalità nella “legittima difesa domiciliare” tra presunzioni e interpretazione conforme a Costituzione La disciplina penale della legittima difesa in materia di proporzionalità è stata interessata da due interventi legislativi particolarmente significativi, anche per la risonanza mediatica che li ha accompagnati fin dalla loro emanazione. La prima modifica è stata apportata con la legge del 13 febbraio 2006, n. 59, che ha integrato l’articolo 52 c.p. con l’introduzione di due nuovi commi. Lo scopo perseguito a livello legislativo è stato quello di ampliare i presupposti della legittima difesa, là dove l’aggressione avvenga in un domicilio privato o in un luogo ad esso assimilabile. Nello specifico, con la nuova disciplina, è stata introdotta una presunzione legale di proporzionalità della reazione in tutti i casi in cui il fatto sia commesso in un’abitazione, in un luogo di privata dimora o in tutti i luoghi in cui venga esercitata un’attività commerciale, pro-
1982; Cass. pen., 13 marzo 1981, in Riv. pen., 1982, p. 201; Cass. pen., 10 aprile 1978, n. 10982; 41 G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 306. Sul raffronto tra i requisiti della necessità e della proporzionalità, v. la pronuncia della Cassazione Civile del 29 gennaio 2016, n. 1665, in Giur. it., 2016, p. 821, con nota di V. Mirmina, Il principio di vicinanza della prova quale deroga dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c., che sarà oggetto di approfondimento nella parte riguardante l’eccesso di legittima difesa.
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fessionale o imprenditoriale42. Come sottolineato da alcuni Autori, la modifica normativa era stata dettata dall’esigenza di adeguare anche il sistema italiano ad un’idea più ampia di tutela, in caso di aggressioni perpetuate in un luogo privato, caratterizzato da una più ampia situazione di vulnerabilità43. Secondo il comma 2, dell’articolo 52, c.c. introdotto con la legge del 2006, nei casi di violazione di domicilio (art. 614, commi 1 e 2, c.p.), sussiste sempre il rapporto di proporzione tra offesa e difesa di cui al primo comma, là dove il soggetto legittimamente presente in tali luoghi abbia utilizzato un’arma legittimamente detenuta o un altro mezzo idoneo al fine di difendere la propria o altrui incolumità oppure i beni propri o altrui nel caso in cui non vi sia desistenza e sussista un pericolo di aggressione. In base al testo della legge, la presunzione di proporzione può operare in presenza di alcuni presupposti oggettivi e soggettivi ulteriori rispetto a quelli già previsti dal comma 1 dell’art. 52. Innanzitutto, il soggetto agente deve essere legittimamente presente nei luoghi di cui all’art. 614, c.p., in modo tale da escludere l’invocabilità della legittima difesa da parte del soggetto che abbia violato il domicilio. È, inoltre, necessario l’accertamento dell’animus defendendi. Il soggetto, infatti, deve aver reagito per difendere la propria o altrui incolumità oppure i beni propri o altrui, a condizione, in quest’ultimo
Per un inquadramento completo dell’evoluzione normativa v. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 306 ss.; G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 326 ss. 43 In posizione critica: G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 306; contra A. Cadoppi, La legittima difesa domiciliare (c.d. “sproporzionata o “allargata”): molto fumo e poco arrosto, in Dir. pen. proc., 2006, p. 435, che, dopo aver approfondito l’assetto normativo dei vari paesi europei ed extraeuropei, sottolinea il fatto che l’Italia era uno dei pochi paesi a non aver previsto delle eccezioni alla punibilità dell’aggredito, che avesse ecceduto nella legittima difesa trovandosi in situazione particolari sul piano oggettivo e soggettivo. In posizione critica, v. le riflessioni di P. Pisa, La legittima difesa tra Far West ed Europa, in Dir. pen. proc., 2004, p. 797 ss., che vede nei disegni di legge in materia un allontanamento della legislazione italiana dagli standard europei, che continuano a riconoscere alla proporzione un ruolo fondamentale, come limite all’autodifesa. 42
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caso, che non vi sia desistenza dell’aggressore e sussista un pericolo di aggressione44. In presenza di tali presupposti, come ben sottolineato dalla dottrina maggioritaria, opera una presunzione assoluta di proporzione. Ciò significa che il Giudice è esentato dall’accertare in concreto se vi sia una proporzione tra la gravità del male minacciato e quello subito dall’aggressore, che viene presunta iuris et de iure45. In questo modo il legislatore ha precluso al Giudice l’accertamento discrezionale ed autonomo circa la sussistenza del requisito di proporzionalità. Come sostenuto in sede dottrinale e giurisprudenziale, dovranno, comunque, essere presenti tutti i presupposti di applicabilità dell’esimente previsti dal primo comma dell’art. 52, c.p. – attualità del pericolo e necessità della difesa – che rappresentano i presupposti generali di liceità della condotta difensiva e devono trovare applicazione anche nei casi in cui la proporzionalità della condotta venga presunta46. In particolare, nel caso in cui manchi la necessità della difesa rispetto all’utilizzo di un’arma, ma permanga unicamente il fine difensivo previsto dall’articolo 52, comma 2, c.p., l’applicazione della scrimi-
Sulla ricostruzione v. G. Flora, Brevi riflessioni sulla recente modifica del l’art. 52 c.p.: il messaggio mass mediatico ed il “vero” significato della norma, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 461 ss. 45 Tra gli altri: E. Dolcini, La riforma della legittima difesa: leggi “sacrosante” e sacro valore della vita umana, in Dir. pen. proc., 2006, p. 432; G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 309; C. F. Grosso, La legittima difesa dopo la L. 26 aprile 2019, n. 102, cit., p. 887; G. Flora, Brevi riflessioni sulla recente modifica dell’art. 52 c.p.: il messaggio mass mediatico ed il “vero” significato della norma, cit., p. 463; contra F. Mantovani, Legittima difesa comune e legittima difesa speciale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 441 ss., secondo il quale si tratterebbe necessariamente di una presunzione relativa e non assoluta, nel senso che la proporzione si presume esistente a meno che la pubblica accusa non ne provi l’esistenza obiettiva o putativa. 46 F. Viganò, La nuova legittima difesa, in Riv, it. dir. proc., 2006, p. 202 ss. In giurisprudenza: Cass. pen., 7 ottobre 2014, n. 50909; Cass. pen., 27 luglio 2010, n. 23221; Cass. pen., 8 marzo 2007, n. 16677; Assise Milano, 31 marzo 2009, in Corr. mer., 2009, p. 652. Sul contrasto della presunzione assoluta con i principi costituzionali v. le riflessioni di R. Bartoli, Verso la “legittima difesa”. Brevi considerazioni sulla riforma in itinere della legittima difesa, in Dir. pen. contem., 2019, p. 19 ss. 44
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nante risulterebbe totalmente in contrasto con i principi costituzionali e con l’articolo 2 della CEDU, di cui si è detto. Inoltre, il solo riferimento al fine difensivo finirebbe, secondo alcuni Autori, per ancorare l’esclusione di antigiuridicità del fatto ad un atteggiamento interiore del soggetto e ciò apparirebbe in netto contrasto con il principio di materialità, che governa anche l’applicabilità delle esimenti47. Una delle maggiori criticità poste dalla nuova disciplina riguarda l’ipotesi in cui il soggetto abbia agito per difendere i beni propri o altrui, alla duplice condizione che non vi sia stata desistenza da parte dell’aggressore e che sussistesse il pericolo di aggressione. Basandosi esclusivamente sulla formulazione letterale della norma, sembrerebbe che la proporzionalità possa essere presunta anche là dove la situazione di pericolo riguardi soltanto i beni patrimoniali. Anche questa interpretazione si mostrerebbe in aperto contrasto con la carta costituzionale e con i principi di diritto europeo, perché finirebbe per legittimare l’uccisione di una persona a tutela di un bene patrimoniale. Per questo motivo, la dottrina seguita dalla giurisprudenza48 ha adottato un’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione, affermando la necessità che il pericolo di aggressione, di cui parla il comma 2 in riferimento alla tutela di beni patrimoniali, si rivolga esclusivamente all’incolumità della persona e, dunque, l’aggressione sia da intendersi come aggressione fisica del soggetto agente49.
G. Flora, Brevi riflessioni sulla recente modifica dell’art. 52 c.p.: il messaggio mass mediatico ed il “vero” significato della norma, cit., p. 463. 48 Cass. pen., 15 gennaio 2020, n. 13191; Cass. pen., 10 ottobre 2019, n. 49883, in Studium Juris, 2020, p. 933. 49 A. Cadoppi, La legittima difesa domiciliare (c.d. “sproporzionata o “allargata”): molto fumo e poco arrosto, cit., p. e F. Viganò, La nuova legittima difesa, cit., p. 212: «Militano innanzitutto a favore della tesi che riferisce il pericolo di aggressione a beni di natura personale ragioni di carattere sistematico. Una tale soluzione, è, infatti, l’unica in grado di attribuire significato autonomo all’inciso in questione, dal momento che la sussistenza di un effettivo “pericolo di aggressione” ai beni patrimoniali difesi è già autonomamente deducibile dai requisiti di cui al primo comma, in base ai quali “il fine di difendere” i beni patrimoniali minacciati deve necessariamente corrispondere una situazione di “pericolo attuale di offesa ingiusta” ai beni patrimoniali medesimi». 47
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La disciplina della legittima difesa domiciliare è stata oggetto di successiva modifica con la legge n. 6 del 2019. La finalità del legislatore era quella di rafforzare la posizione di chi reagisce ad un’aggressione all’interno del proprio domicilio o di un luogo ad esso assimilato, estendendo l’area della legittima difesa domiciliare e introducendo una nuova ipotesi di eccesso colposo riferibile esclusivamente a tale fattispecie. In merito alla legittima difesa domiciliare, il legislatore è intervenuto, innanzitutto, rafforzando la presunzione di proporzione tra offesa e reazione, di cui al comma 2 dell’art. 52 c.p., precisando che il rapporto di proporzione «sussiste sempre» nei casi indicati dalla disposizione50. In questo modo, il legislatore intendeva superare i limiti derivanti dall’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, che limitava la tutela dell’aggredito all’interno del proprio domicilio51. L’interpretazione conforme a Costituzione determinava, infatti, come si è visto, l’accertamento di tutti i requisiti della legittima difesa anche nell’ipotesi di proporzionalità presunta, diminuendo, di fatto, l’applicabilità dell’esimente. In questo senso, il rafforzamento della presunzione avrebbe limitato, nell’ottica legislativa, la discrezionalità del Giudice in sede di accertamento dell’esimente, aumentando le possibilità di riconoscimento della legittima difesa domiciliare, obiettivo cardine della riforma52. V. la ricostruzione di G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 1° aprile 2019. 51 G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, cit. Secondo C. F. Grosso, La legittima difesa dopo la L. 26 aprile 2019, n. 102, cit., p. 889, l’introduzione dell’avverbio “sempre” non ha nessuna rilevanza sul piano pratico, perché mira unicamente a sottolineare l’idea che si tratti di una presunzione assoluta e non relativa. 52 R. Bartoli, Verso la “legittima difesa”. Brevi considerazioni sulla riforma in itinere della legittima difesa, cit., p. 19, mette in evidenza come l’interpretazione costituzionalmente dell’art. 52, comma 2, c.p. abbia di fatto neutralizzato l’applicazione della legittima difesa domiciliare sul piano concreto. G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, cit. ritiene che di fronte a tale situazioni i Giudici abbiano due opzioni: proseguire nell’interpretazione conforme a Costituzione anche della norma così modificata oppure sollevare questione di legittimità costituzionale, là dove ravvisino nella modifica normativa una chiara volontà del legislatore in senso contrario all’interpretazione giudiziale della norma (sulla stessa linea: L. Risicato, Interferenze tra antigiuridicità, colpe50
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Per raggiungere tale obiettivo, il legislatore è, altresì, intervenuto, introducendo una nuova presunzione di legittima difesa, che va ad aggiungersi alla presunzione di proporzionalità di cui al comma 2. Il nuovo comma 4 dell’art. 52 c.p. prevede, infatti, che, nei casi di cui al secondo e terzo comma – cioè nei casi in cui sia invocabile la presunzione di proporzione – agisce sempre in stato di legittima difesa colui che compie un atto per respingere l’aggressione realizzata con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica da parte di una o più persone. Il comma 4 si riferisce, in particolare, a tutti i casi in cui l’aggressore abbia violato il domicilio e l’aggredito, legittimamente presente, difenda la propria o altrui incolumità oppure i beni propri o altrui, con un’arma legittimamente detenuta o con un altro mezzo idoneo. Sussiste, però, un elemento di specialità rispetto a quanto previsto dal comma 2. La violazione di domicilio deve avvenire, infatti, in maniera violenta, concretando, dunque, l’ipotesi aggravata di cui all’art. 614, comma 4, c.p.53. Come sottolineato dalla dottrina, la nuova presunzione non riguarderebbe solamente la proporzionalità, come già previsto dal comma 2, ma tutti i presupposti della legittima difesa, compresa la necessità della reazione. Trattandosi di una presunzione assoluta, così come emergerebbe dalla volontà del legislatore54, il Giudice dovrebbe limitarsi esclusivamente ad accertare l’avvenuta violazione di domicilio, realizzata con violenza o con minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica55. La presunzione della volezza e punibilità nella nuova legittima difesa domiciliare, in Legisl. pen., 2019, p. 11. Sulla rilevanza della modifica all’art. 52, comma 2, c.p. v. Cass. pen., 21 luglio 2020, n. 21794, in Giur. it., 2020, p. 2756, con nota di A. Mancuso, La legittima difesa domiciliare al primo vaglio della Cassazione: nihil sub sole novum?, secondo cui l’inserimento dell’avverbio non ha modificato l’impianto complessivo della norma, per cui l’applicabilità della presunzione resta, comunque, subordinata all’accertamento della sussistenza degli altri presupposti, vale a dire la necessità dell’inevitabilità dell’offesa. In questo modo la Corte non si è discostata dall’orientamento già consolidato, a seguito della legge del 2006. 53 G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, cit. 54 F. Bacco, Il “grave” turbamento della legittima difesa. Una prima lettura, cit., p. 72. 55 G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, cit.
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necessità fa nascere molteplici criticità sul piano della compatibilità con i valori fondamenti il nostro ordinamento giuridico. Nel momento in cui la necessità viene presunta viene a mancare la logica alla base della legittima difesa, che da reazione all’aggressione diventerebbe una vera e propria offesa. Verrebbe a mancare, in particolare, la natura stessa della legittima difesa quale atto di autotutela privata. L’ordinamento giuridico, infatti, legittimerebbe un intervento difensivo del privato a prescindere dall’esistenza di un’aggressione56. Si prospetterebbe, dunque, la possibilità di sollevare una questione di legittimità costituzionale della nuova disposizione, in relazione agli articoli 3 e 117, comma 1 della Costituzione, in rapporto all’art. 2, comma 2 della CEDU. La presunzione di necessità, infatti, sarebbe irragionevole, perché esclude l’obbligo del ricorso ad alternative non violente e, al contempo, sarebbe in contrasto con l’art. 2, comma 2, della CEDU, che garantisce il diritto alla vita dell’aggressore57. Tuttavia, la giurisprudenza più recente ha optato per un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, analoga all’art. 52, comma 2, c.p. Il rapporto di proporzione anche in questo caso può essere presunto, sempre, però, che sussistano la necessità e l’inevitabilità della condotta reattiva. L’incipit del comma 4 si riferisce, infatti, alle ipotesi previste nei commi precedenti, che presuppongono, secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, l’accertamento degli ulteriori requisiti diversi dalla proporzione. Al contempo, una diversa lettura della norma, che legittimasse come 56 R. Bartoli, Verso la “legittima difesa”. Brevi considerazioni sulla riforma in itinere della legittima difesa, cit., p. 22. 57 G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, cit. e L. Risicato, Interferenze tra antigiuridicità, colpevolezza e punibilità nella nuova legittima difesa domiciliare, cit., p. 7 ss. Sul tema anche F. Bacco, Il “grave” turbamento della legittima difesa. Una prima lettura, cit., p. 72 ss., secondo il quale la presunzione assoluta di necessità si presenta in antitesi rispetto alla previsione dell’eccesso colposo domiciliare, introdotto all’art. 55 c.p. dalla legge n. 6/2019. Infatti, se si ammettesse la presunzione assoluta i margini di applicabilità del nuovo eccesso colposo domiciliare verrebbero estremamente limitati, perché la norma si applicherebbe unicamente alle ipotesi di legittima difesa domiciliare, di cui all’art. 52, comma 2, c.p., cioè in assenza di violazione aggravata.
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si è detto la presunzione di necessità e di proporzionalità della reazione sarebbe in contrasto con il sistema normativo, che riconosce l’eccesso colposo nella legittima difesa domiciliare. Parlare di presunzione tout court della legittima difesa significherebbe, infatti, secondo la Cassazione, avvalorare l’idea di una legittima difesa senza limiti e, dunque, escludere la rilevanza dell’eccesso colposo nella legittima difesa58. Questa interpretazione, come sottolineato dai Giudici, appare, altresì in linea con quanto affermato dal Presidente della Repubblica nella lettera ai Presidenti delle Camere, che ha accompagnato 58 Cass. pen., 21 luglio 2020, n. 21794, cit.: «3.4. Nemmeno il comma 4, di nuovo conio, dell’art. 52 c.p., sembra consentire un’indiscriminata reazione contro chi si introduca o si intrattenga, con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica, nella dimora altrui o nei luoghi ad essa equiparati. L’incipit della disposizione (“Nei casi di cui ai commi 2 e 3…”) ne delimita l’ambito di applicazione, per espressa previsione normativa, alle situazioni di fatto già riconducibili ai commi richiamati; l’elemento di specialità è costituito dalle modalità intrusive connotate dalla violenza o dalla minaccia di uso di armi, tali da essere percepite dall’agente come un’aggressione, anche solo potenziale, alla propria o altrui incolumità. E quando l’azione sia connotata da siffatte modalità può presumersi il rapporto di proporzione della reazione, sempre che però sussista la necessità e l’inevitabilità della condotta reattiva. Il requisito della necessità appartiene, difatti, all’essenza stessa della legittima difesa; l’eccezionale facoltà di autotutela è ammessa proprio perché necessaria, ossia nei casi in cui non sia possibile difendersi in modo lecito o in modo meno lesivo. Una diversa opzione ermeneutica, tale da estendere il regime di presunzione a tutti gli elementi costitutivi della causa di giustificazione, oltre che eccentrica rispetto al sistema, introdurrebbe un’area di esclusione dell’antigiuridicità avulsa dal connotato della necessità che, viceversa, costituisce il fondamento dell’esimente e consente il ragionevole bilanciamento dei valori in conflitto. (…). Del resto lo stesso legislatore, nel restringere l’area dell’eccesso colposo, prevedendo, anche nei casi di cui all’art. 52 c.p., comma 4 l’esclusione della punibilità di chi abbia agito, per la salvaguardia della propria o altrui incolumità, versando in situazione di minorata difesa o di grave turbamento, ha ritenuto, nella sostanza, configurabile il superamento colposo dei limiti della scriminante nei casi diversi da quelli previsti. E tanto consente di escludere che l’art. 52, comma 4, abbia introdotto una presunzione che involge tutti i requisiti della scriminante, giacché se l’esimente fosse senza limiti, a ragione della presunzione di sussistenza di tutti gli elementi costitutivi in caso di intrusioni realizzate con determinate modalità, non ne sarebbe giammai possibile il superamento; ed essendo il fatto sempre lecito non sarebbe nemmeno concepibile l’ipotesi di una difesa colposamente eccedente».
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la promulgazione della legge n. 6/201959. Nella missiva il Presidente Mattarella aveva sottolineato che la condizione di necessità della difesa rappresenta il fondamento costituzionale della legittima difesa, anche nel caso in cui questa sia realizzata all’interno del domicilio e dei luoghi ad esso assimilati60. Alla luce di quanto affermato, la necessità della difesa rappresenta, dunque, una condicio sine qua non per la conformità della nuova disciplina alla Costituzione e, trattandosi di un requisito costituzionalmente imposto, deve essere oggetto di accertamento da parte del Giudice e non può essere in nessun caso presunta61.
4. Le conseguenze della legittima difesa domiciliare in sede civile Come già accennato, anche la disciplina civilistica è stata interessata dalle modifiche introdotte dalla legge n. 36 del 2019. In particolare, l’articolo 2044 c.c. è stato integrato con la previsione di nuovi commi, che raccordano la disciplina civile con quella penale. Nello specifico, il nuovo secondo comma dell’art. 2044 c.c. esclude la re Cass. pen., 21 luglio 2020, n. 21794, cit.: «Il giudice delle leggi non ha mai messo in discussione che l’istituto della legittima difesa postuli la necessità della reazione ad un’offesa in atto e la necessità e inevitabilità della reazione è stata rimarcata anche nella lettera, inviata dal Presidente della Repubblica ai Presidenti della Camera e del Senato ed al Presidente del Consiglio, che ha accompagnato la promulgazione della novella: la legittima difesa, anche nel domicilio, è e resta una facoltà eccezionale di autodifesa riconosciuta dall’ordinamento quando la difesa da parte delle forze dell’ordine non è in concreto possibile». 60 Si legge nel testo della lettera: «Il provvedimento si propone di ampliare il regime di non punibilità a favore di chi reagisce legittimamente a un’offesa ingiusta, realizzata all’interno del domicilio e dei luoghi ad esso assimilati, il cui fondamento costituzionale è rappresentato dall’esistenza di una condizione di necessità. Va preliminarmente sottolineato che la nuova normativa non indebolisce né attenua la primaria ed esclusiva responsabilità dello Stato nella tutela della incolumità e della sicurezza dei cittadini, esercitata e assicurata attraverso l’azione generosa ed efficace delle Forze di Polizia». 61 G. L. La Gatta, Legittima difesa nel domicilio: considerazioni sui profili di legittimità costituzionale, a margine della lettera con la quale il presidente della repubblica ha comunicato la promulgazione della legge n. 36 del 2019, in Dir. pen. contemp., 6 maggio 2019. 59
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sponsabilità di chi abbia compiuto il fatto nei casi di cui all’art. 52, commi 2, 3 4 del Codice penale, vale a dire nei casi di legittima difesa domiciliare per i quali valgono le presunzioni di proporzionalità e di legittima difesa, di cui si è detto. Secondo alcuni penalisti, la nuova disposizione avrebbe un valore solamente pleonastico e per nulla innovativo rispetto alla disciplina previgente. Il legislatore, infatti, avrebbe unicamente riaffermato il principio di universalità delle cause di giustificazione, in forza del quale il fatto è lecito non solamente in ambito penale, ma nell’intero ordinamento giuridico62. Altri, invece, hanno rilevato in maniera netta l’irragionevolezza della norma, che tratterebbe in maniera uguale situazioni tra loro completamente diverse. Con l’esclusione di responsabilità civile, così enunciata, si determinerebbe un’ingiustificata parità di trattamento tra coloro che abbiano agito effettivamente per legittima difesa e coloro che, al contrario, si siano avvantaggiati del regime delle presunzioni63. Al di là del regime probatorio, che, seguendo questa visione avvantaggerebbe il soggetto agente, la vera irragionevolezza da un punto di vista generale sussisterebbe là dove le due fattispecie della legittima difesa comune e della legittima domiciliare dessero luogo a conseguenze diverse sul piano extrapenale, escludendo o ammettendo la responsabilità risarcitoria64. F. Consulich, La legittima difesa assiomatica, Considerazioni non populistiche sui rinnovati artt. 52 e 55 c.p., in Giur. penale web., 2019, n. 5, p. 11; G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, cit.; contra F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, in NLCC, 2020, p. 41. 63 R. Bartoli, Verso la “legittima difesa”. Brevi considerazioni sulla riforma in itinere della legittima difesa, cit.; F. Consulich, La legittima difesa assiomatica, Considerazioni non populistiche sui rinnovati artt. 52 e 55 c.p., cit.; L. Risicato, Interferenze tra antigiuridicità, colpevolezza e punibilità nella nuova legittima difesa domiciliare, cit., p. 17. 64 D. Notaro, La legittima difesa domiciliare. Dalla giustificazione alla scusa fra modelli presuntivi e tensioni soggettive, Torino, 2020, p. 316: «In primo luogo da un punto di vista generale del sistema, si potrebbe anche dubitare della ragionevolezza della scelta di sancire l’irresponsabilità del solo agente che si difensa all’interno degli spazi domiciliari e non anche di coloro che altrimenti esercitino facoltà difensive scriminate o scusate dall’ordinamento. Una volta definita la fisionomia delle fattispecie esimenti sul piano sostanziale, le ricadute civilistiche di 62
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In realtà la valutazione della disposizione è molto più complessa ed attiene strettamente al profilo probatorio e alle finalità stesse della legge di riforma. La nuova previsione appare finalizzata ad evitare che il soggetto, prosciolto in sede penale perché il fatto non costituisce reato, sia successivamente chiamato a corrispondere un risarcimento in sede civile per le lesioni arrecate all’aggressore nel privato domicilio o nei luoghi ad esso assimilati. L’obiettivo è, dunque, quello di evitare una divaricazione delle conseguenze sul piano civilistico, là dove l’azione civile venga esperita separatamente65. Si tratta di un’eventualità che potrebbe concretamente verificarsi in relazione ai profili probatori che caratterizzano il processo civile e quello penale. In forza dell’art. 530, comma 3 del Codice di Procedura penale, infatti, il Giudice può pronunciare una sentenza di assoluzione, riconoscendo, dunque, gli effetti favorevoli delle cause di giustificazione, anche nel caso in cui sussistano dubbi sulla loro esistenza66. Al contrario, nel giudizio civile, là dove il convenuto non
ognuna non dovrebbero differenziarsi per l’ambito socio-criminologico di loro manifestazione». 65 V. le riflessioni di L. Castelli, Profili civilistici della riforma in materia di legittima difesa, cit., p. 1022 e F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, cit., p. 41, secondo cui la norma avrebbe la funzione di evitare una divaricazione delle conseguenze sul piano civile e penale. Il rischio, secondo l’Autore, sarebbe quello di riconoscere la responsabilità civile, anche in presenza di una giustificazione della condotta in sede penale; in ambito penalistico: D. Notaro, La legittima difesa domiciliare. Dalla giustificazione alla scusa fra modelli presuntivi e tensioni soggettive, cit., p. 313 ss. Nell’ambito dell’ordinamento giuridico francese, manca una disposizione di questo tipo, che assicuri l’esclusione di responsabilità civile in presenza di una causa di giustificazione. La soluzione al problema è, dunque, rivolta essenzialmente al principio di efficacia del giudicato. Principio, che può trovare facile applicazione in relazione alla tematica oggetto di esame, proprio per il principio di unitarietà del concetto di colpa in sede penale e civile: sul tema, tra gli altri: R. Bernardini, Légitime défense, in Répertoire de droit pénal et de procédure pénale, Dalloz, 2017, n. 180 e ss.; H. Roudi, Une notion pénale à l’épreuve de la responsabilité civile : les faits justificatifs, in RSC, 2016, p. 17. 66 Art. 530, comma 3, c.p.p.: «Se vi è la prova che il fatto è stato commesso in presenza di una causa di giustificazione o di una causa personale di non punibilità ovvero vi è dubbio sull’esistenza delle stesse, il giudice pronuncia sentenza di assoluzione a norma del comma 1».
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sia riuscito a dimostrare pienamente la sussistenza della legittima difesa, il dubbio si risolve in suo sfavore, perché non ha ottemperato all’onere probatorio a suo carico67. In quest’ultimo caso, dunque, il Giudice non riconoscerà l’esistenza dell’esimente e, di conseguenza, il convenuto sarà tenuto al risarcimento dei danni, pur essendone stata dichiarata l’assoluzione in sede penale. Questa situazione di divergenza che si può venire a creare tra il giudizio civile e il giudizio penale in ordine al riconoscimento della legittima difesa e all’eventuale responsabilità risarcitoria in capo al soggetto agente sarebbe, altresì, favorita, come sottolineato da alcuni Autori, dall’interpretazione dell’art. 652 c.p.p.68. Tale disposizione sancisce l’efficacia, nell’ambito del giudizio civile o amministrativo di danno, della sentenza irrevocabile di assoluzione, che sia stata pronunciata a seguito di dibattimento (e a cui viene equiparata la sentenza di assoluzione pronunciata a seguito di giudizio abbreviato), a condizione che il danneggiato si sia costituito o sia stato posto nelle condizioni di costituirsi parte civile, salvo che abbia esercitato l’azione civile a norma dell’art. 75, comma 2, c.p.p. Nello specifico, la sentenza di assoluzione ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento che il fatto non sussiste, che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima. La giurisprudenza più recente, basandosi essenzialmente sulla formulazione letterale della disposizione, ne ha limitato l’ambito di applicabilità alle sole cause di giustificazione di cui all’art. 51 del Codice penale, concernenti l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere, escludendo, dunque, tutte le altre esimenti, compresa la legittima difesa69. D. Notaro, La legittima difesa domiciliare. Dalla giustificazione alla scusa fra modelli presuntivi e tensioni soggettive, cit., p. 314. Vedi anche di recente: Cass. civ., ord., 31 agosto 2020, n. 18094, che riprende quanto già affermato da Cass. civ., 25 febbraio 2009, n. 4492, cit. 68 D. Notaro, La legittima difesa domiciliare. Dalla giustificazione alla scusa fra modelli presuntivi e tensioni soggettive, cit., p. 245 ss. e p. 314 ss. 69 Cass. pen., 27 settembre 2018, n. 42460; Cass. pen., 28 giugno 2018, n. 29515, in Pluris, Wolters Kluwer, che riprendono un indirizzo inaugurato dalle 67
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5. Eccesso doloso e colposo: problematiche ricostruttive Anteriormente alla legge di riforma n. 36 del 2019, in ambito civilistico non vi era alcuna disposizione in materia di eccesso doloso o colposo nella legittima difesa. L’unica disposizione di riferimento per tutte le cause di giustificazione era rappresentata dall’articolo 55 del Codice penale, che prevedeva l’applicabilità delle disposizioni concernenti i delitti colposi, là dove il fatto fosse preveduto dalla legge come delitto colposo. A seguito della riforma, l’ipotesi generale dell’eccesso colposo di cui all’articolo 55 c.p., è stata integrata con la previsione di un secondo comma, riguardante il c.d. eccesso colposo domiciliare, cioè le ipotesi di eccesso colposo in materia di legittima difesa domiciliare ex art. 52, commi 2, 3 e 4, del Codice penale. In concomitanza con tale modifica, il legislatore è espressamente intervenuto anche sul piano civilistico. L’art. 2044 c.c. è stato, infatti, coordinato con il nuovo eccesso colposo domiciliare, attraverso l’introduzione di un terzo comma, che disciplina le conseguenze civilistiche di tale fattispecie. Nello specifico, l’art. 2044, comma 3, c.c., stabilisce l’obbligo di corrispondere un’indennità al soggetto danneggiato, la cui misura viene rimessa all’equo apprezzamento del giudice, tenuto Sezioni Unite, con la sentenza del 29 maggio 2009, n. 40049, in Giur. it., 2009, p. 2525, con note di F. B. Morelli e F. Falato: «La sentenza dibattimentale di assoluzione può essere pronunciata anche per altre ragioni, come per mancanza dell’elemento psicologico, doloso o colposo, o per l’esistenza di una causa di giustificazione (reale o putativa) diversa da quella di cui all’art. 51 c.p., o per l’esistenza di una causa di non punibilità o per non imputabilità del soggetto. Però il legislatore, con una sua scelta discrezionale, peraltro coerente con il nuovo principio introdotto, ha limitato l’efficacia del giudicato, nel giudizio civile o amministrativo di danno, solo agli elementi relativi all’insussistenza del fatto, alla non commissione dello stesso, ed alla non illiceità per l’esistenza dell’esimente di cui all’art. 51 c.p.». Tale assunto nasce, come sottolineato da D. Notaro, La legittima difesa domiciliare. Dalla giustificazione alla scusa fra modelli presuntivi e tensioni soggettive, cit., p. 246, nota 271 (e ivi per i riferimenti dottrinali), non solo dal dettato letterale della disposizione e dal superamento del principio di unicità della giurisdizione in campo civile e penale, ma troverebbe sostegno anche nel principio per cui le cause di giustificazione che escludono il reato avrebbero effetto solamente per il settore penale e non per l’intero ordinamento giuridico.
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conto della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta realizzata dal danneggiato. Con la riforma del 2019 si sono, dunque, configurate due ipotesi di eccesso colposo nella legittima difesa. Accanto alla fattispecie generale, si inserisce, infatti, l’ipotesi dell’eccesso colposo domiciliare, per il quale, come si è visto, è prevista la corresponsione di un’indennità. Al di fuori di tale fattispecie, le conseguenze dell’eccesso colposo continuano ad essere, invece, quelle individuate in sede dottrinale e giurisprudenziale. Alla luce dell’evoluzione normativa, così descritta, l’analisi sul tema deve essere necessariamente svolta distinguendo nettamente le due ipotesi di eccesso colposo, così delineate, dalla differente fattispecie dell’eccesso doloso, in ragione delle diverse conseguenze che le contraddistinguono sul piano civilistico. In linea generale, quando si parla di eccesso di difesa ci si riferisce ad una situazione in cui la reazione dell’aggredito abbia oltrepassato il limite della proporzionalità rispetto all’offesa subita. In questi casi si verifica un danno sproporzionato rispetto a quello che si intendeva evitare e, di conseguenza, vengono a mancare le ragioni giuridiche che giustificano l’esclusione di responsabilità in capo al soggetto agente70. Infatti, una reazione sproporzionata è una reazione che va oltre lo scopo della difesa, che deve essere volta a neutralizzare l’aggressione in atto. Nello specifico, la reazione sproporzionata causa all’aggressore un danno superiore rispetto a quello necessario per fermare o prevenire l’aggressione stessa71. Il fatto compiuto dall’aggredito manterrà, dunque, la propria antigiuridicità e, di conseguenza, l’aggredito sarà responsabile del G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 61: «In tal caso, infatti, non sussistono le ragioni poste a fondamento dell’esclusione della responsabilità, ragioni che, proprio in quanto comportanti una deroga ai generali principi in materia di risarcimento, trovano applicazione soltanto nei limiti espressamente stabiliti dalla norma». 71 C. M. Bianca, Diritto civile, 5. La responsabilità, cit., p. 655: «Un’azione difensiva che vada oltre questo scopo e danneggi l’aggressore più di quanto sia necessario per fermare o prevenire l’aggressione, rende il difensore responsabile del danno arrecato». 70
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danno cagionato. La reazione, infatti, termina di essere legittima, e darà luogo non solo alla responsabilità risarcitoria, ma anche penale del soggetto agente72. Una tesi recente ricollega il concetto di eccesso alla libertà di autodeterminazione del soggetto agente. Il punto di partenza è l’idea per cui la responsabilità aquiliana ha come presupposto la libertà individuale. L’esercizio della libertà incontra un limite, che è rappresentato dalla tutela delle situazioni giuridiche altrui. Nel momento in cui il limite viene oltrepassato, e, dunque, vengano lesi gli interessi altrui, il soggetto incorrerà nella responsabilità risarcitoria73. Muovendo da tali presupposti, si ritiene che nella legittima difesa manchi proprio la libertà di autodeterminazione e, di conseguenza, non vi potrà essere responsabilità del danneggiante ex art. 2043 c.c. La libertà, infatti, rappresenta il presupposto stesso del giudizio di colpevolezza. Questa conclusione è motivata dal fatto che il comportamento dannoso, in caso di aggressione, è necessitato, perché il soggetto è costretto a reagire ad un’aggressione che mette in pericolo la propria o l’altrui sfera giuridica74. In questa ricostruzione viene meno qualsiasi riferimento all’antigiuridicità della condotta o alla mancanza di ingiustizia del dan-
72 M. Comporti, Sub art. 2044, cit., p. 15; G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 61; P. Forchielli, Danno da legittima difesa e danno da eccesso colposo, nota a App. Napoli, 19 aprile 1969, n. 1369, in Dir. giur., 1970, p. 474: «Una responsabilità e un risarcimento sono concepibili solo con riguardo ad un autentico illecito, quale innegabilmente è (in senso civilistico) l’eccesso colposo»; da ultimo: F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, in NLCC, 2020, p. 44; sul tema: Cass. Civ., 29 gennaio 2016, n. 1665, in Giur. it., 2016, p. 821, con nota di V. Mirmina, Il principio di vicinanza della prova quale deroga dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c.; Cass. Civ. 25 maggio 2000, n. 6875; Cass. Civ., 5 agosto 1964, n. 2227. 73 F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, cit., p. 44: «Il presupposto generale della responsabilità aquiliana è rappresentato dall’esercizio della libertà individuale in una forma, in pari tempo, dannosa e lesiva di un interesse protetto del danneggiato. In altre parole, l’art. 2043 c.c. presuppone un esercizio della libertà individuale che si spinge oltre il segno, rappresentato dal rispetto delle situazioni giuridiche altrui». 74 F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, cit., p. 44.
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no75. Queste concezioni si basano, infatti, sull’idea che la condotta realizzata dall’aggredito sia meritevole di tutela. Un’idea che, però, non può essere più accettata alla luce dell’evoluzione legislativa in materia di legittima difesa. Infatti, a seguito degli interventi di riforma realizzati nel 2006 e nel 2019, il valore degli interessi lesi a seguito della reazione potrebbe essere nettamente superiore rispetto a quelli difesi. Ciò potrebbe avvenire, ad esempio, là dove venga lesa l’integrità fisica dell’aggressore a fronte di una lesione patrimoniale a carico dell’aggredito76. In questi casi si verifica un contrasto di valori tale per cui non avrebbe alcun senso parlare di meritevolezza della reazione. Seguendo questa visione, il soggetto che agisce per legittima difesa, ma supera i confini previsti dalla legge, riacquisterà quella libertà di autodeterminazione che aveva perso. In questo caso, infatti, l’aggredito oltrepassa i limiti previsti dalla legge o meglio i confini della legittima difesa per soddisfare bisogni emotivi o di
F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, cit., p. 44: «L’elemento che in presenza della scriminante della legittima difesa viene meno consiste, dunque, nel presupposto stesso del giudizio di responsabilità: l’esercizio della libertà da parte del soggetto da rendere responsabile. L’aggressione alla propria o altrui sfera giuridica, anche sotto il profilo dei propri diritti patrimoniali, priva il danneggiante della condizione di libera determinazione, rendendo il suo comportamento necessitato». 76 F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, cit., p. 44 ss.: «Non v’è alcuna particolare meritevolezza nella condotta di reazione a un’aggressione, come sottinteso dalla lettura in chiave di assenza di antigiuridicità, come d’altro canto confermato dall’evoluzione normativa della nozione di legittima difesa nel segno della sua progressiva estensione alla salvaguardia di beni e non soltanto della persona dell’offeso». In ragione di ciò, l’Autore si pone in netto contrasto (v. p. 44, nota 163) con quanto affermato da A. Astone, L’autonoma rilevanza dell’atto illecito, Milano, 2012, p. 182 ss., secondo il quale la legittima difesa si configura come un atto illecito, poiché determina la lesione di interessi giuridicamente rilevanti, ma il danno prodotto non può essere qualificato come ingiusto sulla base della comparazione di interessi di cui sono portatori l’aggredito e l’aggressore (questa tesi si basa sull’idea di una distinzione concettuale tra danno e ingiustizia: il primo corrispondente alla lesione di un interessi giuridico protetto; la seconda, invece, trova la propria origine in una valutazione comparativa tra l’interesse leso e quello sottostante il fatto lesivo, che conduce ad una prevalenza assiologica dell’interesse leso v. p. 70). 75
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vendetta, che non rispecchiano le finalità per le quali la scriminante è stata prevista77. L’eccesso del soggetto aggredito segna, di conseguenza, il riacquisto della libertà di autodeterminazione, che rappresenta il presupposto stesso della responsabilità aquiliana. Senza libertà individuale, infatti, non può sussistere alcuna responsabilità risarcitoria. L’eccesso di legittima difesa, come chiarito precedentemente, rappresenta un fatto illecito e, di conseguenza, rileverà l’elemento soggettivo, vale a dire il dolo o la colpa del soggetto aggredito, che acquisterà, perciò, la qualificazione di danneggiante. La connotazione data sul piano soggettivo alle due fattispecie dell’eccesso, sia esso doloso o colposo, dipende in larga misura dall’esperienza giurisprudenziale in ambito penale, tenuto conto dell’esiguo numero di precedenti in ambito civilistico78. Nello specifico si parla di eccesso doloso nella misura in cui vi sia un’intenzionalità del soggetto rispetto al compimento del fatto stesso79. Vi deve essere, in particolare, una consapevole autodeterminazione del soggetto rispetto al superamento dei limiti posti per l’esercizio della legittima difesa80. Il soggetto, in particolare, supera coscientemente e volon-
77 F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, cit., p. 45. 78 Un’unica sentenza che, di recente, ha affrontato questo tema è la pronuncia della Cassazione del 29 gennaio 2016, n. 1665, in Giur. it., 2016, p. 821, con nota di V. Mirmina, Il principio di vicinanza della prova quale deroga dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c. 79 P. Cendon, Il dolo nella responsabilità extracontrattuale, Torino, 1976, p. 470, nota 69. G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 279. 80 M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 91, che si riferisce espressamente alla giurisprudenza penalistica sul tema, v. tra le più recenti: Cass., pen., 15 dicembre 2005, n. 45395; Cass. pen., 19 febbraio 2008, n. 7704; Cass. pen., 19 ottobre 2017, n. 48281; Cass. pen., 23 aprile 2019, n. 17406; Cass. pen., 23 maggio 2019, n. 22810; Cass. pen., 28 novembre 2019, n. 48417 (che ha riconosciuto l’eccesso doloso nel comportamento dell’aggredito, che esperto nell’uso delle armi e collocato in una posizione che non presentava ostacoli di tiro, aveva sin dall’inizio mirato e colpito all’addome l’avversario e poi gli aveva scaricato contro l’intero caricatore nonostante la vittima obiettivamente non fosse più, sin da subito, nella condizione di arrecare alcuna offesa).
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tariamente i limiti posti dalla necessità di difesa, trasformandosi, così da aggredito ad aggressore81. La finalità della reazione non è più, dunque, quella di opporsi ad un’offesa ingiusta, ma l’aggredito/danneggiante intende semplicemente arrecare un danno alla controparte82. Là dove vengano ravvisati gli estremi di un eccesso doloso il soggetto andrà soggetto a responsabilità risarcitoria per l’intero danno cagionato. In questa ipotesi, infatti, a differenza dell’eccesso colposo, non è ravvisabile un concorso colposo del danneggiato nella determinazione del danno. Il fatto doloso dell’aggressore non costituisce una causa concorrente rispetto alla produzione dell’evento dannoso, ma una mera occasione, colta dall’aggredito, per realizzare la propria vendetta o il proprio malanimo83. Secondo una parte della dottrina civilistica, la responsabilità integrale del soggetto agente non può conseguire in maniera automatica all’eccesso doloso della reazione. È necessario, infatti, scindere la reazione in due momenti: la fase iniziale, successiva all’aggressione e quella successiva, che si sostanzia nell’eccesso84. Di norma, la reazione risulta giustificata nella fase iniziale fino al momento in cui il soggetto travalica consapevolmente i limiti della proporzio-
Cass. pen., 28 novembre 2019, n. 48417, cit. M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 93. 83 Cass. civ., 5 agosto 1964, n. 2227, in Foro it., 1964, I, c. 1932: «(…) il fatto aggressivo, intanto, può essere eliminato dal processo causativo efficiente, soltanto in quanto l’evento dannoso sia prodotto da un’intenzione dolosa, che si sovrapponga, interamente sostituendovisi alla reazione necessitata così da far apparire il fatto medesimo come occasione colta dall’aggredito per dare sfogo ad una vendetta e al proprio malanimo contro l’offensore»; Cass. civ., 22 ottobre 1968, n. 3394, in Foro it., 1968, c. 2673; Cass civ., 15 marzo 2007, n. 6009; App. Napoli, 19 aprile 1969, n. 1269, in Dir. giur., 1970, p. 474, con nota di P. Forchielli, Danno da legittima difesa e danno da eccesso colposo. 84 M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 93: «Si osservi che nella presente fattispecie si ha: a) un fatto aggressivo che provoca una minaccia attuale di un’offesa ingiusta; b) una reazione che sino ad un certo punto è giustificata; c) una prosecuzione di questa reazione che volontariamente devia dai binari della proporzionalità ed adeguatezza per concretizzarsi in un evento di danno ulteriore rispetto a quello che sarebbe stato scriminato». 81 82
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nalità e dell’adeguatezza85. Prima che ciò si verifichi la reazione è, comunque, scriminata, ciò significa che non potrà essere addossata al soggetto agente quella parte del danno, che, in realtà, risulti giustificata per la sussistenza della legittima difesa86. La situazione sarà, invece, diversa nel momento in cui il danneggiato dimostri con certezza che l’intera reazione – dal momento in cui si realizza fino alla sua prosecuzione oltre i limiti stabiliti dalla legge – risulti sorretta dalla volontà del soggetto di provocare un danno87. In questa ipotesi, infatti, il soggetto agente sarà tenuto all’integrale risarcimento del danno nei confronti dell’originario aggressore. Così come avviene sul piano civilistico, anche in ambito penale manca una disposizione di riferimento in materia di eccesso doloso. Come già specificato, infatti, l’articolo 55 del Codice penale si riferisce all’eccesso colposo, prevedendo l’applicazione delle norme in materia di delitti colposi, là dove il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo. Nel caso, invece, di eccesso doloso, come
M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 92: «Tuttavia, per ciò che concerne le conseguenze, sul solo piano civile, di una tale condotta, occorre precisare che l’equiparazione sopra prospettata tra effetti penali ed effetti civili dell’azione che dolosamente superi i limiti previsti dalle norme in tema di legittima difesa, non appare, a mio avviso, così automatica. Sul punto non vi sono precedenti giurisprudenziali, ma se si tiene presente, che anche nell’ipotesi di eccesso doloso, la reazione del soggetto agente risulta fino ad un certo punto giustificata (fino a quando cioè non travalica i limiti), da ciò consegue che entro tali limiti ed indipendentemente dal particolare “animus” che sorregge colui che reagisce, la condotta appare scriminata, ed soltanto in un momento successivo (ovvero, quando lo stato di pericolo è già neutralizzato) che assume rilevanza il particolare status psicologico dell’agente». 86 M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 93. 87 M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 93: «Ora, a meno di non dimostrare con certezza (prova che incombe al danneggiato) che l’intera reazione (…) era assistita e sorretta dalla volontà di provocare un danno, e non da quella – quantomeno nella fase iniziale di reagire ad un’offesa ingiusta, l’affermare una responsabilità integrale del soggetto significa ignorare volutamente il fatto che, nella fattispecie, esiste un’aggressione (…) che ha scatenato la reazione. Questo dato di fatto, tuttavia esiste, e da esso, discende, a mio avviso una precisa conseguenza giuridica, ovvero che non può essere addossato al soggetto quella parte di evento che risulta scriminata». 85
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evidenziato dalla dottrina, la volontà è diretta alla realizzazione di un fine criminoso e, pertanto, il soggetto dovrà rispondere del reato commesso a titolo di dolo, fermo restando la possibilità di applicare le attenuanti del caso88. Spostiamo ora l’attenzione sulla fattispecie generale dell’eccesso colposo, soffermando successivamente l’attenzione sull’eccesso colposo domiciliare e sulle conseguenze previste in ambito civile. Come avvenuto per l’eccesso doloso, anche la qualificazione di tale fattispecie risente dell’esperienza penalistica. L’eccesso colposo si configura, innanzitutto, là dove l’aggredito abbia erroneamente valutato il rapporto tra il pericolo e la reazione diretta ad evitarlo. Si registra, dunque, un’erronea valutazione della situazione di pericolo, che porta l’agente ad apprestare dei mezzi di difesa eccessivi rispetto all’entità stessa del pericolo89. Come evidenziato in maniera netta da parte della dottrina, si tratta di una situazione totalmente diversa rispetto alla fattispecie peculiare della legittima difesa putativa già analizzata. Infatti, nella legittima difesa putativa l’aggressione non è reale, dunque, sussiste un’erronea valutazione circa l’esistenza stessa della situazione di pericolo. Al contrario, nell’eccesso colposo, l’errore riguarderà l’entità stessa del pericolo, che è, però, realmente esistente90. La distinzione tra eccesso doloso ed eccesso colposo è stata oggetto di una recente pronuncia della Corte di Cassazione Civile91. È stato indagato, in particolare, il rapporto esistente tra i due re G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 279. E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 22 ss.; M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, cit., p. 15; G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 61. 90 Sul tema: E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 22 ss.; più recente: G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 61. In ambito penale v. le osservazioni generali di G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 279: «La situazione di eccesso colposo di distingue da quella di erronea supposizione di una scriminante (…): mentre in quest’ultima la causa di giustificazione non esiste nella realtà ma soltanto nella mente di chi agisce, nel caso ora in esame la scriminante di fatto esiste ma l’agente supera colposamente i limiti del comportamento consentito». 91 Cass. civ., 29 gennaio 2016, n. 1665, cit. 88 89
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quisiti della necessità e della proporzionalità della reazione. La necessità viene individuata come un requisito primario, positivo ed imprescindibile della reazione. Là dove il soggetto agisca in difetto della necessità di difendere un diritto proprio o altrui, non ha alcun valore parlare di proporzionalità della reazione. La legittima difesa, in questo specifico caso, viene già esclusa senza che sia necessario compiere ulteriori indagini sul rispetto della proporzionalità92. Nel caso, invece, in cui venga ravvisata la necessità della difesa e, al contempo, una sproporzione rispetto alla reazione stessa, non potranno mai configurarsi gli estremi di un eccesso doloso, ma, al contrario, vi potrà essere unicamente un comportamento colposo del soggetto agente. La necessità della difesa implica, infatti, secondo la Corte, una costrizione della volontà, che esclude la sussistenza di un comportamento doloso del danneggiante93. Secondo la ricostruzione della Cassazione, non può, dunque, configurarsi l’intenzionalità dell’eccesso tutte le volte in cui sia, comunque, ravvisabile la necessità della difesa, intesa come costrizione all’azione reattiva. Questa impostazione, però, porta ad escludere in automatico l’eccesso doloso di legittima difesa, riconoscendo unicamente un comportamento colposo del soggetto agente. La solu-
92 Cass. civ., 29 gennaio 2016, n. 1665, cit.: «Occorre tuttavia rilevare che, in realtà, i due presupposti appena richiamati (costretta reazione a una condotta illecita e proporzionalità della reazione) non si collocano sullo stesso piano di incidenza. A ben guardare, infatti, la costrizione all’azione reattiva è pregiudiziale al rilievo della proporzionalità della stessa, dal momento che in difetto di necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta l’applicabilità della scriminante ex art. 52 c.p. è già esclusa, assorbendosi logicamente ogni profilo di “calibro” dell’azione suddetta». 93 Cass. civ., 29 gennaio 2016, n. 1665, cit.: «La struttura della scriminante de qua, dunque, è composta da un elemento primario, positivo e imprescindibile – la reazione necessaria (e perciò costretta) al pericolo attuale di una offesa ingiusta, cioè di un illecito – nonché da un elemento secondario, che rileva esclusivamente nel caso in cui si presenti in veste negativa (sproporzione della reazione), e i cui effetti sono circoscritti dall’elemento primario (proprio perché la reazione è costretta da un pericolo attuale di offesa ingiusta l’elemento soggettivo di un eventuale eccesso non può essere doloso, dal momento che la volontà di reagire di chi ha posto in essere la condotta è stata “coartata”; solo la colpa pertanto può integrare l’elemento soggettivo)».
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zione così prospettata ha ovvie conseguenze in ambito risarcitorio, considerato che, in caso di eccesso doloso il soggetto è tenuto al risarcimento integrale del danno, mentre, secondo l’indirizzo prevalente94, nella fattispecie colposa il risarcimento può essere diminuito in forza dell’articolo 1227, comma 1, del Codice civile. In realtà questa ricostruzione mostra alcune imprecisioni, che avrebbero necessitato, a detta degli stessi Giudici, di maggiore approfondimento. Infatti, l’eccesso doloso riguarda, come già precisato, l’ipotesi in cui il soggetto superi consapevolmente i limiti della legittima difesa. Ciò significa che per configurare o meno l’elemento soggettivo sarà necessario indagare l’atteggiamento psicologico del soggetto rispetto al superamento dei limiti di proporzionalità e adeguatezza della reazione. Si tratta di un’analisi totalmente estranea rispetto all’indagine circa la sussistenza o meno della necessità della difesa, che, a detta della Cassazione, risulta essere propedeutica rispetto alla valutazione della proporzionalità della reazione. Sembrerebbe, inoltre, che la reazione necessaria, dunque, “costretta” del soggetto danneggiante, escluda la libera autodeterminazione del soggetto rispetto al compimento dell’atto dannoso e, proprio sulla base di tale presupposto, viene esclusa l’ammissibili-
94 In ambito civile: Cass. civ., 24 aprile 1954, n. 1240, in Foro Pad., 1954, c. 591, con nota di E. Ondei, La responsabilità per il danno arrecato per eccesso di difesa o per provocazione, e in Giur. comp. Cass. Civ., 1954, p. 114, con nota di Favara; Cass. civ., 5 agosto 1964, n. 2227, in Foro it., 1964, I, c. 1932; Cass. civ., 22 ottobre 1968, n. 3394, in Foro it., 1968, c. 2673; App. Milano, 5 maggio 1953, in Foro it., Rep., 1954, voce Responsabilità civile, n. 64; App. Napoli, 19 aprile 1969, n. 1269, in Dir. giur., 1970, p. 474, con nota di P. Forchielli, Danno da legittima difesa e danno da eccesso colposo; Cass. civ., 15 marzo 2007, n. 6009: «(…) un concorso di colpa della vittima (…) è astrattamente configurabile, per il soggetto che abbia cagionato lesioni durante una colluttazione provocata ed iniziata dal suo antagonista, solo se ed in quanto le lesioni inferte a quest’ultimo possano essere imputate ad una reazione difensiva, ancorché colposamente eccedente i limiti di proporzionalità richiesti per l’esimente della legittima difesa, non anche quando, come, nella specie, è stato accertato dal giudice di merito, la lesione è dovuta ad una reazione che, benché originariamente innescata da una esigenza di difesa, si sia sviluppata in una aggressione consapevolmente e volontariamente eccedente la predetta esigenza e perciò dovuta ad un sentimento di ritorsione o di vendetta».
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tà di un eccesso doloso. Ciò si mostra in totale antitesi rispetto a quanto sostenuto dalla dottrina precedentemente analizzata, che individua nell’eccesso di difesa il momento stesso in cui il soggetto recupera la propria libertà di autodeterminazione.
6. Il risarcimento nella fattispecie generale di eccesso colposo Si è già detto che, in caso di eccesso colposo, l’indirizzo prevalente ritiene applicabile l’articolo 1227, comma 1, c.c. Ciò significa, dunque, che l’entità del risarcimento andrà diminuita a seconda della gravità della colpa ascrivibile al danneggiato e dell’entità delle conseguenze derivate dal suo comportamento. Si tratta, tuttavia, di una questione che è stata oggetto di intenso dibattito, principalmente in sede dottrinale. Il problema risiede nel fatto che, per quanto sussista un nesso di causalità tra la reazione “eccessiva” e il danno causato all’aggressore, non si deve tuttavia tralasciare il fatto che la reazione abbia avuto origine da un’aggressione ingiusta. Si tratta, dunque, di valutare la rilevanza dell’aggressione iniziale sul piano causale rispetto al danno inferto all’originario aggressore95. Secondo l’orientamento ormai prevalente, il fatto dell’aggressore permane nel rapporto di causalità come fattore concorrente per la produzione dell’evento lesivo. In questo caso, la reazione che eccede i limiti della proporzionalità, continua ad essere un’azione necessitata dall’esigenza di respingere un’offesa. In virtù di ciò, continua a sussistere un legame indissolubile tra la reazione eccessiva e l’aggressione stessa, per cui non si può negare al fatto ingiusto del danneggiato il valore di causa concorrente nel processo eziologico che ha determinato l’evento dannoso96.
G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 62. Cass. civ., 5 agosto 1964, n. 2227, cit.; Cass. civ., 22 ottobre 1968, n. 3394, cit.; vedi anche: Cass. civ., 24 aprile 1954, n. 1240, cit.; App. Milano, 5 maggio 1953, cit.; App. Napoli, 19 aprile 1969, n. 1269, cit.; Cass. civ., 15 marzo 2007, n. 6009. 95 96
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Nel passato una parte della giurisprudenza di merito negava l’applicabilità del concorso di colpa nella fattispecie in oggetto. L’idea di fondo era che il danno prodotto per eccesso colposo si configurasse come una conseguenza non solamente indiretta, ma anche abnorme o irregolare rispetto al fatto aggressivo. Di conseguenza, non sussiste alcun nesso di causalità giuridica in relazione all’aggressione stessa. Inoltre, al di là di tali considerazioni, il danno compiuto per eccesso di legittima difesa sarebbe il frutto di un’azione volontaria, essenzialmente libera, idonea come tale ad interrompere il nesso di causalità tra il fatto ingiusto del danneggiato e il danno prodotto97. Secondo questa impostazione, il nesso di causalità è riscontrabile nel rapporto tra l’aggressione e la reazione, di modo che l’aggressione del danneggiato si pone come causa della reazione e non come concausa dell’evento lesivo, che è conseguenza dell’eccesso colposo dell’aggredito98. Questa posizione è stata sostenuta anche da autorevole dottrina, mettendo, altresì, in luce la differenza rispetto alla fattispecie della provocazione99. Infatti, là dove la provocazione sia stata così
Trib. Milano, 7 ottobre, 1954, cit.; App. Napoli, 6 marzo 1959, in Foro it., 1959, c. 646, con nota redazionale. 98 Trib. Milano, 7 ottobre, 1954, cit. In relazione alla sentenza, M. C. Traverso, Le cause di giustificazione nella disciplina dei fatti illeciti, cit., p. 97, osserva come nella motivazione i Giudici abbiano effettuato un chiaro collegamento tra aggressione, reazione ed evento, non negando che – quanto meno nell’ambito della legittima difesa – l’aggressione originaria sia, dal punto di vista della causalità dell’evento, un antecedente ineliminabile. 99 A. De Cupis, Sul limite di applicabilità della disciplina del concorso del concorso del fatto colposo del soggetto danneggiato, in Foro Pad., 1954, c. 68 ss. e, in particolare, v. c. 74: «La situazione è ben differente da quella derivante dal fatto provocatorio. Questo, (…) ha una rilevanza giuridica del tutto diversa nel campo penale e in quello civile, attesoché in quest’ultimo, a differenza del primo, non può affatto funzionare come attenuante dell’illecito: e quindi, rimane salva la possibilità che esso, entro certi limiti, funzioni come elemento causale (fatto colposo del danneggiato: art. 1227). Viceversa, il fatto aggressivo funziona nel campo civile, ugualmente al campo penale, come causa di esclusone dell’illecito; oltre il limite in cui svolge tale funzione, segnato dalla proporzionalità della reazione, non può funzionare neanche come concorrente fatto colposo del danneggiato (art. 1227), poiché diviene giuridicamente ininfluente anche sotto il profilo causale». 97
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grave, che la media degli uomini avrebbe reagito per il conseguente stato di ira, la reazione può dirsi una conseguenza normale del fatto provocatorio. Il danno che il provocatore subisce per effetto della provocazione, si ricollega, dunque, alla provocazione attraverso un nesso causale indiretto, ma regolare100. La situazione è, invece, differente nel caso in cui la provocazione si sia concretizzata in un mero scherzo. In questa fattispecie, la reazione e il danno che ne consegue, si ritiene che seguano una linea causale abnorme ed eccezionale, perciò priva di rilevanza autonoma. La provocazione, dunque, non può giuridicamente considerarsi come fatto concorrente del danneggiato e la fattispecie verrebbe esclusa dalla sfera di applicabilità dell’art. 1227, comma 1, c.c.101. Di conseguenza, mentre in caso di eccesso colposo nella difesa viene sempre escluso il concorso di colpa del danneggiato, nel caso della provocazione, secondo la tesi di cui sopra, l’applicabilità della disposizione in commento sarebbe condizionata dalle modalità in cui si struttura la provocazione stessa sul piano concreto102. A. De Cupis, Sul limite di applicabilità della disciplina del concorso del concorso del fatto colposo del soggetto danneggiato, cit., c. 71, ma v. anche nello specifico Id., La provocazione come concorrente fatto colposo del danneggiato, in Foro pad., 1955, c. 171 ss. (in adesione alla sentenza della Corte di Appello di Napoli del 30 gennaio 19053, che si era pronunciata a favore dell’applicabilità dell’articolo 1227, comma 1): «(…) l’autore della grave provocazione ha subito quella reazione, e con essa quel danno, che normalmente anche fuori del caso particolare, avrebbero potuto prodursi. E quindi, il fatto provocatore, concorre anche per il diritto, alla produzione del danno: vale a dire, può considerarsi, anche giuridicamente, una delle cause (sia pure quella indiretta) del danno subito dall’autore della provocazione». 101 A. De Cupis, Sul limite di applicabilità della disciplina del concorso del concorso del fatto colposo del soggetto danneggiato, cit., c. 71 e in La provocazione come concorrente fatto colposo del danneggiato, cit., c. 171 c.: «Se la provocazione consiste in un innocente scherzo, in una temperata ironia, allora la reazione e il conseguente danno seguono, nel verificarsi, una linea causale abnorme, eccezionale, che non può avere giuridica rilevanza. E quindi la provocazione, non potendo giuridicamente considerarsi fatto concorrente del danneggiato, è ininfluente rispetto all’entità del risarcimento (…)». 102 Questa impostazione, che distingue l’applicabilità dell’articolo 1227, comma 1, c.c., a seconda che la provocazione presenti o meno determinati caratteri di intensità o gravità, è seguita anche da una parte della dottrina più recente (v. le 100
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Questa ricostruzione è stata profondamente criticata da una parte della dottrina. Si è ritenuto, infatti, che la provocazione e l’aggressione, in caso di eccesso colposo di difesa, influiscano sempre, non solo sulla condotta del danneggiante, determinandone la reazione, ma anche sul piano causalistico nella determinazione del danno, senza fare alcuna distinzione a seconda dell’intensità o meno della provocazione 103. In caso di eccesso colposo e di provocazione non si verificherebbe un concorso di cause indipendenti rispetto al verificarsi dell’evento lesivo, ma una serie causale, in cui il rapporto di
riflessioni di P.G. Monateri, Esimenti e difese, cit., p. 295 e, più recentemente di A. Vercellone, Concorso di colpa del danneggiato in caso di provocazione? Bullismo e “risarcimenti attenuati dalla condotta”, in Danno resp., 2020, p. 189 ss., che sottolinea, altresì, la necessità di un giudizio di proporzionalità e adeguatezza tra il fatto provocatorio e la reazione stessa). Tuttavia, secondo l’indirizzo maggioritario seguito dalla Corte di Cassazione e dalla giurisprudenza di merito, in caso di provocazione la libera autodeterminazione del danneggiante che reagisce alla provocazione, costituirebbe sempre un fatto autonomo assorbente, idoneo ad interrompere il nesso di causalità esistente tra la provocazione e il danno, scaturito dalla reazione stessa del provocato. Non sussisterebbe, dunque, una connessione rispondente al principio di regolarità causale e ciò escluderebbe nettamente l’applicabilità dell’art. 1227, comma 1, c.c., alla fattispecie in esame. (da ultimo v. le seguenti pronunce ella Cassazione civile: Cass., 23 marzo 2016, n. 5679, ma v. altresì: Cass., 3 maggio 1958, n. 1445; Cass., 20 ottobre 1975, n. 3447; Cass., 14 aprile 1988, n. 2956; Cass., 30 ottobre 1995, n. 9209; Cass. 18 ottobre 2005, n. 20137). Merita di essere segnalata, in materia, una recente pronuncia della Corte di Cassazione, che ha ammesso l’applicabilità dell’articolo 1227, comma 1, c.c., discostandosi dall’indirizzo maggioritario, senza però fornire un’adeguata motivazione dal punto di vista tecnico-giuridico. Si tratta, nello specifico, dell’ordinanza n. 22541 del 10 settembre 2019, riguardante il caso di un minore che aveva reagito ad atti di bullismo, perpetrati nel tempo, causando lesioni personali al proprio persecutore (v. sul tema le riflessioni A. Vercellone, Concorso di colpa del danneggiato in caso di provocazione? Bullismo e “risarcimenti attenuati dalla condotta”, cit.; in Danno resp., 2019, p. 759, con nota di G. Ponzanelli, Educazione e responsabilità civile: il caso del bullismo, e in NGCC, 2020, p. 338, con nota di V. Caredda, Provocazione e reazione nel giudizio di responsabilità). Per una veduta generale del problema concernente l’applicabilità dell’articolo 1227, comma 1, c.c., v. le considerazioni recenti di V. Caredda, Provocazione e concorso del fatto colposo del danneggiato: una veduta di scorcio dell’ordinamento, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, p. 63, e V. Caredda, Concorso del fatto colposo del creditore, cit., p. 86. 103 E. Ondei, La responsabilità per il danno arrecato per eccesso di difesa e per provocazione, cit., c. 593 ss.
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concausalità non può essere messo in dubbio. Infatti, per stabilire il concorso causale del fatto illecito del credito, è sufficiente accertare che senza la provocazione o l’aggressione non vi sarebbe stato quell’impulso emotivo – stato d’ira o c.d. allarme difensivo – che ha spinto il danneggiante provocato o aggredito a reagire. Per poter imputare l’evento dannoso, si tratta, dunque, solo di accertare la sussistenza di un rapporto di condizionalità necessaria tra la condotta e l’evento stesso. Applicando tale criterio, dunque, la provocazione e l’aggressione costituirebbero entrambe concause dell’evento lesivo a carico del provocatore e dell’aggressore104. Inoltre, come evidenziato dalla dottrina, l’art. 1227 c.c. non esige che il fatto del creditore colposo renda inevitabile il danno, nel senso che il debitore possa evitarlo usando una particolare diligenza. La possibilità di impedire il danno usando l’ordinaria diligenza è, infatti, riferita dalla norma unicamente al comportamento del creditore. Il fatto colposo del creditore deve unicamente costituire una causa concorrente rispetto alla causazione del danno. Sotto questo profilo appare coerente con la ratio stessa della norma il fatto che il comportamento dell’aggressore assuma rilevanza nella determinazione quantitativa del danno, permettendo di realizzare un’equa distribuzione delle conseguenze pregiudizievoli cui l’aggressore non può ritenersi estraneo105. La difficoltà di distinguere la quota di danno corrispondente all’esercizio dell’azione difensiva legittima da quella, al contrario, ascrivibile, ad un eccesso colposo dell’aggredito, non può ostacolare, comunque, l’applicabilità della disposizione in esame. Questo sia perché la difficoltà nell’applicare di un principio non può essere un elemento sufficiente ad inficiarne la sua esattezza a livello teorico, sia perché, là dove non sia possibile determinare le
104 E. Ondei, La responsabilità per il danno arrecato per eccesso di difesa e per provocazione, cit., c. 594. Per un’analisi delle differenti posizioni dottrinali vedi le considerazioni di E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 24 ss. 105 E. Ondei, La responsabilità per il danno arrecato per eccesso di difesa e per provocazione, cit., c. 595; sulla stessa linea recentemente anche G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 63.
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singole responsabilità, viene ammessa una determinazione equitativa delle singole responsabilità e autoresponsabilità da parte del giudice106. I due orientamenti dottrinali, sopra delineati, muovono da una diversa concezione del nesso di causalità. Il primo si basa, infatti, sulla teoria della regolarità causale, in forza della quale, oltre alle conseguenze immediate e dirette previste dall’articolo 1223 c.c., sono imputabili all’agente anche i danni che rientrano nella serie ordinaria e normale di consequenzialità, da cui ha avuto origine l’evento dannoso. Il secondo indirizzo, invece, ammette l’applicabilità dell’articolo 1227, comma 1, c.c., basandosi sulla teoria della condizionalità necessaria. Secondo questa impostazione, il rapporto di causalità è ravvisabile tutte le volte in cui il fatto posto in essere dall’agente si mostri come antecedente indispensabile per il verificarsi del danno stesso107. Le difficoltà a livello pratico cui può dare luogo l’applicazione dell’articolo 1227, comma 1, c.c. in caso di eccesso colposo hanno condotto alcuni Autori a fornire soluzioni differenti rispetto a quelle analizzate. Soluzioni che si caratterizzano per il ricorso ai principi generali in materia di responsabilità civile e ai principi informatori della legittima difesa. Seguendo questa impostazione, il danno cagionato all’aggressore in caso di eccesso nella legittima difesa si presenta parzialmente lecito e illecito. È lecito nella misura in cui sia derivato dall’azione volta a difendere un diritto proprio o altrui in pericolo, ma è, al contempo, illecito, per la parte in cui sia ascrivibile alla colpa dell’aggredito, che abbia oltrepassato i limiti della difesa108. Di conseguenza, nella valutazione del danno, il Giudice non dovrà tenere in considerazione le conseguenze lesive corrispondenti alla giusta reazione del soggetto aggredito, che esulerebbero dall’ambito di applicabilità
106 E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 25 ss.; sul tema generale della possibilità di valutazione equitativa da parte del Giudice v. anche C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 149 ss. 107 E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 25 ss. 108 E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 27.
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della legittima difesa109, ma dovrà unicamente valutare le conseguenze ascrivibili all’eccesso colposo dell’aggredito110. Il comportamento dell’aggredito, a cui sia imputabile un eccesso colposo nella difesa, esula dall’ambito di applicazione dell’articolo 2044 c.c., per cui si si sostiene che l’aggredito stesso sia parzialmente responsabile del danno cagionato all’aggressore originario111. Il ricorso ai principi generali in tema di responsabilità civile dovrebbe, però, essere limitato al caso in cui manchi una disciplina di riferimento, che, seppur di difficile applicazione, sussiste, comunque, a livello codicistico. In virtù di ciò, non si potrebbe, dunque, omettere il ricorso alla fattispecie di cui all’articolo 1227, comma 1, c.c., che rappresenta il corretto inquadramento giuridico dell’eccesso colposo nella legittima difesa. Riconducendo la questione ai principi generali in tema di responsabilità, si ometterebbe di effettuare una qualificazione giuridica della fattispecie, per ricondurla, unicamente, ad una discussione intorno alla liceità e illiceità della reazione rispetto ai criteri di riferimento. Appare, comunque, necessario, fare alcune precisazioni sulle criticità, che, comunque, emergono dall’applicabilità dell’articolo 1227, comma 1, c.c. Innanzitutto, come si è avuto già modo di constatare, la dottrina non è concorde circa l’effettiva applicabilità del concetto di antigiuridicità obiettiva nella definizione dell’aggressione stessa. Aderendo alla teoria dell’antigiuridicità obiettiva della condotta, non rileverebbe l’elemento soggettivo dell’aggressione, rappresentato dal dolo o dalla colpa. Ora, là dove non si accettasse questa impostazione e si ammettesse la rilevanza dell’elemento soggettivo per la configurabilità dell’aggressione, questo sarebbe orientativamente ascrivibile alla volontà del soggetto di determinare M. Pogliani, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, cit., p. 46: «(…) non sussiste colpa fino al punto in cui il danno sia la conseguenza di un’azione legittima volta a difendere il diritto ingiustamente aggredito (…) (l’eccedenza della reazione che abbia determinato la colposa violazione di un diritto dell’aggressore non resta più protetta dalla previsione normativa recata dall’art. 2044)»; sulla stessa linea già E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 26. 110 Riprende tali teorie anche P.G. Monateri, Esimenti e difese, cit., p. 294. 111 E. Calvi, La legittima difesa nel diritto civile, cit., p. 27. 109
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un evento lesivo e, dunque, si sostanzierebbe in un comportamento doloso dell’aggressore. In virtù di ciò, in caso di eccesso colposo, il fatto doloso del danneggiato concorrerebbe con il fatto colposo del danneggiante nella determinazione dell’evento lesivo. Si tratta di una fattispecie di non così facile inquadramento, perché pone il problema di verificare la concreta applicabilità dell’articolo 1227, comma 1, c.c., alle ipotesi di concorso doloso del danneggiato, al di là dei limiti di carattere prettamente letterale posti dalla norma, che non danno alcuna sicurezza se non supportati da adeguate considerazioni di ordine sistematico112. Seguendo la dottrina che ha analizzato tale problematica, le fattispecie di concorso doloso andrebbero concretizzate ai casi in cui la vittima abbia tenuto un comportamento da cui sia possibile desumere una sorta di consenso o permesso rispetto alla violazione della propria sfera giuridica, che privi di illiceità il comportamento del danneggiante. Si può parlare, altresì, di concorso doloso nei casi in cui sia riscontrabile un’accettazione del rischio da parte del danneggiato, come accade nell’esercizio di attività sportive o di attività pericolose. In tutti questi casi, però, appare difficile ricondurre la condotta del danneggiato sul piano tradizionale del concorso causale, perciò si ritiene maggiormente opportuno far leva sul principio di autoresponsabilità, che permetterebbe di graduare le responsabilità di danneggiato e danneggiante a seconda delle circostanze concrete. Queste considerazioni, dunque, porterebbero ad escludere, di fatto, l’applicabilità dei principi di cui all’articolo 1227, comma 1, c.c.113. V. Caredda, Concorso del fatto colposo del creditore, cit., p. 69 ss. V. Caredda, Concorso del fatto colposo del creditore, cit., p. 71 ss. L’Autrice ritiene che il dolo si strutturi differentemente a seconda della situazione specifica in cui viene a concretizzarsi. Vi possono essere casi, ad esempio, in cui il comportamento doloso della vittima si sostanzia nel c.d. permesso di intromissione nella propria sfera giuridica, che esclude l’illiceità della condotta dannosa posta in essere. In altri casi, invece, la vittima pone in essere un comportamento di per sé consentito dall’ordinamento giuridico, ma rischioso, come avviene, ad esempio, in caso di attività sportiva o di altre attività di per sé pericolose. Il riferimento al concetto stesso di autoresponsabilità, come fondamento dell’articolo 1227, comma 1, c.c., porterebbe a rendere ancora più pregnante la riduzione di responsabilità tutte le volte in cui il comportamento del danneggiato sia un comportamento di 112
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Il fatto che la dottrina non abbia analizzato la fattispecie sotto il profilo sopra considerato indurrebbe a pensare che si sia voluto andare al di là della mera connotazione volontaristica del fatto, dando rilevanza solo al suo valore sotto il profilo meramente causale, tenuto conto che la colpa ex art. 1227, comma 1, c.c., non è da intendersi come criterio di imputabilità del fatto illecito, ma, bensì come requisito legale della rilevanza del fatto del danneggiato114. Sotto il profilo meramente probatorio, nonostante l’esiguità delle pronunce giurisprudenziali, deve essere segnalata una recente sentenza della Corte di Cassazione, che si è soffermata, in particolare, sulla ripartizione dell’onere probatorio. Secondo i Giudici, in base al principio di riferibilità o vicinanza della prova, su cui è costruito il modello di ripartizione dell’onere probatorio di cui all’articolo 2697 c.c.115, spetta alla controparte l’onere di provare che la difesa è stata eccessiva. Secondo il principio di riferibilità, infatti, non può essere riferibile all’onere di chi allega un vantaggio un fatto indeterminato e nemmeno un fatto che sia estraneo alla sua sfera di controllo. In particolare, là dove il fatto non rientrasse nella sfera di dominio dell’onerato, quest’ultimo non sarebbe in grado di esercitare il suo potere di azione, per cui la situazione di onere non potrebbe condurre alla realizzazione stessa dell’interesse116.
carattere volontario. Ciononostante, secondo l’Autrice, è necessaria una valutazione più specifica, che tenga in considerazione anche le finalità stesse dell’azione posta in essere dal danneggiato, o meglio le motivazioni per cui il danneggiato stesso ha assunto un determinato rischio (sul tema riprende, altresì, le considerazioni di G. Cattaneo, Il concorso di colpa del danneggiato, in Riv. dir. civ., 1967, I, cit., p. 494 ss.). Si rileva, infine, l’impossibilità di inserire il concorso doloso del creditore nella logica causale in senso tradizionale, il che porterebbe a ricondurre la fattispecie al principio generale di autoresponsabilità. In questo modo, infatti, sarebbe possibile individuare delle soluzioni più appropriate o meglio una graduazione delle responsabilità, a seconda della posizione assunta dalle parti nel contesto di riferimento. 114 C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 150. 115 V. sul punto le riflessioni di G.M. Uda, La prova del pagamento, Padova, 2008, p. 26 ss. 116 G. M. Uda, La prova del pagamento, cit., p. 26.
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Seguendo la ricostruzione della Cassazione, l’aggredito dovrà provare la riconducibilità della propria condotta all’ipotesi di cui all’art. 2044 c.c., mentre chi deduce l’eccesso colposo ex art. 55 c.p., avrà l’onere di provare che la difesa sia stata eccessiva, trattandosi di un fatto positivo ben riconducibile alla sfera di conoscenza. Infatti, il soggetto che si è difeso e invoca l’applicabilità della scriminante potrebbe non aver avuto conoscenza delle conseguenze del proprio agire rispetto all’aggressione subita. Nello specifico, una volta dimostrata l’esistenza di un’aggressione illecita, l’aggredito ha già provato di aver posto in essere una condotta riconducibile all’articolo 2044 c.c., e, dunque, la sussistenza del proprio diritto alla difesa. L’attenuazione degli effetti, derivante dal riconoscimento di un’ipotesi di eccesso, si configura, invece, come fatto modificativo rispetto agli effetti del diritto alla difesa e, di conseguenza, la prova dovrà essere fornita dal soggetto che ha subito la reazione117. 117 Cass., 29 gennaio 2016, n. 1665: «(…) non si vede per quale motivo il soggetto che ha posto in essere una condotta comunque riconducibile all’art. 52 c.p., debba essere gravato pure dell’onere di dimostrare che questa condotta non è stata eccessiva: ovvero, debba essere gravato di un onere probatorio che può essere di difficoltoso adempimento – non è detto che il soggetto che si è difeso abbia potuto avere conoscenza completa delle conseguenze della sua reazione difensiva sull’aggressore, mentre è certo che rientra nella sfera di conoscibilità di quest’ultimo ogni conseguenza su di lui della difesa dell’aggredito. Dimostrando l’esistenza dell’illecita aggressione che l’ha costretto a difendersi, il soggetto aggredito, si ripete, ha già dimostrato di avere posto in essere una condotta riconducibile all’art. 52 c.p.: l’attenuazione degli effetti dell’applicazione dell’art. 52 c.p., per concomitante sussistenza dei presupposti applicativi dell’art. 55 c.p. è configurabile, quindi (nell’ambito, a ben guardare, della presunzione del diritto scaturente dall’art. 2697 c.c., riconosciuta dal sopra citato arresto delle Sezioni Unite con valenza generale in quanto attinente alla norma che regola il riparto probatorio e non alla specifica fattispecie sostanziale che era in esame), come fatto modificativo degli effetti del diritto alla difesa esercitato dall’aggredito, la cui prova pertanto dovrà essere fornita da chi ha appunto subito tali effetti». La Corte di Cassazione, seguendo l’orientamento già delineato in materia (v. SS.UU., 11 gennaio 2008, n. 582, in Resp. civ., 2008, p. 688, con nota di M. Dragone, e Cass., 25 marzo 2016, n. 5961, in materia di danni derivanti da emotrasfusione, e Trib. Cagliari, 4 agosto, 2011, in Riv. giur. sarda, con nota di R. De Matteis, in relazione ai danni subiti da un militare nel corso di operazioni belliche, ha applicato il principio di prossimità o vicinanza della prova nell’ambito della responsabilità extracontrattuale («Il principio di prossimità della prova, che si traduce nell’attribuire a chi aveva, secondo
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7. L’eccesso colposo domiciliare 7.1. Caratteri generali e presupposti Come accennato nella parte introduttiva, la riforma attuata con la legge n. 36 del 2019 ha inciso sulla disciplina dell’eccesso colposo nella legittima difesa, disciplinando il c.d. eccesso colposo domiciliare. Nello specifico, l’articolo 55 c.p. è stato integrato con la previsione di un secondo comma, secondo il quale non è punibile chi abbia reagito all’aggressione nelle ipotesi di cui all’art. 52, commi 2 e 3 c.p., per la salvaguardia della propria o altrui incolumità, trovandosi in una condizione di minorata difesa ex art. 61, comma 1, n. 5, c.p. o di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo in atto118. In base alla nuova disposizione non è, dunque, punibile chi,
la precedente impostazione, l’onere di provare il fatto negativo un mero onere allegatorio e nell’attribuire alla sua controparte l’onere di provare il fatto positivo contrario, è stato in seguito applicato sempre nell’ambito contrattuale/negoziale (…). Peraltro, essendo la natura del fatto negativo, con le correlate difficoltà probatorie, identica sia nel settore contrattuale che nel settore extracontrattuale, anche in quest’ultimo l’applicazione del criterio tradizionale può venire a costituire la difficoltà probatoria che le Sezioni Unite hanno ritenuto esigere correzione, e che invero si pone in contrasto, d’altronde, con i principi (a prescindere poi da quelli sovranazionali) di cui agli artt. 24 e 111 Cost., che esigono una interpretazione ad essi sensibile anche dell’art. 2697 c.c.»). 118 È opportuno sottolineare che una delle disposizioni del testo di riforma approvato dalla Camera dei deputati, nella seduta del 4 maggio 2017 (si trattava dell’articolo 1, lett. b), prevedeva l’esclusione della colpa in tutte le ipotesi di difesa nei luoghi privati, là dove l’errore fosse conseguenza del grave turbamento psichico causato dalla persona contro la quale è diretta la reazione. Tale disposizione avrebbe dovuto essere inserita come ultimo comma dell’articolo 59 c.p., riguardante l’erronea supposizione delle cause di giustificazione. Questa previsione era stata ben accolta da parte della dottrina tenendo in considerazione la situazione di pressione psicologica cagionata dall’aggressione stessa (sul punto v. le considerazioni di D. Pulitanò, Legittima difesa: fra retorica e problemi reali, in Dir. pen. contem., n. 4/2017, p. 265). Come sottolineato dalla dottrina, l’intrusione o la permanenza abusiva nell’altrui domicilio può essere fonte di un grave turbamento psichico per il soggetto, che può dar luogo ad una situazione di errore nella fase di esecuzione della reazione stessa o nella stessa rappresentazione della situazione di pericolo. Tuttavia, la dottrina sottolineava la necessità di un intervento del legislatore nell’ambito dell’eccesso colposo, piuttosto che sul piano dell’art. 59 c.p. Non veniva, infatti, ravvisata alcuna giustificazione rispetto alla modifica
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nelle ipotesi di cui all’articolo 52, commi 2 e 3 c.p. (limitatamente ai casi di aggressione personale ex art. 52, comma 2, lett. b) abbia ecceduto colposamente i limiti stabiliti dalla legge, trovandosi in una condizione di minorata difesa o di grave turbamento119. Dal punto di vista dogmatico, la fattispecie viene inquadrata dalla dottrina nell’ambito delle scusanti, vale a dire di quelle circostanze che influiscono in maniera irresistibile sulla volontà o sulle capacità psico-fisiche dell’agente, in modo da rendere inesigibile una condotta diversa120. La condizione di grave turbamento ovvero
dei parametri di valutazione della colpa nell’ambito di tale ipotesi, che riguarda aggressioni apparenti e non reali (D. Pulitanò, Legittima difesa: fra retorica e problemi reali, cit., p. 266: «Alla luce del principio di colpevolezza, l’articolo 59 c.p. va bene così com’è. Non c’è alcuna ragione per modificare i normali parametri di valutazione della colpa con riguardo a reazioni soggettivamente difensive ma che cadano su vittime innocenti»); su questo tema v, altresì, le riflessioni di F. Cingari, Per una riforma della disciplina dell’eccesso di legittima difesa, in Arch. pen., 2018, n. 3, p. 9 ss. e, in particolare, p. 14. Si ritiene che la clausola di cui al § 33 del St GB, che disciplina l’eccesso di difesa (Überschreitung der Notwehr: «Überschreitet der Täter die Grenzen der Notwehr aus Verwirrung, Furcht oder Schrecken, so wird er nicht bestraft»), abbia costituito il modello di riferimento per i legislatori dell’Europa continentale, compreso quello italiano. La disposizione prevede che non venga punito colui che ecceda i limiti della legittima difesa a causa di turbamento, paura o panico. I limiti cui fa riferimento la norma sono quelli stabiliti dal § 32 del St GB, cioè l’attualità dell’aggressione e la necessità della reazione difensiva per respingere l’aggressione. Ai fini dell’applicabilità della disposizione in materia di eccesso, dottrina e giurisprudenza tedesche richiedono la sussistenza della finalità difensiva, presupposto della scriminante di cui al § 32 del St GB (sul tema in una prospettiva comparatistica F. Macrì, Uno studio comparatistico dell’eccesso di difesa domiciliare nel nuovo art. 55 co. 2 c.p., in Dir. pen. Contemp., 2019, p. 26 ss. e in Id., Effettività e limiti costituzionali della legittima difesa: dal far west al fair risk, Torino, 2020, p. 67 ss.). 119 F. Consulich, La legittima difesa assiomatica, Considerazioni non populistiche sui rinnovati artt. 52 e 55 c.p., in Giur. penale web., 2019, n. 5, p. 9. 120 F. Consulich, La legittima difesa assiomatica, Considerazioni non populistiche sui rinnovati artt. 52 e 55 c.p., cit., p. 9, e in particolare, nota 19, che riprende sul punto quanto espresso da G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 1° aprile 2019; D. Piva, Contradictio in adiecto e tamquam non esset nella riforma della difesa legittima domiciliare: dai moniti della dottrina alle conferme della giurisprudenza, in Arch. pen., 2020, n. 2, p. 8; D. Piva, Oggettivo e soggettivo nell’eccesso di difesa per “grave turbamento”, commento a Cass. pen., 10 dicembre 2019, n. 49883, in
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di minorata difesa, in cui viene a trovarsi il soggetto agente, integra una situazione di particolare vulnerabilità che il legislatore ha valutato come circostanza scusante. Ciò significa che il fatto ascrivibile all’agente è un fatto antigiuridico e colposo, ma tuttavia non viene considerato colpevole, cioè rimproverabile personalmente all’autore perché scusato dall’ordinamento giuridico121. In virtù di ciò, come sottolineato da parte della dottrina, il legislatore non ha spostato il confine della obiettiva legittimità, ma bensì i limiti delDir. pen. proc., 2020, p. 659. La definizione di scusante viene ripresa da G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 423, dove si specifica come il tratto comune di tutte queste ipotesi sia rappresentato dal concetto di inesigibilità, inteso nel senso che non è possibile esigere un comportamento diverso da chi abbia agito sotto la pressione di una circostanza anormale, che rientra nel novero delle scusanti, avente carattere tassativo. Nella giurisprudenza più recente i Giudici utilizzano la qualificazione terminologica di “causa di non punibilità” (v. Cass. pen., 10 dicembre 2019, n. 49883, cit. e da ultimo anche Cass. pen., 3 dicembre 2020, n. 34345). Il fatto permarrebbe antigiuridico e colpevole, ma, in presenza delle condizioni di cui all’articolo 55, comma 2, verrebbe esclusa l’opportunità di punire il soggetto agente. Nonostante l’utilizzo terminologico della formula adottata, i commentatori ritengono che le argomentazioni utilizzate dai Giudici portino, comunque, alla qualificazione della fattispecie in termini di scusante (v. D. Piva, Oggettivo e soggettivo nell’eccesso di difesa per “grave turbamento”, cit., p. 659: «Nonostante l’ambiguo ricorso terminologico alla “causa di non punibilità”, nella sentenza sembra potersi intravedere, sul piano dogmatico, un inquadramento della fattispecie come scusante, in quanto interna al giudizio di colpevolezza e dunque proiettata sul piano della necessità e non della mera opportunità di punire»). 121 G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, cit.; sul tema A. Roiati, Il grave turbamento emotivo e l’inesigibilità per contesto e per tipo di autore, in Arch. pen., 2020, n. 1, p. 19: «Può dunque affermarsi che l’art. 55, co. 2, c.p. introduce una scusante ad hoc la quale, per un verso elide la colpevolezza umanizzando i criteri di bilanciamento tra difesa e offesa, per l’altro non incide sul limite dell’antigiuridicità oggettiva e sulla illiceità del fatto, poiché presuppone una condotta di per sé oggettivamente colposa ed eccedente i limiti della legittima difesa nel domicilio»; sul tema di recente v. anche le osservazioni di F. Macrì, Uno studio comparatistico dell’eccesso di difesa domiciliare nel nuovo art. 55 co. 2 c.p., in Riv. trim. dir. pen. contemp., 2019, n. 3, p. 41 e ss., e, in particolare, nota 201: «Condizioni di minorata difesa che comunque incidono sul procedimento motivazionale del soggetto, limitandone dunque – fino a un livello tale da non giustificare la sanzione penale – la soggettiva capacità di reagire all’aggressione in modo conforme ai canoni di necessità e proporzione prescritti, all’art. 52 c.p., dall’ordinamento italiano».
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la responsabilità penale, per ragioni relative al profilo soggettivo dell’agente122. Come sottolineato da una parte della dottrina, l’inquadramento dell’eccesso colposo domiciliare nell’ambito delle scusanti apparirebbe in linea con il principio costituzionale di colpevolezza e permetterebbe, altresì, di giustificare la mancata punizione di fatti antigiuridici e colposi di omicidio e lesioni personali, commessi oltrepassando i limiti della legittima difesa nel domicilio123. La conservazione dell’antigiuridicità rispetto al fatto commesso e la stessa individuazione dell’elemento soggettivo in capo all’agente giustificherebbe, inoltre, il mantenimento della responsabilità a livello civilistico attraverso il riconoscimento dell’indennità a favore del danneggiato ai sensi dell’articolo 2044, comma 3, c.c.124. Secondo alcuni commentatori, l’introduzione della nuova scusante avrebbe rotto il rapporto di equilibrio esistente tra la discipli122 D. Pulitanò, Legittima Difesa. Ragioni della necessità e necessità di ragionevolezza, in Dir. pen. contemp., 2019, n. 5, p. 208; sul tema anche F. Bacco, Il “grave” turbamento della legittima difesa. Una prima lettura, in Dir. pen. contemp., 2019, n. 5, p. 57: «Si tratta di una modifica che era stata auspicata per “umanizzare” i criteri di bilanciamento tra offesa e difesa, senza intaccare il limite dell’antigiuridicità obiettiva (…)». 123 G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, cit. Come sottolineato dall’Autore, là dove si qualificasse la fattispecie nel quadro della colpevolezza attenuata o delle cause di esclusione della punibilità, la mancata punizione in queste fattispecie sarebbe di più difficile giustificazione. 124 G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, cit.: D. Piva, Oggettivo e soggettivo nell’eccesso di difesa per “grave turbamento”, cit., p. 659; A. Roiati, Il grave turbamento emotivo e l’inesigibilità per contesto e per tipo di autore, cit., p. 19: «A questo punto risulta di particolare interesse accennare altresì all’inquadramento dogmatico della previsione in esame che, inserita quale ipotesi specifica di non punibilità nell’ambito dell’eccesso colposo, sembra sostanziare una scusante di un fatto tipico (…). In questa direzione militano, sia la collocazione sistematica della fattispecie che il suo tenore letterale, oltre a doversi considerare anche quanto previsto in tema di responsabilità civile, con l’introduzione del nuovo terzo comma nell’ambito dell’art. 2044 c.c. Nello specifico, nei casi di eccesso colposo di difesa domiciliare, al pari di quanto previsto dall’art. 2045 c.c. per la scusante dello stato di necessità, è previsto l’obbligo di corrispondere al danneggiato “una indennità la cui misura è rimessa all’equo apprezzamento del giudice, tenuto altresì conto della gravità, delle modalità realizzative e del contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato”».
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na originaria dell’eccesso nelle cause di giustificazione e la disciplina dell’elemento soggettivo del reato. Infatti, seguendo la disciplina ante riforma, là dove l’aggredito avesse oltrepassato consapevolmente o per errore colposo i limiti di necessità e proporzione della difesa, sarebbe stato chiamato a rispondere penalmente per dolo o per colpa nei casi in cui il fatto commesso integrasse gli estremi di un delitto colposo. L’errore scusabile, cioè compiuto senza dolo o colpa, escludeva, invece, la punibilità dell’agente125. Con la previsione di cui al secondo comma dell’articolo 55 c.p., si sarebbe scardinata, secondo Alcuni, la situazione di equilibrio e armonia così creata tra eccesso ed elemento soggettivo del reato. Nei casi di legittima difesa domiciliare, infatti, l’eccesso posto in essere dall’aggressore non è mai rimproverabile, anche nel caso in cui l’errore sia legato ad un comportamento colposo dell’agente126. Per quanto concerne i presupposti di applicabilità, si è già accennato come l’agente, oltre a trovarsi nelle condizioni di cui all’articolo 52, commi 2, 3 e 4, c.p., deve aver agito in condizioni di minorata difesa ex art. 61, n. 5, c.p., oppure deve essersi trovato in una condizione di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto. L’utilizzo della congiunzione “ovvero” ha indotto la dottrina ad individuare un rapporto di alternatività tra le due ipotesi. Ciò significa che lo stato di minorata difesa può determinare l’applicabilità della scusante a prescindere dall’accertamento della condizione di grave turbamento in cui si sia trovato il soggetto agente127. C. F. Grosso, La legittima difesa dopo la L. 26 aprile 2019, n. 102, in Dir. pen. proc., 2019, p. 891. 126 C. F. Grosso, La legittima difesa dopo la L. 26 aprile 2019, n. 102, cit., p. 891. L’Autore, però, sembrerebbe, propendere per la qualificazione della fattispecie come causa di non punibilità, anziché di scusante, anche se non prende una posizione specifica sul punto. 127 Sul tema in atteggiamento critico v. F. Bacco, Il “grave” turbamento della legittima difesa. Una prima lettura, cit., p. 58. Secondo l’Autore, infatti, sarebbe stato più corretto ricollegare le condizioni di minorata difesa alle condizioni di grave turbamento del soggetto agente, in un rapporto di causa-effetto. In questo modo, le condizioni di minorata difesa avrebbero costituito la cornice fattuale del grave turbamento, superando l’ostacolo interpretativo, che, come vedremo nel proseguo, è collegato all’interpretazione di tale requisito. La formulazione legislativa, 125
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Non sorgono particolari questioni in relazione alla prima delle due situazioni indicate, considerato il riferimento specifico alla fattispecie di cui all’articolo 61, n. 2, c.p., che disciplina l’aggravante della minorata difesa. È necessario, dunque, che il Giudice valuti, caso per caso, se l’agente si sia approfittato delle condizioni oggettive e soggettive in cui si trovava la vittima, condizioni che ne avrebbero effettivamente ostacolato la difesa. Si tratta, nello specifico, di tutte le situazioni, legate a fattori ambientali o personali, per effetto delle quali la vittima del reato si trova nell’impossibilità di difendersi. La valutazione da parte del Giudice deve essere condotta su un piano meramente oggettivo, alla luce del contesto e delle dinamiche in cui si è realizzata l’aggressione stessa e, dunque, in considerazione delle circostanze concrete in cui si è svolta la difesa. Non trovano, dunque, spazio le presunzioni legate ai luoghi o all’orario in cui si è svolta l’aggressione128. basata sull’alternatività tra i due requisito, avrebbe, invece, creato una situazione di commistione tra profili oggettivi e soggettivi, che minerebbe la coerenza stessa della disposizione. R. Bartoli, Verso la “legittima difesa”. Brevi considerazioni sulla riforma in itinere della legittima difesa, in Dir. pen. contem., 2019, p. 22, muovendo da tali considerazioni, ritiene che la previsione di cui all’articolo 55, n. 2, c.p. sia in linea generale inutile o quanto meno controproducente. Secondo l’Autore, non si comprende il motivo per cui il legislatore abbia sancito l’irresponsabilità dell’agente nell’ipotesi di cui all’art. 52, commi 2, 3 e 4, c.p., e abbia previsto, al contempo, per le identiche situazioni una causa di non punibilità, legata a fattori ulteriori. L’Autore sostiene a questo proposito la mala fede del legislatore, mosso dalla consapevolezza che prima o poi le presunzioni di proporzionalità e necessità della difesa sono destinate a diventare incostituzionali. Di conseguenza, sono state previste ipotesi differenti, destinate ad essere applicate proprio in tale eventualità. 128 Sul tema: F. Bacco, Il “grave” turbamento della legittima difesa. Una prima lettura, cit., p. 58, che richiama a tal proposito l’orientamento recente della Cassazione penale, in ordine all’applicabilità dell’articolo 61, n. 5, c.p.; D. Piva, Oggettivo e soggettivo nell’eccesso di difesa per “grave turbamento”, cit., p. 660: «(…) dovendosi apprezzare, nel complesso e in modo rigoroso, nell’ottica di un’interpretazione teleologica dello stesso art. 55 cpv. c.p., non già la sola ricorrenza della condizione in astratto (ad esempio del tempo di notte o del luogo isolato) quanto l’intervento di un effettivo ostacolo alla difesa “non agevolmente superabile” che, sulla base di un giudizio ex ante sul modello dell’agente razionale, possa aver oggettivamente influito sull’errata valutazione della necessità di reagire in un determinato modo»; L. Risicato, Interferenze tra antigiuridicità, colpevolezza e punibilità nella nuova legittima difesa domiciliare, in Legisl. pen., 2019, p. 11.
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Le più difficili questioni interpretative si snodano, al contrario, in riferimento alla seconda delle condizioni previste dalla norma. Lo stato di grave turbamento, derivante dalla situazione di pericolo, richiama, infatti, il profilo meramente soggettivo in cui si è realizzata l’aggressione129. Già la stessa formulazione della norma, secondo gli Autori, aprirebbe il campo a diverse interpretazioni, che lascerebbero spazio ad una pericolosa tendenza alla non punibilità delle condotte di eccesso così realizzate. Infatti, come sostenuto da autorevoli commentatori, in caso di legittima difesa, è sempre riscontrabile una situazione di turbamento per effetto del pericolo derivante dall’aggressione stessa. Di conseguenza, l’applicabilità o meno della scusante dovrà basarsi necessariamente sulla valutazione della gravità o meno del turbamento, rimessa alla competenza del Giudice. Quest’ultimo, secondo Alcuni, sarà generalmente portato a riconoscere la gravità della situazione di turbamento così generata, considerando, soprattutto, che si tratta di fatti verificatisi in un luogo di privata dimora o ad esso assimilato130. F. Bacco, Il “grave” turbamento della legittima difesa. Una prima lettura, cit., p. 58, ha sottolineato un rischio di incongruenza della disposizione in esame rispetto alla previsione di cui all’art. 90 del codice penale, che esclude la rilevanza degli stati emotivi e passionali rispetto all’esclusione dell’imputabilità in capo al soggetto agente. Alla base di tale previsione vi è un intento pedagogico del legislatore, che esige nel soggetto agente la capacità di dominare le proprie passioni. In realtà, lo stato di grave turbamento, nell’ipotesi di cui all’art. 55, comma 2, c.p., è generato da un’aggressione ingiusta posta in essere da un terzo. Di conseguenza, il soggetto è del tutto estraneo e, dunque, incolpevole, rispetto al sorgere di tale situazione e, dunque, non appare in alcun modo contradditorio, riconoscere la sussistenza di una scusante in un simile contesto. 130 C. F. Grosso, La legittima difesa dopo la L. 26 aprile 2019, n. 102, cit., p. 891 ss.: «Nel caso del grave turbamento indotto dalla situazione di pericolo tale scelta apre invece praterie alla impunità, legittimando di fatto, quel che è più grave, ogni possibile reazione contro l’aggressore da parte dell’aggredito o di chi per lui. Turbamento, in caso di pericolo indotto da una aggressione, vi sarà sempre; il legislatore agli effetti della non punibilità non si è limitato a richiedere il turbamento, ma ha richiesto un turbamento “grave”, che potrebbe anche non esserci e teoricamente dovrebbe essere accertato caso per caso dal giudice; è legittimo tuttavia pensare che di fronte al rischio di essere condannato ogni soggetto che ha ecceduto i limiti della scriminante dichiarerà di avere agito in condizione di grave turbamento, e che il giudice, di fronte alla difficoltà di stabilire se il turbamento è 129
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La formulazione della norma porterebbe, dunque, a diverse problematiche, connesse all’ambito di applicabilità del concetto stesso di grave turbamento – formulazione piuttosto vaga – in grado di abbracciare situazioni piuttosto eterogenee tra di loro, che possono andare dal semplice disagio ad una situazione di vero e proprio panico. Uguali problematiche sussistono sul piano probatorio, considerato che si tratta di aspetti meramente psicologici, rispetto ai quali manca, ovviamente, un compiuto statuto a livello probatorio. A ciò si aggiunge, come già accennato, la mancata individuazione precisa del parametro della gravità, che assume un valore importante, perché rappresenta lo spartiacque rispetto all’applicazione stessa della scusante131. Di fronte alle criticità evidenziate, la dottrina ha cercato di individuare nuove chiavi interpretative della norma in maniera da superare le incertezze così prospettate. Innanzitutto, per superare l’indeterminatezza del linguaggio legislativo, una parte della dottrina ha prospettato l’applicazione al caso di specie dei principi stabiliti a livello giurisprudenziale in tema di stalking, di cui all’articolo 612 bis c.p.132. Con tale previsione viene, infatti, incriminata la condotta di atti persecutori, facendo leva sulla sussistenza di determinati fenomeni psichici, quali il perdurante stato di ansia e di paura della vittima e il fondato timore per
stato grave o non grave sarà portato a riconoscere sempre, o quasi sempre, la non punibilità (tanto più trattandosi di fatti che si sono verificati in un luogo di privata dimora o ad esso assimilato). Un risultato che, se risultasse confermato dalla esperienza, sarebbe sconcertante»; manifesta le stesse perplessità anche F. Consulich, La legittima difesa assiomatica, Considerazioni non populistiche sui rinnovati artt. 52 e 55 c.p., cit., p. 10, secondo il quale la previsione in esame, finirebbe per attribuire una vera e propria delega in bianco all’interprete, data l’assenza di fattori tipizzanti in grado di guidarne la definizione e l’accertamento. Secondo F. Macrì, Uno studio comparatistico dell’eccesso di difesa domiciliare nel nuovo art. 55 co. 2 c.p., cit., p. 43, è necessario che lo stato di minorata difesa abbia determinato il superamento dei limiti normativi della difesa in capo al soggetto agente. 131 V. le considerazioni di F. Consulich, La legittima difesa assiomatica, Considerazioni non populistiche sui rinnovati artt. 52 e 55 c.p., cit., p. 10. 132 G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, cit.
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la propria incolumità133. Gli elementi sintomatici dello stato di turbamento emotivo in cui si trova la vittima vengono ricondotti dalla giurisprudenza alle dichiarazioni rese dalla stessa, ai comportamenti posti in essere in risposta alla condotta dell’agente e alle modalità in cui la condotta lesiva si è realizzata, vale a dire in riferimento alle circostanze di tempo e di luogo in cui si è concretizzata134. Questa impostazione è stata, però, oggetto di profonde critiche, alla luce delle differenze non sormontabili tra le due fattispecie. Nel reato di stalking, infatti, lo stato di ansia o di paura in cui si trova la vittima è generato da una serie di condotte reiterate nel tempo, e rappresenta uno degli elementi costitutivi di una fattispecie incriminatrice e non di una scusante, al contrario di quanto avviene nella fattispecie di cui all’art. 55, comma 2, c.p., caratterizzata da contesto ed effetti differenti135. Come emerge dalla disposizione normativa, lo stato di grave turbamento deve derivare dalla situazione di pericolo di atto136. La
F. Bacco, Il “grave” turbamento della legittima difesa. Una prima lettura, cit., p. 66. 134 G. L. Gatta, La nuova legittima difesa nel domicilio: un primo commento, cit. 135 D. Piva, Oggettivo e soggettivo nell’eccesso di difesa per “grave turbamento”, cit., p. 662: «Nel contempo, neppure si omette di affrontare il tema più spinoso sotteso alla nozione del “grave turbamento” che, come noto, attiene al deficit di determinatezza, comprensivo della mancanza dei relativi indici di qualità (stenica o astenica) o gravità e alla difficoltà della sua prova in giudizio. Tanto più che – aggiungiamo noi – si tratta di espressione sinora mai utilizzata dal legislatore e rispetto alla quale neppure pare possibile mutuare gli assunti interpretativi raggiunti sull’analogo “stato di ansia o di paura” dello stalking (art. 612 bis c.p.) per l’obiettiva diversità non solo di origine (condotte reiterate/intrusioni istantanee) o di durata (perdurante l’uno, pressoché estemporaneo l’altro) ma anche e soprattutto di contesto (incriminazione/scusante) ed effetto (in malam o in bonam partem) potendo, peraltro, chi eccede nella difesa limitarsi a dichiarare di “aver agito in stato di turbamento” in quanto garantito dal principio del nemo tenetur se detegere». 136 La sussistenza del nesso di causalità – che deve sussistere tra la situazione di pericolo in atto e il grave turbamento in cui si trova il soggetto agente – permette di escludere la rilevanza della provocazione in contesti di questo tipo. Come sottolineato, infatti, dalla dottrina, l’attenuante della provocazione può trovare applicazione anche là dove la reazione si sia realizzata a distanza cronologica dal 133
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colpevolezza dell’agente può, dunque, essere esclusa nella misura in cui abbia origine nello stato di pericolo in cui si trova il soggetto agente. In virtù di ciò, saranno considerati irrilevanti quei fatti solamente occasionati e non connessi alla situazione in atto, vale a dire tutti quelli stati d’animo, determinati da condizioni preesistenti o semplicemente diverse rispetto all’aggressione stessa137. Questo aspetto è stato ribadito in maniera specifica nella lettera che il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha indirizzato ai Presidenti della Camera e del Senato della Repubblica contestualmente alla promulgazione della legge. Nella missiva emerge in maniera fatto provocatorio, manifestandosi come una condizione emotiva latente e riemergente. L’ammissibilità delle c.d. reazioni a fredde ai fini della riconoscibilità dell’attenuante permette di tracciare una linea di confine netta tra il turbamento psichico nell’eccesso colposo e l’attenuante stessa ex art. 62 c.p. Nell’interpretazione giurisprudenziali, infatti, la provocazione può trovare applicazione anche là dove le reazioni siano ben lontane dall’offesa iniziale, non riscontrandosi, dunque, quella situazione di contingenza, che è, al contrario, richiesta dall’art. 55, comma 2, c.p. (v. le considerazioni di F. Bacco, Il “grave turbamento” nella legittima difesa. Una prima lettura, cit., p. 63: «Nei casi considerati dal nuovo comma dell’art. 55, la reazione dovrà essere strettamente legata alla tempistica dell’aggressione, come si può desumere implicitamente dalla necessità che l’offesa ingiusta integri gli estremi di un pericolo attuale. Appare in questo senso più agevole stabilire i confini tra il turbamento psichico nell’eccesso colposo e l’attenuante della provocazione, istituto nel quale, come evidenziato, possono essere ricomprese anche reazioni “a freddo”, lontane dalle contingenze dell’offesa iniziale»; contra in ambito civilistico: C. Chessa, La legittima difesa novellata nel prisma della responsabilità civile, in Riv. dir. civ., 2020, p. 1311: «Lo stato di grave turbamento psichico derivante dalla situazione di pericolo in atto” utilizzata ai fini della non punibilità dell’eccesso colposo (art. 55, comma 2, c.p.), conferma, infatti, che il legislatore della novella ha voluto riservare a questo specifico stato soggettivo, al quale deve necessariamente ricondursi anche l’emotività propria della provocazione, il trattamento esimente della legittima difesa. Ne consegue, pertanto, che anche l’illecito compiuto dal provocato consentirà a costui di andare esente da responsabilità ex art. 2044, comma 3, sempreché, la sussistenza del presupposto del “pericolo in atto” generatore del grave turbamento psichico al quale si riferisce la norma contenuta nell’art. 55, comma 2, c.p., sia accertata soltanto in presenza della lesione di un diritto fondamentale della persona ovvero inerente il suo patrimonio»). 137 D. Piva, Oggettivo e soggettivo nell’eccesso di difesa per “grave turbamento”, cit., p. 662; in riferimento vedi anche le considerazioni di Cass. pen., 10 dicembre 2019, n. 49883, cit.
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chiara la necessità che la situazione di grave turbamento, oggetto di analisi, debba essere valutata in maniera obiettiva e tener conto, per l’appunto, del nesso eziologico, di cui si è detto, per consentire un’interpretazione e applicazione della norma conforme alla Costituzione138. Seguendo questa linea, i Giudici penali hanno affermato la necessità di una valutazione globale, che tenga conto di tutti gli elementi fattuali. In questo modo, sarà possibile accertare se e in quale misura il pericolo in atto «(…) possa aver determinato nell’agente un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa che costituisce oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa (…)»139. Nel corso della valutazione potranno, inoltre, essere utilizzati come parametri di riferimento anche la maggiore o minore lucidità manifestata dall’agente nel corso della reazione difensiva e la gravità del turbamento potrà essere parametrata alla gravità del rimprovero che, potenzialmente, potrebbe essere mosso all’agente secondo i principi ordinari in materia di colpa140.
Questo il testo della missiva: «L’art. 2 della legge, modificando l’art. 55 del codice penale, attribuisce rilievo decisivo “allo stato di grave turbamento derivante dalla situazione di pericolo in atto”: è evidente che la nuova normativa presuppone, in senso conforme alla Costituzione, una portata obiettiva del grave turbamento e che questo sia effettivamente determinato dalla concreta situazione in cui si manifesta». 139 Cass. pen., 10 dicembre 2019, n. 49883, cit. 140 Cass. pen., 10 dicembre 2019, n. 49883, cit.: «(…) occorrerà esaminare, con giudizio ancora una volta calibrato sulla globale considerazione di tutti gli elementi della situazione di specie, se, e in che misura, il pericolo in atto – per concretezza e gravità rispetto alla lesione dell’integrità fisica propria o altrui – possa aver determinato nell’agente un turbamento così grave da rendere inesigibile quella razionale valutazione sull’eccesso di difesa che costituisce oggetto del rimprovero mosso a titolo di colpa. Per poter fondare l’esclusione di responsabilità, peraltro, la gravità del turbamento non potrà non essere parametrata anche alla gravità del rimprovero che discenderebbe dall’applicazione degli ordinari parametri di ricostruzione del profilo di colpa. Ancora, utili parametri di riferimento per la valutazione della contingente situazione di turbamento possono essere costituiti dall’analisi circa la maggiore o minore lucidità e freddezza che hanno contraddistinto l’azione difensiva, anche nei momenti ad essa immediatamente precedenti e successivi». 138
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7.2. La corresponsione dell’indennità ex articolo 2044, comma 3, c.c.: il primo approccio della dottrina civilistica Come già detto, il legislatore della riforma è intervenuto anche sulle conseguenze civilistiche derivanti dall’eccesso colposo domiciliare, prevedendo all’art. 2044, comma 3, c.c., la corresponsione di un’indennità, la cui misura viene rimessa all’equo apprezzamento da parte del Giudice. Quest’ultimo, però, dovrà necessariamente attenersi ad una serie di criteri rappresentati dalla gravità, dalle modalità e dal contributo causale della condotta realizzata dall’agente. Secondo una parte della dottrina civilistica, la previsione dell’indennità testimonierebbe la volontà del legislatore di ufficializzare l’equiparazione tra causa di non punibilità ed esenzione da responsabilità civile in caso di legittima difesa141. In particolare, l’articolo 55, comma 2, c.c., prevedendo la non punibilità, escluderebbe il risarcimento del danno, ma non la previsione di un’indennità a favore del danneggiato, trattandosi di una pretesa che non presuppone la violazione del principio generale del neminem laedere142. Dal tenore di questa ricostruzione sembrerebbe che la definizione legislativa di non punibilità in caso di eccesso colposo domiciliare determini, in automatico, la sua qualificazione come causa di giustificazione. Ciò potrebbe essere legato al fatto che nell’art. 52 c.p., in materia di legittima difesa, il legislatore parla di “non punibilità” del soggetto agente. Di conseguenza, l’utilizzo della stessa espressione anche per l’eccesso colposo domiciliare sembrerebbe legittimare per la dottrina l’attribuzione della stessa qualificazione giuridica prevista per la legittima difesa. Ciò ha, ovviamente, importanti conseguenze dal punto di vista dogmatico. Le cause di giu C. Chessa, La legittima difesa novellata nel prisma della responsabilità civile, cit., p. 1303 ss.: «(…) deve ritenersi che il legislatore della novella, anche in ragione del fatto di essere ricorso ad un’unica legge speciale diretta a riformare l’istituto della legittima difesa contemporaneamente sia in ambito civilistico che penalistico, abbia voluto definitivamente sdoganare l’equazione tra esenzione da responsabilità». 142 C. Chessa, La legittima difesa novellata nel prisma della responsabilità civile, cit., p. 1304. 141
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stificazione, infatti, hanno un’efficacia universale, per cui rendono l’atto lecito in qualsiasi ramo dell’ordinamento giuridico e, conseguentemente, escludono il sorgere di una responsabilità risarcitoria in capo al soggetto agente. Tuttavia, il legislatore penale ha fatto un utilizzo piuttosto promiscuo dell’espressione “non punibile”. Di conseguenza, il fatto che venga utilizzata quest’espressione non è dirimente rispetto alla distinzione dogmatica tra cause di giustificazione, scusanti e cause di non punibilità in senso stretto143. Per questo motivo appare chiaro come la stessa dottrina penalistica abbia fornito una qualificazione dogmatica differente rispetto alla fattispecie dell’eccesso colposo domiciliare, che, come già accennato, viene considerato come una scusante e non come una causa di giustificazione o causa di non punibilità in senso stretto. Le differenze a livello dogmatico tra le varie categorie giuridiche sono consistenti. Innanzitutto, le scusanti, dette anche cause di esclusione della colpevolezza, intervengono nel momento in cui venga realizzato un fatto tipico ed antigiuridico, ma, ciò nonostante, non possa essere mosso alcun rimprovero al soggetto agente. L’ordinamento giuridico, infatti, mostra di considerare i riflessi psicologici che il soggetto stesso si trova a vivere in riferimento alla particolare situazione che deve affrontare. In virtù di ciò, l’ordinamento decide di non applicare la sanzione al reo, perché non si intende aggravare la situazione già complicata in cui si trova144. A differenza di quanto avvenga per le cause di giustificazione, che incidono sull’antigiu143 G. Pioletti, voce Punibilità (cause di esclusione della), in Dig. disc. pen., X, Torino, 1995, p. 524 ss.: «Appare evidente, quindi, che la formula generica utilizzata dalla legge «non è punibile», «la punibilità è esclusa» ed altre simili non importa alcuna presa di posizione dogmatica da parte del legislatore che anzi sembra che abbia opportunamente lasciato all’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza la costituzione delle categorie nell’ambito di tale indistinta non punibilità – che linguisticamente pone in primo piano la sola inapplicabilità della pena – fondate sulle cause che tale non punibilità determinano, se di giustificazione, comune o speciale, se scusante, comune o speciale, se infine di sola inapplicabilità della pena, con le conseguenze che da tale loro determinata natura discendono». 144 M. Romano, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, in Riv.it. dir. proc. pen., 1990, p. 59.
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ridicità del fatto, nelle scusanti viene mantenuto fermo il disvalore a livello oggettivo del comportamento realizzato, che continua ad essere antigiuridico dal punto di vista obiettivo. Nonostante ciò, la situazione specifica in cui si trova il soggetto agente preclude un giudizio di colpevolezza. Ciò significa, quindi, che l’ordinamento stesso ritiene non colpevole l’autore del fatto, sebbene il fatto conservi la propria antigiuridicità145. Inoltre, l’accertamento di una scusante, se esclude la colpevolezza in sede penale e, dunque, l’applicazione della pena, non elimina, però, l’antigiuridicità del fatto e, di conseguenza, gli effetti sul piano civilistico, come testimonierebbe la stessa previsione dell’indennità ex art. 2044, comma 3, c.c.146. Detto ciò, come già evidenziato, una parte della dottrina civilistica riconduce di fatto l’eccesso colposo domiciliare nell’ambito delle cause di giustificazione. Ciò significa che, in presenza delle condizioni di cui all’articolo 55, comma 2, c.p., l’eccesso colposo non costituirà più un illecito. In questo senso, infatti, viene eliminata l’antigiuridicità del fatto e verranno meno tutte le conseguenze sul piano penale e civile. Muovendo da questi presupposti, l’eccesso colposo domiciliare sembrerebbe equiparato, di fatto, allo stato di necessità. L’equiparazione tra le due fattispecie viene argomentata non solo sul piano dogmatico – trattandosi di cause di giustificazione – ma soprattutto in riferimento all’indennità prevista in entrambi i casi a favore del soggetto danneggiato147. L’indennità di cui all’arti-
M. Romano, Cause di giustificazione, cause scusanti, cause di non punibilità, cit., p. 61: «Qui l’esonero da pena non si spiega più con una valutazione oggettiva di liceità come per le cause di giustificazione; accanto al permanere di una dimensione di oggettivo disvalore (…) piuttosto l’ordinamento mostra di tenere in speciale conto i riflessi psicologici della situazione esistenziale che il soggetto si trova a vivere. Le ragioni oggettivi per “tenere ferma” la norma di incriminazione e il significato di disvalore astratto e generale del fatto che vi corrisponde vi sono ancora tutte ed integre;(…) solo che, in considerazione della particolare situazione che l’agente si trova a dover affrontare, l’ordinamento penale “non se la sente” di incrudelire con una sua sanzione». 146 Sul tema, già citato: A. Roiati, Il grave turbamento emotivo e l’inesigibilità per contesto e per tipo di autore, cit., p. 19. 147 C. Chessa, La legittima difesa novellata nel prisma della responsabilità civile, cit., p. 1304. 145
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colo 2044, comma 3, c.c. presenterebbe, infatti, tutti i caratteri che contraddistinguono a livello dogmatico la categoria giuridica. Nello specifico, l’indennità prevista in caso di eccesso colposo domiciliare svolgerebbe una funzione compensativo/riparatoria, volta a lenire il pregiudizio subito dalla vittima, senza, però, ripristinare lo status quo, antecedente al verificarsi dell’evento. Inoltre, è presente anche in questo caso il richiamo all’equità giudiziale, che si sostanzia nella c.d. giustizia distributiva, diretta a ripartire equamente le conseguenze del comportamento scriminato148. Alla luce di queste argomentazioni, si ritiene che la funzione svolta dall’indennità in caso di eccesso colposo domiciliare sia la stessa che la caratterizza nello stato di necessità. Conseguentemente, secondo questa impostazione, è possibile parlare di un sistema indennitario unico, le cui regole sono valevoli per entrambe le fattispecie. In sostanza, dunque, nell’eccesso colposo domiciliare l’indennità svolgerebbe la stessa funzione redistributiva, che la caratterizza in caso di comportamento necessitato149. C. Chessa, La legittima difesa novellata nel prisma della responsabilità civile, cit., p. 1304: «Quanto, invece, alla natura giuridica dell’indennità, deve ritenersi che non sussistano ragioni per discostarsi dal nomen iuris attribuito dal legislatore alla figura in questione. A suffragare tale conclusione valgono due elementi. Il primo è dato dall’evidente funzione compensativo/riparatoria dello strumento utilizzato in quanto diretto esclusivamente a lenire il nocumento subito dalla vittima dell’eccesso colposo scriminato, senza, tuttavia, ripristinare la situazione quo ante in cui si trovava quel soggetto. L’altro si rinviene, invece, nel richiamo della norma all’equità giudiziale che nella fattispecie considerata si manifesta attraverso la salvaguardia di colui che, nel conflitto con l’autore del comportamento scriminato, ha subito un pregiudizio derivante dall’atto privo di antigiuridicità`. Si tratta, dunque, di una vera e propria pretesa di natura indennitaria che, insieme ad altre analoghe ipotesi ravvisabili nel nostro ordinamento (quali, ad esempio, quelle previste dagli artt. 1017, 1032, 2045), testimonia l’attenzione del legislatore anche verso la posizione del soccombente in presenza di un bilanciamento tra più interessi tra loro confliggenti». 149 C. Chessa, La legittima difesa novellata nel prisma della responsabilità civile, cit., p. 1305 ss. In virtù di ciò, l’Autore arriva a ritenere che la previsione di cui all’articolo 2044, comma 3, c.c., sarebbe inutiliter data, considerata la possibilità di rinviare direttamente all’art. 2045, c.c., riguardante lo stato di necessità. Sull’analogia tra le due previsioni v. in ambito penale le riflessioni di L. Risicato, Interferenze tra antigiuridicità, colpevolezza e punibilità nella nuova legittima di148
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Questa impostazione è stata, però, oggetto di critiche, proprio alla luce dell’equiparazione così prospettata tra l’art. 2044, comma 3, c.c. e lo stato di necessità. Secondo una parte della dottrina non si può parlare di similitudini tra le due disposizioni. Ciò a causa dei differenti criteri scelti dal legislatore per la determinazione della prestazione indennitaria150. In particolare, nell’eccesso colposo domiciliare la misura dell’indennità ex art. 2044, comma 3, c.c. non viene solamente rimessa all’equo apprezzamento del giudice, così come nello stato di necessità, ma, al contrario, il legislatore ha previsto una serie di criteri da seguire per la sua determinazione. Il Giudice dovrà valutare, nello specifico, la rilevanza della condotta posta in essere dal danneggiato, in relazione alla gravità, alle modalità realizzative e al suo contributo causale rispetto alla determinazione dell’evento lesivo151. Nello stato di necessità, invece, il Giudice non è vincolato a regole prestabilite, ma dovrà unicamente dar conto del processo logico seguito per la determinazione dell’indennità. Ciò sarebbe legato al ruolo che assume l’indennità nello stato di necessità, come bilanciamen-
fesa domiciliare, cit., p. 17, secondo il quale emergerebbe un’equiparazione incongrua tra il trattamento risarcitorio riservato al terzo incolpevole nello stato di necessità e quello garantito all’aggressore domiciliare, che abbia subito l’eccesso dell’aggredito. 150 L. Castelli, Profili civilistici della riforma in materia di legittima difesa, cit., p. 1022 ss.; sulla stessa linea anche F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, cit., p. 42 ss., sebbene in chiave critica rispetto alla posizione sostenuta dall’Autrice. 151 L. Castelli, Profili civilistici della riforma in materia di legittima difesa, cit., p. 1022: «A prima vista sorge spontaneo un parallelismo con la previsione stabilita dal codice civile in caso di stato di necessità; senonché un più attento confronto tra le due disposizioni, congiunto con l’analisi del rimedio utilizzato dalla giurisprudenza in questi anni nel caso di eccesso colposo – risarcimento del danno diminuito sulla base dell’art. 1227 c.c. – evoca una somiglianza più con quest’ultimo che non quello previsto dal legislatore dall’art. 2045 c.c. Si consideri anzitutto che per la misura dell’indennità sancita da quest’ultima norma si fa riferimento al solo equo apprezzamento del giudice, laddove l’art. 2044 c.c. detta alcuni criteri tramite i quali commisurarla, che tengono conto del fatto che la condotta del soggetto danneggiato è pur sempre una causa della reazione (seppur eccessiva)».
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to tra il vantaggio conseguito dall’agente e il danno subito dal terzo incolpevole152. Le regole che vincolano il Giudice nella determinazione dell’indennità ricorderebbero, secondo questo orientamento, i criteri indicati dal legislatore per calcolare la diminuzione del risarcimento in caso di concorso colposo del danneggiato ex art. 1227, comma 1, c.c., che, come già approfondito, rappresenta la norma di riferimento per la quantificazione del danno in caso di eccesso colposo generico153. In virtù di ciò, seguendo questa impostazione, la differenza tra eccesso colposo generico ed eccesso colposo domiciliare rimarrebbe unicamente sul piano teorico, sotto il profilo delle conseguenze poste in capo al soggetto agente: risarcimento nel primo caso – seppur diminuito con l’applicazione dell’art. 1227, comma 1, c.c. – indennità in caso di eccesso colposo domiciliare. A livello concreto, però, la misura del risarcimento e quella dell’indennità andrebbero a coincidere, perché determinati sulla base di criteri analoghi154. Ciò motiverebbe, secondo la dottrina, l’applicazione del medesimo regime prescrizionale quinquennale155, arrivando ad L. Castelli, Profili civilistici della riforma in materia di legittima difesa, cit., p. 1022, che riprende espressamente le considerazioni di B. B. Troisi, Lo stato di necessità nel diritto civile, Napoli, 1988, p. 106. 153 L. Castelli, Profili civilistici della riforma in materia di legittima difesa, cit., p. 1022. 154 L. Castelli, Profili civilistici della riforma in materia di legittima difesa, cit., p. 1022. 155 L. Castelli, Profili civilistici della riforma in materia di legittima difesa, cit., p. 1023. Ciò sarebbe motivato anche alla luce delle caratteristiche stesse dell’evento lesivo, determinato in entrambi i casi da un eccesso colposo nella legittima difesa, seppur contraddistinto da situazioni e condizioni diverse in cui l’agente si è trovato ad agire. Proprio alla luce di ciò, l’Autrice si è interrogata sulle motivazioni, che hanno spinto il legislatore ad introdurre tale disposizione, riconducibili probabilmente alla necessità di prevedere una forma di ristoro attenuata nelle peculiari situazioni di minorata difesa e di grave turbamento. A questo proposito, in ambito penalistico, sono interessanti le osservazioni di F. Macrì, Uno studio comparatistico dell’eccesso di difesa domiciliare nel nuovo art. 55 co. 2 c.p., cit., p. 33, secondo il quale si pone il problema di verificare se, a livello concreto, troveranno applicazione i parametri individuati dalla legge, che si avvicinano a quelli indicati dall’articolo 1227, comma 1, c.c., oppure la determinazione dell’indennità si baserà sulla valutazione sulle condizioni di minorata 152
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azzerare in questo modo la differente qualificazione dogmatica tra risarcimento e indennità. Proprio questa conclusione ha suscitato diversi dubbi. L’applicazione di fatto dell’articolo 1227, comma 1, c.c. rovescerebbe la necessaria distinzione tra le due categorie del risarcimento e dell’indennità, basata su presupposti e origini completamente differenti. L’applicazione del concorso di colpa del danneggiato presuppone, infatti, la sussistenza di una responsabilità risarcitoria in capo al soggetto agente e, dunque, costituisce un effetto stesso del giudizio di responsabilità, al contrario dell’indennità, che richiama concetti differenti legati alla nozione stessa di solidarietà sociale o di arricchimento ingiustificato, a seconda delle varie posizioni dottrinali156. I due orientamenti descritti mostrano entrambi dei punti critici, che ruotano attorno alla qualificazione giuridica dell’eccesso colposo domiciliare e alle conseguenze previste in ambito civilistico. A partire da questa constatazione, si pone il problema di verificare come, dal punto di vista dogmatico, il danno determinato dalla violazione di una norma penale possa dar luogo ad un trattamento di favore in capo al danneggiante stesso. Quest’analisi riporta alla necessità di indagare il rapporto tra indennità e risarcimento e liceità/illiceità del fatto compiuto. Analisi, però, non resa agevole dalle espressioni utilizzate dal legislatore che, nell’art. 2044, comma 3, c.c., parla da un lato di indennità rimessa all’equo apprezzamento da parte del Giudice e dall’altro rimanda a profili risarcitori, parlando di condotta realizzata dal danneggiato. 7.3. (segue) L’indennità ex articolo 2044, comma 3, c.c. tra liceità ed illiceità dell’eccesso colposo domiciliare Il primo punto da chiarire è se il legislatore, a prescindere dal nomen iuris utilizzato nell’art. 2044, comma 3, c.c., abbia inteso difesa o di grave turbamento, che rappresentano i presupposti stessi dell’eccesso colposo domiciliare. 156 F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, cit., p. 42 ss.
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qualificare l’eccesso colposo domiciliare come un atto illecito, da cui deriva una responsabilità risarcitoria seppur attenuata, oppure come atto lecito dannoso, al pari di quanto sostenuto dalla dottrina sopra analizzata. La risposta a tale quesito comporta, anzitutto, un approfondimento sui caratteri distintivi che intercorrono tra l’obbligazione risarcitoria e quella indennitaria. La necessità di una distinzione è, infatti, di fondamentale importanza non solo sul piano dogmatico, ma anche in relazione agli effetti pratici che ne derivano. Il primo effetto riguarda la ripartizione dell’onere probatorio. In caso di risarcimento, il danneggiato sarà tenuto a provare la colpa del danneggiante in conformità ai principi in materia, al contrario di quanto avviene per il creditore dell’indennità. Ulteriori effetti riguardano anche l’applicazione del regime prescrizionale, che è quinquennale in caso di risarcimento del danno e decennale, invece, nell’ipotesi di obbligazione indennitaria157. Secondo l’impostazione tradizionale e più risalente il risarcimento avrebbe una funzione sanzionatoria, legata al concetto di ingiustizia del danno, e sorgerebbe unicamente in presenza di un atto illecito, inteso come atto antigiuridico e colposo. All’indennità viene, invece, ricollegata una funzione reintegratoria, che mira ad evitare l’ingiustificato arricchimento a vantaggio dell’autore del danno. L’obbligazione indennitaria, inoltre, può sorgere non solamente in presenza di un atto lecito, ma anche di un atto antigiuridico ma non colposo (o doloso). I casi di cui agli articoli 2045 c.c. (stato di ne157 S. Ciccarello, voce Indennità (diritto privato), in Enc. dir., XXI, Milano, 1971, p. 104. Oltre alle differenze sopra indicate, secondo G.A. Nuti, La garanzia della responsabilità patrimoniale, Milano, 1954, p. 85, la prestazione d’indennità non può attuarsi in forma specifica. Sul punto v. le riflessioni di M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, cit., p. 35 ss., secondo il quale l’applicabilità del termine prescrizionale decennale ai c.d. atti leciti dannosi costituisce una costruzione concettuale, priva di qualsiasi risvolto a livello positivo. Inoltre, non è possibile escludere aprioristicamente la risarcibilità in forma specifica delle ipotesi di indennità, data l’assenza di qualsiasi riferimento normativo in merito. Di conseguenza, anche in tali casi dovrà ammettersi la risarcibilità in forma specifica, a meno che il caso concreto non imponga diversamente, come del resto già previsto dall’art. 2058 c.c.
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cessità) e 2047 c.c. (danno cagionato da incapace) vengono, infatti, qualificati come ipotesi di responsabilità oggettiva158. Questa visione ricollega in maniera netta il risarcimento all’illiceità del comportamento e l’indennità alla liceità o alla non colpevolezza dell’agente, generando, però, molteplici critiche. Secondo autorevole dottrina, infatti, tale teoria risentirebbe di una concezione ormai superata della responsabilità civile come reazione all’illecito e non come reazione al danno ingiusto. In quest’ultimo senso, la responsabilità perderebbe la sua funzione sanzionatoria e si prospetterebbe come strumento in grado di addossare ad altri le conseguenze dannose in conformità al principio di giustizia distributiva159. A ciò si aggiungerebbe il fatto che il termine indennità viene utilizzato in maniera piuttosto promiscua dal legislatore, non potendo così assumere nessuna valenza sul piano della liceità 158 F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), XVIII ed., ampliata e rifatta, v. III, p. I, t. 2, Milano, 1954, p. 512 ss. e, in particolare, p. 513: «(…) l’indennità presuppone, o assenza di illiceità dell’atto dannoso, o incolpevolezza dell’autore del danno e che, se indennità può darsi anche in caso di atto illecito, non è concepibile risarcimento in materia di atto lecito, o di atto illecito non colposo (o non doloso)». Deve essere sottolineato il fatto che il termine illiceità viene ricollegato al concetto di antigiuridicità obiettiva, per questo motivo viene fatta emergere la distinzione tra atto illecito e atto illecito colposo o non colposo; sulla stessa linea anche M. Briguglio, Lo stato di necessità, cit., p. 161 ss., e G. A. Nuti, La garanzia della responsabilità patrimoniale, Milano, 1954, p. 85 ss. Di recente, v. anche le riflessioni di C. Bonauro, Responsabilità da atto lecito dannoso, Milano, 2012, p. 123 ss. e 139 ss. 159 R. Scognamiglio, voce Indennità, in Noviss. Dig. It., VIII, Torino, 1962, p. 594: «(…) l’errore inerisce di già al presupposto della distinzione in esame: l’alternativa che si delinea tra danno da illecito o antigiuridico e danno da atto illegittimo o antigiuridico. Alla quale va replicato (…) che nella materia contemplata non si pone tanto per il diritto il problema di reagire con adeguata energia al danno dipendente dall’atto dell’uomo, che si pretende illecito, quanto l’altro di prospettare rimedi idonei nei confronti del danno come lesione di un bene protetto (…). E che di conseguenza il baricentro della responsabilità civile va ricondotto proprio al danno in quanto rappresenta l’oggetto dell’obbligo di risarcimento; il quale non costituisce a sua volta più la sanzione contro l’atto dannoso, che oltre tutto spesso non ricorre (come nei casi di responsabilità oggettiva), ma il mezzo tecnico per addossare ad altri il danno, qualora concorrano le fattispecie ipotizzate dall’ordinamento, risolvendosi così il correlativo conflitto di interessi secondo le esigenze della giustizia distributiva».
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o illiceità del comportamento160. La previsione legislativa dell’indennità o del risarcimento del danno non sarebbe, dunque, dirimente rispetto alla qualificazione giuridica del comportamento da cui il danno trova la propria origine e, di conseguenza, la liceità o illiceità del comportamento stesso non può rappresentare un criterio distintivo tra risarcimento del danno e indennità161, sebbene
R. Scognamiglio, voce Indennità, cit., p. 595. A riprova di ciò (v. p. 595), l’Autore indica le ipotesi di cui agli articoli 925, 1053 e 1328 c.c. (qualificati come atti leciti dannosi), in cui il legislatore avrebbe, in realtà, indicato il termine indennità come sinonimo di risarcimento del danno e lo avrebbe fatto, secondo l’Autore, proprio per evidenziare le peculiarità della fattispecie di responsabilità, derivante da atto lecito o, comunque, da atto conforme al proprio diritto; sulla stessa linea, v, anche G. Torregrossa, Il problema della responsabilità da atto lecito, Milano, 1064, p. 149 ss. e di recente: M. Franzoni, sub art. 2044, cit., p. 114: «(…) non sia possibile costruire alcunché a partire dalla nozione di indennità o di indennizzo, posto che il legislatore l’ha impiegata con almeno tre diversi significati: a) come corrispettivo per il sacrificio di un diritto, nell’esproprio, nella costituzione di una servitù coattiva, nell’accessione invertita; b) come criterio per determinare la prestazione contrattuale assicurativa; c) come sinonimo di risarcimento. Pertanto, non si può costruire la figura dell’atto lecito dannoso legandola a quella di indennizzo (…)»; sulla stessa linea anche M. Comporti, Le responsabilità presunte, cit., p. 38; G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 27 e P. Perlingieri, La responsabilità civile tra indennizzo e risarcimento, cit., p. 1067; contra M. Briguglio, Lo stato di necessità, cit., p. 160, secondo il quale l’esame dei testi legislativi consente la possibilità e la necessità di una distinzione tra risarcimento e indennità a prescindere dall’uso promiscuo dei termini, che viene fatta dal legislatore. 161 P. Rescigno, voce Obbligazioni (dir. priv.), in Enc. dir., vol. XXIX, Milano, 1979, p. 158: «(…) il risarcimento del danno come obbligazione che discende dal fatto illecito può trovar fonte anche in atti non qualificabili come illecito (generalmente preferendosi allora, dalla legge, i termini ‘indennizzo’ o ‘indennità’); dal fatto illecito può derivare, piuttosto che l’obbligazione di risarcire (nella forma della reintegrazione o in quella della riparazione per equivalente), l’obbligo di indennizzo, il cui oggetto è determinato con prudente apprezzamento equitativo del giudice. Per solito l’indennità, sia che venga collegata a figure di illecito, sia che a produrla intervenga un atto lecito dannoso, e quando non debba fissarsi con un giudizio di equità, rimane pur sempre legata a valutazioni riferite ai soggetti od all’oggetto dell’obbligo, valutazioni che presentano margini di discrezionalità ed in ogni caso prescindono dalla rigorosa misura del pregiudizio sofferto (…)»; più recentemente sul tema: M. Comporti, Le responsabilità presunte, cit., p. 38; G. Giacobbe, Artt. 2044 e 2045, cit., p. 27; contra C. Bonauro, Responsabilità da atto lecito dannoso, Milano, 2012, p. 139 ss. 160
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quest’ultima formula venga utilizzata generalmente dal legislatore in riferimento agli atti leciti162. Un ulteriore elemento distintivo tra risarcimento e indennità è stato, invece, individuato sotto il profilo quantitativo, in relazione, alla misura della prestazione. Secondo una parte della dottrina l’indennità non può estendersi fino a ricomprendere il mancato guadagno, contrariamente al risarcimento, per cui vengono quantificati sia il danno emergente sia il lucro cessante163. Questa impostazione, però, non troverebbe conferma nel diritto positivo. Nel Codice civile sono, infatti, presenti diverse disposizioni – come, ad esempio, gli articoli 1671 e 2227 – in cui viene previsto il ristoro del mancato guadagno a titolo di indennità, e specularmente anche ipotesi in cui il risarcimento, propriamente detto, comprende unicamente il danno emergente164. In ogni caso, a prescindere da tali considerazioni, si ritiene che la misura dell’indennità non possa essere superiore al risarcimento stesso165. Ciò, infatti, porterebbe ad un arricchimento del danneggiato, configurando l’indennità come una misura di carattere sanzionatorio166. Sotto il profilo quantitativo, merita, altresì, di essere approfondita la teoria secondo cui la misura dell’indennità dipenderebbe dalla determinazione equitativa del Giudice e costituirebbe, per tale motivo, un minus rispetto al risarcimento del danno167. In al-
P. Rescigno, voce Obbligazioni (dir. priv.), cit., p. 157. F. Messineo, Manuale di diritto civile e commerciale (Codici e norme complementari), v. III, p. I, t. 2, cit., p. 512 e anche A. Ravazzoni, La riparazione del danno non patrimoniale, Milano, 1962, p. 163 ss. 164 G. Tucci, La risarcibilità da atto lecito nel diritto civile, cit., p. 250; di recente v. anche le osservazioni sul punto di P. Perlingieri, La responsabilità civile tra indennizzo e risarcimento, cit., p. 1068 ss. 165 In giurisprudenza v. Cass. civ., 20 agosto 1062, n. 2603, in Arch. resp. civ., 1964, p. 245; in dottrina: C. Caricato, Danno e indennità, cit., p. 62, nota 113; P. G. Monateri, La responsabilità civile, cit., p. 257 ss.; contra P. Rescigno, voce Obbligazioni (dir. priv.), cit., p. 157. 166 C. Caricato, Danno e indennità, cit., p. 62, nota 113. 167 Sul tema G. A. Nuti, La garanzia della responsabilità patrimoniale, cit., p. 85: «La prestazione d’indennità (…) può essere anche minore rispetto all’equivalente del risarcimento del danno sia perché così è stato convenuto tra le parti, 162
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cuni casi, infatti, come nelle fattispecie di cui agli articoli 2045 e 2047 c.c., il legislatore fa riferimento al concetto di equità, come aggettivo associato all’indennità oppure in relazione all’equo apprezzamento del Giudice. L’utilizzo di tali espressioni, secondo questa impostazione, legittimerebbe l’applicazione dell’articolo 1226 c.c., a prescindere dall’impossibilità della prova del danno che rappresenta il presupposto per l’applicabilità della disposizione168. Si tratterebbe di ipotesi particolari, in cui la determinazione del danno non sarebbe vincolata alla prova quantitativa, ma sarebbe, al contrario, rimessa alla determinazione equitativa del giudice, titolare di un potere, che viene definito come “discrezionale arbitrio”. Ciò consentirebbe, secondo questa visione, di realizzare una migliore giustizia sul piano concreto, considerando la particolare natura del danno e le peculiarità che contraddistinguono le diver-
come nel contratto di assicurazione, o stabilito dalla legge, come nel caso di revoca della proposta contrattuale (1328 cod. civ.), o infine dal giudice secondo un apprezzamento equitativo indipendente dalla impossibilità di un’esatta valutazione del danno (1226 cod. civ.) come nei casi di indennità dovuta dall’incapace (2047 cod. civ.) o per il danno che risulti essersi verificato in conseguenza di uno stato di necessità (…); sulla stessa linea per maggiori approfondimenti A. De Cupis, Il danno, I, cit., p. 583 ss. Per un approfondimento in materia v. C. Caricato, Danno e indennità, Torino, 2012, p. 53 ss. 168 A. De Cupis, Il danno, I, cit., p. 584: «(…) abbiamo detto che, a differenza dell’arbitrio della legge o delle parti (operante nella liquidazione legale o convenzionale del danno), l’arbitrio equitativo del giudice può esplicarsi solo nell’impossibilità della prova, svolgendo una funzione suppletiva della stessa prova, sussidiaria rispetto ad essa. Questa, precisamente, è la regola: regola che è, eccezionalmente derogata, in basa ad una considerazione di opportunità fatta dal legislatore. Questo giudica opportuno, rispetto a talune ipotesi di danno, aventi particolare natura, non vincolare la liquidazione del danno alla prova della sua entità quantitativa, considerata in relazione agli attributi legali, che la delimitano (…): ritiene preferibile, rispetto a queste ipotesi, rimettere la liquidazione al discrezionale arbitrio del giudice, alla sua equitativa valutazione, meglio adatta alla particolare natura delle stesse ipotesi. Il legislatore, per l’appunto, ritiene che, allora la migliore giustizia, in relazione alla peculiarità della specie, possa realizzarsi mercé la prudente equità del giudice». In questo modo si attua, dunque, una sovrapposizione tra la valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. e la valutazione equa dell’indennità contra A. Ravazzoni, La determinazione del danno non patrimoniale, cit. p. 166 ss.
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se fattispecie169. Il riferimento all’equità, dunque, inciderebbe sulla determinazione quantitativa della prestazione e legittimerebbe un intervento arbitrario da parte del Giudice. Inoltre, con l’applicazione dell’art. 1226 c.c. si realizzerebbe una deroga rispetto ai principi in materia di ripartizione dell’onere probatorio. Infatti, si consentirebbe la determinazione dell’indennità a prescindere dalla prova stessa del danno170. Queste conclusioni sono state profondamente criticate e sono tuttora oggetto di discussione in ambito dottrinale. Si ritiene, innanzitutto, che non si possa prescindere dalla prova del danno nella determinazione dell’indennità, non solo perché non vi sono ragioni per derogare alle regole in materia di onere probatorio, ma anche e soprattutto perché il Giudice, in questo modo, potrà avere ben presenti gli ambiti economici in cui si trova a dover operare. Infatti, per quanto il Giudice possa determinare l’entità dell’indennità in misura inferiore al risarcimento – in ragione delle circostanze specifiche del caso – l’entità dell’indennità non potrà mai allontanarsi in maniera eccessiva dall’entità del pregiudizio, perché correrebbe il rischio di diventare irrisoria171. Inoltre, non è possibile sostene-
169 A. De Cupis, Il danno, I, cit., p. 584 ss. Nello specifico, in riferimento allo stato di necessità, la determinazione dell’indennità rimessa al Giudice, risponde alla particolare tipologia di danno verificatisi – trattasi, secondo l’Autore di danno non antigiuridico, perché arrecato senza violazione del diritto – e delle particolari circostanze in cui si è realizzato. In relazione, invece, all’ipotesi di cui all’art. 2047 c.c., cioè al danno cagionato da soggetto incapace, A. De Cupis mette in luce il fatto che la determinazione sia rimessa all’equo apprezzamento da parte del Giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti. Ciò comporterebbe, dunque, un vincolo rispetto all’esercizio del c.d. arbitrio equitativo da parte del Giudice. In questo senso, dunque, l’ammontare del danno corrisponderebbe a quel quantum che il Giudice reputi equo rispetto alle condizioni economiche delle parti. 170 Sul punto, in posizione fortemente critica, v. le riflessioni di C. Caricato, Danno e indennità, cit., p. 56 ss. 171 C. Caricato, Danno e indennità, cit., p. 56 ss. e, in particolare, p. 57: «Ad esempio, se il magistrato deve condannare il danneggiante ad un ammontare miliardario, la considerazione della sussistenza di una situazione di necessità, unitamente a tutte le circostanze del caso concreto, gli permetteranno di determinare l’indennità in misura inferiore al risarcimento, ma per quanto si allontani da quel-
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re una sovrapposizione tra equo apprezzamento e determinazione equitativa ex art. 1226 c.c. Infatti, il criterio equitativo applicato dal giudice consente di avvicinarsi con il più elevato grado di approssimazione alla perdita effettivamente subita, nel caso in cui non possa essere provata nel suo preciso ammontare, al contrario dell’equo apprezzamento, che consente di attribuire una somma soddisfacente secondo le esigenze di giustizia172. È proprio il riferimento al concetto di giustizia, che va a caratterizzare il ricorso generale all’equità. In alcuni casi, come nello stato di necessità ex art. 2045 c.c., vi è la necessità di adeguare la norma astratta ai concetti di moralità e di eticità per evitare che si verifichi una situazione di ingiustizia. L’equità, dunque, permette di integrare la norma, rendendola maggiormente conforme al paradigma assoluto di giustizia173. È, in questo senso, dunque, che il concetto di equa indennità viene connesso al concetto di giustizia distributiva, intesa come ripartizione delle conseguenze dannose tra i soggetti coinvolti nel fatto dannoso174. la somma non potrà mai giungere ad un ammontare che si discosti così tanto dal pregiudizio sofferto da rendere l’indennità irrisoria». 172 M. Franzoni, L’illecito, cit., p. 1167, riprendendo sul punto C. M. Bianca, La responsabilità, cit., p. 186 ss. 173 M. Briguglio, Lo stato di necessità, cit., p. 164 ss. e, in particolare, p. 168. In riferimento allo stato di necessità, l’Autore evidenzia la sussistenza di un’ipotesi in cui «(…) l’ordinamento giudica impossibile adeguare convenientemente la norma astratta a quel minimum etico che non può mancare senza che si abbia ingiustizia, e perciò, si è ritenuto indispensabile il ricorso all’equo apprezzamento del giudice». 174 In questo senso: B. Troisi, Lo stato di necessità nel diritto civile, cit., p. 51, ripreso da C. Caricato, Danno e indennità, cit., p. 59 ss. Ad ulteriori dubbi, inoltre, rimanda la qualificazione del potere giurisdizionale in termini di arbitrio. Il Giudice, infatti, non può essere dotato di arbitrio, perché ciò risulterebbe contrario alle esigenze di certezza del diritto e al concetto stesso di giustizia. Piuttosto, il potere del Giudice, secondo quanto sottolineato dalla dottrina più recente, dovrebbe essere qualificato come discrezionalità tecnica. Riprendendo in questo senso il diritto amministrativo, il Giudice dovrà effettuare una valutazione basandosi sugli indici posti dal legislatore, che costituiscono elementi precisi e verificabili: B. Troisi, Lo stato di necessità nel diritto civile, cit., p. 50, nota 122; C. Caricato, Danno e indennità, cit., p. 58: «(…) la valutazione che il giudice deve compiere, lungi dal configurare un arbitrio costituisce l’esercizio di quella che il
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Alla luce delle considerazioni fatte emerge obiettivamente una situazione di estrema varietà sia nell’utilizzo delle espressioni sia nelle posizioni fatte proprie dalla dottrina. In virtù di ciò, la tendenza da parte di alcuni Autori è stata quella di rifuggire da una categorizzazione estrema delle fattispecie per approdare, invece, ad una ricostruzione residuale delle categorie, muovendo dai dati conosciuti175. Si muove, in questo senso, chi individua un’obbligazione indennitaria in tutti i casi in cui la riparazione del danno sia basata sul concetto di equità, debba avvenire solamente in forma pecuniaria e non corrisponda all’intera lesione subita176. Secondo questa visione, dunque, l’equità assume un ruolo nell’identificazione dell’obbligazione indennitaria, perché legittima la riparazione del danno, seppur in assenza dei presupposti di responsabilità, giustificando, in questo modo, anche il potere discrezionale del Giudice nella determinazione della prestazione177. Il riferimento all’equità diritto amministrativo definisce “discrezionalità tecnica”: questa, a differenza della discrezionalità amministrativa, non implica ponderazione di interessi (…) né possibilità di scelta in ordine all’agire, sia pure da esercitare nell’osservanza delle norme giuridiche applicabili. Essa comporta esclusivamente una valutazione alla stregua di indici posti dal legislatore, vincolando poi l’operatore di diritto, una volta effettuata una simile operazione valutativa, a provvedere nel modo che l’ordinamento contempla per quel caso, e gli indici alla stregua dei quali il Giudice deve compiere la valutazione in esame non sono fatti o circostanze variamente apprezzabili, ma elementi precisi e verificabili». 175 Su questa linea già: R. Scognamiglio, voce Indennità, cit., p. 595, secondo cui l’indagine deve muovere dal dato positivo del risarcimento del danno verso la nozione sconosciuta di indennità, in modo da ricavare per esclusione i caratteri distintivi di tale fattispecie. Questa modalità operativa permetterebbe, secondo l’Autore, di ottenere il risultato maggiormente soddisfacente alla luce della varietà e divergenza nell’utilizzo dei termini da parte del legislatore. 176 M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, cit., p. 38 ss. 177 M. Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, cit., p. 39: «(…) si comprende che solo l’equità può aver giustificato sia l’attuazione delle fattispecie riparatorie laddove difetterebbero i presupposti del giudizio di responsabilità, sia l’eccezionale rilevanza giuridica di circostanze speciali, sia la discrezionalità del giudice di determinare l’ammontare dell’indennità ed addirittura di stabilire se sia dovuto o meno l’indennizzo in considerazione delle condizioni oggettive e soggettive del caso». In particolare, secondo l’Autore, l’equità diventa criterio per determinare non solamente il quantum, ma anche l’an della prestazione indennitaria, permettendo al Giudice di stabilire se sia dovuto o meno l’indenniz-
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diventa, dunque, l’elemento discriminatorio tra le fattispecie risarcitorie e quelle indennitarie. Come già detto, una parte della dottrina ha rilevato l’esistenza di similitudini tra l’indennità introdotta dalla legge del 2019 in materia di eccesso colposo domiciliare e quella prevista per lo stato di necessità. Muovendo da tale constatazione, è stata prospettata l’esistenza di un sistema indennitario unico, valevole per entrambe le fattispecie, e diretto alla protezione del soggetto leso per effetto di un atto privo ab origine della sua illiceità178. Seguendo questa impostazione, lo stato di necessità e l’eccesso colposo domiciliare si prospettano come atti leciti dannosi. È necessario, però, evidenziare a questo proposito che non sussiste uniformità di vedute sulla natura giuridica dello stato di necessità. Si avvicendano, infatti, diverse posizioni dottrinali tra i sostenitori della liceità del fatto necessitato e coloro i quali vi ravvisano, al contrario, gli estremi di una responsabilità attenuata oppure oggettiva in capo al soggetto agente179. Si pone, dunque, il problema di verificare se le argomentazioni a sostegno della liceità del fatto necessitato possano essere applicate anche al fatto dannoso commesso per eccesso colposo di legittima difesa ex art. 2044, comma 3, c.c. Come già approfondito nella parte introduttiva del presente lavoro, una parte della dottrina riconduce gli atti leciti dannosi alle c.d. norme autorizzative. Si tratta di quelle disposizioni, che, in deroga alla previsione di cui all’art. 2043 c.c. e in presenza di determinazo in relazione alle condizioni oggettive e soggettive del caso contra S. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, cit., p. 143. 178 C. Chessa, La legittima difesa novellata nel prisma della responsabilità civile, cit., p. 1305 ss. 179 Sui termini della questione v. la ricostruzione di L. Nonne, Profili critici dello stato di necessità nel diritto privato, cit., p. 590 ss. L’Autore sostiene, nello specifico, la qualificazione del fatto necessitato come atto lecito dannoso, con la precisazione per cui la liceità deve essere intesa come non antigiuridicità del fatto, sebbene il danno continui ad essere ingiusto; v. sul punto anche la ricostruzione di M. Comporti, sub art. 2045, cit., p. 31, secondo il quale il fatto dannoso compiuto in stato di necessità risulta giustificato sia nel comportamento dell’agente sia nel danno arrecato. In virtù di ciò, non è possibile riconoscere in tale fattispecie un’ipotesi di responsabilità.
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te circostanze, consentono al soggetto di realizzare un determinato comportamento sebbene questo sia produttivo di un danno. Tali norme escluderebbero l’antigiuridicità del fatto e, conseguentemente, l’ingiustizia del danno provocato180. Nello specifico, la presenza di una norma autorizzativa fa si che il soggetto agente non compia un illecito, ma agisca nell’esercizio di un diritto, riconosciuto dalla norma stessa181. Presupposto delle diverse fattispecie è la presenza di un conflitto di interessi, egualmente meritevoli di tutela. In tale situazione la legge non stabilisce la prevalenza dell’uno o dell’altro, ma cerca, al contrario di contemperare i diversi interessi e di realizzare una situazione di equilibrio. Per raggiungere quest’obiettivo viene prevista la corresponsione di un’indennità a carico del soggetto che ha cagionato il danno. Proprio attraverso la corresponsione di tale prestazione si riesce a stabilire una situazione di equilibrio tra i diversi interessi da proteggere182. Nello stato di necessità sarebbe presente questa situazione di conflitto di interessi che caratterizza le fattispecie di atti leciti dannosi183. Di conseguenza, in presenza dei presupposti di cui all’art. 2045 c.c. viene meno l’antigiuridicità dell’atto e del danno che ne deriva. Tuttavia, malgrado la sua non antigiuridicità, il danno produce una reazione giuridica a favore del danneggiato, attraverso l’attribuzione di un’indennità rimessa all’equo apprezzamento del Giudice184. È proprio il riferimento all’equità, che distinguerebbe lo stato di necessità rispetto alle altre tipologie di atti leciti dannosi. Come A. De Cupis, Il danno, I, cit., p. 29 ss.; M. Briguglio, Lo stato di necessità, cit., p. 137; v. anche G. Mirabelli, L’atto non negoziale nel diritto privato italiano, Napoli, 1955, p. 276 ss., secondo il quale lo stato di necessità si configura come atto lecito, ma anche giuridico, perché fa sorgere l’obbligazione indennitaria a carico del soggetto agente. 181 M. Briguglio, Lo stato di necessità, cit., p. 137 e, in particolare, nota 77. Come opportunamente evidenziato dall’Autore, l’espressione “esercizio di un diritto” è una formula sintetica che si riferisce a tutte quelle situazioni previste dalla norma autorizzativa e deve essere intesa, in senso più generale, come comprensiva anche delle ipotesi di esercizio di una facoltà legittima. 182 M. Briguglio, Lo stato di necessità, cit., p. 137. 183 M. Briguglio, Lo stato di necessità, cit., p. 148. 184 A. De Cupis, Il danno, I, cit., p. 30. 180
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già detto, infatti, l’equo apprezzamento da parte del Giudice permetterebbe di realizzare quegli obiettivi e quelle ragioni di giustizia distributiva, che emergerebbero dalle circostanze di cui all’art. 2045 c.c.185. In sostanza, la previsione di un’indennità per ragioni equitative e solidaristiche permetterebbe di contemperare e comporre quella situazione di conflitto di interessi, che si viene a creare tra il vantaggio conseguito dall’agente, causando un pregiudizio ad un terzo incolpevole, e lo svantaggio arrecato a quest’ultimo186. La previsione di un’indennità rimessa all’equo apprezzamento del Giudice anche in caso di eccesso colposo domiciliare non appare, però, sufficiente per motivare la costruzione di un unico sistema indennitario, così come sostenuto dalla dottrina in esame. Secondo i critici la somiglianza tra le due fattispecie non sarebbe sostenibile alla luce del fatto che l’articolo 2044, comma 3, prevede una serie di criteri che devono essere seguiti dal Giudice nella determinazione dell’indennità. Questa previsione sarebbe in contrasto con il concetto stesso di equo apprezzamento, per cui il Giudice non dovrebbe seguire delle regole prestabilite nella determinazione dell’indennità, ma dovrebbe unicamente dar conto del processo logico seguito187. Queste critiche, però, non tengono in dovuta considerazione il fatto che il Giudice, pur non dovendo attenersi a rigide regole, debba, comunque, orientare il proprio giudizio tenendo conto di una
M. Briguglio, Lo stato di necessità, cit., p. 148: «Anche il danno causato in stato di necessità è dunque un esempio di danno giusto, perché l’art. 2045 c.c. ponendosi come norma autorizzativa, esclude il requisito dell’ingiustizia. Il problema della collisione di opposte posizioni giuridiche entrambe protette dall’ordinamento non avrebbe però essere potuto risolto secondo i principi dello ius strictum. Era necessario un elemento mitigatore nella disciplina della complessa fattispecie: tale elemento è stato introdotto nella norma dell’articolo 2045 mediante il ricorso all’equità. Non ragioni, quindi, di giustizia commutativa hanno spinto i codificatori a concedere al danneggiato l’equa indennità per il danno subito, ma ragioni di giustizia distributiva, che nella ripartizione delle conseguenze non ingiuste derivanti da una situazione non voluta postulano unicamente il fine di un ristabilito equilibrio». 186 M. Comporti, sub art. 2045, cit., p. 31. 187 L. Castelli, Profili civilistici della riforma in materia di legittima difesa, cit., p. 1022. 185
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serie di elementi, quali la gravità del danno arrecato e di quello evitato, l’entità e l’imminenza del pericolo, il comportamento del soggetto che subisce il pregiudizio e la condotta del soggetto agente, nonché le condizioni economiche delle parti188. Si tratta di indicazioni rilevate in sede dottrinale e giurisprudenziale, che – è opportuno evidenziare – riflettono i medesimi criteri indicati dal legislatore nell’articolo 2044, comma 3, c.c.: gravità, modalità realizzate e contributo causale della condotta posta in essere dal danneggiato. Questa obiezione, dunque, non può essere dirimente rispetto all’assimilazione tra stato di necessità ed eccesso colposo domiciliare. Il punto critico dovrebbe essere, al contrario, ricercato nella funzione dell’indennità, che permette di avvicinare le due fattispecie fino alla costruzione di un unico sistema indennitario. Nello stato di necessità, infatti, la previsione di un’indennità equa, finalizzata a raggiungere obiettivi di giustizia c.d. distributiva, è motivata dalla particolare situazione in cui il soggetto agente compie il fatto dannoso. In particolare, il soggetto che subisce il pregiudizio a causa del fatto necessitato è un soggetto terzo. In questa situazione, dunque, è comprensibile che vada a strutturarsi un conflitto di interessi egualmente meritevoli di tutela. Vi è, infatti, da un lato l’interesse del soggetto agente di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno alla persona, che non sia volontariamente causato dallo stesso, e dall’altro l’interesse del soggetto terzo, che subisce il pregiudizio per effetto del comportamento necessitato. Si tratta di una situazione totalmente differente rispetto a quella che caratterizza l’eccesso colposo domiciliare. In questo caso, infatti, il soggetto che subisce il pregiudizio è pur sempre colui al quale è ascrivibile l’aggressione iniziale. La sua posizione è, dunque, ben diversa da quella del terzo, che incolpevolmente si trova a subire un pregiudizio. Alla luce di ciò appare complicato motivare la similitudine tra le due fattispecie basandosi sulle esigenze di giustizia distributi-
B. Troisi, Lo stato di necessità nel diritto civile, cit., p. 50 ss. e, soprattutto, S. Piras, Saggio sul comportamento necessitato nel diritto privato, (Gallizzi) Sassari, 1948, p. 67 e, in particolare, nota 133. 188
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va, che permettono di risolvere il conflitto di interessi prospettato. Di conseguenza, sembrerebbe difficile inquadrare anche l’eccesso colposo domiciliare nell’ambito degli atti leciti dannosi seguendo le argomentazioni prospettate dalla dottrina. Si tratta di verificare a questo punto se l’indennità di cui parla l’art. 2044, comma 3, c.c. possa essere considerata, al di là dei dubbi già evidenziati, come un’applicazione dell’art. 1227, comma 1, c.c., così come paventato da altri Autori. Questa impostazione ovviamente presuppone che anche l’eccesso colposo domiciliare venga considerato come illecito fonte di responsabilità risarcitoria. Infatti, anche là dove il risarcimento venga decurtato, riconoscendo il concorso colposo del danneggiato, si rientra sempre nell’ambito della responsabilità civile189. Identificando l’art. 2044, comma 3, c.c. come applicazione del concorso colposo del danneggiato si darebbe rilevanza al contributo causale del danneggiato rispetto al verificarsi dell’evento lesivo. Il danneggiato, infatti, a differenza dello stato di necessità non può considerarsi terzo, perché il suo comportamento iniziale concorre alla causazione stessa del danno. Infatti, come già sottolineato, in materia di eccesso colposo generico, esiste un legame indissolubile tra l’aggressione iniziale e la reazione eccessiva, per cui l’aggressione non può che costituire una causa concorrente rispetto al verificarsi dell’evento lesivo. Bisogna, però, evidenziare che il riconoscimento dell’art. 2044, comma 3, come concorso di colpa del danneggiato, verrebbe a creare un’incongruenza dal punto di vista sistematico nel rapporto tra eccesso colposo domiciliare ed eccesso colposo generico. Infatti, l’art. 55, comma 2, c.c. esclude la punibilità dell’agente in caso di eccesso colposo domiciliare, mentre là dove si tratti di eccesso colposo generico l’agente è punibile nella misura in cui il fatto sia previsto come delitto colposo ai sensi dell’art. 55, comma 1, c.c. Le conse-
189 F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, cit., p. 43: «Non perché decurtato il risarcimento smarrisce la propria funzione riparatoria, visto che la riduzione del risarcimento è rapportata alla porzione di perdita eziologicamente riconducibile al concorso del danneggiato e, proprio per questo, non qualificabile come danno risarcibile».
LA REAZIONE E L’ECCESSO DI LEGITTIMA DIFESA
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guenze, dunque, dal punto di vista civilistico sarebbero identiche, anche se il diritto penale considera l’eccesso colposo domiciliare come una scusante, determinando la non applicabilità della pena190. In virtù di tali considerazioni, non si può, comunque, fare a meno di evidenziare le notevoli incongruenze che si pongono in una classificazione dell’eccesso colposo domiciliare in senso lecito o illecito. Incongruenze che derivano proprio dal linguaggio utilizzato dal legislatore, non dirimente rispetto alle due categorie. Tuttavia, alla luce del diverso trattamento riservato in sede penale alle due fattispecie di eccesso colposo, è molto probabile che nelle intenzioni del legislatore vi fosse la volontà di rimarcare tali differenze, prevedendo la corresponsione di un’indennità in caso di eccesso colposo domiciliare. È vero, infatti, che l’evento lesivo presenta di fatto le stesse caratteristiche, trattandosi di un danno causato da un eccesso di reazione191, ma sono diverse le circostanze soggettive in cui si trova a dover reagire il soggetto aggredito. In un’ottica di politica criminale la previsione di un’indennità avrebbe sicuramente assicurato un trattamento di favore nei confronti del soggetto agente, data la misura inferiore della prestazione rispetto a quella risarcitoria. Il problema che si pone, come evidenziato dalla dottrina più recente192, è, però, quello di verificare nel concreto se l’applicazione pratica F. Piraino, Le cause di giustificazione della responsabilità civile e la nuova legittima difesa, cit., p. 42: «Il punto cruciale è, però, un altro e risiede nell’incongruenza sistematica che si viene a creare in presenza di una fattispecie di esclusione dell’eccesso colposo che, tuttavia, determina sul piano civilistico l’insorgere di un’obbligazione di indennizzo. Se, nel contesto della legittima difesa c.d. domiciliare, la salvaguardia della propria o altrui incolumità in condizione di minorata capacità o di grave turbamento provocato dallo stato di pericolo attuale impedisce di configurare un eccesso colposo di legittima difesa, diviene arduo individuare la ragione che giustifica il riconoscimento al danneggiato-offensore di un’indennità, per di più non rimessa al prudente apprezzamento del giudice nell’an ma soltanto nel quantum». 191 L. Castelli, Profili civilistici della riforma in materia di legittima difesa, cit., p. 1023. 192 L. Castelli, Profili civilistici della riforma in materia di legittima difesa, cit., p. 1023: «Sarà la prassi a rivelare se la riforma è riuscita nel suo intento o se, al di là della diversa veste formale, in un caso e nell’altro l’eccesso colposo condurrà a versare all’offensore un importo più o meno simile». 190
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della disposizione porti al risultato perseguito, oppure, al contrario, l’entità dell’indennità non si discosti in maniera significativa da quella risarcitoria, dato l’utilizzo di criteri di valutazione simili193.
L’intento del legislatore, così come emerge dalla ricostruzione dottrinale sopra esposta, è quello di utilizzare il termine indennità per giustificare un trattamento di favore nei confronti del soggetto agente, al pari di quanto avviene per lo stato di necessità. L’utilizzo del termine indennità determinerebbe, infatti, implicitamente, la volontà di attuare una misura riparatoria di entità inferiore rispetto a quella risarcitoria. In realtà, come già visto precedentemente, la distinzione tra indennità e risarcimento del danno non può basarsi esclusivamente su criteri di carattere quantitativo. Si tratta, infatti, di un’impostazione ormai ampiamente superata, che, come già approfondito precedentemente, non trova alcun tipo di riscontro sotto il profilo normativo (sul tema ampiamente, già citati: G. Tucci, La responsabilità da atto lecito nel diritto civile, cit., p. 249 ss. e P. Perlingieri, La responsabilità civile tra indennizzo e risarcimento, cit., p. 1079 ss., che distingue, a differenza della maggioranza della dottrina, tra indennizzo e risarcimento del danno, confinando le ipotesi di indennità ai casi in cui la prestazione si configuri come un vero e proprio corrispettivo, come nella costituzione delle servitù coattive ex art. 1032, comma 2. c.c.). Al contempo, il legislatore, pur richiamando l’equo apprezzamento da parte del Giudice, ha, comunque, fissato dei criteri di determinazione della prestazione indennitaria, che, come si è visto, ricalcano in qualche misura quanto previsto dall’art. 1227, comma 1 c.c. A prescindere da qualsiasi considerazione in materia di concorso colposo del danneggiato, la previsione di criteri per la determinazione dell’indennità sembrerebbe collidere con quanto sostenuto recentemente da una parte della dottrina. Si ritiene, in particolare, che, là dove si verifichi la lesione di diritti costituzionalmente garantiti e il Giudice debba applicare dei criteri predeterminati dal legislatore, il rischio è che la misura dell’indennità si riveli irrisoria e, soprattutto, costituzionalmente illegittima. In questi casi, si pone, dunque, la necessità di applicare tali criteri in maniera non restrittiva, ma facendo riferimento ai correttivi della proporzionalità e ragionevolezza. La proporzionalità, nello specifico, esige sempre un confronto di tipo quantitativo, mentre la ragionevolezza implica delle valutazioni che si fondano su valori di carattere non patrimoniale, come la solidarietà, l’uguaglianza e il rispetto della dignità altrui (P. Perlingieri, La responsabilità civile tra indennizzo e risarcimento, cit., p. 1080 ss. e, in particolare p. 1082). Se analizzata in questa prospettiva, la previsione dell’indennità di cui all’art. 2044, comma 3, c.c., se da un lato si pone in una prospettiva di favore nei confronti del soggetto agente, considerando la situazione soggettiva in cui si trova ad operare, dall’altro lato rischia di infrangere quei criteri di proporzionalità e ragionevolezza di cui parla la dottrina sopra citata. 193
Quaderni dell’Archivio Giuridico Sassarese | 4 Collana diretta da Giovanni Maria Uda
Il volume affronta l’istituto della legittima difesa nell’ambito del diritto privato alla luce delle recenti modifiche apportate all’art. 2044 del Codice civile dalla legge n. 36 del 26 aprile 2019 “Modifiche al Codice penale e altre disposizioni in materia di legittima difesa”. La nuova disciplina porta necessariamente ad interrogarsi sul ruolo attuale della legittima difesa nel sistema della responsabilità civile. Lo studio si concentra, in particolare, sui caratteri generali dell’istituto e sui suoi presupposti di applicabilità attraverso l’utilizzo delle principali categorie civilistiche, a partire dal concetto giuridico di autotutela privata, facendo riferimento costante all’esperienza penalistica sul tema. L’Autrice si sofferma, nello specifico, sulla fattispecie della legittima difesa putativa e sulle modifiche apportate all’articolo 2044 c.c. in materia di legittima difesa ed eccesso colposo domiciliare, rilevando come, sotto quest’ultimo punto di vista, l’imprecisione terminologica del legislatore porti a notevoli difficoltà nella ricostruzione civilistica della fattispecie.
Maria Teresa Nurra ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Diritto ed Economia dei Sistemi Produttivi presso l’Università degli Studi di Sassari. Ha svolto periodi di studio e di ricerca presso l’Université de Nantes, l’Université de Poitiers e l’Università di Corsica Pasquale Paoli. È autrice di capitoli di libro e saggi pubblicati nelle principali riviste italiane.
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ISBN ebook 9788855293273